DIRITTO PENALE II
Lezione dell’8 marzo 2011: l’abuso di ufficio
dott. Michele Toriello
LA VIOLAZIONE DI LEGGE
Attraverso la nuova formulazione dell’art. 323 c. p. il legislatore ha inteso, attraverso il riferimento
alla legge ed al regolamento, introdurre un parametro certo e rigoroso di qualificazione della
condotta, quale è il contrasto con prescrizioni normative di fonte determinata, anche al fine di
scongiurare il rischio di sanzionare penalmente ipotesi di eccesso o sviamento di potere, da
confinare più correttamente nel quadro degli illeciti amministrativi.
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Lezione dell’8 marzo 2011: l’abuso di ufficio
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La violazione di principi costituzionali: in particolare, gli articoli 97 e 111.
Si è dibattuto, in dottrina ed in giurisprudenza, circa la possibilità di includere alcune particolari
fonti nel novero delle leggi rilevanti ex art. 323 c. p.
Quanto alle norme costituzionali, si è osservato che in linea di principio anche la Costituzione
deve considerarsi legge: il problema si è posto principalmente in relazione all’art. 97 Cost., poiché
ci si è chiesti se possa integrare una violazione di legge la violazione dei principi di buon andamento
e imparzialità della pubblica amministrazione.
Parte anche autorevole della dottrina (cfr. per tutti Fiandaca-Musco) ritiene che detta norma abbia
un carattere programmatico, privo di immediata portata precettiva, e rileva altresì che l’opposta
opzione interpretativa dilaterebbe a dismisura l’ambito del penalmente rilevante (imparzialità e
buon andamento sono elementi “vaghi”, che conferiscono in capo al giudice una sorta di arbitrio,
non risultando idonei a fondare un autentico parametro univoco di valutazione in merito alla
rilevanza penale del fatto concreto), così realizzando un risultato opposto a quello avuto di mira
dal legislatore del 1997, consentendo in ultima analisi al giudice penale di sindacare finanche la
generica corrispondenza dell’atto del pubblico ufficiale ai principi di buon andamento e
imparzialità della pubblica amministrazione (laddove invece la L. 234/1997 aveva invece inteso
creare – attraverso la rielaborazione della fattispecie nei termini di un reato a forma vincolata - i
presupposti perché sulla pubblica amministrazione cessasse di incombere il pericolo di interventi
più o meno “esplorativi” – ed inevitabilmente intrusivi - del potere giudiziario).
Trattasi tuttavia di posizione minoritaria, poiché è oggi opinione consolidata che la nozione di
legge e di regolamento di cui all'art. 323 c. p. sia nozione tecnica: leggi sono dunque sia le leggi in
senso formale (leggi costituzionali, leggi ordinarie, leggi regionali e delle province autonome) sia le
leggi in senso materiale (decreti legislativi e decreti legge), così che non vi è alcun ostacolo
strettamente formale alla possibilità che la violazione di norme di legge possa consistere nella
violazione dell'art. 97 Cost.
Il problema attiene invece al contenuto della predetta norma costituzionale: fermo il suo carattere
precettivo, è stato invero rilevato che essa è norma che si rivolge all’amministrazione non in
quanto svolga la sua attività istituzionale, bensì in quanto svolga attività di organizzazione di sé
stessa con atti generali o particolari (l’art. 97 statuisce infatti che i pubblici uffici sono organizzati
secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità
dell’amministrazione).
Dunque la norma in questione, pur elevando l’imparzialità ed il buon andamento a principi
generali, sotto il profilo precettivo si rivolge solo ai soggetti preposti ad organizzare i pubblici
uffici: questa interpretazione non esclude dunque il carattere precettivo dell’art. 97 Cost., ma ne
riduce la portata nei termini della lettera della norma costituzionale, limitando la sua rilevanza ai
soli casi di attività della pubblica amministrazione relativa alla autorganizzazione dei propri uffici.
Per lungo tempo la giurisprudenza della Suprema Corte ha dato risposta negativa al problema.
In tema di abuso d'ufficio, la norma di cui al comma 1 dell'art. 97 Cost. .. non ha carattere precettivo e
ha valore meramente programmatico, sicché tali principi per il carattere generale che li distingue non
sono idonei a costituire oggetto della violazione di norme di legge che può dare luogo all'integrazione
del reato previsto dall'art. 323 c.p. - Fattispecie in cui la Corte ha peraltro rigettato il ricorso avverso
la sentenza di condanna per il reato di abuso d'ufficio pronunciata a carico di un funzionario pubblico
cui era stato contestato di avere inibito a una dipendente l'esercizio delle funzioni corrispondenti alla
sua qualifica, attribuendole ad altro dipendente di grado inferiore, e di avere revocato altresì alla
stessa dipendente le funzioni vicarie in assenza del dirigente, nonostante le sollecitazioni dei superiori
e una decisione del giudice amministrativo che aveva annullato il provvedimento di revoca; e ciò sul
rilievo che tale comportamento risultava avere violato, a prescindere dall'art. 97 cost., altre specifiche
disposizioni di legge, stavolta di contenuto precettivo (Cassazione penale, sez. VI, 10 aprile 2007, n.
22702).
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In tema di abuso d'ufficio, la norma di cui al comma 1 dell'art. 97 cost., secondo la quale i pubblici
uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge in modo da assicurare il buon andamento e
l'imparzialità dell'amministrazione, non ha carattere precettivo ed ha valore meramente
programmatico, sicché tali principi per il carattere generale che li distingue non sono idonei a costituire
oggetto della violazione che può dar luogo alla integrazione del reato previsto dall'art. 323 c.p. -
Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto che non si potesse configurare il reato di abuso d'ufficio a carico
di un amministratore per non aver ritenuto come redatti da soggetto non abilitato alcuni progetti e per
non essersi astenuto dal procedere oltre nell'"iter" burocratico pur in difetto di un presupposto
essenziale (Cassazione penale, sez. VI, 8 maggio 2003, n. 35108).
Da ultimo tuttavia alcune pronunce hanno riconosciuto un limitato spazio di immediata
precettività alla norma costituzionale in argomento. Il revirement è stato inaugurato dalla
pronuncia n. 25162 del 2008.
CASO PRATICO (sentenza n. 25162/2008 e nota di commento, allegato n. 4)
Il Procuratore della Repubblica ricorre in Cassazione contro la sentenza di non luogo a procedere emessa dal Giudice
dell’udienza preliminare nei confronti di un funzionario della motorizzazione civile cui si contestava di aver procurato un
ingiusto profitto ai gestori di un’agenzia di pratiche automobilistiche, attraverso il disbrigo preferenziale delle pratiche
avviate da quest’ultima in relazione a richieste di nazionalizzazione di veicoli acquistati all’estero, con evidente danno per le
altre agenzie di pratiche automobilistiche indebitamente “pretermesse”.
La Corte conviene circa il rischio che “l'inserimento del citato art. 97 Cost. fra le disposizioni di legge violabili e rilevanti per
l'abuso d'ufficio avrebbe come effetto quello di dilatare eccessivamente l'ambito di applicazione della norma incriminatrice,
finendo con l'incidere anche sul principio di precisione di cui all'art. 25 Cost.”, e tuttavia rileva che “possono essere
identificate ipotesi residuali in cui l'art. 97 Cost., nel suo significato più precettivo, relativo all'imparzialità dell'azione
amministrativa, può costituire parametro di riferimento per il reato di abuso d'ufficio”.
Nel caso di specie la Corte rileva che si è in presenza non di una attività di mera organizzazione, ma di una attività
esecutiva in cui la decisione viene adottata alla fine di un procedimento amministrativo in cui il criterio di imparzialità
comporta che vengano acquisiti gli interessi e gli elementi utili ad una deliberazione il più possibile ponderata: “in questo
caso, l'imparzialità amministrativa intesa come divieto di favoritismi ha i caratteri e i contenuti precettivi richiesti dall'art.
323 c.p., in quanto impone all'impiegato o al funzionario pubblico una vera e propria regola di comportamento, di immediata
applicazione. Nel caso in esame, dal capo di imputazione emerge una condotta del funzionario pubblico volta a realizzare
sistematicamente "il preferenziale disbrigo di pratiche" avviate da una sola agenzia, a discapito delle altre agenzie di pratiche
automobilistiche: si tratta di una chiara ipotesi di favoritismo in violazione del principio fissato dall'art. 97 Cost., che, in
quanto riferibile non solo all'organizzazione dell'ufficio, ma alla condotta della persona fisica del funzionario, può essere
presa in considerazione come violazione di legge ai sensi dell'art. 323 c.p.”
Dunque l’art. 97 Cost. non è necessariamente una sorta di “norma di mero principio”, inidonea ad
integrare una norma penale incriminatrice senza determinare il venir meno della sufficiente
determinatezza di quest’ultima. In particolare è il principio di imparzialità ex art. 97, comma 1,
Cost. che può avere un significato immediatamente precettivo (il principio di buon andamento
rimane invece concetto generico e di mero orientamento della condotta del pubblico funzionario),
laddove la “imparzialità” della pubblica amministrazione va intesa come capacità della stessa,
nell’espletamento delle proprie funzioni, di raggiungere un grado di astrazione tale da far
prevalere l’interesse pubblico (di cui è portatrice) solo se necessario, e soprattutto solo all’esito di
un’attenta ponderazione delle posizioni e dei valori potenzialmente confliggenti rispetto ad esso.
Questa imparzialità porta con sé due corollari: da un lato, in negativo, si traduce nel divieto di
discriminazione fra i soggetti portatori degli interessi in giuoco; dall’altro, in positivo, si configura
quale obbligo di identificazione e valutazione di tutti gli interessi coinvolti, nonché di
configurazione del provvedimento finale in coerenza con la rappresentazione completa dei fatti e
degli interessi.
Così delineato, il principio di imparzialità è destinato a permeare la P. A. sotto un duplice profilo.
Un primo aspetto è quello afferente all’organizzazione della Pubblica Amministrazione, che dovrà
assumere connotati e caratteristiche tali da consentire un’adeguata - e non superficiale -
ponderazione degli interessi in esame.
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Un secondo aspetto è quello più propriamente correlato all’attività amministrativa, il cui dipanarsi
comporterà l’acquisizione – procedimentalizzata – degli elementi utili ad una decisione ponderata.
Ma mentre difficilmente il principio di imparzialità potrà assumere immediato contenuto
precettivo con riferimento all’aspetto organizzativo (in tale sede, infatti, risulterà inevitabile la
mediazione e specificazione da parte di ulteriori disposizioni di legge, attraverso le quali il
principio troverà reale traduzione concreta), esso deve ritenersi dotato di portata precettiva
laddove calato nell’attività amministrativa. Infatti, «la decisione avviene alla fine di un
procedimento amministrativo in cui il criterio di imparzialità comporta che vengano acquisiti gli
interessi e gli elementi utili ad una deliberazione il più possibile ponderata», cosicché «in questo
caso l’imparzialità amministrativa intesa come divieto di favoritismi ha i caratteri e i contenuti
precettivi richiesti dall’art. 323 c.p., in quanto impone all’impiegato o al funzionario pubblico una
vera e propria regola di comportamento, di immediata applicazione». In tale ottica, quindi, il reato
di abuso d’ufficio si presta ad essere integrato – per quanto concerne il requisito della “violazione
di legge” – anche dal “solo” art. 97, comma 1, Cost., nella parte in cui esso impone all’impiegato o
al funzionario – quale traduzione “in negativo” del principio di imparzialità – il divieto di svolgere
attività discriminatoria ponendo in essere – come nel caso di specie – degli evidenti favoritismi a
(indebito) vantaggio di taluno ed a correlato discapito di tutti gli altri soggetti portatori di interessi
confliggenti.
Il principio è stato successivamente ribadito da altra pronuncia del 2008 …
… La Corte territoriale dubita che la condotta incriminata contenga i presupposti della nuova
fattispecie incriminatrice sotto il profilo dell'espressa indicazione delle norme di legge o di
regolamento violate nell'esercizio della funzione pubblica, rilevando che il richiamo alla norma di cui
all'art. 97 Cost., non avrebbe immediato valore precettivo. Tale tesi, che richiama una risalente teoria
sul valore non precettivo di talune norme costituzionali, non può essere condivisa .. Non può dubitarsi ..
che nell'esercizio delle funzioni pubbliche, la violazione del dovere di imparzialità, sancito dall'art. 97
Cost., comma 1, realizzi il requisito della "violazione di norme di legge" indispensabile per integrare la
condotta punibile nel reato di abuso di atti d'ufficio, di cui all'art. 323 c.p., come novellato dalla L. n.
234 del 1997 (Cassazione penale, sez. II, 10 giugno 2008, n. 35048).
… e ripreso da una pronuncia del 2009 relativa al principio di imparzialità sancito, in relazione
all’attività giudiziaria, dall’art. 111 Cost.: il caso di specie era quello di un giudice di pace al quale
era stato contestato di aver abusato delle sue funzioni e dei conseguenti poteri, trasmettendo la
copia di una propria sentenza, prima del deposito, alla parte convenuta vittoriosa tramite un fax
diretto al difensore, fax che per un disguido materiale perveniva anche allo studio del difensore
della parte attrice soccombente. La Corte, annullando con rinvio la sentenza con la quale il Gup
(pur in presenza di un accordo tra imputato e pm per l’applicazione della pena) aveva dichiarato il
non luogo a procedere perché il fatto non sussiste, statuisce tra l’altro che:
secondo il tradizionale orientamento della giurisprudenza, non è idonea a rendere configurabile la
violazione di legge rilevante ai fini dell'integrazione del delitto di abuso d'ufficio la sola inosservanza di
norme di carattere generale, aventi valore meramente programmatico .. Tuttavia .. non può non
attribuirsi una valenza cogente al principio di imparzialità sancito, in relazione all'attività giudiziaria,
dall'art. 111 Cost., in quanto tale principio, inteso come divieto di favoritismi o di trattamenti
persecutori, impone al giudice una vera e propria regola di comportamento, di immediata applicazione, e
possiede, quindi, i contenuti precettivi richiesti dall'art. 323 c.p.. E, nella fattispecie in esame, non par
dubbio che la comunicazione a una parte, da parte del giudice investito di una controversia civile, del
contenuto di una sentenza non ancora depositata e pubblicata, costituisca espressione di un
atteggiamento di favore deviante dal canone di imparzialità che deve presiedere in ogni momento
l'esercizio della funzione giurisdizionale e che vuole il giudice assestato in una posizione di assoluta
equidistanza dai soggetti coinvolti nel processo (Cassazione penale, sez. VI, 20 gennaio 2009, n. 9862).
È di tutta evidenza che la condotta di un giudice che comunichi anticipatamente ad una delle parti
l'esito della causa costituisce macroscopica violazione dei doveri del giudice. La condotta è
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talmente abnorme che non si trova nell'ordinamento giuridico alcuna norma che la vieti in modo
espresso. È per questo motivo che, nella ricerca di una norma di legge la cui violazione consenta di
ritenere operativo il reato di cui all'art. 323 c.p., si è ipotizzata nel caso di specie la diretta
violazione dell'art. 111, comma 2, Cost., norma che prevede che il processo si svolga nel
contraddittorio delle parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale.
Ritiene dunque la Cassazione che la norma dell'art. 111, comma 2, Cost., intesa come divieto di
favoritismi o di trattamenti persecutori, sia immediatamente precettiva ai fini che ci interessano:
fra i principi informatori del processo e dell'attività del giudice (il c.d. giusto processo),
l'imparzialità del giudice ha effettivamente immediata precettività ed è norma che rileva non nella
prospettiva di una comparazione fra l'interesse dell'amministrazione giudiziaria e quello dei terzi
bensì come parametro di equiparazione fra gli interessi dei vari soggetti terzi con i quali
l'amministrazione giudiziaria si rapporta (le parti del processo), ovvero, in sintesi, come divieto di
favoritismi per una parte processuale in danno dell'altra.
LA CONDOTTA
La novella del 1997 della norma incriminatrice ha trasformato l’abuso di ufficio da reato di pura
condotta a reato di evento, poiché il reato può dirsi integrato solo se e solo quando l’agente
pubblico procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno
ingiusto: nessuna ulteriore specificazione circa la condotta viene fornita dalla norma, che pretende
solo che il danno o il vantaggio siano arrecati con violazione di norma di legge o di regolamento.
Ne consegue che la condotta può estrinsecarsi in atti interni ovvero esterni, in atti decisionali
ovvero meramente consultivi, in atti preparatori ovvero in mere attività tecniche o materiali, e più
in generale in qualsiasi comportamento del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio
che costituisca una illecita deviazione dai fini istituzionali della pubblica amministrazione.
Nel caso di procedimento amministrativo complesso - caratterizzato dal concorso di diversi atti
amministrativi - il pubblico ufficiale che abbia partecipato solo ad una fase del procedimento,
limitandosi ad adottare un atto legittimo, non può rispondere del delitto di abuso di ufficio,
neppure quando l’atto da lui emesso si ponga in rapporto di causalità materiale col provvedimento
finale illegittimo: diversamente opinando, infatti, si giungerebbe ad un’affermazione di colpevolezza
basata su una sorta di responsabilità oggettiva, imputandosi all’agente che abbia operato nel rispetto
delle norme di legge o di regolamento l’illegittimità del comportamento altrui (Cassazione penale, sez.
VI, 20 giugno 2000, n. 7290).
Nel silenzio della legge, la condotta costituente reato potrà essere anche una condotta omissiva,
naturalmente a condizione che l'azione comandata, il cui mancato compimento integra la condotta,
sia prevista da una norma di legge o di regolamento: si deve trattare cioè del mancato esercizio di
un potere esplicitamente attribuito al funzionario, non essendo altrimenti una mera inattività
sufficiente, da sola, a configurare la fattispecie abusiva.
L'elemento materiale del delitto di abuso d'ufficio può essere realizzato anche attraverso una
condotta omissiva, purché si tratti del mancato esercizio di un potere esplicitamente attribuito al
pubblico funzionario da una norma di legge o regolamentare (Cassazione penale, sez. VI, 9 novembre
2010, n. 41697).
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Rimane da chiarire che in casi del genere, alla luce della più severa pena edittale, l’abuso di ufficio
non rimarrà assorbito nell’altro reato, astrattamente ipotizzabile, di omissione di atti di ufficio, ma
accadrà proprio il contrario
Il delitto di abuso d'atti d'ufficio può essere integrato anche attraverso una condotta meramente
omissiva, rimanendo in tal caso assorbito il concorrente reato di omissione d'atti d'ufficio in forza
della clausola di consunzione contenuta nell'art. 323, comma 1, c.p. - Fattispecie in cui è stata ritenuto
configurabile il reato di abuso d'atti d'ufficio in relazione alla condotta del sindaco e di alcuni
funzionari comunali che avevano deliberatamente omesso di dare esecuzione all'ordinanza di
demolizione di un immobile al fine di procurare un indebito vantaggio ai proprietari (Cassazione penale,
sez. VI, 22 gennaio 2010, n. 10009).
L’ELEMENTO SOGGETTIVO
Per effetto della novella introdotta dalla legge 234/1997, in punto di elemento soggettivo del reato
occorre che l’agente abbia commesso l’abuso proprio allo scopo di avvantaggiare o di danneggiare;
se pertanto il pubblico ufficiale agisce per un fine diverso dal vantaggio o dal danno ingiusto, il
reato è escluso, quand’anche egli abbia agito con dolo diretto, ossia rappresentandosi con certezza
tutti gli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice, e rendendosi conto che la sua condotta
sicuramente l’avrebbe integrata (ed a maggior ragione ove abbia agito con dolo eventuale, ossia
rappresentandosi con certezza tutti gli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice ed
accettando il rischio della loro verificazione)1.
La vigente formulazione dell’art. 323 c. p. non delinea più, come in passato, un reato a dolo specifico
e a consumazione anticipata, ma bensì un reato di evento a dolo generico, un dolo che, rispetto
all’evento che ne completa la struttura, assume la necessaria forma del dolo intenzionale: l’avverbio
intenzionalmente utilizzato dal legislatore del 1997 rappresenta un vero e proprio novum giuridico,
non presente in alcuna altra fattispecie incriminatice, il che porta ad escludere una funzione
meramente pleonastica e ridondante della locuzione, ma evidenzia al contrario il chiaro intento del
legislatore di restringere e contenere in ipotesi tassativamente prefissate la sfera di operatività della
norma.
L’intenzionalità oggi richiesta dalla norma incriminatrice rende penalmente perseguibili
esclusivamente quelle condotte ispirate, in via immediata, dalla prava voluntas del favoritismo
privatistico e che sono proiettate ad assicurare ed assicurano la realizzazione dello stesso. E’
richiesto un acclarato e provato grado di partecipazione dell’agente al reato, commisurabile sia al
quantum del fatto, sia al quantum di coscienza dello stesso, essendosi voluto escludere l’evocazione
del dolus in re ipsa, connesso alla mera illegittimità dell’atto amministrativo o del comportamento del
pubblico ufficiale: cfr. per tutte Cassazione penale, sez. II, 2 dicembre 2003, secondo cui in tema di
abuso d’ufficio, la prova certa che la volontà dell’agente è mirata proprio alla realizzazione del vantaggio
patrimoniale o del danno ingiusto non può essere desunta dalla semplice violazione di una norma di legge o
1 In tema di elemento soggettivo del reato, possono individuarsi vari livelli crescenti di intensità del dolo. Nell'azione
posta in essere con accettazione del rischio dell'evento, si richiede all'agente un'adesione di volontà, maggiore o minore,
a seconda che egli consideri maggiore o minore la probabilità di verificazione dell'evento; in tale ipotesi, il dolo va
qualificato come eventuale. Nel caso di evento ritenuto altamente probabile o certo, l'agente non si limita ad accettare il
rischio, ma accetta l'evento stesso, cioè lo vuole e con un'intensità maggiore di quella precedente: si è in presenza del
dolo c.d. diretto, che, a sua volta, assume connotazioni di differente gravità. Deve, infatti, distinguersi fra un evento
voluto come mezzo necessario per raggiungere uno scopo finale, ed un evento perseguito come scopo finale: nella prima
ipotesi, si ha il dolo diretto in senso stretto o di secondo grado, nella seconda il dolo intenzionale o diretto di primo
grado, in forza del quale assume rilievo determinante la rappresentazione dell'evento normativamente previsto nella
struttura dell'illecito.
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di regolamento, dalla quale certamente consegue un provvedimento illegittimo, ma non necessariamente
un atto illecito e penalmente rilevante, essendo necessario che la prova del dolo venga fornita grazie ad
ulteriori elementi, diversi da quello citato, idonei a dimostrare che l'evento realizzato costituiva il fine
precipuo preso di mira dal soggetto agente.
Il legislatore, nella prospettiva di limitare il sindacato del giudice penale sullo svolgimento della
funzione amministrativa, ha inteso certamente porre quest’ultima al riparo dal rischio di sanzione
penale ove si muova nell’ambito di interessi dell’Amministrazione: il che non significa che attività e
prassi amministrative contra ius, scelte come mezzo per il raggiungimento di uno scopo ritenuto
meritevole, siano esenti da controllo e da tutela (si pensi ai rimedi apprestati in sede di giustizia
amministrativa), ma più semplicemente che le si escludono dalla sfera di cognizione del giudice
penale.
Avendo il legislatore voluto rimarcare il dolo dell’abuso d'ufficio con un avverbio rafforzativo, è
evidente che ciò è stato fatto con il fine di restringere l’ambito dell’elemento soggettivo del reato di
cui all'art. 323 c. p.: il disvalore della fattispecie, incentrato oggettivamente sul verificarsi
dell’evento, rappresentato dal procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero
dall’arrecare ad altri un danno ingiusto, richiede necessariamente, sotto il profilo soggettivo, che il
soggetto attivo agisca proprio per perseguire l’uno o l’altro evento normativamente previsto.
E’ necessario cioè che il soggetto pubblico commetta l’abuso proprio allo scopo di procurare un
ingiusto vantaggio patrimoniale o di arrecare un danno ingiusto: l’evento deve rappresentare lo scopo
finale della condotta e, quindi, l’oggetto di una rappresentazione intenzionale; l’agente non soltanto
deve avere la coscienza e la volontà dell’abuso che compie, ma deve anche, consapevolmente,
perseguire la realizzazione delle suddette finalità di vantaggio o di danno in via diretta ed
immediata (il dolo intenzionale riguarda peraltro solo l'evento di danno o di vantaggio, mentre tutti
gli altri elementi della fattispecie costituiscono oggetto di dolo generico: tanto si ricava dal fatto che
l’avverbio intenzionalmente è relativo alla sola condotta del procurare o dell’arrecare).
Se il detto evento tipico è invece una semplice conseguenza accessoria dell’operato dell’agente, che
persegue in via primaria l’obiettivo dell’interesse pubblico, difetta il dolo intenzionale: l’evento
tipico è certamente voluto, ma non intenzionale, occupa una posizione defilata e rappresenta
soltanto un effetto secondario della condotta posta in essere; è l’interesse pubblico ad occupare una
posizione di supremazia nella mente del pubblico ufficiale, al quale l’ordinamento affida la cura del
medesimo interesse; ovviamente, per scongiurare di confrontarsi con inafferrabili motivazioni
interne all’imputato, deve trattarsi di un interesse di preminente rilievo, riconosciuto
dall’ordinamento e idoneo ad oscurare il concomitante favoritismo privato, degradato ad elemento
privo di valenza penale.
Come si è osservato in dottrina, attraverso la novella del 1997 il legislatore ha dunque imposto al
giudice di individuare e provare che cosa in concreto si è prefisso l’agente con la sua condotta, ritenendo
sussistente il reato solo se tale scopo si identifichi nel procurare un danno ad altri o un vantaggio ingiusto, ed
escludendolo, in caso contrario, indipendentemente dalla eventuale prevedibilità e occorrenza in concreto di
simili effetti (SEMINARA).
