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Maria Cristina Koch Candela

20131 Milano, via Grossich, 16


02 2367781; mcristina@mckoch.fastwebnet.it

dopo tanti modelli terapeutici

Curare la vita con la vita

Milano, ottobre 2009

“Oltre“
Indice

Introduzione 2
Piccolo avviso ai naviganti 3

Il setting 6
Lo spazio più privato 6
Il setting relazionale 7
Chiamarsi per nome 8
Il pagamento 9
La durata 10

I fatti degli altri 11


Questione di cornici 11
Uno, nessuno e centomila 12
Un frattale per identità 14
Cattedrali 15
Uno splendido addio 16

Una rete per pensare 18


Le stecche del ventaglio 18
Una rete per navigare 19
Altrove nel tempo 21
Ideologie a confronto 22
Dall’accumulo del sapere a sapienze che trasmigrano 23
Il moto è permanente 25
Cercando la convenienza 26
Trasmigrare fra i nodi 27
Un maghrebino al semaforo 28

Vincoli 30
Bipolarismo 31
I piedi nel piatto 32
Il corpo e la mente 39
Annabella e lo stornello 40
Il corpo come Atlantide 41
Il corpo come consulente 42
Il linguaggio degli organi 44
Assieme per dare un nome 45
Dalla diagnosi alla significazione 47

Flash 50
Alla stazione di Trento 51
Bustine tonde per il the 53
Come mi vesto oggi? 55
Comprare un bambino? 57
Elogio dell’apparenza 60
Figli e figliastri 63
Foglie d’erba 66
Forzati del cambiamento 69
I confetti, tu li mastichi? 71
Il lutto del sintomo 73
Il presente nasce dal futuro 76
Intimità e verginità 78
La clinica e le donne 80
La curva a tocchettini 82
Alle madri dei maschi 83
Lei o lui? 87
La lingua mochena 90
Magie 92
Prendere gli stivali a un morto 94
Razzista anch’io 96
Regina della casa? 98
Storia di una sonda spaziale 100
Strisce pedonali e sellini di bicicletta 103
Sudafrica e Ruanda tracciano la strada 105
Un polpo in Sardegna 107

Incontri 108
Nota breve 109
L’ambiguità del colesterolo 110
Gli occhi del sarcofago 124
Un volpino per Sergio 132
Una biciclettata per Giulietta 141
Introduzione

Con questo nuovo libro vorrei raccontare di qualche idea e di qualche strumento
tecnico che mi son trovata a considerare utili nel mio mestiere. E vorrei raccontare
affinché se ne possa avviare una discussione critica, affinché altri colleghi, se
vogliono, ne testino l’utilità e li correggano e li integrino in una sorta di ricerca aperta,
in cui il pensiero e la tecnica della psicoterapia moderna appartenga a chiunque operi.
È un pensare collettivo che circola, a me sembra di averne intercettato alcuni aspetti e
di questi riferisco qui. Per cui, buon lavoro a chiunque vorrà maneggiarli assieme a
me.

Nel corso di più di trent’anni, come un po’ fanno tutti, ho studiato sui libri, sono
andata a vedere colleghi più esperti e prestigiosi, ho tentato contagi e contaminazioni
fra discipline diverse; e anche, per come ho potuto, sono andata a visitare altre
culture, altri punti d’osservazione. Non so se si possa parlare di un percorso,
sicuramente di un gran girovagare sotto il benedetto segno della serendipità, in cui ho
incontrato maestri generosi, tecnicalità precise, slarghi di vedute e improvvisi
mutamenti di senso. E un gran divertimento nello sperimentare e in accostamenti
improbabili di logiche e linguaggi differenti che andavano a formare costellazioni
inedite capaci di movimento e di capovolgimenti talvolta di grande efficacia. Mi piace
andare a conoscere e studiare almeno un approccio nuovo ogni anno; mi piace andare
a bottega un giorno dalla PNL, un altro da una sciamana maori, e poi la struttura del
narrare come la forma del pensare femminile, il problema del consenso articolato con
la possibilità di verificare quanto ha compreso l’interlocutore dal mio dire,
l’affascinante attesa della risposta che dà senso alla domanda, il viaggio fra il formarsi
dei pregiudizi e la magica ironia della cultura ebraica e la struttura sociale all’interno
dell’harem. Viaggi, excursus, puntate più o meno veloci che poi mi riportavo a casa
come strumenti di lavoro, da usare talvolta come avvertimenti talaltra come forzature
di uno schema ripetitivo ma anche per introdurre un diverso respiro nell’andamento
relazionale.

Norbert Wiener, quando doveva riflettere, si poneva davanti a una tenda agitata dal
vento o di fronte a un ruscello, diceva che così manteneva il cervello indeterminato,
non specializzato, in modo che potessero entrarvi informazioni nuove ed evocare
risposte impensate. Mi è parsa un’immagine suggestiva e bellissima.

Ma adesso basta introdurre (giustificare?), inizio a raccontare e, come dice il


guardiano del faro, vado in mare aperto con rotta incerta.

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Piccolo avviso ai naviganti

Il libro è composto da tre parti: i primi capitoli in cui espongo le tre operazioni
fondamentali di cui mi interessa qui trattare: occuparsi degli altri, costruire una rete
per pensare, considerare i vincoli attraverso e grazie ai quali possiamo pensare.
Poi, i flash, brevissime istantanee di pensieri suscitati dagli accadimenti della giornata,
da una scenetta intravista, da un’emozione vissuta. Sono bozzetti che suscitano
pensieri, correggono e suggeriscono tecniche da utilizzare nell’ambito terapeutico. E,
infine, in appendice, ci son gli incontri, trascrizioni commentate di alcune vicende
significative che ho spartito con i miei interlocutori. Brevemente, sedute di terapia.

Ho immaginato, infatti, questo lavoro come un ipertesto che sta al lettore smontare e
rimontare a suo piacere, come in un gioco di figura/sfondo tridimensionale, in cui ciò
che credo di pensare dovrebbe trovarsi riflesso nella quotidianità degli incontri
terapeutici, innervato e suggerito da quello che il mondo esterno mostra e offre nel
dispiegarsi delle giornate. Questo, per me, è il senso semplice dell’idea di “curare la
vita con la vita”.

Il dolore dell’esistenza, il disagio mentale, psichico, la sofferenza in ogni sua forma, ci


turbano e ci coinvolgono, ondeggiamo faticosamente fra l’orrore del rifiuto e la pietas,
il desiderio di darne sollievo. Nel tempo abbiamo tentato di imbrigliarla, questa
sofferenza psichica, con la più netta delle soluzioni: dandole un nome, anzi, tanti
nomi, affastellando dettagli sempre più minuti del dipinto che la vuole definire per
inquadrarla, appunto, rinchiuderla in una cornice certa: la diagnosi. Una cornice
spessa che non cattura noi, i sani, la possiamo tenere a una distanza giusta, possiamo
immaginare soluzioni. La distanza che ne prendiamo, allora, non è più una fuga ma
un’azione etica, scientifica, distacco indispensabile per inquadrarla, darle un nome, noi
la studiamo per inventare i modi di curarla, di guarirla, questa sofferenza che ci
minaccia. Per disinnescarla, capovolgerla, evitarla, eluderla, affondarla.

In questa straordinaria coltivazione della ricerca della cura, infiniti sono stati gli
approcci utilizzati, articolate fino all’incredibile le tecniche messe a punto. Una ricerca
inesausta che ha impegnato decenni e decenni, su cui tuttora ci affatichiamo in tanti.
Un patrimonio imponente di pensiero e di studio, con contrapposizioni un giorno aspre
che trovano pacificazione nel tempo di poi e lacerazioni improvvise e dolorose che
frantumano un’idea, la riflettono in cento specchi, ne fanno nuove edizioni, e ancora e
ancora. Ma tutte, tutte, mi sembra, le diverse terre di questo mondo hanno a
fondamento della loro scienza un proprio pensiero sull’esistenza, un modo di
riguardare alla vita da cui discendono le soluzioni tecniche e le teorie raffinate. Perché
non si può pensare, parlare, vivere e studiare se non partendo da un punto di vista.
Talvolta, e a me per esempio piace molto, in vista di un obiettivo, lo sguardo ben
radicato nel futuro. Così, in un gioco di rimbalzo, ciò che si dice del disagio mentale,
della malattia, della sofferenza psichica, dei modi per curarla, per sconfiggerla, per
“guarirla” (!), la descrizione che se ne fa, la struttura dell’intervento riflettono, in
realtà, il pensiero di chi guarda e dice. E, principalmente, l’idea del benessere cui si
dovrebbe condurre il portatore del malessere. Ma ci dimentichiamo di ricordare il
punto di vista da cui si è preso l’avvio: questo viene tralasciato in una immaginata
lettura obiettiva della sindrome, del sintomo, del quadro clinico. Accade, così, che
l’altro, il cosiddetto paziente, quello la cui sofferenza inizialmente vorremmo alleviare,
si trasforma in una protesi del suo disagio: definito attraverso la definizione del suo
male, viene ricollocato con attenzione nella casella che lo attende. Non più Giovanni,

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Anna, Maria, Edoardo, operaio, maestra, architetto, medico ma fobico, depresso,
maniacale, caratteriale. Potenza del nome che crea l’identità e lo assegna con
fermezza.
E della matrice sostanziale da cui scaturisce tutto questo accurato inquadramento, del
punto d’avvio squisitamente culturale, del modo di pensare la vita e l’esistenza di chi
guarda e definisce, non si ha più memoria, (forse non se ne ha mai avuta), ma è
esattamente questo che cuce di senso l’intervento terapeutico, richiudendolo in sé.

Perché in ogni incontro terapeutico, forse, semplicemente, in ogni incontro umano,


convergono i pensieri sull’esistenza dell’uno e dell’altro per, assieme, farne un nuovo,
diverso manufatto. È importante, allora, che chi si pone in ascolto dell’altro sappia e
dica qual è il punto di vista da cui prende l’avvio, come si svolge il suo stile di
ragionamento, quali le tecniche che possiede e come il metterle in atto obbedisce e si
compone con la sua filosofia dell’esistenza. Una trasparenza di pensiero e di
intervento che non si arroga la palma dell’eccellenza ma pianamente rende conto di
ciò che fa, di come lo fa, dello scopo verso cui si muove, dei criteri di verifica del suo
lavoro. Perché nell’incontro terapeutico la responsabilità è inesorabilmente personale.

Ecco il senso di questo mio scritto: rendere conto nel dettaglio di come lavoro, cercare
di raccontarlo per conoscerlo anch’io meglio e usarlo con maggiore competenza. La
mia idea è che fare terapia è un modo di costruire le nostre differenti identità, fra
vincoli e libertà di ciascuno. Il sapere riscoperto è un’esperienza, calda e vitale,
profondamente immersa nel quotidiano, quel quotidiano che dà contorni alla nostra
esistenza, che ci caratterizza e ci definisce. È il nostro stesso abitare il mondo che ci
ingabbia e ci libera, è nel nostro modo di costruire il pensiero e la vita che va ospitato
il disagio, accolta la sofferenza.

E, visto che ci sono, tanto vale dichiarare i miei pregiudizi più abituali:

● non mi dedico a decifrare la patologia, non amo l’inquadramento diagnostico; mi


interessa, invece, cogliere le risorse non utilizzate, spesso non conosciute, dell’altro,
cercarle assieme e poi ristare incantata a osservare l’uso che ne vien fatto, spesso per
prosciugare a suo modo l’ambito patologico; mi interessa allargare l’ambito della
salute della persona, ho bisogno della sua sanità, dell’identità con cui si aggira
quotidianamente nel mondo, per poterlo incontrare;

● sto attenta a usare sempre un linguaggio italiano, non di gergo clinico: se una
persona mi si dichiara paranoica e vuole imporre le sue regole sul mio operare, la
chiamo prepotente, se una persona mi esibisce la sua comprovata depressione, le dico
che penso ci sia un dolore da attraversare da cui si è tenuta lontana per timore di non
farcela;

● la persona, o le persone, con cui lavoro sono i miei migliori consulenti, i miei esperti
supervisori. Ho la massima fiducia e stima nella loro saggezza, mi lascio guidare dai
loro movimenti, mi arresto ai loro divieti, svolto dove mi sembra volgano lo sguardo;

● il mio interesse è riuscire a sintonizzarmi sulla teoria del mondo e di se stesso che
ha la persona con cui lavoro, non di interpretarla secondo eventuali teorie: è più
ecologico e più funzionale; la conoscenza delle varie teorie che sono state visitate
nella formazione di un terapeuta è un utile patrimonio d risorse, è un buon esercizio
imparare a conoscerle per apprendere come si costruisce una teoria e come se ne
testa la tenuta e l’efficienza: mi serve quando incontro la teoria del mondo dell’altro;

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● non mi occupo della verità, neanche per contestarla, non cerco di appurare come
stanno le cose effettivamente, cerco di cogliere il suo modo di pensare il mondo, di
connettere pensieri, emozioni, progetti in uno stile personalissimo, cerco di
intercettare il ritmo e la musica di fondo che, come una firma, lo caratterizza e,
quando ci riesco, entro a tempo nella sua danza;

● considero e rileggo il cosiddetto sintomo come una metafora creativa costruita per
uno scopo che potremo identificare e inseguire assieme: oggi dà dolore, possiamo
cercare di ottenerlo investendo altre risorse, magari perché no?, alzando il tiro,
pretendendo di più;

● nella ricerca dell’altro, mi sento libera di intervistare gli organi del corpo, mettere a
confronto le diverse e molteplici persone che ciascuno ospita e che nel loro gioco
mutevole ne delineano la personalità, modificare il setting, qualunque azione o
movimento che mi permetta di incontrarlo e di scambiare fra noi per dar vita a
un’esperienza;

● non mi ritrovo nella consueta definizione di percorso terapeutico: ogni incontro è a


sé, ogni seduta è una prima seduta da aprire con emozione e concludere con
l’attenzione che dedicheremmo se fosse anche l’ultima;

● non cerco il famoso cambiamento, non mi riguarda, appartiene all’altro il più pieno e
libero diritto di far ciò che vuole del lavoro comune;

● non voglio sapere a tutti i costi, evito di incappare nei segreti faticosi da confidare, a
meno che mi sia dichiarato il desiderio di condividerli. Nella complessità della persona
umana c’è un richiamo, una sostanziale risonanza fra tutte le sue diverse strutture:
fisica, mentale, logica, psichica, linguistica, relazionale. Mi attesto, dunque, sul livello
che in quel momento mi appare come il più protettivo di un’intimità che non mi piace
violare, il più agevole da maneggiare assieme, quello che promette un lavoro di
miglior soddisfazione, confidando che l’ecologia propria della persona saprà far
circolare l’informazione importante, il significato decisivo ai livelli che maggiormente
possono usufruirne. A suo modo, con il suo linguaggio, con i suoi tempi. Che non devo
condividere necessariamente;

● questo mestiere mi piace moltissimo, lo affronto con gioia e curiosità, la sera sento
con piacere la stanchezza che narra l’intensità degli incontri, dove è girata tutta la
ruota delle emozioni, dove ho provato lo stupore per il coraggio e la dignità, dove ho
potuto assistere a impensabili soluzioni di uscita da un groviglio, dove abbiamo ancora
una volta raccontato assieme l‘eterna storia di questo vivere umano così privo di
senso, insoddisfacente, un nulla nell’infinito che, pure, in ogni attimo acquista peso e
significato, che si modella nelle nostre mani, che sprigiona sussulti stupefacenti e
incantate contemplazioni, generoso e crudele, in cui ci è data la meravigliosa risorsa
della condivisione, del consolarsi assieme della fatica e sperimentare, e sorridere e
ridere, e soffrire e sperare. Oggi per oggi, domani si vedrà.

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Il setting

E per raccontare il mio modo di lavorare, cominciamo proprio dall’ambiente che ho


scelto. Il luogo fisico è importante, condiziona e caratterizza gli eventi. Nel mio studio
c’è uno spazio abbastanza grande per ospitare gli incontri di gruppo, di coppia, di
famiglia (e anche gli appuntamenti con le persone dentro di noi ma di questo
parleremo più in là). Un cerchio di dieci poltroncine, tutte uguali, una parete con un
piccolo specchio unidirezionale e il microfono per ascoltare, ambedue bene in vista
affinché si dichiarino da subito come strumenti possibili di lavoro, secondo l’ovvio
principio che ciò che non può essere detto non va neppure operato. Questo non è
tanto per me solo un principio etico quanto un confine di sicurezza: se mi trovo ad
aver qualcosa da nascondere non ho la libertà di pensare e di lavorare che mi occorre,
devo impegnare una parte di energie per evitare di farmi scoprire, il mio passo
inciampa confuso.

Le poltroncine le ho volute tutte uguali per garantire a tutti un maggior grado di


libertà, dove sedersi ogni volta, vicino a chi, più lontano dalla porta d’ingresso o
invece più accosto, pronti a sfilarsi dall’incontro. Mi siedo, in genere, in modo da avere
la possibilità di interloquire comodamente con tutti i presenti; se occorre, le
poltroncine possono essere facilmente spostate. E dietro lo specchio può andare chi lo
desidera, magari anche soltanto per distaccarsi un poco, per vedere che cosa succede
a guardare dal di fuori. Lì c’è una piccola segreteria con i miei armamentari, il
computer, il fax, il blocco per scrivere, la mia agenda, i miei dischi. Se lavoro con dei
colleghi, usiamo un citofono per parlarci da dietro lo specchio ma anche dall’interno
della seduta. La comunicazione viene riferita ai presenti, è un’informazione da
maneggiare assieme, può anche richiedere ulteriori spiegazioni o essere lasciata
cadere se non cattura l’interesse.
Uso questa stanza più grande anche come sala d’attesa. Il mio studio ha due porte,
una per entrare e una per uscire affinché sia evitato l’incontro fra le persone e sia
garantita la privatezza a ciascuno. Fra un colloquio e l’altro cerco di avere almeno
dieci minuti per concludere dentro di me l’incontro appena finito, fare una telefonata,
prepararmi tutta nuova al prossimo. Tutti quelli che hanno studiato l’effetto campo
sanno bene a cosa mi riferisco.

Lo spazio più privato

Se lavoro con una persona in individuale, invece, oltrepassiamo la stanza più grande
ed entriamo in una molto più piccola. La utilizzo per gli incontri vis à vis, due
poltroncine anch’esse uguali fra di loro, oppure usiamo il lettino. Preferisco mettere a
disposizione del mio interlocutore un vero e proprio letto: ho provato vari tipi di
poltrone e di lettini ma sono arrivata alla conclusione che un letto offre la massima
libertà di movimento e di collocarsi come più si desidera, il corpo riposa, si
aggroviglia, si gira, si ridistende a seconda dei momenti, sono veramente molte le
posizioni possibili. Per me, invece, uso da tempo una chaise longue, quella mitica di Le
Corbusier, che trovo bellissima e che avevo anche provato a utilizzare per il mio
interlocutore ma a mio giudizio impone una scelta di posizioni troppo limitata. Mi piace
distendermi anch’io assieme all’altro, sono più concentrata e la mia voce arriva alla
stessa altezza del suo capo. Anche per questo dettaglio, non è tanto una questione
ideologica di annullare o negare la differenza dei ruoli (delle gerarchie di potere
preferisco non fare uso neppure concettualmente, il grande Bateson diceva che ci
sono metafore descrittive più pericolose di altre e quella sul potere è fra le peggiori

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proprio perché così apparentemente semplice ed esaustiva) ma è che ho verificato
come muta l’ascolto a seconda della posizione fra i due, l’essere con la testa alla
stessa altezza permette un fluire molto morbido del conversare.

Del lettino, poi, non farei un tema troppo sacrale: ha dei vantaggi perché svincola dal
galateo cortese cui obbliga il guardarsi direttamente (come si fa a restare in silenzio
molto a lungo se io sono lì in attesa, tutta pronta a raccogliere le perle del suo dire?),
permette una forte alterazione del tempo e un aggirarsi fra i propri pensieri più agile e
spregiudicato. Talvolta mi si chiede di sospenderlo per quel giorno o, viceversa, di
poterlo usare per inseguire più liberamente una catena di pensieri: decidiamo
assieme, è uno strumento a disposizione.

Uso il registratore: ogni mio interlocutore ha la sua cassetta personale su cui incido i
colloqui che facciamo. Evidentemente ne chiedo il permesso a ciascuno spiegando che
talvolta capita di agganciare forma e contenuto della conversazione con una bella
articolazione e che, talvolta, invece, mi capita di concludere la seduta con l’idea di non
aver capito poi molto di quel che è passato fra di noi. Sono queste le registrazioni che
sbobino per studiarle e migliorare la tecnica del colloquio. È accaduto, molto
raramente, che fosse il mio interlocutore stesso a prendere in consegna la cassetta
per trascriverla: si è trattato di casi in cui ritenevo opportuno che la persona potesse
ritornare ad ascoltare ciò che ci eravamo detti, in un suo contesto più privato, senza di
me. Mi portavano, poi, la trascrizione e spesso mi restituivano la grande emozione di
quanto era importante ciò che avevano ascoltato, di com’era diversa la loro voce, di
come ci hanno continuato a pensare su. Ma tendenzialmente non consegno le
cassette: ho provato più di una volta nel corso degli anni anche a riascoltarle assieme
ma mi sembra che non dia grandi esiti rispetto al costo di una inevitabile violazione di
pudore e di intimità.

Il setting relazionale

Il contesto fisico e ambientale l’ho voluto così per facilitare il contesto di relazione con
l’altro. E l’altro è il mio consulente, il mio primo supervisore. A seconda delle sue
reazioni, di ciò che dice, di ciò che tace, dell’andamento del suo respiro, delle
emozioni che manifesta, dei pensieri che sussurra, a seconda di come cambia il tono
della sua voce, la postura del suo corpo, lo sbalordimento, la curiosità, la
contrapposizione, tutto questo e mille altri segnali sono per me gli indicatori
fondamentali di come muovermi. Per tacere, per suggerire, per proporre, per
accompagnare, per deviare, per inserire un mio pensiero, per interrogare, per
ascoltare serenamente. Senza memoria e senza desiderio, sono al seguito del suo
passo per entrare nel suo mondo. Con il suo permesso.
Per poterlo seguire, occorre che mi senta a mio agio, libera di osare e di astenermi,
senza impacci fisici ma anche sciolta dalle preoccupazioni di ciò che gli accade, di ciò
che farà, di ciò che vorrà rischiare o trattenersi dallo sperimentare. Posso lavorare
bene solamente se resto totalmente responsabile di ciò che faccio, penso, provo, dico
o taccio tanto quanto resta all’altro la piena responsabilità di ciò che fa, pensa, prova,
dice o tace. Assieme, ci occupiamo del suo mondo, assieme ci prendiamo cura della
sua fatica e della sua pena, assieme cerchiamo risorse inesplorate e possibilità
innovative, assieme restiamo sotto scacco e sopportiamo l’impotenza dello star dentro
tollerando assieme di non vedere uscita. Non intendo curare, probabilmente non
saprei farlo, prendermi cura sì. Con il suo permesso. Assieme all’altro.

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Spesso usano l’intercalare: se devo essere sincero, se devo dire la verità… Aggiungo
seria (ma spero non troppo pedante) la mia postilla: non è tenuto a dire nulla che non
desideri dirmi, nulla che non desideri che io venga a sapere. Per quel che mi riguarda,
le persone che mi cita e che impariamo a conoscere assieme, potrebbero anche non
esistere “in realtà”, mi basta che esistano per l’altro nella nostra relazione.

Tengo molto, e lo dico fin da subito alle persone con cui mi trovo a lavorare, al mio
segreto professionale: avverto che non parlerò neanche della loro esistenza con me,
tanto meno dei loro fatti privati, con chiunque: genitori, medici invianti, mogli e
mariti, amici preoccupati. Anzi, per essere più chiara, non ne parlerò se non alla loro
presenza. Chiunque lavora con me può propormi di incontrare qualcuno del suo
mondo: valuteremo assieme l’opportunità della sua richiesta, ne sonderemo il
significato e le conseguenze, quel che ci attendiamo da questo incontro. Se dovessimo
decidere, e talvolta accade, di invitare qualcuno a incontrarci, io resto comunque
vincolata al segreto per quanto ci siamo detti prima dell’incontro. L’altro, ovviamente,
è libero di dire ciò che vuole. Ci si ragiona assieme, testiamo le convenienze, quasi
sempre preferiamo l’ipotesi del riserbo.
Spesso risulta difficile conservare il silenzio di fronte a telefonate preoccupate di madri
lontane o di medici o colleghi che, avendo inviato la persona, pensano di doverne
conoscere gli sviluppi, spesso mi sento sbilanciata dal rigore verso la rigidità ma a
tutt’oggi penso che risulti uno dei confini indispensabili alla mia possibilità di lavorare.

Chiamarsi per nome

Un’altra richiesta che pongo è poterli chiamare con il nome proprio o con quello che
preferiscono. In genere quando ne chiedo il permesso, mi rivolgono uno sguardo
sorpreso ma, mi sembrerebbe, piacevolmente. Sì, certo, mi rispondono, spesso i più
giovani accentuano: mi dia pure del tu. Ma declino l’offerta: mi trovo meglio a usare il
lei. È accaduto anche, mi ricordo un ragazzo con un ciuffo chiaro, la faccetta che
voleva sembrare impunita e che trasudava tenerezza, è accaduto anche che l’altro mi
desse del tu: non era un problema mio, il permesso che chiedo è di rivolgermi con il
lei, come vuole rivolgersi a me l’altro, beh, riguarda lui. Ho continuato a chiamarlo
Fabio anche se spesso cadevo in trappola e inciampavo nel tu: era così giovane e mi
faceva le confidenze! Ma cercavo di riprendermi, con un sorriso che gli attribuiva il
punto. Lui non rilevava, andava avanti a parlare, lo sguardo un po’ lontano, la mano
impaziente che tormentava i pantaloni, poi all’uscita, improvvisamente allungava il
volto per ricevere una carezza e se ne andava, il capo alto, le spalle ben diritte.

Chiedo di poter usare il nome proprio soprattutto per evitare le complicazioni formali,
dottore, signora, professoressa, avvocato mi ingombrano i movimenti (in particolare
con le situazioni familiari, ciascuno viene individuato con il suo nome, non per il ruolo
che occupa in famiglia o nella società, tutte ugualmente persone con cui conversare).
Ma mi ingombra anche l’uso del tu. Preferisco il lei e spesso, nei momenti di
formazione, qualcuno si impunta, c’è stato pure uno che una volta ha tirato in ballo la
Rivoluzione Francese! Ma, spiego la mia posizione, usare il lei non vuol dire mantenere
una distanza fissa e allontanarsi dall’intimità. Nel campo del lei si può avanzare fin
quasi a stringersi in un abbraccio d’affetto e poi ritrarsi prima di sostare indiscreti
nell’intimità dell’altro, si possono evocare i registri del rispetto, dell’indagine
appassionata, del commento, della profonda partecipazione, della presenza silenziosa
ma non per questo meno complice. Mi ha sempre disturbato l’uso del tu, usato senza
chiedere il permesso (penso ai cosiddetti tossicodipendenti per esempio) e che trovo
irrispettoso proprio nella disparità di trattamento. Gli allievi in formazione, mi sembra,

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devono imparare a usare tutte le sfumature possibili che il lei consente in una
relazione fra persone. Dal tu, invece, non si può tornare indietro, se ci si accorge (e
quante volte accade!) di essersi lasciati troppo affascinare dal desiderio di aderire
(catturare?) all’altro, con il lei è più agevole risistemarsi al proprio posto, il tu è
estremamente più scivoloso. O, almeno, a me sembra così.

Analogamente alla mia richiesta, chiunque delle persone con cui lavoro può rivolgersi
a me come meglio crede, usare il mio nome, chiamarmi dottoressa, coniare un
nomignolo o un soprannome privato. È frequente che in situazioni emotive differenti
scelgano una o l’altra soluzione e anche questo è un particolare dell’arazzo che
andiamo tessendo assieme. Spesso si fa occasione di intimità, di un'affettività
sorridente, di una complicità seria che non vorrei seriosa.

Il pagamento

Un altro aspetto, riconosciuto da tutti come importante ma che viene spesso percepito
come inamovibile dall'ambito decisionale del terapeuta, è quello del pagamento.
Anche su questo dettaglio nel corso degli anni sono arrivata a definire una soluzione
che mi appare funzionale, agevole perché permette di accostare diversi lati della
relazione fra me e l'altro.

La prima seduta, il primo incontro non lo faccio pagare: l'altro è venuto a incontrarmi
al buio, inviato da qualche collega, dal suo medico di fiducia, da voci raccolte in giro.
Ho una segreteria telefonica in studio dove offro la possibilità di lasciarmi un
messaggio oppure di sentirci direttamente il lunedì fra le 13 e le 14. La segreteria è
sempre inserita, la ascolto fra un incontro e l'altro, penso che sia meglio non
interrompere il colloquio in corso e dunque il telefono non squilla neppure. Mi è molto
importante che la persona con cui lavoro sappia che quel tempo è totalmente a sua
disposizione ed è importante anche per me, mi lascia un grado maggiore di libertà in
tutti i sensi.

Dunque, mi ha chiamato per telefono, ci siamo accordati per incontrarci, per la prima
volta cerco di non far passare troppo tempo, magari forzando un poco i reciproci
vincoli ma senza troppa fatica. Ma quando ci vediamo in faccia, quando ci guardiamo
per la prima volta, la persona è in una posizione di netto svantaggio: viene in casa
mia, spesso è stanca di far fatica, ancora più spesso sta compiendo un passo che ha
rimandato e che non ama compiere, sa di doversi esporre portando le sue cose più
preziose a qualcuno di cui non ha nessuna informazione: che viso ho, che età, di che
scuola sono, come lavoro, se risulterò simpatica o supponente, se allineerò le sue
informazioni per trarne un giudizio drammatico e mille altre domande che urgono sulle
labbra ma che pensa di non poter formulare. Dunque, come dico semplicemente, mi
sembra giusto che si possa venire prima a vedere senza altri oneri, un po' come si
entra in un negozio nuovo per dare un'occhiata. E' evidente che dovremo sceglierci
l'un l'altro ma preferisco che si possa uscire dal primo incontro con ancora tutte le
carte decisionali in mano, ivi compresa, ovviamente, quella di non tornare mai più, di
disdire per telefono l'eventuale nuovo appuntamento, di cercare, magari assieme, una
persona più adeguata di me. Posso dedicare anche un incontro, se lo riteniamo
opportuno, allo spazio di domande, curiosità, informazioni di ogni tipo: non è l'altro a
dover essere discreto, sono io che debbo saper come rispondere nel contesto del mio
studio.

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Solo dopo che ci siamo rivisti perché abbiamo deciso che ci andava bene, possiamo
valutare assieme quanto deve essere il pagamento giusto del mio tempo e del mio
lavoro. Anche in questo caso, l'onere di aprire il tema è mio, dichiaro la cifra che
abitualmente prendo per ciascun incontro e chiedo quale gli sembri adeguata.
Adeguata non per me, questo è un mio ambito, ma adeguata nel senso che sia
sufficiente a che possa entrare a testa alta e sentire pienamente suo il tempo, il luogo,
il lavoro ma senza che questo debba comportare uno sbilanciamento troppo forte del
suo vivere quotidiano. Il discorso che ne facciamo, (talvolta in più tempi), il modo
come trattiamo l'argomento annoda e definisce il tipo di relazione, scandisce il peso
che il nostro lavoro andrà ad assumere. Rilascio sempre fattura, se non serve che la
gettino pure via, cosa farne è ambito loro, farla è ambito mio.

La durata

E, per finire, quante volte, per quanto tempo. Mi chiedono quanto tempo servirà,
rispondo sinceramente che non lo so, posso solo accennare dei parametri
generalissimi che in genere conoscono già. Sul quante volte, invece, è nuovamente
occasione di accordo. Tratteggio brevemente le diverse possibilità: due, tre volte la
settimana permettono lo strutturarsi di un linguaggio fra di noi, un conversare che
riconosciamo e che usiamo facilmente, dettagli, amici, amanti e colleghi entrano a
popolare l'universo condiviso, si sa che ci si vedrà fra poco dunque quel giorno lì si
può anche parlare in modo meno "importante", e anche tacere, riposarsi con i propri
pensieri. Gli incontri acquistano un carattere meno sacrale, più quotidiano e
maneggevole.
Vedersi più di rado caratterizza il nostro incontro come perno dell'intera settimana (o
dei quindici giorni), arrivano con già in testa una sorta di ordine del giorno (che
regolarmente disattendiamo, ovviamente), è più facile giungervi in cerca di risposte
con qualche tratto di definitività ma ciò che ci diciamo può essere rimasticato,
riascoltato e rigirato in testa per più giorni. Sì, come accade se si chiede alla Pizia, si
fa un viaggio, si ascoltano le risposte, si ritorna via ma in realtà il vero lavoro
d'interpretazione lo fa il pellegrino. Questa soluzione caratterizza, appunto, come
maggiormente impegnativo (e terapeutico) il tempo che intercorre fra un incontro e
l'altro e garantisce un grado superiore di verifica ecologica: ciò che resta, ciò che
serve è la persona stessa che lo va decidendo, dopo un vaglio privato senza la mia
presenza. C'è meno accompagnamento, una maggiore responsabilità diretta.

E' scontato che in qualunque momento possiamo ridiscuterne i termini, decidere di


raddensare gli incontri o di diluirli: lo valutiamo fra di noi. Così, mettiamo insieme le
diverse variabili, l'urgenza della richiesta, il piacere di un rapporto più da presso, il
desiderio di una distanza protettiva, la questione del denaro, la reciproca empatia,
l'interesse del lavorare in sé e allora, ecco, cominciamo, con un po' di emozione, un
filo d'ansia ma incrociando mentalmente le dita.

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I fatti degli altri

Qualche anno fa, in Inghilterra, avviarono uno studio conoscitivo per migliorare la
qualità dell’assistenza sanitaria; un aspetto riguardava la permanenza dei pazienti in
ospedale. Beh, ci si accorse che, con la stessa diagnosi e cure equivalenti, alcuni
pazienti richiedevano una permanenza insospettabilmente più breve degli altri.
Pragmatici e curiosi, i ricercatori andarono a cercare le variabili: famiglia collaborante,
ambiente più salubre? Non c’erano differenze significative, e neanche per le patologie
pregresse o il vigore del sistema immunitario. I ricercatori erano tenaci, volevano
sapere, volevano capire e continuarono a sondare variabili sempre più minute o
impensate. Fino a che, inopinatamente, ne identificarono una, questa sì costante per
tutti i pazienti che guarivano più in fretta: occupavano certi letti. E allora? Il fatto era
che questi letti erano vicini a un grande atrio da cui era ben visibile il viavai dell’intero
ospedale. Le ambulanze che entravano veloci, l’avvicendarsi dei medici, l’affaccendarsi
dei parenti, il passo esitante di chi veniva dimesso, lo scambio dei saluti e delle
consegne, le porte girevoli che assorbivano e restituivano persone diverse a ogni
rotazione silenziosa. Come dire, stupirono i ricercatori, che guarivano più in fretta le
persone che avevano modo di praticare l’attività preferita dagli essere umani:
l’osservare gli altri.

Io credo che anche nell’ingresso del nuovo secolo e millennio questa rimanga la nostra
attività preferita e credo proprio che resti la sorgente per tutti noi che ne abbiamo
fatto un lavoro: occuparsi dei fatti degli altri, farsi e fare domande, poter sapere che
cosa succede, tentare delle proposte, verificare che cosa se ne fa, saggiare
somiglianze e differenze, sperimentare contagi di pensieri e di avventure, ritrovarsi
soli a pensare l’altro e custodirlo dentro di sé, sentirsene invasi e desiderare di
liberarsene, tornare incessantemente a cercarlo. Lo penso come un prendersi cura,
molti di noi l’hanno chiamato curare, qualcuno parla perfino di guarire. Ma, nelle sue
varie accezioni e infinite sfumature di dettagli, nei nomi che si sono accavallati a
distinguere o a segnalare condivisioni, più genericamente è quel tipo di rapporto che
socialmente identifichiamo come terapia.

Ambito assai battuto e dibattuto, conosco qualche pista che ne è stata tracciata ma
tant’è, direbbe Manzoni, sembra che, come resta la nostra attività preferita osservare
gli esseri umani e occuparsi dei fatti loro, così, analogamente, ci resta indispensabile
interloquire con gli altri per sapere meglio che cosa pensiamo. Narrare le nostre
storie, raccontare i nostri pensieri per poterli conoscere. E condividere. L’obiettivo di
chi narra è vedere un suo pensiero prender forma di storia, avvolgersi in una linea
conchiusa, appoggiarsi sull’altro e da lui essere rimaneggiato, modellato con ditate
decise o timidi tocchi esitanti, stretto fra i palmi o dilatato fra le dita stese. È per
quello che ci si narra, affinché un altro umano, magari anche più d’uno, lavorino a loro
modo la storia e il pensiero, ciascuno a suo criterio, gusto, interesse, abilità. È allora
che possiamo lasciar andare il respiro sospeso, quando esce dalle loro mani, un soffio
lento e grato d’emozione. Poi ricominciamo daccapo.

