Lo scriba di Csole
Il segreto di Otranto
R O M A N Z O
Redazione Lorenzo Velle
Impaginazione Ettore Ronzino
Art Director Nino Perrone
BESA Editrice
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73048 Nard (LE)
tel./fax +39.0833.871608
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INDICE
PROLOGO
CAPITOLO I
CAPITOLO II
CAPITOLO III
CAPITOLO IV
CAPITOLO V
CAPITOLO VI
CAPITOLO VII
CAPITOLO VIII
CAPITOLO IX
CAPITOLO X
CAPITOLO XI
CAPITOLO XII
CAPITOLO XIII
CAPITOLO XIV
CAPITOLO XV
CAPITOLO XVI
CAPITOLO XVII
CAPITOLO XVIII
CAPITOLO XIX
CAPITOLO XX
CAPITOLO XXI
CAPITOLO XXII
CAPITOLO XXIII
CAPITOLO XXIV
CAPITOLO XXV
CAPITOLO XXVI
EPILOGO
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22
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34
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ad Alessandro
PROLOGO
Non mi sono mai abituato a questo mare che non un
mare. A questacqua bastarda di tante acque, alle velme, alla pa-
lude dove terra e mare si confondono nel torbido della laguna.
Le lune e i venti subdolamente spingono le onde che ora ri-
salgono oltre le foci dei fiumi, ora si ritirano, lasciando le erbe
del fondo a seccare tra nuvole di mosche e zanzare.
Anche lindolente carnalit della sabbia che si intride tanto
del fiume che del mare mi appare uninfedelt senza passione.
LAdriatico sotto lo scirocco frange lontano, sulle secche e
alla costa arriva una maretta corta e nervosa, cos, quando scen-
de la bora, la laguna frigge insidiando di correnti maligne i ca-
nali.
Tra la solidit della terra e la mutevolezza dellacqua, tra
fondamenta e canali, questa citt si consuma in una rissa este-
nuante.
Dove io nacqui, terra e mare conoscono solo la pace o la
guerra. Nelluna restano a confrontarsi immobili e vigili, nel-
laltra si scontrano con accanita ferocia e la roccia strappa nu-
vole di polvere allonda e londa schegge di calcare agli scogli.
Dove per la prima volta ho visto la luce essa ha la nettezza
del filo di una spada. Qui, dove vado invecchiando, ha la cru-
delt del riflesso. Per fortuna i miei occhi non hanno dovuto
patire molto questa crudelt.
Da anni preferisco vivere nella penombra delle stanze e mi
avventuro per calli e campielli solo alle prime luci dellalba o al
calare della sera. Durante il giorno le tende oscurano la mia ca-
mera e la luce solo limmutabile crepuscolo del lume sul mio
scrittoio.
,
Questa mattina bene che lo accenda per lultima volta e
per lultima volta torner a scrivere, poi penne, inchiostri, carte
e pergamene resteranno solo cari oggetti restituiti alla loro na-
tura inanimata.
Cose morte con le quali, alle volte, mi sono illuso di rende-
re cose vive.
:c
I
AllIllustrissimo Aldo Manuzio,
Stampatore e Editore in Venezia
Eccellentissimo Maestro
Ti rendo, accluso a questa lettera, lultimo volume che mi
hai inviato per la traduzione. Si tratta, come sai bene, del Libro
Settimo di Tevarih-i Al-i Osman. Nonostante le tue raccoman-
dazioni per la nobilt del suo autore, lo stimatissimo Ibn
Kemal, e per il gran pregio della sua scrittura, questa non tro-
ver pi le sue corrispondenti parole italiane per mia mano.
Non sono soltanto let, la stanchezza e la vista affaticata che
mi inducono a interrompere per sempre il lavoro.
Mi bastato scorrere alcune pagine per provare un dolore
che non pensavo certo di avere dimenticato, ma almeno di
avere relegato in una regione morta della mia anima dove la-
sciarlo assopire.
Impara soffrendo! Pathei mathos! era linsegnamento dei
miei maestri nella Santa Abbazia di San Nicola di Csole e
molto, nella mia vita, ho appreso nel dolore ma non ho moti-
vo di apprendere da altri ci che nessuno meglio di me ha co-
nosciuto. In vero temevo che sarei arrivato un giorno a questo
punto.
passato quasi un anno da quando mi hai affidato lincari-
co per la traduzione delle Storie della Casa di Osman. Lungo i
primi sei libri il lavoro stato veloce e la mia scrittura ha ga-
reggiato in leggerezza con quella di Kemal che scorre come un
ruscello in lode e per la delizia del suo committente e signore,
il Gran Sultano Bayezid.
::
Avanzando nelle pagine sono arrivato alla magnificazione
delle gesta di Mehmet II Fatih e il mio sangue ha cominciato
a pulsare pi forte e le tempie mi dolevano e le mani erano
prese dal tremito e pi andavo avanti e pi il respiro si faceva
pesante.
Per dare ragione del mio rifiuto devo svelare a te, mio be-
nefattore e amico, quanto avrei preferito lasciare dormire nei
recessi del passato.
Una storia che in molti si provano gi oggi a raccontare e
temo della quale molti si approprieranno in futuro perch
essa sembra ben prestarsi a essere avvolta dal velo delleroica
leggenda e illuminata dalle edificanti aureole del martirio. E
storia di eroi e di martiri fu, ma un freddo calcolo e una gelida
macchinazione la gener.
Ho grandissima considerazione per la scrittura lucente di
Ibn Kemal ma non posso leggere le sue adulanti parole in me-
moria di Maometto II.
Egli fu per me una maledizione devastante e io per lui meno
del filo derba che lo zoccolo del cavallo calpesta nella sua corsa.
Per tutta la vita ho odiato un uomo che non ho mai visto di
persona. Di lui conosco solo unimmagine e quando cadde
sotto i miei occhi una vertigine di rancore mi colse.
Avvenne una sera nella bottega dei Bellini. Amavo, di tanto
in tanto, frequentare Gentile e Giovanni. In quellambiente di
pittori, sempre frequentato da artisti di passaggio, trovavo
qualche ora lieta di piacevole conversazione.
Una sera si disputava di ritratti. Era appena giunto da
Treviso messer Lorenzo Lotto, antico allievo di Giovanni.
Ancora sporchi di colori erano arrivati, per un bicchiere di
vino, Giorgione e quel Tiziano che allora lo aiutava per le pit-
ture al Fondaco dei Tedeschi.
Forse fu il vino o il cattivo umore ma tant che nel bel
mezzo delle cicole il Lotto, che era giovane di brusco caratte-
re, dette sulla voce a Gentile.
Taci tu, che dipingesti per gli infedeli! Facci vedere come
hai ritratto la rovina della fede e di Venezia!
::
Fu cos che per la prima volta io vidi la faccia delluomo a
causa del quale avevo perduto la famiglia, i confratelli, gli
amici, la mia citt, le mie fatiche e la fede in Dio.
Eccotelo il pi grande degli infedeli, Lotto, che noi Bellini
si dipinge di tutto: vescovi, santi e pure infedeli!
Era la copia di un ritratto che Gentile aveva fatto al
Conquistatore. Un naso adunco sovrastava la bocca e il mento
sfuggente, appena dissimulato da una barba leggera. Gli occhi
erano spenti sotto un grande turbante. Stentavo a credere che
quella fosse limmagine del formidabile stratega, del guerriero
spietato che, a soli ventuno anni, aveva colpito a morte
Bisanzio e fatta sua Costantinopoli.
Le mie mani tremavano al punto che gli amici mi tennero
per ubriaco e Gentile disse al Piombo di accompagnarmi a
casa. Al primo campiello mi appoggiai a una vera di pozzo per
respirare.
Marco, stai male?
Niente, Sebastiano, niente, stato come un velo nero che
m passato davanti agli occhi.
Avrei voluto bruciare quel ritratto cos come avrei voluto
bruciare le pagine di Kemal che accoglievano le descrizioni
delle gesta del Conquistatore di Costantinopoli, del
Governatore di Amasia, delle sue vittoriose campagne contro
gli ungheresi, gli albanesi, della presa del Principato di
Qaraman e del trionfante dilagare in Serbia, Morea e Bosnia.
S, avrei voluto bruciare la magnificazione della sua gloria cos
come la sua volont aveva bruciato tanta parte della mia vita.
Eppure ho continuato il lavoro di traduzione. La penna scric-
chiolava per la rabbia della mano ma dominavo abbastanza la
mia furia. Lo scriba, secondo lantico canone, non deve avere
cuore e passione. Egli solo strumento.
Temevo che Ibn Kemal sarebbe arrivato, nella sua narrazio-
ne, a un punto che non mi avrebbe pi consentito di domina-
re la mia anima e, al voltare di ogni pagina, paventavo di legge-
re parole e nomi e vicende sepolte da tempo nel pozzo della me-
moria. Temevo che in quel momento non sarei pi stato scriba.
:+
stato nel Settimo Libro, con angoscia montante sfogliato,
che i miei occhi si sono impigliati in queste righe:
Qui si parla dellandata del famoso Comandante Ghedik
Ahmed Pasci in Puglia, a capo della flotta, e della sua conqui-
sta, nel luogo suddetto, della famosa fortezza chiamata
Otranto
E fu strage, ma pi feroce delle scimitarre, dei pugnali e
delle bombarde e lance e frecce fu lo spietato calcolo tracciato
dai disegni di tanti e diversi mondi contrapposti. Per troppo
tempo ho cercato di scomporre quel calcolo, di studiarne ogni
singolo elemento, di ordire linsano disegno di trovare regioni
e motivi e cause per lo scatenamento di tanta crudelt, per le-
pifania di tanto orrore.
:
II
Aheeeee Mastro Giovanni de Marco alla marinaaa
Il messaggio volava di bocca in bocca dal primo pescatore
che aveva visto la nave di mio padre doppiare la Palaca, ai ma-
rinai del porto, fino alla nostra casa affacciata su San Pietro.
A mia madre cadeva tutto di mano, si strappava il mantile e
in un lampo era nella chiesa. Io restavo sul portale e la vedevo
cadere in ginocchio e le sue spalle sussultavano lievemente. Poi
scendevamo al porto. Sentivo nelle gambe lansia di correre in-
contro a mio padre e a mio fratello, di salire a bordo tra gli uo-
mini e le mercanzie. Sbarcare era una cosa lunga, cerano di-
sposizioni da dare per il carico, pagare gli uomini, rassettare la
nave.
Il primo abbraccio di mio padre era per la sua donna che se
ne volava da terra attaccata al collo del marito. Io mi avvin-
ghiavo alle loro gambe quasi avessi paura che lappassionata
carnalit di quello stringersi mi escludesse. Si caricavano i carri
grandi che andavano ai magazzini e quando lultimo era parti-
to ci mettevamo dietro ai carri piccoli destinati a casa.
Mio fratello saliva pi lento e faceva un giro pi lungo per-
ch doveva passare sotto a una finestra dove si sussurrava che la
pi bella delle otrantine lo attendesse.
I carri piccoli erano sempre due. Dal primo venivano scari-
cate le casse da viaggio di mio padre e mio fratello e i bauli con
gli oggetti per noi e per la casa. Sul lettone si riversavano stof-
fe, vestiti, quadri, decorazioni, vasellame, spezie, profumi,
gioielli: una meraviglia di colori e forme. Per me cera sempre
qualcosa: una volta un turbante, unaltra un pugnale decorato,
unaltra ancora un paio di stivali di cuoio marocchino.
Il secondo carro restava nel cortile, il carico ben coperto di
:s
tela incerata e sorvegliato da un famiglio. Era una scena che
avevo visto tante volte ma ormai ero abbastanza grande da co-
minciare ad avere delle curiosit.
Ntoni, che c sul carro?
Casse, Marcolino, casse piene rase di libri, di carte, di
scritture. Domattina saliamo a Csole, dai monaci, solo loro le
sanno
Padre, posso venire domani a Csole con voi?
Evvieni, Marcolino, vieni. Ecch monaco ti vuoi fare, di
marinaio e soldato, mo monaco, ah?
Avevo sette anni e non era la prima volta che uscivo dalla
citt. Altre volte ero stato alle masserie con mia madre e con i
compagni ci avventuravamo alla Cala dellOrte o verso la
punta della Palaca per pescare i lutrini e prendere i cari e an-
cora andavamo ad Alimini a mettere le trappole, a catturare le
celne, ma a Csole era la prima volta. Sapevo solo delle visite
di mio padre al monastero di ritorno da ogni viaggio.
Per San Nicola di Csole si saliva tra orti e fichi e ulivi oltre
la valle dellIdro, il fiume che sanava la sete di Otranto e mio
padre raccontava il prodigio di Carlo Magno, un re che, attra-
versando le aride colline tra i casali di Giurdignano e Uggiano,
esasperato dallarsura, aveva dato un colpo di spada alla roccia
e lacqua, sgorgata per miracolo, sera fatta ruscello. Oltre la
valle cominciava una pietraia brulla, magra anche per il pasco-
lo. Le poiane e i gheppi volteggiavano in attesa, per il pasto
quotidiano, di uno scursne malaccorto o di un riccio distrat-
to.
Era mattina alta di giugno e il sole mi bruciava gli occhi
quando arrivammo in vista dellabbazia.
Non ho mai avuto il dono della premonizione e quelle mura
imponenti, le alte finestre, la grandiosit degli edifici che si sta-
gliavano contro il cielo estivo non sortirono su di me altro ef-
fetto che la normale curiosit di un ragazzo. Nulla mi fece pen-
sare che quella visita avrebbe mutato il corso della mia vita.
Non mi lasci stupito neppure laccoglienza festosa che i
monaci fecero a mio padre. Alcuni li conoscevo perch veniva-
:o
no in citt e si fermavano per le devozioni in San Pietro e, da
casa, sentivo i loro canti e le loro preghiere.
Fummo condotti alla presenza dellabate Zaccaria. Era un
uomo vecchio che quasi mi fece paura, tutto vestito di nero,
ma il suo sguardo era dolce e dolce il gesto della sua mano sulla
mia testa.
Benvenuto, Giovanni de Marco e benvenuto al tuo gio-
vane figlio.
Marco, abate, gli diedi il nome dellEvangelista.
Gi, Marco, colui che protegge chi trasporta le parole da
una lingua allaltra.
Oggi potrei dire che in quelle parole di Zaccaria ci fosse gi
tutto il disegno della mia vita. Quando lo conobbi era abate di
Csole gi da ventisei anni. Era stato il papa romano Eugenio
IV a dargli lincarico, ch Zaccaria sempre era stato al suo fian-
co nelle trattative con Giovanni Paleologo e il Patriarca
Giuseppe per tentare di ricomporre lo scisma tra le chiese so-
relle di Roma e Bisanzio.
La conversazione di mio padre con Zaccaria dur a lungo,
quasi lintera giornata.
Ntoni e i monaci scaricarono il carro e li vidi trasportare,
con ogni cura, casse su casse nel parlatorio.
Io venni affidato al giovane monaco Teodoro. Giornata me-
morabile per un figlio di mercante, un ragazzino che appena
sapeva fare di piccolo conto e scarabocchiare il suo nome.
