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RISCHIO, CAUSALITÀ COLPEVOLEZZA NELL’ELABORAZIONE

GIURISPRUDENZIALE
Dott. Francesco Novarese
Incontro di studio centralizzato dal 17 al 19 settembre 2002

Premessa

Il tema della relazione da tenere in questo incontro nella sua ampiezza e complessità nella sua
versione iniziale avrebbe comportato o un tempo di gran lunga maggiore rispetto a quello
concessomi oppure la trattazione dei nodi più rilevanti, scelti in maniera non sempre satisfattiva per
chi ascolta, essendo evidente un tasso di valutazione discrezionale.
Il programma redatto a corredo dell’incontro con la specificazione dei punti rilevanti da trattare
nella relazione potrebbe comportare, in relazione all’esame dell’elaborazione giurisprudenziale e
della dottrina più accreditata una soluzione tranciante, ove venisse fornita una lettura limitata alla
sola teoria dell’aumento del rischio e non fosse valutata la possibilità di rinvenire in alcune
decisione di merito e di legittimità l’adesione ai principi dell’imputazione oggettiva in maniera
surrettizia o, in pochi casi, espressa, non dimenticando neppure di rilevare come alcune volte sono i
fautori di detta teoria a fornire di alcune pronunce un’analisi esegetica conforme a detta tesi.
Inoltre, l’emersione delle problematiche del rischio in diversi settori dell’attività umana comporta
pure la trattazione delle esperienze consolidate e delle maggiori novità, ridotte, però, ad una
casistica, che non finisca con l’intersecarsi con le altre relazioni e con gli sviluppi settoriali da
effettuare nei gruppi di studio, sicché si cercherà di enucleare principi dalle varie pronunce, traendo
spunto per il rapporto tra concetti sostanziali ed accertamento probatorio dalla nota sentenza delle
sezioni unite FRANZESE in data 11 luglio 2002 n.30328, secondo la quale “pretese difficoltà di
prova.. non possono mai legittimare un'attenuazione del rigore nell'accertamento del nesso di
condizionamento necessario e, con essa, una nozione "debole" della causalità che, collocandosi
ancora sul terreno della teoria, ripudiata dal vigente sistema penale, dell'"aumento del rischio",
finirebbe per comportare un'abnorme espansione della responsabilità per omesso impedimento
dell'evento, in violazione dei principi di legalità e tassatività della fattispecie e della garanzia di
responsabilità per fatto proprio”.
Peraltro, molte sentenze in maniera espressa affermano che ove si sostenga l’introduzione da parte
di un medico nel quadro clinico della paziente di un fattore di rischio poi effettivamente
concretizzatosi.,” non si tratta di un riferimento alla non condivisibile (e ormai ampiamente
superata) teoria dell'aumento del rischio ma di una ricostruzione che tiene conto della introduzione
di un fattore causale che ha certamente cagionato, o contribuito a cagionare, l'evento” (Cass. sez. IV
n.840 del 2008).

1
Inoltre, alcune decisioni, criticate1 in quanto in maniera surrettizia introdurrebbero la teoria
dell’aumento del rischio, poiché ritengono sussistente la responsabilità penale in un caso di
mesotelioma pleurico, in quanto gli imputati non hanno adottato le misure prevenzionali conosciute
per l’asbestosi (Cass. sez. IV ud.11 luglio 2002 dep. 14 gennaio 2003 n. 988) sostengono che “il
pluridecennale dibattito, giurisprudenziale e dottrinale, diretto ad individuare criteri soddisfacenti
per ricollegare l'evento all'omissione in termini di ragionevolezza non si è ancora concluso e, ancora
di recente, ha trovato nuovi sviluppi. L'interprete deve infatti constatare come, a seconda delle
epoche, il problema della causalità omissiva si sia posto oscillando da impostazioni teoriche (per es.
quella dell'aumento del rischio) che tendevano a trasformare i reati omissivi in questione in reati di
mera condotta - con grave lesione dei principi di legalità e di determinatezza per averli invece il
legislatore indiscutibilmente configurati come reati di evento (per es. i delitti di lesioni e omicidio) -
ed altre che richiedevano invece l'impossibile prova della certezza dell'esistenza del rapporto
eziologico non raggiungibile in questa materia non solo per le caratteristiche ipotetiche della
causalità omissiva ma anche per la variabilità dei casi specifici, per la coesistenza di concause e per
la frequentissima non assolutezza delle leggi scientifiche applicate.”
2
Del resto, illustre dottrina respinge con fermezza la teoria dell’aumento del rischio, perché
sostituisce la causalità generale a quella individuale, ponendosi in contrasto con l’art.27 Cost. e con
l’art.25, giacché viola i principi di legalità e di personalità della responsabilità penale e
trasformando le fattispecie causalmente orientate in reati di mera condotta, imperniati sulla
previsione di un pericolo concreto.
Tuttavia, un simile drastico approdo non considera alcune osservazioni di indiscutibile pregnanza.
La teoria dell’imputazione oggettiva, sostenuta in un paese come la Germania, il cui codice penale
non disciplina il rapporto di causalità come, invece, il nostro, non può essere ritenuta applicabile
come tipicità del reato cioè come funzione costitutiva dell’illecito penale o quale criterio di
determinazione del rapporto causale ovvero come clausola di esclusione dell’antigiuridicità, poiché
tutte queste questioni vengono risolte dal nostro diritto positivo con altre norme, mentre un
grandissimo giurista3 rileva la poca utilità della prestazione del consenso e dell’accettazione del
rischio, in quanto sono pochi i reati colposi, che concernono interessi disponibili.
Peraltro, pur non potendo trovare applicazione nei nodi fondamentali del diritto penale (causalità,
colpevolezza, tipicità, legalità, principio di offensività e reati di pericolo astratto), assume
un’innegabile valenza quale criterio ermeneutico nelle situazioni complesse, sicché costituisce un
utile ausilio per limitare la teoria condizionalistica e per raggiungere soluzioni eque e condivisibili,
purché la teoria dell’aumento del rischio in contrasto con l’impostazione di un illustre giurista non
venga utilizzata per introdurre il principio di compatibilità nell’esercizio di attività pericolose e di

1
S. Beltrani: Corso di diritto penale. Cedam. Padova. 2011,238
2
F. Stella: Giustizia e modernità: Padova
3
F. Bricola: Aspetti problematici del c. d. rischio consentito nei reati colposi ora in Responsabilità dell’impresa per
danni all’ambiente ed al consumatore a cura di Canestrari e Melchionda. Ilano, Giuffrè 1997
2
impresa, quando si sia in presenza di interessi fondamentali e primari quali salute, ambiente, interno
ed esterno alla fabbrica,.
In tal modo, così ridotto il suo campo di intervento, la teoria dell’aumento del rischio si pone quale
ulteriore strumento per superare casi,ancora esistenti di responsabilità (para)oggettiva, e come
interpretazione costituzionalmente adeguata dei principi di legalità e di personalità della
responsabilità (artt.25 e 27 Cost.), ribaltando e superando le precedenti critiche su riferite e quella di
un giurista4, secondo cui detta teoria, inapplicabile nel diritto penale italiano, non sarebbe altro che
“una duplicazione concettuale del nesso tra colpa ed evento nel reato colposo”.
Non può negarsi, però, che i concetti di rischio e di evoluzione scientifico- tecnologica si
inseriscono nel mondo contemporaneo in cui dominano modelli organizzativi complessi che
concernono settori importantissimi dell’attività umana, sicché, per tutelare interessi primari e
fondamentali, si è anticipata la soglia di tutela e si sono formulati numerosi reati di pericolo astratto
con clausole generali, che possono trovare una loro costituzionale lettura attraverso il principio di
offensività ed il bilanciamento degli interessi implicati; tutti di rilevanza costituzionale primaria.
Del resto, la nozione di rischio e la stessa parola trovano vari riferimenti in numerosi settori
dell’attività umana come dimostra la trattazione capillare prevista in questo incontro.
Pertanto appare opportuno prendere le mosse da una sentenza della quarta sezione della Corte di
Cassazione (n. 4391 del 2012), relativa alla rilevanza dell’art.2236 c. c. ai fini della configurabilità
della colpa professionale del medico, estesa dal collega ROCCO BLAIOTTA, autore di una
pregevole monografia sul nesso causale5,in cui accoglie la teoria dell’aumento del rischio, giacché
la predetta pronuncia costituisce un’importante lettura della sentenza n.166 del 1973 della Corte
Costituzionale, che aveva limitato l’applicazione della norma richiamata, sia nel campo civile sia
penale, non distinguendo al riguardo la decisione, ai soli casi di imperizia, ed aveva escluso la
rilevanza della “colpa grave” in casi di imprudenza e negligenza, in quanto le altre forme di colpa,
anche se in attività medica, necessitavano di un giudizio improntato “ a criteri di normale severità”
così sconfessando quella giurisprudenza che, nel settore della colpa nell’esercizio di attività
professionali, limitava la responsabilità, ai fini dell’ imputazione, alla sola colpa grave6.
La sentenza, pur aderendo formalmente all’orientamento ormai prevalente, secondo cui la
previsione dell’art.2236 c. c. esprime un principio del tutto estraneo al diritto penale (Cass. sez. IV
9 giugno 1981, Fini, rv.150650), valorizza quella giurisprudenza 7, tributaria di quell’orientamento
dottrinale, espresso da un giudice – giurista8, in base alla quale detto articolo del codice civile può
trovare applicazione come “regola di esperienza cui attenersi nel valutare l'addebito di imperizia,

4
G. Marinucci:Non c’è dolo senza colpa. Morte dell’imputazione oggettiva dell’evento e trasfigurazione nella
colpevolezza? In Riv. It. Dir. Proc. pen.1991,3.
5
R. Blaiotta: Causalità giuridica. Giappichelli. Torino 2010.
6
Vedi fra tante Cass. sez. IV 21 ottobre 1970 in Riv. It. Dir. E proc. pen. 1973, 259, citata nella nota di M. Ferraro in
Cass. pen.2012,2079.
7
Cass. sez. IV 26 ottobre 2007 n. 39592 rv.237875
8
IADECOLA: Colpa professionale in Dizionario di diritto pubblico a cura di Cassese. Giuffrè. Milano 2006
3
qualora il caso concreto imponga la soluzione di problemi di speciale difficoltà”. Non sta a me
svolgere notazioni critiche, ma sarà opportuno osservare come ancora una volta l’adesione alla
teoria dell’aumento del rischio potrebbe ridurre il campo della responsabilità penale in settori di
particolare rilevanza, in cui la diligenza e la perizia dovrebbero essere richiesti in massimo grado9.
L’importante decisione affronta pure un’altra tematica rilevante qual è quella della rilevanza dei
protocolli e delle linee guida, affermando che le linee guida, i protocolli sono, in talune situazioni,
in grado di offrire delle indicazioni e dei punti di riferimento10. Tuttavia, anche in questa materia, vi
sono dei rilevanti problemi, perché occorre comprendere qual sia la logica nella quale si è formata
una prassi di comportamento, perché spesso le linee guida sono frutto di scelte totalmente
economicistiche, sono ciniche o pigre; e dunque non è detto che una linea guida sia un punto di
approdo definitivo. Alcune volte le linee guida sono obsolete o inefficaci e, dunque, anche sulle
linee guida occorre posare uno sguardo speciale, occorre attenzione e cautela; le linee guida non
sono - da sole - la soluzione dei problemi. Del resto in dottrina,11 a proposito delle prassi

9
Segue questa impostazione la consolidata giurisprudenza di legittimità, secondo cui in tema di responsabilità per
colpa medica, "rischio consentito" (o aggravamento del "rischio consentito") non significa esonero dall'obbligo di
osservanza delle regole di cautela, ma rafforzamento di tale obbligo in relazione alla gravità del rischio, che solo in caso
di rigorosa osservanza di tali regole potrà effettivamente ritenersi consentito per quella parte che non può essere
eliminata.

10
Cass. sez. IV 2 marzo 2011 n.8254 rv.249750, Grassini, in cui è stata affermata la responsabilità per colpa medica,
nonostante il rispetto delle linee guida, poiché non erano state considerate le criticità e le particolari condizioni del
paziente, che obbligavano ad un intervento più pronto e diverso; Cass. sez. IV 24 febbraio 2000 n. 6511, Minella
rv.216732, che, invece, ha escluso la responsabilità, nonostante non fossero stati seguiti protocolli diagnostici, poiché
non era certo e neppure probabile, che, eseguiti detti esami, la malattia, all’epoca, sarebbe stata diagnosticabile; Cass.
sez. IV 5 giugno 2009 n.38154 rv.245781, relativa a responsabilità del medico per decesso di un giovane calciatore, a
causa di una cardiopatia ipertrofica, perché non erano stati effettuati esami strumentali di secondo livello, ancorché non
richiesti da protocolli medici, ma resi necessari dalla presenza di anomalie presenti nel tracciato elettrocardiografico;
vedi anche Cass. sez. IV 21 dicembre 2004 n. 10212 in Ragiusan 2006,sez VII, 417.
Queste sentenze in parte contrastano con un obiter di una non molto seguita decisione delle SS.UU. (Cass. n.2437 del
21 gennaio 2009) , secondo cui “uno specifico risalto (ha) la normativa – non poco evolutasi nel corso del tempo –
elaborata dagli organismi professionali in campo di deontologia medica; giacchè da essa, per un verso, si chiarisce la
portata del "circuito informativo" che deve collegare fra loro medico e paziente, in vista di un risultato che –
riguardando diritti fondamentali – non può non essere condiviso; e, dall'altro lato, è destinata a concretare, sul terreno
del diritto positivo, le regole che costituiscono il "prescrizionale" per il medico, e la cui inosservanza è fonte di
responsabilità, non necessariamente di tipo penale.”
.
11
Sul valore delle linee guida , loro natura e carattere, vedi PORTIGLIATI BARROS: le linee guida nell’esercizio della
pratica clinica in Dir. Pen. e proc. 1996,891; Bilancetti. La responsabilità civile e penale del medico Cedam.Padova
2006,744; BONA- IADECOLLA: in La responsabilità dei medici e delle strutture sanitarie. Profili penali e civili.
Giuffrè Milano 2009, 81, secondo cui la valenza delle linne guida non è assoluta, perché impiegano parametri generali,
non sono personalizzati rispetto al singolo caso e paziente, non sono vincolasti, ma costituisco insegnamenti non
definitivi, che possono servire per l’aggiornamento culturale del medico se spesso aggiornate. Vedi pure PIRAS: Linee
guida e colpa specifica del medico in Medicina e diritto penale a cura di Cannestrari- Giunta- Guerrini – Padovani ETS
Napoli 2009, 285, che inserisce le stesse nell’art.43 c.p..CASTRONOVO-RAMPONI: Dolo e colpa nel trattamento
medico sanitario in Trattato di biodiritto. Le responsabilità in medicina a cura di Belvedere- Riondato.Ipsoa. Milano
2011 ritengono le linee guida quali utili strumenti di controllo per controllare la ragionevolezza delle conclusioni dei
periti o dei CT di parte. A mio modesto parere, il carattere non vincolante delle linee guida e la necessità di controllarne
l’effettivo aggiornamento impediscono di farle rientrare nelle discipline di cui all’art.43 c. p., e tanto meno di costituire
degli strumenti di controllo delle valutazioni dei periti, ma possono costituire importanti indicazioni per il giudice in
tema di causalità della colpa e di colpa, giacché il mancato compimento di un intervento indicato come appropriato può
essere qualificato come condotta colposa, perché inosservante di quelle regole dell’ars medica, che mirano quanto meno
4
applicative, si è condivisibilmente manifestato il timore che esse possano fornire indebiti cappelli
protettivi a comportamenti sciatti, disattenti: un comportamento non è lecito perché è consentito, ma
è consentito perché diligente”.
La sentenza tratta, anche, la questione della nozione di rischio, sostenendo che non sempre il rischio
inerente ad una data attività può essere eliminato del tutto per effetto di condotte appropriate.Si
parla, allora di rischio consentito. Esistono, in effetti, differenti categorie di rischio. Rischi
totalmente illeciti, come per esempio accendere il fuoco accanto ad un deposito di esplosivi. Poi,
rischi totalmente leciti, come per esempio viaggiare in aereo, fare una passeggiata nel bosco, gestire
una società autostradale anche nel periodo estivo che vede traffico ed incidenti crescere. Si tratta di
attività di cui l'ordinamento penale, per definizione, non si interessa in un dato momento storico,
perché si reputa che i rischi connessi siano accettabili e non abbiano bisogno di governo.
Esiste poi un'ampia categoria più sfumata, più difficile: il rischio è consentito entro determinati
limiti. Si tratta di attività che comportano una misura di pericolosità in tutto o in parte ineliminabile
e che, tuttavia, si accetta che vengano esercitate perché, per esempio, afferenti ad importanti ambiti
produttivi, scientifici, medici. Il rischio non può essere evitato ma deve essere governato, mantenuto
entro determinati limiti. Talvolta è difficile stabilire qual sia il punto di equilibrio, la linea di
confine che segna il passaggio dal lecito all'illecito. Qualche volta vi provvede direttamente il
legislatore; vi provvede ogni tanto l'autorità amministrativa, indicando le modalità dell'attività; ma,
nella maggior parte dei casi, questi vincoli di carattere normativo non si riscontrano ed anche
quando si rinvengono spesso non sono esaustivi. Infatti le normative prevenzionistiche sono spesso
datate o per qualche ragione inadeguate e quindi l'operatore è costretto a dover pur sempre acquisire
gli strumenti di conoscenza o operativi necessari per governare, cautelare al meglio il rischio di cui
è gestore.
Questa multiforme incertezza,che caratterizza gran parte della moderne attività, cui si interessa il
diritto penale, conduce ad un risultato assai impegnativo: l'arbitro che stabilisce il punto di confine
tra il lecito e l'illecito finisce per essere proprio il giudice, con l'aiuto, nella maggior parte dei casi,
degli esperti. Ciò lascia ben intendere che l'apprezzamento in ordine al superamento dell'ideale linea
di confine tra lecito ed illecito va compiuto con prudente discernimento”.
La tesi del rischio consentito è stata sviluppata in altra decisione, che in maniera didascalica, chiara
e completa l’applica al settore delle attività sportive12, trattandosi di un aspetto non espressamente
approfondito nei gruppi di lavoro e per la sua sempre maggiore rilevanza ci si sofferma.
Le attività lecite "pericolose", nelle quali gli eventi dannosi sono in larga misura prevedibili e non
sempre evitabili, sono quelle concernenti il c. d. rischio consentito, perché l'ordinamento le
autorizza, per la loro elevata utilità sociale. La medesima attività, in determinate condizioni, viene

a contenere i rischi derivanti dall’evoluzione della patologia del paziente vedi VIGANO’ in Responsabilità penale e
rischio nelle attività mediche e di impresa (un dialogo con la giurisprudenza) a cura di R. Batoli Firenze 2010,217.
12
Cass. sez. IV 1 giugno 2010 n.20595 rv.247342..
5
autorizzata e in altre vietata (per es. le corse automobilistiche vietate nelle strade ordinarie e
consentite nei circuiti) spesso per ragioni di natura economica o commerciale ovvero per ragioni
che mirano ad estendere le conoscenze scientifiche (si pensi alle attività di esplorazione spaziale).
”Quanto all'origine dell'"attività pericolosa" (che nel diritto civile comporta una sostanziale
inversione dell’onere della prova art. 2051 c.c.) si possono richiamare le caratteristiche (non
necessariamente coesistenti) indicate dalla giurisprudenza civile di legittimità che le ha individuate
nella pericolosità intrinseca, in quella dipendente dalle modalità di esercizio e in quella derivante
dai mezzi adoperati (si vedano tra le altre Cass., sez. III, 15 ottobre 2004 n. 20334, rv. 577728; 2
marzo 2001 n. 3022, rv. 544329; sulla natura oggettiva della responsabilità civile nell'esercizio delle
attività pericolose v. Cass., sez. III 4 maggio 2004 n.8457, rv.572599;13 maggio 2003 n.7298,
rv.562953)”.
”Nelle attività pericolose, ad un più elevato grado di prevedibilità di eventi dannosi corrisponde
anche un minor grado di prevenibilità dei medesimi mentre l'osservanza delle regole cautelari non
può che tendere ad una riduzione del pericolo che però non può, di norma, essere eliminato; le
relative regole cautelari sono quindi regole cautelari "improprie" (che, a differenza di quelle
"proprie", sono idonee a ridurre il margine di rischio ma non ad eliminarlo). Al di là delle attività
vietate tout court - perché ritenute socialmente non utili (o di utilità non così rilevante da consentire
l'assunzione del rischio) - le attività pericolose vengono consentite con un bilanciamento di interessi
idoneo a conseguire un equilibrio tra rischio assunto e benefici conseguibili e una valorizzazione
dell'obbligo di osservanza delle cautele correlato all'importanza dei beni in discussione (un rischio
elevatissimo sarà consentito solo per salvaguardare beni fondamentali: si pensi ai vigili del fuoco
che, a rischio della loro vita e qualche volta senza osservare le più elementari regole di prudenza,
intervengono per salvare vite umane esponendo se stessi al rischio di perdere la vita).
La regola del bilanciamento tra gli interessi contrapposti costituisce la chiave di volta per
individuare l'eventuale superamento del rischio consentito: superamento che sarà ammesso solo per
la tutela di beni di pari o superiore valore.
Rischio consentito non significa però esonero dall'obbligo di osservanza delle regole di cautela ma
semmai rafforzamento: solo in caso di rigorosa osservanza di tali regole il rischio potrà ritenersi
effettivamente "consentito" per quella parte del rischio che non può essere eliminato. Insomma
l'osservanza delle regole cautelari esonera da responsabilità per i rischi prevedibili - ma non
prevenibili - solo se l'agente abbia rigorosamente rispettato le regole cautelari anche se non è stato
possibile evitare il verificarsi dell'evento.
Nel caso di attività vietata ovviamente l'unica regola cautelare da seguire è l'astensione: se il
legislatore l'ha vietata vuoi dire che non ha ritenuto, nel bilanciamento di interessi di cui si è detto,
che l'attività fosse di una qualche utilità o che i benefici fossero tali da compensare i pericoli.
L'agente che agisca in violazione del divieto risponde quindi delle conseguenze verificatesi anche se
rispetta le eventuali regole cautelari dettate dall'esperienza (o regole cautelari specifiche preesistenti
6
al divieto) perché questo obbligo non viene meno nel caso di svolgimento di attività illecite o
vietate.
Non è necessario che l'attività pericolosa sia consentita normativamente; la sua utilità sociale può
derivare anche dal riconoscimento tacito dell'uso da parte della comunità. Alcune attività pericolose
sono addirittura obbligatorie o necessitate (si pensi alle attività di contrasto dei disastri o della
criminalità, ma anche all'attività medico chirurgica d'urgenza) e in questi casi avviene talvolta che la
necessità improrogabile dell'intervento possa ridurre l'esigibilità dell'osservanza delle regole nei
limiti di una valutazione comparativa (spesso da operare nell'immediatezza e quindi con un più
ampio margine di errore) tra costi e benefici (si pensi al comandante di un reparto di vigili del fuoco
che deve scegliere tra il sottoporre i suoi uomini ad un elevato rischio per la loro vita - al fine di
salvare persone intrappolate da un incendio - e l'astensione dall'attività di soccorso; o all'intervento
della polizia giudiziaria nel corso delle attività di contrasto di azioni criminali).
Proprio perché si tratta di attività pericolose - per le quali l'ordinamento accetta l'esistenza
ineliminabile del margine di rischio - la persona alla quale è attribuita una posizione di garanzia o di
tutela nella salvaguardia di beni primari ha un obbligo di ancor maggiore intensità, nello
svolgimento delle attività medesime, di ridurre il margine di rischio nei limiti più ristretti che le
conoscenze scientifiche, le nozioni di comune esperienza e le disponibilità di materiali utilizzabili
consentono.”
Nelle attività di contrasto alla criminalità, a titolo esemplificativo, le persone preposte dovranno
dotare chi è esposto al rischio di conflitti a fuoco delle attrezzature idonee (armi adeguate, giubbotti
antiproiettile ecc.) a ridurre nei limiti del possibile il rischio ineliminabile13.
In definitiva, nelle attività pericolose consentite, proprio perché la soglia della prevedibilità è più
alta, nel senso che gli eventi dannosi sono maggiormente prevedibili (e spesso in minor misura
evitabili) rispetto alle attività comuni, maggiore deve essere il livello di diligenza, prudenza e
perizia nel precostituire condizioni idonee a ridurre il rischio consentito nei limiti del possibile14.
Quindi ineliminabilità del rischio non corrisponde ad un'attenuazione dell'obbligo di garanzia (o di
tutela dei beni) ma semmai ad un suo rafforzamento secondo i criteri che si ispirano all'utilizzazione
delle regole suggerite dalla migliore scienza ed esperienza.
” Non esistono soltanto attività pericolose il cui esercizio è giustificato da ragioni di solidarietà
umana (per es. l'attività medico chirurgica, la prevenzione delle conseguenze dei disastri naturali
ecc.) o dalla necessità di garantire l'ordine e il rispetto delle leggi (per es. attività di contrasto alla

13
Una decisione (Cass. sez. IV 4 luglio 2006 n.32286 rv.235368, resa con riferimento all’art.2087 c. c. ed alla
violazione delle norme antinfortunistiche, ha ritenuto la responsabilità del datore di lavoro per il delitto di omicidio
colposo in quanto non aveva fornito di giubbotto antiproiettile una guardia giurata, deceduta nel corso di una rapina.
14
E’ questa la posizione assunta da V. Musacchio in Posizione di garanzia del datore di lavoro, omicidio colposo ed
infortuni sul lavoro in Lav. E prev. Oggi 2008,467. L’A. chiarisce un simile rigore trova un limite nelle stesse
possibilità di dominio e di controllo degli accadimenti suscettibili di porre a repentaglio l’integrità del bene protetto,
aggiungendo che tale interpretazione estensiva della disciplina civilistica si giustifica con riguardo ai beni
costituzionalmente protetti della salute (art.32) della tutela del lavoro in tutte le sue forme (art.35 primo comma Cost.) e
del principio di solidarietà (art.2 Cost.).
7
criminalità) o dalle necessità della ricerca scientifica (per es. le esplorazioni spaziali).
Esistono anche attività pericolose, e ciò non ostante consentite, che soddisfano esclusivamente
esigenze di carattere sociale, ludico o commerciale: si pensi alle corse automobilistiche (in
particolare a quelle che si svolgono sulle strada ordinarie chiuse al traffico) o ad alcuni sport (per es.
il pugilato) fondati proprio sul contrasto fisico e sull'uso di una violenza, sia pur disciplinata, ma
diretta al prevalere fisico di un contendente sull'altro.
Alcuni sport (per es. il calcio o il rugby) pur non avendo come finalità il prevalere fisico o della
forza del contendente (come avviene invece nel pugilato o nelle varie forme di lotta), espongono al
rischio di contatti fisici dai quali può derivare una conseguenza negativa sulla salute dei
contendenti.
Queste attività sono ovviamente consentite dall'ordinamento e si pone dunque il problema di
verificare - nel caso in cui dal loro esercizio derivino danni ai partecipi di queste competizioni -
l'esistenza dei presupposti per l'addebito soggettivo di tali eventi tenendo conto che alle attività
sportive non possono essere automaticamente estesi tutti i principi che si fondano sul rischio
consentito.
In particolare è necessario individuare le regole cautelari la cui mancata osservanza consente di
addebitare per colpa, ai soggetti tenuti al loro rispetto, l'evento verificatosi tenendo però conto della
circostanza - che in qualche modo diversifica le attività sportive in esame da quelle pericolose in
genere - che in queste attività sportive la contrapposizione, anche fisica, è connaturata al gioco e che
dunque chi vi partecipa acconsente preventivamente anche a subire azioni che potrebbero ledere la
sua integrità fisica”. Una simile rigorosa impostazione non lascia ogni soluzione al libero
convincimento del giudice, né consente allo stesso di mediare o di bilanciare contrapposti interessi,
ma gli impone di ricercare i presupposti normativi su cui fondare l’esistenza di detta esimente.
Per tale ragione, la dottrina 15 e la giurisprudenza16 si sono preoccupate di individuare il fondamento
ed i limiti di liceità sulla base del diritto sostanziale esistente.