Questione di cornici

Ovviamente, nell’occuparci dei fatti degli altri, come si fa tutti, anche noi terapeuti
cerchiamo una cornice in cui inserirli, un modo di ragionare se non un quadro teorico,
un’idea del come dovrebbero andare le cose. Da cui le cose che avvengono si
discostano; variamente e con effetti spesso di grande sofferenza. Le nostre teorie, i

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modelli cui facciamo riferimento, fungono da linee guida, da mappe dei territori che
andiamo a conoscere. Nel corso del tempo, alcuni modelli, alcune teorie, hanno
conquistato un credito maggiore di altri, hanno improntato di sé generazioni di
terapeuti che hanno preferito muoversi nel rapporto di cura entro un recinto logico e
teorico condiviso e che hanno contribuito a definirlo, dettagliarlo, qui aggiornando un
passaggio, là rinforzando un confine. E, ciclicamente, a ogni progressiva santificazione
di un modello teorico, ecco che gli se ne contrapponeva un altro, agganciato a quel
punto, magari, ma esteso in tutt’altra direzione, oppure divaricato a fronteggiare un
dogma sacro. Connessi all’evolversi e al mutare del contesto sociale e culturale, i
modelli terapeutici hanno costituito un vasto arazzo e, in qualche modo, una
documentazione precisa dell’andamento del pensiero. Perché, molto semplicemente,
l’indagine sull’altro, motivato dal desiderio di contribuire ad alleviare sofferenze,
disagi, arresti emotivi, paralisi inspiegabili, ostacoli a una gestione buona,
soddisfacente, pienamente umana dell’esistenza quotidiana, si trasformava
continuamente, incalzata dalle diverse formulazioni del malessere. E, soprattutto,
dalla definizione che, un decennio dopo l’altro, si veniva attribuendo al malessere
stesso, via via che l’idea di benessere si complessificava, abbracciando molteplici
esigenze, innestando desideri e aspettative solo vent’anni prima impensabili. E, dentro
e fuori i recinti dei modelli di maggior successo, ogni terapeuta cercava comunque
l’incontro con l’altro, trasgrediva e obbediva alle regole del suo stesso modello
nell’urgenza di un fare sul momento che sempre, per alcuni aspetti, sfuggiva alle
ipotesi teoriche. Come per i reati penali, la responsabilità del terapeuta resta
esclusivamente personale: nell’incontro con l’altro, si è soli, per quanto numerose e
dettagliate possano essere le icone dei padri protettori.

Nel tempo d’oggi, penso che, proprio come accadde agli inizi del secolo scorso,
assistiamo a una dissoluzione radicale, non drammatica ma seria sì, delle forme del
pensare e del fare che ci hanno accompagnato fedeli fino a pochi anni fa. Non solo
perché, come si dice, ogni generazione è una generazione di transizione e la nostra
con tutte, ma perché stanno verificandosi degli eventi su scala mondiale che
necessariamente pretendono attenzione: lo spostamento di milioni di persone in
cammino verso una speranza di vita, la tecnologia del virtuale, la costituzione degli
stati uniti d’Europa, l’imponenza della comunicazione nella vita di ciascuno, la
globalizzazione politica ed economica, le prospettive di intervento sulla fecondazione
artificiale, il cibo, l’ambiente ne sono solo alcuni esempi. Per non parlare della guerra
che ha fatto nuovamente irruzione impudente nei nostri giorni.
Inevitabilmente, come d’altronde è sempre successo, la cura della persona umana, le
sue forme, le tecniche, i modelli di riferimento, anche oggi dipendono dal pensiero che
della persona umana socialmente si preferisce avere fra i molti disponibili. Dall’idea,
appunto, del benessere da cui deriva, per contrappunto e differenza, la diagnostica, il
progetto d’intervento, la “cura” del malessere. Il cerchio etereo del pensiero scende
attratto dalla concretezza a riempire il quadrato della realtà e subito, in un’impennata
veloce, si svincola ancora ritrovando la sua forma di cerchio concluso. A ogni
generazione, in ogni frammento di tempo che riusciamo a definire, noi umani
pensiamo veramente di aver quadrato il cerchio. Di aver colto l’infinito trasmutare
della persona, di aver capito, definito, agganciato per la manica il malessere, il disagio
psichico. Di poterlo sconfiggere, disinnescare.

Uno, nessuno e centomila

Ad esempio, c’è uno slogan che ha avuto e conserva ancora oggi un grandissimo
successo: “Essere se stessi”. Suona bene, sembra molto chiaro, immagina delle verità
e delle identità, si propone come guida affidabile nei marosi dell’esistenza. Lo

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leggiamo sui manifesti, sulle copertine dei libri, ci esorta con baldo vigore dal mondo
del new age, ci ammonisce pensoso dagli ambienti meditativi. Sintetico e vibrante, ci
sprona a drizzare la schiena, a confrontarci con il conformismo dilagante senza
perdere l’orientamento, ad avviarci a passo sicuro nel sentiero o nel viale ampio della
nostra esistenza.
Ma lo scintillare di questo motto da ricamare sul petto per potersi pensare cavalieri
senza macchia, ottimati dallo sguardo puro, acuto come quello leggendario dell’aquila,
severi nel redarguire perché adusi a una austera coerenza, beh è uno scintillio
truffaldino, una luccicante confezione di nulla, come l’aria di Napoli, imbottigliata con
diligenza da un avventuriero geniale.
Perché che cosa mai vuol dire, che cosa mai significa “essere se stessi”? In un
seminario di tanti anni fa sulla comunicazione, uno psichiatra partecipante tentava di
negare il successo palese di un esercizio di induzione di comportamento avvenuto il
giorno prima: sì, certo, era vero, si era mosso effettivamente in quel tal modo ma era
confuso, forse era anche distratto, insomma ieri non era se stesso. Il docente lo
considera con attenzione, siamo tutti sospesi in silenzio, poi si china verso di lui e,
incuriosito, gli sillaba sul volto: e quando tu non sei te stesso, chi sei? È una di quelle
scene che, come credo facciamo tutti, conservo come icona, nel reliquiario dove
ammasso i reperti che il mondo e l’esistenza mi offrono e mi permettono di utilizzare.
A fianco di questa, un foglietto: Snoopy che sentenzia: nessuno è perfetto, ma chi
vuol essere nessuno?

Essere se stessi, appunto, uno slogan fortunato, mi ricorda il bombastium di un


vecchissimo racconto di Paperino, una sostanza magica e misteriosa che, aggiunta in
un contenitore qualunque, ne trasformava il contenuto nel cibo preferito da chi lo
aggiungeva. Oppure lo sciroppo per la tosse di Mary Poppins che cambiava sapore a
seconda del bimbo che lo ingoiava ma restava prelibato per ciascuno. Non voglio
affatto negare che lo slogan abbia potuto avere effetti brillanti, ispirare coraggio,
suggerire fermezza, rafforzare qua e là caratteri insicuri: la capacità suggestiva è
esattamente qui. Poiché non vuol dire nulla di preciso ma ha una forte attrattiva, lo
slogan viene riempito di significato da chi lo prende in considerazione, lo traduce in
una esortazione che poi segue. Lo sforzo di padroneggiare sentimenti o timori, la
soddisfazione di esserci riusciti, rientrano in circolo a riempire ancor più di rinnovato
valore lo slogan stesso.

Ma se fa bene, se ci aiuta in alcuni passaggi perigliosi, perché attaccarlo, perché svilire


a slogan un’esortazione che sembra parlare d’etica? Beh, come tanti farmaci e come
tanti motti ritenuti utili a educare le più giovani generazioni, anche questo ha degli
effetti collaterali pesanti, impone l’adesione a presupposti non criticabili. Molto
semplicemente, “essere se stessi” presuppone che ciascuno di noi abbia almeno un sé
più vero e più sé degli altri, pretende che ciascuno di noi, sotto le varie maschere
indossate per fronteggiare le situazioni più disparate, abbia un suo volto unico,
riconoscibile, vero. Vero in quanto unico, il volto di sé. Ecco, a me pare che questo
presupposto risulti oggi particolarmente inadeguato e antistorico, forse addirittura
pericoloso. Inadeguato perché non è (più?) funzionale per il modo odierno di costruire
i pensieri, pericoloso perché civetta con l’idea di un pensiero unico più vero e più
giusto degli altri. E questo mi spaventa e mi preoccupa. Ogni pensiero che pretende di
essere il migliore pretende anche, inevitabilmente, la dedizione e la fedeltà. Totali. E
la sconfitta, magari brutale ma per il fine migliore, di ogni altro concorrente. Il
bigottismo laico è estremamente più pericoloso del bigottismo religioso, proprio
perché chi si ritiene laico si pensa esente da bigottismi e, dunque, non fa nessuna
attenzione a preservarsene. E se glielo fai notare, ti spiega che si chiama coerenza.

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Un frattale per identità

Ma se invece di collocare l’idea di identità in un nucleo compatto e immutabile ben


custodito nel profondo del nostro interno, la immaginassimo esterna, se invece che
unica la immaginassimo molteplice, se invece che sostanziale la pensassimo più legata
alla forma? Come dire, scivolassimo via dall’identità intesa come il nome di Ra, il
segreto unico, l’anima (magari immortale?), quel qualcosa che perennemente ci
contraddistingue nel tempo evitando di impigliarsi nelle mutevoli apparenze e invece
facessimo leva proprio sulle apparenze, e invece prendessimo l’altro per come appare
e (speriamo che Fromm guardi altrove!) non ci occupassimo di sondare il suo vero
essere? Se cominciassimo ad ascoltare, semplicemente ascoltare ciò che ci vien detto
evitando di “auscultare” i discorsi? Se guardassimo con interesse ciò che l’altro ci
mostra e solo dopo, con il suo permesso e con la sua attiva partecipazione,
provassimo ad accostarne qualche significazione?
Che succederebbe se aggiungessimo un’altra idea di identità a quella che ha
attraversato i secoli formandoci in un pensiero? E dove sarebbe l'utilità di introdurre la
farragine di un modello in più? Tanto, certe cose le sappiamo da sempre, sappiamo
che ognuno di noi contiene opposti e differenze sia pur costretto a una fatica
quotidiana di integrazione, sappiamo bene che condividiamo pensieri e volti
incompatibili, sappiamo che è il nostro destino. Sappiamo che il nostro compito di
Sisifo è risorgere costantemente dalla comune imperfezione che ci affligge per
crescere, diventare se stessi, smussare, tralasciare, polire le nostre divaricazioni,
scegliere di diventare fedeli all’unica essenza vera, sempre inattingibile ma sempre
davanti agli occhi, stella polare cui orientare il lavoro (l’analisi interminabile!) su di
noi.

Ecco, a me questa idea non appaga, non mi sta tanto bene questa visione di noi
peccatori (o nevrotici, che differenza c’è?), sempre tesi a redimerci dalla
frammentazione, come dei cani da pastore impegnati a far sì che le mille pecore si
trasformino in un gregge ordinato. Teniamola pure, questa idea che ha intriso
profondamente le nostre culture ma gliene possiamo affiancare un’altra?
Se oltre al volersi considerare individui unitari con all’interno una ridda di parti anche
contraddittorie ci pensassimo come una comunità articolata di individui molteplici di
cui ciascuno, intero e compiuto, ha pari dignità e analoga capacità di porsi come
portavoce della comunità stessa, si aprirebbero prospettive differenti non solo
filosofiche ma anche per un criterio diagnostico e un progetto d'intervento di cura. Ci
provo.

Per ciascuno di noi, le cento, mille configurazioni dell'essere umano appaiono marcate
da quella specifica caratterizzazione, da quello stile unico, inimitabile che ci fa dire
"sono io". Ogni persona che siamo è firmata, come ogni brano di Mozart lo
rappresenta, come la scrittura di Leonardo si riflette nel suo disegnare, la pittura nel
suo pensiero sulla luce. Se provassimo a chiamare questo, identità, senza pretendere
di travasare la Gioconda nel codice Hammer, il Don Giovanni nell’appartenenza
massonica? Potremmo pensare ciascuno di noi come una moltitudine collegata da un
dettaglio, da una forma che rimbalza da uno all’altro e allora potremmo rubare (o
prendere in prestito) dal mondo serioso degli scienziati il concetto di frattale.
Il frattale, (lo riassumo qui rapidamente solo per ricordarcene tutti negli stessi
termini), è entrato nella fisica da una manciata d'anni grazie all'innovazione
velocissima dei computer più moderni. Per dare qualche conto della realtà, ci si è
spostati dall'utilizzazione della geometria euclidea a quella chiamata, appunto,
frattale. Una geometria che, riformulando in termini attuali la teoria del caos, disegna
la linea che, sempre uguale a se stessa, sempre diversamente traccia il confine fra la

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continuità e la discontinuità. Come dire, una foglia di quercia è ben riconoscibile ma
non esistono al mondo due foglie di quercia uguali. Sui libri invece sì. Ognuno di noi sa
riconoscere in una carrellata di foto la stessa persona cogliendo, in contemporanea, le
sue trasformazioni nel tempo, nelle diverse emozioni, nell'atteggiarsi, nella luce, nei
contesti spaziali.

Concetto suggestivo, quello del frattale, non solo per la sua ormai leggendaria
bellezza ed eleganza ma anche perché evade dall'universo dei modelli ideali (il punto,
la retta, il triangolo ma anche il benessere psico-fisico, l’armonia, l’equilibrio) per
cogliere l'andamento del movimento vivo dell'esistente. Le montagne non sono coni, il
caos non è disordine che squassa l'ordine ma flusso di vita impetuoso che, come un
fiume, ha correnti e gorghi riconoscibili ma non prevedibili compiutamente. Un cielo a
pecorelle ha un nome per tutti noi, lo riconosciamo ma non esiste una nube a
pecorella se non nell'intero cielo, nessuna nube è uguale all'altra eppure tutte sono
grandemente simili, avvengono insieme nello stesso cielo. E, poi, soprattutto, le
pecorelle vere brucano un po' più in giù.

Penso al frattale e lo vedo in giro attuato anche in forme d'arte, mi ripropone


diversamente problemi di diagnostica, contiene gli interventi trasformativi, è maestro
dell'accompagnamento "un passo a lato", della metafora, del paradosso, della
linguistica nella relazione. Del portentoso “homo sum, humani nihil a me alienum
puto”.

Cattedrali

Ho trovato splendido un brano di Raymond Carver ("Da dove sto chiamando",


Raymond Carver; Minimum fax, Roma 1999), lo ripropongo qui perché mi sembra una
perfetta descrizione del lavoro terapeutico. Il terapeuta non sa, è un cieco che ha
bisogno che l’altro disegni per lui e dia forma a ciò che contiene dentro di sé. Ma il
terapeuta sa chiedere, porre domande, incalzare perché vuol sapere, forte del suo non
sapere che è il suo strumento migliore. Anche l’altro vuol sapere, anche l’altro è
incalzato dal bisogno di dar forma e il lavoro si avvia.

"Cattedrali", ha detto il cieco, "so che ci sono voluti centinaia di uomini e cinquanta o
cento anni per costruirle, so che intere generazioni di una stessa famiglia a volte
hanno lavorato a una cattedrale. Se vuoi sapere la verità, fratello, questo è su per giù
tutto quel che so ma magari me ne puoi descrivere una tu, eh? Vorrei tanto che lo
facessi. Mi piacerebbe un sacco. Se proprio vuoi saperlo, un'idea precisa non ce l'ho
mica".
Io mi sono concentrato: come si fa a descriverla, anche a grandi linee? ma
supponiamo che ne andasse della mia vita, che un pazzo mi minacciasse. Ho
cominciato a parlare, lui mi ascoltava: mi rendevo conto che non glielo stavo
spiegando tanto bene, mi sono sforzato di pensare a cos'altro dire, poi "Scusa", gli ho
detto, "ma mi sa tanto che è il massimo che posso fare per te. E' che non ne sono
proprio capace. Non ci riesco proprio a spiegarti com'è fatta una cattedrale. Il fatto è
che le cattedrali non è che significhino niente di speciale per me. Tutto lì".
E' stato a quel punto che il cieco si è schiarito la gola, poi ha detto: "Ho capito,
fratello. Non è un problema. Mi è venuta un'idea. Perché non ti procuri un pezzo di
carta pesante? E una penna. Proviamo a fare una cosa. Ne disegniamo una insieme.
Coraggio, fratello, trovali e portali qua" ha detto.
E così sono salito di sopra, ho rovistato un po', ho trovato delle penne a sfera in un
cestino sulla scrivania. E poi mi sono sforzato di pensare a dove potevo trovare il tipo
di carta che mi aveva chiesto.

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Sono sceso in cucina e ho trovato una busta di carta del supermercato che aveva
ancora delle bucce di cipolla in fondo. L'ho svuotata scuotendola per bene. L'ho
portata di là in soggiorno e mi sono seduto per terra vicino alle gambe del cieco. Ho
spostato un po' di roba, ho allisciato la busta e l'ho stesa sul tavolino.
Il cieco si è tirato giù dal divano e si è seduto accanto a me sul tappeto. Ha passato le
dita sulla busta. Ne ha sfiorato su e giù i margini. I bordi, perfino i bordi. Ne ha
tastato per bene gli angoli. "Perfetto", ha detto. "Perfetto, facciamola".
Ha trovato la mia mano, quella con la penna. Ha chiuso la sua mano sulla mia.
"Coraggio, fratello, disegna", ha detto, "Disegna. Vedrai. Io ti vengo dietro. Andrà
tutto bene. Comincia subito a fare come ti dico. Vedrai. Disegna", ha detto il cieco.
E così ho cominciato. Prima ho disegnato una specie di scatola che pareva una casa.
Poteva essere anche la casa in cui abitavo. Poi ci ho messo sopra un tetto. Alle due
estremità del tetto, ho disegnato delle guglie. Roba da matti.
"Benone", ha detto lui, "Magnifico. Vai benissimo", ha detto. "Non avevi mai pensato
che una cosa del genere ti potesse succedere, eh, fratello? Beh, la vita è strana, sai.
Lo sappiamo tutti. Continua pure. Non smettere".
Ci ho messo dentro finestre con gli archi. Ho disegnato archi rampanti. Grandi portali.
Non riuscivo a smettere. Ho posato la penna e ho aperto e chiuso le dita. Il cieco
continuava a tastare la carta. la sfiorava con la punta delle dita, passando sopra a
tutto quello che avevo disegnato, e annuiva.
"Vai forte", ha detto infine.
Ho ripreso la penna e lui ha ritrovato la mia mano. Ho continuato ad aggiungere
particolari. Non sono certo un artista. Ma ho continuato a disegnare lo stesso.
"Premi più forte", mi ha detto il cieco. "Sì, così. Così va bene", ha aggiunto. "Certo. Ce
l'hai fatta, fratello. Si capisce bene, adesso. Non credevi di farcela, eh? Ma ce l'hai
fatta, ti rendi conto? Adesso sì che vai forte. Capisci cosa voglio dire? Tra un attimo
qui avremo un vero capolavoro. Come va il braccio?", ha chiesto. "Ora mettici un po'
di gente. Che cattedrale è senza la gente?"
Poi mi ha detto: "E adesso chiudi gli occhi".
L'ho fatto. Li ho chiusi proprio come m'ha detto lui.
"Li hai chiusi?", ha chiesto. "Non imbrogliare".
"Li ho chiusi", ho risposto io.
"Tienili così", ha detto. Poi ha aggiunto: "Adesso non fermarti. Continua a disegnare".
E così abbiamo continuato. Le sue dita guidavano le mie mentre la mano passava su
tutta la carta. Era una sensazione che non avevo mai provato prima in vita mia.
Poi lui ha detto: "Mi sa che ci siamo. Mi sa che ce l'hai fatta", ha detto. "Dà un po'
un'occhiata. Che te ne pare?"
Ma io ho continuato a tenere gli occhi chiusi. Volevo tenerli chiusi ancora un po'. Mi
pareva una cosa che dovevo fare.
"Allora?", ha chiesto. "La stai guardando?"
Tenevo gli occhi ancora chiusi. Ero a casa mia. Lo sapevo. Ma avevo come la
sensazione di non stare dentro a niente.
"E' proprio fantastica", ho detto.

Uno splendido addio

E quando l’altro, appunto, giunge ad essere a casa sua, con la sensazione di non stare
dentro a niente, può insegnare anche il modo migliore di lasciarsi. A me è capitato di
impararne molti, voglio raccontarne uno in particolare che mi ha coinvolto e
commosso profondamente.

Lui era un ragazzo delizioso, attento, divertente, profondo sotto una sua beffarda
modalità di narrazione; fisico nucleare, fra un evento e l’altro della sua vita mi parlava

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del suo stare agilmente in cucina (mi ha incantato un giorno raccontandomi di come
faceva i bignè, con leggerezza, mentre io non son mai riuscita a farli lievitare come si
deve), della musica, degli amici. E del suo amore, faticoso e ripetitivo ma da cui non
sapeva se voleva veramente districarsi. Lavorava con quella pudica serietà che spesso
gli uomini mettono nella ricerca di sé, le donne son più abituate da tempo a guardarsi
dentro e talvolta proprio la disinvoltura nel maneggiare l’incontro con se stessi fa velo
a una indagine più sinceramente interessante. Ma lui era molto serio, non grave, non
malmostoso: serio.

Un giorno mi annuncia che lo hanno chiamato a collaborare in un centro di ricerca


negli Stati Uniti, incarico di grande prestigio e che si prefigurava come un primo
ingresso in un mondo esplicitamente di adulti, un circolo di scienziati. Mi parla del suo
professore che si dispiaceva di non poterlo più avere come collaboratore all’Università,
mi dice che dovremo sospendere, che non pensa sia un’interruzione ma una
sospensione, mi racconta sobriamente del dolore del distacco da questi nostri incontri,
si chiede come fanno gli altri a andarsene via, come accade, come funziona. Abbiamo
poche sedute da consumare, manteniamo ancora quel tono sommesso e impegnativo
che gli appartiene, il tempo sgocciola, siamo all’ultimo incontro. Il mio studio ha per
ingresso una porta finestra, vado ad aprire al suono del campanello e lo vedo, al di là
del vetro, con l’impermeabile addosso, un buffo sorriso sul volto e un violoncello al
fianco, alto quanto lui ma più largo della sua figura esile. Mentre gli apro la porta, mi
dico che ha preferito portarlo con sé perché fuori è umido, sono stupita ma non poi
più di tanto, lui entra e si ferma in piedi, mi guarda col capo un po’ inclinato e mi dice:
per l’ultima seduta le ho preparato un concerto. Resto assolutamente senza fiato,
nessuno mi aveva mai fatto un concerto tutto per me, mi guardo intorno, sì, anche lui
è d’accordo, non andiamo nella stanza più piccola con il lettino, ci fermiamo qui, nella
stanza grande col giro di sedie per i gruppi e le famiglie.

Emozionata, scosto una sedia, faccio per sedermi, esito, lui intanto si sta togliendo
l’impermeabile, va all’attaccapanni, poi prende amorosamente fra le braccia il
violoncello, mi mostra la protezione per il puntale: non volevo sciuparle il tappeto, mi
dice, lo sistema per bene, si siede anche lui e mi guarda, sereno: le ho scelto dei
brani, vorrei dirle perché. E poi comincia e nel mio studio si allargano delle note, un
brano segue l’altro e sono note dedicate, è una musica scelta per essere eseguita lì,
per me. Con una strana naturalezza, parliamo a bassa voce, dopo l’esecuzione di un
pezzo riprendiamo dei pensieri su suo padre, un altro vuol significare il tempo del suo
pensiero, quello dopo narra il dolore e la difficoltà di dirlo. Lentamente, mai come oggi
ogni minuto è dotato di significato, il tempo raggiunge i quarantacinque minuti, ma
guarda, il concerto è finito giusto ora. Lui si alza, abbraccia nuovamente il violoncello,
mentre infila l’impermeabile sorride: sa che ho preso un posto anche per lui accanto a
me sull’aereo? Non potevo metterlo fra i bagagli, esposto a sbalzi troppo forti di
temperatura. Così mangio due pasti, quelli vegetariani sono sempre miserelli!
E poi se ne va, mite, serio, affidabile, pudicamente gentile.

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Una rete per pensare

Mi immagino, come una delle tante raffigurazioni possibili, che tutti noi si sia simili a
una rete, sì proprio come Internet, una rete vasta, punteggiata da nodi. Mi immagino
che ad ogni nodo corrisponda una nostra persona, autonoma, completa, con una sua
storia e un suo carattere, qualcuna con famiglia, altre single, ognuna con una sua età
e un suo modo di presentarsi e di comportarsi. E ognuna saldamente convinta di
avere ragione, di saper spiegare tutto il mondo dal suo specifico nodo, come dire?
ideologica, (grazie Popper!) esattamente nel senso che ciò che pensa e la scala di
valori cui si conforma valgono sotto tutti i cieli e per ogni tempo. Risorse a nostra
disposizione.

Mi immagino che la nostra esistenza sia un navigare costante fra questi diversi nodi,
mi immagino che nel tempo ciascuno di noi strutturi delle abitudini e preferisca
visitare alcuni siti più di altri, mi immagino che abitudine richiami abitudine e che
sempre più facilmente la nostra scelta si orienti verso i siti più visitati. Della serie
stessa spiaggia, stesso mare ma anche io sono una persona che, io mi conosco, non
potrei mai, debbo assolutamente ed espressioni analoghe che ci rassicurano sulla
nostra identità con quella assertività paciosa che sa essere ovvio e scontato ciò che
dice, ma lo dice per informare l’altro. Un gesto mentale che mi sembra il carezzarsi la
pancia di un signore di mezz’età o il the pomeridiano con canasta delle signore con i
ricciolini: tutto è noto, rassicurante, abituale.

Mi immagino, anche, che il progressivo restringersi delle abitudini provochi


irrigidimenti e distorsioni, è così che mi immagino il disagio mentale: una progressiva
riduzione del movimento e della frequentazione con il diverso. Mi immagino
l’intervento terapeutico come il ritrovare la possibilità, e il diritto, di riallargare il
proprio campo d’azione e di pensiero, di contraddire quel se stessi così evidentemente
noto, di scegliersi ogni giorno. Penso che tutte le persone con cui mi trovo a lavorare
abbiano diritto a una vita più piena e di maggior soddisfazione ed è verso le aperture
di prospettive altre che ci incamminiamo assieme.

Le stecche del ventaglio

Dopo aver fatto uso per molto tempo del pensiero lineare (quello in cui vige la regola
della causa che provoca l’effetto), ha cominciato a prender piede il pensiero sistemico:
quello, cioè, che preferisce considerare gli eventi e i comportamenti come inseriti in
un sistema di cui sono parte e la cui identificazione permette loro di essere dotati di
un significato. Ovviamente, i sistemi non esistono, sono piuttosto degli schemi in cui
collochiamo le informazioni disponibili allo scopo di ottenere delle opzioni di lettura e,
dunque, delle opzioni di intervento. Con analoga evidenza, la scelta del sistema che
decidiamo di immaginare e, dunque, all’interno del quale ordiniamo le informazioni,
vincola fortemente la raccolta stessa delle informazioni e anche il valore che andiamo
loro attribuendo nella ricerca di una significazione soddisfacente. Cerchiamo sempre,
noi animali umani, di darci ragione di ciò che accade allo scopo di capire che cosa ci si
può fare; il modello sistemico è uno strumento come un altro, funzionale fino a che
risulta di qualche utilità. Per ora, mi sembra che lo sia, e anche molto.

La scelta dello schema di lettura degli eventi e dei comportamenti vincola ed è


vincolata dallo strumento scelto: nulla di nuovo sotto il sole, semplicemente mi
premeva sottolineare la scansione etica, la responsabilità delle scelte che appartiene a

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chi opera e che in nessun modo può essere lasciato in carico all’idea o all’ideologia
utilizzata. Penso che la scelta non possa derivare dalla certezza di aver ragione, di
stare dalla parte giusta della barricata. Preferisco pensare, piuttosto, che la scelta
possa avvenire proprio quando ci si è potuti avvedere della giustezza della posizione
contrastante, altrimenti si ricade nel pensiero unico, indiscutibilmente giusto. Più di
tutti gli altri. Mi spiego: se in dibattito o in uno scambio di idee, di modi di pensare il
mondo (e che cosa è di altro l’evento terapeutico?) mi trovo a privilegiare una
posizione, occorre, prima che la faccia mia e la possa sostenere, che mi accerti
seriamente della validità della posizione dell’altro. Quando l’avrò esplorata e ne avrò
constatato il valore pari a quella che mi attraeva, allora posso assumere la posizione
che preferisco. Responsabilmente, non perché è la migliore ma perché mi dà delle
opzioni che mi piacciono, che voglio. Per esempio, tanto per essere ancora più
esplicita: il mio collocarmi nella cosiddetta opzione di centro sinistra non discende
dall’ovvia, banale dimostrazione del torto dell’opzione di centro destra, come se fosse
impossibile aderire consapevolmente, con etica e con intelligenza, al centro destra. La
mia collocazione politica o sociale non dipende da chi ha più ragione ma da chi mi dà
un maggior numero di quelle scelte e di quelle possibilità, operative e culturali, che a
me vanno bene. Ma non perché siano inequivocabilmente le migliori in assoluto. È così
che mi racconto la convivenza democratica, fatta di opinioni, giustapposizioni,
controllo, sogno e speranza, dove la voce altra da me non va difesa per bontà d’animo
ma perché mi serve. Per poter scegliere

In pratica, quando incontro una persona che chiede il mio intervento al suo fianco,
presuppongo che la sua visione, l’impostazione che ha dato e dà dei suoi fatti sia stata
certamente valida e che sia composta in un quadro logico che dà ragione degli
elementi considerati. Perché, dunque, il mio intervento? Perché, probabilmente, quella
visione ha esaurito la sua capacità di azione, si è consumata nel tempo o ha
consumato il suo tempo. E l’altro mi viene a chiedere un affiancamento. Proprio
perché cerco di rendermi conto di quanto è stato valido il suo modo di pensare e
proprio perché lo percorro assieme all’altro, accade che ci troviamo a un punto in cui
la spinta vitale si è esaurita, in cui le possibilità di scelta si sono irrigidite come le
stecche di un ventaglio che si è chiuso. Da qui possiamo provare assieme a testare
altri punti di vista, riaprendo il ventaglio affinché riprenda a funzionare, cambiando il
ventaglio o magari utilizzando la rigidità delle stecche per un’operazione differente. Ma
solo perché stiamo concordando che il moto si è incagliato, che pulsa dolorosamente
senza lasciare possibilità di sollievo. È allora che posso mettere a disposizione i miei
strumenti: sceglieremo assieme quelli che ci sembreranno più adeguati e li
maneggeremo assieme affinché si riapra la gamma delle scelte uscendo dal diktat
della proposta binaria. Perché una scelta si può chiamare tale solo se ci sono almeno
tre elementi fra cui operare una scelta, altrimenti è una rinuncia. Fra due fidanzati,
non si può scegliere, cercatevi il terzo e saprete che state operando una scelta.

Una rete per navigare

Scrive Aldo Zargani, (nella prefazione alla seconda edizione di “Per violino solo”; Il
Mulino, Bologna 2002): “Dentro di noi, quasi certamente nel nostro cervello, ma il
modo ancora non si sa, e meno che meno il sito, si formerebbero, successivamente
nel tempo, e vivrebbero poi l’una accanto all’altra, più anime fra loro distinte. È questa
una vecchissima teoria che risale addirittura a Platone. (…) io mi schiero con Platone
perché, nella confusione indescrivibile della mia identità, sento più voci dissonanti di
persone diverse e spesso neppure so se queste voce provengano dalle mie molteplici
anime, o non piuttosto da quelle del mio papà e della mia mamma, e talvolta

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nemmeno se esse siano state un tempo reali o non escano invece dalle bocche virtuali
di personaggi di romanzo”.

Preferisco pensare noi umani come dentro una struttura a rete in cui si posizionano
tutti i nostri sistemi, concettuali, linguistici, relazionali, affettivi etc. Di questa rete che
immagino, non si conoscono pienamente i confini, volta volta decidiamo che segmento
prendere in considerazione, non tutto l’intero ma tutto ciò che ci serve per operare.
Nessuno di noi può pensare di conoscersi completamente (il Gattopardo diceva che un
palazzo di cui si conoscano tutte le stanze non è degno di chiamarsi palazzo!), è noto,
ma ognuno di noi decide quali elementi della sua persona utilizzare in ciascuna
occasione. Come si diceva in altre occasioni, possiamo avere acquistato i trenta
migliori giocatori di calcio del mondo ma per giocare una partita ne scegliamo
necessariamente undici; e non diciamo per questo che abbiamo rinunciato agli altri.

Dunque, già la decisione dei confini, la scelta del segmento, attiene a un esercizio di
libertà, è una scelta etica. Decidere di andare in terapia vuol dire anche aver
selezionato un segmento da prendere in considerazione, lavorare in terapia vuol dire
giustapporne degli altri, allargare o restringere le dimensioni, scendere o salire per
scrutare da punti di vista differenti fino a che è ristabilito il movimento. La scelta del
segmento spetta a chi decide di chiamarmi al suo fianco, il come lo maneggeremo, le
operazioni (intese nel senso che indicava Bridgman) opportune le stabiliremo assieme.

La rete che immagino, dicevo, è composta da infiniti nodi. Questa prospettiva


comporta alcuni spostamenti: si passa da un'idea di identità coerente a identità
multiple e puntiformi, da un intero scomponibile in diverse parti a più interi
combinabili diversamente fra loro. Spesso si sente parlare di parti di sé, spesso ci si
riferisce a parti bambine, come il fanciullino di Pascoli. Non mi ritrovo a pensare alle
persone come con delle parti al loro interno, mi trovo più facilmente a pensarle come
un sistema mobile (una rete, appunto) composto da tante, tantissime persone. La
persona bambina non è necessariamente la più pregiata, è sicuramente una persona
che conosce e ha delle cose da dire, ma trovo pericoloso privilegiare la dimensione
infantile come predominante perché fa scivolare la persona (e soprattutto il cosiddetto
paziente) in una sorta di minore da porre sotto tutela, guarda caso proprio del
terapeuta che dovrebbe assumersi la responsabilità della sua crescita armoniosa che
altri non hanno saputo curare e preservare. La moltitudine delle persone moltiplica la
gamma degli interlocutori con cui confrontarsi e con i quali prendere delle decisioni e,
soprattutto, garantisce la dignità, la capacità competente propria della dimensione
adulta. La persona porta un suo segmento di rete in cui sono ospitate delle sue
persone e non delle altre, queste hanno già compiuto un loro lavoro e ristanno
esauste, non sanno più come e dove trovare soluzioni. L’interlocuzione con delle altre
riattiva, integra, completa un cerchio, sposta l’attenzione, identifica prospettive e
risorse. E se la persona piccolina c’entra nel gioco, che giochi la sua parte e dica ciò
che crede, gli altri la ascolteranno pretendendo a loro volta la stessa attenzione.

Anche la gerarchia dei valori scivola da una stabilità a una serie possibile di gerarchie,
da definirsi in ogni qui ed ora determinato dal punto di vista prescelto. A seconda di
come cambiano le circostanze prese in considerazione, può mutare (anche di molto) la
gerarchia dei valori: occuparsi di sé è molto importante, dedicarsi del tempo pure.
Questo resta vero e giusto da un angolo visuale, da un altro angolo può risultare
preferibile trascurare le proprie esigenze, per quel momento, in quella occasione. Ma
la persona che si vive come sempre disponibile, che non sa quando riservare a sé
tempo e attenzioni, è rigida e sofferente quanto chi non sa come districarsi dallo
sguardo affascinato dal suo ombelico. Questione di tempi, di occasioni, di momenti, di

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scelte. Ma si può scegliere pienamente solo se si sa come essere del tutto chinati su di
sé e si è capaci di farlo con pieno appagamento, solo se si sa come è dedicarsi all’altro
e si è capaci di farlo con la necessaria levità. Noi che facciamo questo mestiere troppo
spesso non sappiamo come è rivolgerci ad ascoltare l’altro, dedicargli tutta la nostra
attenzione. Troppo spesso non siamo pienamente lì con lui, distratti dall’armeggiare
con le nostre teorie o dal domandarci come proteggerci da quella invasione di
malessere. L’immagine della rete mi permette di lasciare autonoma quella che vuol
fare la terapeuta, per quel tempo stabilito, con la libertà di chiamare a sé tutte le altre
che dovessero sembrarle utili. Ma la terapeuta che mi piace veder lavorare non è una
persona disponibile, non si china pietosamente sulla sofferenza; piuttosto è una
persona curiosa che vuole capire, che chiede di cercare ancora, che chiede di
esplorare con una certa spregiudicatezza, che vuole tentare accostamenti diversi e
che, alla fine dell’incontro, restituisce tutti i giocattoli al proprietario, grata di aver
potuto giocare assieme.