Teodoro correva di qua e di l nel convento a sbrigare fac-
cende e io dietro.
Mo andiamo allo scriptorium, Marco, che dobbiamo
prendere libri per la biblioteca.
Le sale erano grandi e piene di monaci intenti a lavorare,
curvi su tavoli col piano inclinato. Uno dei monaci mi sollev
tra le braccia.
Guarda, ragazzino, guarda quante formiche e ragni e mo-
sche
E cos mi sembr, a prima vista, la scrittura: tanti animalet-
ti in fila, uno dietro laltro, con tante zampette e corni e code
:
attorcigliate. Su quel biancore davvero formiconi sembravano e
malte e pure qualche taranta. Non che non avessi mai visto un
libro; mio padre e prima di lui mio nonno ne avevano portato
qualcuno in casa dai loro viaggi ma non mi era mai stato per-
messo di vederlo aperto e da vicino. Si trattava di oggetti che
fugacemente transitavano per essere subito portati a Csole.
Sulle pareti grandi scansie traboccavano di volumi di ogni di-
mensione. Fasci di carta e di pergamena emanavano uno stra-
no profumo. In un angolo un tavolo era coperto di canne e
penne doca e ciotole piene di polveri scure e liquidi ambrati.
Un monaco appuntiva con una lama canne e penne. Guardavo
le sue mani sfaldare abilmente la canna secca e intagliarla, sfi-
nire le penne in una punta che non avrei mai immaginato si
potesse fare tanto sottile. Di tanto in tanto, canne, penne e cio-
tole venivano distribuite tra i banchi.
Qui vidi per la prima volta i monaci copiare, lo scriptor ri-
portare sulla carta e la pergamena la littera textualis.
Ogni tanto mi affacciavo nella stanza dove mio padre parla-
va con Zaccaria e restavo per un po a guardarli. Mi colpiva la
familiarit della conversazione, le spalle curve, le teste vicine, le
voci basse e gli occhi, come due fessure, a guardare lontano. A
parlare era soprattutto mio padre. Un altro monaco pi giova-
ne con carta e penna annotava le sue parole.
Mercante e capitano di mare, Giovanni de Marco viaggiava
in lungo e in largo ed erano soprattutto gli scali del Levante a
non avere segreti per lui. Come mio nonno, era uno degli in-
formatori di Csole. Non cera conversazione, incontro, tratta-
tiva dalla quale non emergessero informazioni preziose per il
monastero. Csole aveva lambizione di tenere occhi e orecchie
dappertutto.
Marcolino, domani allalba passa Teodoro con gli altri
monaci per andare a fare canne . Quello di mio padre era pi
un invito che un ordine. Portali a Traugnano, ch loro
allIdro le fanno e sono le peggio.
Le paludi di Traugnano le conoscevo come il palmo della
:
mano, tutti i laghi di Alimini erano infestati dalle trappole che
con i compagni mettevamo per le folaghe, i moriglioni, i ger-
mani. Certo che le canne di Traugnano erano buone! Trappole,
gabbie, archi, frecce, spade e lance del nostro armamentario
non erano che canne. Quelle dellIdro erano stente e marce e
subito si spaccavano e facevano filacce. Quel giorno mi sentivo
un condottiero. Avanzavo alla testa della fila dei monaci che i
laghi non che non li sapevano, ma cos, in generale e non sa-
pevano il posto delle canne. A Traugnano i monaci non crede-
vano ai loro occhi e si misero a dare di roncola sulle canne. Ne
fecero tante che non si era buoni a portarle. Sulle sponde di
quei laghi crescevano fiori carnosi, viola, striati di giallo. Ogni
tanto li portavo a mia madre e rimanevano freschi per giorni e
giorni. Le castagne dacqua invece ci lasciavano il segno di do-
lori di pancia e diarree. Nei laghi si consumavano eventi mi-
steriosi come unerba che bruciava a toccarla e ingoiava, con le
sue vesciche, gli insetti che si avvicinavano. Nidi, uova, bisce,
aironi, ibis. Le paludi furono la mia prima conoscenza del
mondo naturale e quando ero stanco mi restava un letto der-
ba, con la faccia al sole, a seguire il volo del falco pescatore.
Avevo calcolato il tempo giusto per fare seccare le canne che,
alla fine dellestate, una mattina mi presentai a Csole. Girai
dalla parte dellorto e le canne erano l dove le avevamo lascia-
te, a fare ombra alle galline, cotte dal sole, di un bel colore gial-
lo bruno.
Marcol, che cerchi?
Era proprio Saverio, il monaco che lavorava ai calami che,
dritto sulla porta del refettorio, mi gridava.
Sono venuto a pulire le canne.
E bravo Marcolino! E via a pulire le canne!
Sfrondare le canne fu solo linizio di un lungo apprendista-
to alla fine del quale avevo imparato una cosa che potrei fare
ancora oggi con gli occhi chiusi.
Allora, Marco, taglia la canna per la lunghezza di un
palmo, poi per lungo di due dita per met spessore
Allinizio le mani mi sanguinarono per il coltello che sfug-
:,
giva e per i bordi taglienti delle canne. Ma Saverio era pazien-
te e io ansioso di fare.
Ecco, Marco, ora ancora un taglio per un dito a togliere
tutta la parte concava. In ultimo tronca la punta di netto, a
scalpello.
Ormai ero ammesso allo scriptorium.
La mia produzione di calami era tanto apprezzata che venni
istruito alla preparazione delle penne doca.
Imparai a scegliere le remiganti, cinque per ogni ala da la-
sciare stagionare a secco. Un sapere che mi cost feroci beccate
che mi lasciavano la faccia piena di lividi.
Queste vanno bene, Marcol, ora taglia le punte e le barbe.
Poi mettile per stanotte con i cannelli nellacqua. Domattina le
tempriamo nella sabbia infuocata.
Solo allora rifilavo le punte. Anche per le penne doca, in
breve, nello scriptorium fu tutto un Marcolino di qua
Marcolino di l.
Mi piace ricordare queste piccole cose perch narrano bene
di come io entrai nel monastero quasi per caso e come, sulle
prime, presi a frequentarlo non perch avessi un disegno della
mia vita, ma cos, senza un fine o un motivo preciso, come un
uccello che si posa su un ramo tra mille e sembra non sceglier-
lo ma quando gli artigli stringono la corteccia si sente sul mi-
glior ramo del mondo. Di me stesso potevo solo sapere che un
giorno mi sarei imbarcato con mio padre e mio fratello e, come
loro, sarei diventato marinaio e mercante e non pensavo che
potesse esserci un altro destino e, men che meno, di avere un
destino da scegliere. La nostra citt a quel tempo era prospera
e il porto pieno di navi e cerano mille mestieri che si poteva-
no fare ma la nave e le tavole di mercatura mi sembravano lu-
nico orizzonte possibile.
Tutto questo mio andare e venire da Csole, il piccolo lavo-
ro di preparatore di calami e penne non li interpretavo come
segni. Lavvenire non poteva dipendere da me, non pensavo
neppure che il mio destino potesse essere in altre mani che
quelle di Dio.
:c
Era un giorno dautunno tardo che la tramontana impazzi-
va nei vicoli, mischiando gli odori dellultimo mosto a quelli
delle prime sanze e del fumo dei camini. Il sole stava basso e
quando suonava il Vespro dalla Cattedrale era quasi buio.
Quel giorno persi una vita e ne trovai unaltra.
Marco, disse mio padre e per la prima volta non mi
chiamava Marcolino, Zaccaria ti vuole a Csole, dice che sei
buono per studiare, per imparare, per leggere e, addirittura,
dice che saresti buono per scrivere.
Come spesso accaduto nella mia vita non dissi n s, n
no. La testa mi si pieg sul collo come a dire s, o almeno cos
credette di capire mio padre.
::
III
Quel pugno danni che seguirono il mio ingresso a Csole
lo ricordo come un turbine. Ero una giovane pianta che una
tempesta aveva sradicato dal suo orto per precipitarla in un
giardino. La giovane pianta era quasi del tutto secca quando le
sue radici riuscirono ad attecchire nuovamente in un terreno
che, in vero, nessun aratro aveva mai smosso cos fertile.
Perch, allinizio, la pianta stava per seccare quando dal la-
voro delle penne e dei calami mi ritrovai a pascolare le pecore.
Cerano altri ragazzi che come me stavano al monastero a
studiare e sudare sul greco, sul latino, sulla scrittura, ma loro
non pascolavano le pecore. Io credevo che ne fossero esentati
perch figli di nobili e mi arrabbiavo perch sapevo comunque
di essere figlio di ricchi e le pecore non le volevo pascolare.
Volevo tornare a casa mia, andare sulla nave con mio padre e
mio fratello. Mille volte meglio marinaio e mercante che pa-
store.
Ma io non ero un semplice studente. Io, per un sortilegio
del destino, ero destinato alla vita monacale e nel mio appren-
distato cera tanto lo studio quanto il lavoro.
Sarei fuggito dallabbazia se, una mattina allalba, una mi-
stura di fascino e di orrore non mi avesse trattenuto. Imparai
come si scanna una pecora e la si dissangua, come si scuoia
quella carcassa ancora calda. Poi ho capito che era come un rito
di iniziazione.
Fu Mauro, il monaco pastore, a insegnarmi tutto.
Mauro, perch quando uccidi una pecora sembra che stai
pregando?
Era lalba e seguivo il pastore fuori dallo stazzo, verso un ri-
lievo in faccia al mare, lontano da Csole.
::
Noi che stiamo fuori dallabbazia, nelle laure delle serre,
siamo come il molo di levante, Marco, noi prendiamo la prima
onda quando gli infedeli o gli sbandati scorrono la campagna.
Il sangue del capro lava da questo coltello il sangue del corsaro
e chi, come me, ha conosciuto il sangue delluomo deve espia-
re per sempre.
Arrivati a un cumulo di pietre la pecora scart che sembra-
va avere capito.
Al primo raggio di sole, quando Mauro la rovesci sulla
specchia, sembr quietarsi offrendo il collo e le pietre si anne-
rirono di sangue.
straordinario come si conserva la memoria di ci che al
momento non si comprende. Quasi che la mente custodisca
pi gelosamente le cose destinate, un giorno, a esserci chiare.
Ho visto troppo sangue nella mia vita, ma stato nei miei
primi giorni a Csole che ho imparato a sgozzare senza guar-
dare negli occhi la vittima, accecato dal primo raggio di sole e
a non avere disgusto del fiotto caldo che investe la mano.
Pi tardi, sulle mura di Otranto, avrei imparato a uccidere
accecato dallodio, a versare il sangue impuro della vendetta.
Mauro abitava con la madre, una donna anziana della quale
si diceva che fosse stata moglie di un ricco mercante leccese e
che, alla morte del marito, chiuso il fondaco, fosse precipitata
nella miseria. Viveva quindi con il figlio e come lui si era insel-
vatichita ma dai suoi tratti si capiva che non era una pastora.
DonnAnna parlava per oscuri proverbi e astruse filastroc-
che.
Era lei a dare il segnale della fine della giornata di lavoro
canterellando:
Scinde lu Sule
Rretu Uggianu
Chiuti le pecure
Ca ni nde sciamu
:+
Le notti di luna nascente la mettevano in agitazione e si pla-
cava recitando lamentosamente una specie di litania.
Notte te Luna Turca
Lu mmassaru nnu sse curca
Notte te Luna Falce
Llassa tuttu e pigghia la calce
Cu lla calce te li muerti
Uddha tutti li cauerti
Mauro un po la derideva ma poi con calce e cazzuola an-
dava a chiudere tutte le crepe che si erano aperte sui tumuli del
vecchio cimitero dove si custodiva la dormitio dei nostri con-
fratelli.
Aracnieddha beddha mia
Fila e tiessi li culuri
Li culuri subbra lla tila
Cha llavatu ntra lla pila
La cchi beddha tessitura
Foi terribili sventura
Ca te figghia ca se uanta
Te mmacrara a taranta
Eravamo seduti davanti al camino una sera che la sentii
mormorare questa filastrocca ed ero stranito dalla curiosit.
DonnAnna, che cosa dite? Chi Aracnieddha?
Cose di donne, Marcol, cose di una ragazza greca che si
chiamava Aracne e filava e tesseva ed era la meglio per bellezza
e bravura. Che vuoi sapere tu che sei maschio e pure novizio?
E perch le fecero la mmacara?
che le femmine devono stare al posto loro, ma
Aracnieddha no, non voleva stare al posto suo e fece sfida di
tessitura ad Atena.
Atena?
:
Ess, allora non cerano Iddio e Ges Cristo, ma tanti dei,
maschi e femmine e facevano lamore come i cristiani e Aracne
li ricam questi amori, che era una cosa proibita e pure Atena
che faceva lamore con Giove.
Insomma, donnAnna, Aracnieddha fece una spiata?
Eh, una spiata e Atena la pun. Stracci la tela e la fece
ragno a tessere per sempre.
Lo sguardo della vecchia si perse tra le lingue di fuoco che
si levavano dal camino e la sentii mormorare:
Fiatu te secra sputazzu te scursne mmienzu lla stan-
za minti lu chiasciune te fiuri e te marange faciti nna
curona sunati li tamburi lla capu cu sse ntrona nna trec-
cia me faciti te nastri culurati facitime bballare a Ssantu
Paulu priti
E che centrano le secare e gli scursni, donnAnna?
Marcol, e tutto vuoi sapere? Ess, il ragno pizzica, pizzica
le donne alla mietitura e le attaranta e pure il fiato e lo sputo
delle serpi attaranta, come un veleno e allora per guarire si
deve fare musica e le donne devono ballare.
Ballare?
S, ballare, ma la musica forte deve essere, una musica che
dalle orecchie arriva al cuore, alle viscere, alle gambe, ai piedi
che battono a terra. E una musica fortissima che pu salvare ma
pure perdere se Santo Paolo non fa la grazia della guarigione.
Allo stazzo di Mauro imparai a rasare e raschiare le pelli per-
ch niente di peli e grasso restasse, a immergerle nellacqua di
calce, a tenderle sui telai e, alla fine, a levigarle con lama e pie-
tra pomice e a tamponarle con la sandracca. Mi impadronii
della tecnica e la mia pergamena era gradita a tutti per leviga-
tezza e candore.
Nei miei primi anni a Csole ne ho prodotta tanta che si sa-
rebbero potute scrivere mille Bibbie.
Ci che aveva valore si scriveva infatti sulla pergamena.
:s
Mio padre era uno dei maggiori fornitori di carta dellabba-
zia. Dai suoi viaggi a Tiro, a Sidone, a Beirut tornava con gran-
di quantit di qutni, la carta di cotone, la bombacina. Eppure
sono sempre stato convinto che la pergamena resta la sede della
vera saggezza.
So bene che questa una mia vecchia fissazione e che ormai
dai torchi viene meglio pressata la carta, ma la pergamena resi-
ste nel tempo, sopporta raschiature e riscritture, infedele al
testo, accetta la correzione fino allerranza, si sottopone di
buon grado alla metempsicosi dei saperi. I testi passano e lei
resta disponibile a riceverne altri senza discriminazioni. Dove
stato vergato un testamento pu trovare ospitalit un salmo.