15
Per un panorama delle differenti tesi vedi Bendoni: L’”elusione” del giudizio di tipicità in materia di lesioni sportive
in Cass. pen. 2011, 4327
16
Cass., sez. V 13 febbraio 2009 n. 17923, Spada, rv. 243611; 4 luglio 2008 n. 44306, Maccherani, rv. 241687;
6 giugno 2006 n. 38143, Castenetto, n.m.; , 20 gennaio 2005 n. 19473, Favotto, rv. 231534; 2 giugno 2000 n. 8910,
Rotella, rv. 216716; 2 dicembre 1999 n. 1951, Rolla, rv. 216436; sez. IV 12 novembre 1999 n. 2765, Bernava, rv.
217643) Per il merito vedi App. Palermo 26 novembre 2002 in Giur. merito 2003,719; Trib. Rieti 12 gennaio 2001,
Polletti in giur. merito 2001,409 ;Trib: Udine 6 giugno 1990 in Riv. Dir. Sport 1991,85.e Trib. Belluno 28 maggio 1986
ivi 1991,95 Trib: Firenze 30 marzo 1982, Martina in Riv. It. Med. Leg.1985,246. In alcune si è sottolineato come, nel
caso in cui la trasgressione della regola di gioco sia colposa, ciò integra sempre l'illecito sportivo mentre per l'illecito
penale occorre distinguere:
se la trasgressione è volontaria il reato deve essere addebitato a titolo di colpa quando la violazione sia avvenuta nel
corso di un'ordinaria azione di gioco mentre, se la trasgressione avviene volontariamente, l'addebito è a titolo di dolo (si
vedano le citate sentenze Castenetto e Rolla, quest'ultima relativa ad un incidente verificatosi durante una partita di
pallacanestro). Una precedente giurisprudenza (sentenza Bernava riguardante un incidente avvenuto nel corso di un
incontro di esibizione di "karate") richiamava i doveri di lealtà sportiva e affermava che "il fatto lesivo non può mai
essere conseguenza di colpi inferti per dolo o per colpa, nei casi in cui l'esercizio dello sport divenga solo l'occasione
per ledere volontariamente l'avversario ovvero per l'esplicazione di una violenza eccessiva, ulteriore a quella c.d. "di
base" necessaria per lo svolgimento dello sport".
In un'altra fattispecie si è invece precisato che, anche quando la trasgressione della regola del gioco sia volontaria, se "la
violazione avvenga nel corso di un'ordinaria situazione di gioco, il fatto avrà natura colposa, in quanto la violazione
8
L’inquadramento del “rischio consentito” nell’imputazione colposa e/o nell’antigiuridicità, non
sempre è condiviso dalla dottrina, che si dimostra molto critica con detta teoria poiché
l’individuazione del punto di equilibrio tra i diversi interessi in gioco o si basa su considerazioni
fattuali e prassi discutibili17 oppure determina situazioni di incertezza 18
, sicché il limite è
rappresentato dalla violazione delle regole tecniche19, giungendosi da parte di alcuni 20
ad imporre
21
un generale obbligo di astensione dalle azioni creatrici dei relativi pericoli , oppure a ritenere più
utile inquadrare dette azioni socialmente adeguate nell’ambito della tipicità.
Con particolare riferimento alla responsabilità penale per fatti commessi nell’esercizio delle attività
sportive occorre rilevare, con la sentenza Pantano, che “i casi dei quali stiamo parlando integrano
tutti fatti tipici penalmente sanzionati (percosse, lesioni o addirittura omicidio). L'unico aspetto che
può valere ad escluderne la rilevanza penale non può dunque che riguardare l'antigiuridicità tenendo
conto che si tratta di attività non solo consentite ma favorite dall'ordinamento per la riconosciuta
utilità sociale che le contraddistingue. Che cosa rende dunque (penalmente) lecita una condotta
rientrante nella fattispecie tipica di un reato? La risposta più frequente è quella che inquadra il tema
nelle cause di giustificazione; in particolare sono state sostenute le tesi che individuano la causa di
giustificazione nel consenso dell'avente diritto, nell'esercizio di un diritto, in una causa di
giustificazione non codificata. Va però premesso che il problema si pone esclusivamente se l'agente
abbia cagionato un danno all'avversario in conseguenza di un'azione posta in essere in violazione
della pertinente disciplina sportiva non nel caso in cui abbia rispettato le regole sportive a meno che
non abbia travalicato i limiti di ciò che è consentito (è stato fatto l'esempio del calciatore che, senza
alcuna necessità, sferri un calcio fortissimo al pallone malgrado l'avversario si trovi in posizione di
pericolo) e questa soluzione è condivisa anche dalla giurisprudenza civile di legittimità (v. Cass.,
sez. 3, 8 agosto 2002 n. 12012)”.

consapevole è finalizzata non ad arrecare pregiudizi fisici all'avversario, ma al conseguimento - in forma illecita, e
dunque antisportiva - di un determinato obiettivo agonistico" (si veda la citata sentenza Favotto, che precisa anche che
neppure con la violazione delle regole del gioco "viene travalicata l'area del rischio consentito, ove la stessa violazione
non sia volontaria, ma rappresenti, piuttosto, lo sviluppo fisiologico di un'azione che, nella concitazione o trance
agonistica (ansia del risultato), può portare alla non voluta elusione delle regole anzidette").
In un'altra ipotesi (sentenza Maccherani) è stata ritenuta l'ipotesi delle lesioni colpose nel caso di fallo volontario di tale
durezza da esporre il giocatore ad un rischio superiore a quello accettabile dal partecipe alla competizione tanto più che,
nel caso di specie, trattavasi di una partita di calcio amichevole tra compagni di scuola nella quale (come in genere nelle
partite amatoriali) il livello di accettazione del rischio è ancora inferiore (la sentenza Maccherani si riferiva ad uno
sgambetto in una partita tra compagni di scuola). Da questo percorso giurisprudenziale si è tratta, in dottrina, la
conclusione che la Corte di Cassazione abbia operato una distinzione del grado della colpa facendo rientrare nella
copertura del rischio solo la colpa lieve da inquadrare nella c.d. "colpa incosciente" ma non la colpa grave e quella
cosciente.Tutti questi esempi, citazioni e considerazioni sono contenute nella citata sentenza PANTANO.
17
Fiandaca- Musco: Diritto penale.
18
F. Mantovani s. v. Colpa in Dig. Discipline penali. Torino 1988
19
F. Bricola: Aspetti problematici del c. d. rischio consentito in Bollettino dell’Istituto di diritto e procedura penale
Pavia 1960-1961 approfondito in Responsabilità penale per il tipo ed il modo di produzione in AA. VV. La
responsabilità dell’impresa per i danni all’ambiente ed ai consumatori. Milano 1978.
20
G. Marinucci: Non c’è dolo senza colpa. Morte dell’imputazione oggettiva dell’evento e trasfigurazione nella
colpevolezza in Riv. It. Dir. Proc. pen. 1991,21
21
A tale impostazione è stato giustamente osservato che la presenza di detto obbligo generale di astensione contrasta
con la funzione regolatrice della norma cautelare, che, conseguentemente, non può risolversi in un divieto costituente il
suo opposto.
9
Tale ultimo arresto, pur se ispirato a commendevoli ragioni di contenimento di condotte sportive
violente, pur se lecite (il c. d. gioco maschio o all’inglese nel calcio), non considera che nel caso di
danno provocato senza violazione della disciplina sportiva, difetta la tipicità del fatto doloso o
colposo. “La soluzione maggiormente condivisa è quella che individua in generale, nel caso di
danni provocati nell'esercizio dell'attività sportiva, un'esimente non codificata, che esclude la
punibilità di fatti che costituirebbero ordinariamente reato, fondata sull'analogia da ritenere
consentita perché in bonam partem. E la giustificazione di questa impostazione si fonda proprio sul
rischio consentito: chi partecipa ad una competizione sportiva - che prevede come normale il
contatto fisico tra i contendenti - sa, e accetta, che questo contatto possa avvenire anche in forme
violente e anche contravvenendo alle regole del gioco. Acconsente dunque ai rischi che provengono
sia dal contatto fisico normale sia da quello che
deriva dalla violazione delle regole disciplinari.
Non può invece rientrare nel rischio consentito, e quindi essere coperto dall'esimente, ciò a cui il
giocatore non ha espressamente o tacitamente consentito: in particolare il fatto lesivo volontario a
meno che quel particolare tipo di attività sportiva non preveda che il contendente colpisca
volontariamente l'avversario (per es. nel pugilato, attività sportiva nella quale, peraltro, si pongono
analoghi problemi nel nel caso di colpi proibiti.” Detta impostazione appare quella maggiormente
aderente alla normativa nazionale, ove si consideri che il riferimento al consenso dell’avente diritto,
a norma dell’art.5 cc, può concernere solo le percosse e le lesioni e non eventi più gravi.
“La giurisprudenza di legittimità è univoca nel ritenere esente da responsabilità il contendente che
cagioni un danno nello svolgimento del gioco anche se, in ipotesi, abbia volontariamente violato la
norma regolamentare purché la finalità dell'azione fosse rivolta al conseguimento del risultato
sportivo (per es. nel calcio il difensore spinge volontariamente l'avversario per impedirgli di
intercettare il pallone; in questo caso soccorre soltanto il regolamento della disciplina e il calciatore
potrà essere soggetto alle conseguenze previste dall'ordinamento sportivo, e non alla responsabilità
penale se l'avversario subisce lesioni, perché la condotta dell'agente era finalizzata allo svolgimento
del gioco).
Dunque si può pervenire a questa prima conclusione: il colpo lesivo inferto volontariamente non è
coperto dall'esimente in questione se estraneo alle finalità del gioco, il che si verifica, per es.,
quando l'azione lesiva sia posta in essere al di fuori dell'azione di gioco (si può fare l'esempio del
calcio inferto ad un avversario in una zona del campo estranea all'azione)22; parimenti l'esimente
non si applica in tutti i casi in cui la condotta violenta non sia finalizzata all'azione di gioco.”
La sentenza Pantano soggiunge che “ad analoga conclusione può però pervenirsi anche nel caso in
cui l'azione violenta - pur finalizzata all'azione di gioco - sia non solo contraria alla disciplina
sportiva ma addirittura estranea alle finalità del gioco: il calciatore che, sia pure in un'azione di
contrasto, sferra volontariamente una gomitata sul viso dell'avversario non compie un'azione di
22
E’ il caso di cui si occupa Cass. sez. V 16 novembre 2011 n. 42114 rv.251703
10
gioco (come nel caso in cui contrasti irregolarmente il possesso della palla) ma pone in essere una
condotta estranea al gioco.
In entrambi questi casi (colpo inferto volontariamente al di fuori dell'azione di gioco; colpo inferto
volontariamente nell'azione di gioco ma per finalità estranee all'azione) il fatto non può che essere
addebitato a titolo di dolo. In queste ipotesi l'attività sportiva è infatti estranea all'evento e
costituisce soltanto un'occasione del suo verificarsi. L'agente non persegue una finalità di contrasto
dell'avversario nell'azione di gioco ma lede volontariamente l'incolumità dell'avversario.”
Queste considerazioni, se in astratto condivisibili, nella concreta realtà sportiva sembrano
difficilmente accettabili, giacché, ove il calciatore, per riferirsi all’esempio contenuto in sentenza,
salta con i gomiti alti per darsi slancio per colpire di testa il pallone o cerchi in maniera poco
corretta di porre un certo spazio tra sé e l’avversario, non sembra che si possa ritenere sussistente un
episodio di rilevanza penale.
Pertanto sembra da seguire quanto rilevato dalla medesima pronuncia, secondo cui “non va confuso
il fatto violento coscientemente diretto a colpire l'avversario con la cosciente violazione della regola
sportiva di comportamento. Se questa violazione è diretta esclusivamente ad impedire l'azione
dell'avversario non potrà essere ritenuto volontario l'atto lesivo (per rimanere agli esempi nello sport
del calcio: chi colpisce volontariamente l'avversario con una gomitata al volto risponde per dolo;
non è così per chi contrasta irregolarmente l'avversario alle spalle per impedire lo sviluppo
dell'azione di gioco anche se il contrasto è stato da lui voluto). Insomma è la finalizzazione allo
sviluppo del gioco che contraddistingue l'atto lesivo doloso da quello in cui è voluto soltanto il
contrasto, sia pure irregolare, dell'avversario”
Un ulteriore aspetto che sembra non poter far inquadrare questa causa di giustificazione nel
consenso dell’avente diritto si ha quando l'evento lesivo non è voluto, e neppure preventivamente
accettato dal giocatore, ma si sia in presenza della mera violazione della norma del regolamento di
gioco, in quanto in questo caso non sembra potersi configurare una responsabilità penale del
giocatore qualora l'azione sia finalizzata allo sviluppo del gioco. Infatti, “la violazione della regola
disciplinare, anche se volontaria, non è sufficiente a concretizzare una responsabilità per colpa
proprio in base al principio del rischio consentito: ogni giocatore sa, e accetta preventivamente, che
egli e i suoi avversari possono violare le regole del gioco creando il rischio di eventi dannosi”23.
Deve,invece, “ ritenersi estranea alla copertura del rischio consentito la condotta di gioco che si
manifesti come assolutamente sproporzionata (per es. il difensore per fermare l'avversario lo
travolge violentemente incurante delle conseguenze che possono derivare dall'impatto) o che
appaia, sia pure ad una superficiale valutazione ex ante, idonea a ledere l'integrità fisica

23
La soluzione è accolta, pur senza riferirsi al rischio consentito, anche dalla giurisprudenza civile di legittimità: si veda
la già citata sentenza 8 agosto 2002 n. 12012 nonché la successiva sez. 3, 22 ottobre 2004 n. 20597 (relativa ad un
incidente verificatosi in un incontro amichevole di "braccio di ferro") che ha ritenuto scriminato il comportamento
dell'agente quando esista uno "stretto collegamento funzionale tra giuoco ed evento lesivo" escludendosi il nesso
funzionale nel caso di "impiego di un grado di violenza o di irruenza incompatibile con le caratteristiche dello sport
praticato"
11
dell'avversario (per es. lo sgambetto volontario di un giocatore in corsa).
In questi casi non si rientra più nell'azione sportiva, pur dannosa, ma in una fattispecie nella quale
non esiste la giustificazione dell'atto che si rivela esorbitante rispetto alle finalità del gioco e
l'agente deve essere chiamato a rispondere delle conseguenze della sua azione sotto il profilo
colposo (nel caso di violenza sproporzionata rispetto alle finalità del gioco ed estranea a principi di
lealtà e correttezza).
La teoria del rischio consentito, come abbiamo visto, è stata pure ritenuta configurabile nel caso di
attività medica, aggiungendo la pronuncia n.4391 del 2012 che “la psichiatria mostra patologie che
non di rado sono difficilmente controllabili completamente. Tale situazione è in gran parte connessa
all'abbandono di deprecate pratiche di isolamento e segregazione. In breve, si cura e si protegge il
paziente con terapie rispettose della sua dignità che, tuttavia, non possono eliminare del tutto il
rischio di condotte inconsulte. Il rischio è insuperabile ma è accettato dalla scienza medica e dalla
società:esso è dunque "consentito"”.
Una simile impostazione, però, non è condivisa dalla prevalente giurisprudenza di legittimità, che
ha spesso affermato con diverse argomentazioni la colpa e la sussistenza del rapporto di causalità
tra la colpa professionale del medico psichiatra ed il fatto commesso dal paziente, sulla base della
prevedibilità ed evitabilità dell’evento e per essere stata l’azione o l’omissione condizione
necessaria dell’evento.24
Peraltro, a dimostrazione della difficoltà e della complessità del tema trattato, nello stesso campo
psichiatrico, in tempi diversi, ma con il vigore della stessa normativa, si è giunti ad opposte
conseguenze circa l’obbligo di procedere a t.s.o. nei confronti di pazienti in evidente stato di
scompenso psichiatrico25.

24
Cass. sez. IV n.10430 del 2004 rv.227876, relativa al suicidio di una paziente che il direttore di una casa di cura
aveva autorizzato ad uscire pur conoscendone i forti istinti suicidari e l’aveva affidata ad un’accompagnatrice
involontaria inesperta, sicché non poteva essere ritenuta causa autonoma e successiva tale da interrompere il rapporto di
causalità tra azione ed evento in conseguenza dell’autonoma decisione della volontaria di accompagnare a casa la
paziente, che raggiunto il quarto piano, ove si trovava la sua abitazione si gettava nel vuoto, tanto più che
l’accompagnatrice non era stata avvertita dei precedenti tentativi di suicidio e non era stata fornita alcuna informazione
sullo stato di mente della paziente. Vedi per un caso analogo Cass. sez. IV n.48292 del 2008 rv.242390.
Cass. sez. IV n.840 del 2008, concernente un caso di sovradosaggio di farmaci in un a paziente in cura con sindrome
depressiva, nella quale pronuncia, peraltro, l’aspetto di maggiore novità è il criterio di differenziazione di condotte
omissive e commissive. Cass. sez. IV n.4107 del 2009 rv.242831 cit., che, oltre ad affermare il condivisibile principio
del rafforzamento dell’obbligo di diligenza nel caso di rischio consentito nell’esercizio di attività medica, tratta di un
caso particolare, in cui , attraverso la redazione di un certificato anamnestico, che tace i trascorsi psichiatrici di un
paziente, e quello di idoneità, rilasciato da un medico militare con la complice disattenzione dell’autorità di p. s. che
non controlla i precedenti del richiedente, si riesce a rilasciare un porto d’armi ad un soggetto non sano di mente, che
commette plurimi omicidi.
La sentenza, che sarà ulteriormente richiamata, perché affronta tutta una serie di problematiche dall’interpretazione
dell’art.41 secondo comma c. p. al rapporto di causalità; dalla cooperazione colposa alla prevedibilità ed evitabilità
dell’evento;dal concorso colposo nel reato doloso al concorso di persone ex art.110 c. p. nel reato colposo ed alle cause
indipendenti, si segnala, perché fornisce un’interpretazione del “rischio consentito” in termini di rigore.
25
Cass. 5 maggio 1987 , Bontioli in Cass. pen. 1988, 839, significativamente non massimata, secondo la quale non
sussiste la responsabilità del medico del servizio di igiene mentale che, sebbene richiesto dai familiari del paziente di un
t. s. o., perché l’infermo di mente era particolarmente nervoso e rifiutava ogni cura, non provvedeva a ciò , sicché in un
attacco accessuale aveva ucciso la madre.
In senso contrario in una situazione similare vedi Cass. n.48292 del 2008.
12
La sentenza del 2008, ampiamente riassunta in nota, nei suoi passaggi motivazionali tratta di
“concretatizzazione del rischio” c. d. causalità della colpa cioè una valutazione "ex post" che
consente di avere conferma, o meno, che quel tipo di evento effettivamente verificatosi rientrasse
tra quelli che la regola cautelare mirava a prevenire, tenendo conto,però, che esistono regole
cautelari per così dire "aperte", nelle quali la regola è dettata sul presupposto che esistano o possano
esistere conseguenze dannose non ancora conosciute, ed altre cd. "rigide", che prendono in
considerazione solo uno specifico e determinato evento, e considera la posizione di garanzia
valutata in relazione al rischio che si vuole evitare con il prescrivere una data condotta prudente e
cautelare, sicché, seppure richiami sempre la nota S.U. FRANZESE, sembra seguire in maniera
inconscia la teoria dell’imputazione oggettiva.
Detta situazione si verifica in pronunce del giudice di legittimità, a volte in maniera
forzata,inquadrate nella teoria dell’aumento del rischio, ed in alcune di merito, giacché poche
decisioni hanno espressamente richiamato la teoria dell’aumento del rischio26.

La prima sentenza del giudice di legittimità asserisce che il medico del SIM non aveva alcun obbligo di disporre il
ricovero che è effettuato dal Sindaco su proposta di qualsiasi sanitario.
L’altra sentenza, invece, opportunamente rileva che la L. n. 180 ha sancito la fine del modello custodiale e segnato il
passaggio, in una logica volontaristica, ad un sistema di cura fondato sulle concrete esigenze del paziente e sul suo
consenso. E così, invero, gli imputati avevano impostato il rapporto terapeutico con il B. per giungere ad introdurre, per
le sue concrete esigenze di cura, momenti di custodia concordati (non può, nel caso di specie, mettersi in dubbio che il
paziente avesse coscientemente accettato il regime di divieti di uscita, salvo specifiche autorizzazioni), come tali non
contrari al regime di ricovero volontario.
In tal modo impostato il rapporto terapeutico in regime consensuale di custodia - vigilanza temporanea (riferita al
periodo necessario perché la terapia farmacologica producesse risultati apprezzabili), medici e personale ausiliario
erano, dunque, onerati di una posizione di garanzia a contenuto terapeutico e, in particolare, erano tenuti a fare quanto
in loro potere per evitare che la malattia degenerasse nel compimento di atti autolesivi.
7.4.2. Anche fuori dalle ipotesi di ricovero coatto lo psichiatra è titolare di una posizione di garanzia, sullo stesso
gravando doveri di protezione e di sorveglianza del paziente in relazione al pericolo di condotte autolesive (e,
naturalmente, eterolesive). In applicazione dei consueti canoni in tema di responsabilità medica, il paziente che si trovi
ricoverato in un reparto psichiatrico deve essere correttamente curato.
In altre parole, lo psichiatra, al pari di qualsiasi altro medico curante, ha l'obbligo giuridico di curare la malattia
mentale nel miglior modo possibile, con tutti gli strumenti che ordinamento e scienza pongono a sua disposizione.
Detto obbligo ha in sè quello di salvare il paziente dal rischio di condotte autolesive, dovendo ritenersi che le stesse
rappresentino un'estrinsecazione, quando non una conseguenza, della patologia che lo affligge.
Ciò che l'ordinamento richiede allo psichiatra è di contrastare il rischio di condotte siffatte, attivandosi con gli strumenti
terapeutici di cui può disporre.
E se lo psichiatra ha in cura una persona che presenti un concreto pericolo di suicidio, la posizione di garanzia comporta
l'obbligo di apprestare cautele specifiche (così, ad esempio, nel caso di ricovero volontario, invitare il personale
infermieristico alla massima sorveglianza; prevedere, nel caso in cui il paziente intenda uscire dalla struttura, che lo
accompagnino persone qualificate ed informate).
Aggiunge la predetta sentenza che se, gli imputati avessero tenuto il comportamento alternativo lecito (si fossero, in
altre parole, comportati in maniera osservante della regola cautelare) l'evento non si sarebbe verificato. In altre parole, il
comportamento alternativo corretto (imporre, e comunicare al personale infermieristico in servizio, il divieto di uscire
dal reparto senza accompagnamento) sarebbe stato in concreto idoneo ad evitare l'evento dannoso.
Ll'evento ha rappresentato proprio la concretizzazione del rischio che la regola stessa (il divieto, durante il periodo di
latenza della terapia farmacologica, di uscire dal reparto senza accompagnamento) mirava a prevenire.
Nè vi era ragione di chiedersi - come sostengono i ricorrenti - se l'evento (suicidio) si sarebbe verificato anche qualora
gli imputati avessero tenuto la condotta doverosa.
Come le Sezioni Unite di questa Corte (Cass. S.U. 10 luglio 2002, Franzese) hanno avuto modo di precisare, il
rapporto di causalità tra la condotta omissiva e l'evento va accertato alla stregua del cd. giudizio controfattuale che
deve rispondere al quesito, mediante un enunciato esplicativo "coperto" dal sapere scientifico del tempo, se,
mentalmente eliminato "il mancato compimento dell'azione doverosa, il singolo evento lesivo, hic et nunc verificatosi,
sarebbe, o non, venuto meno.
26
App. Bologna 12 gennaio 2007 in giur. merito 2008,2604 confermata da Cass. n. 10795 del 2008, sicché si
comprendono le inconsce cadenze riproducenti detta teoria.
13
Espressione di questa forzatura è, a mio parere, la critica rivolta da parte della dottrina alla sentenza
“Macola” (n.988 del 2003)27, nel senso di essere farisaicamente ossequiosa dei principi indicati
dalle SS.U.FRANZESE ed in realtà surrettiziamente seguace della teoria dell’aumento del rischio.
Infatti, la pronuncia in tema di esposizione a polveri di amianto contiene varie proposizioni in linea
con la quasi coeva sezioni unite FRANZESE, quando afferma che”il rapporto di causalità
costituisce un criterio di imputazione oggettiva di un evento alla condotta di un soggetto; solo se
l'evento può essere ritenuto ricollegabile alla condotta l'agente potrà essere tenuto a risponderne
(concorrendo i criteri di imputabilità soggettiva). Il codice penale ha esplicitato questo concetto
nella formula usata dall'art. 40, comma 1°, con la previsione che l'evento dannoso o pericoloso, da
cui dipende l'esistenza del reato, debba essere "conseguenza" della sua azione od omissione. Con
questa formulazione il codice, come è tradizionalmente riconosciuto, ha inteso accogliere la c.d.
teoria condizionalistica della causalità ("condicio sine qua non") o dell'equivalenza delle cause.
All'accertamento dell'esistenza del rapporto di causalità si perviene con un procedimento di
eliminazione mentale: un'azione è causa di un evento se non può essere mentalmente eliminata
senza che l'evento venga meno o si verifichi con modalità diverse. Essa costituisce una condizione
c.d. necessaria (contrapposta alle condizioni c.d. sufficienti) per il verificarsi dell'evento. .. Al solo
fine di evidenziare la complessità del problema si pensi alla duplice, contemporanea, indipendente
ed efficace azione omicida: con il processo di eliminazione mentale l'evento si verifica ugualmente
ma apparirebbe singolare escludere il nesso di condizionamento per una delle due condotte.
Il problema si pone in termini più complessi nel caso di causalità omissiva perché, in questo caso,
decorso degli avvenimenti non è, nella realtà fenomenica, influenzato dall'azione (che non esiste) di
un soggetto; per cui la causalità omissiva - che, proprio per queste caratteristiche, parte della
dottrina qualifica come "equivalente normativo della causalità" - si configura come una costruzione
giuridica (art. 40 comma 2° cod. pen. che non a caso usa la locuzione "equivale", secondo
l'equazione: non impedire equivale a cagionare) che consente di ricostruire l'imputabilità oggettiva
come violazione di un obbligo di agire, di impedire il verificarsi dell'evento (in violazione del c.d.
obbligo di garanzia); omissione che provoca l'evento di pericolo o di danno (reati omissivi impropri
o commissivi mediante omissione; contrapposti ai reati omissivi propri nei quali il reato si
perfeziona con la mera omissione della condotta dovuta).
La maggior complessità dei problemi in tema di causalità nei reati omissivi impropri non è
ricollegata tanto alla necessità, in questo tipo di reati, di individuare .. l’evento sia conseguenza
dell'omissione accertata (problema comune ai reati commissivi), ne' dalla ricostruzione in via
meramente ipotetica dell'efficacia del trattamento omesso (anche questo è problema comune alla

App. Palermo 13 gennaio 1982 in Foro it. 1983, II, 513 , in cui si è affermato che incrementasse il rischio , risultando
casualmente rilevante ai fini della produzione dell’evento (morte) (non voluto ed imputato a titolo di colpa) il
comportamento di chi aveva indotto la vittima a riprendere il consumo di stupefacenti, essendo a conoscenza della
pericolosità di tale azione per il tossicodipendente che era stato da breve tempo dimesso da una cura disintossicante.
27
Beltrani: Coso di diritto penale. Cedam. Padova.2009,238
14
causalità attiva perché, anche in questi casi, il giudice deve ricostruire, in via di ipotesi, l'effetto
dell'eliminazione della condotta commissiva) ma dalla necessità ulteriore di individuare la condotta
positiva che, se posta in essere, avrebbe evitato il prodursi dell'evento (si è detto che, nella causalità
omissiva, il procedimento logico è doppiamente ipotetico). Ovvio essendo che se l'evento fosse
destinato a prodursi ugualmente (in base all'indicato processo di eliminazione mentale che più
propriamente, nella causalità omissiva, dovrebbe essere chiamato di "aggiunta" mentale), anche nel
caso in cui l'agente avesse attivato tutti gli interventi richiestigli, le conseguenze dell'omissione non
potrebbero essere a lui addebitate. La causalità omissiva, proprio per essere giustificata in base ad
una ricostruzione logica e non in base ad una concatenazione di fatti materiali esistenti nella realtà
ed empiricamente verificabili, costituisce una causalità costruita su ipotesi e non su certezze. Si
tratta quindi di una causalità ipotetica, normativa, fondata, come quella commissiva, su un giudizio
controfattuale ("contro i fatti": se l'intervento omesso fosse stato adottato si sarebbe evitato il
prodursi dell'evento?) alla quale si fa ricorso per ricostruire una sequenza che però, a differenza
della causalità commissiva, non potrà mai avere una verifica fenomenica che invece, nella causalità
commissiva è normalmente (non sempre però) verificabile. In questo caso, si è detto, il rapporto si
istituisce tra un'entità reale (l'evento verificatosi) e un'entità immaginata (la condotta omessa)
mentre nella causalità commissiva il rapporto è tra due entità reali.
Secondo un orientamento, ormai largamente diffuso e condiviso, per compiere questa ricostruzione
devono essere utilizzate (come nella causalità commissiva ma con l'ulteriore ricordata necessità di
verificare ipoteticamente l'efficacia salvifica della condotta omessa) le leggi c.d. di copertura
(espressione ermetica che starebbe a significare che la spiegazione di un evento può aversi solo
"coprendo" - meglio sarebbe dire "spiegando" - l'evento con una legge o, come parimenti si dice,
sussumendo l'evento sotto una legge). Leggi di copertura, di origine scientifica, che possono avere
un valore universale o un valore semplicemente statistico e la cui funzione è quella di attribuire un
valore generalizzante a sequenze di accadimenti altrimenti tra di loro arbitrariamente collegate sulla
base di presunzioni non fondate su leggi dotate di un pari grado di credibilità. Va ancora precisato
che la riferita conclusione teorica sulla diversità della causalità omissiva rispetto a quella
commissiva, pur prevalente, è peraltro posta in discussione da una corrente dottrinaria che invece
motivatamente sostiene che, anche nella causalità omissiva, "l'effetto condizionante è dunque reale:
il tasso di ipoteticità del sillogismo che così si imposta non è maggiore ne' diverso da quello di un
sillogismo relativo alla causalità attiva" (la dottrina che fa proprio questo orientamento richiama gli
studi che hanno inquadrato la condotta omissiva tra i "processi statici" e, pur riconoscendo la natura
reale del condizionamento, ritiene che nella causalità omissiva la spiegazione dell'evento avvenga
non con una "ricostruzione del passato", come nella causalità commissiva, ma con un giudizio.”

