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Dov' è finita la programmazione?


Repubblica — 29 luglio 2006 pagina 19 sezione: COMMENTI
Il documento di programmazione economica e finanziaria (DPEF) è ormai un inevitabile
tormentone estivo. Alcuni pensano che potrebbe essere evitato, fondendolo con quell' altro
davvero inevitabile appuntamento di settembre: la legge finanziaria. Ma la ragione delle
distinzione tra i due momenti mi sembra logica. Nel primo si determinano le linee generali della
politica economica del governo e la portata complessiva della manovra finanziaria impegnando,
sulla base di una visione globale della situazione economica del Paese, Governo e Parlamento
all' osservanza di limiti non più discutibili della spesa e della pressione fiscale. Si fissa così una
cornice entro la quale ogni amministrazione dovrà collocare e potrà misurare la portata delle sue
esigenze. Tra i due momenti ci deve essere un certo tempo; e quello, per giunta estivo, che
corre tra DPEF e legge finanziaria, sembra appena sufficiente. Il Governo ha assolto il compito
relativo alla prima fase. Come? Luigi Spaventa ha illustrato con chiarezza su Repubblica del 27
luglio i meriti del DPEF, nonché gli interrogativi che suscita la manovra macroeconomica
prevista; e ai quali si potrà dare risposta soltanto con la legge finanziaria. Problemi che
riguardano la coerenza quantitativa della manovra economica che la legge finanziaria dovrà,
ovviamente, precisare e verificare. Vi è poi l' aspetto qualitativo: quello degli obiettivi che si
intende dare alla spesa pubblica, con riferimento ai problemi economici e sociali del Paese. Ci si
può chiedere se le procedure attraverso le quali le Amministrazioni fissano i loro obiettivi e il
Ministro dell' Economia e il Governo, finalmente, determinano le relative priorità, siano i più
appropriati per un paese moderno. Io non lo credo. Negli Stati Uniti e in molti paesi europei
obiettivi e priorità della spesa pubblica sono determinate, da tempo ormai, con una procedura di
programmazione basata sul calcolo dei costi e dei benefici economici e sociali degli interventi
previsti. Questa programmazione strategica per obiettivi, distinta da quella tradizionale
amministrativa, per competenze, è un processo permanente, non una sgobbata estiva, che
impegna tutti i centri di spesa a dare e a darsi conto con continuità, in termini non solo finanziari
e quantitativi, ma economici e qualitativi, dei risultati attesi e di quelli realizzati, valendosi di certi
indicatori. In un libro (Per restare in Europa, Utet, Torino) Franco Reviglio si sofferma
ampiamente sulle disfunzioni della spesa pubblica italiana. Per esempio, nel campo della sanità
(i fattori patologici della lievitazione sanitaria, la maldistribuzione dei posti letto, i prezzi troppo
elevati e le forniture disparate agli ospedali, gli sprechi nell' utilizzo dei farmaci, i lunghi tempi di
attesa); nel campo previdenziale ( fattori che determinano una spesa elevata e crescente senza
evidenti benefici: numero di pensioni eccessivo, discrasia tra spesa e contributi, eterogeneità di
trattamenti e diseguaglianze distributive, onerosità eccessiva del debito pensionistico). E poi le
disfunzioni dell' assistenza, dell' istruzione, dei servizi pubblici, qui non voglio farla troppo lunga,
meglio leggere il libro. Non dovrebbe, proprio la legge finanziaria essere il momento in cui l'
insieme di questi problemi viene misurato, per dar conto concreto dell' efficienza e della equità
della spesa pubblica italiana? Nella nostra legge finanziaria questa elementare esigenza di
programmazione viene ridotta alla misurazione della sostenibilità economica della spesa e al
vincolo che ad essa è posto (per fortuna!) dalla Commissione Europea. E poiché è ovvio che
quel vincolo impone limiti severi alla spesa, si riduce il problema ai «tagli» della spesa, e a come
distribuirli tra le varie grandi categorie; senza precisare e misurare le azioni concrete e specifiche
dirette ad aumentare la produttività dei servizi e a ridurne i costi. Si è giunti, durante la
precedente legislatura, fino alla ridicola pretesa di tagliare la spesa di tutti i Ministeri del due per
cento. Questa è stata la programmazione del precedente governo, clamorosamente fallita, del
resto, insieme alle furbate e ai trucchi della finanza creativa. E' augurabile che il nuovo Governo,
così come ha cominciato a fare con le riforme liberalizzatrici, realizzi, con lo sguardo rivolto un

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po' al di là delle eterne emergenze, una riforma della legge finanziaria ispirata a quella, da molti
anni introdotta in America, della programmazione strategica (strategic planning). Perché non
inviare una commissione a Washington (per carità, di dimensioni ridottissime e approfittando del
cambio favorevole) di esperti che studino, una buona volta, «il modello americano»? E vedano
se, per caso, possiamo imparare qualche cosa, non solo dalla CIA, ma anche dal Bureau of
Budget? Programmazione. Non è un po' strano che, almeno per quanto riguarda le tecniche,
non gli obiettivi, di politica economica, siano gli americani, come sembra, ad applicarla con
rigore? Succede. Noi tentammo, tanti anni fa, di introdurre questo concetto nel lessico italiano.
Ci riuscimmo anche troppo. Ma soltanto nel lessico. Quella che si chiama ancora
«programmazione» finanziaria non è niente altro che una brutale partita di rugby: una
ripartizione delle risorse fondata sui rapporti di forza politici nel Governo e burocratici nell'
Amministrazione, arbitrata con antica sapienza dalla Ragioneria dello Stato. Noi ci provammo a
cambiare. Dio sa se non abbiamo fatto delle sciocchezze, frutto di presunzione ideologica e di
avventatezza politica. Personalmente, non ho mancato di fare pubblicamente e ripetutamente la
mia personale autocritica. Pretendere di controllare i flussi finanziari e gli investimenti delle
imprese, figuriamoci!. Ma pretendere di programmare la spesa dello Stato non era giacobinismo,
era ragione e rigore finanziario e responsabilità democratica. Ne abbiamo fatti, di errori. Ma
abbiamo anche lanciato idee giuste che caddero vittima del cinico e sterile sarcasmo italico sul
«libro di sogni». Non solo quando proponemmo la programmazione della spesa pubblica «per
progetti». Anche quando, per esempio, disegnammo nel Progetto 80 una visione di
pianificazione territoriale nazionale che servisse da guida a una scelta razionale dei grandi
investimenti sul territorio (aree urbane, aree verdi, reti dei trasporti e delle comunicazioni) che
offriva al Paese uno strumento che gli avrebbe evitato tante ignobili devastazioni; e al Governo
criteri oggettivi e coerenti per giudicare i grandi investimenti infrastrutturali; invece di correre da
una emergenza all' altra, in una continua serie di stress emergenziali che si risolvono in una
deprimente paralisi. Se, magari seguendo il «modello americano» ci provassimo ad uscire dall'
emergenzialismo, per riprendere la strada di una programmazione aggiornata e moderna, che
utilizzi le esperienze del mondo e della storia? Che cosa ne pensa il Ministro dell' Economia?
Che cosa ne pensano il Ministro delle Infrastrutture e il Ministro dei Trasporti? - GIORGIO
RUFFOLO

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