Sempre libera, vagamente carica di ricordi, di tracce pi o
meno visibili, di lettere pi o meno antiche, la pergamena passa
di mano in mano in una giovinezza che mi appare eterna.
Di contro la carta pu accogliere, nella sua breve vita, solo
un testo. Tra la grafia o le impronte dei caratteri e ci su cui si
appoggiano c un legame di fedelt assoluta e nessuna di que-
ste cose sopravvive allaltra. C qualcosa di ultimativo nella
scrittura e nella stampa su carta che mi inquieta.
A Csole la carta si usava per le scritture vili: appunti, bozze,
brutte copie.
I miei maestri mi avevano insegnato che un re di Sicilia,
Ruggiero, aveva proibito luso della carta per i documenti uffi-
ciali e la stessa cosa aveva fatto il Grande Federico per gli atti
pubblici. Entrambi si fidavano soltanto della pergamena. Un
supporto eterno ma dotato dellastuto pregio di consentire di
cambiare idea.
I primi giorni di noviziato furono particolarmente duri.
Sono arrivato a rimpiangere il tempo in cui pascolavo le pe-
core.
Lattacco contro di me fu concentrico: la falange dellinse-
gnante di greco avanz per prima, sulle ali il latino. Le pattu-
glie degli esercizi di scrittura mi prostravano con feroci incur-
sioni.
Pastore non volevo essere e non ero l per diventarlo, ma ce-
:o
rano momenti che avrei preferito un bel pascolo e una mandria
e il sole pieno e il cielo stellato delle serre al cielo di pietra sem-
pre uguale dello scriptorium. Era proprio un cielo di pietra
quello che mi sovrastava a Csole. Pietra nella camerata, pietra
nel refettorio, pietra nella chiesa. Mi stavo appassionando allo
studio ma, ogni tanto, mi mancavano il porto, i giochi nello
slargo di San Pietro, le corse nei vicoli, le spedizioni alla Cala
dellOrte, ad Alimini.
Tra gli studenti pochi erano otrantini, la maggior parte
erano forestieri: di Lecce, Maglie, Galatone, uno veniva dal ca-
sale di Corigliano, altri da Corf e Leucade.
Come tutta la comunit partecipavamo alleucaristia e alla
salmodia ma con lobbligo solo del mattutino, del vespro e di
compieta. La notte ci lasciavano dormire e la mattina nulla in-
terrompeva le lunghe ore di studio. A turno aiutavamo il mo-
naco ecclesiarca nella pulizia dei vasi sacri, delle suppellettili,
spolveravamo i libri liturgici e lo seguivamo quando dava il se-
gnale delle celebrazioni.
Pi pesante era il servizio con il cellario nella dispensa e nei
magazzini ma, al momento di preparare la mensa, ci scappava
sempre un boccone in pi, il fondo di una pentola da pulire
con il pane.
Noi studenti mangiavamo tutti i giorni. I monaci digiuna-
vano il luned, il mercoled e il venerd. Durante la Quaresima
ci toccava solo minestra di fave e pane. Tuttavia molte erano le
eccezioni: il vino e lagnello, normalmente banditi, facevano la
loro comparsa quando cerano ospiti e a Csole gli ospiti erano
molto frequenti.
Certo, nei rari ritorni a casa, la vigilia di Natale,
dellEpifania e di Pentecoste, la cucina di mia madre mi incan-
tava.
Anche la consegna del silenzio durante il pasto era spesso
violata per la presenza di qualche persona di riguardo alla quale
era consentito di parlare con lIgumeno e questi, in qualche
caso, dava la parola agli altri monaci. Noi piccoli dovevamo
solo ascoltare.
:
Uno dei lavori pi graditi era aiutare Evaristo, il Maestro
delle Erbe. Nel suo antro si raccoglieva tutto quanto cresceva
sulle serre, erbe che stentavano sulle specchie o che infestavano
rigogliose i pascoli. Evaristo le mescolava incessantemente e ne
traeva decotti e pozioni e unguenti e polveri adatte a curare
ogni male.
Solo un pizzico, Marco, e del laudano ancora meno. Vedi,
ragazzo, tra curare il catarro o il mal di pancia e uccidere la dif-
ferenza tutta nella misura. Una foglia cura, due avvelenano.
Il Bene e il Male erano tutti in quella misura. Un insegna-
mento che contrastava le dottrine teologiche che nel contem-
po studiavo. Esse tagliavano con il filo della spada la netta dif-
ferenza tra i due principi. Ci avrebbero pensato gli studi di fi-
losofia a ripristinare la vaghezza del confine e a far maturare nei
miei pensieri ci che la botanica e lerboristica avevano gi
chiaramente palesato.
Il laboratorio di Pietro, il Maestro delle Icone, si apriva nella
parte alta del monastero. Una grande stanza era ingombra di
assi di legno, strumenti da falegname e per la pittura e misture
per i colori. La luce pioveva da una grande finestra schermata
con una leggera tenda di cotone. Pietro aveva alcuni allievi che
studiavano solo la pittura. Noi facevamo lavori pi umili: pu-
lizie, piccole riparazioni sugli strumenti, tagliavamo le tavole e
ne avviavamo la preparazione. Il Maestro saggiava la stagiona-
tura del legno e ci segnava le misure, poi toccava a noi sudare
di sega e di pialla fino a ottenere un pannello dello spessore di
un dito.
Pietro ci insegnava a rafforzarne il rovescio con doghe di
ulivo per impedire ogni incurvamento, quindi si passavano
sette strati di stucco. A ogni passata seguiva unenergica strofi-
nata con un panno imbevuto dolio. Quando la tavola era
asciutta incollavamo una federa di canapa rada che veniva an-
cora passata a olio. Dopo un giorno e una notte davamo la
prima mano di calce mista a colla e olio bollito. Sei o sette mani
attendendo sempre la perfetta asciugatura della precedente. In
ultimo la lucidatura con pomice secca e crine di cavallo.
:
Licona deve possedere la solidit della parete, di una nic-
chia nella parete, ma lassoluta perfezione della sua superficie
impossibile da raggiungere sulla parete.
Il Maestro passava poi a spiegare la tecnica del leggerissimo
intaglio che delineava i contorni delle figure.
Visibili rappresentazioni di spettacoli misteriosi e soprannatu-
rali. La definizione delle icone di Dionigi lAreopagita lho im-
parata molto tempo dopo quellapprendistato da falegname e
tante icone che ho visto mi hanno posto di fronte al sacro, oltre
la loro pur semplice superficie. Rimpiango di non aver mai
visto le opere del Grande Rublv. Dellicona della Trinit di
Mastro Andrej si dice che Dio esiste perch esiste la Trinit di
Rublv.
:,
IV
Nel corso della mia vita ho cambiato uninfinit di giacigli
e mi sono nutrito ora di pane e olio su una pietra, ora di fagia-
ni farciti su tavole colme doro e dargento, ma ho abitato sem-
pre la medesima casa. Ho sempre abitato le parole ed esse
hanno abitato dentro di me. Ho cominciato apprendendone i
segni e copiandole e ho terminato trasportandole da una lingua
allaltra. Tutta la mia vita stata questo gioco infinito.
Gli inizi furono difficili. Le parole erano per me la lingua
del porto dove i suoni si mischiavano e marinai e mercanti da-
vano differenti nomi alla terra, allacqua, al pane, alle vele, a
Dio. Tanti ne sapevo e tanti altri li chiedevo a mio nonno, a
mio padre, a mio fratello.
Quando scendevo al porto con i compagni, allarrivo delle
navi, restavo incantato per i diversi modi di vestire, di accon-
ciare i capelli e cera chi portava la barba e chi la rasava e rasa-
va persino la testa e anche i colori della pelle erano differenti e
differenti erano i loro nomi.
Oggi mi chiaro che ci che mi si figurava diverso era il di-
verso provenire delle storie, ma quegli uomini diversi trovava-
no le parole e i gesti per parlare. Quando la nave accostava alla
banchina bastava un grido perch a terra si afferrasse al volo la
cima lanciata da bordo e si desse volta sulla bitta di pietra.
Origliavo quelle conversazioni e il continuo interpretare tra le
intenzioni di chi parlava e quelle di chi ascoltava.
Ho mantenuto il ricordo di quellimmagine dellhomo lo-
quens e in seguito ho cercato conferma in tante letture a quel-
limpressione infantile che udenti e parlanti fossero legati da un
invisibile telaio fatto di idee e concetti; che invisibili fili legas-
sero parole diverse alle stesse cose. Solo la lingua era il confine,
+c
e tutti facilmente lo varcavano. Non immaginavo che tra lin-
gua, uomini e terra ci fosse un legame. Tutti quei suoni veni-
vano per me dallincessante irrequietezza del mare.
Poi ho appreso che venivano da unantica maledizione.
Mia madre mi portava a pregare nella nostra piccola chiesa
di San Pietro ma, sin dalla pi tenera et, venivo accompagna-
to anche nella Cattedrale dove un tappeto di pietra grande
quanto la chiesa era pieno di storie. Quel mosaico lho cono-
sciuto dapprima a quattro zampe che ancora non mi reggevo
in piedi e le ginocchia e le mani si arrossavano per la scabrosi-
t delle tessere. Era una prima confidenza con le immagini che
appena percepivo a cos poca distanza. Quando ho cominciato
a muovere i primi passi e man mano che crescevo in altezza
quelle macchie di colore diventavano forme e, grazie alle paro-
le di mia madre, storie. Di tutto limmenso repertorio di
Pantaleone il ricordo pi fermo la Torre di Babele. La sua me-
moria coincide con quella che per me fu la prima favola. La
confusio linguarum solo una favola! Molto dopo ero gi avan-
ti nei miei studi quella favola diventata limmagine di un
secondo peccato originale. La dispersione delle parole che di-
viene sanzione del desiderio di onnipotenza. Quante volte ne
ho incontrato la descrizione! Alta 463 cubiti nellApocalisse di
Baruc, 5433 nel Libro dei Giubilei, ma lho incontrata in
Abelardo, nelle Etymologiae sive origines di Isidoro di Siviglia, in
Agostino, in Boccaccio, nellImage du monde di Gossuin de
Metz. Brunetto Latini ne calcola addirittura la base in due
leghe quadrate. Tutti, ancora oggi, ruotiamo intorno a quella
remota maledizione, da quando, dopo Adamo, anche il sapere
venne cacciato dal paradiso terrestre e alla confusio linguarum
segu la divisio populorum.
Quante volte studiando le altre scritture mi sono chiesto se
non fosse stata gi sufficiente maledizione dividere per tre la
lingua comune originaria. Non bastavano i tre idiomi nei quali
fu redatto, secondo il Vangelo di Luca, il cartello apposto sulla
croce di Cristo per designarlo? Ebraico, greco e latino sono gi
tre lingue, tre popoli e tre fedi.
+:
Ero poco pi che un bambino quando ho intrapreso lo stu-
dio di queste lingue. Pi delle altre che ho imparato esse fanno
parte di me. Il greco per me la terra dove sono nato, il latino
laria che respiro ma lebraico lacqua senza la quale non c
vita. Anche ora che non ho alcun dio non posso dimenticare di
averne avuto uno e la sua lingua, lebraico, era quella di
Adamo, lunica lingua pura perch anteriore alla colpa. Quanto
ci si aggira intorno a questo tema! Dal signore di Mirandola a
Nicol di Cusa a un medico ebreo i cui scritti erano custoditi
nella Scuola Talmudica di Otranto, Abraham Abulfia di
Barcellona, che sostenne la perfezione divina della lingua della
Bibbia.
Limmagine della Torre legata alla mia infanzia e ora, di
tanto in tanto, mi piace passare sul mosaico, nel nartece di San
Marco, per vederne unaltra immagine. Essa in tutto simile a
quella di Otranto e si tratta delle uniche due raffigurazioni che
io conosco nelle quali compaiono, appoggiate alla costruzione,
due scale secondo lantica tradizione ebraica. Altre immagini
mi sono passate di mano nei miei studi: lho vista
nellHaggadah dOro, nei mappamondi di Ebsdorf e di
Richard di Haldingham.
Babele, si dice, il simbolo della maledizione di settantadue
lingue! Pu anche essere. Ma la mia lunga esperienza di vita mi
ha fatto pensare pi volte che Babele potesse essere anche un
dono divino. Che il monito del Dio degli Ebrei fosse: capitevi!
Capitevi con fatica! Leggete luno sulla bocca dellaltro i suoni
diversi! Traete dalla diversit larmonia della natura e del divi-
no!
Quel tratto del mio carattere che a Csole veniva definito,
con una punta di biasimo, curiositas, nato sul mosaico della
Cattedrale, anche se i primi semi di questa sorta di inquietudi-
ne che ancora oggi mi porto dentro germogliarono nella mia
anima sulle banchine del porto mentre facevo compagnia a
mio nonno.
Con le spalle alla terra e gli occhi persi sullorizzonte il vec-
chio passava le ore a sorvegliare il vento, il mare e le navi. Da
+:
quando non navigava pi, scendeva al porto la mattina e ci re-
stava fino al calar del sole. Alla mezza mia madre gli mandava
il pane, lolio e il vino. Da impercettibili segni coglieva il ruo-
tare della tramontana e, ben prima che lo leggessi nei Carmina
di Orazio, imparai da lui che anche un forte Japigio comun-
que preferibile allAfrico. questultimo che, come avrei ap-
preso da Marciano, rende Adria funestior.
La sua vita laveva passata lottando e accarezzando quel
mare, prima pescatore e poi mercante. Nei suoi racconti veni-
vo trascinato tra ami, lenze, reti, nasse e arpioni e leggendarie
mangiate di trichos, il pesce seccato e salato che dava una sete
che solo il vino di Alezio poteva spegnere. Tempeste sempre
terribili e pesci sempre immensi delle pi svariate specie li avrei
riconosciuti in seguito nelle manie classificatorie di Aristotele e
Plinio Seniore e nelle fantasie poetiche di Oppiano, Ovidio e
Sallustio.
Al vecchio bastava un taglio di vela sullorizzonte per sape-
re se la nave era di Otranto o straniera.
Una volta chiesi a mio nonno chi eravamo noi.
Imesta grichi, siamo greci fu la sua risposta.
Una punta di delusione graffi la mia anima. Avrei voluto
una risposta che raccogliesse nel piccolo del nostro porto una
pi ampia porzione della vastit del mondo che da l passava.
++
V
A Csole linfinita fluidit delle parole incontrava gli argini
degli alfabeti.
Quei segni che mi si ordinava di copiare innumerevoli
volte mi ricordavano le impronte degli uccelli sulla sabbia
compatta, rasata dal vento, ma queste rimandavano a unim-
magine. Ora si riconosceva lorma del gabbiano, ora del co-
done, ora della beccaccia, cos come il segno che mia madre
faceva sullimpasto serviva a non imbrogliare i pani nel
forno, come il marchio sulla pecora che serve a qualcuno per
dire mia!
