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IMPROVVISAZIONI

di Guido
Gerboni
“ Distese libere a ridosso

attendendo alle ultime ore...”


Abbarbicato al sole,
affitti cari a prezzi scontati, asti all’asta senza acquirenti,
aspettative molli di cari sollazzi, dubbi intrecciati,
strappi all’inguine e nodi alla gola

lestofanti e zanzare in agguato, cervelli verdi fritti alla


fermata del ventitre barrato, scrigni corporali a prezzi modici,
rubiconde avventure in comodato gratuito,weekend televisivi nella
nuova Cambogia, finte favole per bambini, correnti alternate di
vongolieri e vespette strombettanti, termosifoni spenti e scimmie
lesse, colori sgargianti, brave new world esiste?, parcelle
psichiatriche, certificati di morte, donne facili in banchetti
assiepati, passeggiatrici solitarie e scaltre di pretese, amori in
saldo, febbri tenui e pasti abbondanti, soli schiacciati in
giornate afose, calabroni ardenti di festose scampanellate
vacanziere, vaudeville in rimesse di automezzi e conclavi, roseti
viatici, ricapitolazione e slancio, momenti di translucidità
amniotica di grondante sole alberato, archibugi di sol levante
nella notte chiavante di sale alcolico, affari tra scimmie, osso
spacca osso, muggito di donna, urla di vacca,

cavalcata delle valchirie,


tamburi battono l’azione,

una esplosione nel profondo universo

Notti romane sognano amori impossibili ed un fegato sano,


perse in contrattazioni magrebine, corre frastuono di birra,
il freddo avvolge carne a rosolare,la fontana emette fumo di giada,
il negro puzza di verità,

vagando in immacolate redenzioni notturne,


in giacigli di corroborazioni esistenziali.
Che un miracolo scenda mordente e spalanchi anfitrioni di
sciacalli saggi e melanconici sulla spiaggia bruma di nebbia.
Scorreva con istantanea leggiadria, il liscio piumaggio del corvo
nero sulle spalle nude del timido incantatore. In riva al mare, un
semicosciente Dio della vertigine, incideva con pietre lastricate
di isteria, la intraprendente avventura dei cavalieri nudi.
Sgocciolamenti temporali battono l’asfalto e i rimasugli verdi in
partiture varie.
Si dispiega in stralci di poema, il vettovagliamento acerbo del mio cuore infranto
Sono sincero dal fondo del mio caffè , fumo nero ombra. Le pietre
risplendono in pose indiane, ed eccomi qui ad inventarmi un
baratro ed un proscenio e come risucchiato via dal pantano ceruleo
di monotonie sicure ad un lindoro scavato blu notte, zaffiri e una
sensazione, sciamando un vento di grecale,

Cantami o Diva, l’ira funesta


A mezzanotte ci imbarcammo ebbri colabrodi, correndo senza tregua
in spazi ignoti. Mimando a cuor leggero scempiaggini riflesse in
questi versi di ardente ignoranza, zufolando un aria qui sul mare.
Il mare corre sorrisi d'ebano e la bagnante manda baci tra
l'estasi e la noia.
Alla mercé di uno scompenso poetico, piacevoli smagliature di
corpi sul selciato, bivaccano screpolature di vita. La notte è un
grido di specchi, la luna è una ampolla di pietra, la brezza è una
amante discreta, il cuscino è un muro di pianto, il mare è un velo
di seta, l'ametista risplende viola di stelle.