Altrove nel tempo

Anche l'idea di progresso continuo nel tempo (il troppo celebrato percorso terapeutico,
quella incongrua idea di crescita) si modifica in una serie di eventi rotondi da infilare
come in una collana, ogni incontro ha la freschezza del primo, incantato di tante
possibilità da esplorare, ogni volta daccapo, ogni volta come se fosse l’unico incontro
del mondo, come se dovesse essere il primo e l’ultimo della storia. Sappiamo bene
come a tutti noi piaccia innamorarsi, ogni incontro per me ha questa fascinazione,
questo accattivante richiamo. Eppure, e proprio per permettere questo, ogni incontro
ha un suo tempo stabilito, una scadenza. Perché è solo in un tempo definito che può
inverarsi una situazione emotiva, una relazione: sono i limiti che danno senso,
significato e valore a quello che racchiudono. Il fermo confine della morte riecheggia
dotando di significato ogni attimo dell’esistenza.

Non ha senso riferirsi all’avventura terapeutica come a un itinerario con tappe previste
come a un tour organizzato per una crociera sul Nilo. Perché, appunto, nell’incontro
terapeutico, realmente non sappiamo se andremo a visitare il Nilo, se e quando mai il
Nilo entrerà nel nostro stare assieme. E non certo perché al Nilo manchi fascino o
perché non sappia come ampliare la nostra esperienza di vita. Ma, semplicemente, noi
non sappiamo quali delle nostre persone verranno invitate, quali saranno le domande,
quali gli aggiustamenti, dove si collocherà lo stupore del pensiero che illumina
all’improvviso. Non possiamo prenotare in anticipo, anche se non possiamo
assolutamente escludere che proprio sul Nilo finiremo per trovarci, in crociera o a
nuoto, a colloquio con i faraoni o estatici di fronte al prodigio delle piramidi, magari, e
perché no? comparando le leggende sulla Via Lattea nelle diverse culture proprio
mentre constatiamo la meraviglia dello specchio fra cielo e terra a Giza nella cintura
d’Orione riprodotta nella disposizione delle costruzioni. Diceva Giampaolo Lai tanti
anni fa in un seminario: che cosa vuol dire essere stati a Parigi? Forse che se non
sono andato a visitare la Tour Eiffel e ho passato otto giorni in un bistrot a
chiacchierare con tanti, diversi interlocutori, allora non posso dire di essere stato a
Parigi, non posso parlare di questa città? Ma, anche, se ho consumato i miei otto
giorni per musei, se li ho passati nelle librerie, in un giro d’arte gastronomica o in
allegre avventure d’amore? O seguendo i percorsi dal Lussemburgo alla Défense,
oppure ascoltando il dibattito parlamentare? Ma certo, si risponde, ma sono percorsi
settoriali: appunto.

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Cerchiamo di seguire l’andamento della storia: si è andati a Parigi per fare un viaggio
(e si è scelto Parigi) oppure si voleva andare a Parigi? Vuoi entrare in terapia perché ti
hanno detto che sei diventato insopportabile, perché non dormi più, perché ti
affascina sapere chi sei, perché ti serve per migliorare il tuo lavoro? Perché non ti
piace più fare l’amore o ti piacerebbe ma nessuno vuole giocare a farlo con te?
E, magari, perché ti fa paura la terapia e vuoi dimostrare di saperla fronteggiare o
perché pensi sia un’esperienza intellettualmente significativa che ti ammette nel club
degli iniziati? Il punto è che moltissime di queste apparentemente incompatibili
motivazioni coesistono e che non per questo diventano compatibili. Ognuna
saldamente affrancata a un punto di vista, a un nodo della rete, a una delle nostre
persone. Che hanno tutte ragione, evidentemente: come si fa ad escludere un sincero
gusto intellettuale nel conoscere e assieme l’urgenza di un groviglio doloroso e la
fatica di riconoscersi adulti e il piacere di essere ascoltati e la necessità di risolvere
una situazione? Come si fa ad affannarsi a selezionare la motivazione vera? Ma la
questione non è sul a chi dare ragione ma su quale punto di vista scegliere,
affiancandosi alla persona che di quel punto, di quel nodo è portavoce. E non si può
scegliere mettendo in competizione ma tracciando un progetto, un desiderio cui
possano aderire una o più persone. E con quelle lavorare, vigili a cogliere ogni
indicazione che segnali la richiesta di uscita dal campo di una persona (per quel
momento, in quella occasione) o il richiamo di un’altra pronta ad entrarvi.

Per cercare di spiegarmi, torno a Parigi, (che oltretutto è una città splendida che amo
molto e che è per me una sorta di terra della potenzialità governata). Certamente
dopo il viaggio mi deve restare nelle mani qualche traccia che sappia testimoniare a
me e agli altri la realtà e la buona riuscita del viaggio stesso. Il cerchio, che si apre
con il progetto del viaggio a Parigi, si deve poter chiudere con un ritorno saturo di un
viaggio effettuato: le coordinate, i criteri che mi permettono di dare significato al
progetto del viaggio appartengono alla mia realtà quotidiana dove ritorno (un viaggio
senza ritorno non è un viaggio, una terapia che non sia a termine non è una terapia).
Dunque, la realtà e la soddisfazione del viaggio, al mio ritorno, devono essere
riconoscibili per la logica della realtà quotidiana, che è altra da Parigi. Se ho avviato
una terapia sotto un’urgenza o per un progetto, beh me ne deve restare in mano una
testimonianza, maneggiabile qui dove son tornato a vivere. Al mio ritorno devo
risultare un poco straniato rispetto a questo quotidiano che ho lasciato altrimenti che
viaggio è stato mai? Straniato ma non estraneo, incapace di riprenderne il filo: una
terapia non cerca di far evadere dal quotidiano, misero e senza possibilità di
competere con gli sfavillanti dépliants delle agenzie di viaggio, una terapia serve a
rendere vivibile e significativo e prodigioso il quotidiano. Si va per un po’ altrove per
vivere meglio dopo, qui, nella propria terra.

Ideologie a confronto

L’altro aspetto che complica, però, è che il tempo del soggiorno a Parigi (della sosta,
come mi piace pensarlo) non deve e non può seguire le regole e i criteri e la logica del
luogo che abbiamo lasciato per spostarci. Non cercheremo la pizza a Parigi né
andremo a domandarci come mai non cominciano il pasto con un bel piatto di trofie al
vero pesto genovese. Ma, signori miei, è inimitabile la grazia con cui preparano il
piatto che vi portano, è un vero godimento stare a guardare i negozianti che, di prima
mattina, dispongono frutta e verdura con grandissima cura per l’accostamento dei
colori e l’armonia delle forme: l’icona che conservo è una cascata di fagiolini
verdissimi che ricade da una cornucopia di vimini, affiancata dal viola profondo delle

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melanzane e dal grido brillante dei peperoni. Verdura, certo, ma che gusto differente,
in bocca e negli occhi.
Ma, camminando per Montmartre, un mattino presto, con il sussurro dell’acqua che
scorre nei canaletti a lavare i marciapiedi e a rinfrescare l’aria, in quei momenti
magici, si può restare italiani? O si deve giocare al “facciamo che tu eri” ed ero anch’io
parigina? E così per la loro grandeur, (l’oro e il nero della Concorde fanno parte del
gioco), davanti alle fontane uguali a quelle di San Pietro, si può ricordare l’eleganza
sobria di San Miniato? Ecco, mi piace pensare che in quel momento la nostra persona
intrisa di quel certo gusto italiano ci sfiori leggermente: sono qui, abbiamo qualcosa
da fare assieme? Posso esserti utile? Oppure, la sciovinista prepotente e sprezzante:
ma dai, come fai a restare a perdere tempo qua, che cosa mai cerchi? Non sai che
l’Italia è il paese che ha le maggiori ricchezze d’arte? Può affacciarsi anche la storica,
gli occhialini sottili un poco scesi sul naso, la cordicella d’obbligo: certo, è veramente
interessante come dai monumenti si possano ricavare tante informazioni sulla cultura
dei diversi popoli!

È qui che si pone la scelta etica: quale o quali di queste nostre persone invitare a
spartire questo momento, a formare assieme dei pensieri. Il ricordo di San Miniato
può imboccare percorsi e concatenazioni assolutamente differenti, ma non vale dire:
beh, allora mi è venuta in mente San Miniato e non ho potuto fare a meno di
confrontare, paragonare, mettere in competizione etc. Nello scontro, non è certo
Napoleone che rischia di farsi male, piuttosto chi è a rischio è la persona che ha scelto
di andare a passare qualche giorno a Parigi. Ciascuna delle nostre persone, esponente
di un nodo di pensiero e di identità, può mantenere la sua ideologica coerenza: sta al
navigatore decidere dove soffermarsi, con chi vuole condividere quel momento, da chi
e con chi vuole ricercare informazioni e approfondimenti e risorse. Sta al terapeuta
affiancarsi al navigatore per facilitare il suo scegliere, mettendo a disposizione la sua
competenza affinché lo scegliere divenga gradualmente più agevole, più chiaro l’iter
stesso della scelta, sta al terapeuta soffermarsi con l’altro, ricercare con l’altro, un
passo a lato (e non il moralistico un passo avanti!), partecipe del suo procedere,
pronto a fornire ciò che serve, discreto nel proteggere un’intimità: un po’ scudiero, un
po’ guida, un po’ nutrice, un po’ compagno, un po’ manuale di navigazione, un po’
verificatore contabile. Un passo a lato, assieme. Ma non è il terapeuta che naviga.

Dall’accumulo del sapere a sapienze che trasmigrano

Ecco che, allora, non è più tanto utile l’idea di un sapere che va accumulandosi, di una
biblioteca sempre più complessa e voluminosa da portare con sé. Anche perché,
banalmente, è forse proprio questo peso che rende faticoso il passo, è proprio questo
grande ammasso di cose che sappiamo a vincolare il movimento successivo, a imporci
l’esigenza tanto indiscutibile quanto insana di procedere in linea retta, coerenti con
quello che già è stato, che sappiamo essere avvenuto, da cui non possiamo
prescindere. È stato detto, e mi sembra realmente molto significativo, che il fatto che
una cosa sia vera non la rende di per sé importante: sono miliardi le cose vere,
infinito il loro elenco. E se veramente volessimo comporle in elenchi ragionati,
verificheremmo l’assoluta incompatibilità di mille elementi, veri, senz’altro, ma che
non tollerano coesistenza obbligata. Come se pretendessimo di ridurre l’infinita e
benedetta molteplicità del mondo intero in un pensiero unico, con una sola religione,
una sola etica, una sola forma di convivenza civile, un solo modo di vestire, di
sorridere, di corteggiare, di dire di sì o di negare. Ovviamente, dopo aver valutato
attentamente per tutte queste categorie il meglio, il più vero, il più giusto fra tutte le
opzioni possibili. Diceva il padre di mio marito, quando voleva insegnare a lui bambino
l’infinità dei numeri: puoi riempire la parete della tua stanza di numeri fino a saturarla

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ma sempre, sempre potrai aggiungere ancora una cifra. Non penso che i valori, le
idee, le emozioni, i pensieri, i sussulti che si agitano o sospirano dentro le persone
umane debbano essere iscritti in un girone ad eliminazione per selezionarne il
migliore, penso che la gamma delle differenze debba essere casomai allargata ancora
fino a perderci la testa e l’orientamento, penso che qui sia custodito il nostro
insopprimibile desiderio di vita. E che vada preservato. È ovvio, poi, che in ogni
attimo, in ogni tempo e luogo, in ogni occasione anche minimale, scegliamo i codici, i
valori, i comportamenti che più ci sembrano adeguati: ma per poi immediatamente
rimettere nell’urna tutte le ballotte senza privare di nessuna la scelta dell’attimo
successivo. È ovvio che ciascuno di noi desideri una buona armonia con se stessi e con
il mondo esterno, è ovvio che ci piaccia essere in buona sintonia, a nostro agio, in un
gradevole comprendersi reciproco basato sulla reciproca conoscenza condivisa ma è
altrettanto ovvio che ogni equilibrio va scomposto, che il quadro armonico vale per il
tempo di un soffio, che la vita è continuamente mettersi in un nuovo rischio da
comporre ancora in un quadro dai lineamenti inediti. Che ha il valore di un tempo
breve. Ormai è diventata una battuta ma mi piace pensare che ogni amore, ogni
passione, ogni idea, ogni valore, ogni stella hanno una scadenza: come le mozzarelle,
ridiamo assieme!

Per questo possiamo scegliere, volta volta, di dormire a sazietà fino a che il nostro
corpo non ci informa che adesso basta (e gustarlo, con pienezza) come anche
decidere di alzarci nel buio, rabbrividendo un poco per il freddo dell’aria nuova del
giorno, per vedere l’alba, come anche, e perché mai non avrebbe lo stesso rango?,
alzarci a una certa ora per un impegno di lavoro, per un appuntamento, per scrivere,
leggere o preparare le lasagne per stasera. Ma sono insofferente di chi pretende di
farne una regola universale, valida comunque. L’esigenza dell’armonia, l’ascolto del
proprio corpo possono irrigidirsi in imposizioni sciocche perché limitate e limitanti
esattamente quanto la mistica del lavoro, del non perdere tempo; stare sempre a
dieta è parente del mangiare dissennato, essere equilibrati sconfina nella rigidità, è
tanto importante sapersi spendere in sogni utopici e tentare pervicacemente di attuarli
quanto percepire i segnali di un esame di realtà. Camminare è una sorta di caduta
controllata ed è infinitamente più difficile mantenere l’equilibrio stando fermi piuttosto
che muovendosi: perché mai quello che sperimentiamo nell’universo fisico non
dovrebbe suggerirci qualcosa anche per la nostra psiche?

Eppure gran parte del gergo cosiddetto psicologico rimanda a un’idea basilare di
fissità: trovare se stessi, raggiungere un comportamento equilibrato, conquistare la
serenità, fare ordine nelle nostre contraddizioni, magari risolverle? E perché, invece,
non moltiplicarle, perché non spingerci oltre i confini di ciò che sappiamo, perché non
sperimentare linguaggi e comportamenti proprio perché non ci assomigliano? Perché
investire tanto tempo a mettere ordine nelle nostre stanze affollate di oggetti,
pensieri, ricordi e preziosissime sofferenze e invece non uscirsene un po’ fuori da
questi luoghi con l’aria consumata che affievolisce il respiro? Non è questa l’esperienza
dell’arte, della ricerca, di qualunque conoscenza? Anche perché, in fondo, sarebbe
bene tenere a mente che non siamo poi del tutto immortali, non è vero? Di questa
manciata di tempo di cui possiamo disporre, vogliamo farne un’edizione della Fulgida?
Appartengo a quella categoria di persone che fanno molta fatica a uscire di casa senza
aver rifatto i letti ma ogni tanto, volutamente, esco con i letti in disordine. Mi piace, la
mattina, entrare in cucina e trovarla in ordine, i piatti e le stoviglie a loro posto, ma
ogni tanto li lascio lì, abbandonati sulla tovaglia come sulla scena di un’azione
interrotta. Amo le mie abitudini e proprio per questo, per potere continuare ad
amarle, mi serve poterle nuovamente scegliere: amo la cucina in ordine, la mattina,
mi fa rumore in testa vedere il disordine e la mattina il rumore è ciò che mi disturba

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maggiormente ma è un micro brivido di eccitazione trasgredire le mie stesse abitudini,
c’è un micro rischio nello spegnere la luce con un ultimo sguardo sulla tavola
ingombra. E spero di fare a tempo, la mattina dopo, a rimettere a posto, non vorrei
morire proprio quella notte e passare alla storia come una casalinga sciattona! Fino ad
ora ha funzionato, poi vedremo.

Il moto è permanente

Questa rete che immagino, i sistemi viventi la percorrono in una continua esplorazione
e discorrono costantemente fra i nodi, modificandone con la frequentazione l’entità e il
peso, stringendone di nuovi, allentandone degli altri. Vuol dire, cioè, che ogni persona
e ogni gruppo, ogni complesso vivente procede da una postazione ad un’altra nello
scorrere del tempo e nel modificarsi delle situazioni. Così, accade che la persona alle 9
del mattino si orienti verso il tempo del lavoro: ne veste i panni e soggiorna in quel
nodo con quella specifica identità adeguata. Raccoglie i pensieri che appartengono a
quel contesto, acquista quel modo, quel comportamento, quella mimica, quel tono di
voce che fanno sì che venga riconosciuta sul posto di lavoro e che si concordi tutti che
effettivamente è lì, presente, per lavorare. Nel quadro generale dell’assetto da lavoro,
ovviamente ci saranno dei dettagli, delle sottolineature proprie di quel giorno, di
quell’umore, di ciò che vuole trasmettere, di ciò che vuole ottenere ma la struttura di
base dell’identità deve essere riconoscibile nelle sue modificazioni. Per la persona e
per gli altri, segnali e codici devono ben bilanciarsi fra una continuità e un mutamento,
alchimia complessa sulla quale impegniamo le nostre giornate.

La permanenza nel nodo lavoro fa sfumare dopo breve tempo la significatività


dell’assetto da lavoro così accuratamente predisposto: sì, ho capito, sei la mia collega,
lo so, sei qui per lavorare ma adesso che cosa facciamo assieme? Dopo i riti che
aprono la giornata e ne ufficializzano l’inizio (la professionista che saluta il portiere,
apre la porta dello studio, ascolta la segreteria, cambia l’aria, accende le lampade,
l’insegnante che passa in sala docenti, appende il soprabito, controlla i registri, sceglie
il volto con cui entrare in classe o l’infermiera che cambia d’abito, raccoglie i capelli,
sfoglia le cartelle, spunta la lista delle medicine) c’è un tempo nuovo da segnare di sé,
nel solco della continuità ma nello specifico di quel giorno. In questo momento non è
più sufficiente l’assetto da lavoro che sfuma a farsi cornice, magari si affaccia la
nostra persona che sa affrontare il nuovo, quella che sa arredare anche la tenda da
campeggio per farsela assomigliare, quella che scende con un poco di trepidazione su
una terra sconosciuta già cercando di individuare dei particolari che userà come punti
di riferimento, per calmare la sua ansia. La persona ricercatrice che sperimenta
accostamenti inediti, contagi e dissonanze, l’esploratrice un po’ guascona che lei se la
sa sempre cavare. Ed ecco che sentiamo raddrizzarsi le spalle, il nostro volto
assumere un’espressione di calma controllata e vigile, lo sguardo che spazza intorno
come uno spot da teatro, le mani morbide, la presa sicura. Il timore è confinato in un
angolino, dai che la giornata sarà una bella giornata, il passo elastico, il sorriso pronto
a bere ogni novità da ricercare e cogliere.

Oppure, si affaccerà la ragazzina assestata che allinea sempre allo stesso modo i suoi
pastelli colorati e che ricondurrà il nuovo di questo inizio di giornata a una
rassicurante, ordinata, banale, nota sequenza. Un po’ come quando si dice che
l’inconscio è poi sempre lo stesso, che il lavoro di un impiegato è monotono, che
anche la scrittura in fondo non è che un ripetere, che gli uomini sono tutti uguali, che i
giovani d’oggi non vogliono impegnarsi e non hanno i valori. E che, signora mia, non
ci sono più le mezze stagioni. Nodo importante, questo, quello che ci protegge dallo

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sconcerto dello sconosciuto, quello che ci assicura che resteremo vivi. È lo stesso nodo
che calma gli spaventi dei bambini: non è niente, è solo un tuono, è solo che ho mal di
testa, è una verdura come le altre. È una persona fondamentale da avere al nostro
fianco ma non chiediamole di farci divertire! Conosce le nostre abitudini, anzi è
attraverso le nostre abitudini che ci conosce, esattamente per quello sono state
costruite, per farci riconoscere. Io sono uno che fuma, che tutte le mattine beve una
spremuta d’arancia, che non tollera di affacciarsi nel vuoto, che non digerisce l’aglio,
che di fronte al sangue si sente mancare. Il sangue di chiunque, le arance della Sicilia
o del Medio Oriente, l’aglio della suocera o del ristorante francese: la mia abitudine mi
aspetta nel luogo nuovo come un parente che riconoscerà i miei lineamenti, azzerando
qualunque timore. E, come nei pranzi coi parenti, garantendomi una tranquillità un po’
annoiata ma sicura: alla domenica si mangia così, fra fratelli si parla così, lo zio ama
ripetere il suo esempio preferito, lo sai bene.
Ci avviamo al lavoro certi che ogni novità sarà disinnescata, ricondotta nel quadro
noto, non ci succederà nulla. Il respiro è pacato, la circolazione scorre con il suo
andamento che conosciamo, siamo come il protagonista di “turista per caso” che sa
dove trovare anche in Francia un hamburger con poca cipolla e la salsa ketchup.

E nel volgere di un tempo breve, il gioco si riavvia, uno stimolo esterno, un pensiero,
una sensazione, un suono o un ricordo associativo ed ecco che nuovamente abbiamo
bisogno di riposizionarci, di far fronte al momento successivo: forse conserveremo la
persona protagonista del tempo precedente ma dovremo renderla nuova ancora.
Forse se ne affiancherà un’altra, forse la persona di prima le cederà il passo o ne
uscirà un’inserzione fra le due, forse entreranno in gruppo più di una a possedere la
scena di quel momento. Forse. Saranno mille e più le componenti che ci
indirizzeranno, ogni volta in un risultato che ci assomiglia ma che pure ci regala
informazioni maggiori. Su di noi, su ciò che pensiamo, che proviamo, che siamo capaci
di fare, su ciò che vogliamo. Per questo ci vuole una vita intera per vivere la vita, per
questo fino alla morte la chiesa cattolica non proclama santi né i giornalisti pubblicano
i necrologi. Si dice: ma lo conosciamo, ha scritto, ha detto, ha fatto, si sa bene chi è.
Non fino a che il gioco non si è definitivamente arrestato, solo allora sapremo chi era.
Chi eravamo. Ogni giorno ci raccogliamo nel letto secondo consuetudini certe e
rassicuranti, ogni giorno possiamo dirci che ci riconosciamo, ogni giorno nelle lenzuola
scivola una persona un po’ diversa. Che domattina berrà il suo succo d’arancia, anzi,
no, la spremuta che ha più vitamine.

Cercando la convenienza

Quello che sto cercando di dire è che in sé non esiste una gerarchia stabile su cui
collocare le nostre diverse persone, che in ogni istante c’è una nostra persona che può
risultare più adeguata di altre, che sono competenze e risorse nostre. E che, dunque,
più ce ne sono, maggiormente si amplia il ventaglio delle opzioni, più ricco e articolato
si fa il formarsi dei pensieri, più largo il quadro delle emozioni, più interessante lo
scambio. Fra le stesse nostre persone, con gli altri, con i nostri habitat, con l’incognito
e nella frequentazione del noto. L’importante è non lasciar cadere la palla, arrestarsi
stabilmente in una posizione, in un nodo, come immaginare una rete ferma, definita,
ordinata, non è pensabile, nei termini più letterali: arrestare il movimento significa
arrestare il pensiero, lo stesso pensare viene sospeso, in una bolla fuori dal tempo.
Senza movimento, in un tempo che non scorre, l’attività del pensare è impraticabile,
l’angosciosa permanenza dell’attimo immobile. Questa è la patologia, il tentativo
disperato di fermare il percorrere, irrigidire la rete, imprigionare la mobilità del
pensiero. Con l’intensa sofferenza di un movimento che, incarcerato, grida il terrore di

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sentirsi condannato a morire, senza uscita in una morsa che lo soffoca. Il pensiero
bloccato cozza in un infinito reiterarsi, l’attimo che segue ferocemente simile a quello
presente, fino a rasentare una straziante, terribile identità. Non è questo poi un modo
di rappresentarci il sintomo? Non è questo che ci strazia, noi terapeuti, quando
incontriamo il cosiddetto paziente? La monotonia della voce, la replica incessante del
comportamento, l’eco del passato sigillato in sé che ripete la volontà di costringere il
presente e financo il futuro: non è questo insieme che il famoso hic et nunc tenta di
contrastare? Spezzando la bolla che è stata costruita per proteggere ed ha finito per
mangiare l’aria, ricaricando un pendolo sia pur nel cigolio doloroso del movimento che
ha dimenticato come si fa.

Vittorio Foa dice che la libertà è non sapere che cosa succederà domani, Massimo
Cacciari che la libertà non esiste ma per un comportamento etico è bene fare come se
esistesse, una scelta voluta non è sempre una scelta libera, parole in libertà, libertà
dai vincoli, libertà di fare… ecco, basta una parola perché si affollino tante persone,
ognuna con il suo proprio convincimento, pensato, testato, indiscutibile. È allora che si
pone il problema: e come opero la scelta? Quali sono i criteri? Quali persone ascolto,
quali convoco, per quanto tempo, a quali chiedo di attendere in stand by?
Ovviamente i criteri appartengono a più livelli, i valori cui facciamo riferimento, i
confini che stabiliamo per circoscrivere l’evento su cui operare la scelta, la simpatia
per certi nostri personaggi, l’abitudine a interagire con altri, magari meno simpatici
ma così tanto abituali, l’eco dell’evento appena passato, una percezione esterna che
incatena un pensiero a un’emozione… ma anche lo sguardo verso il risultato, il criterio
della convenienza, della gamma di opzioni che vengono assicurate. E la ricaduta
ecologica: diceva il grande Bateson, un’auto che funziona non è solamente un’auto
che cammina, è un’auto che non inquina. Ecco, allora, che diventano segnali essenziali
quelli dei personaggi che obiettano, nicchiano, cercano di ritardare o di annacquare il
processo stesso: hanno indicazioni da dare, magari datate, magari non
immediatamente utilizzabili ma comunque indispensabili per formare una scelta piena
e potersi, poi, spudoratamente affiancare a chi guiderà il passo. In altri capitoli
potremo scorrere assieme alcuni di questi passaggi attuati concretamente. Come
cambiare spostandosi, per avere di più e meglio. Il nostro diritto a percorrere la rete è
garantito dalla certezza che non potremo mai conoscerla tutta, come accade per
l'universo. Da questa certezza origina il nostro diritto a porre arbitrariamente dei limiti
all'universo/rete che intendiamo considerare. Dei limiti posti e di ogni evento (nodo)
che andiamo verificando e utilizzando in questo ambito siamo responsabili. Perché la
libertà si fonda sui vincoli, è poggiando su di essi che possiamo scegliere, occorrono
viottoli per operare una scelta, la radura sterminata rende esitante il passo. (Anche un
intrico troppo denso, certamente, ma è per quello no?, che siamo in due a scostare il
fogliame). E, ancora, la libertà si fonda sul rischio dell'intervento. Non so se Vittorio
Foa intendesse questo, ma io l’ho capito così e così l’ho fatto mio. Il rischio di vivere è
la massima libertà cui non possiamo permetterci di rinunciare. Neanche quando
indossiamo le vesti di terapeuti.

Trasmigrare fra i nodi

I nodi della rete, li immagino come addensamenti di maggiore stabilità in una


fluttuazione costante, capaci di attirare energie e passioni e in questo modo
consolidarsi. Sono parole, eventi, persone, follie, emozioni. E se in ogni nodo vige un
sistema di pensiero totalmente esaustivo (ideologia), è esattamente il pensiero
assoluto di ogni nodo, il suo assoluto aver ragione che permette al navigatore di
tracciare un pensiero relativo, democratico perché sceglie assumendosi il rischio e

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ansiosamente, poi, ne scruta le conseguenze. In ogni momento, si fa il punto, un
gesto etico che connette per dare un significato, un senso all’operare, definendo
arbitrariamente i contorni, collegandoli in un progetto.

Attraverso la trasmigrazione del navigatore, i nodi discorrono fra di loro, allacciano


somiglianze, stringono rapporti: la famosa persona piccolina può trovare conforto e
protezione più con una figura, si avvicinano e danno vita a un rapporto che può
stringersi fino a formare un nodo nuovo. È uno dei modi in cui, ad esempio, si può
descrivere la cosiddetta fobia: un apprendimento istantaneo, un violento coup de
foudre che stringe inestricabilmente una percezione a un comportamento. Ecco che,
allora, un ascensore diventa una trappola mortale, la vista del sangue provoca uno
svenimento. Leggendolo come un addensarsi della rete che ha fuso due o più nodi,
evitiamo qualunque indagine moralistica o giudiziaria, possiamo laicamente
interrogare i personaggi in gioco, chiedere di raccontare la loro storia, testarne i
confini che hanno creato dolore, far intervenire altre persone che apportino idee
nuove, immagini che permettano di evadere da questa connessione soffocante,
restituire autonomia e rango a ciascuno. E liberare energie emotive e intelligenze che
tornano nuovamente a disposizione di tutti. Perché come si forma una fobia, può
formarsi un’amicizia eterna, un amore appassionato. Il procedimento della fobia
diventa uno strumento utilizzabile, una competenza che amplia le scelte di un domani.
Talvolta le complessifica, talaltra le complica.

Un maghrebino al semaforo

Sulla strada verso il mio studio, a un semaforo, staziona un maghrebino. Come tanti,
come troppi, basa la sua povera sopravvivenza scambiando una improbabile pulitura
di vetri con quattro soldi. Il problema delle elemosine che si vestono da mestiere, è un
rompicapo da cui non riesco a uscire, e che mi si ripropone intatto a ogni offerta di
accendini, di fazzoletti di carta o, appunto, a due semafori su tre. Non mi piace farmi
servire, anche al supermercato mi imbarazza che mi si aiuti a scaricare il carrello
come se avessi dei servitori ma non è peggio rifiutarsi di tenere quel fragile inganno
che trasforma un’elemosina in una mercede dovuta per un servizio?

Comunque, passo e ripasso ogni giorno, gli sorrido, mi sorride, talvolta mi dà una
passata al vetro, poi, gradualmente, si avvia l’abitudine di dargli un euro anche se
sono in bicicletta, così, come buongiorno, minuscola solidarietà fra due esseri umani.
Una stagione dietro l’altra, mi chiede se posso procurargli una coperta, ha freddo. Il
giorno dopo gliela porto e tutto sommato gli sono grata di poter fare qualcosa, lui mi
sorride, la sciarpa intorno al volto, i denti qua e là mancanti: apro la portiera, la
coperta passa di mano, accelero e vado. Un’altra volta, me ne chiede ancora, sono in
tanti in un centro disastrato di raccolta. Prendo in mano dall’armadio una mantella
pesante cui sono molto affezionata, mia figlia mi ferma: mamma, sei sicura di
volertene privare? Per lui non ha lo stesso valore, perché questa? Già, perché? Per
fare più significativo un gesto? Ancora una volta mi sono dimenticata di pensare con il
pensiero di lui, l’ho assimilato a me in un insopportabile paternalismo. Rimetto a posto
la mantella, prendo una coperta, mentre vado da lui incontro degli altri
extracomunitari: hanno freddo anche loro, perché a lui una di più e non a loro? Non lo
so, si fa tutto complicato, gli do la coperta e il buon Natale ma sono incerta.

Ancora un giorno dopo l’altro, una volta lui mi sbarra la strada mentre sono in
bicicletta, un po’ per scherzo un po’ anche leggo nel suo gesto una violenza appena
accennata: d’improvviso mi ritrovo non signora milanese che ha il suo maghrebino da

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proteggere (orribile vero?) ma donna scoperta di fronte a un maschio che mi
fronteggia. Faccio finta di nulla ma evito che succeda ancora, accosto sull'altro lato al
semaforo ma ancora l’euro passa regolarmente di mano, lo preparo apposta prima di
uscire. E poi, un giorno, ho il vetro schizzato e il sole ci batte sopra e mi abbaglia. Al
semaforo, gli chiedo per favore di dargli una pulita ma lui si rivolge a un’altra auto
dietro di me, lava il vetro e prende il denaro, intanto torna il verde e ci muoviamo
tutti. Dopo un primo moto di rabbia, mi dico che ha perfettamente ragione: se prende
l’euro da me senza dover pulire il vetro, perché mai dovrebbe rinunciare a prendere
del denaro anche da altri? Forse mi sono creduta di avere acquistato uno schiavo?
Forse la mia solidarietà così ingenuamente cordiale all’inizio si è trasformata nel
tempo in uno strano contratto di asservimento? Ma se sono stata io a redigerlo? E
allora? Allora non lo so, so solo che la situazione mi è sfuggita di mano, che devo aver
fatto un pasticcio, che ho perso la partita. Che ho cambiato strada per andare in
studio ma ho conservato ben presente tutta la storia e mille volte l’ho usata come
cartina di tornasole in terapia, in privato, ogni volta che mi sembrava che la mia
attenzione, il mio voler bene stessero per trasformarsi in una trappola per l’altro e per
me. Ma il gusto è amaro, uso ancora la storia ma credo proprio di non averla ancora
consumata.

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Vincoli

In questo trasmigrare del navigatore, in questo discorrere dei nodi che mi piace
immaginare per descrivere il nostro pensare, esistono dei vincoli. Penso, appunto, che
i vincoli fondino la libertà della persona umana, ne rendano possibile l’esercizio. Il
vincolo, il limite, le regole del gioco rappresentano per me l’elemento di maggior
fascino, la struttura aerea su cui inerpicarsi, poggiare il piede, scegliere la direzione.
Io i vincoli li amo, fra suggerimenti, provocazioni, possibilità e sfida, li immagino come
compagni severi ma anche un po’ ridanciani, complici attenti che seguono l’andamento
del passo, presenze competenti su cui far conto. Anche per superarli con qualche
forzatura inventando con loro un assetto inedito che marchi un tempo ancora tutto da
vivere. Comincio a identificarne qualcuno, ovviamente sarà solo un assaggio di questo
mondo complesso che, se conosciuto e rispettato, ne facilita la frequentazione. Così
che la complessità non divenga complicazione. Cerco di spiegarmi affinché questa
distinzione non risulti solo un gioco di parole.

Per poter prendere qualunque decisione occorre aver raccolto una quantità di
informazioni sufficiente a permettere la presa stessa della decisione: questa è la
complessità. Se voglio andare al cinema, devo sapere quali film sono in
programmazione e dove li proiettano, ma devo anche conoscere i miei criteri di scelta:
il genere, il regista, gli attori, il battage che se ne è fatto, l’orario che mi risulta più
agevole. Devo sapere se voglio andarci da sola o con qualcuno (e con chi), devo
sapere se invitare qualcuno a vedere con me un film che voglio vedere o se voglio
scegliere un film che permetta di andarci assieme. Conoscere i miei criteri, (i miei
desideri?), mi permette di modulare la scelta in termini soddisfacenti. È quello che
viene chiamata la “tecnica dell’uso delle obiezioni”, percorrendole tutte posso decidere
al meglio. Per me, in quel momento, su quel tema. Ad esempio, so di un film per me
interessante, lo propongo a un’amica. Lei mi dice che l’ha già visto: si apre la
valutazione se è per me più importante uscire con l’amica e dunque modificare la
scelta iniziale o privilegiare la pellicola desiderata, rimandare a un’altra occasione etc.
etc. Del tipo: “vuoi venire con me stasera a vedere xxy?” “mah, guarda, stasera sono
un po’ stanca, non vorrei fare tardi” “possiamo andare allo spettacolo delle 20” “sì, ma
poi non è che mi entusiasmi tanto quel regista”. A questo punto, le obiezioni
dell’amica identificano un reticolo di vincoli; volete testarli? “ma insomma, in realtà
non hai voglia di uscire” (lettura del pensiero, interpretazione), oppure “tutte le volte
che ti propongo qualcosa non ti va mai bene” (versione Calimero, querimonia
colpevolizzante), oppure “vuoi che invece ci mangiamo qualcosa assieme?”
(l’importante è stare con te), oppure “sì, hai ragione sul regista ma mi dicono che la
fotografia è magnifica” (fammi capire se il no è veramente sul film). I turni verbali si
susseguono, a ogni bivio si apre la scelta del nodo da intersecare (relazionale, di
contenuto) e del livello (più comprensivo, più in dettaglio, trasversale, orizzontale),
quello che otteniamo è quello che abbiamo costruito assieme all’altro ed è
fondamentale che ci assomigli e che ci soddisfi. Se non sappiamo che cosa vogliamo
ottenere come potremmo accorgerci di averlo magari ottenuto? Per definire l’ambito
della complessità sufficiente, il veicolo principe è il desiderio, il progetto, la vision.