15
Attese queste differenze appare importante procedere ad indicare i criteri in base ai quali distinguere
tra comportamento omissivo e commissivo. A tal riguardo in altra pronuncia28 si è affermato che “,
in astratto, la distinzione tra causalità commissiva e causalità omissiva è del tutto chiara: nella prima
viene violato un divieto nella seconda è un comando ad essere violato. Non sempre agevole è però
la distinzione in concreto tra le due forme di causalità. In particolare nella responsabilità
professionale medica (ma non solo) viene frequentemente ritenuta omissiva una condotta che tale
non è anche perché sono ben pochi i casi nei quali la condotta cui riferire l'evento dannoso è
chiaramente attiva (il chirurgo ha inavvertitamente tagliato un vaso durante l'intervento) o passiva
(il medico ha colposamente omesso di ricoverare il paziente). Nella stragrande maggioranza dei casi
sono presenti condotte attive e passive che interagiscono tra di loro rendendo ancor più difficile
l'accertamento della natura della causalità.
È peraltro necessario evitare di confondere tra il reato omissivo e le componenti omissive della
colpa: i casi del medico che adotta una terapia errata (e quindi omette di somministrare quella
corretta) o che dimette anticipatamente il paziente (e quindi omette di continuare a curarlo in ambito
ospedaliero) non rientrano nella causalità omissiva ma in quella attiva.
Si è detto che i medici che hanno sbagliato diagnosi e terapia "non hanno violato un comando
penale, bensì solo un divieto di cagionare (o contribuito a cagionare, si trattasse anche solo di
accelerare) lesioni o morte con negligenza, imperizia o imprudenza". Causalità omissiva sarà
dunque quella del medico che omette proprio di curare il paziente o che rifiuta di ricoverarlo. Al più
potrebbe ritenersi condivisibile il più recente orientamento secondo cui, nell'ambito della
responsabilità medica, avrebbe natura commissiva la condotta del medico che ha introdotto nel
quadro clinico del paziente un fattore di rischio poi effettivamente concretizzatosi;
sarebbe invece omissiva la condotta del sanitario che non abbia contrastato un rischio già presente
nel quadro clinico del paziente.”29

Le argomentazioni riferite riproducono anche le enunciazioni contenute nella sentenza FRANZESE


che si riferisce alla certezza processuale della spiegazione causale dell’evento fondata su attendibili
risultati certezza che “può derivare anche dall'esistenza di coefficienti medio bassi di probabilità
c.d. frequentista quando,corroborati da positivo riscontro probatorio circa la sicura non incidenza
nel caso di specie di altri fattori interagenti,possano essere utilizzati per il riconoscimento
giudiziale del rapporto di causalità.” (sentenza Macola).
Peraltro, la dottrina richiamata, in realtà, critica le ulteriori affermazioni, secondo cui, basandosi
sulla credibilità razionale”, è configurabile il nesso causale e la colpa, anche se “all'epoca in cui
(gli imputati) svolgevano le funzioni apicali le conoscenze in materia conseguenze della inalazione

28
Vedi Cass. sez. IV n.840 del 2008, ma simili argomenti sono svolti anche di recente da Cass. sez. IV n.17069 del
2012 sul disastro di Messina per l’inondazione del torrente Ciaramida ed altri coperti dalla strada.
29
Identico percorso segue R. Blaiotta: Causalità giuridica
16
di polveri di amianto indicavano come questa inalazione comportasse il rischio dell'asbestosi e non
certo il rischio di tumore polmonare o broncogeno o di mesotelioma pleurico o peritoneale; malattie
che solo in tempi più recenti la ricerca scientifica ha consentito di riferire al rischio in questione,
sicché “la prevedibilità dell'evento .. sotto il profilo finalistico delle norme di prevenzione - non
riguarda soltanto specifiche conseguenze dannose che da una certa condotta possono derivare ma si
riferisce a tutte le conseguenze dannose che possono derivare da una condotta che sia conosciuta
come pericolosa per la salute o
altri beni tutelati dall'ordinamento. Orbene l'inalazione da amianto è ritenuta da ben oltre i tempi
citati di grande lesività della salute … e la malattia da inalazione da amianto, l'asbestosi (conosciuta
fin dai primi del '900 ed inserita nelle malattie professionali dalla L. 12 aprile 1943 n. 455), e'
ritenuta conseguenza diretta, potenzialmente mortale, e comunque sicuramente produttrice di una
significativa abbreviazione della vita se non altro per le patologie respiratorie e cardiocircolatorie ad
essa correlate.
Ne consegue che la mancata eliminazione, o riduzione significativa, della fonte di assunzione
comportava il rischio del tutto prevedibile dell'insorgere di una malattia gravemente lesiva della
salute dei lavoratori addetti. Se solo successivamente sono state conosciute altre conseguenze di
particolare lesività non v'è ragione per, escludere il rapporto di causalità con l'evento e il requisito
della prevedibilità dell'evento medesimo. E non v'è ragione di escluderlo, in particolare, perché le
misure di prevenzione da adottare per evitare l'insorgenza della malattia conosciuta erano
identiche (fino all'approvazione della L. 27 marzo 1992 n. 257 che ha vietato in assoluto l'uso
dell'amianto) a quelle richieste per eliminare o ridurre gli altri rischi, anche non conosciuti; con la
conseguenza, sotto il profilo obiettivo, che ben può affermarsi che la mancata adozione di "quelle"
misure ha cagionato l'evento e, sotto il profilo soggettivo, che l'evento era prevedibile perché erano
conosciute conseguenze potenzialmente letali della mancata adozione di quelle misure”
La sentenza, inoltre, in maniera opportuna ritiene l’inammissibilità del motivo di ricorso nella parte
in cui contesta la ricostruzione operata dai giudici di merito, fornendo una differente versione e
corrobora le superiori argomentazioni sostenendo che la sentenza sul disastro di Stava, Cass., sez.
IV, 6 dicembre 1990, Bonetti, da ascrivere all’indirizzo non condiviso da S.U. FRANZESE sulla
certezza assoluta, già così icasticamente si esprimeva: "ai fini del giudizio di prevedibilità, deve
aversi riguardo alla potenziale idoneità della condotta a dar vita ad una situazione di danno e non
alla specifica rappresentazione ex ante dell'evento dannoso, quale si è concretamente verificato in
tutta la sua gravità e estensione".
Pertanto, già sotto questo profilo, non si può affermare che detta sentenza accolga la teoria
dell’aumento del rischio, né può sostenersi “l’indebita commistione fra eventi conseguenti a decorsi
causali del tutto disomogenei” (asbestosi e mesotelioma pleurico con differenti tempi di latenza e
rilevanza delle esposizioni alle polveri di amianto), giacché le predette precisazioni attengono alla
colpa più che al rapporto causale e mirano proprio a superare quella critica formulata dallo studioso,
17
secondo cui “ in un caso del genere, pur non potendo essere negata la sussistenza del nesso di
causalità (sia pure in virtù di acquisizioni scientifiche sopravvenute, rispetto al momento in cui ebbe
luogo la condotta contestata) vien meno la possibilità di ritenere sussistente l’elemento psicologico
del reato”, dimenticando lo studioso che in sentenza si chiarisce a chiare lettere che, se fossero state
adottate le misure richieste per l’asbestosi, il mesotelioma, quanto meno, si sarebbe verificato in
tempi significamene successivi”.
Del resto la pronuncia in esame, pietra miliare della giurisprudenza in tema di esposizione alle
polveri di amianto, ulteriormente specifica che” il tema centrale della critica rivolta alla Corte
veneziana riguarda la circostanza che, per tutte le malattie che hanno cagionato la morte delle
vittime, non è conosciuta la data di insorgenza della patologia. Non essendo stato accertato tale
momento non potrebbero essere riferite ai ricorrenti le morti provocate da tali patologie perché, se
insorte prima, le loro omissioni non avrebbero avuto effetto condizionante sul successivo sviluppo
delle malattie; se insorte dopo sarebbe del tutto esclusa ogni efficacia eziologica sul loro insorgere”,
sicché chiaramente delimita le argomentazioni in tema di colpa e di causalità, pur se le stesse spesso
si sovrappongono.
Peraltro, detto argomento dei ricorrenti è ulteriormente utilizzato dallo studioso per altra critica
senza avvedersi che il giudice di legittimità risponde a dette obiezioni nel seguente modo,
ineccepibile alla luce delle conoscenze scientifiche attuali, giacché “è stato .. rilevato.. come i periti
e i consulenti tecnici abbiano "evidenziato il rapporto esponenziale tra dose di cancerogeno
assorbita (determinata dalla concentrazione e dalla durata dell'esposizione) e risposta tumorale:
aumentando la dose di cancerogeno, non solo è maggiore l'incidenza dei tumori che derivano
dall'esposizione, ma minore è la durata della latenza, il che significa aumento degli anni di vita
perduti o, per converso,anticipazione della morte"in quanto “ questi accertamenti convergessero "in
termini di sostanziale certezza/alta probabilità razionale nella descrizione degli effetti finali dei
fenomeni"; sicché"anche l'apporto dell'indiscriminata esposizione all'amianto per solo alcuni del
complesso di anni lavorativi del dipendente rileva, quanto meno come concausa, nella
determinazione dell'evento morte hic et nunc quale che sia il momento dell'inizio della patologia";.
Pertanto, "anche il periodo di oltre tre anni, contestato agli imputati, ha concorso o ad agevolare
l'insorgere o a favorire l'evoluzione della patologia, comunque, in ogni caso, a ridurre il periodo di
latenza e quindi ad anticipare l'evento morte ... se gli imputati avessero adempiuto agli obblighi che
loro incombevano ... si sarebbe determinata una contrazione imponente dell'esposizione:.. in termini
di alta probabilità razionale, quantomeno un allungamento dei termini di latenza”.
Perciò, anche questa critica non appare centrata, ove si consideri, con la sentenza Macola come “ in
dottrina e in giurisprudenza .. il rapporto causale, sia nella causalità commissiva che in quella
omissiva, va riferito non solo al verificarsi dell'evento prodottosi ma anche in relazione alla natura e
ai tempi dell'offesa nel senso che dovrà riconoscersi il rapporto in questione non solo nei casi in cui
sia provato che l'intervento doveroso omesso (o quello corretto in luogo di quello compiuto nella
18
causalità commissiva) avrebbe evitato il prodursi dell'evento in concreto verificatosi, o ne avrebbe
cagionato uno di intensità lesiva inferiore, ma altresì nei casi in cui sia provato che l'evento si
sarebbe verificato in tempi significativamente (non minuti od ore) più lontani ovvero ancora
quando, alla condotta colposa omissiva o commissiva, sia ricollegabile un'accelerazione dei tempi
di latenza di una malattia provocata da altra causa (o che non sia possibile ricollegare
eziologicamente alla condotta in questione)”.
Ed invero "non v'è .. dubbio che una morte avvenuta in un giorno successivo sia un fatto diverso,
dal punto di vista naturalistico prima ancora che giuridico". Orbene, nel caso in esame, pur non
essendo stato con certezza accertato se, all'epoca dell'assunzione delle funzioni di amministratore da
parte degli imputati, la patologia fosse già insorta, i giudici di merito hanno incensurabilmente
accertato che, in ogni caso, l'esposizione all'inalazione delle massicce dosi di polveri di amianto ha
avuto effetto patogenetico sulla latenza di una malattia già esistente o sull'insorgenza di una non
ancora sorta.
Nè può avere rilievo che, nel caso delle morti cui questo processo si riferisce, non sia stato possibile
accertare, per ciascuna di esse, il meccanismo preciso (riduzione della latenza o accelerazione
dell'insorgenza). Il nesso di condizionamento deve infatti ritenersi provato non solo quando (caso
assai improbabile) venga accertata compiutamente la concatenazione causale che ha dato luogo
all'evento ma, altresì, in tutti quei casi nei quali, pur non essendo compiutamente descritto o
accertato il complessivo succedersi di tale meccanismo, l'evento sia comunque riconducibile alla
condotta colposa dell'agente sia pure con condotte alternative; e purché sia possibile escludere
l'efficienza causale di diversi meccanismi eziologici.” Inoltre, “ la mancata individuazione di tale
soglia (individuazione peraltro impossibile) non infirma la complessiva correttezza del
ragionamento del giudice di merito secondo cui un significativo abbattimento dell'esposizione
avrebbe comunque agito positivamente sui tempi di latenza o di insorgenza delle malattie mortali.
Nè si comprendono le ragioni per le quali ciò varrebbe a trasformare in reato di pericolo quello
contestato costituendo, l'elemento non conosciuto, uno dei complessivi meccanismi di produzione
dell'evento dei quali .. non è necessario comprendere l'intero svolgimento”30.
Queste ultime argomentazioni, relative sia all’insindacabilità della motivazione non manifestamente
illogica sia all’insorgenza del rapporto causale nei casi in cui la latenza della malattia è stata
accelerata dalla condotta omissiva degli imputati, se fossero state tenute presenti da una non

30
La sentenza Macola con tutto il suo bagaglio di innovative soluzioni, sempre nel solco delle S. U. FRANZESE,
giunge a conclusione di un periodo in cui la giurisprudenza di merito e quella di legittimità (vedi Trib. Torino 29
novembre 1995, Giannitrapani confermata da Cass. sez. IV 31 ottobre 1996 Per un quadro completo della
giurisprudenza del tempo vedi R. GUARINIELLO: I tumori professionali nella giurisprudenza penale in Foro it. 1999,
II, 237; ID: Malattie professionali, tumori da amianto asbestosi ivi 2000,II,260 e Dai tumori professionali ai tumori
extraprofessionali di amianto ivi 2001, II,278. vedi anche Cass. sez. IV 30 marzo 2000, Camposanto in Foro it.2001 cit.
avevano seguito la tesi della certezza processuale.
Non a caso una delle poche decisioni in senso contrario Cass. sez. IV 25 settembre 2001, Covili in Foro it.2002,II,289 si
adeguava alla tesi di un illustre studioso (F. Stella), poi non accolta dalle sezioni unite FRANZESE, poiché la tesi della
certezza assoluta o prossima a cento è ritenuta utopistica ed illusoria.
19
condivisibile sentenza di legittimità31, osannata dalla scuola fiorentina 32
, avrebbero escluso una
diversa ricostruzione.
Del resto lo stesso giudice di legittimità, nel 2012, giudicando l’altra trance del processo veneziano
ha confermato l’impostazione della sentenza Macola, almeno per ragioni di coerenza33, ed in altra

31
13 dicembre 2010 n.43786 Cozzini rv248943-248944
32
P. Tonini: La Cassazione accoglie i criteri Daubert sulla prova scientifica. Riflessi sula verifica delle massime di
esperienza in Dir. Pen. e proc. 2011, n.11, 1341 e R. Batoli: Responsabilità penale da amianto: una sentenza destinata a
segnalare un punto di svolta in Cass. pen. 2011, 1712.
33
Cass. sez. IV n.20227 del 2012. La sentenza Pres. ed est. ZECCA è stata resa nei confronti di Soloni ed altri e
contiene una serie di spunti, che possono anche essere ritenuti come conferma della impostazione della sentenza Macola
e come critica della “riflessione su se stessa” della quarta sezione penale della Cassazione contenuta nella Cozzini.
Infatti, si afferma che “ la selezione della ipotesi eziologica più attendibile sia avvenuta in quel processo Macola dopo la
confutazione delle ipotesi causali alternative e come il confronto, operato dal giudice di merito e ritenuto corretto dalla
sentenza di legittimità, abbia posto a confronto una ipotesi di minimo rischio teorico con una realtà di rischio concreto
infinitamente più grave con quel riferimento al caso concreto posto in evidenza da S.U.FRANZESE.
La sentenza del 2012, nel riprendere le argomentazioni della pronuncia Macola del 2003, pone in luce come il giudice
di merito abbia affrontato pure una tematica molto rilevante quella del ruolo del modello organizzativo nella genesi
degli eventi avversi . Ed invero sostiene che “ la sentenza di appello ha sviluppato una analisi dettagliata della
organizzazione del lavoro e della esposizione sistematica, diretta e senza cautela alcuna, dei lavoratori all'amianto,
evidenziando le tipologie di lavorazione e i moduli di lavoro praticati (indubitabilmente efficace è l'accertamento
dell'impiego di un mezzo meccanico di rimozione delle polveri, chiamato dai lavoratori "scopa della morte e
l'accertamento relativo alla origine di quella denominazione) ma anche la quasi totale mancanza di
compartimentazione dei diversi ambienti di lavoro con la evidenziazione di una intensa esposizione diretta connessa
alle lavorazioni proprie delle mansioni assegnate ed una esposizione ambientale legata alla specifica organizzazione di
stabilimento “ . Il modello organizzativo e gli accertamenti in fatto, effettuati dalla Corte di appello e ritenuti
insindacabili in sede di legittimità, a meno di non effettuare un controllo nel merito sono posti a fondamento di
un’ulteriore importante scelta in tema di mesotelioma pleurico e di malattie correlate all’uso dell’amianto.
La sentenza di legittimità, infatti, evidenzia che la differenziazione tra le due statuizioni di merito, trova consapevole
fondamento nel riferimento a leggi di copertura diversificate quanto alla dinamica di produzione del solo mesotelioma,
posto che la sentenza di primo grado esclude la correttezza di una teoria della cancerogenesi correlata alla intensità e
alla durata della esposizione, e la sentenza di appello di quella rifiutata teoria si serve per riconoscere al mesotelioma
pleurico la qualità di malattia dose-dipendente. L'altra diversità si coglie nella circostanza che la sentenza di primo
grado, escludendo la possibilità di accertare una causalità unica delle altre malattie, pur ritenute dose-dipendenti, ha
ritenuto incerta la correlazione causale tra esposizione all'amianto e sviluppo di quelle malattie.La sentenza di appello
supera dette contrastanti tesi con riferimento realistico alla accertata realtà della esposizione collegata alle scelte del
sistema produttivo e organizzativo , nonché alla giurisprudenza di legittimità (tra tutte Cass. 14/1/2003 n. 988, Macola)
che ha ritenuto corretta, anche per il mesotelioma, la teoria scientifica di un processo patologico che mette in crisi la
teoria della "dose killer o dose trigger" , prediligendosi la tesi, che individua un rapporto esponenziale tra dose di
cancerogeno assorbita e durata della latenza, durata della malattia, dopo un’acuta critica alla prima tesi.
Il giudice di legittimità aggiunge che, seguendo un percorso condivisibile circa i limiti del controllo in Cassazione delle
pronunce di merito, “la sentenza di appello ha descritto le incertezze della scienza medica come doveroso frutto del
dubbio che è alla base di ogni ricerca, e ha preso partito tra le diverse teorie attualmente proposte dalla scienza in
tema di causalità del mesotelioma occupandosi anche del rapporto tra individuazione di leggi di copertura
validamente utilizzabili e ragioni di superamento dei dubbi manifestati dalla scienza medica. riscontrandone la
concreta pertinenza per il caso giudicato, alla luce delle evidenze probatorie rappresentate dal numero e dalla qualità
degli eventi analizzati
La pronuncia del giudice di legittimità, nel confermare l’iter argomentativi ed esplicativo della sentenza Macola, pone
in luce che “la conoscenza della pericolosità dell'asbesto per la salute di chi per cause lavorative diverse è esposto a quel
minerale, pericolosità già nota dai primi anni del 1900, da luogo alla situazione di colpa in cui si trova ogni soggetto
che , rivestendo una posizione di garanzia, è in grado di rappresentarsi come conseguenza certa o anche solo (altamente
n.d.r.) probabile (con certezza razionale) della sua azione od omissione, proprio l'evento in concreto verificatosi pur
prescindendo dalle concrete modalità di verificazione (Cass. Pen. Sez. 4^ 3/2/2009 n. 4675). In proposito è stato
affermato (Cass. Pen. Sez. 4^ 20/372000 n. 3567) che il datore di lavoro imprenditore ha l'obbligo ex art. 2087 c.c. di
aggiornarsi sulle tecniche di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e non può addurre a propria
scusa la mancata informazione.
Quest’ultimo arresto trova conforto in numerose sentenze della Corte Costituzionale (vedi la n. 127 del 1990 e la n. 312
del 1996), secondo cui occorre sempre utilizzare la migliore tecnologia disponibile per la tutela della salute.
Infine, la sentenza di legittimità, condividendo il percorso motivazionale del giudice di merito, esclude ipotesi
alternative ed effettua una valutazione attenta delle concause e di alcune ipotesi “multifattoriali”, collegate a pochi casi
di modesto tabagismo ed aderisce a quanto l’estensore della sentenza Macola (Carlo Brusco) ha illustrato in una
relazione tenuta ad un incontro di studi su “i più recenti arresti della giurisprudenza di legittimità in materia di
accertamento del rapporto di causalità e di imputazione colposa in tema di malattie professionali.
20
sentenza ha ritenuto “restrittiva” la pronuncia Cozzini34, anche se è stata facilitata nell’applicazione
dei principi espressi da detta ultima decisione dalle caratteristiche del caso concreto, in quanto non

La predetta sentenza trova ulteriore conforto in Cass. sez. IV n.33311 del 2012, Ramaciotti, che applica gli stessi
principi, del resto consolidati nella giurisprudenza di legittimità tranne la sentenza Cozzini (Cass. sez. IV n. 38879 del
2011, ad esempio, afferma chiaramente che “la giurisprudenza di questa Corte, elaborata sulla scorta delle ulteriori
acquisizioni della letteratura scientifica sul tema, ha ravvisato nella prolungata esposizione alle fibre di amianto,
anche se risalente a periodo anteriore all'assunzione della diretta responsabilità dell'azienda dell'imputato
(quantomeno alla stregua di concausa) un’incontestabile influenza sullo sviluppo della patologia tumorale, sulla
proliferazione cellulare nonché sullo stato di latenza della malattia già esistente o sull'insorgenza della malattia
ancora non esistente; ciò con riferimento specifico al mesotelioma pleurico, non potendo considerarsi comunque priva
di rilevanza, ai fini di una precoce (e quindi maggiormente pregiudizievole) produzione dell'evento un'esposizione
all'amianto non adeguatamente ‘protetta’, protrattasi peraltro per un dato periodo sì da ridurre i tempi di latenza della
patologia in caso di patologie già insorte”
Non ci si sofferma su detti aspetti per il doveroso rispetto degli altri relatori, cui è assegnato l’esame di alcuni profili,
che verrano solo accennati in questa relazione, che si preoccupa di estrapolare dagli arresti giurisprudenziali i principi
generali in tema di aumento del rischio, i settori di emersione delle problematiche del rischio, il rapporto tra concetti
sostanziali ed accertamento probatorio, di cui la sentenza Soloni è un illuminante esempio, e la casistica più
significativa, esclusa quella dei gruppi di lavoro per non sovrapporsi agli altri relatori, effettuando solo sintetici
cenni a riguardoe soffermandosi su altri casi non trattati.

34
Cass. sez. IV n.24997 del 2012, Pittarello ed altri. Detta sentenza riafferma principi consolidati in tema di esposizione
professionale a sostanze dannose e tossiche, sostenendo che “il principio secondo cui la responsabilità per gli eventi
dannosi legati all'inalazione di polveri di amianto, pur in assenza di dati certi sull'epoca di maturazione della patologia,
va attribuita causalmente alla condotta omissiva dei soggetti responsabili della gestione aziendale, anche se per una
parte soltanto del periodo di tempo di esposizione delle persone offese, in quanto tale condotta, con riguardo alle
patologie già insorte, ha ridotto i tempi di latenza della malattia, ovvero, con riguardo alle affezioni insorte
successivamente, ha accelerato i tempi di insorgenza (cfr. Cass. pen. Sez. 4, n. 38991, del 10.6.2010, Rv. 248851)”
La Corte di Cassazione riconferma la valenza scientifica della dose- dipendente di amianto e ritiene superata la tesi
della dose killer, aggiungendo che “non essendo necessario l'accertamento della data dell'iniziale insorgenza della
malattia e, pur non essendovi certezze circa la dose sufficiente a scatenare l'insorgenza del mesotelioma pleurico, è stato
comunque accertato che il rischio di insorgenza è proporzionale al tempo e all'intensità dell'esposizione, nel senso che
l'aumento della dose è inversamente proporzionale al periodo di latenza.”
Il giudice di legittimità, seguendo la giurisprudenza di gran lunga prevalente, ribadisce principi consolidati nel senso
che “ il ragionamento inferenziale si pone in linea con il principio per il quale nella valutazione della sussistenza del
nesso di causalità, quando la ricerca della legge di copertura debba attingere al sapere scientifico, la funzione
strumentale e probatoria (integrativa delle conoscenze giudiziali) di quest'ultimo impone al giudice di valutare
dialetticamente le specifiche opinioni degli esperti e di ponderare la scelta ricostruttiva della causalità ancorandola ai
concreti elementi scientifici raccolti (Cass. pen. Sez. 4, n. 38991 del 10.6.2010, Rv. 248853☺ Aggiunge, poi, che la
prevedibilità dell'evento - e qui il discorso attiene prevalentemente alla colpa ma non è estraneo al problema della
causalità, - non riguarda soltanto specifiche conseguenze dannose che da una certa condotta possono derivare ma si
riferisce a tutte le conseguenze dannose che possono derivare da una condotta che sia conosciuta come pericolosa per la
salute (o per altri beni tutelati dall'ordinamento)”
Peraltro, dopo aver richiamato i principi sulla causalità e sull’utilizzo del sapere scientifico elaborati da SU FRANZESE
in poi ed aver evidenziato le numerose violazioni di norme prevenzionali da parte degli imputati, aggiunge un altro
principio pacifico secondo cui “il datore di lavoro non andrebbe esente da responsabilità anche qualora, pur avendo
rispettato le norme preventive vigenti all'epoca dell'esecuzione dell'attività lavorativa, non abbia adottato le ulteriori
misure preventive necessarie per ridurre il rischio concreto prevedibile di contrazione della malattia, assolvendo così
all'obbligo di garantire la salubrità dell'ambiente di lavoro (Cass. pen. Sez. 4, n. 5117 del 22.11.2007, Rv.238778)..”
Infine, la sentenza del giudice di legittimità, seppure senza alcuna notazione critica, da atto della differente lettura
operata da altra decisione, ed afferma che “ anche seguendo la teoria più restrittiva (quella sostenuta nella sentenza della
Sez. 4, del 17.9.2010, n. 43786, Rv. 248943, Cozzini), si può giungere a dimostrare la sussistenza del nesso causale.
Infatti, secondo tale sentenza, l'affermazione del rapporto di causalità tra le violazioni delle norme antinfortunistiche
ascrivibili ai datori di lavoro e l'evento-morte (dovuta a mesotelioma pleurico) di un lavoratore reiteratamente esposto,
nel corso della sua esperienza lavorativa, all'amianto, "è condizionata all'accertamento: (a) se presso fa comunità
scientifica sia sufficientemente radicata, su solide e obiettive basi, una legge scientifica in ordine all'effetto acceleratore
della protrazione dell'esposizione dopo l'iniziazione del processo carcinogenetico; (b) in caso affermativo, se si sia in
presenza di una legge universale o solo probabilistica in senso statistico; (c) nel caso in cui la generalizzazione
esplicativa sia solo probabilistica, se l'effetto acceleratore si sia determinato nel caso concreto, alla luce di definite e
significative acquisizioni fattuali; (d) infine, per ciò che attiene alle condotte anteriori all'iniziazione e che hanno avuto
durata inferiore all'arco di tempo compreso tra inizio dell'attività dannosa e l'iniziazione della stessa, se, alla luce del
sapere scientifico, possa essere dimostrata una sicura relazione condizionalistica rapportata all'innesco del processo
carcinogenetico".
21
si era in presenza di una successione di posizioni soggettive, non vi erano concause (ex. gr.
tabagismo) e non era stata sviluppata la tesi della dose killer, ma solo accennata dai difensori.
La sentenza Cozzini, oggetto di un’approfondita e puntuale critica in una recente importante
monografia35, concerne il difficile rapporto tra prova scientifica ed in genere accertamento
probatorio e nesso di causalità, ma, come si è tentato di dimostrare con l’indicazione in testo ed in
nota dei passaggi salienti delle sentenze sull’OMS Stanga (Macola e Soloni) e Pittarello, presenta
numerosi punti deboli, colti in pieno dal giudice-giurista cioè l’aver superato i limiti propri del
giudizio di legittimità in tema di motivazione, segnati da uniforme giurisprudenza, l’erronea
indicazione dei criteri per valutare la validità e l’attendibilità delle prove scientifiche36, e la
considerazione come “punto di vista personale” delle argomentazioni del perito così svalutando il
contenuto della prova scientifica, che, se non intesa più come “legale” o “privilegiata”, è pur sempre
una prova da valutare con tutte le altre, nonché l’invasione di campi propri del giudice di merito.
Queste acute critiche dell’illustre studioso possono, a mio modesto parere, essere completate da
ulteriori notazioni: la contraddittorietà manifesta della motivazione, che da un lato ribadisce che è
compito del giudice accertare la validità della conoscenza scientifica introdotta dal processo e
dall’altro detta un decalogo di regole, cui rigorosamente il giudice di merito deve attenersi, sicché
viene eliminata detta capacità valutativa, l’illogicità manifesta della stessa perché giunge ad un
annullamento con rinvio imponendo un accertamento che la sentenza stessa definisce impossibile,
sicché sarebbe stato da preferirsi l’annullamento senza rinvio37, l’assenza di una critica alla logicità
della motivazione del giudice di merito38, limitate ad una “personale” valutazione circa l’assenza di

Ma anche in base a tali più restrittivi criteri deve ritenersi comunque sufficientemente accertato il rapporto di causalità
tra condotta colposa ed evento, dovendosi ricondurre l'occasione di insorgenza del carcinoma al periodo lavorativo
svolto alle dipendenze della ditta rappresentata dai ricorrenti.