Il mandorlo in fiore si ritaglia una fetta di cielo nel suo bagno di sole.
Scende grave ed odoroso abbandono dello schiudersi gemme d’avorio lungo le protuberanze
arboree. Si piegano docilmente alla luce grondante in questa intercapedine circoncisa di fil di
ferro e di margherite selvagge
cresciute in barba alle mille facezie metropolitane,
all’immondizia che a pochi metri di distanza , s’azzuffa di resti
di palme tropicali e di cartoni d’ufficio, di biciclette
all’ultima fermata. Il sole picchia una circoncisione collerica ,
amabile gestazione di saperi impraticabili. E come adempiente ad
una divina giustizia poetica, questo scorcio si desta come lontano
eco delle mura urlanti un desiderio di impiccagione,

e dalle sue braccia mortali


non escono senza fine che limiti

Si susseguono in pagine di diario, pensieri impensabili ,


dimenticati , apocrifi, mondi inconcatenabili, irreprensibili,
alieni, disarmanti, rappresi con sommo stupore, balbettanti,
intrepidi, stempiature precoci, annoto silenzi che urgono dagli
scantinati ammuffiti, dalle coagulazioni private, dalla
scorribande furenti, gravide di evidenze fisso vertigini , abdico
all’impero delle mie verità e poi rileggersi fino a notte fonda.
E quella storia ormai desueta, obsoleta di un amore immaginato e
mai atto al divenire concreta escrescenza di anime avvinghiate ,
che si rinviene nel ricordo in questa occasione di un'altra festa
mancata. Una deliziosa spremitura di carne tesa dalle leccornie
delle tue carezze e strofinamenti di inimmaginabile maestria. Una
estemporanea facezia si perde in mille rivoli di levità. Contratta
appare in una maschera cavernosa , il tuo deliquio di amare
proibizioni.
Il terzo occhio di amigdala riaffiora con inesauribile ritrosia
cannibale rinvenendo nei tuoi incavi di bulbo oculare uno sguardo
di fanciulleschi innamoramenti che scava la chiara luce che mi
travasa.
L’illibato studente, probo e con somma lode si consuma su fini
verde oro di incantamenti, pensiero uncina pensiero e tira
rapsodie blu Danubio e Cornovaglia in festa. Mi ti presentasti
come il povero affranto dalla crudeltà insensibile dei suoi
compagni di gioco, rifiutato senza galateo dalla donna da lui
amata e pretesa, e poi infine ti dimostrasti nient’altro che un
grumetto di sangue e sperma, affusolato in medesime fattezze.
Arance i tuoi spergiuri, le tue finzioni verdi speme d'aprile.
Il mio cuore è piangente valzer di cornamusa, frastagliante
dissonanza su un dirupo verde roccioso, temprato dalle onde
dell'oceano in una novembrina giornata di timido sole sulla
ventosa brezza.
E mi consolo immerso in biografie di maledetti, a rimuginare
affetti andati e selvatichezze poetiche. A zonzo con ardente
passione tra le riga di poesie anonime di squinternati poeti, di
cui non so la gloria e spendibilità mondana.
Le battute che urlano il tuo dolore celato e mentre, la parata
prende piede a monte del lago, battuta da un fugace acquazzone
estivo di sbadate rimostranze.

Corro col pensiero a mietiture che non ebbero luogo, a migrazioni


di pastori erranti in transumanze dimenticate ed una stanchezza
ossea mi imprigiona a me stesso, una svenevolezza sento condurmi
in Cimmeria, terra che amo, di sogno e di abbandono. Una latrina
pruriginosa, nello sciabordio di insulti , ci affidiamo ad altre
correnti , come un bolo di appiccicosa delizia , in questa bara di
lascivia, torba otturata di giallo rame caldo, specchio di
cupidigia, i muscoli sodi prodigio di natura, di aria selvaggia,
di sforzi insensati, solco con mani ossute carnivore di abissale
desiderio.
Un arancio calante di sole, carezza di odorosi agrumi, il cielo è
sgombro di inganni, splende in un infinito commiato. Stentorea
provvigione di marzo, limpida chiarezza di una masturbazione
primaverile. Vi guardo persi nei vostri affanni quotidiani,
pensandomi fuori, ma più affondo
disperso. Trastullo avvizzito di giorni, stagionate sconfitte,
sommesso rimuginare, peregrino vagabondare, fino a confondere i
sorrisi, fino a vedere un ombra , lì , dove giace un insonne,
forse più tardi mi affaccio sul mondo.