Ora tutto cambiava e scoprivo che un legame inscindibile
serrava ai segni i suoni. Ci che al porto era gioco, a Csole di-
ventava regola inflessibile.
Cera qualcosa nella mia natura che inquietava i monaci ma
in seguito avrebbe inquietato anche me e ancora oggi non cessa
di farmi interrogare su me stesso.
Avevo una disposizione allo studio totale. Nella lettura e
nellesercizio dimenticavo me stesso e il mondo. Era come se
desiderassi identificare il mondo nella scrittura.
Il mio primo grammatists ne rimase impressionato. Non
dovette faticare molto a insegnarmi gli alfabeti greco e latino e
in breve leggevo ad alta voce con il giusto tono e mostrando di
comprendere, tanto che passai rapidamente sotto le cure di un
grammatiks, un vero maestro che mi inizi alla lettura dei
poeti e degli storici. Omero non ebbe segreti per me. Venni ad-
destrato allesegsi e alla critica: con facilit spiegavo il signifi-
cato di un testo e ne indicavo la lezione morale da trarne.
Furono gli anni del quadrivium: aritmetica, geometria, astro-
nomia e teoria musicale che si sommavano allo studio delle lin-
+
gue. Soprattutto queste apprendevo velocemente. La mia me-
moria era una cavalletta insaziabile.
Assaliva i campi latini, greci, arabi, con una voracit violen-
ta che lungi dal placarmi rendeva altri appetiti.
Ben presto travalicai i miei doveri. Mi incuriosii al turco, al
siriaco, al copto, allo slavo ecclesiastico che mi veniva facile per
la sua somiglianza alla lingua di mia madre che era venuta dal-
laltra parte del Canale, allarmeno, al georgiano. Quanto alla
mia propria lingua, il greco, mi divertiva cogliere le distanze tra
la scrittura epica di Omero e di Esiodo e lattico letterario e tra
questi e il greco del Nuovo Testamento e via via fino alle paro-
le di tutti i giorni che, puresse ricche di differenti sfumature,
scorrevano tra Otranto e Bisanzio.
Delle mie singolari capacit di apprendimento giunse noti-
zia anche nella casa dei miei genitori. Erano orgogliosi di me e
mia madre, in uno dei nostri rari incontri, mi raccont che per
svezzarmi aveva adoperato, come si usava nella nostra terra,
una mistura di acqua e carbone dal sapore disgustoso che le an-
neriva i capezzoli. Una sorta di inchiostro. Era quindi pi che
naturale che mi nutrissi di inchiostro e delle parole con esso
tracciate.
Capitalis Quadrata Littera Uncialis Textualis
Prescissa Lettre Bourguignonne Attento, Marco, in ultimo
guarda! Lei, la pi raffinata e precisa delle scritture: la Lettera
Nera!
Timoteo, il Maestro delle Scritture del monastero, deposi-
tava le pergamene con i modelli delle lettere sul tavolo come
fossero reliquie.
I miei occhi si sgranavano su quei segni. Ero certo allora, e
in parte lo credo ancora adesso, che in essi fosse racchiuso un
sortilegio.
Intanto per le mie giovani mani quel sortilegio signific co-
piare fino a quando le dita e il polso non erano gonfi e dolo-
ranti. Infinite volte bisognava tracciare ogni ductus, ogni tratto
di penna che componeva la lettera, nella direzione e nellordi-
ne stabiliti. Era facile sbagliare. Bastava uninclinazione errata
+s
del calamo o della penna. Un momento di distrazione e si per-
deva la proporzione tra la larghezza del tratto e laltezza della
lettera. Un tremore della mano e le attaccature diventavano tre-
molanti, le grazie incerte.
Non era infrequente che il sottile ramo di ciliegio che
Timoteo usava per indicare i caratteri si abbattesse con violen-
za sul tavolo del malcapitato allievo e, qualche volta, sulla sua
schiena.
capitata anche a me quella bruciante umiliazione.
A Csole linsegnamento della scrittura era del tutto indi-
pendente dagli altri studi. Io ero tra i pochi prescelti a com-
pierli tutti, ma gran parte dei miei compagni non era in grado
di leggere ci che copiava e non ne sarebbe stata capace mai.
Non si deve pensare che questo rendesse meno precisa la scrit-
tura, anzi. pi facile lerrore per lo scriba che comprende ci
che copia che per lo scriba al quale il testo resta segno incono-
scibile. La mente di questultimo sgombra e i suoi occhi non
si perdono nei sogni ingannevoli della lettura ma restano fissi
sui tratti, sulla loro purezza di segni che a nullaltra immagine
rimandano.
Guarda questa pagina, Marco, appartiene a Ricardus
Franciscus, allievo di Jean Flamel, maestro di scrittura e biblio-
tecario delleccellentissimo Duca di Berry.
La pagina era perfetta e iniziava con una meravigliosa capi-
tale complessa.
Pensa che Ricardus non sa leggere. Tutta questa euritmia
per lui non ha n suono n significato.
Oggi, caro Manuzio, i tuoi torchi ne farebbero un derelitto
o un meccanico come il vecchio Johann Neudrffer che dise-
gna caratteri per i punzoni. Ma ci che per il vecchio Johann
pura meccanica io ho visto sulle pagine di Johannes von
Hagen, dove si dispiegava lestrema precisione delle lettere e li-
nesauribile fantasia di Mastro Drer.
Csole, nelle sue fitte corrispondenze, raccoglieva esempi di
scrittura da tutto il mondo. Jean Froissart ci inviava le pagine
di prova delle sue Chroniques.
+o
Ammirai una bozza della descrizione del torneo di
SantIngleuerch che Mastro Jean aveva preparato per il
Romanzo dei Cavalieri della Tavola Rotonda.
David Aubert aveva spedito a Csole alcune pagine della sua
Vita Christi per il Duca di Borgogna, ma Timoteo custodiva
nel suo archivio pagine di Nicholas Lowe che erano state scrit-
te quando neppure ero nato ma dovevo lo stesso meditare e fa-
ticare sui risvolti discendenti di quel pazzo di calligrafo inglese.
Pi andava avanti la mia formazione di scriba e pi Timoteo
mi riportava indietro nel tempo. Mi impose lo studio di lette-
re sine pedibus, con le basi squadrate. Fui costretto per settima-
ne a copiare degli esempi di scrittura che venivano la luoghi re-
motissimi.
Windmill, Marco, Windmill, sono passati due secoli, ep-
pure guarda queste teste a diamante!
Ero affascinato da quel Salterio, cos come mi lustravo gli
occhi su quelle meraviglie che erano comunque pagine di scar-
to. Da Ormesby venivano i fogli di un altro Salterio e altri an-
cora da Luttrell. Remoti monasteri dellAnglia Orientale.
Ma fu sulla Textura Quadrata che mastro Timoteo mi co-
strinse a esercizi feroci. Quella che lui chiamava Lettera Nera e
per la quale mostrava unassoluta predilezione era una scrittura
ormai passata di moda. Senza curve e con i tratti tutti dello
stesso spessore aveva pochissime grazie: un filetto superiore a
chiudere la c, le ascendenti spaccate e i piedi a diamante.
Attenzione, Marco, raccomandava sempre Timoteo
tra lettera e lettera solo la larghezza di un tratto e tra parola e
parola solo due volte la larghezza della punta del calamo!
Copiare e sudare.
Incipit Liber Exodus Avanti, ragazzo, puoi fare ancora
meglio!
A grandi lettere rosse si apriva una Bibbia che un pellegrino
proveniente da Grandval aveva consentito che si copiasse.
Haec sunt nomina Attento a quellH!
La lettera capitale finemente decorata invitava alla lettura.
Coraggio, Marco, stamattina cominciamo con lonciale!
+
La copia di alcune pagine del Salterio di Vespasiano mi con-
sent di appropriarmi dellUncialis.
Alfabeti di Northumbria e dIrlanda mi incantavano. Molti
secoli prima della nascita di Csole i seguaci di Agostino a
Wearmouth, Jarrow, Lindisfarne e Kells avevano fondato gran-
di monasteri ciascuno con il suo scriptorium.
A tutta una primavera dedicata allapprendimento delle ca-
pitali gotiche segu unestate per imparare a vergare i tratti com-
posti delle versali. In autunno Timoteo mi inizi alle abbrevia-
zioni. Cos IN NOMINE DOMINI NOSTRI JESUS CHRI-
STI. INCIPIT LIBER SACRA MATRIS diventava IN NM
DNI NRI IHU CS. INCPT LIB SACRAMTR
Non affatto difficile, Marco spiegava Timoteo.
Abbreviare come recitare in fretta. Brutta abitudine smozzi-
care i Salmi, ma se lo facciamo per la scrittura
Un santo abate cistercense di passaggio a Csole, in viaggio
verso la Terra Santa, ci fece dono di un suo libretto, il Myroure
of Oure Lady, scritto per le monache del convento di una lon-
tana citt chiamata Syon. Egli raccontava che il Maligno aveva
incaricato un suo diavolo, a nome Titivillus, di raccogliere tutte
le lettere saltate nelle preghiere e pretendeva la consegna di
mille sporte al giorno.
Timoteo, ma cosa poteva farsene mai il Maligno delle let-
tere saltate?
Questo non lo so, Marco, labate non laveva scritto. Io
credo che tutte quelle lettere servissero al Maligno per ingan-
nare i copisti, per disseminarle davanti agli occhi degli scribi e
confonderli.
Cos a Csole appresi i primi rudimenti della Littera
Antiqua che tuttoggi usiamo e che simile alle lettere mecca-
niche dei nostri torchi.
+
VI
A turno, quanti di noi erano destinati a diventare monaci
dovevano aiutare il Signore delle Greggi a pascolare le pecore.
Lo studio mi aveva stimolato la nostalgia per Mauro, per i suoi
tratti rudi e affettuosi. Ora pensavo che ci che mi aveva indi-
gnato nei primi giorni di noviziato sarebbe stata una pausa di
libert. Chiesi e ottenni di tornare per un turno a dormire nelle
grotte, ai lunghi itinerari con le pecore, allodore dello stallati-
co e dellerba.
Allo stazzo cera una novit. In verit non ero certo che fosse
tale, poteva anche essere che il sonno duro di bambino non mi
avesse, al tempo, fatto notare larrivo di una donna poco dopo
il tramonto. Ora mi accorgevo del suo giungere alla casupola di
Mauro ma la mia gi poca curiosit per la faccenda ben presto
veniva vinta dal sonno. Il fatto che al mattino non la vedessi
pi mi faceva persino pensare a un sogno, a una visione di
quelle tanto frequenti sulle serre al calare delle tenebre. Una
notte, ben prima dellalba, Mauro venne come di consueto a
svegliarmi. Intontito dal sonno, non ebbi testa per stupirmi del
suo invito a restare a dormire ancora, che ci saremmo visti poi,
pi tardi, ai pascoli di Uggiano. E il sonno mi riprese al volta-
re della testa.
Era lalba quando mi svegliai di soprassalto. Qualcosa mi
toccava ed ero gi pronto a scalciare uno dei cani o un agnello
quando mi resi conto che a scompigliarmi i capelli erano le dita
di una mano. Nella luce azzurrina riconobbi la donna miste-
riosa. La tunica slacciata lasciava intravedere i grandi seni. Il
suo corpo scuro era disteso accanto a me. Lo spavento si stem-
per rapidamente nel piacere di quella carezza che continuava.
Sentivo come unagitazione, limminenza di qualcosa che do-
+,
veva accadere e che si concentrava sul mio pene che si induri-
va. Tra quel corpo nudo e quanto mi accadeva doveva esserci
un legame ineludibile. Altre volte mi era capitata quelleccita-
zione e anche qualche polluzione spontanea che mi aveva la-
sciato confuso, ma questa volta intuivo che nascosta nel fondo
di quel triangolo scuro che la donna aveva tra le gambe doveva
esserci qualcosa di straordinariamente eccitante. Ora era diste-
sa e le sue gambe erano aperte. Nei suoi occhi si leggeva un sor-
riso che le labbra e i denti bianchissimi confermavano. Mi at-
trasse dolcemente, poi sentii la sua mano guidare il mio sesso
ma gi senza che lo potessi fermare un movimento si era im-
padronito dei miei reni. Mi spingevo in quel rifugio caldo e
umido con scatti furiosi e allimprovviso lo inondai. Restai cos
inerte, con il volto immerso nel suo collo che profumava di
erba prima di scivolare al suo fianco.
Oh s, s! C un giovane puledro al quale insegnare le an-
dature! A sgroppare sono buoni tutti!
Ancora oggi non dimentico lespressione ridente del suo
viso, un misto di grazia materna e malizia beffarda. Ero confu-
so e ancor pi confuso quando la sua mano riprese ad accarez-
zarmi.
Oh s, s! Un giovane puledro da domare: passo, trotto,
galoppo!
Gi non capivo quella faccenda del puledro e i miei pensie-
ri svanirono del tutto quando al tocco della sua mano il mio
pene torn a inturgidirsi. Ora ero io a essere supino e lei, ingi-
nocchiata tra le mie gambe, mi stringeva con una mano i testi-
coli mentre con laltra serrava la radice del mio sesso. Ancora
una volta fui preso da quella sorta di furia dei reni ma lei era
forte e mi teneva con le natiche inchiodate al pagliericcio.
Cercavo di muovermi, desideravo sopra ogni altra cosa tornare
dentro di lei ma invano. Ero immobilizzato e una stretta appe-
na pi forte mi indusse a rinunciare.
Come ti chiami, giovane puledro?
Marco, signora, Marco, Marco! Oh vi prego! Vi prego!
Ho capito, Marco, ma di cosa mi preghi?
c
La mia risposta non fu altro che un gemito. Il volto riden-
te, quei grandi seni e la vagina che sfiorava il pene mi davano
un tremito che non si placava. Mi tenne ancora per un po im-
mobilizzato. Poi lentamente abbass il capo. Una grande ca-
scata di riccioli neri mi imped di vedere la sua bocca aprirsi su
di me, ma sentivo la sua lingua guizzare e le sue labbra e il
morso leggero dei suoi denti, poi pochi colpi della sua mano e
venni ancora. La sentivo ingoiare il mio umore, lentamente,
raccoglierlo con la lingua e ingoiarlo ritmicamente come se
neppure una goccia dovesse andare perduta.
Quando si lev, riavviandosi i capelli, una lama di sole che
filtrava dalla tenda le illumin il volto.
Mio Dio, Mauro al pascolo di Uggiano con
Stai buono l, Marco, lasciamo Mauro alle sue pecore. Tu
sei destinato alla vita monacale e quindi alla castit, ma essa
non un bene in s. Tu devi prima, secondo il nostro costume,
dimostrare la tua capacit. A nulla vale il rinunciare a ci che
non si conosce e quindi non si desidera. Ancor meno di nulla
vale rinunciare a ci di cui non si in grado di godere piena-
mente.