Ne consegue che, come nella fattispecie previgente il dolo specifico andava ricostruito alla luce del
finalismo immediato della condotta, così oggi, per essere puniti, l’evento dovrà rappresentare
proprio lo scopo preso di mira dall’agente, restando estranei all’ambito di operatività dell’art. 323 c.
p. quei casi nei quali l’agente si rappresenti con certezza l’evento, si renda conto che la sua condotta
molto probabilmente lo realizzerà, ma ponga in essere la condotta per un fine diverso: come, ad
esempio, i casi nei quali il pubblico ufficiale abbia agito per il perseguimento di un preminente
interesse pubblico, ciò che nella concreta applicazione giurisprudenziale degli ultimi anni della
norma in esame ha consentito di superare a favore dell’agente molte situazioni in cui siano venuti a
coincidere interesse pubblico ed interesse privato (cfr., ad esempio, Cassazione penale, sez. VI, 8
ottobre 2003, n. 708: nel reato di abuso d’ufficio, l’uso dell’avverbio "intenzionalmente" per qualificare il
dolo implica la sussistenza del reato solo quando l’agente si rappresenta e vuole l’evento di altrui danno o
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di vantaggio patrimoniale proprio o altrui come conseguenza diretta e immediata della sua condotta e
come obiettivo primario perseguito, e non invece quando egli intende perseguire l'interesse pubblico
come obiettivo primario).
La stessa Suprema Corte ha tuttavia avuto modo di specificare da ultimo le caratteristiche che il
concomitante interesse pubblico deve presentare per essere meritevole di tutela al punto tale da
annullare il disvalore insito nella volontarietà dell'ingiusto danno o vantaggio patrimoniale: si deve
trattare, ha precisato la Corte, esclusivamente di un fine pubblico, non essendo sufficiente né un fine
collettivo, né un fine privato di un ente pubblico e neppure un fine politico; ed ancora, si deve
trattare del fine pubblico che l’agente è legittimato a poter perseguire in quanto proprio a lui ne sia
affidata la cura, in modo tale che questi non abbia usurpato attribuzioni o compiti di altre pubbliche
entità; infine, è necessario che tra il pubblico ufficiale e il privato beneficiario non sussista un
rapporto personalistico tale da far divenire pretesto il raggiungimento del fine pubblico, altrimenti
preminente (onde circoscrivere, il più possibile, i casi in cui difetta l'elemento psicologico del reato,
per non legittimare comportamenti che altro non sono se non favoritismi occultati da "millantati"
interessi pubblici); in tema di abuso di ufficio - ha statuito Cassazione penale, sez. VI, 6 maggio 2003,
n. 33068 - l'uso dell'avverbio "intenzionalmente" per qualificare il dolo ha voluto limitare il sindacato del
giudice penale a quelle condotte del pubblico ufficiale dirette, come conseguenza immediatamente
perseguita, a procurare un ingiusto vantaggio patrimoniale o ad arrecare, un ingiusto danno; appare
evidente che, qualora nello svolgimento della funzione amministrativa il pubblico ufficiale si prefigga di
realizzare un interesse pubblico legittimamente affidato all’agente dall’ordinamento (non un fine privato
per quanto lecito, non un fine collettivo, né un fine privato di un ente pubblico e nemmeno un fine
politico), pur giungendo alla violazione di legge e realizzando un vantaggio al privato, deve escludersi la
sussistenza del reato.
In tema di prova dell’elemento soggettivo, Cassazione penale, sez. VI, 4 dicembre 1997, n. 11204 ha
statuito che assume rilievo non solo l’atto o il comportamento del pubblico ufficiale singolarmente
valutato, ma altresì ogni altro elemento che, apparentemente estrinseco all’atto o al comportamento,
consenta comunque una verifica maggiormente significativa e, pertanto, anche gli atteggiamenti
antecedenti, contestuali e successivi all’attività che di per sé realizza l’abuso
In applicazione dei principi fin qui illustrati, Cassazione penale, sez. VI, 8 ottobre 2003, n. 708 ha
annullato senza rinvio (perché il fatto non costituisce reato) la sentenza di condanna del Sindaco di un
Comune, tratto a giudizio per aver illegittimamente rilasciato uno strumento concessorio per la
realizzazione di una balconata: rileva la Corte da un lato che è emersa la prova che si trattava di un
manufatto di minimale incidenza sull'assetto del territorio che si inseriva nel progetto, perseguito
dalla amministrazione comunale, di favorire l’approvazione di interventi volti alla riqualificazione
del borgo antico, attraverso un incremento delle capacità recettive degli esercizi pubblici che ivi
operavano; dall’altro che il dibattimento non aveva consentito di acquisire elementi sintomatici di
rapporti interpersonali sospetti tra il M. e il B., per ritenere che il comportamento del primo fu
orientato, in via immediata, a favorire il secondo. Anzi, il giudice di merito non ha mancato di
sottolineare, richiamando precise risultanze processuali .., la conflittualità caratterizzante i rapporti
tira i due predetti, militanti in contrapposti schieramenti politici. Dunque l'obiettivo primario e finale
perseguito non fu certo quello del favoritismo personale, effetto meramente accessorio dell'azione e,
quindi, estraneo all'intenzionalità dell'imputato .. l'evento dell'ingiusto vantaggio derivato al B.
dall'azione posta in essere dal prevenuto fu certamente presente nella volontà di quest'ultimo, ma non
fu sicuramente obiettivo perseguito dal medesimo e rimase, quindi, estraneo alla sfera
dell'intenzionalità. Ne consegue che deve ritenersi non integrata la contestata fattispecie criminosa,
per difetto dell'elemento psicologico.
Più di recente, Cassazione penale, sez. VI, 9 novembre 2006, n. 41365 ha elencato alcuni elementi
sintomatici da cui è desumibile il dolo intenzionale richiesto per il reato di cui all'art. 323 c.p.:
a) nell'evidenza della violazione di legge, come tale perciò immediatamente riconoscibile dall'agente;
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b) nella specifica competenza professionale dell'agente, tale da rendergli anch'essa senza possibile
equivoco riconoscibile la violazione;
c) nella motivazione del provvedimento, nel caso in cui essa sia qualificabile come meramente apparente
o come manifestamente pretestuosa;
d) nei rapporti personali eventualmente accertati tra l'autore del reato e il soggetto che dal
provvedimento illegittimo abbia tratto ingiusto vantaggio patrimoniale.
L'applicazione di tali principi consentirà dunque un approfondimento effettivo della volontà
dell'autore della condotta incriminata, ed il rifiuto di ogni presunzione ed affermazione apodittica
di responsabilità.
della remunerazione di una prestazione professionale resa possibile dalla condotta abusiva.
CASO PRATICO (sentenza n. 38259/2007 ed allegata nota, allegato n. 9)
Il Presidente del 10^ Municipio di Roma aveva emesso provvedimenti di natura contingibile e urgente per assegnare alcuni
alloggi privati a soggetti bisognosi raggiunti da un provvedimento di sfratto. Il giudice per l’udienza preliminare dichiarava
il non luogo a procedere in relazione all’accusa di abuso di ufficio, ritenendo che, a prescindere dalla effettiva sussistenza di
una violazione di legge, difettava comunque l'elemento soggettivo del reato, atteso che il presidente del municipio aveva
comunque inteso perseguire una finalità pubblica, quale, nella specie, quella di risolvere il problema contingente e urgente di
sovvenire alle immediate esigenze abitative di famiglie in condizioni economiche disagiate nei confronti delle quali era
imminente l'esecuzione dello sfratto.
La Corte rigetta il ricorso del Procuratore Generale, convenendo con il giudice di merito circa il fatto che “la intenzione del
M. non è stata quella di procurare un ingiusto vantaggio patrimoniale ad altri; nonostante egli fosse certamente consapevole
che dai provvedimenti adottati sarebbe conseguito anche un effetto vantaggioso per le famiglie che correvano il rischio di
rimanere prive di alloggio. Al riguardo, va ribadito che ai fini della sussistenza dell'elemento soggettivo del delitto di abuso di
ufficio non è sufficiente la rappresentazione dell'evento (di vantaggio o di danno per altri) ma occorre che questo costituisca
l'obiettivo diretto e immediato della condotta del pubblico ufficiale o dell'incaricato di un pubblico servizio. Sicchè se l'evento
tipico è una semplice conseguenza accessoria o indiretta dell'operato dell'agente, mosso dalla finalità di perseguire un
obiettivo di interesse pubblico di preminente rilievo, il dolo intenzionale non è configurabile”.
1
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE - SEZIONE SESTA PENALE – 16 dicembre 2010, n. 1231
FATTO E DIRITTO
Con decreto del 25 novembre 2009, il Gip del Tribunale di Campobasso ha disposto de plano l’archiviazione
del procedimento promosso a carico di M.G. e R.D., indagati per il delitto di cui all’art. 323 c.p. su denuncia
di B.L., facendo proprie le ragioni enunciate dal PM presso quel tribunale nella richiesta. Ricorre per
cassazione il B. e denuncia, con un unico ed articolato motivo inosservanza dell’art. 408 c.p.p., comma 2 in
relazione a quanto previsto dall’art. 409 c.p.p., comma 6 e art. 127 c.p.p., commi 1 e 5 con conseguente nullità
del provvedimento adottato de plano.
Il Procuratore Generale presso questa Corte ha depositato requisitoria scritta chiedendo l’annullamento
senza rinvio del provvedimento.
Il ricorrente, con la denuncia presentata innanzi al PM, ha esplicitamente chiesto di essere avvisato in caso di
richiesta di archiviazione.
E’ certo che il PM procedente ha, del tutto, omesso l’avviso di cui al secondo comma dell’art. 408 c.p.p.,
nonostante che al B. dovesse riconoscersi la qualitaa di parte offesa. Infatti, il reato di cui all’art. 323 cod.
pen., è un reato di evento, che consiste nel vantaggio del pubblico ufficiale o di altri oppure nel danno
ingiusto arrecato ad altri. Ciò significa che l’abuso è idoneo a ledere oltre all’interesse pubblico al buon
andamento ed alla trasparenza della P.A. ed alla imparzialità dei pubblici funzionari, anche l’interesse del
privato a non essere "turbato nei suoi diritti costituzionalmente garantiti" e a non essere danneggiato dal
comportamento illegittimo ed ingiusto del pubblico ufficiale.
Ne consegue che il soggetto al quale tale condotta abbia arrecato un danno riveste la qualità di persona
offesa dal reato, legittimato non solo a costituirsi parte civile quanto il processo abbia inizio (diritto spettante
anche al solo danneggiato), ma anche a proporre opposizione avverso la richiesta di archiviazione del P.M.
in applicazione degli artt. 409 e 410 cod. proc. pen... Secondo il consolidato orientamento della
giurisprudenza di legittimità, tale omissione configura una nullità deducibile con ricorso per cassazione. Si
tratta, invero, della violazione del disposto dell’art. 127 c.p.p., comma 5, ovvero della violazione del
principio del contraddittorio e del diritto della parte offesa ad avere accesso al procedimento di
archiviazione (tra le tante tutte conformi da ultimo Sez. 1^ sent. n. 18666 del 2008): Il provvedimento
impugnato deve essere, pertanto, annullato senza rinvio e gli atti debbono essere trasmessi al Procuratore
della Repubblica presso il Tribunale di Campobasso per il corso ulteriore.
P.Q.M.
LA CORTE annulla senza rinvio il provvedimento impugnato e dispone trasmettersi gli atti al Procuratore
della Repubblica presso il Tribunale di Campobasso per l’ulteriore corso.
Cosii deciso in Roma, il 16 dicembre 2010. Depositato in Cancelleria il 18 gennaio 2011
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2
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE - SEZIONE SESTA PENALE – 14 OTTOBRE 2003, n. 43020
FATTO E DIRITTO
I difensori di P. A., D. P. N., e R. C. propongono ricorso contro la sentenza 8 novembre 2002, con la quale la
Corte d'appello Napoli, in riforma della decisione 5 febbraio 2001 del Tribunale di Avellino, ha dichiarato i
predetti P. A., D. P. N., e R. C. colpevoli del delitto di abuso di ufficio previsto dall'art. 323 c.p. e di non
doversi procedere nei loro confronti per la contravvenzione di cui all'art. 20 lett. b) legge n. 47 del 1985,
perché estinto per intervenuta amnistia.
La Corte territoriale, non condivisa la pronuncia del Tribunale di assoluzione degli imputati dal delitto di
abuso perché il fatto non costituisce reato e dalla contravvenzione edilizia per insussistenza del fatto, ha
ritenuto che le risultanze processuali offrissero la prova di colpevolezza di P. A. per avere rilasciato, in
violazione di leggi e regolamenti urbanistici, una prima concessione e, poi, altro atto in sostituzione e
modifica della prima, in tal modo intenzionalmente favorendo i beneficiari degli atti de quo, N. D. P.,
proprietario dell'erigendo fabbricato, e C. R., legale rappresentante della Meridionale fabbricati, entrambi
dichiarati responsabili ex art. 110 c.p. del reato di abuso per avere sollecitato il rilascio della originaria
concessione e di quella successiva e modificativa della prima mediante la produzione di documentazione
giustificativa della propria richiesta.
….
Propone ricorso la difesa di C. R. e di N. D. P. e deduce …. che il giudice d'appello avrebbe dichiarato
colpevoli N. D. P. e C. R., a titolo di concorso con il vice sindaco P., soltanto sulla circostanza che l'uno
avrebbe richiesto ab origine la concessione e l'altro avrebbe presentato istanza di modifica della stessa con la
quale era richiesta l'abolizione la prescrizione apposta all'originaria concessione, nonostante avesse dato atto
dell'inesistenza di collusione tra i beneficiari della concessione ed il pubblico ufficiale e non avesse contestato
gli argomenti posti in risalto dal giudici di primo grado circa l'assenza di rapporti che avrebbero potuto
giustificare favoritismi; che il concorso degli estranei nel delitto proprio del pubblico ufficiale non potrebbe
essere dimostrato unicamente sulla coincidenza tra la richiesta dell'atto ed il provvedimento adottato dal
pubblico ufficiale, alla stregua dell'indirizzo della stessa giurisprudenza di legittimità…..
Il ricorso di C. R. è inammissibile, oltre che per essere volto a censurare le scelte del giudice di merito circa la
ricostruzione dei fatti oggetto dell'imputazione, anche per manifesta infondatezza.
Alla logica ricostruzione dell'intera vicenda effettuata dalla Corte di appello di Napoli, che non si è limitato a
fare riferimento alla presentazione dell'istanza da parete di R., il ricorrente oppone una diversa versione dei
fatti evocando a sostegno della stessa un precedente principio di diritto enunciato da questa Corte con
specifico riferimento a tutt'altra fattispecie concreta.
Nella fattispecie in esame, la condotta della persona favorita dall'abuso non si è concretizzata nella sola
presentazione di un'istanza alla quale abbia fatto seguito un provvedimento del pubblico ufficiale
corrispondente al contenuto della richiesta formulata, bensì R. - afferma la Corte di merito - «... ribadendo
quanto già esposto nella lettera con la quale era stata presentata la domanda di rilascio della concessione,
chiedeva l'emissione di un provvedimento che eliminasse le prescrizioni imposte, adducendo che attraverso
l'atto di cessione bonaria del 5 aprile 1996 da lui esibito la società aveva sostanzialmente adempiuto a quelle
prescrizioni e che appariva eccessivamente penalizzante per la società da lui rappresentata il mantenimento
di quelle prescrizioni che dovevano essere rispettate pena la nullità della concessione ...». Il provvedimento
richiesto fu predisposto dagli uffici amministrativi «... sulla base di un'annotazione a penna a firma del P. ...»
e sottoscritto dal predetto P., nonostante lo specifico parere del capo dell'ufficio tecnico e della seconda
Commissione del Comune adottati entrambi prima del rilascio della prima concessione in favore della
società M. f. che - come accertato dal consulente tecnico del pubblico ministero e «.. riconosciuto dallo stesso
giudice di primo grado ..» - era da ritenere illegittima per essere stata adottata in base ad un progetto «... non
solo carente del calcolo planivolumetrico, ma soprattutto implicante in concreto un aumento di volumetria
superiore a quello preesistente e comunque non consentito dalla normativa vigente in materia ...».
Non solo, dunque, mera presentazione di un istanza da parte di C. R., bensì consapevole richiesta di
adozione di un atto palesemente contrastante con un precedente parere degli uffici tecnici e che, oltre ad
inserirsi in una procedura amministrativa illegittima riconducibile al rilascio della originaria concessione, si
era esteriorizzata con una sollecitazione «... attraverso la produzione di documentazione giustificativa della
legittimità della ... richiesta assolutamente non idonea (e cioè un atto di cessione bonaria al Comune di arre
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appartenenti al proprietario dell'erigendo fabbricato anziché permuta delle arre effettuata attraverso la
stipulazione di un atto pubblico come imposto dalle prescrizioni) agendo in perfetta mala fede e nella
consapevolezza di non avere maturato alcun diritto ...».
Il quid pluris posto in risalto dalla Corte di merito è elemento che non contraddice la giurisprudenza evocata
dal ricorrente circa la insufficienza di una mera richiesta, bensì ne fa corretta applicazione. Il concorso di C.
R. nel reato proprio commesso dal pubblico ufficiale ha fondamento su una concreta, positiva condotta di
determinazione e istigazione che risponde ad una ragionevole e completa ricostruzione dei fatti da parte del
giudice d'appello.
La prova che un atto amministrativo sia il risultato di collusione tra privato e pubblico funzionario non può
essere dedotta di per sé sola dalla mera coincidenza tra la richiesta del primo e il provvedimento posto in
essere dal secondo, essendo, invece, necessario che - secondo il principio di diritto enunciato dà questa Corte
(Sez. VI, 29 maggio 2000, Margini rv. 216719) - il contesto fattuale desunto, al di là dei rapporti personali tra
le parti, da un quid pluris il quale dimostri che la presentazione della domanda è stata preceduta,
accompagnata o seguita da un'intesa col pubblico funzionario o, comunque, da sollecitazioni che possono
essersi concretizzate, come è accaduto nel caso in esame attraverso la produzione di documentazione
giustificativa della legittimità della richiesta assolutamente non idonea e tale da dimostrare la
consapevolezza di non avere maturato diritto alcuno al rilascio dell'atto richiesto.
Non sussiste, dunque, la mancanza e il vizio logico della motivazione denunciati dal ricorrente e
manifestamente infondato è il vizio di violazione di legge.
3. - I ricorsi di A. P. e C. R., dunque, sono inammissibili ….
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi di P. A. e R. C. che condanna al pagamento in solido delle spese processuali e
ciascuno della somma di euro 1000, 00 alla cassa delle ammende. Condanna altresì i predetti in solido alla
rifusione delle spese in favore della parte civile che liquida in complessivi euro 1.650,00, di cui euro 1.500 per
onorario….
Così deciso in Roma, 14 ottobre 2003. depositata in cancelleria il 11 novembre 2003.
Gigliola Bridda - Dottoranda di ricerca in Scienze penalistiche, Università di Trieste – in Cassazione penale,
2004, 10, 398.
1. La sentenza che si annota affronta la disciplina del concorso di persone nel reato proprio d'abuso d'ufficio
ed offre lo spunto alla Cassazione per sottolineare gli elementi legittimanti la configurabilità del concorso
dell'extraneus nel reato proprio.
Certo il tema non è nuovo, anche se la Corte giunge a porre l'attenzione non solo sulla condotta materiale
assunta dall'extraneus, ma altresì sull'atteggiamento psicologico da questi mantenuto nella vicenda,
applicando i principi generali che la dottrina ha elaborato in merito.
La vicenda processuale trae lo spunto da una costruzione realizzata in violazione di norme edilizie (art. 20
della legge n. 47 del 1985), per la quale il proprietario di un terreno, in concorso con il legale rappresentante
di un'agenzia immobiliare, aveva chiesto e ottenuto dal vice sindaco una concessione edilizia,
successivamente modificata, presentando una documentazione giustificativa non idonea e contraria alla
normativa vigente.
Mentre il tribunale in primo grado assolveva gli imputati dal concorso nel reato proprio con il p.u. ex artt.
110 e 323 c.p., perché il fatto non costituiva reato, e dalla contravvenzione edilizia di cui all'art. 20 lett. b)
della l. n. 47 del 1985 per insussistenza del fatto, la corte d'appello riconosceva l'esistenza del concorso con il
p.u. e dichiarava la prescrizione dell'illecito contravvenzionale. Non riusciva però a dimostrare la collusione
tra i beneficiari della concessione e il p.u., argomento su cui si fonderà il ricorso per Cassazione stante la
mancata dimostrazione dell'elemento soggettivo.
Appare opportuno in via preliminare soffermarci sul complesso tema del concorso dell'estraneo nel reato
proprio, così come delineato dagli artt. 110 e, soprattutto, 117 c.p..
2. Requisiti oggettivi perché si possa realizzare il concorso in un reato proprio sono, da un canto, che almeno
uno dei concorrenti rivesta la qualità richiesta dalla norma e, dall'altro, che si verifichi la fattispecie di parte
speciale del reato proprio, ossia quel fatto di reato che può essere commesso solo da chi rivesta una
particolare qualifica richiesta dalla legge (c.d. intraneus): e quest'ultima esprimerebbe la posizione del
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soggetto attivo nei confronti del bene o dell'interesse tutelato (1), fondando una sorta di legittimazione ad
agire del soggetto qualificato (2).
Infatti, sulla scorta della teoria della fattispecie plurisoggettiva eventuale , anche gli estranei possono
determinare, agevolare - materialmente o moralmente - l'intraneo ad offendere il bene, rendendosi
altrettanto meritevoli di pena : se infatti si volesse escludere la possibilità del concorso del soggetto privo di
qualifica, si limiterebbe la responsabilità penale al solo soggetto qualificato, rischiando di lasciar andare
impunito l'estraneo, o di incriminarlo, qualora sia possibile, per una fattispecie diversa che presenti il
medesimo nucleo di condotta mantenibile da «chiunque», creando una evidente disparità di trattamento con
il compartecipe qualificato.
L'art. 117 c.p., a sua volta, non specifica se il reato debba essere commesso materialmente dall'intraneus o
dall'extraneus e quali siano le circostanze in cui avviene il mutamento del titolo di reato: bisogna allora
preliminarmente capire se la posizione rivestita dal concorrente esterno nella commissione della fattispecie
di reato sia determinante in tal senso.
Parte della dottrina tende a fare delle distinzioni a seconda delle singole fattispecie di parte speciale,
ritenendo in via generale che l'intraneo debba avere nella fattispecie di concorso lo stesso ruolo che nella
corrispondente fattispecie individuale era necessaria per la sussistenza del reato proprio.
Richiamandosi sempre alla teoria già accennata (6), la medesima dottrina ritiene che la condotta principale
connotante il reato debba essere tenuta dall'intraneo solo in presenza di reati propri esclusivi o c.d. di mano
propria, quali l'abuso d'ufficio e il peculato, per i quali dalla descrizione letterale della condotta materiale o
da altri elementi significativi, si ricaverebbe che non possono essere realizzati da una terza persona: autore è
necessariamente l'intraneus.
Nei reati propri non esclusivi, come evidenziato anche dalla giurisprudenza di legittimità (7), non è
indispensabile che proprio l'intraneo sia l'esecutore dell'azione tipica, che può quindi materialmente essere
realizzata da un altro concorrente, purché quello qualificato dia, secondo le regole generali, il suo contributo
efficiente in qualsiasi forma, compresa quindi quella omissiva della volontaria e concreta astensione
dall'impedire l'evento (8).
Conformemente all'insegnamento della giurisprudenza (9), l'apporto dato dall'estraneo andrà valutato allora
nei termini di una partecipazione morale di istigazione al reato o di una partecipazione materiale di
agevolazione al reato, che abbia offerto un'effettiva incidenza causale nell'ambito della condotta principale
tipica riservata all'intraneo (10).
Dal punto di vista della normativa applicabile, qualora vi sia una situazione di compartecipazione in cui
l'estraneo è consapevole di concorrere con altri in un reato proprio, egli risponderà del concorso nel reato in
modo pieno ex art. 110 c.p., tanto quanto il p.u.: qui non c'è mutamento del titolo di reato previsto invece
dall'art. 117 c.p., perché l'estraneo conosce la qualifica dell'intraneo ed è consapevole dell'apporto materiale o
psicologico che la sua condotta offrirà alla realizzazione del reato proprio (11). Infatti il concorso «pieno» nel
reato ex art. 110 c.p. postula la semplice rappresentazione e volizione di cooperare con altri nella
realizzazione di un fatto tipico: l'extraneus deve conoscere qualifica soggettiva dell'intraneus, poiché questa
rientra nell'oggetto del dolo nei limiti in cui si ripercuote sul fatto di reato di cui contribuisce a realizzare lo
specifico disvalore penale (12).
L'ipotesi dell'art. 117 c.p. opera invece quando l'estraneo ignori la qualifica posseduta dall'intraneo e abbia
tenuto una condotta che costituisca comunque un illecito penale: in tale situazione non c'è quindi
un'incriminazione ex novo di un fatto altrimenti lecito, ma il cambiamento della qualificazione giuridica del
fatto costituente comunque un illecito penale (13).
Dall'analisi dell'elemento soggettivo del reato risulta evidente la struttura di responsabilità oggettiva
presente nell'art. 117 c.p. L'art. 1081, comma 1, c. nav., rubricato Concorso di estranei in un reato previsto dal
presente codice (14), viene proprio utilizzato da autorevole dottrina a conferma di quanto evidenziato: dalla
disposizione si ricaverebbe infatti il principio secondo cui la conoscenza della qualifica soggettiva è
imprescindibile per la punibilità a titolo di dolo, tenuto conto del fatto che la conoscenza richiesta comunque
in capo all'intraneo per l'esistenza del dolo e quindi la configurabilità della fattispecie propria, non deve
avere ad oggetto l'astratta qualificazione giuridico-penale di cui egli è portatore, in quanto a questa
conclusione osterebbe l'art. 5 c.p., ma esclusivamente i substrati di fatto della qualifica soggettiva (15).