All’approssimarsi di un'altra passione di Cristo , rinvengono


manoscritti di verità tenute nascoste a fondamenta dello Stato
sociale , germinato dalle macerie feudali, dalle battaglie
barbare, dalle dispute teologiche, dalle manganellate di protesta,
dagli autodafè e dalle estreme unzioni. Così in massa, un ritaglio
dell’umanità tutta, chiamata ad un giudizio raffinato di
metafisica ed incarnazione, all’esercizio della sua libertà di
esser schiava di uomini, Dei , Arconti e figli di puttana.
Ed io mi ingegno intorno al mio scafandro umano, fraintendo anche
i fiori, faccio i cinque tibetani come propedeutica alla chiara
luce che divelle ogni pastrano.
Interrogo testi sacri di profana bellezza, mi indottrino alle
contabilità celesti, rubacchio versi ai cherubini, scorgo nudità
sotto i veli, spergiuro di notti, quel che resta di me è un
ghigno e poi mi riaddormento.
E tu, giovane intraprendente donzella, sempre all’avanguardia
nell’arte di emanciparti, dove voli sull’ali della tua
sfrontatezza ? Mi riporti all’autoscontro formicolante pensieri di
sensazioni sconosciute d’amore, di fato ed attrazione, che povero
fanciullo spaurito non sapevo capitalizzare e le lezione del
saggio Elio, sulla franchezza del maschio moderno
nell’approvvigionarsi alla fonte di tali piaceri.
Il macellaio affetta le sue prede con sincopi misurate, distilla
vita da ogni goccia che nutre le sue narici di voraci desideri,
per misurare la sua distanza dalle stelle, le piccole increspature
della vita, verso speculazioni dove l’aria è rarefatta, dove il
tempo si affabula in infiniti attimi infantili a cui è dovuto ogni
pudore. Vicende da prospettive così slabbrate, intimamente
intrecciate da sembrare un sorriso febbrile a cavallo del cielo.
Pernotto per una stagione in un futuro utopico, fatto di
gestazioni artificiali e ben rodate, di strutturazioni umane ben
oliate e di pensieri ben intinti in verza e pan d’avena. Giovani
pneumatiche distributrici di godimenti civili e fruitori di
protocolli esistenziali in multiformi realtà virtuali. Il
selvaggio recita slogan pubblicitari e si innamora.
Si rincorrono in dagherrotipie de fin du sieclè impellenze
sbiadite d’altri tempi. Anime distanti mille anni in cinquecento
metri condominiali e di viottoli, albergano dissapori. Una pace
diafona, sgargiante, di un cielo emancipato, attenua l'urlo delle
libellule.
Pedissequamente su questa terra,barcollando nel disfarsi dei giorni,
il cielo è scisso in azzurro e rosa, opaco.
Ed infin la sera le cicale rumoreggiano il loro canto d'amore,
mi ritrovo stanco e straziato di non sapere.
Eppure un tempo......

Teorie estetiche dipanano lo sfacimento del mondo nel succedersi


degli eoni, nell’affaccendarsi di vicissitudini degne di nota e di
altre troppo imbarazzate da darsi la pena, così giunti alla finale
gestazione ci ritrovammo sotto il dominio catodico di moderne
immagini di disappunto, corollario di sbiadite esistenze,
combinazioni opache di succinte prostitute, sgargianti riflessi di
vite senza condotta, inique,senza cordoglio. I denti squillano
giudizi germogliando in stupri di gengive.
Il coretto angelico si richiuse a ritroso sul corpo dorato ,
brandendo scimitarre d’amore con levità perfetta.
Si sussumono in scuole e metafisiche dell’arte, del segno e della
cornice, eudemonici erranti in orifiamma d’oriente, sdrucciolando
terrazze in pietra dimore d’altri tempi, fiumane tortuose e
ciottolosi sentieri, pinete ombrose di refrigerio, mani nude
nell’acqua gelida, felci arbustive, steppe aride, frutteti riarsi
da grappoli azzurro-violacei, carene in ferro battuto e pinne
d’ebano, origami nero seppia e giallo d’abissinia.

