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Marco Lorenzo Faustini

Storia di Sebastianus Venetus il pittore


da Venezia alla Città Eterna
Marco Lorenzo Faustini
lobetablog.blogspot.com
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© CopyrightHouse, 2020 (ID 3290050)


Storia di Sebastianus Venetus il pittore
Da Venezia alla Città Eterna
“alle mie amate città, Roma e Venezia”
Prefazione

Di cosa parli questa storia è presto detto: di un as-


sedio. Le vicende storiche descritte riguardano i
drammatici mesi di quel lontano 1527 e vengono
narrate con gli occhi del grande -a mio avviso
grandissimo- artista veneziano che fu Sebastiano
Luciani, meglio noto come Sebastiano Del
Piombo.
Ma una confessione va fatta. Mai avrei immagi-
nato, quando cominciai a raccogliere i materiali,
le testimonianze di quell’accerchiamento, in par-
ticolar modo di Castel Sant’Angelo, che sarei fi-
nito anch’io, pochi mesi dopo, in una drammatica
e forzata quarantena, causata da un virus tanto
piccolo e insignificante quanto letale.
Dunque le riflessioni dell’artista, rinchiuso tra le
mura protettive e al medesimo tempo opprimenti
della fortezza, vengono a sovrapporsi alle mie per-
sonali preoccupazioni.
Quel senso di impotenza, di orrore, di disperazione
che provò Sebastiano nel guardare lo stupro della
Città Eterna, perpetrato da orde di tedeschi, spa-
gnoli e… italiani non è, credo, tanto distante, dal
nostro ansioso guardare i notiziari diffusi dalla TV
e dalla rete internet e sentirci tanto inutili e insi-
gnificanti.
Lasciatemi credere, in questi giorni bui, che con
l’aiuto della scienza, con un profondo senso del
bene comune, superando discordie e meschine fa-
ziosità, riusciremo a passare questo difficile
guado.
Questo scrivo e spero, in cuor mio, di non sba-
gliare.
Il tempo dirà.
Roma, aprile 2020
Parte prima - Nel ventre della balena

“Tu ti dai pena per quella pianta di ricino per cui


non hai fatto nessuna fatica e che tu non hai fatto
spuntare, che in una notte è cresciuta e in una
notte è perita; ed io non dovrei aver pietà di Ni-
nive, quella grande città, nella quale sono più di
centoventimila persone, che non sanno distinguere
fra la mano destra e la sinistra, e una grande
quantità di animali?”

(Giona 4, 10-11)
A dì 11 [maggio 1527]. La mattina tutta la terra
fu piena di tal nove di Roma, chi la credeva et chi
non, et maxime fin nona non esser venuto alcun
avixo; di che tutti si meravegiava

(Marin Sanudo, Diari del Sacco di Roma)


“Impiccheranno il Papa”.
La voce, che nei primi giorni dell’assedio era poco
più che un sussurro, trasmesso di bocca in bocca
tra mille cautele, si faceva sempre più insistente.
Come un morbo silenzioso e letale essa s’incu-
neava tra le merlature di Castel Sant’Angelo, sci-
volava lungo i camminamenti, tra le logge, infil-
trava le sale, le armerie, le prigioni.
“I luterani impiccheranno il Papa. Lo ha giurato
lo stesso von Frundsberg ai suoi soldati, l’ho udito
con queste orecchie mie e quelli ridevano, ride-
vano a crepapelle” diceva uno dei militi della
guardia e i suoi compagni di drappello lo ascolta-
vano per nulla increduli.
“Papa Clemente teme d’essere avvelenato dai suoi
stessi cardinali” era l’altra voce che girava “da
giorni non fa che nutrirsi di sardine e beve solo ac-
qua piovana”.
Le dicerie, tra quelle mura, erano tante, insistenti,
contraddittorie, una cacofonia di bestemmie, di
preghiere, di minacce.
È finita, ci ammazzeranno tutti, senza pietà.
Hanno forse risparmiato qualcuno degli Svizzeri?
Nessuno. E i poveri studenti del Collegio? Passati
uno ad uno a fil di spada”.
Sebastiano taceva, mentre si muoveva fra quegli
angusti ambulacri; si limitava ad ascoltare e ri-
fletteva, autentica anima in pena, fra quella folla
di soldati che si davano il cambio, sfiniti, sudati e
sporchi.
Sempre più turbato col passare dei giorni e delle
settimane si era arrischiato qualche volta a get-
tare un’occhiata dall’alto dei torrioni e la visione
che s’era offerta ai suoi occhi era stata desolante.
La Città Eterna era in fiamme.
“Roma è caduta, è caduta Roma”.
Il buon uomo ripeteva tra sé quella frase come
una litania, ancora incredulo che le mura possenti
della città avessero mostrato tanta fragilità.
“… e la colpa è solo del Papa, tutta sua, senza ap-
pello. Quegli infiniti giochi di equilibrio, quelle
promesse, quelle alleanze auspicate, minacciate,
ripensate. Come poteva finire altrimenti? Io sono
uomo d’armi, la politica cosa volete, non la ma-
stico e se c’è guerra ben venga la guerra, fin
quando non ti accoppano è anche un buon af-
fare… ma questa?” si lamentava uno dei soldati
coi propri compagni.
Ma non aveva finito di parlare che già il fiorentino
Benvenuto, rissoso e irascibile come sempre, gli si
era avventato contro.
“Come osi, come ti permetti di giudicare l’operato
del Papa? Cosa ne sai tu, che a malapena riesci ad
allacciarti da solo gli stivali, di alleanze e di ac-
cordi?”.
Sebastiano, come già in passato, s’era messo di
mezzo e aveva allontanato dal drappello delle
guardie il focoso toscano, sempre pronto ad attac-
car briga.
“Con tutti i nemici che abbiamo manca solo che ci
si metta anche a far la guerra tra noi” gli disse ten-
tando di calmarlo.
A ben guardare più diversi fra loro i due uomini
non potevano essere. Sebastiano aveva tratti de-
licati, gli occhi color acquamarina, lo sguardo in-
tenso. Riflessivo, silenzioso, di carattere sempre
incline alla malinconia non mancava però di spi-
rito e qualche sottile arguzia gli sgorgava naturale
dalla bocca soprattutto quando si trovava al co-
spetto di una bella donna. In tal caso egli un poco
si apriva, i tratti del viso si facevano più distesi, i
gesti più ampi, la voce più sicura.
Benvenuto, per converso, era d’indole sulfurea, si
infiammava per un nonnulla e quel suo fisico vi-
goroso, quella sua barba da capitano di ventura
incutevano, nell’interlocutore, un senso di timore.
Agile, spaccone, la voce possente, al suo passaggio
gli astanti si scansavano a evitar questioni che
quello non avrebbe affatto disdegnato risolvere
menando le mani.
Oltre all’arte che praticavano, il primo era pittore
e il secondo orafo, un’altra passione li accumu-
nava: quella per la musica.
“Io credevo che avrei servito per sempre la musa
Euterpe, quando ero fanciullo. Ero felice, a Vene-
zia, quando avevo un liuto in mano ma ora… ora
la musica che si s’ascolta è solo quella degli
schioppi, degli archibugi, dei falconetti” fece Se-
bastiano, sperando che quel tema avrebbe di-
stratto il suo amico e gli avrebbe evitato, forse,
l’ennesima scazzottata.
“La musica, Sebastiano, ti par tempo di musica?
E dire che ero arrivato a Roma per suonare nella
fanfara del Papa. E il falconetto, dici? Lo sai che
questa impensabile disfatta ha avuto inizio pro-
prio da un micidiale colpo sparato da quell’arma?
Lo ricordi il nipote del compianto Papa Leone,
quel tal Giovanni? Era lui a presidiare il fronte
della Lega sul Mincio, a Governolo… povero il-
luso” rispose Benvenuto.
“Illuso, dici? E perché?”
“Perché quello credeva che fossimo ancora ai
tempi di Lancillotto e Ginevra, delle sfide di ca-
valleria con la lancia in resta. Se ne andava, lo
stolto, in ricognizione sull’argine del Po facendo
sfoggio di coraggio. Ma glielo avevano detto…
sta’ attento che i lanzi sono lì e con quella tua
bella armatura lucente sei un bersaglio facile”
“Giovanni delle Bande Nere… era così sprovve-
duto, dunque?”
“Sprovveduto… non so. Chissà, forse aveva ormai
intuito che la guerra s’è mutata in una faccenda
assai diversa, che il mestiere delle armi come lo si
intendeva una tempo è finito per sempre, ma si sa,
le abitudini son difficili da cambiare. Era un buon
comandante, sai, un condottiero che sapeva ma-
neggiare la soldataglia più rozza e indisciplinata,
e forse è per questo che si è esposto in maniera
tanto temeraria”
“Ma una volta non combatteva al fianco dei nostri
nemici, gli imperiali? “
“Sicuro e ne fece di vittime tra francesi e svizzeri.
E quando il suo potente zio Papa Leone morì, Gio-
vanni fece annerire le insegne delle sue truppe per
manifestare il proprio lutto. Ma poi con l’arrivo di
Papa Clemente, che tu ben conosci, tutto è cam-
biato”
“Benvenuto, lo sai, io ho deposto il liuto e ho im-
bracciato il pennello ma di queste cose, di questa
politica capisco poco o nulla, ho la testa in altri
affanni, anzi ora non ho la testa per nulla e mi
chiedo se mai usciremo vivi da questa fortezza. Mi
manca l’aria, mi manca la mia laguna, mi manca
Venezia”
“Se prometti di non farti accoppare ti porto sui
torrioni a sparare ai luterani. Sai che il Santo Pa-
dre mi ha assicurato che tutti quelli che abbatte-
remo in difesa di Santa Romana Chiesa non ci sa-
ranno computati quando saremo al cospetto di
San Pietro?”
“Un bel ragionamento da cristiano” gli rispose a
mezza voce Sebastiano con un sospiro.

***

Di nuovo si avvicendavano i soldati di guardia e


la sera, calando sulla città, recava una parvenza
di pace. Ma fuochi illuminavano la notte e di
nuovo si udivano, di lontano, grida come latrati di
cani inferociti mentre il Tevere continuava a scor-
rere, ignaro di quegli umani affanni, di quelle
umane miserie.

