Sei sulla pagina 1di 13

Di Stefano Casertano

Edito da Francesco Brioschi Editore


Distribuzione PDE
Codice EAN 9788895399225

“Sfida all’Ultimo Barile” ripercorre tutta la storia della Guerra Fredda dal punto di vista del
petrolio e delle risorse.

Si tratta di una chiave di lettura importante per comprendere l’assetto strategico attuale che
contrapponte Russia e Stati Uniti.

Il libro si divide in 6 scenari che coprono tutti gli eventi principali dal 1945 a oggi.

Presentiamo qui estratti da quattro scenari.

Buona lettura!

stefanocasertano@gmail.com

http://www.lafeltrinelli.it/products/9788895399225/Sfida_all'ultimo_barile/Casertano_Stefano.html?pr
kw=relazioni&srch=9&cat1=1
SCENARIO 1
Scontro per l’Iran
Anni: 1945-1953

Luoghi: Iran e Medio Oriente

– Terminata la seconda guerra mondiale, nel Nord dell’Iran rimane


l’Armata Rossa: è il ricatto di Stalin verso Teheran, per
ottenere concessioni petrolifere e una presenza stabile nel quadrante
mediorientale.

– La Gran Bretagna, iniziatrice dell’industria petrolifera in


Iran, si allea con gli Stati Uniti per convincere i russi a tornare
in Urss.

– Inizia la Guerra fredda: Mosca non collabora più con Washington


e Londra. Gli Stati Uniti riescono così a inserirsi in Medio
Oriente, dove vengono visti come potenza anticoloniale e liberatrice,
preferibile non solo all’Unione Sovietica, ma anche
alla Gran Bretagna.
L’ospite di Suez

Franklin Delano Roosevelt spinse il pulsante di arresto dell’ascensore. Rassicurò i suoi


collaboratori: non c’era nessuna emergenza, voleva solo accendersi una sigaretta. A nessuno parve strano
che avesse scelto quella cabina chiusa per tirar fuori il pacchetto. Era costretto a fumare di nascosto: il suo
ospite a bordo dell’incrociatore USS Quincy, il re saudita Ibn Saud, era un fedele osservante delle regole
islamiche più pure. Tabacco e alcol erano vietati e, quel 14 febbraio 1945, eccezioni non potevano essere
fatte neanche per il presidente degli Stati Uniti.
Non si trattava di un incontro ordinario, e ciò fu chiaro ai marinai statunitensi fin dall’arrivo del
sovrano arabo sulla nave. Il re aveva chiesto di imbarcare una corte di circa duecento persone, tra cui
numerosi omaccioni con scimitarra alla cintola. Il capitano della nave di appoggio lo aveva convinto a
limitarsi a quarantotto accompagnatori, lasciando peraltro a terra una nutrita schiera di mogli. Tra gli
argomenti più efficaci, il capitano aveva ricordato che una nave piena di soldati in mare aperto da mesi non
era il posto migliore per delle signore.
Saud aveva poi richiesto di portare con sé un gregge di un centinaio di pecore come provvista
alimentare. Il capitano aveva garantito che a bordo c’erano già abbastanza riserve da sfamare tutti per
almeno due mesi, e che il vivace contingente di ovini poteva essere tranquillamente ridotto. Qualche parola
fu spesa per chiarire il concetto di «cibo congelato».
I sauditi non potevano però rinunciare del tutto alle loro ricette tradizionali, e sette sfortunate pecore
sfilarono sulla passerella dalla terraferma alla nave. Giunti infine sulla USS Quincy, gli arabi allestirono un
campo beduino sul ponte; alcuni degli animali vennero macellati alla maniera tradizionale islamica, che
prevede particolari operazioni di sgozzamento e drenaggio del sangue. Sotto gli occhi preoccupati dei
marinai, la carne venne pericolosamente arrostita vicino a un deposito di munizioni.
La nave era ancorata nel Grande Lago Amaro, un bacino nel mezzo del Canale di Suez. Il
presidente americano si era spinto fin nel lontano Egitto per incontrare questo personaggio che, a molti,
sembrava poco più di un capo tribù. Re Saud dichiarava perfino di non sapere quale fosse la sua età, per
quanto il suo corpo imponente e stanco, segnato da varie ferite di battaglia, e il grosso volto scalfito dal
caldo del deserto, suggerivano che fosse vicino alla settantina. Era chiaro che Roosevelt doveva avere
ragioni molto importanti per invitarlo a un incontro personale su una nave militare: era un’occasione
diplomatica generalmente riservata solo ai leader di Stati ampiamente riconosciuti negli ambienti
internazionali.
Mentre il fumo delle sigarette riempiva l’angusta cabina dell’ascensore, molti pensieri affollavano
le mente di Roosevelt. L’incontro con Saud non era solo un’occasione formale, era il delicato punto di
arrivo di una politica di avvicinamento degli Stati Uniti verso il Medio Oriente, avviata anni prima.
Era il culmine di una strategia diventata sempre più necessaria da quando Washington aveva
scoperto che l’Arabia Saudita possedeva una quantità enorme di qualcosa che in America stava finendo: il
petrolio.

