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“Sfida all’Ultimo Barile” ripercorre tutta la storia della Guerra Fredda dal punto di vista del
petrolio e delle risorse.
Si tratta di una chiave di lettura importante per comprendere l’assetto strategico attuale che
contrapponte Russia e Stati Uniti.
Il libro si divide in 6 scenari che coprono tutti gli eventi principali dal 1945 a oggi.
Buona lettura!
stefanocasertano@gmail.com
http://www.lafeltrinelli.it/products/9788895399225/Sfida_all'ultimo_barile/Casertano_Stefano.html?pr
kw=relazioni&srch=9&cat1=1
SCENARIO 1
Scontro per l’Iran
Anni: 1945-1953
Nasce così la “corsa al Medio Oriente petrolifero”, che vede come primi contendenti l’America di
Truman, la Russia di Stalin e la Gran Bretagna di Churchill. Fu una competizione “segreta”, che
rimase nascosta agli occhi del mondo, concentrati sui colloqui diplomatici di Jalta e di Potsdam.
SCENARIO 2
In seguito si vede com e l’Italia e l’Eni di Mattei siano stati in grado di scardinare gli equilibri
petroliferi della Guerra Fredda
SCENARIO 3
Quando Reagan entrò alla Casa Bianca lo faceva con la legittimazione popolare di un paese in cerca
di riscossa, e ciò gli consentì fin da subito di impegnarsi in una riforma energetica ben più incisiva di quella
di Carter. In tema di petrolio e politica internazionale Reagan aveva visioni diverse rispetto al suo
predecessore. «The Onion», il famigerato giornale satirico americano, ben descrisse la differenza di vedute
pubblicando due finti annunci di campagna elettorale: nel primo, Carter diceva «Parliamo di motori più
efficienti!»; nell’altro, Reagan proponeva «Uccidiamo questi bastardi!»8.
[...]
L’amministrazione Reagan doveva però fare i conti con le rovine dell’architettura diplomatica di
Carter e Brzezinski in Medio Oriente, crollata insieme al trono dello scià iraniano. Tanto per iniziare, la
nuova amministrazione prese le distanze da quanto era stato fatto dal precedente governo: venne fatto
passare il messaggio che la sicurezza energetica nazionale non poteva dipendere troppo dalle questioni
interne di un paese così remoto come l’Iran. Le conseguenze di un’alleanza così rischiosa erano sotto gli
occhi di tutti: il prezzo al barile nell’aprile del 1980 era arrivato a 39,50 dollari, un record che sarebbe stato
battuto solo il 3 marzo del 20089.
Così come nel 1973, gli automobilisti americani erano tornati a far la fila ai distributori di benzina.
Peraltro, era ormai chiaro che l’aumento dei prezzi aveva fatto il bene della Russia, tanto che i nuovi profitti
avevano ridestato l’aggressività sovietica, con l’Armata Rossa in marcia verso l’Afghanistan per colmare il
vuoto di potere mediorientale.
Washington aveva iniziato a dubitare fortemente di tutte strategie adottate per contenere la Russia
fino a quel punto. Lo schiaffo del boom petrolifero del 1979 fece ancor più male quando venne alla luce che
gran parte delle attrezzature impiegate per l’estrazione del greggio sovietico erano di fabbricazione
americana. Si scatenò un dibattito feroce negli ambienti politici, reso ancora più isterico dall’influenza delle
lobby industriali. L’esportazione di tecnologia contribuiva chiaramente al nuovo boom energetico russo, ma
per alcuni osservatori riduceva «la probabilità che l’Urss potesse invadere il Medio Oriente per acquisire
petrolio che non fosse più stata in grado di produrre in casa»10 senza le tecnologie americane.
Venne ordinato di investigare a fondo fino a che punto la tecnologia americana aiutasse i russi a
tirar fuori i barili dal sottosuolo, avvantaggiando Mosca sul piano delle politiche petrolifere. Un report
governativo rilevò come «non c’è dubbio che la produzione petrolifera sovietica sia stata assistita dalla
tecnologia e dalle attrezzature americane […]. Nel 1979, l’Unione Sovietica ha dedicato circa il 22 per
cento del suo commercio con i maggiori partner commerciali occidentali (circa 3,4 miliardi di dollari) a
tecnologie ed equipaggiamenti collegati all’energia»11. I russi non erano in grado di produrre attrezzature
sufficienti e adeguatamente affidabili per le loro necessità.