Da tempo la Penisola era diventata terra di con-


quista e dunque terra di battaglie. La sfida tra
Francesco I, Re di Francia e Carlo D’Asburgo,
Imperatore del Sacro Romano Impero, sembrava
però conclusa dopo la terribile battaglia di Pavia.
Il Re, sconfitto, era stato preso prigioniero e con-
dotto in Spagna dove era stato costretto a firmare
un umiliante trattato di resa e dunque ogni pre-
tesa francese sull’Italia pareva ormai compro-
messa. I figli stessi del monarca erano stati tratte-
nuti a Madrid come ostaggi e le acque sembravano
ormai acquietarsi, ma era solo una calma illusoria
e temporanea, giacché nuove tempeste si avvici-
navano.
“Tutti danno addosso al Pontefice, ma al suo po-
sto cosa avreste fatto? Bisognava arginare gli spa-
gnoli. Quel Carlo sembrava il padrone del mondo
e Papa Clemente doveva in qualche modo tentare
di fermarlo” commentava uno dei capi guardia.
Subito un suo pari grado replicò, come a prose-
guire un discorso iniziato tempo prima “…ma
questa idea della Lega… il Pontefice si è fidato
troppo dei suoi alleati, da sprovveduto. Del resto
fin quando la guerra è lontana siamo tutti eroi,
nevvero? Ma ora che la guerra è qui, dove sono i
nostri alleati? Dove sono i veneziani, a parte que-
sto bel pittore Sebastiano? Dove sono i fiorentini,
a parte questo bellimbusto che s’azzufferebbe fi-
nanco con sua madre?”.
A quelle parole, in verità non prive di buonsenso,
Sebastiano e Benvenuto rimasero in silenzio an-
che se il toscano mostrava segni di una mal trat-
tenuta insofferenza.
I ragionamenti dei soldati, alla fin fine, erano ben
lungi dall’esser bislacchi, ed era pur vero che Papa
Clemente si era trovato, alla morte del suo prede-
cessore Adriano, un accordo già bello e fatto con
gli imperiali.
“Lo sapete come andò il Conclave che elesse Papa
Clemente?” faceva un capoposto con l’aria di
quello che parla a ragion veduta “…la metà dei
cardinali era filofrancese e l’altra parteggiava con
gli imperiali. Il buon Papa Adriano, che Iddio lo
abbia in gloria, aveva ritenuto la minaccia di
Carlo Imperatore la meno insidiosa”.
“Il male minore, intendete?” chiedeva uno dei po-
chi uomini che non s’erano ancora stravaccati in
terra a riposare.
“Proprio così, il male minore. Ma se non fosse
stato eletto Papa Clemente il trono di Pietro sa-
rebbe andato ai Farnese e indovina un po’ per chi
parteggiano loro?”
“Per i francesi”
“Scommessa facile scommessa vinta! Ma c’erano
anche i Colonna, acerrimi nemici dei Medici, dun-
que di Papa Leone e del nostro Santo Padre per il
quale combatteremo e, chissà, forse anche mori-
remo in questa topaia”
“E tutto questo quando avveniva? Non più di
quattro anni fa, sembra passato un secolo, capo”
“Ebbene i Colonna, dicevamo: furono proprio
loro a dar man forte agli imperiali, ai maledetti
lanzi”
“Ma cosa è avvenuto? Perché da alleati della
Chiesa gli imperiali ne son divenuti il nemico giu-
rato?”
“Ma perché al nostro Papa piace giocare d’astu-
zia. È un fine diplomatico, ha viaggiato, conosce
il mondo ma… non tutte le ciambelle riescono col
buco, se si può dir così. In segreto egli aveva man-
dato emissari a convincere il Re di Francia a fir-
mare il trattato, per quanto questo fosse mortifi-
cante. E quello, il bel pavone francese, avrebbe
sottoscritto qualsiasi cosa pur di lasciare la prigio-
nia di Madrid”.
Sebastiano, che aveva seguito tutto il discorso in
silenzio, chiese allora al capoposto “Ma i suoi fi-
glioli? Davvero li ha lasciato come ostaggi?”
“Vero, vero, caro il mio imbrattatele. Francesco
sperava di prendersi una rapida rivincita. È che
fanno tutti i conti senza l’oste, verdad?”
“A proposito di oste, forse ci daranno un po’ di ac-
quavite stasera?” chiese uno dei soldati.
“Non ci conterei troppo, è tutto razionato” ri-
spose il capoposto con un sospiro.
***
Sebastiano, dal conto suo, a quel punto s’era
messo a disegnare appoggiato a una parete del
corridoio. Uomini andavano e venivano, muoven-
dosi a fatica fra quei cunicoli, impacciati dalle loro
armature.
Ma i discorsi proseguivano, mentre degli inser-
vienti distribuivano il rancio.
“Comprendete allora come il Papa dovesse per
forza far qualcosa… non vedete che gli spagnoli
sono dappertutto? Il meridione è loro, ereditato e
amen. A settentrione sono ormai una forza stabile.
Che sorte avrebbe avuto lo Stato della Chiesa?
Non capite che siamo stritolati?”
“Ma il nemico, dopo tutti questi esercizi di fine di-
plomazia non è neanche più alle porte, è arrivato
fin quaggiù”
“Il nemico, ti dicevo, sono anche i Colonna ed è
anche il loro odio verso i Medici che ha contribuito
a creare questa mala bolgia. Chi ha attaccato il
Laterano? Chi ha preso Trastevere e ci assedia?
Pompeo Colonna, il Cardinale, che Iddio lo male-
dica”
“Se è per quello non fu il Papa stesso a promet-
tere, in Aracoeli, che egli mai egli si sarebbe na-
scosto qui in Castello. ‘…che voglio restare accanto
al mio popolo, in mezzo al mio popolo, protetto solo
dal mio popolo’? E quel popolo bue era tutto rin-
cuorato e a questi romani apatici e creduloni era
stato promesso da Renzo da Ceri che sarebbe ba-
stato resistere non più di due o tre giorni e allora
sarebbe giunto il grande eroe a salvar la situa-
zione, a cavar le castagne dal fuoco, a tirar tutti
fuori d’impaccio, Francesco Maria Della Rovere.
Ma alla fine…”
“…alla fine?”
“… alla fine l’unico che si oppose all’orda degli im-
periali fu Giovanni delle Bande Nere, che Dio lo
abbia in gloria. E l’eroico Della Rovere lo stiamo
ancora attendendo come i giudei il Messia”.
Sebastiano continuava a disegnare in silenzio.
Benvenuto s’era addormentato e pian piano le
chiacchiere dei soldati si facevano più rade. Qual-
cuno ormai russava a bocca spalancata, qualcuno
s’agitava nel sonno.
Ben presto l’unico suono rimasto era quello della
matita del veneziano che sfrigolava contro il fo-
glio a tracciare un Cristo deposto, disteso in terra,
il corpo apollineo, incorrotto, come solo il Figlio
di Dio poteva mostrare pur dopo gli oltraggi della
flagellazione e della morte in croce.
“E Michelangelo? Dove sei, amico mio?” pensava
il pittore, mentre lo invadeva un’ondata di malin-
conia.
Quel disegno del Cristo gli era venuto quasi
d’istinto, una replica in piccola scala della grande
tavola ad olio che gli era stata commissionata
tempo addietro per la chiesa di San Francesco, a
Viterbo.
Quante ore aveva trascorso con Michelangelo, di-
battendo all’infinito la disposizione del Cristo e
della Vergine. Alla fine s’era deciso che il corpo del
Salvatore fosse disteso, col solo sudario a proteg-
gerlo dalla nuda terra.
A differenza della meravigliosa Pietà scolpita dal
geniale scultore toscano la Vergine non avrebbe
trattenuto a sé il corpo del figliolo.
“Vorrei che Egli sia rappresentato in orizzontale,
disteso, il capo appena sollevato. Vorrei che il fe-
dele senta il bisogno di avvicinarsi al Cristo come
ci si avvicina ad un altare, con devozione, con ri-
spetto” aveva detto Sebastiano in uno degli infi-
niti confronti col Michelangelo.
Insieme avevano impegnato giornate intere a di-
segnare i cartoni per la grande tavola. Potevano
passare settimane solo per lo studio delle mani,
mani distese e senza vita, la destra a terra, la sini-
stra sollevata e poggiata sul fianco.
“La Vergine? Maestro… vorrei che ella recasse
nello sguardo tutta la pena del mondo. Una donna
sofferente, disperata, eppure una figura verticale,
che si innalza e ci innalza tutti verso il Cielo”
“Non vi piace la Vergine della mia Pietà?” gli
aveva replicato il toscano.
“La Vostra Vergine è bella, intatta, senza età, so-
spesa in un’eterna, purissima giovinezza. Io per
questa tavola vorrei una donna addolorata che
rappresenti… ebbene sì… l’angoscia”
“La mani giunte?”
“Giunte sì, ma non come quando si prega. No,
unite come quando si supplica qualcuno in ginoc-
chio. Ecco vedete, Maestro Michelangelo, io vi
scongiuro di aiutarmi con questi cartoni. Come vi
appaio in questo istante, lo vedete? Lo sguardo al
cielo, verso l’Onnipotente, verso quel Dio ora
tanto distante”.
Il toscano era sempre preso da mille affanni, co-
sciente della propria assoluta superiorità, una
mente mai paga, un animo inquieto, tormentato.
Scomparso precocemente il grande Raffaello egli
era rimasto padrone incontrastato della piazza ro-
mana.
“Come sei inafferrabile, Michelangelo fiorentino.
Non mi riesce mai di comprendere dove sia la tua
testa” pensava spesso Sebastiano, non
azzardandosi a confidare al suo interlocutore
quella sua interiore riflessione.
Più vecchio di lui di una decade il toscano mo-
strava un’energia fisica e mentale del tutto so-
vraumana. Scolpiva, progettava, componeva mu-
sica e versi, dipingeva, ma non per questo s’era
mai allontanato dalla politica.
“Si lamentano di questo Papa Clemente ma solo
perché essi non hanno conosciuto il terribile Giu-
lio” gli disse una volta, e gli occhi gli si riempivano
di malinconia “alla fine era un povero Cristo an-
che lui” aggiungeva, mentre col pensiero andava
al progetto infinite volte rinviato del monumento
funebre al Papa Della Rovere.
Alle volte mentre disegnava, Michelangelo si met-
teva a parlare, senza mai perdere d’occhio il fo-
glio. Ma poi capitava che s’interrompesse di colpo,
lasciasse la cosa a mezz’aria e sparisse, come inse-
guendo un’ispirazione che lo portava ad andare
altrove.
Sebastiano aveva imparato a conoscerlo, con tutti
i suoi pregi e i suoi difetti. Ne’ temeva, il vene-
ziano, le malelingue.
“Sapete che dicono di Voi, Sebastiano? Che vi
tengo con me per imparare il colore di voi veneti.
Che ne dite?” faceva quello, come a provocarlo.
Sebastiano non cadeva in quei tranelli. Già da
tempo aveva imparato, a sue spese, a districarsi
tra le insidie dei palazzi romani.
Ai tempi della sua gioventù veneziana aveva
spesso udito di trame, di tradimenti, di doppi gio-
chi e se ne era tenuto ben alla larga, come suo pa-
dre stesso gli aveva insegnato. Ma qui, sulle
sponde del Tevere, scorreva più veleno che acqua
e i peggiori pericoli provenivano spesso dagli
amici più fidati.
Appena arrivato a Roma si accorse, suo malgrado,
d’esser stato messo in competizione col grande
Raffaello.
Ecco: di nuovo i ricordi rincorrevano altri ricordi,
forse anche a causa di questa forzata inedia, di
questa sorta di prigionia tra le mura del Castello,
di questa infinita, angosciosa attesa di cosa… in
fondo?

