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Andrea Conti IVD

Tema di attualità

La pace è l’equilibro di forze a cui tutte le cose dovrebbero tendere.


È lo status perfetto: un miscuglio eterogeneo di forze opposte, prese in uguale
misura.
Dio, creando il mondo, lo ha pensato come un regno pacifico, di reciproco rispetto e
amore, un regno in cui ogni creatura potesse avere un ruolo e una dignità.
Tuttavia, oggi il mondo che conosciamo non ha nulla a che vedere con quella che a
confronto sembra un’utopia.
Non c’è quell’equilibrio che garantisce la pace, ci sono forze opposte che si
scontrano, con il prevalere talvolta dell’una, talvolta dell’altra.
Noi umani che popoliamo la terra siamo vittime di queste forze, che modificano la
realtà, aprono possibilità o producono avversità.
Il male, secondo la filosofia greca, sta nella disarmonia, nel prevalere di una forza
rispetto ad un’altra.
In un contesto “terreno”, questo male è la guerra, a cui l’uomo ha sempre assistito,
fin dalla prima luce.
Appurato che la guerra è per definizione negativa, occorre guardare il mondo e
renderci conto di cosa abbiamo di fronte.
Oggi il mondo è diverso dalla realtà biblica a cui siamo abituati leggere fin da
bambini: è una realtà multi sfaccettata, un oceano in cui nuotano molte ragioni e
molte idee, molte più che in passato.
Questo è normale, e forse anche positivo, poiché ciò è dovuto all’evolversi della
situazione dell’uomo e dell’intero universo che lo circonda.
L’uomo del XXI secolo ha necessità diverse dall’uomo medioevale o greco.
Perciò le cause che portano ad una guerra possono essere molte e diverse, come
molte e diverse possono essere le ragioni che indicano, o meno, che quella guerra sia
“giusta”, o meglio accettabile.
San Tommaso scrive, infatti, che «perché una guerra sia giusta si richiedono tre
cose: l’autorità del principe […] una causa giusta, […] e che l’intenzione di chi
combatte sia retta: e cioè si miri a promuovere il bene ed a evitare il male».
Nella storia dell’umanità ci sono stati effettivamente episodi in cui la guerra
sembrava inevitabile al fine di giungere ad una situazione di equilibrio, come la
guerra dei 30anni avvenuta in Europa, oppure le più moderne guerre che si
combattono in Medio Oriente.
Altri esempi di rivolta possono essere il caso di Martin Luther King e di Gandhi, i
quali hanno lottato contro un nemico sordo, che non ascoltava le loro ragioni, hanno
mosso una protesta non violenta per garantire uguali diritti per una parte del popolo.
Perciò credo che sia legittimabile una guerra nel caso in cui le parole non vengono
udite, anche Cicerone sostiene che «bisogna ricorrere alla forza solo quando non ci
si può valere della ragione».
Parallelamente a questi scontri che possono essere legittimi, ci sono invece guerre
che non lo sono affatto.
Mi riferisco allo sterminio di massa di più di sei milioni di ebrei, operato da Adolf
Hitler.
Solo la superbia e l’odio radicato di questo genio del male hanno condotto ad un tale
scandalo, uno sterminio che supera l’immaginabile, provocato da un odio puro, tanto
forte quanto pazzo e privo di fondamento.
Ancora una volta lo stesso risultato: odio e malcontento, popolazione ridotta allo
strenuo, fiumi di sangue e spreco di vite umane.
Le stesse vite umane che nella seconda guerra mondiale sono morte per combattere
per la nostra patria, quando Mussolini decise di entrare in guerra con un esercito
inadeguato, debole e privo di armi sufficientemente potenti anche solo per la
sopravvivenza.
Al Duce non importava dei soldati, delle loro vite, delle loro famiglie, lui vedeva
negli uomini statue armate di granate e baionetta, erano solo soldatini, non soldati.
Non vedeva il lato umano nelle persone, sapeva solo ascoltare il suo grande ego, così
grande da soffocare la ragione, che al contrario non avrebbe suggerito di entrare in
guerra.
Come riferisce Del Lago, «chiunque oggi approvi la guerra deve sapere che
inevitabilmente approverà anche la diretta uccisione di migliaia di uomini che non
combattono, di donne e di bambini».
Oggigiorno la pace può essere garantita solo dai leader delle nazioni più forti e dalle
organizzazioni internazionali.
È loro il gravoso compito di decidere quando è opportuno entrare in guerra, quando il
combattimento diviene inevitabile, quando la diplomazia ha definitivamente perso.
La guerra può apparire giusta a quel popolo che necessita di riscattare la propria
posizione, che cerca di emergere per rivendicare degli abusi subiti, come il popolo
d’Isreale, che ha sempre rivendicato la mancanza di uno stato che possa definirsi
“proprio”.
Tuttavia i leader e le organizzazioni, dall’alto della loro autorità, sanno bene che una
guerra produrrà un utilizzo ingente di risorse e una perdita enorme di vite umane.
Come deve, quindi, comportarsi un leader? Deve dare ascolto al popolo, che lo ha
eletto e che crede in lui, o dare ascolto alla propria ragione e scegliere di non
affrontare una guerra? Deve acconsentire ad un massacro che porti conseguenze
come fame e miseria, o deve tradire la fiducia del popolo che lo ha votato, non
dichiarando guerra?
Appare ora ovvio che la scelta di entrare o non entrare in guerra è puramente
soggettiva, infatti, in quest’oceano in cui nuotano molte ragioni e molte idee, ognuno
vede nella guerra lati positivi e negativi.
Una cosa è certa, però: la guerra, sia che sia dichiarata da un violento dittatore o
caldeggiata dal popolo, porterà sempre e senza alcuna eccezione ad una perdita
incalcolabile di vite umane.

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