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Così il mondo mi appare adesso,

con squallida e vuota sembianza,

in cui l'apparire,

è più importante dell'essere;

dove il sembrare,

ruba il posto all'esistere.

C.B. 2009

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in copertina, : disegno e fotografie realizzate da Christian Brogi
Terza Pagina: particolare “Ecstasy”
Foto e rielaborazione grafica di Christian Brogi.

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LA MORTE ARRIVA DANZANDO

di

CHRISTIAN BROGI

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Prefazione dell'autore.

A discolpa di quest'enorme valanga d' incommensurabili


atrocità discorsivo-concettuali narrate nel mio racconto
posso solo dire che, probabilmente, quando lo ho scritto
ero completamente ubriaco, o sotto l'effetto di una qualche
strana ed introvabile droga, infatti, ho spedito questa bozza
all'editore per sbaglio, ma ormai era tardi per riprenderme-
la, la lesse e ne rimase entusiasta, dicendomi che finalmente
avevo partorito qualcosa di decente...
Se qualcuno per caso, si sentisse tirato in causa in questo
breve e scombinato delirio “letterario”, beh, probabilmente
è solo frutto di suoi imponenti eccessi d'autostima o
poderosi concentrati d'egocentrismo, (e comunque non è un
problema che mi tocca particolarmente).
Se pensate di richiedere indietro i soldi del libro scordateve-
lo, perché me li sarò già sputtanati nei modi più inutili ed
assurdi. Per citarmi in tribunale e richiedere danni morali,
scrivete a: ètuttoinutile@nonvedreteunalira.fuck*.
A parte quest'ottima prefazione, tutto il resto, credetemi
sulla parola non vale neppure la pena di leggerlo, a meno
che non siate masochisti o sadici che godono nel veder
compiersi le disgrazie altrui.
Dopo aver letto la mia triste, incontrovertibile ed impro-
ponibile storia, sarete sospinti certo, dall'irrefrenabile voglia
di farmi delle donazioni caritatevoli, (anche e sopratutto
per impedirmi di scrivere ancora...), potete effettuare un
versamento libero, sulla carta postpay 4023600464693516
(è attiva),intestata a Christian Brogi, mettendo come
causale: “Per favore basta così” oppure: “Retta per Villa
Azzurra” (nota clinica privata per alcolisti all'ultimo stadio).
Buona lettura, e, vi prego, non mi vogliate male, ho già una
* Motto non convertito in euro per motivi tecnici.

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lista d'attesa lunghissima, e non potrei materialmente
soddisfare tutti i vostri reclami, per quanto legittimi
possano essere...

Christian Brogi

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Cap. I

Un giorno come tanti.

Dunque, per farla breve:


sono passato da una prima relazione fallimentare e violenta,
ad una seconda relazione non violenta ma fallimentare, per
ricadere in una terza relazione assolutamente fallimentare,
violenta e catastrofica. Dulcis in fundo, ho perso il lavoro, gli
amici, non posso abitare la mia vecchia casa, e non ho più
neppure la patente... Tutto questo è capitato negli ultimi due
anni della mia vita. Non c'è male, vero? Ma vi assicuro, che
posso rendere ancora molto, molto di più!
Ho cambiato casa, città, lavoro, non riuscivo a dormire più
nella mia, ogni mattonella mi ricordava lei, (sopratutto
quelle che mi ha rotto... ).
Pensai che abbandonando tutto, sarebbe stato più facile ri-
cominciare.
Faccio colazione, prendo il mio solito caffè , ci fumo dietro
una sigaretta, anche se mi nausea la consumo in pochi mi-
nuti, e subito dopo ne accendo un'altra. Sul tavolo, accanto a
tre o quattro bottiglie di birra vuote, ci sono ancora le bollet-
te da pagare, me ne dimentico sempre, a volte mi hanno
perfino staccato le utenze.
Ho mal di testa. La lavatrice ha finito il suo compito durante
la notte, ma non ho tempo di tirar fuori il bucato e stender-
lo, così mi vesto velocemente senza neppure farmi la barba,
infilo le mie scarpe consumate, e mi rovescio giù per le scale,
è tardi.
In strada incrocio la vecchia signora Varena, con canini ruz-
zolanti a seguito, mi fa una certa tenerezza incontrarla ogni
mattina, non devo stargli simpatico, ma comunque mi salu-
ta sempre, anche se con distacco ed una certa diffidenza, tra

