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Carlo Cattaneo. LA SOCIETA' UMANA. a cura di Paolo Rossi. INDICE. Prefazione: pagina 3. LA SOCIETA' UMANA: pagina 16.

L'ECONOMIA E IL PROBLEMA SOCIALE: pagina 29. PAGINE DI STORIA: pagina 78. FILOSOFIA E EDUCAZIONE: pagina 115. IL RISORGIMENTO E IL FEDERALISMO: pagina 156. SCRITTI D'ARTE E DI LETTERATURA: pagina 239. PENSIERI: pagina 251.

PREFAZIONE. Carlo Cattaneo nacque in Milano il 15 giugno 1801 da Melchiorre, orefice, e da Maria Antonia Sangiorgi. Le condizioni della famiglia non erano agiate e, per interessamento di uno zio sacerdote, egli fu avviato agli studi ecclesiastici prima nel seminario di Lecco e poi in quello di Monza. A diciassette anni lasciava l'abito di chierico per entrare nel Liceo della citt natale. Terminato a diciannove anni il corso di filosofia fece istanza all'Imperial Regio Governo Austriaco per ottenere un posto gratuito nel collegio Ghisleri di Pavia che gli rendesse possibile, date le ristrettezze della famiglia, di frequentare i corsi di legge in quella universit. L'istanza, nonostante la raccomandazione del parroco di San Satiro (nella cui parrocchia abitava la famiglia Cattaneo), che attestava l'appartenenza dell'aspirante a una buona famiglia ma assai ristretta di finanze, attesa la decadenza dei negozi e la numerosa famiglia, non venne accolta e Cattaneo entrava, il 31 dicembre del 1820, a insegnare grammatica latina nel ginnasio di Santa Marta in Milano. Frequentava intanto la scuola privata di Gian Domenico Romagnosi, grande giurista e patriota, e nel 1824 conseguiva a Pavia la laurea d'avvocato. Nello stesso anno, ottenuto il diploma di "professore d'umanit", era promosso all'insegnamento della scuola superiore ed ivi restava per dieci anni. Furono lunghi anni di tristezza e d'avvilimento: l'aula dove egli passava quattro ore della sua dura giornata di studio e di lavoro era a pianterreno, non cantinata e priva di riscaldamento; il termometro arriv a segnarvi dodici gradi sotto zero, l'inchiostro si gelava nei calamai. Affaticato dal lavoro, ormai gi malato di reumatismi e di disturbi ghiandolari il Cattaneo, costretto a chiedere lunghi permessi per ragioni di salute, lasciava nel '35 l'insegnamento con una pensione annua di 993 lire e 33 centesimi. Nello stesso anno moriva il Romagnosi che tanto profondamente aveva influito sulla sua formazione ed egli ne difendeva con impetuoso ardore la memoria contro gli attacchi del Rosmini: Potremo senza vilt e senza infamia suggellare col silenzio l'opera delle tenebre e della menzogna e lasciare che sul suo cadavere una mano bugiarda pianti il palo dell'infamia?. Egli fu mio institutore nelle scienze legali e politiche; mi onor della sua benevolenza per quindici anni; mi dett il suo testamento: mor fra le mie braccia; mi raccomand morendo i suoi manoscritti e tutto ci che potesse proteggere la sua

riputazione... L'Austria aveva vietato l'erezione di un monumento per cui il Cattaneo aveva raccolto dei fondi, e aveva severamente biasimato l'epitaffio che il Cattaneo stesso aveva dettato. Dal 1832 Cattaneo aveva iniziato la sua collaborazione agli "Annali Universali di Statistica", nel '37 pubblicava le "Interdizioni Israelitiche", che sono la prima rivelazione del suo ingegno e nel '39, con alcuni amici, fondava "Il Politecnico", repertorio mensile di studi applicati alla cultura e alla prosperit sociale, che doveva esser sospeso nel 1844. Il 19 ottobre del 1830 sposava, dopo lunghi anni di trepida attesa, Anna Pyne Woodcock, che am teneramente per tutta la vita e che apparteneva, per parte di madre, all'aristocrazia inglese e i cui genitori avevano a lungo esitato di fronte alla domanda di matrimonio del figlio di un orefice. Il suo serio lavoro di sociologo e d'economista aveva intanto attirato la curiosit e l'attenzione delle autorit e del pubblico. Nel 1840 il governatore della Lombardia, Hartig, lo incaricava di stendere uno scritto sulla riforma carceraria, a servizio di quei magistrati che per il loro ufficio avendo quotidiana ingerenza in queste materie rimanevano esitanti fra il principio segregativo e il silenziario. Nel 1843 era nominato membro dell'Istituto Milanese di Scienze Lettere ed Arti e l'anno seguente dava alle stampe un volumetto: "Notizie naturali e civili sulla Lombardia", che resta uno dei suoi scritti pi notevoli. Il suo atteggiamento politico era stato fino a questo periodo caratterizzato da un'avversione profonda per il regime dispotico e centralista dell'Austria del Principe di Metternich; ma la profonda fede del Cattaneo nella ragione umana e nel progresso della civilt, il senso - in lui vivo - della continuit della storia, il suo entusiasmo per le pacifiche conquiste della scienza, lo rendevano estraneo ad ogni ideale rivoluzionario di ispirazione mazziniana. Egli pensava che l'Austria avrebbe potuto giungere, attraverso una serie di graduali riforme, ad una forza federalistica di governo in cui trovassero posto le aspirazioni liberali del popolo lombardo. Ma l'esplosione improvvisa della ribellione popolare durante le cinque giornate milanesi, lo decideva all'azione ed egli si poneva alla testa del Consiglio di Guerra assumendo le responsabilit della lotta armata (1). Nel settembre del '48 era a Parigi come rappresentante dei gruppi democratici lombardi, per stabilire un avvicinamento della politica francese ai problemi italiani, e, constatata l'ignoranza e l'indifferenza dell'opinione pubblica francese, pubblicava "L'insurrection de Milan", un lucido e concitato racconto degli ultimi avvenimenti che fu poi rifatto e ripubblicato in italiano. Eccomi qua in partenza per Ble scriveva il 29 ottobre alla moglie e spero di esser teco, mia cara, dopodomani di giorno o di notte, secondo la partenza dei vapori e delle diligenze. Il mio libro uscito. La verit sempre il bene, ma temo che i miei compagni siano sempre sotto le stesse illusioni e delusioni. Di ritorno a Lugano, Cattaneo trov la sua Anna in cattive condizioni di salute; si stabil allora - abbandonando il progetto di un trasferimento a Londra o a Parigi - a Castagnola presso Lugano: Ormai siamo avvezzi a far vita da ortolani scriveva. Siamo qui in una casetta di campagna presso il lago a mezz'ora da Lugano, in luogo amenissimo: ma siamo soli perch il resto della colonia vive dalla parte opposta. Isolato, quasi senza libri, logoro la maggior parte del mio tempo a raccogliere documenti delle cose nostre. Qui viviamo su questa balza in aria buona e con pochissimi seccatori e anzi quasi soli coi colombi e le galline. Lavorava cos, fra il '50 e il '55, a raccogliere dati per il suo "Archivio triennale delle cose d'Italia", repertorio di documenti accompagnati da considerazioni. Un gran numero

di patrioti italiani avevano in quegli anni trovato rifugio in Svizzera, ma la loro vita era dura e solitaria. Cattaneo continuava nella sua fatica: Per natura rifuggo da ogni posizione troppo cospicua. Io posso essere utile alla causa quando mi si lasci lavorare nel mio angolo a modo mio. La politica odio, lotta perpetua: vi sono certi che se ne deliziano; ma io sono nato per lavori di una natura pi quieta. Nel 1849 aveva rifiutato il portafoglio delle finanze nella Repubblica Romana, nel 1852 accettava l'insegnamento di filosofia nel Liceo cantonale di Lugano con uno stipendio di 2000 franchi all'anno; incarico che abbandonava per nel '62 in seguito ad un diverbio col Presidente del Canton Ticino. Nel 1860 aveva ripreso, in Milano, la pubblicazione del "Politecnico" e nello stesso anno si era recato a Napoli da Garibaldi. La decisione di Garibaldi a favore della tesi degli unitari, e la conseguente fusione dell'Italia meridionale al Regno, segnava il definitivo tramonto delle sue aspirazioni federaliste. E' la vita senza piaceri e senza speranze scriveva solo il continuo lavoro mi allontana i pensieri tetri e mi conserva l'aspetto naturalmente gioviale; ma di dentro son morto. Suo unico conforto era l'intenso lavoro per il "Politecnico", ma l'ostilit dei moderati e i dissensi con l'editore lo costringevano ad abbandonarne la direzione. Eletto deputato nel '67 non prese mai parte ai lavori del parlamento. Di ritorno a Castagnola si and lentamente aggravando; era triste e stanco; il 3 febbraio Mazzini sal da Lugano per rivederlo l'ultima volta. Moriva nella notte fra il 5 e il 6 febbraio del 1868, ravvolto nello stesso scialle in cui doveva poi essere avvolto il Mazzini morente. L'intelletto, a modo del mare, deve ristorarsi e nutrirsi coi liberi tributi di tutta la terra. Cos il Cattaneo. E a noi, uomini del novecento, abituati ad una rigida specializzazione della cultura, la meravigliosa pluralit e profondit d'interessi del Cattaneo, il suo contributo di soluzioni originali nei campi pi diversi del sapere, suscitano come un senso di ammirato stupore. La matematica e la storia, l'agronomia e le discipline legali, la filologia e le scienze naturali, la glottologia e la letteratura, l'economia e l'archeologia: tutto ci suscita l'interesse e risveglia la curiosit del Cattaneo. Sembra che egli, ogni volta che affronta un nuovo problema, senta il bisogno di ripercorrere da solo il secolare progresso delle varie discipline, di criticare, saggiare, valutarne ogni singolo aspetto, confrontare fra loro le varie posizioni. Questa straordinaria ricchezza di interessi trova la sua espressione in uno stile limpido, lontano sempre da ogni enfasi retorica, tutto permeato di un chiaro razionalismo e di un sottile senso critico. Una cos grande molteplicit d'interessi affermati contemporaneamente, un passare dalla scabra merce di locomotive, gazometri e ponti obliqui al mondo della letteratura, della linguistica, della storia, correva il rischio di convertirsi in un dilettantismo scientifico privo di unit. Di questa sua incapacit di fermarsi a lungo su un soggetto determinato, di raccogliere in unit i risultati del proprio lavoro doveva rendersi conto lo stesso Cattaneo quando scriveva. Come scrittore, ho sciupato il mio tempo, lavorando troppo, da giornalista, di roba frusta e solo altrui, invece di far col mio, ch la fatica era forse minore; anzi molta mia roba rimane dispersa per entro i pasticci fatti di roba altrui, sicch non pu nemmeno parer mia: con questo fardello di stracci, mi vergogno un poco di comparir di nuovo innanzi a un pubblico che non ha perduto il suo tempo; e ancora: Io non ho nemmeno, fin qui, ci che possa chiamarsi un'opera. Sono frammenti, la pi parte intesi a un immediato servizio pubblico e non al culto di un'idea. Solamente provano che avrei potuto anch'io far meglio se

avessi pensato prima d'ogni cosa all'io. Questi preziosi "frammenti" ci rivelano per, via via che ad essi ci avviciniamo, una ricchezza infinita di verit e di umanit. L'indagine che Cattaneo compie sul mondo della natura e sulla societ non mai concepita come fine a se stessa, ma sempre in funzione dell'attivit umana che deve agire nel mondo e nella storia: Noi per quanto valgano le nostre forze, vogliamo agitare tutta la scienza, svegliare tutti gli interessi, gettare a destra e a sinistra i nostri studi per suscitare e incalzare gli studi altrui, per suscitare e incalzare i pensieri della nazione, le sue speranze, i voleri, gli ardimenti. Per questo in Cattaneo la scienza sempre unita alla tecnica, alla ricerca cio dei mezzi con cui agire sulla realt per modificarla a servizio dell'uomo. La vita del Cattaneo si svolge durante uno dei periodi pi complessi della storia d'Italia, e la sua opera pu essere - ci pare esattamente valutata solo se ci riesca di vederla operante nella concretezza di una situazione storica che - ancor oggi interpretata in modo estremamente vario. Il liberalismo radicale del Ferrari, del Cattaneo e del Pisacane si opponeva da un lato al mazzinianesimo e dall'altro al moderatismo dei giobertiani. Il programma dei mazziniani era unit, repubblica, democrazia. Dal fallimento del metodi della carboneria che aveva organizzato i moti del '20 e del '21 nel Piemonte e a Napoli, era nata la critica del Mazzini al liberalismo carbonaro. Questo, nel suo limitato programma di cospirazioni escludeva dalla lotta quelle masse popolari che erano invece, per il Mazzini, necessarie al successo. Sorgeva cos a Marsiglia nel 1831 la "Giovine Italia" e con essa una nuova spinta di azione rivoluzionaria che doveva accendere di entusiasmo e portare al martirio - al di l di ogni sconfitta e di ogni fallimento - giovani, popolani e studenti incitando gli oppressi e scuotendo i dubbiosi, agitando il problema di quell'unit italiana considerata dai pi come una pazzesca utopia. Ma la predicazione mazziniana appariva al Cattaneo scarsamente operante presso il popolo e a proposito della "Giovine Italia" egli scriveva: No, non era popolare, non penetrava addentro nella carne del popolo come la proscrizione e il bastone tedesco, la legge del bollo e l'esattore... L'eco della "Giovine Italia" era nella generosa e poetica giovent delle universit, delle accademie e delle aule teologiche. Il programma mazziniano della rivoluzione popolare ripugnava allo spirito pratico e positivo del Cattaneo. Solo attraverso una lenta e progressiva opera di riforme possibile, per i radicali, giungere alla realizzazione di un regime di libert all'interno dei singoli stati italiani che consentir poi ad essi di riunirsi in una libera confederazione. Una lotta per l'indipendenza che non sia insieme conquista di pi ampie forme di libert appare al Cattaneo priva di senso. Per muover guerra allo straniero occorre liberarsi prima dalle servit interne e la libert non ha senso se non scaturisce dalle viscere dei popoli. Abbattere il governo austriaco per porre la Lombardia sotto un governo piemontese reazionario e arretrato significa per il Cattaneo solo cambiare padrone. D'altro lato il programma di riforme sostenuto dai moderati e dal Gioberti appariva, al radicalismo del Cattaneo, conservatore ed eccessivamente cauto. La federazione degli stati italiani con a capo il Pontefice, sostenuta dal Gioberti, gli appariva illusoria ed utopistica e il suo riformismo, a differenza di quello dei moderati, nasceva non dal rispetto per l'autorit dei principi, ma dal senso dell'impossibilit di spezzare violentemente il corso della tradizione e della storia e dalla necessit, che egli sosteneva, di giungere, mediante una progressiva e spregiudicata opera riformatrice, ad una totale affermazione delle libert popolari.

Da queste ragioni profonde di contrasto con il conservatorismo dei moderati e con il rivoluzionarismo dei mazziniani nasce la posizione che il Cattaneo assunse di fronte ai problemi della vita politica italiana e di qui anche la sua solitudine e il suo isolamento in un mondo di cultura che egli sentiva a s estraneo e lontano. Questo radicale liberalismo del Cattaneo, che in Pisacane giunger a formulazioni socialiste, questa mentalit scientifica e razionale, avversa ad ogni mito, rendeva assai limitata la diffusione e la consistenza del movimento. Esso non riusc mai - nonostante gli sforzi in questo senso del Ferrari - ad attirare a s le masse popolari e rest patrimonio di un ristretto gruppo di uomini di cultura. Il programma richiedeva infatti, a sua base, un interesse vasto e consapevole per la vita politica, un notevole sviluppo economico, una reale partecipazione degli italiani ai problemi della loro vita sociale: il movimento era quindi quasi del tutto assente nel Mezzogiorno, forte nel milanese e in alcune zone del Piemonte e della Toscana. Le pagine del Cattaneo ci appaiono ancor oggi estremamente attuali mentre l'audacia rivoluzionaria delle sue idee, la coscienza - in lui estremamente viva - della impossibilit di scindere il progresso della civilt e della scienza da una sempre pi piena e radicale attuazione della vita democratica, ci pongono di fronte a una serie di problemi che ancor oggi urgono alla nostra coscienza di uomini moderni. L'arte della libert l'arte della diffidenza; libert padronanza e padronanza non vuole padrone. Alle vecchie classi dirigenti, provenienti dall'aristocrazia terriera e incapaci, nel loro cieco ed egoistico attaccamento alla tradizione, di costruire un libero mondo di nuova civilt, Cattaneo tent di sostituire una classe dirigente progressiva ed audace, padrona della scienza e della tecnica, agile nei suoi movimenti, inserita, politicamente e culturalmente, nella vita europea. Il popolo italiano giunse all'indipendenza per vie diverse da quelle che il Cattaneo aveva indicato, ma a nostro avviso, una rinnovata lettura delle sue pagine pi significative pu renderci possibile un'interpretazione del nostro Risorgimento diversa da quella che una lunga tradizione - fatta spesso di retorica e di indiscriminata esaltazione - aveva consacrato. PAOLO ROSSI. Lo sigle "Opp." e "Scr. pol." indicano rispettivamente i sette volumi della "Opere edite e inedite" raccolte da A. Bertani, edizione Le Monnier, e i tre volumi degli "Scritti politici ed Epistolario", raccolti da Rosa e Mario, edizione Barbra. Per gli altri scritti confronta "L'insurrezione di Milano" a cura di G. Macaggi, Citt di Castello; "L'insurrection de Milan e le Considerazioni sul 1848", a cura di C. Speljanzon, edizione Einaudi; il "Politecnico" e la nuova edizione dell'"Epistolario" (volume 10, 1820-1849) Barbra, Firenze 1949. NOTE. Nota 1. Per le notizie sulla vita nel periodo che va dal 1848 alla morte e in genere per le posizioni che il Cattaneo venne assumendo di fronte alle mutevoli situazioni politiche del Risorgimento, rimandiamo al capitolo "Il Risorgimento e il Federalismo".

LA SOCIETA' UMANA. Cattaneo parte dalla tradizione filosofico-politica del secolo diciottesimo, accogliendone lo spirito positivo e chiarificatore, tutto rivolto ad una immagine sull'uomo e sul suo complesso mondo. Di questa tradizione Cattaneo rifiuta i motivi deteriori accogliendone invece i profondi aspetti di progressiva liberazione. L'uomo non un astratto ente metafisico, ma per sua natura un "essere sociale" inserito nella societ e vivente in essa e per essa. Non valgono a spiegare l'origine dell'associazione umana e dello stato le teorie contrattualistiche di Hobbes e di Rousseau: E cos udiam ripetere ad ogni momento che la societ pu dissolversi, che sta per dissolversi, sol che si rallenti la vigilanza e la fierezza de' suoi tutori. Ma l'etnografia attesta che le trib pi feroci, nelle pi squallide foreste, sotto miserabili tuguri di frasche, vivono in famiglie e in trib. E la zoologia descrive altre specie ben inferiori di viventi che pur nascono e vivono socievoli per necessit di natura. La societ non dunque un rifugio d'infelici improvvisamente stanchi d'errare nella solitudine muta di Vico o nella solitudine parlante di Rousseau. Non un'invenzione subitanea, una deliberazione, un contratto, uno stato arbitrario che oggi possa essere e dimani non essere. E' un fatto naturale primitivo, permanente, universale, necessario, che dov cominciare colla prima donna che fu donna e madre, e con quante furono donne e madri. E per ogni individuo che nasce ogni giorno, comincia in quel giorno, nel consorzio della sua gente e del suo paese, nella costanza delle affezioni dei pi, nel consenso tradizionale e continuo delle volont, sotto lo stimolo delle necessit e coll'aspettativa e l'abitudine del ricambio, e nell'impossibilit d'una solitudine assoluta. Anche nelle selve l'uomo ha una madre a cui tanto pi lungamente rimane avvinto, quanto pi il modo di vivere selvaggio. Convivendo con la madre, che gi convive con altre persone, egli impara insieme colla lingua un intero sistema d'idee per forza d'imitazione e di tradizione. L'uomo si trova in societ per fatto della sua natura, vi nasce e vi cresce senza avere idea di un modo di vivere diverso, ch'egli possa mettere in paragone. Ma nella societ civile non incomincia pi come tra le primitive selve nella barbarie degli istinti; comincia al lume della ragione che s' svolta nel seno della societ. La socievolezza della pecora non oltrepassa il gregge, quella dell'ape non oltrepassa l'alveare. L'uomo nella sua benevolenza contempla la famiglia, la patria, il genere umano; rende onore e gratitudine anche alle generazioni estinte e talora obbedisce per secoli alle loro ultime volont. L'amore tra i genitori e la prole, che nelli animali dura solo quanto il bisogno di assistenza, nelli uomini dura tutta la vita e oltre la vita, e talora non si mostra mai tanto affettuoso come dopo la morte dei loro cari. Il selvaggio s'associa al selvaggio, l'eremita all'eremita; nei sotterranei della Tebaide, sul monte Carmelo, sul monte Athos, i solitarii vivono in societ. Monaco vuol dire solitario, ma il monaco ascritto a un ordine; e monasterio che vuol dir solitudine, sinonimo di convento. La natura umana delude i suoi propri sforzi, i suoi propri voti, la solitudine diviene una societ. I luoghi delle antiche solitudini divengono citt, come Sangallo e Appenzel (1). Nella solitudine vera e

assoluta si oscurano le facolt naturali anche quando furono gi sviluppate dall'educazione; l'uomo diviene stupido insensato; cade nel delirio o nell'idiotismo. Il carcere solitario la pi tremenda delle pene; e i pi fieri scellerati invocarono colle lacrime agli occhi il patibolo. (Opp. 6, 330, 329, 256). La ragione, che dev'essere "principio del volere", guida l'umanit fuori dalla barbarie verso un sempre pi ampio mondo di umanit; e nel contrasto dei princpi che vivono nelle nazioni, ogni principio tende ad escludere gli altri per affermarsi come unico sistema di vita. Lo stato non che un'"immensa transazione" tra queste forze, e solo un gran numero di princpi in contrasto pu determinare quella lotta che si rivela essenziale alla costruzione di una libera civilt: Ma la societ nelle epoche civili non comincia pi come tra le primitive selve nella barbarie degli istinti; comincia al lume della ragione che si svolta nel seno della societ. Per chi vive in societ d'uomini nati tutti alla piena luce della ragione, la ragione il principio del volere; e perci l'arbitra del vivere. E l'ordine sociale a cui non basta pi il mero istinto, se non deve rimanere senza lume e senza guida, deve seguir la ragione secondo che si attiva e si sviluppa, cio secondoch di fatto ella . Cos la societ primitiva, senza mai dissolversi n scontinuarsi, pot trapassare per tutte le barbare tasi dell'antropofagia, della poligamia, della superstizione, della servit, della conquista, dell'iniquit privata e pubblica, pur sempre avvicinandosi ai termini della verit, della giustizia, della equit, della benevolenza, che la ragione adolescente le veniva successivamente manifestando. E cos stolto chi vuol costringere uomini nati sotto il dominio della ragione a vivere contro la loro ragione, cio contro le loro idee, e giusta le opinioni di qualsivoglia tempo che pi non . (Opp. 6, 257). Le nazioni civili racchiudono in s vari principii, ognuno dei quali aspira a invadere tutto lo stato, e modellarlo in esclusivo sistema. Ma prima che l'opera sia compiuta, nuovi principii si svolgono in modo imprevisto, e dirigono verso altra parte la corrente degli interessi e delle opinioni. Chi diede il primo esempio d'assistere i poveri peregrini smarriti e cadenti per Terra Santa, si sarebbe atterrito se alcuno gli avesse predetto come i suoi successori dovessero rendere formidabile d'armi e di dovizie e d'arcane opinioni il nome dei templarii. Quando Richelieu domava la feudalit francese, non avrebbe mai sospettato d'essere di non molt'anni precursore al tribuno Mirabeau. N il primo Califfo che chiam dagli Altai una squadra di satelliti turchi, si accorse di preparar la ruina degli Arabi e lo stupendo dominio delli Osmani N Roma, ammettendo nelli eserciti i barbari del Reno, pensava di trovarli in pochi anni diffusi in tutte le sue provincie. Le idee di una trib selvaggia fanno ben sistema colle sue selve; ma quanto "pi civile un popolo, tanto pi numerosi sono i principii che nel suo seno racchiude": la milizia e il sacerdozio, la possidenza e il commercio, il privilegio e la plebe. E son tutte forze indefinitamente espansive che per s tendono a invadere tutta la capacit dello stato. Quindi "l'istoria l'eterno contrasto fra i diversi principii che tendono ad assorbire e uniformare la nazione". Rare volte un principio stabilmente prevale, e solo colla lunga opera del tempo e d'una sapiente perseveranza. Ma quando la tradizione cominciata da Gradenigo giunta a soffocare con lunga e artificiosa fatica ogni elemento popolare; quando il principio inaugurato da Pelagio pervenuto a eliminare dalla Spagna Arabi e Israeliti, e ripellere pertinacemente ogni nuova idea che venga d'oltremonte o d'oltremare: quando la China si chiusa fra l'oceano e il deserto e

la muraglia; quando insomma lo stato pu dirsi divenuto in tutte le sue parti un sistema; allora si fa palese che le leggi organiche non son quelle dell'immobilit minerale, che la variet la vita, e l'impassibile unit la morte. (Opp. 6, 128, 129). Ogni societ civile si chiude in seno una critica inevitabile e inesorabile, fatta in contrario senso dai singoli sistemi ideali, e riassunta nelle loro utopie; le quali sono appunto "geometrie dedotte dall'uno o dall'altro postulato, a cui altri interessi oppongono altri postulati e altre geometrie". Li uni vedono nel lusso dei ricchi il pane dei poveri; li altri lo dicono un insulto alla miseria, un incentivo alla corruzione, e consigliano la societ a salvarsi colle leggi suntuarie. L'uno vuol tradurre ogni cosa in industria e banca, mobilitare la possidenza in cartelle, sicch ad ogni fin di mese si possa giocare in borsa tutto il territorio dello stato. Altri deplora il terreno che si perde negli accessi e nelle siepi della minuta possidenza popolare; vuol incorporare tutti li sparsi beni in poderi millionari, inalienabili e perpetui in poche centinaia di famiglie, per le quali la possidenza sia funzione sociale e quasi sacerdozio, necessario a fermare le fondamenta della societ contro la frana popolare. Altri, ancora in nome della societ e della morale, vuol abolire la propriet privata, e quindi l'eredit e quindi la famiglia; e far compadrone del globo terraqueo ogni essere che si conta nel novero della specie umana. L'uno vuol solo interessi e lavoro, e in un popolo vede solo un colossale giumento che volge la macina dell'industria nazionale; l'altro vede solo anime senza corpi, solo intelligenze, e doveri e diritti e morale e contemplazione. Fra tante domande che lo sviluppo della civilt suddivide e moltiplica ogni giorno, "lo Stato risulta adunque un'immensa transazione", dove la possidenza e il commercio, la porzione legittima e la disponibile, il lusso e il risparmio, l'utile e il bello, conquistano o difendono ogni giorno con imperiose e universali esigenze quella quota di spazio che loro consente la concorrenza delli altri sistemi. E la formula suprema del buon governo e della civilt quella in cui nessuna delle domande nell'esito suo soverchia le altre, e nessuna del tutto negata. E tutti quei mutamenti che noi con ampolloso vocabolo appelliamo rivoluzioni, non sono altro pi che la "disputata ammissione d'un ulteriore elemento sociale", alla cui presenza non si pu far luogo senza una pressione generale, e una lunga oscillazione di tutti i poteri condividenti, tanto pi che il nuovo elemento si affaccia sempre coll'apparato d'un intero sistema e d'un intero mutamento di scena, e colla minaccia d'una sovversione generale; e solo a poco a poco si va riducendo entro i limiti della sua stabile ed effettiva potenza. Una transazione apre il campo ad un'altra; i principii che lottano nel seno del consorzio civile, si fanno sempre pi molteplici e complessi, nessun d'essi rimane al tutto abolito: anzi conserva nel suo segreto tutta quella forza d'espansione, che lo condurrebbe da capo a occupare tutta la societ, e ridurla in sistema, per poco che venisse meno la relazione delli altri sistemi. E ogni d vediamo presso le nazioni i principii che sembravano abbattuti per sempre dalla contrariet dei tempi, rifocillarsi tratto tratto, e palesar la tenace loro sopravvivenza. (Opp. 6, 132, 133, 134). Rispondente all'essenza del pi puro liberalismo questo concetto dello stato come vivente sintesi di libert contrastanti; e, se tale lo stato, l'insieme dei rapporti internazionali appare al Cattaneo come un delicato equilibrio che la guerra calpesta e sconvolge, distruggendo insieme all'indipendenza di un popolo, la libert di tutti gli uomini liberi.

In quanto un uomo o un popolo non adempie al diritto, esso fa danno alli altri e infine a se stesso. (Opp. 6, 335). Dal caos delle istorie antiche e moderne sorge dunque un fatto costante ed universale, una legge, ed l'azione di una forza morale che scaturisce dalla coscienza al lume di una nuova idea, e spinge le genti verso una sola e universale associazione che l'attuazione del diritto universale. Il principio di questo diritto sta in ci che l'uomo riconosce in ogni uomo il suo simile: che l'uomo riconosce in tutti gli uomini se stesso; che l'uomo sente nell'io l'umanit. Sotto questo aspetto il diritto "l'ordine nella societ dei simili". Il diritto l'ordine nell'umanit. Il "fatto" dell'uguaglianza delli uomini, in quanto riconosciuto dalla coscienza, il fondamento del diritto e di tutte le sue successive evoluzioni. (Opp. 6, 334). Ogni individuo pu considerar se medesimo come centro commune di pi circoli di sempre maggiore ampiezza, e sono il circolo della famiglia, del comune, dello stato, della nazione, della religione, del commercio, della scienza, dell'umanit. E' mestieri considerar l'uomo non solo come membro d'una nazione, ma del complesso delle nazioni, ossia del genere umano; perch lo stato comune del genere umano contribuisce a determinare lo stato di ciascuna nazione, epper di ciascun individuo. Una guerra, in qualunque parte del globo, turba il commercio e l'industria di tutte le nazioni. Al contrario la quiete, la prosperit, la cultura d'un popolo torna in mille modi a giovamento di tutti li altri; le invenzioni della scienza e dell'arte si propagano per tutta la terra, per esempio la stampa, la locomotiva, la bussola, il telegrafo. Perci "tutte le nazioni hanno interesse a proteggere la libert delle nazioni", e il loro incivilimento il regno della giustizia su tutta la terra. (Opp. 6, 335). Questa profonda fede razionale nella libert il motivo centrale ed ispiratore di tutta la concezione politica del Cattaneo che da questo ampio ed aperto liberalismo trae la sua energia vigorosa. E la libert non un dato, ma una faticosa, diuturna conquista che non concede tregue e che appare come il fine pi nobile di tutto l'operare umano. L'uomo non libero, ma si fa libero attraverso l'esercizio della ragione che concilia gli interessi e i contrasti, che pone di fronte al singolo gli altri in un rapporto la cui radice dev'essere il riconoscimento degli altri: "il diritto". Come esempio di una tollerante libert in contrapposizione alle persecuzioni e ai divieti della vecchia Europa, Cattaneo additava gli Stati Uniti d'America: ...col convengono d'ogni paese d'Europa tutti i pi ardenti settari, le anime pi infiammate dalla contraddizione, dalle persecuzioni, dai divieti e forse pi di tutto dalla indifferenza che per avventura esperimentarono nelle patrie loro. Ivi gesuiti, ivi quacheri, ivi sociniani e moravi e metodisti e puritani e persino colonie tutte d'israeliti. Ed da ben due secoli che si vedono uomini i quali in Europa invocavansi contro a vicenda la spada, la mannaia e il rogo, giunti l declinare a poco a poco ad un entusiasmo incruento; e divenir, da nemici spietati, emuli rispettosi e mansueti vicini. Tanto pu la sapiente imparzialit della legge, fatta quasi madre comune, e la facolt data a tutti di sfogarsi liberamente. (Opp. 5, 93). Se la libert quindi non arbitrio, ma cosciente inserimento di s in un ordine di diritto, essa non pu pi apparire come l'astratta libert illuministica dell'uomo primitivo abbandonato a s, in preda a forze contrastanti e ad improvvisi terrori:

La volont si trova esposta a un numero indefinito d'impulsi in mezzo a questa selva d'istinti e di appetiti, di desideri immediati e mediati di propensioni, d'affetti, di sentimenti ideali che si moltiplicano e s'intrecciano a misura che le idee dell'uomo si estendono sulle cose dell'universo e sulla societ de' suoi simili. Quanto maggiore la variet degli impulsi che la volont pu seguire, tanto pi vasto il suo dominio e la sua libert. Per converso, quanto pi l'intelletto povero d'idee, tanto pi angusto il campo in cui si muove la volont, tanto pi prevalgono gli appetiti: la volont si confonde coll'istinto e non pu dirsi libera. Perci l'ignoranza diminuisce la responsabilit come la esperienza e la scienza l'accrescono... Il selvaggio, avendo un cerchio assai ristretto di idee e di sentimenti, in mezzo alle selve assai men libero che non l'uomo civile in mezzo alla societ pi artificiosa e disciplinata. A questo non aveva pensato Rousseau, quando esaltava sulla vita civile la selvaggia. (Opp. 7, 233). E contro la paura della libert, rilevando la contraddizione che implicita in ogni forma di dittatura, Cattaneo scriveva: Quella vanissima sentenza che "il rimedio vero sta nel riunire in una sola opinione tutte le stte" idea chinese, idea bizantina. E per essa la Grecia, feconda quand'era piena di stte, giacque per mille anni nel letargo della sepolcrale ortodossia bizantina. Ogni setta che invoca codesto sofisma, intende imporre silenzio alle altre tutte: e regnare unica e sola; perloch, nell'invocarlo, condanna se stessa. (P. 315).

NOTE. Nota 1. Appenzel: citt svizzera, deve la sua origine e il suo nome ("Abbatis cella") all'abate Norberto di S. Gallo che la fond nel 1061.

L'ECONOMIA E IL PROBLEMA SOCIALE. Dal concetto stesso dello stato come "transazione" tra le forze politiche e gli interessi in contrasto, regolatore di questo equilibrio e privo di ogni carattere di assoluta finalit, deriva l'adesione del Cattaneo al liberismo economico. Unica garanzia di sviluppo per l'industria e per il commercio una concorrenza che si muova fuori dell'ambito di ogni differenziazione

statale o nazionale, e che sia la riaffermazione degli insopprimibili diritti della volont individuale e del suo libero rapportarsi con altre volont. La sola possibile legge di questo complesso mondo in cui ogni atto ha vaste risonanze e in cui ogni singola societ contribuisce al benessere comune, lottando per il benessere proprio, una illimitata libert di azione e di movimento. Grande incentivo all'industria la concorrenza, fonte a prodigiosi sforzi di sagacia, di solerzia, di risparmio; fonte di miseria per chi nella prova soccombe, ma pur sempre cimento d'emule volont. Una nazione la evita e la respinge, si difende dal commercio dei grani esteri e delle estere merci come da una sventura. Un altro popolo o una nuova generazione del popolo stesso, non teme la libert del commercio e sfida le nazioni rivali. Solamente sotto il flagello d'una spaventevole carestia, che tolse all'Inghilterra un quarto della sua popolazione, fu vinta col la causa del libero commercio. La perseveranza dei novatori trionf della pertinacia dei privilegiati perch questa era sopraffatta dalla mole dei pubblici mali. Tutte le storie ci attestano come la libert fu cagione che immense ricchezze si potessero accumulare sopra paludose o aride o alpestri liste di terra in Fenicia, in Grecia, in Liguria, nella Venezia, nell'Olanda, nella Svizzera. Il primato sui mari appartiene oggid ad ambo i rami della stirpe anglobritanna, ch' quella fra le grandi nazioni che serb pi fedele e costante il culto alla libert. Le sue ricchezze sono maggiori di quelle degli altri popoli per forze di libert, cio per una causa che risiede nella sfera della volont. Epper, per nostro conforto, sono accessibili a tutte le nazioni. (Opp. 5, 392, 393). Cos le arti si soccorrono e si compiono a vicenda; cos l'industria tramuta in mille guise le materie prime, a cui aggiunge un valore impensato. E' tale uno spettacolo codesto che esalta l'animo, e gl'ispira la coscienza della propria dignit e il presentimento di nuovi e maggiori progressi. A qual punto s'arrester questo moto che ormai abbraccia tutta la terra e s'affatica senza posa a conquistare nuovi elementi di ricchezza e di potenza? Questo irresistibile elaterio (1) per quali vie intentate spinger il genio industriale dell'uomo? Assiduo frattanto lo scambio dei prodotti. Qui la Svezia abbatte le sue foreste e scava le sue miniere, la Russia appresta le sue balle d'ermellino e di martora, l'Olanda imbarca le sue aringhe, il suo olio e le sue ossa di balena, tra pochi mesi vascelli di Tolone copriranno gli alberi di Svezia d'una vela francese, il napoletano, il genovese, il livornese, il sardo esporranno al sole il pesce seccato dal batavo; sugli omeri del sultano spiccher l'ermellino di Arcangelo, alla sua volta l'Italia verser l'olio dei suoi fecondi ulivi nelle botti del nord, la Francia atteler le sue drapperie di seta, quella seta recata a Costantinopoli dalla China entro un giunco: l'Impero d'Oriente scomparso, il verme esiste ancora, l'industria l'ha ricoverato sotto il dorso d'una rustica foglia, e questa foglia una ricchezza! Non si fabbrica un'auna (2) di merletti a Malines, che Bergamo non tessa nello stesso tempo un'auna di cotone, Aleppo una di mussolina. Una verga di ferro esce dalle miniere di Upland, e nello stesso istante Brescia estrae un fucile dalla fornace, Birmingham un'ncora marina, Bristol una pioggia di fili metallici. Cos ogni uomo risponde all'altro uomo; ogni colpo di martello ha la sua riscossa lontana. (Politecnico 12, 245). Alle tre fonti tradizionali della produzione: natura, lavoro e capitale, Cattaneo aggiunge due fattori di natura spirituale la cui importanza stata disconosciuta da teorici del liberalismo come il

Genovesi e lo Smith: l'intelligenza e la volont: Noi reputiamo necessit primaria della vita quella di ripararci colle vestimenta dal gelo, dalla pioggia, dal sole. Eppure quando nei libri dei viaggiatori miriamo le sembianze del selvaggi tatuate a vari colori e fregiate di piume e di monili, ma quasi affatto nude, dobbiamo riconoscere che l'uomo sente prima il desiderio d'ornarsi che quello di vestirsi, sente prima l'affetto dell'onore e dell'ambizione che il bisogno di sottrarsi alla molestia e al danno delle intemperie. E' a credersi che un selvaggio, posto al duro cimento, avrebbe pi caro patir la fame che sottomettersi a camminar privo per sempre de' suoi aviti ornamenti e delle sue armi. Fin da' primordi l'uomo appare dunque stimolato da "necessit" e da "affetti", da bisogni "materiali" e da bisogni "morali". E fin da' suoi primordi, tra la moltitudine degli oggetti che lo circondavano, egli dov ricercar piuttosto quelli che aveva riconosciuto utili, cio atti a soddisfare i suoi bisogni o materiali o morali. Ma in questa scoperta delle cose utili egli cammin a lenti passi. Il selvaggio nudo e povero, non perch tutte le dovizie naturali non giacciano inoccupate e libere a sua disposizione, ma primamente perch egli non le conosce. Di tutte le cose che per noi sono ricchezze ben poche sono utili al selvaggio. Egli non sa impadronirsi delle greggi, non sa farsi trasportare dai giumenti, non sa imaginarsi come si adoperi un metallo, non sa forse ancora scavarsi in un tronco d'albero un navicello: non ha forse ancora scoperto l'uso del foco, e l'arte di accenderlo; le selve immuni che lo circondano sono un tesoro inutile per lui. Nella stessa vita selvaggia sono diversi gradi di povert. Le trib le quali non sanno altro che intanarsi nelle caverne; le trib che nelle paludi del Brasile vivono sui rami delle piante intrecciati, pascendosi di rettili e dei propri insetti, le trib dell'Australia che sono paghe di ricoverarsi appi dei tronchi, sotto una corteccia ripiegata in arco, sono certamente pi povere di quelle che pensarono a edificarsi uno stabile tugurio di tronchi coprendo con foglie di palma il tetto e le pareti. Prima d'idear l'uso del foco e quello della lancia, dell'arco, della nave e della rete, il selvaggio doveva spendere pi continua fatica a procacciarsi il vitto quotidiano e a difendersi dai suoi nemici. Ognuna di queste invenzioni lo fece men debole e men povero, meno incerto del domani, meno agitato dalla fame e dalla paura. Or bene la capanna, il foco, la lancia, la rete, la nave, sono doni prima dell'"intelligenza", poi della "fatica". Senonch la fatica di apprestare un arco o una rete, una volta che sia fatta, abilita per sempre il cacciatore a raggiungere co' suoi colpi la fiera senza stancarsi nel corso, abilita il pescatore a predare d'un tratto centinaia di pesci, a predarli anche intanto che egli pu giacere immerso nel sonno. L'apprestare l'arco e la rete bens un nuovo genere di fatica, ma risparmia una molto maggiore quantit della fatica primitiva. In ultimo conto si ottiene la stessa copia di vitto con minor fatica, o con uguale fatica si ottiene maggior copia di vitto. "La ricchezza dunque cresciuta in ragione inversa della fatica", la ricchezza frutt qualche intervallo di riposo, ma ricchezza e riposo "sono frutti d'un atto d'intelligenza". Quando in Asia l'uomo fece la scoperta degli animali atti alla pastorizia e li moltiplic, e impar a condurli sul piano nel verno, e sui freschi monti nell'estate, fu per lui una nuova e grandissima ricchezza. D'allora in poi egli ebbe sotto la sua mano un alimento salubre, certo, equabile; pot attender tranquillo la dimane, non fu pi costretto a precorrere colla caccia il ritorno della fame

quotidiana. Ma se il pastore pi agiato del selvaggio, ci avvenne solamente per la scoperta delli animali pastorecci. La nuova ricchezza fu dunque il frutto d'un nuovo atto d'"intelligenza". E nuovamente "la ricchezza crebbe in ragione inversa del lavoro". Falso dunque che il lavoro per s sia il padre della ricchezza, come pens Adamo Smith e come dopo di lui viene ripetuto dal volgo. La vita del selvaggio sommamente faticosa e sommamente povera. La fonte d'ogni progressiva ricchezza l'intelligenza; l'intelligenza tende con perpetuo sforzo a procacciare a un dato numero d'uomini una maggiore quantit di cose utili, o la stessa quantit di cose utili a un numero d'uomini sempre maggiore. (Opp. 6, 396-398). Gli atti d'intelligenza che apersero ai popoli le fonti di ricchezza pi vaste e universali, hanno dovuto necessariamente antecedere ad ogni produzione diretta, ad ogni ammasso scientifico. Non v' lavoro, non v' capitale che non cominci con un atto d'intelligenza. Prima d'ogni lavoro, prima d'ogni capitale, quando le cose giacciono ancora non curate e ignote, in seno alla natura, l'intelligenza che comincia l'opera e imprime in esse per la prima volta il carattere di ricchezza. "Il valore che hanno le cose non si rivela da s; il senno dell'uomo che le discopre." Cos scrive uno stimabile nostro economista contemporaneo (Rusconi, Prolegomeni all'Economia politica capitolo 5). Gli inglesi e i fiamminghi calpestarono non curanti le stratificazioni di carbon fossile accumulate sotto i loro piedi per tutta la superficie di vaste provincie, anche alcuni secoli dopo che Marco Polo lo aveva descritto come d'uso antico e popolare presso i cinesi. I peruviani ignoravano l'uso del ferro, che i nostri libri sacri sanno antico pi di No (Genesi 4, 22); ma viceversa conoscevano l'uso del guano, del quale i nostri navigatori s'avvidero solamente a nostri giorni, tre secoli dopo che avevano preso vano possesso delle isole che ne son ricoperte. (Opp. 5, 368-369). L'uomo interiore possiede due forze: intelligenza e volont. La volont principio di ricchezza quanto l'intelligenza. L'uomo segue dapprima gli istinti, e soprattutto quelli, in lui potentissimi, della socievolezza e dell'imitazione. Vi aggiunge quindi l'esperienza sua propria; e pu coll'aiuto della societ, svolgere in grado sempre maggiore la riflessione sicch le sue passioni istintive, senza mai veramente mutar natura, infine assumono forma di volizioni razionali e deliberate. Quegli impulsi che determinano la volont all'acquisto dei beni si chiamano interessi. L'uomo comincia a volere direttamente i beni; poi impara a voler quelle cose per cui mezzo si acquistano. Egli si forma dunque interessi immediati e mediati. Ogni uomo avrebbe veramente interesse che nel luogo ov'egli vive, e in tutta la terra, fosse massima la copia dei beni; affinch compiuti gli scambi tutti quanti, maggiore potesse esser la quota che ne toccasse in particolare a lui. Ma pur troppo egli pu anche determinarsi a cercare un aumento della porzione sua propria nel minoramento o nello sperpero delle porzioni altrui e della massa generale. Tale l'interesse che muove ogni eslege al pari d'ogni previlegiato. Pertanto quella stessa volont che tende all'acquisto del beni, pu divenire un impedimento alla tranquilla e ordinata loro produzione. La natura offre invano i suoi beni, quando l'umana volont, sotto forma d'un parziale e prepotente interesse vi appone un divieto. Affinch alcuni previlegiati potessero vendere a prezzo d'oro nelle colonie le ferramenta di Catalogna e di Biscaglia, la Spagna aveva vietato che si aprissero in America miniere d ferro. Non vi andava solamente perduto il lucro delle terriere; ma tutta la produzione agraria e tutta l'industria di immense regioni rimanevano prive del necessari strumenti, o dovevano pagarli a prezzo smisurato.