Il report affermava però che l’impatto dell’assistenza tecnica occidentale fosse meno decisivo per
due importanti fattori. Prima di tutto, i russi non avevano gran voglia di importare quantità massicce di
prodotti dall’Ovest, un po’ per paura di diventarne troppo dipendenti, e un po’ perché non disponevano di
valuta pesante a sufficienza con cui pagare tutto ciò che volevano. A ciò si aggiungeva il fatto che le
attrezzature americane impiegate in Unione Sovietica diventavano meno efficaci: gli addetti non ricevevano
la formazione di alto livello dei loro colleghi americani, e le imprese esportatrici erano molto lente a fornire
assistenza per ricambi e riparazioni.
In ogni caso, la Washington del petrolio si trovava a un bivio.
[...]
L’amministrazione Reagan sfruttò l’azione dell’Armata Rossa nell’unico modo possibile: la
trasformò in un’occasione per intensificare i rapporti con l’Arabia Saudita, che più volte aveva palesato di
temere un attacco russo. Dal punto di vista militare, Washington s’impegnò per accontentare le richieste
degli sceicchi sauditi in merito alle forniture belliche: venne concluso l’acquisto da parte di Riyad di aerei
ricognitori radar Awacs e di alcuni caccia di ultima generazione. Ma tentare di respingere la discesa russa
con la forza era fuori questione: l’operazione gestita dalla Cia per fornire armi agli afghani contro i sovietici
esponeva già Washington abbastanza.
Era necessario elaborare una nuova strategia. Si doveva anche agire in fretta. In tutto il quadrante,
diverse fazioni politiche sembravano intenzionate a sparigliare rispetto alle linee guida americane. Fu
emblematico il caso del Kuwait: l’emirato si affaccia sul Golfo Persico, al confine tra Iran e Iraq, e si
sentiva preso in una tenaglia tra i due paesi, coinvolti in una guerra violentissima. Per liberarsi dalla stretta
ritenne che fosse necessario chiudere qualche tipo di accordo con una grande potenza esterna. Nel 1981 il
ministro degli Esteri kuwaitiano, lo sceicco Sabah, raggiunse Riyad per dichiarare che aveva intenzione di
andare a Mosca a chiedere l’appoggio sovietico. Sabah voleva sostenere un’originale linea diplomatica,
secondo la quale il Golfo Persico, in realtà, non era minacciato dall’Unione Sovietica, ma dagli Stati Uniti.
Ma per andare a Mosca a comunicare questa novità, Sabah aveva bisogno dell’avallo saudita. Ovviamente
Riyad rifiutò, ma le intenzioni dei kuwaitiani vennero prontamente comunicate a Washington, che fece in
modo di bloccare lo sceicco.
[...]
Il direttore dell’intelligence Bill Casey raggiunse Riyad per riferire delle nuove idee americane al
principe Turki al-Faisal, suo omologo nel paese arabo. Fu un incontro molto cordiale, e Turki sembrò
ascoltare con estrema attenzione il progetto americano. Ancora una volta, qualche imprevisto culturale
intaccò l’etichetta diplomatica, quando Casey rifiutò di assaggiare una bevanda a base di latte di cammella.
Turki decise però di fidarsi degli americani, e dopo l’incontro consegnò al sovrano saudita Fahd un
resoconto molto breve; con poche parole si spiegava che il punto debole della forza militare russa erano i
soldi, e che i soldi venivano dal petrolio. Mosca stava finanziando il suo impero tramite le esportazioni di
greggio. Era solo per i prezzi del petrolio troppo alti che l’accerchiamento sovietico proseguiva
inarrestabile, scatenando la paura saudita, eloquentemente descritta anni prima dalla mano del principe che
passava intorno alla mappa dell’Arabia Saudita. Era necessario che Riyad aumentasse la produzione per
portare il prezzo del barile a un livello così basso da spingere a secco le casse del Cremlino
Si scoprirà nel seguito del libro che gran parte del crollo sovietico fu dovuto alla deliberata
strategia americana: drenare le casse sovietico facendo crollare gli intrioiti petroliferi
SCENARIO 4
In questo scenario di completa anarchia si sviluppa poi la corsa petrolifera per il Mar Caspio, tuttora
terreno di confronto tra Russia e Stati Uniti