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parentesi, è l'unica che saluto in tutto il quartiere. Doveva
essere molto bella da giovane, probabilmente piena di spasi-
manti, incontravo alla fermata dell'autobus una sua amica,
che, gridando i suoi pettegolezzi a tutti i passeggeri del 27,
disse che da giovane era una bravissima ballerina, contesa e
seducente.
Ma quando si invecchia, anche il più bello ed affascinante ri-
schia di rimanere solo, come lei lo era adesso, per questo
aveva quei ridicoli e buffi canini che l'accompagnavano, per
compensare la sua enorme solitudine.
Ripensandoci però, visto il livello generale piuttosto scaden-
te di noi uomini, diciamo che un cane poteva sostituire un
paio di maschi, anche un kiwawa* era più che sufficiente a
quello scopo...
Forse i cani non sono un ripiego della signora, ma una scelta
ponderata e razionale...
Il tragitto che devo fare ogni giorno per il lavoro non è lun-
ghissimo, ma dovendo attraversare l'angusto ed affollato
centro della città, ecco che diventa quasi un percorso ad
ostacoli, con il bus, e a piedi.
Facce di individui mi passano accanto, corpi che quasi mi
sfiorano, ma anche cercando un contatto fisico con loro,
questi si scansano all'ultimo momento, e non li tocco mai,
non sento neppure il calore dei loro corpi.
Mi sento un fantasma, vorrei incrociare uno sguardo, qual-
cuno che mi noti, un sorriso, un cenno per ricordarmi che
sono ancora vivo e conto ancora qualcosa.
Mi fisso sulle espressioni dei passanti, queste sono molto si-
mili fra loro, diffidenti, estranee, lontane.
Salgo sul 27, l'autobus che mi porterà a destinazione, ma di-
sgraziatamente ho lasciato la mia tessera sul tavolo di casa
accanto alle sigarette ed alle bollette quasi scadute; maledi-
* “Ciuaua” per i poliglotti

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zione! Chiedo di comprare il biglietto a bordo, ma nessuno
sembra che ne abbia uno per me. Spero di non incontrare il
controllore, altrimenti farò una figuraccia, e magari la solita
multa, tanto per rincarare la dose. Per fortuna questa è la
mia fermata, scendo, saluto il conducente, ma questo mi ri-
sponde una volta sì ed una no, probabilmente anche lui ha i
suoi alti e bassi: guidare tanto, per non arrivare mai da nes-
suna parte, può essere frustrante.

Arrivo al portone scuro dell'amorfo palazzone dove lavoro,


mi fermo un attimo e cerco con lo sguardo il cielo, ma que-
sto è sporcato da un velo grigio di smog. Vedo il guardiano,
immobile dietro la sua postazione, e mi appresto ad andare
al quinto piano, il reparto casalinghi del grande magazzino
FIDAT, una corporazione di marchi di bassa categoria che
trattano merci al dettaglio, prodotti scadenti per individui
comuni.
Appena entro, ecco che il capo reparto Giangino Prugnoletti,
un giovane rampante pieno di se, con un ciuffo di pelacci
che sbucano dalla camicia, guardandomi da sotto le sue folte
sopracciglia, con altezzosa arroganza, dice:
-E' questa l'ora di arrivare? credo che non andrai oltre il
rango di commesso se continui a fare così tardi!
Lo guardo di traverso, ma inghiotto il rospo. Cinque minuti
non sono poi una cosa così grave, poteva risparmiarsi la ra-
manzina.
Se gli rispondo a tono rischio di litigarci, e magari mi propo-
ne per il licenziamento, a me servono maledettamente quei
soldi. Nella cassa opposta al mio bancone vedo Marta, la
nuova cassiera, mi guarda e accenna un saluto con la testa,