Agostino Chigi, il banchiere papale. Era stato pro-


prio lui a convincerlo a lasciare Venezia e lo aveva
fatto con quello sguardo magnetico che lo aveva
reso, negli anni, ricco come Creso e potente, poten-
tissimo.
“Sebastiano” gli aveva detto il suo amico Vin-
cenzo Catena “ma ti rendi conto di che onore ti sta
facendo il Chigi? Non hai visto come lo hanno ac-
colto qui in Senato? L’han fatto sedere vicino al
Doge Loredan, comprendi? E come si è mosso con
l’Avogaria? Nel giro di pochi giorni ha fatto im-
prigionare il suo debitore moroso e quello ha do-
vuto restituire 17.000 ducati sull’unghia… capisci
di chi stiamo parlando? Lo avesse proposto a me
sarei già partito di gran corsa… a Roma, Roma,
Roma”.
In effetti il banchiere lo aveva avvicinato lodando
i suoi lavori e dimostrando, senz’ombra di dubbio,
di esser dotato di un’ottima competenza della tec-
nica pittorica. Nella chiesa di San Bartolomeo si
era fatto spiegare per filo e per segno le portelle
dell’organo con i quattro santi.
“Le colonne, le nicchie… bravo Sebastiano…
bravo davvero e bello questo Sinibaldo, questa
barba, la conchiglia del camino de Santiago, un
santo pellegrino, sapete che da Norimberga venne
fino a Roma…, ma per Voi il tragitto sarà assai
più breve, vero?”
E poi il banchiere senese aveva preso a raccontare
di quella villa che stava sorgendo lungo il biondo
Tevere ed ampi gesti della mano descrivevano le
meraviglie di quella costruzione, il prato anti-
stante che andava a declinare verso l’acqua, e poi
le scuderie, la peschiera…
“Attendono Voi, quelle volte, quelle logge, atten-
dono il Vostro estro. Ma non voglio santi né sante,
non voglio vergini martirizzate. Un inno alla vita,
un pantheon di eroi mitologici, una volta celeste
piena di astri, e poi piante e frutti d’ogni parte del
mondo e vi ritroverete in Roma, la caput mundi,
camminerete per le strade percorse dai Cesari, ve-
drete, Sebastiano e con un po’ di fortuna e le ami-
cizie giuste potrete lavorare anche per il succes-
sore di Pietro”.
Il pittore era, a quel punto, assai incerto sul da
farsi. Amava Venezia, quei colori, quei tramonti
che riempivano la laguna di riflessi dorati. Ma il
suo amico Zorzi, Giorgione da Castelfranco era
morto assai giovane, il Maestro Giambellino era
ormai molto vecchio e poi… come rinunciare a
un’occasione del genere e avere l’occasione di con-
frontarsi con altri pittori, con altre scuole,
chissà…
Ed ecco che così, aggregato al piccolo corteo del
senese, Sebastiano si era ritrovato a decorare la
villa romana del magnifico Agostino. Il commit-
tente gli aveva dato carta bianca e dunque Seba-
stiano era partito animato da un entusiasmo che
lo portò, quasi senza accorgersene, a lavorare
giorno e notte. Prima il Polifemo, poi le lunette e
poi… Raffaello.
“L’unico che può avvicinare il Papa senza destare
sospetti è il veneziano, è lui quello che dobbiamo
convincere” disse l’uomo vestito di scuro.
Il Cardinale si prese del tempo per rispondere. Uc-
cidere un Pontefice non era affare di poco conto
neppure per un uomo risoluto e pronto a tutto
come lui.
“E quale sarebbe la Vostra proposta?”
“Eminenza, ho una persona fidata nel Castello.
L’ho istruita a dovere. Lasciate fare a me, meno
dettagli conoscerete, di questa faccenda, e meglio
sarà” rispose quello.
“Ma che per nessuna ragione al mondo si possa ri-
salire a noi. Non che io, un Colonna, tema qual-
cuno se non il giudizio divino. Del resto non ci
siamo fatti scrupolo di assaltare le mura della
città, di prenderci Laterano e Trastevere? Manca
solo di espugnare Sant’Angelo e frattanto i miei
ottomila uomini continueranno ad esercitare il sa-
crosanto diritto di saccheggiare tutto”
“E lo sfrutteranno appieno, vedrete. Questi con-
tadini armati fremono all’idea di portarsi via
gioielli, pietre preziose, danaro. Ma la Vostra vit-
toria, Cardinale, non sarà completa fin quando il
Medici sarà vivo”
“Il pittore veneziano, dunque, sarà il nostro an-
gelo della morte?”
“Così sarà, Eminenza, così sarà”.

Annoiato di ascoltare le infinite disquisizioni della


soldataglia, Sebastiano cercava sempre più di so-
vente rifugio nella propria solitudine. Lo star solo
con sé stesso non gli pesava affatto, piuttosto era
tutto quel viavai di gente gli dava come un senso
di oppressione, facendogli mancare l’aria.
In queste lunghe settimane di assedio, in quella
forzata inedia, lontano della sua bottega, un pic-
colo locale presso Santa Maria del Popolo, gli scor-
reva davanti agli occhi un’infinita successione di
ricordi.
Si metteva a passeggiare sulle rampe, cercava di
affacciarsi alle logge, ma c’erano guardie in ogni
dove.
Tutto gli appariva paradossale, questa relativa si-
curezza, dietro alle mura del Castello, ma nel frat-
tempo quel terribile senso di una prigionia che pur
tuttavia era l’unica alternativa a una sicura
morte.
Perfino Benvenuto gli dava la nausea, nonostante
lo stimasse come uomo d’ingegno. Il fiorentino gli
aveva mostrato dei bellissimi schizzi, una
riproduzione da Donatello, e poi medaglie, piccoli
pezzi d’argento, gioielli, monete alla maniera di
quelle dell’antica Roma. Ma ora la guerra, questa
dannata guerra, lo aveva allontanato dalle nobili
arti del disegno, dell’oreficeria e della scultura.
Ora il Cellini sembrava quasi trarre diletto dal
maneggiare quelle terribili armi da fuoco e non fa-
ceva che vantarsi della propria infallibile mira.
Fin dal primo giorno dell’assedio il toscano s’era
distinto per lo sprezzo del pericolo.
“Con un solo colpo di questo fedele amico” diceva
accarezzando il suo archibugio, “ho falciato via
Carlo di Borbone, Iddio mi è testimone”.
Più di una volta questa versione dei fatti era stata
contraddetta, ma il fiorentino era stato così deter-
minato e coerente che alla fine, vera o falsa che
fosse, la morte del Connestabile gli fu attribuita in
maniera definitiva.
“Eppure fu proprio la fortuita uccisione del Bor-
bone che allentò la difesa delle mura, compren-
dete?” faceva uno dei capi manipolo al buon Se-
bastiano.
“Ma come è possibile questo?” replicò il pittore
“la morte del capo degli assalitori avrebbe dovuto
demoralizzarli, fermarne la spinta offensiva”
“Come si vede che siete ben poco pratico di guerra,
caro amico. Tutt’altro. Quando videro portar via
su una barella il Borbone, orrendamente mutilato
e sanguinante, i nostri combattenti si fomenta-
rono e si diedero a levare alte grida di vittoria,
come se un colpo ben dato possa risolvere una
guerra. Così per ore i presìdi rimasero scoperti e
questo consentì che le difese fossero più presto
sgominate… del resto a questo punto il danno era
fatto e non Renzo da Ceri ma neppure Nostro Si-
gnore in Persona” e qui si segnò “avrebbe potuto
frenare il dilagare dei nemici in città”
“Ma il popolo di Roma?”
“Il popolo di Roma, dite… giacché quando ci ri-
trovammo col nemico alle porte perfino questi
rammolliti si decisero a tentare un minima resi-
stenza, fosse anche fatta con forconi e manici di
ramazza… ma cosa volete che facesse, il popolo di
Roma?”
“Eppure c’ero anch’io quando Renzo dichiarò, in
Campidoglio che Papa Clemente mai si sarebbe ri-
fugiato in Castel Sant’Angelo, che qual miglior
custode della salvezza del vicarius Christi se non
la gente di Roma” replicò a mezza voce Seba-
stiano.
“Il popolo allora confidava nel Papa, il Papa
nell’arrivo dei soldati della Lega, di quell’infame
del Duca d’Urbino e guardate qui come siamo
combinati. Comunque sia occorre dare atto che il
Vostro amico Benvenuto è davvero un eccellente
tiratore” concluse l’anziano uomo d’arme.
Era la pura verità: il Cellini aveva dato dimostra-
zione di una mira prodigiosa perfino davanti al
Papa in persona. Si sporgeva da dietro uno dei
tanti merli mezzi demoliti dai colpi dell’artiglieria
leggera e prendeva la mira con calma olimpica, in-
curante dei proiettili che gli passavano accanto
con fragore assordante.
Il Santo Padre, nonostante mostrasse un sorriso
di circostanza di fronte a quei gesti di eroica pro-
dezza, comprendeva in cuor suo che l’assedio do-
veva finire, e c’erano ben poche speranze che gli
assalitori desistessero… a meno di un miracolo.
Ma Papa Clemente, da buon Papa qual era, a quel
tipo di miracoli non credeva, non credeva affatto.

Quella sera il buon Benvenuto era particolar-


mente allegro, forse anche a causa del barilotto
d’acquavite che si era procurato, a suo dire, in
modo non del tutto lecito.
Schiena contro la parete aveva ripreso il tema a
lui assai caro della salamandra che vive nel fuoco.
“Come vi viene in mente, amico mio, che un ani-
male possa trovarsi a proprio agio tra le fiamme?”
lo riprese Sebastiano, ben sapendo che il toscano
difficilmente avrebbe cambiato d’opinione.
“Vi dico per certo che esistono bestie ben strane
che vivono tra le vampe… la fenice, non vi sta
bene la fenice?” diceva, mentre si sciacquava la
gola con un generoso sorso di quell’intruglio infer-
nale.
“La fenice, dite? Ma quello è un essere mitologico.
E voi, signore, l’avete vista mai una fenice, suv-
via!”
“No, quella mai, ma la salamandra nera, macu-
lata, l’ho vista con gli occhi miei sgusciar via di
sotto a un bel falò e avvolta d’umido come una
rosa di rugiada mattutina”
“Mi diventate poeta, Benvenuto. Ma, a meglio
pensare, sapete che un mio illustre concittadino,
tale Marco della famiglia dei Polo, osservò che un
uomo, avvolto d’uno strano mantello bianco riu-
sciva a sopportare un calore intensissimo che
avrebbe stroncato qualsiasi vivente? Ma quell’in-
dumento era ricoperto d’un minerale che egli, ora
che mi rammento, chiamava salamandre… Per-
bacco, forse avete ragione voi…”
“Che vi dicevo… oppure forse è tutta un’illu-
sione” gli rispose Benvenuto, appoggiando le sue
grosse mani sulla ruvida parete del corridoio “non
era forse prigioniero quel Polo che dite?”
“Sì, era rinchiuso come noi, prigioniero dei geno-
vesi e forse era lui, come noi, vittima di una
grande allucinazione…chissà” concluse
Sebastiano, e distese il braccio a chiedere un sorso
di quella bevanda che aiutava a rendere più sop-
portabile la forzata quarantena.