Forse fu lo sgomento che lesse nei miei occhi a farla adagia-
re su di me. Le nostre labbra si unirono e quando timidamen-
te la mia lingua si intrecci alla sua avvertii un sapore che non
so descrivere. Il suo corpo non pesava sul mio. Come se nelle
nostre anatomie ci fosse qualcosa di complementare e i nostri
corpi fossero fatti per gravare luno sullaltro senza danno. I
miei occhi si chiusero sotto londa dei suoi capelli e forse dor-
mii qualche attimo o pi, non posso dirlo. Certo a destarmi fu
il desiderio. Ormai la luce era alta e contemplavo quel corpo
bruno, i grandi capezzoli, i fianchi, la curva delle natiche, le
gambe. Il desiderio mi prendeva a ondate e le mie mani velo-
cemente scorrevano dai suoi seni al suo ventre e le cingevo la
vita e le natiche e senza accorgermene le affondavo tra le sue
gambe dove quel pelo lucido nascondeva una fessura morbida
e bagnata e pi oltre, tra i glutei, dove il bocciolo di unaltra ca-
vit del suo corpo accrebbe ancora la mia eccitazione. Lei mi
:
lasci fare come abbandonata, ma quando presi a baciarla sulla
bocca, sul corpo, sui seni ed ebbi lardire di scendere con le mie
labbra fino alla sua vagina cominci a gemere dolcemente. Ora
anche i suoi fianchi avevano come dei sussulti e le nostre mani
e le nostre bocche cercavano gli angoli pi riposti dei corpi. Il
suo volto non era pi sorridente ma come assorto, gli occhi
chiusi e il respiro leggermente affannato. Rotolavamo sul pa-
gliericcio e quando fu sotto di me cercai di entrare dentro di lei
ma fu pi svelta, rotolammo ancora e mi ritrovai sotto di lei.
Oh no, no! Giovane puledro Marco, oh no, no!
Aveva riaperto gli occhi e dritta a cavallo dei miei fianchi
aveva ripreso a sorridere. Mi prese londa della paura che tutto
fosse finito, che il mio desiderio dovesse restare spezzato, ma
poi il suo volto si fece serio. Si sollev appena perch il mio
pene affondasse ancora dentro di lei mentre le sue mani piom-
bavano pesantemente sul mio petto mozzandomi il respiro. Il
suo peso impediva ai miei fianchi di muoversi. Ora erano le sue
mani a governare il mio respiro perch il ritmo fosse uguale al
suo. Prese a muoversi molto lentamente ruotando i fianchi.
Ogni respiro una rotazione. Le sue mani scivolarono sui miei
fianchi guidandoli in una lenta rotazione inversa alla sua.
Quando dal movimento rotatorio prese a sollevarsi lievemente
per ripiombare su di me annu al mio movimento che le veni-
va incontro e chiuse gli occhi. Il suo volto si fece assente, per-
duto, ma il suo ventre premeva con sempre maggiore forza sul
mio, inarcato verso di lei.
I nostri respiri erano identici e identicamente si andavano
facendo pi veloci, i loro sibili sfociavano negli stessi gemiti.
Poi emise un grido e per il mio corpo fu come un segnale e, an-
cora una volta, venni dentro di lei. Restammo cos mentre len-
tamente mi ritraevo da lei. Ora era il suo volto a essere affon-
dato nellincavo della mia spalla.
Oh s, s! domato il puledrino! Oh s, s! Passo, trotto,
galoppo! Impari presto, Marco, Mauro dice che sei il miglior
discepolo dellabbazia e, per quello che mi riguarda, non posso
che confermarlo. Oh s, s! Allabbazia per tra chi insegna e chi
:
impara ci sono solo i testi, le scritture e queste tanto pi valgo-
no quanto da pi tempo sono morti i loro autori. Io invece
credo che imparare significa partire dallesperienza di qualcuno
vivente. Non vero, Marco?
S, signora, voi voi voi mi avete insegnato la cosa
la cosa pi bella, la cosa che io che io non credo non
posso No! Non potr mai pi tornare al monastero
La sua mano vol a chiudere la mia bocca, ma quel gesto
imperioso si stemper in una carezza.
Taci, Marco, non sai quello che dici.
Ora le mie mani dai suoi fianchi scivolarono verso la fendi-
tura tra le natiche. Con le dita saggiavo la cedevolezza di quel-
lapertura.
Impari presto, Marco, molto presto
La sua voce era leggermente affannata. Il sole era a picco ma
non mi importava pi di Mauro, delle pecore, del monastero.
Sentivo le sue unghie sulle mie spalle, i suoi fianchi contrarsi
ritmicamente. Ora erano le nostre lingue a esplorare i corpi.
Sembrava che sapessimo perfettamente come darci reciproca-
mente piacere. Quando strinse il mio pene tra i suoi seni mi
sembr di vaneggiare ma quando la mia lingua si fece strada tra
le sue gambe lei inizi un lungo lento lamento che si concluse
in un urlo. Ormai non sorrideva pi. Nel suo sguardo cera una
luce di sfida, ma io non avevo pi paura.
Marco, da domani, una volta tornato in abbazia, ripren-
derai la tua thanatou melt, la tua preparazione alla morte,
come Socrate definisce la filosofia, ma il ricordo di me ti per-
seguiter nello scriptorium, nelle aule, nel refettorio e neppure
prostrato davanti alliconostasi con la schiena spezzata dalle
metane troverai la pace.
Aveva parlato con furia e con furia la vidi aggirarsi per la ca-
panna. Mi spinse a sedere sul basso sgabello della mungitura.
In quella posizione mi sembrava di penetrare dentro di lei oltre
ogni limite. Le sue braccia erano serrate intorno al mio collo e
anche le sue gambe si strinsero ai miei reni. Non facevamo
alcun movimento, solo sentivo il suo ventre contrarsi. Rimase
+
cos come a cullarsi ma non riuscivo a compiere alcun movi-
mento che potesse farmi unire al suo piacere. Quando si alz
di scatto aveva ritrovato il sorriso indefinibile degli inizi.
Oh s, s! Oh s, s! Cosa fai con quel bel cetriolo lucido?
Si stava beffando di me che impazzivo di desiderio. Tentai
di afferrarla ma si sottrasse. Era agile e in una lotta non ero af-
fatto certo di avere la meglio. Volevo prenderla ancora. Volevo
venire dentro di lei, volevo che lei mi prendesse conservando il
seme nel suo corpo. Corse fuori dalla capanna e la inseguii. Il
mio timore che qualcuno potesse vederci svan nel deserto della
controra. La vidi entrare nel casolare dello stazzo. La seguii
senza correre. La trovai distesa sulla paglia. I nostri respiri e i
nostri fianchi si accordarono pi di quanto noi stessi volessimo
farlo.
Giacevamo esausti, io ancora dentro di lei, con la testa af-
fondata tra i suoi riccioli quando la sentii mormorare:
Anche il ricordo di te mi perseguiter, Marco, ma la mia
unaltra storia.
Signora, quando potr rivedervi? Sempre che voi lo desi-
deriate io io non conosco neppure il vostro nome
Alberada, il mio nome Alberada, non hai mai sentito
questo nome?
Certo, signora, un nome dei tempi antichi, dei tempi del
Normanno.
Ma che bravo! Oh s, s, che bravo! Conosci la storia,
Marco, ma ti manca la leggenda e luna senza laltra come il
pane senza il sale. Sono Alberada, figlia di Alberada, nipote di
unAlberada, figlia a sua volta di unaltra Alberada.
Non capivo questa lunga stirpe di donne tutte con lo stesso
nome e se ne accorse dal mio sguardo perplesso.
Era il tempo di Boemondo, e il Principe veniva su queste
serre a cacciare e a trovare i suoi amici monaci che vivevano
nelle laure, a mangiare lagnello col monaco Giuseppe che di-
venne poi il fondatore dellabbazia. Fu cos che conobbe una
fanciulla di masseria nota a tutti per la sua straordinaria bellez-
za. Se ne innamor e la ragazza, che prese a sognare gli occhi
VII
A Csole arrivavano di continuo messaggeri, gente di pas-
saggio, ora pellegrini per la Terra Santa, ora capitani di mare,
ora diplomatici in viaggio da e per lOriente, ma nulla turbava
la nostra quiete. Grande fu quindi lo stupore tra noi studenti
quando, poco dopo larrivo di un uomo a cavallo, un grande
trambusto prese i monaci. Il monastero venne ripulito da cima
a fondo, si imbiancavano i muri, si lustravano le chianche, la
chiesa venne ridipinta e persino liconostasi ritoccata e i colori
sulle sacre immagini ripassati, ma era nello scriptorium che il la-
voro non conosceva pi soste. I monaci copiavano a turno
senza interruzione. Una mattina eravamo al termine del desi-
nare quando lIgumeno ci ingiunse di restare ai nostri posti.
Un grande evento si prepara per Csole. Abbiamo avuto
lannuncio della visita di Sua Eminenza Reverendissima il
Cardinale Bessarione. Egli sar qui tra non molto e tutti noi gli
dobbiamo unaccoglienza allaltezza della sua ma anche della
nostra fama. Il Cardinale il pi dotto dei dotti e ci onora della
sua visita non solo per ritirare le copie dei manoscritti che ha
ordinato ma anche per valutare la qualit dei nostri insegna-
menti e quindi dei vostri studi. Non abbiamo alcun timore ma
volevo avvertirvi che tutti sarete interrogati alla sua presenza e
sono pi che certo che darete ottima prova della vostra dottri-
na e della vostra fede. Ora potete andare.
Stavo per uscire con i miei compagni quando fu lo stesso
Igumeno a richiamarmi. Attese che gli altri studenti lasciassero
il refettorio.
Marco de Marco, so di non lusingare il tuo orgoglio se ri-
conosco che sei il migliore tra gli allievi di Csole. Come tale
sarai presentato al Bessarione e dovrai dare prova della tua di-
,
mestichezza con il greco e il latino e, se richiesto, con le altre
lingue che ti sono note, ma non basta. Sappiamo dai tuoi mae-
stri delle tue letture e della tua acutezza nella storia, nella filo-
sofia, nella teologia, della passione con la quale ti sei applicato
allo studio per lunit delle Chiese Sorelle di Roma e
Costantinopoli. Si tratta di un tema molto caro a Bessarione.
Se si dovesse dare loccasione dovrai sostenere anche una con-
versazione con il Cardinale. Ci non viene richiesto ai tuoi
compagni ma il tuo un caso differente. Csole conta molto
su di te.
Non potevo fare altro che annuire. Le parole di Filoteo la-
sciavano nel mio cuore una tenzone tra lorgoglio e il turba-
mento. E fu con questanimo che venni presentato a Bessarione
e al suo seguito il giorno dellarrivo a Otranto.
Il cardinale era anziano, lampia veste ne rendeva imponen-
te la figura, il cappuccio, sovrastato dal cappello cardinalizio,
incorniciava un volto dai tratti marcati e dal naso carnoso.
Allingresso del monastero la pittura di mastro Basilio era
ancora fresca. In un grande stemma, sormontato dalle insegne
cardinalizie, due mani reggevano la stessa Croce di Cristo.
Nella chiesa si tenne funzione solenne e tutti cantammo il
Triodio.
Bessarione ricevette lomaggio dei maggiorenti di Otranto e
si rivolse loro in latino, poi volle che solo noi di Csole ci ri-
unissimo e parl in greco.
Fratelli dilettissimi, porto a tutti voi la benedizione del
Santo Papa Paolo II che ha sempre nel cuore la Chiesa di
Otranto e il venerabilissimo monastero di San Nicola di
Csole. Non trascorso un anno dalla grande gioia per la visi-
ta a Roma del valoroso difensore della fede, Giorgio Castriota
Scanderbeg, che il lutto per la sua morte prematura si aggiun-
ge alla preoccupazione per la perdita di colui che fu argine alle
brame di Maometto II. A voi che avete avuto la bont di rap-
presentare il mio stemma sulle vostre mura non debbo ricor-
dare che solo la mano greca e quella latina insieme potranno
sostenere la Croce di Cristo contro il Gran Turco. Io non sono
sc
uomo darme, piuttosto di preghiera e di qualche diplomazia e
sono sceso fin quaggi perch so quanto vi siete adoperati e vi
adoperate per la causa comune in questa terra esposta a ogni
pericolo. Ci che a Roma pu essere uno scacco diplomatico e
pur anche militare qui pu rappresentare la perdita della fede e
della vita. Sono qui per apprendere non solo dalla forza della
vostra fede ma anche e soprattutto dalla vostra sagacia e dalla
vostra saggezza. Per tutta la vita ho lavorato alla ricomposizio-
ne di ogni discordia tra Roma e Bisanzio e finora ho fallito, ma
ci che la mia volont non stata in grado di produrre potreb-
be Maometto II col timore che sta incutendo a tutta la cristia-
nit. Solo una nuova azione militare, mondata delle nequizie
che nel passato si sono compiute anche nel nome di Cristo,
pu liberare la Terra Santa ma anche la non meno santa per noi
terra di Costantinopoli. Chiunque di voi chieder udienza lo
ascolter, perch non una parola vada perduta.
Ero stupito. Cosa mai poteva dire o fare Csole, la nostra re-
mota abbazia, nel grande turbine che stava scuotendo il
mondo? Non avevo una risposta e quindi tornai a ripassare il
testo che avevo preparato per recitarlo alla presenza del
Cardinale. Avevo tradotto in greco lorazione De
Costantinopolitana clade et bello contra Turcos di Pio II e, dopo
aver ascoltato il discorso di Bessarione, benedicevo lacume del
bibliofilace che mi aveva suggerito la scelta.
Oh nobile Grecia, dunque giunta ormai la tua fine, la
tua morte? Quante citt un tempo famose e potenti sono estin-
te. Dove sono oggi Tebe, Atene, Micene, Larissa, Lacedemone,
Corinto, e le rocche memorabili di cui non esistono pi, non
dico i muri, ma perfino le rovine?
Avevo recitato lorazione tutta dun fiato per lemozione, fis-
sando il muro oltre le teste dei presenti e fui colto di sorpresa
alla fine dallabbraccio del cardinale. Bessarione mi stringeva
tra le braccia e le sue lacrime bagnavano il mio volto.
Me lero cavata e avevo fatto fare una bella figura al mona-
s:
stero e ai miei maestri. Mi tocc persino una pacca sulla spalla
dallIgumeno e questo mi sembr un premio ben pi grande
delle lacrime di Bessarione. Ero tornato nello scriptoriumquan-
do Niccol Perotti, segretario del Cardinale, venne a chiamar-
mi. Il cardinale Bessarione voleva vedermi.
Ottimo greco, Marco de Marco, veramente ottimo. Ma
non il tuo greco che ha strappato le lacrime dagli occhi di
questo vecchio prete. Tu mi hai ricordato la sapienza di un altro
giovinetto che mi fu oltremodo caro e che la peste sottrasse al-
ladorazione del padre e al mio incommensurabile affetto.
Quanti anni hai, Marco?
Diciotto, Cardinale.
Diciotto! La sua stessa et. La stessa et del mio
Buonconte, del giovane da Montefeltro, che Dio abbia piet
della sua anima! Filoteo mi ha detto della tua disposizione per
lo studio, per lapprendimento delle lingue ma mi si dice che
anche la teologia, la storia, la filosofia ti sono familiari. Bene!