Nel caso dell'art. 117 c.p. invece la responsabilità del concorrente è di natura oggettiva e ciò risulta evidente
dal fatto che, se è vero che un reato è comunque voluto da tutti i compartecipi, anche la qualità personale
rivestita dall'intraneo non è limitata strettamente alla sua persona, ma si riverbera sul fatto di reato, dovendo
diventare così oggetto del dolo dell'estraneo: il che non è richiesto se la sua condotta costituisce comunque
un illecito (16).
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Diversa è la situazione qualora la qualità costitutiva dell'intraneo determini nel fatto il carattere di illecito
penale: la sua mancata conoscenza manderà l'estraneo esente da pena, non sussistendo un reato comune sul
quale poter far operare il mutamento del titolo di reato (17).
Parte della dottrina cerca di riportare la norma entro i parametri del principio di soggettività della
responsabilità penale, sostenendo che il concorso nel reato proprio verrebbe disciplinato in via esclusiva
dall'art. 117 c.p., qualora vi sia la conoscenza da parte dell'estraneo della qualifica dell'intraneo, e il suo
comportamento costituisca comunque un illecito penale, al di là del mutamento del titolo. L'impostazione in
esame trae il proprio spunto da un'elaborazione sistematica degli artt. 65 e 66 del Codice Zanardelli (18), in
cui l'inasprimento di pena seguiva alla conoscenza dell'elemento aggravante la situazione; lo stesso principio
si ritroverebbe nell'attuale art. 117 c.p. in cui la mancanza di ogni indicazione in merito all'elemento
psicologico vorrebbe significare l'implicita assunzione dei normali principi in tema di elemento psicologico.
Risponderebbe pertanto del reato proprio solo l'estraneo consapevole della qualifica: altrimenti ai sensi
dell'art. 47 comma 2 tornerebbe ad applicarsi la norma per il reato comune (19), evitando così una grave
disparità di trattamento tra l'intraneo, il quale risponde secondo i principi per dolo e colpa, e l'estraneo, che
risponde in modo obiettivo.
Di fatto avremmo due norme l'una analoga all'altra, con la possibilità per l'estraneo di andare impunito
qualora, in assenza di conoscenza della qualifica del soggetto qualificato, abbia tenuto una condotta atipica
che non costituisca illecito (20): e sarebbe l'elemento soggettivo a tenere unite tra di loro le varie condotte ed
a porsi come essenziale nel determinare la rilevanza penale di condotte di partecipazione atipica (21).
In realtà tale impostazione forza il dato normativo del Codice Rocco: l'art. 117 c.p., infatti, si differenzia
dall'art. 110 c.p. in quanto, mentre quest'ultimo presuppone il dolo dell'estraneo anche rispetto le condizioni
e le qualità personali volute dalla legge per aversi il reato proprio, la prima disposizione limita la
responsabilità dell'estraneo, in assenza della conoscenza di tali elementi, ai soli casi di mutamento del titolo
(22).
Un'impostazione sui generis, più attinente alla struttura voluta dal codice Rocco, è quella sostenuta da
ulteriore dottrina, che ritiene operare comunque la fattispecie dell'art. 117, al di là del fatto che il soggetto
estraneo conosca la qualifica dell'intraneo (23): infatti, la clausola di riserva posta a favore dell'art. 117 c.p.
dall'art. 1081 c. nav. andrebbe letta nel senso che il 117 c.p. abbraccia sia l'ipotesi di conoscenza e di non
conoscenza della qualifica.
Entrambe le impostazioni non sono accettabili: da un lato, l'argomento tratto dal Codice Rocco della
derivazione dell'art. 117 non è probante in quanto gli stessi lavori preparatori non offrono alcun spunto in tal
senso (24); dall'altro lato, occorre pur sempre rilevare come l'articolo in questione si rivelerebbe un semplice
doppione dell'art. 110 c.p. (25).
Anche il dato letterale della norma offre spunti nel senso della sua peculiarità rispetto l'art. 110 c.p. L'art. 117
infatti delinea tre tipologie di concorrenti ben caratterizzate: da un lato si parla di colpevole (l'intraneo) il
quale possiede determinate caratteristiche in relazione al bene protetto, dall'altro di «taluno di coloro che vi
sono concorsi», che sono gli estranei privi delle condizioni e delle qualità personali sussistenti in capo
all'intraneo, ma che ne hanno comunque conoscenza, e di «altri», ossia coloro che non conoscono la qualifica
richiesta dalla legge e sussistente di fatto in capo all'intraneo e per i quali muterebbe il titolo di reato (26). È
proprio questa la peculiarità della norma rispetto l'art. 110 c.p.: solo pensando che gli altri si differenzino da
coloro che hanno subito il mutamento del titolo del reato in senso pieno per la mancanza della conoscenza
della qualifica dell'intraneo, si comprende l'estensione dell'imputazione, con ciò facendo salvo il principio
dell'unitarietà del titolo del reato (27).
3. La sentenza in commento ha avuto modo di occuparsi del concorso nel reato proprio dell'abuso d'ufficio:
fattispecie che sicuramente ha vissuto delle vicende normative importanti, passando tra le forche caudine di
due riforme (28). Da un lato la legge 86 del 1990 che, operando in seno ad un più ampio progetto di riforma
dei reati contro la p.a., ha provveduto ad una riformulazione dell'art. 323 c.p. con l'intento di garantire una
maggiore tassatività della fattispecie e di evitare una eccessiva ingerenza del giudice penale in aree riservate
alla esclusiva competenza delle autorità amministrative; dall'altro la legge 234 del 1997 che ha operato sul
profilo strutturale della fattispecie oltre che a quello sistematico-funzionale.
Sul versante strutturale, attraverso un'incisiva rivisitazione degli elementi costitutivi del reato, abbiamo una
maggiore determinazione dell'incriminazione: l'intervento legislativo infatti ha trasposto sul piano oggettivo
il contenuto del dolo specifico, previsto nella legge del '90, trasformando l'abuso da reato di condotta a reato
d'evento, per il perfezionamento del quale viene richiesta la realizzazione dell'ingiusto danno o il
conseguimento dell'ingiusto vantaggio. Di conseguenza il reato è diventato di danno, anziché delitto a
consumazione anticipata incentrato sul dolo specifico, con l'ulteriore conseguenza che il reato è ipotizzabile
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anche nelle forme del tentativo: il conseguimento del vantaggio patrimoniale o il prodursi del danno
ingiusto segnano il momento consumativo della fattispecie, e non sono più una componente dell'elemento
psicologico. Infatti la fattispecie è ora prevista a dolo intenzionale, il che comporta la non punibilità
dell'agente qualora difetti la prova che l'evento realizzato non costituiva l'oggetto precipuo della sua
condotta.
Sotto il profilo sistematico-funzionale il legislatore ha ritenuto di dover ascrivere rilievo alle sole condotte di
abuso dalle quali possa derivare un vantaggio patrimoniale o un danno ingiusto, risultando di fatto abrogata
la condotta che comporti un vantaggio non patrimoniale (c.d. condotta favoreggiatrice).
Sul versante processuale il ridimensionamento del trattamento sanzionatorio è stato tale da escludere
l'applicabilità di misure custodiali coercitive, in particolare alla misura della custodia cautelare se pur in
presenza dei presupposti di cui all'art. 273 c.p.p. Risulta poi preclusa la possibilità di utilizzare un rilevante
strumento di ricerca della prova costituito dalle intercettazioni telefoniche, attesi i limiti di pena costituiti
dall'art. 266 c.p.p.
Infine il nuovo limite edittale massimo della pena comporta una minore prescrizione del reato (sette anni e
mezzo, anziché quindici, nell'ipotesi di cui all'art. 160 comma 2 c.p.).
4. La Cassazione, in linea con quanto finora esposto, con riferimento alla posizione del legale rappresentante
dell'agenzia immobiliare, statuisce esserci un concorso nel reato proprio, in quanto egli avrebbe
positivamente stimolato la condotta del vice sindaco, presentando un'istanza palesemente in contrasto con i
vincoli urbanistici e corredata da una documentazione non idonea, volta ad ottenere una prestazione dal
Comune non dovuta perché mancante la situazione giuridica di fatto.
La suprema Corte analizza la condotta del privato dapprima sotto il punto di vista dell'elemento oggettivo:
ci troviamo di fronte ad una condotta di istigazione-determinazione, ossia una partecipazione morale al
reato proprio. Perché ci sia concorso occorre però che ci sia un'influenza causale dell'istigazione
nell'indirizzare la volontà del vice sindaco, unico soggetto che poteva tenere la condotta descritta nella
fattispecie di cui all'art. 323 c.p., data la formulazione stessa della norma.
La Corte, in conformità con i precedenti giurisprudenziali (29) e la dottrina suesposta, al proposito esclude
che la mera accettazione dell'atto abusivo, che si riveli vantaggioso per il privato, sia indice di una
corresponsabilità. Questa non è nemmeno ravvisabile qualora questi si sia semplicemente limitato a chiedere
un provvedimento che nel concreto si riveli illegittimo (30): difatti al privato, contrariamente al pubblico
ufficiale, non è richiesta la conoscenza delle norme che regolano l'attività amministrativa, né tanto meno egli
è in grado di rappresentarsi quelle situazioni inerenti al pubblico ufficio che possano condizionarne la
legittimità (31).
Occorre infatti un quid pluris, ravvisabile nell'elemento soggettivo, dato dal fatto che «il contesto fattuale, i
rapporti personali tra le parti o altri dati di contorno dimostrino che la presentazione della domanda da
parte del privato è stata preceduta, accompagnata o seguita dalla collusione di un'intesa con il pubblico
funzionario o, comunque da pressioni dirette a sollecitarlo o a persuaderlo al compimento dell'atto
illegittimo» (32).
Non essendoci a monte un accordo tra i privati e il vice sindaco, è importante stabilire l'effettiva incidenza
causale della sollecitazione posta in essere dai privati nel processo formativo dell'atto illegittimo da parte del
p.u., in linea con la dottrina che evidenzia, secondo la teoria della causalità agevolatrice o di rinforzo, come
non possa esserci partecipazione penalmente rilevante a prescindere da un influsso effettivo sull'azione
tipica o sull'evento costitutivo del reato, accertabile ex post.
Infatti, secondo i criteri generali dell'imputazione dolosa, la responsabilità del partecipe estraneo
presuppone, accanto alla rappresentazione e volizione di concorrere con altri alla realizzazione del fatto
tipico, anche la consapevolezza di concorrere con altri nel reato proprio, e quindi la conoscenza della
qualifica posseduta dal soggetto rispetto la quale muta il titolo del reato. In tal caso la sua partecipazione è
piena e perfetta e risponderà ai sensi dell'art. 110 c.p. di concorso doloso nel reato proprio: quanto quivi
accaduto.
E lo sforzo della Corte è tanto di più apprezzabile in quanto, se il privato si fosse limitato ad accettare un atto
illegittimo, pur nella consapevolezza di trarne un vantaggio non dovuto, non si sarebbe potuto dire fondato
il concorso per mancanza dell'elemento oggettivo della condotta.
Gli stessi principi suesposti ci hanno dimostrato come al di là di una condotta che possa essere valutata come
tipica o principale, quella cioè di chi possa definirsi autore del reato, occorre che il partecipe dia un
contributo positivamente riscontrabile tramite un nesso di causalità tra tale condotta atipica e l'evento del
vantaggio patrimoniale non dovuto.
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DIRITTO PENALE II
Lezione dell’8 marzo 2011: l’abuso di ufficio
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Ed è proprio in relazione a tale aspetto che la Corte stavolta fa un lieve passo in avanti: dagli elementi
probatori, attestanti la presenza di un concorso materiale, passa ad analizzare l'elemento soggettivo del
reato, richiedendo espressamente, a differenza delle precedenti pronunce in tema di concorso dell'estraneo
nel reato proprio, che il soggetto sia consapevole dell'illiceità della pretesa avanzata. Questa consapevolezza
deve necessariamente accompagnare la condotta istigatrice di cui si è detto, altrimenti, in mancanza
dell'elemento soggettivo doloso, non avremo una condotta tipica, in quanto il contributo morale da solo non
sarebbe sufficiente a fondare alcuna ipotesi di concorso.
È difficile scindere i due piani: da un lato l'elemento soggettivo della consapevolezza della condotta abusiva
del privato e dall'altro dell'elemento oggettivo di istigazione della condotta del pubblico ufficiale. La stessa
Corte ricava quest'ultimo elemento da alcuni dati di contorno che dimostrano la pressione psicologica
esercitata sul p.u., non essendo provata una precedente intesa: il privato infatti aveva inviato delle istanze
scritte a sostegno della propria pretesa assolutamente inveritiera rispetto al diritto che egli pretendeva di
aver maturato nei confronti dell'amministrazione comunale, documentazione in contrasto con un precedente
parere dei competenti uffici tecnici di cui egli era a conoscenza. Dallo stesso contesto indiziario si ricava poi
anche la presenza dell'elemento soggettivo ovviamente doloso e tale da far scaturire una condanna piena nel
reato dell'intraneo ex art. 110 c.p.: la condotta positiva tenuta dal privato infatti ha costituito una vera e
propria sollecitazione sul pubblico ufficiale, il quale ha agito intenzionalmente per procurare un vantaggio
patrimoniale ai privati coinvolti.
Nel suo complesso la pronuncia, per quanto non innovativa rispetto al passato, si inserisce in quel filone
ristretto che dal 1995 si preoccupa di analizzare il concorso dell'estraneo nel reato proprio d'abuso d'ufficio.
La presa di posizione in merito alla presenza dell'elemento soggettivo, se da un lato vale a dimostrare la
piena coincidenza delle condotte in concorso tra di loro ex art. 110 c.p., dall'altro è pur sempre significativa,
in quanto, per sostenere l'esistenza del dolo non va ad indagare minuziosamente la volontà del colpevole,
sottolineando come l'organo giudicante debba piuttosto guardare a tutte quelle circostanze che possono
assumere un valore sintomatico rispetto l'esistenza della volontà stessa, essendo oggetto del dolo il fatto di
reato in sè, come preveduto e voluto nel suo insieme dall'agente.
La coincidenza indiziaria da cui si ricava l'esistenza dell'elemento oggettivo e dell'elemento soggettivo allora
non è semplicemente causale: essa si palesa quale esplicazione dei principi in materia, che all'interno della
logica processuale valgono a dimostrare la collusione tra i beneficiari della concessione e il p.u.
3
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE - SEZIONE SESTA PENALE – 4 NOVEMBRE 2008, n. 6489
FATTO E DIRITTO
La Corte d'Appello di Milano, con sentenza 27/11/2006, confermava quella in data 4/10/2005 del locale
Tribunale nella parte in cui aveva dichiarato A.G.G. colpevole del delitto di abuso d'ufficio nella forma
tentata .. perché, quale operatore professionale in servizio presso l'Agenzia del Demanio di Milano, per
procurare a sé o ad altri un indebito profitto patrimoniale, si era avvalso illegittimamente di notizie di
ufficio, che dovevano rimanere segrete, nel tentativo di acquistare per sè o per persona da nominare - a
prezzo inferiore a quello di mercato - quattro autocarri confiscati ex L. n. 575 del 1965 e nella disponibilità
dell'Agenzia del Demanio, inviando a tale scopo .. all'amministratrice finanziaria una proposta d'acquisto di
tali beni .. proposta però non andata a buon fine, perché i veicoli erano stati acquistati da altra persona.
Il Giudice distrettuale .. riteneva che la condotta tenuta dall' A. era inquadrarle nel paradigma di cui agli artt.
56 e 323 c.p., ricorrendo tutti gli elementi strutturali di tale illecito: a) aveva violato il divieto di svolgere
attività connesse ai propri compiti istituzionali e incidenti sull'adempimento corretto e imparziale dei doveri
di ufficio, agendo in una palese situazione d'incompatibilità e di conflitto d'interessi (D.P.R. n. 18 del 2002,
art. 4); b) aveva agito nell'esercizio delle sue funzioni di dipendente dell'Agenzia del Demanio e, in tale
veste, aveva preso piena coscienza dell'appartenenza all'Ente predetto dei veicoli che intendeva acquistare;
c) la proposta d'acquisto era chiaramente finalizzata a conseguire un vantaggio patrimoniale ingiusto.
Ha proposto ricorso per Cassazione l'imputato, deducendo: 1) vizio di motivazione connesso al travisamento
della prova, perché, pur essendosi accertato che egli si occupava di devoluzioni allo Stato di beni provenienti
da eredità giacenti o ceduti per debiti d'imposta, si era infondatamente ritenuto che avrebbe trattato anche
procedure relative alla vendita di beni confiscati; 2) vizio di motivazione ed erronea applicazione della legge
penale sotto più profili: a) difetto di qualunque collegamento funzionale tra l'ufficio e l'attività oggetto di
contestazione; b) difetto di qualunque incompatibilità o conflitto di interessi con l'Agenzia del Demanio,
posto che la previsione di cui al D.P.R. n. 18 del 2002, art. 4 attiene al divieto per il personale delle Agenzie
fiscali di svolgere attività lavorative di consulenza e di assistenza in questioni fiscali; c) insussistenza
dell'ingiusto vantaggio patrimoniale o dell'ingiusto danno…
Il ricorso è fondato.
La sentenza impugnata, invero, pur dando atto, sulla base della ricostruzione dei fatti, che l' A. era addetto
ad un settore dell'Agenzia del Demanio diverso da quello che si occupava della vendita dei beni confiscati e
che, quale privato cittadino, si era interessato all'acquisto di alcuni automezzi confiscati, attingendo notizie
dal custode degli stessi e dall'amministratrice finanziaria, inducendosi quindi a formulare la relativa
proposta, perviene alla conclusione di ravvisare in tale condotta gli estremi del tentativo di abuso d'ufficio,
facendo sostanzialmente leva soltanto sull'incompatibilità connessa alla posizione soggettiva rivestita
dall'imputato (dipendente dell'Agenzia del Demanio), senza però farsi carico di verificare e dimostrare la
sussistenza degli elementi strutturali dell'illecito in esame.
Osserva, in contrario, la Corte che, proprio alla luce dei dati fattuali accertati in sede di merito, deve
escludersi che la condotta addebitata all' A. integri gli estremi del tentativo di abuso d'ufficio, esponendosi la
medesima - al limite - a soli rilievi di natura disciplinare.
Si è precisato che l'imputato, dopo essere stato occasionalmente informato della vendita di alcuni automezzi
confiscati, aveva manifestato il suo interesse all'acquisto ed aveva formulato la relativa proposta, facendola
pervenire - Via, fax - all'amministratrice finanziaria. Tale iniziativa pacificamente era stata assunta nella
veste di privato cittadino e non nell'ambito dell'esercizio funzionale dell'ufficio pubblico ricoperto in seno
all'Agenzia del Demanio.
Difetta quindi il presupposto della condotta di abuso. L'art. 323 c.p. infatti, col richiamo alla locuzione "nello
svolgimento delle funzioni o del servizio", richiede che il funzionario realizzi la condotta illecita agendo
nella sua veste di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, con la conseguenza che rimangono
privi di rilievo penale quei comportamenti tenuti come soggetto privato, senza servirsi in alcun modo
dell'attività funzionale svolta. I comportamenti non correlati all'attività funzionale dell'agente possono
integrare una mera violazione del dovere di correttezza, non rilevante per integrare il reato di cui all'art. 323
c.p. …La sentenza impugnata, pertanto, deve essere annullata senza rinvio, perché il fatto non sussiste.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, perché il fatto non sussiste.
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Così deciso in Roma, il 4 novembre 2008. Depositato in Cancelleria il 13 febbraio 2009.
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4
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE - SEZIONE SESTA PENALE – 12 FEBBRAIO 2008, n. 25162
FATTO E DIRITTO
Con la sentenza in epigrafe il G.u.p. del Tribunale di Viterbo dichiarava non luogo a procedere ex art. 425
c.p.p., comma 3, nei confronti di S.S., B.M.A., L.B.I. e L.B.M., imputati del reato di abuso d'ufficio, per avere il
primo, in qualità di funzionario della motorizzazione civile di Viterbo e responsabile del settore
"nazionalizzazione dei veicoli e patenti nautiche", procurato un ingiusto profitto agli altri tre imputati,
titolari e gestori di fatto dell'agenzia di pratiche automobilistiche Sprint, compiendo atti contrari ai doveri
d'ufficio e in violazione di disposizioni di legge, consistiti nel preferenziale disbrigo delle pratiche avviate
dalla Sprint in relazione a richieste di nazionalizzazione di veicoli acquistati all'estero, tra l'altro evadendo
pratiche ancorchè incomplete della documentazione richiesta, eludendo i meccanismi interni previsti per il
protocollo e la presentazione delle domande di nazionalizzazione, rilasciando il permesso provvisorio di
circolazione in luogo della carta di circolazione….
Contro questa decisione il Procuratore della Repubblica di Viterbo ha proposto ricorso per cassazione.
Con un primo motivo ha dedotto l'erronea applicazione dell'art. 97 Cost., avendo il giudice di merito escluso
che la sua violazione possa integrare il reato in contestazione. Secondo parte ricorrente la norma
costituzionale citata non avrebbe solo un carattere programmatico, ma - interpretata come rivolta ad
assicurare l'imparzialità delle condotte dei funzionali pubblici - porrebbe una serie di divieti aventi una
portata direttamente precettiva, quali il divieto di realizzare comportamenti oggettivamente irregolari diretti
ad avvantaggiare o danneggiare gli utenti della pubblica amministrazione, ovvero di stravolgere
completamente la funzione amministrativa esercitata….
I ricorsi devono essere accolti, sebbene per motivi parzialmente diversi da quelli dedotti….
In materia di abuso di ufficio, la condotta del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio che
risulti lesiva del buon funzionamento e della imparzialità dell'azione amministrativa rileva alla duplice
condizione che contrasti con norme specificamente mirate ad inibire o prescrivere la condotta stessa e che
dette norme presentino i caratteri formali ed il regime giuridico della legge o del regolamento….
Nel caso in esame deve ritenersi che ai fini della sussistenza del reato di cui all'art. 323 c.p., possa trovare
applicazione anche l'art. 97 Cost., che stabilisce che i pubblici uffici devono essere organizzati secondo
disposizioni di legge in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione.
Si tratta di principi il cui contenuto non è univoco. Ed infatti la giurisprudenza non è favorevole a
considerare che il reato di abuso d'ufficio possa sussistere nella forma della violazione di uno dei principi di
cui all'art. 97 Cost., in quanto norma generale che non fissa regole di comportamento precise, ma semplici
principi privi di immediato contenuto precettivo (Sez. 6^, 12 ottobre 2005, n. 12769, P.G. in proc. Fucci; Sez.
6^, 8 maggio 2003, n. 35108, Zardini). L'inserimento del citato art. 97 Cost., fra le disposizioni di legge
violabili e rilevanti per l'abuso d'ufficio avrebbe come effetto quello di dilatare eccessivamente l'ambito di
applicazione della norma incriminatrice, finendo con l'incidere anche sul principio di precisione di cui all'art.
25 Cost..
Tali preoccupazione manifestate dalla giurisprudenza e da parte della dottrina appaiono sicuramente
legittime, in quanto è reale il rischio paventato di estendere eccessivamente la portata dell'art. 323 c.p.,
mentre la norma presuppone che l'abuso sia collegato all'inosservanza di previsioni specifiche. Tuttavia, si
osserva che possono essere identificato ipotesi residuali in cui l'art. 97 Cost., nel suo significato più
precettivo, relativo all'imparzialità dell'azione amministrativa, può costituire parametro di riferimento per il
reato di abuso d'ufficio.
Nella sua essenzialità il significato del principio di imparzialità risiede nel diretto riferimento al criterio degli
interessi tutelati.
L'amministrazione deve essere imparziale assicurando tutela ad un interesse nel confronto con l'insieme
degli altri interessi pubblici e privati con i quali deve essere "ponderato". In questo senso l'imparzialità
dell'amministrazione non corrisponde al senso comune del termine, cioè come soggetto al di sopra delle
parti, in quanto la sua azione è rivolta al perseguimento di obiettivi specifici.
Per questo l'imparzialità di cui parla l'art. 97 Cost., si traduce, nel suo nucleo essenziale, nel divieto di
favoritismi, quindi nell'obbligo per l'amministrazione di trattare tutti i soggetti portatori di interessi
tutelabili con la medesima misura. Inteso in questa limitata accezione il principio di imparzialità finisce con
realizzarsi attraverso strumenti diversi, a seconda che venga calato nell'attività della pubblica
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amministrazione ovvero nella sua organizzazione. In quest'ultimo caso, riferito cioè all'aspetto
organizzativo, il principio di imparzialità non avrà mai un immediato contenuto precettivo ai fini del rilievo
in ordine alla sussistenza del reato di abuso d'ufficio, in quanto dovrà essere necessariamente mediato dalla
legge; non così per quanto riguarda l'attività dell'amministrazione, in cui la decisione avviene alla fine di un
procedimento amministrativo in cui il criterio di imparzialità comporta che vengano acquisiti gli interessi e
gli elementi utili ad una deliberazione il più possibile ponderata. In questo caso, l'imparzialità
amministrativa intesa come divieto di favoritismi ha i caratteri e i contenuti precettivi richiesti dall'art. 323
c.p., in quanto impone all'impiegato o al funzionario pubblico una vera e propria regola di comportamento,
di immediata applicazione.