35
C. Brusco: Il principio di causalità. Giuffrè. Milano 2012.
36
Tonini richiama la sentenza Daubert del 1993 degli Stati Uniti, secondo cui si richiede la controllabilità, falsificabilità
e verificabilità della teoria o della tecnica posta a fondamento della prova; la percentuale di errore conosciuto o
conoscibile; la possibilità che la teoria o tecnica abbia formato oggetto di controllo da parte di altri esperti, perché
divulgata in pubblicazioni scientifiche o con altri mezzi; la presenza di standard costanti di verifica; il consenso
generale da parte della comunità scientifica, mentre C. BUSCO richiama la sentenza FRYE del 1923, che richiamava
solo il criterio del consenso della comunità scientifica.
37
R. Batoli in Cass. pen. 2011 cit. Responsabilità penale da amianto:una sentenza destinata a segnalare un punto di
svolta?, anche se elogiativa della pronuncia, pone in evidenza detto difetto logico senza avvedersi come siano stati
superati tutti i limiti imposti al giudice di legittimità in tema di sindacato sulla motivazione,
38
La sentenza afferma che l’'amianto è un inquinante ubiquitario e la concentrazione patogena può anche essere molto
bassa, anche poche particelle per c.c., talmente bassa che nessun sistema di abbattimento potrebbe eliminarla. È la tesi
della frigger dose. Essa è sorretta dalla citazione di alcuni lavori scientifici e da alcuni esempi: quello della moglie che
lavava le tute del marito e si ammalò negli stessi tempi del coniuge; e quello dei turchi di \Karain\ esposti all'erionite ed
ammalatisi in tempi non diversi sia che avessero continuato a risiedere in Turchia, sia che si fossero trasferiti all'estero
allontanandosi dai luoghi dell'esposizione. Si è già dato conto dell'argomentata e persuasiva confutazione che i giudici
di merito hanno dato della tesi della trigger dose: un ubiquitario rischio infinitesimale, teorico, non può essere
realisticamente raffrontato con il rischio davvero elevatissimo determinato dal continuo contatto con fibre aerodisperse
e drammaticamente concretizzatosi. Ma occorre pure aggiungere che il tema della dose che può spiegare l'iniziazione è
logicamente distinto da quello afferente all'effetto acceleratore: quale che sia la soluzione data al problema dell'innesco,
dell'iniziazione del processo patogenetico, resta separato ed aperto il quesito in ordine all'ipotesi che enuncia
l'abbreviazione della latenza per effetto della prosecuzione dell'esposizione dopo l'iniziazione. D'altra parte, tale ultimo
tema è l'unico rilevante per l'imputato,” giacché i lavoratori erano già da cinque anni esposti alle polveri di amianto
prima che il Cozzini assumesse l’incarico che lo ha posto in una posizione di garanzia. Pertanto le due tesi contrastanti
22
una valida risposta alla tesi assolutoria del Tribunale, basata sulle contrastanti tesi, risolvendo detta
critica in una censura della motivazione, ma in realtà basata sulle assertive valutazioni della prova
scientifica39, l’omessa considerazione della possibilità di fondare la responsabilità su probabilità
statistiche medio – basse frequentiste, purché dotate di credibilità razionale, non contraddetta
dalla sentenza del giudice di legittimità, l’indicazione di un decalogo astratto non correlato con il
caso concreto e la necessità di riferirsi alla giurisprudenza nordamericana di uno Stato di common

non assumono rilievo sotto questo profilo, spostandosi il discorso prima sull’affidabilità dell’effetto accelleratore della
protratta esposizione all’amianto e, poi, se tale effetto si determini immancabilmente e, quindi, sulla valutazione del
sapere scientifico.
Afferma la pronuncia, infatti, che “ il vigilato esercizio della ragione implica la necessità di comprendere, per ciascuna
delle numerose inferenze che vengono agite nel corso del complessivo ragionamento probatorio, qual è la struttura
dell'operazione logica che si compie e qual è il ruolo che è chiamato a svolgervi il sapere scientifico. L'individuazione
della struttura logica di ciascuna inferenza costituisce il primo e più affidabile strumento per sfuggire all'errore e per
stornare il pericolo di abbandonare il criterio di obiettiva razionalità per rifugiarsi in argomentazioni di tipo retorico”
Soggiunge, però, che senza dubbio, non è possibile ritenere che l'utilizzazione di una legge scientifica imponga che essa
abbia riconoscimento unanime. Infatti, un consenso davvero generale nell'ambito della comunità scientifica si registra
poco frequentemente. Al riguardo le Sezioni Unite di questa Suprema Corte hanno già avuto modo di affermare,
condivisibilmente, che le acquisizioni scientifiche cui è possibile attingere nel giudizio penale sono quelle "più
generalmente accolte, più condivise", non potendosi pretendere l'unanimità alla luce della ormai diffusa consapevolezza
della relatività e mutabilità del sapere scientifico (Sez. Un. 25 gennaio 2005, Rv. 230317).
D'altra parte il contesto della dialettica processuale sembra fatto apposta per enfatizzare la diversità delle opinioni,
soprattutto attraverso l'azione degli esperti.
Peraltro, il giudice di legittimità, pur essendo conscio di ciò e nonostante ritenga “il rischio crescente in modo
esponenziale con l'accrescersi dell'esposizione ,materializzandosi proprio nei confronti delle persone, solitamente i
lavoratori, che sono stati più lungamente ed intensamente a contatto con la sostanza e ne hanno inalato le fibre”, sembra
quasi preoccupato delle pretese differenti soluzioni sullo stesso problema del mesotelioma pleurico assunte dalla Corte
di Cassazione, sulla base delle differenti emergenze processuali nel giudizio di merito, non sindacabili in Cassazione,
e della diversa valutazione della pregnanza delle contrastanti teorie scientifiche, sicché finisce con il tentare di attuare
un’omogeneizzazione della giurisprudenza di legittimità con l’indicazione di un decalogo della prova scientifica
contrastante con gli assunti in tema di limiti del sindacato del giudice di legittimità.
Così “l'esperto,(id est perito) per quanto autorevole e coinvolto personalmente nell'attività di studio e ricerca,
costituisce solo una voce che, sebbene qualificata, esprime un punto di vista personale, scientificamente accreditato ma
personale” sicchè “il giudice di merito può trovarsi nella condizione di non poter esprimere con piena cognizione di
causa il finale giudizio demandatogli in ordine all'affidabilità dell'enunciazione scientifica.”, secondo lo schema seguito
dal Tribunale, che piace e segue quel collegio, contraddicendo altri numerosi approdi, anche del giudice di legittimità,
affermando in maniera assoluta e valida in ogni caso che l'effetto acceleratore (che è questione distinta da quella della
trigger dose) non è chiarito fino in fondo alla stregua di una panoramica sullo stato complessivo del dibattito
scientifico”, ergendosi la Cassazione ad unico titolare del sapere scientifico.
Ed invero, nonostante lo stesso Tribunale abbia accolto la tesi della dose – dipendente, il giudice di legittimità emette il
decalogo inattuabile, ma rimprovera alla Corte di non aver risposto all’impostazione argomentata del Tribunale, se non
indicando i risultati della scienza di un perito espressi in dibattimento.
Stupisce, infine, della sentenza Cozzini i frequenti riferimenti a perizie, consulenze ed altri atti processuali, esistenti nel
fascicolo del dibattimento di merito, giacché, a mio modesto parere, ciò non rientra nei compiti del giudice di
legittimità, non dovendo riscrivere il processo, secondo le proprie personali valutazioni.
39
La sentenza afferma che I giudici di merito mostrano di avere avvertita consapevolezza di tale aspetto dell'indagine
causale. Infatti, da un lato si è fornita dimostrazione della significativa esposizione all'amianto e dall'altro si è esclusa
l'esistenza di concreti indizi che possano accreditare alternative ipotesi eziologiche riconducibili a pregresse esposizioni
lavorative all'amianto o ad esposizione ad altri fattori oncogeni.
Tale valutazione si sottrae alle censure prospettate dalle difese.”, ma, poi, baipassa detto condivisibile approdo con il
sostenere che si è in presenza di un problema altamente complesso che presenta almeno due aspetti ben distinti. Da un
lato si tratta di comprendere se l'enunciazione scientifica inerente all'effetto acceleratore della protratta esposizione sia
sufficientemente affidabile; e di chiarire inoltre, in caso di risposta affermativa a tale iniziale quesito, se l'accelerazione
di cui si discute si determini immancabilmente o solo in alcuni casi. Dall'altro lato, poi, ove sia provata la scientificità
dell'enunciato, occorre comprendere come esso possa essere utilizzato nell'inferenza probatoria e che le divergenti
soluzioni dei giudici di merito fondano le controverse soluzioni scientifiche e le ragioni dell’annullamento con rinvio,
non prima di aver esaminato con personale, ma condivisibile ricostruzioni, le ragioni della sentenza Macola.
23
law,eludendo la disciplina processuale del codice di rito italiano, pur richiamata per esaltarne il
fondamento dialettico40.
Occorre rilevare, tuttavia, che, accanto a pronunce che ritengono “restrittiva” la tesi della sentenza
in esame ed in maniera implicita la criticano o non la considerano, ve ne sono altre41, che
forniscono una differente lettura della pronuncia, sostenendo che “nel compito di valutazione
dell'attendibilità della teoria proposta il giudice deve esaminare, esemplificativamente, gli studi che
la sorreggono, le basi fattuali sui quali essi sono condotti, l'ampiezza, la rigorosità, l'oggettività
della ricerca, l'attitudine esplicativa dell'elaborazione teorica, il grado di consenso che la tesi
raccoglie nella comunità scientifica, l'identità, l'autorità indiscussa, l'indipendenza del soggetto che
ha gestito la ricerca, le finalità per le quali questa è stata realizzata (un conto è un'indagine compiuta
da un organismo pubblico, istituzionale, realmente indipendente; altra cosa è un'indagine
commissionata o gestita da soggetti coinvolti nelle .
dispute giuridiche. In quest'ottica ricostruttiva, poiché la questione della scelta della legge
scientifica e del metodo della sua applicazione attiene al "fatto", il successivo giudizio di legittimità
da parte della Cassazione non può riguardare l'attendibilità della legge scientifica, ma la razionalità,
la logicità dell'itinerario compiuto dal giudice di merito nell'apprezzamento della validità del sapere
scientifico e nella sua utilizzazione nel caso concreto: la Corte, infatti, non ha la competenza o la
qualificazione per stabilire se la legge scientifica utilizzata sia affidabile o no, mentre può e deve
limitare il proprio vaglio alla spiegazione razionale fornita in proposito dal giudice (in termini,
Sezione 4, 30 settembre 2008, parte civile Rizza ed altri in proc. Codega ed altri, Sezione 4, 17
settembre 2010, Cozzini ed altro)”
Tuttavia sia consentito notare che nella sentenza di cui sono riportate queste argomentazioni si
afferma pure che,in virtù del principio del libero convincimento del giudice e di insussistenza di una
prova legale o di una graduazione delle prove, il giudice ha la possibilità di scegliere, fra le varie
tesi prospettate da differenti periti di ufficio e consulenti di parte, quella che ritiene condivisibile,
purché dia conto, con motivazione accurata ed approfondita delle ragioni del suo dissenso o della
scelta operata e dimostri di essersi soffermato sulle tesi che ha ritenuto di disattendere e confuti in
modo specifico le deduzioni contrarie delle parti, sicché, ove una simile valutazione sia stata
effettuata in maniera congrua in sede di merito, è inibito al giudice di legittimità di procedere ad una
differente valutazione, poiché si è in presenza di un accertamento in fatto come tale insindacabile
dalla Corte di cassazione, se non entro i limiti del vizio motivazionale (Sezione 4, 20 aprile 2010,
Bonsignore)”, finendo, quindi, con l’aderire, almeno, all’impostazione avanzata, nonostante ritenga
la Cozzini rispettosa di detti principi.

40
Non è un caso che la sentenza Eternit Pres. Casalbore Trib. Torino 13 febbraio – 14 maggio 2012 affermi che se il
giudice si adoperasse secondo le indicazioni fornite da tale pronuncia, finirebbe per divenire artefice delle leggi
scientifiche anziché fruitore delle stesse, oltre tutto nell'evidente assenza di strumenti tecnici per pervenire ad un simile
risultato: con la conseguenza di avanzare opinioni esplicative al di fuori dei crismi che caratterizzano il sapere
scientifico" (p. 453).
41
Cass. n. 18678 del 2012, PG Bari, Regione Puglia e Campelli ed altri.
24
La critica alla sentenza Cozzini, estesa da uno dei più attenti studiosi della materia, autore di
importanti saggi e monografie, non esclude che la stessa contenga tutta una serie di argomentazioni
condivisibili quali le affermazioni sulla sentenza Macola secondo cui la selezione della ipotesi
eziologica più attendibile sia avvenuta in quel processo dopo la confutazione delle ipotesi causali
alternative e come l’esame, operato dal giudice di merito e ritenuto corretto dalla sentenza di
legittimità, abbia posto a confronto un’ipotesi di minimo rischio teorico con una realtà di rischio
concreto infinitamente più grave, la sottolineatura del valore metodologico e la positiva utilità del
realismo che deve caratterizzare la giurisprudenza di legittimità, rilevando che la sentenza 988/2003
ebbe correttamente a selezionare l'ipotesi eziologica conferente al caso concreto della esposizione
ad amianto dei lavoratori delle Officine Meccaniche Stanga accreditando quella che faceva perno su
una concreta e speciale esposizione lavorativa che il giudice di merito aveva fotografato come
vorticare (per anni) di fibre patogene nell'aria spinte da getti d'aria e dai colpi di scopa, la
distinzione tra causalità generale e causalità individuale, la limitata rilevanza dell’indagine
epidemiologica42, il necessario raffronto con il caso concreto, la differenza tra ragionamenti

42
Afferma la sentenza Cozzini, in conformità con la costante giurisprudenza di legittimità, che .il contesto è quello di
patologie che trovano la causa o una causa nel contatto, nel corso dell'attività lavorativa, con sostanze la cui tossicità è
ritenuta sulla base di informazioni epidemiologiche. Si tratta dunque, in primo luogo, di accertare se la patologia che ha
colpito il lavoratore abbia effettivamente la sua causa nell'esposizione lavorativa; o se, invece, siano concretamente
ipotizzabili altre ipotesi causali che riconducano l'evento lesivo a distinti fattori eziologici o ad esposizioni
extralavorative o lavorative ma diverse da quella ipotizzata dall'accusa. In tale ambito si pone un primo, delicato
problema causale: si tratta di stabilire se e come le informazioni epidemiologiche, che hanno contenuto probabilistico e
riguardano la cosiddetta causalità generale, possano essere utilizzate per stabilire relazioni causali concernenti un
singolo, concreto caso.
Subito dopo si aggiunge un altro, ancor più complicato problema che riguarda l'attribuibilità delle condotte lesive agli
imputati. La complessità del problema è generata dal fatto che l'esposizione lavorativa si è solitamente protratta per un
lungo arco di tempo, nel corso del quale si sono succeduti diversi responsabili dell'organizzazione del lavoro. È
conseguentemente difficile stabilire, nelle malattie neoplastiche, in quale momento sia avvenuto l'avvio, l'iniziazione del
processo che, talvolta dopo una lunghissima latenza, conduce alla formazione della prima cellula tumorale e quindi
all'evento lesivo. La soluzione di questi problemi può avvenire, evidentemente, solo sulla base di affidabili conoscenze
scientifiche. Anche qui insorgono diversi problemi, lungamente e vivacemente dibattuti. Si tratta di stabilire a quali
condizioni possa essere stabilita la validità di una generalizzazione esplicativa scientifica. Occorre inoltre chiarire in che
modo debba essere articolato il ragionamento inferenziale che trasferisce le conoscenze scientifiche nell'indagine su un
fatto storico; che cioè fa leva, ai fini della spiegazione dell'evento, sul sapere generalizzante.
Nel processo in esame tali temi hanno avuto forte evidenza ed hanno costituito, forse, il nucleo più significativo e
controverso della discussione. Il punto più dibattuto riguarda la contestata esistenza di un'enunciazione
scientificamente affidabile afferente all'esistenza di un effetto acceleratore del processo carcinogenetico derivante dalla
protrazione dell'esposizione dannosa nel corso dell'attività lavorativa. La dimostrazione di tale effetto acceleratore
consentirebbe, nei modi che saranno esposti più avanti, di attribuire rilievo causale anche alle condotte che hanno
determinato la protrazione dell'esposizione dannosa dopo l'iniziazione del processo patogenetico.
Il ragionamento causale, nell'ambito delle scienze storiche, orientate cioè sulla ricostruzione di eventi concreti, non è
quasi mai di tipo rigidamente deduttivo; e che in realtà i ragionamenti causali sono di diverse categorie, che si
articolano in modo differente.
Le incertezze in ordine all'utilizzabilità di generalizzazioni probabilistiche sono state fugate dalle Sezioni unite di questa
Suprema Corte (S.U. 10 luglio 2002, Franzese) che hanno espresso al riguardo una condivisa presa di posizione. La
Corte ha considerato utopistico un modello di indagine fondato solo su strumenti di tipo deterministico e nomologico-
deduttivo, cioè affidato esclusivamente alla forza esplicativa di leggi universali o quasi. Tale modello è stato ritenuto
insufficiente a governare, da solo, il complesso contesto del diritto penale, che si trova di fronte le manifestazioni più
varie della realtà. Accade frequentemente che nel giudizio si debbano utilizzare leggi statistiche ampiamente diffuse
nell'ambito delle scienze naturali, talvolta dotate di coefficienti medio-bassi di probabilità frequentista, generalizzazioni
del senso comune, le cosiddette massime di esperienza, nonché rilevazioni epidemiologiche. Occorre in tali ambiti una
verifica particolarmente attenta sulla fondatezza delle generalizzazioni e sulla loro applicabilità nella fattispecie
concreta, ma - concludono le S.U. - nulla impedisce che, quando sia esclusa l'incidenza nel caso specifico di fattori
interagenti in via alternativa, possa giungersi alla dimostrazione del nesso di condizionamento.
25
esplicativi e predittivi, la distinzione tra probabilità logica e probabilità statistica, l’importanza del
paradigma indiziario nell’accertamento in concreto del nesso eziologico, la prevedibilità dell’evento
ai fini della formulazione della regola cautelare e rispetto ad esso individuata sulla mancata
valutazione dei rischi e non solo sul mancato aggiornamento, il richiamare, ancora una volta, la
distinzione tra ricostruzione del decorso causale reale e ricostruzione del decorso causale ipotetico,
la differenza tra condotta attiva ed omissiva, oggetto di approfondimento in recenti decisioni, i due
differenti piani, sostanziali e processuali, nella considerazione del nesso eziologico e la necessità di
escludere percorsi e decorsi causali alternativi.
Il continuo richiamo alle sezioni unite FRANZESE e l’esame giustificativo delle soluzioni accolte
dalla preponderante giurisprudenza in tema di correlazione causale tra mesotelioma pleurico ed
esposizione all’amianto43, a mio modesto parere, palesano il tentativo di una nuova lettura della
FRANZESE, peraltro altre volte effettuato in maniera “farisaica”44, e le difficoltà in cui si è trovato
il collegio fra la richiesta di rimessione del ricorso alle sezioni unite, cercando un ribaltamento della
pregressa giurisprudenza sul tema, la creazione di un contrasto su basi più solide di quelle delle rare
pronunce contrarie precedenti, fondate sulla tesi della certezza assoluta45, ritenuta non condivisibile
dalle SS.UU., e le stringenti argomentazioni della sentenza di merito, sicché si è finito con lo
scegliere un “nuovo statuto” della prova scientifica, a mio modesto avviso, disancorato dalle norme
processuali sul punto.

le Sezioni unite hanno enunciato il carattere condizionalistico della causalità omissiva e, di fronte alle già accennate
difficoltà insite nel controfattuale della causalità omissiva, hanno indicato un itinerario probatorio percorribile: il
giudizio di certezza del ruolo salvifico della condotta omessa presenta i connotati del paradigma indiziario, si fonda
anche sull'analisi della caratterizzazione del fatto storico e culmina nel già detto giudizio di elevata probabilità logica.
Insomma, le incertezze alimentate dalle generalizzazioni probabilistiche possono essere in qualche caso superate nel
crogiuolo del giudizio focalizzato sulle particolarità del caso concreto, quando l'apprezzamento conclusivo può essere
espresso in termini di elevata probabilità logica. È il piano processuale che, richiedendo un approccio valutativo, può in
alcuni casi consentire di metabolizzare la misura d'incertezza che spesso si riscontra nei giudizi della giurisprudenza,
particolarmente nell'ambito biomedico di cui qui ci si occupa. Il tramite è costituito da già indicato concetto di
probabilità logica che, non consente rigide quantificazioni numeriche. Tale soluzione rende praticabile il giudizio
d'imputazione dell'evento, allontanando la prospettiva di indiscriminata impunità anche per condotte omissive
gravemente trascurate e dannose.
43
In realtà il riferimento all’unica sentenza contraria a questo trend Cass. sez. IV 10 giugno 2010 n.38991, Quaglierini
non considera come il giudice di legittimità nell’annullare con rinvio la sentenza di condanna della Corte di appello di
Torino aveva evidenziato come il giudice di merito, nonostante la presenza di una perizia ed una CT del PM, che
accedevano alla tesi della dose- correlata) aveva accolto detta tesi immotivatamente., decidendo la tesi da accogliere
con argomenti tratti dalle perizie, ma senza contrastare adeguatamente gli altri, sicché si era in presenza di un difetto di
motivazione, sindacabile da giudice di legittimità.
44
T. Padovani: La Franzese 10 anni dopo convegno tenutosi presso l’Università cattolica di Milano a cura della
fondazione F. Stella..
Le SS.UU. e prima altre pronunce di legittimità avevano affermato che è impossibile che il giudice, nell’accertare il
rapporto causale, venga a capo di tutti i passaggi causali, giacché è sufficiente che il giudice, adottando il modello della
sussunzione sotto leggi scientifiche, colga uno o più antecedenti che, secondo le leggi scientifiche, universali o
statistiche, siano tali che senza gli stessi l’evento, con alto grado di probabilità logica e di credibilità razionale cioè con
certezza, non si sarebbe verificato, richiedendosi in alcune pronunce, invece, (Cass. sez. IV n.25233 del 2005, Lucarelli)
) l’individuazione di tutti gli elementi concernenti la causa dell’evento, dovendosi conoscere tutti gli aspetti fattuali e
scientifici dal sorgere della malattia alla sua evoluzione.
Peraltro, in quella fattispecie, sarebbe stato sufficiente rilevare l’esistenza di varie possibili soluzioni alternative, in
quanto si trattava dell’introduzione di sangue infetto in un reparto di ematologia non si sa per dolo o per colpa, sicché,
nel primo caso, la responsabilità del primario era da escludere.
45
Sentenza Covilli del 2001
26
La sentenza Cozzini, a mio modesto parere, contiene un’ulteriore non condivisibile impostazione
cioè quella di voler fornire sotto il profilo di una “specificazione” dei principi espressi dalle SU
Franzese un criterio di valutazione della prova scientifica astratto valido per tutti i casi,
contravvenendo proprio agli insegnamenti delle SU e ritornando in maniera surrettizia alle sentenze
degli anni 2000 sull’accertamento del nesso causale con una certezza prossima a cento.
Questa sensazione è confermata dall’esito di due importanti processi in sede di merito46. Infatti, la
sentenza del primo processo Montefibre, giunto all’esame del giudice di legittimità era stato in
maniera convincente annullata dal giudice di legittimità47, perché, la Corte di appello di Torino,
senza fare alcun riferimento ai contributi scientifici, presenti nel processo, aveva aderito alla teoria
della “dose – correlata” senza alcun richiamo alla fonte di detto convincimento48.non contrastando,
certamente, l’accoglimento di questa teoria scientifica, sicché, avendo il Tribunale di Verbania
accolto la diversa tesi della dose killer, si chiedeva un motivazione sul punto del tutto assente.
Il Tribunale di Verbania, invece, nella nuova sentenza sul Montefibre bis, corrobora la sua
pregressa tesi e finisce con il trasfondere e richiamare la sentenza di legittimità n.43786 del 2010,
proprio per quel suo carattere generalizzante, ripetendo parti della motivazione e riproducendo il
decalogo49 sulla valutazione della prova scientifica in tema di mesotelioma pleurico, giungendo alle
assoluzioni dei soggetti fumatori e di quelli esenti da detto vizio , poiché, in generale, la scienza non
è in grado di individuare un rapporto causale tra aumento della durata dell’esposizione e
l’accelerazione della carcinogenesi .
Identico percorso, ma collegato con le situazioni fattuali ed in un caso con l’esposizione all’amianto
da oltre venti anni prima che assumesse una posizione di garanzia l’imputato, segue la sentenza
patavina, specificando pure con molta attenzione che, nella fattispecie, pur non maneggiandosi

46
Intendo riferirmi a Trib. Verbania 9 luglio – 17 ottobre 2011, Bordogna ed altri e Trib. Padova 22 marzo - 20 giugno
2012, relative al processo Montefibre spa e a quello instaurato nei confronti dei vertici dell’epoca della Marina Militare.
47
Cass. sez. IV n.38991 del 2010,
48
Vedi le acute osservazioni contenute nella monografia di C. BRUSCO sul rapporto di causalità cit.
49
L’errore di generalizzazioni nel settore della valutazione della prova ed in particolare di quella scientifica si coglie in
una vicenda del tutto diversa cioè quella della deposizione dei minori vittime di reati sessuali (Cass. sez. III n.8962 del
1997 rv.208447. In quel caso si trattava della valutazione del contenuto della dichiarazione del minore - parte offesa - in
materia di reati sessuali, affermandosi che “in considerazione delle complesse implicazioni che la materia stessa
comporta, deve contenere un esame: dell'attitudine psicofisica del teste ad esporre le vicende in modo utile ed esatto;
della sua posizione psicologica rispetto al contesto delle situazioni interne ed esterne”, ritenendo proficua l'indagine
psicologica, che concerne due aspetti fondamentali: l'attitudine del bambino a testimoniare, sotto il profilo intellettivo
ed affettivo, e la sua credibilità. Il primo consiste nell'accertamento della sua capacità di recepire le informazioni, di
raccordarle con altre, di ricordarle e di esprimerle in una visione complessa, da considerare in relazione all'età, alle
condizioni emozionali, che regolano le sue relazioni con il mondo esterno, alla qualità e natura dei rapporti familiari. Il
secondo - da tenere distinto dall'attendibilità della prova, che rientra nei compiti esclusivi del giudice - è diretto ad
esaminare il modo in cui la giovane vittima ha vissuto ed ha rielaborato la vicenda in maniera da selezionare sincerità,
travisamento dei fatti e menzogna. In ogni caso bisogna evitare ogni trauma ulteriore, non strettamente ed
assolutamente indispensabile.
Da quel momento, prima che la terza penale della Corte di Cassazione esplicitasse che si trattava di indicazioni, non
cogenti, necessariamente non da seguire e la cui omessa effettuazione non comportava alcun vizio motivazionale ed
alcuna violazione di norme processuali, i difensori deducevano da dette omissioni violazioni di legge o motivazionali ed
i giudici assolvevano oppure effettuavano tutti in ogni caso dette perizie psicologiche.
L’estensore di quella sentenza non voleva far assumere alcun valore generalizzante e non aveva neppure utilizzato frasi
tali da far ritenere dette indicazioni cogenti, imperative e processualmente obbligatorie, ma si è verificato detto
fraintendimento, facilmente possibile a maggior ragione in un iter motivazionale complesso e tendente a fornire
indicazioni cogenti ed universali.
27
continuamente l’amianto, vi era una inalazione delle polveri ed una continuativa esposizione per le
ragioni ambientali.
La sentenza del giudice veneto prosegue, criticando la tesi dell’aumento del rischio ed aderendo a
quella della conditio sine qua non, ma, poi, finisce con il trasfondere il “decalogo” della Cozzini per
un caso analogo (anche se ve ne erano altri con differenti argomentazioni e soluzioni del giudice di
legittimità, diligentemente riferite in motivazione, sicché fa assumere valore decisivo alle
contrastanti decisioni di merito, anch’esse riportate in maniera puntuale).
Il riferimento alle tesi del prof. Stella, contenute in motivazione, palesano come la sentenza Cozzini,
rileggendo S. U. Francese, vuole far prevalere la teoria “utopistica” della certezza pari o molto
prossima a cento o ad uno, ritenuta tale dalle sezioni unite senza fermarsi alla “certezza processuale
oltre ogni ragionevole dubbio”. Del resto la sentenza patavina cita le sentenza Eva e Quaglierini,
accomunate dalla carenza motivazione cioè diverse dalla pronuncia Cozzini per accreditare un
preteso contrasto in seno al giudice di legittimità, verificatosi solo con la sentenza del 2010 più
volte citata, alla quale pienamente aderisce il giudice di merito, ritenendola conforme agli
insegnamenti delle SU FRANZESE e riportandone interi passi, sicché una prima valutazione
prescinde dal caso concreto ed aderisce alla tesi della dose indipendente.
In tal modo, seguendo i dettami della Cozzini ed il ragionamento semplificato del giudice patavino,
si giunge ad esiti assolutori per tutti i casi “per l’umana deficienza nel sapere scientifico”.
Le notevoli difficoltà incontrate dalla pubblica accusa nel campo delle malattie professionali ed in
particolare di quelle conseguenti alla presenza ed inalazione o contatto nell’ambiente di lavoro o
extralavorativo50 con sostanze tossiche o pericolose riesce a far comprendere le ragioni per cui
alcuni P. M. hanno focalizzato altri delitti cioè il disastro colposo e l’art.437 c. p., sfruttando in
questo caso l’evoluzione giurisprudenziale della prima sezione penale della Cassazione, ove,
logicamente, sussistano gli elementi costitutivi di questi reati.51
Espressione di questa scelta anche in altri settori cioè quello agro-alimentare ed ambientale è anche
la c. d. crisi della causalità52, collegata alla necessità in alcuni ambiti, relativi ad interessi e diritti
fondamentali, costituzionalmente protetti, di far ricorso ad una tutela anticipata, ed all’impossibilità
in alcuni aspetti di far ricorso ad una rigorosa applicazione su basi scientifiche, sicché la teoria del
rischio53 e del pericolo54, che assumono differente valenza, pur tendendo a raggiungere il medesimo