Abbiamo bisogno di giovani come te. Il tuo corso di studi
ormai volge al termine e ho suggerito allIgumeno di farti im-
pratichire nellebraico presso la Schola Talmudica di Otranto
prima di affidarti lincarico di riordinare larchivio del conven-
to che so essere preda del disordine per la malattia del vecchio
Demetrio. un incarico che richiede grande riservatezza e del
quale risponderai direttamente a Filoteo, ma Niccol sar in
contatto con te. Dobbiamo ricostruire la memoria di tutti noi
greci sparsi ai quattro angoli del mondo perch se non ci ri-
uscir di far rivivere Bisanzio si abbia ricordo almeno della no-
stra diaspora.
Bessarione part con il suo seguito ma la spedizione si arric-
ch di trenta muli, ciascuno dei quali recava sul basto due casse
di libri. Non credo che tutto fosse stato copiato e quello per cui
non si era fatto in tempo part nella copia originale. Allora non
sapevo che avrei ritrovato qui a Venezia quello che vedevo al-
lontanarsi lungo la valle dellIdro, tra gli ulivi e le prime case di
Otranto.
s:
VIII
Marco, potrai usare una cavalcatura per i tuoi spostamenti.
Le parole dellIgumeno mi lasciarono stupito. Certo la visi-
ta del Bessarione aveva scombussolato i nostri ritmi di vita e io,
in particolare, ne ero rimasto molto impressionato. Adesso non
capivo perch ero autorizzato a contravvenire al nostro canone
che solo in rarissime occasioni consentiva spostamenti con
mezzi diversi dalle nostre gambe.
Dovrai raggiungere quotidianamente la Schola
Talmudica. A piedi perderesti molto tempo. In verit mi limi-
to ad adempiere agli ordini del Cardinale. Personalmente avrei
pi di una perplessit a esporti, cos giovane, alla conoscenza di
una lingua che apre le porte verso saperi tanto lontani dalla no-
stra fede. Il nostro imperatore Giustiniano escluse dallinsegna-
mento in Bisanzio i giudei. Tuttavia Bessarione ha ragione
quando dice che nella diaspora ebraica circolano conoscenze
che non possiamo ignorare. Ho dovuto addirittura trovare un
accordo con rabbi Mordechay per uno scambio. Csole per la
prima volta nella sua storia accoglier un ebreo tra i suoi stu-
denti. Cos sarete in due a mettere in pericolo la vostra fede.
Che Dio illumini le vostre anime!
La Judaica si stendeva nella parte bassa della citt, una zona
che conoscevo bene perch i giochi della mia infanzia non co-
noscevano barriere di sorta e tra i ragazzi non vi erano diffe-
renze. Il quartiere era affollato e pieno di magazzini ricchi delle
merci pi varie. Quelli che mi piacevano di pi erano i sottani
dove si depositavano le sete e i broccati. I loro colori sgargian-
ti illuminavano loscurit di quegli antri. Le bambine costrui-
vano bambole meravigliose con gli scampoli di sete orientali,
damaschi siriani e candidi cotoni del Monte Libano.
s+
Benvenuto, Marco de Marco, salute a te figlio di
Giovanni, lamico degli ebrei di Otranto, capitano di mare tra
i pi coraggiosi e mercante tra i pi abili!
Rabbi Mordechay mi accolse sulla porta del grande giardi-
no della Sinagoga Maggiore. Una fitta siepe di tamerici pro-
teggeva dal vento di mare le palme, i lauri e le viti che si ag-
grovigliavano sui pali della pergola in lotta con i glicini inva-
denti che in quella primavera mostravano tutto il loro rigoglio.
Il vecchio mi mostr le aule di studio che trovai in tutto simi-
li alle nostre, i locali per ospitare i forestieri e per il miqveh, il
bagno rituale. Quindi mi introdusse nella grande aula del
culto.
Questo, Marco, per noi il centro del tutto. Laron qodesh.
Qui sono contenuti i Rotoli della Legge.
Mordechay mi indicava cos un armadio finemente decora-
to che, mi spieg, era posto sulla parete orientale perch quel-
la era la direzione di Gerusalemme. Il luogo ispirava austerit e
raccoglimento, ma non cera nulla di paragonabile alle nostre
iconostasi. Solo un pulpito, che il Rabbi chiam tevah, era de-
stinato alla proclamazione della Legge.
Sul pavimento un grande mosaico rappresentava al centro
un candelabro a sette braccia e sui lati, da una parte, un cedro
e un ramo di palma e dallaltro un corno dariete. La severa
semplicit di quel mosaico mi fece una buona impressione a
fronte dellaffollato mosaico della Cattedrale.
Ti troverai a tuo agio con noi, Marco, la nostra antica cul-
tura ha pi dun punto di contatto con la tua. Uno dei nostri
grandi maestri, Donnolo Shabbetai da Oria, ben cinque secoli
fa, cominci lo studio del mondo greco e ne approfond, nel
suo Sefer Hachmoni, il Libro Del Sapiente, lastrologia, la filo-
sofia, la medicina. Soprattutto questultima materia fu per
Donnolo fonte di diletto ed egli riprese le dottrine di Galeno,
la teoria degli umori e della simpatia cosmica nel suo Sefer
Mirqahot che voi chiamate Libro Delle Misture. Donnolo ap-
prese la sapienza greca proprio qui a Otranto e ancora a
Rossano che, ben prima di Csole, fu luogo di studi profondi.
s
Ma non sempre i rapporti tra greci ed ebrei furono buoni. Al
tempo dellImperatore di Bisanzio, Romano Lecapeno, i tuoi
fecero strage della nostra gente e uccisero persino il tesoriere e
circoncisore della nostra comunit del quale indegnamente
porto il nome.
Cos ancora una volta imparai un alfabeto. Allinizio degli
studi mi era facile immaginare che a Otranto le lettere greche
arrivassero da oriente seguendo dallalba il corso del sole e quel-
le latine si allontanassero verso il tramonto. Poi ho dovuto im-
parare che la fatale maledizione di Babele aveva rinchiuso ogni
lingua in una terra. Ora, mentre imparavo a tracciare laleph, il
taw, il samek, intuivo che quella lingua non veniva n
dallOriente n dallOccidente, non aveva una terra. Essa era
quanto di pi vicino al divino avessi mai studiato.
In verit mi sentivo un po ridicolo. Avevo pi di diciotto
anni e i miei compagni non superavano i cinque o i sei. Per loro
ho visto compiere un rito meraviglioso. Cerano tante tavolet-
te sulle quali erano trascritte le lettere dellalfabeto che veniva-
no cosparse di miele e i miei piccoli compagni le leccavano.
Che nel sapere potesse esserci dolcezza lo appresi nella
Sinagoga di Otranto. Ma non fu lunica sorpresa.
Leggendo i versetti della Bibbia, con mio grande stupore,
imparai a respirare. Ciascuno andava detto con un solo fiato e
ciascuno aveva un suo senso compiuto che andava colto.
Leggere e scrivere una lingua meno di nulla, Marco!
Le parole di rabbi Mordechay si abbatterono sulla mia fron-
te nella quale la durezza dello studio dellebraico aveva traccia-
to pi di un solco.
Ora, mio giovane allievo, ti sembra che il discernere segni
e suoni e lencomiabile maestria con la quale tracci quei segni
e articoli quei suoni siano un patrimonio sufficiente.
Rabbi, ma mi sono esercitato nelle letture secondo i vostri
ordini.
Nulla e ancora nulla, Marco, non c un termine ad quem,
un punto dove arrivare nel quale la conoscenza compiuta. Pi
ss
volte la nostra lingua inganna chi la studia. Essa ora sembra
darsi compiutamente al sapere ma un momento dopo il signi-
ficato delle parole si eclissa. Non hai altra possibilit che conti-
nuare a studiare, studiare sempre. Leggere e rileggere e le paro-
le ti sembreranno sempre uguali, ma diverso sar il loro senso.
Insegnarti a leggere lebraico. Questo era il piccolo incarico che
avevamo ricevuto da Csole e questo abbiamo fatto. Tutto il
resto dipende da te. La nostra casa, come il nostro cuore, resta
aperta, Marco. Torna quando vuoi.
Presi cos labitudine di tornare spesso alla Sinagoga
Maggiore. Mi ero legato damicizia a un giovane coetaneo.
Paolo era stato mio compagno di scorribande quando eravamo
piccoli. Il destino ci aveva divisi, io a Csole e lui alla Sinagoga
Maggiore. Cos le nostre strade tornavano a incrociarsi.
Io a studiare da rabbino e tu da monaco, Marco, bella fine
che abbiamo fatto! Ti ricordi quando pensavamo di andare per
mare e chiss quali viaggi avremmo intrapreso?
Gi, ma ci toccato viaggiare nelle parole, nelle pagine,
nei libri. Non detto che sia meno interessante.
Ma s! C chi gira il mondo e resta con la testa chiusa, noi
invece
La mia me lavete aperta, spaccata addirittura, Paolo. Qui
da voi si studia in maniera molto diversa che allabbazia.
Ti ho visto faticare, Marco, ma, vedi, per noi la Bibbia
non ha un senso generale. Quello che ci interessa sono i singo-
li versetti, non la loro somma.
Strana idea, Paolo, a Csole tutto funziona esattamente al
contrario. Di ogni opera conta il senso generale.
Allora sei fortunato a poter praticare questo duplice ap-
proccio allo studio. Ricorda che la Bibbia, per noi, ha settanta
facce. Vuol dire un numero di significati infinito.
Fortunato, s, fortunato
Quella fortuna mi costava grandi fatiche. Era tuttaltro che
facile seguire i maestri che improvvisavano anagrammi di pa-
role, spostamenti di lettere, calcoli numerologici e se una paro-
so
la si ripeteva non era mai per caso e ogni diverso contesto nel
quale si collocava serviva a illuminare il senso dei contesti pre-
cedenti.
Davar aher! Unaltra interpretazione!
Il comando del Rabbi piombava improvviso nella discussio-
ne che si era accesa sullinterpretazione di un testo quando
sembrava che si stesse per approfondirne il significato. Le voci
tacevano in una pausa che sedava il pensiero per un attimo ma
velocemente si ripartiva e la discussione riprendeva allinfinito.
I ventiquattro libri della Bibbia assunsero per me una forma
circolare. A Csole la lettura era solo una linea retta.
Nel Talmud mi sentivo perduto e mi chiedevo se fosse poi
cos importante restare attaccati alla propria fede e non fosse
meglio vivere da nomade tra le fedi e i saperi.
E allora, Marco, sempre pi difficile?
Troppe parole annebbiano, Paolo, questo linsegnamento
dellEcclesiaste.
Troppe parole, vero. Eppure noi ebrei ne abbiamo biso-
gno, Marco. Quando il Tempio di Gerusalemme venne di-
strutto dallempiet dei Romani non ci rest che costruire un
immenso edificio di parole e ciascuna parola un mattone, una
tegola, un cucchiaio di malta. Un Tempio immenso che pos-
siamo portare sempre con noi, nella memoria e nella speranza.
Una mattina destate decidemmo di tornare bambini e ci
avviammo al porto. Pensavamo di dimenticare Bibbie e letture
e studi ma non fu cos.
Il sole bruciava seccando il sale sulla pelle dopo il bagno.
Marco, che cosa ci divide?
Tutto e niente, Paolo, ci che le nostre gerarchie dividono
mi lascia indifferente. Piuttosto mi scervello sulla distanza tra
Abramo e Platone.
Abramo e Platone? Gerusalemme e Atene? Rivelazione e
filosofia?
s
Esatto! Fede contro lgos. Amore obbediente versus libero
pensiero.
Teologi versus filosofi, allora?
Esegsi contro sintesi! Facciamo ancora un bagno?
Nuotammo fino al calare del sole dietro le case di Otranto.
Di Paolo continuo ad avere notizie tramite i suoi dottissimi
libri. A Milano dirige un importante scriptorium e non c bi-
blioteca che abbia segreti per lui.
s
IX
Il mio primo incarico importante a Csole fu il riordino
dellarchivio. Alcuni armaria traboccavano di carte e pergame-
ne in un tremendo disordine. Relazioni, appunti, note, corri-
spondenze erano ammucchiate sulle scansie. Lordine cronolo-
gico era determinato solo dal fatto che, per secoli, i miei con-
fratelli si erano limitati a poggiare fogli e fasci di documenti gli
uni sugli altri in pile tanto alte quanto traballanti, puntellate le
une dalle altre e a ogni piccolo movimento cera il rischio di
crolli rovinosi che avrebbero mescolato fogli e senso, tempo e
parole. Tutta la storia del nostro convento era contenuta in
quelle stanze, poggiava su quelle assi di quercia.
In realt cera un archivista, ma tutti al monastero riteneva-
no che fosse malato. Demetrio era anziano, non partecipava ad
alcuna attivit comune, restando chiuso negli archivi dove
anche dormiva e consumava i frugali pasti che un famiglio gli
portava. Solo tra i confratelli pi vecchi cera qualcuno che ri-
cordava vagamente di aver sentito il suono della sua voce. Pi
duna volta avevo sentito sussurrare il nome di quella che si ri-
teneva fosse la causa del suo stato di prostrazione: bile nera.
Una forma di profonda melanconia che inchiodava
Demetrio, dallalba al tramonto, davanti a una finestra con lo
sguardo perduto sul mare. Poi si diceva che cadesse in un sonno
tanto profondo quanto agitato e che solo nel sonno pronun-
ciasse parole incomprensibili e i versi di quelle che sembravano
sconosciute apocalissi.
Cera di che essere intimiditi da quella presenza. Mi rin-
francava limpressione che quel mio preliminare aggirarmi per
larchivio non lo disturbasse, ma non dava neppure segno di
gradirlo. Di fatto non mi degnava di uno sguardo e, daltra
parte, non osavo rivolgergli la parola.
s,
Compresi rapidamente che i documenti partivano dalla
fondazione dellabbazia. Cominciai dallinizio, il naso e la
bocca coperti da bende di cotone per proteggermi dalla polve-
re che si sollevava dalle pergamene.
Intatta e ben stirata dalla pressione di una montagna di altri
documenti emerse la Donazione di Boemondo di Taranto, il
principe normanno alla generosit del quale si doveva la nasci-
ta della nostra abbazia. Nella narratio, in latino, del diploma
era scritto che Csole doveva seguire regulam beati Basilii e, ap-
presi successivamente da Demetrio quando cominci a rivol-
germi qualche parola, lo stesso Boemondo aveva voluto stabi-
lire la nostra costituzione sub certis archimandritis nostro inter-
veniente studio Grecorum more; mentre, nel testo greco, si spe-
cificava il rango autodespota del monastero.
Mi fu chiaro cos perch Boemondo e sua moglie Costanza
fossero sempre ricordati nelle nostre preghiere.
Rammento ancora: Per la morte dei servi di Dio e di eter-
na memoria Boemondo e Costanza e la loro beata memoria
Signore sii misericordioso.
Per la morte dei sempre memorabili servi di Dio, di re
Ruggiero il Grande e di re Guglielmo e della Regina Elvira e
del Duca Ruggiero, preghiamo Dio
Signore sii misericordioso.