Il ritratto del Pontefice che Sebastiano aveva ese-


guito appena un anno prima rappresentava un
uomo risoluto, lo sguardo quasi sdegnoso, le
guance con un accenno di barba, gli occhi soc-
chiusi, il capo voltato come incurante di corri-
spondere allo sguardo di chi stesse ammirando il
dipinto.
Le spalle possenti, l’espressione sprezzante, quasi
infastidito, insofferente.
“Maestro Sebastiano” lo aveva chiamato, ride-
standolo dalle sue meditazioni, una fantesca “il
Pontefice vi vuole”.
Dunque il veneziano s’era posto a percorrere gli
lunghi corridoi fino alle stanze del Papa, presi-
diate da armati che lo perquisirono a fondo prima
di lasciarlo entrare.
Il pittore sapeva che Papa Clemente era giù di
morale. Come poteva, d’altronde, essere altri-
menti? Ma l’uomo che gli comparve dinnanzi
aveva subìto, in quei terribili giorni, una dramma-
tica metamorfosi.
Invecchiato, stanco, quello sguardo un tempo
fiero, tipico dei Medici, era solo un lontano ri-
cordo. L’uomo si era lasciato crescere una barba
che lo invecchiava di colpo. Il capo scoperto,
l’espressione sofferente, lo sguardo assente, sem-
brava uno dei penitenti che risalivano la Scala
Santa sulle nude ginocchia.
“Sebastiano, buon amico mio, date un po’ di con-
solazione a questa nostra desolazione. Non recate
con Voi la Vostra carta, la vostra penna? Ebbene
Vi manderò a chiamare uno dei prossimi giorni e
voglio il ritratto della mia passione, perché questa
nostra non è diversa dalla Passione di Nostro Si-
gnore, nevvero?”
La domanda del Pontefice era così intrisa di reto-
rica che il pittore replicò con un semplice chinare
del capo.
“Quando Voi vorrete, Santità, quando Voi vor-
rete”
“Avreste mai detto che saremmo finiti così, traditi
dai nostri stessi Cardinali, aggrediti da quest’orda
di cani rabbiosi, ingannati financo dall’Impera-
tore? Ma è Sacro questo suo impero e Romano!
Non si stupra la propria madre, che Iddio lo ma-
ledica e se c’è da immolarsi lo faremo, non cede-
remo ad altri la Croce che ci fu destinata” e diceva
questo con gli occhi che spargevano sprazzi di ma-
linconia e tristezza.
Il naso diritto contrastava con le occhiaie appe-
santite dalla mancanza di sonno. La voce stessa
dell’uomo era affaticata, rauca.
Un inserviente si affacciò alla porta dello studio.
“Santità vi è qui il Baglioni che chiede udienza”.
La mano del Papa si alzò come al diffidare chiun-
que da interrompere il suo incontro col veneziano.
“Avremo fatto bene ad affidare la difesa delle no-
stre vite a questo individuo? Sapete che lo avevo
fatto rinchiudere qui al Castello? Facciamo bene
a fidarci di questo ennesimo mercenario? Non
fosse morto Giovanni le cose, lo sa solo Iddio, sa-
rebbero andate in tutt’altro modo, non credete? E
dite qualcosa, per Dio, non statevene lì impalato”
“Santità, sapete di queste materie intendo poco.
Me ne sto coi miei disegni, coi miei pennelli e tanto
mi basta, il mio piccolo mondo è per me già fin
troppo vasto” rispose Sebastiano, accennando un
timido sorriso.
“Allora se ci tenete ai Vostri pennelli state pronto.
Ora andate e accingiamoci ad ascoltare le ultime
sciagure che ci descriverà il Baglioni. E, Seba-
stiano, badate a quel Cellini, che ci ha promesso
un bel fermaglio per il Nostro piviale. Che non si
faccia accoppare prima d’averlo completato. Siete
tutti pigri e scansafatiche voi artisti. Andate, spa-
rite, andate via”.
Così che Sebastiano si allontanò non prima di aver
baciato l’anello del Pontefice.

Quella sera, rientrando presso il suo provvisorio


alloggio, poco più che un’alcova, si voltò d’un
tratto perché gli parve d’aver udito un rumore alle
sue spalle.
Con il Castello così sovraffollato era ben raro non
incrociare qualcuno, eppure il cammino fino alla
sua stanza gli apparve più silenzioso del solito. Poi
ebbe la sensazione che qualcuno lo stesso se-
guendo. Sollevò dunque una delle fiaccole appog-
giate alla parete e che illuminava a mala pena il
corridoio avvolto nella penombra.
Nessuno.
Si infilò dunque il quel piccolo stanzino dove vi
erano le poche cose che era riuscito a portare nella
sua precipitosa fuga. Solo qualche cartella con de-
gli schizzi, qualche matita e pochi capi di vestia-
rio.
“Che sarà della mia bottega? I quadri, i disegni, i
colori? Avranno devastato tutto, come si dice in
giro?” pensò.
Sedette sul letto. La candela rischiarava quella
stanza. Il contrasto con l’appartamento papale
non poteva essere più evidente. Niente stucchi,
niente tappeti, qui. Ma almeno siamo salvi, per
ora. E mio figlio Giulio? Che sarà di lui? Sarà ri-
masto a Viterbo, come gli avevo tanto raccoman-
dato? Mio Dio, che non gli venga in testa di met-
tersi a fare l’eroe.
I pensieri si accavallavano ai pensieri. Si distese
cercando di prendere sonno e guardando il soffitto
ripensò alle vòlte che aveva decorato. Il grigiore
del locale lo fece sospirare. Il tempo in cui si affre-
scavano le pareti con ninfe, frutti esotici e ghir-
lande era lontano.
Quasi si vergognava a ripensare con che giovanile
baldanza s’era dato ad decorare le logge della villa
Chigi. Si sentiva padrone del mondo, allora, e la
vita che gli si dipanava di fronte era costellata di
promesse di grandi successi.
Quando stava per addormentarsi si accorse che
stavano bussando alla porta. Un tocco leggero,
esitante, quasi.
Di certo non si trattava di uno degli armigeri che
si muovevano sempre con irruenza. Si alzò rabbri-
videndo e socchiuse la porta.
Un viso femminile gli apparve, quasi del tutto na-
scosto dal cappuccio di un saio da monaco.
“Fatemi entrare, Vi prego” disse la donna con un
filo di voce.
Sebastiano la fece passare. Quella entrò e, senza
fretta, lasciò cadere la tonica di tela grezza sco-
prendo il bel corpo nudo.
La ragazza era giovane, di carnagione chiara, o
per lo meno così parve al pittore, alla luce incerta
della candela.
I capelli erano raccolti a rivelare un bell’ovale re-
golare. Gli occhi, di un nero profondo erano ben
evidenziati dal trucco bistrato, il fisico minuto ma
ben modellato, i seni tesi, le cosce ben tornite.
Sebastiano restò incantato a quella vista. Dopo
aver visto per mesi quasi solo soldati quell’imma-
gine di tanta generosa femminilità lo eccitò nello
spirito e nella carne.
“Volete, dunque?” fece quella e, superandolo, si
distese sul giaciglio appoggiando la schiena sulla
parete, come fosse una nobile romana adagiata sul
triclinium e subito dopo sciolse la lunga chioma
corvina che le coprì i seni.
Sebastiano esitò un istante ma poi si spogliò e si
distese accanto alla ragazza.

Dopo l’amplesso ella si levò e si rivestì in fretta. Il


suo volto mostrava, a quel punto, un’espressione
dura e determinata.
“Ora venite con me, Maestro Sebastiano. Segui-
temi”.
Il veneziano, ancora stupito per quel incontro ina-
spettato, fu colpito dal tono di voce divenuto d’un
tratto più freddo e imperioso. Ciò nonostante
anch’egli si affrettò a rivestirsi e subito prese ad
andarle dietro.
Discesero per delle ripidissime scale che la minu-
scola lampada ad olio, che la giovane teneva sol-
levata, a mala pena rischiarava.
Ormai dovevano essere giunti all’altezza delle
vecchie prigioni, ora deserte. I loro occupanti
erano stati cacciati via in gran furia dato che s’era
compreso che l’assedio sarebbe durato a lungo ed
era dunque necessario ridurre il più possibile il nu-
mero di bocche da sfamare.
Ancora proseguirono per cunicoli strettissimi
dove ragni e bisce fuggivano infastiditi dalla loro
inattesa presenza.
Sebastiano aveva il respiro sempre più affannato.
Per lui, abituato alla luce, quell’oscurità era ancor
più opprimente e gli sembrava, ad ogni svolta di
quell’angusto pertugio, di doversi imbattere fac-
cia a faccia con Satana in persona.
Le pareti trasudavano umidità ed essi erano co-
stretti a procedere a testa china e, in qualche
tratto, quasi a carponi. Infine si trovarono di
fronte a una nuova scala che essi presero a salire
con cautela e loro ascesa proseguì per istanti che a
Sebastiano sembrarono infiniti.
“Fate attenzione” disse la giovane volgendo per
un attimo il suo volto. Sebastiano fu di nuovo col-
pito dalla durezza del suo sguardo, così distante
da quella espressione languida che aveva prece-
duto il loro rapporto.
Sopra di loro vi era come un coperchio circolare
che la donna prese a percuotere con forza. Un
suono metallico rimbombò lugubre come una
campana a morto.
Attesero. Dei passi si avvicinarono, prima appena
percepibili e poi più forti. La copertura metallica
si aprì con fragore ed essi poterono scorgere il cielo
stellato.
Uscirono dunque nella notte. L’aria era fredda.
Due uomini li aiutarono a cavarsi fuori da quella
che Sebastiano comprese essere la stretta imboc-
catura di un pozzo.
La luce delle tante fiaccole che illuminavano l’am-
pio cortile colpì il pittore e il contrasto con l’oscu-
rità dalla quale essi provenivano fu così forte che
Sebastiano dovette coprirsi gli occhi con la mano.
Altri soldati si unirono e il piccolo drappello, con
al centro il pittore e la misteriosa giovane si avviò
verso un imponente portone. Un uomo di guardia
si sporse da uno spioncino e diede loro il via libera
solo dopo essersi accertato che la strada fosse de-
serta.
Parte seconda – Le strade dell’inferno
“Nella sacra ruina di Roma (la cui memoria sarà
sempre lachrimabile) fatta dai soldati de Carlo V
(a cui mi par sacrilegio, solo per questo, attribuire
il nome de imperatore), condotti dal ducha di Bor-
bona, il quale, come poco fido al suo natural si-
gnore et meno a Idio, fu da una archibusata occiso
nella espugnation della muraglia (…)”

(Marcello Alberini, I Ricordi)