50
Si tratta della nota sentenza Eva n.27975 del 2003 rv.226011, nella quale il giudice di legittimità ha ravvisato una
carenza motivazionale in ordine alla possibilità di ricondurre
51
Intendo riferirmi a Trib. Torino 13 febbraio - 14 maggio 2012 relativa al caso Eternit.
52
De Francesco: Dinamiche del rischio e modelli di incriminazione nel campo della circolazione dei prodotti alimentari
in Riv. Dir. Agr. 2010,I,3; L. Costato: Protezione del consumatore tra strumenti contrattuali e norme di carattere
pubblicistico. Il caso del diritto alimentare ivi, 2010, 35.
53
“ Il rischio .. è andato assumendo una fisionomia .. lontana dall’archetipo originario ..collegat(o) all’esistenza più o
meno concreta ed attuale di un “pericolo” per gli interessi penalmente tutelati.. in tale nuova ottica non viene in rilievo
una valutazione probabilistica .. (sul piano causale), circa la potenzialità lesiva di determinati fattori e circostanze al
posto di essa subentra() .. il timore da ignoto” con una visione cautelare propria del principio di precauzione. De
Francesco: op. ult. cit. pagg da 26 a 28.
28
scopo, giacché il rischio a causa della sua minore intensità rispetto al pericolo si pone in una
dimensione prodromica e viene ad avere quale oggetto non un fattore predeterminato, ma
l’interazione dinamica di un complesso di circostanze, le quali possono poggiare o su basi cognitive
e scientifiche sufficientemente affidabili o su conoscenze non del tutto esaurienti, ed i reati di
pericolo astratto, opportunamente filtrati con un’interpretazione adeguatrice attraverso il principio
di offensività, riletto ed ampliato,
L’esame dell’evoluzione della giurisprudenza in tema di art.437 c. p. costituisce un approccio
significativo a detta impostazione, con cui si mira a fornire tutela penale a situazioni
costituzionalmente rilevanti per la tutela di beni ed interessi fondamentali.
In un tempo remoto si sosteneva che la disposizione era applicabile solo nel caso in cui vi fosse una
diffusività del pericolo indeterminata ed un coinvolgimento generale della pubblica incolumità.
Dinanzi alle critiche della dottrina circa la completa assenza di questi presupposti e della sola
possibilità di inferire detti requisiti (diffusività e pericolo per la pubblica incolumità) dalla
collocazione del precetto nel codice penale, la giurisprudenza ha, prima, escluso un rapporto di
specialità tra il delitto e le contravvenzioni alle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro,
ammettendo il concorso di norme (Cass. sez. I 14 gennaio 1999 n.350 rv.212202 fra le più recenti
sul punto) e, poi, elaborato un’analisi ermeneutica più affinata.
In un primo momento (Cass. sez. I 20 febbraio 2006 n.6393 rv.233826) ha affermato che nella
configurazione del delitto di rimozione o omissione dolose di cautele contro infortuni sul lavoro
(art. 437 c.p.), il pericolo per la pubblica incolumità non è previsto come elemento costitutivo del
reato - da accertare ogni volta - ma è presunto (o astratto), nel senso che dalla conformità della
condotta del soggetto agente al modello legale il legislatore ha già presunto la sussistenza del
predetto pericolo.
Il legislatore, infatti, sulla base dell'id quod plerumque accidit, ha considerato la condotta tipica
descritta nella norma come astrattamente idonea a produrre effetti dannosi capaci di propagarsi ad
una collettività di lavoratori.
Pertanto il Giudice, per affermare la responsabilità dell'agente, deve solo accertare che quest'ultimo
abbia dolosamente omesso di collocare (ipotesi omissiva) oppure rimosso o danneggiato (ipotesi
commissiva) le cautele prescritte (impianti, apparecchi o segnali).
Nella nozione di rimozione rientra non soltanto la materiale asportazione, dalla macchina, dei
congegni di sicurezza, ma anche ogni attività che ne frustra il funzionamento in relazione alla
finalità antinfortunistica cui essi sono predisposti, rendendo possibile il verificarsi di un infortunio.
Il danno eventualmente derivante dalla violazione della norma principale, in sé configurante un
reato di pericolo, ne integra una circostanza aggravante e non un elemento costitutivo.

54
“ Il pericolo.. rappresenta il necessario “contraltare” della stessa dimensione “collettiva” dell’interesse tutelato .. il
senso di una scelta volta a scongiurare la potenziale “diffusione” di danni a vasto spettro, che non sarebbe possibile
fronteggiare in mancanza di un controllo penale congruamente anticipato” (De Francesco: op. ult. cit.,5.
29
Inoltre, il pericolo non deve interessare necessariamente la collettività dei cittadini o, comunque, un
numero rilevante di persone, in quanto la tutela si estende anche all'incolumità dei singoli
lavoratori, come si evince dall'interpretazione letterale della rubrica della disposizione in esame e
dalla lettura logico- sistematica del secondo comma dell'art. 437 c.p., che configura un'aggravante
del reato sussistente anche nell'ipotesi in cui si verifichi un infortunio individuale sul lavoro.
L'elemento psicologico del delitto è costituito dalla coscienza e volontà di omettere le cautele
prescritte, che abbiano una destinazione di prevenzione di disastri o infortuni, nonostante la
consapevolezza di tale destinazione e, quindi, pur rappresentandosi il pericolo per la sicurezza
dell'ambiente di lavoro e dell'incolumità delle persone.
Successivamente (Cass. sez. I 26 marzo 2007 n.12464 rv.236431 e Cass. sez. I 24 aprile 2008
n.17214 rv.240002) si è chiarito che il bene giuridico tutelato dalla fattispecie di cui all'art. 437 c.p.
concerne anche la sicurezza sul lavoro di una comunità ristretta di lavoratori o di singoli lavoratori,
in quanto tale disposizione incrimina espressamente la rimozione o l'omissione dolosa di cautele
destinate a prevenire infortuni sul lavoro, i quali riguardano di solito singoli soggetti e non
indistinte collettività di persone, aggiungendosi che se è vero che nella fattispecie in disamina il
dolo è correlato alla precisa consapevolezza della esistenza di una situazione di pericolo
discendente dal funzionamento di un macchinario privo della cautela imposta e dalla volontà di
accettare il rischio di infortunio, facendo funzionare il macchinario senza la cautela stessa.
Infine, si è ulteriormente specificato che il reato in parola è integrato anche dalla condotta di chi non
impieghi dispositivi che abbiano una mera potenzialità antinfortunistica e nel contempo abbiano
rilevanti funzioni tecniche per il funzionamento degli impianti.
L’impostazione fornita spiega perché in un notissimo processo (Eternit) si sia seguita questa via,
che potrebbe baipassare le criticità rilevate in ordine a nesso causale e mesotelioma pleurico, a
valore della prova scientifica ed a causalità della colpa, anche se in molti casi la contestazione
dell’omicidio colposo aggravato dalla violazione di norme antinfortunistiche appare necessario.
La sentenza Eternit affronta e risolve una serie di questioni interpretative relative tanto al primo, che
al secondo comma della fattispecie di cui all'art. 437c. p..55
Il reato del primo comma lo ritiene un reato di pericolo astratto o presunto, rispetto al quale non è
necessario l'accertamento di una effettiva situazione di pericolo per l'incolumità pubblica, secondo
la qualificazione fornita dai giudici di legittimità56.
Qualificato il delitto di cui al primo comma come reato proprio, in quanto soggetto attivo del reato
è necessariamente il datore di lavoro, sul quale incombe l'obbligo di adottare le misure necessarie
a garantire la sicurezza sul luogo di lavoro, ritenuta omissiva la condotta, consistente nella mancata

55
Si segue lo schema acuto e completo di Masera in www. Penale contemporaneo, che riassume i contenuti di questa
fondamentale decisione.
Sul processo Enimont vedi pure il numero monografico di Questione Giustizia con contributo di B. Deidda.
56
Cass. sez. I n.8054 del 1998 rv.211778 richiede per la sussistenza non necessaria una situazione di pericolo che
interessi tutta la collettività o un numero rilevante di persone, ma tutela anche l’incolumità dei singoli lavoratori.
30
adozione delle cautele richieste specificamente dalla normativa antinfortunistica, e più in generale
di tutte le cautele imposte al datore di lavoro dall'art. 2087 c.c., perché “l'art. 437 è norma penale
in bianco, operando un ampio rinvio a normative e conoscenze specifiche dei singoli settori
lavorativi, che non possono essere sconosciute a chi professionalmente opera in un determinato
contesto produttivo": (p. 476), individua l'omissione rilevante quella che ha ad oggetto cautele volte
ad prevenire disastri o infortuni, riconducendo le malattie asbesto-correlate alla nozione di
infortunio ed aderisce, quindi, alla tesi giurisprudenziale della malattia-infortunio, secondo cui
sarebbe riconducibile a tale nozione "ogni sindrome morbosa insorta in esecuzione di lavoro e
prodotta da agenti esterni di varia natura, evitabile con determinati accorgimenti" (p. 481)57.
Quanto infine all'elemento soggettivo, esso è rappresentato "dalla piena consapevolezza non
soltanto della condotta posta in essere, omissiva o commissiva che sia, ma anche della destinazione
antinfortunistica dei dispostivi omessi" (p. 482), mentre non è necessario che il dolo si estenda,
neppure nella forma del dolo eventuale, alla verificazione dell'evento dannoso del disastro o
dell'infortunio58
La sentenza affronta una tematica molto rilevante ai fini della prescrizione del reato59 cioè se il
secondo comma dell’art.437 c. p. debba essere considerato quale fattispecie autonoma oppure
circostanza aggravante della figura-base del primo comma. La sentenza afferma che "la struttura
normativa induce ad escludere che la fattispecie del secondo comma possa atteggiarsi a mera
circostanza dell'ipotesi del primo comma, dal momento che tra le due ipotesi non vi è ne
corrispondenza di elementi essenziali (il primo comma descrive un reato di pericolo astratto ed il
secondo un reato di danno con evento naturalistico; il reato del primo comma non include il

57
Viene riprodotta la nozione fornita da Cass. sez. I 14 gennaio 1999 n.350 rv.212203
58
La sentenza, quindi, si rifà alla costante giurisprudenza di legittimità (Cass. sez. I 24 aprile 2008 n.17214 rv.240002,
secondo cui il dolo è correlato alla consapevolezza dell'esistenza di una situazione di pericolo discendente dal
funzionamento di un'apparecchiatura, segnale o impianto destinato a prevenire l'infortunio e privo della cautela imposta,
e alla volontà di accettare il rischio di quest'ultimo, consentendo il funzionamento senza la cautela stessa.

59
In realtà, la pronuncia sul punto rileva che “ogni singola malattia-infortunio cagionata dalla condotta omissiva degli
imputati configura un'autonoma fattispecie delittuosa, il cui termine di prescrizione decorre dal momento in cui è stata
diagnosticata l'insorgenza della malattia, con la conseguenza che devono ritenersi prescritti i reati relativi alle
patologie insorte prima del 13 agosto 1999 (10 anni pena massima+1/4 ex art. 161= 12 anni e 6 mesi: la sentenza di
condanna è del 13 febbraio 2012). Inoltre,in via di obiter dictum, aggiunge che la qualificazione come circostanza
aggravante non avrebbe avuto l'esito di far ritenere il reato già prescritto, ma al contrario avrebbe comportato la
condanna per tutte le patologie addebitabili agli imputati, posto che "tutte le circostanze aggravanti sono rilevanti per la
determinazione del termine prescrizionale e, dunque, il reato non può considerarsi consumato se non dopo la
verificazione di tutte le circostanze aggravanti che risultano contestate, con l'effetto di spostare il dies a quo della
prescrizione, facendolo coincidere con la verificazione dell'ultima aggravante contestata, per cui, nel nostro caso, attesa
l'unitarietà del reato di cui al primo comma dell'art. 437, si dovrebbe concludere che la prescrizione non è maturata con
riferimento a nessuna delle malattie che hanno colpito le persone offese" (p. 496).

Questa notazione non considera la successione delle leggi nel tempo e la possibilità di valutare l’ipotesi più favorevole,
nonché la possibilità di non ritenere unitario il delitto, pur se detta ricostruzione appare problematica.

31
disastro o l'infortunio nell'oggetto del dolo, mentre per il reato del secondo comma è indispensabile
che il dolo contempli anche l'evento), né rapporto di specialità alcuna" (p. 492)60.
Tuttavia, la sentenza presenta un’intrinseca contraddizione quando precisa come la necessità del
dolo rispetto all'evento-infortunio non comporti di per sé l'integrazione anche del reato di lesioni
volontarie, in quanto "non deve essere confuso il concetto di infortunio con quello delle lesioni
personali che ad esso possono conseguire, perché non è detto che, in tutti i casi di infortunio, si
registrino anche delle lesioni, ben potendo ipotizzarsi un infortunio sul lavoro privo di lesioni
personali. La definizione giuridica di infortunio è riferibile ad un'invalidità assoluta che comporti
l'assenza dal lavoro per più di tre giorni che non deve necessariamente coincidere con il concetto di
malattia nel corpo o nella mente nella quale, al contrario, si estrinseca la lesione, per cui - pur
essendo molto frequente -non è comunque automatico che dall'infortunio consegua la lesione" (p.
488), giacché, poco prima (pag.481) aveva fatto riferimento alle malattie-infortunio, tanto più che
questo aspetto non influenza la soluzione accolta e determina soltanto un’omessa contestazione di
un’altra fattispecie penale, che può ritenersi assorbita nell’art.437 secondo comma c. p..
Altra via alternativa, esistente sempre in detto processo, è quella della contestazione del disastro
doloso.
La necessità della scelta del delitto doloso e non colposo discende dalla contestazione dell’art.437 c.
p., sicché vi sarebbe stata una netta contraddizione tra le due imputazioni, ma la possibilità di
contestare da solo il disastro colposo comporta pure la trattazione di detta tematica alla luce di una
recente sentenza della quarta sezione penale.61
La predetta pronuncia, come quella del Tribunale di Torino, trae spunto dalla decisione della Corte
Costituzionale n.327 del 2008 per individuare la nozione di disastro ed afferma che “per esservi un
disastro penalmente rilevante, ha precisato il giudice delle leggi, da un lato, sul piano dimensionale,
si deve essere al cospetto di un evento distruttivo di proporzioni straordinarie, anche se non
necessariamente immani, atto a produrre effetti dannosi gravi, complessi ed estesi. Dall'altro lato,
sul piano della proiezione offensiva, l'evento deve provocare - in accordo con l'oggettività giuridica
delle fattispecie criminose in questione (la "pubblica incolumità") - un "pericolo" per la vita o per
l'integrità fisica di un numero indeterminato di persone; senza che peraltro sia richiesta anche

60
La sentenza segue le cadenze argomentative di una pregevole e rilevante decisione delle SS.UU. (n.21039 del 2011
rv.249665), secondo cui non può ritenersi sussistente una circostanza aggravante, ma ipotesi autonome di reato, quando
difetti “,il rapporto tra un fatto-base, cioè il fatto del reato, e un fatto accessorio, cioè il fatto della circostanza. Occorre,
per configurare una circostanza in senso tecnico, che si sia in presenza di un elemento non essenziale del reato, di un
quid cioè che può esserci o non esserci, senza che il reato venga meno nella sua previsione di base.” Infatti, i fatti sono
tutti sullo stesso piano e “ ciascuno di essi delinea – secondo la corrispondente previsione tipica – un'ipotesi delittuosa e
non v'è, quindi, alcuna ragione logica per assegnare ad uno o più di essi la funzione di circostanza, declassando così
condotte tipiche di determinate fattispecie incriminatrici ad accadimento eventuale di altra fattispecie incriminatrice”.
La novità dell’impostazione dell’attenta sentenza delle SS.UU., potrebbe far ritenere superata quella giurisprudenza
prevalente di legittimità che delinea l’ipotesi di cui al secondo comma dell’art.437 c. p. come circostanza aggravante
(cfr. Cass. sez. I n.7337 del 2007 rv.235712 e n.20370 del 2006 rv.233779), pur se sembrerebbe configurarsi un reato
aggravato dall’evento.
61
Cass. n.18678 del 2012.
32
l'effettiva verificazione della morte o delle lesioni di uno o più soggetti.
In altri termini, il reato di disastro innominato colposo di cui agli artt. 449 e 434 c.p. costituisce una
fattispecie incriminatrice che richiede un avvenimento grave e complesso con conseguente pericolo
per la vita o l'incolumità delle persone indeterminatamente considerate; è cioè necessaria una
concreta situazione di pericolo per la pubblica incolumità nel senso della ricorrenza di un giudizio
di probabilità relativo all'attitudine di un certo fatto a ledere o a mettere in pericolo un numero non
individuabile di persone, anche se appartenenti a categorie determinate di soggetti. Mentre, dal
punto di vista probatorio, l'effettività della capacità diffusiva del nocumento (cosiddetto pericolo
comune) deve essere, con valutazione ex ante, accertata in concreto, ma la qualificazione di grave
pericolosità non viene meno allorché, eventualmente, l'evento dannoso non si è verificato: ciò
perché si tratta pur sempre di un delitto colposo di comune pericolo, il quale richiede, per la sua
sussistenza, soltanto la prova che dal fatto derivi un pericolo per l'incolumità pubblica e non
necessariamente anche la prova che derivi un danno (cfr. anche Sezione IV 20 febbraio 2007,
Rubiero ed altri; nonché, di recente, Sezione IV 15 dicembre 2011,
Artusato ed altri).
Aggiunge, però, la pronuncia del giudice di legittimità sul disastro colposo che “deve, darsi atto di
un altro orientamento nella giurisprudenza di legittimità, a cui hanno peraltro fatto riferimento
entrambi i giudici di merito (cfr. oltre a Sezione IV 17 maggio 2006, Bartalini ed altri, Sezione IV 9
marzo 2009, Innino), secondo cui, per la configurabilità del delitto di disastro colposo sarebbe
necessario che si sia realizzato l'evento tipico costituito dal disastro, inteso come accadimento
distruttivo di proporzioni di eccezionale gravità”, non condividendo detta tesi “in quanto contrasta
con il fatto che l'art. 449 c.p. è pur sempre ricompreso nel capo dei "delitti colposi di comune
pericolo" e con l'ulteriore rilievo che la norma incriminatrice di cui al citato art. 449 nel costruire la
nozione di disastro richiama il capo 1 del titolo VI c.p., del quale fa parte proprio l'art. 434 c.p., che
correla la punibilità al (solo) "pericolo" per l'incolumità pubblica. Va altresì chiarito che il disastro
innominato può avere le caratteristiche di un evento disastroso immediatamente percepibile (.. la
caduta di un aeromobile, il deragliamento di un treno, il crollo di un edificio ..) oppure può anche
non avere queste caratteristiche di immediatezza perchè può realizzarsi in un arco di tempo molto
prolungato, purché si verifichi quella compromissione delle caratteristiche di sicurezza, tutela delle
salute e della collettività che consentono di affermare l'esistenza di una lesione della pubblica
incolumità”62. Pertanto, “l'accertamento del requisito essenziale del delitto de quo, va ancorato
non già all'avvenuto verificarsi delle lesioni e degli omicidi contestati, bensì alla effettiva capacità
diffusiva del pericolo per la pubblica incolumità, dalla quale l'evento, per assumere le dimensioni

62
La fattispecie posta all’esame del giudice di legittimità riguardava la esposizione prolungata (protrattasi per sei anni)
di un notevole numero di lavoratori (addetti all'attività di disinquinamento e comunque autorizzati all'ingresso nello
stabilimento senza l'adozione di cautele idonee) ai composti arsenicali dei sali utilizzati nella colonna di lavaggio
dell'ammoniaca, dispersisi all'interno dello stabilimento e fuori dallo stesso a causa dello scoppio di detta colonna il
26.9.1976, in occasione della quale vi fu la fuoriuscita di almeno 10 tonnellate di arsenico.

33
del disastro deve essere caratterizzato” sicché “la prova del pericolo non debba essere traslata da
quella dell'avvenuto danno cagionato dalla condotta colposa, in quanto si andrebbe incontro
inevitabilmente ad una contraddizione in punto di diritto, quella cioè di travisare la vera natura del
disastro innominato colposo, di cui all'art. 449 c.p., negandone l'appartenenza al genus dei delitti
colposi di comune pericolo, il quale richiede, per effetto del richiamo alla nozione di disastro
preveduto dal capo 1 del titolo VI del libro II del codice penale, del quale fa parte l'art. 434 c.p.-
soltanto la prova che dal fatto derivi un pericolo per la pubblica incolumità e non necessariamente
anche la prova che derivi un danno”63.
Questi principi, con le opportune differenze derivanti dall’essere stato contestato un disastro doloso
(reato di pericolo concreto) e dalla necessità di esaminare i rapporti tra il delitto di cui all’art.437
secondo comma c.p.,ritenuto fattispecie autonoma,e quello ex art.434 c. p. si rinvengono nella
pronuncia del Tribunale di Torino, ma con esiti opposti a quelli del Tribunale e della Corte di
merito barese.
Infatti, chiariti i rapporti tra tale reato e quello di cui all'art. 43764, il Tribunale si sofferma
sull’elemento psicologico e da conto di come la dottrina e la giurisprudenza65 maggioritarie
interpretino la locuzione “atti diretti a cagionare un disastro” come allusiva della necessità del dolo
intenzionale, reputa conclusivamente "preferibile ritenere che all'espressione fatto diretto a
cagionare un disastro debba essere assegnata una valenza oggettiva, più che soggettiva,

63
Peraltro, nonostante “il percorso argomentativo seguito dai giudici di merito nella parte in cui, premessa la
qualificazione giuridica del reato di disastro colposo come delitto "di danno" (sic! N.d.r), affermano che nel caso in
esame la fattispecie non possa dirsi integrata anche perché le lesioni e gli omicidi contestati non potevano essere
correlati alla espletata attività di bonifica”, perché” . ai fini della configurabilità del disastro innominato colposo non è
necessario il verificarsi dell'evento di danno ma l'effettiva capacità diffusiva del nocumento, accertata in concreto, da
valutarsi ex ante”, l’accertata, con perizia tecnica ex art.507 c. p. p. carenza di diffusività rende non annullabile la
pronuncia senza che abbia influenza l’omessa analitica ed approfondita discussione sulle tesi dei C.T. del P.M. ed il
dato di fatto della dispersione nell’ambiente di 10 tonnellate di ammoniaca..
Ed invero, se “ rilevava ai fini della configurabilità del disastro nella fattispecie era l'accertata compromissione delle
caratteristiche di sicurezza e di tutela della salute e di altri valori della persona conseguente alla esposizione prolungata
dei lavoratori addetti alle attività di bonifica e di disinquinamento e, più in generale, di quelli ai quali era stato
consentito l'ingresso all'interno dello stabilimento dell'ANIC senza l'adozione di cautele idonee, pur tecnicamente
attuabili”, l’accertata assenza di diffusività con compromissione della pubblica incolumità faceva venir meno gli
elementi costitutivi del reato.

64
Il Tribunale di Torino ritiene sussistente un "rapporto di specialità bilaterale, dal momento che l'evento disastro
previsto dal secondo comma dell'art. 434 è comune all'evento disastro previsto dal secondo comma dell'art. 437" (p.
499). Il disastro di cui all'art. 437 non deve poi essere necessariamente limitato ai luoghi interni alla fabbrica, sicché la
differenza tra i due reati si coglie solo sotto il profilo della condotta: "quando il soggetto attivo è un imprenditore, se il
disastro che si verifica è frutto dell'omissione di cautele antinfortunistiche, l'autore del reato risponderà unicamente
della violazione dell'art. 437, mentre se il reato si verifica in conseguenza di una condotta diversa da quella disciplinata
dall'art. 437, allora sarà configurabile solo il delitto di cui all'art. 434. Qualora invece l'imprenditore dovesse porre in
essere, anche contemporaneamente, entrambe le condotte tipiche, allora egli verrà chiamato a rispondere di entrambi i
reati. Nel caso in esame, si è verificata proprio tale ultima eventualità" (p. 500).