Boemondo non aveva voluto essere da meno del cugino
Ruggiero che in Sicilia era molto popolare tra la gente di fede
greca. Oggi che con la memoria ritorno a quegli eventi capisco
il carattere politico di quella generosit. Noi greci eravamo
esposti a ogni vento: saraceni e predoni arabi scorrevano le
coste, bande longobarde e franche battevano le campagne e le-
terna discordia intestina del nostro impero rendeva tutto in-
certo tranne le sempre pi pesanti tassazioni. Nulla di strano
dunque se i nostri fratelli di Sicilia abbracciarono i normanni
come liberatori dal pesante giogo della mezzaluna. vero che i
cavalieri del nord recavano insegne papali, ma queste erano leg-
gere e fluttuanti. I nostri vescovi accettavano la giurisdizione
oc
romana che restava per distratta, incostante, perduta in altri
interessi e pi lontani giochi politici.
Le ambizioni di Boemondo erano grandi, ma lo spazio nei
dominii normanni era poco e contenderselo voleva dire intra-
prendere una guerra fratricida. Il principe guardava a oriente e
aver merito presso i greci di Otranto gli poteva tornare utile a
Costantinopoli.
Mi piaceva sfogliare quelle pagine, le pergamene irrigidite
dal tempo, la carta spugnosa che rischiava sempre di diventare
polvere a un tocco appena malaccorto. Il mio incarico era quel-
lo di rimettere ordine, non di leggere e studiare, eppure era dif-
ficile non farsi catturare dalle prime righe di una lettera, dalla
copia di una relazione inviata a Costantinopoli, da un docu-
mento che arrivava da molto, molto lontano: remoti conventi
in terra franca e germanica o dallEgitto, dalla Siria.
Pi procedevo nel lavoro e pi mi stupivo che gli scritti di
carattere propriamente religioso fossero unesigua minoranza
dellimmenso volume di materiale nel quale mi aggiravo.
Anche quando si trattavano temi di fede questi mi apparivano
sottoposti a considerazioni politiche e diplomatiche e militari.
Lo spazio maggiore era occupato da corrispondenza, da un
particolare tipo di corrispondenza che da ogni parte del
mondo era indirizzata agli igumeni. Si trattava di una specie
di rapporti, di racconti di situazioni. Vi erano descrizioni di
scenari, di citt e di paesi e di costumi civili e abitudini e di
come si esercitavano i poteri e accurate note su chi fosse po-
tente e chi no e per quali motivi. Unattenzione particolare era
dedicata alle discordie interne tra cittadini e tra maggiorenti e
tra esponenti di una stessa comunit religiosa e tra comunit
di fedi diverse. In alcuni casi si arrivava anche al pi basso pet-
tegolezzo. Pi duna volta mi sono stupito che negli archivi di
un luogo santo trovassero ricetto storie di alcova, di amori il-
leciti, di vizi inconfessabili, di perversioni immonde accanto a
notizie di ruberie e violazioni di patti, di accordi mercantili, di
intese finanziarie. Nessuna delle corrispondenze era firmata in
o:
chiaro. Poche lettere e numeri alternati chiudevano quei mes-
saggi pi o meno lunghi ma si capiva che a scrivere poteva es-
sere stato ora un mercante, ora un diplomatico, o un soldato,
un prete, un monaco. Tante calligrafie e molte tradivano, que-
sta la poca dimestichezza con la scrittura di un marinaio, quel-
la lapprossimativo vocabolario di un uomo darmi.
Moltissime erano le note vergate in calligrafia casolana che ri-
portavano relazioni fatte a voce agli igumeni. Anche per que-
ste la fonte era indicata con qualche lettera e qualche numero.
Cera poco da chiedere spiegazioni. Era chiaro che lidentit
dei corrispondenti di Csole era tenuta gelosamente nascosta
e forse solo i maggiorenti avevano la chiave per decifrare quel-
le sigle. Molto dopo avrei appreso che la consuetudine di ci-
frare le informazioni risaliva agli efori di Sparta che corrispon-
devano in codice con i generali della citt e da Svetonio avrei
imparato che Cesare criptava le proprie lettere di argomento
politico e militare. A Csole venne un giorno in cui ne fui
messo a parte si usava una variante del Quadrato di Polibio
con associazioni di lettere e numeri a coppie di coordinate che
ne identificavano la posizione. Scelta ovvia per Csole che, alla
pari del grande storico, si fidava soprattutto delle informazio-
ni dei testimoni oculari.
Una sera mi capit tra le mani un grosso fascicolo avvolto
in una larga striscia di cuoio. Mi apparve cos un ampio fron-
tespizio: Gesta Francorum et aliorum Hierosolymitanorum.
Nullaltro. Cercai anche nellultima pagina un colofone che mi
consentisse di risalire allautore. Niente. Solo lultima parola
dellultima frase terminava con una specie di svolazzo o di mac-
chia come di chi si addormentato allimprovviso sullultima
lettera. Era inquietante lanonimato di quelle centinaia di pa-
gine. Cominciai a leggere e continuai fino a quando il sonno
non mi vinse. Ancora oggi lettura e sogno si confondono nella
mia memoria e altre letture e i racconti dei miei confratelli ruo-
tano nei ricordi.
Avvenne tanto tempo fa, dopo il primo succursus che i ca-
valieri cruce signati portarono alla Terra Santa. Quando il no-
o:
stro benefattore Boemondo torn dalla prigionia dei seguaci di
Maometto. Lo accompagnava un uomo silenzioso e gentile.
Nessuno seppe mai il suo nome. Sembra che fosse originario
della Terra Franca. Il suo fisico e la sua anima erano molto pro-
vati, sul volto si leggeva una sofferenza di lunga data, come se
i suoi occhi avessero a lungo guardato cose delle quali non per
molto si pu reggere la vista. Si ferm qui a Csole e pass il
resto dei suoi giorni a scrivere. Una mattina lo trovarono morto
con il capo reclinato sulle pagine, con la penna in mano.
Ancora oggi non riesco a ricordare se Demetrio mi abbia
davvero parlato o se io non stia soltanto rammemorando il
sogno di una conversazione e lincubo delle sue parole.
Leggevo, classificavo cercando di distinguere in quel mate-
riale eterogeneo, ma avevo almeno il vantaggio che quasi nes-
sun testo era privo di data. Tuttavia il disordine era massimo.
Lettere che provenivano da Cluny si affastellavano tra docu-
menti che arrivavano da Costantinopoli, da Beirut, dal Sinai e
da mille altri luoghi. Mi imbattei in un fascio di diari di pelle-
grinaggio. Una santa mano li aveva raccolti in un solo scaffale
e ordinati almeno per data se non per provenienza. I testi in-
trecciavano racconti di viaggio tra la Francigena e la Lotaringia
e la Burdingalense, ma tutti convergevano su Otranto per lim-
barco verso la Terra Santa. Il pi antico era il manoscritto di
Nikulas di Munkatvera. Raccontava della sua partenza da
Tinghor nella lontanissima isola di Islanda nellAnno del
Signore 1154.
Su questo gravava un incartamento con la rilegatura corro-
sa dal tempo sulla quale erano ancora leggibili le insegne di un
re, Filippo Augusto. Fui vinto dalla curiosit e appresi del ri-
torno, nel 1191, di questo sovrano dalla Terra Santa, del suo
approdo a Corf e del suo sbarco apud civitatem archiepiscopa-
lem que dicitur Octrente feria 6, sexsto idus Octobris. Pi ordina-
to e meglio conservato era il diario di Matthaeus Paris. Sul
frontespizio si leggeva Iter de Londinio in Terram Sanctam. Era
stato compilato nel 1253 ed era solo un noioso elenco di tappe
per un lunghissimo itinerario. Lo scorsi velocemente fino
o+
allIntroitus Apuliae versus marchiam di Ancona. Nulla di inte-
ressante se non la descrizione di un singolare santuario sul
Monte Gargano dove una mirabile statua dellArcangelo
Michele collocata in una grotta profondissima, meta di una
moltitudine di pellegrini provenienti dalle pi remote contra-
de.
o
X
Occorrevano anni per accedere alla biblioteca e anni si im-
piegavano a percorrerla tutta. Non era solo il gran numero di
libri a richiedere una lunga fatica, ma la saggezza degli igume-
ni aveva stabilito la regola che un certo tipo di letture richie-
desse un certo grado di preparazione e di fortificazione nella
fede. Cos, mentre tutti avevano accesso alle prime grandi sale,
in minor numero si accedeva alle successive e in pochissimi alle
ultime. Vi era poi unultima sala la soglia della quale solo ligu-
meno e il suo segretario potevano varcare. Io ebbi questo privi-
legio. La diligenza con la quale avevo condotto il riordino del-
larchivio mi aveva confermato la fiducia di Filoteo ed egli mi
volle come suo segretario. Anche in questo forse seguendo
unindicazione del Bessarione. Sin dai primi giorni di lavoro in
archivio avevo notato intorno a me la discreta sorveglianza
degli anziani. Pi volte ebbi limpressione che essi origliassero
le mie conversazioni con gli altri monaci. Era evidente che si
saggiava la mia affidabilit e questa dipendeva essenzialmente
dal fatto che non facessi parola di quanto andavo apprendendo
nel mio lavoro. Non delusi la fiducia riposta in me e per quan-
to, alle volte, mi venissero rivolte maliziose interrogazioni non
caddi mai in alcuna trappola. Piuttosto sviavo la conversazio-
ne, simulavo di non aver compreso la domanda e se le richie-
ste si facevano pi pressanti e circostanziate mi stringevo nelle
spalle protestando di non aver mai visto alcun documento che
trattasse la tal questione. Fu cos che, grazie al mio incarico di
segretario, la biblioteca di Csole mi si dischiuse in tutta la sua
ricchezza.
La Prima Sala, aperta a tutti, conteneva Bibbie, i Quattro
Vangeli, una Vita Sancti Antonii, il venerabile eremita, per
os
mano di Atanasio, gli scritti di Paolo di Tebe, di Pacomio, il
Panegyricus Arseniii scritto da Teodoro Studita, la descrizione
delle opere di Giovanni di Lycopolis, i Detti di Parmenio e di
Macario lAlessandrino, glInni di Sinisio. Mentre dalla Bibbia
e dai Vangeli avevo tratto fortificazione nella fede e conoscen-
za del mondo, tutte quelle vite di venerabilissimi monaci mi
apparivano e mi appaiono tuttora un immenso lago di noia.
Ma gi nella Seconda Sala lincontro con Evagrio Pontico
cominci a stimolare la mia curiosit. Evagrio era stato nomi-
nato lettore da Basilio il Grande e diacono da Gregorio
Nazianzeno. Le sue considerazioni sulla vita attiva come prelu-
dio della contemplazione e della gnosi mi affascinavano, cos
come le opere di Giovanni Cassiano di Dobrugia sul significa-
to spirituale e morale della vita cenobitica.
stato per nella Terza Sala che ho incontrato per la prima
volta la lettura come puro piacere. Divorai tutti e dodici i libri
della Topographia Christiana di Cosma Indicopleuste. Prima di
ritirarsi in eremitaggio nel Sinai, Cosma era stato allievo di
Teodoro di Mopsuestia e dei Nestoriani di Nisibi. Aveva viag-
giato a lungo e descritto minuziosamente paesaggi, usanze e co-
stumi del mondo. I suoi disegni mi incantavano. Luniverso era
tracciato come una immensa scatola il cui coperchio il Cielo
Superiore, mentre pi in basso il Cielo Inferiore contiene il fir-
mamento. Tra i due cieli la dimora di Dio e degli Eletti che
vegliano sulla terra delluomo. Questa pi elevata a setten-
trione e a Occidente e i fiumi che da l discendono, come il
Tigri e lEufrate, sono impetuosi mentre il Nilo ha una corren-
te modesta. Quanto alle sue dimensioni, Cosma ritiene che
dallIndia allestremo dellOccidente vi siano pi o meno quat-
trocento giorni di cammino e duecento dal paese di Iperborea
alla terra degli ultimi etiopi e che comunque ogni cognizione
geografica debba essere compatibile con le Sacre Scritture e con
gli insegnamenti di Mos, Divino Cosmografo. Gi allora le
sue severe ammonizioni ai cristiani perch si attenessero ai con-
cetti astronomici e cosmologici della Bibbia, ripudiando come
falsi ed eretici gli insegnamenti di Tolomeo, mi apparvero ec-
oo
cessive. E proprio di Tolomeo la biblioteca annoverava tanto la
versione greca del Megle mathematike syntaxis quanto la ver-
sione araba Al-Majisti. Era bello perdersi tra epicicli e orbite de-
ferenti tanto che intrapresi anche la lettura del Tetrabiblo e
della Geografia ma non tralasciai lOttica con i suoi appassio-
nanti insegnamenti sulla luce e lo studio degli Armonici che mi
introdusse alla teoria dei suoni.
La mia vita era chiusa nelle sale della biblioteca e, quando
dalle finestre lo sguardo correva sul mare attraversato di tanto
in tanto da una vela, pensavo a mio padre, a mio fratello, ai
loro viaggi e una punta di desiderio per quella vita avventuro-
sa pungeva il mio cuore. Mi rifugiavo allora tra i geografi e tro-
vavo diletto e consolazione nei quarantatr libri di Strabone
sulle sue peripezie al seguito di Elio Gallo in Egitto e nei di-
ciassette libri dei suoi viaggi nei luoghi pi remoti.
Grandi scrittori di viaggio i greci, Marco, dotti quanto
basta e coraggiosi quanto necessario, ma dovresti dare unoc-
chiata anche alle opere di Messer Polo veneziano e di Ibn
Battuta di Tangeri. Con loro ti spingerai oltre le terre sotto in-
fluenza greca, romana o del popolo di Israele. Troppo spesso
noi greci raccontiamo di ci che ci circonda convinti di rac-
contare il mondo. Intanto comincia con questo!
Il consiglio mi veniva da Areta di Diso, uno dei biblioteca-
ri, che mi allung il pesante tomo del Kitab Rugiar.
Al-Idrisi ti consentir di esercitarti nella lettura dellarabo
ma soprattutto avrai idea del mondo del settentrione e delloc-
cidente, delle terre dei Franchi, degli Angli e dellAl Andaluz.
E fu cos che di lettura in lettura incontrai Marco Polo e
Abu Abd Allah ibn Battuta, di tutti i migliori. Areta mi fece
delle particolari raccomandazioni circa il fatto che delle me-
morie di Battuta, a quanto sapeva, esisteva nei monasteri greci
quellunica copia. Che grande differenza con i diari dei pelle-
grini in viaggio per la Terra Santa! Per questi il viaggio era solo
strumento di mortificazione con il fine di giungere al Sepolcro
di Cristo, di contro amavo chi, come Polo e Battuta, vedeva nel
viaggio stesso e non nella meta il fine ultimo. Non furono
o
poche le difficolt che incontrai nella lettura in lingua franca
della Descrizione del Mondo di Polo ma me la cavai con mino-
re fatica nel brillante arabo di Battuta. Il consiglio di Areta era
stato prezioso. Gli stessi Erodoto, Ctesia di Cnido, Megastene
e Scilace non reggevano al confronto, ma fu lo stesso bibliote-
cario a moderare i miei entusiasmi.