E cosa c’è nei suoi quadri, se non la storia di ciò che un tempo,
si chiamò Anima ?
Tra le spire, leggero cade il pennello, travasa la bile,
come forbice che trancia la materia, verso un cocchio celeste.
Antico dei giorni, spacca in due la vita, per meglio illuminarla.
Una corposità esasperata rammenta le antiche narrazioni
dell’Anima, rimembra in rinnovata cosmogonia, il sale dei giorni,
presagi di temporali estatici, addensa la materialità agitata
mentre affonda lo sguardo pregno in questo crogiolo di colori
visionari, che ribolle pitturazioni oscene di banalità naturale
in limpidi misteri quotidiani.

Urgono in sfasamenti d’orario legale , considerazioni di notevole


risvolto esistenziale e filosofico, sulla relatività delle proprie
salde certezze e disposizioni psicologiche sullo scorrere e
specchiarsi nel tempo, ora disteso e rincuorato dal vivace
germogliare della primavera in una domenica dal tenue tepore,
immersa in un silenzio epocale. Da lontano giungono immagini di
conversazioni appassionate, rinvigorite da questa atmosfera
giuliva, di prorompente vitalità giocosa, a nulla valsi schietti
ragionamenti di sotterranea portata, ridente resti nel tuo
scampanellio fiorito, senza indugi brami ogni potenza, sull'onda
di effimere resistenze cavalchi impavida, invidia dei manigoldi,
ammirata brillantezza, schivi minacce oscene e voli a seconda.
Quattro cosette che avrei da dirvi su Esther, delicious est her,
ti rapirei tutta intera, la stella più fredda e lucente, contrita
in prostrazione di alterità splendenti, meditabonda nudità, corpo
grottesco, immonda prosperità assetata, tumefatta abbondanza,
amare recrudescenze, la diaspora mai assopita fino a vacanziere
dimore estive, isole dagli anfratti perigliosi , avvampate,
gesticolanti fervide immaginazioni. Esther divampava con occhi
come lampioni da mille watt per la riviera colma di mille pulsioni
febbricitanti, mirabilia di promesse.
Piccola, sai chi sono io ? se per questo neanche io
Una fragorosa risata smontò il povero Cristo bello ed impomatato
di abbronzature a norma dei costumi vigenti. Un battito di ciglia,
a nulla valse il suo sguardo d’oriente, ed un'altra promessa di
eiaculazione svanita.
La sigaretta spenta nell’ultimo crepitio di cenere, vanga l’ultima
badilata amara e quel pianto lucido, che rinfresca questa bara
d’universo, quel giovanile levito, mesto abbandonarsi a cupidigie
insonni. Si ripercuotono atmosfere indescrivibili, attese a lungo,
esasperate, sciogliersi in un pianto liberatore nella pira
purificatrice di tali balordaggini. Ma ogni piccolo insignificante
anelito , si rapprende alla propria integrità nella luce di
profondi dettati, come lo stame teso ed intrecciato in tal
ineluttabile guisa dalle sue rugose mani, in effimero susseguirsi
di infiniti inganni, come una invidia viscerale di contemplazioni
cadaveriche si trascende in uno splendore fauno.
In un bagno di vacuità, mi lavo via dal mondo.
Alle scuole di trascorsi adolescenziali , il gorilla roseo
fiammeggiava le sue vertigini con bastimenti vari di lagnanze,
edotte saggezze filosofiche di scimmiesca vestigia. Giocoliere di
sotterfugi, amabile tessitore di ingorde fornicazioni e di fughe
tempestose. Praticante di tutte le pratiche maturate nel suo
trascorso umano, rettile e cefalico. Grasso giacente come un
santone sfatto dalla sua ingordigia di mondi, di meraviglie, di
trascendenze.
Su scaffali accatastate credenze ed universi, ognuno disponibile a
coefficienti di realtà, a gradi di libertà accessi di falene di
diverso splendore. Anche i piani bassi costernano i loro indugi e
profitti in losche trattative. Portatori di luce si imbarcano in
nobili arroganze, nudo calpestio d'onde s'accende e il mare, e per
un attimo un Dio mi fingo e godo.
Sul rettangolo verde arzigogoli di geometrie educate, dai stili
più azzardatati , ibride mescolanze di carioca ludica postura
abbacinate a colpi secchi siberiani, inventano trame di gioco
ubriacanti, unita ebbrezza par trabocchi nel campo.
Il vegliardo nudo dal suo fiordo nella notte polare, custode del
rifugio, osserva attonito il miracoloso tracollo del mondo e
ispirato dalla luna , mi stravedono occhi lunari, con bocca
delirante canta “soltanto giullare , soltanto poeta, eccolo il
pretendente alla verità” , trasognato, invasato prostituta
Diotima, spande sentenze come polvere di stelle , mette insieme
frammenti d'altre vite , trasuda nel travaglio delle bianche
lenzuola, non si raccapezza, se insegui un sogno , lasciati
braccare, chi sono io , io è un altro, pontefice senza memoria,
sciamano errante sull'asse del mondo.
Osare l'impossibile, osare perdere.
Il giovane sopravvissuto alla trascuratezza dei giorni, si gode
l’affresco di vita che si è disegnato. In silenzi accorti, in
lente rimasticazioni solitarie, avvinto al suo destino, alla
catena di montaggio, osserva premuroso, stillando ogni goccia, si
accomiata da sé. Fresco abbrivio di monti, boscosi torrenti
ombreggiano quieti sovrumane, persi nel verdeggiare, anelanti
istinti si purificano in scaturigini senza tempo.
Il pianoforte a muro langue di preludi, minuetti e fantasie,
ricordo malinconico per le sue giunture. Ora gettato mobilia fra
le mobilia, porta foto e ammennicoli vari. Custodisce arabeschi di
note, pentagrammi svirgolati e solfeggiati. Sinergie a quattro
mani, mirabilia di giovanili promesse. Lì sulla vetta del rubino
rosso, pomeriggio di attesa scortica il cortile in brecciolina.
Soffriva di epilessia poetica, di trangugiamenti onirici, di balzi
nell’inconcepibile, di tracimazioni agli inferi, di suture
celesti, di manipolazioni genitali, di importazioni estere, di
sghiribizzi fatiscenti, di memorie seccanti, di angoli silenti, di
apostrofi incandescenti.
Piange la Pazza senza lacrime urlando nello sfiorire della sua
bellezza e nelle sue affaccendate perlustrazioni , spia da
amorevoli nascondigli gli sviluppi di una vita non più sua.
Le parole si sgrossano via fardelli umani, come saggezza discinta
una civetta bianca svolazza ai confini dell’alba in omaggi
incomprensibili ed amenità.