Nasce così la “corsa al Medio Oriente petrolifero”, che vede come primi contendenti l’America di
Truman, la Russia di Stalin e la Gran Bretagna di Churchill. Fu una competizione “segreta”, che
rimase nascosta agli occhi del mondo, concentrati sui colloqui diplomatici di Jalta e di Potsdam.
SCENARIO 2

La parabola americana in Medio Oriente


Anni: 1956-1980
Luoghi: Suez (Egitto), Europa, Medio Oriente

– Gli Stati Uniti erano visti da molte potenze mediorientali come


una «forza liberatrice», che proteggeva dall’espansionismo sovietico
e dall’instabilità. In poco più di vent’anni questa visione
cambia radicalmente.

– Tra il 1956 e il 1980 il quadrante è scosso da tre conflitti arabo-


israeliani, da rivolte in vari paesi, da colpi di Stato in Egitto,
Iraq e Siria, e infine da un’epocale rivoluzione islamica guidata
dall’ayatollah Kohmeini. Ogni evento è un’occasione per lo scontro
tra russi e americani, che cercano di conquistare influenza.

– Con l’arrivo di Kohmeini a Tehran il piano di Washington crolla:


cacciato lo scià iraniano, alleato dell’America, i sovietici invadono
l’Afghanistan e vi rimangono quasi dieci anni.
L’Italia nel mezzo

Il 18 marzo, l’ambasciatore americano a Roma, David Zellerbach, comunicò al Dipartimento di