Complicato, invece, è tutto ciò che inceppa il percorso, il granello nel meccanismo. Le
considerazioni, i pensieri, le notizie che in quel momento non sono funzionali alla
presa di decisione. Evidentemente, come si diceva, sono un’infinità le cose vere ma il
fatto che una cosa sia vera non la rende di per sé automaticamente importante e
significativa. Siamo noi a dotarla di significato, se l’amica cui telefoniamo è
abitualmente una che si nega, allora a quale scopo le telefoniamo? Per avere la

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conferma che anche stavolta andrà così? Per poter gustare l’ulteriore rifiuto e
crogiolarci? Per avere la scusa di restare a casa davanti al televisore? L’informazione
del suo abituale sottrarsi è un vincolo importante che orienta il percorso: vogliamo
veramente che stavolta dica di sì? Dovremo impostare sequenze inedite che
sorprendano lei e noi, secondo l’aureo principio che se facciamo ciò che abbiamo
sempre fatto, otterremo ciò che abbiamo sempre ottenuto. Complesso è chiedersi
quali sono le informazioni necessarie e sufficienti, complicato è rendere
pregiudizialmente insolubile qualunque presa di decisione, ritrovarsi scontenti a casa o
scontenti al cinema, avendo desiderato dell’altro e avendo perseguito l’opposto. La
stucchevole affermazione “il problema è più complesso” in genere non è seguita dalla
raccolta dei dati sufficienti a onorare la dichiarata complessità ma piuttosto a
insabbiare un percorso progettuale, a dilazionare l’azione. Sottintendendo che un
problema risolubile è una banalità, non degna della nostra preziosa attenzione quando
veramente interessante, invece, è, a mio giudizio, una formulazione così precisa del
problema che ne permetta la soluzione. Questo aspetto è uno degli ostacoli più
drammatici della clinica, la sofferenza sconcertata del vedere una soluzione. È quello
cui mi riferisco con “il lutto del sintomo” ma ne parleremo meglio più in là, ora
torniamo ai vincoli.

Bipolarismo

Uno dei vincoli più evidenti, più cogenti, è proprio quello del bipolarismo, della
struttura binaria. Quella che, asserendo che il mondo non è tutto bianco o tutto nero,
privilegia, nel suo stesso negarlo, la predominanza ovvia del bianco e del nero.
Superiori a qualunque altro colore proprio per la loro assolutezza, per il loro
comprenderli o escluderli tutti, i colori. A noi piacciono i colori, ne amiamo qualcuno, ci
teniamo distanti da altri ma nessun colore ha il rango del bianco e del nero, nessuno
ha questa definitività appagante, risolutoria. Entriamo fra i contrafforti del bianco e del
nero, dispieghiamo l’iride intera e poi, dopo un percorso che richiede il suo tempo,
scegliamo, fissiamo un colore, una nuance, un tono su tutti gli altri. E il bipolarismo si
ripropone, contrapponendo, ora, la tinta scelta a tutte le altre. Del bianco e del nero
non ci occupiamo più.

Sono tanti i bipolarismi che scandiscono il nostro andare del pensiero. Di tempo, il
sempre/ mai che ci sussurrano un soffio inquietante di freddo, di giudizio, quel buono/
cattivo che si impiglia di ricordi, attenuanti, giustificazioni, il glorioso maschile/
femminile che ha innervato volumi, culture e momenti di grande politica quotidiana,
l’alto/ basso, il dentro/ fuori, il tutto/ niente, sono tanti, veramente. Stabilendo un
polo, se ne richiama l’opposto andando così a definire una gamma infinita di punti
intermedi. Quelli, sì, sono alla nostra portata, quelli sì che possono essere oggetto
della nostra scelta. Ci muoviamo all’interno dello spazio presieduto dalla polarità,
spazio fruibile, gestibile, diverso dalla sacrale colossalità dei poli che, pure, si riflette
in ogni nostro gesto, in un gioco di specchi sempre più minuto che farebbe la felicità di
Enscher. Eppure, ogni giorno ci sentiamo ripetere con sufficienza da chi ci deve
insegnare a pensare (direbbe Jannacci: quelli che ti spiegano le tue idee senza fartele
capire), ogni giorno ci dicono che il mondo non è tutto bianco o tutto nero ma poi,
contemporaneamente, veniamo bacchettati se non prendiamo delle posizioni chiare,
se avanziamo dei distinguo, se cerchiamo, come si diceva, di allargare il ventaglio. Ed
è come se queste due modalità fossero tutte e due indispensabili, come se ci
dibattessimo nella scelta, convinti di ciascuna e desiderosi dell’altra. Confronti
improbabili ma a cui sembra non sia possibile sottrarsi, una dimensione binaria che
dispiega un tessuto fra i due poli, una sostanziale continuità in cui occorre stabilire un

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confine, come per gli Stati. Come per l’ora della nascita e della morte. Attratti dalla
apparente chiarezza bipolare (“O di qua o di là”, s’intitolava una trasmissione
televisiva, peraltro pessima), quella in cui ci sembra venga ospitata e custodita la
coerenza e il coraggio (ma tu, da che parte stai?), non possiamo che riscontrare la
reale unità del tutto che oggi riacquista anche un particolare valore simbolico e
riferimento culturale, spaziando dalla globalizzazione all’OM che celebra l’essere
indiviso di ogni realtà cosmica:

Quello è Totalità, questo è Totalità.


Da quella Totalità è venuta questa Totalità.
Togli questa Totalità da quella Totalità
Ciò che resta è la Totalità.
OM pace, pace, pace.

(inizio della prima Upanishad, da “Un altro giro di giostra”, Tiziano Terzani, Longanesi
& Co, Milano 2004)

Proviamo, ad esempio, a prendere in considerazione il binomio analogico/ digitale, uno


degli schemi con cui tentiamo di leggere il mondo e in particolare il comportamento
umano, la comunicazione. Allora, in prima battuta, sembra semplice: analogico è il
comportamento non verbale, digitale il dire. Ma già al secondo passaggio, il gioco si
ripete: stiamo studiando un movimento, un gesto del braccio che si leva. Il braccio
rispetto al resto del corpo si stacca, come elemento digitale. Se poi lo guardiamo più
da vicino, c’è quel movimento della mano che spicca sul braccio intero e poi, ancora
più da vicino, le due dita raccolte si stagliano nette. Come un grido. E raccogliamo
quella informazione. Ma le due dita divengono significative perché è attraverso questo
percorso che le abbiamo elicitate.

Accade lo stesso nell’analisi del parlato: la frase significativa che ci dà senso si stacca
dal contesto analogico del discorso, ma nella frase c’è quella parola che come un
uncino aggancia e trascina la frase intera, un gesto determinante. E poi, potremmo
chiederci, quella frase, quella parola, la commentiamo come fosse una chiosa del
discorso, come fosse una nota a margine o a piè di pagina, come fosse un
ampliamento, un’associazione, un accostamento cognitivo di che tipo? In ogni nostro
incedere stabiliamo dei poli, definiamo lo spazio intermedio, operiamo una scelta e,
subito, ritroviamo la polarità, lo spazio, la scelta. Uno scambio veloce di figura/ sfondo
in cui ci addentriamo sempre più immersi nello spazio, sempre più richiamando la
polarità. Fino a che concludiamo, fermiamo il tempo dell’indagine e i poli ristanno
quieti scandendo un tranquillo prima e dopo.

I piedi nel piatto

È solo dopo l’inquadramento bipolare, dopo aver cercato ed evocato l’altro polo che
possiamo avviare le cosiddette domande circolari, come ragionavamo con Gianfranco
Cecchin una sera d’estate di cui ho una gran nostalgia. Da Connessioni numero 10:

Maria Cristina: partiamo da quell'episodio accaduto a Oslo e che mi raccontavi?

Gianfranco: sì, un gruppo di inglesi che hanno portato come esempio un loro
intervento: erano stati inviati in una prigione dove c'erano cinque adolescenti che
avevano violentato una vecchietta e l'avevano uccisa. Li avevano messi in galera,
ovviamente, però non sapevano poi come intervenire con loro. Avevano 16, 17 anni,

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18 al massimo (...) non si poteva parlar con loro, perché proprio non avevano nessun
senso di colpa, niente, nessun pensiero di nessun tipo, giocavano tra di loro.
Sembravano ottusi, sembravano degli idioti totali. E se si andava là a minacciarli, non
serviva a niente. “Sono in galera? Non sono in galera? Chi se ne frega!”. E lo Stato si
domandava: cosa ne facciamo, li mettiamo in galera per 80 anni, li mandiamo al
capestro, cosa facciamo? Io l'ho chiesto a loro, per vedere se era possibile fare
qualche intervento di tipo sistemico. E’ stato interessante, perché loro li hanno
incontrati e hanno detto: "Noi siamo stati mandati qui dal giudice per parlare con voi
visto che voi non parlate con nessuno e non ve ne frega niente di niente". Sono
riusciti a parlare: insomma, un po’ obbligati, ma parlavano. Dopo un po’ hanno
chiesto: "Questa storia della vecchietta che avete ucciso, possiamo parlarne un
momento?". Ne è uscito un bel quadro, perché hanno detto: "Qual era la parola che
più andava d’accordo con questo evento? Potete inventare una parola?" E hanno
detto: "Excitement": "Eccitamento."

Maria Cristina: accidenti!

Gianfranco: e un'altra parola? Un'altra parola: "Solidarietà". Interessante, no?

Maria Cristina: già, perché era di gruppo.

Gianfranco: poi un'altra parola ancora: "Capo" del gruppo; un'altra: "Divertimento "
“Fun”. Un'altra era: "Suono", "Musica", e mi veniva in mente musica rock. E sono
uscite così un sacco di parole. E dopo si sono fermati e hanno cominciato ad
esaminare le parole tutte insieme. C'è qualcosa che le mette insieme, no? e sono
andati a cercare, usando le parole sparse, se ci fosse una specie di discorso, qual era,
quali erano le parole, i pensieri dominanti di questo gruppo. E allora viene fuori che
nel gruppo c'era un leader, e ciò che fa il leader lo devono fare tutti, e l'unico modo
per vivere è quello di essere insieme e fare qualcosa di exciting: e quindi la persona,
l'altro, non esiste. Non esisteva nessuna parola che facesse vedere che l'altro essere
umano esiste.

Maria Cristina: l'altro non c'era proprio!

Gianfranco: non c’era. E' interessante la possibilità di ricostruire quel pensiero


partendo dalle parole, senza nessun moralismo, senza neanche nessun gioco
sistemico, niente, solo parole. E poi alla fine, dopo un po’ hanno cominciato a dire:
”Ma sentite, mettiamo questa vecchietta che è morta, mettiamola qua dentro...”

Maria Cristina: dentro le parole…

Gianfranco: dentro le parole, certo: “A quale parola potrebbe associarsi questa


signora?”. Oppure, potremmo trovare il contrario di ogni parola? E allora gli operatori
hanno detto: "Excitement", e i ragazzi hanno risposto: “Excitement? Fear.” Paura.
“Solidarietà”. “Solidarietà? Solitudine, no?”

Maria Cristina: straordinario; loro stessi, i ragazzi, l'hanno fatto?

Gianfranco: sì. Ed era diventato un gioco. Poi: “Coraggio...Terrore”. Dopo: “Musica…


Silenzio. Excitement... Morte”. Affascinante, perché hanno cominciato attraverso
questo esercizio, diciamo così, a pensare a come poteva pensare la vecchietta. Così gli
operatori (...) esaminando e confrontando hanno visto che questo stesso meccanismo
è presente nelle guerre etniche: questi gruppi generano una totale inesistenza

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dell'altro, per cui l’altro lo puoi infilzare con un coltello e proprio non lo vedi. Cioè non
c'è un sentimento di nessun tipo e l'altro non c'è. Però una volta che questi operatori
hanno detto: “Prendiamo la vecchietta e mettiamola dentro questo quadro”, loro
hanno cominciato a vederla, no?
Maria Cristina: sono tornati intelligenti.

Gianfranco: hanno ricominciato a pensare, ma usando le parole e il contrario delle


parole; e ogni parola aveva il suo contrario ed era esattamente quello che poteva aver
sentito lei.

Maria Cristina: che quindi loro non sapevano di sapere, ma che invece hanno
scoperto...

Gianfranco: hanno scoperto di sapere perché, come dicevamo, ogni parola esiste solo
se c’è anche il suo…

Maria Cristina: contrario. E questo che stai dicendo, mi fa venire in mente quello che
pensavo sul fatto che il nostro pensiero è comunque vincolato a un andamento polare,
no?, polarizzato. Allora, noi conosciamo una cosa se siamo in grado di conoscere
anche il contrario; probabilmente i ragazzi nel momento in cui hanno potuto
cominciare a cercare le parole opposte, e dunque il punto di vista della vecchietta,
hanno avuto... possono aver creato una relazione fra le loro parole e le parole della
vecchietta. Mi domandavo se non è proprio una struttura del nostro pensiero quello
del muoversi per poli. Mi spiego: per esempio noi in sistemica diciamo che esiste la
dimensione analogica e quella digitale; ma io non penso che esistano, io penso siano
dei modi di vedere, cioè che per poter cogliere l'analogico dobbiamo poter parlare del
digitale, e viceversa. Esiste il dentro e il fuori, esiste il buono e il cattivo, esiste il
bianco e il nero, esiste il maschile e il femminile... Quello che loro, che questi
ricercatori o terapeuti hanno fatto con questo gruppo di ragazzi non è stato tanto il
fare delle domande circolari, cioè non hanno cercato di costruire un sistema ma hanno
raddoppiato, con delle domande bipolari, il mondo dei ragazzi. Allora mi domandavo
se anche in terapia la polarizzazione è uno dei vincoli fondamentali del nostro
pensiero; questo non significa che c'è nella realtà, significa che questo è uno degli
schemi fondamentali con cui noi conosciamo. Per questo può essere utile porre
domande che polarizzino, affinché si cerchino risposte.

Gianfranco: quindi si può dire che una domanda circolare è un po’ a sé, cioè è uno
strumento potente, ma non è sufficiente perché c'è la domanda bipolare che...sarebbe
una buona invenzione, no? La domanda bipolare implica che non esiste nessuna realtà
che non integri anche il suo opposto. Quindi se c'è la guerra (...)

Maria Cristina: non può che esserci anche la pace.

Gianfranco: non può che esserci anche la pace, ed è quello che gli operatori, diciamo,
gli intervistatori, o i diplomatici ecc., vanno a cercare in ogni struttura...

Maria Cristina: l'altro.

Gianfranco: l'altro, il contrario di quello che... Appena hai creato il potere esiste il non
potere.

Maria Cristina: sì, nella stessa persona e nella stessa situazione e nello stesso
sistema.

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Gianfranco: nello stesso sistema.

Maria Cristina: certo, e il fatto che esistano un polo e l'altro, non vuol dire che siano...
che l’uno appartenga a un pezzo del sistema o a un membro del sistema, e l’altro ad
un altro pezzo del sistema; ma vuol dire che a ciascuno appartengono entrambi i poli.

Gianfranco: tutti e due i poli, sì. Ed è stata quella la scoperta degli operatori: se gli
chiedi di portare a galla, bring off, tirare fuori, l'altro aspetto...

Maria Cristina: l'altro aspetto...sì, anche perché nel momento in cui tu stabilisci l'altro
polo apri in mezzo un'infinità di punti intermedi, e quindi, come dire, reinventi la
mobilità. Allora, anche se noi sosteniamo che etica non vuol dire avere dei buoni
sentimenti, possiamo dire, però, che c'è dentro di noi, sicuramente, un punto che
dice: non si devono violentare le vecchiette. E questo è giusto. Poi devono esserci,
però, anche altri punti, anche il punto opposto, quello in cui questi ragazzini di 16-17
anni hanno trovato invece il giusto nel violentare la vecchietta. Cioè: se noi non
riusciamo a immaginare che ci deve essere un punto guardando dal quale loro hanno
avuto ragione, non possiamo nemmeno portarli a domandarsi qual era il punto di vista
della vecchietta.

Gianfranco: questo è un discorso circolare, perfetto.

Maria Cristina: allora, io credo che è nel momento in cui accetti lo strumento della
bipolarità, che poi la circolarità serve a mettere in circolo, appunto, in asse, in
connessione dei punti. Ma nessuno dei poli iniziali può essere messo in connessione da
solo.

Gianfranco: no, certo. Adesso mi viene anche il sospetto che se noi cerchiamo di
azzerare tutto il gioco, se sosteniamo che i poli devono assomigliarsi, che tutto deve
essere neutrale, in questo modo uccidiamo l'esistenza. (...)

Maria Cristina: come mi raccontavi della baby sitter del tuo nipotino…

Gianfranco: sì, guarda dei bambini neonati; però lei sceglie solo bambini di meno di 8
mesi, e li tiene non più di 3 anni, fino a 3 anni: le piacciono i bambini così.

Maria Cristina: mette delle regole molto precise.

Gianfranco: e ne prende 6 o 7 al massimo, e poi paga di tasca propria delle persone


che per lei intervistano i genitori del bambino no?, e vogliono vedere se va bene per
lei.

Maria Cristina: beh è molto interessante come fa questa donna. Stavo pensando,
come sia assolutamente arbitrario decidere chi sceglie chi. Intendo dire che la migliore
baby-sitter probabilmente è quella che ti seleziona, non che accetta chiunque.

Gianfranco: ah, sì, esatto.

Maria Cristina: allora mi domando anche se il tanto discorrere buonista di


sentimentale comprensione, di apertura verso chiunque, da parte del così detto
terapeuta (se uno ha un cuore grande, salva tutti), non sia un modo poi di non...come
dire...di non farsi scegliere, di non sottostare a una sorta di screening, ma anche a
una sorta di contratto.

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Gianfranco: praticamente torniamo all'idea di prima: c'è stata una grande abbuffata, il
tentativo di eliminare le polarizzazioni, no?. Perché le polarizzazioni sembravano
preparare solo guerre, violenza, abuso, ecc. ecc., no?. E quindi c'è stata questa
grande illusione di poter annullare la polarizzazione: i terapeuti devono amare tutti i
pazienti che vedono.

Maria Cristina: tutti.

Gianfranco: e, allo stesso modo, le madri devono amare tutti i bambini che nascono,
le baby-sitter devono essere tutte innamorate di tutti i bambini che vengono loro
proposti…

Maria Cristina: sì, il conflitto è peccato, il conflitto è morte.(...)

Gianfranco: la realtà è quella di continuare a creare continuamente polarizzazioni che


avvengono e si estinguono, si creano e vengono distrutte. E’ sulla realtà della
polarizzazione che va avanti il mondo.

Maria Cristina: è come per la corrente elettrica, come per lo yin e lo yang, certo. Ma
quello che a me spaventa molto, e di cui io credo in parte la terapia sistemica è stata
anche corresponsabile, coautrice insomma, è questa idea del dover mettere l'armonia
in famiglia: ogni terapeuta familiare sogna segretamente di ricongiungere quest'uomo
e questa donna che stanno litigando furiosamente. Cioè non ho mai incontrato un
terapeuta familiare che fosse effettivamente alleato del litigio e curioso della finezza,
per esempio di come viene alimentato del litigio. E' molto difficile litigare bene.

Gianfranco: farlo con arte e con raffinatezza.

Maria Cristina: è considerato casomai, con una brutta parola, ‘strategico’, ma è una
cosa che non va bene; nel suo cuore il terapeuta sa che si deve amare l'armonia.

Gianfranco: molto probabilmente, se seguiamo la fantasia dei bambini che vediamo, i


bambini hanno sempre questa fantasia molto forte, no?, che vogliono la famiglia
normale, dove c'è il papà, la mamma, che stanno insieme, sono contenti di stare
insieme… per i bambini dà più sicurezza dal punto di vista di sopravvivenza e
fisiologico. (...) Non è possibile che i terapeuti siano un po’ una massa di grandi
bambini che hanno questa fantasia?

Maria Cristina: ma la sopravvivenza dei bambini deve essere garantita fino a una certa
età. Non è detto che un bambino un po’ più grande abbia la sua sopravvivenza a
rischio se il padre e la madre si separano, ma sembra che il terapeuta quando vede
una famiglia debba profondere tutte le sue forze e le sue abilità per rimetterli insieme.
(...) ma tu non pensi che in questo senso, per esempio, ci sia una scarsissima alleanza
con gli adulti delle famiglie, cioè non pensi che abitualmente coloro che si occupano di
famiglie (i terapeuti, ma anche gli assistenti sociali, anche i giudici minorili) sono
sempre e comunque a difesa dei bambini? Ma, in qualche modo, difendere i bambini
senza difendere prima i genitori, che sono quelli che ne devono garantire la
sopravvivenza, è un gioco folle, perché non si possono difendere i bambini senza
difendere i loro genitori.

Gianfranco: e perché allora non accettiamo che questa è un'idea culturale diffusa in
occidente, perché i bambini sono scarsi, sono pochi, ci sono troppi vecchi, per cui i
bambini sono sacri …

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Maria Cristina: sono l’investimento del futuro, come dicevamo.

Gianfranco: esattamente, per cui c'è tutta una struttura sociale, una cultura, no?, per
cui il bambino viene difeso a oltranza sia dai servizi sociali che dai terapeuti. Nei Paesi
del Nord Europa, se un genitore si comporta male con un bambino, il bambino viene
subito preso e portato via, dato in adozione o in affidamento.

Maria Cristina: perché la cultura collettiva, io credo anche, difende i bambini, ma


ciecamente: ciecamente perché, appunto, secondo me un bambino non può essere
difeso se prima non difendi i suoi genitori, no?. In questo modo, difendendo
ciecamente i bambini, gli adulti vengono progressivamente privati di sostegno, e
quindi di difesa. E quindi io credo che noi assistiamo a un popolo che è sempre più
giovanile, nel senso che trova sempre meno utile l'idea di essere adulto. È per questo,
io credo, che anche noi stiamo incrementando in qualche modo la pedofilia: perché da
qualche parte, con qualcuno più debole te la devi pure prendere. Cioè, nessuno
difende gli adulti, nessuno dice: adulto è bello. Non è più una cultura abituale in cui
uno cresce perché il bello è diventare grandi, no?. Il bello è...

Gianfranco: essere giovani, belli, affascinanti...

Maria Cristina: essere giovani... Allora, se è così, necessariamente quanto più difendi i
bambini, va a finire che li difendi contro gli adulti. E nel momento in cui li difendi
contro gli adulti, li rendi doppiamente orfani, perché li privi dei loro genitori.

Gianfranco: ecco, però noi adesso dovremmo seguire il discorso della polarizzazione:
una volta creata la polarizzazione adulto - bambino, no?, noi senza saperlo siamo
caduti nella contrapposizione, nella guerra, tra questi due poli.

Maria Cristina: esattamente.

Gianfranco: invece, il terapeuta deve sapere che la polarizzazione è assolutamente


inevitabile; però il lavoro dei terapeuti è quello di far sì che la polarizzazione abbia un
effetto creativo e non distruttivo.

Maria Cristina: e quindi deve reggere la polarizzazione, però non la deve negare.

Gianfranco: perché la polarizzazione potrebbe arrivare alla guerra totale, no?, alla
distruzione. Come si può mantenere viva la polarizzazione senza uccidere il sistema?
E' questa l'idea finale, diciamo, di questo concetto.

Maria Cristina: certamente. Io penso, per esempio, che se, in una situazione di
polarizzazione, il terapeuta appoggia il polo che è già in sintonia con l'assetto sociale
(e qui ne faccio un'altra, di polarizzazione, cioè il privato della famiglia versus il
contesto sociale) se, dicevo, il terapeuta appoggia il polo ‘socialmente corretto’, allora
squilibra di troppo la situazione, e quindi rischia di alimentare la capacità di guerra.
Questo non vuol dire, a mio giudizio, che, se il contesto sociale dice che non va bene
violentare i bambini, il terapeuta deve appoggiare l'idea che è bene. Non sto dicendo
questo: sto dicendo però che il terapeuta deve poter mostrare che nella violenza sui
bambini ci sono anche degli elementi, dei comportamenti, dei valori, che in qualche
modo costituiscono il genitore come tale, e che si esprimono anche nel suo violentare
il bambino.

Gianfranco: qui c'è un'idea difficile da vendere, diciamolo.

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Maria Cristina: mi spiego: normalmente tutti i bambini negano che siano stati i
genitori a picchiarli, tutti quanti i bambini negano che a stuprarli siano stati i nonni o i
fratelli, no?...Nel momento in cui l'adulto terapeuta, si prefigge invece di svergognare
quel familiare che i bambini stanno cercando di proteggere, va contro i bambini.
Vorrei essere chiara, non sto dicendo che mi sta bene che i bambini siano stuprati.
Diamolo per buono. Io sto dicendo che nel momento in cui il bambino subisce
violenza, in qualche modo, inevitabilmente, come accade per le donne maltrattate,
partecipa a quest'atto di violenza; sia pure astraendosene in qualche modo; ed è lì la
follia, perché ci sta, e non ci può stare. E' la persona che dovrebbe garantirgli la
sopravvivenza ed è quello che gli fa la maggiore violenza, no? il tutto condito da un
fortissimo rapporto. Ci siamo posti per tanti anni e decenni il problema del controllo
sociale, tra terapie, controllo sociale, ecc. Ma in questo modo di porsi il problema, non
ci siamo mai posti fortemente a fianco, sia pure a tempo, di colui che invece veniva
accusato. Allora, se un bambino…

Gianfranco: come quei cinque stupratori della vecchietta.

Maria Cristina: bravo, esattamente questo. Allora, nel momento in cui i ricercatori
sono andati a parlare coi ragazzi, non gli hanno detto: “Rendetevi conto di quel che
avete fatto”. Sono partiti dal presupposto che loro non sapessero cosa avevano fatto.
Questo sospendeva ogni giudizio, era una constatazione di fatto. Non sono entrati nel
merito del perché non lo sapevano; non hanno detto “I giovani d’oggi che non hanno
valori, che hanno un vuoto spirituale…”. Loro hanno detto: “Questi ragazzi non hanno,
sull'omicidio di questa donna, la stessa percezione di realtà che ne ha il contesto
sociale circostante”, no?. Ma non sono partiti dal contesto sociale circostante, sono
andati da loro e gli hanno detto: “Tu quando hai ammazzato la vecchietta, cos'è che
hai provato di bello?”. Perché se no i ragazzi non avrebbero mai potuto rispondere:
“Exciting, Divertente, Fare gruppo”. Sono parole positive queste, è importante. E da
questo, da questa posizione i ragazzi hanno poi potuto andare a cercare la versione
polare che era quella della donna anziana.

Gianfranco: perché... dalla versione polare poi viene naturale...

Maria Cristina: viene assolutamente naturale. Cioè quando tu hai consumato la tua
posizione, vai dall'altra parte.

Gianfranco: quando hai trovato la tua connotazione positiva, cioè quando la tua
posizione viene accettata.

Maria Cristina: io sono assolutamente convinta, Gianfranco, che le persone possono


cambiare, nel senso di spostarsi, cambiare idea anche, solamente quando hanno
avuto ragione, da vincenti. Cioè nessuno cambia se non da vincente. Obiezione: “Ma
questo significa che tu puoi permettere a un padre stupratore di muoversi
diversamente solamente dopo avere dato un significato al suo aver stuprato i figli?”.
Io ti rispondo: “In qualche modo sì”. Io credo che sia una responsabilità etica del
terapeuta quella di spostarsi nella posizione polare per vedere come si vede il mondo
dall'altra parte, e credo anche che il miglior modo per difendere i bambini sia quello di
difendere e custodire i loro genitori, ricostituire i loro genitori nella loro dignità di
adulti e in questo senso restituire dei genitori integri ai bambini. Una volta che uno si
sposta nella posizione polare, poi ha tutte le infinite intermediazioni che vanno tra un
polo e l'altro, che in qualche modo condivide un polo con l'altro. Per esempio il fatto
che un bambino può aver pensato che, tutto sommato, era il privilegiato del padre se
il padre faceva con lui questo. Che soffriva ma provava piacere, che dava volentieri

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qualcosa al padre, che aveva paura ma poteva diventare coraggioso. E non sto
giustificando il fatto, sto cercando di districare dalla violenza orribile di uno stupro o di
un abuso su un bambino gli elementi che ci sono già presenti e che possono
ricostituire un genitore nell'adulto che in questo momento viene considerato
l'accusato.

Il corpo e la mente

Il corpo è veramente il nostro consulente migliore. D’altronde, è con noi da che


esistiamo, come potrebbe non aver memoria di tutti i nostri attimi? Memoria diversa
da quella della mente, certo, ma così strettamente in interazione! Il corpo è il
consulente migliore, intanto perché è sempre a nostra disposizione, attento, preciso e
disponibile. E se siamo stati abituati a dargli retta quando ci arriva un segnale di
dolore, perché mai, mi son chiesta, non andare a cercare un rapporto con lui anche
senza la necessità dell’accompagnamento doloroso? Ritengo, infatti, che siamo fin
troppo esperti nel riconoscere il dolore, la sofferenza è un linguaggio che scambiamo
spesso fino a farle acquistare una qualche strana sorta di sacralità. Ora, non è certo
contestabile la presenza diffusa, e quanto ripetuta!, del dolore nella nostra esistenza.
Ci piaga, ci afferra, ci torce, dentro di noi e in chiunque, è un tormento di cui non
sappiamo e non possiamo darci pace, di cui cerchiamo brandelli di consolazione, per
cui tanti levano i pugni al cielo, che sollecita solidarietà e impotenza, disgusto e pietà.
Ma il dilagare del dolore, così tante volte originato da intollerabili ingiustizie e violenze
ma anche così spesso insopportabile proprio perché immotivato, questa presenza
dovunque che ha innervato religioni e costruito luoghi sociali per poterlo affrontare,
definizioni per dargli un nome quasi lo si potesse così catturare e irreggimentare, non
vuol dire che il dolore sia, se non l’unico, il migliore dei linguaggi con cui gli esseri
umani possono rivolgersi gli uni agli altri o a se stessi. Una certa santificazione del
dolore nasconde l’indecente obiettivo dell’asservimento a un’obbedienza che sa di
sottomissione. La tragedia della sofferenza umana spesso scivola in un oscuramento
delle altre emozioni, delle esperienze fisiche e psichiche che non dal dolore traggono
origine e scopo ed esistenza. E che vengono tacitate o, quanto meno, relegate in un
rango minore: meno vere, meno importanti, meno dicibili socialmente. Nel mio lavoro,
cerco di non farmi catturare dalla fascinazione del dolore, cerco di non attardarmi nei
territori della cosiddetta patologia, invito l’altro a percorrere il campo della normalità,
della salute. Quel campo dove lui ed io possiamo fruire di cittadinanza piena, dove
siamo riconosciuti come persone competenti, con un lavoro, famiglia, ruoli e abitudini
sociali; ognuno le sue ma le abbiamo ambedue. Assieme, da lì riguardiamo quel buco
di dolore, cerchiamo di maneggiarlo con qualche distanza, se appena è possibile lo
riconduciamo con affetto e attenzione e rispetto nel mondo della salute, ne
accarezziamo i lineamenti che, distorti in quel territorio, qui possono cominciare a
ricomporsi in un’espressione che si può riconoscere, interpretare. Quasi una nuova
nascita, con lineamenti plasmati da un rapporto d’amore: dice Giuliana, medico
ematologa e donna straordinaria, un bambino acquista il suo viso non con la nascita
ma con le carezze che glielo modellano.

Nel mondo della normalità il dolore si può interrogare e lo si può sperimentare


consumandolo e trasformandolo in energia vitale, nel mondo della patologia lo si può
solo contemplare, attoniti basilischi, in un tempo che non scorre ma abbacina. Tante
cosiddette depressioni erano involucri di sofferenza tesi ad abbracciare e custodire un
dolore che si pensava tanto inevitabile quanto invivibile, oggetti preziosi, diceva una
donna, umiliazioni, sconfitte, tradimenti, disperazioni da lucidare con cura e che, ogni
volta che li prendi in mano per rimirarli, restituiscono la stessa, eterna, immutabile
fitta di dolore. Quando siamo riusciti, e qualche volta è stato possibile, a denudare il

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dolore temuto, ad attraversarlo, consumarlo, assaporarlo compiutamente, le icone di
un tempo hanno potuto finalmente trovare riposo e riparo. Senza essere cancellate né
dimenticate, esperienze cui volendo si può riaccedere in ogni momento ma che non
costituiscono più il perno dell’esistenza quotidiana. L’orizzonte si amplia, il lucore si
stempera in altre luci, si spande in atmosfere più ariose. Il quotidiano allargato può
assorbire la predominante patologia di un tempo, un quotidiano che non usa più la
sofferenza come altare sacro ma che, laico senza dover essere necessariamente
laicista, attraversa con leggerezza consapevole tutti gli strati dell’esperienza vitale,
fermandosi qui a incoronare un dio, là a seppellire un reperto, lì, invece, a organizzare
un museo. Con la libertà impegnativa di essere protagonista della propria esistenza.

Annabella e lo stornello

Ci sono dei libri di cui non si può fare a meno, da una generazione all’altra.
Penso, in questo momento, alla serie di P.L.Travers su Mary Poppins, bambinaia con il
volto da bambola olandese, scontrosa e insostituibile, imprevedibile, rassicurante e
misteriosa, giustamente adorata dai piccoli Banks (il loro padre lavora in banca!).
Nella famiglia nasce la piccola Annabella ed ecco un passo delizioso che racconta
l’ingresso nel mondo di un cucciolo nuovo (da P.L.Travers “Mary Poppins ritorna”;
Gruppo Editoriale Fabbri Bompiani Sonzogno Etas s.p.a., Milano 1937):

Mary Poppins si aggirava quietamente nella stanza, ponendo in bell’ordine gli abiti
nuovi di Annabella. La luce del sole, entrando dalla finestra, attraversò lentamente la
stanza e raggiunse la culla.
“Apri gli occhi!” disse piano “ e vi lascerò cadere un raggio!”
La piccola coperta si mosse. Annabella aprì gli occhi.
“Brava bambina!” disse la luce del sole “i tuoi occhietti sono celesti, vedo il mio colore
preferito. Ecco! Non si potrebbe trovare da nessuna parte un paio d’occhi più
luminosi!”
La luce del sole scivolò via dagli occhi di Annabella, carezzò le sponde della culla e si
dileguò.
“Tante grazie!” disse Annabella gentilmente.
Una tiepida brezza, rimuovendo le trine della culla, le sfiorò la testina.
“Capelli ricciuti o lisci?” mormorò la brezza.
“Oh, ricci per favore!” implorò piano Annabella.
“I riccioli risparmiano i dispiaceri, vero?” assentì la brezza. E si agitò sul capino biondo
finché arricciò in su con cura le punte dei suoi capelli prima di uscire, volteggiando,
dalla stanza.
“Eccomi! Eccomi!” gridò una voce rude dalla finestra. Lo Stornello era tornato sul
davanzale. (…)
“Annabella, cara” (…) e la guardò col suo tondo occhio luminoso “Spero” disse
gentilmente “che tu non sia troppo stanca del viaggio!”
Annabella scosse la testa (...) agitò le manine fra le lenzuola.
“Io sono terra e aria e fuoco e acqua” disse dolcemente “vengo dal Buio dove tutte le
cose hanno il loro principio. (…) Vengo dal mare e dai suoi flutti (…) vengo dal sole e
dalla sua luce”.
“Ah, sei così luminosa!” disse lo Stornello, assentendo.
“E vengo dalle foreste della terra. (…) In principio mi muovevo piano (…) mi
rammentavo di tutto quello che ero stata e pensavo a tutto quello che sarei diventata.
E dopo che ebbi sognato il mio sogno, mi svegliai e arrivai a tutta velocità. (…) Nel
mio cammino udivo le stelle cantare e mi sentivo avvolta di trepide ali. Passai
attraverso gli animali della giungla, attraversai acque scure e profonde. Fu un lungo
viaggio.”

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Annabella tacque. (…)
“Un lungo viaggio, davvero!” assentì a bassa voce lo Stornello, sollevando dal petto il
capino “E così presto, ah!, così presto dimenticato!”
Annabella si agitò sotto la piccola coperta.
“No!” disse fiduciosa “Non lo dimenticherò” (…) Me ne ricorderò! Me ne ricorderò!
Perché dovrei dimenticarlo?”
“Perché tutti dimenticano!” ribatté lo Stornello duramente “Ogni stupido essere
umano!”(…)
“Non ti credo! Non ti voglio credere!” gridava furiosamente Annabella. (…)
“Zitta! Zitta!” la ammonì lo Stornello in tono burbero “Non ci badare! Non ci si può
fare nulla. Dopo tutto sei anche tu un bambino come gli altri.”
(…)
Aveva una settimana quando lo Stornello tornò. (…)
La culla si mosse lievemente. Annabella aprì gli occhi.
“Buongiorno” disse “Desideravo appunto vederti.”
“Ah!” esclamò lo Stornello volandole accanto.
“Vorrei ricordare una cosa” cominciò Annabella, aggrottando le ciglia “E pensavo che
tu potessi farmela tornare in mente.”
Lo Stornello la guardò fisso. I suoi occhi scuri ammiccarono.
“Come cominciava?” disse piano “Così?…” e cominciò in un tremulo soffio “Io sono
terra e aria e fuoco e acqua…”
“No, no!” lo interruppe Annabella con impazienza “Non cominciava certo così!”
“Dimmi” le domandò lo Stornello ansiosamente “Era a proposito del tuo viaggio? Sei
venuta dal mare e dai suoi flutti, sei venuta dal cielo e…”
“Oh, non essere così sciocco!” gridò Annabella “il solo viaggio che io abbia mai fatto è
stato fino al Parco, stamattina. No, no, era qualcosa d’importante. Qualcosa che
cominciava per B. (…) Ho trovato!” ella gridò “è biscotto. C’è un mezzo biscotto
all’avena sul caminetto. (…)”
“Tutto qui?” chiese lo Stornello, deluso.
“Sì, certo” Annabella rispose irritata “Non ti sembra abbastanza? Pensavo che ti
saresti accontentato di mezzo biscotto!”