Nel caso in esame, dal capo di imputazione emerge una condotta del funzionario pubblico volta a realizzare
sistematicamente "il preferenziale disbrigo di pratiche" avviate da una sola agenzia, a discapito delle altre
agenzie di pratiche automobilistiche: si tratta di una chiara ipotesi di favoritismo in violazione del principio
fissato dall'art. 97 Cost., che, in quanto riferibile non solo all'organizzazione dell'ufficio, ma alla condotta
della persona fisica del funzionario, può essere presa in considerazione come violazione di legge ai sensi
dell'art. 323 c. p.
Pertanto, la sentenza impugnata deve essere annullata, con rinvio degli atti al Tribunale di Viterbo, perchè,
in persona di un diverso giudice per l'udienza preliminare, proceda ad un nuovo giudizio facendo
applicazione dei principi sopra indicati.
P.Q.M.
annulla la sentenza impugnata e rinvia al Tribunale di Viterbo per nuovo giudizio.
Così deciso in Roma, il 12 febbraio 2008. Depositato in Cancelleria il 19 giugno 2008
Sommario: 1. I termini della questione. - 2. La ratio politico-giuridica del problema. - 3. La prospettiva della
Corte costituzionale. - 4. La violazione di norme di legge può consistere nella violazione di cui all'art. 97
della Costituzione? - 5. Considerazioni conclusive.
1. I TERMINI DELLA QUESTIONE
Con la sentenza che si annota (Sez. VI, 12 febbraio 2008, Sassara), la suprema Corte, esaminando la
contestazione fatta ad un funzionario della motorizzazione civile, al quale era contestato il reato di abuso
d'ufficio di cui all'art. 323 c.p. (1) per aver favorito una agenzia di pratiche auto, curando il disbrigo
preferenziale delle pratiche provenienti da tale agenzia a discapito di quelle provenienti da altre agenzie, la
cui trattazione veniva postergata, dopo avere evidenziato la vigenza di norme di legge ordinaria (rectius
regolamento) che impongono al pubblico impiegato di trattare gli affari tempestivamente e secondo il loro
ordine cronologico (art. 13, comma 5, d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3), afferma il principio che detta alterazione
dell'ordine corretto di trattazione delle pratiche amministrative costituisce comunque anche violazione del
principio di imparzialità dettato dall'art. 97, comma 1, Cost. e che tale norma deve ritenersi immediatamente
precettiva per il dipendente pubblico, e dunque la sua inosservanza realizza immediatamente la violazione
di norma di legge o di regolamento di cui all'art. 323 c.p.
Che l'elemento costitutivo della fattispecie di cui all'art. 323 c.p. consistente nella violazione di legge o di
regolamento possa essere integrato dalla mera violazione del precetto di cui all'art. 97, Cost. è questione
molto controversa in giurisprudenza ed in dottrina, e la Cassazione, nel dare innovativamente con la
sentenza che si annota una risposta positiva al problema, enuncia alcuni ulteriori interessanti corollari:
- nell'ambito dei principi di comportamento del pubblico funzionario enunciati dall'art. 97 Cost., le regole
immediatamente precettive occupano un'area definita dalla suprema Corte come "residuale";
- costituisce infatti violazione di legge immediatamente rilevante ai fini dell'integrazione del reato di cui
all'art. 323 c.p. solo la violazione del precetto di imparzialità dettato dalla norma costituzionale, ma non
anche quella del principio di buon andamento della pubblica amministrazione, pure presente nel testo
dell'art. 97 Cost., e ciò perché solo al principio di imparzialità può essere attribuita una efficacia
immediatamente precettiva (il tutto risolvendosi nel concetto che le varie pratiche devono essere trattate
secondo ordine cronologico e senza favoritismi), laddove il principio di buon andamento della
amministrazione rimane concetto generico e di mero orientamento della condotta del pubblico funzionario;
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- il principio di imparzialità assume tale valenza immediatamente precettiva non nella prospettiva della
attività di organizzazione interna della amministrazione stessa, ma solo nei rapporti fra amministrazione e
terzi, e non nella prospettiva di una comparazione fra l'interesse dell'amministrazione e quello dei terzi bensì
come parametro di equiparazione fra gli interessi dei vari soggetti terzi con i quali l'amministrazione si
rapporta, ovvero, in sintesi, come divieto di favoritismi.
2. LA RATIO POLITICO-GIURIDICA DEL PROBLEMA
La norma dell'art. 323 c.p., nella formulazione originaria del Codice Rocco, sanzionava la condotta del
pubblico funzionario il quale, abusando del suo ufficio e per arrecare danno o vantaggio ad altri,
commetteva qualsiasi fatto non preveduto da una particolare disposizione di legge.
Si trattava di una norma di chiusura del sistema dei delitti dei pubblici funzionari ai danni
dell'amministrazione, caratterizzata ontologicamente dalla mancata precisazione dei fatti capaci di integrarli,
non a caso definita dai commentatori come "abuso innominato".
Il legislatore del 1990, nel modificare la norma nel senso di sanzionare il pubblico funzionario il quale, al fine
di arrecare danni o vantaggi, abusava del suo ufficio, non aveva di certo migliorato il livello di tassatività
della fattispecie.
Ne era nata l'esigenza di una ulteriore modifica di formulazione della fattispecie (si ricordi, per
contestualizzare la situazione, che erano gli anni di "Tangentopoli"), a fronte dell'esigenza di evitare
applicazioni di eccessiva estensione di una norma definita da alcuni "elastica" e "gigantesco contenitore" (2) e
del concreto rischio di sanzionare penalmente ipotesi di eccesso o sviamento di potere da confinare più
correttamente nel quadro degli illeciti amministrativi.
Vari giudici di merito avevano in effetti sollevato questione di legittimità costituzionale di dell'art. 323 c.p.
(nel testo del 1990) per contrasto con l'art. 25, comma 2, Cost., ovvero per l'indeterminatezza della norma
penale. La Corte costituzionale non ebbe modo di pronunciarsi nel merito, in conseguenza delle modifiche
normative intervenute medio tempore (3).
Si arrivava infatti nel frattempo alla riformulazione del testo dell'art. 323 c.p. frutto della l. 16 luglio 1997, n.
234, e veniva inserito quale elemento costitutivo del reato la violazione di una norma di legge o di
regolamento (da individuarsi precisamente nel caso concreto), violazione che doveva avere efficacia causale
specifica rispetto all'evento di danno o di vantaggio.
Si volle dunque impedire una indebita penetrazione del giudice penale nella sfera di discrezionalità della
amministrazione, circoscrivendo l'ambito di operatività della norma.
3. LA PROSPETTIVA DELLA CORTE COSTITUZIONALE
La Corte costituzionale venne di lì a poco chiamata a valutare la legittimità costituzionale del nuovo testo
dell'art. 323 c.p. (quello introdotto nel 1997) in relazione all'art. 97, comma 1, Cost. (4).
La prospettiva è diversa (il nostro tema di indagine riguarda la questione se la violazione di legge di cui
all'art. 323 c.p. possa consistere nella violazione tout court dell'art. 97 Cost.; alla Corte costituzionale fu
chiesto di valutare se il testo dell'art. 323 c.p. fosse conforme ai principi costituzionali di cui all'art. 97 Cost.),
ma le norme in discussione sono le stesse, per cui merita soffermarsi un attimo su tale passaggio
interpretativo.
Le censure mosse dai giudici remittenti erano volte a lamentare che il legislatore, nel ridefinire nel 1997 la
fattispecie dell'abuso d'ufficio, lo avesse fatto in senso eccessivamente restrittivo, escludendo dall'ambito
operativo della norma condotte che, a loro giudizio, avrebbero invece richiesto di essere sanzionate
penalmente.
In particolare si sosteneva che i principi costituzionali di imparzialità e di buon andamento della pubblica
amministrazione di cui all'art. 97, comma 1, Cost., sarebbero stati violati a causa dell'esclusione di taluni tipi
di condotte dall'ambito di applicazione della fattispecie di reato di cui all'art. 323 c.p.
La Corte costituzionale, pronunciandosi sulla questione di legittimità costituzionale così proposta, ebbe a
ricordare che principio essenziale in campo penale, e garanzia fondamentale per la persona, è che non si può
addebitare a titolo di reato alcuna condotta diversa ed ulteriore rispetto a quelle in tal senso esplicitamente
qualificate da una legge in vigore al momento della commissione del fatto (art. 25, comma 2, Cost.).
Solo il legislatore, dunque, può, nel rispetto dei principi della Costituzione, individuare i beni da tutelare
mediante la sanzione penale e le condotte, lesive di tali beni, da assoggettare a pena, nonché stabilire qualità
e quantità delle relative pene edittali.
È il principio nullum crimen nulla poena sine lege, a cui si riconducono sia la riserva di legge vigente in
materia penale sia il principio di determinatezza delle fattispecie penali (non potendosi lasciare che
l'individuazione della condotta incriminata dipenda da valutazioni discrezionali del giudice e quindi non sia
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prevedibile da parte del destinatario della legge penale), sia il divieto di applicazione analogica delle norme
incriminatrici.
Al di fuori dei confini delle fattispecie di reato, come definiti dalla legge, riprende vigore il generale divieto
di incriminazione, anche là dove siano configurabili altre ipotesi di illecito e di responsabilità non sanzionate
penalmente.
Discende da ciò che l'eventuale addebito al legislatore di avere omesso di sanzionare penalmente
determinate condotte, in ipotesi socialmente riprovevoli o dannose, o anche illecite sotto altro profilo, ovvero
di avere troppo restrittivamente definito le fattispecie incriminatrici, lasciandone fuori condotte siffatte, non
può, in linea di principio, tradursi in una censura di legittimità costituzionale della legge, e tanto meno in
una richiesta di "addizione" alla medesima mediante una pronuncia della Corte costituzionale.
Né vale invocare, in contrario, l'ipotetico pregiudizio che potrebbe discendere a beni costituzionalmente
tutelati, quali, nella specie, l'imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione (peraltro
evocati dall'art. 97 Cost. - secondo la Corte - in relazione alla organizzazione dei pubblici uffici).
Le esigenze costituzionali di tutela non si esauriscono infatti nella (eventuale) tutela penale, ben potendo
invece essere soddisfatte con diverse forme di precetti e di sanzioni; ché anzi l'incriminazione costituisce una
extrema ratio, cui il legislatore ricorre quando, nel suo discrezionale apprezzamento, lo ritenga necessario
per l'assenza o l'insufficienza o l' inadeguatezza di altri mezzi di tutela.
4. LA VIOLAZIONE DI NORME DI LEGGE PUÒ CONSISTERE NELLA VIOLAZIONE DI CUI ALL'ART.
97 DELLA COSTITUZIONE?
È opinione consolidata che la nozione di legge e di regolamento di cui all'art. 323 c.p. (nel testo attualmente
vigente) sia nozione tecnica, e dunque ci si debba riferire non alle fonti del diritto in genere bensì a quelle che
possono qualificarsi come leggi e regolamenti in senso proprio.
Leggi sono dunque sia le leggi in senso formale (leggi costituzionali, leggi ordinarie, leggi regionali e delle
province autonome) sia le leggi in senso materiale (decreti legislativi e decreti legge).
Non vi è dunque alcun ostacolo strettamente formale alla possibilità che la violazione di norme di legge
possa consistere nella violazione dell'art. 97 Cost.
Il problema attiene invece al contenuto della predetta norma costituzionale che sembra dettare solo principi
privi di immediato contenuto precettivo.
In dottrina si sono sostenute tanto la tesi favorevole quanto la tesi contraria all'utilizzazione dell'art. 97 Cost.
come violazione di norma di legge rilevante ai sensi dell'art. 323 c.p.
A chi lo ritiene possibile (5), se del caso con la specificazione che ciò sarebbe possibile per i soli casi di attività
di auto-organizzazione dei propri uffici (6), si contrappone l'orientamento contrario, che fa leva, come si
diceva, sull'assenza di contenuto precettivo dell'art. 97 Cost. e sul rischio di una violazione del precetto di
tassatività della norma penale di cui all'art. 25 Cost. (7).
La giurisprudenza si è espressa più volte per la soluzione negativa, per le medesime ragioni enunciate in
dottrina (8).
Merita tuttavia di essere segnalata una sentenza (9), con la quale la suprema Corte ebbe a riconoscere
l'immediata precettività - ai fini di cui all'art. 323 c.p. - dell'art. 97 Cost.: si trattava però del terzo comma
della norma costituzionale, che prevede che si debba accedere al pubblico impiego tramite concorsi, norma
considerata dalla Cassazione di valore programmatico per il legislatore ma immediatamente precettiva per
la pubblica amministrazione.
Va altresì ricordata altra sentenza (10) con la quale la Cassazione riconobbe efficacia immediatamente
precettiva - sempre agli effetti di cui all'art. 323 c.p. - ad una norma che ha indubbiamente un contenuto
generico, quale è quella dell'art. 2043 c.c., riconosciuta, secondo il più recente orientamento della
giurisprudenza civilistica, come norma primaria e non meramente sanzionatoria.
La sentenza in esame compie dunque un revirement rispetto al consolidato indirizzo finora seguito dalla
Cassazione, avendo affermato il principio che i favoritismi nella trattazione delle pratiche amministrative
costituiscono violazione del principio di imparzialità dettato dall'art. 97, comma 1, Cost. e che tale norma
deve ritenersi immediatamente precettiva per il dipendente pubblico, e dunque la sua inosservanza realizza
immediatamente la violazione di norma di legge o di regolamento di cui all'art. 323 c.p.
5. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Dovendo trarre le somme dell'analisi finora effettuata, si può dire che la sentenza in esame propone
un'interpretazione sicuramente innovativa rispetto allo stato della giurisprudenza finora prodottasi sul
punto.
È però vero che la Cassazione si muove con estrema circospezione nella questione controversa, ribadendo
che la norma dell'art. 97 Cost., globalmente intesa, ha carattere puramente programmatico, ma che tuttavia,
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Lezione dell’8 marzo 2011: l’abuso di ufficio
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all'interno della stessa, possono individuarsi aree di precettività, ovvero regole immediatamente e
concretamente vincolanti per i pubblici funzionari.
In questi termini, l'attribuzione del carattere di precettività al divieto di favoritismi nella trattazione delle
pratiche amministrative è affermazione sicuramente da condividere.
Tale enunciazione non comporta infatti alcuna rottura del sistema né presta la norma dell'art. 323 c.p. a
contestazioni di illegittimità costituzionale in relazione al principio di tassatività della norma penale
costituzionalmente garantito dall'art. 25 Cost.
La sentenza in esame riesce infatti, a parere di chi scrive, a trovare un adeguato punto di equilibrio tra le
varie istanze da un lato di tassatività della fattispecie dall'altro di capacità della norma di sanzionare in
modo adeguato le condotte illecite dei pubblici amministratori.
(1) Sull'abuso d'ufficio, in generale, v. i richiami di dottrina riportati nella nota 2 della decisione sub n. 278.
(2) Le espressioni sono di PAGLIARO, in Principi di diritto penale, parte speciale (Delitti dei pubblici ufficiali contro le
pubbliche amministrazioni), Giuffrè, 2000, p. 46 e ss.
(3) C. cost., 7 novembre 1997, n. 327, in G.U., Iª ser. spec., n. 46 del 12 novembre 1997, la quale, preso atto dello ius
superveniens del 1997, restituì gli atti ai giudici rimettenti per una nuova valutazione della rilevanza della questione.
(4) C. cost., 28 dicembre 1998, n. 447, in Giur. cost., 1999, p. 3271.
(5) LAUDI, L'abuso d'ufficio, luci ed ombre di un'attesa riforma. Profili sostanziali, in Dir. pen. proc., 1997, p. 1050;
GROSSO, Condotte ed eventi del delitto di abuso d'ufficio, in Foro it., 1999, V, c. 329 ss.; MANNA, Luci ed ombre nella
nuova fattispecie di abuso d'ufficio, in Ind. pen., 1998, p. 13; PAGLIARO, Principi, cit., p. 243.
(6) SEGRETO-DE LUCA, Delitti, cit. p. 498.
(7) Così BENUSSI, Il nuovo delitti di abuso d'ufficio, Cedam, 1198, p. 67; CARMONA, La nuova figura di abuso d'ufficio:
aspetti di diritto intertemporale, in questa rivista, 1998, pag. 1843; MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, vol. I,
1998, p. 155; PAVAN, La nuova fattispecie di abuso d'ufficio e la norma di cui all'art. 97, comma 1, Cost., in Riv. trim dir.
pen. econ., 1999, p. 283; in questo senso sembrerebbe anche DE FRANCDESCO, La fattispecie dell'abuso d'ufficio: profili
ermeneutici e di politica criminale, in questa rivista, 1999, p. 1633: sostiene infatti l'autore che, nonostante il rango della
fonte da cui promana, sarebbe problematico porre una siffatta statuizione (quella dell'art. 97 Cost.) a fondamento della
struttura e del contenuto di una fattispecie incriminatrice; i principi costituzionali, per quanto vincolanti rispetto alle
fonti subordinate, non possono, proprio in quanto principi e non regole, fornire il sostrato tipico ad una condotta
penalmente rilevante.
(8) Ex plurimis, Sez. II, 4 dicembre 1997, Tosches, in questa rivista, 1998, p. 2332; Sez. VI 24 settembre 2001, Nicita, ivi,
2003, p. 121.
(9) Sez. VI, 26 febbraio 2002, Marcello, in questa rivista, 2003, p. 771.
(10) Sez. VI, 24 febbraio 2000, Genazzani, in questa rivista, 2003, p.511.
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CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE - SEZIONE SESTA PENALE – 14 GIUGNO 2007, n. 37531
FATTO E DIRITTO
Con la sentenza in epigrafe la Corte d'appello di Salerno ha confermato la decisione con cui il Tribunale di
Vallo della Lucania aveva condannato D.L.F. e S.M.L., ciascuno, alla pena di un anno di reclusione per il
reato di abuso di ufficio, nonchè D.A. alla pena di sei mesi di reclusione per il reato di falso di cui all'art. 481
c.p. Con la stessa sentenza il giudice di primo grado aveva disposto la confisca degli immobili e la
distruzione dei grafici allegati al progetto in quanto falsi, nonchè dichiarato non doversi procedere nei
confronti della S. in ordine alle contravvenzioni urbanistiche per intervenuta prescrizione.
Il reato di abuso d'ufficio è stato attribuito al D.L., nella sua qualità di responsabile dell'Ufficio Tecnico del
Comune di Centola, per avere rilasciato in favore della S., a cui sarebbe stato legato da rapporti di natura
politica, un'autorizzazione edilizia per la realizzazione di lavori di manutenzione dei servizi igienici e dei
bungalows nel villaggio turistico (OMISSIS), in carenza di una vera e propria attività istruttoria, sulla base di
una documentazione assolutamente insufficiente, attestante tra l'altro l'esistenza di immobili in realtà
inesistenti, procurando così un ingiusto vantaggio patrimoniale alla stessa S., partecipe del reato proprio del
pubblico funzionario….
2. Contro la sentenza d'appello hanno presentato ricorso per Cassazione i tre imputati, tramite i loro
rispettivi difensori…. In particolare, in ordine alla violazione di legge o di regolamento si rileva:
- che erroneamente i giudici di merito hanno affermato la sussistenza del reato ritenendo violato il
regolamento edilizio comunale, le cui disposizioni aventi ad oggetto i documenti e gli elaborati da allegare
alle istanze non hanno come destinatario il pubblico ufficiale che deve rilasciare l'atto abilitativo, ma semmai
il richiedente, la commissione edilizia e il responsabile del procedimento;…
- che la sentenza risulta sprovvista di motivazione sotto il profilo del necessario nesso di condizionamento
causale tra la violazione di legge e il vantaggio ingiusto che ne sarebbe derivato…
Per quanto riguarda l'individuazione delle norme di legge o di regolamento violate dall'imputato nello
svolgimento delle sue funzioni di responsabile dell'Ufficio tecnico del Comune di Centola può convenirsi
con le conclusioni dei giudici di merito che hanno ritenuto illegittima l'autorizzazione in questione perché
rilasciata in presenza di una domanda gravemente lacunosa e comunque non conforme alle norme del
regolamento edilizio: in sostanza, l'illegittimità del provvedimento autorizzatorio deriverebbe da una palese
carenza nell'attività istruttoria, che avrebbe omesso addirittura di acquisire i necessari pareri degli organi
comunali (commissione edilizia integrata e commissione edilizia comunale) trattandosi di interventi su zona
vincolata.
Questa Corte ha avuto modo di affermare che l'inosservanza del dovere di compiere un'adeguata istruttoria
diretta ad accertare la sussistenza delle condizioni richieste per il rilascio di un'autorizzazione è idonea ad
integrare la violazione di legge, rilevante ai fini della sussistenza del reato di abuso di ufficio, chiarendo che
l'istruttoria amministrativa è comunque imposta da una norma generale sul procedimento amministrativo,
prevista dalla L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 3, costituendo una fase procedimentale essenziale e incidente
direttamente sul momento finale della decisione, in cui i diversi interessi, pubblici, collettivi e privati,
devono essere ponderati (Sez. 6^, 4 novembre 2004, n. 69, Palascino; Sez. 6^, 7 aprile 2005, n. 18149, Fabbri).
In sostanza, l'inosservanza del dovere di istruttoria non può essere considerata violazione di semplici norme
interne al procedimento, prive del carattere formale e del regime giuridico della legge o del regolamento,
come sostiene il ricorrente, in quanto ogni procedimento amministrativo e, in particolar modo, quelli
attinenti alla materia urbanistica, sono regolati da norme primarie generali o di settore che prevedono
necessariamente un'attività di natura istruttoria preliminare alla decisione finale da parte
dell'amministrazione, che deve essere assunta sulla base di una piena conoscenza dei dati di fatto e delle
situazioni giuridiche. … Nella specie, risulta che sia stata omessa una seria e completa attività istruttoria,
tanto che il provvedimento finale ha autorizzato la ristrutturazione di immobili che figuravano descritti nella
richiesta, ma che in realtà erano inesistenti: la sentenza d'appello ha messo in rilievo la carenza della
documentazione allegata, in cui le stesse particelle oggetto della richiesta erano indicate senza alcuna
specificazione circa la localizzazione dei manufatti da ristrutturare, mancando inoltre la sezione dei
fabbricati, indicazioni che invece erano espressamente richieste dal regolamento edilizio …
P.Q.M.
… rigetta i ricorsi di D.A. e D.L.F. che condanna in solido al pagamento delle spese processuali.
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Così deciso in Roma, il 14 giugno 2007. Depositato in Cancelleria il 11 ottobre 2007
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CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE - SEZIONE SESTA PENALE – 25 SETTEMBRE 2008, n. 5026
FATTO E DIRITTO
Con sentenza dell'8 ottobre 2004 n. 786 il Tribunale di Trapani assolveva perché il fatto non costituisce reato
(gli imputati) dall'imputazione di abuso d'ufficio in concorso (artt. 110 e 323 c.p.), commesso in Calatafimi il
12 settembre 2001, perché X quale vicesegretario del Comune di Calatafimi-Segesta e autore del parere sulla
regolarità della proposta di delibera, gli altri imputati come membri del Consiglio comunale, violando le
norme contenute nell'art. 16 D.P.R. n. 191/79, nell'art. 67 D.P.R. n. 268/87 e nell'art. 28 C.C.N.L. del comparto
Regioni e Autonomie locali 14 settembre 2000, regolanti il patrocinio legale in favore dei dipendenti di enti
locali, procuravano intenzionalmente un ingiusto vantaggio a OMISSIS, determinando l'approvazione della
delibera n. 65 del 12 settembre 2001 avente ad oggetto Esame e riconoscimento debiti fuori bilancio per
rimborso spese legali .. e la conseguente liquidazione in favore degli stessi delle intere somme sostenute a
titolo di spese legali in relazione al procedimento penale instaurato nei loro confronti per i reati di tentato
abuso d'ufficio e di tentata truffa ex art. 640 bis c.p. per complessive lire 215.865 nonostante che la Corte di
Cassazione avesse stabilito con sentenza n. 2953 del 15 settembre 1999 che il reato di tentato abuso d'ufficio
si fosse nel frattempo prescritto, affermando nel contempo la piena responsabilità degli imputati per lo
stesso fatto, autorizzavano con l'approvazione della predetta delibera la liquidazione per intero delle spese
legali, procurando ai richiedenti un ingiusto vantaggio patrimoniale.
Il Procuratore Generale presso la Corte d'appello di Palermo appellava la sentenza, sostenendo che la
macroscopica illegittimità della delibera costituiva la prova dell'esistenza della coscienza e volontà richieste
dalla norma incriminatrice a titolo intenzionale e chiedendo che tutti gli imputati fossero dichiarati colpevoli
del reato loro ascritto.
Con sentenza del 17 febbraio 2006 n. 552 la Corte d'appello di Palermo, in riforma della sentenza appellata,
dichiarava gli imputati colpevoli del reato loro ascritto e, previo riconoscimento delle attenuanti generiche, li
condannava alla pena di sei mesi di reclusione, con la sospensione condizionale, nonché alla pena accessoria
dell'interdizione dai pubblici uffici per sei mesi. Avverso la sentenza tutti gli imputati hanno proposto
ricorso per cassazione, chiedendone l'annullamento
….