Stato che era necessario agire in fretta per far saltare l’accordo italo-iraniano, facendo pressione sul governo
della penisola39. Fonti dell’intelligence americana avevano inoltre riportato testimonianze secondo le quali i
tecnici Agip in Medio Oriente si erano vantati di poter contare su contatti di alto livello in tutta la regione, e
che presto tutta la situazione sarebbe stata rivoluzionata40.
A Washington pochi giorni dopo si tenne una concitata riunione dello staff del segretario di Stato
John Foster Dulles. Il segretario al Tesoro C. Douglas Dillon sostenne che gli italiani stavano cercando di
guadagnare con il ricatto l’ingresso nel consorzio iraniano. Altri ritenevano che Mattei stesse perseguendo
una via autonoma e indipendente, di respiro ancora più ampio.
Sul tavolo del presidente Eisenhower giunse poi un report intitolato La minaccia di Enrico Mattei
agli obiettivi della politica degli Stati Uniti: Mattei era stato bollato come nemico pubblico. Il 9 aprile,
venne ordinato all’ambasciatore americano a Tehran di affrontare la questione direttamente con lo scià, per
far lui presente che la «formula Mattei» avrebbe destabilizzato il mercato petrolifero, con il rischio di
provocare un tracollo dell’economia iraniana: i nazionalisti e i comunisti ne avrebbero guadagnato.
Nonostante tutto, Eisenhower non si convinse fino in fondo che Mattei fosse così pericoloso come
lasciava intendere lo staff della Casa Bianca: ritenne che non fosse necessario intraprendere azioni estreme
per eliminarlo dal giro.
Di lì a poco l’Eni avrebbe concluso un accordo con la Libia, sempre con il 75/25, che avrebbe
coperto 27.000 chilometri quadrati nel Fezzan, al confine con l’Algeria. Il locale primo ministro Mustafa
Ben Halim venne però licenziato dal re prima che l’accordo definitivo venisse firmato. Si è parlato spesso
di un intervento americano in questo senso. Giovanni Buccianti, in Enrico Mattei. Assalto al potere
petrolifero mondiale, sembra certo di quest’ipotesi, e parla di una delegazione statunitense inviata a Tripoli
per l’occasione, guidata dall’ambasciatore James P. Richards, assistente speciale di Eisenhower, e dal
console americano a Roma John D. Jernegan.
Tra le altre operazioni estere dell’Eni, spicca il caso singolare dello Yemen. Nell’aprile del 1959,
l’Imam Ahmad, capo dello Stato, decise di recarsi in Italia per urgenti cure mediche, provocando le
dimissioni dei medici sovietici presenti a San’a: lo Yemen era allora sotto il protettorato di Mosca. Quella
era la sua prima visita ufficiale all’estero. Nel giro di un mese, tra grandi speranze occidentali, l’Imam
migliorò, e l’Eni decise di giocare a suo vantaggio l’elemento della presenza di vari famigliari e
accompagnatori dell’Imam in Italia. Il fratello di Ahmad e il suo ministro degli Esteri vennero portati in
visita agli impianti petrolchimici Agip di Gela. Si posero le premesse per una collaborazione, che portò
mesi dopo alla firma di un trattato di cooperazione.
A quel punto, gli yemeniti pensarono fosse giunto il momento di sbilanciarsi di più verso l’Italia. Si
chiedeva il versamento di due milioni di dollari quale anticipo sullo sfruttamento del greggio futuro, che
nell’immediato avrebbero estinto i debiti contratti con l’Urss. L’Eni mise a disposizione mezzo milione di
dollari, poi lasciò perdere l’opportunità: sembra non si fidasse delle proposte yemenite.
Accordi vennero chiusi anche con il Marocco, il Sudan, la Tunisia e la Nigeria. Ma tutto questo
lavoro diplomatico, a conti fatti, portò a poco. In Iran l’Eni si vide assegnare dei lotti di sfruttamento molto
poco fortunati: le scoperte di petrolio furono inferiori alle aspettative. Del resto, sul finire degli anni
Cinquanta per l’Eni non c’era più un’Arabia Saudita da scoprire, e per Mattei era ben difficile trovare delle
fonti affidabili di petrolio. Mattei provò perfino a chiedere una partecipazione al 3 per cento nel consorzio
saudita dell’Aramco, ma senza successo. Il petrolio sovietico era l’unica via percorribile. Bastava avere
ambizione e propensione al rischio.
Nel 1958, il responsabile degli esteri per l’Eni Giuseppe Ratti venne incaricato da Mattei di seguire
il negoziato con i sovietici. Per iniziare, l’azienda italiana partecipò a una mostra dell’industria pesante
italiana a Mosca; la delegazione incontrò anche Chrusˇcˇëv. Vennero stabiliti degli accordi per
l’importazione di un milione di tonnellate di petrolio in cambio di forniture di gomma da parte dell’Anic,
un’azienda del gruppo Eni41. Si trattava di un accordo la cui portata economica era ancora limitata, ma il cui
valore politico era dirompente: un paese come l’Italia, così strategico per il Patto atlantico, stava scendendo
a patti con i sovietici.

In seguito si vede com e l’Italia e l’Eni di Mattei siano stati in grado di scardinare gli equilibri
petroliferi della Guerra Fredda
SCENARIO 3

Gli anni Ottanta: la riscossa di Washington


Anni: 1981-1999
Luoghi: Stati Uniti, Unione Sovietica, Europa

– Ronald Reagan inaugura l’epoca del dopo Carter con liberalizzazioni


a tutto campo, riorganizzando anche il settore petrolifero.