Quel gruppo prese dunque ad avanzare per i vi-


coli. Tutt’attorno non una luce, non una presenza
umana. Presto si imbatterono un grosso cane ran-
dagio e Sebastiano si avvide con orrore che l’ani-
male recava, ben stretto tra i denti, i resti di un
braccio. Ciò nonostante nessuno dei suoi accom-
pagnatori mostrò il benché minimo stupore a
quella vista.
Mentre camminavano in silenzio li raggiunse, ad
un tratto, un odore di decomposizione che li ob-
bligò a coprire il naso e la bocca. Davanti a loro vi
era un’alta catasta di corpi putrefatti. Era come
se d’improvviso essi avessero preso a vagare nel
più terribile girone dell’inferno, come se i quattro
cavalieri dell’Apocalisse si fossero posti a scorraz-
zare per piazze e vicoli, portando pestilenza e
morte dalle catapecchie più misere ai palazzi più
signorili.
Ovunque carri schiantati, porte divelte, finestre
in frantumi, fumo. Così era ridotto Borgo.
Da una piccola chiesa un bagliore di candele illu-
minava un gruppo di soldati accovacciati attorno
a un fuoco. Al centro della navata vi era un grosso
cavallo che si alimentava da un mucchio di biada.
Frattanto la misteriosa giovane procedeva spe-
dita come se avesse in mente un preciso itinerario.
La mole del Castello fu aggirata, lasciando il fiume
alle spalle e ad un tratto attraversarono gli archi
sotto il Passetto.
Lì dove le case erano ancora più accatastate l’una
sull’altra, l’orrore appariva ancora più intenso.
Taverne vuote, botteghe devastate, alle volte fi-
gure dall’andare incerto emergevano da quell’op-
primente oscurità e poi, alla vista del drappello ar-
mato, tornavano a nascondersi in fretta.
Ad un tratto di lontano si sentì un timido scam-
panellio al cui suono il capo del piccolo gruppo
fece un gesto della mano, indicando senza esita-
zione un cortile dove appartarsi. Dal piccolo arco
d’ingresso essi ben presto videro sfilare lungo la
strada un gruppo di becchini che allertavano, con
quei campanelli legati alle caviglie, del loro pas-
saggio.
Dietro di loro, trascinato da cavalli ridotti a sche-
letri, un carro traboccante di corpi senza vita.
A debita distanza si misero dunque a seguire quel
mesto corteo che si interruppe solo quando, giunti
al ponte più prossimo al Castello, i resti di quegli
sventurati furono scaricati senza troppe cerimonie
nel fiume sottostante.

Io questa scena l’ho vista, rappresentata dal grande


Albrecht, con i quattro terribili figuri che dispensano
fame, guerra, conquista e morte e che calpestano po-
veri e ricchi senza pietà lasciandosi alle spalle una
spianata di lutti e di desolazione.
Spero di destarmi da questo terribile incubo anche
perché questo freddo mi sta entrando fin dentro le
ossa. Allora mi sveglierò e penserò che è stato tutto
un gioco della mia mente. Allora mi sveglierò e pro-
verò a disegnare a memoria quel carro, quei corpi di-
sarticolati. L’orrore, l’orrore riportato a sanguigna
forse scivolerà sulla carta bianca e un po’ diluirà
tutto questo male che mi infetta il sangue.
***
Ma quella camminata notturna non accennava a
finire. Quel vagare senza comprendere se vi fosse
o meno una meta tra quelle strade che Sebastiano
conosceva bene, visti i lunghi anni trascorsi presso
l’Urbe, gli mise addosso un’ansietà che quasi gli
toglieva il respiro.
Eppure ad un tratto egli si avvide che stavano ri-
prendendo il cammino del ritorno, verso quel mi-
sterioso cortile, verso quel pozzo che li aveva come
sputati fuori dalle viscere oscure della terra.
Di nuovo il coperchio fu sollevato, di nuovo la gio-
vane lo precedette in quel cunicolo sotterraneo
che ella sembrava conoscere a menadito.
Ancora ripercorsero quel labirinto popolati di om-
bre e infine risalirono per quella scala a chiocciola
(ma era la stessa?) e si ritrovarono nella piccola
stanza di Sebastiano.

“Avete visto abbastanza, Maestro? Le sofferenze


del popolo innocente, delle donne violentate, dei
bambini divorati dai cani? Vi è bastato lo spetta-
colo? Ebbene, ora guardate nel fondo della Vostra
anima. Voi avete la possibilità che tutto questo
orrore si concluda in pochi istanti” disse la gio-
vane, pronunciando quelle parole con una fred-
dezza che ancor di più raggelò il sangue del pit-
tore.
Il tono della voce era deciso, senza un filo di incer-
tezza. La parlata della donna aveva qualche
inflessione popolare, ma il suo sguardo era quello
di una regina il cui dettato non ammette replica.
Sebastiano la guardava senza fiatare, aspettando
che quella giovane si trasformasse, da un mo-
mento all’altro, in un diavolo dell’inferno, che
quei piedini delicati mutassero d’aspetto per pren-
dere le sembianze dello zoccolo e che l’odore dello
zolfo infestasse la minuscola stanza.
Guardandolo fisso negli occhi la giovane sfilò una
minuscola ampolla da una tasca del saio.
“Versatene il contenuto in un calice di vino. Papa
Clemente ama consolarsi dalle sconfitte abbrac-
ciandosi a Bacco. Egli morirà e il giorno appresso
tutto sarà finito. I lanzi si ritireranno, la Città
sarà liberata, i cadaveri sepolti cristianamente.
Tagliate la testa dell’idra, Sebastiano. Avrete
molto di meglio del mio corpo, credetemi. E non
dimenticate che per ogni giorno che indugerete la
peste e i saccheggi mieteranno nuove morti e un
po’ di questa colpa, ora lo sapete bene, sarà anche
Vostra”.
Pronunciate queste ultime parole la ragazza si di-
leguò, scomparendo dietro la porta.

Ma perché io? Come sono arrivati a me, con questa


proposta, con questo ignobile ricatto? E chi sono io,
dunque, per decidere chi vive e chi muore? Posso met-
termi a giocare a far l’Onnipotente?
D’altro canto mio Dio quanta desolazione, quanta
morte per queste strade. Quando finirà tutto questo?
Signore benedetto, indicami tu il cammino…
Sebastiano trascorse in uno stato allucinato quel
che restava della notte. Si guardava i palmi delle
mani, osservava il suo viso nel piccolo specchio.
Sta succedendo a me?
Guardava e riguardava controluce la piccola am-
polla, tentato quasi di inghiottirne lui stesso il
contenuto e abbandonare per sempre quella valle
di lacrime.
Poi, come colto da un’intuizione provò a ripercor-
rere quel medesimo cammino che li aveva portati
fuori dal Castello, ma invano.
I corridoi sembravano tutti uguali ma dov’era
dunque quella postièrla che conduceva al cammi-
namento lungo e tortuoso da loro seguito solo
qualche ora prima?
Dalle celle vuote delle prigioni quella via miste-
riosa sembrava scomparsa. Ma del fatto che di un
sogno non si fosse trattato Sebastiano traeva la
certezza rigirando tra le dita la piccola boccetta.
Ancora vagò per delle ore senza risultato nella
speranza di incontrare di nuovo quella misteriosa
donna. Forse a mente fredda avrebbe potuto farle
qualche domanda. La sua era una vendetta perso-
nale contro il Papa o dietro si celavano ragioni più
profonde?
E cosa avrebbe fatto, se pure avesse trovato
quell’apertura? Si sarebbe avventurato in quel de-
dalo sotterraneo?
Forse poteva chiedere a Benvenuto di accompa-
gnarlo. Se avessero compreso in quale palazzo si
trovava l’imboccatura del pozzo avrebbero dato
un nome al mandante di quel delitto.
Uccidere il Papa.
Frustrato e stanco Sebastiano fece ritorno all’al-
loggio e, non appena si distese sul giaciglio fu colto
da un tremore.
Ecco, questa passeggiata nell’orrore mi ha por-
tato ad ammalarmi. Forse sono io stesso il cava-
liere che diffonderà la peste presso il Castello e non
occorrerà neppure avvelenare il Pontefice.
Si vide cadavere tra i cadaveri, finito su uno di
quei carretti che trasportavano il loro lugubre ca-
rico per scaricarlo in Tevere.
La fronte bruciava e respirava a fatica ma infine
fu colto da un sonno pietoso e sognò.
Era su una piccola barca, con suo padre che re-
mava. Il sole tramontava e tutt’intorno c’era un
senso di pace. I remi scivolavano nell’acqua quasi
senza rumore. Il piccolo Sebastiano guardava am-
mirato quel padre suo che si muoveva con sicu-
rezza tra le piccole isole della laguna veneziana.
È il Paradiso, questo? Era il Paradiso, quello, pa-
dre mio?
Lo ridestarono due inservienti che lo scuotevano
con certa veemenza.
“Maestro Sebastiano, il Papa vi richiede” gli fece
uno. Ma l’altro guardandolo bene in viso disse al
suo compare “Questo pare abbia visto la morte in
persona, guarda che brutta cera ha in volto. Ci fi-
diamo a portarlo negli appartamenti? Non sarà
ammalato?”
“Ma cosa vuoi che sia ammalato, questo qui si è
divertito con una donna” gli fece l’altro ridendo, e
indicò un fazzoletto ricamato caduto in terra
“suvvia Maestro, non facciamo aspettare il
Papa”.
Così che il pittore fece appena a tempo a rinfre-
scarsi il viso con l’acqua del catino e, tremante di
freddo e di paura, ripensando alla terribile notte
trascorsa, afferrò l’occorrente per disegnare e cac-
ciò tutto nell’ampia borsa di cuoio che recava
sempre con sé.
Uscirono dunque, ma poi al pittore venne come
un’intuizione e, rientrando nella stanza, afferrò
l’ampolla e la infilò una tasca della giubba.