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sembra gentile, è molto bella, pare una hostess di un volo di
lusso, ma da due mesi che la vedo tutti i giorni, non mi ha
mai effettivamente "parlato", chissà che tipa è...
La mattina procede regolarmente, come tutti i giorni, nulla
di diverso, nulla di eccitante o inusuale. Volti di persone che
mi chiedono la stessa cosa, cui rispondo la stessa identica
porca cosa di sempre.
Vedo quasi trecento persone in poche ore, ma è come se in
pratica, non incontrassi nessuno, mi sento solo, sono solo,
da quasi cinque anni, e non vedo via d'uscita per modificare
il mio status quo.
La voce dell'altoparlante ripete a nastro la consueta frase
che avverte la clientela dell'imminente chiusura.
E' finita la giornata, mi sfilo quel ridicolo spolverino con il
mio personalizzato marchio da schiavo di qualcuno (non so
neppure di chi esattamente) e mi appresto ad uscire.
Ora sono di nuovo immerso nel mare di gente, mi sento fra-
stornato, tutto nell'intorno è ovattato, le voci si confondono
in un' unico suono, un grande fiume scrosciante dove ogni
parola è inghiottita, fagocitata e digerita.
Il rumore è sempre più forte, frastornante, non sento quasi
l'autobus che mi si ferma accanto, salgo meccanicamente,
mi siedo in fondo come sempre, provo a leggere, ma non rie-
sco a concentrarmi.
Prendo il cellulare, controllo se ci sono messaggi, ma nulla,
nessuno mi chiama, eppure il mio numero ce l' hanno centi-
naia di persone, vecchi amici, parenti, amanti ed ex fidanza-
te. Neppure un messaggio, ma sopratutto, neppure un
messaggio di lei in cinque anni.
Dopo che se ne andò non si è mai interessata a me, che so io,
sapere se avessi tentato di suicidarmi guardando ad oltranza
tutte le repliche di porta a porta, oppure ingozzandomi quo-
tidianamente di friabili e apo-grassose patatine del macdon-

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ald...
Mi ricordo (qualche giorno dopo che ci lasciammo dopo
un'azzuffata furiosa), come si arrampicava sugli specchi per
addolcirmi la pillola: “ti amerò ugualmente, con un'amore
diverso, ma intenso; starò un po' da sola a pensare e poi si
vedrà, ti voglio bene!”.
Ovviamente il tipo di amore “Diverso ma intenso”, si riferiva
ad esempio all'amore che possiamo provare per il nostro ca-
gnolino, mentre lo portiamo dal veterinario per la sterilizza-
zione; ed il : “starò un po' di tempo da sola” stava a signifi-
care più o meno il quarto d'ora di strada che intercorre dalla
casa del suo nuovo fidanzato, al luogo dove lei lo aspettava
con le valige.
Dovevo “intuire” che c'era qualcosa che non andava nel
nostro rapporto, quando cominciai a vederle in dosso
braccialetti, pendenti e indumenti intimi, che non le avevo
regalato io. (Forse ero davvero così tonto...).
La sua relazione con quel pallone gonfiato di sé e dei suoi
grandi “successi”, era palese come quella della moglie di
Fantozzi con il fornaio... Ma si sa, l'amore è decisamente
cieco, nel mio caso era cieco e sordomuto, monco e paraliti-
co...
Dopo un periodo di tormenti viscerali, sono però giunto ad
una conclusione abbastanza saggia, se io l'ho amata, e lei no,
il problema è suo, non mio, perché ho la coscienza pulita
(più o meno...).
Ma chissà, posso anche sbagliarmi su di lei, magari non
sono abbastanza autocritico, mi amava a suo modo, un
modo molto, molto suo: un modo che non afferro appieno in
tutti i dettagli.
Ma io soffrivo, e non per la perdita dell'amore, (anche io
sovente ho lasciato), sarei un ipocrita se non accettassi
questo normale fluire degli eventi, soffrivo per la “procedura

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di abbandono così crudele ”, e per la delusione umana, più
che per tutto il resto.
Mi torna in mente un detto di Seneca:

“Non può vivere felice chi bada solo a se stesso, chi fa tutto
per il proprio interesse. Se vuoi vivere per te, devi vivere
per l'altro”1
In parole povere: ognuno è libero di lasciare o non lasciare il
proprio partner, ma è orribile distruggere chi abbiamo ama-
to, è stupido e controproducente, perché il dolore genera
dolore, sempre e comunque.
E' la mia fermata, suono il campanello tardi, ora è già passa-
ta, ed allora grido al conducente se può fermarsi lo stesso,
cavolo!... Non si ferma davvero, allora ribatto:
-Scusi Signor Christian Fletcher, guardi che se lei si ferma
due metri dopo, non è che viene impiccato dal parlamento
inglese per ammutinamento, questo non è il Bounty, e que-
sta non è una goletta del 1580, ma un bus post-tangentopoli
del 1980!
Sono solo pochi metri oltre il cartello; ma il conducente mi
dice che non è consentito.
-Va bene, scenderò alla prossima, chi se ne frega. (tanto
non mi aspettano a cena).
Torno indietro a piedi, ed osservo l'angusto palazzo che abi-
to, un piccolo alveare di scatole, una sull'altra, tanti loculi
minuscoli ed anonimi, in cui minuscole ed anonime person-
e, riposano le loro minuscole membra da sudditi.
Entrando in casa sento un odore di chiuso, una puzza di si-
garette, non mi sembrava così forte la mattina.

1 “Non potet quisquam beate degere qui se tantum intuetur, qui omina ad
utilitatem suam convertit. Alteri vivas oportet, si vis tibi vivere.”
Tratto dal libro di Plinio Marotta “Seneca, La Gioia di Vivere” edizioni pano-
rama, 2006

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Comunque, tiro fuori velocemente il bucato, da quella ruggi-
nosa lavatrice, lo stendo alla finestra che dà sulla strada, ma
quando la apro, il solito rumore di folla, scrosciando come
una cascata, invade la stanza, e m'infastidisce.
Per me quel suono ha assunto una consistenza di natura
inorganica, non sono persone, o almeno non persone vive,
felici, ma entità lontane, senza umanità, spente e vuote, for-
se solo uno scroscio d'acqua.
Non ho voglia di cucinare, quindi scaldo una pizza surgelata,
accendo la televisione, ma dopo pochi minuti di zapping for-
zato la spengo, è una noia tremenda, non sento una briciola
di calore ne scintilla di curiosità in quei ridicoli programmi.
Avevo tentato di ricominciare a leggere: da Nietzsche a Jo-
dorowsky, però non ci riuscivo: la mente tornava a macinare
insistentemente sulle mie antiche ossessioni.
E' ormai notte,i bagliori delle auto che sfrecciano, attraver-
sando le fessure metalliche delle veneziane, creano strani di-
segni sulla parete, e lentamente mi ipnotizzano, chiudendo
gli occhi, piano piano, dormo.

... sogno...

Mi trovo in un deserto, il sole picchia forte ma sento molto


freddo, ho un vestito nero piuttosto elegante, calzo un cap-
pello con la tesa che taglia in orizzontale la mia visuale;
nella mano destra stringo il manico di una valigetta rossa
e sto superando una duna di sabbia gialla e imponente. Il
vento gelido muove il mio soprabito, che sbattendomi ad-
dosso, provoca un suono intermittente e fastidioso.
Cammino per molto tempo, ma le inadeguate scarpe lucide
e strette che indosso, affondano sempre di più nella sabbia.
Alzo lo sguardo e intravedo una strana siluette in cima alla
duna, forse una donna, o comunque una presenza insolita.

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L'ho vista solo per una frazione di secondo, ma è bastato a
suscitarmi una certa curiosità. Devo scavalcare la duna e
scoprire chi o cosa era.

La valigia che trasporto è una ventiquattrore con due chiu-


sure a combinazione, pesa molto ed intralcia la mia ar-
rampicata. Ho i piedi pesanti, ed ogni passo è sempre più
gravoso.

….........................

Nel bar.... continua....

Pian piano mi avvicino alla donna, scavalco con fatica le


gambe dei bruti appollaiati come fagiani sugli sgabelli, e mi
appoggio in cima al bancone, ora sono a meno di due metri
da lei, mi deve notare, io non sono come questa mandria di
ubriaconi, io sono un ubriacone speciale!
In realtà non bevo quasi mai, se non per le "grandi
occasioni" anche se, a dire il vero questo periodo è folto di
“grandi occasioni...”
Finalmente ecco che mi nota, e sorride, mi sorride con la
stessa intensità del nostro incontro/scontro sul marciapie-
de.
Perché ho così bisogno della luce degli altri, per poi brillare
a mia volta? Finisce la sua canzone e dopo gli scroscianti ap-
plausi,(e apprezzamenti vari), ripone con delicatezza la sua
piccola chitarra nella custodia, e si avvicina al banco, mi
guarda di sfuggita, ma passandomi davanti, si rivolge al