65
Vedi Cass. sez. IV n.36626 del 2011 rv. 251428 secondo cui “iIl disastro innominato di cui all'art. 434 cod. pen. è un
delitto a consumazione anticipata, in quanto la realizzazione del mero pericolo concreto del disastro è idonea a
consumare il reato mentre il verificarsi dell'evento funge da circostanza aggravante; il dolo è intenzionale rispetto
all'evento di disastro ed è eventuale rispetto al pericolo per la pubblica incolumità.”
34
considerando che l'attitudine causale a provocare il disastro debba connotare solo la condotta posta
in essere e non l'elemento soggettivo dell'autore del reato. Il dolo richiesto per il reato de quo può
dunque consistere nel dolo generico che, in mancanza di specifiche ed espresse previsioni
normative, è quello che di regola si ritiene necessario per l'integrazione di ogni delitto. Il soggetto
attivo, in altre parole, si deve rappresentare che dalla sua condotta può derivare pericolo per la
pubblica incolumità, agendo con la consapevolezza che la condotta posta in essere ha l'intrinseca e
naturale capacità di cagionare un disastro". (p. 503).
La sentenza, poi, conformemente all’impostazione fornita nell’analisi esegetica del secondo comma
dell’art.437 c. p., in relazione all'ipotesi del secondo comma dell’art.434 c. p., contestata nel capo
di imputazione, la ritiene fattispecie autonoma, in ragione della diversità strutturale sussistente
rispetto alla fattispecie del primo comma (reato di pericolo il primo comma, reato di evento il
secondo), escludendo che il disastro debba essere oggetto di dolo intenzionale, in quanto, in caso
contrario, posta la punibilità del disastro colposo ex art. 449, "rimarrebbero inspiegabilmente ed
irragionevolmente privi di ogni rilevanza penale, tanto il disastro commesso con dolo eventuale,
quanto quello commesso con dolo diretto, intesa questa forma di dolo come consapevolezza
dell'idoneità della condotta a cagionare il disastro, che è poi quella riscontrabile proprio negli attuali
imputati” perché” non si sono posti come scopo primario della rispettiva condotta di cagionare il
disastro che invece si è verificato, giacché il loro intento era quello di conseguire utili sul mercato
attraverso la produzione del cemento-amianto, e tuttavia, per raggiungere i loro scopi industriali e
commerciali, hanno agito nella piena e perfetta consapevolezza degli enormi danni che
sarebbero stati arrecati all'ambiente ed alla salute delle persone in conseguenza dei propri
comportamenti criminosi, dal momento che gli effetti della loro condotta, non solo erano
ampiamente prevedibili, ma erano stati esattamente previsti" (p. 508).
Orbene, a mio modesto parere, se l’inquadramento del comma primo dell’art.434 c. p. nel dolo
intenzionale può incontrare le esatte obiezioni contenute nella sentenza di Torino, non sembra che,
in questo caso, si possa ritenere fattispecie autonoma di reato quella del secondo comma
dell’art.434 c. p., seguendo un percorso argomentativo sviluppato per il secondo comma
dell’art.437 c. p., essendosi in presenza di un delitto aggravato dall’evento, in base ad una
consolidata ricostruzione dogmatica e giurisprudenziale.
Esclusa la configurazione della condotta omissiva come permanente poiché "non risulta facilmente
individuabile la fonte dell'obbligo, sia essa legislativa o di formazione secondaria, in violazione
della quale gli imputati avrebbero omesso di impedire l'evento" (p. 511), e "risulterebbe arduo
eseguire un giudizio controfattuale da cui far discendere, sotto il profilo causale, la responsabilità
degli imputati, perché sarebbe difficile poter sostenere che .. sussista la prova … secondo la quale,
se gli imputati avessero attivato i poteri sollecitatori auspicati, l'evento sarebbe stato sicuramente
evitato" (p. 512), considerata di conseguenza esaurita la condotta commissiva degli imputati
consistente nella diffusione dell'amianto al di fuori dell'ambiente di lavoro, il Tribunale si impegna
35
ad individuare il momento in cui deve considerarsi realizzato l'evento di disastro, dalla cui
verificazione decorre il termine prescrizionale. Premesso che "la contaminazione dei siti
industriali e zone ad essi limitrofe abbia assunto caratteristiche di potenza espansiva del danno e
di attitudine a mettere in pericolo la pubblica incolumità tali da poter essere considerata come
disastro" (p. 519), e premesso altresì che tale disastro "è certamente riconducibile sul piano
causale anche alla condotta degli imputati, secondo le ordinarie regole di teoria condizionalistica
fissate nel primo e secondo comma dell'art. 41 c.p." (ibidem), la sentenza distingue la situazione
verificatasi negli stabilimenti di Bagnoli e Rubiera, da quella di Casale e Cavagnolo. In relazione ai
primi due stabilimenti, l'inquinamento dell'ambiente esterno era legato essenzialmente a condotte
connesse all'attività produttiva, sicché "da circa quindici anni è cessata quella situazione di forte e
grave pericolo per l'incolumità pubblica e la salute delle persone che caratterizza il disastro" (p.
521), ed il reato è di conseguenza da ritenersi prescritto. A Casale e Cavagnolo, invece, la prassi di
utilizzare i residui della produzione nella costruzione di strade ed abitazioni (cfr. ancora supra,
ibidem) fa sì che la popolazione sia tuttora esposta al contatto con le polveri di asbesto, e l'evento
disastro sia tuttora perdurante, con la conseguenza che il reato deve ritenersi ancora in corso di
consumazione.
L’ampia trattazione di questa fondamentale sentenza, anche con aspetti di diritto sostanziale non
direttamente interessanti per il tema trattato, deriva dalla particolare rilevanza per inaugurare nuovi
percorsi nella intricata materia delle malattie professionali e delle conseguenze derivanti
dall’inalazione o assorbimento o esposizione in generale a sostanze tossiche.
La problematica del rischio e dell’aumento del rischio assume in alcune tematiche quali la causa
sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l’evento di cui all’art.41 secondo comma c. p., cui
sono correlati il principio di affidamento in tema di circolazione stradale ed il comportamento
colposo del lavoratore nella causazione di un infortunio sul lavoro, la prevedibilità dell’errore e la
causalità della colpa, ed al principio di precauzione66 e l’errore scusabile su legge penale.
A tal ultimo riguardo, un attento giudice - giurista67 sostiene la netta differenza tra prevedibilità,
prevenibilità e principio di precauzione e, con il solito acume, individua nel diritto comunitario la
sede normativa, cui fare riferimento ed alla quale attingono numerose decisioni del giudice di
legittimità e di quello di merito soprattutto nel settore ambientale e di tutela del consumatore sia in
sede civile sia penale

66
Sul principio di precauzione vedi di recente, oltre alla bibliografia citata da C. BRUSCO, De Trancesco: Dinamiche
del rischio e modelli di incriminazione nel campo della circolazione dei prodotti alimentari in Riv. Dir. Agr.2010,3;
VERRICO: Le insidie al rispetto di legalità e colpevolezza nella causalità e nella colpa:incertezze dogmatiche,
deviazioni applicative, possibili confusioni e sovrapposizioni in Cass. pen.2011, 101 e de sanctis: Violazione della
regola cautelare formalizzata e prevedibilità/evitabilità dell’evento alla luce di alcuni recenti arresti della quarta sezione
penale della Suprema Corte di Cassazione in Arch.giur. circ. strad. 2012,105.
67
Carlo Brusco nella relazione al presente corso gentilmente inviatami
36
Tuttavia, a mio modesto parere, la normativa comunitaria, soprattutto quella espressa in
regolamenti68 e direttive self executing, entra a far parte del nostro ordinamento e, peraltro, proprio
la fondamentale sentenza della Corte Costituzionale n. 364 del 1988 ha posto al centro della
scusabilità dell’errore su legge penale il principio di precauzione.
Infatti, si legge in questa storica pronuncia a conclusione di un iter motivazionale molto denso che
in tema di errore scusabile su legge penale possono configurarsi due ipotesi: “quella in cui il
soggetto effettivamente si rappresenti la possibilità che il suo fatto sia antigiuridico e quella in cui
l'agente neppure si rappresenti detta possibilità. Or qui occorre precisare che, mentre nella prima
ipotesi, esistendo, in concreto (ben più della possibilità di conoscenza dell'illiceità del fatto)
l'effettiva previsione di tale possibilità, non può ravvisarsi ignoranza inevitabile della legge penale
(essendo il soggetto obbligato a risolvere l'eventuale dubbio attraverso l'esatta e completa
conoscenza della (singola) legge penale o, nel caso di soggettiva invincibilità del dubbio, ad
astenersi dall'azione (il dubbio oggettivamente irrisolvibile, che esclude la rimproverabilità sia
dell'azione sia dell'astensione e soltanto quello in cui, agendo o non agendo, s'incorre, ugualmente,
nella sanzione penale); la seconda ipotesi comporta, da parte del giudice, un'attenta valutazione
delle ragioni per le quali l'agente, che ignora la legge penale, non s'e neppure prospettato un dubbio
sull'illiceità del fatto. Or se l'assenza di tale dubbio discende, principalmente, dalla personale non
colpevole carenza di socializzazione dell'agente, l'ignoranza della legge penale va, di regola ritenuta
inevitabile,” mentre, qualora sia dovuta a difetto di informazione, non lo è.
La decisione della Consulta concerne, senza dubbio, il tema della colpevolezza e, sebbene sia stata
redatta quasi un quarto di secolo fa, conserva la sua rilevanza proprio per non introdurre criteri di
“flessibilizzazione”, ma per imporre, in virtù dei principi costituzionali di solidarietà, di tipicità
della fattispecie e di personalità della responsabilità, l’obbligo di astenersi nel caso in cui esista un
dubbio sul rischio derivante dalla sua condotta, che potrebbe determinare una sua responsabilità (in
quella fattispecie riguardava il dubbio sull’illiceità della condotta e sulla sottoposizione a precetto
penale).
Le questioni oggetto di un particolare approfondimento nell’attuale momento giurisprudenziale,
oltre a quelle trattate relative alle malattie professionali ed al rapporto tra prova scientifica e
causalità, riguardano il principio di affidamento, soprattutto in materia di circolazione stradale, e
l’esegesi dell’art.41 secondo comma c. p., soprattutto con riferimento al comportamento colposo del
lavoratore.

68
Reg. Cee n.178 del 2002, che all’art.7 identifica nel principio di precauzione “il fondamento per l’adozione di misure
di gestione del rischio”, laddove “in circostanze specifiche ed a seguito di una valutazione delle informazioni
disponibili, venga individuata la possibilità di effetti dannosi per la salute, ma permanga una situazione di incertezza
sul piano scientifico”. Accanto ai Reg. CEE in materia alimentare (n.1829 del 2003n.552 del 2004n.882 del
2004,n.1907 del 2006) e relative norme di attuazione (d. lvi n. 190 del 2006, n.708 del 2003, n. 206 del 2001) vi sono
tutte quelli concernenti la materia ambientale, nei quali si fa espresso riferimento al principio di precauzione vedi la
relazione di C. BRUSCO e le direttive self executing ed il regolamenti del settore della prevenzione degli infortuni sul
lavoro, nonostante in questo campo la normativa comunitaria appaia, in alcuni aspetti, meno rigorosa di quella
nazionale.
37
Il principio di affidamento viene inquadrato nella tipicità colposa quale applicazione del rischio
consentito ed è considerato come uno strumento per attuare il principio costituzionale della
personalità della responsabilità penale, non prescindendo dalle concrete situazioni e postulando
quale termine di paragone l’agente modello69. Tuttavia, la giurisprudenza di legittimità prevalente
ritiene di non accogliere detto principio in materia di circolazione stradale, poiché le norme sulla
circolazione stradale impongono severi doveri di prudenza e diligenza proprio per fare fronte a
situazioni di pericolo, anche quando siano determinate da altrui comportamenti irresponsabili, la
fiducia di un conducente nel fatto che altri si attengano alle prescrizioni del legislatore, se mal
riposta, costituisce di per sè condotta negligente.Il principio dell'affidamento, infatti, nello
specifico campo della circolazione stradale, trova un opportuno temperamento nell'opposto
principio secondo cui l'utente della strada è responsabile anche del comportamento imprudente di
altri utenti purché rientri nel limite della prevedibilità (Sezione IV 14 febbraio 2008, Notarnicola ed
altro). Ed invero, nei reati colposi conseguenti a incidenti stradali è esclusa la responsabilità quando
il fatto illecito altrui configuri per le sue caratteristiche una vera causa eccezionale, atipica e non
prevedibile che sia stata da sola sufficiente a provocare l'evento70.
Una recente pronuncia di legittimità71 ha diffusamente trattato questo tema con argomentazioni
interessanti e penetranti. Infatti, dopo aver dato atto della prevalente giurisprudenza che esclude,
nel settore della circolazione stradale, ma anche in quello della responsabilità medica, l’applicabilità
di detto principio, soggiunge che detta giurisprudenza trascura come in ambito internazionale detto
principio abbia trovato il primo e meno controverso riconoscimento proprio nell'ambito dei reati
inerenti alla circolazione stradale. Aggiunge ancora che “ l'approccio giurisprudenziale in tema di
circolazione stradale si colloca in opposizione rispetto a quello maturato nell'ambito della
responsabilità colposa nelle attività compiute in équipe: qui il principio di affidamento non solo è
stato accolto, ma è stato modellato in modo da coglierne implicitamente il fondamento e da
evidenziarne piuttosto nitidamente i limiti applicativi”, svolgendo alcune considerazioni su detto
principio, che costruisce applicazione di quello del rischio consentito ed è in linea con la diffusa
divisione e specializzazione dei compiti ed assicura il migliore adempimento delle prestazioni a
ciascuno richieste. Nell'ambito della circolazione stradale esso
assicura la regolarità della circolazione, evitando l'effetto paralizzante di dover agire prospettandosi
tutte le altrui possibili trascuratezze. Il principio, d'altra parte, si connette pure al carattere personale
e rimproverabile della responsabilità colposa,circoscrivendo entro limiti plausibili ed umanamente
esigibili l'obbligo di rapportarsi alle altrui condotte.Pacificamente, la possibilità di fare affidamento

69
Vedi ancora Forti: Colpa ed evento nel diritto penale. Milano, 1990. In realtà la figura modello molte volte appare
così astratta e tale da essere ritenuta come un escamotage per affermare la colpa.
70
Cass. sez. IV n.32202 del 2010 rv.248354, nella quale, tuttavia, si fa stranamente riferimento ad una recente modifica
delle segnalazioni di precedenza, invettita rispetto a quella primigenia, sicché vi è anche questo ulteriore aspetto di
rispetto del fatto accertato dal giudice di merito, Cass. n.38671 del 2009 rv.244886 sulla c. d. precedenza cronolicao di
fatto; n.19630 del 2010 rv.247333 fra tante più recenti.
71
Cass. sez. IV n.46741 del 2009 rv.245663
38
sull'altrui diligenza viene meno quando l'agente è gravato da un obbligo di controllo o sorveglianza
nei confronti di terzi; o quando/ in relazione a particolaricontingenze concrete, sia possibile
prevedere che altri non si atterrà alle regole cautelari che disciplinano la sua attività.
Il principio trova puntuale applicazione nell'ambito della responsabilità in équipe e consente a
ciascun professionista di concentrarsi sui compiti affidatigli, confidando legittimamente che gli altri
specialisti si comportino in modo appropriato. Lo stesso principio consente di conferire all'obbligo
di diligenza e perizia gravante su ciascun agente una dimensione concretamente esigibile, conforme
al carattere personale della responsabilità penale; ed al contempo impronta a criteri di razionalità ed
efficienza l'organizzazione di attività complesse, che recano una relazione intersoggettiva
multispecialistica.
La giurisprudenza di legittimità non ha mai enfatizzato l'idea di separazione dei rischi e, quindi, di
limitazione delle responsabilità sottesa al principio di affidamento e propugnata dalla teoria
dell’aumento del rischio, giacché ciascun professionista, oltre ad agire con competenza e prudenza
nell'ambito specificamente demandatogli, non può esimersi dal curare gli aspetti dell'atto medico
che riguardano il comune coinvolgimento verso l'unico fine di cura del paziente, sicché il medico
specialista risponderà pure in virtù di un obbligo di controllo di attività poste in essere da specialisti
di altre discipline, qualora si sia in presenza di errori evidenti e non settoriali, come tali rilevabili ed
emendabili con l'ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista ordinario (Cass. IV,
24 gennaio 2005, Rv.231535; Cass. IV, 16 luglio 2006, Rv. 234971; Cass. IV, 11 ottobre 2007, Rv.
237891).
Solo in alcune pronunce il giudice di legittimità ha più o meno esplicitamente evidenziato che il
coinvolgimento di diverse figure nell'atto medico costituisce un fattore di razionalità e sicurezza,
ma è anche possibile fonte di un rischio aggiuntivo, distinto da quello connesso all'attività medica
monosoggettiva evidenziando il concreto ruolo del principio nella conformazione del dovere di
riconoscere l'altrui errore nell'ambito della definizione dell'agente modello. Il principio di
affidamento, dunque, opera qui già sul piano dell'imputazione oggettiva, quando contribuisce a
definire sfere di competenza e di responsabilità.
Ben diversa è la situazione presente nell'ambito della giurisprudenza in tema di circolazione
stradale.
Qui la tendenza è quella di escludere o limitare al massimo la possibilità di fare affidamento
sull'altrui correttezza. Si afferma, così, che poiché le norme sulla circolazione stradale impongono
severi doveri di prudenza e diligenza proprio per fare fronte a situazioni di pericolo, anche quando
siano determinate da altrui comportamenti irresponsabili, la fiducia di un conducente nel fatto che

39
altri si attengano alle prescrizioni del legislatore, se mal riposta, costituisce di per sé condotta
negligente. 72
Tale impostazione rigorista è stata a volte temperata con il riferimento al limite dell’imprevedibilità
(Cass.IV,24 settembre 2008 Rv.241476), che talvolta si richiede sia assoluta (Cass.IV, 3 giugno
2008 Rv. 241004 ). L'obbligo di moderare adeguatamente la velocità in relazione alle caratteristiche
del veicolo e alle condizioni ambientali deve essere inteso nel senso che il conducente deve essere
non solo sempre in grado di padroneggiare assolutamente il veicolo in ogni evenienza, ma deve
anche prevedere le eventuali imprudenze altrui e tale obbligo trova il suo limite naturale unicamente
nella normale prevedibilità degli eventi, oltre il quale non è consentito parlare di colpa (Cass. IV, 8
marzo 1983, Rv. 158790).
La sentenza fornisce una giustificazione a tanto rigore nel senso che quello della circolazione
stradale è un contesto meno definito di quello del lavoro in équipe, poiché si configura
un'impersonale, intensa interazione che mostra frequenti violazioni delle regole di prudenza e,
d'altronde, il codice della strada presenta norme che sembrano estendere al massimo l'obbligo di
attenzione e prudenza, sino a comprendere il dovere di prospettarsi le altrui condotte irregolari (ex.
gr. artt.141,145 e 191).
Tali norme tratteggiano obblighi di vasta portata,che riguardano anche la gestione del rischio
connesso alle altrui condotte imprudenti, che, in questo settore, sono tanto frequenti da costituire un
rischio tipico, prevedibile, da governare nei limiti del possibile. Tuttavia, non è possibile enucleare
un obbligo generale di prevedere e governare sempre e comunque il rischio da altrui attività illecita.
Infatti,la presenza di dette norme,valide per tutti,deve essere integrata con quelle contenenti divieti
specifici,in modo che l'automobilista si debba paralizzare nel timore che alcuno possa non attenersi
a tale disciplina, giacché, in caso contrario, verrebbero prescritti obblighi talvolta inesigibili e
votando l'utente della strada al destino del colpevole per definizione.
Una differente interpretazione darebbe luogo ad un principio di affidamento in senso contrario da
parte dell’automobilista imprudente, che fiderebbe sempre sull’altrui prudenza.
Infatti, i contesti fattuali possibili sono assolutamente indeterminati; e non è quindi realistico che
l'affidamento concorra a definire i modelli di agenti, le sfere di rischio e di responsabilità in modo
categoriale, come invece accade nel ben più definito contesto del lavoro in equipe e, entro confini
peraltro assai limitati, nell'ambito della sicurezza del lavoro.
Così, le accennate esigenze della vita di relazione e di personalizzazione della responsabilità che
fondano il principio concorrono comunque a modellare la colpa, orientano la misura ed i limiti del

72
Le ipotesi sono in numeri vedi quella di cui alla sentenza n.32202 del 2010 citata che riproduce Cass. IV, 28 marzo
1996, Rv. 204451 nel caso in cui si confidi sull’arresto all’incrocio del veicolo la cui strada è gravata di stop; anche
nelle ipotesi in cui il semaforo verde consente la marcia, l'automobilista deve accertarsi
della eventuale presenza, anche colpevole, di pedoni che si attardino nell'attraversamento (Cass. IV, 18 ottobre 2000,
i

Rv. 218473); e che l'obbligo di calcolare le altrui condotte inappropriate deve giungere sino a prevedere che il veicolo
che procede in senso contrario possa improvvisamente abbagliare, e che quindi occorre procedere alla strettissima
destra in modo da essere in grado, se necessario, di fermarsi immediatamente (Cass. IV, 19 giugno 1987, Rv. 176415).

40
dovere normativo di prevedere, ridimensionano il pervasivo dovere di prevedere sempre e
comunque le altrui condotte, in quanto occorre valutare se, nelle condizioni date , fosse possibile
realisticamente prevedere; la sempre possibile violazione da parti di altri delle dovute regole di
cautela. E' importante che il limite della prevedibilità sia scorto, per così dire, come un attributo che
modella la colpa; che soprattutto ne siano definiti i tratti essenziali: non una prevedibilità astratta
che risulterebbe in fin dei conti insignificante, ma piuttosto concreta, rapportata alle singole
circostanze fattuali. Il ruolo fondante della prevedibilità ed evitabilità dell'evento nell'ambito della
circolazione stradale è stato affermato con riguardo alla necessità di tener conto degli elementi di
spazio e di tempo, e di valutare se l'agente abbia avuto qualche possibilità di evitare il sinistro: la
prevedibilità ed evitabilitàvanno cioè valutate in concreto (Cass. IV, 25 ottobre 1990, Rv. 185559;
Cass. IV, 9 maggio 1983, Rv. 159688;Cass. V, 2 febbraio 1978, Rv. 139204) con un ulteriore
chiarimento (Cass. IV, 06 luglio 2007, Rv. 237050; Cass. IV, 7 febbraio 2008, Rv. 239258),
secondo cui l'esigenza della prevedibilità ed evitabilità in concreto dell'evento si pone in primo
luogo e senza incertezze nella colpa generica, poiché in tale ambito la prevedibilità dell'evento ha
un rilievo decisivo nella stessa individuazione della norma cautelare violata; ma anche nell'ambito
della colpa specifica la prevedibilità vale non solo a definire in astratto la conformazione del rischio
cautelato dalla norma, ma rileva pure in relazione al profilo squisitamente soggettivo, al rimprovero
personale, imponendo un'indagine rapporta alle diverse classi di agenti modello ed a tutte le
specifiche contingenze del caso concreto. Certamente tale spazio valutativo è pressoché nullo
nell'ambito delle norme rigide la cui inosservanza dà luogo quasi automaticamente alla colpa; ma
nell'ambito di norme elastiche che indicano un comportamento determinabile in base a circostanze
contingenti, vi è spazio per il cauto apprezzamento in ordine alla concreta prevedibilità ed
evitabilità dell'esito antigiuridico da parte dell'agente modello. Tuttavia, tale ponderazione non può
essere meramente ipotetica,congetturale, ma deve di necessità fondarsi su emergenze concrete e
risolutive, onde evitare che l'apprezzamento in ordine alla colpa sia tutto affidato al soggettivismo
del giudice.
La sentenza, che chiaramente si ispira alla teoria dell’aumento del rischio e che segue detto
indirizzo dottrinario, costituisce un importante esame del principio di affidamento e, nei limiti più
volte indicati, un utile criterio ermeneutico di situazioni complesse, anche se si fonda su un giudizio
soggettivo di prevedibilità in concreto e si rifugia in una rimproverabilità soggettiva non
concernente la tipicità della colpa, ma dette oscillazioni sono forse dovute alla necessità di operare
lentamente una modifica dell’impostazione prevalente della giurisprudenza di legittimità sul
punto.73

73
Vedi Cass. sez. IV n.33385 del 2008 rv.240899; n.23309 del 2011 rv.250695;
41
Le problematiche attinenti all’analisi esegetica dell’art.41 secondo comma c. p. e delle cause
sopravvenute da sole sufficienti a determinare l’evento trovano nella teoria dell’imputazione
oggettiva una spiegazione diversa da quella generalmente seguita dalla giurisprudenza74.
Infatti, sin dalla nota sentenza sul disastro del Vajont 75 - la giurisprudenza di legittimità si ricollega
espressamente alla teoria della “causalità umana”, senza adeguatamente confrontarsi con le critiche
cui la stessa è stata successivamente sottoposta 76 Detta teoria è stata applicata pure ai reati omissivi
impropri, non si potrebbe ritenere interrotto il nesso causale intercorrente tra l’omessa diagnosi di
infarto, imputabile ad un medico di pronto soccorso, e la morte per infarto del paziente, solo perché
l’errore diagnostico veniva successivamente reiterato da un chirurgo ospedaliero, che tra l’altro
“confidava” nei precedenti referti. In primo luogo «non è eccezionale la condotta di un medico che
affronti senza l'osservanza delle regole dell'arte medica il caso sottopostogli»; in secondo luogo, nel
caso specifico quella inosservanza discendeva da un affidamento incauto nell’operato del collega
precedentemente intervenuto, costituendo dunque una evoluzione prevedibile della colpa di questi77.
Tralasciate le poche decisioni, risalenti nel tempo in cui si fa riferimento a serie causali autonome,
sicché detta esegesi renderebbe un inutile doppione l’art.41 comma secondo c. p., vi sono altre
pronunce che sembrano seguire in maniera inconscia la tesi dell’aumento del rischio , facendosi
riferimento a tutte quelle concause rispetto alle quali l’agente avrebbe potuto disporre contromisure
o tenere un comportamento più rispettoso delle regole cautelari, valorizzando così le relazioni di

74
Per la ricostruzione effettuata da detta teoria vedi R. Blaiotta: Causalità giuridica 169 e segg. e per un cenno critico,
pur rilevandone spunti interessanti: A. Vallini: Cause sopravvenute da sole sufficienti e nessi tra condotte in penale
contemporaneo.
75
Cass., 15 marzo 1971, Biadene, in Giust.pen., 1972, II, 4
76
. V. Cass., sez.IV, 16 febbraio 2010, Pappadà e a., rv. 246421 (nonché Cass., sez. IV, 11 marzo 2010, Parisi, rv.
246797) ove si sostiene che l’art.41, comma 2, c.p. riguardi non già serie causali completamente avulse da quella
innescata dalla condotta, ché altrimenti la norma sarebbe superflua, bensì situazioni di “non dominabilità” di decorsi
eziologici che avevano una “probabilità minima, insignificante” di verificarsi (nella giurisprudenza di merito, in
rapporto ad una successione di errori medici, v. ad es. Trib.Pisa, 27 maggio 2011, B..P.
il Tribunale di Pisa condanna per omicidio colposo un medico che, non avendo acquisito, prima di un intervento di
tiroidectomia totale, il consenso della paziente alla somministrazione di una terapia antibiotica alternativa a quella
usualmente impiegata, cui la stessa aveva riferito di essere allergica, ha omesso - al verificarsi di una complicanza
(lesione della trachea) nel corso dell’intervento -, di somministrare il necessario trattamento antibiotico alla paziente,
deceduta a causa dell’imponente emorragia determinata dall’infezione insorta nell’area chirurgica, affermando che in
presenza di una condotta colposa posta in essere da un sanitario, non possa considerarsi interruttiva del nesso di
causalità una successiva condotta parimenti colposa, posta in essere da un altro medico (salvo il caso della condotta che
abbia le caratteristiche dell’assoluta imprevedibilità ed inopinabilità).
77
v. Cass., sez. IV, 3 aprile 2008, Bauwens e a., rv. 239593, caso della madre che aveva permesso al figlio di
aggregarsi ad un gruppo di parenti diretto verso una piscina, senza affidarlo ad una persona in particolare, così che il
minore, poco dopo, moriva affogato senza essere notato da nessuno. L’omissione delle ordinarie precauzioni relative
all’organizzazione di una piscina aperta al pubblico, addebitabile ai responsabili dello stabilimento, non potrebbe
interrompere il nesso causale: «è la stessa natura insidiosa dei luoghi che rende non eccezionale l'evento verificatosi e,
purtroppo, disattenzione del personale e disorganizzazione della struttura costituiscono fatti altrettanto prevedibili ».
V.poi Cass., sez.IV, 13 gennaio 2006, Boscherini, rv. 233173, ove si nega capacità interruttiva ad una broncopolmonite
dagli esiti letali intervenuta quale “complicazione prevedibile” non tanto del tipo di patologia conseguente ad un
infortunio sul lavoro, quanto, più precisamente, dell’allettamento prolungato del malato, imposto da detta patologia;
Cass., sez.IV, 5 novembre 2009, Begnardi e a., rv. 245460, stando alla quale «l’ordinarietà” del mancato rispetto delle
distanze di sicurezza in autostrada rende “prevedibile” la produzione di un tamponamento a catena e quindi attribuibile
alla colpa originaria che crea il primo tamponamento eventuali eventi dannosi prodottisi in scontri successivi»

42
rischio illecito tra condotta ed evento78 . In alcuni casi, poi, la spiegazione della non eccezionalità
del fatto assume toni tralatici 79, affermando che “la colpa dei medici, anche se grave, non può
ritenersi causa autonoma e indipendente, ex art. 41 c.p., comma 2, rispetto al comportamento del
Taborelli, che rese necessario l'intervento dei sanitari avendo provocato il fatto lesivo.Peraltro,
nonostante ben tre perizie medico-legali, non era stata raggiunta la prova certa di una condotta
colposa ascrivibile ai medici che ebbero in cura la vittima; aggiungendo che l'errore (medico) non
costituisce un accadimento al di fuori di ogni immaginazione, ed era preventivabile l'ulteriore
aggravamento della situazione clinica, ritenuta in primo grado già compromessa per effetto
dell'incidente stradale e bisognosa di interventi chirurgici di notevole complessità”.La situazione
fattuale e concreta dimostra come non siano condivisibili le critiche rivolte a detta pronuncia da
parte della dottrina 80, giacché è fin troppo evidente che la responsabilità della morte debba essere
casualmente collegata agli esiti dell’incidente stradale.
La necessità di valorizzare (non solo serie causali autonome, ma anche) decorsi causali i quali, pur
dipendenti od operanti in sinergia con quello attivato dalla condotta originaria, risultino “anomali” o
“atipici”, ché altrimenti l’art.41, comma 2, sarebbe norma superflua, è evidenziata con chiarezza
dalla più recente giurisprudenza.81

La tesi dell’eccezionalità e di imprevedibilità del fatto per ritenersi sussistente una causa
sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l’evento su cui si fonda la teoria della causalità
umana di Antolisei nell’analisi esegetica dell’art.41 secondo comma c.p. incontra varie critiche da
parte della dottrina, che segue la tesi dell’imputazione oggettiva82, che tende a spiegare le pronunce

78
.:Cass., sez.IV, 9 dicembre 1988, Parasacco, rv. 179879, relativa al caso di chi investe di notte una bicicletta priva di
fari, guidata da una persona vestita di nero. Il nesso causale viene ritenuto comunque sussistente, perché l’auto
viaggiava a velocità superiore a quella consentita coi fari bassi, senza fermarsi né rallentare nel mentre incrociava altro
veicolo con fari abbaglianti, così violando una regola cautelare appunto volta a gestire il rischio di collisioni per scarsa
visibilità.
79
Cass., sez.IV, 9 novembre 2007, Taborelli, rv. 237838.
80
Vallini:op.cit.
81
Cass., sez.IV, 13 gennaio 2006, Boscherini, rv. 233173; Cass., sez.IV, 14 giugno 2006, Lorenzoni e rv. 234596.;
Cass., sez.IV, 26 ottobre 2007, Tamborini, rv. 237659; Cass., sez.IV, 8 febbraio 2008, Magnarelli, in Guida dir., 2008,
14, 82; Cass., sez.IV, 5 novembre 2009, Begnardi e a., rv.. 245460, quasi sempre estensore BRUSCO.
82
Tra i giudici di merito sembrano seguire detta tesi Trib.Piacenza, 6 marzo 2001, Cremonini e a., in Dir.pen.proc.,
2001, 1535 ss., spec. 1542, nota F.CINGARI, Strage del “Pendolino”: quale nesso di causalità nel disastro
ferroviario?, ove, sia pure ad abundantiam, si esclude la responsabilità di alcuni dirigenti delle Ferrovie proprio in
ragione del difetto di un “nesso di rischio” tra finalità preventiva della regola che si suppone violata – la rimozione di
un meccanismo di sicurezza collocato in prossimità di una curva a rischio - e tipologia di evento - il deragliamento del
“Pendolino”, principalmente dovuto ad un eccesso di velocità. Trib.Avellino (ufficio G.U.P.), 23 febbraio 2011, G.R.,
relativa ad una donna si suicida con la pistola detenuta in un mobile dal marito; ci si interroga sulla possibile
responsabilità di questi a titolo di colpa; l’imputato viene prosciolto tra l’altro per il fatto d’aver in realtà
adeguatamente custodito l’arma (anche rispetto alla misura di prevedibilità del comportamento autolesionista del
coniuge), sicché nella sostanza tra la sua omissione e la condotta della moglie sussisterebbe sì un nesso di rischio, ma
non illecito.
43
del giudice di legittimità attraverso la separazione dei rischi diversi83 oppure perché privi di un
nesso giuridicamente disapprovato84.
Tuttavia, a mio modesto parere, in alcuni casi (Cass. 16 ottobre 1998, Di Martino rv.212407,
relativa al divieto opposto dal committente all’appaltatore di eseguire alcune opere necessarie per
evitare il crollo, poi verificatosi, della struttura,), il comportamento del committente che impedisce
all’appaltatore di non effettuare le opere di adeguamento, peraltro a spese di quest’ultimo, appare
chiaramente abnorme ed imprevedibile, mentre in altri (Cass. 25 settembre 2001, Intrevado rv. N.
221149, concernente la caduta dal vano ascensore non protetto di un estraneo entrato abusivamente
in un cantiere regolarmente recitato) si è in presenza di una questione controversa, giacché vi sono
pronunce che estendono ai terzi presenti in cantiere abusivamente o meno la tutela ( n.10883 del
1979 rv.143694; n.1031 del 1990 rv. 183140 e n.6730 del 1993 rv.195488) ed altre in senso
contrario (n.2290 del 1977 rv.135260), escludendo proprio le persone presenti per curiosità oppure
abusivamente, mentre, proprio perché non è eccezionale ed imprevedibile, che estranei si possano
introdurre in cantiere, l’omessa adozione di norme di prevenzione potrebbe fondare la
responsabilità del proprietario, soprattutto nel caso in cui la recinzione fosse facilmente amovibile o
esistessero delle falle, sicché la soluzione dipende dalla fattispecie concreta e non dall’esistenza di
un rischio extralavorativo e dall’adozione delle cautele tese ad impedire l’ingresso85.
Identica situazione di contrasto, risolvibile non sempre tramite l’attenta ricostruzione della
fattispecie concreta si rinviene pure nel caso in cui il cliente dell’albergo anneghi in una piscina non

83
R. Blaiotta: Causalità giuridica cit. da pag.201 a 238.
84
Esempi tratti da Vallini op. cit.. Cass., sez.IV, 23 marzo 2007, Margai e a., in Foro it., 2008, II, 180, spec.190, nt.
A.DI LANDRO, Interruzione del nesso causale e accertamento della causalità «modello Franzese», ove – in tema di
successione di errori terapeutici - apertamente si subordina “l’interruzione” del nesso causale alla circostanza che la
colpa successiva crei «un pericolo prima inesistente o conduc[a] improvvisamente il rischio originario a conseguenze
esorbitanti».). Un corrispondente percorso argomentativo è seguito di recente da Cass., sez.IV, 29 aprile 2011, Cocon,
rv. 250695: si ritiene compresa nell’area di rischio affidata alla gestione del conducente l’eventualità che un pedone
“irrompa” sulle strisce pedonali da dietro un automezzo parcheggiato che ostruisce la visibilità, senza a sua volta
sincerarsi dell’eventuale sopravvenire di veicoli, trattandosi pur sempre di comportamento rientrante in uno spettro di
prevedibilità. Forme “larvate” e inconsapevoli di manifestazione della teoria dell’imputazione obiettiva dell’evento
sono pure individuabili in certe sentenze che negano a priori l’“eccezionalità” del decorso causale quando lo
sviluppo degli eventi concretizzi il “rischio illecito” specificamente attuato dalla precedente condotta colposa . «il
rischio terapeutico costituisce, normalmente, prosecuzione, sviluppo del rischio connesso alle condotte lesive», così
affermando il nesso causale tra la mancata adozione di contromisure da parte di uno psichiatra, direttore sanitario di una
comunità protetta, e la morte di uno schizofrenico ivi ricoverato, dovuta non tanto alle lesioni riportate dopo essersi
gettato da una finestra, ma ad una broncopolmonite contratta in ospedale, innescata, a dire del giudice, da «le gravi
lesioni, l’immobilizzazione e l’immunodepressione che ne derivarono» (Cass., sez. IV, 22 novembre 2011 (dep. 1
febbraio 2012), Di Lella est.BLAIOTTA.