Inapprezzabili tesori dovettero rimaner sepolti per secoli in un suolo troppo avaramente tocco dal ferro. Il favore della natura fu ugualmente inutile all'uomo americano, prima della conquista, per difetto d'intelligenza; dopo di quella, per impotenza della sua volont contro una volont straniera. Fu gi da molti osservato che quando gli statuti delle nostre citt transpadane riconobbero in qualunque possidente il diritto di condurre le acque irrigatrici per le terre de' suoi vicini, attribuirono alla volont dell'uomo intraprendente un predominio sul nudo diritto di propriet e sul valore dell'uomo inoperoso. Senza ci il tesoro di acque estive che le alpi versano sulle nostre pianure sarebbe rimasto perpetuamente inutile. I mari che cingono l'America per ogni parte, e conducono con tragitto rettilineo a tutte le altre parti del mondo rimasero inutili e innavigabili agli abitanti delle colonie spagnole. Quel governo, preoccupato da fallaci interessi, si era prefisso d'inviarvi d'Europa due soli convogli annuali, confinando il commercio d'un mondo in un termine invariabile di quaranta giorni all'anno. Col trattato dell'"Assiento" aveva poi concesso al commercio inglese di spedir col un'unica nave per anno; non avvedendosi che il commercio di quella sola nave avrebbe coperto il contrabbando di mille. Ecco l'umana volont, spronata da un cieco interesse, accingersi a chiuder l'immenso oceano che abbraccia tutta la terra. Nessuno potrebbe fare un calcolo remotamente approssimativo di tutti i beni che la volont dell'uomo preclude all'uomo; e che "per un mero mutamento della sua volont verrebbero quasi tratti dal nulla". Tutto ci che pu dirsi in favore della coltivazione per livello o per mezzadria, principalmente in quanto concerne la vite, il gelso, l'olivo, il cedro e tutte quelle che si potrebbero chiamare culture conservanti, si riferisce alla volont. Lo schiavo e il giornaliero, a forze eguali, a eguale intendimento, non appostano mai la stessa vigilanza e assiduit nella cura delle piantagioni, dei terrazzi, dei sostegni. Sulle pendici della Liguria e della Valtellina, sulle riviere dei laghi cisalpini, vediamo come l'agricoltore, quando impetuose piogge gli rapiscono le poche glebe sospese sull'erta, vi arreca a spalle la terra, rif da capo il povero fondo. Lo straniero ammira l'arte; ma il principio di quegli sforzi e di quelli avvedimenti tutto in una artificiale volont. Perch se si muta il titolo del possesso e dell'affitto, anche non mutandosi l'agricoltore, tutto quell'edificio sparisce, sparisce la popolazione, un latifondo in breve diviene pascolo e selva. Quella forma di vegetazione non ha radice nella terra ma nell'uomo; non nei calcoli dell'intendimento, ma nella forza della volont. (Opp. 5, 385-389). Raccogliendo, diremo che ogni nuovo trattato d'economia pubblica, dovrebbe formalmente classificare tra le fonti della ricchezza delle nazioni l'intelligenza e la volont; l'intelligenza, che scopre i beni, che inventa i metodi e gli strumenti, che guida le nazioni sulla via della cultura e del progresso; la volont che determina l'azione e affronta gli ostacoli. Se i legislatori non possono con un colpo di verga magica creare in ogni paese i beni che la natura ha troppo inegualmente sparsi sulla terra, se non possono moltiplicare a piacimento il numero delle braccia e la potenza del lavoro, se non possono sempre cattivarsi il favore degli arbitri del capitale, certamente possono farsi promotori e vindici della libera intelligenza e della libera volont. (Opp. 5, 394-395). Solo l'abolizione delle barriere doganali pu garantire un'autentica libert di commercio e la polemica del Cattaneo si rivolge contro le teorie protezionistiche che infrangono il vivente equilibrio del mondo economico forzandolo arbitrariamente entro schemi precostituiti al

servizio di bisogni artificiali o di falsi interessi nazionalistici: I moderni inclinano all'opposto errore e, per fomentare l'industria conculcano il commercio. Essi vogliono in ogni particella della superficie terrestre fare un giardino botanico di tutte le pi strane industrie. Ma le palme del deserto fanno mala prova presso li abeti delle alpi. Se Ginevra pu fornire oriuoli a tutto il genere umano, e Lione le pi splendide seterie, e la Boemia cristalli, e l'Inghilterra macchine e acciai, non prezzo dell'opera sovvertire questo naturale andamento e questa feconda divisione di lavori per trasformare il lionese in orologiaio e il ginevrino in assortitore di sete. Quando si sar distolto ogni uomo dal mestiere del suo paese, e lo si sar educato a qualche arte insolita, ben vero che Lione non pagher pi tributo, come soglion dire, all'industria straniera del ginevrino: ma il ginevrino, da parte sua, non pagher pi tributo al lionese. Ora, "un tributo reciproco non un tributo", ma contratto di permuta a comune vantaggio. La stessa quantit di lavoro produce pi oriuoli a Ginevra che non ne produrrebbe nelle future fabbriche di Lione; o parimenti produce pi belle stoffe a Lione che non ne potrebbe improvvisar mai a Ginevra, e fatto il cambio tra le due arti pi robuste e fruttuose, ognuna delle due citt vi profitta. Che povere fabbriche d'orologi avremmo mai, se gli arbitrii daziari ci costringessero ad averne una in ogni citt, e ci vietassero di portare su la persona un orologio straniero! Quanta minor suddivisione e gradazione e facilit e sicurezza e perfezione di lavoro, quanto maggior dispendio per portarci in tasca un pi tristo e pi goffo oriuolo! E qual immenso tributo imposto a tutti, per supplire al perduto lucro della divisione del lavoro e della sua locale opportunit e solidit! Un popolo ozioso paga tributo a nessuno, e vive lacero e abietto; e un popolo industre, sia che fabbrichi armi, merletti o panni, non paga tributo all'industria altrui, ma cambia coi migliori prodotti dell'arte altrui i prodotti che l'opportunit o la lunga pratica gli resero pi lucrose. E allora pu ben venir la guerra co' suoi sovvertimenti, e la pace coi nuovi confini e nuovi stati, e il commercio colle pi elette cose di tutta la terra; ma finch non interviene l'ostacolo delle dogane protettive, l'industria radicata nel suo terreno, forte di forza propria e non di posticcio favore, gode senza ansiet dei progressi d'ogni altra industria, poich accrescono il valsente delle cose utili ch'essa riceve in cambio di quelle che somministra. Solo in questa libera concorrenza, il pi piccolo stato pu godere la stessa vastit di campo che gode lo stato pi grande. Chi impone all'industria straniera una dogana protettiva inpugna un'arme a due tagli, e non pu dirsi se nuocer pi ad altri o a s. Il recinto che arresta i passi dell'industria straniera, arresta anche quelli della nazionale; e infin del conto, quando tutto lo spazio ripartito in recinti, sta peggio e vive pi languida vita quel prigioniero che ha il recinto pi angusto. (Opp. 5, 196-197). Con il suo consueto spirito realistico e pratico Cattaneo non propone l'immediata attuazione di un'assoluta libert di commercio, ma sostiene la necessit, per passare dal protezionismo al liberalismo, di uno stadio di commercio limitato, in modo tale che sia agevole alle industrie avvezze a prosperare nella "calda serra" dei dazi, passare alla tempestosa atmosfera della lotta economica e della concorrenza: Questa assoluta libert dell'industria non si potrebbe introdurre repentinamente senza grandi ruine. Ella dovrebb'essere un ideale modello, una stella polare a cui il legislatore indirizza i cauti suoi

moti; ma s' malagevole l'andarvisi avvicinando, sarebbe funesto il dilungarsene maggiormente, quando si riconosce di dover poi rifare il contrario cammino. Tutte le riforme daziarie debbon essere savie transazioni per conciliare coi grandi e progressivi interessi le timide aspettative delle industrie stabilite. Se il libero commercio dottrina assoluta e scientifica, mentre il commercio limitato dottrina da amministratori; s' vero che molti scrittori, quando divennero uomini di stato, parvero disertare dalle libere loro opinioni; ci dimostra solo che l'uomo di stato non pu correr dritto al polo, e deve destreggiar colle vele, perch la nave non movesi per lume di stelle, ma per forza di venti. Li interessi fanno le maggioranze dei parlamenti e delle consulte; e la potenza politica, che consiste nel capitanar le maggioranze votanti, non pu apertamente contrariarle. E perci l'illustre Romagnosi divideva tutta la scienza del bene pubblico in due parti, nell'ordine speculativo del fini e dei mezzi e nell'ordine operativo delle volont. (Opp. 5, 203-204). La reazione al cosmopolitismo dell'economia liberale si era manifestata in Germania ove, dopo la caduta dl Napoleone, gli stati federali, separati da rigide barriere doganali, non avevano la possibilit di resistere alla concorrenza inglese che, in seguito al grande accumulo dl prodotti durante il blocco continentale, riversava ora le sue merci sul continente. Del movimento di opinione pubblica tendente all'abolizione delle dogane fra i vari stati della Confederazione e a una politica di difesa di fronte all'invasione dei prodotti esteri fu principale esponente Federico List. L'economia cosmopolitica del liberalismo inglese deve, secondo il List, trasformarsi in "economia nazionale": lo stato ha il compito e il dovere di favorire lo sviluppo delle industrie e di opporsi alla concorrenza straniera mediante la attuazione di un programma di intransigente protezionismo. Fra la serie numerosa degli scritti economici di Carlo Cattaneo riportiamo qui alcune pagine del suo fresco e vivace saggio "Sull'economia nazionale di Federico List" ove i difetti e le incongruenze delle teorie protezionistiche sono svelati e colpiti con un'arguta intelligenza che ci fa meglio render conto della piena attualit di questa polemica. La dottrina della libera concorrenza mercantile e industriale viene con molto impeto combattuta da quelli che annunciano nuovi destini all'umanit, e vorrebbero risolvere in una colleganza di lavoratori tutti li ordini d'ogni nazione, per fondere poi tutte le nazioni nella universale fraternit. E d'altro lato si vede assalita da quelli che vorrebbero spingere il principio dell'industria allo stesso diseguale riparto di beni e di poteri che domina nelle Isole Britanniche; e vorrebbero aggiungervi potenza, col rinserrare ogni nazione in s medesima, armandola d'una astuta politica mercantile, e facendone colle dogane protettive un piccolo mondo di tutte le pi disparate industrie. A questo intento mira il libro qui annunciato (3), che in Germania ottenne popolare attenzione, s per le lusinghe ch'ei porge al sentimento nazionale, sia per quel risoluto linguaggio con cui si vanta frutto di vita operosa, non consunta a covar le opinioni delle scuole, ma a raccogliere i fatti vivi delle nazioni in Europa e in America: perloch sembr a molti un vittorioso assalto contro la dottrina di Adamo Smith. E vi una parte di vero: ossia, la dottrina stessa di Smith vi

riempie non poche pagine, e quelle soprattutto in cui si dimostra come l'industria fomenti l'agricoltura ed accresca valore alle terre. E qualche parte di vero intessuta per tutto il libro in modo d'aprir li animi anche a ci che vi di fallace; e l'esposizione procede sciolta da ordine scientifico ricorrendo spesso con familiare spontaneit li anelli della stessa catena; dimodoch la maggior fatica al cauto lettore quella di raccogliersi nella memoria i frammenti qua e l disseminati e costringerli in breve complesso per sottoporli a pensata prova. Le lodi che l'autore prodiga alla Gran Bretagna, non sono tanto un segno d'ammirazione, quanto un artificio oratorio di chi vuol valersi di quella grandezza a terrore delle altre nazioni, affine di sedurle a rinchiudersi nel guardinfante protettivo. Dopo l'invenzione delle macchine, egli dice, l'industria non ha confine se non nel capitale e nello smercio. Quindi la nazione che possiede cumulo immenso di capitale e vastissimo traffico, e col dominio del mercato monetario esercitato dalla sua banca, stimola la fabbricazione e deprime i prezzi, pu apportar guerra struggitrice alle altre nazioni. Un fanciullo indarno lotta con un gigante. Le fabbriche inglesi hanno enormi vantaggi, ridondano d'eccellenti operai ad agevoli mercedi, di macchine perfette, di sontuose costruzioni pei trasporti; hanno illimitato credito a infimo interesse, stabilimenti e relazioni lontane quali si formano solo nel corso delle generazioni, vasto mercato interno di tre regni, vasto mercato coloniale in tutto il mondo, mercato d'inestimabile vastit presso tutte le nazioni civili e non civili della terra e quindi aspettativa di smercio immenso. E' assurdo che le altre nazioni possano reggere a fronte di questa, quando prima devono allevare i direttori e gli operai: quando l'imprenditore, non sicuro d'uno spazioso mercato interno, nulla pu sperare dalle colonie e ben poco dalle navigazioni quando il suo credito ristretto al misero bisogno: quando non pu essere certo che un disastro in Inghilterra, o una misteriosa operazione della banca, non versi sul mercato continentale, all'ombra della libert daziaria, un cumulo di manifatture, il cui prezzo, appena compensato quello della materia, rapisca il naturale alimento all'industria europea. Un predominio come questo che surse ai nostri giorni, non si vide mai; nessuna nazione, aspirando alla signoria del mondo, pose mai s ampie fondamenta alla sua potenza. Quanto angusto non il divisamento di chi volle fondare sulle armi l'imperio universale, in paragone al pensiero britannico di fare di tutta l'isola una smisurata citt manifatturiera, commerciante e navigatrice! La quale, fra i regni della terra, sarebbe ci che una capitale fra le soggette campagne: la sede delle industrie, dei tesori, della potenza; il porto di tutte le marine, una citt capomondo che provveda tutto il globo di manifatture, e da tutte le genti si faccia consegnare le vettovaglie e le materie prime; un'arca universale dei metalli monetati; una banca delle nazioni, che coi prestiti assoggettandole tutte a tributo, signoreggi la circolazione universale. Qual' la magica verga con cui, secondo il signor List, l'industria britannica abbatter le industrie degli altri popoli, e li rilegher alla primitiva vita del bifolco e del pastore? E qual' il talismano che pu disfare l'incanto? L'arme impugnata dall'Inghilterra sarebbe il "libero commercio"! Lo scudo che deve salvare il genere umano sarebbe "la dogana"! L'Inghilterra, egli dice, qualora le tariffe daziarie non vi facciano ostacolo pu versare in America grande massa di manifatture. La banca inglese coll'agevolare lo sconto e allargare il credito alle sue manifatture, pu dar loro la forza di fare un enorme fido ai porti americani e infatti se ne videro talvolta inondati a pi vil mercato ch'esse non fossero nella stessa Inghilterra. Quanto maggiore il

credito concesso agli americani, tanto maggiore in loro l'impulso e il coraggio d'estendere le piantagioni, per saldare col prossimo raccolto il loro debito. Ma l'Inghilterra, parziale alle proprie colonie, aggrava di dazi il tabacco degli Stati Uniti sino alla misura del mille per cento; attraversa l'introduzione del loro legname per favorir quello del Canad; e ammette i grani esteri solo in caso d'imminente carestia, come detta l'interesse privato dei possidenti che siedono legislatori. Essendo perci illimitato l'ingresso delle manifatture inglesi in America, e limitato quello delle derrate americane in Inghilterra; l'America non pu fare il suo saldo se non in valsente metallico. Le piazze, esauste allora di moneta sonante e ingombre di carta, ricorrono alle loro numerose e deboli banche, ne spazzano avidamente li scarsi depositi. Le cedole, al momento che non si possono pi permutare in metallo, decadono rapidamente; i prezzi di tutte le cose divengono nominali; tutti i valori sono sconvolti; non v' pi proporzione tra le derrate e li affitti, tra il debito e il saldo; le banche pubbliche e le case private cadono alla rinfusa; la mala fede approfitta del tumulto per simulare la sventura; l'onore nazionale ne geme, e il generale avvilimento assopisce per lungo tempo le forze produttive. L'ordine pubblico, ossia l'equilibrio delli esporti colli importi, pu dunque ristabilirsi solo con dogane che raffreddino l'illimitato afflusso delle manifatture inglesi. Cos il signor List, di tutto questo disordine attribuisce la colpa all'astuzia mercantile dell'Inghilterra e al libero commercio. Ma noi domanderemo se nel fallimento generale dell'America tutto il danno sia del debitore insolvente; e se l'Inghilterra creditrice non vi perda anch'essa un immenso valore. Non ben chiaro come possa tornar utile al privato inglese di dare a credito in lontane regioni e a lungo respiro s enorme valsente di sue merci al di sotto del costo di fattura, se non vi fosse costretto da qualche segreta necessit. E pare ancora pi oscuro come convenga a tutta la nazione inglese e alla banca che ne modera e timoreggia i supremi interessi, di sollecitare con impeto l'esazione dell'accomulato credito, asportando dagli Stati Uniti tutto il metallo circolante, provocando il disonore delle carte, la caduta delle banche, l'avvilimento dell'agricoltura, la sospensione delle opere pubbliche e d'ogni impresa, e quindi la ruina di que' loro concittadini che sono gravemente interessati in quelle banche e in quelle costruzioni. La questione non pu essere cos semplice; vuolsi risalire a pi remota causa. Troviamo infatti, in altra parte del libro, che lo scarso raccolto costrinse l'Inghilterra a mandar fuori immensa copia di contante; che se il continente fosse stato aperto alle merci inglesi, si sarebbe potuto fare il saldo dei grani con esportazione straordinaria di manifatture; epper il metallico che si fosse al momento inviato, sarebbe in breve rifluito all'Inghilterra; ma il continente era chiuso alle merci inglesi, come, prima del mancato raccolto, l'Inghilterra era chiusa ai grani del continente. Dunque la calamit dell'America, rispondiamo noi, aveva avuto il primo impulso, non da artificio di nazione prospera e prepotente, ma da doppia calamit dell'Inghilterra, cio dall'infelice raccolto e dalla successiva esportazione del contante; la quale, angustiando le banche inglesi prima delle americane, aveva gi sovvertito i prezzi d'ogni cosa, e costretto i fabbricatori a vendere in America a lungo respiro, a vil mercato, e anche sotto il costo di fattura. La colpa non era dunque del libero commercio, ma degli ostacoli daziari, coi quali, da un lato, i possidenti, per interesse di ceto e non di nazione, rigonfiano i prezzi del grano in Inghilterra, e dall'altro, il continente respinge per rappresaglia le manifatture dell'isola che respinge i suoi grani. Gi da un secolo i nostri vecchi economisti italiani hanno posto in chiaro come tutte le limitazioni al

commercio dei grani sono la causa delle grandi carestie. Poich, pu bene una stranezza delle stagioni guastare il raccolto di un'intera isola per quanto sia grande; ma una calamit sola non pu facilmente abbracciare d'un tratto tutta la terra. E allora non vi sarebbe sbilancio di trasporti perch ogni paese ne avrebbe egualmente carestia. Quindi il libero commercio dei grani opera a guisa di reciproca assicurazione universale; e gli ostacoli doganali aggravano la calamit particolare d'un paese, fino al punto che, di cosa in cosa, i tristi effetti si propagano alle pi lontane nazioni. La libera concorrenza adunque il solo principio che possa dar occasione a svolgere le forze latenti, e contendere un primato che non ha naturale e necessario fondamento. Perch dunque sollecitar le nazioni a soffocare cogli ostacoli doganali la libera concorrenza? Poco invero giov alla Cina il trincerarsi tra il mare e la muraglia n, con un numero di sudditi eguale a mezzo il genere umano, sarebbe certo caduta in s puerile fiacchezza, se la libera concorrenza avesse rinnovellate le sue armi, ritemprata la pubblica ragione, accesa la face della scienza libera e viva. E che altro il principio protettivo del signor List, e la sua nazionale economia, e il suo sistema continentale contro l'Inghilterra, e il suo sistema angloeuropeo contro l'America, fuorch un'imitazione dell'infelice pensiero che incarcer dietro una muraglia l'intelligenza cinese? Il lettore potr facilmente recar giudizio di ci che il List annuncia sotto il nome d'"economia nazionale". Ogni gran nazione, a detta sua, dovrebbe chiudersi in un recinto, gradatamente respingere con dazi crescenti tutte le merci straniere, per allevare entro il suo territorio tutti i rami dell'industria, ci che egli chiama "educazione industriale". Qualunque perdita di valori questa apportasse alla nazione, non sarebbe da contarsi, purch si svolgessero le forze produttive che tutti i popoli egualmente hanno da natura. Quando fosse giunta a provvedere ai bisogni del suo mercato, si troverebbe s robusta, da poter far diretta spedizione ai popoli delle regioni calde, permutando con merci coloniali il cui largo consumo l'indizio d'un'industria adulta. Ogni nazione dovrebbe far questo commercio con le sue navi e per tal modo avrebbe agricoltura, industria, commercio interno ed esterno e potenza marittima. Quando molte nazioni fossero pervenute a questa piena maturanza, allora finalmente collegandosi terrebbero fronte alla supremazia britannica, costringendola a riconoscere un principio d'universale equit; allora soltanto, compiuti i destini dell'economia nazionale e politica, comincerebbero le funzioni dell'economia umanitaria e cosmopolitica, ossia del libero commercio e della libera concorrenza. Il signor List consiglia dunque tutte le nazioni a limitare volontariamente il loro campo commerciale; a dissociarsi l'una dall'altra.; a lasciare per ora alla supremazia britannica tutto il vantaggio del campo maggiore; e rinchiudersi da s in una crisalide daziaria, che sar l'opera dell'industria, e il suo sepolcro. Egli nota che le nuove dogane russe hanno danneggiato il commercio dell'attigua Prussia. Ebbene, egli dice, che importa questo alla Russia? "Ogni nazione, come ogni individuo, deve pensar prima a s. La Russia non ha incarico di pensare al bene della Germania. La Germania pensi alla Germania, come per la Russia pensa la Russia." Dunque l'egoismo sar la norma delle nazioni perch l'egoismo la morale dei privati! Ma poi vero che la morale privata sia l'egoismo? E dove tutti sono egoisti, non si puniscono essi scambievolmente, lasciandosi l'un l'altro in abbandono? E come mai questo danno si manifesta tutto dal solo lato prussiano della frontiera, e non dall'altro? Il signor List ammette che il vantaggio d'un popolo cresce coll'estensione del suo traffico; ora, i paesi vicini ad una frontiera chiusa possono

commerciare da una parte sola, mentre quelli che sono nel mezzo dello stato possono trafficar liberamente in tutto il loro circuito. Non vede egli come la differenza che si pone fra il centro e l'estremit d'un medesimo stato, ossia fra la capitale e le provincie, mette fra loro una disastrosa inegualit? Il dire che ogni nazione debba intraprendere lo slancio di tutti i rami dell'industria, non quelli che sono pi adatti al tempo, ai luoghi e al graduale sviluppo delle attitudini e delle forze, cio quelli che per fiorire non han bisogno di privilegio daziario, come consigliarla da una parte a preferire i mestieri meno opportuni e di men facile riuscita e lavorare con pi spesa e men guadagno: e dall'altra, consigliarla a sottrarre i capitali ai mestieri pi opportuni e di pi certo evento, ossia limitarne lo sviluppo; poich pur troppo l'industria si stende quanto il capitale. Se il sistema nazionale riservato alle "grandi nazioni", e le piccole ne sono escluse, viene ammesso in sostanza il principio della vastit comparativa del campo. Ora, in paragone alla industria britannica, alla quale dobbiamo far fronte, quali saranno le nazioni grandi, e a qual cifra di popolazione o di territorio cominceranno le piccole? Non vede egli che tutte le nazioni sono gi "comparativamente" piccole, e lo diverranno sempre pi, se l'elemento fondamentale della grandezza rimane privilegio d'una sola? O vuolsi in sostanza tradurre l'idea di "nazione" in quella di stato, oppure attendere che il corso dei secoli abbia fatto coincidere dappertutto i confini degli stati e quelli delle lingue. E in tal caso la dottrina del signor List cade nel regno delle utopie ossia di quei disegni che sono affatto sconnessi dalle reali condizioni dei tempi e dei luoghi. Ma noi abbiam bisogno d'una scienza che ci guidi adesso, e tragga dalle condizioni delli stati presenti le norme d'un possibile e prossimo avvenire. Mentre l'autore isola le nazioni incivilite, togliendo loro l'emulazione e il mutuo ammaestramento, le vuole poi mettere in diretto commercio coi popoli della zona torrida; dividerle dai popoli civili, e stringerle coi barbari. I popoli delle terre temperate devono, egli pensa, esercitare agricoltura, industria e commercio, e col sopravanzo delle loro manifatture andar con proprie navi a trafficar coi popoli delle terre calde, i quali devono attendere esclusivamente alla cultura dei coloniali. Ma il mondo offre veramente questo taglio netto fra le terre temperate e le terre calde? L'indiano non dovrebbe vendere in Europa i suoi preziosi scialli, perch i popoli dei paesi caldi devono essere barbari e poltroni, e vivere coltivando zucchero e caff? Ma che divisioni immaginarie son queste! Nessuno pu affermare ci che il futuro tiene in serbo per i popoli della terra. Chi avrebbe detto a Cesare che l'isola abitata da barbari seminudi e dipinti d'azzurro doveva giungere al dominio dell'India fra l'inerzia delle interposte nazioni? Finalmente il commercio dovrebbe esercitarsi da tutte le genti civili con navi proprie. Dunque il numero delle navi dovrebb'essere proporzionato al consumo, ossia la marina dovrebbe corrispondere alla popolazione. Ogni milione di popolo terrestre dovrebbe dunque aver tante navi quante un milione di popolo marittimo? Il greco e il ligure, figli del mare, dati da tempo immemorabile all'arte nautica, non dovrebbero aver pi navi che il polacco o l'ungaro, se non in quanto consumassero maggior copia di zucchero o di caff, ossia in quanto avessero maggior popolazione? Le attitudini ingenite sono soppresse; i favori della natura sono rifiutati; le indoli nazionali sono sommerse nel principio dell'uniformit universale delle nazioni. Queste sono le ultime conseguenze del principio protettivo, che toglie l'uomo dalle vie per cui la natura lo ha fatto, e lo sospinge zoppicone e ansante per vie

che non sono le sue. I pesci devono volar per l'aria, e li augelli agitarsi nei vortici del mare. Non ha senso l'accusa fatta a Smith che la sua dottrina della libera concorrenza non sia nazionale e politica, ma umanitaria e cosmopolitica, come quella che si indirizza a tutte le nazioni. Anche la chimica e la meccanica s'indirizzano a tutte le nazioni. La scienza una sola. Il diviso lavoro in economia ci che in meccanica il braccio di leva o la macchina a vapore; e chi lo annuncia a tutte le nazioni come verit, non che si divaghi in prematura contemplazione dei secoli futuri, ma addita una condizione suprema della vita dei popoli presenti. L'amore del signor List per il principio nazionale non s'accorda bene colla sua dottrina isolatrice. Se il suo voto che col corso delle generazioni esca dalla fortuita e variabile partizione degli stati un ordine immutabile di libere nazionalit, cominci col non interporre tra i frammenti delle singole nazioni un principio protettivo, che, intercettando le comunicazioni vicinali, disgiunge frattanto ci che egli affetta di voler congiungere da poi. Nel seno della libera concorrenza e al libero spazio, l'uomo sciolto dalle clausure artificiali, tender per natura a aderire al suo sangue e alla sua lingua, senza perci aver la necessit di sprezzare i nodi che per avventura lo avvincono ad un principato o ad una repubblica, che sia comune fra pi nazioni o pi frammenti di nazione. L'avvenire che noi invochiamo quello che agli occhi nostri ebbe gi fausto principio, quando un nome francese s'immortal nella meravigliosa volta sotto al Tamigi, o quando mani inglesi con oro e ferro inglese intrapresero a costruire una rotaia lungo la Senna. Non perci in quest'amore dell'umanit, siamo immemori dell'onore e della vita delle nazioni, n bramiamo che sull'un lido della Manica ammutisca la lingua di Molire o sull'altro quella di Shakespeare. Ma solo in seno alla libera concorrenza crediamo potersi pareggiare le sorti delle minori nazioni e delle maggiori; e raccomandarsi a imperiosa necessit d'interessi la perpetua emulazione dell'industria e dell'ingegno; e dover li arretrati soggiacere alla potenza dei progressivi, o inchinarsi con fervoroso pentimento a imitarli. (Opp. 5V; 141-142; 155-160; 171; 187-192; 204-206). Fra i primi, almeno in Italia, il Cattaneo si rese conto dell'importanza del fattore economico nella determinazione dei fatti storici. Nella sua recensione alla "Vita di Dante" di Cesare Balbo, parlando del contrasto tra guelfi e ghibellini afferma: La mente s'affatica a dipanare quella scarmigliata matassa che il tempo fece dei guelfi e dei ghibellini, quando vennero a intrecciarsi le rivalit marittime, le ingiurie confinali, li avvolgimenti dei trattati e delle leghe, li interessi delle famiglie, le ambizioni dei capitani e i casi delle battaglie. Troviamo ghibellina la pi valorosa di quelle repubbliche, Pisa; troviamo guelfi i signori d'Este e molti baroni d'Apulia. Nondimeno a chi prende le cose dai loro principii e le corre d'un guardo generale, appar chiaro che tutta quella mischia proveniva dalla resistenza che i feudatari delle province dovevano opporre al rinascente potere delle corporazioni cittadine. Erano due mondi diversi, due leggi, due vite, la societ rurale e la societ urbana distese in lungo e in largo per tutta la penisola a combattersi e a divorarsi; erano come una stoffa in cui la trama e l'orditura sono fili di diverso fiocco, e il pi duro rode l'altro e logora se stesso. (Opp. 1, 105-106). La presenza di questo tipo d'interpretazione appare, in questo come in

numerosi altri suoi scritti, a tal modo evidente che ha indotto qualche studioso a collocare il Cattaneo fra i grandi precursori del materialismo storico. Ma il mondo economico non appare al Cattaneo come il concreto terreno sul quale siano profondamente radicate e da cui traggano origine le forze contrastanti che operano nella storia; per lui in ultima analisi solo lo spirito, "la forza delle idee" che, attraverso l'intelligenza degli uomini, plasma il mondo della civilt e lo costruisce, e lo guida verso un progresso sempre pi compiuto: Non v' lavoro, non v' capitale che non cominci con un atto d'intelligenza. Prima d'ogni lavoro, prima d'ogni capitale, quando le cose giacciono ancora non curate e ignote in seno alla natura, l'intelligenza che comincia l'opera e imprime in esse per la prima volta il carattere di ricchezza. (Opp. 5, 368). E, ancora pi decisamente: Nulla accade nella sfera delle ricchezze che non riverberi in essa dalla sfera delle idee. (Opp. 5, 384). Il senso di concreto realismo che gli era proprio, lo portava per, pur nella valutazione delle forze spirituali operanti nella storia, a porre come presupposto di ogni possibile riforma sociale un mutamento dei rapporti economici che deve necessariamente precedere ogni utopistica velleit di "educazione popolare": La via pi diretta per immutare i costumi di una stirpe d'uomini si quella di riformare il loro stato economico, ossia di dare un diverso corso ai loro interessi. Dopo di ci viene il rimedio dell'educazione. (Opp. 4, 155). Cattaneo non giungeva per questo al superamento del suo illuministico concetto di stato come pura mediazione d'interessi e non usciva quindi dai limiti di un ortodosso liberalismo come invece avveniva al Pisacane e al Ferrari per i quali il concetto di libert si veniva ponendo come problema di una concreta libert e quindi come problema di giustizia. Ma se un regime di assoluta concorrenza vale per Cattaneo a regolare i rapporti economici nell'ambito della politica internazionale, esso si manifesta inadeguato e insufficiente a risolvere i problemi sociali all'interno dello stato. Di qui la sostenuta necessit, da parte dello stato, di un diretto intervento a protezione dei miseri e dei diseredati e di un contemperamento fra l'ideale socialista di un'abolizione del capitale e la teoria di un'assoluta libert di commercio dalla cui indiscriminata e rigida applicazione pu derivare il sistematico sfruttamento delle classi meno abbienti. Possiamo giungere a due opposti eccessi. Da un lato sta la dottrina di Sant'Agostino, Sant'Ambrogio e d'altri scrittori dell'infelice loro secolo, che chiamano usura qualunque interesse in qualunque minima misura. "Si plus quam dedisti expectas accipere, faenerator es" (S. Aug.). "Quodcumque sorli accedit, usura est (Sant'Ambrogio). Il qual principio, riveduto nel diritto canonico (Decr. 2, 14, 3), se avesse potuto prevalere nel diritto civile, avrebbe annientato ogni commercio, impoveriti i ricchi e precipitati i poveri in miseria molto peggiore. Immaginatevi che oggid d'un sol colpo si annullassero tutti i prestiti, le accomandite, le ipoteche, i vitalizi, li sconti, i

respiri, i cambi marittimi, le assicurazioni, le sicurt dei fittavoli, le sovvenzioni ai possidenti ed ai filatori, le operazioni bancarie, le casse di risparmio, i monti di piet... Si arresterebbe ogni circolazione; la vita economica della societ rimarrebbe spenta; una irruzione orrenda di miseria e disperazione divorerebbe i popoli e ridurrebbe in poche generazioni l'Europa a una landa incolta sparsa di ruinosi abituri. Dall'altro lato sta la dottrina di Bentham, che la legge non deve ingerirsi a limitare la misura dell'interesse. Col qual principio si arma di tutti i rigori della legge ogni creditore, comunque iniquo possa essere il patto col quale egli stringe il lavoratore, accecato dall'ignoranza e stimolato dal timore della concorrenza. Ambedue le opposte dottrine tendono adunque ad eguagliare la sorte del povero proletario a quella del selvaggio. Cos : fra il ricco, il padrone delle terre, delle case e delle macchine, e il povero giornaliero, senza terra, senza tetto, senza pane, deve per necessit intervenire un principio di equit e di previdenza pubblica, quali li vediamo luminosamente rifulgere nella legge romana. Il fondamento di tali provvidenze, qualunque siano, sar sempre quello di eguagliare le sorti, eguagliando anzi tutte le intelligenze, dacch abbiamo visto qual perpetua corrispondenza sia tra li atti dell'intelligenza e l'acquisto delle ricchezze. (Opp. 6, 410-411). Ecco, schematicamente, la spiegazione storica dell'origine prima delle disuguaglianze sociali: Quella parte di vitto che sopravanza al bisogno del pastore e dell'agricoltore, pu venir destinata a sostenere altre famiglie lavoratrici. Possiamo immaginare che, rinvenuta con un nuovo atto d'intelligenza l'arte di tessere le lane o di conciare le pelli, alcuni uomini venissero occupando in queste arti molte giornate che la custodia delli armenti o la coltivazione del grano han rese libere e tranquille. Possiamo immaginare che altri uomini, divenuti parimenti pastori o agricoltori, ma tuttavia nudi o meno operosi o meno sagaci, potessero, coll'offerta di qualche parte del bestiame o del raccolto a loro sovrabbondante, indurre quei nuovi artigiani a somministrare anche a loro il vestimento. Ecco stabilmente pasciuta e vestita tutta una trib, che nella vita selvaggia era sovente famelica e sempre nuda. Se le cose procedessero veramente a questo modo, se tutti li uomini continuassero nelle vie della giustizia e dell'eguaglianza, le fatiche rese successivamente superflue verrebbero sempre trasferite ad altri generi di lavoro suggerite man mano dalle inesauribili scoperte dell'intelligenza. Ogni uomo potrebbe dedicarsi a quell'opera per la quale avesse pi attitudine e propensione, e potrebbe compierla con maggiore intendimento e maggiore alacrit. Laonde anzich consumare i giorni nel riposo e nel torpore, potrebbe, col cambio del suo lavoro quotidiano, procacciarsi ogni variet di cose utili. Questo ci che gli economisti chiamano la divisione del lavoro; nuovo atto d'intelligenza pel quale l'uomo acquista la facolt di operare con maggior perfezione e velocit, e di ottenere col medesimo sforzo una maggior somma di prodotti. La prosperit di tutti si accrescerebbe ogni qualvolta una nuova invenzione rendesse pi proficuo alcun genere di lavoro, o ne venisse immaginando un nuovo genere. Cos potremmo figurarci le cose in astratto, al modo appunto che sogliono fare li scrittori d'economia, i quali non considerano mai l'uomo nel complesso delle sue passioni. Ma il fatto storico non avvien cos. Una trib di conquistatori riduce in servit un popolo

men forte o meno accorto; si divide le terre e li armenti, lascia ai coloni e ai pastori solo quanto necessario ad una vita miserabile; si appropria tutto ci che sopravanza, sotto nome di tributo, d'imposta, di censo, d'affitto, secondo le diverse istituzioni del tempo. Con questa rendita perpetua, il conquistatore nutre la sua famiglia, i suoi seguaci, i suoi schiavi, e alimenta quelli artefici che gli edificano un palazzo o un castello, o gli apprestano le armi. Egli pu vivere inoperoso, esercitando una fastosa ospitalit, mentre una plebe affaticata e seminuda pi infelice dei selvaggi, perch costretta a vivere nel disprezzo e nell'obbrobrio. Anche quando un popolo non soggiace a violenta conquista, sorgono sempre nel suo seno certe famiglie che col comando delle armi, e coll'autorit delle leggi e delle religioni si pongono sopra gli altri. In ricambio di certi offici, con cui soddisfano ai bisogni morali della moltitudine, essi riscuotono volontarie offerte. Il pastore si crede in debito d'apportar loro le primizie del suo gregge; l'agricoltore le decime d'ogni frutto; il combattente, scampato col pericolo, compie il voto recando ai loro piedi le spoglie dei vinti e le famiglie prigioniere. Colle incessanti offerte le caste dominatrici alimentano gli schiavi che inalzano le reggie, i templi, le piramidi e li obelischi. Cos per vari modi il maggior frutto che la crescente intelligenza insegn a trarre dalle fatiche degli uomini, si divide inegualmente fra loro, a titoli pi o meno giusti o ingiusti secondoch li uomini che vi partecipano apportano in compenso alcun altro lavoro o qualche util funzione, ovvero si fanno la parte del leone. I tributi forzati o le offerte spontanee a poco a poco prendon natura di rendita perpetua. La societ si divide in classi, le une stabilmente misere, le altre stabilmente ricche, e le dovizie si possono anche andare accumulando... (Opp. 6, 399-401). Affrontare il problema sociale necessario ed urgente giacch la assurda presenza nel mondo di una classe di reietti e di affamati rompe quell'equilibrio che invece essenziale alla convivenza degli uomini. La salute del lavoratore soggiace a mille pericoli, alle intemperie del cielo, alle tempeste del mare, agli effluvi palustri, alle esplosioni, alle esalazioni mortifere, al calore delle fornaci, agli effetti d'un'aria rinchiusa e oscura. Alcune arti impongono positure che angustano il respiro, la circolazione, la semovenza; i tessitori, i calzolai, i sarti danno massimo numero d'infermi agli ospedali. La stessa divisione del lavoro, che ne accresce tanto la potenza finale, riduce ciascun uomo a un moto unico e uniforme, sfavorevole allo sviluppo normale delle membra. I legislatori vennero in difesa dei fanciulli, venduti dai padri a precoce e soverchio lavoro. Nel 1833 si viet in Inghilterra d'affaticare i ragazzi minori di nove anni; si ordin che fino ai tredici non lavorassero pi di 48 ore per settimana, ripartite in non pi di 9 ore al giorno; e che prima dei diciotto anni non lavorassero pi di 69 ore, ripartite tutt'al pi in 12 per giorno; si viet il lavoro notturno, tra le otto e mezzo della sera e le cinque della mattina; si prescrisse per la refezione il riposo di un'ora e mezzo; e per sottrarre i giovinetti all'abbrutimento in cui crescevano, si prescrisse ai padroni di mandarli almeno due ore alla scuola. Senza ci l'interesse dei manifattori a tenere in continua operazione le macchine per cavare maggior frutto dai capitali milionari in esse investiti, avrebbe operato una degenerazione morale e corporea di tutta la pi misera plebe. N vuolsi credere che i lavori a cielo aperto siano sempre salubri.