I due inservienti lo condussero presso gli apparta-


menti del Pontefice ma Sebastiano rimase per un
istante interdetto quando non fu introdotto nello
lo studio privato ma nell’ampio vano rettangolare
che fungeva da bagno.
Pur se l’ambiente era avvolto dal vapore il vene-
ziano non poté fare a meno di riconoscere, nelle
decorazioni delle pareti e dei soffitti, la felice
mano del suo amico Giovanni da Udine.
Quegli stucchi, quei puttini, quei giri d’acanto,
quel gusto che sembrava riportare alla lontana
gloria delle terme romane… per un istante Seba-
stiano rivide sé stesso e il suo amico affaccendati
presso la villa di Agostino Chigi.
Subito lo assalì un’improvvisa nostalgia per quel
tempo in fondo non troppo distante ma che, alla
luce di tutti i drammatici fatti che erano accaduti,
sembrava risalire a mille anni prima.
Il Pontefice era immerso in una grande vasca. Gli
occhi chiusi, egli mormorava frasi a mezza bocca
come se stesse pregando.
Sebastiano, in evidente imbarazzo, non sapeva se
attendere un comando esplicito prima di avvici-
narglisi.
“Cosa dobbiamo fare? Voi lo sapete?” mormorò
l’uomo sollevando il viso e rivolgendosi a lui, e il
pittore dovette farsi più dappresso per riuscire a
intendere con chiarezza quelle parole.
“Dobbiamo dunque arrenderci? È questo che ci
indicano i consiglieri. Arrenderci. Il Vicario di Cri-
sto finito in prigionia, come un ladrone. Oppure
dobbiamo resistere ancora? La Città è stremata,
le religiose violentate, la nostra Basilica ridotta a
una stalla, carri trasportano ostensori e patene
sottratte alle nostre chiese, tombe sono profa-
nate… è l’Apocalisse, questa?” diceva quello, ma
sembrava rivolgersi a sé stesso più che al suo in-
terlocutore.
In silenzio, Sebastiano seguitava a restare in
piedi, rigido, senza sapere come comportarsi. Il
luogo era caldissimo giacché da una bronzea Ve-
nere nuda scaturiva un getto d’acqua fumante che
riscaldava la vasca.
Ma ad interrompere quel silenzio fu uno degli in-
servienti che si avvicinò al bordo della vasca. No-
nostante parlasse a bassissima voce Sebastiano
percepì chiaramente che il Cardinale Armellini,
uno degli alti prelati che avevano trovato rifugio
nel Castello, era appena spirato.
Di nuovo il Papa parlò.
“Che poi è anche colpa sua se la Città cadde.
Tanto scaltro negli affari quel Francesco ma sa-
pete che mi dissero? Dico a Voi, Sebastiano! Che
da un tratto delle mura presso porta Terrione pe-
netrarono gli infami lanzi. E sapete perché? Per-
ché il defunto Cardinale, che Iddio lo prenda a fru-
state, aveva fatto erigere una casetta abusiva nel
suo orto e da quella finestrella mal mimetizzata si
infiltrarono quelli, come topi di fogna. Maledetti,
maledetti tutti” prese a dire, il tono della voce fat-
tosi d’improvviso assai più duro, lo sguardo pieno
d’odio.
A quel punto Sebastiano, come guidato da una
mano divina, si mise in ginocchio e guardò il Pon-
tefice dritto negli occhi.
“Vi supplico, Santità, Vi scongiuro di far cessare
questa strage di innocenti. Solo Voi potete farlo,
solo Voi avete questo potere” e improvvise la-
crime scesero dal suo viso.
Il Papa lo guardò sorpreso, poi con una mano si
coprì gli occhi.
“Vi accompagnerò, Santità, non Vi lascerò un
istante se me lo permetterete ma Roma, Roma sta
sanguinando e non possiamo restare inerti di
fronte a questa distruzione”
“Vi ho chiamato per il ritratto, Luciani, non per
ascoltare la Vostra implorazione” replicò il Pon-
tefice spazientito, ma poi subito, come pentito
d’aver usato un tono tanto brusco di fronte a quel
dolore sincero, riprese a parlare in modo più pa-
cato.
“Sì, avete ragione, amico mio, non si può costrin-
gere la Città Santa a questo infinito supplizio.
Non è giusto che il cuore della cristianità soffra
queste pene infernali”.
Di nuovo un inserviente si avvicinò con discre-
zione.
“Santità vi è di nuovo il Baglioni che viene a rife-
rire”
“Fatelo passare” fece il Papa.
A quel punto Sebastiano fece per ritirarsi ma il
Pontefice lo invitò a restare.
L’espressione dell’uomo d’armi, mentre fece il suo
ingresso nel locale, era seria.
“Santità, posso parlare?” chiese accennando al
pittore.
“Il Luciani è persona fidata, altrimenti credete sa-
rebbe qui?”
“Ebbene, Santità, abbiamo resistito per mesi
all’assedio. Ora dobbiamo per forza cedere, ma la
cifra pattuita per la ritirata dei nostri nemici non
è così elevata. Anche essi sono decimati dalla pe-
ste e ormai hanno saccheggiato tutto il possibile.
Se firmerete l’accordo sarete tenuto in ostaggio
fuori dal Castello fin quando tutta l’importo sarà
stata versato. Ma Vi garantisco con la mia vita
che non Vi sarà torto un capello. Anche i nostri
avversari sono stanchi e molti hanno già ripreso la
via di casa”
“Di nuovo, Santità” fece ancora il pittore, quasi
stupito del suo stesso ardire “Vi supplico di ascol-
tare se non le mie umili parole quelle del Vs. Co-
mandante”.
Il silenzio calò tra i tre uomini e rimase solo il ru-
more dell’acqua che si infrangeva pigramente sui
bordi della vasca.

“Il Cardinale Armellini è crepato? Spero sia spe-


dito di gran galoppo all’inferno, caro il mio vene-
ziano. Buono solo a tassare il popolo, sapete? Mise
perfino un’imposta sui tordi importati nell’Urbe,
capite? Sui tordi! E fu lui, avido vecchiaccio, che
mise in testa a Papa Clemente l’idea malsana che
si potevano risparmiare migliaia di scudi conge-
dando le milizie che difendevano l’Urbe dato che
egli in persona garantiva sull’intangibilità delle
sacre mura” si sfogava un capo drappello.
Ormai Sebastiano li conosceva tutti uno per uno
quei soldati e loro conoscevano lui e sapevano che
era un buon ascoltatore dei loro sfoghi.
E un altro riprendeva “Pensate che di fronte a co-
stui perfino il Cardinale Colonna, infame e tradi-
tore, si meritò la mia stima, quando pronunziò in
faccia a tutti che l’Armellini andava scorticato
vivo e la sua pelle portata in giro per tutto l’intero
Stato pontificio!”.
Ossia che l’encomio funebre era stato pronun-
ciato, venuto dal cuore stesso di quella soldataglia
ormai debilitata, affamata, stanca, sudicia, desi-
derosa solo di fuggire da quella prigionia per ri-
prendersi di nuovo una vita o di quello che della
vita restava.
Parte terza – La resa

“…poi che non sono atti questi indegni preti a


guerreggiare, et non possano fare senza i merce-
narìi soldati, doverebbono con più giudicio gover-
narsi et non se intromettere nelle parzialitati et
odii delli principi cristiani se non in bene et santa
concordia.” (Marcello Alberini, Narrazione o
diario del saccheggio di Roma del 1527)
“Doveva pur finire così” mormorava uno dei sol-
dati, sconsolato, a un suo commilitone.
Si dice così: che la sconfitta è silenziosa mentre la
vittoria è dotata di voce stentorea. Sicché quegli
uomini, dopo mesi di resistenza, stremati dalla fa-
tica, decimati dalle poche bocche da fuoco che gli
assedianti possedevano ma che non per questo ri-
sultavano meno micidiali, contavano con impa-
zienza le ore e i minuti che mancavano alla resa.
“Si sapeva che prima o poi questo altalenare di al-
leanze avrebbe condotto a questa umiliazione;
non si può stare e un giorno con i francesi e quello
appresso con gli spagnoli” questo si diceva tra le
mura della Mole.
Ormai la fine dell’assedio era questione di poco e
Sebastiano tirava un sospiro di sollievo.
Che fine avrebbe fatto Papa Clemente nessuno lo
sapeva, ma di certo non sarebbe stato gettato
nella cella oscura di qualche prigione. Si parlava
di quattrocentomila scudi da versare affinché gli
assedianti abbandonassero per sempre l’Urbe. Ma
questa cifra, enorme financo per le casse del Papa,
non era disponibile se non per un quarto e dunque
il Pontefice, lasciato il Castello, sarebbe rimasto
in custodia, assieme ad altri prelati, in un palazzo
non distante dalla Basilica.
“Peggio di così? Poteva andar peggio di così? Io
non mi sarei arreso mai” si sfogava Benvenuto,
ma anch’egli sapeva, in cuor suo, che le sue erano
parole vane, fanfaronate.
Ormai in Castello le scorte di cibo erano esaurite,
non c’era legna per scaldarsi, non si sapeva nep-
pure dove seppellire i tanti morti, uccisi dal fuoco
nemico o dalle malattie.
Le quasi tremila anime che avevano convissuto
forzatamente per mesi e mesi tra quelle possenti
mura potevano ora tentare di riacquistare la loro
libertà, ma a caro prezzo!
“Che credevate, che avrebbero liberato tutti que-
sti nobili e prelati gratis et amore Dei? Questi lute-
rani non sanno neppure chi è Domineddio” conti-
nuava a lamentarsi Benvenuto ma altri del corpo
di guardia lo smentivano.
“Cosa andate bofonchiando? Quella specie di eser-
cito radunato dal quel cane traditore del Cardi-
nale Pompeo Colonna era forse composto da ere-
tici? No, caro il mio fiorentino, avete una buona
mira e ne abbiamo viste di Vostre imprese in que-
sti mesi, Ve ne diamo atto… ma in quanto alla
politica fareste meglio a tacere. Piuttosto il nostro
Pontefice è stato… ebbene sì… ingenuo. I nemici
sono fuori della Chiesa ma anche e soprattutto
dentro, del resto il Cardinal Colonna non aveva
forse organizzato un complotto già sotto Papa
Giulio regnante? Come si dice il lupo perde il pelo
ma non il vizio”.
“E pure il Colonna forse non è così infame come lo
si dipinge. Io posso dirvi che giorni addietro,
quando incontrò il Papa durante le trattive per la
resa, egli prese a piangere al pensiero delle scia-
gure procurate alla Città e chiese perdono” diceva
uno degli uomini della guardia.
“E il Papa? Cosa disse il Papa?” gli chiese il suo
interlocutore.
“Pianse anche lui, ammettendo i propri errori.
Questo ho visto io con gli occhi miei, liberi voi di
credermi”.
Ma un altro luogotenente portava ancora altri ar-
gomenti.
“Sapete, a migliaia sono arrivati i contadini dai
feudi colonnesi. Hanno finito di saccheggiare il
poco che rimaneva… altro che luterani e per dirla
tutta, quel Carlo Imperatore è forse luterano?
Cattolicissimo e romano si definisce!”
“Ma è lui che ci ha scatenato contro i lanzi, Ve ne
siete scordato?” faceva un altro.
Così si andava avanti, a ragionare e litigare e par-
lare e replicare, tutto questo in attesa che il ponte
levatoio fosse abbassato e finalmente si potesse
tornare alla libertà.
Ma la vita di un tempo non sarebbe mai stata la
stessa, pensava Sebastiano. Dopo gli orrori che
aveva visto la prospettiva di riaffacciarsi alla luce
del sole non gli appariva così rosea come agli altri
prigionieri del Castello.
Soltanto un desiderio aveva, rientrare alla sua
bottega per accertarsi dei danni provocati
dall’orda degli invasori. Che ne era stato dei suoi
cartoni, delle lastre d’ardesia, dei pennelli, dei co-
lori? Che spettacolo lo attendeva?
Ma questo pensiero, a meglio riflettere, gli appa-
riva meschino quando ripensava a tutte le trage-
die che aveva visto abbattersi attorno a lui.
Per settimane, per mesi aveva intravvisto, al ri-
paro dei torrioni, incendi e devastazioni, ma fino
a quella notte, fin quando non aveva calcato
quelle strade straziate, fin quando gli effluvi della
morte non gli avevano tolto il fiato, fin quando i
suoi occhi non erano stati raggiunti dall’acre
fumo, ebbene fino ad allora egli era aveva vissuto
quel dramma a distanza di sicurezza, come le di-
vinità del Parnaso assistono, dall’alto, alle vi-
cende umane.
No, Sebastiano mio, diceva a sé stesso, nulla sa-
rebbe stato come prima.
Mali fuere Germani, peiores Itali, Hispani vero
pessimi (Kilian Leib, Historiarum sui temporis
ab anno 1524 usque ad annum 1548 Annales)