85
Ulteriori esempi di contraddittorie pronunce in questo caso sono tratte da Vallini: op. cit., che critica l’estrema
manipolità e soggettività dei concetti di imprevedibile ed eccezionale.
Infatti, se per una sentenza le cautele imposte al datore di lavoro non possono ritenersi intese a prevenire rischi per
soggetti indebitamente presenti sul cantiere, per curiosità o addirittura abusivamente (Cass., sez.IV, 18 giugno 1999,
Caldarelli, rv. 214246, ove peraltro si discute, più precisamente, di “causalità della colpa”). In altra torna ad essere
imputabile al datore di lavoro la gestione del rischio inerente non solo ai lavoratori in senso stretto, ma a chiunque
risulti a vario titolo e in vario modo coinvolto nella lavorazione, secondo Cass., sez.III, 8 novembre 1984, rv. 166581;
con riferimento a qualsiasi estraneo che possa trovarsi sul luogo di lavoro Cass., sez.IV, 26 febbraio 1982, rv. 152472;
analogamente Cass., sez.IV, 23 luglio 1981, Gramegna, Ced 149914, ove si giustifica la portata pressoché illimitata
dell’onere di gestione del rischio imputabile al datore di lavoro in virtù dell’importanza dei beni coinvolti.
44
recintata durante l’orario di chiusura86, mentre non sussiste il nesso di causalità nel caso del
sottotenente, che, per aiutare le forze armate tedesche, aveva arrestato alcune persone “sovversive”,
poi decedute nelle fosse ardeatine 87
o di chi vittima di un incidente stradale sottoposto a varie
operazioni, ormai guarito, viene dimesso, ma dopo pochi giorni si toglie la vita 88, sicché non appare
opportuno riferirsi alla separazione e distinzione dei rischi.
Altri esempi potrebbero essere tratti dalla monografia89, ma interessa soffermarsi, sia pure
brevemente, sull’interruzione del nesso causale nell’ambito degli infortuni sul lavoro e dell’attività
di cura.
La problematica del comportamento del lavoratore e della responsabilità del datore di lavoro è dalla
giurisprudenza risolta, considerando l’“area di rischio” imputabile all’agente, pur senza
abbandonare il lessico della “causalità umana”, giacché «in linea di principio, la condotta colposa
del lavoratore infortunato non assurge a causa sopravvenuta da sola sufficiente a produrre l'evento
[…] quando sia comunque riconducibile all'area di rischio proprio della lavorazione svolta: in tal
senso il datore di lavoro è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del lavoratore,
e le sue conseguenze, presentino i caratteri dell'eccezionalità, dell'abnormità, dell'esorbitanza
rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive di organizzazione ricevute90. Si afferma, ancora,
che «nell'ipotesi di infortunio sul lavoro originato dall'assenza o inidoneità delle misure di
prevenzione, nessuna efficacia causale, per escludere la responsabilità del datore di lavoro, può
essere attribuita al comportamento del lavoratore infortunato,che abbia dato occasione
all'evento,quando questo sia da ricondurre,comunque,alla mancanza o insufficienza di quelle
cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio di siffatto
comportamento”91. Questi arresti giurisprudenziali costituiscono jus receptum e sono varie volte
ribaditi in differenti situazioni. Infatti si sostiene anche di recente92 che la tesi sostenuta dalla difesa,
in base alla quale il collasso del lucernario era da attribuire al medesimo operaio infortunato, che
aveva maldestramente impugnato un pesante tavolone di legno, era inciampato nel cordolo di

86
A tal riguardo Cass. 7 maggio 1985, Bernardi rv.171215, citata da R. Blaiotta op. cit. concerne l’attraversamento di
una piscina recintata; Cass. n.25437 del 2009 rv.244229, l’utilizzazione di piscina non illuminata, e Cass. 10 dicembre
2008 n.45698 rv.241759 l’ingresso in piscina in orario non consentito.
E’ evidente il contrasto esistente tra le due pronunce ultime per la situazione similare, non rinvenibile nella prima, che
può essere ritenuta eccezionale, sempre che il titolare della piscina non fosse a conoscenza del fatto che persone
potevano transitare rimuovendo o alzando la catenella delimitativa.
87
Trib. sup. mil. 29 marzo 1949 in Blaiotta: ibidem pag.226
88
Cass. 10 aprile 1962 ibidem pag.227
89
Interessante quello della moglie maltrattata, che decide di uccidere il marito con il gas, ma la quantità non è letale e,
comunque, intervengono inaspettati i parenti del marito, mentre questi , riavutosi, accende una sigaretta, genera lo
scoppio ed uccide per l’esplosione un bambini (Cass. 2 dicembre 1963 in Riv. Pen.1964,133). Il Tribunale condanna la
moglie per lesioni gravi continuate in danno del marito e questi per omicidio colposo del minore, la Corte di appello
ritiene la moglie colpevole pure di omicidio doloso aberrante per morte del marito; la Corte di Cassazione annulla con
rinvio in parte qua la sentenza di appello, perché, nel processo causale si era inserito un fatto abnorme di un terzo cioè
l’accensione della sigaretta da parte del marito.
90
Cass., sez.IV, 23 febbraio 2010, Iglina e a.,rv.s. 246695; Cass., sez.IV, 1 giugno 2007, Pelosi, rv..236721; Cass., 23
dicembre 2005, Riccio, rv. 233186; Cass., sez.IV, 21 ottobre 2005, Minotti, rv. 232420; Trib.Ravenna, 28 giugno 2011,
91
Cass., sez.IV, 7 aprile 2009, Liberali e a.,rv.. 243208)
92
Cass. sez. IV n.22044 del 2012
45
protezione ed aveva quindi colpito la copertura con il grosso pezzo di legno che aveva agito come
ariete, non regge, ove si consideri che non si è in presenza di un comportamento del tutto
imprevedibile, giacché la descritta dinamica del sinistro era connessa all'ordinario svolgersi delle
lavorazioni, atteso che i dipendenti operavano in un ambiente stretto e movimentavano pesi
considerevoli; ed ha osservato che proprio le cadute degli operai, conseguenti alla accidentale
perdita di equilibrio, dovevano essere adeguatamente prevenute dagli addetti alla sicurezza.
Orbene, la condotta colposa posta in essere dal lavoratore, rispetto al soggetto che versa in
posizione di garanzia,nel campo della sicurezza del lavoro, esclude l'esistenza del rapporto di
causalità unicamente nei casi in cui sia provata l'abnormità del comportamento del lavoratore
infortunato e sia provato che proprio questa abnormità abbia dato causa all'evento. Pertanto,deve,
considerarsi abnorme il comportamento che,per la sua stranezza e
imprevedibilità, si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte delle persone preposte
all'applicazione delle misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro, sicché l'eventuale colpa
concorrente del lavoratore non può spiegare alcuna efficacia esimente per i soggetti aventi l'obbligo
di sicurezza che siano responsabili della violazione di prescrizioni in materia antinfortunistica.
Non può affermarsi che abbia queste caratteristiche il comportamento del lavoratore che abbia
compiuto un'operazione rientrante pienamente, oltre che nelle sue attribuzioni, nel segmento di
lavoro attribuitogli 93.
La normativa antinfortunistica,infatti, mira a salvaguardare l'incolumità del lavoratore non solo dai
rischi derivanti da incidenti o fatalità, ma anche da quelli che possono scaturire dalla sue stesse
disattenzioni, imprudenze o disubbidienze alle istruzioni o prassi raccomandate, purché connesse
allo svolgimento dell'attività lavorativa, giacché in caso di infortunio sul lavoro originato
dall'assenza o inidoneità delle misure di prevenzione, nessuna efficacia causale esclusiva può essere
attribuita al comportamento del lavoratore infortunato, che abbia dato occasione all'evento, quando
questo sia da ricondursi anche alla mancanza o insufficienza di quelle cautele che, se adottate,
sarebbero valse a neutralizzare il rischio di siffatto comportamento94.

93
Cass. Sez. 4, Sentenza n. 10121 del 23.01.2007, Rv. 236109
94
Cass. sez. IV n.16890 del 2012. La pronuncia, però, non dà conto di altro indirizzo, secondo cui il comportamento,
pur rientrando nelle mansioni svolte dal lavoratore, non deve essere abnorme ed accenna alla c. d. causalità della colpa
cioè all’accertamento del nesso causale tra omissione ed evento quasi in termini di certezza eassoluta e non
probabilistici. Vedi anche Cass. sez. IV n.14413 del 2012, che si segnala per la ritenuta corresponsabilità non solo del
datore di lavoro, ma anche del noleggiatore di una macchina non in regola con la normativa di prevenzione infortuni e
per aver ritenuto il concorso di colpa del lavoratore per il suo comportamento imperito, ma non tale da interrompere il
rapporto di causalità, perché non imprevedibile ed abnorme.
La pronuncia afferma alcuni importanti principi in tema di affidamento. Ed invero “non può invocarsi legittimamente
l'affidamento nel comportamento altrui quando colui che si affida sia (già) in colpa per avere violato determinate norme
precauzionali o per avere omesso determinate condotte e, ciononostante, confidi che altri, che gli succede nella
posizione di garanzia, elimini la violazione o ponga rimedio alla omissione (cfr., ex pluribus, Cass., Sez. IV, 6
novembre 2003, Guida; Sez. IV, 29 ottobre 2004, Rizzini ed altri; Sez. IV 25 gennaio 2005, Barletta ed altri).”
Peraltro, laddove, anche per l'omissione del successore, si produca l'evento che una certa azione avrebbe dovuto o
potuto impedire, l'evento stesso avrà due antecedenti causali, non potendo il secondo configurarsi come fatto
eccezionale, sopravvenuto, sufficiente da solo a produrre l'evento (ai fini e per gli effetti di quanto disposto, in tema di
"interruzione del nesso causale", dall'alt. 41 c.p., comma 2) (in termini, di recente, Cassazione, Sezione IV 26 gennaio
46
Esiste però un diverso orientamento che conferisce effetto interruttivo anche a condotte poste in
essere nell'ambito delle mansioni attribuite, se consistenti in qualcosa di «radicalmente,
ontologicamente, lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore
nella esecuzione del lavoro»95. In ogni caso, anche azzardi del lavoratore “del tutto eventuali e
remoti”, non strettamente inerenti alle mansioni, bensì a “qualsiasi fase del lavoro”, si possono far
rientrare, volendo, nello specchio preventivo di qualche cautela indirizzabile al datore di lavoro, sì
che a questi possa essere imputato l’evento finale.96
Questa impostazione è condivisa dai giudici di merito 97, che seguono la costante giurisprudenza di
legittimità sul punto.

2005, Cloro ed altri).


”Il principio di affidamento non è certamente invocabile sempre e comunque, dovendo contemperarsi con il concorrente
principio della salvaguardia degli interessi del soggetto nei cui confronti opera la posizione di garanzia (qui, per
esempio, del lavoratore, "garantito" dal rispetto della normativa antinfortunistica). Tale principio, infatti, per assunto
pacifico, non è invocabile allorché l'altrui condotta imprudente, ossia il non rispetto da parte di altri delle regole
precauzionali imposte, si innesti sull'inosservanza di una regola precauzionale proprio da parte di chi invoca il
principio:ossia allorché l'altrui condotta imprudente abbia la sua causa proprio nel non rispetto delle norme di prudenza,
o specifiche o comuni, da parte di chi vorrebbe che quel principio operasse.”
“La colpa del noleggiatore di un macchinario non conforme alle norme antinfortunistiche non esclude quella
concorrente del datore di lavoro che di detto macchinario abbia fatto uso”.
95
Cass., 4 luglio 2007, Montanino, rv. 236991; Cass., sez.IV, 13 ottobre 2004, Giustiniani, rv. 229564; analogamente
Cass., sez.IV, 5 febbraio 1997, Maestrini, rv. 206990. Vedi pure Cass. sez. III n.30209 del 2011, Negri ed altri, emessa
in seguito a sentenza di annullamento con rinvio della quarta penale del giudice di legittimità (11 giugno 2009, Doria).
La predetta sentenza ritiene del tutto imprevedibile della vittima, che aveva agito in violazione delle specifiche
prescrizioni impostegli dal Doria, che, continuamente, le rammentava, e dei soccorritori, che si erano calati nella vasca
per prestare aiuto senza alcuna maschera. La sentenza, quindi, affronta in estrema sintesi pure la tematica del
soccorritore imprudente (vedi anche Cass. n.14198 del 1990 rv.185562 cit.)
96 Fattispecie relativa a lesioni derivanti da uno scontro fortuito tra un carrello elevatore ed un autocarro mossosi
inopinatamente in retromarcia venivano addebitate al datore di lavoro, il quale non aveva predisposto il documento per
la valutazione dei rischi previsto dal d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626, art. 4, in cui avrebbero dovuto essere precisati
criteri e soggetti deputati a coordinare il “traffico” dei mezzi impegnati sul cantiere Cass., sez. IV, 4 luglio 2007, Scanu,
rv. 237007.
97
Vedi Trib. Ravenna cit..
I fatti di causa possono essere così riassunti. Il lavoratore G. T., dipendente della ditta D. D. E., si recava presso lo
stabilimento della società F. S.p.A., ove erano in corso lavori di ampliamento e manutenzione generale degli impianti
elettrici, per effettuare la riparazione di un interruttore difettoso fornito dalla stessa D. D. E. alla ditta F. L., che aveva in
appalto la realizzazione dei lavori. Nel corso del predetto intervento, che veniva effettuato con impianto elettrico in
tensione, il lavoratore, venuto accidentalmente a contatto diretto con le parti attive del circuito elettrico, rimaneva
folgorato.

Anche se non è stato possibile ricostruire con esattezza i momenti immediatamente precedenti la morte del lavoratore, il
Giudice ha ritenuto di condividere in punto di fatto le conclusioni dei consulenti della difesa secondo i quali il
lavoratore avrebbe volontariamente disattivato i meccanismi di sicurezza, verosimilmente con l’intenzione di rendere
più agevoli e rapide le operazioni di manutenzione, nella convinzione che il sistema elettrico non fosse in tensione o,
semplicemente, sottovalutando il grave rischio cui andava incontro.
Il Tribunale individua un profilo di grave colpa in capo a tutti gli imputati, colpa consistita in generica imprudenza,
negligenza e imperizia. In particolare, il direttore dello stabilimento della F. S.p.A. ove è occorso l’incidente e il titolare
della ditta F. L. appaltatrice dei lavori, avrebbero programmato (o, comunque, consentito) l’intervento di riparazione
dell’interruttore difettoso nonostante la precisa direttiva, impartita dal direttore e responsabile dei lavori e dal
coordinatore per la sicurezza, di sospendere i lavori sino all’approvazione del progetto da parte del Comune e di
riprendere l’esecuzione degli stessi solo dopo aver proceduto all’aggiornamento dei piani di sicurezza e coordinamento.
Il legale rappresentante della ditta D. D. E. datore di lavoro della vittima, invece, non si sarebbe preoccupato né di
verificare l’ambiente in cui il proprio dipendente sarebbe andato ad operare, né di accertare il rispetto delle procedure e
condizioni di sicurezza. Non è stata accolta la tesi, prospettata dalla difesa, secondo la quale gli imputati avrebbero
dovuto essere assolti perché il comportamento del lavoratore, assolutamente eccezionale, anomalo ed imprevedibile,
47
Una problematica connessa con la teoria del rischio ed ad essa ispirata è quella relativa alla
posizione di garanzia, su cui si diffonde una recente sentenza98.
L'obbligo di garanzia è obbligo giuridico, che grava su specifiche categorie predeterminate di
soggetti previamente forniti degli adeguati poteri di impedire eventi offensivi di beni altrui, affidati
alla loro tutela; per mutuare una espressione dottrinaria, "deve trattarsi di un vincolo giuridico, che
formalizza il rapporto di dipendenza sussistente tra l'azione doverosa del garante e la tutela del bene
giuridico". Il suo carattere distintivo rispetto ad altri obblighi di agire è la titolarità, in testa al
garante, di un obbligo di impedire l'evento scaturente da un potere impeditivo, il cui mancato
esercizio conduce alla equiparazione della omissione non impeditiva all'azione causale. Trattandosi
di un obbligo giuridico gravante su specifiche categorie di soggetti (i garanti) forniti dei necessari
poteri giuridici di vigilanza ed intervento direttamente incidenti sulla situazione di pericolo, al fine
di impedire eventi lesivi di beni altrui, la sua violazione può esser fonte di responsabilità penale
talora di per sè,indipendentemente dal verificarsi di eventi lesivi, in virtù di un'autonoma
incriminazione di carattere preventivo di pericolo (come avviene, ad esempio, nella fattispecie di
cui all'art. 677 c.p., comma 3); altra volta attraverso il combinato disposto dell'art. 40 c.p., comma 2
e delle norme concernenti le fattispecie causalmente orientate, nelle quali la norma indica l'evento
ma non il meccanismo di produzione del medesimo.
La fonte di tale obbligo deve essere una norma di legge extrapenale o un contratto, sicché in
mancanza di una fonte legale o contrattuale non sussiste alcuna posizione di garanzia ai sensi
dell’art.40 secondo comma c.p.. V'è ancora da osservare che la posizione di garanzia è riferibile,
sotto il profilo funzionale, a due categorie in cui tradizionalmente si inquadrano gli obblighi in
questione: gli obblighi di protezione e quelli di controllo.La prima categoria concerne la posizione
di garanzia c.d. di protezione che impone di preservare il bene protetto da tutti i rischi che possano
lederne l'integrità: tipici gli obblighi che gravano sui genitori, sui medici ecc. in relazione ai beni

avrebbe interrotto il nesso di causalità fra le condotte colpose degli imputati e l’evento mortale.
Il Tribunale rileva che, in caso di infortunio, la responsabilità del datore di lavoro non può essere esclusa da eventuali
comportamenti colposi concorrenti del lavoratore perché spetta al datore di lavoro, che è garante dell’integrità fisica e
dell’incolumità dei lavoratori, evitare anche le conseguenze degli errori dovuti alla loro inesperienza, negligenza,
eccessiva sicurezza o disattenzione. Si fa eccezione a tale regola – in coerente applicazione dei principi in tema di
interruzione causale – unicamente in presenza di un comportamento assolutamente eccezionale ed imprevedibile del
lavoratore, che può verificarsi solo a fronte di condotte abnormi dello stesso.

Nel caso di specie, il Giudice ha ritenuto non vi sia stata alcuna esorbitanza rispetto alle mansioni proprie del lavoratore,
né alcuna abnormità nella sua condotta: infatti, per quanto non siano state acclarate le ragioni che hanno indotto il
lavoratore alla manovra di forzatura dei dispositivi di sicurezza, è certo che egli commise un tragico errore, svolgendo
in solitudine un lavoro per il quale non aveva ricevuto un’adeguata formazione e preparazione (era, infatti, un semplice
elettricista cablatore), cercando di farlo nel più breve tempo possibile e sottovalutando per eccesso di sicurezza il rischio
cui si esponeva.

In dottrina v., anche per ampi riferimenti alla giurisprudenza della Cassazione, Veneziani, I delitti contro la vita e
l'incolumità individuale, in Marinucci, Dolcini (diretto da), Trattato di diritto penale. Parte speciale, vol. III, tomo II, I
delitti colposi, Padova, 2003, p. 448 s.
98
Cass. sez. IV n.17069 del 2012, relativa al disastro colposo verificatosi in Messina per un’alluvione notevole, che
aveva fatto saltare le strade costruite sopra alcuni torrenti.Vedi anche Sezione IV, 18 marzo 2008, n. 22154, PG in proc.
Gualano ed altri, Sezione III 22 settembre 2004, n.40618, Lilli ed altro, Sezione IV 22 maggio 2007, n. 25527, Conzatti.
48
della vita e dell'incolumità personale ma anche di altri beni come a titolo esemplificativo per i
genitori l’integrità sessuale dei figli minori).
Come è evidente l'ambito elettivo di questi obblighi è quello familiare ma l'obbligo di protezione
può derivare anche dall'assunzione volontaria di un obbligo di protezione sia su base contrattuale
(per es. la guida alpina che si impegna ad accompagnare uno scalatore inesperto) sia
unilateralmente (il medico che prende in carico il paziente in stato di incoscienza).
La seconda categoria riguarda la posizione di garanzia c.d. di controllo che impone di neutralizzare
le eventuali fonti di pericolo che possano minacciare il bene protetto: questa categoria riguarda tutti
i casi di esercizio di attività pericolose - che trova il fondamento normativo nell'art. 2050 c.c. - il
dovere di prevenzione incombente sul datore di lavoro per evitare il verificarsi di infortuni sul
lavoro o di malattie professionali, le regole che disciplinano la circolazione stradale ecc.
In ossequio, peraltro, al "principio di legalità-tassatività", la fonte (vuoi legale, vuoi contrattuale)
dell'obbligo di garanzia deve essere sufficientemente determinata, nel senso che deve imporre
obblighi "specifici" di tutela del bene protetto: esulano perciò dall'ambito operativo della ex art. 40
cpv. c.p. per responsabilità per causalità omissiva gli obblighi di legge indeterminati, fosse pure il
dovere costituzionale di solidarietà economica e sociale (art. 2 Cost.), che costituisce il generale
fondamento costituzionale della responsabilità omissiva, ma per se stesso non può essere assunto a
base delle specifiche responsabilità omissive dei singoli reati. Inoltre, in ossequio al "principio della
responsabilità penale personale", la condizione di "garante" rispetto ad un bene da tutelare
presuppone in capo al soggetto il potere giuridico di impedire (a lesione del bene, ovverosia
quell'evento (reato) indicato dall'art. 40 cpv. c.p.. Infatti, quando questa norma precisa che "non
impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo" fonda la
responsabilità penale dell'emittente non solo sull'obbligo, ma anche sul connesso potere giuridico di
questi di impedire l'evento: responsabilizzare un soggetto per non avere impedito un evento, anche
quando egli non aveva alcun potere giuridico, oltre che materiale, per impedirlo, significherebbe, in
vero, vulnerare palesemente il principio di cui all'art. 27 Cost., comma 1.
In particolare, per quel che concerne, i poteri impeditivi, deve trattarsi di poteri giuridici intestati al
garante da una specifica norma, contenutisticamente afferente a doveri di vigilanza e di intervento
diretto sulle situazioni di rischio, il cui mancato esercizio giustifica l'imputazione obiettiva
dell'evento non impedito, ascrivibile al garante per il principio della responsabilità personale di cui
all'art. 27 Cost.; ne consegue che la responsabilità del garante per l'omissione impropria comporta
pur sempre l'accertamento che l'impedimento dell'evento rientrava tra i poteri-doveri dell'obbligato,
che, cioè, l'evento effettivamente verificatosi si inserisca nel novero di quei tipi di evento che
l'obbligo di garanzia mirava, appunto, a prevenire. È soltanto l'obbligo impeditivo che legittima
l'equiparazione - secondo la c.d. clausola di equivalenza - del non impedire e del causare: dalla
causalità omissiva alla causalità attiva.l'obbligo di sorveglianza, o di vigilanza, può comportare (e