Il corpo come Atlantide

Mi immagino, quando penso al corpo e a quella sua incredibile, prodigiosa memoria, ai


modi per accedervi, alla grammatica e alla sintassi di questo processo, mi immagino la
terra di Atlantide. Come per questi mitici (e cosa è mai il mito se non un racconto che
ci consola, che ci aiuta a sentirci meno soli nella faticosa impresa del vivere?) abitanti
del fantastico regno di Atlantide, così il nostro corpo conserva, mi immagino, tutte le
competenze, tutte le esperienze, tutto ciò che ci fa essere chi e come siamo. Ma,
come loro, gli atlantidi, anche il corpo ha il problema di fornirci le informazioni al
momento giusto, quando, cioè, siamo in grado di utilizzarle al meglio. Di tante
versioni di Atlantide, mi piace privilegiare quella in cui questo popolo, sapiente e
saggio, vedendo lucidamente avvicinarsi il tempo della sua estinzione, si pone, con
grandissima umanità, gentilezza e responsabilità, la questione del come racchiudere la
sua sapienza affinché si conservi per divenire disponibile per delle genti che verranno,
non si sa quando e non si sa neppure che genti saranno, quale la loro cultura, le loro
leggi, il loro pensiero, la loro società. Per questo, dunque, gli atlantidi affidano le loro
conoscenze a due veicoli che sicuramente sapranno aprirsi e svelare il segreto al
momento opportuno: quando le genti future saranno in grado di farne l’uso migliore. I
veicoli scelti sono la narrazione e la matematica. La narrazione di cui gli umani non
potranno mai fare a meno, nel tempo costruirà una conoscenza condivisa che
modellerà le persone a venire e le renderà recettive all’articolazione del passato con il

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futuro, del sogno giovanile con la saggezza e il rispetto degli anziani, dell’intesa con il
mondo della natura con il permesso di modificarla, dell’individuo unico con il rotolare
della storia di mille e mille altri. La narrazione collega gli esseri umani, permette loro
di manifestarsi e di scoprire, di comprendere assieme e di inventare il proprio destino.
Mito, leggenda, fiaba, racconti fantastici, biografie e autobiografie, sogni e invenzioni,
ogni narrazione modella la persona umana ricamandone l’attimo nell’arazzo globale
del tempo e dello spazio. E poi, a saldo contrappunto, la matematica, esatta, sapiente,
che rende accessibili le sue informazioni solo se si sono ripercorsi i passi obbligati, con
quel suo linguaggio che non è certamente quello più adeguato per ogni campo
dell’umano ma, pure, di ogni campo sa dare ragione, ogni campo sa descrivere e
definire e porgere alla relazione condivisa. La matematica che identifica e riconosce
nel comportamento umano configurazioni, equivalenze, gestalt, che ci porge
suggerimenti per maneggiarle. La matematica che cinge la poesia e la musica, che
propone strutture tanto rigorose quanto flessibili all’inventiva umana, la matematica
che non cela nulla ma richiede, per essere letta, conoscenze e ricerca, un
atteggiamento in qualche termine scientifico. Come per le magiche piramidi di Giza,
mai ripetute e che ancora oggi non sapremmo costruire, che presuppongono l’uso
noto del pi greco e l’arte di scavare lunghissimi, eleganti colli per trarre vasi da una
pietra di tale durezza che i nostri strumenti non sanno lavorare. Le incisioni Nazca
semplicemente ci sono, non ci sfidano, non si celano, non ci provocano: ci attendono,
a un appuntamento previsto da secoli e secoli che non sappiamo quando mai verrà.

Immagino qualcosa di simile per il corpo e la sua sapienza.

Il corpo come consulente

Così, da questi presupposti, ha preso le mosse un lavoro di ricerca, una


sperimentazione che nel tempo si è consolidata in un vero e proprio galateo
dell’interlocuzione con gli organi del corpo, che si è fatta abitudine a ricorrere quanto
meno a una intervista veloce, una supervisione a volo d’angelo. Ma che, invece,
spesso è nervatura di un incontro con sé, alla ricerca di altre informazioni, chiarimenti,
opportunità, ma anche conforto, consolazione, sostegno. Con un cenno di saluto a
Freud e all’analisi interminabile, credo di poter dire che il riscontro esterno del
terapeuta può nel tempo vantaggiosamente essere sostituito dal confronto interno in
cui il corpo è centrale.

L’interlocuzione con il corpo, per come la conosco, segue delle regole semplici e
abbastanza precise. E, prima di ogni altra, occorre sapere che andare a cercare
conforto e informazioni e consigli trova comunque un riscontro, magari imprevisto, ma
gli interlocutori che si sono recati all’appuntamento, in genere hanno un bassissimo
senso dell’umorismo: non amano per nulla che i contratti stipulati con loro vengano
traditi, si innervosiscono, e talvolta reagiscono, se ciò che è stato messo in luce,
magari con gran fatica, non viene utilizzato o viene schernito, valutato come banale,
inessenziale. In questo modo di ragionare, evidentemente, c’è l’eco della
preoccupazione degli atlantidi (qualcuno potrebbe dire dell’inconscio?): come fare a
decidere quando e che cosa far sapere, quando e quale informazione rilasciare?
Penso, e chiedo all’altro di condividere, che tutti i componenti della persona sono
comunque, primariamente, orientati alla sua sopravvivenza. Sono, dunque, aiutanti
sinceri e validi, competenti e ben capaci di collaborare. Ma può accadere che alcuni
programmi orientati alla sopravvivenza non siano stati aggiornati, può essere
successo che non sia circolata l’informazione che nuove e diverse competenze sono
state raggiunte dalla persona, sì che alcune difese e alcune protezioni non sono più
necessarie. Forse è inutile ripeterlo, ma non è questione di asserire che questo è vero,

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che le cose stanno realmente così: è semplicemente lo sfondo, il quadro di riferimento
in cui l’interlocuzione con il corpo e con i suoi organi acquista senso, valore e può
risultare utile. D’altronde, ogni nostra azione acquisisce senso dal contesto in cui si
colloca, dalla condivisione di accordi presi, dal gioco di carte dove attribuiamo valore a
un cartoncino illustrato a ogni rito o celebrazione sociale di qualunque ordine e grado.
Basta ricordare il teorema di Godel.

Scrive lucidamente Umberto Eco, ne “Il pendolo di Foucault” (Bompiani, Milano 1988):

Dice Lia: “Pim, non ci sono gli archetipi, c’è il corpo. Dentro la pancia è bello, perché ci
cresce il bambino, si infila il tuo uccellino tutto allegro e scende il cibo buono saporito,
e per questo sono belli e importanti la caverna, l’anfratto, il cunicolo, il sotterraneo, e
persino il labirinto che è fatto come le nostre buone e sante trippe, e quando qualcuno
deve inventare qualcosa di importante lo fa venire di lì, perché sei venuto di lì anche
tu il giorno che sei nato, e la fertilità è sempre in un buco, dove prima qualcosa
marcisce, e poi ecco là, un cinesino, un dattero, un baobab. Ma alto è meglio che
basso perché se stai a testa in giù ti viene il sangue alla testa, perché i piedi puzzano
e i capelli meno, perché è meglio salire su un albero a coglier frutti che finire
sottoterra a ingrassare i vermi, perché raramente ti fai male toccando in alto (devi
essere proprio in solaio) e di solito ti fai male cascando verso il basso, ed ecco perché
l’alto è angelico e il basso diabolico. Ma siccome è anche vero quel che ho detto prima
sulla mia pancina, sono vere tutte e due le cose, è bello il basso e il dentro, in un
senso, nell’altro è bello l’alto e il fuori, e non c’entra lo spirito di Mercurio e la
contraddizione universale. Il fuoco tiene caldo e il freddo ti fa venire la
broncopolmonite, specie se sei un sapiente di quattromila anni fa, e dunque il fuoco
ha misteriose virtù, anche perché ti cuoce il pollo. Ma il freddo conserva lo stesso pollo
e il fuoco se lo tocchi ti fa venire una vescica grossa così, quindi se pensi a una cosa
che si conserva da millenni, come la sapienza, devi pensarla su un monte, in alto (e
abbiam visto che è bene), ma in una caverna (che è altrettanto bene) e al freddo
eterno delle nevi tibetane (che è benissimo). E se poi vuoi sapere perché la sapienza
viene dall’oriente e non dalle Alpi svizzere, è perché il corpo dei tuoi antenati alla
mattina, quando si svegliava che era ancora buio, guardava a est sperando che
sorgesse il sole e non piovesse governo ladro.”

“Sì, mamma.”

“Certo che sì, bambino mio. Il sole è buono perché fa bene al corpo, e perché ha il
buon senso di riapparire ogni giorno, quindi è buono tutto quello che ritorna, non
quello che passa e va e chi s’è visto s’è visto. Il modo più comodo per ritornare da
dove si è passati senza rifare due volte la stessa strada è camminare in circolo. E
siccome l’unica bestia che si acciambella a cerchio è il serpente, ecco perché tanti culti
e miti del serpente, perché è difficile rappresentare il ritorno del sole arrotolando un
ippopotamo. Inoltre se devi fare una cerimonia per invocare il sole, ti conviene
muovere in circolo, perché se muovi in linea retta ti allontani da casa e la cerimonia
dovrebbe essere brevissima, e d’altra parte il circolo è la struttura più comoda per un
rito, e lo sanno anche quelli che mangiano fuoco sulle piazze, perché in circolo tutti
vedono nello stesso modo chi sta al centro, mentre se un’intera tribù si mettesse in
linea retta come una squadra di soldati, quelli più lontani non vedrebbero, ed ecco
perché il cerchio e il movimento rotatorio e il ritorno ciclico sono fondamentali in ogni
culto e in ogni rito.”

Sì, mamma.”

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“Certo che sì. E adesso passiamo ai numeri magici che piacciono tanto ai tuoi autori.
Uno sei tu che non sei due, uno è quel tuo affarino lì, una è la mia affarina qui e uni
sono ilo naso e il cuore e quindi vedi quante cose importanti sono uno. E due sono gli
occhi, le orecchie, le narici, i miei seni e le tue palle, le gambe, le braccia e le natiche.
Tre è più magico di tutti perché il nostro corpo non lo conosce, non abbiamo nulla che
sia tre cose, e dovrebbe essere un numero misteriosissimo che attribuiamo a Dio, in
qualunque posto viviamo. Ma se ci pensi, io ho una sola cosina e tu hai un solo cosino
– sta’ zitto e non fare dello spirito – e se mettiamo questi due cosini insieme viene
fuori un nuovo cosino e diventiamo tre. Ma allora ci vuole un professore universitario
per scoprire che tutti i popoli hanno strutture ternarie, trinità e cose del genere? Ma le
religioni non le facevano mica col computer, era tutta gente per bene, che scopava
come si deve, e tutte le strutture trinitarie non sono un mistero, sono il racconto di
quel che fai tu, di quel che facevano loro. Ma due braccia e due gambe fanno quattro,
ed ecco che quattro è lo stesso un bel numero, specie se pensi che gli animali hanno
quattro zampe e a quattro zampe vanno i bambini piccoli, come sapeva la Sfinge.
Cinque non parliamone, sono le dita della mano, e con due mani hai quell’altro
numero sacro che è dieci, e per forza sono dieci persino i comandamenti, altrimenti se
fossero dodici quando il prete dice uno, due, tre e mostra le dita, arrivato agli ultimi
due deve farsi prestar la mano dal sacrestano. Adesso prendi il corpo e conta tutte le
cose che spuntano dal tronco, con braccia, gambe, testa e pene sono sei, ma per la
donna sette, per questo mi pare che tra i tuoi autori il sei non sia mai stato preso sul
serio se non come doppio di tre, perché funziona solo per i maschi, i quali non hanno
nessun sette, e quando comandano loro preferiscono vederlo come numero sacro,
dimenticando che anche le mie tette spuntano in fuori, ma pazienza….
Ma vuoi la spiegazione di altre figure ricorrenti? Vuoi l’anatomia dei tuoi menhir, che i
tuoi autori ne parlano sempre? Si sta in piedi di giorno e sdraiati di notte (…) e quindi
la stazione verticale è vita, ed è in rapporto col sole, e gli obelischi si rizzano in su
come gli alberi, mentre la stazione orizzontale e la notte sono sonno e quindi morte, e
tutti adorano menhir, piramidi, colonne e nessuno adora balconi e balaustrate. Hai
mai sentito parlare di un culto arcaico della ringhiera sacra? Vedi? E anche perché il
corpo non te lo permette, se adori una pietra verticale, anche se siete in tanti la
vedono tutti, se invece adori una cosa orizzontale la vedono solo quelli in prima fila e
gli altri spingono dicendo anch’io anch’io e non è un bello spettacolo per una cerimonia
magica…”

Il linguaggio degli organi

Dopo essersi, dunque, sistemati in una posizione di rispetto e di curiosità tanto ferma
quanto cortese, attivato il sistema di sicurezza che testi l’opportunità e le modalità e
la tipologia dello scambio di informazioni, che ne controlli la ricaduta ecologica,
possiamo accingerci a interrogare, a chiedere un incontro.
Semplicemente, se siamo dentro a un inghippo, a una trappola da cui non sappiamo
uscire, possiamo chiedere se qualcuno, dentro il nostro corpo, ne sa qualcosa e vuole
venire a dircene due parole. Talvolta, invece, può essere invitato a un incontro un
organo preciso, il cuore, lo stomaco, l’intestino, il fegato, ma anche un arto, un dito
della mano o la testa che ci pesa. Nel primo caso, è il corpo che sceglie chi mandare
all’incontro e già questo ha un significato e un valore. Perché ogni organo del corpo,
oltre ad appartenere a quel singolo corpo, è stato visto, lavorato, nominato e caricato
di significati nel corso dei millenni dalle culture più svariate in ogni angolo della terra.
Si possono mai prendere in considerazione i polmoni senza valutare il significato della
respirazione, dall’ipnosi alle arti marziali, senza ricordare che nel mondo greco
ospitavano e modellavano la formazione stessa del pensiero, senza il corteo delle

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manifestazioni dolorose (e basti per tutte la fame d’aria), senza la notizia dello smog
delle nostre città? Al cuore, senza i riti aztechi che accorrono in frotta assieme alle
canzonette d’amore, al fegato senza il cannibalismo e le cento locuzioni proverbiali?
Alle ginocchia senza il riconoscimento latino della paternità e la tenerezza dell’infanzia
maternamente accudita?

Eppure, e proprio lì si colloca il giunto che permette l’articolazione, quel cuore, quel
fegato, quei polmoni appartengono a quel singolo, specifico, unico corpo. Su questo
snodo si sviluppa la conversazione, volta volta, come dicevamo, decidendo nello
schema bipolare per affondare le mani nella miriade dei punti intermedi, aprire la
biforcazione per operare la scelta. Si avvia con un sussulto, un pizzicore,
un’immagine, un suono lontano, un sapore: gli organi del corpo conoscono l’uso dei
canali percettivi, sanno le preferenze della persona, decidono se percorrere strade
note o muoversi in modi inattesi. Si tratta, soprattutto, di stare in attesa per cogliere
il primo segnale, autosuggestione? Sì, certo, si può catalogarla anche così, qualunque
evento acquista valore a seconda delle attese che vi si appoggiano.

Un turno verbale dopo l’altro, avviati i reciproci riconoscimenti, si svolge una vera e
propria chiacchierata. Chiedo al mio interlocutore se vuole fare delle domande, se
vuole sentirsi dire, se vuole delle risposte, se vuole rispondere a domande postegli.
Cambia molto, evidentemente, se si va a un incontro per avere informazioni, per
avere consigli, per parlarsi un poco e cominciare a conoscersi, per interrogare, per
protestare. Gli organi coinvolti porranno condizioni a loro volta. Ad esempio, se
l’obiettivo dichiarato è voler dimagrire, come si fa a non trattare la questione con lo
stomaco? E come può una contrattazione non coinvolgere la bocca e l'intero apparato
digestivo, comprendendo gusto, facilità di smaltimento ma anche le regole igieniche
della persona quando non le sue norme religiose o spirituali? Tante volte mi è
accaduto di constatare che le persone vogliono magari dimagrire ma non hanno
pensato minimamente a quale sarebbe il peso giusto da raggiungere: non il peso di
cui disfarsi ma quello da ottenere! Senza la definizione dell’obiettivo, come si fa a
sapere se lo si è raggiunto? È ben logico che, in assenza di nuovi ordini, si torni più o
meno velocemente allo stato quo ante.
Accade anche, ad esempio, che una crisi di panico veda interessati diversi organi e
che ci si accorga che alcuni reagiscono secondo un programma antiquato, non
aggiornato. Tutta l’esistenza è punteggiata da regole che vanno a decadere in tempi
più o meno brevi nella scansione di fasi diverse che si susseguono. Ma un organo
potrebbe non essere stato coinvolto nell’aggiornamento, mantenere un’ansia per un
pericolo non più attuale. Esattamente come le nutrici di Shakespeare trepidanti per i
loro agnellini o le madri e i padri di tutto il mondo che non sanno mai bene quando
dismettere la preoccupazione per il cucciolo. Ogni comportamento che, pur incongruo,
continuiamo a reiterare è orientato a difenderci da un pericolo o a salvaguardare un
bene importante e prezioso. Da questo presupposto, è semplice (anche se non sempre
facilissimo) verificare assieme lo stato dell’arte, aggiustare obiettivi, condividerli,
concordare le modalità più economiche. Il nostro corpo è dalla nostra parte, sempre e
comunque: basta che gli permettiamo di esserlo sul serio.

Assieme per dare un nome

Non lo dice solo Nanni Moretti, le parole sono importanti, lo sono veramente tanto. E
ogni volta sembra incredibile la potenza che dispiegano, la capacità di agganciare
assieme tanti diversi livelli comunicazionali, di reificare un pensiero concretizzandolo,
di viaggiare per quelle tracce inconsistenti fatte di fantasia e di emozioni, di sentimenti

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e di spigoli reali che l’altro giorno una donna chiamava con affetto pudico assurdità:
non so dirle che piacere mi fa tornare di nuovo qui a dire queste che poi sono
assurdità, no? come molte altre cose, sì, Giovanna, sono assurdità, cose senza senso
che rigiriamo fra le nostre mani alla ricerca di un significato da attribuire.

Perché poi in fondo tutto sta lì, svincolare il passo da una realtà stabilita e
costringente, così nota da non permettere nessun rifiato, trappola triste di cui
conosciamo talmente bene tutto da non poterne trovare l’uscita. Diceva il muezzin,
all’alba di una giornata tutta nuova: fratelli, sapete di che vi parlerò oggi? No,
rispondono i fedeli, dopo un rapido sguardo l’un l’altro di interrogazione. Bene, se non
lo sapete… e il muezzin si ritira all’interno del minareto. I fedeli, perplessi e infastiditi,
attendono il momento della prossima preghiera. Si affaccia il muezzin, chiede: fratelli,
sapete di che cosa vi parlerò oggi? Sì, rispondono con fervore tutti i fedeli. Bene, se lo
sapete… e il muezzin rientra rapidamente. Il popolo dei fedeli innervosito e incerto,
prende le contromisure: alla prossima uscita, alla ormai celebre domanda del
muezzin, metà dei fedeli risponde: Sì e metà risponde: No. Bene, conclude allora il
muezzin, quelli che lo sanno lo dicano a quelli che non lo sanno, e sparisce dietro la
tenda.

La magia della parola, della conversazione, della relazione umana sta proprio nell’aver
bisogno dell’altro per la più piccola frase che non si perda nell’infinito ma venga
accolta dall’altro, modellata, restituita così tanto trasformata da farci salire il cuore in
gola, così tanto uguale da farci raggomitolare tranquilli: il rapporto c’è, io esisto
perché un altro mi ha riconosciuto, non mi ha fatto da specchio indifferente. Esisto
nella dinamica del rapporto, tessuto dalla parola. Se so già tutto di un argomento, di
una situazione, di una persona, se non ho nulla da aggiungere, se non c’è alcun
bisogno, alcun desiderio, nessuna aspettativa che attenda, come si può avviare una
relazione? Ma, in termini assolutamente speculari, devo pur avere un sapere in
comune, una qualche condivisione che mi permetta di entrare a “conversare”,
appunto, assieme, distinti per poter spartire uno spazio unico. Il razzismo, prima di
ogni altra considerazione etica e civile, è sostanzialmente stupido perché sono
infinitamente di più le cose in comune fra tutte le etnie e le aggregazioni umane
rispetto agli elementi che le differenziano. Ma è razzismo pericoloso non solo quello di
rifiutarsi di accedere al palesemente diverso, il razzismo più violento è quello di chi
vede e predica l’uguaglianza e ne imbocca la strada con bella e superficiale baldanza e
poi, al primo crac della diversità, si infuria, si sente tradito, imbrogliato. Un bambinello
nero adottato in Europa deve fare subito i conti con la sua diversità: la sua pelle è ben
visibile, si parte da lì. Ci sarà certamente la discriminazione ma dichiarata, esplicita.
Da lì si imposta il superamento. Un piccolo russo o albanese, invece, biondo e con gli
occhi chiari, potrebbe essere “scoperto” solo in un secondo momento e allora la
reazione scatta violenta, nutrita dai buoni sentimenti che abbiamo appoggiato
sull’altro senza chiedergli il permesso. Il linguaggio comune fra colleghi si asciuga
rapidamente in gergo, diverso dal gergo dell’altra scuola di pensiero. Ma gli altri sono
diversi e lo si sa, chi partecipa del nostro gergo e ne dà una lettura differente o non
ortodossa, è un traditore.

Chi si vanta di essere laico, non si premunisce contro il rischio di diventare bigotto (e
bigotti lo siamo un po’ tutti, magari ciascuno venerando un dogma diverso!) e, non
prevedendone la possibilità, è come se fosse amputato della parola, del concetto
stesso. Chi è credente, almeno in qualche angolo custodisce l’idea del bigottismo, ne
avverte il sapore ridicolo, in ogni caso sa che esiste, lo nomina, lo pensa. Poi, laico e
credente, lo riscontrano soprattutto negli altri, sia pur con sfumature e linguaggi
differenti, contrapponendolo alla vera fede o al vero esercizio di religione o al vero

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credo politico o alla vera espressione di civiltà. Che naturalmente è quella che abitano.
È bigottismo o coerenza non comprare più il pane dal solito (bravissimo) panettiere
perché espone da bravo leghista la statuetta di Alberto da Giussano? Si può andare a
vedere uno spogliarello a Parigi o Londra? È uno spettacolo come un altro e non vale
la pena di annoiare gli amici o invece bisogna difendere anche in quell’occasione il
principio fondamentale che il corpo della donna non deve essere in vendita? E di miss
Italia, che farne? È un antiquato e patetico reperto paesano su cui sorridere come per
il festival di Sanremo o va condannato? E lo spogliarello maschile, è triste, penoso,
miserando oppure si può farsi una serata ridanciana con le amiche commentando
grassamente le esibizioni proposte? E se è riprovevole, perché invece è politicamente
corretto (nell’intero arco parlamentare) il bellissimo Full Monty? E i giochi per
computer possono prevedere delle bombe giocattolo? È un insulto alla tragedia
(veramente troppo presente, in termini e qualità fino a poco tempo fa inimmaginabili)
della guerra? Ma non rischiamo, poi, sostituendoli con i fiori, di espellere la violenza
anche dai giochi? Una mamma democratica aveva proibito i giocattoli di guerra ai suoi
bambini e loro usavano le dita al posto delle pistole, c’è chi ha detto: lasciate le armi
ai bambini in modo che memorizzino bene che la violenza è un esercizio dei piccoli e
che, da grandi, ne sappiano fare a meno. Amplificare la giustissima campagna contro i
maltrattamenti degli animali fino a chiamare assassino chi uccide le foche? Al festival
della letteratura di Mantova del 2003, ambiente sommamente democratico e
politicamente corretto, un ragazzo riferiva, critico, di un certo signore che non aveva
voluto firmare un appello animalista ma aveva, però, dato del denaro a degli
extracomunitari! E per entrare di forza ad ascoltare Gino Strada e Lella Costa a un
incontro per costruire la pace, molti ragazzi rimasti esclusi dall’esaurimento dei
biglietti hanno aggredito violentemente gli organizzatori che hanno dovuto richiedere
l’aiuto delle forze dell’ordine. Ragazzi assolutamente contrari a ogni forma di violenza
ma che non potevano tollerare di restar fuori e non esserci dove si parlava contro la
guerra.

A ogni scansione, dobbiamo guardarci le spalle: siamo tutti di mentalità aperta e,


diamine, libertari ma è pur sempre rilevante il consenso del gruppo d’appartenenza.
Consenso sufficiente a non esserne espulsi ma non tanto da vincolarci, gioco
complesso di equilibrio ed equilibrismi spesso non dicibili. Perché l’appartenenza
sembra necessaria, occorre che gli altri ci sappiano riconoscere, dal vestire, dal
linguaggio, dai tratti del viso, dal mestiere, dalle idee. E se siete a casa d’amici e un
altro invitato le spara grosse su argomenti per voi effettivamente molto importanti,
che fate? Vale di più il rispetto dell’amicizia per cui non si litiga con l’invitato del
padrone di casa oppure certe affermazioni non vanno lasciate passare, mai? E se siete
a casa vostra, smorzate i toni o prendete posizione? Più esplicitamente, a quale
religione date la prevalenza? Al culto dell’amicizia? Della buona educazione? Della
franchezza a ogni costo? Dell’apostolato civile e politico? A seconda di quale
sceglierete, sceglieremo, ci diremo: beh, questo è troppo e ci comporteremo di
conseguenza. Fedeli o militanti più di questo che di quello e fieri di essere spiriti
autenticamente liberi.

Dalla diagnosi alla significazione

Questo è anche uno dei pericoli della diagnostica: un assetto di parole che inquadrano
e definiscono, tracciano i confini, un esercito di Procruste in camici bianchi. Il pericolo
della diagnostica usata malamente è la sua evidente credibilità, la sua capacità di
quietare l’angoscia emettendo un affidabile verdetto corredato dalle istruzioni per
l’uso. Lentamente, da quadro lucido e rassicurante nell’ambito del quale si apre la
collaborazione, la diagnostica si sposta a costringere l’attività stessa del pensiero del

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clinico. Come l’expertise, che un tempo apparteneva al dominio dell’occhio
dell’esperto, era un gesto discrezionale e in quanto tale proprio dell’esperto, e oggi è
divenuta una caratteristica dell’oggetto da esaminare. Una caratteristica riscontrabile,
verificabile, che si può trovare. Basta cercarla. Certo, qualunque disagio può essere
catalogato, riconosciuto, identificato, è ovvio che si può. Troppo spesso, però,
deprivandone la persona che diviene accessorio, essenziale d’accordo, ma accessorio
comunque, del disagio. La persona che slitta a divenire “portatore” di disagio, cui
viene sottratta l’imprescindibile angoscia della domanda del che cosa farne, di questo
disagio. Di che significato dargli, di come situarlo nel proprio pensiero. Non di
disinnescarlo o di risolverlo come fosse un teorema.

Credo che il cercare di ridurre, di semplificare, di generalizzare siano operazioni che


facciamo tutti: di continuo, e saggiamente, perché ci permettono di continuare a
vivere. Chi la fa troppo lunga, chi si interroga permanentemente sul senso di ciò che
fa, chi cerca il pelo nell’uovo o pretende la perfezione, la chiarezza esaustiva, la
completezza rifinita: li conosciamo, ci esasperano, cerchiamo di tagliar corto,
guardiamo altrove, con impazienza ci sostituiamo nel lavoro. Tranne, evidentemente,
quando siamo noi a riflettere pensosi. Un mio amico, fisico, era stato chiamato al
servizio militare e il capitano gli aveva ordinato di stare di sentinella con la punta degli
scarponi che doveva sfiorare quella striscia lì, sul terreno. Il mio amico si rivolge
deferente al capitano attraverso gli occhiali da studioso: sì, signor capitano, ma la
striscia ha un suo spessore. La punta degli scarponi deve toccare il bordo interno o
quello esterno della striscia? Il capitano si agita, si riunisce con altri ufficiali per
riflettere sulla risposta da dare e, dopo un po’, esce dalla stanza e gli cambia l’ordine.
È quello che fanno tutti i nostri figli quando, al momento di sparecchiare o di portare
giù la spazzatura, vengono assaliti da dubbi esistenziali o da riflessioni urgentissime
sul big bang o sull’aldilà. È ovvio che continuamente per poter agire occorre
concludere il pensiero, semplificarlo in uno schema, porsi un limite, un termine
all’argomentazione ma occorre ricordarsi, una volta avviata l’azione, di riattivare
l’intera complessità del nostro riflettere. Azzerando il processo di semplificazione
appena concluso per, a mente fresca, rivolgersi al progetto della nuova azione e, se
del caso, applicare ancora, ma come fosse la prima volta, la ristrettezza della
riduzione, del riassunto. Perché, invece, se procediamo spediti di semplificazione in
semplificazione, ci troviamo a una banalizzazione del pensiero senza neppure
accorgerci, o ricordarci, che quella realtà così chiara l’abbiamo ottenuta qui tagliando,
là spostando, cancellando lo sfondo o amputando particolari e dettagli. E adesso
quella realtà è così ben definita, chiara, convincente che è certamente vera. Anche
tutti gli altri non possono che convenirne.

Le persone che si rivolgono a noi che ci dichiariamo terapeuti vengono già con una
realtà ben precisa. Tutt’al più con diverse versioni e pareri ma si sa che questa cosa
c’è ed è immodificabile, altrimenti lo sarebbe già stata. La diagnostica usata con
goffaggine, ricopre di un nuovo nome, molto più bello e nobile e scientifico, la
grossolana creazione che ci viene portata ad esaminare. E l’onere dell’expertise passa
velocemente dalle sue mani alle nostre. Se sappiamo darle un nome, riconoscerla,
sapremo bene anche cosa farne di questa cosa. Ed ecco che l’altro si adagia sulla
poltroncina, si rilassa, il compito suo l’ha già fatto portando il sintomo sì che, quando
lo chiamiamo in causa a lavorare con noi, è fra stordito e confuso, non sa più che cosa
vogliamo ancora da lui. Da una banalizzazione all’altra, diventiamo pedagogisti
pazienti e spieghiamo con condiscendenza che abbiamo bisogno del suo aiuto, in
fondo sono cose che lo riguardano, no? e, poi, ci facciamo moralisti edificanti: non
crederà mica che si possa uscire da questa situazione senza faticare un po’? e magari,
visto che ci stiamo, anche soffrire poiché senza lacrime e sangue non c’è

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cambiamento. Che invece, e qui siamo fermissimi, è ciò che dobbiamo cercare e
ottenere.

Ma il punto che a me interessa di più è il significato da attribuire a quella congerie


dolente che costringe e immiserisce la vita del mio interlocutore. E il significato non è
mai stabilito una volta per tutte. Come per i fedeli del muezzin, non è vero che non so
nulla di ciò che mi ha raccontato, ma è ugualmente vero che non ne so tutto.
Soprattutto, non so quale significato ora, in questo luogo, è più opportuno attribuirle.
Ne so perché ne ho studiato, ho visto altre situazioni sorelle, conosco l’inquadramento
diagnostico, altri colleghi mi hanno riferito il loro modo di approcciarla. Ma è la prima
volta che mi trovo ad affrontarla con quella persona lì e dunque non so che cosa è per
lui. Sostanzialmente, però, so fare il capo carovana, so come si riconoscono le piste
nel deserto, quanta acqua portare con sé, come vestire e dove troveremo l’oasi più
vicina. Posso aiutarlo nel muoversi assieme. Nella delicata e appassionante ricerca di
un significato da attribuirle, vengo a conoscere alcune sue reazioni, mi racconta
emozioni e sentimenti, impostiamo un abbozzo di linguaggio in comune. Non so cosa
avvenga dentro l’altro ma dentro di me si affastellano pensieri, ricordi, associazioni
cliniche, letterarie, frammenti di leggende, Edipo e Pollicino rincorrono le divinità
azteche. E semplifico, riduco, scelgo per costruire la prossima frase o per spostare il
mio luogo d’ascolto.

La costruzione di un senso, di un significato utilizzabile è forse l’operazione più


importante dell’intero nostro lavoro. L’organo coinvolto può risultare interessato in
quanto organo bersaglio e offrire una lettura sintonica alla sua funzione (dita
anchilosate di un musicista che servono a impedirgli di suonare e cercheremo il perché
mai non deve più suonare o quale, più precisamente, sia il divieto) oppure, e capita
spesso, l’organo coinvolto è stato interessato esattamente come fosse un foglio
bianco, su cui vergare con precisione e pulizia un messaggio chiaro. Gli organi del
corpo si prestano a collaborare anche in quanto intatti, privi di segnature precedenti.
Un discorrere fresco da avviare con spregiudicatezza. Come, anche, per l’organo
bersaglio, si può elicitare la personalità più disposta a un interlocuzione sensata, che
dia significato. Che debba valere e valga per oggi, solo per oggi, a ogni volta basta la
manna che c’è, ma non la si può conservare.

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Flash

“La Locandiera“
Alla stazione di Trento

Sì, ero alla stazione di Trento, stavo per prendere il treno per tornarmene a Milano.
Avevo concluso un ciclo di seminari, sedevo impigrita sulla panchina, in attesa del
treno. Che tardava. C’era gente, movimento di borse poggiate e poi spostate, di
cellulari impazienti, ragazzi che ridevano, gli sci tenuti con noncuranza spavalda. Alzo
gli occhi dal libro, mi scosto per far posto a un giovanottone che parla tedesco con
voce assertiva, mentre torno alle pagine colgo un quadretto carino: una giovane
mamma, la coda di cavallo, lo zaino sulle spalle, un bambinello ricciuto in braccio di
qualche mese, una borsona con rotelle ai piedi. Vicino, sua madre, gli stessi occhi, gli
zigomi alti, la pelle abbronzata da montanara, tiene in braccio un’altra bambinetta, di
forse due anni. Chiacchierano, scherzano, trattengono i bambini che si vogliono
buttare giù dalle braccia o che hanno assolutamente bisogno di bere, ora, proprio ora,
alla fontanella. Le guardo un po’, mi distraggo ancora sul mio racconto. L’altoparlante
avverte “ulteriore ritardo” del treno, brusio sulla banchina poi ci si adatta, tanto…ma
non tutti. No, la madre della ragazza entra improvvisamente in agitazione, restituisce
vivamente la piccola alle braccia della figlia che già tiene l’altro bambino,
affrettatamente “Sai, devo raggiungere tuo padre, è là sulla piazza della stazione che
aspetta in macchina, ciao, cara, fa’ buon viaggio” e, lesta, scende le scale, sparisce,
riemerge al di là dei binari, la vediamo spingere le porte a vetri, uscire del tutto. La
figlia resta un po’ perplessa, ma poi neanche tanto. Avvicina con i piedi la borsona a
una panchina, ci poggia sopra in piedi la bimba mentre cerca di quietare il più piccolo
che comincia a innervosirsi. Finalmente arriva il treno, raccolgo per lei la mano della
bambina e un manico della borsona, saliamo e poi ognuna va a sistemarsi al suo
posto. Fine della scenetta. E non è stato un gran dramma. Però, in treno il pensiero
comincia a raccogliere qui e là ricordi, mini riflessioni, immagini.