– Il piano degli americani è preciso: togliere ai russi gli introiti


tratti dalle esportazioni di petrolio. L’idea di Reagan funziona:
la riscossa inizia nel 1986, quando il prezzo del barile scende
sotto i dieci dollari.

– In poco tempo l’Unione Sovietica è in bancarotta ed è costretta


a riorganizzarsi. L’Impero russo si spacca e a Mosca è ora di
passare all’economia di mercato, più adatta per allocare le scarse risorse.

– Mikhail Gorbacˇëv evita la guerra civile, Eltsin riesce a imporre


un piano di ristrutturazione, mentre la Nato americana
si avvicina ai confini russi.
Reagan

Quando Reagan entrò alla Casa Bianca lo faceva con la legittimazione popolare di un paese in cerca
di riscossa, e ciò gli consentì fin da subito di impegnarsi in una riforma energetica ben più incisiva di quella
di Carter. In tema di petrolio e politica internazionale Reagan aveva visioni diverse rispetto al suo
predecessore. «The Onion», il famigerato giornale satirico americano, ben descrisse la differenza di vedute
pubblicando due finti annunci di campagna elettorale: nel primo, Carter diceva «Parliamo di motori più
efficienti!»; nell’altro, Reagan proponeva «Uccidiamo questi bastardi!»8.
[...]
L’amministrazione Reagan doveva però fare i conti con le rovine dell’architettura diplomatica di
Carter e Brzezinski in Medio Oriente, crollata insieme al trono dello scià iraniano. Tanto per iniziare, la
nuova amministrazione prese le distanze da quanto era stato fatto dal precedente governo: venne fatto
passare il messaggio che la sicurezza energetica nazionale non poteva dipendere troppo dalle questioni
interne di un paese così remoto come l’Iran. Le conseguenze di un’alleanza così rischiosa erano sotto gli
occhi di tutti: il prezzo al barile nell’aprile del 1980 era arrivato a 39,50 dollari, un record che sarebbe stato
battuto solo il 3 marzo del 20089.
Così come nel 1973, gli automobilisti americani erano tornati a far la fila ai distributori di benzina.
Peraltro, era ormai chiaro che l’aumento dei prezzi aveva fatto il bene della Russia, tanto che i nuovi profitti
avevano ridestato l’aggressività sovietica, con l’Armata Rossa in marcia verso l’Afghanistan per colmare il
vuoto di potere mediorientale.
Washington aveva iniziato a dubitare fortemente di tutte strategie adottate per contenere la Russia
fino a quel punto. Lo schiaffo del boom petrolifero del 1979 fece ancor più male quando venne alla luce che
gran parte delle attrezzature impiegate per l’estrazione del greggio sovietico erano di fabbricazione
americana. Si scatenò un dibattito feroce negli ambienti politici, reso ancora più isterico dall’influenza delle
lobby industriali. L’esportazione di tecnologia contribuiva chiaramente al nuovo boom energetico russo, ma
per alcuni osservatori riduceva «la probabilità che l’Urss potesse invadere il Medio Oriente per acquisire
petrolio che non fosse più stata in grado di produrre in casa»10 senza le tecnologie americane.
Venne ordinato di investigare a fondo fino a che punto la tecnologia americana aiutasse i russi a
tirar fuori i barili dal sottosuolo, avvantaggiando Mosca sul piano delle politiche petrolifere. Un report
governativo rilevò come «non c’è dubbio che la produzione petrolifera sovietica sia stata assistita dalla
tecnologia e dalle attrezzature americane […]. Nel 1979, l’Unione Sovietica ha dedicato circa il 22 per
cento del suo commercio con i maggiori partner commerciali occidentali (circa 3,4 miliardi di dollari) a
tecnologie ed equipaggiamenti collegati all’energia»11. I russi non erano in grado di produrre attrezzature
sufficienti e adeguatamente affidabili per le loro necessità.
Il report affermava però che l’impatto dell’assistenza tecnica occidentale fosse meno decisivo per
due importanti fattori. Prima di tutto, i russi non avevano gran voglia di importare quantità massicce di