L'eccessiva fatica delle messi, l'assiduo sole, il mal cibo, le pessime acque, lo spurgo dei fossi, le influenze autunnali, la nudit dei piedi, l'umidit delli abituri e altre cause molte rendono le morti pi frequenti nelle campagne che nelle citt. Questo si avvera anche fra noi. La Francia, ove la popolazione agricola a proporzione il doppio che in Inghilterra, soffre mortalit molto maggiore; e fra i suoi medesimi dipartimenti, alcuni di popolazione principalmente industriale contano una sola morte sopra 46 e 48, ed anche 50 e 58 abitanti; intanto che altri di popolazione affatto agricola perdono annualmente una vita sopra 30, sopra 29 e perfino sopra 26. Cos la statistica dissipa le illusioni nate dall'amenit campestre. Pur troppo la mortalit va compagna all'indigenza. Considerate le liste dei morti nei quartieri di Parigi: se ne conta uno sopra 52 abitanti nel circondario primo; sopra 48 nel secondo, sopra 43 nel terzo; e sono i luoghi abitati dalle famiglie facoltose; ma ove molta la poveraglia, si trova un morto sopra 30 abitanti nel circondario nono; sopra 28 nell'ottavo, sopra 26 nel duodecimo; cosicch in questo le vittime della morte sono in misura doppia che nel primo. E nel quartiere stesso ove la strage minore, fra i pochi poveri che vi abitano la mortalit appunto d'uno sopra 28. Le malattie trovano i poveri gi fiacchi ed avviliti, senza agi e senza soccorso; il passaggio all'ospedale gi strapazzo, massime quando venne ritardato da repugnanza o affezione domestica; il distacco dalla famiglia e l'improvviso e vasto spettacolo dei malori e delle morti abbattono l'animo e affrettano le mortali estremit. Povert l'aver poco; indigenza mancare delle cose necessarie; la povert che non pu pi sostenersi colle sue braccia diviene indigenza; se prima bastava protezione e lavoro, ora le si deve alimento e asilo. Il povero sempre sospeso sull'orlo di questo precipizio; bastano le infermit, li anni, la troppa famiglia, il rigore d'una stagione, un contratto imprudente, un trascorso, una carestia, un contagio, un'invasione nemica, un arenamento d'opere o di commercio; e l'angusto confine che divide la povert dall'indigenza varcato. Il focolare domestico si circonda di lamenti, di rimprovero, di amarezze; lo scarso vivere logora le forze e l'alacrit; l'umiliazione conduce all'isolamento; priva d'assistenza e di consiglio; il perpetuo bisogno doma l'animo, snerva l'onore, e consiglia alla mendicit, alla prostituzione, al delitto. Le guerre, le inondazioni, gli incendi, le grandini, i disastri commerciali, le morti dei padri di famiglia avverano ad ogni momento queste calamit. Qual' il grado di stento al quale una famiglia pu resistere? Quali sono le necessit della vita? Un selvaggio si sdraia in una spelonca, va nudo alle intemperie, si nutre d'ogni schifezza, manomette perfino la carne umana. Ma in seno alla civilt, in mezzo a campagne ridenti e citt sfarzose e liete, il povero deve avere un tetto, qualche suppellettile, un po' di fuoco, un po' di lume; e per essere accolto fra i suoi simili alle opere della vita, deve mostrarsi vestito com'essi. E se la sorte, o la malizia altrui, o la sua colpa, lo ha fatto cadere da un certo grado d'agiatezza, deve conservarne pure qualche faticosa apparenza in s e nei suoi; altrimenti cadrebbe in disprezzo e abbandono. Questi bisogni d'opinione e d'uso non si possono sottomettere a misura. Un cittadino non pu correre scalzo, bench la calzatura non sia natural necessit, e i senatori antichi camminassero onorati a gambe nude; una donna in citt non pu uscire senza certa acconciatura; in certi paesi si pu vivere di pane, di patate, di castagne; ma in altri le abitudini universali ingiungono men ruvido alimento. Una persona che mostri di non avere ci che tutti hanno mirata con disprezzo e vorr, finch ha forza, preferire piuttosto la fame e la sete; e non ceder se non piombando ad un tempo

stesso nell'avvilimento. Le cause della miseria non sono le medesime presso ogni nazione. Alcuni la videro principalmente nell'ignoranza delle plebi, altri al contrario nei subiti lumi che le svegliarono dalla nativa stupidezza e l'accesero di nuove brame; altri nelle tasse male assestate e gravitanti sulle necessit della vita; alcuni nell'uso delle macchine, altri nella loro insufficienza; alcuni nella ineguaglianza delle fortune, altri nella loro suddivisione; alcuni nel predominio delle grandi industrie collettive, altri nella loro mancanza; alcuni nella concorrenza delli stranieri, altri nel sistema protettivo che soffoca il commercio e nutre l'indolenza e il monopolio; alcuni nella spinta data ai matrimoni dei miserabili, altri nelle dispendiose formalit che li rendono malagevoli, e fomentano la prostituzione, il concubinato, l'illegittimit; altri nella soverchia libert lasciata ai poveri e nella loro affluenza alle grandi citt; altri nelle vessatorie limitazioni di domicilio. I pi trovarono nella disordinata profusione dei soccorsi un perfido incentivo dato agli indigenti a riposarsi sulle braccia altrui, e chiamarono l'elemosina un commercio che nutre l'avvilimento, l'ozio, l'immondezza dei pitocchi, e l'albagia del ricco. Altri cercano cause pi profonde nell'ordinamento sociale; e li uni mostrarono speranza della civilt che moltiplica le ricchezze e le divide; gli altri videro nei poveri un'orda di barbari, che, surgendo per ogni parte, deve sommergere ogni propriet e ogni cultura. In mezzo a codesti dissidi alcune verit scaturiscono limpide; e appare indubbiamente agevole l'educazione dei poveri, la repressione d'ogni mendicit, la fondazione delle casse di risparmio e delle compagnie di mutuo soccorso, le ritenute sui salari degli impiegati da rendersi in forma di pensione, e le altre istituzioni siffatte, le quali avviano il privato a provvedere da s, ponendo in serbo i mezzi d'onorato riposo. (Opp. 5, 314-316; 306-307; 304-305). Ma dove i poveri vivono d'infimi salari e di vil cibo, a tutto domi dell'animo e abietti della persona, moltiplicandosi sulla paglia come i conigli, e radendo gi nei tempi d'abbondanza l'ultimo limite del bisogno, ogni difficolt diviene in breve carestia, e ogni carestia diviene fame e morte. Niente di pi stolto del ricco che trova troppo buona la minestra del contadino! (Opp. 3, 343). Chi si oppone al progresso e alle conquiste popolari per cieco attaccamento alla tradizione o per egoistico interesse, vivr nella sua patria come uno straniero, nemico del popolo stesso cui appartiene. E la lotta delle classi povere per il benessere e per una forma pi alta di vita non pu apparire, a una spassionata considerazione, come la lotta dell'egoismo di chi non ha contro l'egoismo di chi possiede, perch in essa si realizza, assieme a una serie di aspirazioni particolari, quel pi vasto ideale di libert che comune a tutto il genere umano. Il 24 febbraio 1848 fu il primo giorno d'un'ra nuova. Per la prima volta si vide in Francia un operaio chiamato a sedere fra i governanti; il miglioramento del destino degli operai fu posto fra i doveri della societ e dello stato; e fu riconosciuto, in quanti cittadini avessero anno ventuno, il diritto d'influire al pari degli altri sulla cosa pubblica. E cos quel quarto ordine, che nel 1789 restava confuso in un comune involucro col terzo stato, cominci a divenire un principio determinante delle nuove istituzioni. Operai siamo tutti quanti, se prestiamo util opera all'umanit. E se alcuno promuove la influenza delle classi laboriose nell'ordine legislativo,

egli non fa opera di discordia, ma di giustizia e benevolenza. L'unica forma con cui pu esercitarsi il comune diritto di tutta la nazione sulle proprie sorti il suffragio universale diretto, esclusi tutti i sotterfugi che vennero inventati dai falsari del pubblico voto. Ma il suffragio universale non una verga magica che possa preservare i popoli da un momentaneo errore. Due volte la Francia coll'universale suffragio trad se stessa, nel 1848 e nel 1849; ma infine col suffragio ristretto non avrebbe avuto una risultanza migliore. Or non pu, nel lungo corso del tempo, il suffragio universale andar sempre errato; esso come quella lancia che doveva sanar da ultimo le ferite che aveva fatte. Non pu, a lungo andare, il corpo degli eletti non corrispondere in qualche modo al corpo che li elegge. Ad alcuni sembra pericoloso il principio d'affidare i destini della societ alla numerica maggioranza degli interessati; alcuni hanno osato dire che fosse un nuovo modo di barbarie. Non fa meraviglia che siffatti errori siano diffusi in una societ che riceve dalla mano dei privilegiati l'impronta delle sue opinioni. Alla fine dello scorso secolo, s'era divulgato, per opposte influenze, l'opposto pregiudizio che ogni virt fosse nel popolo e ogni corruttela nei grandi; era promosso dalla lettura delle opere di Rousseau. Era il rovescio della beata fiducia che fa oggid ad alcuni riputar delitto il dubitare della virt dei governanti. Fichte pensava che nei grandi fosse maggiore la corruttela perch maggiore era l'egoismo. Qui si pu domandare perch l'egoismo non debba parimenti regnare anche nelle classi povere nelle quali inoltre non pu venir corretto da un'accurata educazione. Ma si pu rispondere, che quando la comune istoria del genere umano tende alla progressiva abolizione dei privilegi, chiunque abbia interesse alla loro conservazione, e non sappia sollevarsi col pensiero sopra il suo io, facilmente farassi ad avversare il progresso del popolo. E allora facilmente si trover in opposizione coi pi generosi e benefici pensamenti; si attrister, se si avverano; si consoler, se falliscono; dar opera a rallentare ogni riforma, a fomentare il ritorno al passato; vivr come se fosse in terra di nemici; e il nemico suo sar il suo popolo, pel cui bene sarebbe appunto virt operare e patire; dovr velare codesto malaugurato odio colle apparenze della ragione; e pertanto dovr porsi in interno contrasto colla sua mente e colla sua coscienza, e avvezzarsi a vedere in ogni cosa solamente il nudo suo vantaggio. Tutto ci conduce a spregiare ogni ideale della vita, a parlarne con sorriso di piet, a farsi dell'egoismo quasi una sapienza e una religione. Nelle classi povere pu bene allignare l'egoismo; ma non pu unificarsi collo spirito di casta; perch in quanto il povero s'interessa all'intiera sua casta, s'interessa anche senza volerlo, alla pi larga cultura di tutta la nazione; e asseconda, anche senza saperlo, il fine supremo del genere umano, che consiste appunto nel massimo sviluppo della ragione e della libert. La sua causa adunque non quella dell'egoismo; e la causa di tutti; la causa del genere umano; le sue passioni personali consuonano alla pi sublime umanit. L'influenza del quarto stato della societ promette adunque di avviare il genere umano ad un pi largo campo di cultura e di moralit. La cittadinanza ricca altro non dimanda alla legge che libert e sicurezza nell'uso delle proprie facolt. Invero se tutti fossimo egualmente forti e ricchi e intelligenti, potremmo viver tutti comparativamente felici; ma ci non ; poich il forte, il ricco e il sagace si pongono al di sopra del debole, del povero e dell'ignaro; i quali solamente all'ombra della legge possono ottenere eguaglianza e reciprocit. A ragione un pensatore vivente scrive che "l'idea dello stato debba sublimarsi fino a divenire una istituzione nel cui seno possa svolgersi tutta la virt di cui l'umanit capace" (Boeck

Universal Festrede). L'istoria una guerra dell'uomo coll'inospite natura, colla miseria, coll'impotenza, coll'ignoranza, in cui con assidue vittorie egli effettua il lento progresso della sua libert. In seno alla societ, l'individuo moltiplica a mille doppi le native sue forze; essa non solamente deve assicurare la persona e i beni che egli le apporta; ma deve procacciargli una somma di cultura, di libert, di potenza alla quale non potrebbe in altro modo pervenire. E qui noi vogliamo ricordare ai pensatori e agli amici del povero, che, mentre una gran parte degli operai, propriamente detti, mostra di aver acquistato quella chiara coscienza di s e del suo diritto, a cui non si potrebbe senza ingiustizia e senza temerit negare una legale espressione, la maggioranza degli agricoltori giace ancora in s negletta e barbara condizione, che fra poco si dovr per essi introdur l'idea di un quinto stato della societ. E pi in basso ancora, molto pi in basso delle famiglie indigenti e laboriose, giacciono gli inabili, i mendicanti, i reietti, tanto pi numerosi in verit quanto pi le nazioni sono opulente e superbe. Ed ecco adunque un sesto stato. (Scr. pol. 3, 325-328). Cos scriveva il Cattaneo esponendo e commentando un opuscolo di Lassalle ("Gli operai nel mondo moderno"). E se la lotta delle classi proletarie per il Cattaneo, come per il Lassalle, lotta di liberazione, libert e diritto devono esserne i presupposti ed i fini: Lo scioglimento delle contraddizioni sociali non si pu conseguire in mezzo alla scambievole opposizione e all'eterna oppressione dei popoli; esso vuole le loro eguaglianze, la loro libert; vuole il trionfo del diritto in tutta l'umanit. Una sola e medesima legge deve legare l'uomo singolo alla famiglia, al popolo, alla nazione, al genere umano. Questo l'ultimo sviluppo della legge unica della creazione. (Opp. 6, 243). NOTE. Nota 1. Propriet delle molecole di ritornare al loro stato primitivo quando sia tolto l'impedimento che le gravava. Nota 2. Misura lineare corrispondente a 1 metro. Nota 3. "Das nationale System der polilischen Oekonomie" eccetera, Stoccarda e Tubinga, presso Cotta, 1842.

PAGINE DI STORIA. Una particolareggiata conoscenza dei fatti e delle fonti, una profonda seriet morale, una evidente capacit critica di problematizzare il dato storico mettendo in rilievo i lati e i motivi diversi della sua sempre complessa struttura, fanno di Cattaneo lo storico italiano pi esperto e pi acuto del secolo decimonono. Quella robusta capacit di scrittore e quello stile limpido e sobrio che gli sono propri, quel pacato spirito positivo che il fondamento essenziale della sua personalit, sono gli aspetti pi facilmente

rilevabili nelle sue pagine storiografiche che non esaltano o commuovono, ma incidono profondamente sul lettore-attraverso un ragionare sottile, sempre impegnato nei fatti e nei problemi e quindi sempre efficacemente persuasivo. La storiografia illuministica era espressione di quello spirito di critica radicale che sottoponeva al vaglio della ragione la realt del mondo degli uomini. E questo il compito che anche Cattaneo si propone. Ma sulla dissoluzione di un mondo che si rivelava distante e non rispondente agli schemi d'una astratta ragione, l'illuminismo andava vagheggiando il ritorno ad una mitica et primitiva, fatta di bont, di libert e di eguaglianza. Per il Cattaneo si tratta invece di comprendere e non di condannare il passato: le istituzioni umane trovano la loro eterna validit nella precisa determinatezza di un definito periodo storico e in tale relativit esse vanno comprese e valutate. Il progresso e la perfezione sono innanzi e non dietro di noi, nella nostra stessa infinita e faticosa ricerca di forme pi alte di convivenza umana. Se nel secolo sedicesimo, che fu il primo dell'ra moderna, la ragione individuale aveva ardito farsi a discutere popolarmente li arcani religiosi, e nel diciassettesimo li asserti delle scuole filosofiche, nel diciottesimo ella estese quell'aspro sindacato a tutte le instituzioni civili. Sommo divenne il contrasto tra la vita degli uomini e i loro pensieri. Vivendo in mezzo all'intreccio dei vincoli sociali, quelle menti animate dai geometri e acuite dal calcolo mercantile, osarono dimandare se, e come, e quanto ciascuna instituzione giovasse ad ogni individuo partecipe della civile aggregazione. Tutto si valut dunque col giudicio individuale e giusta l'individuale interesse. Si consider la societ come un patto fra eguali; si domand la revisione del patto, il ritorno all'eguaglianza primitiva, la restituzione dello stato naturale del genere umano. Le predilezioni delle scole e l'inesplicabile eccellenza delle arti e delle lettere antiche sospinsero a imaginare un mondo primitivo, educato nelle lingue, nelle arti, nelle scienze, nelle leggi da una serie di genii benefici, l'opera dei quali sotto lo sforzo della superstizione e della violenza fosse venuta oscurandosi successivamente fino alle caligini del Medio Evo, ma potesse coll'opera d'altri genii rivocarsi in breve, e quasi di repente, al nativo splendore. Vi fu perfino chi prefer ad una fattizia civilt, ingombra dei ruderi d'ogni tempo e piena d'ingiustizie e di corruttele, la semplice e pura vita, che li uomini dovevano aver gioito prima del patto sociale in seno alla primigenia selva della terra. Adunque lo sforzo capitale del pensiero umano nello scorso secolo diciottesimo era una generale censura delle instituzioni del tempo, nel senso d'ogni individuo, e all'intento di ristaurare il regno della logica naturale e della personale indipendenza. Nel secolo presente vi fu quasi un riflusso del pensiero umano in contrario verso. Si trov che l'utile d'ogni individuo scaturiva dal complesso dell'azienda sociale, n poteva avverarsi mai nella solitudine o nel dissociamento. Le pi complicate instituzioni apparvero necessarii effetti del consorzio civile e forme della sua esistenza. Si vide che certe consuetudini erano scala e preparazione ad altre migliori, alle quali i popoli non potevano giungere altrimenti; e cos si vennero spiegando e giustificando certi ordinamenti transitorii, che in faccia ad una logica immediata sembravano assurdi e barbari. Viceversa s'intravide sotto lo splendore delle libert antiche la oppressione e la servit delle moltitudini, e nella dolorosa ruina di quelle meravigliose civilt si riconobbe un evento che poteva condurre all'emancipazione degli oppressi. La consolante dottrina del progresso si svolse dal seno dell'istoria; si

vide il genere umano elevarsi dalla ferocia del vivere ferino attraverso alla guerra, alla schiavit, alle devastazioni, alle tirannidi, ai supplicii, alle torture, sino all'effezione graduale dell'utile, del giusto, dell'equo, del bello, del vero, della pace della carit. Allora si rallent quell'inesorabile censura, spinta dai nostri padri nel diretto interesse dell'individuo; e in quella vece si promosse un'interpretazione benigna, benigna forse oltre misura, di tutte le transazioni scalari e successive della civil societ; si giustific il senso comune dei popoli, che aveva sancito e venerato ci che era rispettivamente opportuno ai luoghi e ai tempi; e le leggi pi celebri apparvero piuttosto frutti d'una certa graduale maturanza d'interessi e d'opinioni, che liberi decreti della mente individua dei legislatori. Perloch la tendenza pi comune del pensiero istorico in questo secolo diciannovesimo una generale spiegazione delle successive forme civili, in quanto promuovono gradualmente lo spontaneo sviluppo dell'individuo e il suo bene, nello sviluppo e nel bene dell'intera societ. Questo comune movimento delle dottrine filosofiche e istoriche nell'et nostra si diram poi per molte strade assai divergenti. Li uni mettendosi a tutta carriera nella idea delle successive evoluzioni sociali, vollero stringere un corso di secoli in poche giornate, e s'appresero di slancio al sogno d'un incivilimento nuovo e inudito, senza famiglia, senza eredit, senza propriet. Altri al contrario acquietandosi nella generale giustificazione dei fatti, e confidando nel genio naturale delle moltitudini, e nella forza ingenita che spinge le cose al compimento d'un ordine prestabilito, ricadono nel fatalismo dell'Oriente, e maledicendo alla virt infelice santificano la vittoria e adorano la forza. Altri fraintesero la giustificazione istorica del passato; e vi supposero la necessit di ritornare le cose ai loro principii; e vanamente additarono, come mta ad un viaggio retrogrado dell'umanit, ora l'una ora l'altra delle et gi consumate. In mezzo a queste aberrazioni, i pi veggenti sanno congiungere la fiducia nel progresso alla paziente accettazione delle lente e graduate fasi, e alla critica proporzionale e perseverante, ch' pur necessaria a promuoverlo. Essi sanno discernere le instituzioni transitorie e caduche da quelle senza cui l'umano consorzio non regge. Essi nutrono la generosa persuasione che l'individuo non sempre cieco strumento del tempo, ma una forza libera e viva, la quale tratto tratto pu far trapiombare la dubbia bilancia delle umane cose. Questa scola pratica, che studia il campo della libert umana nel senso della necessit e del tempo, deve librarsi tra la violenza logica delle dottrine passate, e l'indolente e servile ottimismo delle dottrine che si levarono sulla ruina di quelle. Certamente le scienze umane non ebbero mai studii pi sublimi, poich essi non riguardano l'una soltanto o l'altra particella delle cose di quaggi, ma contemplano quasi da un seggio elevato ne' cieli il corso universale del genere umano il quale solamente "sotto certe leggi e con una certa serie d'evoluzioni" a poco a poco trae dall'infantile ferocia del selvaggio e dalla squallidezza nativa del globo i popoli, i campi, le citt, le arti, le scienze, i costumi. Le pi minute questioni, che tuttod si levano sui particolari interessi dei consorzi civili hanno tutte la pi profonda radice in queste speculazioni, che l'intelligenza volgare chiama vane e arbitrarie perch non le comprende. Quanti grandi disegni, quanti progetti d'innovazione e di restaurazioni di nuove civilt, di vaste colonie dopo immenso e doloroso dispendio di tesoro, di pace e di sangue, tornarono in vituperevole nullit, perch ripugnavano al corso obligato delle nazionali evoluzioni, che la scienza non conosceva peranco, e l'arte dello Stato non poteva perci introdurre ne' suoi

computi preventivi! E al contrario, quante volte i furori della superstizione, li eccessi della forza, le depravazioni del malgoverno, le lunghe e pertinaci macchinazioni della cupidigia concorsero a fondare un ordine di cose affatto opposto a quello che si era voluto! Quante volte le violenze del fanatismo prepararono inaspettate le transazioni della tolleranza, li oppressori crearono la forza morale che produsse l'emancipazione, le repubbliche municipali fondarono la potenza e lo splendore delle monarchie, e il concentramento del potere dispose il campo alla libert popolare! Li studii istorici, i quali nel secolo scorso prendevano di mira principalmente i fatti che riguardano direttamente il bene e il male dell'umanit, tendono nel nostro secolo a chiarire piuttosto le indirette e tortuose vie, per le quali il genere umano s'avvi d'errore in errore e d'eccesso in eccesso verso la mta della scienza e della civilt. (Opp. 6, 74-77). Le leggi sono a riguardarsi come frutti di stagione, e come effetti obligati d'innumerevoli e recondite cause; ed somma stoltezza il dispregiar le leggi sotto cui vissero i nostri maggiori. Il progresso dell'umanit faticoso, lento, graduale. I nostri padri ci hanno tramandato un tesoro inestimabile di dottrine, di arti utili e di generosi esempli. E debito della posterit essere riconoscente alle loro fatiche, compatire alla sventura che ebbero di non vivere in giorni migliori, e di consacrare la loro vita ad aumentar col dovuto obolo il deposito sacro del sapere universale e della comune prosperit. (Opp. 4, 27-28). La storia, cos intesa, cessa di essere edificante saggezza ed evasione da un concreto impegno nel mondo, ma diviene la forma pi reale di tale impegno, una "scientifica intelligenza" dello svolgersi della societ umana, un chiarimento a noi stessi della nostra situazione e del nostro destino. Li antichi, presso cui li studi erano per lo pi riservati alle famiglie potenti, consideravano l'istoria come maestra della vita civile, e tesoriera di consigli e d'esempi tra le procelle della cosa pubblica; epper coltivavano solo quella dei popoli a loro pi simili, e pi atti a porger loro imitabile modello. Dei fatti delle altre genti poco si curavano, come d'oggetto diviso dai loro costumi, e inutile ai propositi dell'ambizione. Ma noi che siamo surti su le confuse ruine di tante civilt, intrecciando al municipio, alla famiglia, alla possidenza delli antichi Europei le scienze nate nell'Oriente, ornando colle architetture dei Greci i templi ove andiamo a salmeggiare coi cantici d'un re d'Israele tradutti nella lingua del popolo di Roma: noi dopo aver conquistato il diritto degli studii anche alle pi oscure fortune, non cerchiamo tanto nell'istoria l'arte di governar la patria, quanto l'astratta e scientifica intelligenza delle complicate cose tra cui viviamo, e quei vaghi presagi ch'ella pu riverberare sul corso generale dei nostri destini. (Opp. 3, 25). Il dominio dell'aristocrazia sacerdotale nell'antico Oriente: Certo che nelle tenebre dei tempi primitivi, quando in Occidente non v'erano ancora grandi consorzii di nazioni, ma minute trib e discordi favelle, gi grandeggiavano nell'Oriente vastissimi regni sacerdotali, che si stendevano lungo il Gange, l'Indo, il Mar Caspio, il Tigri, l'Eufrate e nell'alta valle del Nilo. Presso tutti quei popoli una casta studiosa, resa veneranda dalle insegne sacerdotali, e fattasi interprete delle parvenze celesti, impone alle genti il suo precetto come una parte dell'ordine necessario dell'universo. Essa colla cognizione del surgere e

tramontare delli astri, colla divisione artificiosa dell'anno, colla perizia dell'alterno incremento dei fiumi, coll'arte di derivarne le acque e fecondare aride lande, si fa suprema maestra delle arti, e signora della vita dei popoli. Dopoch il precetto sacerdotale afferr le menti della maggioranza, nessun uomo pu uscire dal limite che gli si assegn nell'ordine della vita; nessuna mente pu alzarsi e lottare col plumbeo consenso delle moltitudini, colla sagacit degl'imperanti, e colla potenza della natura, che quasi obbediente alla presaga parola, si annuncia tratto tratto bieca a minacciosa. Tutto vien prescritto anzi tempo; le cerimonie sacre a poco a poco involgono tutti li atti della vita; l'ordine insuperabile delle caste soffoca col terrore dell'isolamento e dell'infamia ogni conato dell'arbitrio umano. Le generazioni si succedono rigidamente uniformi; i vivi ripetono i morti; i secoli scorrono indarno sulle menti, che stanno immobili, inconscie dei sublimi doni del pensiero; la ragione, questa fioca imagine della divinit, rimane quasi impietrita, ed appena riflette sui bisogni della vita giornaliera il cieco corso dei moti terraquei. L'anima geme sotto il peso dell'universo. Tuttavia sotto quella tetra disciplina la civilt si diffonde su la terra selvaggia, irretisce a poco a poco le feroci orde che vi si andavano divorando, le lega all'aratro, le ammaestra in cittadinanze; muta le paludi in prati, le lande in campi, le selve in vigneti; congiunge con ponti e vie le divise contrade; spegne le discordi favelle delle trib nel consorzio d'una vasta lingua; scopre la pi che umana arte di scriverla: ammanta delle sue cifre li obelischi, le pareti dei templi, e i penetrali dei sepolcri; e coi canali diffusi sul piano, e colle alte moli su cui s'inalza a contemplar l'orizzonte, mette le fondamenta a nuove scienze. (Opp. 3, 29, 30). Il processo di unificazione dell'Europa sotto il dominio romano: I popoli pi antichi d'Europa, Etruschi, Greci, Liguri, Celti, ancora vergini di conquista o almeno non congiunti in servaggio ad altre genti, formavano ciascuno in s un tutto proprio, bench compartito in varie membrature. Vi era un corpo di ottimati, un popolo e un famulato; questi ordini talora erano nati dalla violenza, ma si erano fusi dal tempo; v'era un corpo unico di leggi, di riti, di tradizioni confluite da varie parti per varie oscure vicende, ma appropriate alla nazione. Le ragioni della legge si prendevano tutte nel seno della nazione stessa. E bench la civilt si fosse propagata da popolo a popolo, pochi di essi sapevano l'origine straniera dei loro instituti, e nelle pubbliche urgenze non risalivano alle fonti rimote o primitive. Venne la conquista romana. In grembo ad essa tutti questi sparsi nodi di popoli si disciolsero come le masse saline nella vastit dei mari. La legislazione romana fu in continuo progresso, trasmutando prima le prerogative dei patrizi in diritto civile, e poi le prerogative della cittadinanza romana in sudditanza uniforme. Cos nelle provincie gli ottimati, perduto il predominio militare e sacerdotale, divennero meri possidenti, rivestiti tutto al pi di rappresentanza municipale; cangiarono vesti e modi e pompe; si trasformarono in vani riverberi del Senato romano. Il famulato si sciolse; sottentrarono gli schiavi venali fortuitamente congregati da ogni popolo dell'universo, stranieri alla terra, stranieri ai padroni, stranieri fra loro, massa informe senza affezioni e senza opinioni. Il popolo rimase senza capi, e non pi ristretto in s per unit politica cominci a varcare l'angusto circolo municipale, a espandersi sullo spazio dell'immenso imperio, a formare ammassi fortuiti intorno alle piazze d'armi dette colonie, o sui crocicchi delle grandi vie militari, o presso ai ponti

di quei gran fiumi che separano colle loro paludi le nazioni barbare, e riuniscono colle navigazioni le genti incivilite. Per intendersi sui mercati, sulle vie, nelle colonie, si sforzarono fra tanta variet di linguaggi a parlare con vocaboli romani, mal uditi, mal pronunciati, e combinati senza sintassi nell'ordine pi semplice e pi facile. Obliarono i riti patrii o non seppero pi come debitamente adempierli in tanta novit di luoghi e di persone; n pi v'erano inflessibili ottimati che imprimessero nelle surgenti generazioni le tradizioni avite, e precedessero con pertinaci esempi. Ne venne confusione di nomi e di tradizioni e di riti; ne venne una credenza ineguale, incerta, le cui parti erano incompatibili, che riesciva assurda a se stessa, che non inspirava n fiducia n riverenza. La gente pi culta correva a cercare una persuasione o nelle stte filosofiche che promettevano di consegnare la verit aperta, o nei misteri arcani che promettevano la manifestazione della verit figurata. Queste dottrine palesi o recondite spingevano all'unit; perch redimendo dalle pratiche cieche, richiamavano al dominio della intelligenza e della ragione, il cui fine ultimo l'unit, cio il vero. Quindi si tracciarono in Europa quattro grandi unit, cio quella del "potere" nell'autorit imperiale, quella delle "leggi" nel diritto romano, quella della "credenza" nella fede cristiana, quella della "lingua" in un latino popolare e snodato. Invano gli uomini si assottigliarono l'intelletto a crear stte e divisioni. Invano i capitani goti e franchi assunsero il titolo di re, e si sbranarono le provincie. Essi ponevano sulle monete il loro nome, ma non osavano cancellarvi le insegne dell'imperio; parlavano gotico nei malli (1) e nei campi, ma non curavano scriverlo; scrissero in latino anche le loro costumanze avite; scrittura e lingua latina sembrarono cose indivisibili. I Goti si procurarono la versione di qualche libro sacro, ma i Franchi gi si dicevano cristiani da quattrocento anni quando ebbero i primi testi nel loro incondito e malcerto dialetto. I barbari introducevano nel mezzod la legge della vendetta privata, e insegnavano a bere nel cranio dei nemici, ma professavano la legge del perdono. Essi erano profondamente imbevuti dell'idea di una legge e di una autorit eccelsa e sovranissima che signoreggiava come dalle altezze del cielo e dalle viscere della terra la loro imperfetta nazionalit. Il sacerdozio, depositario della lingua una e della fede una, divenne inconscio interprete anche dell'equit una; tradusse le Pandette in Diritto canonico, e mantenne viva la tradizione dell'unit imperiale. Per tutto ci le novelle nazioni d'Europa non poterono pi divenire tanti corpi separati con una esistenza tutta propria e nazionale, come si vedeva nei popoli primigenii. La universa popolazione d'Europa era divenuta una massa in cui i vari principii erano mescolati in una proporzione quasi uniforme dappertutto. Dappertutto s'incontrava il cristiano e l'ebreo, il laico e il clerico, la scrittura latina e le denominazioni gotiche, i testi civili e le "saghe" barbariche, il diritto e la violenza, le instituzioni municipali e la conquista; una rimanenza indelebile di pratiche domestiche, agrarie, mercantili e fabrili; e sopra ogni cosa, l'idea di una comune suprema ragione imperiale e romana. (Opp. 4, 169-172). L'anarchia feudale e l'alba del mondo moderno: I re longobardi non potevano tener fronte a Carlo Magno, perch il loro regno non aveva carattere nazionale, "ma" dopo Carlo Magno pi non vi fu autorit publica in Europa. I re parziali erano distrutti; il re centrale non poteva in tanta selvatichezza di tempi, senza strade, senza commerci, senza tesoro, senza esercito stanziale dominar

cos lontano. Ogni capitano, ogni possidente comand dove si trovava. Sismondi ha dimostrato che la Francia per pi secoli non ebbe n legislatori n leggi. In seguito per necessit di sicurezza si confederarono in gremii feudali; e crearono senza saperlo un sistema. Ma questo sistema era fortuito e tumultuario. I confini delle nazioni eran promiscui. Parte della Francia era unita all'Inghilterra, parte all'Aragona, parte allo Stato Pontificio, parte alla Germania; il resto era diviso fra i re, i duchi e i conti di Francia, di Borgogna, di Bretagna, di Tolosa, di Provenza, di Fiandra. Cos altrove. In mezzo a quell'anarchia, ognuno segu le proprie tradizioni. In luogo dell'equit, dominarono le consuetudini dei forti e le colleganze dei deboli. Quindi due fonti principali di leggi: il costume e gli statuti. I castellani, informe esercito disseminato su tutta la superficie del paese, formarono il gius feudale. Il sacerdozio promulg il "diritto canonico", adattando successivamente i principii romani alle esigenze della fede e della gerarchia. Nelle citt i mercanti e gli artigiani tennero il "diritto municipale". I naviganti, toccando nel giro di un anno pi porti e pi nazioni, sublimarono le pratiche commerciali in "diritto marittimo". Ogni corporazione stabil una pratica che scritta divenne "regola" o "legge". Ogni ordine monastico ebbe regole proprie e nome ed abito distinto, sicch fu necessario limitarne con prammatiche il numero sempre crescente. Gli ordini cavallereschi attrassero colla variet degli instituti, dei privilegi, delle insegne la bisognosa giovent, a cui il sistema feudale negava la debita parte della terra paterna. Tutta l'Europa si trov schierata in corporazioni mercantili, fabrili, nautiche, cavalleresche, monastiche, universitarie. Ma tutte le regole, i diritti, i privilegi non si accordavano armonicamente fra loro. Nel medio evo un uomo professava di vivere colla legge romana e un altro colla legge longobarda. Si vedeva un barone far decidere le liti col duello sulla piazza della chiesa, mentre nella chiesa si leggeva la scomunica contro i duellanti. Vicino a un porto ove i naviganti avevano una sicurezza, un uomo autorizzato dalla legge raccoglieva le spoglie dei naufraghi. Qua un barone non conosceva eguali nel suo distretto; l beccai e ciabattini collegati in corporazioni con armi e bandiere pattuivano con baroni e con re. I regni del medio evo erano accozzamenti fortuiti e tumultuari. I vari ceti coesistevano in una perpetua lotta, ora palese e armata, ora involuta nei contratti e nelle legislazioni. (Opp. 4, 172-174). L'anarchia del medio evo aveva formato e nutrito tutte queste colleganze. L'azione governativa dell'evo moderno le sciolse. Il privato, sentendosi protetto e sicuro, trov nelle corporazioni, nei privilegi, nelle privative, nelle proibizioni una molestia inutile. L'autorit nazionale cerc di liberarsi da un continuo inciampo che rendeva la gestione degli affari lenta, faticosa, minuziosa, litigiosa. Centinaia di statuti fecero luogo a codici uniformi e nazionali. Centinaia di squadre feudali indisciplinate e tumultuarie fecero luogo ad eserciti animati da una sola volont. Centinaia di corporazioni divennero una societ civile, aperta ai vitali impulsi della libera concorrenza. Centinaia di dialetti si collegarono in lingue nazionali. L'uso del latino che velava tutte le nazionalit sotto un'uniforme livrea venne meno. La letteratura usc dai sepolcri degli antichi, e si fece specchio delle passioni e delle idee dei viventi. Dalla cultura della lingua venne lo spirito nazionale, il quale in ragione inversa dell'uso dei dialetti e in ragion diretta dell'uso della lingua comune. Dal che viene la forte nazionalit della Francia, dell'Inghilterra, e la poca nazionalit d'altri paesi. Lo sviluppo delle lingue, determinando meglio i confini naturali delle nazioni, divenne un fomento della pace universale. Cos, a cagion

d'esempio, la diffusione del francese in Linguadoca e Guascogna tolse ogni guerra di confini tra la Francia e la Spagna. Il potere nazionale coll'uniformit e perpetuit delle sue tendenze eguagli le sorti e restaur l'opera dell'equit civile gi fondata sotto il regime romano. In alcuni paesi l'esplosione popolare precipit in un giorno gli avvenimenti che il potere consueto avrebbe quietamente prodotti in un secolo. E' un fenomeno curioso che il codice civile di Francia, intrapreso dai tribuni, fu compiuto e promulgato a nome di un principe assoluto, senza alcuna deviazione n da' suoi principi n da quelli dell'antica legislazione romana. Tanto il potere popolare come il potere assoluto convennero nella dissoluzione dei previlegi e nell'adeguamento delle utilit. L'effetto si fu di pareggiare i membri dello stato nel cospetto della legge e nel godimento dei diritti civili. (Opp. 4, 175- 176). Alcune pagine sull'impero britannico, sulla sua forza espansiva, sui caratteri dell'aristocrazia inglese, sull'"alterigia e durezza" inglesi contrapposti all'"indole flessibile e seducente" della nazione francese. A qualunque parte del globo si rivolga l'occhio, s'incontrano le navi, le fortezze, li empori, le colonie dell'Inghilterra. Dalle appartate sue isole codesta nazione seppe spargere in tutti i mari le sue vele. Nelle grandi lotte della politica europea pot bloccare i porti, sforzare li stretti, ferir nel cuore quegli stati che avevano la capitale sul mare; colle sue crociere lungo le correnti delle acque e dei venti appostare le navi nemiche, vietar loro d'attelarsi in flotte, e d'addestrarsi a quelle grandi evoluzioni, che danno o tolgono in un giorno il dominio dell'oceano e il commercio del mondo. Da Helgoland essa vigila le coste della Danimarca e della Germania, dalle isolette normanne i lidi della Francia; dalla rupe di Gibilterra custodisce le porte del Mediterraneo; con Malta lo divide in due recinti; con Corf chiude l'Adriatico, e smembra la Grecia. Ella si stende da un capo all'altro dell'opposto emisferio; domina la Terra Nova, li sbocchi del mar polare; tiene l'Acadia, l'immenso Canad, le Bermude, molte delle Antille; dai lidi di Mosquito e di Honduras s'insinua su l'angusto lembo di terra che divide i due oceani; pei fiumi della Guiana s'introduce nelle ignote pianure dell'America interna; dalle Malovine guarda lo stretto Magellanico e le nuove pescagioni delle plaghe australi. Se le fortezze del Mediterraneo stringono l'Africa da settentrione, le stazioni della Guinea, di Fernando Po, dell'Ascensione, di Sant'Elena, la colonia del Capo, vasta come la madre patria, gli Arcipelaghi di Maurizio, l'isola di Socotra la ricingono dalle altre parti. La formidabil catena si continua lungo il Mar Rosso e il Golfo Persico, e in Aden e in Buscire attraversa le pi antiche vie del commercio universale. Uomini solerti danno opera perch alle due rive dell'istmo egizio approdino vaporiere di ferro della potenza di seicento cavalli, e in trenta giorni le preziose merci dell'India per la via del Mar Rosso giungano a Londra; e nulla valgono le pertinaci calme o i pertinaci aquiloni che s'alternano in quel golfo scoglioso, e deludono la potenza delle vele. Pochi mesi dopoch l'infelice Burnes scandagliava l'ignoto letto dell'Indo, e lo rinveniva navigabile a vapore per ben mille miglia, gli Inglesi occupavano le foci del fiume, sgominavano le barbare federazioni dei Sindi e dei Beluci, aprivano una nuova vena di commercio; ed oggid gi tutta la valle immensa di quel fiume corsa dalle armi britanniche. Il vapore anima la pacifica navigazione del Gange; le menti immobili di quelle vetuste nazioni si svegliano a nuovi pensieri. Col cento e pi milioni d'uomini si trovano non si sa come ammaliati dall'audacia di pochi Europei. Qual' la misteriosa