Che sempre hanno al centro una donna, come se fossero le donne a essere costrette a
scegliere. O, forse, più banalmente, da donna colgo più facilmente queste strettoie.
Perché mai quella madre, affettuosa, in buoni rapporti con la figlia, ha dovuto
abbandonarla lì, all’ultimo minuto? La ragazza era in buona salute, i bambini
bellissimi, tutto si è risolto al meglio, nessun dramma. Eppure, comunque l’aveva
accompagnata alla stazione, comunque si era soffermata con lei sulla banchina. Ma
poi, a un certo punto, è prevalso il timore, di che? Se il marito (e padre) aspettava
sulla piazza, bastava fare un salto ad avvertirlo del ritardo, che problema c’era?
Perché noi donne siamo così timorose dei contrattempi che potrebbero “disturbare” il
nostro uomo? Oppure, così irritate da questo timore da contro reagire trascurandolo
deliberatamente e vistosamente? Una donna, professionista, colta, alternativa, con
figli grandi, mi dice: perché non posso avere il coraggio di chiedere a mio marito di
fermarsi a una stazione di servizio sull’autostrada se devo fare pipì? Perché devo
avere paura che sbuffi o che stringa le labbra o che non mi parli più per tutto il
viaggio? Già, perché mai? Ma, anche, perché mai deve essere così importante per un
uomo una questione come fermarsi sull’autostrada o aspettare in auto su una piazza?
Bisognerà ragionarci meglio, una volta o l’altra, ce lo eravamo ripromesse tempo fa
con una giornalista durante una trasmissione, perché le donne sono così
atavicamente, sembra, timorose del malumore dell’uomo? Che, a buon bisogno,
inducono proprio sogguardandolo con questo irritante timore negli occhi: chi non ne
resterebbe infastidito? Usiamo voci querule, frasi scelte con cura, introduciamo una
tensione ansiosa che ha regolarmente la giusta risposta dello scoppio dall’altra parte.

Ma quello su cui riflettevo della scenetta alla stazione non era tanto questo aspetto
quanto l’inevitabilità della scelta. Quella madre, quella nonna, comunque ha dovuto

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scegliere. Non perché doveva aprire il suo negozio, perché la sua classe o il suo ufficio
o i suoi clienti la aspettassero, perché chiudeva l’anagrafe o il banchetto del mercato.
Mai per sé. La scelta era fra due amori, fra due doveri d’amore, la figlia e il marito. Mi
posso immaginare facilmente la trattativa per accompagnare figlia e nipotini alla
stazione “ti aspetto qui” dice il marito (perché non parcheggia e non aiuta anche lui?
Una donna l’avrebbe fatto) e già questa frase, ti aspetto, è una clessidra che comincia
a scorrere. Probabilmente, molto probabilmente, senza che neanche lui l’abbia voluto
ma è un’abitudine che si è venuta strutturando, nel tempo, chissà come. Fatto sta che
la signora ha un buono per un tempo dato, con un margine d’errore, certo, e dentro
quel tempo è tranquilla, si gode la figlia, è in regola. Ma il treno ritarda una volta di
troppo (rispetto a che?) e lei deve, deve fare come se avesse già concluso il suo
compito affettuoso. Infatti, scende le scale tranquilla, in pace, non corre né si agita né
si gira a salutare. Lei, la figlia l’ha accompagnata e ora torna dal marito. Quante volte,
in famiglia, accade di trovarsi in questa trappola? La scelta fra marito e figli ma su
questioni di una assoluta banalità, non sulla scelta della scuola o sull’uscire la sera o
sulla sparizione di una somma di denaro, no, su forse dieci minuti, quindici al
massimo, in una mattinata di sole, né Ferragosto né Natale, un mercoledì qualunque.

Mi sembra che, nella grossolanità di qualunque suddivisione, le famiglie si possano


riunire in due categorie, quella in cui ci sono dei genitori che stanno in coppia e quella
in cui una coppia si occupa genitorialmente dei figli. Nella prima, gli adulti si
appoggiano (o si contrappongono) l’un l’altro nei confronti dei figli: liti, discussioni,
accordi, riti e trasgressioni riguardano la gestione dei figli. Il loro stare in coppia è
giustificato e reso significativo dalla presenza dei figli. E, tutto sommato, è una
categoria molto riconosciuta socialmente, politicamente corretta.
Nell’altra categoria, è la coppia in primo piano e il rapporto con i figli passa attraverso
la realtà della coppia che predomina. Meno apprezzata, non piace tanto socialmente
un rapporto franco di coppia, induce sorrisetti e qualche ironia e poi in questi nostri
tempi in cui di bambini se ne fanno pochi, devono essere loro il valore primo da
custodire e da preservare. Un compagno, lo si trova sempre.

Evidentemente, ogni categoria racchiude dei costi e offre vantaggi netti, non saprei
farne una valutazione definitiva. Forse, si può immaginare una articolazione fra le due,
un alternarsi in sequenza ai diversi momenti della vita della famiglia stessa. Una cosa
si può dire: anche queste categorie sono a scadenza, vale per loro la regola delle
mozzarelle! Grande saggezza quella di Valeria, madre di due gemelli, che a un’altra
madre in attesa, ansiosa di suggerimenti diceva: guarda, strilleranno per mangiare
tutti e due allo stesso momento. Tu non ti preoccupare, da’ il seno a chi vuoi, a una
sola condizione: che non sia mai lo stesso!

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Bustine tonde per il the

Quando ci sentiamo, Umberta mi chiede sempre: e come vanno le bustine per il the?
Le raccontavo, infatti, di questo progetto di nuovo libro e che avevo in mente di
cogliere spunto da alcuni piccoli eventi quotidiani, dei flash, appunto. Per esempio,
dicevo, l’altro giorno ho fatto la spesa al supermercato e avevo preso una confezione
in offerta di bustine per il the. Non ci avevo fatto molto caso ma, tornata a casa, mi
sono accorta che le bustine non avevano la solita forma quadrata ma erano tonde. Da
qui, ho capito dopo, l’offerta, era un lancio. Lancio di bustine tonde, e perché mai?
Ragionavamo, con Umberta, ma perfino le bustine per il the devono essere private di
spigoli, quasi dovesse essere eliminata ogni minima rudezza, tutto farsi rotondo,
inoffensivo?
Così le auto, così il toast, sfuggiamo gli spigoli un po’ dovunque. E ancora, sfuggiamo
le asprezze. Mi diceva un dentista che i bambini di oggi hanno un palato che si
restringe perché non sono più abituati a masticare cibi duri. Penso alla crosta di
parmigiano che, resistente e sapida, davamo ai piccoli per alleviare il tormento dei
dentini che spuntavano. Mi accorgo dei mille e più accorgimenti che nel vivere
quotidiano ci sollevano dalla fatica più banale, telecomandi per non alzarsi a cambiare
canale, per non scendere ad aprire il cancello, per non dover azionare l’interruttore del
ventilatore. Preoccupazione da moralista? No, non inneggio certamente alla fatica, non
ho nostalgie pre industriali, ricordo il bucato steso sui campi ma ritengo la lavatrice
una benedizione e la luce delle candele un gioco romantico. Amo il computer, l’email,
trovo affascinante questa ricerca scientifica che si moltiplica in rivoli inimmaginabili
solo ieri, mi appassiona e mi incuriosisce l’avventura che esplora spregiudicatamente.
Solo, mi mette in pensiero un messaggio complessivo che ne risulta, di una protezione
da qualunque sforzo come dovesse essere risparmiato a persone troppo deboli e
delicate che non lo sopporterebbero. E ho l’impressione che i ragazzi di oggi siano
espulsi dal loro stesso corpo, che non vi abitino più.

Provo a spiegarmi. All’anoressia e alla tossicodipendenza, con cui conviviamo ormai da


decenni senza, mi sembra, averne saputo cogliere pienamente il segnale, si stanno
aggiungendo fenomeni integrativi come il tatuaggio, il piercing e, più drammatica,
l’automutilazione. Come dire, che, oltre agli abituali comportamenti che sanciscono il
gruppo come referente fondamentale dei ragazzi, il vestiario, il linguaggio, gli amori
per musica e tecnologia, c’è anche un uso del corpo che sta diventando se non
preminente molto rilevante. E il corpo viene raggiunto dall’esterno e attraverso il
dolore. Questo mi preoccupa e mi allarma. Come se i ragazzi dovessero ritrovare il
loro corpo principalmente per come appare e come se l’ingresso a questo corpo fosse
permesso solo infliggendo sofferenza. Non la sofferenza interna che si esprime nel
corpo ma la sofferenza che informa che il corpo c’è. Scarnificando una ferita,
impedendole di cicatrizzarsi e di guarire, procurandosi attraverso il dolore una
percezione certa dell’esistenza. Una bella descrizione dell’invadenza materna è il
famoso scambio di battute fra madre e figlio: metti un golf che prendi freddo, ma io
non ho freddo, ti dico che fa freddo! L’insegnamento originario a non fidarsi delle
proprie percezioni che sono fallaci, insicure, meglio, molto meglio fidarsi di quelle
materne, lei lo sa. Analogamente, i ragazzi che mi dicono: chiederò a mio padre che
cosa scegliere all’università, lui mi conosce. Un giovane, un giorno, mi diceva
addirittura che avrebbe sottoposto la scelta della sua compagna al padre perché “lui
sa che cosa va bene per me”.

Certo, c’è anche la cura del corpo, diete, ginnastica, body building, stretching eccetera
ma anche qui è forse più accentuata l’attenzione a modellare dall’esterno il proprio

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corpo forzandolo a un modello desiderato piuttosto che ad abitarlo dall’interno e
sentircisi dentro, padroni e protagonisti. Soccorre, spesso, il rivolgersi a dottrine e
discipline di carattere mistico o religioso. Yoga, massaggi shiatsu, meditazioni, arti
marziali, una ricerca dell’Oriente che non mi sembra più quell’avidità iniziale di
conquista e di conoscenza che comunque veicolava un messaggio vitale. Ora, forse mi
fa velo l’età, ma sa più di rifugio, di protezione, di riparo, assieme ad altri,
aggiungendo il proprio corpo al corpus della disciplina. Evitando, con il prevalere del
bianco, pensieri e comportamenti rossi o altrimenti colorati, emozioni dissonanti,
crude, aspre, in qualunque modo forti che vengono come dissociate, dimenticate al di
là del lucente plexiglas dell’armonia. Sì che non stupisce l’insorgere di quelle che i
giornali chiamano improvvisi raptus di violenza. Uno skin head era un buddista
fervente, un animalista militante venne un giorno a raccontarmi scandalizzato di aver
raccolto un piccione ferito, di averlo curato ma se prendeva chi lo aveva ferito lo
avrebbe ammazzato. Ma la misura delle proprie emozioni, dell’articolazione e
dell’interazione fra diversi pensieri, della scelta conflittuale è profondamente
connaturata al corpo. I piedi enormi degli adolescenti, quelli che ancora non si sono
accorti di avere, che sono cresciuti all’improvviso e che li fanno inciampare
letteralmente a ogni piè sospinto, sono anche strumenti di misura con cui valutare le
dimensioni del mondo. E così le trasgressioni devono poter essere calibrate,
governabili, proprio per permettere l’apprendimento della misura che traghetta verso
l’età adulta, premiando l’eccesso adolescenziale e dandogli spazio senza impedire il
graduale accostarsi a una crescita compiuta. Una cosa è rubare il sellino di una
bicicletta (deplorevole ma una ragazzata su cui sorridere) tutt’altro ritrovarsi
improvvisamente con un coltello in mano nel cortile della scuola. E constatare che
quella ragazzina, compagna di scuola, ormai è morta, ferita da quel coltellino come
avesse agito da solo. Un conto è prelevare dal portafoglio dei genitori, tutt’altro
doverli uccidere. Sì che continuiamo con angoscia a sommare vite giovani interrotte e
stravolte, faccette lisce trascinate in galera, come stordite da eventi strani, ragazzi
invecchiati prima ancora di essere diventati adulti. Non so se sia la strage degli
innocenti, non abbiamo bisogno di trovarli innocenti per rivendicare i nostri figli.

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Come mi vesto oggi?

Diceva il titolo di una commedia teatrale di qualche tempo fa: Sta arrivando la
rivoluzione e non ho niente da mettermi. Non è un caso che fosse una donna, e
spiritosa, a interpretare la pièce, un uomo avrebbe indossato virilmente gli abiti di
sempre. Forse, chissà, il pensiero maschile che ha informato di sé un periodo così
(esasperantemente) lungo, potrebbe iniziare a lasciare il passo a un pensiero di marca
femminile. Non femminista, che ne è stata l’edizione militante, appassionata e
innovativa ma che, nonostante l’entusiasmo travolgente della sua stagione, è risultata
nei fatti sostanzialmente sterile, incapace di radicarsi nelle generazioni successive. No,
femminile, un pensiero della donna che non nasca da una reazione o contrapposizione
a quello dell’uomo ma prenda le mosse semplicemente da sé. Magari, e perché no?,
riassumendo come propri caratteristiche o spunti che ci sono stati usati contro per
millenni. Senza negarli ma indagandoli come propri.

Da sempre, ad esempio, ci viene rimproverata la doppiezza, l’incoerenza, l’abilità di


mentire, cui risalirebbe la nostra scorretta capacità di attrarre e sedurre. Eterno
femminino, dicono, e dichiarano incomprensibile il nostro modo di fare in quanto non
logico, non razionale, istintivo, uterino. Ma come ragioni?, si spazientiscono
intendendo: perché ti rifiuti di ragionare? se, nell’argomentare, ci si discosta da una
linea tracciata (non vien detto lineare un ragionamento che convince?)
giustapponendo magari un frammento di un’altra disciplina come esempio o
suggestione di pensiero. Non divagare, non confondere le acque, resta al tema, mi fai
perdere il filo. E, anche, l’insofferenza per quel tipico stile femminile di pensare
contemporaneamente a più di un problema o di un progetto. Che, se lo fa Napoleone
dettando sette lettere allo stesso tempo o un giocatore di scacchi che governa venti
tavoli in contemporanea, allora si parla di genio, di mente superiore. Se una donna
mentre si reca al suo studio compra il pane o allunga il percorso per portare a scuola
dal figlio il certificato di vaccinazione, se uscendo per andare al cinema si ferma in
tintoria, questo le sembra un modo pratico di rispondere a necessità che, per essere in
sé varie, non pretendono, però, di essere incompatibili. Il suo compagno non avrà più
che tanto da dire a patto di non essere coinvolto, al massimo nella funzione,
eventuale, di autista passivo, tollerante con cristiana rassegnazione, ma provate a
chiederlo a lui di ritirare un pacco che è di strada per il suo lavoro, di alterare sia pur
di poco l’itinerario su un’esigenza improvviso, di fare una sosta non prevista, di
modificare una sequenza in corso: si confonde, si infastidisce. Non per la cosa in sé
ma per la repentinità della richiesta, per il suo non essere stata programmata,
preannunciata.

Ora, al di là degli screzi minuti e tutto sommato talmente scontati da ricamare sempre
gli stessi ghirigori sulle riviste, potrebbe essere che il modo femminile di pensare
contemporaneamente più registri, di guardare al mondo con occhi come di mosca sia
anche un vantaggio, un’opzione di un qualche interesse? Potrebbe essere che il
ragionare saltando di palo in frasca, come si dice, sia anche un diverso modo di
stabilire delle connessioni, di sperimentare accostamenti inediti? Si possono,
insomma, cucinare le melanzane o i peperoni con la cioccolata, come in certi piatti
straordinari meridionali o sudamericani? Anche quando si ragiona, anche quando si
discute? L’accostamento imprevisto deve essere apprezzato (o tollerato) solamente in
ambito artistico? Siamo sicuri che la razionalità voglia essere coniugata solo con
discorsi che filano, con percorsi che partono da un punto dirigendosi schiettamente
verso una conclusione lì davanti?

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Perché mi sembra che anche noi donne condividiamo, nella sostanza, questa idea, che
il pensiero, quello vero, è solo di marca maschile, lucido, lineare, dimostrabile. Alle
signore la funzione di renderlo vivibile, sopportabile, addolcendolo con affettività e
fantasia. Ma andiamo, non sembrano delle grosse sciocchezze? Veramente ancora
pensiamo che razionalità sia una linea di ragionamento e non, magari, una rete che
abbraccia uno spazio tracciando connessioni e articolandole verso il vuoto, veramente
ancora pensiamo che occorre ripartire ogni volta dal dato storico per intravedere che
cosa vogliamo pensare dell’oggi e del domani, veramente il senso di un futuro che non
c’è è custodito nei pensieri di un tempo passato? Veramente, insomma, crediamo
ancora nella distinzione fra razionalità e fantasia, pensiamo che il giudizio non debba
essere contagiato dall’emotività, valutiamo ancora indispensabile un’obiettività di cui
per tutta la nostra vita abbiamo verificato l’inconsistenza? Ancora distinguiamo fra
materie scientifiche e umanistiche?

Penso che sì, penso che ancora siano questi i nostri riferimenti, sento le donne con cui
lavoro (donne grandi e belle, studiose, docenti, imprenditrici) asserire con certezza
che il pensiero è maschile, qualcuna mi ha detto che sente maschile anche l’utero.
Penso che facciamo fatica a immaginarci responsabili in proprio di ciò che pensiamo e
vogliamo, penso che non sentiamo il diritto di intrecciare liberamente riferimenti
culturali prelevati da ambiti differenti, penso che abbiamo timore di uscire da
categorie che sentiamo consunte ma che, pure, in altri tempi, hanno garantito
sicurezza e stabilità. Penso che ci protendiamo a sfiorare il bordo dell’oggi agganciati a
forme di pensiero di cinquant’anni fa, incapaci di scioglierci, forse nel timore di
perdere il senno. Abitiamo il nostro tempo come turisti, cercandovi con ansia i
riferimenti di ciò che conosciamo già, incapaci di esplorarlo con generosa e
spregiudicata curiosità: rattrappiti fra l’ansia e la nostalgia, aspettiamo di ritornare nel
conforto di una casa che non c’è più. Ma che continuiamo a raccontarci, coprendo il
mondo reale con la diapositiva della nostra infanzia custodita e sicura. Donne e
uomini, stretti nel ribadirci l’un l’altro la certezza che abbiamo ragione, infelicemente
raccolti in una stasi che scambiamo per fermezza nel tentativo disperato di evitare
l’infelicità.

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Comprare un bambino?

Beh, per noi del ricco primo mondo queste sono frasi che sconcertano e
scandalizzano: andiamo, un bambino, un essere umano, non ha prezzo, non deve
averlo, non può averlo. E chi fa di queste cose è persona inqualificabile, anzi, signora
mia, proprio non riesco a comprendere come una madre possa vendere suo figlio!
Posso capire il desiderio generoso di dare una famiglia, di donare un po’ di gioia a un
piccolo sfortunato ma vendere un figlio, come mai si può farlo?

Come ci è facile definire con nettezza colpe e doveri, come facciamo in fretta noi giusti
a stabilire le norme di una convivenza civile, di più, pienamente democratica. Come ci
è tutto chiaro, fortunati noi. Ma ora non mi interessa tanto ripercorrere il quadro
notissimo e dolente della sopraffazione violenta e spietata sui più deboli da parte di
chi, come noi, ha la forza per farlo: piuttosto vorrei cercare di cogliere quel confine
sfuggente che segnala il limite fra diversi livelli e contesti logici sì che un’azione
impossibile da immaginare ad un livello si propone come sensata a quello adiacente o
solo un po’ più in là. Ponendo serissime questioni di etica che, scacciata da un
contesto, si ritrova pellegrina nell’altro. E torniamo pure a una adozione, prescindendo
per un attimo dalla realtà spaventosa del commercio, della pedofilia, dei piccoli
disarticolati per fornire organi freschi a degli altri bambini. No, pensiamo per un
momento a una coppia (più politicamente corretto non si può!) magari affiatata,
magari anche benestante che sinceramente desidera un figlio in casa e desidera dare
una casa a un figlio altrui. Organismi, associazioni internazionali, enti pubblici e
privati, ce ne son tanti, la normativa nell’intento di farsi sempre più rigorosa va
acquistando una pesantezza burocratica che, nell’idea di prosciugare l’illegalità, rischia
di suscitarla nuovamente.

Occorre tempo, molto tempo, esami, denaro, disponibilità: per un figlio si fa, si deve
fare. Secondo criteri che fatalmente rischiano di trasformarsi in un prolungato e
ripetuto giudizio moralistico sulla tenuta dei due che vorrebbero diventare genitori:
bisogna meritarselo, è un premio grande, non lo si può vincere gratis. Forse innestato
dalla necessità di un iter controllato nei dettagli, forse originato autonomamente dal
contesto sociale, c’è il pensiero che senza lacrime e sangue non si va da nessuna
parte, che tutto va pagato nella vita, che ciò che si conquista a fatica è la conquista
più bella, l’unica che vale. Sì che la donna che partorisce con un sospiro in due ore
non si sa bene che madre poi sarà, meglio, molto meglio quella che si è squartata in
lunghissime ore se non giorni di travaglio. E vuoi mettere l’amore che sapranno dare a
un bambino due che sono passati attraverso una trafila estenuante, senza cedere,
senza titubare mai? Basta guardare quante ragazze un figlio ce l’hanno avuto e lo
danno via, questa gioventù d’oggi. Talvolta accade perfino che il desiderio di chi vuole
adottare un bambino venga rinfacciato come una accusa infamante. C’era una coppia
giovane, sana, ben amalgamata, con un buon lavoro sia lui che lei, l’assistente sociale
chiede: dunque perché mai cercate un’adozione? E alla risposta, per completare una
vita già più che soddisfacente, c’è un inalberarsi stizzoso che si riflette in una
relazione tecnica negativa, figuriamoci se un bambino deve servire a completare la
vita di questi due, un bambino è ben altro. Qualunque desiderio può essere capovolto
in un bisogno, qualunque bisogno può indurre compassione solidale o rifiuto
moralistico. La coppia che si sottopone alla cosiddetta fecondazione assistita ha diritto
alla compassione solidale ma è bene che soffra un po’, che non abbia successo subito,
vorrà più bene e meglio al figlio che finalmente arriverà. Pagato, in denaro, ansia,
sofferenza, delusioni, sconforto, tenacia. Pagato come equivalente di meritato.

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Mi sa che noi in Italia abbiamo un rapporto con il denaro che non è poi tanto
trasparente. Non abbiamo una tradizione di benessere consolidato che ci abbia
permesso di sviluppare un’idea alta del denaro, la persistenza di un cattolicesimo
disgiunto dall’evoluzione socio culturale rattrappisce il nostro pensiero sul denaro in
una dicotomia immota: sterco del demonio e contemporaneamente segno di successo.
Ma, nonostante le lotte operaie e l’affermarsi del lavoro come elemento costitutivo
della persona (perfino per le donne, anche se non è ancora chiaro se hanno
un’anima!) il denaro guadagnato non riesce a cogliere lo status del denaro ricevuto
dagli avi. Il denaro guadagnato serve a essere speso per vivere ma è contingente, non
ha un valore che si rifletta sul proprietario. Siamo ancora impregnati di una mentalità
da sudditi, affascinati dal potere del signore o signorotto che sia, il denaro, certo lo
usiamo ma non ci può garantire il riconoscimento di uno status sociale effettivamente
alto. Abbiamo ancora nell’orecchio l’adagio che ogni grande fortuna prende origine da
una sopraffazione e da una violenza di rapina eppure i signori restano signori, lor
signori ci sono ben noti se possiamo irriderli nella satira sociale. E ai signori
guardiamo, perché sono colti, sono raffinati, sono snob, mettono l’orologio sopra il
polsino come faceva Gianni Agnelli, loro, i signori, sì che sanno come si vive. Allora,
per noi che non possiamo, al denaro che dà status contrapponiamo gli affetti,
l’affettività. In un eterno gioco di pendolo, le classi sociali si evolvono, i figli studiano,
impariamo a stare a tavola, a non fare chiasso, le nostre mani si affinano così come il
nostro linguaggio. Ed è allora che andiamo a cercare la spontaneità, la naturalezza, i
bambini che giocano facendo rumore, la bellezza di un parlare non artificioso, il vestire
senza ricercatezza. Ma lì, il denaro deve essere poco, la sommatoria con gli affetti
deve restare a somma zero, quantità inversamente proporzionali. Perché anche i
signori possono amare, ma in modo composto, possono soffrire ma con il contegno
adeguato. Siamo noi al di fuori del giro stretto di quelli che contano che possiamo
abbracciare con foga o strillare o ridere, noi un tantino dozzinali oppure quei popoli
magari colorati di scuro o di giallo che usano manifestare rumorosamente le loro
emozioni, che si strappano i capelli o le vesti sulla bara del figlio o che danzano
chiassosamente alle feste. Forse è anche per quello che si finisce per far loro guerra,
per insegnar loro a vivere portando la cultura e a democrazia. Perché comunque, è
stato detto, ciascuno ha i suoi meridionali.

Forse, chissà, la nostra insofferenza verso una corretta e lucida meritocrazia, la nostra
abilità nel confinarci nei poli sicuri e noti della compassione e dell’ammirazione
invidiosa, la nostra incapacità di coniugare il successo con simpatia, semplicità,
spontaneità e affettività cordiale si innesta sulla goffaggine imbarazzata del rapporto
con il denaro. Scrive Angeles Mastretta, in “Puerto libre” (Giunti, Firenze, 2000):
“Colpa salariale. È un senso di colpa frequente fra gli scrittori. Per chissà quale motivo
il mondo ha sempre creduto che gli scrittori esistano per regalare, e credendolo il
mondo intero l’hanno creduto anche gli scrittori, che se c’è una cosa a cui si dedicano
anima e corpo è proprio nel credere al mondo. Così gli dispiace farsi pagare. (...)
Anche perché la gente ti guarda in modo ostile e diffida degli scrittori che si fanno
pagare per fare il proprio lavoro. (...) È un senso di colpa irresolvibile, pertanto
raccomando a chi ne soffre di cercarsi un amico generoso che assuma formalmente il
ruolo di agente, capace di farsi pagare in sua vece.” Mastretta è spiritosa ma quante
volte incappiamo in questo laccio? E noi che facciamo questo mestiere, quante volte ci
siamo sentiti dire la difficoltà di pagare una relazione di sostegno, intrisa d’affetto e
d’impegno intelligente? E veramente mai vi siete sentiti a disagio nel farvi pagare? A
sentirvi chiedere se, oltre all’impegno professionale, per cui vi si paga, siete
interessati anche personalmente alle sue vicende? Oppure, all’opposto ma in finale è
la stessa cosa, quante volte avete pensato di essere pagati una miseria dal vostro
ente o associazione per quel prezioso contributo che date? Nei sacri testi sappiamo

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bene come e che cosa dobbiamo pensare e provare ma poi, nel rapporto diretto...Mi
viene in mente un notabile milanese che diceva di sua moglie che faceva sì la
psicoterapeuta ma la faceva gratis perché era d’animo molto buono! Ho rabbrividito e
ci siamo salutati, spero che alla signora almeno vadano molti gioielli e serate alla
Scala.

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Elogio dell’apparenza

L’apparenza non ha una buona stampa. Generalmente la si cita per contrapporla alla
virtuosa “verità” dell’essere, è divenuta sinonimo di menzogna, impostura,
travestimento. Cerchiamo di capire una persona o una situazione “al di là delle
apparenze”. Come dire che la persona o la situazione vanno spogliate, private dei
modi in cui si sono mostrate così da poter attingere la loro vera realtà, per definizione
opposta o quanto meno fortemente divaricata dalle apparenze, appunto. È un
presupposto così abituale da non venire nemmeno più sottoposto a una qualsivoglia
critica, è, invece, un atteggiamento mentale che sembra fondare primariamente
l’etica. Come tutti i luoghi comuni, mantiene un nocciolo di senso, ovviamente, eppure
a me suona come indizio preoccupante di fondamentalismo.

Presuppone, infatti, la necessità di un voyeurismo impudico e violento che attraversa


la persona di fronte a noi per coglierne, senza il suo permesso anzi esplicitamente
contro la sua volontà, un interno segreto da svelare e da esibire con soddisfazione.
Nel nostro tempo, stiamo smarrendo la distinzione fra segreto, discrezione,
riservatezza, pudore. Un ragazzo mi racconta di un sogno in cui inorridisce perché si
accorge che suo padre lo sta guardando mentre si sta masturbando. Gli chiedo se
l’orrore è perché è il masturbarsi in sé che è denuncia di colpa o di vergogna o perché
masturbarsi è un fatto privato che un occhio esterno disturba e stravolge. È lui in
colpa perché si masturba e l’occhio del padre lo coglie in fallo o è il padre indiscreto e
violento nell’intromettersi in un momento tutto suo? Ricordate? Diceva quel
benedettino che ci sarà sempre tortura nel mondo perché ci sarà sempre una madre
che vuole sapere che cosa c’è nel cuore di suo figlio. Anche la presenza dei bambini in
una seduta di terapia familiare può essere usata per svelare il segreto degli adulti,
segreto colpevole in quanto segreto prima ancora che per il suo contenuto, spesso
minimale e per nulla drammatico. E anche questa è violenza. A fin di bene? Beh,
fermiamoci un attimo a discuterne, il ruolo sociale del terapeuta non coincide
automaticamente con un secondino da “1984”, non è così scritto e scontato che
l’esercizio della cosiddetta terapia debba soprattutto essere orientato a scoprire,
svelare, capire, portare alla luce. Direi, invece, che la svolta grande dell’ottica
sistemica è stata il suo attestarsi su ciò che appare, sembra, scostandosi con forza da
quell’implacabile “è”. Il suo mostrarsi con un comportamento che la fa sembrare una
schizofrenica mi induce a pensare che, mi chiedo il senso del suo sciopero della fame
che le ha reso il corpo come fosse di un’anoressica, questo era il modo di costruire i
commenti in una seduta di taglio sistemico. Poi, nel tempo, anche i bravi sistemici
hanno tagliato qua e là semplificando i passaggi, ritrovando la consolante stabilità del
verbo essere e dando origine a una penosa nuova diagnostica in cui esistevano le
famiglie psicotiche, quelle resistenti, quelle difese, quelle con componente anoressico,
handicappato, tossicodipendente. E l’apparenza, chiave di volta del modo di guardare
alle persone, è rapidamente ritornata a farsi velo della migliore, splendente verità. Da
catturare un po’ a qualunque costo per poi usarla nell’intervento finale, salvifico in
quanto capace di redenzione. Stiamo mostrando al sistema la vera struttura che lo
tiene insieme, non potranno che trarne cambiamenti rilevanti e, se non lo faranno, si
dimostreranno resistenti, indisciplinati, ribelli. Toccherà, al caso, essere ancora più
fermi.

È interessante che anche negli incontri di formazione in PNL (la programmazione


neurolinguistica è una tecnologia della comunicazione) dove si viene soprattutto per
imparare a leggere i segnali espliciti, dichiarati, ben visibili dell’atteggiamento
corporeo, della mimica, della gestualità, del tono della voce, delle caratteristiche

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minute del comunicare, anche lì si ritrova l’atteggiamento indagatorio cui l’altro tenta
di sfuggire nel gioco più abituale. Ad esempio, si vuole apprendere a cogliere il
movimento degli occhi quando si trascorre da un canale percettivo ad un altro,
quando, per intenderci, da tutt’occhi mi faccio tutt’orecchi per ascoltarti? Il
presupposto, noto e ripetuto, è di accorgersi dei segnali esterni che gli esseri umani
mandano verso l’interlocutore esattamente allo scopo di migliorare la comprensione
precisa di ciò che vanno comunicando. Dunque, sono segnali esterni affinché
l’interlocutore li possa cogliere agevolmente, basta addestrarsi ad accorgersene. Tu
mandi i segnali, io li colgo, io sono ok tu sei ok? Neanche per idea, immediatamente
quello i cui segnali devono essere osservati si irrigidisce tentando di trattenere il
movimento degli occhi mentre l’altro gli sta addosso per coglierli, questi benedetti
segnali, anche se lui cerca di frenarli e poi esplode: li ho visti! Come fosse una vittoria
non assieme all’altro per un esercizio di formazione ma sull’altro di cui ha violato il
segreto. Tristissimo. Neanche si trattasse di uno scoop che coglie la diva seminuda
(ma non deve guardare nell’obiettivo, se no non vale perché sarebbe voluta, la foto! Il
gioco crudele di mostrare senza veli, da talebani capovolti).

L’apparenza è il fulcro della convivenza civile, come ci si veste, come ci si comporta,


come si parla, come si gestisce. È il tratto che caratterizza la cultura, è lo scarto che
custodisce la libertà, articolata e bilanciata fra me e gli altri. Le regole sociali sono
esattamente la struttura della convivenza ma sono regole che normano l’apparire, il
come non il che. Ciascuno di noi nel corso della sua giornata e della sua vita intera
sceglie quanto, in che misura e come adeguarsi alle regole e quali interpretare e quali
trasgredire. Per come vogliamo essere colti. Sono segnali che costruiamo con
attenzione, dedicandovi molto tempo, perché mai dovrebbero essere dispersi con
tanta noncuranza se non disprezzo? Perché deve essere quasi un obbligo svalutare
come strumentale la motivazione di chi ci chiede un aiuto attendendo di venire a
sapere in seguito la “vera” motivazione? Perché non accogliere senza riserve
l’abbigliamento di chi ci si presenta davanti come un suo manufatto che le appartiene?
Perché andiamo subito a cogliere il particolare che le è sfuggito? Diciamo che ha un
comportamento “artificioso”, “voluto”, ma il nostro tono accogliente, il modo di gestire
che abbiamo educato nel corso di lunghi anni, correggendolo con formazioni
estenuanti, costose e spesso non prive di dolore, quello non è “voluto”? il nostro modo
di tenere la relazione, di valutare se, quando e come intervenire, il nostro modo di
vestire o di arredare lo studio, non sono stati “voluti”?

Certo che sì. Quando avevo diciott’anni, prendevo l’autobus presto la mattina per
andare a lezione all’università. Era inverno, faceva freddo, eravamo tutti un po’
insonnoliti. Un giorno, per caso, il bigliettaio mi sorride, dandomi il biglietto. Mi era
piaciuto, era come un buongiorno che alleviava la pioggerella fitta. Sorrido anch’io,
passo oltre ma mi resta in testa. Se mi è piaciuto e ho risposto al suo sorriso, potrei
provare a provocarlo, il sorriso. Potrei. Il giorno dopo, chiedo il biglietto sorridendo e,
funziona! Il bigliettaio me lo porge sorridendo. Aggiungo il buongiorno, anche lui
distende il viso. Da allora, ho cominciato spesso a iniziare un rapporto con un sorriso:
con la commessa, in farmacia, alla cassa del supermercato. E in genere rende più
agevole l’incontro. Dunque costruiamo e sfruttiamo un nostro modo di apparire per
ottenere gli obiettivi che vogliamo ottenere? Certamente. Ma questa non è
manipolazione? Certo che lo è, ma perché un chirurgo che esercita l’agilità delle dita
per manipolare al meglio è un bravo professionista e chi usa la parola e la
comunicazione in senso lato deve essere “spontaneo”? Forse che non abbiamo
imparato a camminare esercitandoci fino a trovare il “nostro” passo? E non abbiamo
fatto analogamente per la calligrafia o per lo stile del nostro vestire? Bene, ora ci
appartengono, li abbiamo voluti esattamente così per poterli usare. Altri dettagli del

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nostro apparire sono ancora preda di lavori in corso perché una vita ci vuole una vita
per viverla. E per farne ciò che vogliamo, per come ci è possibile. È attraverso la cura
dell’apparenza che veicoliamo agli altri i nostri pensieri, le nostre emozioni, i nostri
obiettivi, le richieste e gli amori.
In un seminario, un ragazzo ha ribattuto con pazienza tollerante: ma, vede, io sono
abituato a essere più attento al contenuto che alla forma. Penso ancora che chi è
veramente attento al contenuto e veramente se ne preoccupa, si prende molta cura
della forma con la quale trasmette il suo contenuto. Affinché arrivi con la miglior
sicurezza, con la tenera cura di chi incarta un regalo. E se avvolge un gioiello in carta
di giornale, l’ha voluto. Quanto se usa la più nota carta scintillante.

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Figli e figliastri

Dal cucciolo quando è in culla via via nel corso degli anni tutti quanti, genitori, parenti,
educatori, riviste e specialisti, siamo lì ad ammonire: attenzione, il bambino deve
poter crescere sereno, attenzione, il mondo attorno a lui deve mostrarsi un luogo
sicuro, attenzione, non litigate davanti a lui, non tenetegli il broncio la sera che non
vada a letto turbato, l’acqua del bagno sia giustamente tiepida, il purè non scotti
troppo, la maglietta a pelle sia di fibre naturali e la merendina ecologica. Attenzione,
un bambino che ha visto violenza sarà un adulto violento, un bambino deve sorridere,
ridere, giocare, spensierato e con le guance arrossate dalla gioia. È evidente per
ciascuno quanto effettivamente la serenità fiduciosa di un piccolo ci rassicuri e ci dia
pace, quanto sia una carezza per un momento di pena o una tristezza, i “pensieri”
degli adulti sono alleviati da una gioia infantile, la fronte si distende, un sorriso
emerge quasi senza permesso, le spalle si allentano atteggiandosi all’abbraccio. Così
anche sappiamo profondamente come sia struggente assistere al dolore dei più piccoli,
come sia una tensione difficile da sopportare l’impotenza a consolare, distogliere,
mettere in fuga, scacciare la pena da quel faccino, da quel corpo contratto.