prodotti dall’Ovest, un po’ per paura di diventarne troppo dipendenti, e un po’ perché non disponevano di
valuta pesante a sufficienza con cui pagare tutto ciò che volevano. A ciò si aggiungeva il fatto che le
attrezzature americane impiegate in Unione Sovietica diventavano meno efficaci: gli addetti non ricevevano
la formazione di alto livello dei loro colleghi americani, e le imprese esportatrici erano molto lente a fornire
assistenza per ricambi e riparazioni.
In ogni caso, la Washington del petrolio si trovava a un bivio.
[...]
L’amministrazione Reagan sfruttò l’azione dell’Armata Rossa nell’unico modo possibile: la
trasformò in un’occasione per intensificare i rapporti con l’Arabia Saudita, che più volte aveva palesato di
temere un attacco russo. Dal punto di vista militare, Washington s’impegnò per accontentare le richieste
degli sceicchi sauditi in merito alle forniture belliche: venne concluso l’acquisto da parte di Riyad di aerei
ricognitori radar Awacs e di alcuni caccia di ultima generazione. Ma tentare di respingere la discesa russa
con la forza era fuori questione: l’operazione gestita dalla Cia per fornire armi agli afghani contro i sovietici
esponeva già Washington abbastanza.
Era necessario elaborare una nuova strategia. Si doveva anche agire in fretta. In tutto il quadrante,
diverse fazioni politiche sembravano intenzionate a sparigliare rispetto alle linee guida americane. Fu
emblematico il caso del Kuwait: l’emirato si affaccia sul Golfo Persico, al confine tra Iran e Iraq, e si
sentiva preso in una tenaglia tra i due paesi, coinvolti in una guerra violentissima. Per liberarsi dalla stretta
ritenne che fosse necessario chiudere qualche tipo di accordo con una grande potenza esterna. Nel 1981 il
ministro degli Esteri kuwaitiano, lo sceicco Sabah, raggiunse Riyad per dichiarare che aveva intenzione di
andare a Mosca a chiedere l’appoggio sovietico. Sabah voleva sostenere un’originale linea diplomatica,
secondo la quale il Golfo Persico, in realtà, non era minacciato dall’Unione Sovietica, ma dagli Stati Uniti.
Ma per andare a Mosca a comunicare questa novità, Sabah aveva bisogno dell’avallo saudita. Ovviamente
Riyad rifiutò, ma le intenzioni dei kuwaitiani vennero prontamente comunicate a Washington, che fece in
modo di bloccare lo sceicco.
[...]
Il direttore dell’intelligence Bill Casey raggiunse Riyad per riferire delle nuove idee americane al
principe Turki al-Faisal, suo omologo nel paese arabo. Fu un incontro molto cordiale, e Turki sembrò
ascoltare con estrema attenzione il progetto americano. Ancora una volta, qualche imprevisto culturale
intaccò l’etichetta diplomatica, quando Casey rifiutò di assaggiare una bevanda a base di latte di cammella.
Turki decise però di fidarsi degli americani, e dopo l’incontro consegnò al sovrano saudita Fahd un
resoconto molto breve; con poche parole si spiegava che il punto debole della forza militare russa erano i
soldi, e che i soldi venivano dal petrolio. Mosca stava finanziando il suo impero tramite le esportazioni di
greggio. Era solo per i prezzi del petrolio troppo alti che l’accerchiamento sovietico proseguiva
inarrestabile, scatenando la paura saudita, eloquentemente descritta anni prima dalla mano del principe che
passava intorno alla mappa dell’Arabia Saudita. Era necessario che Riyad aumentasse la produzione per
portare il prezzo del barile a un livello così basso da spingere a secco le casse del Cremlino

Si scoprirà nel seguito del libro che gran parte del crollo sovietico fu dovuto alla deliberata
strategia americana: drenare le casse sovietico facendo crollare gli intrioiti petroliferi
SCENARIO 4

La conquista del Caspio


Anni: 1991-1999
Luoghi: Medio Oriente, area del Mar Caspio

– L’implosione russa trascina con sé tutto il sistema statale che


controllava il quadrante geopolitico del Caspio, e blocca il funzionamento della macchina militare.
Il Mar Caspio e le sue risorse diventano terra di conquista.