Nella Città si assisteva alle ultime scaramucce tra


drappelli di soldati che prendevano la via del ri-
torno e quelle milizie fedeli al Papa che si erano
andate riformando dopo quei drammatici mesi.
Ad uno di questi combattimenti assistette il buon
Sebastiano e ancora una volta l’uomo ebbe l’im-
pressione che la ferocia e la cattiveria degli uomini
fossero come un ininterrotto ed infinito torrente
di mefitica lava.
Negli ultimi tempi quelle soldataglie imperiali,
stanche di spadroneggiare per l’Urbe in lungo e
largo, avevano preso ad imbarcarsi su grosse
chiatte dalle parti di Ripa e queste erano cariche
di tutto quel che era possibile rubare: monete,
gioielli, perfino ostensori, patene ed altri oggetti
religiosi. Ma oltre agli oggetti di valore venivano
issati a bordo anche tutti i feriti che era possibile
trasportare.
Mentre le operazioni di carico proseguivano senza
fretta capitò che di quegli sgherri comandati da
Napoleone Orsini, che già s’erano distinti per le
stragi di quei drappelli di lanzi che s’erano ritro-
vati improvvidamente isolati fuori delle Mura, si
avvidero di quanto il momento fosse propizio per
attaccare i propri nemici.
Lo scontro fu breve ma provocò una vera strage
tra spagnoli e tedeschi. Nessuno scampò a quelle
furie che non si fermarono fin quando anche l’ul-
timo degli avversari non fu trucidato. Le due
grosse imbarcazioni furono sequestrate e tutti
quei beni divennero bottino dei vincitori, che già
nei giorni precedenti avevano saccheggiato le case
dei giudei, ben sapendo che nessuna autorità li
avrebbe perseguiti.
Ma se questi soldati si attendevano un’ovazione di
giubilo da parte dei cittadini di Roma, essi erano
in grave errore.
“Queste bravate rischiano di rallentare l’esodo de-
gli occupanti. Chi ci garantisce che gli spagnoli
non decidano di tornare in forze per vendicare
questi caduti?” questo si diceva in un’hostaria,
dove i tanti avventori avevano assistito a
quell’ennesima carneficina.
Ovunque si parlava di vendette, di rese dei conti.
Molte famiglie vicine ai Colonna erano state og-
getto di violenze e di saccheggi.
“Si tornerà mai alla normalità? A poter cammi-
nare per le strade senza imbattersi a ogni piè
sospinto in queste squadre di assassini?” chiedeva
il pittore.
Ma nessuno gli rispondeva più, tutti ormai conta-
giati da quel cinismo che rende i cuori più duri
della pietra.
Nelle settimane successive, però, poco a poco an-
che le ultime ostilità cessarono e un minimo di or-
dine venne ristabilito.
“Ma la cosa curiosa, amico mio” gli faceva Benve-
nuto “e che ora tutti i potenti giocano a fare gli
indignati. Che la Città Eterna non doveva dive-
nire un campo di battaglia, con tutti questi
scempi, distruzioni ed assassinii. Che occorreva
mostrare rispetto per il Papa e i Cardinali. Che
neppure Attila, che neppure Totila. Insomma,
amico mio, come è comune uso e costume ciascuno
addossa le colpe sul groppone degli altri, questa è
la morale della favola”.

E quella misteriosa donna? Che fine aveva fatto,


si domandava Sebastiano. Alle volte, ripensando
a quei fatti singolari, aveva quasi l’impressione
che tutta quella vicenda fosse come una sorta di
delirio, un frutto della sua immaginazione troppo
a lungo segregata in Castello.
Del resto era pur comprensibile, tutti quei mesi di
forzata clausura, quei corridoi così opprimenti,
quelle fiaccole con la loro lugubre ed incerta luce,
e quel continuo fragore degli scambi di colpi di ar-
tiglieria.
Eppure Sebastiano sapeva che quella donna, che
gli si era concessa in circostanze così oscure e che
lo aveva trascinato in quell’avventura notturna,
esisteva davvero, aveva camminato per quelle
strade, respirato l’aria di quei vicoli, proiettato
un’ombra su quei muri.
Guardava e riguardava quell’ampolla fin quando
decise di disfarsene e pensò che solo il fiume po-
teva custodire quel suo segreto. Uscì dunque dalla
sua bottega e si diresse verso il ponte più vicino.
Giunto lì la scagliò lontano ma proprio mentre se-
guiva la parabola del minuscolo flacone di vetro si
avvide che presso la riva sottostante s’era formato
un piccolo assembramento.
Discese con cautela l’erto pendio che conduceva
all’acqua fin quando raggiunse il gruppo degli
astanti. Un corpo, rimasto impigliato tra i can-
neti, veniva riportato all’asciutto.
“È una donna” disse uno dei barcaioli mentre in-
torno a lui gli altri si segnavano.
Che fosse lei? Sebastiano si avvicinò, col cuore che
prese a battergli forte in petto, ma non gli riuscì
di riconoscere quel volto, sfigurato dalla perma-
nenza nell’acqua. Neppure il vestito della sfortu-
nata, lacerato in più punti, gli diede elementi per
identificarla con sicurezza.
“È stata pugnalata, guardate qui” fece uno che si
era inginocchiato acconto a quel povero corpo.
Frattanto erano giunti dei soldati che si incarica-
rono di rimuovere il corpo della sventurata. Un
prete, chiamato in fretta e furia da una vicina
chiesa, benedì quei miseri resti.
“Dove la porteranno?” chiese il pittore.
“Se nessuno la reclama questa sera stessa finirà
nella fossa comune a Testaccio. Ma perché lo do-
mandate? Credete di riconoscerla?” gli rispose la
guardia che comandava il piccolo drappello.
Il veneziano continuò a guardare ma in tutta one-
stà non seppe dare alcuna risposta certa. Ma poi,
rifletté, anche se avesse identificato in quel corpo
straziato la donna di quella misteriosa notte cosa
avrebbe potuto dire al riguardo?
Con un cenno negativo del capo egli si allontanò
da riva e mestamente riprese la via di casa.
Io rifuggivo da quel tempo di guerra, io che non ho
mai ambìto a vittorie alate e trionfi. Il lavoro mio mi
assorbiva per intero e se mi avessero dato anche pochi
scudi l’anno me ne sarei stato con i miei pennelli e le
matite a frugare tra le umane miserie per trarvi an-
che solo una scintilla di quella bellezza che scorre
eterna come la luce.
Ecco perché il Cristo straziato, il Figlio di Dio On-
nipotente, non poteva essere mostrato guasto nelle
carni pur se i suoi aguzzini sudano e bestemmiano e
si affannano a menar frustate a piene mani. Egli
rimane intatto di una purezza che nessuna divinità
dell’Olimpo potrà mai eguagliare.
***
Ma per quanto Sebastiano tentasse di tornare alla
vita d’un tempo c’era, a circondarlo, la desola-
zione della sacra ruina, come ora era stata ribat-
tezzata l’Urbe, e ogni pietra, ogni angolo di
strada, vicolo o piazza sembravano gemere di do-
lore.
Come dopo una tempesta quando le acque, dopo
aver flagellato un porto o un’isola, con oziosa len-
tezza si ritirano, per disvelare poco a poco la scia
di distruzione che esse stesse hanno generato, così
gli invasori, italiani, spagnoli, tedeschi o lanzi che
fossero se ne andavano poco alla volta, ma non
prima di aver riscosso le taglie dei loro prigionieri.
E non sempre le prede erano tanto facoltose op-
pure, pur se benestanti, non disponevano di li-
quidi sufficienti a pagare il loro riscatto.
Taluni lasciavano i propri figli in ostaggio per af-
frettarsi a vendere un terreno, una casupola, una
bottega e spuntavano prezzi risibili ma tant’è.
Del resto per chi ci rimette in un affare c’è sempre
quello che al contrario ci guadagna e l’occasione
non fa l’uomo ladro ma spesso, ahimè molto
spesso, lo rende avido fino all’ingordigia.
In effetti si faceva sempre più evidente come oltre
alle perdite materiali quella terribile successione
di eventi avesse messo in mostra l’intero campio-
nario delle umane bassezze.
Fratelli avevano tradito i propri fratelli, amici i
propri amici o si era scoperto che per salvare dal
saccheggio i propri palazzi taluni s’erano adope-
rati d’impegno nel mestiere odioso della delazione.
D’improvviso tutti si erano rivelati alleati e sodali
da sempre et usque in aeternum degli imperiali, ma
questo non bastò a risparmiare a molti di loro la
prigionia o la morte.
“E se il riscatto non viene saldato nel termine pat-
tuito il malcapitato finisce decollato” si sentiva
dire spesso nelle piazze. In effetti dalle tante pri-
gioni improvvisate in Trastevere s’era vista ruz-
zolare, più di una volta, qualche testa e queste ese-
cuzioni sommarie servivano a convincere chi si
provava a prender tempo a pagare hic et nunc
quanto pattuito.