debolezza che aggioga l'India a un'isola remota, la quale era popolata da barbari dipinti d'azzurro, quando l'India possedeva gi leggi e riti e monumenti? Meravigliati e insospettiti della troppo facile conquista, e gelosi d'ogni futuro rivale, gli Inglesi movono dalle pianure dell'India ad assicurarsi le alte montagne, dalle quali discesero i passati conquistatori, e in mezzo a quelle bellicose trib fanno il pi prodigo sacrifizio d'oro e di sangue. Molte linee doganali colle quali i regoli indigeni e musulmani allacciavano il commercio, vennero abbattute dalle armi, o rimosse per compera e per trattato. Si vuole che una sola linea terrestre e marittima accerchii i cento e pi milioni d'uomini che vivono in quella terra ubertosa. Con rimuovere i confini doganali si cancellano i confini di quelle arbitrarie signorie; e mentre nell'interesse britannico si demoliscono i nodi della resistenza, involontariamente si promove nell'interesse indiano una vasta nazionalit. Il cordone doganale si stende fitto ai pochi porti che col rimangono ancora alla Francia, alla Danimarca, al Portogallo, cosicch le merci, per non pagar duplice dazio, devono indirizzarsi ai porti britannici, lasciando in secco li altri che appartengono a nazioni rivali. Intanto il genio europeo segna di qualche benefico vestigio il terreno conquistato; traccia un canale per congiungere attraverso agli altipiani il Sutlege, influente dell'Indo, colla Jumna influente del Gange; ristaura li antichi canali scavati dai maomettani; appena sottomessa Curnul, vi medita un vasto ordine d'irrigazioni; altre acque conduce in Rohilcunda, per cangiare in tranquilli agricoltori quei vagabondi e turbolenti guerrieri. Con quattro vie attraversa i dirupati Ghauti; con una sontuosa strada vuole attraversar la penisola da Bombay a Calcutta, mentre finora le corrispondenze si portarono da pedoni per selve e paludi, varcando i fiumi a nuoto o con zattere di canne. Nell'isola di Caylan fin dal 1811 il potere giudiziario si esercita da indigeni, giurati com' l'uso britannico senza divario di stirpe o di religione. Per voto dei padroni stessi di schiavi si stabil che, dal 12 agosto 1816 in poi, nell'India anche i figli di madre schiava nascessero tutti liberi. Bentink (2) cominci a vietare l'ardersi delle vedove sul rogo dei mariti e il forsennato precipitarsi dei divoti sotto le rote del gran carro di Jeggernaut. La Compagnia rinunci all'antica imposta che i principi levavano sui peregrini, i quali trascinano la loro miseria ai santuari degli idoli, seminando di moribondi le infocate strade. Tuttavia il governo non accondiscende ai zelatori che vorrebbero troncar colla forza il corso di quelle religioni antichissime e, tralasciando la disperata impresa di spegnerle nel sangue, attende che il contatto della ragione europea e della veridica scienza depuri la fonte stessa delle opinioni. A tal uopo concesse la libert della stampa, la politica discussione e la critica de' suoi medesimi atti. I giornali a s enormi distanze sono un mezzo di vigilanza, che previene la prevaricazione dei magistrati, e prepara ai legislatori men parziale e men sospetta cognizione delle cose. Perloch noi non possiamo dividere l'opinione di chi si meraviglia come quei dominatori possano nelle gazzette esporre ai dominati il quadro delli eserciti e lo stato delle casse, e svelar loro la rivalit e la potenza delle altre nazioni. Noi vi vediamo un popolo ch' fermamente fedele alle sue instituzioni tanto al di qua come al di l dei mari. La libera discussione prepara da lontano l'uniformit delle idee, in modo che si potr col tempo sostituire il completo vincolo dell'assimilazione morale alle transitorie sorprese dell'astuzia e della forza. Lo stesso enorme debito che un ordinamento tutto militare e artificiale viene ogni anno aggravando, costringer la Compagnia ad associare i sudditi all'amministrazione, ed architettare un ordine di cose che consuoni alli interessi e alle

nazionalit. Un imperio, che cerca di fondarsi sull'opinione cadr col tempo, come caddero quelli altri che si fondarono su l'avvilimento e l'ignoranza; ma il fortunato invasore, che potesse debellare gli eserciti inglesi, non potr mai svellere le radici che le istituzioni britanniche, la libera discussione, la disciplina militare e la rifusa nazionalit vi avranno gettate. (Opp. 3, 263-267). Ci che si chiama l'aristocrazia inglese, non un privilegio della nascita, come in Venezia, in Polonia, in Ungheria, ma una lega di quanti primeggiano, non solo per antica opulenza e illustri parentele, ma eziandio per fortunata industria, per imprese militari, per ingegno civile. La giovent patrizia, fatta indigente dalle ineguali eredit, e intollerante d'una vita oscura, si arruola in faticose carriere dentro e fuori del regno. E quando ha speso il fiore dell'et negli eserciti, nelle flotte, nei tribunali, nei sacerdozii, nelle colonie, nelle legazioni, nei viaggi, negli studii, sotto lo stimolo dell'ambizione e il freno d'un'inesorabile publicit, apporta l'esperienza d'ogni cosa grande in quel parlamento, che d il suo voto in ogni guerra e in ogni pace, che col suo credito stipendia in campo le potenze del continente, e move e ravvolge coll'oro e col ferro tutte le nazioni del globo le quali non hanno l'arte di mettere in cima agli affari il merito e l'intelligenza, e quindi nella guerra, o salariate come amiche, o spogliate come nemiche, ricadono in necessaria dipendenza. Mentre le dovizie, la nobilt, la gloria, l'esperienza, l'ingegno si stringono fra loro in poderoso nodo intorno alli eloquenti che governano il parlamento, la moltitudine si vede ad ogni tratto rapiti in quel vortice li sperati suoi capi; e rimane senza consiglio, senza forza, senza beni, inetta a giovarsi de' suoi diritti elettorali e della teatrale sua libert. Il pariato domina gli agricoltori, perch signore delle terre, su le quali va sempre pi propagando i vincoli del fedecommesso; domina su gli industriali, perch distributore dei favori della legge e padrone delle miniere, degli spazi edificati e d'una gran parte dei capitali; domina sugli eserciti e le flotte colla compera dei gradi e colla munificenza degli stipendi e delle pensioni; domina sulle classi povere, perch comanda ai ruoli delle sterminate elemosine e alle tariffe dei grani, che abbassa ed inalza secondo le necessit dei tempi; domina sulle coscienze della maggiorit, determinando col patronato delle sontuose prebende, colle aggregazioni universitarie, e coll'autorit episcopale le opinioni del clero. Infine domina perfino sugli oppositori suoi, per la potenza e la gloria che seppe arrecare co' suoi consigli e col suo sangue alla nazione; perch per quanto accese siano le opinioni civili, sempre uguale in tutti i cittadini l'orgoglio nel nome comune. (Opp. 3, 274-276). Il pi gran torto, che pesi sulla stirpe britannica d'ambo li emisferi, appunto quell'alterigia e durezza, con cui nel commercio degli altri popoli serba pertinacemente anche la parte pi frivola delle sue consuetudini e opinioni, come se codeste inezie fossero il palladio della religione e della morale. Ma ci, la Dio grazia, mette appunto qualche limite alla sua potenza, alla quale se si aggiungesse anche l'arte delle transazioni e l'incanto della genialit, il mondo verrebbe in breve a ridursi sotto il predominio di quell'unica gente. (Opp. 3, 287). L'indole flessibile e seducente della nazione forma al contrario il fondamento della potenza francese, bench non supplisca all'intima debolezza di quel principio amministrativo che sacrifica ad un'artificiale accentrazione ogni locale e spontaneo movimento. Quindi splendide conquiste, che svaniscono colle passioni medesime che le resero celeri e irresistibili; quindi il poter di prendere, non quello di tenere; quindi le colonie subito dilatate, subito perdute. (Opp. 3, 288).

Il fatto che i ministeri, in Francia, si succedano rapidamente e che quindi mutino continuamente le direttive della politica estera, non basta a render ragione di un fatto cos universale e costante la cui radice dev'essere pi profonda e pi intima. Al principio britannico delle libere associazioni e al concetto liberale dello stato come protezione e garanzia di vita e di sviluppo di tali associazioni, la Francia ha contrapposto l'ideale di uno stato assolutistico e rigidamente accentrato in cui ogni iniziativa viene dall'alto e in cui una onnipotente burocrazia uccide, insieme ai liberi sforzi individuali, la possibilit di una conquista duratura e di una effettiva penetrazione. In origine il regno di Francia e il regno d'Inghilterra furono costrutti sopra uno stesso modello feudale, anzi l'occidente della Francia, ai Pirenei fino al passo di Calais, obbed lungo tempo ai signori Normanni e Angioini che dominavano in Inghilterra. Ma nel secolo diciassettesimo il destino dei due paesi si divise; la riforma s'intern nelle instituzioni britanniche, mentre in Francia fu sommersa nel sangue; in Inghilterra l'Ordine civile prese forma stabile col trionfo di Cromwell; in Francia col trionfo di Richelieu. Quindi nell'una predomin il principio "greco" delle libere associazioni, protette sempre dalla forza publica, ma non mai dirette dalla publica autorit; nell'altra a dispetto della nazionale impazienza predomin il modello "chinese", il principio dell'onnipotenza e onniscienza ministeriale, che per una scala infinita d'incaricati discende a regolare le faccende dell'ultimo casale del regno e dell'ultima capanna delle colonie. Ecco perch la Compagnia privilegiata delle "Indie Occidentali" diede cos poco alla Francia, mentre la Compagnia britannica delle "Indie Orientali" apport a quel governo un potente esercito e una prodigiosa conquista. Il ministerio britannico fa soltanto ci che i privati e le loro aggregazioni "non possono fare da s"; e porta la minaccia delle formidabili sue forze ovunque le intraprese dei privati la invochino. Il principio di Richelieu, applicato all'industria e alla navigazione del pedagogo Colbert, rivestito d'una sfarzosa grandezza da Luigi Quattordicesimo, ritemprato dalla tremenda vigoria della Convenzione e dal genio architettonico di Bonaparte, associato a tutte le glorie dell'ingegno e del valore, sopravisse a tutte le rivoluzioni; e mentre forma il nodo dell'unit e potenza francese, le tolse sempre il potere d'estendersi vastamente, e riprodursi in terre lontane, con libere propaggini viventi di propria vita. I rami d'un tronco solo non possono mandar ombra su tutta la terra. Culto, educazione, navigazione, colonie, costruzioni, industria, perfino la fabbrica dei tappeti e delli specchi e delle porcellane, tutto doveva esser unico, perfetto ed assoluto. L'Europa doveva accettare dalla chimica francese il zucchero di bietole; il Mediterraneo divenire un "lago francese"; li avvocati di Firenze e Roma improvvisarono perorazioni francesi; in ci stava la salute dell'imperio. E in ci stette la sua caduta; perch la natura non vuole codeste arbitrarie unit; e ha fatto i piani e i monti, la zona torrida e i ghiacci natanti, i popoli italiani e i popoli francesi. In Francia poco s'intende l'ordine municipale, che combina coll'unit degli Stati la vitalit delle provincie; n s'afferr ancora il principio delle libere associazioni; onde mentre la Inghilterra e l'America sono venate per ogni senso di strade ferrate, la Francia fu costretta ad aspettarle dall'onnipotenza ufficiale. Invano il secolo scorso sper di trapiantarvi un governo americano; invano questo secolo vi costru un governo britannico; invano si annunci da ultimo non so qual colleganza d'ambo i principii; sempre risurge l'unit prefettizia, l'unit universitaria,

il principio assoluto che il gran Cardinale aspir dalle tradizioni del secolo di Costantino. (Opp. 3, 288-290). Della sua terra il Cattaneo fu storico serrato ed efficace. Dalle "Notizie naturali e civili su la Lombardia" sono tratte queste pagine in cui vivacemente rappresentato quel fermento di vita politica economica e culturale caratteristico della vita milanese del '700. Al principio del secolo diciottesimo era mirabile il fermento che si vedeva nelle nazioni. La Russia si era destata dal sonno dei secoli; la Prussia era un regno, la stirpe britannica surgeva a inaspettata potenza, fondava un imperio nelle Indie, e un altro e pi glorioso in America. Il ducato di Milano si era finalmente distaccato dal cadavere spagnolo, e ricongiunto all'Europa vivente. I domini austriaci, vari di lingua, e dissociati di civilt, cominciarono ad essere uno stato e possedere un principio d'amministrazione e d'unit. Ma se lo spirito del secolo e l'animo della Regnante additavano le grandi vie del bene pubblico e della prosperit, gli esperimenti erano ardui. Nelle provincie germaniche, slave e ungariche rara la popolazione, rare le citt, poche tracce o nessuna d'incivilimento pi antico, isolata la posizione su le frontiere di nazioni barbare. In Francia v'erano citt lavoratrici e ubertose campagne, e vicinanza di nazioni progressive; ma lo spirito dei popoli era provinciale, tenace, diffidente. La Lombardia, che gi sentiva l'aura del tempo che veniva, e nella sua miseria era pur sempre una terra di promissione, e aveva un popolo di mente aperta e d'animo caldo e sensitivo, parve ai zelatori del bene come uno di quei campi eletti, in cui l'agricoltore fa prova di qualche novella semente. E' un fatto ignoto all'Europa, ma pur vero: mentre la Francia s'inebriava indarno dei nuovi pensieri, e annunciava all'Europa un'era nuova, che poi non riesciva a compiere se non attraverso al pi sanguinoso sovvertimento, l'umile Milano cominciava un quarto stadio di progresso, confidata a un consesso di magistrati, ch'erano al tempo stesso una scuola di pensatori. Pompeo Neri, Rinaldo Carli, Cesare Beccaria, Pietro Verri non sono nomi egualmente noti all'Europa, ma tutti egualmente sacri nella memoria dei cittadini. La filosofia era stata legislatrice nei giureconsulti romani; ma fu quella la prima volta che sedeva amministratrice di finanze e d'annona e d'aziende comunali; e quell'unica volta degnamente corrispose a una nobile fiducia. Tutte quelle riforme che Turgot abbracciava nelle sue visioni di bene pubblico, e che indarno si affatic a conseguire fra l'ignoranza dei popoli e l'astuzia dei privilegiati, si trovano registrate nei libri delle nostre leggi, nei decreti dei nostri governanti, nel fatto della pubblica e privata prosperit. S'intraprese il censo di tutti i beni, dietro un principio che poche nazioni finora hanno compreso. Si estim in una moneta reale, chiamata scudo, il valore comparativo d'ogni propriet. Gli ulteriori aumenti di valore che l'industria del proprietario venisse operando non dovevano pi considerarsi nell'imposta; la quale era sempre a ripartirsi sulla cifra invariabile dello scudato. Ora, la famiglia che duplica il frutto dei suoi beni, pagando tuttavia la stessa proporzione d'imposte, alleggerisce d'una met il peso in paragone alla famiglia inoperosa che paga lo stesso carico e ricava tuttora il minor frutto. Questo premio universale e perpetuo, concesso all'industria, stimol le famiglie a continui miglioramenti. Torn pi lucroso raddoppiare colle fatiche e coi risparmi la ubert di un campo che posseder due campi e coltivarli debolmente. Quindi il continuo interesse ad aumentare il prestigio dei beni fece s che col corso del tempo e coll'assidua cura il piccolo podere pareggi in frutto il pi grande; finch a poco a poco tutto il paese si rese capace d'alimentare due famiglie su quello spazio che in altri paesi ne

alimenta una sola. Qual sapienza e fecondit in questo principio al paragone di quelle barbare tasse che presso colte nazioni si commisurano ai frutti della terra e agli affitti delle case epper riescono vere multe proporzionali inflitte all'attivit del possessore! Il censo elimin per sua natura tutte quelle immunit per le quali sotto il regime spagnolo un terzo dei beni, come posseduto dal clero, non partecipava ai pubblici carichi, e li faceva pesare in misura insopportabile sulle altre propriet. Il censo divenne fondamento anche al regime comunale, i comuni nostri divennero tanti piccoli stati minorenni che, sotto la tutela dei magistrati, decretano opere pubbliche e ne levano sopra se medesimi l'imposta. Non si videro pi quelle stentate prestazioni d'opera, di bestiami, di materiali, ch'erano spavento dei contadini e strumento d'oppressione e di corruttela. Si prepar un mirabile sviluppo di strade, con un principio di manutenzione che interess il costruttore alla massima solidit e semplicit di lavoro. Ma non questo il luogo d'annoverare tutte le riforme che s'introdussero da quei filosofi; il riparto territoriale, il riscatto delle regale, l'abolizione dei fermieri (3), la tutela dei beni ecclesiastici, la riforma delle monete. Dalla met del secolo in poi si attiv un'immensa divisione e suddivisione dei beni; il numero dei possidenti e degli agiati crebbe nella proporzione stessa in cui crebbero i frutti. Si cominci a sciogliere i fedecommessi che univano nelle famiglie la noncurante opulenza dei primogeniti con la povert, l'umiliazione, la forzata carriera dei cadetti e delle figlie. Si abolirono le manomorte; si rimisero nella libera contrattazione i loro sterminati beni; si alienarono i pascoli comunali; si riordinarono le amministrazioni dei municipi; si rivoc l'educazione pubblica a mani docili e animate dallo spirito del secolo e del governo; si abolirono i vincoli del commercio, la schiavit dei grani, quasi tutte le mete dei commestibili e i regolamenti che inceppavano le arti. La subitanea apparizione delle novelle merci inglesi e francesi scosse il nostro torpore, fomentato dalle proibizioni spagnole, risuscit per noi la vita industriale. Si apersero strade, si soppressero barriere e pedaggi, si ridussero a tre o quattro ore le distanze tra citt e citt che prima si varcavano a forza di buoi e a misura di giornate. Si abolirono le preture feudali in cui per conto di privati si mercava la giustizia, si abol un senato sul quale pesava la memoria di supplizi iniqui e crudeli, si abolirono gli asili che i ladroni godevano sui sacrati dei templi e dietro le colonnette dei palazzi signorili, non si videro pi assassini nelle chiese, le sezioni anatomiche fecero sparir l'acqua tofana, si abol la tortura che puniva nell'innocente i delitti dell'ignoto, sparvero le fruste, le tenaglie infocate, le orribili rote, l'inquisizione; in luogo di sotterranei fetenti e di scellerate galere si fondarono laboriose case di correzione. Fin dal 1766, sei anni prima che si aprisse il carcere di Gand, si era applicato il principio della segregazione dei prigionieri: un giorno di cella scontava due giorni di carcere; si era dunque scoperto che la cella segregante non era strumento di lieve correzione, qual erasi creduto fino allora, ma una pena poderosa, applicabile ai pi gravi delitti e capace di far pi terrore che la morte. Ma qual meraviglia che questi sagaci pensieri nascessero prima che altrove in quel paese dove Beccaria non solo era scrittore, non solo porgeva pubblico insegnamento di scienze sociali ma sedeva autorevole nei consigli di stato? I bastioni solitari e paurosi, ove si seppellivano i giustiziati, divennero ombrosi passeggi; si tolse il lezzo alle strade; e l'orrida abitazione dei cadaveri si rimosse dalle chiese; si sgombrarono dagli

accessi dei santuari i mendicanti, ostentatori d'ulceri e di mutilazioni; a poco a poco non si videro pi nelle citt piedi nudi o abiti cenciosi. Si apersero teatri, ove le famiglie, inselvatichite da sette generazioni, impararono a conoscersi, e gustarono le dolcezze del viver civile, della musica, della poesia. Il genio musicale rispetta e ambisce il giudizio del nostro popolo; un solo carnevale in uno dei minori nostri teatri diede al diletto dell'Europa la "Sonnambula" e l'"Anna Bolena". Regn la tolleranza di tutti i culti; e si aperse ospite soggiorno agli stranieri che apportavano esempj di capacit e d'intraprendenza. S'introdussero le scienze vive nella morta Universit; si fondarono accademie di belle arti; rifior l'architettura, l'ornato riprese greca eleganza; si inalzarono osservatorj astronomici; si costrusse la carta fondamentale del paese; si apersero nuove biblioteche; le madri tolsero ai cuochi e agli staffieri la prima educazione dei figli. Soave rifece tutti i libri elementari; Parini, Mascheroni, Arici ricondussero l'eleganza letteraria, indirizzandola ad alti fini scientifici e morali. Beccaria lesse economia politica; surse a poco a poco quella costellazione di nomi splendidi alle scienze e alle arti, Volta, Piazzi, Oriani, Appiani, cogli altri che la continuarono fino ai viventi. Gli allievi di tanto senno si sparsero per tutte le provincie, e propagarono in tutte le classi quel fausto movimento di cose e d'idee che ci attornia d'ogni parte, e ci arride all'immaginazione. (Opp. 4, 266, 267, 270, 271). Abbiamo parlato di una profonda aderenza e di una estrema concretezza della storiografia del Cattaneo, e i brani che precedono (scelti fra una vastissima produzione) ci hanno, pur nella loro brevit, dato conferma di ci. La narrazione storica non cronaca di fatti nella loro empirica particolarit, n costruzione teorica legata a schemi filosofico-politici gi precostituiti, ma dev'essere ricerca di cause profonde e tentativo di rilievo delle grandi forze ideali ed economiche che costituiscono la trama intima del divenire storico. Chi non si avvede di questo tende a chiarire e a semplificare, a limitarsi al generico e all'indeterminato, ad escludere arbitrariamente la presenza di motivi e di aspetti del reale che non rientrano nei suoi schemi astrattamente convenzionali. Molte menti non sono avvezze a dominare le grandi curve su le quali si svolge la storia, e non vedono la gran parte che la conquista, i privilegi, l'oppressione ebbero nell'associare li sforzi dei popoli fra loro prima sconosciuti e aborriti, nel demolire le pertinaci tradizioni dei secoli ignari, nel pareggiare il godimento dei diritti civili, militari e religiosi, nel preparare il dominio delle grandi instituzioni che rendono men barbaro il mondo e men dura la vita, nel propagare le idee che svolgono l'intelligenza e la civilt. Epper hanno in abominio tutto ci che nasce dall'ineguaglianza e dal conflitto transitorio delle forze. (Opp. 3, 303). E una tale storiografia, annebbiata da pregiudizi che impediscono una libera e disinteressata adesione dello storico, non potr giungere a nessun valido risultato: Veramente nulla ne verr in chiaro, se non quando quel principio che Vico chiamava "la boria delle nazioni", cesser di rendere appassionato e tumultuoso il giudizio degli eruditi, che devono con tranquilla fedelt interrogare i monumenti. (Opp. 3, 29). Dalla constatazione dei complessi, molteplici elementi e delle contrastanti forze (ricche di vaste e imprevedibili risonanze) che

agiscono nella storia, deve nascere, nello storico vero, la coscienza della necessit di inserire la particolare storia del suo popolo nella pi vasta storia dell'Europa e dell'umanit. Questo l'incitamento che il Cattaneo dava agli studiosi italiani del suo secolo: E vorremmo che li uomini studiosi in Italia coltivassero in maggior numero e con pi ardore questi alti argomenti, che noi diremo europei; perch, come altre volte abbiam detto, solo per questa via potremo far s che su li oscuri nostri studi si richiami l'attenzione dell'immemore Europa. (Opp. 3, 303). NOTE. Nota 1. Giudizio pubblico germanico cui prendevano parte tutti gli uomini liberi della trib. Nota 2. Lord William Bentinck (1774-1839), nel 1804 successe a Lord Clive come governatore di Madras, nel 1811 otteneva il comando delle forze britanniche stanziate in Sicilia in difesa dei Borboni contro Napoleone, e la rappresentanza della corte inglese presso quella siciliana. Nota 3. Alcuni tributi indiretti venivano fino al 1770 appaltati dallo stato ad appaltatori privati. FILOSOFIA E EDUCAZIONE. Un interesse scientifico fu senza dubbio predominante sia nella formazione che nelle successive, molteplici attivit del Cattaneo; e proprio da questo fervore continuo di vita, da questi interessi sempre nuovi, da queste indagini appassionate su problemi tecnici e storici, deriva, nel nostro autore, un ben definito orientamento positivistico. Cattaneo non fu un filosofo, n il suo atteggiamento di fronte alla vita e alla cultura raggiunse mai una coerente espressione speculativa; egli non conobbe Comte n Spencer n ebbe mai chiara nozione della filosofia kantiana e dell'idealismo tedesco, mentre gli sfuggivano completamente le difficolt ed i problemi impliciti in una dottrina della conoscenza. E' possibile tuttavia accettare la definizione gentiliana che fa di Cattaneo il primo, in ordine di tempo, dei positivisti italiani, e se ad alcuni il suo pensiero parso povero e inconsistente, altri hanno cercato di determinarne le linee di sviluppo e di metterne in luce gli aspetti di pi evidente originalit. Certo che in Cattaneo sono presenti due diverse concezioni della filosofia: per la prima la filosofia non sarebbe che la suprema sintesi delle scienze empiriche: Allora la filosofia sar il nesso comune di tutte le scienze, l'espressione pi generale di tutte le variet, la lente che adunando li sparsi raggi illumina ad un tempo l'uomo e l'universo. (Opp. 6, 140). Per l'altra concezione invece l'indagine filosofica appare come la teoretica riflessione su un contenuto storico-pratico, analisi dello spirito umano quale si viene determinando e concretando nella storia, costante universale ricerca, sistema che deve rimanere sempre aperto: Questo sistema in cui la ragione procede sempre a lato della natura, pu svolgersi e stendersi quanto la natura medesima. Esso non potr mai compiersi e chiudersi, se non in quanto sia possibile raggiungere

tutti i fenomeni della natura, nonch i confini di tutte le nuove combinazioni di fenomeni che l'esperimento pu operare nel seno di essa. Siccome poi nei medesimi fenomeni il nostro intelletto pu intuire nuovi ordini d'idee, e pu dall'osservazione procedere a una serie infinita d'induzioni e di deduzioni, cos questo sistema rimarr sempre aperto e vivo (cio capace di accettare e di produrre nuove idee) finch l'intelligenza si trover in cospetto del mondo. Ogni termine che l'autorit umana volesse prestabilire alla ragione potr sempre venire oltrepassato, finch la ragione si trovi in un sistema di attivit e di libert. (Opp. 7, 429). Come le lingue, cos le lettere, le arti, le leggi, le religioni, le opere tutte dell'umanit essendo nella prima origine loro fatti dell'anima, sono a considerarsi tutti come segno della secreta sua natura. Da ciascuno di tali ordini di fatti la filosofia deve per suo instituto ascendere alla ricerca delle forze iniziali onde quei fatti primamente mossero. (Opp. 6, 255). I due motivi, profondamente intrecciati, sono difficilmente separabili e in ogni scritto rivelano la loro indistruttibile compresenza con una forte prevalenza del primo motivo sul secondo. E di qui le accuse di ingenuit, di scarsa conoscenza dei problemi e delle fonti, di frammentariet e di scarsa capacit sintetica che sono state mosse al Cattaneo. Ci sembra tuttavia che il pensiero filosofico del Cattaneo anche se di scarso rilievo da un punto di vista strettamente speculativo, risenta profondamente di quell'aderente realismo, di quell'ampia apertura spirituale verso una molteplice ricchezza di problemi e di esperienze, di quel senso concreto della vita e del mondo che abbiamo visto essere caratteristici aspetti della personalit del nostro scrittore. Intollerante verso ogni speculazione astratta od evasiva, l'interesse del Cattaneo tutto rivolto alla vita sociale, al mondo degli uomini, ad una filosofia tutta vita, ben degna di essere il corollario delle scienze sperimentali e positive. Parlando della "Filosofia della Rivoluzione" di Giuseppe Ferrari scriveva: Qui la filosofia non affetta d'inabissarsi nelle tenebre dell'ente, per poi uscirne bellamente e condurci d'arzigogolo in arzigogolo, cogli abati filosofanti, in anticamera o in sacristia. La filosofia dev'essere, dunque "ricerca sperimentale" insistente e sottile, lontana da ogni apriorismo idealistico e da ogni pretesa di metafisica, ma articolantesi invece secondo la feconda fede di Galileo e di Bacone nel tentativo di un rilievo e di una progressiva chiarificazione dell'esperienza nella sua concretezza vivente. Noi, persuasi che la filosofia sia la scienza del pensiero, ma che il pensiero sia a studiarsi nelle menti mature e forti, epper nelle istorie, nelle lingue, nelle religioni, nelle arti, nelle scienze in cui le forti e mature menti si mostrano e non nelli informi cenni d'intelligenza che appena spuntano nei feti e nei bamboli, intendiamo che il filosofo non possa accingersi al suo ministerio se non con ampia preparazione di molto e vario sapere. Epper, qualunque sia l'ammirazione che psicologi e ontologi e pescatori quali siansi dell'idea prima, si tributano fatuamente tra loro, negheremo sempre che sia filosofo chi si manifesta contento e beato di molta e varia ignoranza. (Alcuni Scritti, 3, 71 nota). Nelli studi sperimentali non si reputa degno del nome di scenziato chi non abbia prodotto al mondo qualche novello vero. Nessun chimico pot farsi illustre, senza che si possano mentovare nuovi metalli, nuovi

acidi da lui trovati, nuova serie di sostanze organiche da lui ridotte a formula numerica. Solo in filosofia grandi ingegni hanno potuto cercar gloria in cose gi fatte; hanno potuto tenere il principato della scienza, commentando e illustrando, confutando i moderni e aggiustando in musaico le cose delli antichi. (Opp. 6, 245). Se la filosofia, per un aspetto, il pensiero che si ritorce sopra se medesimo, s'ella il pensiero che esplora la natura del pensiero, se questa "dotta curiosit", come suona in greco il suo nome, ama soprattutto agitare quelle sublimi indagini che ha meno la speranza di compiere, non si circoscrive per in questo campo il suo diritto. Perocch la filosofia altres la investigazione dei supremi rapporti di tutte le cose; lo studio della loro concatenazione: il mondo riverberato e unificato nell'intelletto: la Natura trasformata nell'Idea. Or chi vi sar che voglia escludere dal seno dell'universo, il mondo delle genti, l'ordine dell'umanit, la vita delli Stati? E ci tanto meno ne' luoghi e ne' tempi in che per singolar ventura sia concessa a codesti studi pi intera sicurezza e libert. (Opp. 7, 5). La ricerca filosofica deve ricondurre i "fatti" alla "ragione", cogliere le relazioni e i rapporti di cui intessuto il mondo del fenomeni, rivelare la trama razionale onde s'intesse la storia, accettare soprattutto e risolvere gli storici, concreti problemi che una determinata situazione culturale giorno per giorno le impone. Al percorrere uno Stato, a porre anche solo il piede entro il suo confine, si pu tosto da segni manifesti inferire se quivi regna la libert, o la servit, la legge o l'arbitrio, la scienza o la superstizione. Dove l'uomo selvaggio, la terra selvaggia. Il naufrago nell'afferrare una riva, pu mirarsi intorno, e giudicare di quali idee col pasca l'uomo la sua mente. Le guaste e desolate regioni del Meriggio e dell'Oriente, i fiumi senza ponti, le campagne senza strade, la plebe scalza, ignara e feroce, le vie immonde, le case a cui la poligamia impone forma di chiostri, sono "fatti"; non sono pi che "fatti". Ma ad essi corrispondono certi fatti della volont e dell'intelligenza che la filosofia deve ridurre alle leggi elementari dell'ideologia e della psicologia. Essa deve rinvenire ad uno ad uno li anelli della catena morale che trascina le moltitudini volenti o nolenti dietro i ferrei interessi dei pochi, sovente pure inconscii e irresponsabili al pari del vulgo. Il genere umano cammina nelle tenebre; appena nello scorso secolo ha potuto intraveder l'idea del progresso; appena in questo secolo ne ha concepito la chiara e viva coscienza; appena comincia a delinearne le leggi. V' ancora un abisso tra la ragione e i fatti. La filosofia chiamata a varcarlo; mestieri ch'ella accetti tutti i problemi del secolo. (Opp. 6, 251252)E una filosofia cos intesa non estranea alla societ fra cui vive, ma di questa societ l'espressione pi coerente e pi alta. Per essere ricerca disinteressata e non servile adulazione essa richiede dunque un'aperta societ di uomini liberi. La filosofia non rimane estrania alle sorti del popolo fra cui vive. Se le trionfa intorno la libert, ella pu levarsi a investigazioni che eranle prima dal vigile sospetto contese e avareggiate. Se la libert nel conflitto soccombe, la filosofia raccoglie le ali, si ritrae dalla vista del sole, per dissimulare la sua servit fra le nebulose contemplazioni che non turbano i sonni del potente. Ah, la filosofia dei sudditi non la filosofia dei liberi. E nel secolo scorso la Francia, non libera ancora, dov aspettare le due grandi iniziazioni filosofiche dalla libera Inghilterra che la sciolse dal

giogo delle "idee innate", e dalla libera Ginevra che colla voce d'un povero figlio del popolo le annunci l'arcano del "Contratto Sociale". (Opp. 7, 6). Da questi concetti nasce l'avversione profonda del Cattaneo per ogni filosofia astrattamente metafisica, piena di presuntuoso disprezzo per la ricerca scientifica, dogmaticamente legata a posizioni tradizionali e quindi lontana dalla operosa progressivit della storia. Ma pur troppo qual' ora la filosofia, discorde da tutto il sapere umano, sprezzatrice delle scienze positive, e corrisposta da ogni operosa mente con eguale disprezzo, tutta carica di ricerche insolubili, di dubbi assurdi e di pi assurde dimostrazioni, sarebbe un vanissimo perditempo per la giovent, anche quando non le inspirasse funesta presunzione e stolto odio per quelle discipline esperimentali che fanno la potenza e la gloria delle moderne nazioni, e sole dividono dall'evo medio il moderno, e dall'India e dalla China stanziali e assopite la vigile e solerte Europa. (Opp. 6, 141). Ma noi non abbiamo a farci schiavi di nessuno. Se San Tomaso era del secolo decimoterzo, e Locke era del decimosettimo, e Condillac del decimottavo, noi siamo del secolo decimonono. E com'essi ai tempi loro, cos abbiam diritto e abbiam dovere noi di camminar colla scienza del nostro secolo. Noi vogliamo vivere alla luce e all'aria dei vivi, e non dentro le casse dei morti. (Opp. 6, 326-327). La decisa, radicale avversione del Cattaneo per ogni pretesa metafisica, fa s che l'autore non si ponga mai in modo esplicito, di fronte al problema religioso. Nella lettera al senatore Matteucci sul riordinamento degli studi scientifici in Italia scriveva: Voi vorreste in tutte le universit istituire facolt teologiche di professori irreprensibili per le dottrine e riconosciuti per tali dall'autorit ecclesiastica. Signore, l'autorit ecclesiastica in Italia una sola; ed quella che cinta d'armi straniere combatte l'Italia in Roma. E' quell'autorit s poco amica alla scienza, che in nome di Dio neg solennemente l'esistenza degli antipodi e il moto della terra; che combatt l'anatomia, la geologia, la linguistica, l'etnografia, la cronologia; che ci cavilla ancora oggid la lettura dell'Evangelio. Solamente ieri, essa rapiva in Barcellona trecento volumi e con barbara ostentazione li gettava nelle fiamme. La teologia un miscuglio di Cristo e d'Aristotele, d'Aristotele che non credeva n manco all'immortalit dell'anima; la teologia non l'Evangelio, non la religione. (Opp. 2, 398). il che era, attraverso una polemica di natura politica, una riaffermazione della propria fede in un ordinamento laico e in un radicale positivismo. Ma non manca ci pare nel Cattaneo (come altri ha rilevato) un'intuizione religiosa del mondo, una fede, che appare a volte sicura e vigorosa, in un ordine eterno che guidi dall'interno il divenire delle cose, che dia un significato ed un senso all'infinito progredire del mondo: Chi crede la natura ordinata da un pensiero, non negher umiliarsi innanzi al testimonio che il creato rende all'ordine universale; chi lo nega mostra di credere che la natura sia opera del caso. Era lecito parlare del caso delle sensazioni, finch la poesia primitiva popolava i fiumi e gli astri di spiriti liberi e bizzarri; ma noi, eletti a vivere dopoch la scienza ebbe intesa la ragione e la misura dei moti celesti e le proporzioni numeriche e le regolari sostituzioni che

informano tutte le cose, dobbiamo umilmente rientrare nel seno della creazione, come in un tempio tutto perfuso dallo spirito che vi risiede; e nell'esercitare la libert del nostro principio interno, dobbiamo accettar saggiamente la scorta di quel lume, che l'ordine universale diffonde intorno a noi. (Opp. 6, 140). Nella serie delle specie, lo svolgimento dei tipi sempre progressivo; lo svolgimento d'una forza cosmica. Onde noi possiamo inalzare un inno d'ammirazione all'idea creatrice, che ordin un universo atto ad esser genitore d'infinito numero di specie, come ogni specie atta a generare infinito numero d'individui. (Opp. 6, 233). Le cose della natura e della societ si riflettono nel nostro pensiero come opera gi d'un pensiero; d'un pensiero segreto universale, inesauribile. E l'uomo, contemplando le leggi della natura e dell'umanit, incontra ancora quelle stesse leggi del pensiero che pu riconoscere nella sua propria coscienza. (Opp. 7, 25). Se noi fossimo teologi, diremmo che tutto siffatto mare di tempi ancora un nulla al cospetto dell'Eterno. Diremmo che la grandezza dei tempi attesta la grandezza di Dio; che la successione dei mondi in tempo infinito torna a sua maggior gloria. Chi poteva far un mondo ne poteva far mille. La creazione continua e perpetua. "In ipso vivimus". Nessuno pu impor termini alla potenza creatrice. Chi pot iniziar la natura, pu modificarla e variarla senza fine. (Opp. 7, 8384). Della "teoria delle menti associate" che fu il fondamentale contributo del Cattaneo alla storia della psicologia e della sociologia, l'autore non lasci che pochi frammenti senza poter portare a compimento quella pi vasta opera che pur avrebbe avuto il proposito di scrivere. L'interesse per la societ che (come abbiamo chiarito) fu il motivo centrale del pensiero del Cattaneo, illumina di una sua particolare luce tutti gli aspetti del suo pensiero. Lo Spirito non ha e non acquista realt che nel suo storico fenomenizzarsi. La metafisica proietta in un mondo di astratta e formale trascendenza i fatti ed i fenomeni spogliandoli della loro concreta storicit, e quindi ne altera e ne falsa profondamente il significato. E' necessario, per il Cattaneo, uscire definitivamente dall'ambito di una psicologia individualista di tipo cartesiano, ricollocare l'uomo, che sempre l'uomo vivente in un particolare tempo e in una determinata situazione storica, nel suo naturale ambiente che la societ, e a quest'"uomo sociale" concretamente riferirsi. Nasce cos l'"ideologia sociale" ossia il prisma che decompone in distinti e fulgidi colori l'incerta albedine della vita interiore; l'esame delle forze e delle idee che si sviluppano, lottano e agiscono nella societ: Che se anco queste indagini non diffondessero tanta luce sul corso delle nazioni, elle gioverebbero pur sempre alla conoscenza dell'uomo, e amplierebbero i confini della filosofia. L'uomo delle scole metafisiche non veramente l'uomo della selva piuttosto che l'uomo della citt, non piuttosto lo Spartano che il Sibarita, il Toscano che l'Ottentotto. La metafisica non cerc per quali gradi dall'indolenza dell'epicureo, che siede nell'ombra dei dotti orti mentre la patria cade, l'uomo possa trapassare alla veemenza d'una banda di settarii che corre a vincere o morire sui passi del profeta. Essa non indag quelle alternative di gloria e di sventura, che fanno d'un popolo illustre una razza di vili senza vergogna, o dal profondo della vilt fanno sfolgorar di repente una generazione d'eroi. Sopravvive tuttora su qualche remota spiaggia del globo l'uomo cannibale che contende alle fiere le carni del suo simile, mentre il

pensatore europeo si delizia nelle utopie della pi delicata beneficenza. Questi due viventi stanno ai contrari estremi dell'umanit; fra l'uno e l'altro s'interpone tutta la innumerevole serie delle variet nazionali e delle trasformazioni istoriche. Ebbene, sotto il fioco e dubbio lume della metafisica, e nell'angusto campo della "coscienza psicologica", non appare fra questi due ripugnanti divario alcuno; nel selvaggio e nel pensatore la metafisica trova la stessa "quantit" d'uomo e la stessa "qualit". Aristotele pu edificare nell'uno e nell'altro lo stesso numero di categorie; Platone pone a giacere nel selvaggio lo stesso stuolo d'idee che vigila nel pensatore; Kant dovrebbe distillare dall'uno e dall'altro la stessa ragion pura, perch i fatti dell'istoria sono per lui mere parvenze d'un'uniforme subiettivit; i nostri redivivi spinosiani potrebbero piantar nella coscienza del cannibale il perno dell'ente e farne centro all'universo e confonderlo quasi con la divinit. Qui fra la dottrina e il fatto dell'uomo, si spalanca un abisso incommensurabile. Le scole non presero un campo che basti ad adagiarvi la scienza e dispiegarvi tutto il ventaglio delle umane idee. Ecco dunque vasto e nuovo argomento: lo sviluppo istorico del pensiero universale: narrare per quali impulsi e con quale procedimento lo stesso genere umano, ch'erra tuttavia nelle selve d'un emisferio, abbia potuto in altro emisferio tessere intorno a s l'ampia tela delle leggi, dei riti, delle scienze delle arti, e siasi talmente inviluppato in questa sua fattura che non se ne possa pi sciogliere per tornare alla primiera selvatichezza. Chi si rinserrasse con Cartesio nella solitudine della coscienza, non potrebbe mai scoprirvi il concetto di quelle tante trasformazioni a cui l'uomo soggiace. Se non contempla "s nelli altri" ossia nell'"istoria", crede impossibili i conviti dei cannibali, le superstizioni dei Negri, i furori delli Unni, la corruzione del Basso Imperio. Non potrebbe mai imaginarsi "a priori" il mondo della favola, il mondo della musica, il mondo della politica, e le incantevoli combinazioni della parola, li edifici del calcolo astronomico, le creazioni dell'imaginativa, e tutti quei giudizi irresistibili, i quali, sgorgando dalle viscere della societ, traggono seco la ragione e la volont d'ogni uomo che vive in quel luogo e in quel tempo, e fanno in lui quasi una seconda ragione. Noi non possiamo afferrare lo spirito umano, non possiamo scrutarne l'essenza, non possiamo conoscerlo se non in quanto si manifesta con li atti suoi e le sue elaborazioni. Se lo assumiamo quale la tradizione di molti secoli, ossia l'educazione, l'ha reso in noi, ci avventuriamo a mutilare le sue attitudini primitive, a confondere ci ch' essenziale in lui con ci ch' variabile e fortuito. E' dunque mestieri studiarlo in quante pi situazioni e pi diverso si possa. Quando avremo contemplato il "poliedro" ideologico nel massimo numero delle innumerevoli sue faccie, allora i tratti comuni ad esse tutte ci segneranno la sua natura fondamentale e costante; gli altri indicheranno il variato campo della sua perfettibilit. Ora codesti tratti stanno sparsi nelle istorie, nelle leggi, nei riti nelle lingue; e da questo terreno tutto istorico ed "esperimentale" deve sorgere l'intera cognizione dell'uomo, la quale indarno si cerca nelle latebre della solitaria coscienza. Lo studio dell'"individuo" nel seno dell'"umanit", l'"ideologia sociale", il prisma che decompone in distinti e fulgidi colori l'incerta albedine dell'interiore psicologia. (Opp. 6, 77-80). Dall'"istinto" inizia l'associazione delle menti perch da un naturale impulso, che anteriore ad ogni consapevolezza razionale, l'uomo spinto ad unirsi ai suoi simili e a collaborare con essi:

All'elaborazione della scienza non basterebbero tutte le facolt dell'intelletto, se l'uomo non fosse gi per istinto di natura un essere socievole, se egli avesse non l'istinto del castoro ma quello del ragno il quale abita solitario nel centro della sua tela. Ecco dunque l'istinto entrare nell'opera scientifica come necessario coefficiente. E v'entrano altri istinti. V'entra quel bisogno di comunicare i propri sentimenti e pensieri che vediamo nella pi incolta femminetta. Quindi lo spontaneo sforzo d'imparar la parola e di formarla; lavoro che noi andiam proseguendo coll'imporre un nuovo vocabolo ad ogni nuova scoperta, all'ossigeno, al silicio, alla locomotiva. E se analizziamo le nostre lingue, noi troviamo che le voci scientifiche pi astratte sono traslati o derivati d'umili vocaboli, d'ordine concreto e sensuale. E se spingiamo l'analisi pi avanti e riduciamo i derivati alle radici, troviamo residuare al fondo d'ogni lingua un capo morto di pochi monosillabi, di suono per lo pi imitativo. E qui ci si affaccia un altro delli istinti umani, quello "dell'imitazione", che, se s'eccettua qualche specie d'augelli e di scimmie, uno dei pi caratteristici della specie umana; ed di supremo momento, non solo alla formazione della parola, ma in tutte le arti. E questo medesimo istinto imitativo, combinato ad altri, ci spiega il fatto della tradizione domestica e della tradizione scientifica, onde proviene l'associazione degli avi ai posteri, dei maestri agli allievi, e la perpetua successione nell'immortale opera del sapere. E vi sono altri istinti che possono svolgersi solamente in seno alla societ. E sono quelli che la scuola scozzese chiama "istinti morali", e che altre scuole preferiscono piuttosto chiamar col nome di sentimenti. Tale la credulit, l'adesione all'amicizia e all'autorit, l'amor della lode, il terrore dell'infamia. Le idee non sono opera del singolo, ma nascono dalla collaborazione di pi cuori e di pi intelletti: di qui deriva il concetto di una "psicologia delle menti associate" che non deve sostituire la psicologia delle menti individuali, ma integrarne e chiarirne i risultati trasponendoli sul piano della storia: Signori, io non vi leggo un trattato; io vi propongo l'idea di uno studio. La psicologia delle scienze, come quella delle lingue, come quella delle leggi e delle religioni e delle istituzioni tutte, un ramo di una "psicologia delle menti associate", ch'io vorrei non contrapporre, ma bens sovrapporre alla psicologia della mente individuale e solitaria. Tutti i pensatori sentirono che dall'intelletto dell'individuo non si poteva salire alle alte astrazioni e alle sublimi verit. Epper furono astretti a supplire con ipotesi pi o meno infelici, come l'"anamnesi" di Platone, che considerava l'idea come una fioca reminiscenza d'una vita anteriore: come le idee innate, - come la visione di Malebranche - come le categorie del pensiero, anteriori ad ogni pensiero, come l'idea dell'essere anteriore ad ogni idea. E con tutto ci non davano ragione della differenza che stava tra Polifemo ed Archimede. Perocch la reminiscenza platonica, e le idee innate, e la visione divina, e le categorie, e l'idea dell'essere, com'erano in Archimede, scenziato, cos erano anche in Polifemo, idiota e cannibale. Signori, il lievito che fa fermentare le idee non si svolge in una mente sola; il genio si tiene per mano alla catena dei suoi precursori. Perch si destino le idee devono attuarsi i pi generosi istinti, devono infervorarsi gli animi. La corrente del pensiero vuole una pila elettrica di pi cuori e pi intelletti. Lo stesso concetto di "sensazione" non pu essere considerato nella

sua astratta fissit metafisica, perch anche l'attivit sensoriale partecipa a quello sviluppo che caratteristico della societ e dell'uomo che in essa vive: La sensazione pare a primo aspetto il dominio nel quale grande e forte la vita selvaggia. Quante volte si leggono meraviglie della vista acuta del selvaggio che discerne nella sabbia le pedate della trib nemica! Come paragonare la fioca vista che si logor alla lampada notturna, e che Galileo spense nei cristalli del telescopio? Signori, questa un'illusione. Confrontiamo la somma intera delle sensazioni che si schierano innanzi alla mente del selvaggio e alla mente dello scienziato. E' vero che il selvaggio vive assorto nei sensi; vero che l'esercizio assiduo e la dura necessita glieli rendono vigili e acuti. Ma s'egli avesse pure la vista dell'aquila e l'odorato del cane, sempre vero che le sue sensazioni non hanno variet. Sono le sensazioni che si possono raccogliere entro quell'orizzonte di selve in cui lo chiudono le sue consuetudini, i suoi timori. Poche specie di piante, la pi parte neglette e inosservate a lui perch inutili ai pochi suoi bisogni; pochi animali; una riva di fiume, o di lago, li antri e li tuguri che ricettano la nuda trib; le vestigia dei nemici e il loro terribil grido. Quando noi pensiamo alle selve primiere, la nostra immaginazione pu affollar quasi in un punto tutte le pi varie e molteplici apparenze. Ma non cos. Ogni terra ha un aspetto suo, climi piovosi o aridi; le vaste arene dell'Australia o le vaste paludi dell'Orenoco, basi sparse di palmizi, alpi uniformemente annegrite dagli abeti; praterie su cui regna tale o tal famiglia d'erbe, con aspetto nuovo e grato a chi arriva, uniforme e tedioso a chi rimane. Nella nostra patria pi di cinquecento specie vegetanti, un quinto circa delle piante florifere, appartengono alle due sole famiglie delle graminee e delle composite, le pi delle quali si possono appena fra loro con attentissimo studio discernere. Ma il regno della sensazione scientifica abbraccia tutte le terre e tutti i mari, i vulcani e i ghiacciai, le pianure e i monti, gli arcipelaghi dispersi nell'Oceano e il deserto senz'acque. Gli animali delle varie zone e dei singoli continenti, il cammello e la renna, l'elefante e il canguro passano in rassegna innanzi a lui, vivono nelle sue stalle o nei suoi serragli, stanno ordinati nei suoi musei, disegnati e coloriti sulle pareti delle case. Qual Samoiedo vide mai le piante o gli animali o gli uomini della Nigrizia? Il selvaggio pu veder solo le cose della sua patria, la sensazione scientifica abbraccia tutta la terra. L'uomo civile non solamente riceve le sensazioni, ma le fa. Egli si ncora inanzi alle isole dell'Oceano e assorda i selvaggi col tuono e col lampo delle sue armi. La luce delle sue notti festive eclissa il chiarore delle stelle. I colori di tutti i metalli, il fulgore di tutte le gemme, i fiori e i frutti raccolti d'ogni parte e modificati dall'arte in variet infinite, che la natura non conosce, le innumerevoli combinazioni dei suoni e dei tempi, tutta la creazione della musica di cui nel seno della natura troviamo appena la prima intonazione, sono tutti nuovi fenomeni che la facolt motoria, attuata da altre pi sublimi facolt, fornisce alla facolt sensitiva. Anche le sensazioni pi connesse all'appetito animale, si vanno variando e moltiplicando colla civilt. Noi non badiamo, ma pure sono oggetti ignoti alla vita selvaggia il vino, il pane, e tutte le mille combinazioni dei sapori e dei profumi. V'e un mondo invisibile all'occhio nudo, rivelato alla scienza dal telescopio e dal microscopio. Noi possiamo discernere i punti lucenti della via lattea e delle nebulose. Noi discerniamo li infinitamente

piccoli che vissero in un grano di tripolo, che vivono in una goccia d'acqua, che nuotano negli umori della nostra pupilla. Tutta la chimica una rivelazione di fenomeni naturalmente inaccessibili ai sensi. Qual selvaggio potrebbe veder sollevarsi dalle feccie d'una fonte salmastra i vapori verdastri del cloro o i vapori violacei dell'iodio? E' questo un ordine nuovo di sensazioni che la scienza crea a se stessa. E gli apparati elettrici sono come nuovi sensi; poich con essi possiamo apprender fenomeni che sfuggono a quei sensi che abbiamo da natura; possiamo entrare in commercio con poteri della cui presenza nell'universo il selvaggio non ha percezione. E' lecito immaginare che come da natura ebbimo un senso che avverte le vibrazioni luminose e un senso che avverte le ondulazioni sonore, cos avremmo potuto nascer muniti d'altro organo che indicasse, come fa la bussola, le oscillazioni magnetiche Forse qualche interno sensorio di tal fatta che dirige certe specie di rosicanti nelle loro migrazioni dal levante al ponente della Siberia. Ebbene chi ci diede a scorta l'ago calamitato tra le nebbie dei mari, tra il polverio del deserto, tra i labirinti delle miniere; chi tese un telegrafo elettrico dall'uno all'altro lido d'un mare, ci forn dunque un equivalente ad un nuovo senso, utile e reale quanto i sensi della vista e dell'udito. Nulla poi rileva all'effetto se sia un organo corporalmente inserto nel nostro encefalo, o se i nuovi fenomeni, rappresentandosi nello spazio con le vibrazioni d'un ago o d'un manubrio, "si traducono" nel senso della vista. Per esso la mente nostra venne iniziata a un ordine di idee che la vista per s non poteva donarci, e che pi delle altre s'interna nelli arcani dell'universo. Le poche sensazioni del selvaggio sono sterili all'intelligenza perch vaghe, incerte, incommensurabili. Il selvaggio non pu paragonare il calore di due estati, il freddo di due inverni. Noi s, col mezzo delli strumenti precisiamo quanto varia il freddo da neve a neve, quanto varia l'ardore da fornace a fornace. Noi sappiamo a quale calore precisamente si liquef il piombo, a quale il ferro, quanti calori devonsi accomulare in una stagione per addurre a maturanza un grappolo d'uva. L'apparato di Melloni (1) accusa l'aggiunta infinitesima di calore che ci apporta una persona che si affaccia all'opposta estremit d'una camera. Fin qui vediamo moltiplicarsi sotto la mano della scienza i fenomeni della sensazione, ma tuttavia ciascun d'essi rimane oggetto d'una percezione individuale. Or bene, vi sono fenomeni che un individuo solo non potrebbe mai percepire nella loro pienezza nemmeno col ministerio delli strumenti, se non vi si associano i sensi di molti. Gli uomini che videro il ritorno della cometa di Halley non sono pi quelli che ne osservarono, settantacinque anni prima, l'altro arrivo. Per determinare lo spazio su cui vibra un terremoto, bisogna che pi uomini si avvertano fra loro di averne percepito la scossa ai limiti estremi. Gli osservatori che, sparsi in diverse stazioni, esplorano la tensione magnetica del globo sono come "le parti d'un comune sensorio" delle nazioni pensanti. Signori, lo splendido imperio della sensazione non nei sensi dei selvaggi, esso nella scienza sperimentale, cinta di tutti i suoi mirabili strumenti, accampata sulle mobili cupole degli osservatori. E il potere della scienza si svolge nel giro di tutte le facolt e tocca il sommo nello sviluppo delle facolt riflessive. (Opp. 6, 268-274). Per "analisi delle menti associate" Cattaneo intende: quelle grandi analisi le quali si vennero continuando per collaborazione, talora mutuamente ignote, di pi pensatori, in diversi luoghi e tempi e modi, e con diversi fini, condizioni e preparazioni.

(Opp. 6, 274). Per esempio: Or quando ne' libri di astronomia, vediamo pervenute oggi le scienze fino a distinguere in una romita stella uno stuolo di fulgidi soli, dobbiamo tuttavia riconoscere che chi verifica col telescopio siffatta meraviglia, compie un semplice atto di analisi, come quando, con la pupilla nuda, li mirava confusi in un'unica luce. Sia la pupilla armata o non sia, l'atto proprio dell'intelletto in quell'istante il medesimo, bench il senso, in tali nuove condizioni, gli annunci in quell'astro la presenza di pi punti luminosi anzich d'uno solo. L'analisi sempre "un atto con cui la mente distingue le parti d'un tutto". Ma l'occhio non poteva trovarsi armato e guidato se non in virt d'una lenta preparazione sociale. Quell'atto l'ultima risultanza del lavoro degli avi e dei posteri: esso l'opera di pi generazioni associate. L'alternare del sole e della luna deve destare, a tutta prima, nell'imaginativa l'illusione che siano due corpi di grandezza e lontananza poco disuguale, lucenti ciascuno di sua propria luce, a servigio dell'"immobile piano" della terra, fra una moltitudine di minute stelle sparse in una volta azzurra poggiata sui pi eccelsi monti. Ma nella perenne continuazione dell'analisi sociale, quella volta azzurra diviene uno spazio senza limite, quelle minute scintille divengono un popolo innumerevole di soli, intorno al pi vicino dei quali "si muove" l'umile "globo" della terra, traendo seco, per forza di pi vicina attrazione, il globo ancor pi esiguo della luna, che riverbera una luce non sua. Qui l'analisi primitiva, sempre accessibile ad ogni "individuo", sembra in conflitto con le analisi successive, compiute nel corso dei secoli, or presso certe nazioni or presso altre, per lavoro "sociale", rallentato sovente presso quelle nazioni medesime e talora derelitto. Le leggi della forza analitica non sono dunque da cercarsi solo nelle leggi dell'intelletto. "La percezione del vero una parte del destino delle nazioni". (Opp. 6, 274-276). La societ dunque per Cattaneo l'ambiente in cui le idee si generano, si sviluppano e lottano fra loro, e proprio da questo fecondo contrasto, che il principio generatore della civilt, nasce "l'antitesi delle menti associate" cio: quell'atto col quale uno o pi individui, nello sforzarsi a negare un'idea, vengono a percepire una nuova idea; ovvero quell'atto col quale uno o pi individui, nel percepire una nuova idea, vengono, anche inconsciamente, a negare un'altra idea. (Opp. 6I, 315). Per esempio: In un giudizio criminale il conflitto dell'accusa con la difesa pu condurre alla scoperta d'un colpevole ignoto. Nessuno pu prevedere qual sar l'ultima conseguenza a cui potr pervenire la negazione di un'idea filosofica, teologica o politica. Senza la negazione di Locke, senza la negazione di Vico, l'idea di Cartesio non avrebbe avuto la gloria d'essere il momento vitale da cui partirono due filosofie nuove, poste fuori dei termini ch'egli s'era prefisso. Nessuno avrebbe antiveduto nella negazione di Lutero la guerra dei trent'anni, n lo stabilimento in Germania di quella perenne dualit che le aperse tre secoli di agitazione scientifica, dopo tanti secoli di mentale sterilit. "In un altro caso", la nuova idea non nasce in forma d'opposizione,

essa pu vivere lungo tempo senza palesare la sua forza negativa. In chimica la scoperta dell'ossigeno doveva inevitabilmente togliere all'acqua, all'aria, alla terra il nome di elementi. Ma nel pensiero di Cavendish, di Priestley, o di Lavoisier (2) questo proposito non v'era. Anche dopo quella scoperta Priestley, che vi ebbe tanta parte, non pot mai darsi pace che l'ossigeno fosse la dura negazione di quell'immaginario flogisto (3) nella fede del quale egli era vissuto. E parimenti quando Lavoisier introdusse nell'armamentario chimico la bilancia e accoppi all'analisi qualitativa la quantitativa, egli predestin se stesso e tutti a porre in luce sempre pi evidente che la natura procede per proporzioni numeriche assolute. Dimostrato che la chimica un ordine perenne nel vortice perenne delle trasformazioni, doveva a maturo tempo apparir contraddittoria e irrazionale l'idea d'una materia caos. (Opp. 6, 315-316). Talora l'antitesi solo apparente; le idee rivali sopravvivono; dividono fra loro un dominio ch'entrambe aspiravano a conquistare, spargono una luce comune sopra altre verit. Talvolta l'antitesi cancella interamente l'idea opposta. A fecondare validamente l'antitesi necessaria la deliberata opera di pi menti. Un individuo solo pu oscillare debolmente nel dubbio fra due idee non ancora ben certe; ma perci appunto il conflitto vitale non pu esser mai cos risoluto e potente come quando si scontrano due individui, due stte, due popoli mossi da contrarie persuasioni, da vanaglorie, da offese, da odii che un uomo non pu mai concepire contro se stesso. (Opp. 6, 316, 317, 319). Da questa dialettica opposizione che anima e feconda dall'interno la vita della societ, trae la sua ragione generatrice il progredire infinito dell'umanit nella storia; e le costruzioni della civilt appaiono allora come il frutto di una collaborazione umana che supera i limiti dello spazio e del tempo e che compito della sociologia chiarire e determinare. Colui che trov il primo teorema della geometria, avrebbe potuto inventare anche il secondo e il terzo, avrebbe potuto compiere tutta la scienza. Ma la vita dell'uomo ha un limite; il breve suo lavoro vien troncato dalla morte. Bisogn dunque che ad un geometra ne succedesse un altro e un altro, raccogliendo ciascuno l'eredit del suo predecessore, sicch alla fine tutta la catena delle verit, ch'erano a dimostrarsi, rimanesse compiuta. Fu dunque necessario che la scienza divenisse una tradizione in seno ad una stabile societ. (Opp. 6, 267). Ma il primo impulso ai giganteschi passi dell'umanit sulla via del progresso dato dal "genio", che si pone fuori della via volgare, che non accetta l'esperienza come un immobile dato, ma che la trasforma in problema sempre nuovo ed aperto, che non la sua epoca, ma ci che la sua epoca spera, vuole ed attende. La moltitudine vive e muore senza essersi avvista delli arcani che la circondano; essa si riproduce per centinaia di generazioni prima d'accorgersi che il sangue le circola nelle vene, che il "piano immobile" della terra un globo girevole, tutto popolato d'antipodi: che nelli strati sconvolti delle alpi e dell'abisso una mano invisibile ha sepolto in ordinata successione le piante e gli animali di pi mondi incendiati o sommersi, che le fioche scintille del firmamento sono un esercito innumerevole di soli; che l'elettrico scorre senza posa per tutta la natura; che le nazioni scosse una volta dal sopore primitivo, attratte una volta nella corsa dell'incivilimento, scendono per un pendio fatale, che le travolge di

fase in fase sin dove nessuna mente pu dire. Fra codesti milioni d'indolenti e di ciechi che non cercano mai la verit che la negano quando nuova, e la sprezzano quando antica, surge tratto tratto un uomo singolare che si ferma ove tutti oltrepassano; che vede luce ove tutti vedono buio; che concepisce un sospetto, lo cova, lo nutre, vi persevera, vi aduna d'ogni parte congetture e induzioni, e dopo pertinace conflitto con s, cogli altri, colla natura, viene un giorno a dire che per le acque dell'occidente egli vuol condurci all'oriente: che il sole gira sopra s e non intorno a noi, che la sostanza del fulmine scorre nelle torpide viscere di rettili palustri, e da poche piastre di vili metalli pu erompere poderosa come dall'eccelse latebre de' cieli. Questa potenza mirabile di attenzione che si concentra sovra un punto inosservato, questa pertinacia che non si lascia smuovere dal torrente dell'opinione volgare, venne da Ferrari chiamata con bellissimo modo il "sublime sonnambulismo del genio". In mezzo al sonno delle nazioni il genio vigila solitario, e si affanna nell'amore quasi forsennato d'un vero che presente, che intravede, che persegue e non pu stringere. Egli spinto da una necessit interiore, che lo sprona per una vita ansiosa e infelice all'immortalit dei secoli. E' questa la sublime sventura d'Empedocle e di Socrate, di Bruno e di Galileo, di Colombo e di Vico. Il primo passo del genio egli quello adunque di mettersi fuori della via volgare, e cercarsene una sua propria, che in processo diverr la strada larga e trita del genere umano. Quando il portoghese va radendo terra terra li orli del continente arabico, pago d'insinuarsi ogni anno in altro golfo al di l d'altro promontorio, l'italiano volta le spalle al golfo, al promontorio, al continente, e si lancia rettilineo come una saetta, attraverso all'oceano ignoto. (Opp. 6, 81-82). Come mai Socrate, che muore in carcere perch svel improvvisamente al popolo idolatra l'unit di Dio, rappresenta col suo genio il popolo o il tempo? Come mai lo rappresenta Galileo prigioniero? come lo rappresenta Colombo rifiutato dalle culte citt dell'Italia, riprovato dai dotti ed accolto da una donna che regna su un popolo di semibarbari combattenti? Come lo rappresenta Vico, solingo tra l'ignoranza del vulgo, e le preoccupazioni degli studiosi? Come lo rappresenta Shakespeare, che in tempo d'agitazione religiosa, appena tra tanti sentimenti ed affetti, lascia sfuggir parola di religione? Pietro il Grande non rappresenta per fermo ci ch'erano i russi del suo tempo; ma piuttosto rappresenta tutto ci che i russi del suo tempo "non erano"; rappresenta quelli che non erano russi, rappresenta tutto ci che la Russia divenne un secolo di poi egli; non "un sistema che si fa uomo", ma "un uomo ammirabile che si fa sistema" e sopravvive nelle sue instituzioni a s medesimo; e si perpetua nell'educazione dei suoi discendenti, nella magnifica sua citt, nel suo esercito, nella marma, nelle universit, nelle conquiste sul Baltico e sul Caspio, nella violenta trasformazione di molti milioni di uomini, che avevano vissuto centinaia d'anni nella pi crassa ignoranza, pur pregando Iddio nella lingua di Platone e di Giovanni Crisostomo. (Opp 6, 106-107). Il problema dell'educazione non marginale nel pensiero del Cattaneo ma ci appare una cosa sola con la sua vita e con la sua opera tutta impegnata nel mondo, protesa ad un risveglio delle coscienze, radicalmente negatrice di ogni dogmatica accettazione e di ogni accomodante evasione metafisica: Noi per quanto valgano le nostre forze, vogliamo agitare tutta la scienza, svegliare tutti gli interessi, gettare a destra e a sinistra i nostri studi per suscitare e incalzare gli studi altrui, per

suscitare e incalzare i pensieri della nazione, le sue speranze, i voleri, gli ardimenti. (Prefazione al "Politecnico"). Ma il positivo e realista Cattaneo port il suo valido contributo anche a una serie di problemi di pedagogia e di tecnica dell'insegnamento. Ci che importa, egli afferma, non e il cumulo delle nozioni che lo studio pu fornire, ma il libero potenziamento delle facolt umane, la formazione del carattere e della capacit di inserire se stessi nella societ ad essa portando il nostro contributo di opere. L'educazione mentale non consiste tanto nel cumulo delle nozioni positive, quanto nell'attivazione e nello svolgimento di certe facolt che non provengono perfette dalla natura. Ai nostri tempi al contrario si dimentica facilmente lo sviluppo delle facolt, e si mira quasi unicamente a congregare nella memoria le cognizioni positive. (Opp 2, 285, 187). L'educazione non consiste nell'imbeccare i fanciulli con precetti e proverbi, e nel ripetere loro agli orecchi certe formule che l'abitudine cangia in vari suoni n attesi n intesi. Spesso una sola parola del consorzio domestico o sociale dissipa tutto l'incanto di una lunga tradizione scolastica. Il giovane Arouet, educato da mani sacerdotali, si trasforma inaspettatamente in Voltaire. (Opp. 4, 155). Contro lo spirito di vilt e di rassegnazione del popolo italiano, Cattaneo sostiene la necessit di un'"educazione militare". Contro gli eserciti delle grandi potenze, strumento di oppressione e di imperialismo, pedine senza volont nel giuoco ambizioso delle diplomazie, egli propugna la istituzione di un esercito di popolo armato in difesa delle libert nazionali. Per questo le scuole dovranno interessarsi ai problemi militari: per preparare l'adolescenza al fine supremo di tutti i nostri pensieri: la difesa della patria. Tutto il sistema scolastico dal quale usciamo era ordinato a un supremo fine: comprimere. Dopo il 1848 le antiche ruggini tra il despotismo soldatesco e il prelatizio si erano rimosse; gli scandali antichi furono serbati a giorni pi ridenti, a generazioni pi corrotte e imbecilli. Il papato e l'imperio congiurarono non solo contro il nome italiano, ma fin dove il loro braccio arrivasse, contro ogni libert. La violenza e la frode non si limitavano alla ragione; si volle stuprare anche la fede nei popoli. Non bastava che fossero disarmati; doveva il principio della sommissione, della rassegnazione della delazione, d'ogni vilt d'ogni infamia, penetrare sino al fondo della loro coscienza. Si tratta ora di capovolgere tutto questo sistema. L'antitesi deve commisurarsi alla tesi. Tutto l'insegnamento deve mirare a dar forza e dignit al popolo. Noi siamo la sola nazione al mondo alla quale ogni pace guerra. Al disarmo deve contrapporsi lo spirito militare, alla rassegnazione e all'avvilimento una decorosa esaltazione, allo spionaggio il senso del dovere e dell'onore. Tutte le scuole devono preparare l'adolescenza al fine supremo di tutti i nostri pensieri: la difesa della patria. Tutte le scuole devono avere aspetto militare. N s'intende solo che ogni adunanza d'adolescenti debba aver vestimenti e atti pi o meno militari, ma che alla ginnastica e all'esercizio delle armi debba venir indirizzata quella sovrabbondanza di vitalit e di moto che pulsa in tutte le fibre della giovent, e che lasciata volgere altrove conduce da un lato alla dissipazione, alla frivolezza, allo snervamento, dall'altro

a una selvaggia brutalit. Ma gli esercizi militari debbono essere coordinati in modo che il giovane senta in essi ch' cittadino e che a destra e a manca gli stanno tutti gli altri cittadini, pronti a combattere come lui. Nella Svizzera gli allievi delle scuole sparse sulla superficie del paese, si adunano una volta all'anno, ora in un luogo, ora nell'altro, vi trovano filiale alloggiamento presso le famiglie che si ricambiano con piacere questo amorevole officio; e quivi raccogliendo per due giorni i loro piccoli drappelli, fanno a fuoco l'esercizio di battaglione, tornano festosi alle loro valli native, legati tutti da indissolubile fraternit militare. Gli allievi di tutta la Svizzera, adunati in parecchie migliaia a Zurigo, sotto il comando di quegli stessi generali che avrebbero guidato a vere battaglie i loro fratelli maggiori e i loro padri, si divisero in due piccoli eserciti; e con carabine e cannoni e cavalli rappresentarono sul terreno i fatti d'arme che vi ebbero veramente luogo, sessant'anni sono, tra Massena e Suvaroff. Vedete perch un popolo che non la decima parte della nazione italiana vien trattato con rispetto dai pi potenti despoti; e perch le spume e gli escrementi della sua milizia, vomitati lungi dalla patria, hanno la forza di tenere in freno turbe d'uomini allevati a vivere e morire imbelli. Tutte le scuole scientifiche e industriali devono essere coordinate in modo che in un ramo o in altro il giovane studioso venga ad avere quella parte d'insegnamento il cui complesso costituisce l'arte militare. Anche nei collegi militari l'insegnamento per necessit comprende l'aritmetica, la geometria, la geografia, le lingue; per tre quarti almeno non appartiene alla specialit militare. Codesta specialit che per s dunque forma solo una frazione di insegnamento anche nei collegi militari, deve venire immantinente introdotta e accasellata in tutti i rami del pubblico insegnamento. Avrete nell'universit una scuola d'ingegneri civili. Ebbene, nessuno possa farsi ingegnere civile se non ha fatto un corso di fortificazione. Avete nel corso triennale d'ogni liceo professori di matematica; di fisica, di meccanica (se ne avete), di chimica (se ne avete). Quali rami di queste scienze sono necessari alla tattica? alla strategia? alla fortificazione? all'artiglieria? Sono le sezioni coniche, la balistica, la fabbrica delle polveri, la geografia militare eccetera eccetera. Ebbene assegnate a ciascuno di quei professori la sua sezione di militare argomento, e il liceo civile, senza forse un centesimo di spesa, sar inoltre una scuola militare. Quando tutti i giovani studiosi siano per tempo iniziati, ve ne sar sempre molti che vorranno andare innanzi da s. Questa scolaresca militare dar quanti ufficiali abbisognano a capitanare tutti i cittadini. Quando avrete a guida dell'insegnamento scientifico un cittadino soldato non leggerete in capo ad una nuova legge che il ministro governa l'insegnamento pubblico in tutti i rami, "eccettuati gli istituti militari e nautici". Finch avremo mandarini civili e mandarini militari, il nemico potr sempre insultare a ventisette milioni di popolo e invadere le rive del Po pi impunemente che le rive del Pei-Ho. I nostri antichi padri non facevano cos. (Opp. 2, 369-372). L'ideale del Cattaneo quello di una milizia di cittadini armati in difesa della patria. Niente quindi pi remoto dal suo animo e dalle sue intenzioni che un'esaltazione del militarismo come tale: Ma per far questo ordinamento e attivarlo con efficacia e non per mera pompa teatrale e per dimostrazione, come con melensa vanit siamo

soliti a dire e a fare, sono necessari uomini che abbiano animo militare e civico e intendimento di "milizia civica"; la quale ai militari di mestieri, pei quali "militare servire" sembra la quadratura del circolo. (Opp. 2, 372). Il militarismo sar punito da ci in cui pecca. Il militarismo divora in tempo di pace ogni alimento della guerra. Tutti i tesori che la scienza applicata improvvisa nel mondo civile sono ingoiati dalla voragine del militarismo. Il militarismo, la gelosia delle armi cittadine, vuole che la nazione combatta con una sola mano. Vuole la vittoria del soldato, non quella del cittadino. Accetta una pace assurda piuttosto che dividere la gloria col leone popolare. (Scr. pol., 351-352). Ammiratore e seguace del Beccaria, cos scriveva a proposito della pena di morte: Noi dobbiamo abolire il patibolo sulla terra libera affinch pi iniquo e pi odioso esso appaia sulla terra di servit. E non si dica che le altre nazioni pi civili conservano nelle loro leggi la pena di morte. Imitiamo negli altri popoli ci che li fa grandi e gloriosi, ci che li fa indipendenti sulla terra propria, e potenti pur troppo anche sulla terra altrui. Dovremo dunque in ogni cosa esser minori degli altri? Dovremo forse vivere senza strade perch, anni or sono, la Spagna dominatrice di mezza America, lasciava il suo commercio ai mulattieri? Dovevamo aver gli schiavi della gleba perch la Russia e la Polonia li avevano a milioni? (Scr. pol., 3, 122 e 119). Una miniera di preziose osservazioni sono gli scritti sulla "riforma carceraria"; atto di critica implacabile e di violenta protesta contro la brutalit e la violenza con cui sono spesso trattati i detenuti. La legge non la vendetta della societ: pi che di punire o reprimere, si tratta di prevenire e di rieducare. Felice il pensamento di notare, colla consueta esattezza medica, tutti i fatti morali e corporei dell'individuo malfattore; e siamo persuasi che da queste particolari istorie, raccolte in pi luoghi e presso diverse nazioni, con tutta fedelt debba scaturire una profonda induzione sulla effettiva natura della spinta criminosa. Allora si verranno sempre pi dichiarando i grandi aspetti sotto cui ella si presenta ora diretta ora indiretta, ora maliziosa e riflessiva, ora impulsiva e quasi cieca. Quindi una gran parte della controspinta verr tuttora delegata alla legge criminale, al carceriere o fors'anche al carnefice; ma una gran parte verr delegata a cure indirette e ad altri rami della civile autorit, massime per ci che riguarda il costume e l'educazione; e un'altra parte verr finalmente rassegnata del tutto alla cura del medico, e forse una reclusione preventiva e scevra d'ogni penalit verrassi palesando come l'unica via per proteggere la societ da certi delitti che possono piuttosto riguardarsi come eruzione d'infamia naturale che come atti di calcolata malvagit. Noi vorremmo che i nostri medici non si restringessero troppo timidamente nella prima questione che sul grave e profondo argomento della dottrina carceraria venne loro proposta, cio sulla preferenza da darsi piuttosto ad uno che ad un altro modo di reclusione. Ma facciamo loro il pi sollecito vanto a prendere un pi vasto campo d'indagine scientifica ben certi che chi allarga i confini dell'osservazione, allarga i confini della scienza. (Scr. pol. 1, 88-89). Ormai tutto l'ordine giuridico dovrebbe comporsi ad una pi provvida difesa sociale, non vendicativa, non ostentatrice. La grande tutela

accoppiata ad una grande educazione non pu consistere nell'affacciare alle moltitudini la scenica alternativa della malvagit che, tremando in faccia alla morte, fa parer la legge atroce, o che, sfidandola, la la parer impotente. (Scr. pol. 3, 127, 131). NOTE. Nota 1. Macedonio Melloni (1798-1854) fisico. Introdusse per primo il concetto d'identit tra le forme di energia calorifera e luminosa. Studi l'energia raggiante nell'atmosfera. Il "banco di Melloni" era un perfezionamento del termomoltiplicatore del Nobili. Nota 2. Enrico Cavendish, fisico e chimico inglese (1731-1810). Giuseppe Priestley, chimico inglese (1733-1804), - Antonio Lavoisier (1743-1794), francese, ritenuto il fondatore della chimica moderna. Importanti le sue leggi sulla conservazione della materia. Nota 3. Ipotetico componente di tutti i corpi combustibili. Per gli alchimisti la combustione era determinata appunto dallo svolgersi del flogisto.

IL RISORGIMENTO E IL FEDERALISMO. Il federalismo nasce, in Cattaneo, dalla teoria politica ed economica della libert come equilibrio e collaborazione reciproca, da quella profonda fede razionale - che abbiamo visto sempre operante nel suo pensiero - in un'autonomia che insieme impegno di operosa cooperazione. Ed il federalismo del Cattaneo pu rivelarci la sua pi intima natura ove esso venga considerato il decisivo punto d'incontro delle esperienze politiche e culturali del nostro autore lontano sempre, in ogni manifestazione del suo pensiero, dall'affermazione di un'astratta e indeterminata unit in cui si annulli quella complessa variet di motivi che a quell'unit soggiace e che, all'unit stessa, d senso e concretezza. La soluzione federalista appare cos al Cattaneo non come un mezzo per l'attuazione della libert, ma come la libert stessa che solo nella variet e nella molteplicit degli elementi che ad essa danno vita, acquista un valido significato: Libert repubblica, e repubblica pluralit ossia federazione. (Scr. pol., 2, 48). Lo stato unitario non pu essere che dispotico, incapace cio di adempiere a quella funzione mediatrice in cui sta la sua vera essenza, e quindi di necessit portato a risolvere e ad annullare in un esasperato centralismo la vita delle sue istituzioni. Nello stato unitario infatti - il cui caratteristico modello la Francia - la burocrazia non pu non costituirsi in una casta dominante che il parlamento pu solo formalmente controllare e a cui appartiene in realt il destino della nazione: La Francia si "chiami" repubblica o regno, nulla monta, composta di 86 monarchie, che hanno un unico re a Parigi. Si chiami Luigi Filippo o Cavaignac; regni quattro anni o venti; debba scadere per decreto di

legge o per tedio di popolo; poco importa; sempre l'uomo che ha il telegrafo e quattrocento mila schiavi armati. (Scr. pol. 1, 275). Unico mezzo per impedire il formarsi di questa casta soffocatrice di ogni iniziativa individuale, un governo basato sulle autonomie locali, una confederazione simile a quella elvetica o americana: Solo al modo della Svizzera e degli Stati Uniti pu accoppiarsi unit e libert. Cos solamente s'adempie il precetto del fiorentino, che il popolo per conservare la libert deve tenervi "sopra le mani". (Scr. pol. 1, 142). In seno ad un'Europa libera, le lingue e le religioni possono vivere in eguaglianza e in pace come in seno alla Svizzera. Novantamila grigioni hanno due religioni e tre lingue; e mai non s'ode fra loro un garrito di discordia, quali ogni giorno in seno alle arroganti e spensierate vostre maggioranze. All'ombra della libert la ricomposizione dei popoli sbranati si pu fare per pacifico suffragio; si pu fare e rifare quante volte abbisogni. Nessun errore pu essere irrevocabile. La guerra dei confini morta. ("Politecnico", volume 16, 1862). Solo in uno stato federale il cittadino, attraverso una molteplicit di centri autonomi che agiscono per sua iniziativa e operano sotto il suo diretto controllo, potr davvero partecipare al governo della cosa pubblica affermando, in tal modo, una sua attiva libert. Di queste esigenze non tengono conto i sostenitori del centralismo: Sempre in preda a precipitose astrazioni, vedono nel mondo gli individui, poi le famiglie, ed gran ventura; poi vedono anche il comune, ossia l'azienda unita d'un centinaio forse di famiglie e nel pi de' casi, combinazione pressoch domestica e privata. Poi chiudono gli occhi per tutti gli altri internodi e ricapiti dell'umana societ; balzano d'un tratto alla nazione, ch' quanto dire, alla lingua. Ignorano lo stato e le sue necessit. Dunque se una medesima lingua domina le Isole Britanniche, la Pensilvania, la California, l'alto Canad, la Giamaica, l'Australia, per essi v' solamente a far somma d'un maggior numero di famiglie e di comuni. Dunque il parlamento britannico non ha da far leggi; il congresso americano sogna di aver leggi da fare; tanto pi superflua una legislazione provinciale per i fratelli della Pensilvania e i venturieri della California; l'algido Canad, la torrida Giamaica non debbono aver leggi proprie, che rispondano ai luoghi e alle tradizioni e alle varie mescolanze degli uomini e alla varia loro coscienza; l'Australia deve aspettare in eterno ogni provvedimento dai suoi antipodi, perch parla la stessa lingua, e fa secoloro una sola nazione. No. Qualunque sia la comunanza dei pensieri e dei sentimenti che una lingua propaga tra le famiglie e le comuni, un parlamento adunato in Londra non far mai contenta l'America; un parlamento adunato in Parigi non far mai contenta Ginevra; le leggi discusse in Napoli non risusciteranno mai la giacente Sicilia, n una maggioranza piemontese si creder in debito mai di pensar notte e giorno a trasformar la Sardegna, o potr render tollerabili tutti i suoi provvedimenti in Venezia o in Milano. Ogni popolo pu avere molti interessi da trattare in comune con altri popoli; ma vi sono interessi che pu trattare egli solo, perch egli solo li sente, perch egli solo l'intende. E v' inoltre in ogni popolo anche la coscienza del suo essere, anche la superbia del suo nome, anche la gelosia dell'avita sua terra. Di l il diritto federale, ossia il diritto dei popoli, il quale deve avere il suo

luogo, accanto al diritto della nazione, accanto al diritto dell'umanit. Uomini frivoli, dimentichi della piccolezza degli interessi che li fanno parlare, credono valga per tutta confutazione del principio federale andar ripetendo ch' il sistema delle vecchie "repubblichette". Risponderemo ridendo, e additando loro al di l d'un Oceano l'immensa America, e al di l d'altro Oceano il vessillo stellato sventolante nei porti del Giappone. (Scr. pol. 1, 403-404). Solo attraverso l'attuazione di questo ideale federalistico l'agitata Europa potr ritrovare se stessa e conquistare una durevole pace. E in questo sempre aperto cosmopolitismo la nazione non distrutta o ignorata proprio in quanto essa, per il Cattaneo, non trae la sua vita da una tradizione d'isolamento, ma di volta in volta a questa sua vita d un senso, operando a fianco degli altri popoli per la realizzazione di pi alte forme di civilt. L'oceano agitato e vorticoso, e le correnti vanno a due capi: o l'autocrata Europa o gli Stati Uniti d'Europa. Il principio della nazionalit provocato, ingigantito dalla stessa oppressione militare che anela a distruggerlo, dissolver i fortuiti imperi dell'Europa orientale e li frantumer in federazioni di popoli liberi. Avremo pace solo quando avremo gli Stati Uniti d'Europa. Quando le nazioni tendono d'ogni parte verso la comunanza dei viaggi, dei commerci, delle scienze, delle leggi, delle umanit; quando il vapore trae sulle terre e sui mari le moltitudini peregrinanti nel nome della pace e della fratellanza; quando la parola vibra veloce nei fili elettrici da un capo all altro dei continenti, non pi tempo d'architettare una giustizia e una libert che siano privilegio d'America e d'Europa, di papisti o di protestanti. E' tempo che le discordi tradizioni delle genti si costringano ad un patto di mutua tolleranza e di rispetto ed amist, si sottomettano tutte al codice d'un'unica giustizia, e alla luce d'una dottrina veramente universale. E' tempo che le arbitrarie e anguste divinazioni dei pensatori primitivi perpetrate nei libri di sacerdoti rivali e nemici cedano alle costanti rivelazioni della scienza viva, esploratrice dell'idea divina nell'illimitato universo. Verit, libert e giustizia: libert per tutti e giustizia per tutti: questa prosa sincera e durevole, vera oggi e vera domani. (Considerazioni al volume secondo dell'Archivio Triennale). Nessuno scritto del Cattaneo per dedicato, in modo particolare ed esclusivo, al problema del federalismo, nonostante che proprio questo problema costituisca forse il motivo ispiratore di tutta la sua produzione, dalla cui presenza acquista organica unit un pensiero cos vario, frammentario, ricco di interessi e di direzioni culturali. Piuttosto che trascrivere brevi frammenti, riuniamo qui alcune delle pagine a nostro avviso pi significative e soprattutto pi atte ad indicare le successive posizioni che il pensiero del Cattaneo venne assumendo di fronte alle mutevoli situazioni politiche dell'Italia del Risorgimento. Dal 1835 al 1848 furono pubblicate le "Interdizioni israelitiche", prima rivelazione della dottrina e dell'ingegno del giovane autore; nacque (nel 1839) "Il Politecnico", rivista di cultura scientifica elegante nella forma, varia di argomenti, ricca di problemi e di teorie originali; del 1844 sono "Le notizie naturali e civili sulla Lombardia" la cui introduzione resta forse il pi notevole lavoro del Cattaneo. Periodo dunque di intensa preparazione culturale e di molteplici interessi che costituisce come una preparazione al pensiero politico degli anni successivi al '48, in cui il federalismo appare

dottrina pi coerente e chiaramente definita proprio perch impegnata in una quotidiana lotta che rendeva urgente il suo trasformarsi da generica affermazione di libert in teoria di concreta azione politica. Prima del '48 il Cattaneo, che era nettamente sfavorevole alla propaganda rivoluzionaria dei mazziniani, vedeva per l'Austria dispotica e centralista una sola possibilit di sopravvivenza: la sua trasformazione da stato unitario a stato federale, nel quale i singoli stati, liberi ed eguali, trovassero la propria unit solo nel comune riferimento alla casa d'Asburgo. Era l'ideale riformistico e illuministico di quel progressivo avviarsi ad un regime liberale che gi aveva guidato l'azione politica di Maria Teresa. Nulla avrebbe poi potuto impedire al Lombardo-Veneto - resosi autonomo - di staccarsi da una federazione austriaca cos concepita per aderire ad una libera federazione di stati italiani. Non ha infatti senso, per il Cattaneo, tendere alla realizzazione di un'estrinseca unit nazionale che non avrebbe significato ove essa dovesse attuarsi mediante la successiva fusione all'arretrato Piemonte, dei vari stati della penisola. L'unit politica - come il Cattaneo la intende - non gi il presupposto, ma la conseguenza di una profonda unit morale; e abbattere un governo straniero per sottomettersi alla politica reazionaria e antiliberale di un Carlo Felice e di un Carlo Alberto significa solo cambiare di padrone. Cos rispondeva il Cattaneo alla propaganda piemontese per una guerra antiaustriaca: Prima fate la rivoluzione a casa vostra, e non venite colla vostra corte e coi vostri confessionali a farci cadere ancora al di sotto delle tartarughe (Scr. pol., 2, 51). E nell'"Insurrezione di Milano" cos scriveva a proposito delle aspirazioni dei conservatori milanesi favorevoli alla guerra con l'Austria per giungere ad un immediato assorbimento della Lombardia nel regno piemontese: Si doveva fare una rivoluzione, si doveva romper guerra al passato: e a capo dell'impresa stavano una nobilt adoratrice di ogni passata cosa, un re assoluto e un papa. Adunque le mani medesime che poco stante ci avevano consegnato al dominio barbaro, dovevano liberarci! Non era in questo un controsenso aperto? Non era assurdo sperare da siffatte condizioni un ragionevole effetto? La fazione retrograda, volendo solo l'indipendenza esterna e non la libert, aveva semplice impresa. Ella doveva solo figurarsi tornata al 1814 e questa volta invece dell'esercito austriaco doveva chiamare quello di Carlo Alberto. La quistione ch'essa doveva sciogliere non era quella di una rivoluzione, ma di una guerra. Della libert e del progresso ella non si curava punto; il nostro popolo era anzi per lei gi trascorso soverchiamente; e avrebbe voluto ritrarlo agli ordini antichi, facendo comunella colla nobilt savoiarda. Non si trattava d'altro adunque che di sospingere il Piemonte a romper guerra all'Austria. Al che faceva mestieri dimostrare quanto agevole opera fosse divenuto il conquisto della Lombardia, e quanto propizio il tempo; bastava mettere in palese l'avversione concepita dai popoli al governo; insomma bastava fare dimostrazioni. Il fare ordinamenti efficaci, il predisporre armi, munizioni e capi, erano cose nei disegni di quella fazione affatto superflue, anzi pericolose, poich le armi in mano di popoli agitati sarebbero state agli intendimenti suoi novello inciampo. ("Insurrezione di Milano", pagina 16, 18).