– Nel 1991 l’America può intervenire liberamente in Iraq: è la


prima volta che il corpo dei marine opera direttamente in Medio
Oriente su scala così grande.

– Finché dura il «coma» russo, l’America cerca con la massima


urgenza di garantire che le risorse del Mar Caspio prendano la
strada dell’Occidente: dalle lusinghe ai nuovi leader degli Stati
dell’area, si passa alla costruzione di oleodotti non controllabili da Mosca.

– Viene chiuso il progetto per un oleodotto che dalle rive occidentali


del Caspio arriva alle coste mediterranee della Turchia,
evitando in blocco il territorio russo: la sfida americana è vinta.
Ma c’è Putin all’orizzonte.
La strategia di sopravvivenza politica internazionale di Mosca era una dimostrazione evidente di
come la Russia non volesse rinunciare all’influenza sull’area del Caspio. Questo atteggiamento era stato
suggellato da diverse dichiarazioni pubbliche: già all’arrivo delle prime delegazioni occidentali in visita alle
nuove repubbliche centroasiatiche, il ministro russo per l’Energia Jurij Sˇafranik dichiarò a Bill White,
vicesegretario americano per lo stesso settore, che «le risorse del Caspio sono state scoperte dai russi, e le
aziende russe le svilupperanno. […] Sappiamo tutto di Baku. Fa parte del nostro complesso di petrolio e
gas. Lo stesso vale per il Kazakhstan»27.
L’Azerbaijan non era sottoposto a un vero e proprio monitoraggio strategico da parte
dell’amministrazione Clinton. L’orientamento di Washington era tutt’altro che chiaro. L’apice del
disinteresse fu raggiunto nei mesi tra il 1991 e il 1992: un diplomatico occidentale dichiarò di aver visto
aggirarsi per Baku quattro americani con cappelli e stivali da cowboy, che secondo i ben informati erano
addestratori privati assoldati dalla repubblica per condurre esercitazioni militari28.
Il funzionario aveva visto bene. A capo del drappello c’era Richard Secord, un ex generale
statunitense noto per la sua implicazione nell’affare Iran-Contra, uno scandalo internazionale che nel 1986
aveva fatto vacillare la poltrona di Reagan. Secord era arrivato sulle sponde del Caspio con «Ponder
International», un’azienda di servizi petroliferi che si occupava di attività quali il recupero di attrezzature
perse in acqua dalle piattaforme, impiegando sommozzatori e varie tecnologie. Secord era accompagnato
dall’ex generale dell’aviazione Harry Aderholt. Quest’ultimo era interessato allo sfruttamento di alcuni
impianti petroliferi minori, tra i 35.000 lasciati dall’Unione Sovietica dopo il suo ritiro. Sosteneva di voler
impiegare gli eventuali profitti per finanziare ricerche per ritrovare prigionieri di guerra americani dispersi
in Vietnam.
L’organizzazione che si occupava di questo nobile intento era il Soviet Peace Committee, con
base a Mosca. Tale comitato era interessato anche ai contatti che Aderholt dichiarava di avere in
Afghanistan, con l’obiettivo di condurre ricerche sui soldati sovietici dispersi nel conflitto degli anni
Ottanta. A quanto pare, Aderholt era un maestro della trasversalità. Ad aggiungere mistero al tutto, le
operazioni di recupero dei pozzi dovevano essere condotte da una certa Mega Oil, di cui nessuno aveva mai
sentito parlare.

In questo scenario di completa anarchia si sviluppa poi la corsa petrolifera per il Mar Caspio, tuttora
terreno di confronto tra Russia e Stati Uniti

Potrebbero piacerti anche