La L. 23 ottobre 1992 n. 421 delegava al Governo la razionalizzazione e la revisione delle discipline in
materia di pubblico impiego, autorizzandolo, fra l'altro, a prevedere, con uno o più decreti legislativi, salvi i
limiti collegati al perseguimento degli interessi generali cui l'organizzazione e l'azione delle pubbliche
amministrazioni sono indirizzate, che i rapporti di lavoro e di impiego dei dipendenti delle amministrazioni
dello Stato e degli altri enti di cui agli artt. 1 c. 1 e 26 c. 1 L. 29 marzo 1983 n. 93 (legge quadro sul pubblico
impiego) - ossia le amministrazioni dello Stato, anche a ordinamento autonomo, delle regioni a statuto
ordinario e speciale, le province autonome di Trento e di Bolzano, le province, i comuni e tutti gli altri enti
pubblici non economici nazionali, regionali e locali - fossero ricondotti sotto la disciplina del diritto civile e
fossero regolati mediante contratti individuali e collettivi. In attuazione della delega, il secondo comma
dell'art. 2 del D.L.vo 3 febbraio 1993 n. 29, concernente la razionalizzazione dell'organizzazione delle
amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego a norma dell'art. 2 L.
23 ottobre 1992 n. 421, modificato dal D.L.vo. 31 marzo 1998 n. 80 e poi trasfuso nell'art. 2 del D.L.vo. 30
marzo 2001 n. 165, ha stabilito che i rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono
disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del Libro V del codice civile e dalle leggi sul rapporto di
lavoro subordinato nell'impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel presente decreto, così
privatizzando il rapporto di pubblico impiego.
In conformità con l'inquadramento privatistico di tale rapporto lo stesso comma sancisce la prevalenza delle
disposizioni della contrattazione collettiva rispetto alle norme di legge, di regolamento o di statuto
successivamente emanate, che introducano discipline dei rapporti di lavoro la cui applicabilità sia limitata ai
dipendenti delle amministrazioni pubbliche o a categorie di essi, prevedendone la derogabilità da parte di
successivi contratti o accordi collettivi, e, per la parte derogata, la non ulteriore applicabilità, salvo che la
legge disponga espressamente in senso contrario.
Nel meccanismo legislativo adottato il contratto collettivo come tale - per la sua natura di istituto di diritto
privato, riconducibile all'autonomia negoziale delle parti contraenti, e non perché recepito nella legge in
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senso formale con conseguente attribuzione di efficacia normativa erga omnes - assume il valore e funzione
di fonte regolatrice primaria del rapporto di pubblico impiego.
Conseguenza della disciplina contrattualistica del rapporto è che l'inosservanza o la mancata o erronea
applicazione delle norme di contratto collettivo per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche non
costituisce violazione di legge o di regolamento, idonea a integrare la fattispecie del reato di abuso d'ufficio
(Cass., Sez. 6, 3 novembre 2005 n. 13511, ric. De Gaetano).
Nel quadro della disciplina contrattualistica dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche rientra la norma
relativa al patrocinio legale del dipendente per fatti connessi all'espletamento dei compiti d'ufficio, che, già
presente nell'art. 16 D.P.R. 1 giugno 1979 n. 191 sulla disciplina del rapporto di lavoro del personale degli
enti locali e nell'art. 67 D.P.R. 13 maggio 1987 n. 268, recante norme risultanti dalla disciplina prevista
dall'accordo sindacale, per il triennio 1985-87, relativo al comparto del personale degli enti locali, è stata
successivamente recepita nell'art. 28 C.C.N.L. 14 settembre 2000 e, in conformità alla disposizione del citato
art. 2 D.L.vo 1993 n. 29 e succ. mod., trova in questo la sua fonte regolatrice, la cui violazione non riguarda
pertanto una norma di legge o di regolamento, bensì una disposizione di natura patrizia di diritto privato,
inidonea come tale a costituire il presupposto per la configurazione del reato di abuso d'ufficio.
Nella specie viene meno, di conseguenza, il presupposto giuridico individuato nella sentenza impugnata per
ritenere la sussistenza dell'abuso d'ufficio contestato, per cui in ordine alla relativa censura il ricorso risulta
fondato, restando superato l'esame degli altri motivi, subordinati rispetto a quello che ha trovato
accoglimento. Pertanto la sentenza impugnata dev'essere annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste.
P.Q.M.
la Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.
(1) Sul tema si segnalano Sez. VI, 3 novembre 2005, S., in Dir. e giust., 2006, p. 109; Sez. VI, 16 dicembre 2002, S., in questa
rivista, 2003, p. 863; Sez. lav., 17 agosto 2000, Ferr. St. c/o Gentili, in Giust. civ. Mass., 2000, p. 1810; C. cost., 16 ottobre
1997, Snals c/o Pres. Cons., in Mass. giur. lav., 1998, p. 9. Vedasi, anche, Sez. VI, 17 ottobre 2007, C., in Foro it., 2008, c.
473. Fra la giurisprudenza di merito, App. Napoli, 8 giugno 2006, G.L., inedita; Trib. Caltanissetta, 2 marzo 2004, T., in
Foro it., 2005, II, c. 62.
(2) Sul punto, in particolare, App. Napoli, 8 giugno 2006, G.L., inedita.
(3) Sez. VI, 3 novembre 2005, S., in Dir. e giust., 2006, p. 109. In forza di tale ragionamento, la Corte, nell'occasione, ha
quindi ritenuto non condivisibili le conclusioni del giudice di merito, secondo il quale fosse proprio la previsione ex lege
della derogabilità del C.C.N.L. alle norme di legge o di regolamento a conferire al C.C.N.L. forza di legge. La previsione
della derogabilità del C.C.N.L. alla legge - a detta del giudice di merito - avrebbe infatti conferito al C.C.N.L. un rango di
pari dignità rispetto a quello di una fonte legislativa ordinaria.
(4) Sul tema, in dottrina, si segnalano, in particolare D'AVIRRO, L'abuso d'ufficio, Giuffré, 1997, p. 51 ss.;
GAMBARDELLA, Considerazioni sulla "violazione di legge" nel nuovo delitto di abuso d'ufficio, in questa rivista, 1998,
p. 2335 ss.; GAMBARDELLA, Abuso d'ufficio e concessione edilizia illegittima: il problema delle norme di legge a
precetto generico o incompleto, in questa rivista, 2000, p. 350 ss.; MANES, Abuso d'ufficio, violazione di legge ed eccesso
di potere, in Foro it., 1998, II, c. 390 ss.; PAGLIARO, Principi di diritto penale, Giuffré, 1998, p. 239 ss.; SANTANGELO,
L'abuso d'ufficio, in Giur. merito, 2003, p. 1021 ss.
(5) Sez. II, 4 dicembre 1997, Toshes, in questa rivista, 1998, p. 2332, con nota di GAMBARDELLA. Sul tema, in dottrina,
anche LA GRECA, La nuova figura di abuso d'ufficio: questioni applicative, in Foro it., 1998, II, c. 381 ss.; MANES,
Abuso d'ufficio, violazione di legge ed eccesso di potere, ivi, 1998, II, c. 390 ss.
(6) Sez. VI, 28 aprile 1999, Nacci, in questa rivista, 2000, p. 2241; Sez. VI, 1° marzo 1999, Scarsi, in questa rivista, 2000, p.
867. Ancora, di recente, Sez. VI, 7 aprile 2005, F.L., ivi, 2007, p. 178.
(7) BARILE, CHELI, GRASSI, Istituzioni di diritto pubblico, Cedam, 1955, p. 5.
(8) Trib. Milano, 21 ottobre 1998, Scuderi, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2000, p. 789, con nota di MAZZINI.
(9) Sez. VI, 2 ottobre 1998, Tilesi, in questa rivista, 1999, p. 2114.
(10) TANDA, Abuso d'ufficio: eccesso di potere e violazione di legge o regolamento, in questa rivista, 1999, p. 2128.
Secondo l'Autore basti infatti pensare al caso dei decreti legge e dei decreti legislativi, per la cui emanazione il Governo,
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al quale il potere legislativo è di norma alieno, necessita di una doppia approvazione da parte del Parlamento, unico
vero titolare del potere legislativo, affinché - in tal modo - si possa sanare la frattura che la procedura di approvazione
dei decreti legge e dei decreti legislativi apportano alla "normale" ripartizione delle funzioni dello Stato.
(11) Trib. Caltanissetta, 2 marzo 2004, T., in Foro it., 2005, II, c. 62.
(12) C. cost., 16 ottobre 1997, Snals c/o Pres. Cons., in Lav. nelle p.a., 1998, p. 131.
(13) VIDIRI, L'interpretazione del contratto collettivo nel settore privato e nel settore pubblico, in Riv. it. dir. lav., 2003, p.
81 ss.
(14) A favore della natura "privatistica" del C.C.N.L. del settore pubblico e della sua riconducibilità fra i C.C.N.L. di
diritto comune si segnala, in dottrina, VALLEBONA, Le questioni di interpretazione, validità ed efficacia dei contratti
collettivi nazionali del settore pubblico, in Giur. cost., 1998, p. 257. In particolare, tale autorevole dottrina esclude che i
C.C.N.L. del settore pubblico possano essere considerati fonte di diritto oggettivo in quanto rimangono, per il loro
meccanismo di formazione, contratti privatistici. Nello stesso senso, anche, VACCARELLA, Appunti sul contenzioso del
lavoro dopo la privatizzazione del pubblico impiego e sull'arbitrato in materia di lavoro, in Annuario, in Dir. lav., 1998,
p. 715.
(15) Nello stesso senso, App. Napoli, 8 giugno 2006, G.L., inedita.
(16) Si segnala Sez. lav., 17 agosto 2000, Ferr. St. c/o Gentili, in Giust. civ. Mass., 2000, p. 1810.
(17) Sez. VI, 16 dicembre 2002, S., in questa rivista, 2004, p. 863. In particolare, la Corte, in applicazione del predetto
principio, ha ritenuto insussistente l'ipotesi delittuosa a carico del capo di un ente pubblico economico il quale, non
potendo stipulare contratti di lavoro a tempo indeterminato, si era avvalso dei rinnovi di contratti di lavoro a tempo
determinato, condotta sintomatica rilevante solo sotto il profilo amministrativistico. Contra, Trib. Napoli, 24 settembre
1997, Federico, ivi, 1998, p. 1242. In dottrina, PAGLIARO, L'antico problema dei confini fra eccesso di potere ed abuso
d'ufficio, in Dir. pen. proc., 1999, p. 108 ss. In generale, sul tema, Gambardella, Considerazioni sulla "violazione di norme
di legge" nel nuovo delitto di abuso d'ufficio, in questa rivista, 1998, p. 2341 ss.; TANDA, Abuso d'ufficio: eccesso di
potere e violazione di legge o regolamento, ivi, 1999, p. 2119.
(18) Sul punto si rinvia al paragrafo sub 1.
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CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE - SEZIONE SESTA PENALE – 24 APRILE 2008, n. 27936
FATTO E DIRITTO
Va preliminarmente osservato, ai fini di una corretta comprensione dei termini della vicenda, che nei capi di
imputazione per cui vi è stata duplice conforme affermazione di responsabilità (capo a.esclusi i fatti del 1995
e capo b la violazione dell'art. 323 c.p.:
- non è stata fatta derivare dalla mera violazione delle norme di cui al D.M. 31 marzo 1994, come sostituito
dal D.M. 28 dicembre 2000 (Codice di comportamento dei dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni), ed
in particolare dalla specifica e reale inottemperanza ai principi di imparzialità e indipendenza, nonchè alla
regola dell'obbligo dell'astensione, così come fissati dai disposti del D.M. 28 dicembre 2000, artt. 2 e 6;
- ma è stata fondata pure sull'inottemperanza al dovere di astensione, il quale si imponeva - a giudizio della
Corte toscana - anche e indipendentemente da norme specifiche che (come quelle citate) prevedessero tale
obbligo di astensione, ogniqualvolta si potesse profilare in concreto un conflitto patente tra interessi pubblici
e privati.
In buona sostanza, per i giudici di merito, l'interesse privato del Dr. S. è entrato in stridente conflitto con
quello pubblico "atteso che, quand'anche le attrezzature del presidio ospedaliero di Nottola non avessero
consentito l'esecuzione dell'esame del fondo dell'occhio, nulla autorizzava il ricorrente ad indirizzare i
pazienti al suo studio privato (pag.10 sentenza Corte di appello), con ciò perseguendo e lucrando
intenzionalmente un ingiusto vantaggio patrimoniale, rappresentato dalle somme versategli dai clienti,
visitati nel suo studio privato.
Con un primo motivo di impugnazione la ricorrente difesa deduce la violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1,
lettera b) per inosservanza o erronea applicazione della legge penale, con riferimento all'art. 323 c.p. (abuso
d'ufficio), art. 357 c.p. (nozione di pubblico ufficiale), art. 358 c.p. (nozione di persona incaricata di pubblico
servizio), trattandosi di fatti avvenuti nell'ordinaria gestione del suo rapporto di lavoro con l'azienda
sanitaria.
L'errore in diritto, che si censura nella motivazione dei giudici di merito, sarebbe consistito nell'affermazione
che il dr. S., invitando alcuni dei pazienti - che aveva visitato presso la struttura pubblica- a recarsi nel suo
laboratorio privato, avrebbe in tal modo formato e manifestato, sia pure deviandola, la volontà della
Pubblica Amministrazione in materia di pubblica assistenza sanitaria, nei confronti dei pazienti stessi.
Secondo la tesi del ricorrente, l'indicazione del proprio laboratorio privato, quale sede di successivi
approfondimenti diagnostici (non realizzabili in quella struttura pubblica per assenza dei corrispondenti
strumenti sanitari), proprio perché manifestata a prestazione pubblicistica esaurita, rientrerebbe "pieno jure"
nelle legittime facoltà del medico dipendente dell'AUSL. Né sotto tale profilo soccorrerebbe il Codice di
comportamento dei dipendenti pubblici, in punto di violazione dell'obbligo di astensione, dato che tale
codice, secondo la migliore dottrina, non concretizza un regolamento pubblicistico. Da ciò la ricorrenza di
una condotta che ha semmai violato disposizioni di diritto privato, nell'ambito di un rapporto di lavoro
pacificamente disciplinato dal diritto privato stesso.
Con un secondo motivo di impugnazione la ricorrente difesa deduce la violazione dell'art. 606 c.p.p., comma
1 lettera b) per inosservanza o erronea applicazione degli artt. 323 c.p., D.Lgs. n. 509 del 1992, 15 quater,
quinquies e sexies come modificati dal D.Lgs. n. 229 del 1999 e D.Lgs. n. 254 del 2000, per ciò che attiene alla
pretesa violazione del dovere di astensione. Ribadisce sul punto il ricorso che, essendo stata la condotta
contestata al S., realizzata dopo il compimento dell'atto d'ufficio, più che di "dovere di astensione", si versa
in ipotesi di "conflitto di interessi sorto nell'esercizio dell'attività lavorativa" che è realtà concettualmente ed
ontologicamente diversa dal dovere di astensione e comunque estranea alla fattispecie tipica dell'art. 323
c.p., il tutto considerando:
a) che l'imputato non ha deviato i pazienti dalla struttura pubblica alla privata con ciò omettendo
dolosamente atti del proprio ufficio;
b) che l'imputato era autorizzato ad esercitare l'attività professionale privata extramuraria in due ambulatori,
uno dei quali nel territorio della ASL n. (OMISSIS) dal quale egli dipendeva;
c) che il legislatore ha previsto siffatto conflitto di interessi stabilendo all'art. 15 sexies che le ASL stabiliscono
sia i volumi che le tipologie di attività che i singoli dirigenti sono tenuti ad assicurare, nonchè le sedi
operative in cui le stesse devono essere effettuate;
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Lezione dell’8 marzo 2011: l’abuso di ufficio
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d) che pertanto in tale contesto non ha più rilievo il connotato della "esclusività" e rimane attenuato quello
della "fedeltà, non- concorrenza".
Il non aver tenuto conto di tali coordinate avrebbe quindi determinato un'apodittica ed immotivata
asserzione di violazione del dovere di astensione.
I due motivi, naturalmente collegati, appaiono entrambi del tutto infondati.
Va ricordato infatti che, nel testo del novellato art. 323 c.p., l'abuso è fattispecie criminosa di evento, essendo
necessario che la condotta del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio (concretantesi in
violazione di legge o di regolamenti, ovvero nell'omissione del dovere di astensione) provochi, secondo
l'intenzione dell'agente, un danno ingiusto ad altri, oppure un vantaggio ingiusto necessariamente
patrimoniale al soggetto pubblico o ad altri (Cass. Penale sez. sez. 6, U.P. 25.3.98 Urso): la nuova
formulazione della norma incriminatrice ha infatti trasformato il delitto, da reato di mera azione, in reato di
azione e di evento (Cass. Penale sez. sez. 6, U.P. 27.4.98 P.G. e Celico).
Inoltre, la locuzione "nello svolgimento della funzione o del servizio", mentre elimina alcune incertezze e
ambiguità proprie della precedente formulazione, risulta tale da includere tutte le condotte che siano
comunque espressione dell'attività pubblica affidata all'agente (Cass. Penale sez. 6, U.P. 7.4.98 Caporale).
Orbene, sostiene il ricorso, che il dr. S., nell'ambito della sua attività di lavoro e fuori di ogni esercizio di
potestà pubbliche, quando la prestazione istituzionale era stata ultimata, ha sì dato indicazioni ai pazienti
(circa la praticabilità dell'approfondimento diagnostico nel suo laboratorio privato), ma tali "indicazioni"
"costituirebbero manifestazioni di volontà privata che, inserendosi nell'ordinaria attività di lavoro, con mero
rapporto di occasionante, apparterrebbero all'ambito del rapporto di lavoro - di diritto privato e comune -
quale novellato dal D.Lgs. n. 29 del 1993 e successive modifiche".
L'assunto non è convincente ed è contrario ad una corretta percezione e collocazione dogmatica, ai fini
penalistici, del rapporto medico-paziente, nonchè dello sviluppo dinamico di detta relazione "asimmetrica",
notoriamente connotata da una posizione psicologicamente dominante del sanitario.
Invero, l'accettazione del paziente in una struttura deputata a fornire assistenza sanitario-ospedaliera, ai fini
del ricovero, oppure, come nella specie, per una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un
contratto di prestazione d'opera atipico di spedalità, in base al quale la struttura pubblica, tramite i suoi
organi, è tenuta ad una prestazione complessa, la quale:
a) non si esaurisce nella effettuazione delle cure mediche e di quelle chirurgiche (generali e specialistiche) già
prescritte dalla L. n. 132 del 1968, art. 2;
b) ma si estende ad una serie di altre prestazioni, quali la messa a disposizione di personale medico
ausiliario e di personale paramedico, di medicinali, e di tutte le attrezzature tecniche necessarie, nonchè di
quelle "lato sensu" alberghiere (cfr. in termini: Cassazione Civile, Sez. 3, Sentenza n. 8826 del 13/04/2007 Rv.
599205, Presidente: Vittoria P. Estensore: Scarano).
In tale quadro, di "contratto di prestazione d'opera atipico di spedalità", "la visita ambulatoriale", nella
struttura pubblica di assistenza sanitario-ospedaliera, va rettamente intesa come condotta che esprime
l'attività pubblica affidata al sanitario, e che non si esaurisce con il mero accertamento diagnostico e/o
strumentale del medico, accompagnato dalla comunicazione dei risultati e la programmazione dell'eventuale
intervento terapeutico.
La condotta di rilievo pubblico, infatti, sì estende, di necessità, alla fase del "dopo visita" nella misura in cui -
come nell'odierna vicenda - con tale fase successiva, che può comportare calendarizzazione di nuove visite o
di altri e diversi accertamenti di verifica e di controllo della stessa diagnosi, o di monitoraggio dell'efficacia
dei rimedi apprestati:
a) si porta a completamento il programma di diagnosi-cura del paziente stesso originato dall'esame clinico,
la definizione della patologia e del suo grado;
b) se ne verifica l'efficacia, o se ne correggono le linee, in funzione della risposta individuale;
c) si danno sul punto le opportune indicazioni (ad es.
approfondimenti tecnico-strumentali, come nella fattispecie) che vengono a saldarsi inscindibilmente, senza
fratture logiche o pragmatiche, con la visita medica stessa.
Quindi, "il cosa fare ancora, dopo la visita" non può essere estraneo alla nozione stessa "visita", la quale
appunto non si conclude affatto con la definizione formale dell'esame clinico in ospedale, ma si accompagna
a tutto ciò che si possa rendere ulteriormente necessario, come già detto, in funzione dell'utile perfezione
dell'atto medico (nella specie l'esame del fondo oculare), della conferma della diagnosi-terapia, nonchè della
garanzia del suo buon esito.
Il dopo-visita, in tale contesto, costituisce pertanto un "unicum" e non frammentabile segmento dell'operare
del medico, preposto al pubblico servizio sanitario.
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Da ciò consegue che la prestazione pubblicistica del dr. S., quale organo medico dell'Asl (OMISSIS), non si
era per nulla esaurita nel momento in cui egli invitava i pazienti (che visitava presso il Presidio Ospedaliero
di Nottola) nel suo ambulatorio privato di (OMISSIS), per l'esame - non potuto eseguire in quella struttura
del "fondo oculare", essendo egli nel pieno svolgimento delle sue funzioni, quali disciplinate da norme di
diritto pubblico.
Va quindi ribadito il principio, in linea con la giurisprudenza di questa Sezione, che la condotta del medico
specialista di una struttura pubblica, il quale per conseguire un vantaggio patrimoniale, in violazione del
dovere di astensione di cui al D.M. 31 marzo 1994, art. 6, indirizzi un paziente verso il laboratorio di cui egli
sia socio, per l'espletamento di un esame che si sarebbe potuto eseguire anche presso una struttura pubblica
della stessa città, integra il delitto di abuso di ufficio (Sez. 6, 240666/2001 Rv. 219578, Caminati; conformi: N.
3391 del 1996 Rv. 204495, N. 6839 del 1999 Rv. 214310, N. 11831 del 1999 Rv. 214554).
Nè nella specie può sostenersi che, essendo il Presidio di Nottola privo della strumentazione specifica per
svolgere l'esame del fondo oculare, il S. era autorizzato ad inviare i pazienti nel suo ambulatorio, posto che il
medesimo identico esame ben poteva essere espletato nei contigui presidi ospedalieri della stessa ASL
(OMISSIS), ben noti al ricorrente, e raggiungibili senza particolari disagi dai pazienti, attesa la prossimità
territoriale.
In tale contesto operativo, appare del tutto irrilevante, ai fini della sussistenza del delitto de quo, la
circostanza che l'imputato fosse autorizzato ad esercitare attività professionale privata extramuraria in due
ambulatori, uno dei quali sito nel territorio della Ausl (OMISSIS), tenuto conto che tale "licenza" non lo
esimeva affatto dall'assicurare sempre l'interesse della Pubblica Amministrazione dalla quale dipendeva (cfr.
su tale principio: Cass. Penale sez. 5, 3704/1999, Rv. 213027 imputato Sanna).
La prospettata attenuazione dell'obbligo di "fedeltà" e di "non concorrenza" non può essere infatti
paradossalmente dilatata sino a comprendere l'intenzionale e provocato sviamento dei pazienti (in
violazione dell'obbligo di astensione), i quali invece, in un auspicabile e nella specie non realizzato quadro di
ricercata liceità, dovevano essere "inviati" in uno dei vicini Presidi ospedalieri, dotati appunto dello
strumento ritenuto dal dr. S. funzionale per il completamento dell'intervento diagnostico- terapeutico di
competenza…
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Condanna altresì il ricorrente
a rimborsare alla parte civile A.U.S.L. n. (OMISSIS) di Siena le spese del grado che liquida in complessivi
Euro 2.497,50 oltre I.V.A. e C.P.A.
Così deciso in Roma, il 24 aprile 2008. Depositato in Cancelleria il 8 luglio 2008
I CONSIGLI INTERESSATI DEL MEDICO PUBBLICO SUBITO DOPO UNA VISITA OSPEDALIERA
Sommario: 1. I termini della questione. - 2. La fine della visita non segna la fine dello svolgimento della
funzione pubblica. - 3. La doppia ingiustizia dell'abuso d'ufficio.
1. I TERMINI DELLA QUESTIONE
Con la sentenza che si commenta (Sez. VI, 24 aprile 2008, Simone), la Cassazione affronta la questione della
illiceità del dirottamento di pazienti da struttura medica pubblica a struttura privata e della configurabilità
del reato di abuso d'ufficio (1).
È orientamento giurisprudenziale consolidato che tale condotta integri il reato di cui all'art. 323 c.p. (2).
Antecedentemente alla riforma dei delitti contro la pubblica amministrazione operata dalla l. 26 aprile 1990
n.86, la condotta era altrettanto pacificamente ricondotta alla fattispecie dell'interesse privato in atti d'ufficio,
di cui all'art. 324 c.p. (3).
La sentenza in esame si caratterizza tuttavia per l'innovatività degli argomenti affrontati su sollecitazione
dell'imputato ricorrente.
In sostanza la suprema Corte ha affermato essere irrilevante che:
- il consiglio di recarsi presso struttura privata sia stato dato dopo la fine della visita, non venendo meno
l'esercizio della funzione pubblica con la mera comunicazione dell'esito del singolo esame diagnostico;
- il medico fosse autorizzato allo svolgimento di attività libero professionale cosiddetta extra moenia;
- gli ulteriori accertamenti non fossero espletabili nella stessa struttura dove si era svolta la visita, potendo
però essere svolti (oltre che presso lo studio privato dell'imputato) in altro presidio della stessa A.S.L.
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La Cassazione ha inoltre agganciato la consumazione del reato al fatto che i pazienti avessero dovuto pagare
nella struttura privata ove erano stati dirottati somme maggiori di quelle che avrebbero pagato presso la
A.S.L.
2. LA FINE DELLA VISITA NON SEGNA LA FINE DELLO SVOLGIMENTO DELLA FUNZIONE
PUBBLICA
La difesa dell'imputato aveva dunque sostenuto che la singola visita medica finisce nel momento in cui viene
comunicato al paziente l'esito dell'accertamento compiuto. Dopo tale momento il medico cesserebbe di
svolgere una funzione pubblica e sarebbe penalmente irrilevante il fatto che lo stesso consigli al paziente di
recarsi presso il suo studio per ulteriori approfondimenti diagnostici.