Lo spirito positivo del Cattaneo, che si poneva con un senso di critico realismo di fronte ai fatti, gli aveva impedito, nonostante la sua avversione ai conservatori, di partecipare ai segreti progetti dei rivoluzionari. I loro disegni gli apparivano dettati da un'audace fantasia piuttosto che da un serio e spassionato esame della situazione. Impossibile e forse dannosa alla stessa causa della libert, egli riteneva quindi un'improvvisa rivolta popolare: Un insorgimento di popolo non pareva dunque la prima cosa a cui pensare. La Lombardia piccola parte d'un impero pi vasto della Francia. Sommuoverla a tumulto era esporla senza esercito alla vendetta di generali feroci; abbandonare le citt nostre alla rapina, le famiglie nostre alla violenza dei barbari; cimentare le speranze stesse della libert. Chi amava la patria doveva arrestarsi a quel pensiero, e rivolgere la mente a meno incerti e meno disastrosi disegni. Era fatto palese che le finanze imperiali stavano in mali termini, e che le diverse nazioni, fatte conscie di s, tendevano a smembrare l'impero. A poco a poco l'esercito imperiale sarebbe caduto nell'impotenza e nella dissoluzione poich ogni popolo avrebbe cominciato a tenere a s i suoi denari, e ad armarsi in casa propria. ("Insurrezione di Milano", pagine 16-17). Ma la lotta per la libert delle giornate del '48 si rivel al Cattaneo - che aveva soprattutto dubitato della possibilit di riuscita d'un movimento armato - come la prima realizzazione delle sue aspirazioni. L'enorme mole del dispotico impero sembrava d'improvviso incrinarsi e scricchiolare sotto la spinta vigorosa dei popoli oppressi. Non era pi possibile sperare e attendere riforme. Senza prendere attiva parte alla lotta armata, nella notte fra il 17 e il 18 marzo Cattaneo saputo dell'insurrezione di Vienna e dell'abolizione della censura, risolveva di pubblicare alla domane stessa un giornale: "Il Cisalpino". Nel programma del giornale, che qui trascriviamo, Cattaneo sosteneva la necessit di un immediato allontanamento delle truppe straniere dalla Lombardia e di un patto provvisorio di libert fra tutte le nazioni dell'impero. Viva Pio Nono! Il tempo ha vinto. Ci che pochi giorni addietro era meno che una speranza, era un sogno, oggi un fatto: un fatto splendido, vasto, universale. Tutta l'Italia, tutta la Francia, tutta la Germania, la Danimarca, la Boemia, si sono trasformate ad occhio veggente in sessanta giorni. Il 12 di gennaio, a mezzod, andavano al palazzo del vicer di Sicilia le donne palermitane vestite a bruno a prendere la risposta fatale; e tornando repulse e dolenti, davano ai fratelli e agli sposi il segno del combattimento. Si combatteva e si vinceva tosto in Sicilia. E, pochi giorni dopo, in Francia. E, pochi giorni dopo, nell'antico e inviolato nido della schiavit, in Vienna. Si vinceva senza combattere a Baden, a Stoccarda, a Monaco, a Buda. Era una guerra sola, un solo nemico, dovunque vigilante, dovunque armato, dovunque a fronte degli inermi; e il premio della vittoria era da per tutto il medesimo: la libera parola; giudizi in pubblico; le finanze palesi; la fede reciproca fra governanti e governati. Qua il principato ereditario, col un comitato elettivo; l chiamano la "repubblica" e il "regno", come d'opinione, di tradizione, di forma; ma, in sostanza, la "cosa pubblica" per tutti e da per tutto. Da per tutto ove il terremoto politico scoteva il suolo, si vedevano, come talpe snidate, sbucare dai loro nascondigli gesuiti, rosminiani,

ignorantelli, pettegole del Sacro Cuore, abbandonando ai vittoriosi le ricchezze male acquistate e le vestigia d'un'arcana morale. Da per tutto le polizie si mostravano impotenti, ignare, cieche, ostinate a cercar fra le tenebre le cagioni di quel moto che veniva dall'universal luce del sole; da per tutto la diplomazia restava confusa e scornata; da per tutto cader le baionette, e svanire come bolle di sapone e trastullo di ragazzi le bombe. Senonch, in questo conflitto di lingue, ogni popolo s'accorse d'avere la sua; ogni nazione colse la coscienza di se medesima; comprese il segreto del suo essere; vide che "la libert delle altre era condizione necessaria alla sua". E allora, in tutte, un pari odio contro il vecchio astuto che col ministerio del bastone rimoveva quell'immenso guazzabuglio di gente e di cose. Onde sulla piazza della Corte, a Vienna, si videro nella folla tedeschi e polacchi, italiani e boemi, magiari e dalmati muoversi allo stesso assalto, come se avessero una sola patria; si ud vociferare nello stesso tempo: "Viva l'Italia" e "Viva la Polonia", "Viva il Tirolo" e "Viva l'Ungheria". Ognuno voleva esser se medesimo; ognuno voleva serbar nitidi e vivaci i colori della sua bandiera; ma non nel contrasto dell'odio e della reciproca servit, bens nella pura luce della libert e dell'amore. Viva Pio Nono, che getta fra le genti il segno di questa pace! S, ognuno abbia d'ora in poi la sua lingua, e secondo la lingua abbia la sua bandiera, abbia la sua milizia: "guai agli inermi!" Abbia la sua milizia; "ma la rattenga entro il sacro claustro della patria", affinch l'obbedienza dei popoli sia spontanea e legittima, e quindi debba serbarsi legittimo e giusto il comando. Oltre al limite del giusto non v' pi obbedienza. Queste patrie tutte libere, tutte armate, possono vivere l'una accanto all'altra, senza nuocersi, senza impedirsi. Anzi, nel nome d'un principio comune a tutte, possono avere un pegno di reciproca fede, un'assicurazione invincibile contro ogni forza che le minaccia. Dio santo! quale immensa colluvie d'eserciti copriva l'Europa! In molti luoghi, non l'uno, non il due, ma il tre per cento delle popolazioni: erano pi di due milioni di soldati, divoranti in ozio forzato le fatiche dei poveri fratelli; la pi parte trasportati in terre straniere, comandati in lingue altrui, per derisione armati, prigioni carcerieri d'altri prigioni. Diecimila gendarmi, nel solo regno di Napoli, spaventavano notte e giorno i popoli; pattuglie zoccolanti la notte per le strade rompevano i sonni del giusto; le madri e le spose spiavano alla finestra tremando se lo sciagurato drappello oltrepassava la porta. Tutta irta di lance cosacche e tartare l'inerme Polonia. Luigi Filippo aveva chiuso Parigi in un cerchio di ferro; e, postosi la chiave in tasca, attendeva a spartire tra i guardiani e i prevaricatori la mercede della pubblica vergogna. Tutte queste forze, tutte queste arti, sono dileguate come nebbia. I soldati erano maschere di nemici; non erano pezzi di ferro fuso, erano uomini; erano parte di popolo, parte centesimale di popolo; e, gettati come gocce d'acqua sopra la tazza, vi si confusero, facendola colma e traboccante. Con quanta sapienza di geografia e di linguistica, non si erano trasposti i soldati italiani in Vienna, i tedeschi in Ungheria, i tedeschi, i polacchi, gli ungheri, tutti i popoli dell'impero, in Italia! In questo nodo gordiano, in questo intreccio d'odii nazionali, le nazioni non si dovevano mai confondere, anzi dovevano provocarsi e attizzarsi a una vita di sospetto e di rabbia. Alcuni accusarono a torto la politica metternichiana d'aver voluto germanizzare l'Italia e la Polonia. Se per una qualche magia l'impero si fosse potuto germanizzare, ci vuol dire che la lingua dei soldati e dei popoli sarebbe divenuta una sola al di l e al di qua delle Alpi e dei

Carpazi. E, allora, come porli a fronte? come rendere insensibili i soldati all'amore e alle lagrime dei popoli? Oh no; le nazionalit dovevano, come fili di vario colore, intrecciarsi senza confondersi; dovevano accostarsi, per prendere nell'opposizione maggior vigore e contrasto. Il nome germanico non era stato mai cos odiato in Cracovia e in Venezia: la germanizzazione diveniva ogni giorno pi ripugnante e impossibile. E poich sotto il mantello officiale della lingua latina in Ungheria le differenze della gente rimanevano dissimulate, si promosse a poco a poco e con affrettata rotrosa che la lingua dei magiari fosse imposta come lingua officiale anche agli slavi, ai rumeni, ai sassoni. E quindi eccitate in seno all'Ungheria e alla Transilvania discordi nazionalit; impedita per tanto l'insensibile fusione che il commercio e il tempo tacitamente avrebbero addutto in quel caos di popoli, accozzati e non associati ancora. "Divide et impera". Non si vedono nella Svizzera e nel Belgio diverse lingue esistere senza odii, in una sola provincia, in un sol cantone? Non gi che questo associarsi, in qualunque modo che i tempi vollero e predisposero, debba dividerci "da chi pi ci somiglia", ma diremo che il tempo potr indurre pacifiche e volontarie combinazioni che rendano sempre pi semplici le cose, e "pi conformi alle preparazioni e ai decreti della natura". Ma godiamo frattanto i doni del tempo presente, riservando il futuro al futuro. Intanto, "consigli concordi e mani armate". "Il paese deve essere del paese". Viva l'Italia! Viva Pio Nono! (Scr. pol. 1, 122, 125). Quando la rivolta assunse ampie proporzioni, e il popolo armato inizi la sua eroica difesa contro le preponderanti forze degli austriaci, Cattaneo sent che urgeva por termine alle discussioni e prendere attiva parte all'azione liberatrice. Il prudente teorico della confederazione austriaca si trasformava cos nella figura pi originale e pi vigorosa delle cinque giornate milanesi, e, mentre il podest Gabrio Casati esitava a uscire dalla legalit per proclamare il governo provvisorio, Cattaneo, con un gesto di audace fermezza, costituiva quel consiglio di guerra che dava un nuovo impulso e nuova forza alla lotta popolare. A nome del consiglio di guerra e contro il parere dei moderati che, in attesa degli aiuti di Carlo Alberto, erano disposti a temporeggiare, Cattaneo rifiutava, nel terzo giorno della lotta, un armistizio proposto dal Radetzky: Verso il meriggio del terzo d, un parlamentario venne scortato dai cittadini al Consiglio; era un maggiore de' Croati, Ottochan; credo quello stesso Sigismondo Ettingshausen che poscia tratt la resa di Peschiera. Decoroso della persona, e ravvolto poi nel mantello come in atto di farsi ritrarre, ei dichiar che il generalissimo Radetzky lo mandava a rilevare quale fosse la mente dei magistrati della citt. Ci udito, noi lo indirizzammo nella sala ov'era la municipalit coi nuovi suoi collaboratori. Dopo un quarto d'ora, il Casati fece invitare noi pure a prender parte al colloquio; e avendoci esposto come il generalissimo, cedendo a un senso d'umanit, avesse dato al maggiore l'incarico che si detto, aggiunse che il municipio proponeva un armistizio di giorni quindici; il quale intervallo pareva necessario, affinch il maresciallo potesse far conoscere in Vienna il nuovo stato delle cose, e ottenesse le facolt di fare le opportune concessioni. Casati, intendendo dunque che il generalissimo consegnasse nelle caserme tutti i soldati, e impegnandosi dalla sua parte a far desistere dal combattimento i cittadini, desiderava sapere

se il Consiglio di Guerra volesse a tal uopo interporsi presso i combattenti. Esplorato con uno sguardo l'animo de' miei colleghi, mi rivolsi al conte Casati, facendogli considerare che non mi pareva gi pi possibile distaccare i combattenti dalle barricate. Casati rispose che lo si potrebbe ottenere a poco a poco. Gli domandai allora se, dato il caso lo si potesse, eravamo ben certi che la prima notte che avremmo dormito nei nostri letti, non saremmo tutti sorpresi e appiccati. Il maggiore, mostrandosi offeso, m'interruppe dicendo: "Signore, non contate voi per niente l'onor militare?". "Credete voi, signore, io gli risposi, che l'onor militare ci assicuri dalla polizia e dal giudizio statario? Chi pu dire che le ostilit sospese non vengano a ripigliarsi da un momento all'altro, per fatto proprio d'un soldato o d'un cittadino? Dopo aver provato le primizie della vittoria, difficile che i cittadini si rassegnino a soffrir pi a lungo la presenza dei soldati stranieri. E' gi il terzo giorno che il tocco delle nostre campane chiama all'armi il paese intorno; il fragore del vostro cannone deve essersi udito fin dentro la frontiera svizzera e piemontese. Senza dubbio, in questo istante i nostri amici sono in via per soccorrerci; assediati come siamo nel centro della citt, non ne abbiamo certo notizia; pure dall'alto dei campanili scorgiamo moti insoliti. E ben certo ad ogni modo che il suono a martello deve giungere d'un campanile all'altro, sino ai confini del regno. Se, data la parola dell'armistizio, vedessimo poi le vostre truppe approfittarsene per piombare al di fuori sui nostri amici, noi non potremmo rimanere testimoni impassibili, senza esser chiamati vili da loro; n potremmo uscire a soccorrerli, senza esser chiamati perfidi da voi. Signor maggiore, una delle due: o il combattimento deve continuare su tutta la superficie del paese: o l'incendio si deve spegnere allo stesso tempo dappertutto, col separare dappertutto i due elementi nemici. Se il vostro maresciallo veramente mosso da senso d'umanit, una cosa sola pu fare; pu lasciare nel regno i soldati italiani, che formano una parte considerevole del suo esercito; condurre fuori del confine tutti gli altri. I soldati italiani, i gendarmi e le guardie civiche sono ben pi che non bisogni a conservar l'ordine, sino a che arrivino le nuove istruzioni da Vienna." Il parlamentario facendo allora un atto di sdegno: "Come, Signore! mi disse, volete che un maresciallo con cavalleria e artiglieria si ritiri inanzi ai cittadini?" "Mi pareva, io gli risposi, che non mi aveste parlato d'operazioni di guerra, ma di misure di pace e di conciliazione, che sono poi suggerite al vostro maresciallo anche dai veri interessi del suo governo. Se nella settimana passata egli riput opportuno di far partire i granatieri italiani, egli pu trovare egualmente opportuno in questa settimana di far partire i granatieri ungheresi e richiamare gli italiani. Si tratta solo di un cambio di presidii; il quale pu ben essere divenuto convenevole per effetto dei grandi e impensati avvenimenti; poich le ultime novelle di Vienna sono tali, che l'autorit militare ha il diritto, anzi il dovere, di riformar le misure pocanzi prese. Quei ministri che avevano comandato di mitragliare e bombardare senza riguardo al sesso e all'et, sono in questo intervallo caduti. Come mai gli ordini che hanno lanciato allora, potrebbero vincolare adesso il depositario di un'alta autorit militare? Certo, che s'egli non ne sospende l'adempimento fino a che i loro successori abbiano parlato, forza dire che non pensa punto alla gravissima responsabilit che si assume." Il maggiore ripet con molta gravit ch'era sempre "una ritirata". "Chiamatela pure, se vi piace, una ritirata; tanto meglio, se, colla scusa d'un mutamento di massima, avete occasione di fare una sicura e onorevole ritirata. Il grido d'allarme e la campana a martello avranno

fra poche ore sollevato tutti i popoli sino alle Alpi. Essi possono intercettare le gole dei monti, che senza il loro aiuto in questa stagione non si passano; essi possono tagliarvi ogni ritirata e ogni soccorso. Al contrario, col separare i due elementi nazionali gi divenuti irreconciliabili, il vostro generalissimo potr vantarsi d'essere entrato nel nuovo ordine europeo, e di conformarsi ad alte ragioni di Stato; e frattanto in verit, avr salvato il suo esercito." Durante tutto questo diverbio, il tetro volto del podest Casati mi accennava profonda ansiet e riprovazione. Sempre ciecamente persuaso che bastasse acquistar tempo a Carlo Alberto d'arrivare in nostro soccorso, quando in fatti poi Carlo Alberto non si mosse se non dopoch fu ben certo della nostra vittoria, egli si lagnava che noi, pocanzi contrari al combattimento, ora fossimo cos poco propensi ad arrestarlo. I suoi collaboratori mostravano tutti la stessa persuasione. Ma io mi vedeva secondato dai miei colleghi, e da molti giovani che a poco a poco si erano messi nella sala, tutti ansiosi e frementi che si volesse porre inciampo a un combattimento vittorioso e si desse alla polizia il tempo di raccapezzarsi, e di tesserci un tradimento. Entr in quell'istante un prete della chiesa di San Bartolomeo, a ragguagliarci che gli Austriaci vi avevano trucidato allora il predicatore quaresimale, e commesse altre enormit. Il maggiore, che stava appunto vantandoci l'umanit e il buon volere de' suoi, ne parve assai turbato, e si volse a interrogare il prete. Frattanto gli astanti si raccoglievano in crocchii, caldamente disputando intorno all'armistizio. Ci vedendo Casati richiese il maggiore che volesse ritirarsi nella sala vicina, affinch i cittadini potessero deliberare fra loro della risposta. Il maggiore, sedendo nella sala del Consiglio di Guerra, mirava attonito quella giovent che in folla entrava e che al vederlo col, e all'udire la cagione della sua venuta, prorompeva unanime nel pi sdegnoso biasimo d'ogni tregua. Dopo un quarto d'ora, Casati fece rientrare il parlamentario, e gli disse: "Signore, non abbiamo potuto metterci d'accordo. Vogliate dunque rappresentare a Sua Eccellenza, da una parte, i sentimenti della municipalit, dall'altra, quelli dei combattenti, affinch possa prendere in conseguenza le sue risoluzioni". Fu ben dolorosa la meraviglia che a tutti i presenti cagion quella dichiarazione, in cui la municipalit pareva separare la sua causa dalla nostra. Il maggiore prese allora congedo. Sceso sotto il portico sost ad aspettare che gli si bendassero gli occhi. Ma non fu fatto; non parve esservi cosa in citt che fosse prezzo dell'opera celargli. Commosso visibilmente da quanto aveva veduto, strinse la mano ad uno dei cittadini che lo avevano accompagnato, dicendogli col suo straniero accento "addio, brava e valorosa gente". Da un'intera generazione, era quella forse la prima volta che uno straniero diceva al nostro popolo una parola di giustizia. ("Insurrezione di Milano", pagine 38-42). Il giorno seguente il Cattaneo opponeva un nuovo rifiuto ad un'altra proposta austriaca di armistizio. Poco tempo dopo gli insorti si trovavano di fronte ad un nuovo e pi grave problema. Un agente albertista, tale Enrico Martini, riuscito a penetrare nella citt, chiedeva come condizione per l'intervento armato di Carlo Alberto, un atto di dedizione della Lombardia al governo del re di Sardegna. Cattaneo, ancora una volta, si opponeva: ...apparve in seno alla assediata citt il conte Enrico Martini, inviato allora del re Carlo Alberto a noi, come, poche settimane dopo, fu inviato nostro a Carlo Alberto.

Il Martini doveva dirci che, se volevano solamente far dedizione del nostro paese a quel re, l'esercito suo verrebbe immantinenti in nostro aiuto; si trattava dunque di costituire subito un governo provvisorio, che potesse indirizzargli una dichiarazione valevole. Ed ecco il Consiglio di Guerra invitato un'altra volta dal conte Casati e collaboratori a dire il suo parere. E' chiaro che la politica della municipalit ci dava quasi pi faccende, che non la guerra col maresciallo Radetzky. Prendendo la parola per i miei colleghi, dissi che il paese era dei cittadini; che toccava a loro disporne come intendevano; che nessuno aveva facolt di darlo, senza il voto loro, a chicchessia. Ora, non era quello il momento di chiamarli a siffatte votazioni. Intenti a difendere loro e le famiglie, non potevano in quell'istante lasciare il combattimento per dedicarsi alle deliberazioni politiche. Era altres probabile che sorgessero a tal proposito dispareri, e fors'anco gravi dissidi. "Signori, il giorno della politica non questo; abbiam trovato intempestivo il pronunciare ieri l'altro la repubblica; non meno intempestivo il pronunciare quest'oggi il principato. Dacch Dio ci manda la libert, teniamola almeno per qualche giorno. Vi dunque cos molesto d'essere, una volta in vita vostra, padroni di voi? Iniziate l'era novella col rispetto a tutti i diritti e a tutte le opinioni, e col rispetto anche alle illusioni generose della giovent, almeno fintanto ch'essa sta combattendo per voi. Quando l'avranno finita col nemico, quando la causa sar vinta, allora vedremo. Allora potremo, come negli altri paesi liberi, dividerci in quante mai parti vorremo." I servili tornarono allora a rammentarmi il difetto delle munizioni e l'insufficienza generale delle forze. "Ci dimostra, io dissi, che non occorreva spronare con tanta fretta il popolo a una sollevazione per cui nulla si era preparato. Il Consiglio di Guerra vide cos chiara questa insufficienza, che fin dal primo istante parl sempre dell'Italia. E' necessario avere tutta l'Italia; e forse, nella presente scompagine delle sue forze, potrebbe non essere ancora sufficiente all'impresa. Ora, se noi cominciamo a darci al Piemonte, non potremo avere con noi gli altri Stati d'Italia. Torner, l'antica storia dei re longobardi e dei duchi di Milano, che misero in sospetto e inimicizia tutta la penisola." Mi risposero allora che la rimanente Italia non poteva apportarci soccorsi ben pronti n considerevoli, che il re Carlo Albero era alle nostre porte; ed era necessit metterci in sua mano se non volevamo sopportar soli tutto il peso della guerra. Io risposi: "Se con Carlo Alberto volete far patti, non il momento; sarebbe come il povero alla porta dell'usuraio. Se volete darvi senza patti, nessuna maggiore imprudenza. Come mai fidarvi a un principe che vi ha gi traditi un'altra volta, e che in questo momento medesimo vi lascia qui sotto alla mitraglia? E infine siete stati contenti d'esservi dati nel 18I4 alla casa d'Austria?". Tutti m'interruppero con somma veemenza, dicendomi che la casa d'Austria era straniera. "S, straniera ma allora non ci avete voluto badare, come adesso non badate a molte altre cose. Signori, le famiglie regnanti sono tutte straniere. Non vogliamo essere di nessuna nazione; si fanno interessi a parte, disposte sempre a cospirare cogli stranieri contro i loro popoli. Io ho ferma credenza che dobbiamo chiamare all'armi tutta l'Italia, e fare una guerra di nazione. Se poi il vostro Carlo Alberto sar il solo che venga a soccorrerci, avr egli solo l'ammirazione e la gratitudine dei popoli; e nessuno potr impedire che il paese si unisca. In ogni modo inutile che voi glielo diate; perch, s'egli vince, il paese resta suo; e se non vince, non sar mai suo, nemanco se glielo aveste a dare cento volte." La discussione si accalor; lascio a ciascuno degli interlocutori la

briga di ricordare qual parte vi prese, poich vedendo quanto stringesse di percorrere, se pur si poteva, la fazione servile, mi ritrassi con Cernuschi (1) in angolo appartato, per fare immediatamente un appello a tutta l'Italia, e dare a Carlo Alberto alleati, da frenarlo se si poteva, e da proteggere la nostra libert. Far di pi io non sapeva, oscuro cittadino quale era e tratto dal caso troppo lontano da quella vita nella quale solamente le forze mie mi concedevano di servire alla patria. "La citt di Milano, per compiere la sua vittoria e cacciare per sempre al di l delle Alpi il comune nemico d'Italia, dimanda il soccorso di tutti i popoli e principi italiani, e specialmente del vicino e bellicoso Piemonte." Mentre si stampavano queste brevi righe, da spargersi tosto coi palloni, ne facemmo correre alcune copie manoscritte; e in pochi momenti le presentammo alla municipalit, colle firme di forse duecento cittadini. Il Casati rimase allora assai perplesso. E pel momento non si arrese al Martini, che lo incalzava a dichiarare immantinente un governo provvisorio, che facesse la dedizione a Carlo Alberto. Frattanto il conte Giulini, che si era messo allora fra i collaboratori del municipio, aveva scritto un umile e flebile invito a Carlo Alberto, perch avesse la misericordia di salvare Milano da quella razza che l'aveva altre volte distrutta. Attraversando l'anticamera, ov'egli leggeva a un crocchio il suo scritto, gli domandai di qual distruzione parlasse: "Come vuole, signor conte, che gli Austriaci possano ormai distruggere una citt, nella quale appena possono reggere per qualche altra ora?". "Ma si pu sempre temere" egli mi rispose. "Non luogo, gli dissi; non v' altri in tutta la citt che mostri paura." Egli rimise docilmente in tasca la supplica. Poco di poi, penetr nella nostra cameretta il Martini, lagnandosi delle dubbiezze e debolezze del Casati e del Borromeo (2), e perci sollecitandomi a comporre io medesimo un governo provvisorio, che facesse la formale dedizione, dal re Carlo Alberto aspettata e desiderata. "Sa ella" mi disse "che non accade tutti i giorni di poter prestare servigi di questa fatta a un re?" Gli risposi che il far servigi ai re non era cosa di mia portata; e che del resto io teneva fermo doversi invitare tutta la nazione; era da molti secoli la prima volta che avveniva di poter movere a un solo fine e con un solo sentimento tutti i popoli d'Italia. Se per ci non riesciva, e Carlo Alberto restava il solo nostro alleato e occupava coll'esercito il paese, ne restava naturalmente padrone. In questo caso, purch solamente vincesse, i cittadini coll'acquisto dell'indipendenza forse si consolerebbero della perduta libert; ed egli potrebbe riposarsi sulla loro gratitudine e rassegnazione; ma non doveva esigere adesso il prezzo d'un servigio che peranco non ci aveva reso. Il conte Martini avendomi allora pregato di mettere in scritto questi sentimenti, io gli diedi la lettera seguente: Dal Consiglio di Guerra, 21 marzo 1848. La citt dei combattenti che l'hanno conquistata; non possiamo richiamarli dalle barricate per deliberare. Noi battiamo notte e giorno le campane per chiamare aiuto. Se il Piemonte accorre generosamente, avr la gratitudine dei generosi "d'ogni opinione". La parola gratitudine la sola che possa far tacere la parola repubblica, e riunirci in un sol volere. La saluto cordialmente. Carlo Cattaneo. Senonch, le sollecitazioni del Martini, e pi ancora la crescente

sicurezza della vittoria, dovevano in breve determinare la municipalit a dichiararsi governo provvisorio. Considerando adunque che in tal caso cesserebbe in noi quell'apparenza officiale che poteva dare qualche effetto alla nostra opinione, abbiamo voluto raccomandare ancora una volta ai cittadini la federazione militare di tutti i popoli d'Italia: "Ormai la lotta nell'interno della citt finita. E' tempo che le citt vicine si scuotano, e imitino l'esempio di questa. Noi invitiamo tutte e ciascuna a costituire un Consiglio di Guerra, che lasci le cose di consueta amministrazione ai municipii costituiti in governi provvisorii. Per noi vi un solo ed unico affare, quello della guerra, per espellere il nemico straniero e le reliquie della schiavit da tutta l'Italia. Invitiamo tutti i Consigli di Guerra a limitarsi a questo. Ci sar grato il ricevere loro immediate novelle e intelligenze, per mezzo di commissarii che abbiano animo degno dell'impresa. Noi domandiamo ad ogni citt e ad ogni terra d'Italia una deputazione di baionette, che venga a tenere un'assemblea armata a piedi delle Alpi, per fare l'ultimo nostro concerto colli stranieri. Si tratta di ridurli a portarsi immediatamente dall'altra parte delle Alpi, ove Dio li renda pure liberi e felici come noi." ("Insurrezione di Milano", pagine 50-54). Il giorno seguente l'esercito di Radetsky abbandonava Milano: il popolo aveva vinto senza l'aiuto del re: Il nemico s'inoltrava lento e stanco fra mille ostacoli; in qualche luogo trov il bastione gi ingombro di piante atterrate; spese tutta la notte a trarsi fuori della citt. Poteva condurre seco le artiglierie, le bagaglie, i feriti, pi di trecento famiglie d'ufficiali e d'impiegati stranieri, i decrepiti generali, gli sventurati che il capriccio militare aveva fatti ostaggi, e qualche migliaio di soldati italiani. Molti di costoro erano stati saldi contro i colpi dei fratelli; ma non tutti sapevano rassegnarsi a seguire nella fuga lo straniero. Alle crociere delle vie, dove era facile sottrarsi, i generali paravano loro in faccia la bocca del cannone; alla menoma esitanza si udivano gli ufficiali gridar loro: O avanti o morti! Alla fine il nemico fuggiva. Quei cinque giorni gli erano costati quattromila morti. Di quattrocento cannonieri erano avanzati CINQUE: l'artiglieria era data a condurre ai cacciatori tirolesi. Ecco ov'era giunto in breve quel vecchio provocatore, che colle sue violenze avendo tratto un popolo mansueto a farsi disperatamente ribelle, minacciava per barbara iattanza di domarlo con le "bombe" e il "saccheggio" e gli altri "mezzi"! Egli ben certo che quella risoluzione di fuggire con un esercito avanti ad una turba di "quiriti", con tanto sacrificio della superbia militare e dell'odio inveterato, fu atto d'animo basso, ma forte; fu tanto ignominioso, quanto prudente e necessario. Solo poche ore di dubbiezza, e le strade gli erano rotte intorno; e Verona, e Mantova, ribelli come Milano e Venezia, gli serravano le porte sul viso. La vasta Mantova era presidiata da tre battaglioni, in gran parte italiani. ("Insurrezione di Milano", pagina 62). In calce a un suo ordine Cattaneo scriveva: La spada di Radetzky, dopo sessantacinque anni di servizio, pensionata e appesa al fianco del sottoscritto. I contrasti fra moderati e democratici scoppiarono subito dopo la

liberazione. I democratici sostenevano la necessit di continuare la guerra contro l'Austria basandosi sulle forze insurrezionali, raccogliendo i volontari che affluivano da ogni parte, affidando le sorti della lotta all'entusiasmo e all'energia popolare. I moderati che avevano acquistato la preponderanza nel governo provvisorio, temevano improvvise esplosioni di popolo, nel dubbio che la lotta per l'indipendenza finisse per trasformarsi in rivoluzione sociale, e spingevano Carlo Alberto a una immediata fusione della Lombardia al Piemonte Il re di Sardegna, antico avversario delle idee liberali, temeva, avanzando rapidamente in Lombardia, la possibilit di un moto repubblicano in Piemonte mentre i quadri dell'esercito piemontese, appartenenti alla nobilt tradizionalista e reazionaria, osteggiavano la partecipazione dei corpi volontari alla guerra. I repubblicani e lo stesso Cattaneo venivano guardati con sospetto, accusati di austriacantismo perch sfavorevoli a Carlo Alberto; i loro consigli non erano accolti e la loro azione veniva impedita e ostacolata. L'esercito sardo procedeva senza un piano organico di azione; di queste incertezze approfittava Radetzky e, dopo che Pio Nono e Ferdinando Secondo avevano ritirato le loro truppe dalla guerra, Carlo Alberto era sconfitto a Custoza. La Lombardia che, nonostante le promesse del re di discutere la sistemazione politica solo a vittoria ottenuta, aveva votato la sua annessione al Piemonte, veniva abbandonata da Carlo Alberto. Milano, piena d'odio e di furore, era cos risottoposta al duro giogo delle truppe austriache. Surse l'alba del 5 (3); la citt era preparata ad ogni assalto; gli uomini in armi; pronto il soccorso ai feriti, fumavano tuttavia gli incendi intorno alle mura. Ma il cannone taceva. E una taciturna e tetra agitazione pervadeva i battaglioni del re. Verso le nove furono chiamati in casa Greppi (4) al Giardino i municipali; poscia, a richiesta loro, il comitato di difesa e i capi della guardia nazionale. Trovarono entrando il conte Resta, che colle lacrime agli occhi accenn loro confusamente di gravi calamit. Ma nell'anticamera, ov'erano Salasco, Pareto, Bava, Olivieri (5) e altri sifatti, trovarono straordinarie cordialit, e sorrisi, e strette di mano. Poscia Olivieri si mise placidamente a dire come il re, per difetto di denaro e di viveri e munizioni, e per "salvare" la citt, avesse capitolato; perloch facevano loro sapere che l'esercito regio si ritirerebbe al di l del Ticino; e un'ora prima d'uscire di Milano, metterebbe il nemico in possesso d'una delle porte; si era gi determinato che fosse Porta Romana. Quanto ai cittadini compromessi, il maresciallo non "garantiva nulla", non mescolandosi egli in cose di polizia; ma per quanto era "in lui", li farebbe trattare con equit; e concedeva anzi licenza che seguissero, per la via Magenta, l'esercito del re, fino alle sei di quella sera. Mentre tutti stavano immoti fra lo stupore e lo sdegno, il marchese Pareto soggiunse: "Gi ben veggono ch' inutile combattere colla necessit; anche l'intervento francese non sarebbe certo; e in ogni modo non potrebbe quell'esercito arrivare, se non fra una trentina di giorni. Restelli (6) disse che "per un siffatto tempo vi erano viveri a sufficienza, e in un Milano non poteva ad ogni caso non esistere il necessario denaro". Ma Pareto l'interruppe dicendo: "E una citt che attende nel suo seno un esercito, deve trovarsi sprovvista di munizioni da guerra?". Rispose Paolo Bassi: "Ora dimander io: come mai un esercito che si chiude in una citt per difenderla, arriva senza munizioni?". Restelli allora si rivolse al generale Zucchi, ch'erasi fatto in quei

giorni capo delle guardie nazionali, e disse: "Veggo ch' cosa fatta, e che dal re e da' suoi nulla pi resta a sperare. Ma dacch Milano diede il primo esempio in questa guerra, ora dia anche l'ultimo. E le ceneri di questa citt coprano i nostri cadaveri! Zucchi, voi siete nostro comandante; non ci abbandonate voi?". Zucchi, dimenando freddamente il capo, rispose: "Che pro ne avrete voi, dopo che nelle ceneri di questa bella citt avrete seppellito i vostri cadaveri?". Olivieri e Pareto approvarono. Pietro Maestri, Enrico Besana e Paolo Bonetti stettero con Restelli; ma Paolo Bassi ch'era podest disse che quando il re abbandonava la citt, conveniva rassegnarsi a salvarla dall'ira nemica. Il maggiore Capretti dimand a che fossero dunque chiamati. "Non a consiglio, poich era cosa fatta. Forse perch non osando il re assumere in suo nome la capitolazione, volesse farli responsabili in faccia al popolo?" E protest ch'era dovere del re dichiararsene autore. Al che tutti gli altri cittadini avendo aderito, Pareto disse che andrebbe immediatamente a parlarne al re. Frattanto si dimand all'Olivieri come non si fosse messa una parola per assicurare i nostri soldati e le guardie nazionali. Olivieri, dopo lungo circuito di parole, conchiuse poter essi seguire l'esercito come individui. Capretti gli rispose: "Dal momento che fu accettata la "fusione", noi abbiamo il tristo diritto, che per non credo sar reclamato da alcuno, che l'esercito piemontese sia tenuto una cosa sola col nostro e colla guardia nazionale". Olivieri disse che avrebbe ordinato l'esercito in tre colonne, e avrebbe accolto nel mezzo le guardie nazionali che volessero accompagnarlo. Capretti rispose che se pi della met del suo battaglione avesse deliberato d'andare in Piemonte, egli l'avrebbe seguito; ma ci non essendo, egli prenderebbe quella via che gli paresse pi opportuna alla sua salvezza e all'interesse della patria. Olivieri si rivolse allora ai suoi confratelli dicendo: "Qui un caso nuovo; il maggiore ritiene che essi possano ritirarsi per quella via che pi loro piace, come sarebbe in Francia. Io credo di no; perch nella capitolazione detto che devono seguire l'esercito piemontese, anzi, per la strada di Magenta. Che ne dite voi?". E tutti gli altri confratelli risposero non esservi dubbio. Si dimand allora se il Marchese Pareto non tornasse colla dichiarazione del re. Uno dei generali croll il capo dicendo che il re gi partiva. Tutti allora uscirono precipitosi. Il funesto annuncio correva gi sordamente per la citt. Pure una scellerata dissimulazione continuava la vile commedia della difesa. A mezza mattina, tre ufficiali del genio con dieci soldati della medesima milizia, accompagnati dal cittadino che comandava il posto delle guardie nazionali a Porta nuova, riappiccavano il fuoco alla casa gi mezzo consumata di Gaetano Scotti; e stavano per ardere anche una vicina casuccia ov'era il suo scrittoio, quando un altro cittadino, che sapeva gi per uno dei municipali la novella della resa, s'interpose dicendo che si risparmiassero almeno i registri d'un negoziante, massimamente dacch il re abbandonava la citt. Gli ufficiali si ritrassero bens da quella casa; ma si volsero ad ardere ci che rimaneva delle scale e dei palchi delle vicine case Regazzoni, Castiglioni e Bellezza. Queste smorfie dei militari facevano parer mendace la novella gi per s tanto dura a intendersi dagli ostinati cittadini. Anzi gli infelici che furono primi a proferirla in mezzo alla plebe, non solo furono gridati traditori e spie dell'Austria, ma trucidati. Montignani, uno degli amministratori dell'"Italia del Popolo", perch disse che la resa era ben possibile, fu preso da alcuni furibondi e gi stavano per fucilarlo; ed egli dimandava che lo conducessero sul vicino bastione e lo facessero almeno uccidere dal nemico, quando un capitano delle

guardie nazionali lo riconobbe, lo abbracci fratello repubblicano e lo salv; il povero popolo guardava attonito, e non intendeva pi nulla. Quelli che avevano pi ciecamente creduto, prorompevano in pi disperata rabbia; erano essi che, bestemmiando al nome del re, facevano furibonda calca intorno al suo palazzo. Li arringava il dottor Oldini, ch'era albertista e capo d'una societ di costituzionali che si adunavano sopra il caff Cova, e avrebbero voluto la "fusione", ma solo a "guerra vinta". Le carrozze gi preparate alla fuga del re furono capovolte per chiudergli il passo; i generali che si affacciarono alle finestre a dar parole, furono accolti dai loro partigiani a fucilate. Alcuni pretendono che il re medesimo toccasse al collo la scalfitura d'una palla. Alcuni soldati, ch'erano sparsi per la citt con i loro parenti, e in fratellanza col popolo armato, non credendo alla resa, colle lagrime agli occhi pregavano i cittadini a tranquillarsi e intender ragione. Qualche ufficiale, non meno leale, ma pi esperto delle cose della sua patria, si strapp dispettosamente gli spallini, dicendo di voler morire col popolo; e il popolo rispondeva: "Viva il Piemonte, e infamia a Carlo Alberto!" Era la voce stessa ch'io aveva fatto udire nella sala del governo provvisorio il 24 marzo. Allora poteva essere una voce di salvamento: ormai era vano strido di disperazione. "Chi affida ai nemici nati della libert la cura di salvarla, s'aspetti di vederla tradita". ("Insurrezione di Milano", pagine 180-184). La rivoluzione del '48 non seppe giovarsi delle forze rivoluzionarie e contrastanti presenti in quell'esercito austriaco contro cui essa lottava. All'idea di una libert universale furono anteposte le particolari lotte per una "solitaria indipendenza", e proprio questa mancanza di unit fra i popoli oppressi, afferma Cattaneo, determin la sconfitta. Se nel 1848 non si posero in atto tutte le forze rivoluzionarie del popolo, non si chiamarono fuori nemmeno tutte le forze rivoluzionarie che giacevano nell'esercito austriaco. Ognuna di quelle nazioni, s'era nemica al nostro nome e alla nostra bandiera, non era nemica alla bandiera sua e al nome caro a tutte, della libert. Ma nessuno si cur allora se vi fosse arte di sconnettere quelle moltitudini incatenate dalla forza al vessillo imperiale, e tutte fra loro straniere e nemiche, e ripugnanti a quella oppressiva unit. Gli agitatori dell'Italia non vollero, n allora n poi, giovarsi degli stranieri contro gli stranieri, rivolgere a danno dell'Austria l'arte sua antica di por gente contro gente. Mentre essi inveivano contro gli stranieri che potevano essere amici, non volevano riconoscere quei nemici che pur troppo non erano stranieri. Non cos l'Austria. Essa ritorse contro l'unit italiana lo stesso sforzo che altri faceva per raccogliere sotto un sol principe diverse parti d'Italia; essa ritorse contro l'unit ungarica quello stesso moto delle nazioni che tendeva a smembrare l'imperio, adoper il nome slavo per infiammare i croati e i sirmiani, e dividere fra loro i boemi; contrappose ruteni e poloni, sassoni e rumeni; adoper il tricolore teutonico per trascinare la giovent viennese contro la giovent italiana stornando due pericoli in un colpo, e distruggendo in un sol combattimento due nemici. E pur troppo cotesti tricolori che trassero i popoli a infliggersi tanto reciproco danno, e a rifare coi loro odii e colle loro borie la potenza degli oppressori, annunciano solo una tradizione di barbara inimicizia, madre d'ogni conquista e d'ogni servit; annunciano un voto di guerra perpetua, perch dovrebbe durare finch durerebbero le nazioni.