Ed ora che le parole si accigliano senza nulla da dire


e le stagioni si avvicendano come separate da infiniti
trascorsi,
il gatto nero sul davanzale respira il pelame fresco
dell’eterea nuda come di rugiada…

Dal viottolo in fondo alla strada, un balsamo assennato di una


melodia sofferta si stinge a perdifiato nel funebre elogio
dell’inforcatura sconcia.
Sono il sorriso senza profitto che si perde sul muro illuminato,
sono la parvenza di luna che coabita il cielo diurno, sono il
coniglio incredulo che trae le sue aspirazioni, sono svuotato come
un arcipelago di stelle in riva al mare.
Nessun contatto di epidermide, nessuno scambio di umori intercorse
tra le nostre anime, ci lasciammo così, perderci all’orizzonte.
Eh tu imbacuccata al riparo dal vento che fendi verso promesse
economiche. Perdendoci nei boli appiccicosi dei nostri perduti
amori, sogni slabbrati, sommersi da diatribe indecorose, afflati
verso imprevedibili iatture. Scivolando in giocosi momenti,
aperture donate verso pianti elisi,verso il giorno della grande
masturbazione, della disossazione ai confini dell’universo, della
fase catabolica della vita, della sublime contemplazione dello
scheletro, riconoscendo alterità, inscrivendo il nostro umano
errare, come irripetibili spigolature della vita, sfuggenti come
biglie dai riverberi al sole, risplendenti della parola
primordiale.
Epifania dell’ossimoro mistico, un pensiero che procede per
rovesciamenti idilliaci.
Vagina cosmica, latrato antico, oblio lunare, ricettacolo e
scaturigine di ogni forma, suprema mestizia, terribile meraviglia,
abisso gnostico, sospiro cosmico, brezza di stelle, stupro regale,
sontuoso banchetto anoressico, meraviglia e terrore dell’essere
umano, vacuità eppur pienezza.