L'argomento appare ictu oculi insostenibile, ma la suprema Corte ha compiuto un apprezzabile sforzo
interpretativo per dare una risposta giuridicamente esauriente al rigetto della tesi difensiva.
Ci si è così ricollegati all'inquadramento civilistico della fattispecie (l'accettazione del paziente in una
struttura deputata a fornire assistenza sanitario-ospedaliera, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale,
comporta la conclusione di un contratto di prestazione d'opera atipico di spedalità, in base alla quale la
stessa è tenuta ad una prestazione complessa, che non si esaurisce nella effettuazione delle cure mediche e di
quelle chirurgiche - generali e specialistiche - già prescritte dall'art. 2 legge n. 132 del 1968, ma si estende ad
una serie di altre prestazioni, quali la messa a disposizione di personale medico ausiliario e di personale
paramedico, di medicinali, e di tutte le attrezzature tecniche necessarie, nonché di quelle lato sensu
alberghiere) (4).
Da tale qualificazione (che nella giurisprudenza civile valeva a dire il vero soprattutto a segnare i profili
della concorrente responsabilità del singolo medico e della struttura pubblica) la sentenza in esame trae la
conseguenza che, una volta che un paziente si sia affidato alla struttura pubblica per effettuazione di un
esame diagnostico, il rapporto contrattuale così instauratosi non cessa con l'espletamento dell'esame stesso,
in quanto la struttura pubblica si deve fare carico della programmazione ed effettuazione di tutti gli ulteriori
accertamenti e cure conseguentemente necessari.
Si tratta di un'affermazione del tutto condivisibile, che ha il pregio di dare veste giuridica ad una evidenza di
fatto.
3. LA DOPPIA INGIUSTIZIA DELL'ABUSO D'UFFICIO
Altra innovativa affermazione presente nell'esposizione argomentativa della sentenza che si annota (rispetto
alle precedenti sentenze che comunque qualificavano come abuso d'ufficio la condotta del medico pubblico
che dirottava pazienti verso strutture private) è l'osservazione che, ai fini della ravvisabilità del delitto di
abuso d'ufficio, occorre non solo che il pubblico ufficiale abbia posto in essere una condotta illegittima, ma
anche che il danno o vantaggio causati siano suscettibili di essere valutati come ingiusti in sé, ovvero non
semplicemente come frutto della attività illegittima, ma in quanto non dovuti in base al diritto oggettivo
regolante la materia.
Detto in altri termini: il pubblico ufficiale che dirotta pazienti presso il proprio ambulatorio privato compie
un'attività illegittima, ma questo non basta per dire che sussiste il reato di abuso d'ufficio; occorre verificare
che si sia verificato anche un vantaggio od un danno ingiusti in sé.
La necessità di un approfondimento della questione nasce dal fatto che l'imputato era autorizzato a svolgere
anche attività libero professionale (c.d. extra moenia), e dunque si potrebbe anche ipotizzare che quanto
ricavato a fronte di una attività in sé legittima non costituisca un vantaggio ingiusto.
Il requisito dell'ingiustizia è stato introdotto nella formulazione della norma dell'art. 323 c.p. frutto della l. 26
aprile 1990 n. 86, ove qualificava la fattispecie in termini di dolo specifico ("al fine di procurare a sé o ad altri
un ingiusto vantaggio ...") anche se in dottrina e giurisprudenza si era già in precedenza sostenuto che tale
requisito fosse implicitamente contenuto nella fattispecie.
L'elemento dell'ingiustizia del vantaggio viene poi ribadito nella formulazione dell'art. 323 c.p. conseguente
alla l. 16 luglio 1997, n. 234, che ha trasferito tale requisito dall'elemento soggettivo all'elemento oggettivo,
nella sfera dell'evento.
In dottrina si è sostenuto da parte di autorevoli autori (5) che quando l'atto posto in essere dal pubblico
ufficiale risulta illegittimo, il profitto o il danno che ne conseguono non possono che essere ingiusti, e
dunque il requisito dell'ingiustizia è, nella formulazione normativa, meramente pleonastico. Si parla a tale
proposito di una c.d. illiceità espressa.
Altra parte della dottrina (6) ritiene che se il legislatore ha usato il termine "ingiustizia", a tale termine si
deve dare autonoma rilevanza rispetto alla illegittimità (per violazione di norme di legge o di regolamento)
della condotta del pubblico ufficiale, per evitare una interpretatio abrogans. Alla tesi dell'illiceità espressa si
contrappone pertanto quella della illiceità speciale (caratteristica di quei casi nei quali un dato elemento della
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fattispecie si realizza se ed in quanto via sia un contrasto con una norma extrapenale cui fa rinvio la norma
incriminatrice). Si dice infatti, con ciò mediando elaborazioni civilistiche, che il danno o vantaggio causati
con la condotta di cui all'art. 323 c.p. per essere ingiusti devono essere prodotti non iure ed essere anche
contra ius; la illegittimità della condotta qualifica la stessa come non iure data, il danno od il vantaggio
devono essere contra ius, nel senso che se ne deve autonomamente valutare, con riferimento al risultato
ottenuto in sé, l'ingiustizia. Si esemplifica avendo a mente fattispecie nelle quali a fronte di una condotta
illegittima, non si ravvisa un'ingiustizia del profitto, come nel caso del sindaco che rilasci una concessione
edilizia senza aver acquisito il parere della commissione edilizia, in favore di un soggetto che ne aveva
comunque diritto. Si possono d'altronde ipotizzare anche casi di condotte legittime che producono vantaggi
ingiusti. Ne consegue la necessità di effettuare due distinte valutazioni, la prima sulla abusività-illegittimità
della condotta, per contrasto con norme di legge o regolamento, la seconda sull'ingiustizia del danno. È
proprio su questi presupposti che la giurisprudenza ha elaborato il requisito della "doppia ingiustizia"
dell'abuso d'ufficio (ingiusta deve essere la condotta, ingiusto deve essere l'evento di vantaggio patrimoniale
che ne consegue).
Se dunque in alcune risalenti sentenze (7) si era detto che era sufficiente che il vantaggio non fosse dovuto
(iniuste datum), non richiedendosi che fosse anche turpiter datum, le sentenze successive (8) si consolidano
sull'affermazione della necessità della "doppia ingiustizia". Nel ragionamento giurisprudenziale si determina
una restrizione dell'area tutelata dall'illecito penale, non risultando puniti gli abusi finalizzati a procurare un
vantaggio lecito.
Si è pertanto affermato in dottrina (9) che l'ingiustizia dell'evento rappresenta la nota di disvalore che
differenzia ciò che è penalmente rilevante dal mero illecito amministrativo: verificata la violazione di norme
di legge o regolamento, è proprio l'ingiustizia del risultato ad attribuire rilevanza penale alla condotta.
Ulteriore passo ermeneutico richiede l'accertamento di cosa sia l'ingiustizia del profitto conseguito. È
maturata sul punto un'interpretazione che tende a dare all'ingiustizia un significato diverso dalla mera
violazione di norme dell'ordinamento giuridico. Infatti, se per l'ingiustizia della condotta, la norma dell'art.
323 c.p. specifica chiaramente che la stessa si risolve nella violazione di leggi o regolamenti, per l'ingiustizia
dell'evento, la norma parla di un'ingiustizia tout court, senza delimitazioni.
Si è conseguentemente ritenuto che siano ingiusti profitti o danni che contrastano (non tanto con singole
norme di legge quanto) con i principi generali dell'ordinamento o con norme di carattere generale che
stabiliscono principi di carattere sostanziale. Tali possono essere anche principi costituzionali, quali quelli
enunciati dall'art. 97 Cost.
Non si può tuttavia arrivare a ravvisare l'ingiustizia secondo canoni di mera coscienza sociale, valutazioni
politiche o personali, né ricercare una antigiuridicità materiale (10).
Per una più restrittiva interpretazione, si veda invece altra sentenza (11), secondo la quale deve considerarsi
ingiusto il vantaggio che non abbia fondamento in un corrispondente diritto sostanziale.
Secondo certa dottrina (12) il requisito dell'ingiustizia varrebbe a garantire l'irrilevanza penale della condotta
illegittima del pubblico ufficiale che abbia agito nell'esclusivo interesse della pubblica amministrazione.
In questo senso altra dottrina (13) ha ritenuto che il requisito dell'ingiustizia permetta di valutare
correttamente la rilevanza penale della condotta di chi agisca per la tutela di "interessi zonali" (di una zona
geografica, di un ceto sociale, di una categoria professionale ...) e dunque operi come parametro di
valutazione del rapporto fra l'interesse del gruppo e quello generale dell'intera collettività. Si noti però che
l'ipotesi dell'atto illegittimo del pubblico ufficiale, concretante abuso d'ufficio, che comporti per un terzo
privato l'ingiusto vantaggio correlato allo svolgimento di una attività (che altrimenti lo stesso non avrebbe
potuto svolgere) non trova soluzioni pacifiche in giurisprudenza.
La Cassazione ha recentemente dato interpretazioni opposte della questione con riferimento a casi simili a
quello in esame, nei quali cioè, pur a seguito di attività illegittima, veniva comunque posta in essere una
prestazione suscettibile di corrispettivo.
In un caso (14) si è affermato che il vantaggio ingiusto sta nel conseguimento del diritto alla retribuzione per
l'opera prestata, indipendentemente dal pregio e dall'effettività della prestazione.
In un altro caso (15) si è al contrario affermato che non vi è ingiusto vantaggio nel guadagno del privato, se
costituisce giusto corrispettivo di attività effettivamente espletata.
Nella sentenza in esame si sceglie una terza via, più articolata: l'ingiustizia del vantaggio percepito
dall'imputato e del correlativo danno per i pazienti viene agganciata al fatto che i pazienti, se avesse
effettuato l'esame presso la struttura pubblica, avrebbero pagato di meno di quanto hanno effettivamente
pagato all'imputato rivolgendosi a lui privatamente (rectius in regime di convenzione con la A.S.L.).
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A parere di chi scrive, trattasi di soluzione del tutto accettabile e che trova un corretto punto di equilibrio fra
le tesi contrapposte.
(1) Sull'abuso d'ufficio, in generale, v. i richiami di dottrina riportati nella nota 2 della decisione sub n. 278.
(2) Sez. VI, 8 febbraio 2007, Trua, in C.E.D. Cass., n. 236833; Sez. VI, 9 aprile 2001, Caminati, ivi, n. 219578; Sez. V, 12
febbraio 1999, Sanna, ivi, n. 213027.
(3) Sez. VI, 20 gennaio 1989, Mariani, in C.E.D. Cass., n. 181172; Sez. VI, 28 maggio 1973, Fois, ivi, n. 125508.
(4) Così Sez. III civ., 13 aprile 2007, in Responsabilità civile e previdenza, 2007, p. 1824, con nota di GORGONI, Le
conseguenze di un intervento chirurgico rivelatosi inutile, citata nella sentenza in esame; ma già prima Sez. un. civ., 1°
luglio 2002, in Foro it., 2002, c. 3060, con nota di PALMIERI, Risarcimento del danno morale per la compromissione di un
incenso legame affettivo con la vittima di lesioni personali.
(5) PADOVANI, L'abuso d'ufficio ed il sindacato del giudice penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1989, p. 76 ss.;
FIANDACA, Questioni di diritto transitorio, in seguito alla riforma dei reati di interesse privato e abuso innominato
d'ufficio, in Foro it., 1990, II, c. 642; RAMPIONI, L'abuso d'ufficio, in Reati contro la Pubblica Amministrazione, a cura di
Coppi, Utet, 1993, p. 122.
(6) BENUSSI, I delitti, cit., p. 609 ss.; M. ROMANO, I delitti contro la Pubblica Amministrazione,cit., p. 270; PAGLIARO,
Principi di diritto penale, Parte Speciale, Delitti contro la Pubblica Amministrazione, Giuffrè, 2000, p. 238 ss.; SEGRETO-
DE LUCA, Delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Giuffrè, 1999, p. 534 ss.
(7) Ad esempio Sez. VI, 9 luglio 1993, n. 6871, Morello, in Giust. pen., 1994, II, c. 257.
(8) Si vedano ad esempio Sez. VI, 19 dicembre 1994, Medea, in questa rivista, 1996, p. 1776; Sez. VI, 14 dicembre 1995,
Marini, in Riv. pen., 1996, p. 979.
(9) BENUSSI, I delitti, cit. p. 610.
(10) Così Sez. VI, 7 marzo 1995, n. 4183, Bussolati, in Riv. pen., 1995, p. 1452.
(11) Sez. VI, 13 maggio 1996 n. 6047, Tuozzi, in Giust. pen., 1997, II, c. 235.
(12) D'AVIRRO, L'abuso d'ufficio - La legge di riforma 16 luglio 1997 n. 234, Giuffrè, 1997, vol. II., p. 105.
(13) PAGLIARO, Principi, cit., p. 240
(14) Sez. VI, 7 aprile 2005, n. 18149, Fabbri, in www.italgiure.giustizia.it.
(15) Sez. VI, 5 maggio 2005, Granella, in www.italgiure.giustizia.it.
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CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE - SEZIONE SESTA PENALE – 23 FEBBRAIO 2010, n. 21357
FATTO E DIRITTO
Con la sentenza di cui in epigrafe il Tribunale di Torino assolveva per insussistenza del fatto C.S., medico
specialista presso la ASL (OMISSIS) di Chivasso, da due reati (commessi, rispettivamente, il 03.12.2004 e il
28.01.2005) di cui agli artt. 56 e 323 c.p., consistiti:
A)- nell'avere, omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio in violazione del D.M. 31 marzo
1994, art. 6, indirizzato, dopo la visita presso la struttura pubblica, la paziente G. A. (senza peraltro ottenere
il risultato per il comportamento negativo della stessa) verso il proprio studio medico privato in (OMISSIS),
prospettandole di potere in tal modo abbreviare, rispetto alla struttura pubblica, i tempi di attesa necessari
per effettuare gli accertamenti;
B)- nell'avere, nella qualità di sanitario presso la ASL (OMISSIS), nello svolgimento delle funzioni, visitando
presso l'ambulatorio specialistico di (OMISSIS) la signora G.R., rappresentato alla stessa che i tempi tecnici
richiesti dalla struttura pubblica erano decisamente lunghi, mentre erano pressochè nulli all'interno del
proprio laboratorio privato, così compiendo atti idonei diretti univocamente a procurarsi un ingiusto
vantaggio patrimoniale, non riuscendo nell'intento per il rifiuto della paziente.
Secondo il Giudice di merito, il comportamento dell'imputato concretava gli estremi della violazione
dell'obbligo di astensione prescritto dal D.M. 31 marzo 1994, art. 6, ma il risultato di vantaggio patrimoniale
perseguito, consistente nel compenso delle prestazioni professionali private, pur essendo frutto della detta
violazione, non poteva considerarsi contra ius, in quanto non era in contrasto con alcuna norma
dell'ordinamento: con il che veniva a mancare il requisito della ingiustizia del vantaggio stesso, che doveva
ricorrere, ai fini della sussistenza del reato, autonomamente e aggiuntivamente rispetto alla mera ingiustizia
della condotta.
Propone ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino, deducendo che
l'ingiustizia del vantaggio patrimoniale sussiste anche se la remunerazione della prestazione sanitaria non è
in sè contra ius, in quanto ciò che rileva è che contrastano con il diritto le modalità con cui si determina la
decisione di rivolgersi alla struttura sanitaria privata.
Il ricorso è fondato nei sensi e per i motivi di cui appresso.
Va premesso in diritto che, secondo la giurisprudenza di questa Corte .. ai fini dell'integrazione del reato di
abuso di ufficio, anche nel caso di violazione dell'obbligo di astensione, è necessario che a tale omissione si
aggiunga l'ingiustizia del vantaggio patrimoniale perseguito, con conseguente duplice distinta valutazione
da parte del giudice, che non può far discendere l'ingiustizia del vantaggio dalla illegittimità del mezzo
utilizzato. Nella fattispecie in esame il Tribunale, dopo aver ravvisato la sussistenza della violazione
dell'obbligo di astensione, ha rilevato che essa non basta a far ritenere "ingiusto" anche il vantaggio
patrimoniale perseguito, posto che lo stesso, risolvendosi nella congrua remunerazione di una prestazione
professionale, non presenta in sè autonomi profili di antigiuridicità.
Senonchè, nella specie, come risulta dagli stessi capi d'imputazione, il vantaggio patrimoniale
immediatamente perseguito non va identificato nella remunerazione (in sè giustificata dal sinallagma
funzionale) della (futura) prestazione professionale bensì nella acquisizione della "occasione" della
prestazione stessa.
E' dunque con riferimento a questa acquisizione che andava e va verificata l'ingiustizia o meno del
vantaggio. Tale verifica deve essere condotta alla luce dell'ordinamento e, in particolare, delle norme che
regolavano la pubblicità delle professioni sanitarie e dei presidi medici al momento dei fatti (L. 5 febbraio
1992, n. 175, come modificata dalla L. 26 febbraio 1999, n. 42, art. 3, dalla L. 14 ottobre 1999, n. 362, art. 12,
comma 1, e dalla L. 3 maggio 2004, n. 112, art. 7), verificatisi anteriormente alla revisione "liberalizzatrice" di
cui al D.L. 4 luglio 2006, n. 223, conv. in L. 4 agosto 2006, n. 248. .. La sentenza impugnata deve, pertanto,
essere annullata, con rinvio alla Corte d'appello di Torino, che procederà a nuovo giudizio, attenendosi alle
indicazioni suenunciate.
P.Q.M.
visti gli artt. 615 e 623 c.p.p., annulla la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d'appello di Torino per nuovo
giudizio.
Così deciso in Roma, il 23 febbraio 2010. Depositato in Cancelleria il 4 giugno 2010
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DIRITTO PENALE II
Lezione dell’8 marzo 2011: l’abuso di ufficio
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9
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE - SEZIONE SESTA PENALE – 25 SETTEMBRE 2007, n. 38259
FATTO E DIRITTO
In data 3 novembre 2005 il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma richiedeva al Giudice
per le indagini preliminari in sede il sequestro preventivo di alcuni immobili di proprietà della Immobiliare
Trea s.r.l. siti in (OMISSIS), via (OMISSIS), assegnati con ordinanze emesse in data 29 settembre e 24 ottobre
2005 dal Presidente del 10^ Municipio di Roma, M. S., ad usi abitativi di soggetti bisognosi raggiunti da un
provvedimento di sfratto.
Il pubblico ministero ravvisava a carico del M. il reato di cui all'art. 323 c.p., ritenendo che detti
provvedimenti, di natura contingibile e urgente, rientrassero nella competenza esclusiva del sindaco, il quale
comunque non aveva a ciò delegato il presidente del municipio….
All'esito dell'udienza preliminare, con la sentenza in epigrafe, il G.u.p. dichiarava non luogo a procedere
perché il fatto addebitato al M. non costituisce reato, ritenendo che, a prescindere dalla effettiva sussistenza
di una violazione di legge, difettava comunque l'elemento soggettivo del reato, atteso che il presidente del
municipio aveva comunque inteso perseguire una finalità pubblica, quale, nella specie, quella di risolvere il
problema contingente e urgente di sovvenire alle immediate esigenze abitative di famiglie in condizioni
economiche disagiate nei confronti delle quali era imminente l'esecuzione dello sfratto.
Ricorre per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma, che deduce il vizio di
motivazione e la inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, osservando che, prima di
affrontare il tema dell'elemento soggettivo del reato, il G.u.p. avrebbe dovuto risolvere quello della oggettiva
illegittimità della condotta ascritta all'imputato.
Nella specie, il presidente del municipio non poteva adottare le ordinanze contingibile e urgenti di cui si
tratta, dato che, come ricavabile dal D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 54, tale attribuzioni spettano esclusivamente
al sindaco, e ciò anche qualora il presidente del municipio sia stato, come nella specie, delegato a esercitare le
funzioni in materia di igiene e sanità pubblica quale ufficiale del Governo.
Inoltre, sotto il profilo soggettivo, era irrilevante che l'imputato fosse mosso dall'intento di perseguire una
finalità pubblica, una volta accertato che egli era pienamente consapevole di avere procurato un ingiusto
vantaggio ai beneficiari dell'assegnazione degli alloggi requisiti, in violazione dei criteri di assegnazione
delle case popolari.
Il ricorso appare infondato.
… Il M., che ha agito nella sua qualità di Presidente del 10^ Municipio del Comune di Roma, è
effettivamente incorso, per più profili, in una violazione di legge.
Innanzi tutto, deve dirsi che il sindaco non è legittimato a requisire case di abitazione per fare fronte, come
nella specie, alle esigenze abitative di famiglie colpite da un provvedimento di sfratto… In secondo luogo, il
potere di emettere ordinanze contingibili e urgenti, attribuito al sindaco nei casi specificamente previsti dalla
legge, non è comunque delegabile nè ai presidenti di municipio nè a chicchessia … In terzo luogo, in punto
di fatto, non risulta neppure che il M. sia stato, sia pure illegittimamente, delegato a esercitare tali specifici
poteri, essendo ciò stato solo meramente affermato in sede difensiva, come appare dalla sentenza
impugnata.
Non vi è dubbio, dunque, che la condotta contestata al M. sia censurabile sotto il profilo della legittimità
dell'attività amministrativa.
La sentenza impugnata non merita invece censura in punto di affermata insussistenza dell'elemento
psicologico del reato.
L'Ufficio ricorrente osserva che era stato accertato che il M. era pienamente consapevole di avere procurato
un ingiusto vantaggio ai beneficiari dell'assegnazione degli alloggi requisiti, in violazione dei criteri di
assegnazione delle case popolari.
Tale notazione non risolve però la questione della sussistenza dell'elemento soggettivo richiesto dall'art. 323
c.p., che a seguito della novella del 1997 è stato concepito come dolo intenzionale.
Appare di indubbia esattezza la valutazione del G.u.p. secondo cui il M. ha avuto di mira una finalità
pubblica, e cioè quella di fare fronte a una emergenza abitativa interessante famiglie bisognose.
Il presidente del municipio ha si adottato provvedimenti esorbitanti dalle sue funzioni per risolvere un
problema che avrebbe dovuto essere affrontato da altri organi e con gli strumenti previsti dall'ordinamento,
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Lezione dell’8 marzo 2011: l’abuso di ufficio
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ma il perseguimento di una soluzione abitativa per le famiglie prive di casa risponde a una esigenza sociale
di per sè di valore primario (cfr. Corte cost. sent. n. 559 del 1989; 217 e 404 del 1988; 49 del 1987).
Se è così, la intenzione del M. non è stata quella di procurare un ingiusto vantaggio patrimoniale ad altri;
nonostante egli fosse certamente consapevole che dai provvedimenti adottati sarebbe conseguito anche un
effetto vantaggioso per le famiglie che correvano il rischio di rimanere prive di alloggio.
Al riguardo, va ribadito che ai fini della sussistenza dell'elemento soggettivo del delitto di abuso di ufficio
non è sufficiente la rappresentazione dell'evento (di vantaggio o di danno per altri) ma occorre che questo
costituisca l'obiettivo diretto e immediato della condotta del pubblico ufficiale o dell'incaricato di un
pubblico servizio. Sicchè se l'evento tipico è una semplice conseguenza accessoria o indiretta dell'operato
dell'agente, mosso dalla finalità di perseguire un obiettivo di interesse pubblico di preminente rilievo, il dolo
intenzionale non è configurabile (tra le altre, Cass., sez. 6^, 7 aprile 2005, Fabbri; id., 24 febbraio 2004,
Percoco; Id., 8 ottobre 2003, Mannello; Id., 6 maggio 2003, Cangini;
Id., 22 novembre 2002, Casuscelli di Tocco).
5. Per le considerazioni sopra svolte, il ricorso deve essere rigettato.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, il 25 settembre 2007. Depositato in Cancelleria il 16 ottobre 2007
La decisione in commento afferma l'insussistenza del delitto di abuso di ufficio, per difetto dell'elemento
soggettivo, in tutti i casi nei quali l'evento dannoso o vantaggioso per altri non costituisca l'obiettivo
principale della volontà dell'autore, che piuttosto se lo prospetta quale conseguenza accessoria della propria
condotta.
Il principio è conforme a un indirizzo pacifico nella giurisprudenza formatasi a seguito della modifica della
fattispecie incriminatrice in commento, intervenuta con l. n. 234 del 16 luglio 1997.
Secondo lo stesso indirizzo, l'uso dell'avverbio «intenzionalmente» per qualificare il dolo ha voluto limitare
il sindacato del giudice penale a quelle condotte del pubblico ufficiale dirette a procurare, come conseguenza
immediatamente perseguita, un ingiusto vantaggio patrimoniale o ad arrecare un ingiusto danno: v. Sez. VI,
6 maggio 2003, Cangini, inquesta rivista, 2004, p. 464; conformi Sez. VI, 17 ottobre 2007, C.W., reperibile
all'indirizzo internethttp://www.altalex.com/index.php?idstr=20&idnot=39067; Sez. II, 26 aprile 2006, G.,
inGuida dir., 2006, n. 32, p. 100; Sez. VI, 7 aprile 2005, Fabbri, inC.E.D. Cass., n. 231343; Sez. VI, 22 novembre
2002, Casuscelli di Tocco, inGuida dir., 2003, n. 11, p. 96 ss., con osservazioni di AMATO,La Cassazione
ritorna sul dolo intenzionale: irrilevante l'ingiusto vantaggio procurato a terzi.