Uno solo il vessillo del quale non potranno mai giovarsi gli oppressori: il vessillo di tutti; il vessillo dell'eguaglianza, ossia della giustizia; il vessillo della libert e dell'umanit. Esso non apparirebbe straniero al soldato italiano, n al francese, n al tedesco, n all'unghero, n al polacco. Esso annuncerebbe come ogni popolo che combatte per l'altrui libert, combatte per la sua; essendoch ogni popolo servo un'arme in pugno ai nemici della libert; un pericolo perpetuo, una perpetua minaccia al genere umano. La forza espansiva della rivoluzione fu dunque tanto minore, in quanto l'idea della libert universale non venne posta innanzi, ma quella pi angusta d'una solitaria indipendenza. E quando si considera che, di l a pochi mesi, gli ungheri pugnavano contro l'Austria, non si pu non deplorare quella giovanile impazienza che spinse a vibrare i primi colpi appunto contro i granatieri ungheresi a Monforte e contro gli ussari ungheresi a Camposanto, inspirando loro nella vendetta dei compagni uccisi un sentimento pi forte ancora dell'odio contro i tedeschi. E quando si considera che il colonnello di quegli ussari, nominalmente intitolati da Carlo Alberto e da Radetzky, era quel Meszaros che fu poi campione della libert in Ungheria, fa ribrezzo il pensare quale fanatica letizia sarebbe stata quella dei combattenti, se lo avessero mirato, alla fronte de' suoi squadroni, cader moribondo sotto un colpo delle loro carabine. Il tempo ha svelato questi arcani nazionali, celati allora dalla stranezza delle lingue, e dalle odiate uniformi, e dalla scambievole ignoranza, e dall'orgoglio. No, se pesa sull'Europa una mole di tre o quattro milioni di soldati, non che la causa dei popoli abbia tre o quattro milioni di nemici. Nell'esercito austriaco non sono i quattrocento o cinquecentomila soldati che hanno interesse ad opprimere se medesimi nel popolo; essi sono costretti; sono servi due volte infelici, su cui s'aggrava la duplice catena del suddito e del soldato. La volont loro soppressa; l'anima loro fusa in quella di quindici o sedicimila ufficiali; e questi pure che sono? se non i figli di dieci nazioni, necessitati ad apparire stranieri e nemici alle loro patrie, e portare la maschera d'unit ch' il loro comune supplizio? Chi mira quei folti battaglioni di forte giovent, splendidamente armati colle spoglie delle loro nazioni, sulla fronte dei quali traluce un raggio di mal repressa intelligenza, non si lasci abbagliare. No, il color d'una bandiera, una novella improvvisa, una parola, la sola intonazione d'un cantico, basta a squassare tutta quella scenica ordinanza e trasmutarla in una mischia sanguinosa, ove all'unica voce dell'odioso comando risponda in dieci lingue il grido della nazionale vendetta. Non nemmen necessario l'urto di un altro esercito; questo ha in s tutti gli elementi della sua distruzione. (Scr. pol. 1, 369, 370). Dopo l'insuccesso del '48, il Cattaneo, abbandonato l'irrealizzabile progetto di una costituzione federalista dell'Impero Absburgico, tende al completo distacco del Lombardo-Veneto dall'Austria. Ogni stato italiano, conquistato che abbia il proprio regime rappresentativo, deve confederarsi con gli altri in un patto di difesa contro le minacce straniere e di collaborazione rispettosa delle raggiunte autonomie. Gi nel 1850, ancora sotto l'impressione del recente fallimento, il Cattaneo poneva il problema di un assetto federalistico degli stati italiani. E ora vogliamo far cenno di quella unit nazionale, a cui molti generosi parvero quasi posporre la libert. Certo, chi miri a qual mole straniera si dovesse far fronte, non si far meraviglia che

sembrasse necessario contrapporvi tutta l'Italia, o almeno quella maggior parte che si potesse, e quanto pi si potesse saldamente unita. E anche in ci si vede, come nel rimanente, l'effetto della nazional reazione contro l'artificiale centralit straniera. Ma i pi andarono errati, giudicando che la forza militare si misurasse a numero di popolo, e immaginandosi d'aver finito la guerra, quando fossero riusciti a stivare sotto la predella d'un trono dodici o quindici milioni di gente. Potevano ben vedere come il regno di Napoli fosse il doppio quasi del Piemonte, e non fosse pi forte. E il Piemonte doppio della Svizzera, e non diviso, ma saldamente stretto in una sola mano, e non per a lunga pezza s forte. E dopo, la cabala che si compi colla "farsa dell'Urbino" il 29 maggio (6), il Piemonte che dettava la fusione col pretesto d'esser pi valido a spacciar la guerra, si trov da quel momento pi debole, per timore ch'ebbe Torino di perdere i vantaggi di regia sede e le briciole della regia mensa, e per timore ch'ebbe la corte di non aver braccio a infrenare la improvvisa folla dei nuovi sudditi, non ancora ben maceri e fracidi nel gesuitico lezzo. E quindi si lasciarono ir perdute, in giugno, le quattro provincie venete prima d'averle acquistate, e in luglio, al primo infortunio, si lasciarono andar perdute l'altre provincie e i ducati. E il 5 agosto ai generali di corte parve mala grazia nei Milanesi che non si sottomettessero subito e di buona voglia ai barbari, quando cos pareva e piaceva a Sua Maest. Sembrava quasi che l'abbandonar vilmente la guerra poco importasse. "Chi doveva volere, non voleva". Ora il primo principio di forza nelle cose umane la volont, e non il numero degli uomini che da quella volont dipende. E non fu il numero dei battaglioni, che poi condusse, senza contrasto, gli austriaci in Mortara, intercidendo l'esercito piemontese dal regno: e che poi li condusse con minor contrasto ancora in Alessandria, quando pareva bello agli eroi di corte andar piuttosto a malmenar Genova, perch voleva continuata virilmente la guerra (7). Due volte cadde il regno che aveva milioni di sudditi, intanto che Venezia, sola e povera, e levatasi esangue dal sepolcro, dur combattendo finch'ebbe pane. E in altri tempi, Venezia stessa con angusto dominio aveva durato contro tutta Italia e tutta Europa congiuratagli contro dal pontefice; e aveva durato pi secoli contro l'impero ottomano. Pur s'udirono tra noi molti deridere con Gioberti le repubblichette? E purtroppo, per male cure di lui medesimo, Venezia era rimasta sola e povera repubblichetta di centomila abitanti. Ma aveva quell'animo che i satelliti regi non poterono infondere alla Sicilia venti volte pi popolosa. "Un diminutivo non una ragione" direbbe il savio Bentham. E la Svizzera medesima non forse un fascio di ventidue repubblichette? anzi, diciam pure, di venticinque? E se dimani il Vallese e Friburgo si suddividessero come Appenzello e Basilea (8), forse verrebbe rimossa la cagione di qualche discordia; e certamente non perderebbe la patria un sol difensore. Le repubblichette svizzere bastano alla loro difesa; e l'Italia che potrebbe avere dieci volte pi armati, con ben maggior riparo di lagune e di maremme, e di fiumi e d'isole e di fortezze e di navi, l'Italia non basta. Convien dunque, come facevano i nostri antichi, cercar altrove che nel numero il principio della forza; riporlo soprattutto nella volont; cio in questo, che chi comanda abbia la medesima volont, o a parlar pi mondano e pi vero, i "medesimi interessi di chi obbedisce". Non sono i soldati, n le armi, n le navi, n il buon volere del popolo che mancarono al re di Napoli per difender l'Italia; ma i suoi interessi non erano quelli della nazione; n tali erano quelli del papa; e cos dal pi al meno, quelli d'ogni altro potentato d'Italia. E' vano e puerile il lagnarsi ch'essi abbiano fatto ci che avevano naturalmente a fare; come fu vano e puerile lo sperare che avrebbero

fatto fuor della loro natura. E qui fu l'errore fondamentale di "quel ridicolo amoreggiarsi fra principi e popoli" nel quale "gli innamorati" erano solo da una parte. Qui fu l'errore dell'"iniziativa" permessa ai principi, e del comando lasciato ai loro satelliti. Qui fu l'errore della "unit", da conseguirsi col persuadere un principe "di codarda e fiacca natura" a divenir magnanimo e deliberato. Chi nato a far le grandi imprese non aspetta che altri lo consigli e lo incalzi. Il numero delle parti non importa, purch abbian tutte egual padronanza e libert; e l'una non abbia titolo a far servire a s alcun'altra, tirandola a s, e distraendola dal nodo generale. Tra la padronanza municipale e l'unit nazionale non si deve frapporre alcuna sudditanza o colleganza intermedia, alcun partaggio, alcun "Sonderbund" (9), I "Sonderbundi" dell'Italia son quattro: il borbonico di otto milioni e pi; l'austriaco di sei, e se lo si considera anche arbitro dei ducati, poco meno di nove; il sardo di cinque o poco meno; il pontificio di tre. Queste segreganze sono tutte nemiche tra loro: le prime perch mirano a ingrandirsi a spese delle altre; l'ultima, perch sa d'essere insidiata da tutte. E cos hanno tutte interesse a guerreggiarsi, e godono empiamente dell'altrui sventura e dell'altrui disonore. Qual pi grato adulatore alla corte di Torino di colui che maledice al bombardator di Messina? (10) Qual pi lieto suono al re di Napoli che quello delle infamie del Lamarmora a Genova? (11) E cos la Sicilia maledice a Napoli; e la Sardegna e la Liguria maledicono a Torino; e i popoli sono maledetti dai popoli per colpa dei loro padroni. Le discordie, che tanto si vantano, delle repubbliche del medio evo, erano della medesima natura; perch nessuno allora si era posto in mente di collegar le citt in nazione; e di pi vi soffiava per entro il pontefice da una parte, e vi aveva braccio l'imperatore dall'altra; perch i prelati e i baroni abitavano le repubbliche come forestieri, pronti a sconnetterle e a turbarle, non a obbedirle e difenderle. Onde anche le repubbliche erano costrette a fare come i tiranni; e si procuravano sicurt e potenza, assoggettando a s le citt vicine, e togliendo loro la sovranit. Pisa era nemica a Genova, principalmente perch ambedue volevano signoreggiar la Sardegna. Nessuno pensava a que' tempi che i Sardi pure erano italiani e fratelli, e che dovevano unirsi alla madre Italia, non coll'obbedire a Genova e a Pisa, ma col seder seco loro, eguali e padroni, nel congresso di Roma. Gli odii delle repubbliche provenivano dalla conquista, dalla "fusione", non dalla "libert". E anche le repubbliche svizzere, nate a caso e a caso collegate come le nostre, avevano allora sudditi svizzeri, e li opprimevano, e ne facevan pretesto d'ambizioni e di guerre. Ma questi sono errori dei secoli andati; e ora elle son tutte eguali; n alcuna repubblica svizzera potrebbe mai trovar modo d'imporre i suoi magistrati alla repubblica vicina; le altre tutte si opporrebbero; non potrebbe il tutto consentire che alcuna parte si frapponesse fra esso e un'altra parte; n alcuna parte avrebbe forza o speranza di riluttare al tutto. Con siffatto principio, e colla nuova coscienza di fratellanza e di nazionalit che l'esperienza dei secoli e la scuola della sventura, e le ingiurie degli stranieri infusero all'Italia, nulla sarebbe a temersi se fossero le repubbliche pur minute come nella Svizzera. Tanto maggiore sarebbe in loro la necessit di abbracciarsi, affine di proteggersi in terra e in mare contro le colossali potenze del secolo, e di esercitare il commercio fraterno in pi vasto campo, e di deliberare leggi uniformi e strade e monete, e di accomunarsi i diritti privati, salva sempre "la intera padronanza d'ogni popolo in casa sua". Insegn Machiavelli che un popolo, per conservare la libert, deve

tenervi sopra le mani, ora per tenervi sopra le mani "ogni popolo deve tenersi in casa sua la sua libert". E poich, grazie a Dio, la lingua nostra non ha solo i diminutivi, diremo che quanto meno grandi e meno ambiziose saranno di tal modo le "repubblichette", tanto pi saldo e forte sar il "repubblicone", foss'egli pur vasto, non solo quanto l'Italia, ma quanto la immensa America. (Scr. pol. 1, 268-272). Questa federazione di stati italiani avrebbe dovuto aiutare il Lombardo-Veneto e liberarsi dall'oppressione austriaca. La guerra del '59 apparve al Cattaneo come guerra di conquista piemontese e non come guerra di liberazione nazionale, ma, a differenza di Mazzini che limitava con una serie di riserve la partecipazione alla guerra, Cattaneo sosteneva la necessit di un'adesione totale all'alleanza con Napoleone Terzo, giacch solo a questa condizione si poteva sperare nell'abbattimento di quell'Austria che costituiva il primo e pi imponente ostacolo alla libert d'Italia: In questa valle di lacrime e di sangue i popoli solo colle armi in pugno possono farsi stimare e farsi temere. Lasciate dunque combattere chi vuol combattere. Li armati e i liberi possono accettare la guerra, possono ricusarla. Ma i popoli inermi e prigionieri, i popoli ai quali un nemico ingeneroso e turpe ha destinato l'infamia, devono abbracciare qualsiasi opportunit di guerra. Se non possono aver la guerra per la libert, ebbene, frattanto abbiano la guerra per la guerra! Se uno sa d'aver due nemici e codesti due nemici stanno per assalirsi, egli pu gettarsi a occhi chiusi sull'uno o sull'altro. Che importa? La met della vendetta in ogni modo sar fatta. Un solo dubbio lecito: se due vi han mosso guerra, e ora son nemici fra loro, quale fra i due vi convenga assalire. Or qui potete voi dubitare un istante? Da una parte sta l'Austria. Il nodo gi troncato. Chiunque sta contro l'Austria, non badate a scrupoli, con quello potete in tutta coscienza star voi. E inoltre da una parte sta la vostra bandiera, quella bandiera che nel 1848 il popolo mand gi vittoriosa al re, nel cui retaggio rimasta. E inoltre da quella parte sta un'altra bandiera, sorella a questa, madre di questa. E fu bandiera di libert per un altro popolo, e fu sempre bandiera di lutto e di morte all'Austria; e cacci essa per la prima volta il papa di Roma or son pi di sessant'anni, e chiam essa per la prima volta i nostri popoli a libert. Bandiera ad ogni vento, pur troppo, se voi volete, ma bandiera di popolo e bandiera sovra ogni altra possente e gloriosa. Credete voi nel finale trionfo della libert in Europa? Avete questa fede o non l'avete? Ebbene adunque mirate al futuro e non badate alle fugaci nebbie del momento. (Scr. pol. 2, 168-169). La spedizione dei mille, calorosamente incoraggiata dal Cattaneo, sembr dovesse far trionfare le idee federaliste. Il 23 giugno del '60 Francesco Crispi invitava il Cattaneo a raggiungerlo in Sicilia ove la sua presenza sarebbe stata di grande utilit e graditissima al Generale. Ma il Cattaneo si schermiva e cos scriveva al Crispi, dando consigli e pareri sulla ricostruzione politica ed economica della Sicilia: Con vero affetto vi ringrazio del vostro invito; vi tengo anche interprete di quanti costi mi sono benevoli, e vorrei ben potervi corrispondere e avere un dito anch'io nelle cose ammirabili che il vostro Washington (12) vi fa fare. Ma, mentre mille precedenti mi vietano di venirvi a impiego pubblico, non vorrei poi nemmeno aver falso sembiante d'andarmene in cerca, come

sarebbe immantinenti detto o scritto da tutta la turba dei mondani, se mi movessi senza manifesti motivi d'ordine privato. Non potendo dunque esser vostro se non da lontano, vi dico con tutto l'animo che, se v' cosa che vi sembri io possa fare a giovamento della vostra isola, far quanto mi direte. Non so qual cerchio di sicura influenza abbiate, ma la buona volont un'influenza che penetra da per tutto, anche fra gli avversarii. Non vi stancate di dire al generale che non basta "saper prendere"; bisogna "saper tenere". Ditegli che non si fidi d'altri che di s, e di chi si fa una sacra norma del suo volere. Vedo che pensate all'educazione militare; va bene. Ma bisogna allargare ancor pi le istituzioni, e il pi presto il meglio. Perch non introdurre come nel Ticino l'uso degli esercizi domenicali per tutta la giovent? Potrete avere armi dotte e marinai e ufficiali, se introducete subito i singoli rami di scienza militare nelle alte scuole, come parte dei corsi di matematica, di disegno, eccetera. Ma bisogna pensare anche alla produzione. Or dico a voi come ho detto agli amici sardi: la grande agricoltura una industria, vuol mercati, vuole strade. Le ferrovie non possono arrivar da per tutto. Bisogna far subito tutte le strade comunali. Questo dar immantinenti nuovo valore a tutti i prodotti, e ne accrescer subito la massa. In Lombardia le comuni devono aver speso almeno quaranta milioni in cinquant'anni. Ma la Sicilia non pu aspettare cinquant'anni! Sarebbe da far subito un progetto generale ben collegato con quello delle ferrovie, affine di procedere con ordine ai lavori, cominciando dai rami pi importanti ed efficaci. Poi sarebbe da fare un prestito speciale: dico "speciale" altrimenti il denaro finir per esser deviato in cose che parranno pi urgenti di questa; mentre questa lo pi delle altre, perch le aiuta tutte. Fate il prestito speciale dando in vendita o in pegno le terre demaniali o comunali; ma di questo io non vi posso dir nulla perch non ho dati. Assicurare "d'un colpo" la costruzione di tutte le strade rurali sarebbe trasformare d'un colpo magico tutta l'isola. Il distribuire le terre incolte ai poveri soldati non avr effetto. Dar terra senza capitale come dar bottiglie senza vino. Bisogna dar la terra a chi ha denari; non si pu trovare interesse al denaro senza dar lavoro ai poveri; e questo ci che importa. Sarebbe ben poca cosa, anzi in questi solenni momenti vi parr nulla; ma io farei volentieri nel "Politecnico" un lavoro sulla Sicilia, come ne feci, or una ventina d'anni uno sulla Sardegna. Non capisco bene la Sicilia, e me la vorrei spiegare per me e per gli altri qui; ma i miei dati son pochi. La mia formula Stati Uniti, l'idra di molti capi che fa per una testa sola. Per essere amici bisogna che ognuno resti padrone in casa sua. Le provincie sin qui annesse non sono per nulla soddisfatte del governo generale, e in breve tempo si avranno rancori profondi e gravi. I siciliani potrebbero fare un gran beneficio all'Italia dando all'"annessione" il vero senso della parola che "assorbimento". Una gregge non una pecora sola. Quanto al commercio il cambio, e il cambio pi naturale e pi vantaggioso colle merci pi diverse e i popoli pi lontani. Fate della vostra isola il porto franco del Mediterraneo; fatene un porto della vostra annessione. Congresso comune per le cose comuni; e ogni fratello padrone in casa sua. Quando ogni fratello ha casa sua, le cognate non fanno liti. Queste son cose di genere veramente "dittatorio", altrimenti insorgeranno mille ostacoli. Fate subito, prima di cadere in bala di un parlamento generale, che creder fare alla Sicilia una carit occupandosi d'essa tre o quattro sedute all'anno. Vedete la Sardegna, che dopo dodici anni di vita parlamentare sta peggio della Sicilia, poich, poco meno vasta, non ha che la met della popolazione.

Intanto non vi disanimate per le contrariet che vi si fanno. Voi guardate al vostro capo. S'egli sa prendere e sa tenere, ormai non ha pi bisogno d'alcun governo; tutti i popoli verranno a lui. Si faccia forte in mare. Fategli i miei cordiali saluti; come pure al signor Mordini. Siate tutti felici e amatemi. (Scr. pol. 2, 203-264). In seguito a nuovi insistenti inviti di Garibaldi che da Napoli progettava l'invio dei suoi rappresentanti a Londra per rinsaldare i rapporti con gli uomini politici e con l'opinione pubblica inglese, Cattaneo si rec finalmente a Napoli, ed ivi si trattenne - nonostante che la missione a Londra fosse rimasta allo stato di progetto - senza alcuna veste ufficiale, dando sulle varie questioni preziosi consigli. Contro i cavouriani e i mazziniani favorevoli ad una unione immediata con l'Alta Italia, Cattaneo sosteneva la formazione di parlamenti locali che fossero garanzia di conservazione delle autonomie locali e che trattassero col Piemonte le condizioni di un'Unione Nazionale. Ma anche questa volta la sua opera doveva risultar vana perch Garibaldi, constatata la pratica impossibilit di una vittoria federalista, cedeva, pur dopo lunghe incertezze, alla tesi degli unitari. Era il definitivo tramonto di ogni possibilit di stato federalista in Italia e Cattaneo, stanco e sfiduciato, tornava alla sua solitaria vita di Castagnola: E' la vita senza piaceri e senza speranze, scriveva. Solo il continuo lavoro mi allontana i pensieri tetri, e mi conserva l'aspetto naturalmente gioviale; ma di dentro son morto (Scr. pol. 2, 346). Nonostante ripetuti ed insistenti inviti ad accettare candidature, Cattaneo rifiut, in seguito, ogni incarico ufficiale. Continuava con passione e fervore il suo lavoro sul "Politecnico", discutendo problemi, rispondendo ai quesiti che gli venivano posti, collaborando energicamente - anche se lontano dall'azione politica - alla vita del paese. L'unit d'Italia era un fatto compiuto e il federalismo del Cattaneo senza abbandonare il suo carattere d'intransigente lotta per la libert - diviene ora, nella nuova situazione, tentativo di riaffermare contro il centralismo burocratico del governo, il valore delle autonomie politiche ed amministrative calpestate e distrutte dall'invadente piemontesismo. Nella prefazione al volume nono del Politecnico, dopo aver trattato dei due fondamentali problemi delle ferrovie e dell'armamento, Cattaneo espone lucidamente le sue idee circa l'ordinamento su base regionale del nuovo regno d'Italia, riferendosi alle proposte del moderato Carlo Matteucci anch'egli fautore di un ampio e progressivo decentramento: Dopo le considerazioni del senatore Matteucci sull'ordinamento del nuovo regno, non ci udiremo pi dire che in certe nostre opinioni siamo soli. E perci vogliamo ripetere a certi giornali ci che a proposito dei disastri sull'Irlanda abbiamo detto "a quei dabbene scrittori e dabbene legislatori, che sperano, colla sola assemblea generale di tutta l'Italia, e senza legislazioni speciali, poter trasformare d'un tratto la Sardegna o la Sicilia o lo Stato Romano". Qual campo o qual forma possano avere codeste legislazioni speciali dei singoli stati. coordinate all'autorit del parlamento generale della nazione, per l'Italia questione di vita o di morte, come per l'America e la Svizzera e la Germania e la Scandinavia. In tutte le popolazioni nostre s' destata la coscienza che l'attuale ordinamento, fatto gi per uno stato e non per pi stati uniti, non basta ad

appagare i loro bisogni e i modestissimi loro voti. La dottrina d'assoluto accentramento, formulata or sono quasi trent'anni da un grande cittadino (13), e or posta innanzi da' suoi avversarii come cosa propria, stringe tutta la azione legislativa in un solo parlamento. Da questo, come nell'antica costituzione data novecento anni fa dagli Ottoni, si balza senza intermezzo ai municipii, ch'erano allora le attuali provincie. Ma non si bad per nulla che le provincie sono da secoli aggruppate in sistemi legislativi, sovra principi capitalmente diversi, rappresentanti nei singoli stati della penisola e nelle tre isole ordini molto diversi di civilt. Perloch, mentre negli stati romani, in Sardegna, in Sicilia, in Corsica, sopravvivono molte tradizioni del medio evo, la Toscana in molte cose, la Lombardia in molte altre, sono veramente all'avanguardia del progresso. Il Piemonte, afferrando l'egemonia militare, doveva porsi in grado di precedere anche coll'egemonia civile. Ma gli uomini che si fecero per dodici anni arbitri delle cose, paghi di esercitar la potenza e non curanti di farsene strumento di progresso, si lasciarono sopraggiungere dagli eventi. Quindi la necessit d'applicare in fretta e in furia i "pieni poteri" a riparare i danni dell'estimata inerzia, e di moltiplicare gli atti legislativi intantoch non vi erano i legislatori. Ma il Piemonte, anche addensando in sei mesi il progresso d'un secolo, si trov inferiore in diritto penale alla Toscana, in diritto civile a Parma, in ordini comunali alla Lombardia; ebbe la disgrazia d'apportare a popoli, come un beneficio, nuove leggi ch'essi accolsero come un disturbo e un danno. Gli assennati riputarono un vituperio che il popolo preferisse le leggi austriache alle italiane, e non s'avvidero che il vituperio era che le leggi italiane potessero apparir peggiori delle austriache. Ogni mutazione di leggi, che non sia un vero miglioramento, un danno; perch sospende il rapido corso delle transazioni, diffonde una dubbiezza universale, rende insufficienti tutte le cognizioni pratiche, costringe gli uomini a rifar da capo tutti i loro giudizi e calcoli. Ci che diciamo nell'amministrazione vale per l'autorit paterna, per l'uguaglianza dei figli nelle eredit, per tutto l'ordine della famiglia e della possidenza. La riforma che viene prescritta agli ossequiosi nostri legislatori non arriva ancora francamente al Codice Napoleonico; il quale alla fine gi pi antico di mezzo secolo, n vi sono penetrate nemmeno tutte le dottrine economiche di quel tempo. E anche noi siamo uomini; e vita nostra durante, la ragione umana non ha sempre dormito; e chi crede alla ragione, deve pur credere ch'essa, vegliando, qualche cosa abbia trovato. E qui siamo condotti a mentovare ancora le considerazioni del senatore Matteucci sull'ordinamento del nuovo regno. Nota l'illustre scienziato che ci non consiste "nel 'creare' delle provincie, perch esse 'esistono' e l'accentramento 'non esiste'"; ed ancora segno di fantasie che vedono nella futura Italia una Francia, anzi una China; ove ogni cosa ragionevole debba piovere sull'armento dei popoli da un unico Olimpo, gi gi fino alla nomina del sindaco dei villaggi di cento anime. Ma egli rimase troppo addietro "nello stabilire che queste provincie o centri, di trenta, quaranta o cinquanta mila abitanti o pi, esercitino le funzioni 'amministrative'". Prima di tutto, se v' in Italia un ente sociale che si chiama la provincia di Pisa o di Cremona, v' anche un altro ente pi grande o non meno reale, che si chiama la Toscana, la Lombardia, la Sicilia. E ognuno di codesti stati o regni uniti non un corpo meramente "amministrativo", ma comprende un intero edificio "legislativo". L'accentramento potrebbe modificarlo pi o meno; potrebbe sconnetterlo; e mutando una parte e non un'altra che fosse coordinata a quella, introdurvi la contradizione e mutar l'ordine in caos, se

nello stato medesimo non vi fosse un organo legislativo capace di riparare ad ogni siffatto disordine e di cogliere anzi l'occasione ad un nuovo atto di progresso. Ma l'accentramento, vita nostra durante, non potrebbe introdurre, in quel complesso di provincie che da secoli costituisce uno stato, un nuovo modo di ereditare e di possedere e di contrattare e di vivere nella famiglia e nel comune: n senza gravi danni e turbamenti e sdegni. N crediamo che sarebbe lecito il togliere ad alcuno di codesti stati quel massimo grado di progresso che gi in alcuna cosa avesse raggiunto pel mero pretesto di rendere uniforme per tutti una legge meno ragionevole e meno civile. N crediamo che, se in uno di questi stati le influenze retrograde fossero pi tenaci e imperiose, esso avesse il diritto di costringere tutti gli altri regni a portare in pace il medesimo danno. E viviamo in tempi di rivoluzione e d'ardent e precipitosi affetti, e perci somma temerit l'imporre, in nome dei pregiudizi e del regresso e della servilit, quei sacrifici che popoli intelligenti e generosi possono sopportare solamente nel nome della ragione, del progresso e della gloria nazionale. Postoch il gravissimo oggetto, n meramente "provinciale" n meramente "amministrativo", noi crediamo tanto pi necessario segnalare questo punto fondamentale al senatore Matteucci, e di richiederlo in ci del parer suo, com'egli ci richiese tutti del nostro. Non si tratta di decentrare, perch l'accentramento ancora non esiste, ma di coordinare la vera e attual vita legislativa degli stati italiani a un principio di progresso comune e nazionale. "Tutto ci che dev'essere comune, dev'essere assolutamente ed altamente progressivo": il ritorno dell'Italia sul campo della legislazione dev'essere degno dell'antica sua grandezza e maest. Ma la vita legislativa dei vari regni non pu rimanere interamente e violentemente soppressa. Il coordinare i due ordini legislativi dell'intera unione e dei singoli stati problema che, grazie a Dio, non cos nuovo nel mondo vivente delle nazioni come alcuni, piuttosto monmani che unitari, vanno immaginando. E non opera di dissoluzione e di discordia, ma necessaria e impreteribile condizione di concordia e d'amist. A quali estremi la confusione dei popoli conduca, troppo tremendamente si mostra nella profonda e cancrenosa inimicizia dei Siciliani e dei Napolitani e d'altri. Che se l'Austria nel dare due nomi e due amministrazioni distinte al Regno Lombardo-Veneto, s'immagina di "dividere ed imperare", ormai debb'essersi amaramente persuasa d'aver fatto contrario cammino. N ogni stato pu avere solamente un potere legislativo ogni qual volta si tratti di ferrovie, di navigazioni, d'irrigazioni, d'asciugamenti, di fondazioni industriali e d'altre cose per avventura comuni a pi provincie. Le pianure della Sardegna non si potrebbero ridurre ad alta cultura, finch sovrastasse loro dai monti la vaga pastorizia, e un'ordinata stabulazione non si propagasse anche col, come parte d'un medesimo disegno. A ci non basta votar leggi in consiglio, bisogna poter delegare mano amministrativa. I molteplici consigli legislativi, e i loro consensi e dissensi e i poteri amministrativi di molte e varie origini, sono condizioni necessarie di libert. La "libert una pianta di molte radici". E' un fatto che, mentre la natura francese, tanto calunniata, si mostra idonea in Ginevra e in Losanna alla pi larga e popolare libert, le fu sempre impossibile conservarla lungamente a Parigi tra l'unit dello Stato e l'unit della Chiesa. Quando ingenti forze e ingenti ricchezze e onoranze stanno raccolte in pugno d'un'autorit centrale, troppo facile costruire o acquistare la maggioranza d'un unico parlamento. La libert non pi che un nome; tutto si fa come tra padroni e servi. (Scr. pol. 2, 275-281).

Nel 1863, per dissensi sopravvenuti con l'editore, Cattaneo doveva abbandonare la direzione del "Politecnico". In questa lettera pubblicata su "Il Diritto" (1864), egli rilevava le difficolt di quella riforma amministrativa del regno che, emanata il 23 ottobre del '59 durante la guerra e successivamente non mai modificata - malgrado i ripetuti interventi - fino alla promulgazione, nonostante generiche promesse di autonomia, prendeva netta posizione di fronte al federalismo respinto come un pericolo e pel regno e per l'Italia. Liberata nel 1859 la Lombardia non aveva ancora eletto la prima sua deputazione al Parlamento, quando un potere dittatorio (14) vi rec la legge per allora sancita in Piemonte sull'ordinamento dei comuni e delle provincie. N quivi, n altrove, esso fece fortunata prova. Non appena pot dirsi in atto, e gi gli autori suoi si accingevano ad emendarla. Ma tutte le riforme, sinora tentate da ministri e commissioni, non danno migliore speranza; discoprono sempre pi la fallacia del fondamento. Il che non sarebbe, se i corretturi, anzich spender fatica intorno alla legge nuova, la quale gi poi veramente un raddobbo d'altra pi infelice fatta dal primo Parlamento nel 1848, avessero piuttosto preso le mosse da quella che nel 1849 rimase infaustamente abolita in Lombardia. Portava questa la data del 1816; ma nelle sue arti pi lodate risaliva alla met del secolo scorso. Anzi i magistrati che la promulgavano nel 1755, dissero di voler solamente rimettere in rigorosa osservanza gli ordini antichi. Pu dunque avvenire anche delle leggi amministrative ci che valse a tanto onore dei giureconsulti romani; ed che le formule della giustizia e della provvidenza sopravvivano al secolo che le ha pensate e possano condurre ad altri giusti e provvidi pensamenti. Agli ordini antichi dello stato di Milano si aggiunse in quella legge quanto di meglio potevano suggerire gli ordini pure antichi, e anco quasi inviolati, dei popoli toscani. Perrocch Pompeo Neri (15), gi professore di diritto pubblico nello studio di Pisa, incaricato con Emanuele De Soria, Camillo Piombanti, Ferdinando Forti e Giuseppe Tarantola di proseguir l'opera del nuovo censo nello stato di Milano intrapresa gi fin dal 1718, vi diede compimento con una legge comunale e provinciale. E sulla base d'un nuovo estimo dei beni, scevro d'ogni "esenzione" e di ogni "diseguaglianza", ricompose con mirabile semplicit e parsimonia tutta la pubblica amministrazione, gi prima tanto intralciata da privilegi e arbitrii. E qui, alla prova d'una secolare esperienza, si pu ben ripetere il detto di Schiller che "l'opera lod l'artefice". La nuova legge diede facolt di deliberare delle cose comuni ad un convocato di tutti i possessori dei beni. Questi dovevano elegger fra loro una deputazione di tre; uno dei quali doveva esser preso fra i tre ch'entro i confini del comune possedessero un maggior estimo. A compimento poi d'una vera e sincera autorit comunale, si aggiungeva un deputato del mercimonio e un altro eletto da tutti coloro che pagassero il testatico (16). Codesti due rappresentanti del commercio e del lavoro non avevano veramente voto diretto nelle spese dell'estimo prediale, ma solamente su quella parte del contributo mobiliare ch'era lasciata a sussidio del comune. La legge porgeva loro un indiretto adito a ingerirsi in tutto il complesso di provvedimenti. Perrocch il comune non poteva far uso d'alcuna particella del testatico se non quando le altre fonti non bastassero alle spese; ultimo di tutti a pagare era chiamato il povero. Tali erano i diritti che la legge assentiva nel comune ad operai ed agricoltori un secolo fa! La deputazione in tal modo eletta gi la

sommit dell'edificio comunale. Perrocch i deputati dell'estimo, coll'intervento di quelli del mobiliare, scelgono a sindaco "quella persona che fra gli abitanti del comune troveranno pi idonea e pi capace della pubblica fiducia. Essendo il sindaco, dice la legge, il naturale sostituto dei deputati che, per non poter essere sempre uniti e reperibili, hanno bisogno di una persona che abbia l'espresso incarico di invigilare agli affari del comune, di ricevere ed eseguire gli ordini dei superiori, e di far tutto quello che potrebbero far "essi" se fossero adunati, sar "perci la di lui elezione rimessa ai deputati medesimi", avvertendo per che, quantunque in "qualche occasione" debba egli intervenire nelle unioni dei predetti cinque deputati, "non avr alcun voto". Il magistrato comunale era sotto l'ispezione di un cancelliere del censo; il quale doveva intervenire a tutte le adunanze dei singoli comuni del suo distretto, ma solamente come ricordatore delle leggi nonch come custode dell'archivio, e notaro "da rogarsi di tutti gli atti". E doveva essere di nomina regia solamente fino a quando il nuovo censo fosse condotto "a esecuzione". Dopo di che, diceva la legge "Sua Maest benignamente si contenta di rilasciare la nomina alle singole comuni". Era l'anno 1755! Penso che debbano rimanere stupefatti tutti i credenti nella burocrazia. I pupilli avere il diritto d'eleggersi, a maggioranza di voti, il loro tutore! Avere il diritto di non rieleggerlo pi, quando, a prova fatta, non fosse piaciuto! In modo poco diverso, per quanto concedevano i diritti statutarii dei decurioni e le altre consuetudini municipali, vennero ordinate le amministrazioni delle citt e quelle delle provincie. E un terzo ordine di rappresentanti, non costituito in forma di consiglio, era poi formato degli "oratori" delle provincie e dai "sindaci per le liti", che risiedevano presso al governo. Ma il beneplacito del governo non si stendeva nemmeno sul complesso generale di questo ordinamento: perrocch l'ispezione suprema apparteneva al Tribunale della Giunta del Censimento. Il comune era dunque al cospetto della legge una societ di vicini, che provvedeva con certi contributi a certi servigi, e che, insieme agli altri comuni del distretto, sceglieva persona idonea, la quale avesse cura dell'osservanza delle leggi e della regolarit delle aziende. Di tutte le quali cose doveva poi ragione a un "tribunale". A questo era riservato giudicare se il cancelliere nominato dai comuni fosse idoneo. E quando non fosse notaio o dottore in leggi, poteva essere ingegnere collegiato o pubblico agrimensore "purch avesse dato prova della sua idoneit in qualche altra pubblica incombenza". Tutto era dunque ordinato puramente alla provvidenza e alla giustizia, e ci che sembra pi strano alla libert. Ed era un diritto comunale di fonte prettamente italiana. Ora vediamo di qual fonte venga la legge di cui l'Italia deve ritentare l'impopolare e infelice esperimento. Vent'anni dopo che la legge di Pompeo Neri era in prospero vigore, l'illustre Turgot, pubblicando nel 1775 quel suo "Mmoire du roi sur les municipalits" che parve in Francia una rivelazione, attribuiva con profondo senno la miseria del regno al volersi amministrata ogni cosa per mandato regio. "Votre Majest est oblige de tout dcider par elle-mme ou par ses mandataires". Proponeva dunque che i comuni, le provincie, il complesso del regno, si amministrassero con tre ordini di consigli elettivi. Turgot non credeva dunque n al beneplacito regio n alla burocrazia. Ma la Francia gemeva ancora sotto il patto di Carlomagno, sotto la feudalit combinata dello Stato e della Chiesa; chi non era gentiluomo o prelato, era rustico, "roturier", "vilain". E Turgot stesso, come