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barista, ordinando un vodka tonic...
Il barman la serve subito, e senza un attimo di esitazione,
gli ricambia il sorriso. Io cerco di attaccare subito discorso:
-Ciao, sei bravissima, lo sai?
-Grazie, molto gentile, è poco che suono qui dentro.
-Davvero? Senti, io adoro la musica ed il canto, sopratutto se
questo è interpretato da una voce particolare come la tua,
riesci davvero ad emozionare chi ti ascolta. Il mondo ha bi-
sogno emozioni.
Tu suoni solo qui o anche in altri locali?
-Sono da pochi mesi in Italia, mi sto ancora ambientando, il
giovedì sono al nuovo cambio...
Ad un tratto, le voci scroscianti svaniscono, e sento solo la
sua: per un breve momento, noi non siamo lì, ci perdiamo
entrambi l'uno nello sguardo dell'altra, persi in un'altra
galassia...
Allora decido di buttarmi:
-Senti...posso chieder...
vengo interrotto bruscamente da un tipo enorme che mi si
pone di fronte, e mi guarda minaccioso:
-Carmil, per caso questo pennellone ti sta importunando?
Perché se no, ci pensa il tuo Angelo, lo sai no?
-No, grazie, va tutto bene, è solo un po' alticcio, come vedi,
ma innocuo e gentile, mi stava facendo i complimenti.
Io mi sento un po' fuori posto, e decido comunque di allon-
tanarmi. Uscendo fuori dal bar, non riesco neppure a salu-
tarla, poiché un nugolo di bestioni ronzanti la circonda cer-
cando di carpire un po' del suo miele.
Esco fuori ed accendo una sigaretta... accidenti, non ho fu-
mato per quasi un'oretta, un vero record personale! Forse
sono sulla via di smettere... Ma intanto mi accorgo che stavo
contando quante me ne erano rimaste, capisco allora l' in-
fondatezza di quel pensiero.

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Torno dentro, chiedo ancora da bere, questa volta un whisky
doppio ed una birra, non so che mi è preso, non bevevo con
questa foga da molti anni, ma i pensieri bui, che stavano per
fare capolino, dovevo tenerli sotto controllo, con qualsiasi
mezzo di cui potevo disporre.
La fredda musica della radio ora sostituiva la voce d'angelo,
il silenzio contemplativo di prima, era malamente rimpiaz-
zato da un vociare di inutili volgarità, rendendo impossibile
parlare con chiunque se non avvicinandosi all'orecchio del-
l'interlocutore.
Senza quasi rendermene conto, mi sono ubriacato come non
lo ero da tempo, tutto gira come una giostra multicolore,
ondeggio in un oblio di suggestioni che non provavo da cin-
que anni, ma non è solo l'alcol, è la presenza di lei che ac-
centua ed ingigantisce quest'insolito stato d'animo.
Tento un avvicinamento a Carmil, e le sussurro all'orecchio
il mio numero di telefono, ma nel mentre inciampo su una
zampa di qualche troglodita, rovesciando il contenuto del
mio bicchiere di whisky su di lei e su di un tipo che le ronza-
va intorno.
(Perfetto! Pensai fra me e me....).
Questo si gira, è spaventosamente muscoloso, ha un collo
della circonferenza di un grosso bidè; è pieno di tatuaggi as-
surdi tipo: “mamma ti voglio bene”, enormi cuoricioni con
nomi di donne sovrascritti male uno sull'altro, e simpatici
teschietti sorridenti sugli avambracci: instaurarci una trat-
tativa diplomatica basata sul dialogo sarebbe stata decisa-
mente un'impresa degna di Jerry Lewis....
Questo mi afferra per un braccio e per il collo trascinandomi
fuori. La confusione è così alta nel locale che quasi nessuno
ci fa caso.
Mi trovo rapidamente in un portone buio subito fuori dal
bar. Sento un forte dolore al ventre, poi un altro sulle costo-

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le, poi una scarica di colpi che risuonano in testa fino a far-
mi svenire.

Mi sembra di sentire le note di “J love you Baby....” ,


(ma credo siano solo modeste lesioni al cervello....)

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