L'origine di tale interpretazione si rinviene nella rinnovata formulazione del delitto, che, al posto del dolo
specifico in precedenza previsto, richiede ora il dolo generico nella forma intenzionale: chiaramente in questi
termini, Sez. VI, 1 giugno 2000, Spitella, inquesta rivista, 2001, p. 2681, per cui «il legislatore con
l'utilizzazione dell'avverbio "intenzionalmente" ha voluto escludere la rilevanza non solo di condotte poste
in essere con dolo eventuale, ma anche con c.d. dolo diretto». Conformi, tra le molte, Sez. VI, 20 settembre
2002, Cadenzo,ivi, 2003, p. 2651; Sez. VI, 18 ottobre 1999, Selvini,ivi, 2001, p. 123.Contra, Sez. VI, 22 dicembre
1997, Urso, inC.E.D. Cass., n. 209775; Sez. VI, 2 ottobre, 1997, Angelo,ivi, n. 209767, che discorrono di dolo
diretto piuttosto che intenzionale. In dottrina, del medesimo avviso rispetto all'orientamento prevalente,
BENUSSI,Il nuovo delitto di abuso di ufficio, Cedam, 1998, p. 153; PAGLIARO,La nuova riforma dell'abuso
di ufficio, inDir. pen. proc., 1997, p. 503. Divergenti, invece, sono le opinioni di FIANDACA-
MUSCO,Manuale di diritto penale. Parte speciale, vol. I, Zanichelli, 2007, p. 255 s., che sostengono la
sufficienza del dolo diretto ai fini di escludere il dolo eventuale e paventano le difficoltà connesse alla prova
del requisito dell'intenzionalità; nonché M. ROMANO,I delitti contro la pubblica amministrazione - I delitti
dei pubblici ufficiali, Giuffrè, 2006, p. 277, secondo il quale «una distinzione tra dolo c.d. intenzionale e dolo
c.d. diretto, anche a volere prescindere dalle difficoltà sul piano dell'accertamento pratico, pare avere
pochechancesgià sul piano concettuale».
La novella legislativa corrispondeva alla necessità di porre un argine alla incriminazione di condotte
commesse con dolo eventuale o anche diretto e perciò non immediatamente indirizzate al perseguimento del
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Lezione dell’8 marzo 2011: l’abuso di ufficio
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fine illecito contemplato dalla norma penale: sulla tripartizione delle categorie del dolo generico, v. Sez. un.,
12 ottobre 1993, Cassata, inquesta rivista, 1994, p. 865.
Peraltro, nel vigore della precedente disciplina si assisteva alla strumentalizzazione della fattispecie di abuso
di ufficio quale valvola in grado di consentire un sindacatoextra ordinemsull'attività della p.a., che di fatto
veniva sovente rallentata o addirittura impedita dall'incombere dello "spettro" del penale: v.
NATALINI,Intenzionalità del doloexart. 323 c.p. e pretesa esclusività della finalità tipica: l'avallo della
Cassazione a una discutibile assimilazione ermeneutica, inquesta rivista, 2004, p. 3205 ss., il quale, tra l'altro,
rammenta la temperie storico-politica in cui si trattava di applicare l'art. 323 c.p. come risultante dalle
modifiche apportate con l. n. 86 del 26 aprile 1990.
A questo genere di disfunzione aveva condotto una norma come quella sull'abuso d'ufficio introdotta dalla
riforma del 1990, inadeguata perché dava luogo ad un rischio di arbitrio giudiziario in quanto «caratterizzata
da un macroscopico difetto di precisione e ruotante attorno ad un dolo specifico consistente in un'intenzione
che, in vista del proprio realizzarsi, attiva una condotta»: v. ZANNOTTI,I delitti dei pubblici ufficiali contro
la pubblica amministrazione: inefficienze attuali e prospettive di riforma, inquesta rivista, 2004, p. 1821.
In chiave di reazione alla c.d. paura della firma da parte dei pubblici amministratori maturò, dunque,
l'iniziativa del mutamento legislativo, essendosi intravisti i rischi di un ulteriore rallentamento della
macchina amministrativa dello Stato. Ciò nondimeno, in coloro che permisero il venire alla luce della nuova
fattispecie, non era dato ravvisare posizioni simili a quelle ribadite ancora una volta oggi nella pronuncia in
commento.
In particolare, non si ravvisava la convinzione che dalla intenzionalità del dolo, normativamente prescritta,
debba derivare l'insussistenza del reato quando il raggiungimento del fine privato rappresenti un mezzo per
il simultaneo perseguimento di un fine pubblico, cui è tipicamente indirizzata l'attività amministrativa: v.
interventi degli on.li Manzione e Marotta, inAtti parl. Cam. XIII Legisl., seduta del 15 aprile 1997, p. 14903 e
14915, dai quali può desumersi che, anzi, la finalità perseguita era semplicemente quella di escludere la
punibilità delle condotte commesse con dolo eventuale, valutando l'avverbio «intenzionalmente» soltanto
come un rafforzativo del c.d. dolo diretto.
Pur in presenza di intenzioni siffatte, è nato e si è sviluppato quel filone giurisprudenziale ora assolutamente
prevalente, del quale può dirsi abbia avuto una matrice politica in senso tecnico, dal momento che la
interpretazione da esso sostenuta ha certamente sgominato quei problemi applicativi della fattispecie
incriminatrice che aggravavano la inefficienza della pubblica amministrazione.
Questione che tuttavia permane sul tappeto è se allo scopo che si intendeva perseguire sia essenziale
prescrivere la "esclusività" del dolo quale rimedio riparatore.
Nella vigenza del "vecchio" art. 323 c.p., la suprema Corte affermava tranquillamente come non fosse
indispensabile che nel fuoco della volontà dell'agente campeggiasse solitario il fine privato: v., per tutte, Sez.
VI, 16 febbraio 1996, Scopinaro, inC.E.D. Cass., n. 205467. Dopo il 1997, invece, si sono colti precedenti di
questo segno soltanto al tempo dei primi vagiti del rinnovato abuso di ufficio, allorché si affermava che «il
dolo del reato di abuso di ufficio è integrato da un comportamento intenzionale del pubblico ufficiale che
procuri a sé o ad altri un ingiusto vantaggio, senza che sia necessario il perseguimento in via esclusiva del
fine privato, requisito non richiesto dalla precedente formulazione dell'art. 323 c.p. né dal testo della norma
risultante a seguito delle modificazioni introdotte con l'entrata in vigore della l. 16 luglio 1997, n. 234» (Sez.
VI, 2 aprile 1998, Sanguedolce, inquesta rivista, 1999, p. 2836. Sulla stessa linea - isolata tra le decisioni meno
risalenti -, Sez. VI, 11 dicembre 2001, Antonini, inGuida dir., 2002, Dossier/3, p. 81, secondo la quale il dolo
del delittode quosussiste anche quando l'evento patrimoniale procurato è il mezzo che il p.u. si raffigura e
vuole per realizzare uno scopo ulteriore, magari lecito; nonché Sez. V, 17 novembre 1999, Pinto, inC.E.D.
Cass., n. 216122, per cui, anzi, la interdipendenza tra i due scopi (lecito ed illecito), comporta che quello
lecito, fungendo da movente, «serve a dimostrare anche l'intenzione di procurare l'evento stesso (illecito)»).
La dottrina si è più spesso schierata con l'orientamento attualmente sposato dai supremi Giudici, giungendo
quindi a negare la sussistenza del reato quando il fine privato non costituisca lo scopo esclusivo della
volontà criminosa: v. E. RUSSO,L'elemento soggettivo del reato di abuso di ufficio, inTemi Romana, 1998, p.
105; dello stesso avviso, FANTUZZI,Abuso di ufficio e dolo intenzionale, inquesta rivista, 2004, p. 474.
A fianco di costoro, vi è stato chi ha sostenuto che, quando coesistano un fine pubblico e uno privato,
sorgerebbe la necessità di valutare quale di essi abbia carattere preminente sciogliendo sulla base di tale
valutazione la riserva sulla configurabilità dell'illecito p. e p. dall'art. 323 c.p.: v. D'AVIRRO,I delitti dei
pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Cedam, 1999, p. 315. O, anche, vi è stato chi ha
sostenuto che non si configura il reato quando l'agente mirava ad uno scopo lecito, pur rappresentandosi la
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certezza o possibilità che quale conseguenza accessoria del suo operato scaturisca un danno o un vantaggio
ingiusto per terzi: PAGLIARO,Principi di diritto penale. Parte speciale, vol. I, 1998, Giuffrè, p. 261.
Comunque, allo stato attuale, visto il prevalere di interpretazioni di tal segno, risultano espulse dall'area
della penale illiceità numerosissime condotte che, da un lato, realizzano l'evento del reato di abuso di ufficio;
dall'altro, violano le regole poste a presidio della buona amministrazione.
Perciò, in opposizione al maggioritario indirizzo sopra illustrato, si è formato il fronte di quanti, non
disconoscendo l'intenzionalità quale connotato del dolo di fattispecie, pure sostengono che, ciò nondimeno,
non possa pretendersi che il fine privato monopolizzi la volontà delittuosa: v. NATALINI,Intenzionalità del
dolo, cit., p. 3213 ss., che quali argomenti adduce, tra l'altro, il dato terminologico e la volontà del
Legislatore, evidenziando come, da un lato, se si fosse voluto privilegiare l'"esclusività" del dolo si sarebbe
usato l'inciso «al solo scopo di», come avvenuto per altre fattispecie incriminatrici (ad es., art. 508 c.p.);
dall'altro, come dai lavori parlamentari emerga soltanto l'intenzione di negare rilevanza al dolo eventuale.
Nello stesso solco, M. ROMANO,I delitti, cit., p. 277, che propende per la compatibilità tra il richiesto dolo
intenzionale e la compresenza di uno scopo collaterale.
Concorda con questa soluzione chi, condividendo l'argomento terminologico, sostiene anche che quando la
condotta di reato sia "mossa" dalla intenzione di tradurre nella realtà fenomenica il contenuto della
rappresentazione (ovvero il fatto di abuso di ufficio), immancabilmente il delitto sussiste anche perché non è
negabile che in simili ipotesi venga perseguito il fatto oggetto di rappresentazione in ogni sua implicazione
(lecita, ma anche illecita): v. BENUSSI,I delitti contro la pubblica amministrazione, vol. I,I delitti dei pubblici
ufficiali, inTrattato di diritto penale - Parte speciale, diretto da Marinucci e Dolcini, Cedam, 2001, p. 621;
BENUSSI,Il nuovo delitto di abuso d'ufficio, cit., p. 151; in tali termini anche PIETRINI
PALLOTTA,Intenzionalità del dolo nel delitto di abuso di ufficio. Riflessioni sulla pretesa esclusività della
finalità tipica, inRass. giur. Umbra, 2000, n. 1, p. 184.
Del resto, secondo altri pure sarebbe doveroso considerare - in maniera quasi scontata e, pertanto,
condivisibile - che la norma non esige l'unicità del fine privato e che, se la sussistenza dell'abuso venisse fatta
dipendere da ciò, vi sarebbe un aperto contrasto con i principi dell'imparzialità e del buon andamento della
pubblica amministrazione: SEGRETO-DE LUCA,Delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica
amministrazione, Giuffrè, 1999, p. 548.
Orbene, lo stato dell'arte in argomento di dolo del delitto di abuso di ufficio, sollecita alcune riflessioni.
Allora è meglio chiarire quale sia il campo della discussione, distinguendo tra le diverse situazioni concrete
che possono offrirsi all'esame del giudice.
Anzitutto, se viene in rilievo la condotta del p.u. che persegue direttamente l'interesse pubblico, ma
accidentalmente favorisce o danneggia anche un privato, può abbastanza agevolmente escludersene la
illiceità penale, visto che l'interesse di natura privatistica non risulterebbe neppure "messo a fuoco"
dall'autore della condotta.
Altra ipotesi sarebbe quella del pubblico amministratore che, volendo far conseguire un vantaggio a una
determinata categoria di soggetti, operi in maniera tale da realizzare al contempo un utile per la collettività:
potrebbe ipotizzarsi - per ispirarci al caso deciso dai supremi Giudici - che un sindaco, perché "organico", o
comunque "pressato", da una cosca criminale, attribuisca case popolari a famiglie bisognose, ma diverse da
quelle che sarebbero state assegnatarie se si fossero seguite regole e procedure.
Una terza ipotesi, infine, potrebbe riguardare l'amministratore che, volendo perseguire una finalità pubblica
o un tornaconto privato, contemporaneamente si rappresenti, nel primo caso, le conseguenze dannose o
vantaggiose sotto il profilo privatistico; nel secondo, l'interesse pubblico concretamente realizzabile
attraverso la propria condotta.
Evidentemente, in diverso grado, le ultime ipotesi si presentano come problematiche all'interprete soltanto
quando egli decida di non adottare lo schema di soluzione predisposto dalla giurisprudenza dominante.
Proprio a tal proposito, si osserva come non sia appagante l'esclusione della rilevanza penale della condotta
in base al dato di fatto che si è verificato un fine pubblico non rilevando se si voleva realizzare anche il fine
privato.
Al di là delle già ricordate, condivisibili, critiche "interpretative"stricto sensu, in situazioni del tipo di quelle
da ultimo prospettate non pare corretto escludere aprioristicamente la illiceità penale della condotta. Non va,
infatti, trascurato come da ciò deriverebbe che sotto il profilo penale risulterebbero identiche una condotta
che realizza l'interesse pubblico secondo le regole e un'altra che lede il principio di trasparenza e buon
andamento e, quindi, la regolarità dell'amministrazione, oltre tutto realizzando un concorrente fine privato
comunque vietato dalla legge: sulla natura dell'interesse protettoexart. 323 c.p., v., tra le recentissime, Sez.
VI, 28 novembre 2007, p.o. Buglioli in proc. ignoti, inGuida dir., 2008, n. 7, p. 52.
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È pur vero che questo non significherebbe la legittimazione di prassi illegali, perché esse troverebbero
sanzione in sede diversa da quella penale: v., in tal senso, BAFFI,Abuso d'ufficio, inI delitti dei pubblici
ufficiali contro la pubblica amministrazione, trattato diretto da Fiore, Utet, 2004, p. 296; nonché Sez. VI, 22
novembre 2002, Casuscelli di Tocco, ult. cit. Tuttavia, a parte il fatto che le regole disciplinanti una pubblica
funzione sono in uno Stato di diritto l'unica "guida" attraverso cui essa persegue il pubblico interesse, vi è
che se la legalità dell'attività della p.a. è un bene tutelato penalmente, anche quelle condotte indicate come
ipotesi problematiche meritano sanzione, non apparendo sufficiente la sanzionabilità amministrativa. Ove
così non fosse, verrebbe privato di tutela penale un valore per cui detta tutela è invece prevista anche per
offese arrecate con le modalità già sopra descritte.
D'altra parte, se è stato posto un presidio penale, possono scorgersi anche considerazioni di politica
criminale dietro la scelta.
Il riferimento è al pericolo di "anarchia amministrativa", che lo strumento dell'annullamento potrebbe solo
arginare neutralizzando singoli atti, ma giammai prevenire, essendo questo un compito per sua costituzione
svolto più efficacemente dall'art. 323 c.p.
Per di più, in tema di ragione di vita del delitto di abuso di ufficio, non si può fare a meno di osservare come,
essendo tale figura criminosa "chiusa" tra i vari delitti contro la pubblica amministrazione, qualora si
accettasse la non applicabilità alle ipotesi in cui si avvantaggia un terzo ma anche il pubblico, si assisterebbe
alla quasi desertificazione delle fattispecie applicative. E, infatti, rimane difficile immaginare in quali casi,
pur non essendo stato fatto mercimonio dell'ufficio pubblico (come nei casi di p. u. corrotto o autore di
concussione), non potrebbe poi invocarsi con qualche ragione un interesse pubblico anche soltanto
perseguito a fianco dell'utile o dis-utile privato.
Almeno per le ragioni appena evidenziate, meriterebbe dunque una vera e propria resurrezione l'indirizzo
invalso sotto il "vecchio" art. 323 c.p., secondo cui il contemporaneo raggiungimento di un interesse pubblico
non rende la condotta dell'agente lecita qualora egli si sia mosso in vista della realizzazione anche di un
interesse privato: oltre a Sez. VI, 16 febbraio 1996, Scopinaro, cit., v. Sez. VI, 20 maggio 1993, Atzori, inquesta
rivista, 1994, p. 571.
Non sembra esservi contraddizione tra questa affermazione e l'intenzionalità del fine privato, prescritta dalla
norma.
È, quello dell'intenzionalità, un elemento del versante soggettivo della condotta che può riscontrarsi pure
prescindendo da compresenti "volizioni" vere o solo allegate in giudizio: se l'evento di reato è
deliberatamente voluto, non pare possa attribuirsi rilevanza al perseguimento di un pubblico interesse, salvo
- è ovvio - che esso integri una qualsiasi causa di giustificazione. Tanto meno potrebbe farsi questione sulla
prevalenza dell'uno o l'altro tra i diversi risultati presi di mira dall'agente: l'assetto degli interessi in gioco è
disegnato dall'art. 323 c.p., che tutela un bene (la trasparenza ed il buon andamento della pubblica
amministrazione) messo al riparo sia dall'operato di manigoldi, sia da quello di presunti pubblici benefattori
i quali agiscono in spregio delle regole di uno Stato democratico, per definizione stabilite a salvaguardia del
pubblico interesse.
In base a quanto detto, non si vede il motivo di esonero dalla pena per il pubblico ufficiale che abbia
contemporaneamente voluto realizzare scopi leciti e scopi illeciti o per quello che, non rispettando lo statuto
della propria attività, abbia inteso perseguire, oltre a quello pubblico, anche un fine privato la cui
realizzazione era implicata nella realizzazione del primo. Sotto questo profilo, pare doversi concordare con
l'indirizzo maggioritario soltanto quando esso esclude rilievo per le condotte che producono un effetto
vantaggioso o dannoso per privati essendo indifferenti a tale risultato o avendolo semplicemente "messo a
fuoco" come conseguenza non intenzionalmente voluta.
Quindi, può concludersi che, qualora all'agente, invece, "appartenga" anche la produzione del fine illecito -
nel senso che non solo se lo è rappresentato, ma lo ha pure voluto -, non possono esservi apprezzabili motivi
per decretare la liceità della condotta.
A conforto di ciò, basti considerare come, se, da un lato, non vi è ragione per escludere che l'agente possa
perseguire in maniera sincrona due diversi tipi di risultato, dall'altro, non è nemmeno estraneo alla categoria
del dolo intenzionale il fatto di chi vuole un evento come mezzo necessario per raggiungere uno scopo
finale: v. Sez. un., 12 ottobre 1993, Cassata, cit.; in dottrina, PROSDOCIMI, voceReato doloso, inDig. d. pen.,
vol. XI, Utet, 1996, p. 246, che ravvisa il dolo intenzionale anche laddove l'evento (illecito) perseguito
rappresenti «un anello intermedio in vista di ulteriori sviluppi, correlati, peraltro, da nuovi contegni».
Evidentemente col recupero degli approdi della precedente giurisprudenza in materia di dolo del delitto di
abuso di ufficio, emergerebbero problemi connessi alla prova dell'elemento soggettivo, che non potrebbe più
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Lezione dell’8 marzo 2011: l’abuso di ufficio
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"agilmente" affrontarsi come un'indagine sulla presenza o meno di un interesse pubblico tra gli scopi di colui
che pone in essere la condotta.
Simili difficoltà applicative nondimeno appaiono superabili se solo si pone mente a taluni indici sintomatici
del dolo intenzionale, in passato proposti da giurisprudenza e dottrina. Tra di essi senz'altro la
macroscopicità e la molteplicità delle violazioni commesse, la natura e qualità dei pregressi rapporti tra il
pubblico ufficiale e il soggetto danneggiato o favorito, l'assenza di motivazioni per gli atti assunti: v. Sez. VI,
13 febbraio 1998, Lanza, inquesta rivista, 1999, p. 2505; di identico avviso, in dottrina, FORTUNA,I delitti
contro la pubblica amministrazione, Giuffrè, 2002, p. 120.
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CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE - SEZIONE SESTA PENALE – 20 OTTOBRE 2010, n. 39371
FATTO E DIRITTO
Con la sentenza indicata in epigrafe il G.I.P. del Tribunale di Messina, dichiarava non luogo a procedere ai
sensi dell'art. 425 c.p.p., perchè il fatto non costituisce reato, a carico di F. P. e S.G. in ordine al reato di cui
agli artt. 110, 81 cpv. e 323 c.p., per avere in concorso tra loro e con F. V. - per il quale si procedeva
separatamente con il rito abbreviato - il F.P. presidente e il F.V. vice presidente della F.C. Messina Peloro
s.r.l., quali privati avvantaggiati, istigatori e determinatori della condotta abusiva e lo S., pubblico ufficiale
nell'esercizio delle funzioni di direttore generale del Comune di Messina, istruito e proposto al Consiglio
Comunale di Messina - che lo approvava nella seduta del (OMISSIS) - un accordo procedimentale tra l'ente
pubblico e la società sportiva per l'affidamento diretto a quest'ultima della gestione degli stadi comunali e
delle aree pertinenziali, in violazione del D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 113 bis (TUEL) e L. n. 109 del 1994, art.
37 e segg., che prescrivono l'adozione di procedure concorrenziali di evidenza pubblica, in tal modo
procurando intenzionalmente alla F.C. Messina Peloro s.r.l. un ingiusto vantaggio patrimoniale con
corrispondente ingiusto danno per l'ente pubblico.
Fondava il G.I.P. la pronuncia assolutoria, analoga a quella assunta nei confronti del F.V. all'esito del
giudizio abbreviato, in estrema sintesi sulla base della convinzione che, pur essendo palese l'illegittimità
della procedura adottata in violazione delle regole sull'evidenza pubblica, ed evidente il corrispondente
vantaggio dei privati, l'approdo all'accordo procedimentale era da considerarsi legittimo, giacché dipeso da
una precisa scelta politica dell'ente, maturata a seguito di una vera e propria trattativa con la società
sportiva, e che la conclusione in tempi ristretti di un accordo che assicurasse le risorse finanziarie reclamate
dalla squadra rispondeva ad una ferma intenzione del Consiglio Comunale di garantire la sopravvivenza
della squadra di calcio cittadina, impegnata nel torneo di massima divisione e di dare prestigio alla città di
Messina; il tutto alla stregua delle produzioni documentali versate dall'imputato S., nella memoria difensiva,
depositata in data 14 Gennaio 2010 riguardanti resoconti di sedute del Consiglio Comunale e articoli di
stampa.
Contro tale decisione ricorre il Procuratore della Repubblica presso quel Tribunale, che a sostegno della
richiesta di annullamento ne denuncia l'erronea applicazione dell'art. 425 c.p.p., l'erronea applicazione
dell'art. 323 c.p. e la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, testualmente rilevabile….
Quanto al secondo motivo e al terzo motivo di ricorso il P.M. evidenzia come il G.I.P. disapplicando i
principi espressi nella giurisprudenza di legittimità in ordine all'elemento psicologico del reato di abuso di
ufficio, immotivatamente avesse negato rilievo ai gravi e concordanti indizi scaturenti dalla condotta dello S.
e dei dirigenti della società, attribuendo piena valenza probatoria a meri resoconti di sedute del Consiglio e
di Commissioni, e più ancora al fine politico, che aveva animato l'organo elettivo del Comune nel richiedere
la conclusione in tempi ristretti di un accordo, che assicurasse le risorse finanziarie, reclamate dalla società,
pena la possibilità di iniziative di forte impatto emotivo, quali la cessione della squadra, in tal modo
contravvenendo al prevalente insegnamento di questa Corte, a mente del quale il fine politico deve essere
espressamente escluso dal novero dei fini pubblici. Anche a voler condividere la tesi che lo S. si fosse
limitato a recepire e tradurre in un atto amministrativo illegittimo una scelta politica del Consiglio
Comunale, ciò non varrebbe ad escludere la sua responsabilità, ma imporrebbe semmai ad estenderne
l'ambito soggettivo.
Il ricorso è fondato e merita accoglimento per quanto di ragione …
A prescindere dall'indagine sulla ricostruzione della vicenda, devoluta al giudice di merito, e non
censurabile in sede di legittimità, se immune da vizi logici o giuridici, la denunciata erronea applicazione
della norma incriminatrice di cui all'art. 323 c.p., unitamente al denunciato vizio motivazionale, acquista
consistenza giuridica in ordine a quella parte della motivazione sulla valenza della prova dell'elemento
psicologico del delitto di abuso di ufficio.
Ricorda infatti il collegio che in tema di abuso di ufficio nella formulazione dell'art. 323 c.p., introdotta dalla
L. 16 luglio 1997, n. 234, la giurisprudenza di questa Sezione è ormai orientata nel ritenere che l'uso
dell'avverbio "intenzionalmente" per qualificare il dolo ha voluto limitare il sindacato del giudice penale a
quelle condotte del pubblico ufficiale dirette, come conseguenza immediatamente perseguita, a procurare un
ingiusto vantaggio patrimoniale e arrecare un ingiusto danno, con la conseguenza che, qualora nello
svolgimento della funzione amministrativa, il pubblico ufficiale si prefigga di realizzare un interesse
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pubblico legittimamente affidato all'agente dell'ordinamento, pur giungendo alla violazione di legge e
realizzando un vantaggio al privato, deve escludersi la sussistenza del reato ( Cass. Sez. 6, 22/11-28/12/02 n.
42839 Rv. 222860; 27/6-25/8/08 n. 33844 Rv. 240757). Deve trattarsi tuttavia non di un fine privato per
quanto lecito, non un fine collettivo, nè un fine privato di ente pubblico e tanto meno di un fine politico.