pensatore seguiva la dottrina fisiocratica, la quale ripeteva ogni ricchezza non dal lavoro, dal capitale, dal pensiero, ma unicamente dalla terra. Pertanto egli, fervido promotore di libert, eziandio nel commercio e nell'industria, non ammise nel comune alcuna rappresentanza del commercio e dell'industria; e anche per la terra ammise bens tutti i proprietari ma diede loro un numero di voti commisurato all'ampiezza dei poderi. Era la voce della terra, non quella del comune. La rivoluzione francese non seppe uscire dalla tradizione dei secoli e dalla fede nella onnipotenza dei governanti. Ai mandatari del re successero i mandatari della nazione. Il furor della disciplina fece obliare la libert. Il popolo ebbe la terra, ma non ebbe il comune. Eppure nel 1804 e nel 1805, quando la guerra ebbe arrecate a noi tutte quante come prezioso dono le nuove istituzioni francesi, troviamo che non solo nelle parti d'Italia annesse all'impero, ma eziandio nel regno in fronte al quale si era serbato il nome d'Italia, tutti i comuni hanno un sindaco creato dal prefetto o un podest creato dal re. Anzi gli stessi consigli comunali ovunque gli abitanti siano pi di tremila, sono parimenti creatura del re, e dove gli abitanti siano di meno, sono creatura del prefetto. Questa la nomina iniziale; negli anni successivi le nomine devono farsi sopra le proposte degli stessi consigli, ma farsi pur sempre dal prefetto o dal re. I comuni possono essere aggregati o disgregati a voglia del ministro; il prefetto pu far murare le porte della citt "per minorar le spese di custodia"; a s luminoso scopo, la finanza anticipa i denari; e le citt glieli rimborsano. (Decr. 23 giugno, 1804). Per altro simile lampo di scienza, i comuni vicini alle mura vengono spietatamente incorporati alle citt, con dissesto delle famiglie e dispargimento di migliaia di abitanti. Le municipalit dipendono dal prefetto o dal vice-prefetto; eseguiscono gli ordini di questi; e "in caso d'inobbedienza, possono essere sospese o fatte supplire". L'unico diritto del nuovo comune italiano il "diritto di obbedienza". Il comune l'ultima appendice e l'infimo strascico della Prefettura e della viceprefettura. Il comune non pi il comune. Tutto il sistema una finzione. Nel 1814 i podest e i consigli comunali del re non mossero un dito a salvare il regno. Alcuni di essi accolsero gli austriaci, facendo suonare le campane a festa. Tale la solidit delle istituzioni burocratiche. Chi semina la servilit raccoglie il tradimento. Il comune nel regno d'Italia era cos avvilito, che l'Austria, ripristinando nel 1816 l'antico nostro diritto comunale, pot gettarci in fronte quell'odioso rimprovero: "Convinti dei mali che risulteranno dall'attual sistema d'amministrazione comunale, ordiniamo: le citt e i comuni saranno ristabiliti... nei confini che avevano... secondo le viste e i principi dell'amministrazione introdotta pei comuni dello Stato di Milano coll'editto 30 dicembre 1755... Ogni comune sar rappresentato da un consiglio o convocato generale degli estimati... L'amministrazione del patrimonio sar affidata a una deputazione del consiglio o convocato... Il cancelliere o suo sostituto non ha alcun voto deliberativo e "non deve punto immischiarsi" nel determinare l'opinione dei votanti ma, come assistente del governo, deve soltanto vegliare al buon ordine; far presenti, ove occorra, le leggi e i regolamenti; e distendere il protocollo delle sedute. Esso siede alla destra del presidente. Presiede al convocato il maggiore d'et che sia deputato. Assistono pure al convocato il deputato alla tassa personale e l'agente comunale, senza per averci voce deliberativa". Fra le antiche istituzioni di Pompeo Neri rimase soppresso nel 1816 il deputato del mercimonio. Forse si pens che supplissero le camere di commercio e la propriet prediale, cotanto diffusa nel ceto

mercantile, in sessant'anni di riforme e rivoluzioni. La legge del 1816 venne estesa a tutto il Regno Lombardo-Veneto. Per i podest e i consigli comunali delle citt, fu conservato il falso principio delle nomine regie, fatte sulle proposte dei consigli, venuti essi medesimi da nomina regia. E oltre le congregazioni provinciali, le due regioni lombarda e veneta ebbero ciascuna una congregazione centrale: istituzione che prevenne fra lombardi e veneti ogni molesta ingerenza e ogni naturale gelosia. Alle anime deboli che paventano le rappresentanze regionali, rammentiamo il fatto che dalla congregazione centrale di Milano e dall'istituto lombardo, ch'era pure un corpo regionale, mossero nel 1848 le prime deliberazioni ufficiali che prelusero alla ricomposizione dell'Italia. Tutti i plebisciti mossero dalle autorit regionali. Ma la legge del 1859 escluse ogni siffatta istituzione, per quanto necessaria alle riforme legislative, per quanto necessaria a riparare le intemperanze dei poteri nomadi e supplire le insufficienze della autorit centrale, involta sempre nelle tenebre dell'ignoto. La legge del 1859 escluse dal voto comunale la maggioranza degli abitanti, perch ingiunse loro la condizione di pagare da cinque a venticinque franchi di imposta diretta. Quella del testatico era ingiusta; ma era diretta; e coll'abolizione di essa, la maggioranza degli operai rimase priva di voto, mentre, in uno od altro indiretto modo, paga assai pi di prima. E chi, pagando cinque franchi d'imposta diretta, ha oggi il voto perch oggi la popolazione del suo comune non oltrepassa tremila abitanti, non avr pi il voto dimani, perch l'arrivo d'una famiglia, o la nascita di qualche bambino, pu elevare la popolazione oltre quella capricciosa cifra; o perch egli medesimo dovr trasferirsi in altro comune di maggior popolazione; o perch il beneplacito ministeriale aggregher volenti o nolenti, due comuni in un solo. Questa incertezza perpetua del voto necessita un nembo di registri e di affissioni e revisioni e controversie che non hanno fine se non in Corte di Cassazione! Sessanta articoli della nuova legge versano intorno a questo immenso e inutile lavoro, quando bastava sostituire al principio della capitolazione quello del domicilio. Chi paga affitto paga, "diretta" o "indiretta", la sua parte d'imposta al comune. Falsato il diritto comunale alla base, falsato fino alla sommit. Il sindaco non pi l'agente scelto dai deputati per eseguire i loro ordini e far tutto quello che potrebbero far essi se fossero adunati. Nei settemila e settecento comuni del regno, il sindaco "capo" dell'amministrazione ed "uffiziale del governo" il sindaco "presiede" la giunta; distribuisce gli affari; "pu delegare" le sue funzioni ad altri nelle borgate e frazioni; quando presiede il consiglio investito di potere "discrezionale", ha la facolt di "sospendere" e di "sciogliere" l'adunanza; pu ordinare che venga "espulso" dall'uditorio chiunque sia causa di disordine; ed anche ordinare l'"arresto"; in caso di scioglimento un delegato regio amministra "a carico del comune". Tutto questo indegno della nazione. I comuni sono la nazione; sono la nazione nel pi intimo asilo della sua libert. Nel 1755, la legge di Pompeo Neri diceva ai sudditi di casa d'Austria nello stato di Milano, che il cancelliere del censo, incaricato di conservar l'ordine nei convocati: "si opporr alle deliberazioni tumultuarie protestando della nullit e comminando l'indignazione dei superiori" (art. 263). Quale calma di misure! Qual decoroso e rispettoso linguaggio. E' la voce d'un filosofo che parla a un popolo gi libero e degno d'esser libero.

Si vuol dunque esporre la nostra legge a siffatto paragone? In faccia all'Austria? (Scr. pol. 3, 74 e seguenti). Nel marzo del 1867 Cattaneo - pressato da insistenti inviti - non rifiut che il suo nome fosse proposto agli elettori del primo collegio di Milano. Eletto con 629 voti contro 516, si rec a Firenze - allora capitale del regno - senza per voler partecipare a nessuna seduta della camera, incapace di scendere a compromessi e di prestare giuramento nelle mani del re. Firenze bella - scriveva - ma una vita in aria, come quella delle rondini: e le rondini amano a tornare donde sono partite. (Scr. pol. 3, 204). Tutti questi discorsi fanno male ai miei nervi; sono troppo vecchio; bisogna che mi lascino partire; non m'interesso a nulla di ci che succede. (Scr. pol. 3, 202). Ritorn cos a Castagnola, in cerca di riposo e di pace, ma la tristezza di Custoza, di Lissa, di Mentana le occupazioni, gli incarichi, gli amici e i nemici gli toglievano ogni giorno la tranquillit sognata. Cos scriveva il 14 settembre 1867 a Gaetano Strambio; e traspare dalle sue righe, anche quando parla con commozione del suo antico maestro, un senso di stanchezza desolata. Mio caro. Un giorno il parlamento; un giorno lo stato maggiore della massoneria, senza esservi appartenuto mai; un giorno v' da rappresentare nel congresso della pace una citt, un giorno un'altra; v' l'esposizione universale; v' il congresso di statistica, la societ di geografia, la benedizione della galleria del re, il monumento a Romagnosi eccetera. O mio caro amico, di questo cencio di vita che mi resta, lasciatemi fare il bucato in casa mia e colla minima spesa. Ho passato (son trentadue anni) qualche notte al letto di Romagnosi moribondo, dopo quindici anni d'amicizia. Gli ho scritto il testamento; l'ho pregato di lasciarvi porre una riga che ci permettesse di scegliere la sua fossa lungi dalle orride sepolcraie maledette da Foscolo. L'ho difeso un poco da un barnabita che lo insidiava; ho invocato la protezione di un vecchio prete ch'era stato massone con Azimonti e con lui. Ho sostenuto colla mia mano il suo capo vacillante e vaneggiante. Ho aperto sullo strato funebre del suo cadavere, in presenza del conte Bolza, la soscrizione pel suo monumento all'Ambrosiana; ho messo una delle mie spalle a portarlo in chiesa, con Giuseppe Ferrari, De Filippi e Calderini. L'ho seguito la notte al cimitero di Carate; sono andato con Luigi Azimonti a trovare il luogo d'un nuovo cimitero, in un ameno poggio sulla costa del Lambro; poi, poco prima di emigrare, ho visto nella cappella mortuaria l'altro suo monumento, con quelli di Azimonti e della figlia, fatti sconvolger tutti, l'anno seguente, da Radetzky! Ho finito. I piacentini hanno pensato a fargli anch'essi un monumento; tu pregali di non far troppa eloquenza. Da loro, a nome mio, che la maggior lode del venerando vecchio quella di aver introdotto (sessant'anni fa) nel "Diritto Publico", come "principio giuridico", il "perfezionamento" cio il progresso deliberato e perpetuo" rompendo la ruota fatale di Machiavello e di Vico e l'eterno predominio del male nel mosaismo e nella cristianit: "Pauci electi"! E', dopo tanti secoli, il primo passo sulla via di Confucio, chiusa dai despoti cinesi. Mio caro, salutami la tua famiglia, i Rosmini, l'Antonietta e la Sofia, gi mi sospiro (!) se pure se n'era accorta! (Scr. pol. Ep. 3, 222-223).

E l'antica energia lo abbandonava. Il 1868 fu un anno triste di affanni e di sofferenze. Nella notte dal 5 al 6 febbraio dell'anno seguente, dopo giorni di delirio e di spasimi, Carlo Cattaneo spirava e l'amico fedele Agostino Bertani scriveva a Jessie Mario questa lettera dolorosa e commovente: "Cara Jessie", L'"amico morto": concedete che cos soltanto io lo chiami. Il filosofo, l'economista, il letterato, il valente battagliero, il patriota senza macchia, il fiero repubblicano non morto per noi. Nei suoi scritti, negli atti della sua vita lascia tanta copia di lezioni, da rigenerare l'Italia nelle credenze, negli studi, nella politica sua possanza. Ma il cuore dell'amico non batte pi; e noi non le vedremo pi aprirci giulivo le braccia quando lo sorprendevamo nel suo studio a Castagnola; o quando, sempre premuroso per gli amici, scendeva dal suo colle, e di notte, per incontrarci all'arrivo del corriere di Lugano. Che festa era per lui rivedere un amico in cui fidava! E che pena il vederlo partire! "Io rivivo" diceva egli per trattenerlo "lunghi giorni in voi che siete nel gran mondo, allorch venite a trovarmi, e siete cos avari di voi!" E in brev'ora i temi di cento discorsi da farsi erano abbozzati da quell'uomo s arditamente desideroso del bene della patria sua, da quella vasta e lucida mente che di ogni grande progresso e delle maggiori imprese del secolo fu propugnatore, cooperatore e illustratore. Ma io vi parlo dei suoi meriti intellettuali e non voglio dirvi che del suo affetto e del mio dolore. Quando, poco pi di due mesi or sono, Cattaneo venne meco al letto di Mazzini allora aggravato, egli era gi sofferente, ed io che, commosso da quella scena di affetto e da quel colloquio, sicch mi parve un episodio della nostra storia, da piedi del letto contemplavo onestamente quei due uomini s cari all'Italia, tremavo per la vita d'entrambi, e scacciavo il pensiero, che la prepotenza della professione voleva impormi, librando quale delle due nature fosse pi infiacchita e prossima alla fine; e ripensavo alla miseria dei superstiti e raddoppiavo allora di preghiere e di sforzi a persuadere entrambi di essere pi accurati e gelosi nel conservare la vita. Cattaneo non doveva fidare che nella tempra sua robusta, nel riposo e in un regime riparatore di una depressione incautamente praticata e con troppa tolleranza da lui subita. Quella sera, che vi descriver rivedendovi, fu una sera mestamente solenne per me, ma non credevo allora che i patimenti di Cattaneo dovessero s presto distruggerne la vita. L'agonia di Carlo fu delle pi penose e dai moti ordinati della mano che scorreva lentamente la sua fronte e tergeva le labbia fino all'ultimo, pu credersi che ancora vegliasse in lui la coscienza, impotente a qualsiasi rivelazione. Quanto deve avere moralmente sofferto in quello stato! Egli scotevasi alla voce mia che lo chiamava: Carlo! Carlo! e la mano che io gli stringevo pot appena darmi segno dell'ultimo addio. Che pena sentirvi mancare rapidamente le forze, mentre poco innanzi le sue ultime espressioni mostravano ancora l'ardore della lotta! Le ultime nostre sventure furono i temi della sua letale fantasia: Custoza, Lissa, Mentana, il macinato: tutti i mesti dolori ei comprendeva allora in quello massimo di lasciare cos desolata l'Italia! Fino all'ultimo ricord di essere deputato e con manifesta agitazione profer spesso la parola "Parlamento". E mentre cos delirava, un amico che ei non riconobbe, accomiatandosi gli chiese e toccogli la mano per stringergliela; a quell'atto egli si scosse, e corse col

pensiero concitato al dubbio che potesse rimanere sulla sua fede politica; e ritirando la mano esclam: "No, io non do, io non diedi la mano, io non sono impegnato, sono libero, nulla ho promesso, io non giuro"; e poi sognava della Spagna risorta e sorrideva. Il raffronto lo rasserenava. Della sua condizione politica rimpetto ai contemporanei e alla storia era preoccupatissimo. Ei si doleva allorquando le sue politiche dottrine erano da taluni confuse con altre, con quelle stesse di Mazzini. Una recente pubblicazione del "Gaulois", che recava la biografia dei due uomini eminenti, lo aveva colpito negli ultimi giorni, appunto perch gli erano attribuite idee non sue, e svisando il suo genio, i suoi lavori e tutto confondendo, era fatto continuatore dell'apostolato politico del Mazzini, quando questi credevasi morente forse. Voi ricordate la sua camera da letto che sta sopra il salottino. Egli ne occupava il lato destro. I giorni 5 e 6 di questo mese, venerd e sabato, furono splendide giornate. Voi sapete come sia bella Castagnola, e come dalla finestra della sala e della camera di Carlo si vedesse lungo il lago la terra di Lombardia. L'amico estinto stava rivolto collo sguardo fisso agli estremi lembi della patria sua, cui sembrava ammonisse colla espressione dolce, ma improntata di una seriet che imponeva. Dalle finestre aperte entrava un mare di luce, un'aura tiepida ed un olezzo primaverile, che ravvolgevano il corpo dell'amico disteso sul suo letto e vestito; ma egli rimaneva freddo e coll'occhio immobile rivolto verso la sua terra. Io non potevo togliermi da quella camera, da quello spettacolo che riuniva la morte e l'immortalit, la fama e l'esempio di un grande cittadino, di un animo generoso e cos benevolo ad un tempo. In cento modi l'ho contemplato. Lo chiamai tante volte colla voce dell'anima che evoca gli amici dalla tomba: lo baciai, lo bagnai di lagrime, gli volsi da ogni lato il capo quasi per iscuoterlo e forzarlo a guardarmi, e fingendo un istante che mi ascoltasse, lo fissai nelle ferme pupille inondate dal sole ma queste stavano immobili, egli era freddo, era morto. Se avessi potuto credere al miracolo, ah! io l'avrei atteso allora dalle mie strazianti invocazioni. Gli tagliai un riccio di capelli. Con ogni mezzo dell'arte fu contrastato al tempo l'oblio della forma della sua testa s bella. Ma infine fu necessit staccarsene e l'adagiai io stesso nella cassa e lo circondai di fiori. Gli accomodai il berretto, sicch l'ampia fronte fosse scoperta, gli diedi l'ultimo bacio e coprii con un velo quel volto spirante ancora tutta la serenit dell'anima sua. Infine si chiuse anche su di lui il fatale coperchio. Io non so dirvi altro, cara Jessie, perch il cuore non mi regge al rifarsi innanzi gli occhi quella scena solitaria e desolante. Lugano per me ormai un luogo di apprensioni e di dolore. Un altro grande Italiano vi in pericolo. E il suo bel cielo e i bellissimi suoi colli mi ritornano alla mente come funebri arredi intorno all'amico estinto. AGOSTINO BERTANI. NOTE. Nota 1. Enrico Cernuschi (1821-1896), milanese, uno dei principali organizzatori della resistenza delle Cinque Giornate. Contrario a Carlo Alberto, non accett alcun incarico nel governo provvisorio. Nota 2. Vitaliano Arese Borromeo (1792-1874), vice-presidente del

governo provvisorio. Nota 3. Agosto 1848. Nota 4. A palazzo Greppi ove aveva posto la sua residenza il re. Nota 4. Salasco, Bava, Olivieri, generali piemontesi. Lorenzo Pareto (1800-1865), ministro di Carlo Alberto nel primo ministero costituzionale. Nota 5. Francesco Restelli (1814-1890), membro del Comitato di Difesa Pubblica. Abbandon Milano il 6 agosto dopo l'ingresso delle truppe austriache. Riusc a raggiungere Lugano e l scrisse l'opuscolo, pi volte ristampato, "Gli ultimi tristissimi fatti di Milano stampati da quel comitato di pubblica difesa". Nota 6. G. F. Urbino, mantovano, si pose il 29 maggio a capo di un tumulto popolare che mirava a rovesciare il governo provvisorio. Fu proposta una lista di nuovi governanti nella quale figurava il nome di Carlo Cattaneo. Questi protest per energicamente alle accuse di aver preso parte al complotto. Nota 7. Moti insurrezionali erano scoppiati a Genova dopo la sconfitta di Novara. Il generale Alfonso Lamarmora, inviato dal governo piemontese stronc i moti sanguinosamente, suscitando violente proteste da parte del repubblicani. Nota 8. I cantoni di Appenzel e di Basilea sono divisi in due mezzi cantoni. Nota 9. "Sonderbund" fu detta l'alleanza di sette cantoni cattolici che si opponevano alla cacciata dei gesuiti. Le truppe del "Sonderbund" furono sconfitte dalle truppe federali il 7 agosto 1847. Nota 10. Il generale borbonico Gaetano Filangieri bombard Messina dal mare dal 3 al 9 settembre 1848. L'isola era in seguito riconquistata al dominio di Ferdinando Secondo. Nota 11. Confronta la nota 7. Nota 12. Garibaldi, paragonato al liberatore dell'America. Nota 13. Domenico Romagnosi (1761-1835) filosofo e giurista, fu maestro del Cattaneo. Nota 14. Il governo era investito, durante la guerra, dei pieni poteri; e la legge non fu approvata dai rappresentanti del popolo lombardo. Nota 15. Pompeo Neri (1706-1776) ispiratore delle riforme ai Granduchi di Lorena in Toscana. Chiamato da Maria Teresa a Milano nel 1748, nel 1755 riform l'ordinamento comunale. Nota 16. Un deputato rappresentava il ceto dei commercianti, l'altro tutti coloro che pagavano un imposta personale.

SCRITTI D'ARTE DI LETTERATURA. Nel programma del "Politecnico" Cattaneo invitava la cultura italiana ad una pi viva partecipazione agli studi tecnici ed alle scienze sperimentali, ad un contatto pi fresco e pi immediato con le molteplici attivit che l'uomo realizza nella storia, rompendo i limiti di un angusto provincialismo. Da questo generale orientamento di pensiero, non andava per disgiunto

un appassionato interesse per la vita artistica e letteraria ed i saggi sul "Don Carlos" di Schiller e su "Fede e Bellezza" del Tommaseo rivelano, nel Cattaneo, un fine gusto critico. Egli visse negli anni in cui pi ardente si manifestava la polemica fra classicisti e romantici; tent di porsi al di sopra di essa sembrandogli che i termini del problema fossero privi di consistenza e di significato, mentre gli sfuggiva, per, il significato innovatore e rivoluzionario del moto romantico. Dopo aver potuto superare gli anni della giovinezza quasi senza scrivere e aver potuto, anche poco e tardi scrivendo, rattenermi entro materiali e quasi febbrili ricerche intorno a strade ferrate e riforme legislative e tariffe e banche, a tale d'esser compianto dagli amici poeti e metafisici come uomo, incurabilmente positivo, mi par quasi farmi reo di lesa specialit, se nel raccogliere in manipolo le cose fatte in questi dieci anni, mi reca tra mano un volume tutto di letterarie divagazioni. Io non dir col difensore d'Archia, "haec studia", con ci che segue; dir che pi d'ogni meditato proposito pu sull'uomo l'invito delle circostanze. Fattomi proprietario di un giornale, bench il nome che altri gli aveva destinato di "Politecnico" paresse ammonirmi contro ogni seduzione letteraria, tuttavia forse perch la natura anco repressa torna alla prova, vi lasciai trapelare tra cosa e cosa qualche spiraglio pure d'altri pensieri. E tra quella scabra merce di locomotive e gasometri e ponti obliqui, mi sfugg alcuno qua e l di quegli argomenti che "hanno viscere". In mia giovent non avrei avuto l'animo di commettermi a quelle controversie che ardevano allora s accese intorno alla lingua e alla poesia. Prima di tutto la giovent non era peranco cos corriva allo scrivere, come oggid. Poi, quanto pi per naturale facilit d'indole io versava in amichevole e libero consorzio con uomini che seguivano opposte dottrine, tanto meno io sapeva spiegare a me stesso perch gli uni si riputassero da questa parte, e gli altri da quella. Si accaloravano molti a ripetermi ch'egli era tempo di rinnovare daccapo la poesia, e raccoglierla tutta nella tradizione del Medio Evo, lasciando pure che vecchio e solo, poich cos voleva, Vincenzo Monti rimbambisse nelle consuetudini della favola greca. Ma io vedeva ove fosse questo vantato dominio della mitologia nella nostra letteratura. Sapeva ancora a mente parecchi versi della "Basviliana"; e aveva innanzi al pensiero quel sublime modo di supplicio: correre la terra mirando il doloroso effetto dei propri falli; il mondo dei vivi fatto strumento di pena e di riconciliazione al mondo degli estinti. E non mi pareva cosa dell'antichit; poich Virgilio aveva posto altro luogo ed altra natura di tormento: "tum stridor ferri tractaeque catenae". N mi pareva tampoco al tutto dantesca, ma quasi raggio spontaneo di non voluta originalit in uno scrittore il cui principale proponimento era stato l'imitazione di Dante. E quando parimenti io sentiva accagionare di cosa troppo greca e romana la tragedia d'Alfieri, e chiamarsi la giovent agli altari di nuovi idoli, del semidio Schiller e del dio Shakespeare, io rimanevo smemorato raccapezzando certi passi del "Saul", che mi parevano scritturali quant'altri mai. E al contrario ricorrendo daccapo Shakespeare trovava il soprannaturale scaturirvi tutto dalli incantesimi, e alli spiriti della terra e del mare, e altretali reliquie dell'era celtica; onde anche tra le fosse e i teschi di "Amleto" non si leva fiammella di cristianesimo n si potrebbe tampoco ritrarne di che fede il poeta s fosse. N il frate in "Giulietta" n il legato in "Re Giovanni" sono figure introdutte

con devota intenzione, e forse ai giorni di Shakespeare e tra le rigidi opinioni dei riformatori, il teatro con profanit tollerata appena, non poteva osare di farsi interprete a solenni credenze. E parimenti io non mi persuadeva che dalla serena austerit dell'Evangelio fossero derivate le adorazioni amorose dei Provenzali, o le voluttuose fate dell'Ariosto, o quel tenace proposito di vendetta onde sono roventi i tre mondi del Ghibellino. Tutta adunque quell'unit poetica da cui s'intitolavano le nuove opinioni mi pareva risolversi in estranei elementi, i quali se si accozzarono in grembo al Medio Evo tengono per certo le fonti loro in pi remote e oscure regioni. Laonde non intendeva come nel paragone di antico con antico fossero tanto a vituperare le tradizioni dei nostri padri, o se meglio piace, dei nostri antecessori su questo suolo italo-greco. E non vedeva perch dovessimo farci pedissequi di pensieri e d'interessi non nostri, affrettando frivola disistima di quelle generazioni che fecero le nostre citt e i nostri campi, e deposero sino nei loro sepolcri le vestigia d'un vivere cos umano e adorno, e seppero dare s sublime parola a Filottete derelitto e a Didone disonorata, e imprimere sul volto della Niobe e del Laocoonte le note di s squisito dolore. Non vedeva perch a tanto intervallo di secoli dovessimo levare uno sguaiato riso contro quelle arcane fantasie che avevano pure confortati e scorti a s nobili fatti i nostri padri. E poich infine pi bello figurarci sacro l'aratro ed onorato dalla mano vittoriosa dei consoli e dalli armoniosi insegnamenti dei poeti, che non dato con disprezzo da strascinare ai servi della gleba feudale. E perci non vedeva perch dovessimo apprenderci con unico e fanatico amore a quel Medio Evo, il quale se fu l'"occasione" d'altre civilt, fu solo un interludio nella longeva vita della nostra; e non venne per noi con le leggi n con le arti n colla gloria delle armi e dell'ingegno, ma tra una squallida bruma d'ignoranza e d'avvilimento. E per ultimo non mi pareva che si potessero senza sdegno udire gli ammaestramenti che lo Schlegel e la Stal accompagnavano con si arrogante vilipendio della generazione vivente in Italia, rappresentata pure con antica grandezza da Volta e da Napoleone e appena uscita da un'asprissima prova di valore e di sangue. Perloch mentre molti annunciavano in quelle antinazionali dottrine un'improvvisa rigenerazione letteraria, e poco meno d'una redenzione, io vedeva solo una nuova onda delle transitorie opinioni. Dove il coetaneo sogna e zela subito e vasto mutamento d'animi e di cose, talvolta il postero appena riconosce compiuto un passo delle consuete vie d'una nazione: le quali essendo preordinate da lontanissime e perenni e indistruttibili cause, non si mutano per s breve e s tenue sforzo di pochi. Ora sono trascorsi gli anni e possiamo persuaderci che la novella dote infusa da quella riforma alla madre Italia non fu al certo la fecondit. Non apparve peranco un nuovo Goldoni che gittasse sedici commedie in dodici mesi, o riuscisse pi fedele dipintore del suo popolo. I capolavori riuscirono rari e preziosi quanto per l'addietro; la potenza del vapore non entr a sollecitare i frutti dell'ingegno. (Opp. 1, 3-6). Ogni genere letterario ha per Cattaneo una profonda corrispondenza con l'epoca di cui l'espressione e, come tale, un prodotto della storia e del tempo. Solo attraverso un continuo richiamo alla storia e al suo significato, l'esame critico pu acquistare senso e validit. La satira, per esempio, appare al Cattaneo come l'esame di coscienza dell'intera societ, la sintesi del secolare scontento degli uomini, della loro avversione alla corruttela e agli intrighi di cui spesso intessuta la vita sociale: La satira l'esame di coscienza dell'intera societ; una riazione

del principio del bene contro il principio del male; e talora la sola repressione che si possa opporre al vizio vittorioso; un sale che impedisce la corruzione; la societ non pu dirsi corrotta a pieno, se non quando il vizio pu riscuotere in pace i plausi del vulgo e l'ostentarsi maestro del vivere. La satira appura e stringe in brevi linee le stentate interpretazioni, le prolisse istorie e le interminabili ripetizioni della maldicenza privata. Ci che per anni ed anni fu il pascolo di mille mormorazioni monotone, insipide, codarde, si stringe ad un tratto in forma vivace e scintillante, e, a guisa di razzo acceso, solca gli spazi e attrae gli sguardi; ma quella fiamma si nutre dell'aria stessa onde il popolo respira e vive. La satira, divisa dal consenso delle moltitudini, scotta ed ulcera, ma non d luce e cade in oblio. Fu gi notato che la audacia della satira fra i segnali dell'eccellenza mentale di una nazione. I Goti e gli Algerini non furono mai famosi nella commedia come i cittadini d'Atene e di Parigi. Ariosto e Machiavelli furono egregi derisori del prossimo, in un tempo che i gran peccatori pagavano tassa e compravano il perdono dei poeti. Tra il secolo del Bibbiena e quello del Goldoni sta il seicento, secolo vuoto e fiacco, che non ebbe tampoco la forza di ridere di s. La possente Inghilterra la patria della caricatura; ogni giorno una legione di giornali vi fa specchio inesorabile della vita pubblica e privata; Sheridan vi comp l'opera, mettendo in commedia la stessa maldicenza. I pi illustri scrittori del secolo, Walter Scott, Byron, Goethe, Manzoni, sono tutti dipintori di caratteri, o vogliam dire scrittori satirici: e chi non intinse la penna in questo inchiostro riesc scrittore effeminato, floscio, nullo, di cui la societ si stucca, e il popolo non si cura. La filosofia stessa non trionfa se non coll'armi della critica: Diogene, con un pollo spennato, confuta le turgidezze di Platone, Locke una critica delle idee innate. A cominciar da Dante, che fu l'ideale della maldicenza, i fiorentini dominarono sull'Italia colle spaventevoli pubblicit d'una satira che era intesa da un capo all'altro della penisola. Ma dopo che il duca Cosimo insegn loro a parlar sempre bene di tutto, Firenze, ad onta dell'aureo dialetto non ebbe pi lo scettro delle lettere italiane. (Opp. 1, 127-129). Gli interessi vari e multiformi del suo pensiero lo spingevano a frequenti indagini sulle lingue e sulle letterature dei popoli antichi e moderni di cui studiava l'opera artistica e letteraria, soffermandosi con pi vivo interesse sulla loro formazione storica; il che lo portava spesso a valutare l'arte in funzione e in dipendenza di valori etici, storici e sociali. Dalle numerose pagine sul significato e sulla storia del linguaggio trascriviamo questo breve frammento: La linguistica surta naturalmente dalla contemporanea cognizione di molte centinaia di linguaggi vivi e morti, i cui materiali si vanno ogni giorno accumulando dai geografi e dagli antiquari, e richiedono d'esser sottoposti a scientifico ordinamento, come qualunque altro oggetto dell'umana intelligenza. Questo nuovo studio, indagando le intime somiglianze e dissimiglianze delle varie lingue tanto pel suono dei vocaboli quanto per le diverse maniere di derivarli, comporli e collegarli, le ordina primamente in famiglie; e cerca poi nelle istorie dei popoli le remote cause per cui si comunicarono fra loro quei particolari modi d'annunciare i loro pensieri. Ogni stabile mescolanza di popoli, avvenga essa tra i commerci della pace e tra i furori della guerra, produce un'innovazione della favella, massime quando una letteratura popolare non ne abbia peranco

resa stabile la forma. Lingue una volta regnanti si vanno cancellando dalla memoria degli uomini, insieme alla potenza dei popoli che le parlavano; oscuri miscugli di parole, subitamente propagati dalla vittoria, si fanno lingue illustri di nuove nazioni. Talora due lingue si fondono insieme, e mentre l'una impone all'altra i suoi vocaboli, questa sopravvive segretamente colla pi intima e gelosa parte del suo tessuto, che lo studioso viene con meraviglia svolgendo da quelle ruine. Talora due popoli che s'aborrono per antiche offese, nutrite da un'apparente diversit di linguaggio, si scoprono venuti dai medesimi padri, e divisi solo dalla variet delle sventure. Talora due popoli vicini, congiunti in un medesimo corpo di nazione, si palesano venuti da stirpi lungo tempo nemiche, i cui segnali si perpetuano inosservati nel domestico dialetto. Talora un vocabolo parte da un paese, e dopo un corso di secoli vi ritorna in compagnia di genti straniere: talora in qualche appartata valle si serbano i frammenti d'una lingua che nell'aperto piano non seppe resistere alla forza del commercio o della conquista. E spesso una lacera pergamena, un papiro trovato in un sepolcro, un libro di preghiere conservato da una famiglia fuggitiva, dissero sull'esistenza d'un popolo ci che all'istoria indarno sarebbesi dimandato. (Opp. 1, 145-146). I saggi su "Ugo Foscolo e l'Italia" su "La Scienza Nuova" del Vico, su "La politica" di Tommaso Campanella, su "La vita di Dante" del Balbo sono, accanto a quelli sopra citati e ad alcuni saggi di Critica d'arte, fra i pi significativi della produzione del Cattaneo. Dal lungo saggio "Sul romanzo delle donne contemporanee in Italia" tratta questa pagina: Non v' opera di genio dietro a cui non si celi, oscura ed ignorata, una musa ispiratrice, una donna. In tutti i lavori degli uomini si nasconde, e tutto ci che vi brilla di grazioso, di sentimentale, di gentile, d'uopo renderlo ad essa. Vi siete mai fermati a contemplare tra le feconde spighe che biondeggiano sul campo i leggiadri fiori delle creature? Cos tra i Petrarca, i Dante, i Michelangelo, i Chatterton appariscono le Laure, le Beatrici, le Fornarine, le Kitty. In quasi ognuna delle poesie di Heine si scorge una fanciulla; questo il segreto del loro irresistibile effetto. Fatalmente di pochi poeti conosciamo s bene la vita intima, ma ci che non si conosce, si indovina, e il prestigio della donna per esservi misterioso ed incognito non vi meno trasparente e simpatico. Quanto la nostra mente con estasi scossa dai canti di Aleardi, di Hugo, di Smith, di Moor, di Lermontoff, di Gil y Zarate, di Longfellow, noi rendiamo un culto a modeste e disperse belt, a giovinette che confuse nella folla, ignorate, vivono in un angolo dell'Italia, della Francia dell'Inghilterra, della Spagna o d'America. La poesia perci quintessenza d'amore, sole di bellezza. In essa come si ama senza confini nello spazio, si ama senza confini nel tempo. Non fa per noi rinascere Sacuntala, la bella principessa indiana da tanti secoli morta, e non ce la fa amare? Non fa rinascere per noi quei tipi s leggiadri e amorosi che vivono ancora e domandano l'adorazione ed i baci nei carmi di Ovidio, di Properzio, di Tibullo, e che ispirano una s gentile riverenza nelle rime di Guinicelli, di Dante, di Cino, di Petrarca? (Opp. 1, 359-360).

PENSIERI. L'amore: L'amore la suprema moralit, n pu apparire immorale se non quando limitato, se non quando una delle sue manifestazioni si esalta a scapito dell'infinita sua essenza. (Opp. 1, 363). La donna: Carattere subbiettivo nella donna ci che noi con tanto studio ed artifizio cerchiamo oggettivamente. Noi siamo poeti, ma essa la poesia; amiamo, ma non dessa l'amore? Ci seduce la virt? Essa la virt. In essa la fede, in noi il dubbio; quindi in noi quel concitato bisogno di perscrutare, indagare, discutere, in essa una pace serena; per la filosofia il nostro culto, il suo per la religione. (Opp. 1, 359). La perfetta amicizia: Si dice che difficile trovare un perfetto amico. Difficile, io rispondo, come trovare un uomo perfetto, un libro perfetto, un quadro perfetto. Che diamine! Cercare in questo mondo la perfezione proprio solamente nell'amicizia, un desiderio veramente strano. Io mi accontento degli amici anche non perfetti; non voglio che nessuno muoia per me. Che diavolo! Se ci fosse un uomo dal cuore cos generoso e che non fosse pazzo, sarei un gran briccone a lasciarlo morire per me, imperfetta creatura. Mi appago dunque di amici d'ingegno colto, di maniere cordiali, di abituale probit, di opinioni politiche non opposte eccessivamente alle mie, pronti chi pi chi meno a farmi anche un servizio, a far qualche passo per me e darmi un parere da galantuomo nei momenti che ho la testa calda. (Opp. 1, 397). La libert: La libert non deve piovere dai santi del cielo, ma scaturire dalle viscere dei popoli. Chi vuole altrimenti nemico della libert. (A L. Frapolli B, 43). La teoria dello "spazio vitale": Pur troppo vi sono ancora dei popoli che credono d'avere al di fuori di s il principio della propria vitalit. I loro timori, le loro speranze, le loro vanit sono tutte al di l delle frontiere. Quindi le ingerenze pericolose, le competenze indefinibili, le gelosie al di fuori, i sospetti al di dentro, i perpetui armamenti che divorano migliaia di milioni e apron l'abisso del debito pubblico nel quale le infelici dinastie vengono crudelmente sommerse da servi stolti e infedeli. (Opp. 7, 178).

Politica di conquista: Tutti i governi che aspirano ad imporre l'autorit loro ad altre nazioni, cadono in fatali interessi che li traggono ad assopire le intelligenze per dominare le volont. Perloch ogni stato che tenta acquistare siffatte ingiuste influenze, o che con trattati le riconosce e le avvalora in altri stati, eleva un ostacolo alla libera intelligenza e alla produzione. E chi promuove la libert della propria nazione e di qualunque altra parte del genere umano, fa opera indirettamente vantaggiosa a se stesso e a' suoi. (Opp. 5, 394). E i popoli civili, traviati da tradizioni barbare, divisi da superstizioni cieche e da pi cieche ambizioni, si consumano in guerre interminabili per usurpare un palmo di terra alle nazioni vicine. E non pensano che la terra soprattutto la vedetta dell'intelligenza; e che alla vera gloria dei popoli pensanti non mestieri di vasta superficie; e pi valgono i pochi campi occupati dalle mura della libera Atene e dalla libera Firenze, che non l'imperio d'Attila e Carlo Magno. (Opp. 7, 70-71). La forza delle idee: Chi apporta a un popolo un'idea, gli inspira una volont; lo prepara, presto o tardi, a certi fatti. Perci i despoti vigilano contro le nuove idee e i promotori di libert le coltivano. (Opp. 7, 235). Le riforme: Vi sono momenti solenni in cui, fra la commozione d'insoliti eventi, le riforme gi maturate nel seno della pubblica opinione si aprono improvvisa uscita e diventano istituzioni. Ma quel momento fugace; a poca distanza dal cratere le lave si raffreddano, s'impietriscono. In breve le nuove istituzioni diventano limiti e ostacoli al futuro. La pubblica ragione deve giacere per altra sequenza d'anni a meditare gli inutili suoi lagni sotto una nuova pietra sepolcrale. (Opp. 2, 369). Il governo nelle colonie: Il governo d'una nazione comunque siasi civile assume sempre ne' suoi lontani domini un aspetto di barbarie; egli gi pi o meno barbaro nel fondo delle sue provincie. (Opp. 5, 386). Idee nuove: Una sola idea nuova basta a sconnettere tutto un sistema e a rigenerare una scienza. (A De Boni, 1859). La pena di morte: Quando noi svegliammo dal sonno d'un secolo il tetro argomento della pena di morte, non fu perch, fra tante care e preziose vite che si spengono ogni d sul campo di battaglia ne importasse gran fatto della vita di qualche malvagio. Ma la morte il punto capitale di tutto l'ordine delle pene; sicch non dato abolirla, senza un profondo rinnovamento di tutta l'istituzione sociale. E questo il fine a cui miriamo; ed un fine alto e grande di progresso e d'umanit. (Scr. pol. 2, 273). Il mondo morale: Purtroppo il mondo morale una macchina male spalmata che si muove con chiasso. E talora fa chiasso e non si muove. (Opp. 1, 6). Il dubbio e la certezza: Ove il dubbio impossibile la certezza sempre uguale. (Frammenti di sette prefazioni).

Libert diffidenza: L'arte della libert l'arte della diffidenza: libert padronanza e padronanza non vuole padrone. (Archivio Triennale, 1). La religione ufficiale dello Stato: Si noti che il primo articolo della Statuto dice: "La religione cattolica apostolica e romana la sola religione dello stato". Amici elettori, io vi domando: Perch lo statuto dice cattolica apostolica e romana, e non dice cristiana? Sotto coteste, che sembrano questioni di aggettivi, stanno profondi sotterranei di teologia scolastica, di diritto canonico, di "Monita Secreta", e d'altra poco evangelica sapienza; e sottominano vastamente "la libera chiesa e il libero stato". (Lettera ai liberi elettori, 1867).

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