49
di solito comporta), assieme al dovere del garante di vigilare sulla situazione di pericolo, anche il
connesso obbligo di attivarsi per eliminare questo, donde scaturisce il conseguente obbligo
impeditivo dell'evento.
Ma può consistere anche solo nell'obbligo, di eguale contenuto, facente capo ad un soggetto privo di
poteri impeditivi di possibili eventi lesivi, di esercitare un controllo sull'altrui operato, al fine di
intervenire presso il titolare di tali poteri (intesi alla rimozione delle situazioni di pericolo ed al
conseguente impedimento dell'evento), in genere informando questo (o il titolare del bene), con una
condotta, quindi, che non è di per sè idonea ad impedire l'altrui comportamento, spettando, in
sostanza, poi, solo al garante (o al titolare del bene), informati dal sorvegliante, i poteri di intervento
impeditivi (v. il disposto dell'art. 2408 c.c., sull'obbligo, in materia societaria, del collegio sindacale
di "indagare sui fatti denunziati e presentare le sue conclusioni ed eventuali proposte all'assemblea";
v. Sez. IV, 21 dicembre 2010, Di Mascio, che ha confermato il giudizio di responsabilità a carico di
un responsabile del servizio prevenzione e protezione che, agendo con imperizia e negligenza,
aveva trascurato di segnalare una situazione di rischio, inducendo, così, il datore di lavoro ad
omettere l'adozione di una doverosa misura prevenzionale). Va altresì chiarito che, ai fini della
configurabilità della responsabilità penale, l'addebito a titolo di colpa non può essere
fondato solo sulla posizione di garanzia, giacché richiede l'accertamento di una condotta
concretamente colposa, dotata di ruolo eziologico nella spiegazione dell'illecito (cfr. Sez. IV, 2
dicembre 2008, Toccafondi ed altri, sia pure con riferimento ad una fattispecie di responsabilità
professionale del medico). Il compito dell'interprete è, pertanto, innanzitutto quello di individuare
chi sia il titolare (in concreto) della posizione di garanzia, di verificare se uno o più sono i
(contitolari di tale posizione, di apprezzare se l'atteggiarsi della fattispecie legittimi o no un
trasferimento della posizione di garanzia ovvero un intreccio di (co)responsabilità.
L'interprete deve, poi, tenere conto, ovviamente, dei principi generali vigenti in materia di colpa,
spesso, invece, spesso misconosciuti o male intesi. In primo luogo, il principio della colpevolezza,
che esclude qualsivoglia automatico addebito di responsabilità, a carico di chi pure ricopre la
posizione di garanzia, imponendo la verifica in concreto della violazione da parte di tale soggetto
della regola cautelare (generica o specifica) e della prevedibilità ed evitabilità dell'evento dannoso
che la regola cautelare mirava a prevenire (la c.d. "concretizzazione" del rischio): infatti,
l’individualizzazione della responsabilità penale impone di verificare non soltanto se la condotta
abbia concorso a determinare l'evento (ciò che si risolve nell'accertamento della sussistenza del
nesso causale) e se la condotta sia stata caratterizzata dalla violazione di una regola cautelare
(generica o specifica) (ciò che si risolve nell'accertamento dell'elemento soggettivo della colpa), ma
anche se l'autore della stessa (qui, il titolare della posizione di garanzia in ordine al rispetto della
normativa precauzionale) potesse prevedere ex ante quello "specifico" sviluppo causale ed attivarsi
per evitarlo. In quest'ottica, la violazione della regola cautelare e la sussistenza del nesso di
50
condizionamento tra la condotta e l'evento non sono sufficienti per fondare la responsabilità,
giacché occorre anche chiedersi, necessariamente, se l'evento derivatone rappresenti o no la
“concretizzazione del rischio” che la regola stessa mirava a prevenire. Occorre cioè chiedersi se
l'evento dannoso fosse o no prevedibile ex ante: ciò in quanto l'inosservanza delle regole cautelari
può dare luogo ad una responsabilità colposa soltanto per gli eventi che le regole stesse miravano ad
evitare. Ed occorre altresì chiedersi se una condotta appropriata (il cosiddetto comportamento
alternativo lecito) avrebbe o no evitato l'evento: ciò in quanto si può formalizzare l'addebito solo
quando il comportamento diligente avrebbe certamente evitato l'esito antigiuridico o anche solo
avrebbe determinato apprezzabili, significative probabilità di scongiurare il danno.
Queste chiare parole,che collegano la posizione di garanzia ad un comportamento omissivo colposo,
fanno ritenere non condivisibili le argomentazioni di una sentenza in tema di rapporto di causalità e
“concorso” non ben definito con riferimento alla responsabilità del titolare del servizio urbanistico
di un Comune. La predetta sentenza esattamente rileva come il rilascio di un permesso di costruire
illegittimo configuri un comportamento commissivo e non omissivo, sicché non può trovare
applicazione l’art.40 secondo comma c. p., che riguarda una condotta omissiva, sicché, sotto questo
profilo,non appare esatta l’argomentazione svolta da altra pronuncia (Cass.sez.III n.19556 del 2004)
Prosegue la sentenza nel configurare quale ipotesi di concorso il rilascio della concessione edilizia,
in modo da consentire l’esecuzione dei lavori. In una recente sentenza la Corte di appello di
Perugia99 ha, giustamente, fatto notare come costituisca rapporto causale il rilascio del permesso di
costruire illegittimo rispetto all’esecuzione di opere da qualificare abusive. Qualificato il reato come
proprio, la pronuncia del giudice di legittimità costruisce il concorso del responsabile
dell’urbanistica quale quello dell’extraneus,, aggiungendo che occorre “accertare che l’extraneus
abbia portato nella realizzazione dell’evento un contributo causale rilevante e consapevole (sotto il
profilo del dolo e della colpa)” e che “nella sentenza non viene individuata alcuna forma di
concorso o cooperazione”, mente il responsabile all’urbanistica ha solo l’obbligo di emettere i
provvedimenti sanzionatori di cui all’art.27 d. P. R. n. 380 del 2001.
La pronuncia di legittimità non appare convincente, perché l’art.20 d.P.R. n. 380 del 2001 prevede
l’obbligo di istruttoria della pratica edilizia e di conoscenza della normazione urbanistica da parte
del responsabile del settore. Peraltro, giurisprudenza consolidata della sesta sezione penale della
Corte di Cassazione 100 ritiene che costituisce violazione di legge, rilevante ai fini della sussistenza
del reato, l'inosservanza da parte dell'amministratore pubblico del dovere di compiere una adeguata
istruttoria diretta ad accertare la ricorrenza delle condizioni richieste per il rilascio di

99
Corte appello di Perugia n.605 del 23 maggio 2012 est. M. Ricciarelli imp. D. G., la quale così chiaramente afferma
“il rilascio di un titolo abilitativo illegittimo arreca certamente un determinante contributo alla commissione di un reato
edilizio”, mentre “sotto il profilo dell’elemento psicologico va rilevato che l’imputato proprio in ragione della qualità
rivestita avrebbe dovuto applicare in modo corretto la normativa di riferimento che egli conosceva o doveva ben
conoscere”, soffermandosi sulla considerevole colpa di questi sia in ordine all’esegesi della normazione sia all’omesso
esame delle fotografie della pratica edilizia, dalle quali doveva chiaramente apparire l’assenza di un uso abitativo.
100
Cass. sez. VI n.37531 del 2007 rv.238027.
51
un'autorizzazione edilizia, incidendo la stessa direttamente sulla fase decisoria in cui i diversi
interessi, pubblici e privati, devono essere ponderati.
Pertanto, non solo l’esclusivo riferimento all’art.27 d.P.R. n. 380 del 2001 non è condivisibile, ma
anche l’asserita limitata posizione di garanzia, per giurisprudenza costante riferibile solo ai
comportamenti omissivi, a meno di non aderire a minoritaria dottrina, che la estende senza alcuna
convincente giustificazione in ogni ipotesi, in cui sia rinvenibile detta posizione.
Peraltro, il tralaticio richiamo di una sentenza n.996 del 1988 (non rinvenibile in Italgiure Web)
contiene un riferimento alla corresponsabilità del Sindaco, giustamente esclusa da recente
giurisprudenza (Cass. sez. II n.36446 del 2011 rv.251242)101 in virtù dell’art.107 terzo comma
lett.g) del decreto legislativo n.267 del 2000, derivante dal principio di separazione tra
amministrazione e politica.

Inoltre, per quanto attiene gli esecutori materiali giurisprudenza costante di legittimità102 ha
affermato che il carattere "proprio" dei reati costituiti da violazioni della normativa edilizia non
impedisce che, oltre ai soggetti individuati dall'art. 6 legge 28 febbraio 1985 n. 47 (ora trasfuso
nell'art.29, comma primo, T.U. approvato con d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380), altri soggetti possano
essere ritenuti responsabili di detti reati, in quanto inseritisi attivamente nella loro consumazione.
Degli illeciti in questione, quindi, ben può rispondere, in applicazione degli ordinari criteri in
materia di concorso di persone nel reato, anche l'esecutore materiale dei lavori, pur quando si tratti
di semplice muratore od operaio, la cui responsabilità può essere inoltre affermata anche a titolo di
colpa, relativamente all'eventuale, mancata conoscenza del carattere abusivo dei lavori stessi.,
ripetendosi che la natura di reati propri di quelli previsti dalla normativa edilizia (art. 44, d.P.R. 6
giugno 2001, n. 380) non esclude che soggetti diversi da quelli individuati dall'art. 29, comma
primo, del decreto medesimo, possano concorrere nella loro consumazione, in quanto apportino,
nella realizzazione dell'evento, un contributo causale rilevante e consapevole. (Nella specie si
trattava degli operai, materiali esecutori dei lavori abusivi).Orbene, sembrerebbe francamente molto
difficile che non concorra nel reato con condotta attiva casualmente connessa il responsabile
all’urbanistica che rilasci un p. d. c. illegittimo, ma solo l’esecutore materiale, costretto ad accettare
il lavoro per ragioni economiche.

La sentenza, poi, non affronta la tematica di grande rilievo del rapporto tra concorso di persone nel
reato e cooperazione colposa. A tal riguardo un’attenta pronuncia del giudice di legittimità, che
tratta, come abbiamo visto, del rischio consentito e del rafforzamento dell’onere di diligenza103,
afferma che “ciò che contraddistingue la forma di concorso che il codice qualifica come

101
Vedi per un’attenta analisi della pronuncia L:Pacifici: Le consequenze del principio di separazione tra politica ed
amministrazione sulla responsabilità penale omissiva degli organi di governo in Cass. pen.2012,2662.
102
Cass. sez. III n.35084 del 2004 rv.229651 cui adde Cass. sez. III n.48025 del 2008 e Cass. sez. III n.16571 del 2011
rv. 250147 dello stesso estensore della sentenza di cui si tratta sopra.
103
Cass. sez. IV n.4107 del 2009 rv.242831 cit.
52
cooperazione nel delitto colposo (concorso che viene detto anche "improprio") è il legame
psicologico che si instaura tra gli agenti, ognuno dei quali è conscio della condotta degli altri.
Naturalmente la consapevolezza riguarda esclusivamente la partecipazione di altri soggetti e non,
come è ovvio trattandosi di reati colposi, il verificarsi dell'evento.
Non sembra però che per ritenere esistente la cooperazione colposa sia richiesto un dippiù costituito
dalla specifica coscienza o conoscenza sia delle persone che cooperano sia delle specifiche condotte
da ciascuno poste in essere. Non ignora la Corte che una corrente dottrinale sostiene che, per
ipotizzare la cooperazione, sia necessaria la consapevolezza anche della natura colposa dell'altrui
condotta ma questa tesi non è mai stata condivisa dalla dottrina dominante che ha obiettato che,
richiedendo questo requisito, la cooperazione sarebbe configurabile solo nel caso di colpa cosciente.
Se, come è comunemente ritenuto, è invece sufficiente la coscienza dell'altrui partecipazione e non
è invece necessaria la conoscenza delle specifiche condotte ne' dell'identità dei partecipi può trarsi
la conclusione che la cooperazione è ipotizzabile anche in tutti quelle ipotesi nelle quali un soggetto
è cosciente della partecipazione di altri al contesto in cui si svolge la sua condotta o, più
specificamente (e con riguardo alla fattispecie in esame o a casi consimili) interviene essendo a
conoscenza che la trattazione del caso non è a lui soltanto riservata perché anche altri soggetti ne
sono o ne saranno investiti. Tuttavia, è sempre ammissibile il concorso colposo nelle
contravvenzioni, sicché sotto questo profilo, pur senza alcuna espressa contestazione, sarebbe fin
troppo evidente il contributo concorsuale del responsabile all’urbanistica alla costruzione abusiva,
perché eseguita con p.d.c. illegittimo.

Peraltro, anche nel caso di cooperazione colposa è ipotizzabile il concorso colposo nel delitto
doloso, secondo la più recente dottrina e giurisprudenza, ma non è necessario affrontare tema
particolarmente complesso e accidentato, giacché non sarebbe possibile configurare un concorso di
tal fatta, perché il dolo dei soggetti indicati dall’art.29 d. P.R. n. 380 del 2001, determinerebbe una
compartecipazione nel delitto di cui all’art.323 c. p., non potendosi qualificare colposo l’apporto del
responsabile del settore urbanistico.

La sentenza non affronta, nemmeno, un altro aspetto, trattato sempre, ma in tema di responsabilità
per colpa medica, dalla pronuncia della quarta sezione cioè se ci si trovi in presenza di concorso di
cause colpose indipendenti.

“ Per natura e per definizione in questo caso non ci troviamo in presenza di un "concorso" di
persone nel reato: tutte contribuiscono causalmente al verificarsi dell'evento ma gli atteggiamenti
soggettivi non s'incontrano mai neppure sotto il profilo della consapevolezza dell'altrui
partecipazione come invece avviene nella cooperazione colposa. In questi casi la concezione che si
fonda sull'unitarietà del reato non è solo un dogma ma è proprio da ritenersi errata perché alcun
legame esiste, sotto il profilo soggettivo, tra le varie condotte anche se l'evento è unico. Quando ci
53
si trovi in presenza di cause colpose indipendenti l'applicabilità delle regole sul concorso di cause è
espressamente prevista, sotto il profilo causale, dall'art. 41 c.p., comma 3, prevede espressamente
che questa disciplina si applichi anche quando la causa preesistente, simultanea o sopravvenuta
consista nel fatto illecito altrui.
Ma proprio perché le condotte sono indipendenti le medesime andranno autonomamente valutate e
per ciascuna di esse andrà accertato se abbia fornito un contributo causale al verificarsi dell'evento e
se la condotta causalmente efficiente sia caratterizzata dai requisiti tipici della colpa. In questi casi,
proprio per l'indipendenza delle azioni, ogni condotta va separatamente individuata e, ciò che
assume particolare rilievo per la soluzione del nostro problema, diviene irrilevante che uno o più dei
contributi causali possa avere carattere doloso perché la disciplina sulla causalità contenuta nel
citato art. 41 c.p. riguarda sia i reati colposi che quelli dolosi. “

Perciò, il riferimento sintetico ed anodino al “concorso o cooperazione” non solo non considera
tutte le implicazioni della predetta tematica, ma neppure valuta come, in ipotesi di differente
spessore (il concorso dei collaboratori materiali), il giudice di legittimità non ha ritenuto necessaria
l’espressa contestazione, potendosi la stessa rilevare dalla condotta tenuta. Pertanto, torna l’esatta
considerazione del giudice perugino, secondo cui ritenere esente da colpa il responsabile
all’urbanistica, che dovrebbe essere fornito di specifica preparazione, appare inconcepibile.

Rilevata l’importanza fondamentale per numerose problematica della sentenza del giudice di
legittimità sulla vicenda di Porto Marghera 104, che affronta le questioni del concorso di cause, della
causalità della colpa cioè del nesso causale tra omissione ed evento, della prevedibilità, delle
malattie monofattoriali e della funzione preventiva delle regole cautelari, a conclusione ci si
sofferma su due discusse decisioni delle sezioni unite attinenti al tema e relative all’irrilevanza del
trattamento chirurgico eseguito senza consenso, ma con esito fausto (SU n.2437 del 2009 rv.241752
e sull’art.586 c. p. (SU n.22676 del 2009) non tanto per trattare temi di tuttora di grande attualità:
consenso informato e colpa in attività illecite quanto per evidenziare i punti critici ed irrisolti delle
due pronunce e, poi, si indicheranno alcune pronunce attinenti agli argomenti trattati che non
costituiscono oggetto di approfondimento da parte dei gruppi di studio in modo da fornire un
panorama completo collegato pure con aspetti pratici.

La prima pronuncia delle SS.UU. è quella che è stata oggetto di maggiori critiche da parte della
dottrina, evidenziandosi la trattazione di numerose questioni irrilevanti ai fini della decisione:
autolegittimazione dell’attività medica e suo fondamento costituzionale, giacché il trattamento
chirurgico effettuato con esito fausto senza consenso informato non assume rilievo ai fini della
tipicità penale, libertà di curarsi e diritto al consenso informato del paziente, poiché le stesse

104
Trib. Venezia 22 ottobre 2001 in Cass. pen.2003,267; App. Venezia 15 dicembre 2004 in www. Petrolchimico.it e
CAss. sez. IV 17 maggio 2007, Bartalini in Cass. pen.2009, 2877
54
SS.UU. ritengono che detta tematica operi in altri rami del diritto, nuova nozione di violenza
rispetto a quella molto lata della giurisprudenza costante di legittimità, che non presuppone
un’aggressione corporea, essendo limitata ad una costrizione del volere, perché l’insussistenza del
delitto di violenza privata discende dall’assenza di un atto di costrizione, poiché non esiste un
contrasto tra medico e paziente ma un omesso consenso, la possibilità di configurare il delitto di
violenza privata nel caso di trattamento praticato con dissenso del paziente, estraneo al “thema
decidendum” e non sviluppato in tutti i suoi aspetti, una volta preso in considerazione, giacché non
si affronta la tematica della scriminante per stato di necessità o adempimento di un dovere.

Tuttavia l’aspetto, che ha dato adito alle maggiori perplessità, pure in campo medico-legale, è la
differente nozione di malattia rispetto alla costante giurisprudenza di legittimità, non intesa come
qualsiasi alterazione anatomica e funzionale dell’organismo, ma quale “processo patologico
evolutivo, necessariamente accompagnato da una più o meno rilevante compromissione dell’aspetto
funzionale dell’organismo”, giacché, ove si volesse accedere alla più recente giurisprudenza di
legittimità sul punto105 cioè alla “funzionalizzazione del concetto di malattia”, non vi è dubbio che
l’intervento chirurgico produca una compromissione dell’aspetto funzionale dell’organismo106.

Peraltro, è molto ambiguo e flessibile il concetto di esito “fausto”,dipendente anche “dalle


manifestazioni di volontà positivamente o indirettamente espresse dal paziente” cioè pure “per facta
concludentia”, mentre residua la configurabilità di una responsabilità per lesioni in caso di esito
infausto, purché residuino alcune condizioni. Ed invero “l'attività strumentale posta in essere dal
chirurgo – quale l'incisione della cute – è priva di una propria autonomia funzionale, rappresentando
null'altro che "un passaggio obbligato verso il raggiungimento dell'obiettivo principale
dell'intervento, quello di liberare il paziente dal male che lo affligge". Tale attività si inserirebbe
dunque "a pieno titolo, nell'esercizio dell'azione terapeutica in senso lato, che corrisponde all'alto
interesse sociale di cui si è detto, interesse che lo Stato tutela in quanto attuazione concreta del
diritto alla salute riconosciuto a ogni individuo, per il bene di tutti, dall'art. 32 della Costituzione

105
Cass. sez. IV n.17505 del 2008 rv,239541 e Cass. sez. V n.40428 del 2009 rv.245378
106
Infatti la sentenza in esame è costretta ad ammettere che “le peculiarità che caratterizzano, rispetto alla attività
sanitaria in genere, l'intervento medico-chirurgico realizzato per fini terapeutici” escluderebbero l’elemento soggettivo..
“Infatti, la condotta del medico è non soltanto teleologicamente orientata al raggiungimento di uno specifico obiettivo
"prossimo", quale può essere, in ipotesi, la riuscita, sul piano tecnico-scientifico, dell'atto operatorio in sè e per sè
considerato, quanto – e soprattutto – per realizzare un beneficio per la salute del paziente. È quest'ultimo, infatti, il vero
bene da preservare; ed è proprio il relativo risalto costituzionale a fornire copertura costituzionale alla legittimazione
dell'atto medico. L'atto operatorio in sè, dunque, rappresenta solo una "porzione" della condotta terapeutica, giacchè
essa, anche se ha preso avvio con quell'atto, potrà misurarsi, nelle sue conseguenze, soltanto in ragione degli esiti
"conclusivi" che dall'intervento chirurgico sono scaturiti sul piano della salute complessiva del paziente che a quell'atto
si è – di regola volontariamente - sottoposto.” “ Le "conseguenze" dell'intervento chirurgico ed i correlativi profili di
responsabilità, nei vari settori dell'ordinamento, non potranno coincidere con l'atto operatorio in sè e con le "lesioni" che
esso "naturalisticamente" comporta, ma con gli esiti che quell'intervento ha determinato sul piano della valutazione
complessiva della salute. Il chirurgo, in altri termini, non potrà rispondere del delitto di lesioni, per il sol fatto di essere
"chirurgicamente" intervenuto sul corpo del paziente, salvo ipotesi teoriche di un intervento "coatto"; sibbene, proprio
perchè la sua condotta è rivolta a fini terapeutici, è sugli esiti dell'obiettivo terapeutico che andrà misurata la correttezza
dell'agere, in rapporto, anche, alle regole dell'arte. È, quindi, in questo contesto che andrà verificato l'esito, fausto o
infausto, dell'intervento e quindi parametrato ad esso il concetto di "malattia" di cui si è detto.”
55
della Repubblica e lo fa autorizzando, disciplinando e favorendo la creazione, lo sviluppo ed il
perfezionamento degli organismi,delle strutture e del personale occorrente. Per ciò stesso questa
azione, ove correttamente svolta, è esente da connotazioni di antigiuridicità, anche quando abbia un
esito infausto. Pertanto, “ove l'esito dell'intervento non sia stato fausto la condotta del sanitario,
avendo cagionato una "malattia", realizzerà un fatto conforme al tipo: e rispetto ad essa potrà
dunque operarsi lo scrutinio penale, nella ipotesi in cui, difettando il consenso informato, l'atto
medico sia fuoriuscito dalla innanzi evidenziata "copertura costituzionale". Ciò non toglie, peraltro,
che, nell'ambito della imputazione del fatto a titolo soggettivo – trattandosi pur sempre di condotta
volta a fini terapeutici – accanto a quella logica incoerenza di siffatto atteggiamento psicologico con
il dolo delle lesioni di cui all'art. 582 c. p., già posta in luce dalla prevalente dottrina e dai più
recenti approdi giurisprudenziali, potranno assumere un particolare risalto le figure di colpa
impropria, nelle ipotesi in cui – a seconda dei casi e delle varianti che può assumere il "vizio" del
consenso informato – si possa configurare un errore sulla esistenza di una scriminante, addebitabile
ad un atteggiamento colposo, ovvero allorché i limiti della scriminante vengano superati, sempre a
causa di un atteggiamento rimproverabile a titolo di colpa (artt. 55 e 59, quarto comma, c. p.).”

La soluzione appare complessa ed in sé contraddittoria, poiché poco prima la Corte aveva disatteso
quella dottrina, che ravvisa nel consenso del paziente la scriminante invocabile in tema di
trattamento medico, né ouò essere invocata la scriminante costituzionale, su cui le SS.UU. si
soffermano, giacché la stessa presuppone il consenso informato del paziente. Perciò, la dottrina più
avveduta, indica percorsi motivazionali diversi, fondati sulla distinzione delle diverse situazioni,
giungendo a conclusioni diametralmente opposte a quelle della sentenza107

L’altra sentenza delle sezioni unite, che concerne il caso di decesso conseguente all’assunzione di
sostanza stupefacente, è stata oggetto di svariate critiche108, ma presenta un aspetto senza dubbio
condivisibile quello di ancorare la responsabilità alla prevedibilità ed evitabilità in concreto
dell’evento non voluto, giacché la parte meno convincente è quella che richiede la violazione di una
regola cautelare con l’ulteriore prefigurazione di un “agente modello nelle attività illecite cioè di
uno spacciatore modello2, anche se, formalmente, escluso dalla pronuncia. Sotto questo profilo la
pronuncia presenta già un’impostazione, non condivisa neppure da BRUSCO, cioè l’impossibilità
di attribuire natura cautelare alle norme incriminatici penali, in quanto sembra del tutto
pretermettere sotto il profilo positivo tutti i reati contro l’incolumità pubblica ed anche alcune
contravvenzioni di parte generale e speciale e sotto quello dell’impostazione dogmatica tutto il
diritto penale del rischio. Inoltre, nel caso di colpa in attività illecite la colpa ha natura generica,

107
Vedi F. Vigano: Omessa acquisizione del consenso informato del paziente e responsabilità penale del chirurgo:
l’approdo (provvisorio) delle sezioni unite in Cass. pen. 2009, 1811, nonché le notazioni critiche di R.Blaiotta.
108
Si citano i vari autori CARMONA, TESAURO, BELTRANI, AMATO, PICCIALLI, MINO e RUSSO, mentre C:
BRUSCO dimostra di condividerne il tentativo di superamento del principio “qui in re illecita versatur respondit etiam
pro casu”, in realtà non accolto neppure dai citati critici
56
perché di un’attività vietata non possono essere dettate regole modali per il suo svolgimento, salvo
che si tratti di attività consentita a determinate condizioni, per le quali è possibile rinvenire ipotesi
di colpa specifica. Elemento fondante è la prevedibilità in concreto, che sussiste pure nel caso in cui
il verificarsi dell’evento non voluto sia raro o abbia scarsa possibilità di verificarsi, purché fosse
conosciuto o conoscibile e, quindi, prevedibile, richiedendo anche un grado di attenzione ed un
obbligo di conoscenza maggiori di quelli normalmente richiesti” Pertanto, la parte debole è solo
quella che mira alla costruzione di un agente modello ed all’individuazione di regole cautelari in
attività illecite del tutto vietate, poichè sussiste una contraddizione “in re ipsa”.

Interpretata con queste limitazioni, questa decisione può ritenersi che limiti l’operatività della
possibilità di attribuire all’autore dell’attività totalmente illecita anche l’evento non voluto ai soli
casi di imprevedibilità ed inevitabilità, escludendo casi di responsabilità oggettiva o di imputazione
automatica dell’evento non voluto in contrasto con il principio di colpevolezza.

La casistica più significativa tralascia, a parte le pronunce già illustrate, i temi che saranno
approfonditi dai gruppi di lavoro e che finiscono con l’essere, insieme a quelli che saranno di
seguito sviluppati, i settori di emersione delle problematiche del rischio. Per tale ragione non si
discuterà di attività medica e modelli sanitari di organizzazione,salute, ambiente di lavoro ed
organizzazione dell’impresa e della responsabilità da prodotto, anche se la genericità del termine,
include, senza dubbio, il prodotto difettoso e l’esposizione a sostanza dannosa, ma anche il prodotto
alimentare, rischi economico-finanziari e controllo e tutela dei mercati, responsabilità degli enti e
prevenzione del rischio di commissione dei reati, del settore della pubblica amministrazione e
rischio corruzione, delle attività pericolose e del rischio ambientale.

Una correlazione spesso derivante da una posizione di garanzia rinvenibile nel diritto privato è stata
109
rinvenuta nella responsabilità dell’amministratore del condominio per l’incendio causato da un
difetto di installazione di una canna fumaria di soggetto estraneo al condominio, che attraversava
parti condominiali, perché l’art.1130 primo comma n.4 c. c. pone l’amministratore in una posizione
di garanzia nei confronti del condominio, così del locatore per la morte di un inquilino in seguito
alle esalazioni di monossido di carbonio da una caldaia mal impiantata (Cass. n. 34843 del 2010
rv.248351) o mal mantenuta (Cass. sez. IV n.32298 del 2006 rv. 235369).

In tema di disastri aviatori e di posizione di garanzia del direttore di areoporto110 o dei controllori di
volo 111 le due pronunce sono contrastanti, perché succedutesi in base a differenti normative prima e
dopo l’istituzione dell’ENAV, in quanto nel primo caso il direttore non assumeva alcuna posizione
di garanzia per regolare e vigilare sul traffico aereo, riconosciuta agli altri.

109
Cass. n.39959 del 2009 rv.245317.
110
Cass. 19 febbraio 2008
111
Cass. n.6820 del 2011
57
Una copiosa giurisprudenza si è formata sulla posizione di garanzia dei genitori sia con riferimento
a reati commessi dai minori (Cass. n.260333 del 2009 rv.244231) sia agli abusi sessuali in danno
dei figli (n.4730 del 2008 rv.238698), mentre le nuove tecnologie (internet, facebook e blog) hanno
determinato tutta una serie di problematiche sia processuali in relazione alla competenza per
territorio (Cass. n. 16307 del 2011 rv. 249974 in ordine alla competenza del giudice del luogo di
domicilio dell’imputato in caso di diffamazione tramite internet) sia di diritto sostanziale (Cass.
n.4443 del 2012 rv.251971, che esclude il favoreggiamento della prostituzione qualora nella
gestione di un sito internet siano pubblicate le foto inviate dalle prostitute; n.30564 del 2011
rv.251260 e n.44065 del 2011 rv.251401 in tema di pedoopornografia e Cass. n.6972 del 2012
rv.251953 con riguardo alla pubblicità di semi di piante fra cui la cannabis).

Un settore particolarmente interessante è quello della scuola sia per quanto riguarda la
responsabilità dei dirigenti scolastici per il rispetto delle norme di prevenzione degli infortuni (Cass.
n.34611 del 2007 rv.237764) e quella degli stessi per omessa vigilanza sugli alunni al momento
dell’uscita dalla scuola (Cass. n. 17574 del 2010 rv.247522) sia del conducente dello scuola bus ( A
tal riguardo una non recente decisione aveva escluso la responsabilità del conducente per l’incidente
stradale occorso allo scolaro sceso dal mezzo per aver attraversato la strada senza cautela Cass.
n.9212 del 1988 rv.179154, mentre in identica situazione Cass. n.32822 del 2007 ne ha affermato la
responsabilità.

La responsabilità nelle attività sportive è stata esaminata con riguardo ai calciatori, ma nutrita
giurisprudenza si rinviene in tema di sci e, come già esaminato, di piscina e nuoto. Infatti, si è
affermata la posizione di garanzia del gestore di un impianto di seggiovia per le lesioni causate agli
utenti per colpa generica o specifica (Cass. n.16995 rv.231542 e n.27861 del 2004 rv.229073,
mentre sussiste quella del maestro di sci incaricato di svolgere un corso di sci fuori pista, che
conduca gli allievi in una zona, in cui era stato segnalato pericolo di valanghe, causando la morte di
alcuni allievi (Cass. n.26116 del 2008 rv.240845), affermandosi pure il principio secondo cui lo
sciatore a valle non è legittimato a comportamenti del tutto scorretti quali l’improvviso taglio della
strada allo sciatore a monte (Cass. n.37850 del 2009 rv.244989).

Questo breve excursus di casi particolari con l’evidenziale anche soluzioni contrastanti dimostra
come la causalità e la colpevolezza nell’elaborazione giurisprudenziale non abbiano raggiunto punti
fermi, ma siano in continuo divenire e come, nonostante vari arresti delle sezioni unite, non sempre
le soluzioni proposte possono essere condivise oppure vengono effettivamente accolte, mentre la
teoria dell’aumento del rischio, formalmente ripudiata, perché non ha alcuna base positiva, finisce
con l’essere utilizzata quale supporto ermeneutica nella soluzione dei casi più complessi.

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