Nella fattispecie in esame si evince dalla motivazione della decisione impugnata un evidente salto logico
nella parte in cui, dopo avere elencato, senza neppure valutarle nella loro obiettiva consistenza, le condotte
assunte dagli imputati prima, durante e dopo l'approvazione dell'accordo procedimentale, si passa a
riscontrare la tesi della "scelta politica" dell'ente, attribuendo valenza probatoria a meri resoconti sommari di
sedute del Consiglio Comunale o di Commissioni, senza neppure avvertire l'esigenza di assumere almeno le
dichiarazioni dei protagonisti attraverso i poteri di integrazione probatoria riconosciuti dall'art. 422 c.p.p..
In buona sostanza il giudice a quo .. erroneamente finisce con l'attribuire al fine politico, asseritamente
perseguito dai rappresentanti delle forze politiche locali e non dal direttore generale, la qualifica di interesse
pubblico, il cui perseguimento valeva comunque ad escludere la configurabilità dell'abuso.
E' evidente dunque la manifesta illogicità della motivazione in riferimento alla valutazione dell'elemento
soggettivo del reato, che conduce all'annullamento dell'impugnata sentenza e il rinvio al medesimo
Tribunale, che nella demandata nuova deliberazione provveda a eliminare la evidenziata lacuna
motivazionale alla luce dell'enunciato principio di diritto.
P.Q.M.
annulla la sentenza impugnata e rinvia al Tribunale di Messina per nuova deliberazione.
Così deciso in Roma, il 20 ottobre 2010. Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2010
1. Com’è noto, secondo una ormai costante giurisprudenza di legittimità, a seguito della riformulazione del
testo dell’art. 323 c.p. da parte della l. 16 luglio 1997, n. 234 per l’integrazione dell’elemento soggettivo del
reato di abuso d’ufficio è richiesto necessariamente il dolo intenzionale. In altri termini, per l’affermazione
della penale responsabilità del soggetto agente si ritiene necessario che l’evento di ingiusto danno (altrui) o
di ingiusto vantaggio (proprio o altrui) che costituisce un elemento del fatto di reato, sia da quest’ultimo
voluto come conseguenza diretta e immediata della condotta abusiva e come obiettivo primario della stessa
(da ultimo: Cass. 18.9.08 CED 241210; Cass. 06.3.08 CED 238927; Cass. 05.5.04 CED 228811. Più recentemente,
sembra richiedere addirittura l’esclusività del fine di perseguire un ingiusto danno o vantaggio Cass.
19.10.09 CED 245010; Cass. 25.8.08 CED 240757).
Inoltre, è salda opinione del Supremo Collegio che la sussistenza del dolo intenzionale nel delitto di abuso
d’ufficio sia da escludersi ogniqualvolta le condotte abusive vengano poste in essere allo scopo di perseguire
un interesse pubblico legittimamente affidato al soggetto agente (da ultimo: Cass. 16.5.05 CED 231343; Cass.
05.5.04 CED 228811; Cass. 05.8.03 CED 226566).
Con la sentenza in nota, la Suprema Corte ha inteso specificare la nozione di interesse pubblico, il cui
perseguimento vale ad escludere la rilevanza penale delle condotte abusive. In particolare, secondo la
pronuncia in commento, l’interesse pubblico dev’essere tenuto distinto da fini privati per quanto leciti,
nonché da fini collettivi, fini privati di ente pubblico e fini politici.
2. Una sintetica ricostruzione dei fatti oggetto di accertamento potrà chiarire il senso delle affermazioni della
Corte.
Il processo scaturiva dalla richiesta di rinvio a giudizio, formulata dalla Procura della Repubblica presso il
Tribunale di Messina, di G.S., direttore generale del Comune di Messina, in concorso con P.F. e V.F.,
rispettivamente presidente e vicepresidente della società sportiva F.C. Messina Peloro s.r.l., per il reato di
abuso d’ufficio aggravato dal vincolo della continuazione. In particolare la pubblica accusa contestava al
pubblico ufficiale G.S. di avere, su istigazione dei privati avvantaggiati P.V. e V.F., istruito la pratica e poi
presentato al Consiglio Comunale – che lo approvava nella seduta del 30.8.05 – un accordo procedimentale
tra il Comune stesso e la società sportiva F.C. Messina per l’affidamento diretto a quest’ultima degli stadi
comunali e delle aree pertinenziali, in violazione delle procedure concorrenziali e di evidenza pubblica
prescritte dal TUEL e dalla l. n. 109/1994, in tal modo procurando alla società un ingiusto vantaggio
patrimoniale con corrispondente danno per l’ente locale.
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Mentre nei confronti del V.F. si procedeva separatamente con rito abbreviato, il G.U.P. presso il Tribunale di
Messina pronunciava sentenza di non luogo a procedere nei confronti di G.S. e P.F. in relazione
all’imputazione per il reato di cui all’art. 323 c.p., motivando con riferimento all’assenza dell’elemento
soggettivo richiesto per l’integrazione del reato in esame. Infatti, secondo il giudice di prime cure,
nonostante la palese illegittimità della procedura adottata e il corrispondente indebito vantaggio privato, il
direttore generale del Comune di Messina si sarebbe limitato a recepire una ”precisa scelta politica dell'ente,
maturata a seguito di una vera e propria trattativa con la società sportiva”, dal momento che “la conclusione
in tempi ristretti di un accordo che assicurasse le risorse finanziarie reclamate dalla squadra rispondeva ad
una ferma intenzione del Consiglio Comunale di garantire la sopravvivenza della squadra di calcio cittadina,
impegnata nel torneo di massima divisione e di dare prestigio alla città di Messina”. Ad avviso del G.U.P.,
non sarebbe quindi stato possibile considerare un obiettivo primario del soggetto attivo quello di procurare
alla Società F.C. Messina Peloro S.r.l. un ingiusto vantaggio patrimoniale, con conseguente insussistenza del
dolo intenzionale.
3. In accoglimento del gravame della pubblica accusa, la Suprema Corte annulla la sentenza di non luogo a
procedere, censurando tra l’altro l’erronea applicazione dell’art. 323 c.p.
Il giudice di legittimità rammenta, anzitutto, la costante giurisprudenza della Sezione VI in tema di elemento
psicologico del delitto di abuso d’ufficio, secondo la quale mediante la riforma introdotta dalla l. n. 234/1997
il legislatore avrebbe inteso «limitare il sindacato del giudice penale a quelle condotte del pubblico ufficiale
dirette, come conseguenza immediatamente perseguita, a procurare un ingiusto vantaggio patrimoniale e
arrecare un ingiusto danno».
Tale limitazione implica invero, osserva la S.C., che la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di abuso
d’ufficio è comunque da escludere in caso di perseguimento - da parte del pubblico ufficiale che avrebbe
posto in essere condotte abusive con ciò provocando un ingiusto danno o vantaggio – di un «interesse
pubblico legittimamente affidato all’agente dell’ordinamento».
Tuttavia, con l’espressione “interesse pubblico” non sarebbe lecito intendere né «un fine privato per quanto
lecito, né un fine collettivo, né un fine privato di ente pubblico né tanto meno di un fine politico».
In particolare, secondo il Supremo Collegio, l’errore del G.U.P. presso il Tribunale di Messina, al quale gli
atti sono stati rinviati per nuova deliberazione, sarebbe precisamente consistito nell’avere identificato
l’interesse pubblico con un mero fine politico perseguito dagli organi elettivi del comune, consistito nel caso
di specie nell’assicurare i mezzi finanziari reclamati dalla locale squadra di calcio per evitare decisioni di
forte impatto emotivo sui tifosi, quali la cessione della squadra medesima.
4. La sentenza la Suprema Corte, a parere dello scrivente, non contribuisce a far luce sulla delicata materia
dell’elemento soggettivo del delitto di cui all’art. 323 c.p.
In particolare, occorre chiedersi quali possano essere le possibili fondamenta logico-normative dell’assunto,
costantemente ribadito dalla Corte di Cassazione e confermato anche da questa sentenza, secondo cui il
perseguimento da parte del soggetto attivo del delitto di abuso d’ufficio di un interesse pubblico vale ad
escludere la sussistenza del dolo intenzionale di ingiusto danno o vantaggio richiesto dall’art. 323 c.p.
Posto che, secondo una costante giurisprudenza di legittimità, perché possa ritenersi sussistente il dolo
intenzionale nel delitto di abuso d’ufficio l’agente deve perseguire l’evento di ingiusto danno o vantaggio
quale obiettivo primario della propria condotta, una prima possibile spiegazione potrebbe semplicemente
far leva sul fatto che, in questi casi, l’agente perseguirebbe in realtà in via primaria un obiettivo (l’interesse
pubblico) diverso da quello richiesto per l’integrazione dell’elemento soggettivo dall’art. 323 c.p.
Ma, se così fosse, il perseguimento in via primaria di qualunque altro fine, diverso da quello di procurare un
ingiusto danno o vantaggio, dovrebbe valere ad escludere la sussistenza del dolo intenzionale: ivi compreso,
dunque, un fine “politico”, come quello che secondo la stessa Cassazione ricorreva nel caso di specie, e il cui
perseguimento in altre occasioni la S.C. – seppur a livello di obiter – aveva ritenuto inidoneo a escludere il
dolo intenzionale dell’abuso d’ufficio (cfr. Cass. 05.8.03 CED 226566, Cass. 18.12.02 CED 222860).
D’altra parte, la Cassazione non si perita di precisare perché proprio e soltanto la finalità di perseguire
l’interesse pubblico (rettamente inteso) da parte del pubblico ufficiale debba essere ritenuta incompatibile
con l’intenzione, richiesta dall’art. 323 c.p., di procurare ad altri un ingiusto profitto o di arrecare un danno.
E ciò in assenza, si noti, di alcun appiglio testuale nella norma che faccia anche solo indirettamente
riferimento a una possibile rilevanza esimente del perseguimento dell’interesse pubblico da parte del
pubblico ufficiale.
5. Vi è dunque da chiedersi se questa sentenza non costituisca un tentativo inquieto di sciogliersi da quei
lacci interpretativi con i quali, almeno da una decina d’anni, il Supremo Collegio sta relegando il delitto di
cui all’art. 323 c.p. ad una pratica (e nota) inapplicabilità, attraverso una lettura estremamente rigida del
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requisito del dolo intenzionale: che è oggi considerato incompatibile non solo con il dolo eventuale, ma
anche con il dolo diretto (v. ad es. Cass. 02.8.00 CED 217558), e che parrebbe addirittura richiedere, secondo
quanto sembra emergere da numerosi precedenti della Corte, il perseguimento dell’ingiusto vantaggio o del
danno altrui come finalità esclusiva, o quanto meno dominante, da parte del pubblico ufficiale.
Implicazioni, l’una e l’altra, sulla cui effettiva irresistibilità, alla luce del dato testuale dell’art. 323 c.p.,
sarebbe opportuno, in altra e più consona sede, riflettere più a fondo
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CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE - SEZIONE SESTA PENALE – 3 APRILE 2009, n. 31256
FATTO E DIRITTO
All'esito di giudizio ordinario R.E. con sentenza in data 20.3.2001 del Tribunale di Ragusa è stato
condannato, con generiche circostanze attenuanti, alla pena condizionalmente sospesa di un anno e dieci
mesi di reclusione per due reati, unificati da continuazione, di concorso in abuso di ufficio (un unico
episodio) e in falsità ideologica in atto pubblico (due episodi) commessi con abuso delle funzioni di
componente della commissione edilizia di (OMISSIS), comune montano della provincia di (OMISSIS). Al R. e
agli altri coimputati membri della commissione edilizia comunale è stato contestato il reato di abuso di
ufficio continuato in relazione: 1) al parere emesso il 12.7.1995 favorevole al rilascio a tale C.C. di concessione
edilizia, poi rilasciata con numero (OMISSIS), corredata da elaborato progettuale del coimputato geom. D.S.,
per la costruzione di un manufatto abitativo su terreno ricadente in area C3, pur in difetto -in violazione
dell'art. 58 del regolamento edilizio comunale - di un piano di lottizzazione e di opere di urbanizzazione
primaria nell'area interessata (reti fognaria, idrica, elettrica) e pur in presenza delle indicazioni contrarie
(verifiche istruttorie) ripetutamele espresse per tali ragioni dall'ufficio tecnico dello stesso comune (geometri
F. e G.) e in sede di delibera della commissione edilizia dall'ing. A.; 2) al parere emesso un anno dopo in data
11.7.1996 favorevole al rilascio di nuova concessione edilizia in variante della concessione n. (OMISSIS) in
favore degli aventi causa dal C. al fine di allineare l'erigendo fabbricato ai fabbricati frontisti preesistenti, pur
avendo l'ufficio tecnico comunale segnalato come la nuova sagoma del fabbricato non rispettasse le distanze
minime dalle limitrofe proprietà immobiliari e ribadito che l'area era priva di infrastrutture e in particolare
di rete fognaria (geom. F.), evenienze richiamate in occasione della delibera della commissione edilizia
dall'ing. P.. Con riferimento ai due illustrati pareri della commissione edilizia al R. e ai coimputati sono stati
contestati, in rapporto alla conclamata falsità dei presupposti e dei contenuti descrittivi dello stato dei luoghi
enunciati nei due atti collegiali, altrettanti reati di falsità ideologica in atto pubblico, commessi nelle uguali
date (OMISSIS). Il Tribunale - evidenziato che, alla luce delle emergenze processuali, è indubbio che al
momento dell'adozione dei due pareri della commissione edilizia l'area teatro della concessione (originaria e
in variante) sia stata del tutto priva di infrastrutture sì da non potersi considerare edificabile nel rispetto del
regolamento edilizio comunale - ha tuttavia mandato assolto il R. e i coimputati dal secondo episodio del
(OMISSIS) integrante la fattispecie di abuso di ufficio (con la formula dell'insussistenza del fatto), atteso che
dal parere favorevole pronunciato in quella data non è derivato agli aventi diritto alcun ingiusto vantaggio
patrimoniale nè alcun danno per i controinteressati proprietari frontisti, per avere il consiglio comunale di
(OMISSIS) approvato nel gennaio 1996 un indirizzo di "recupero all'edificabilità" del località oggetto di
variante concessoria, progettandovi l'allestimento delle necessarie opere di urbanizzazione.
Adita dall'impugnazione del R. e dei coimputati, la Corte di Appello di Catania con la sentenza resa il
13.12.2005 indicata in epigrafe, richiamandosi alla motivazione della sentenza di primo grado "condivisa e
fatta propria", ha dichiarato l'improcedibilità del reato di abuso di ufficio per l'episodio del (OMISSIS)
perchè estinto per sopravvenuta prescrizione, in assenza di prove palesi dell'insussistenza del reato stesso o
di altre cause di non punibilità apprezzabili favore degli appellanti, ed ha confermato la decisione di
condanna per i due episodi di falsità continuata ex art. 479 c.p.. Per l'effetto la Corte ha determinato la pena
in nove mesi di reclusione, altresì concedendo al R. il beneficio della non menzione della condanna.
Avverso tale sentenza di appello ha proposto, mediante il difensore di fiducia, ricorso per cassazione R.E.,
articolando unitario motivo di censura per violazione di legge e carenza di motivazione con riferimento alla
asserita mancata risposta della Corte territoriale ad un rilievo espresso con l'atto di appello, per cui - data in
ipotesi per ammessa la sussistenza degli elementi, oggettivo e soggettivo, del reato di abuso di ufficio per il
parere espresso dalla c.e.c. il (OMISSIS) - i concorrenti due episodi di falsità ideologica dovrebbero ritenersi
assorbiti nei corrispondenti fatti di abuso (di uno dei quali già il primo giudice di merito ha dichiarato
l'insussistenza), di detti fatti costituendo unicamente una modalità esecutiva.
Si sostiene nel ricorso che l'ipotesi criminosa della falsità ideologica "ripercorre la stessa pista dell'art. 323
c.p., ponendo l'accento sul medesimo comportamento" del reato di abuso. Il R. avrebbe realizzato un'unica
condotta che in sè esaurisce il comportamento munito di eventuale rilevanza penale, sicchè una soltanto può
e deve essere la norma sanzionatrice. Tra il reato di abuso e quello di falsità ideologica non intercorre una
relazione di concorso formale di reati, ma una vicenda di consunzione o progressione criminosa unitaria o
più propriamente di assorbimento dell'una fattispecie nell'altra. A tale conclusione, in termini di
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applicabilità della categoria giuridica dell'assorbimento, sembra essere pervenuta anche questa Corte
regolatrice, come si evince - osserva il ricorrente - da più decisioni, tra cui meritano di essere segnalate due
sentenze della Sezione 5^ penale (Cass. Sez. 5^, 21.10.1998 n. 12226, D'Asta, m. 211928; Cass. Sez. 5^,
19.52004 n. 27778, Piccirillo, m. 228681). Non si nasconde il ricorrente che le evocate decisioni di legittimità
postulano l'assorbimento del reato di abuso in quello più grave di falsità ideologica (in conformità, del resto,
all'esplicito tenore della clausola di riserva contenuta nell'art. 323 c.p.: "salvo che il fatto non costituisca un
più grave reato"). Nondimeno il ricorrente esprime l'avviso che nel caso di specie il principio di
assorbimento renda applicabile l'art. 323 c.p. e non l'art. 479 c.p., poichè gli episodi di falso non si pongono
come ulteriori rispetto ai contegni di abuso, ma rappresentano "solamente una componente del
comportamento illecito", quali - si ribadisce - semplici modalità esecutive dei fatti di abuso.
Il ricorso di R.E. è destituito di giuridico pregio e va respinto.
Non è questa la sede per indugiare ex professo sulle problematiche del concorso formale di reati e del
concorso apparente di norme incriminatrici ovvero su quella, diversa ma speculare, della unità e pluralità
della condotta penalmente illecita. Quel che rileva è, innanzitutto, l'agevole constatazione della concreta
inapplicabilità nella vicenda di cui si è reso coprotagonista il ricorrente del criterio di assorbimento del
contestato reato di abuso nel concorrente reato di falsità ideologica nei termini esposti nel ricorso.
Ipotizzando che sia ripercorribile nella condotta dell'imputato, quale desumibile dalle due conformi
decisioni di merito, una comune sequenza di atti esecutivi coincidenti o sovrapponibili di abuso e di falsità
dichiarativa, non potrebbe sussistere dubbio alcuno sulla applicabilità del reato di falso (art. 479 c.p.) per
ritenuto assorbimento in esso del reato di abuso ex art. 323 c.p.. Non diverso esito interpretativo sarebbe
consentito dalla clausola di riserva contenuta nell'art. 323 c.p. con il suo esplicito riferimento alla
consumazione di un reato ("più grave") punito con pena edittale maggiore di quella prevista per la condotta
di abuso di ufficio. E il reato di cui all'art. 479 c.p., anche nella sua forma non aggravata dalla fede
privilegiata riconoscibile all'atto pubblico oggetto di mendacio, è punito più gravemente del reato di abuso
di ufficio.
Questa è, del resto, l'impostazione fatta propria dal concludente P.G. di udienza, che ha sollecitato
l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata limitatamente al ritenuto assorbimento del reato di
abuso in quello di falso ideologico. La clausola di riserva dell'art. 323 c.p., d'altro canto, costituisce palese
manifestazione del principio ermeneutico di consunzione o di assorbimento per implicazione dell'una
condotta in quella più grave o dotata di un più alto coefficiente di offensività, in virtù non di un criterio
logico (come accade per le cd. clausole di sussidiarietà di un reato), ma di un mero giudizio di valore, in
virtù del quale il legislatore giudica (in forma implicita da ricomporsi in via interpretativa ovvero in forma
esplicita, come nel caso dell'art. 323 c.p., per espressa previsione normativa) che la sanzione prevista per il
reato più grave sia idonea a fronteggiare anche il disvalore giuridico del reato meno grave.
Nondimeno nella vicenda per cui è ricorso neppure può trovare ingresso il descritto criterio sanzionatorio
del carattere assorbente del più grave reato di falsità ideologica (con gli effetti derisori, irrilevanti per il
ricorrente, definiti dal P.G. di udienza). In vero, ove si ponga attenzione alle sentenze di questa S.C.
richiamate dal ricorrente e alle molte altre che analogamente hanno fatto applicazione (in caso di concorrente
contestazione del reato di abuso e di reati di falsità o di reati puniti più gravemente dell'abuso) del principio
di assorbimento, considerando applicabile quoad poenam il solo reato di falso o altro reato più grave di
quello ex art. 323 cp (v., per tutte, Cass. Sez. 5^, 9.11.2005 n. 45225, Bernardi, m. 232724), ci si avvede che le
stesse muovono sempre dal presupposto di un fatto di abuso o di distorsione della funzione pubblica che si
esprime ed esaurisce in una strumentale falsificazione ideologica di un fatto o di un determinata situazione
storica percepita dal pubblico ufficiale agente. Il che rende chiaro come il principio dell'assorbimento -
sottacendo l'eventuale diversità dei beni giuridici protetti dalle diverse norme incriminatrici (pure invocata
per contrastare il descritto indirizzo giurisprudenziale) - non sia in alcun modo applicabile allorchè la
condotta dell'agente che abusi del suo ufficio si estenda al di là della falsa attestazione probatoria di un fatto,
realizzando effetti ulteriori e diversi dalla immutatio veri consumata con l'atto pubblico incriminato. Nel
senso che in tali casi la falsità non è il fine dell'antigiuridica condotta di abuso, ma è - se mai - soltanto il
mezzo per la piena o più efficace attuazione del fatto di abuso di ufficio.
Ciò è quel che deve constatarsi essere avvenuto nella dinamica della vicenda amministrativa sottesa alla
attuale regiudicanda.
Con la coerente e logica conseguenza che, in simili casi, quando la condotta dell'agente pur unitariamente
considerata (intesa, cioè, come espressione di un unitario processo volitivo ed esecutivo, sebbene composto
di più segmenti o contegni) si manifesti nell'esteriore attuazione di due o più fatti di reato diversi e
Scuola di Specializzazione per le professioni legali - Anno Accademico 2010/2011
DIRITTO PENALE II
Lezione dell’8 marzo 2011: l’abuso di ufficio
dott. Michele Toriello
soprattutto autonomi, non si è in presenza di un concorso formale di reati, nè di una sorta di progressione
criminosa o di reato complesso, ma solo e semplicemente di un classico caso di concorso materiale di reati.
Su queste basi non occorre diffondersi troppo per dimostrare, come è ben chiaro dalla sentenza di primo
grado correttamente richiamata per relationem dall'impugnata sentenza di appello, che l'atto collegiale
costituito dal parere (rectius dai due pareri, che duplice è la contestazione della corrispondente falsità
ideologica) adottato dalla commissione edilizia del comune di (OMISSIS) di cui è stato componente R.E., è
scindibile in due ben separate e autonome, nè necessariamente interdipendenti, condotte criminose
produttive di effetti giuridici diversi. Quella dichiarativa concernente la mendace attestazione della esistenza
di opere di urbanizzazione primaria nell'area oggetto delle richieste di concessione edilizia prima e di
concessione in variante poi, attinente ad uno degli eventuali presupposti legittimanti l'emissione degli
invocati atti di autorizzazione dell'ente pubblico. Quella, diversa, di esternazione di un parere favorevole
privo di fondamento perchè in contrasto con il regolamento edilizio comunale e destinato ad assicurare un
indebito vantaggio patrimoniale ai richiedenti beneficiari, atto di manifestazione di un giudizio tecnico -
valutativo discrezionale e, quindi, motivabile anche in ragione di referenti diversi da quelli integranti
l'attestazione dichiarativa (nella specie falsa) presente nel preambolo del parere finale. In altre parole il
parere integrerebbe un abuso di ufficio anche se l'atto collegiale non recasse alcuna formale menzione
dell'esistenza o meno delle opere di urbanizzazione nell'area interessata dalla concessione edilizia, poichè si
porrebbe in indipendente deliberato contrasto (in piena consapevolezza degli imputati membri del collegio)
con le emergenze dell'istruttoria amministrativa anteriore all'adozione del parere (dati comunicati
dall'ufficio tecnico comunale) e il disposto del regolamento edilizio comunale. Per converso nel caso di
specie in ugual modo i due episodi di falsità ideologica ascritti all'imputato sussisterebbero anche nella
eventuale ritenuta inesistenza dei corrispondenti contegni di abuso di ufficio (in fatto è quanto verificatosi
per il parere dell'11.7.1996 per il quale la sentenza del Tribunale ha assolto gli imputati dal reato di cui all'art.
323 c.p.), avuto riguardo alla mistificazione probatoria dei fatti contrari al vero sullo stato dei luoghi della
concessione recata dai due atti collegiali incriminati.
Atti che, appunto, oltre a determinare in tutto o in parte un ingiusto beneficio patrimoniale per il privato
richiedente, producono un coevo (o concorrente) occultamento descrittivo di una specifica situazione di fatto
(preesistenza di infrastrutture primarie mai realizzate).
E' solo il caso di aggiungere, per concludere, che già questa Corte regolatrice ha riconosciuto configurabile,
in casi assimilabili a quello oggetto della presente analisi, il concorso materiale tra reato di abuso e reato di
falsità ideologica o altro diverso reato più grave di quello di abuso per i medesimi motivi appena esposti e
senza che ciò determini alcun effettivo contrasto con il più generale indirizzo dell'assorbimento dei fatti di
abuso in eventuali concorrenti fatti di falsità in atto pubblico (cfr.; Cass. Sez. 5^, 15.11.2005 n. 1491/06,
Cavallari, m. 233044: "Sussiste il concorso materiale e non l'assorbimento tra il reato di falso ideologico in
atto pubblico e quello di abuso d'ufficio nel caso in cui la condotta del delitto di abuso d'ufficio non si
esaurisca in quella del delitto di cui all'art. 479 c.p. ma vi siano due distinte condotte"; Cass. Sez. 5^, 5.2.2008
n. 21409, Franchi, m. 240081).
Al rigetto del ricorso segue per legge la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 3 aprile 2009. Depositato in Cancelleria il 29 luglio 2009