Tutto ciò è un’esperienza ovvia per ognuno, tutti conoscono la fatica e l’impegno degli
sforzi educativi, le cineserie più o meno arzigogolate sull’allevamento dei figli, i
convincimenti più fervidi smentiti peraltro inesorabilmente dalla scortese realtà
quotidiana. Poi, miracolosamente o misteriosamente, questa congerie di intenzioni,
comportamenti, eventi, scatti e affetti si risolve prendendo forma e i figli si presentano
al mondo come persone. Imprevisti e scontatissimi, i lineamenti si assestano, i
movimenti si sciolgono in un’andatura propria, il pensiero vola autonomo intessendo
frammenti di storia patria in configurazioni inedite, i momenti educativi decantano in
un bouquet sconosciuto. Di queste persone, vibranti, incerte, divertenti e sconcertanti,
mi sembra si possano distinguere due tipi, generici più che generali: quelli che calcano
il terreno della vita e del mondo come signori della terra e quelli che ci si aggirano
come immigrati. Figli e figliastri, amati e non amati? Non è così semplice. Credo che
oltre i doverosi tributi al rapporto con i genitori vada considerata anche una qualche
caratteristica primaria che con il rapporto familiare si fonde e si confonde, qua
rafforzando, là smentendo l’intreccio relazionale. Ma soprattutto, prescindendo da
faticose e ingombranti teorizzazioni o considerazioni sull’origine e la formazione del
carattere, mi sembra interessante tentare di cogliere il diverso approccio all’esistenza
dei due gruppi.

Ci sono i figli che si affacciano al mondo attendendo di essere giustamente e


ovviamente incoronati. Certi dei loro diritti ad esistere e ad essere soddisfatti, si
interrogano sul perché mai le cose non vanno come dovrebbero, anzi come devono. La
sicurezza del loro status li fa guardare direttamente negli occhi, anelanti di cogliere il
loro tempo, di identificare il posto nel mondo che spetta loro, si innervosiscono di
fronte alle difficoltà, non perché non siano capaci di affrontarle ma perché le
considerano impacci noiosi che impediscono il passo. Hanno un compito da svolgere e
sono impazienti di attuarlo, trasmettono un radicamento forte e indiscusso, vogliono e
sanno pretendere, saprebbero come organizzare le cose al meglio se solamente si
desse loro ascolto. Competenti e certi del fatto loro, chiedono solo di essere utilizzati
per poter fare, sanno di aver ragione e si disperano se gli altri non capiscono o non
condividono. Non tanto perché siano presuntuosi ma perché sembra loro così evidente
e indiscutibile la realtà dei fatti che è un peccato non coglierla e si affaticano a
predicarla. Per il bene di tutti. Credono nei valori, pressanti e costringenti nei confronti
degli altri, comunicano una assertività forte e rassicurante con cui talvolta ci si trova a

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combattere ma che, pure, si allarga e si diffonde ad abbracciare l’interlocutore. Il
sogno di tanti genitori è poter contemplare dei figli così, sicuri, fattivi, nati su di una
terraferma di latte e miele, capaci di cercarla ancora e ancora, continuamente. Il
dubbio esistenziale li sconcerta e li turba, inserisce un tempo fastidioso di sospensione
in cui non si può operare, l’intelligenza brillante tollera poco l’esitazione, l’incertezza.
Difficilmente disposti a collaborare in progetti non firmati da loro, sono capaci di
grandi generosità e impegno, entusiasti e fiduciosi. Le cose, basta dirle, sinceramente,
i problemi li risolvono, non se li creano, disposti a dare sempre una mano certi che a
loro pure verrà data e stupiti dolorosamente quando questo non accade.

Gli altri, immigrati senza permesso di soggiorno, studiano il mondo per apprenderne le
regole, per trovare l’iter giusto del riconoscimento. Ben consci della farragine
burocratica, conoscono l’attesa, si dedicano a scovare i modi di bucare l’indifferenza
dell’impiegato allo sportello, hanno tutto un armamentario di sistemi per catturare
l’attenzione dell’altro da cui dipende, in ultima analisi, la loro stessa sopravvivenza. Il
tempo introspettivo assai più lungo del momento dell’azione, abitano la solitudine
come uno stato normale, talvolta addirittura protettivo, impacciati e goffi, temono di
essere colti e scoperti in atteggiamenti o situazioni sbagliate che poi dovranno far
grande fatica a risanare. La loro cautela nell’esporsi richiede una lunga preparazione,
un addestramento a cogliere gli interessi dell’altro che può scivolare nella
compiacenza, attenti a ogni sussurro esterno, difficilmente permettono che vengano
amplificati i loro, di sussurri, senza averne controllato con cura l’editing minuzioso.
Affettivi e capaci di dedizione, appaiono come molto propensi a essere affiliati ma
l’appartenenza è per loro sempre temporanea, il pensiero corre per connessioni,
costantemente timoroso di una chiarezza definitiva. Cangianti e mutevoli, scelgono
con destrezza l’abito mentale più adeguato al momento, già sfuggenti altrove
nell’attimo successivo. Tanto disponibili quanto imprendibili, sostano nel rapporto e
non frequentano il mondo delle certezze, allevano e custodiscono le idee e i sogni
degli altri facendoli loro, cercando di continuo. Sono i figli accudenti che molti
vorrebbero, di una fedeltà duratura e infinitamente adattabile. Temono l’uso dichiarato
del potere, sfumano i termini, conoscono bene il piacere del successo ma non se ne
vestono attendendo che siano gli altri ad abbigliarli.

E allora? Allora, nonostante il disperato desiderio dei genitori, di tutti i genitori, non
c’è possibilità di esonero dalla paura e da dolore, qualunque sia il versante della
montagna la fatica è grandissima. I figli legittimi spesso si infrangono contro la
pervicace malvagità e inutilità che constatano attorno a loro, cadono in depressioni
profondissime di cui difficilmente riescono a fare esperienza durevole scattandone
fuori al più presto possibile, la loro certezza fa velo alla necessità di accordo e intesa
che sembra loro un umiliante accomodamento. Gli altri, con quel segnale persistente
di forse, chissà, si potrebbe, sono untori dell’incertezza, irritano e mal dispongono
chiunque cerchi di possederli, di inscriverli in un quadro preciso. Esperti del
rintorcinamento mentale, quasi si sgomentano se temono di trovarsi alla fine con un
documento ineccepibile di identità, evitando le conclusioni, i definitivi passaggi che
scandiscono un distacco ultimo. Ma ambedue i gruppi hanno capacità e competenze
preziose, ambedue riguardano all’altro con desiderio e nostalgia. I legittimi invidiando
la libertà svincolata che è propria di chi non ha nulla da perdere, la ricerca e l’utilizzo
di qualunque appiglio come risorse tipiche dell’economia di guerra, quella in cui le
donne si scambiavano ricette di cucina inventate sui poverissimi ingredienti disponibili.
Gli illegittimi scrutano con occhi da piccole fiammiferaie la sicurezza scontata di chi
chiede apertamente, afferma, presume l’assenso, va al confronto, gioca con valori
riconosciuti, saldo nella sua appartenenza; talvolta chiudono gli occhi nel timore del

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disastro ma, quando li riaprono, gli altri son lì, sani e salvi, forse inconsapevoli del
pericolo sfiorato o, forse anche, il pericolo poi non c’era.

Forse, chissà, nel corso della vita partiamo da una posizione del pendolo per cercarne
l’altra con oscillazioni che ci descrivono nel tempo e nello spazio. I figli legittimi
imparando dagli emigranti ad espatriare per assaporare l’insicurezza e cercare i modi
e le risorse di una sopravvivenza garantita, gli illegittimi accettando che certezza può
esserci, c’è. Intera, piena, appagante anche se fino a domani. Talvolta, accade, anche
a dopodomani.

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Foglie d’erba

Siedi un momento, caro figlio,


qui c’è biscotto per mangiare e c’è latte per bere,
ma non appena avrai dormito e indossato morbidi indumenti,
ti darò il bacio d’addio e ti aprirò il cancello per andartene.

Per troppo tempo hai fatto sogni spregevoli,


ora io ti detergo la cispa dagli occhi,
devi assuefarti al fulgore della luce e di ogni momento della vita.

Per troppo tempo hai sguazzato vicino alla riva,


timidamente reggendoti a una tavola,
ora voglio che tu sia un nuotatore spavaldo,
che ti tuffi nel bel mezzo del mare,
e torni a galla, e mi fai un cenno, e gridi,
e ridendo ti scrolli i capelli.

Ecco, questo brano di Walt Whitman, tratto da “Foglie d’erba”, me lo ha scritto anni fa
mio figlio, allora giovanissimo ora già padre a sua volta. Naturalmente conservo
ancora il foglio con la sua calligrafia ma il motivo per cui lo ripropongo qui, oltre alla
sua innegabile bellezza commovente, è perché vi si aggancia tutta una fila di pensieri
sulla scarsa capacità della mia generazione di lasciare vivere i nostri figli, di lasciarli
respirare. Forse, più brutalmente ancora, di lasciare loro uno spazio d’esistenza
autonoma, di tollerare che, come è nelle regole della vita, siano loro al timone e che il
nostro posto sia in secondo ordine, alle loro spalle. Pronti, se del caso, ad affiancarci
all’esigenza ma ben attenti a non sostare un attimo di troppo.

Certo, questa è questione di sempre, di ogni scarto generazionale, mi interessa solo


fissare qualche tratto di questo nostro specifico momento storico. La mia generazione
ha avuto delle opportunità incredibili, straordinariamente concentrate: ne accenno
qualcuna, pagando l’ovvio scotto della generalizzazione e dell’attenzione esclusiva alla
dimensione “borghese”. Siamo approdati all’uso della tecnologia potendola
contrappuntare con la conoscenza del latino, abbiamo vissuto la liberazione dagli
schemi di un’educazione rigida avendo già in dote i vantaggi della disciplina che ci era
stata imposta, abbiamo scoperto il diritto all’uso libero del nostro corpo, dai vestiti al
sesso, quando questo stesso corpo aveva già conosciuto un’infanzia protetta. Abbiamo
maneggiato coppia, famiglia, maternità quando ancora erano dei tarocchi ben definiti
nelle nostre mani, carte spesse che ci rilanciavamo con un’allegria entusiasta,
cercando accostamenti solo perché nuovi. Abbiamo avuto il mitico ’68, l’invenzione
della politica del privato, abbiamo visto le parole diventare reali, abbiamo attraversato
violenze, terrorismo, paura sconfinata, ci siamo sgomentati di noi stessi e forse,
talvolta, del potere che ci sembrava di avere prima di risentire appieno la persistenza
di certe regole, la pesantezza di certi ritorni. La terribile ripetitività dell’onda che torna
a riva.

Ma abbiamo vissuto. Con chilometri di errori e quintali di sbagli, come direbbe una mia
sorella, inciampando e scottandoci ma anche ridendo e sperimentando e discutendo e
pensando e imparando. Attraversando un tempo in cui parole e contenuti si beffavano
l’un l’altro sfidandosi reciprocamente a catturarsi con sempre nuove e diverse
invenzioni, abbiamo vissuto l’affermarsi della comunicazione, c’eravamo quando i

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confini si sono aperti improvvisamente sul mondo intero, dall’India al Vietnam
all’Ungheria a Praga.

Di questa stagione ci siamo nutriti fino a diventare oggi i gestori del nostro tempo,
professionisti, colti, quel tanto snob da poterci permettere di situarci nelle situazioni
più diverse, imponiamo la persistenza del nostro modo di pensare, di fare, di vivere. E
continuiamo a restare autoreferenziali, pecca che se si perdona ai ragazzi diventa
indecorosa nei cinquanta sessantenni. Come se volessimo ancora succhiare,
manteniamo ferma quella stagione, traghettandola con destrezza nello scorrere del
tempo che siamo noi a governare. Non solo nel senso che è logico siano quelli della
nostra età a tenere le fila, ma nel senso più malato che vogliamo restare noi i giovani.
Possiamo permettercelo, possiamo continuare ad imporre il nostro stile nel vestire,
l’attenzione al cibo e all’ambiente ci tonifica, perché mai ancora dover distinguere fra
generazioni? Siamo tutti giovani, purtroppo sono quelli che per età avrebbero diritto a
chiamarsi così che restano fuori dal gioco, che sembrano divertirsi di meno, che
sembrano più tristi, piegati da una sofferenza veramente esistenziale. Li abbiamo
privati di tutto, ci siamo impossessati, allora, della stanza dei giochi, ci è piaciuto
moltissimo e siamo restati lì, a presidiarla. E non li lasciamo entrare. Le madri che
vanno in palestra con le figlie scambiandosi gli abiti quando non i fidanzati, i padri
giovanili che fanno ginnastica e indossano i jeans, sempre sull’onda, brillanti
conversatori mentre i figli stanno al computer, capaci di mettere al mondo bambini più
piccoli dei nipoti. Perché no, si dice?

Penso che la nostra meravigliosa (e difficile, senz’altro) stagione sia stata


sostanzialmente sterile, come le sementi ogm, da nutrircisi ma incapaci di riprodursi.
La scoperta emozionante della politica sembra una pista che neanche noi troviamo
più, confusa nella sabbia. Il femminismo, che era sembrato un sentiero glorioso, pieno
di luce e di speranza, è restato nelle mani di chi l’ha vissuto allora, le nostre figlie non
sanno come maneggiarlo e i loro tentativi di inventarlo per loro vengono comunque
mortificati dalle nostre parole che li definiscono svuotandoli del valore per l’oggi. La
scoperta dell’uso libero del corpo si è stravolto in una generazione di giovani che sono
del tutto alienati dal loro corpo, lo portano in giro ma non lo possono abitare. Il
piercing come il tatuaggio come lo spaventoso fenomeno dell’autoferimento sono tutti
modi di ritrovarlo, questo corpo, di poterlo sentire, ma solo, sembrerebbe,
guardandolo o segnandolo per vederlo o percependone l’esistenza reale attraverso il
dolore.
Tossicodipendenza, anoressia, sempre in altalenante bilico e proteici più che mai ci
dicono che per la prima volta, forse, nella storia sono i giovani a suicidarsi. Nel nostro
tempo, fino al nostro tempo, i ragazzi difendevano la loro vita, anche e soprattutto
contro i grandi, genitori e non. Perfino nelle cronache nere gli omicidi fra generazioni
hanno un computo praticamente equivalente: madri e padri che uccidono i figli, figli
che massacrano i genitori e, con l’occasione, magari, anche la suocera e il cognato.

Quello che mi colpisce di più è questa impressione di aut aut: o loro o noi. Mi vien da
pensare che la loro tenerezza e il profondo amore che i giovani hanno per noi li
portino a risparmiarci, a togliersi di mezzo per proteggerci nella nostra illusione
drogata di una giovinezza permanente. Una ragazza racconta di come la madre le
abbia portato via l’innamorato ma lei non è arrabbiata perché, povera, se la mamma
lo desiderava! In questi decenni di lavoro clinico ho imparato come sia immutabile e
indistruttibile l’attenzione dei figli per i genitori, non saprei se pari a quella dei genitori
per loro ma certo è di una forza enorme. Non mi sembra impossibile che abbiano visto
lucidamente la nostra incapacità di fare gli adulti, di rendere nuovamente onorevole e

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bello e auspicabile il diventare grandi, adulti, responsabili. E che ne abbiano avuto
pietà. Sacrificando le loro esistenze affinché non fossero minacciate le nostre.
Non so se tutto questo sia utilizzabile, ma per favore basta con i ragazzi che non
hanno più ideali, che sono viziati, che sono insoddisfatti perché hanno tutto, che non
vogliono faticare per ottenere.

Mentre noi, alla loro età, facevamo il ’68.

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Forzati del cambiamento

Scrive Bateson, in “Una sacra unità”, (Adelphi, Milano, 1997), commentando


l’evoluzione del cavallo, anzi, meglio, della “relazione” fra cavallo ed erba, scrive: “è
curioso che tutto il cosiddetto progresso evolutivo sia stimolato dal bisogno di lasciare
le cose come stanno. L’erba cambia e il cavallo cambia e l’erba cambia e il cavallo
cambia e cambiano in modo tale che la relazione che li lega possa restare costante. E
in sostanza l’evoluzione è un vasto procedere di cambiamenti interconnessi, dove ogni
singolo cambiamento è uno sforzo per rendere non necessario il cambiamento (...)
Uno dei grandi errori della biologia di metà Ottocento fu quello di pensare che la
selezione naturale fosse una forza che spinge al cambiamento. Non è così: la
selezione naturale è una forza che spinge a lasciare le cose come stanno (...) Non
spinge a star fermi, vedete, questo non è proprio possibile. Se vogliamo star fermi
veniamo sorpresi, come Giobbe, con le brache calate, per così dire, e tutto va storto.”
E, dopo, “I cambiamenti di equilibrio superficiali sono in effetti la salvaguardia di
caratteristiche molto più profonde le quali è meglio che non cambino.”

Beh, il cambiamento è quello che si chiama croce e delizia dei terapeuti, lo vogliono,
lo devono ottenere, sigillo chiaro della loro efficacia professionale. È un po’ il
tormentone di ogni scuola o setta terapeutica, come indurlo, come verificarlo, quanto
durerà. Ma, pensavo, se si dice che plus ça change plus c’est la même chose, funziona
anche l’inverso? Si può immaginare che più le cose restano come sono più cambiano?
È questione di livelli logici? Sì, anche, certo, ma appunto perché si tratta di livelli,
occorre considerare con grande attenzione il livello cui può effettivamente accedere
l’osservazione del terapeuta, come connettere i cambiamenti superficiali, quelli che
salvaguardano l’immodificazione delle caratteristiche profonde, con la necessità del
terapeuta di verificare l’avvenuto cambiamento cui anela. Dò per nota la sterminata
letteratura sull’argomento, mi importa qui considerare la situazione del terapeuta, in
particolare se è proprio necessario volerlo, cercarlo, verificarlo, constatarlo. Se
potremmo anche prescinderne, evidentemente se questo risultasse più vantaggioso.

Perché, se è vero che non si può non cambiare, (è semplicemente impossibile, non ci
riusciremmo neanche provandoci allo stremo), se è vero che il solo fatto di vivere ci
modifica, sembra discenderne che anche nei confronti delle persone con cui lavoriamo
in terapia, singoli, coppie o sistemi che li vogliamo considerare, il cambiamento non si
tratta di indurlo ma di collaborare a governarlo. E già questa prima banalissima
osservazione potrebbe abbassare l’ansia, quando non addirittura il furore
interventistico che troppo spesso agita i terapeuti, un filo meno di onnipotenza e un
po’ più di serenità nel relazionarsi con l’altro. Quando incontriamo nuovamente il
nostro interlocutore, lo sguardo indagatore che cerca il cambiamento sfiora gli abiti, il
modo di gestire, il tono della voce, l’impostazione delle spalle, ricerca in ciò che ci
viene raccontato. E spesso, durante le supervisioni, sento lo sconforto in chi mi dice
come si confessasse: non è cambiato nulla, non è successo niente. Più precisamente,
mi sembra si possa ridefinire: non ho trovato traccia di quel cambiamento che mi
aspettavo. Come dire che non stiamo guardando come l’altro ha vissuto, e dunque si è
modificato, dall’ultima volta che l’abbiamo incontrato, non stiamo osservando l’altro
ma lo stiamo scannerizzando per confrontarlo con quello che avrebbe dovuto
diventare. A nostro giudizio, secondo quel che, grazie al nostro intervento, avrebbe
dovuto fare, porsi, capire, inventare. Sì che, come nel sempre presente letto di
Procruste, lo misuriamo non per sapere che cosa gli è successo e seguire il suo passo
ma per confrontarlo con un’idea, nostra, di quel gli sarebbe dovuto succedere.
Altrimenti, non siamo stati bravi, non siamo stati efficaci, abbiamo sbagliato.

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Detto così, sembra un monologo del tutto autoreferenziale, sto semplificando,
evidentemente, ma il punto è importante. Anche perché i cosiddetti pazienti in genere
sono molto cortesi con noi e si adattano con una certa buona grazia ai nostri desideri,
si stendono sul letto se si avvedono che è là che noi guardiamo in modo da poter
essere visti, si allungano o si restringono per non perdere il contatto con noi.
E noi ci rassicuriamo un po’, siamo stati utili, va bene così.

Forse, la questione si sposta sul livello del progettare per l’altro: se ci occupiamo di
qualcuno, è del tutto evidente che facciamo dei sogni per lui, che ci piacerebbe vederli
tutti belli, sani, allegri e fattivi, sicuri di sé. Questo sarebbe il cambiamento, no?
Certo, ed è questo su cui anche loro concordano che sarebbe una gran bella cosa. E
concordano perché l’accordo è sul loro star male, allora il cambiamento auspicato
sarebbe non stare più male. E qui c’è un passaggio indigeribile: non si può avere un
progetto siglato dal non, non più. Non è proprio possibile ottenere di non stare più
male, si può solo ottenere un’altra condizione. Ma a quell’altra condizione, appunto,
appartiene una differente, inedita configurazione, i pensieri e le emozioni formano
costellazioni e figure diverse, che non si possono conoscere né immaginare fino a che
non vi siamo dentro, abbiamo traslocato, suoni e colori e vicini sconosciuti, con noi
oggetti e movenze che ci accompagnano nel tempo ma che, collocati in quel nuovo
ambiente, risaltano in modo inesplorato.

E non sarebbe questo il cambiamento? Certo che sì ma non lo possiamo ottenere


attraverso una progettazione, non possiamo testarlo come se si fosse in un cammino,
non possiamo trovarlo in un percorso. Prima di averlo raggiunto. Dopo, come in ogni
esperienza umana, potremo traguardarlo, sistemarlo in una carta geografica,
ritrovare, a ritroso, una linea guida che potremmo chiamare un percorso. Ma non
possiamo pensare di muoverci passo passo sulla strada giusta. E definirlo percorso,
ricordarne tempi e passaggi è un modo che ci permette di raccontarlo a noi e agli altri
con le forbici abilissime della memoria che fanno abiti su misura. L’incontrarsi in
terapia, dunque, è un confrontare i diversi sogni che si possono sognare per quella
persona, collocarvisi d’un balzo, attestarsi sull’altipiano a considerare soddisfatti i
propri possedimenti, da lì guardare come ci si è arrivati. È un salto logico fuori dai
confini noti, tenendosi per mano quando manca il respiro. Ma non funziona, credo, se
ci incamminiamo con lo zaino pesante e i muscoli irrigiditi con la garanzia di far fatica
perché è con le lacrime e con il sangue che si ottengono i risultati. Gli atleti saltano
più in alto perché hanno visto se stessi mentre superano l’asticella e non una
sequenza di fotogrammi. L’allenamento vuol dire ripetersi centinaia, migliaia di volte
in movimenti di vittoria e poi, nell’attimo, inventarne l’unico del momento sulla salda
esperienza di chi ha già vinto.

E il sintomo? Il malessere? Sono il modo di incontrarci, un biglietto pagato per entrare


nella relazione. Ma occorre che restino fuori perché se è sul sintomo che ci
affatichiamo, sulla famigerata diagnosi, sulla sofferenza portata con attenzione ché
non ne vada persa neppure una goccia, questi diventano un’ancora fortissima, con la
prepotenza di significare di sé ogni avvenimento ed esperienza. Ci vincolano a un
percorso a testa china, per limitare i danni, per rappattumare, per rabberciare una
vita un poco più vivibile. Capace di amputare le ali al sogno e di immiserire il battito
del nostro pensiero.

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I confetti, tu li mastichi?

Mentre la giornata trascorre, si aprono spesso delle finestre di tempo in cui si può
iniziare un gioco con se stessi. Mi piace farlo, arrotondando lo spessore degli eventi
minuti e inventando per loro un significato, sì, un poco come quando saltellavamo sul
marciapiede, attenti alle giunture da non sfiorare con i piedi. Giocare in modo
innocente, per testare qualcosa di sé, darsi delle regole e infrangerle, sdoppiarsi in chi
dà i compiti e chi li deve eseguire, farsi obbediente e assieme imprevedibilmente
trasgressiva. Perché mai? Anche per esercitare, come muscoli che non vanno
dimenticati, le mie diverse persone, verificare l’importanza delle mie abitudini,
controllare l’aggiornamento di ciò che mi piace e di ciò che non mi piace. Con il gioco,
cintato dal regolamento altrimenti gioco non è, riconquisto una diversa libertà di
pensiero, perché come obbediente a una norma sono libera di pensare ciò che voglio,
dentro un’azione che un’altra me dirige. Soprattutto per gli eventi piacevoli, ma anche
per quelli in cui faccio più fatica.

Ho cominciato tanti anni fa, ero ragazzina e avevo cinque confetti, bianchi e lisci. Mi
piacciono moltissimo, i confetti e, anni dopo, vedendo quanto piacevano anche a mia
madre, ho cominciato a regalarglieli per ogni minimo spunto gioioso, senza dover
aspettare che qualcuno si sposasse. Poi, gioco nel gioco, a regalarglieli, e lei a me,
anche quando occasioni di gioia non c’erano ma ne avremmo avuto bisogno. Una
minuscola complicità fra donne come qualcosa di giallo mimosa da regalare alle mie
donne l’8 di marzo.

Bene, allora ho questi cinque confetti e ne sono felice. Li conto, ne prendo uno, lo
mastico di gola, poi mi domando come sarebbe gustare separatamente la mandorla e
lo zucchero. Il prossimo, lo metto in bocca con attenzione, sto obbedendo all’ordine di
non tritarlo con i denti, lo rigiro in bocca mentre lo zucchero si assottiglia, c’è ormai
solo più una leggerissima camicia attorno alla mandorla e proprio in quel momento,
con il sorriso storto di chi fa un dispetto e lo sa, stringo d’improvviso i denti, la
mandorla si spezza mescolandosi con il rimasuglio di dolce. Però, dice l’altra me, non
hai sperimentato fino in fondo com’è la mandorla senza zucchero. Vero. Stavolta mi
comporto bene, obbedisco e sciolgo lo zucchero con disciplina, un passo più in là della
volta precedente ma sono io che decido e ancora una volta il traguardo è quasi, quasi
raggiunto. Appena un sentore di dolce ma lo zucchero c’era ancora. È il quarto
confetto a farmi masticare la mandorla da sola, tanto per farti vedere che ne sono
capace, sai. Il quinto lo mangerò a mio piacere, senza regole. È un dono in più.

Questa è solo una storia piccola piccola ma spesso mi capita di organizzarmi fra le mie
diverse persone che entrano in gioco per sperimentarsi e mantenersi in allenamento.
Ne convoco tante, penso importante conservare una certa agilità di ingresso. Una
volta, al supermercato, avevo nascosto con il cappotto poggiato sul carrello un golfino
per mia figlia. Passo alla cassa, pago, esco, svuoto il carrello e scopro il golfino di cui
mi ero assolutamente dimenticata. Lo restituisco ma mi resta in testa che non conosco
come si fa a rubare. L’ho fatto senza volere ma sarei capace di farlo
consapevolmente? Molte ragazze e ragazzi lo fanno negli anni dell’adolescenza, per
tanti è quasi un’iniziazione, per gli adulti è una guasconata prendere la metropolitana
con un biglietto usato, ho visto signore impellicciate ridacchiare per questo, ma è
un’esperienza che conosco solo per sentito dire. Ma io non voglio rubare sul serio,
voglio solo provare come si fa, che cosa succede. Forse, sì è così, voglio sperimentare
che cosa si prova a stare dall’altra parte, temere di essere scoperti. Così, un giorno
salgo sull’autobus ma non timbro il biglietto. Una fermata dopo l’altra, con il cuore

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accelerato, guardo verso le porte attendendo che salga il controllore. Sono pronta a
pagare la multa, ho deciso che non farò la scena di essermi dimenticata di timbrare.
Mi sto comprando un’esperienza, non voglio danneggiare le casse comunali. Ma uso
tutto il tempo del percorso, attimo per attimo, per farmi le fantasie di essere scoperta
e sbugiardata, ribattermi che non succede poi nulla di grave, contare le fermate che
mancano come ne andasse della vita: i giochi vanno giocati seriamente. Poi, quando
sono quasi arrivata, con noncuranza timbro il biglietto, in piedi presso l’uscita,
l’atteggiamento della signora per bene che chi mai potrebbe avere qualcosa a ridire su
di lei?

Così, almeno una volta l’anno faccio fare un giro a qualche mia persona che
abitualmente preferisco non mi rappresenti: quella che fa gli occhiacci ai bambini e, al
loro pianto, guarda con innocenza compassionevole la madre, quella che non risponde
a chi le chiede un’indicazione, quella che getta una cosa consumata solo a metà. Mi
serve per ricordarmi quanto non mi piacciono le persone tutte giuste, tutte perbene
ma anche per tenere sotto controllo e conosciute le mie di persone. Penso, infatti, che
chi si considera un non violento non saprebbe come gestire la sua persona violenta e
assassina perché non la conosce, penso che chi si dice assolutamente sincero aggiusti
gli eventi senza neppure più accorgersene, penso che chi si vive nella più piena
legalità finisca rapidamente per comportarsi con l’arroganza di chi le leggi le fa, non le
segue. Penso, insomma, che sono centinaia le persone che ci compongono e che ci
fanno noi stessi e che nessuna di queste può essere trascurata. È proprio perché
saprei essere violenta e crudele che il mio comportamento cortese e attento è una
scelta di cui rispondo. Ma pensarsi alieni da sadismo, asserire che io mai potrei fare
questo, condannare stupefatti le tricoteuses del nostro tempo che loro nel sangue ci
sguazzano, questo è sciocco e pericoloso. Che pensare di fronte alle madri che
preparano il the e lo portano la mattina ai figli drogati perché sanno che devono uscire
a spacciare? C’è stata una madre che, per non mettere in pericolo il figlio
tossicodipendente, ha deciso di andare lei a prendergli la dose. Così, si è incontrata
con la spacciatrice, una, due, molte volte. Sono diventate amiche, un giorno la
spacciatrice si lamenta che non ha nessuno che le guardi i bambini piccoli. E allora la
signora si offre di guardarli lei, i bambini, mentre la madre usciva per spacciare.
Quella stessa droga da cui la signora temeva che il figlio si facesse male. Noi siamo
tante persone, la giostra gira e nessuno può arrogarsi il diritto di amputarne qualcuna.
Pena doverlesi fare incontro indifesi, senza preparazione, senza aver possibilità di
trattare. Meglio stringere un piccolo fra le braccia sapendo che con pochi passaggi
anch’io potrei fare la torturatrice. Per questo ci sto molto attenta. Così godo
pienamente l’abbraccio.

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Il lutto del sintomo

Un aspetto che è troppo sottovalutato, se non addirittura spesso trascurato, è quello


che mi piace chiamare il lutto del sintomo. Possiamo riferirci al sintomo in termini
esplicitamente clinici ma è possibile anche allargare lo sguardo sulle avventure
quotidiane. Proprio per continuare questa spola fra il tempo di tutti i giorni e quello un
po’ speciale della cosiddetta patologia, per continuare a confrontare il comportamento
sintomatico con quello considerato normale e derubricarlo a caricatura, esagerazione,
irrigidimento, sottolineatura di un normale agire. Riportare, come si diceva, il
patologico nel quotidiano, dove siamo più abituati a destreggiarci e possiamo,
soprattutto, contare sull’alleanza vigile e competente del nostro interlocutore, così
penosamente definito paziente.

L’abbandono del sintomo, il suo andarsene o il nostro distaccarci, lascia dietro di sé un


vuoto. Un grande vuoto. Consolidato nel tempo, è stato perno essenziale di tutta una
miriade di comportamenti, pensieri, abitudini che, talvolta lentamente talvolta
bruscamente, hanno fatto corpo con il sintomo seguendo l’infinita adattabilità della
persona umana. Se mi riconosco fobico, qualcuno mi ha fatto una diagnosi, sia pur
casereccia e, per farmi riconoscere dagli altri e da me stesso, dovrò mantenere un
assetto adeguato. Se nessuno mi ha diagnosticato, comunque sarò stato definito
come quello che torna a controllare la chiusura della porta di casa, del rubinetto del
gas, che non sopporta le farfalle, che non ama l’aglio, che odia la musica
dodecafonica, che non tiene un segreto, che cambia i regali e così via. Tutti quanti noi
tentiamo continuamente di inscatolare gli altri per saperne almeno le linee generali e
poterci recare all’incontro con qualche certezza in tasca mentre ci addentriamo
nell’imprevedibile del momento. Ciascuno di noi è a sua volta inscatolato e si inscatola
volentieri nel previsto letto di Procruste pur di essere ritrovato, riconosciuto,
interpellato. Protestando, certo, rivendicando la nostra diversità da quel quadro
stucchevole che ci accompagna da tanto tempo ma pronti, prontissimi a rientrarvi di
corsa se cogliamo lo sconcerto negli occhi dell’altro, se ci sentiamo mancare il cuore al
solo pensiero che ci lasci cadere come sconosciuti. Chi di noi non ha provato lo
sgomento di telefonare a un amico e di sentirsi rispondere, magari gentilmente: chi
sei? Non parliamo neppure del sentirsi dire così da un fratello o un genitore!

Poi, magari, lontano da quelli che ci conoscono, sperimentiamo la libertà di forzare


questi limiti, di negare l’evidenza dei nostri tratti, di assaggiare la zuppa di pesce con
la maionese e il formaggio parmigiano (basta farsi consigliare da un parigino!) noi
consuetudinari e attenti alla dieta dissociata o di rimettere in ordine con cura la nostra
stanza, noi, notoriamente disordinatissimi. In genere, troviamo il gusto di capacità e
competenze cui abbiamo rinunciato nel tempo per un gioco relazionale di vedo/ non
vedo. Ma faremmo, e facciamo, fatica a ritornare con queste nuove acquisizioni nel
tempo del quotidiano. Se le raccontiamo, veniamo conditi via con un “per una volta, ci
sei riuscito, ma quanto potrà mai durare? Sappiamo bene come sei fatto”, se le
mettiamo in atto, ci sentiamo scrutati con un certo allarme, che ti è successo? Non
sembri più tu! Un ragazzo di neanche vent’anni mi ha fronteggiato un giorno, un poco
sconcertato ma anche irritato: prima lo sapevo chi ero, ero un tossicodipendente, ma
adesso? Adesso devo ricominciare da capo, non so chi sono, e come faccio?

Il sintomo è qualcosa di più ancora, consuetudine e limite, lineamento essenziale della


nostra persona, non solo per gli altri ma per noi stessi. Che progressivamente
entriamo sempre di più nel personaggio rifinendo con attenzione dettagli sempre più
minuti. Ma se, spaventati dall’essere restati imprigionati, volessimo uscirne, come

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sarebbe mai possibile? E per andare dove? E con che faccia? La nostra, di faccia,
aderisce completamente al personaggio, tutti i nostri averi sono stati spesi per
sostentarlo. Sì che, quando lavorando assieme magari si riesce a moltiplicare i
personaggi e poi, magari ancora, a diversificare le persone, resta forte il lutto di quella
unità che sapeva di unicità proprio nel suo essere catalogabile, riconducibile a una
elementarità semplice, racchiusa in una definizione, un aggettivo, la diagnosi,
appunto. Un vuoto doloroso su cui le persone si affacciano un po’ stranite, combattute
fra la consapevolezza più profonda e la fresca diversità. E si girano a guardarti, come
ogni teorema o problema, una volta che si è usciti dal sintomo sembra tutto così
banale, povero. Era così semplice, come ho potuto mortificarmi dentro per tanto
tempo? Come ho potuto non accorgermi? Come ho fatto a spenderci tante energie?
Perché?

È a questo sgomento doloroso che mi riferisco con il lutto del sintomo, al pianto per
avere perduto una identità, un ruolo, una congerie di micro abitudini che come una
forte rete tratteneva e guidava la giornata intera. Dentro e fuori di sé. E il lutto va
onorato, va pianto, rispettato. Occorre il tempo (chi mai si può permettere di stabilire
il periodo giusto di una vedovanza? Quando si può e si deve ricominciare a sorridere?
Quando, se e come ci si può comportare normalmente? Senza essere aggrediti dal
malevolo: ha già dimenticato! Sussurrato spesso da chi esortava a rifarsi una vita.),
ma occorre anche custodire il ricordo. Ogni sintomo è anche una creazione personale,
una metafora importante cui abbiamo dedicato energie, inventiva, fatica e sofferenza.
Non lo si può cancellare amputandone la persona. Ma lo si può conservare come
un’acquisizione di grande rilevanza che, chi sa mai?, potrebbe ancora essere
utilizzata, magari non in quegli stessi termini, magari non nelle stesse situazioni,
magari spezzettandola in tanti comportamenti, come una vera e propria eredità che ci
appartiene. Il cambiamento, la trasformazione cui ogni persona ha ben diritto, non
possono risolversi nell’abitare un territorio sconosciuto di cui non sappiamo lingua,
usanze, codici sociali. L’eredità del sintomo può innervare di sé questo diverso modo
di esistere, di modellare la propria giornata, aggiungendo vita a vita, moltiplicando le
esperienze senza che queste debbano costringerci a crudeli amputazioni o a lacci
ugualmente crudeli.