Scrutare con occhi essenziali la nostra spanna di tempo,


lungi dalle balordaggini
che ci stringono il petto volgarmente avvinte,
un salto nell’estrema strumentazione dell’Essere,
scriminatura raggiante in cielo,
arioso vigore si spande.

Ci lasciano vivi, i morti.

La strada pingue di silenzio, fanfare d’agosto, rifuggo il


barbaglio metropolitano.
Appisolato sul crinale del mondo, culmine di ingordigia e
fatiscenza, un fantasma che si svaga nella notte colma di lusinghe
e di rancori, un briciolo di fiamma spira a tratti. Costipato da
intuizioni perse nell’arco dei giorni, solo in lampi strappati
all’imbrunire. Lontani plebisciti notturni, svelati nella loro
riluttanza acerba. Smemorati cogitabondi schiumano rabbia su
pensieri morti. Delle parole e il vento e la mia rabbia.
Il mio piccolo cuore infante amava corrucciarsi di cortese amore,
ficcanasando in tutte le imprese di mulini a vento , improvvisando
tenzoni in difesa di donzelle civettuole, ad onor del vero tutto
impettito verso la doverosa ricompensa. Il gelo siberiano scende
portando saggezza altaica.
Lembi di indicibili vissuti, esperienze condensate in vortici
imbrattati di sperequazioni.
Giovani mostruosità in carne si dimenano come tramortiti burattini
ed il coniglio si stende amorevole sul tappeto rosso, una strada
di notte conduce ad un mio nido dove s’oscura e tempra un timido
risvolto mattutino, miracolo da non abusare. Ginocchia livide di
vita, fustigate atrofie sessuali. L’arte della seduzione di
pragmatiche ninfe elastiche, alla moda, controverse e umorali che
ammiccano corsetti merlettati di fine civetteria mondana,
corroborano tesi ipocondriache di vecchi guardoni in simmetrie
poetiche. Tornare come un adolescente re del mondo, il mio
coniglio mi sbava d’amore senza troppe inibizioni. La città si
trasforma alle mie spalle. Femmine che decadono dell’aura
circonfusa nelle loro membra e fisionomia anatomica, dolce fruscio
per la mia bluastra notte. Intrattenitrici discinte collaudano
nuove frontiere della comunicazione per pochi spiccioli di sogno.
Scampoli di vitalità esterrefatti, raccolgono brandelli di
elemosine di scapestrati untori, avventori dell’ultimo minuto.
Sfinito dai suoi dissapori con la vita.