Ma la nuova che tanto clamore fece nella città de-


vastata, che rimbalzò per tutte le strade
dell’Urbe, era che dopo pochi giorni di custodia
Papa Clemente era riuscito a fuggire.
Le voci più insistenti riferivano che era stato Ro-
domonte Gonzaga in persona, al capo di un drap-
pello di cavalieri e archibugieri, a dar l’assalto al
palazzo dove il Pontefice era custodito.
“Da ortolano, il Papa è stato camuffato da orto-
lano, ve lo immaginate, per non dare nell’occhio e
così conciato ha passato senza affanni i controlli a
Porta Salaria ed è sparito” gli raccontava Benve-
nuto guardandosi attorno.
“Il Gonzaga? Ma non era proprio lui fra quei co-
mandanti imperiali che diedero l’assalto a Porta
Settimiana e per primi irruppero in Trastevere?”
chiese Sebastiano.
“Amico mio, qui a Roma le strade non sono mai
tanto dritte, non te ne sei ancora avveduto? Si tor-
cono e si contorcono come il fiume Tevere. Ora ac-
cade che il Rodomonte nel mentre ci assediava
venne a sapere che tra tutta l’umanità varia as-
serragliata in Castello vi era anche suo fratello
Pirro, che a differenza sua aveva scelto la carriera
ecclesiastica. Ecco allora che il prode uomo d’armi
si adoperò in tutto e per tutto affinché l’assedio si
concludesse al più presto e senza ulteriori spargi-
menti di sangue”
“E dunque? Cosa succede?”
“Succede che Rodomonte ricevette l’assenso
dall’imperatore in persona a stabilire una capito-
lazione incruenta ma nel contempo ottenne dal
Papa una promessa affinché Pirro venisse creato
Cardinale. Ma son certo che Papa Clemente gli
avrà richiesto sottobanco anche il favore di accor-
ciare i tempi della prigionia in Prati. Ed ecco spie-
gate le ragioni di questo coup de main. Ed ora il
Papa è stato scortato in sicurezza ad Orvieto e di
certo questa fuga ridurrà o addirittura azzererà il
saldo riscatto. Per San Giovanni Battista pa-
trono, ma debbo spiegarti proprio tutti, ve-
nexian!” concluse Benvenuto con una delle sue
contagiose risate.
Sebastiano lo aveva guardato per un attimo, so-
spirando come a dire non è colpa mia se di queste
cose non mi intendo.
***
Rientrato nel proprio studio che per puro mira-
colo era sfuggito alle razzie Sebastiano si adoperò
nei giorni successivi a ripulire il locale dalla pol-
vere e dalle ragnatele che si erano accumulate.
Ma in fondo, s’era detto in cuor suo, dopo aver
spalancato l’uscio, poteva esser andata molto peg-
gio.
“Maestro Sebastiano, sursum corda! Cos’è
quest’espressione di tristezza? Siamo vivi, siamo
scampati da morte certa, ci siamo quasi divertiti”
continuava il vigoroso fiorentino cercando di dare
un po’ di animo al suo amico.
Ma una silenziosa melanconia aveva afferrato il
veneziano, quella che tanto bene conosce chi è uso
a veder spegnersi il sole in un pianissimo tra i ri-
flessi dorati della laguna.
Scorgendo un liuto poggiato in un angolo Benve-
nuto lo afferrò e tosto prese ad accordarlo con una
delicatezza che sorprese Sebastiano. Quando l’af-
finatura fu completata quello gli passò lo stru-
mento “Suvvia, cantatemi qualcosa, rallegria-
moci gli animi e guardate che ho qui con me un
regalo che ci farà piacere degustare”.
Sebastiano rimase colpito da quella richiesta.
Prese lo strumento in mano e si provò a muover le
dita per scaldarle e quella scena lo riportò a Vene-
zia, quando con Zorzi, il suo grande amico pittore
e musico, improvvisavano vere sfide musicali
nelle grandiose feste che si tenevano, di volta in
volta, nei più prestigiosi palazzi della Serenissima.
Ora egli era solo e quella felicità d’un tempo, quel
cantare pensando a una donna amata gli sem-
brava fuori luogo, come se il tempo avesse consu-
mato quel desiderio vitale, quell’energia che fa
spuntare i fili d’erba, quell’amore che muove il
sole e le stelle.
Trasse qualche nota, qualche timido accordo che
risuonò tra le pareti di quella piccola stanza e Ben-
venuto sedette su uno sgabello ad ascoltarlo, in-
cantato da quei suoni struggenti.
Con gli occhi chiusi Sebastiano vedeva passare da-
vanti a sé passioni lontane, volti di dolci fanciulle
con le quali tante liete ore erano trascorse, nell’in-
timità di quelle barche cullate dalla corrente.
Un fiasco di vino, della frutta, delle gallette dolci,
quei corpi che si stringevano in languidi abbracci
senza ombre, senza incertezze, quando la giovi-
nezza appare, ai fortunati, come un’arcadia senza
tempo, un’infinita successione di giorni e di spen-
sieratezza.
“Ma ora, dopo tutto questo, come potremo ancora
cantare?” disse a un tratto, interrompendo quella
bella progressione di note “Come potremo tornare
a vivere? Hai visto la scritta sui freschi di Villa
Chigi? Mi hanno detto che significa qualcosa come
“Perché io che scrivo non dovrei ridere? I lanziche-
necchi han fatto correre il Papa” e quelle parole re-
steranno lì per sempre, su quelle pareti, su questo
mio cuore”.
Ma il suo buon amico gli porse un bicchierino di
liquore, versandolo in un bicchiere preso da una
madia impolverata.
I due sedettero allora in silenzio, ciascuno im-
merso nei propri pensieri. Poco lontano scorreva il
fiume, del tutto ignaro di quei morti, di quei vivi,
di quei Papi, di quei mendicanti e mai come in
quel momento Sebastiano sperò, nel più profondo
dell’animo, che esistesse davvero un Dio pietoso
che tutto potesse perdonare. Si afferrò a quell’idea
e prese a piangere in silenzio e quel pianto fu la più
autentica preghiera che mai quell’anima sensibile
elevò al cielo.
Benvenuto, frattanto, tra un sorso e l’altro di li-
quore, si era addormentato, la sua lunga figura
s’era distesa sulle tavole di legno del pavimento.
Nel camino la legna andava consumandosi senza
fretta e c’era un bel tepore nella stanza.

Sebastiano, destatosi da quel momento di solita-


ria commozione, proseguì nell’arduo compito di
mettere ordine tra le sue cose.
Molti progetti si erano accumulati nei mesi prece-
denti l’invasione ed ora egli contemplava quelle
cartelle piene zeppe di disegni e lo colpì il fatto che
lavori ormai completati, finiti ad abbellire chiese
e palazzi, ritratti di gentildonne, patrizi e prelati
giacevano mescolati alla rinfusa assieme a com-
mittenze che erano ancora da principiare.
Riguardando quelle pile di carta provò come una
fitta dolorosa e si sentì d’un tratto più vecchio e
più stanco al pensiero d’aver doppiato ormai da
tempo quel mezzo del cammin di nostra vita.
Ma un volto, fra i tanti disegni che andava sfo-
gliando, lo colpì più di tutti, quello per la
Maddalena che appariva nella grande pala per la
chiesa di San Giovanni Crisostomo a Venezia.
Cecilia… quanto aveva amato quella modella
quando, quasi venti anni prima, s’era trovato alle
prese con quell’opera. Per quella dolce fanciulla
aveva riservato una prospettiva particolare,
unica figura di quel gruppo di santi con lo sguardo
rivolto allo spettatore.
Sebastiano sedette su uno sgabello reggendo il di-
segno tra le mani. Come avrebbe voluto, in quel
preciso momento, accarezzare di nuovo quel
volto, riprendere a corteggiare quella fanciulla.
Ma egli era, a quel tempo, ancora così giovane e
inesperto e il suo futuro tanto incerto e quando
seppe che ella andava in sposa a un Procuratore
di San Marco non provò quasi rancore, ragio-
nando che quell’uomo poteva offrirle ben altre si-
curezze.
In cuor suo si avvide, guardandosi indietro, e lo
comprese solo in quel momento, quanto quella de-
lusione d’amore avesse influenzato la sua deci-
sione di lasciare Venezia per scendere a Roma.
Sì, il ricco Agostino Chigi, sì quella promessa di
avere sempre il vento in poppa, quelle aspettative,
quegli incarichi, quei successi.
Sebastiano chiudeva gli occhi e ripensava a quei
momenti di intimità, quando la modella posava
per lui tenendo nella mano quel recipiente col
quale Maria di Magdala, la santa rappresentata,
aveva profumato i piedi del Signore.
Un ricciolo le ricadeva sensuale sulla guancia e
l’altra mano era rivolta verso il proprio ventre,
come a indicare sé stessa.
Ma quel tempo era ormai lontano e un’altra vita
si era dipanata da allora e quella vita, come dopo
un lungo inverno, andava riprendendo forze ed
energie.
Con su sospiro continuò a sfogliare i disegni ed
ecco che arrivò agli schizzi che gli aveva fatto per-
venire da Firenze, appena prima che si scatenasse
quell’apocalisse, il Buonarroti.
Prese a seguire quelle linee e subito gli tornò alla
mente quel suo geniale amico e maestro che sem-
brava, con la perfezione delle opere sue, conten-
dere agli dei stessi l’immortalità.
E allora, sospirando, comprese che non vi era che
questa risoluzione: di rimettersi al più presto di
buona lena al lavoro.

Scritto tra Roma, Venezia ed altri luoghi ancora,


2019-2020
Note
Dopo i drammatici mesi descritti in queste pa-
gine1 Sebastiano Luciani fu chiamato a nuovi in-
carichi da Clemente VII. Il Pontefice gli garantì
una relativa sicurezza economica affidandogli la
carica di piombatore pontificio, ossia di guardasi-
gilli delle bolle e delle lettere apostoliche. Ecco che
egli divenne, per tutti, Sebastiano Del Piombo.
Su questa carica il Nostro scriverà all’amico Pie-
tro Aretino, nel dicembre 1531 “E viva papa Cle-
mente! E dite al Sansovino che a Roma si pesca of-
fizi, piombi, cappelli2 ed altre cose, come voi sapete;
ma a Venezia si pesca anguille e menole e masenette;
però con sopportazione della patria mia, io non dico
per dir male della patria, ma per ricordar le cose di
Roma al nostro Sansovino, quale voi ed egli insieme,
lo sapete meglio di me; e al nostro carissimo compar
Tiziano vi degnerete raccomandarmi fratescamente,
e a tutti gli amici e a Giulio nostro musico (…)”.
Nel 1531 scrisse a Michelangelo che “io mi son ri-
dotto a tanto che potria ruinar l'universo che non me
ne curo e me ne rido d'ogni cossa (…). Ancora non

1 Il Sacco si protrasse dal 6 maggio 1527 al 17 febbraio 1518

2 Qui Sebastiano si riferisce alle berrette cardinalizie (NdA)


mi par esser quel Bastiano che io era inanti al Sacco:
non posso tornar in cervello ancora”.
Il Papa impose, però, all’artista di indossare la to-
naca di frate. “Se me vedessi frate” scriverà ancora
a Michelangelo, “credo certo ve la rideresti. Io sono
il più bel fratazo di Roma. Cossa in vero non credo
pensai mai”.
Il giudizio del Vasari su Sebastiano Veniziano è ar-
ticolato. Di certo non si spreca in lusinghe quando
afferma che “la promozione sola liberalità e magni-
ficenzia di quel famosissimo principe, a chi serviva
Sebastiano Veneziano eccellentissimo pittore, remu-
nerandolo troppo altamente, fu cagione che di solle-
cito et industrioso diventasse infingardo e negligen-
tissimo”.
Ma poche righe dopo afferma che “mentre durò la
gara della arte fra lui e Raffaello da Urbino, si affa-
ticò di continuo per non essere tenuto inferiore in
quella arte, nella quale cozzava di pari”.
Certo è che dopo la scomparsa del geniale urbinate
sulla scena romana Sebastiano rimase il miglior ri-
trattista e anche tanto altro.
Personalmente non credo che il veneziano abbia
nulla da invidiare a un Albrecht Dürer, ma forse
a taluni questa affermazione sembrerà azzardata
o perfino assurda.
Certo è che il suo ultimo periodo di vita fu carat-
terizzato da una rallentata produzione e da un sin-
cero tormento spirituale. Egli chiese, nelle sue ul-
time volontà, di esser sepolto presso Santa Maria
Maggiore “senza eccessiva pompa”.
Morì nell’anno 1547 nella sua abitazione studio
nei pressi di Santa Maria del Popolo e in quella
chiesa venne sepolto.
Mi sono provato, vistando quell’edificio che tanti
capolavori contiene, tra cui, presso la Cappella
Chigi, la “Nascita della Vergine” dello stesso Se-
bastiano, a individuare quella sepoltura ma senza
successo.
Doveste riuscirci voi fatemelo sapere.

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