Stai attento a Messer Polo, Marco! Non sempre egli di-
stingue tra ci che vede e ci che desidera vedere e tra ci che
ha visto e quanto gli hanno raccontato i marinai ubriachi nelle
taverne. Ben pi aderente al reale Battuta, ma tra i due la dif-
ferenza totale. Polo si avventura in partibus infidelium, men-
tre il tangerino, nei suoi pur smisurati viaggi, si muove sempre
nella Dimora dellIslam.
Hai ragione, Areta, ma ci che mi attrae in questi libri
lidea che nessun luogo il centro di nulla. Se ripenso ai diari
di pellegrinaggio, da Soewulf di Worcester fino a Wilbrand di
Oldenburg o alla Johannis Wirziburgensis descriptio Terrae
Sanctae, li vedo incardinati in un Axis Mundi che ancora
quello di Ezechiele: Haec dicit Dominus Deus: ista est Jerusalem,
in medio gentium posui eam, et in circuitu eius terras
Non c dubbio! Non sempre le sante intenzioni sono utili,
anzi spesso lo sono di pi, per la causa di Cristo, le informazioni
di gente come tuo padre che le ansie di penitenza dei pellegrini.
Come sempre leggevo con voracit ma, al tempo stesso, mi
interrogavo sul perch nella biblioteca di un monastero tra
tanta teologia ci fosse un cos forte interesse mondano e mi
chiedevo che rapporto ci fosse tra gli infiniti libri di viaggio
nella biblioteca e le tante relazioni che giacevano nellarchivio.
Alcune erano chiaramente politiche e ormai posso anche citar-
ne gli autori da tempo morti: Marsilio Zorzi, bailo a Tiro di
Soria, Jacopo Badoer, ambasciatore della Signoria in
Trebisonda, Armenia e Tartaria e ancora Alvise da Mosto,
Benedetto Dandolo, Giacomo Dolfin e tanti altri. I pi erano
veneziani e genovesi ma non mancavano dalmati e natural-
mente greci, qualche fiorentino e pi dun turco.
o
Ben presto cominciai a rendermi conto che lavanzare
nelle sale di lettura avvicinava le opere al nostro tempo. Avevo
limpressione che a Csole ci fosse come lidea che pi uno-
pera era remota e tanto pi sicura ne fosse la lettura per delle
giovani menti. Infatti tanto dalle Scritture quanto da quelle
vite di anacoreti, stiliti, reclusi, nemoriti e diaconi emergeva-
no certezze, verit solide come il granito e una luce solare che
fugava ogni dubbio. Il tempo che vi si era depositato le ren-
deva inattaccabili. Per comprendere la fallacia della mia
prima impressione dovetti attendere lingresso in una delle ul-
time sale, quella dedicata alle eresie. Qui si tornava brusca-
mente indietro nel tempo. I libri che le riguardavano erano
accuratamente catalogati. Pochi volumi per gli Ebioniti, per i
seguaci di Montano, Sabellio e Paolo di Samosata, appena pi
ricchi gli scaffali riservati a Nestoriani, Monofisiti e
Monoteliti, cos come tre ripiani erano occupati da opere ma-
nichee. Impressionante era lintera parete occupata dagli
Gnostici. A sua volta essa era suddivisa in una ridda di eresie
e quanti ne erano preda si definivano Ofiti, Ofiani, Perati,
Arcontici, Severiani, Cainiti, Nicolaiti, Prodiciani, Antitatti e
per gli altri non ho pi memoria. A farmi da guida in questa
che mi appariva una pericolosa foresta fu Eustazio di
Celesiria, dotto maestro di tutte le filosofie, un uomo sottile
e arguto.
Ecco la fonte di tutte le eresie mi disse afferrando un vo-
lume dallo scaffale. con queste chiacchiere roboanti che
Simon Mago ha turlupinato le genti di Samara. Sarebbero
queste sciocchezze la Grande Rivelazione.
Perch questo era il titolo sul frontespizio del volume che
Eustazio lasci cadere sul tavolo mentre ne afferrava un altro.
Apocalisse Canonica! Buono questo! Si chiamava Cerinto,
per lui Cristo era solo una brava persona, per nulla divina e
certo non concepito virginalmente, ma dai uno sguardo anche
allAntithesis! Il suo autore, Marcione, era un noleggiatore di
cammelli, gi meglio di Teodoto il Conciatore che era convin-
to che Dio avesse solo adottato Cristo.
o,
Molte erano solo fantasiose fandonie, ma lesaltazione ope-
rata dai Cainiti dei Grandi Ribelli contro Dio: Caino, Esa,
Sodoma e soprattutto Giuda, lasciava lanimo scosso e anche i
riti magici degli adoratori del Diavolo Serpente mi fecero gran-
de impressione.
Tuttavia ci che mi turbava di pi nella lettura era la sete di
conoscenza che traspariva dalle opere e come questa fosse il
motore di una straordinaria libert dei pensieri, di un moto alle
volte frenetico dellimmaginazione.
In bella mostra sul tavolo della sala restavano, in forma di
antidoto, le opere di Ippolito, di Giustino, di Filastrio e di
Epifanio da Salamina ma, ben in vista, su tutte gravava il De
Praescriptione Haereticorum. Tertulliano, che pi di tutti mi fu
maestro. Erano i grandi critici dello gnosticismo e la loro vee-
menza nel confutarlo era pari alla loro dottrina.
Venni guidato anche nella lettura dei seguaci di Ario.
Eterosiasti ed Eustaziani, Eusebiani e Acaciani occuparono
molte delle mie giornate cos come i Concili di Nicea e
Antiochia, di Sardica e Seleucia. Certamente ero interessato
alla materia della discussione ma non potevo trattenermi dal
fantasticare su quei luoghi remoti dei quali spesso, nel corso
dellinfanzia, avevo sentito parlare da mio padre che o li aveva
direttamente praticati o aveva ben conosciuto uomini che da
quei luoghi provenivano.
Quando il potere imperiale di Roma dilag per tutto il
mondo greco, noi fuggimmo. Ma dove mai potevano fuggire
dei dotti, dei vecchi e vecchissimi letterati? Caro Marco, fug-
gimmo senza muovere un passo. Fuggimmo in unidea, in un
pensiero. Fuggimmo in una lingua.
Come sarebbe a dire in una lingua, Eustazio?
Ci che ci circondava era solo violenza e tracotanza.
Immensi poteri che si scontravano e non vi era pi confine tra
luso delle parole, delle fedi e delle armi. Restava una memoria
o, se preferisci, un sogno. Il sogno di un passato che appariva
grandioso a fronte di un presente miserabile. Il sogno, la me-
moria era lEllade, la Grande Patria Greca di una volta, ma essa
c
era fisicamente scomparsa, restavano solo le sue parole e in
quelle ci inabissammo.
Eustazio, di questa immensa biblioteca non comprendo la
straordinaria variet di volumi, a quanto so inusuale per un
monastero.
Diciamo che forse negli anni igumeni e bibliofilaci si sono
un po fatti prendere la mano, ma noi stiamo solo applicando,
probabilmente con qualche eccesso di zelo, linsegnamento del
nostro Padre Basilio il Grande. Troverai negli scaffali a lui de-
dicati un suo trattatello, Ad adolescentes. Esortazione ai giovani
sul modo di trar profitto dalle lettere elleniche. Poche pagine ma
sulle quali si fondato il rapporto tra la nostra fede e gli studi,
il loro valore in forma e sostanza. Nello stesso Nazianzeno tro-
viamo le tracce di Omero, Esiodo, Aristofane, Plutarco,
Luciano e i lirici, gli alessandrini. Tanto Basilio quanto
Gregorio avevano avuto maestri cristiani e pagani e dagli uni e
dagli altri avevano tratto rafforzamento di fede e dottrina.
Eppure noi nascemmo nella Tebaide, nel rifiuto del
mondo
Certo, Marco, da giovane sono stato in un lungo pellegri-
naggio a Gebel el Galala, dove le pietre roventi del deserto
dEgitto si specchiano nel Mar Rosso, dove Antonio, Pacomio
e Macario consumarono la loro anachoresis, la loro separazione
dal mondo in lotta contro i demoni del desiderio e dellaccidia.
Finiti gli anni del martirio nel sangue escogitarono il martirio
del nulla, del vuoto e della sua visione affollata di immagini
maligne.
Eustazio, ma forse non era questo che la fede ci chiedeva:
moltitudini di fellah perduti nei deserti. Negarsi al mondo era
negarsi alla fede che per quel mondo era stata rivelata.
Proprio cos, Marco. Separarsi dal mondo serve a diven-
tare pi forti ma questa forza va esercitata nel mondo per la
fede e, se necessario, per la sua unit quando essa minacciata
di rottura, come Basilio ci ha insegnato. Egli sconfisse i segua-
ci di Ario e molto si adoper con il Papa Damaso per lunit
della fede dOriente e dOccidente.
:
Quanto a questo il maestro di tutti noi, Bessarione, ci ha
esortato al pensiero e allazione nel mondo, ma non vedo pro-
prio che ruolo possa avere Csole nel grande tumulto che scuo-
te le chiese, i regni, gli imperi e i principati.
Non sottovalutare i nostri poteri, Marco! Csole ha forni-
to pi di un consigliere a principi e cardinali e imperatori. Il
nostro compito quello di suggerire, di indurre, di creare le
condizioni perch la causa nella quale crediamo trionfi. que-
sto il fine del nostro archivio, della nostra biblioteca.
Eustazio, ma se il fine la ricomposizione della frattura tra
le Chiese Sorelle, allora si tratta di questioni teologiche, dottri-
nali, se vogliamo, liturgiche, azzarderei filosofiche
e politiche, Marco, soprattutto politiche.
Politiche? E che centrano gli azzimi o il filioque con la po-
litica?
Nulla, infatti, ma devi sapere che la rottura tra Roma e
Bisanzio antica, antichissima e a ogni rottura seguito un
tentativo di ricomposizione e a ogni ricomposizione una nuova
rottura e mai, dico mai, rotture e ricomposizioni furono aliene
da motivazioni essenzialmente politiche. Noi siamo stati, di
volta in volta, sostenitori delle une e delle altre secondo la con-
venienza degli eventi e gli umori degli uomini. Il culmine di
una rottura si consum proprio dove tu, Marco, adesso poggi
i tuoi piedi
Sotto i miei calzari non cerano che le chianche impolvera-
te della biblioteca
Qui? In questa biblioteca?
S, in questa biblioteca. Accadde tra la met di ottobre e
la met di novembre dellanno 1231 dalla nascita di Nostro
Signore, quando Giorgio Bardane, Metropolita di Corf, si in-
contr con il francescano Bartolomeo, inviato dal papa
Germano II per una disputa sul Purgatorio. In archivio trove-
rai la relazione e i verbali stilati dallo stesso Bardane. Noi greci
avevamo idee diverse dai latini e di diverso avviso restammo
entrambi.
E fu una rottura cos importante? In fondo eravamo stati
:
noi greci, Clemente Alessandrino, Origene, a dare lavvio alla
dottrina del Purgatorio.
Gi, quei due poveri eretici! Ma il problema non era solo
dottrinario. Questo Luogo Terzo non esiste nelle Scritture, ma
per Roma non era possibile lasciare i morti al loro destino, in
un riposo o una dannazione eterna. Roma aveva bisogno di di-
videre il potere sullaldil con Dio stesso e la posta del gioco era
altissima. Se con gli eretici si poteva andare avanti col ferro e
soprattutto col fuoco, con Bisanzio occorreva la politica. Altro
che dispute teologiche!
La conversazione con Eustazio mi lasci perplesso. Nello
stesso tempo cominciavo a vedere Csole sotto unaltra luce.
Quel grande edificio che sembrava perduto tra il mare e le serre
ora mi appariva meno isolato di quanto la sua geografia voles-
se far credere. Mi ripromisi di tornare sullargomento con
Eustazio, anche se non volevo dare limpressione di essere trop-
po curioso.
Larchivio era una miniera inesauribile di informazioni.
Trovai la relazione e i verbali vergati da Bardane. Il suo scon-
tro con Bartolomeo era stato violentissimo, fitto di citazioni:
San Gregorio il Dialogo e ancora Giovanni, Matteo, Marco,
Luca.
Mi accorsi che la mia foga nella lettura aveva scosso
Demetrio.
Se il Purgatorio a incuriosirti, Marco, dai unocchiata a
questo.
Il vecchio deposit un grosso faldone di pelle sul mio tavolo.
Cominciai a scorrere quei documenti. Il primo recava la
data del 6 marzo 1254. Era una lettera del Papa Innocenzo IV
indirizzata a Eudes di Chateauroux, legato presso i greci di
Cipro:
noi, considerando che i greci affermano di non trovare
presso i loro dottori alcun nome proprio e certo per designare
il luogo della purgazione, e che daltra parte nelle tradizioni e
nelle autorit dei Santi Padri tale nome il Purgatorio, voglia-
+
mo che per lavvenire questa espressione sia accolta anche da
loro
Noi vogliamo caro Marco, Innocenzo IV anche in
punto di morte non aveva dubbi e il suo tono nei nostri con-
fronti rude e ultimativo, ma solo linizio di una battaglia.
Guarda!
Demetrio sfil dal faldone un altro malloppo di fogli:
Libellus de processione spiritus sancti et de fide trinitatis contra er-
rores Graecorum, opera di Nicola di Durazzo, vescovo di
Crotone dellanno 1262.
un volgare miscuglio di menzogne e false attribuzioni.
Sembra che il grande Tommaso dAquino, invitato da Urbano
IV a esaminarlo, abbia provato un grande malessere nel legger-
lo, tant che lanno dopo sent il bisogno di comporre questa
sorta di dichiarazione di guerra.
Fu cos che passai alcuni giorni sul Contra errores Graecorum
di Tommaso. Laquinate si era ritirato per tutta unestate a
Orvieto per stilare trentadue capitoli sulla processione dello
Spirito Santo nella Trinit, cinque sul primato del papa roma-
no e due sulla consacrazione del pane azzimo e il Purgatorio.
Mi colpiva la data, lanno 1263, di quella vera e propria di-
chiarazione di guerra dottrinale. Decisi di parlarne a Demetrio.
Se, come dice Eustazio, su tutte queste dispute c lo zam-
pino della politica, esiste un legame tra lasprezza di Tommaso
e la nostra riconquista di Costantinopoli? I tempi sembrano
coincidere
Ma bene! Benissimo! Vedo finalmente che il nostro gio-
vane archivista sta entrando nella logica di Csole. Per le peco-
re e le metane sono buoni tutti ma Csole non solo stazzo e
chiesa. S, un legame esiste. Tommaso doveva preparare le armi
teologiche per uno scontro che poteva anche essere un incon-
tro
Non capisco, Demetrio
Al tempo degli epilettici, degli ultimi Lascaris, Csole de-
cise di appoggiare un giovane nobile, Michele Paleologo.
Secondo noi era lunico in grado di riconquistare