Un bruciore livido di spaesamento angelico fibrilla in un ascesso


di allineamenti di pianeti e tempi. Giovani fanciulle
adolescenziano le loro primizie, danzando come la Dea irata al
tintinnio del suo rosario di teschi. L’affabile scienziato si
alambicca in equazioni emozionali, saltando di palo in frasca ai
piedi di Dio. Il piatto speziato di indiane dimore, pullula in
pane azzimo e brocche di vino.
I commensali ebbri di tali stupori, rumoreggiano ipostasi e
contrazioni filosofiche disposte in bella vista sulla veranda
illuminata da calde candele a perdifiato sulla piazza che dirime
masse elettriche.
Svoltando l’angolo si arriva a perdersi in un bicchier d’acqua,
come in un sonno senza sogni, in un sogno senza coscienza, in
latitanze di perduta gente.
Sfondarsi fino a grondare se stessi,
mastici pendenti di canti gregoriani abusati su vascelli
cloroformio all’alba. In solitudine plenaria, ascolto formicolanti
plebisciti di vita in piena gioia settembrina sbocciare
accompagnato da un amichevole morso allo stomaco. Parlo di memorie
divelte verso perdute navigazioni.
Guardo le guglie di stanchi palazzi in un pomeriggio afono,
pallido come un mese crepuscolare, risucchiato da una paura che sa
di eterno. Vagabondo curioso scavato da una voragine incolmabile,
come di incanti improvvisi invaso da trame sincere di future
partenze, fermo in allampanate vicende senza cuoio, sbrigliate, e
timoroso di invadenze nomadi. Ci si avvince a certezze ed
illusioni di comode illazioni come sballottati da correnti che ci
hanno messo al mondo per ingrassarci e poi divorarci. L’invidia
distanza incolmabile che ci mostra la limitatezza della nostra
presenza umana.
Regnare dal recesso azzurro fiorito,
una distillata presenza,
una essenza che illumini un segmento
di questo trasloco terreno.
Al parco la panchina osserva la caducità delle foglie e la coppia
amoreggiare senza inibizioni. Una frugale sigaretta disdegna il
quieto vivere. Trame che ci sopravanzano anche nei nostri più
attenti e rigorosi giudizi, con un ghigno divertito che ci
rintrona nelle tempie. Obnubilato mattino senza tregua.
Crollano fondamenta di teatri frontespizio di vicende in carne ed
ossa svampite su una vertigine del tempo. Nuove allegorie silenti
agitano canzoni e ardori del sempreverde oblio vigente.
Passare per il ventre di una prostituta ed uscirne lindo.

Ed il giovane virgulto di santità, estraneo a questo ciabattare


mondano , ommeggia la sacra sillaba fioccante nell’incavo
vegetale, e dall’aureo trionfo del suo antico lignaggio , in mille
genuflessioni svaniscono i deliqui degli ultimi trambusti
metropolitani.

Sul trolley ovarico,


nell’ andirivieni di colline ed orizzonti,
al di là della trama farsesca che in mille rifacimenti celesti
rapisce lo sguardo,
si riconobbe semplice goccia in un oceano.

In una vita in più , mi piacerebbe seguir le tracce che portano


fino ai giorni nostri, sulle vie alate di crocifissioni rosee,
seguire il nesso che segna il plesso, di Americhe lasciate e di
altre sbiadite e seguire il suono che all’ululato che spiana a
terra lega il canto che slancia al cielo.
In un epoca di poesia messa a decantare per tempi migliori , mi
rimbarco in me stesso, accollandomi tutta la gravità della luce
diffusa nell’aere leggerezza di questa poesucola smozzicata,
perdendomi a piacimento , lì e là, nel capezzolo turgido
di un corpo che giace in posture di lontananza, in divagazioni di sogni
alla fine dell’estate, alla fine di ciò che vi è, di grave e di costante.

Venuta così d'un soffio,


andata via solerte
CODA
Sfregioso poetare in un Universo saturo, in cui si è di troppo.
Levito interni arredati da malordini assorti, correnti
dabbenaggini notturne sventolano silenzi di notti serene, ma non
il mio cuore.
E lì al cordoglio dell’estate, nell’avvampare dell’ultima penombra
d’agosto, una folgore brandendo uno scoppio di risa mentre annaspo
la battigia e poi giù verso la dimora dell’anima.

Armeggia lo sconfinato pensare oltre la siepe cara, taumaturgia


del verso esplode via dalle feritoie in questo conguaglio di
derisione e nobiltà, di intelligenza e stupidità, in un mondo
attonito che si stropiccia gli occhi arrossati e se incontra la
morte….

Parole in soffitta, strettoie del cervello, scrittura automatica,


clessidra il tempo scorre,
perché voglio vivere più vita e finire nudo…

I pesci guizzano argento vivo….

“Bardo,
qual è la terra a cui aneli ?”

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