Penso che anche per le trasformazioni del contesto sociale sarebbe bene ricordarsi di
risarcire il vuoto che ogni cambiamento comporta. Pena l’impoverimento di un tessuto
di convivenza che si fa sempre più rado, semplificato in termini miserabili. Se è stato
un grandissimo successo civile l’abolizione del delitto d’onore, ci siamo curati di dare
una nuova e moderna edizione dell’idea, del concetto, di onore? Possiamo farne a
meno? Siamo certi che non ci servirebbe oggi quando lamentiamo assenza di
responsabilità, quando è difficile attribuire ancora fiducia? Lealtà, un altro valore che
non credo debba essere affossato solo perché è stato amato dalla destra. Perché se
non li onoriamo con attenzione e rispetto, questi valori ci tornano su all’improvviso,
incontrollabili, proprio come le famose ricadute di cui si parla per i tossicodipendenti.
Quando ci fu la storia del corvo di Palermo, il dubbio che un magistrato fornisse
informazioni alla mafia sulle indagini in corso, lessi su molti giornali che catturare le
impronte digitali del magistrato sospettato offrendogli un bicchiere di whisky non era
un comportamento leale!
Ma penso anche che la tecnologia dei trapianti possa essere assimilata al meglio se
viene nuovamente e diversamente celebrato il culto del corpo morto, primo segnale di
ogni civiltà. Altrimenti, perché gli scoiattoli delle Dolomiti rischierebbero la vita per
recuperare i corpi congelati, perché un soldato si ferma a aiutare il compagno ferito a
morire, perché mai sarebbe così importante riavere almeno il corpo del familiare
ucciso? Per seppellirlo con onore. Il punto, mi sembra, non è temere il cambiamento e

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l’innovazione, frenare il cosiddetto progresso, ma, piuttosto, il punto è non impoverire
la nostra cultura, la convivenza civile di noi tutti. Non voglio contrastare i trapianti
d’organo ma voglio che si accentuino e si moltiplichino tutte le occasioni e il valore
dell’assistenza a chi sta morendo, che l’uso della cremazione cerchi un suo proprio
modo di celebrare il corpo morto, che la dimensione laica del rito vada a fiorire
secondo i suoi canoni e non si limiti a togliere i petali al rito religioso abbandonato.
Per far sì che il cambiamento, auspicabile e bello e pieno di speranza, della persona e
della società sia un aggiungere, un articolare, un far interagire nuovi modi con antiche
condivisioni. Affinché ci sia sempre più spazio per tutti, complicati e complessi come
siamo, alieni da una semplificazione incongrua che ci renderebbe forse tutti un po’ più
uguali in quanto tutti un po’ più miserabili.

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Il presente nasce dal futuro

Tanto vale cominciare con una confessione: a scuola non sono mai riuscita a
padroneggiare la storia, la studiavo, ci provavo ciclicamente a farmela piacere ma è
sempre stata una inimicizia a pelle, ci fronteggiavamo con reciproco disgusto e
rancore, quello che scaturisce dall’amarezza di non sentirsi amati. Ce la intendevamo
con il latino, la matematica, la fisica, il greco, con la storia no. Ho provato a darmi le
spiegazioni più varie: era fatta tutta sulle guerre, le date mi innervosivano, non era
ben raccontata, non mi permetteva di curiosarci dentro…tutte chiacchiere che non
risolvevano nulla. Però, proprio all’opposto del mio malanimo verso la storia, c’era una
passione grande per le storie, per i romanzi, per i racconti, le biografie e i resoconti di
viaggi. La narrativa, insomma, che consumavo con la velocità e il disordine allegro e
casuale tipici di quella età.
Poi, più grande e dopo aver fortunosamente sfangato i vari esami di storia, ho
riflettuto tanto sulla questione, ne ho individuato almeno un paio di elementi ostici. Il
primo era la rigidità in cui venivano allineate le varie vicende, in uno schema di
riferimento che sapeva assai di compiaciuta verità: del tipo, ci ho lavorato tanto, ho
studiato un’infinità di testi e ora ti propongo la versione vera, non ti affaticare a
cercare altrove, te lo dico io. Tu studia e apprendi la mia sequenza che è la migliore.
L’altro grave ostacolo era il sottostante, ovvio uso del principio di causa ed effetto
come principio elettivo ma mai effettivamente eletto, un principio che regnava con
assoluta, incontrastata serenità. E anche contro questo ostacolo mi affaticavo
inutilmente, disgustata da questa falsamente modesta esibizione di verità e della
stretta ferma del corso della causa che produce l’effetto. La matematica, la fisica,
giostravano con le regole, le aggiravano, le superavano con balzi logici che ne
proponevano di nuove, era una inventiva spregiudicata che addentava i problemi per
costruire la soluzione più logica/ elegante/ economica. Il latino e il greco
arabescavano sulla struttura rigorosa della sintassi, incrociavano grammatica e
semantica nella tensione costante di dire il nuovo per condividerlo attraverso l’uso
della lingua.
Ho ritrovato questa analoga pesantezza nel mio mestiere, lo splendido nitore della
psicoanalisi che ancora mi emoziona mi sembrava immiserito quando, poi, si tiravano
le fila del ragionamento: l’oggi è così perché un tempo, il presente discende da un
passato vincolante, cerchiamo nei ricordi, nelle esperienze inattinte la chiave, la
spiegazione, la risoluzione dei problemi, del dolore, dei sintomi. Fino a delineare
corrispondenze fra sintomatologie ed eventi da ricercare nel passato in un disegno che
dall’iniziale aerea ipoteticità troppo spesso si è nel tempo irrigidito e sclerotizzato in
polverose linee guida. Mortificando l’inventiva, la fantasia, l’emozione che cerca il
nuovo, la spregiudicatezza necessaria per ogni avventura, la curiosità irriverente che
non si quieta fino a che non è appagata. E mi sono detta: ma se provassimo a
capovolgere il discorso? Se il perché causale si ribaltasse in a quale scopo? Come dire,
se l’indagine sull’oggi la leggessimo in funzione di un futuro, se movimenti,
trasformazioni, pensieri da tentare li orientassimo verso il domani, che succederebbe?
Tutta la struttura logica e concatenata della sapienza terapeutica diventa uno
strumento fondamentale per la ricerca, come il sestante che ha permesso di navigare i
mari e di spingersi oltre i confini dati. Ecco, allora, che il passato si fa fastoso
serbatoio di dati, elementi, esperienze, pensieri, emozioni, a nostra disposizione
affinché possiamo maneggiarli per costruirci un presente che guardi al futuro. Se ci
pensiamo un attimo, non potremmo neanche alzarci la mattina, non sapremo come
vestirci se non pensassimo a quello che ci aspetta nella giornata! Il nostro guardaroba
è certamente un’informazione vincolante, ci racconta le nostre scelte passate, ci
definisce nei gusti, è il nostro patrimonio affinché, pensando all’oggi che svolgeremo

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nel tempo con incarichi, attività, immaginandone dei tratti, curiosi o timorosi di quel
che avverrà nei fatti, possiamo scegliere che cosa indossare, come presentarci a
mondo, in un abito che ci permetta di incontrarlo mentre noi ci riconosciamo
dall’interno e, sull’apparenza sociale, anche gli altri ci potranno riconoscere. Per fare
qualcosa di nuovo e di riconoscibile, assieme in quanto differenti. L’abito forse non fa
il monaco, nel senso che non basta l’abito a fare l’intero monaco, certamente, occorre
vestirlo il nostro abito affinché possiamo essere riconosciuti. Ma scelgo l’abito in
funzione di ciò che dovrò e vorrò fare, l’abito che mi permetterà di traghettare dai
dettagli futuri che obbediranno alle previsioni a quegli improvvisi cambi di scenari che
desideriamo e che ci spaventano.
L’interpretazione di ciò che è successo, così pericolosamente confinante con la verità
oracolare, la lettura del cosiddetto materiale si spostano, allora, dalla constatazione
più o meno dolorosa, da una presa d’atto più o meno trasformativa allo sguardo
impaziente e curioso dei due protagonisti che si rivolgono al buio del futuro per
strapparne i veli che si apprestano a far sì che possa accadere. Tengo da tempo nel
mio studio uno di quegli oggetti che giovani alternativi e con le treccine colorate
vendevano su bancarelle improvvisate. È una coppia di vetri trasparenti che
racchiudono, ben sigillate, delle sabbie colorate. A seconda di come li muovi, le sabbie
contenute fra i vetri si ridispongono in un disegno inedito, puoi appoggiarli di lato,
puoi metterli ritti: dentro ai vetri, silenziosamente, la sabbia mescola i suoi elementi
colorati, i suoi granelli sgranati e forma una nuova costellazione. Cascate, navi, monti
e case, puoi leggerli come ognuno di noi racconta i suoi pensieri leggendo le forme
delle nuvole, o delle foglie del the. O dei comportamenti. Sempre la lettura del
mondo, degli eventi, dei gesti e delle movenze riflette il nostro pensiero e ci regala in
contemporanea l’emozione profonda della scoperta. Vedere il volto della madre nelle
nuvole, come in un antico film di Woody Allen, riconoscere nella sagome della sabbia
un promontorio cui sono agganciati tanti ricordi, ritrarsi con spavento dalla chiromante
che ci legge la mano o che lancia le conchiglie e là, nelle sue parole, ci vediamo ritratti
fin nei dettagli, ma anche il magico insight o quello che Giampaolo Lai ha chiamato la
felicità della conversazione, ogni nostro movimento vitale lega stretto il mondo a noi e
noi al mondo. Lo sappiamo bene tutti, talvolta lo sappiamo di più, talvolta ci sfugge un
poco. A me sembra più utile raccogliere questo gomitolo di noi e mondo e cominciare
a districarlo con lo sguardo e il cuore confidati al futuro, guidati dal desiderio e dal
sogno, verso un terreno altro da cui e verso cui possiamo, a nostro modo, utilizzare il
nostro passato. Che è nostro non perché noi gli apparteniamo ma affinché possiamo
disporne.

Forse era più semplice imparare la storia a tempo debito? Amo di più le storie, per
ora, ma domani chissà.

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Intimità e verginità

Ascoltavo David Grossman al festival della letteratura di Mantova, è un autore che


amo molto, un pensiero giovane che porta con sé tradizioni millenarie con una
particolarissima capacità di raccontare questo difficile presente.
E Grossman diceva: in ogni rapporto importante, con il partner, con i figli, con gli
amici più cari e più vicini, occorre fare delle censure, occorre non guardare e non
vedere delle cose dell’altro e, se le hai viste, occorre dimenticarle. Ogni rapporto
importante, diceva, si basa su questo accordo, in cui ciascuno sceglie di ricordare degli
aspetti e trascurarne altri, un forte pudore di sé e dell’altro che permette e
salvaguarda la profonda intimità. Ma con i personaggi di cui si è scrittori, sorrideva,
no, con quelli non è così, quando scrivi devi lasciarti violare fino in fondo e loro si
impadroniscono di te e tu li racconti, non c’è pietà né pudore che ti protegga, non
puoi, non devi proteggerti. Ascoltavamo in tanti, eravamo persi in quel suo porsi
gentile, libero, drammatico nella sua leggerezza. E sono andata a prendere il suo libro
“Col corpo capisco”, (Mondatori, Milano 2003). Il primo racconto non mi ha coinvolto
più di tanto ma il secondo, dio mio che bello! E c’è un brano che mi piace riportare
qui, un passo in cui Rotem, la figlia, interroga la madre, Nili, una grande insegnante di
yoga. E la insegue, avida di poter raggiungere il suo cuore più profondo, chiede di
poter essere accolta, o forse solo toccare, quel suo inviolato segreto, quel suo punto
vitale che le è sempre stato negato. E, dolorante, Rotem dice: “La verità è che lei ha
sempre saputo proteggersi dalle sofferenze altrui. Chi la conosce non ci crederà (…)
Era un rivestimento trasparente, spirituale naturalmente, ma molto robusto, che la
avvolgeva completamente e dentro il quale si rannicchiava. (…) Lei mi ha spiegato che
grazie a questo rivestimento, a questa barriera, poteva donare se stessa agli altri,
fluire senza limiti. Proprio perché nessuno poteva attingere dalla sua forza. (…) Con
grande onestà, con un candore criminale, Nili mi ha spiegato che se avesse permesso
a qualcuno di penetrare, di attingere liberamente alle sue forze, lei non sarebbe stata
più la stessa. (…) Ma se dovessi avere bisogno di tutte le tue forze, anche quelle che
conservi laggiù? (…) Lei (…) invece di una risposta, ha cercato di insegnarmi ancora
una volta a proteggere me stessa, a non permettere al dolore del mondo, a qualsiasi
altra cosa, di insinuarsi dentro di me. Nemmeno al grande amore della tua vita,
ripeteva, (…) nemmeno alla persona che di più ami al mondo. Poi sorrideva, quel
sorriso stupendo, ingenuo: nemmeno a me.”

È un passo drammatico, brutale eppure così vero, così terribilmente e innocentemente


vero. Così inevitabile in tutti i rapporti profondamente affettivi e talmente
indispensabile in questo nostro mestiere. Perché poi è proprio questa inviolabile
verginità che permette di avviare l’intimità profonda, è proprio così che si può
accogliere e ospitare chiunque in un territorio pulito, libero dal desideri e dalla
memoria.

L’intimità più profonda non tollera ma si esprime nel silenzio, che non è l’assenza di
parola ma è il prima, il luogo profondo della sensazione emotiva che non si può
mettere in parola. L’innamorato parla, scrive, descrive e declama, poi nel rapporto le
parole citano e descrivono le cose interne ed esterne che vengono condivise fino a che
le vite si definiscono più pienamente in sé, scorrono appaiate, non più fuse se non per
incontri di caduta abissale di intimità, commoventi nel loro struggimento ma non
perché nostalgici, piuttosto perché sperimentano l’infinita intesa dentro il limite
strettissimo della parola. Ed è per questo che si parla di sé agli estranei, alle persone
con cui si è veramente in intimità le parole troppo scoperte risultano indecenti.

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Sappiamo benissimo come un’intimità semplice sia vietata quando si è veramente
molto vicini. Le frasi dei fidanzati sono quasi impudiche in un rapporto forte,
contemporaneamente troppe e troppo poche, insoddisfacenti e lievemente irritanti. A
questo servono le distanze, a potersi nuovamente scrivere perché non siamo lì quando
l’altro legge. Diceva Philippe Daverio in una intervista a Radio 3 scienze, accendi una
radiolina in giardino e dalla cucina ti sembrerà di ascoltare un pianista in diretta, metti
su un concerto di Chopin in soggiorno, in un sofisticato hi fi e ti accorgerai comunque
dell’artificiosità del mezzo che ha registrato. Il luogo comune delle confidenze allo
sconosciuto in treno, come la scopata senza cerniera di Erica Jong, sono esperienze di
tutti noi. Parlare intimamente con un amico nella notte davanti a un fuoco ci rende
imbarazzati, distanti, forse anche un po’ rancorosi quando ci ritroviamo a colazione.
Non perché ci siamo aperti con lui, non perché lui ci giudichi o si comporti in modo
indelicato. No, perché lui è anche altro, è un rapporto affettivo che continua, che
permane. Con le persone più care, più vicine, le parole sono sempre allusioni,
riferimenti a, così da non esserci nell’attimo in cui l’altro coglie il nostro essere. Da
distogliere lo sguardo sperando disperatamente di essere colti nel nostro intendimento
più profondo ma incapaci di poterci essere, con l’altro, in quell’istante decisivo.
Quando l’altro ci coglie e ci contiene nella sua persona, allora possiamo abitarla nelle
sue mani. Ma non nello stesso momento, prima ci deve aver raccolto e dopo possiamo
entrarvi.

I rapporti affettivi profondi contengono questi attimi di sconfinata solitudine, che


siamo noi ad abbracciare il segreto dell’altro o che, ansiosi, attendiamo di essere
contenuti nelle sue mani. Come nell’incontro sessuale in cui ti cerchi nell’altro
cercandolo senza tregua. È per questo che nel nostro mestiere possiamo imbandire
ogni volta una totale intimità, è questo il senso dell’astinenza. Eppure, resta
comunque un dolore in fondo alla gola di non poterci perdere l’uno nell’altro, assieme
al terrore che veramente avvenga. Perché non torneremmo più indietro.
Lo sgomento e la rabbia dei figli che vogliono forzare questa verginità fa parte del
dolore inevitabile, per loro e per noi. Per loro (per noi tutti, figli) per essere restati al
di fuori, per i genitori nell’assistere alla sofferenza del saperli restati al di fuori e nella
struggente nostalgia di non poterli raggiungere. E anche per dovere rinunciare a
spiegarsi, raccontarsi, narrarsi come acque senza controllo. Comunque non ci si
incontrerebbe più di un tanto e forse il danno sarebbe alto. E se ci incontrassimo
veramente, se realmente toccassimo il cuore dei figli e lo congiungessimo al nostro,
chi mai riuscirebbe più a staccarci?
Brava Nili e bravo Grossman, ma sarebbe pur bello se non avessero ragione!

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La clinica e le donne

Qualche considerazione su un accoppiamento che sembra molto naturale ma che a me


sembra presentare dei passaggi non così ovvi né trasparenti. Sia dal punto
d’osservazione delle donne psicoterapeute, sia da quello delle donne intese come
“pazienti” (termine che non amo ma qui lo uso per intenderci rapidamente, è diffuso
definisce così le persone che, cercando una relazione migliore con se stessi, vanno a
lavorare con i professionisti chiamati terapeuti).

Perché questa sfumatura di preoccupazione? Beh, quel che mi gira in testa è che le
donne, noi donne, ci accostiamo all’esperienza chiamata terapia tutto sommato a
passo lieve. Qualche ruga di ansia, il timore di scoprire chissà mai quali terribili cose al
nostro interno, un pudore impacciato, certo, ma nella sostanza non è un’esperienza
che ci risulta estranea. Gli anni dei gruppi di autocoscienza ce li ricordiamo bene ma
ben prima e dopo di questi, in tutta la storia delle donne è presente il confidarsi, lo
scoprirsi, il rovesciare pensieri vuotandoli sul tavolo come se fossero il portamonete
racchiuso nell’incavo dei seni e poi riguardarli, rigirarli, le dita delicate e impazienti
assieme che si accavallano nel comporre disegni e figure. Le donne, noi donne,
scriviamo i diari, facciamo le telefonate, prendiamoci un caffè perché ti devo parlare,
ci raccontiamo e raccontandoci svolgiamo davanti ai nostri occhi il film delle emozioni,
delle percezioni, dei nostri pensieri.

Forse una delle nostre competenze più abituali e diffuse, non a caso archiviata dai
maschietti nella sprezzante categoria delle chiacchiere. Eppure, è proprio da qui che
vorrei prendere le mosse: troppo abituale, troppo diffusa, troppo femminile questa
competenza, tale che non ci sembra davvero di dover fare un salto grandissimo
“entrando”, come si dice, in terapia. E, allora, accade spesso che esattamente questa
facilità di giocarci nel rapporto ci faccia velo alla necessità di un registro altro da
attuare, praticamente sovrapponibile ma con un filo di differenza che lo rende
sostanzialmente, radicalmente differente. Mi è capitato spesso di sperimentare questa
parete divisoria trasparente e in gran parte indefinibile ma chi ci è passato credo
sappia che cosa intendo. Accade, allora, di trovarsi di fronte a una grandissima
difficoltà perché le parole stesse tradiscono il nostro pensiero accoppiandosi
velocemente con la predisposizione abituale alla confidenza e nascondendo così il salto
logico e relazionale che occorre per entrare a pieno titolo nel rapporto terapeutico. Mi
è capitato di sbattere contro questa parete e di ristare sconfitta, le dita che
accarezzavano e premevano e spingevano e tentavano invano una trasparenza
infrangibile. È stato allora che una donna mia coetanea, di grande spessore umano e
intellettuale, mi ha lasciato dicendosi delusa della mia mancanza di coraggio nel
seguirla liberamente, che un’altra, importante ed impegnata, mi ha bollato di
volgarità, che quella ragazza un po’ invecchiata si è risentita perché non mi ero
preoccupata di chiamarla per sapere come stava dopo che aveva interrotto i nostri
incontri. Evidentemente, il mio racconto sarebbe parallelo all’altro, ma non voglio
tanto ora analizzare o confrontare i diversi resoconti di un’esperienza vissuta in
comune. In questi casi, e in altri ancora forse meno eclatanti o risolti con uno scarto
che siamo state capaci di dare al nostro rapporto, comunque mi era sembrato di
trovarmi di fronte a questa vitrea impossibilità di riuscire a intenderci. Esperienza
piuttosto dolorosa.

Ovviamente, lo stesso ostacolo possono trovarlo le donne che praticano questo


mestiere dalla parte del terapeuta. Con la scioltezza dell’abitudine, talvolta, spesso,
non ci accorgiamo che non ci siamo preoccupate della necessità di partire da zero e

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non da tre. Come accade alle nonne che non sanno imparare nuovamente dalle madri.
Dice con intelligenza chiara Daniela: un capomastro, abile nel suo mestiere, può
arrivare a diventare più abile, abilissimo, ma non ha l’apertura delle opzioni di chi
comincia da zero per imparare il mestiere. Ce lo ha raccontato Massimo Troisi, ce lo
mostrano le linee che si divaricano: la maggiore apertura richiede una partenza non
più grande di un piccolissimo punto per una forbice ampia, generosa. Come dire che la
predisposizione femminile a confidarsi è una sorta di “falso amico” come accade nelle
lingue vicine, sorelle? Sì, un po’ così, tanti, mille punti di contatto che troppo spesso
costringono a un accoppiamento che non richieda stupore, che scorra via facilmente.
Da questo punto di vista, è ben vero che gli uomini si servono con minore frequenza
delle nostre pregiate professionalità ma, quando decidono di usarle, spesso accade
che si accostino agli incontri terapeutici con una seria, composta attenzione a capire,
vedere, adeguarsi a regole che pensano di non conoscere e, dunque, si predispongono
ad imparare. Lavorare con le donne è più facile, sembra richiedere un grado minore di
estraniamento dal nostro modo di essere persona eppure penso che sia più scivoloso,
che più di frequente occorra testare se ci stiamo adagiando in un agevole rapportarsi
di cui conosciamo bene dettagli minuti, sequenze, sorrisi, complicità. Lavorare con un
uomo è diversamente facile, c’è un gusto speciale nel riuscire a costruire con un uomo
una intimità d’intesa che non travalica il rispetto pudico per trasformarsi in complicità.
Siamo più avvertite, noi donne che facciamo le psico, quando ci rapportiamo con un
uomo e, forse, l’attenzione che dedichiamo rende più semplice procedere assieme,
senza slittamenti o sbandamenti verso registri incongrui con il nostro lavoro.

E, ancora, tanto per non tralasciare di massacrarci aggiungendo difficoltà a difficoltà,


lo stesso ambito terapeutico trascina verso un ruolo ben codificato da chissà quanto:
basta ricordare i termini cura, rispetto, intimità, malattia, sofferenza, dolore, rapporto,
disponibilità, conversazione..., termini che rimandano immediatamente a una cultura
che tradizionalmente viene abitata dalle donne. Le mani fresche e leggere che
consolano il sofferente, l’esposizione delle piaghe da curare, l’esperienza antica del
dolore negli occhi di chi si prende cura, come non riconoscere i tratti delle suore
cappellone negli ospedali, delle infermiere di guerra, delle madri, delle spose, delle
nonne che proteggono e curano parlando piano fino a che il pianto si acquieta? È
proprio questo, appunto, il pericolo troppo trascurato, una professione cui le donne
dovrebbero dedicarsi per naturale predisposizione, rischiando di non impararlo mai
realmente ex novo, cui gli uomini possono dedicarsi spostando il loro polo naturale
inclinandolo verso un universo altro dal mondo maschile, capaci, dunque, di
cominciare ad apprenderlo ma rischiando, a loro volta, di fraintendere una necessità di
adeguarsi a un ambiente che sentono pregiudizialmente aperto alle donne. Sì che nel
tentativo di femminilizzare il loro intervento per avere il diritto di libera circolazione,
finiscono per trattenere con redini forzate la loro mascolinità operando una sorta di
devirilizzazione: atteggiamento un poco mesto e pensoso, voce controllata, spalle
curve, un sentore di sofferenza tutto attorno.

Impersonare la funzione paterna è scivoloso per gli uomini quanto reggere la funzione
materna per le donne ma si respira per gli uomini e per le donne una qualche tristezza
di costrizione: quando ridono gli psico? L’allegria è strumento da utilizzare? La
sofferenza va omaggiata con il rispetto di un tono sottomesso?
Non sarà che abbiamo bisogno anche nel nostro lavoro di cogliere e realizzare una più
attuale definizione dei sessi? Maneggiando con nuova e diversa attenzione lo scambio
e lo scarto fra le nostre competenze “date” e le necessità richieste dall’esercizio
professionale? Potremmo provare a ricominciare a ragionarci con la spregiudicatezza
che esige l’avvento di un nuovo secolo, di un nuovo millennio? Magari giurando che
lasceremo comunque (per un po’!) intatti i posti dirigenziali agli uomini?

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La curva a tocchettini

Questo titolo ha una storia. Tanti anni fa, c’era il sole un po’ freddoloso di inizio
primavera, ero in macchina, diretti da qualche parte ma non ricordo assolutamente
dove e tanto meno il perché. Ricordo, però, il conducente dell’auto, un ragazzo alto,
magro, con gli occhi verdi stretti e le mani grandi. Allora ero troppo giovane per avere
la patente e lui faceva un po’ di scena, fiero della sua abilità. Vedi, mi diceva con
voluta noncuranza, il punto è come si prendono le curve, se si tengono le mani sul
volante seguendo l’andamento della curva, (e lo mostrava, imboccando la curva con le
mani ben salde) va a finire che ci si ritrova con il corpo sbilanciato e le mani
impastoiate in una posa poco comoda (ed eccolo là che pende verso il finestrino, i
polsi torti a seguire la curva). Poi mi guarda, per vedere l’effetto della mini
pantomima, e continua, invece tu non devi mai essere in curva, è pericoloso, hai
visto?, devi essere sempre in asse anche mentre stai eseguendo una curva, cioè la
prendi a tocchettini, curvi un attimo e raddrizzi il volante, poi ancora una sterzata e
ancora raddrizzi, così, e mi mostrava. Sarà che è stato efficace nella dimostrazione,
sarà che mi sembrava bellissimo, fatto è che ho custodito l’idea della curva a
tocchettini come icona di un modo di procedere in sicurezza, nella professione e non
solo.
Da quella immagine lontana ho mantenuto il modo di frammentare il tempo, così che
ogni istante si caratterizza come unità autonoma: se ho seguito troppo la curva e sono
sbilanciata, è rapido il movimento che riassesta la postura, se ho fatto un intervento
che non mi piace o che mi sembra non sia piaciuto al mio interlocutore, faccio in fretta
a ritirarmi, a mutare proposta, a cercare diversamente una intesa per me
indispensabile. Ovviamente, se il disappunto dell’altro, o mio, mi coglie di sorpresa:
accade che nel mio lavoro ritenga di dover risultare faticosa, difficile da trovare,
magari oppositiva o complicata, cerco che accada il meno possibile ma non mi ci
sottraggo. Ma certo che se fraziono lo spostamento in tocchettini mi è agevole
ritornare in asse, scusandomi, spiegando quel che avevo voluto intendere, verificando
se il disappunto che mi è parso di cogliere è arrivato così anche all’altro.
Anche per questo cerco di imparare ogni anno un giocattolo nuovo per ampliare la
gamma degli strumenti a mia disposizione, anche per questo sono tanto fissata con la
precisione della tecnica da usare in ogni dettaglio, anche per questo racchiudo l’istante
successivo in una serie di cerchi concentrici ognuno dei quali ha un suo sistema di
sicurezza: se anche non dovessi avere successo potrei sopravvivere? Se anche oggi
non va poi tanto bene l’incontro, l’altro se ne andrebbe via? Potrei mantenere
un’autostima professionale anche se l’altro se ne andasse? E così via, come quando si
verificano le macchine, appunto, prima di mettersi in viaggio. Se sappiamo che
consuma molto olio ce ne portiamo una lattina, se scalda tanto il motore ecco la
bottiglia dell’acqua da rabboccare, se la strada fosse brutta posso fermarmi e casomai
tornare indietro, se non so come procedere chiederò.
Fatti i controlli, sono finalmente libera di salire sull’auto, libera di guidare perché libera
da pensieri o preoccupazioni che mi intralcerebbero il movimento con la loro presenza
importuna. Seguo l’andamento dei tornanti restando sempre bene in asse, per
cogliere l’intesa con l’altro ho bisogno di avere tutta la scioltezza possibile e solo così il
mio lavoro mi rende felice. Dice: e quando fori? Quando foro ne prendo atto e scendo
cambiare la ruota, so di avere a posto quella di scorta e anche allora a consolarmi c’è
un ricordo lontano di un altro amico che quando forava, fermava con calma,
accendeva la radio, cambiava la ruota e poi si toglieva il grasso dalle dita con dei
fazzolettini detergenti di cui aveva sempre una scatola con sé. In verità, io mi sporco
molto quando debbo cambiare una ruota che ho bucato ma, se appena mi riesce, la
radio l’accendo.

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Alle madri di maschi

Con questa dedica Ann ha inviato questa poesia di Mary Carr che ha tradotto per noi,
la riporto di seguito:

Entrando nel Regno.


Quando del figlio si allungarono le ossa
e crebbe il cuore e la mente,
un giorno sua madre mancò
di riconoscersi in lui.
Era diventato un uomo, che irradiava
l'innata solitudine degli uomini.

Da allora in poi
la sua espressione
le fu un enigma. Quando sull'orlo
del sonno i suoi lineamenti
si ammorbidivano infantilmente,
era un istante.
Poteva solo stringere
la sua ampia spalla.

Cosa avrebbe
potuto insegnargli
della Perdita,
proprio a lui che ora l'infliggeva, entrando
nel regno della sua
propria volontà?

Già, le madri di maschi si trovano a impattare una virilità difficile, capovolta e ripetuta
come in una clessidra con quella del padre del ragazzo. Capita, così, che lo stesso
moto d’insofferenza o magari di violenza appena trattenuta, proprio quello stesso che
si trovava insopportabile nell’uomo divenga occasione di un compiacimento segreto da
contemplare nel figlio. Oppure, un comportamento da stroncare, subito, duramente, sì
che neanche prenda terreno la sola idea della crescita, della trasformazione del
ragazzo ancora quasi bambino in uomo, dell’assottigliarsi delle rotondità in muscoli
lunghi, di capricci lagnosi che evolvono in affermazioni secche di una volontà tutta
nuova. Le donne italiane maneggiano con incertezza la mascolinità del figlio quanto
sono confuse e contraddittorie nei confronti dell’uomo.
C’è come uno sconcerto, talvolta diventa furia nella scoperta improvvisa di ritrovarsi in
trappola, di fronte a uomini accomodanti e cedevoli che cercano solo di potersene
stare in pace, senza ambizioni complicate o desideri faticosi. Che vorrebbero vivere
tranquilli mentre, e quanto più, la loro compagna è tutto un fiorire di proposte e di
iniziative. Che loro non contrastano, no, si limitano a chiedere di esserne esentati,
restano senza rancore né gelosia davanti al televisore o al computer. Uomini che
sembrano scimmiottare la comprensione e la disponibilità tradizionalmente attribuita
alle donne, ripetendo la caricatura triste di chi pretende femminilizzato un uomo
privato degli attributi maschili, certo, l’abitudine così antica ma ancora sotto pelle di
pensare le donne come “uomini senza”. Uomini che vengono definiti “tanto sensibili”
ma che sembrano aver dimenticato certe durezze che accompagnano la mascolinità e,
quasi, direttamente la mascolinità stessa. Mi diceva, una volta, una donna che nel suo
amore per le donne aveva spesso nostalgia delle labbra dure di un uomo. Perfino la

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collera, un tempo attributo quasi sacrale, sembra oggi desueta, perfino come parola,
malamente sostituita da rabbia, scatto di nervi, furori umorali, vogliamo dirlo? isterici,
appunto, propri dell’utero. Che drammaticamente si stravolgono in vere e proprie
violenze, verbali, fisiche, esplosioni incontrollate senza alcun senso utilizzabile, da
parte di nessuno.
E di cui, a buon bisogno, viene attribuita responsabilità e colpa alla donna stessa che
ha voluto troppo, che mette in difficoltà il compagno perché capace e competitiva,
perché di successo, perché guadagna e si diverte e ha cento amici e mille interessi.
Che pretende, perfino, di avere un rapporto sessuale pieno, soddisfacente, invece di
adattarsi, comprensiva e riservata. Quante volte mi è capitato di assistere a pianti
umiliati e brucianti di donne che nel mio studio si dibattevano in questa morsa,
sapendo bene come sarebbe stato semplice lasciare il rapporto eppure decise a
incaponirsi, a stanarlo, a far emergere infine l’uomo nel loro compagno!
Tutto questo è ben presente nelle madri dei maschi che li vedono crescere con
un’ansia dibattuta fra il volerli modellati secondo le esigenze femministe e la necessità
che, all’opposto, vengano coltivate e fatte crescere le caratteristiche “maschili”. Fra
nostalgie di un assetto ancora estremamente recente, in cui il passo si muove sicuro
su tracce ben note, con ruoli distinti e reciprocamente specchiati e la voglia, la
speranza di un assetto nuovo, dell’avvento di un mondo di persone, di pari, uomini e
donne che si affiancano, si scambiano, collaborano e si scontrano, nel segno della
dignità, della responsabilità vitale, lontana dal mesto senso di colpa, donne e uomini
che si scoprono uno nell’altro, che si distinguono senza dovere prendere le distanze,
che riprendono a conoscere la gioia, l’allegria, l’impegno, il fare assieme, la
progettazione e le mani sul futuro. I maschietti di una scuola materna che inseguono
una bambina e la chiudono nell’angolo sono dei futuri violentatori, da redarguire con
fermezza inequivoca fino a che si è in tempo oppure sono dei bambinetti che stanno
liberamente dando sfogo a istinti sacrosanti? Che si dice al faccino sollevato e
interrogativo di un piccolo di tre anni? Che non si azzardi mai più, che non è sportivo
perché non era solo, che vada a chiedere scusa alla bambina, che penseremo noi a
scusarci con i genitori, che non frequenti mai più quei bambini cattivi che gli fanno
fare quelle brutte cose, che cosa si dice a vostro figlio che attende di sapere dalla
madre che cosa deve pensare di ciò che ha fatto? Un po’ come protestare quando
vostro figlio al parco giochi gridando: è mio! strappa il suo giocattolo dal bambino che
l’aveva raccolto da terra. Un subbuglio di pensieri, emozioni, ideologie, praticità: no,
non è tuo, è solo un giocattolo, dai, prestaglielo per un po’, bambino glielo puoi ridare
che dobbiamo andare, facciamo uno scambio, vuoi un gelato? Che cosa si dice, che
cosa si deve dire? E che fare della richiesta profonda di ogni figlio di avere la madre
sempre e comunque al suo fianco se non dalla sua parte? Negandoci in nome
dell’equità o dell’esame di realtà, ne facciamo dei bambocci mammoni, dei prepotenti
che la ottengono a ogni costo o degli adulti deprivati di quella solida, basilare certezza
di essere comunque amabili e amati?
Il re del Marocco vuole incrementare la cultura delle sue donne perché, dice, sono le
madri a crescere i figli e quanto più aumenterà la loro cultura tanto maggiore sarà la
grandezza d’animo dei loro figli, dei cittadini. Credo che le donne di oggi debbano
nuovamente scoprire una stima per l’uomo, non so bene come funzioni in altri paesi
ma a me sembra che in Italia il rapporto fra la donna e l’uomo sia un poco strano,
anzi, particolare come si dice abitualmente intendendo, con un’occhiata significativa,
alludere a chissà poi che cosa. Strano per un’intricata rete di legami che da una parte
pendono verso una devozione timorosa e compiacente e, dall’altro, sfociano in aperto
disprezzo. La donna italiana (almeno fino alla mia generazione ma ne colgo tracce
significative anche sulle ventenni) sogguarda in tralice il suo uomo, sempre pronta a
percepire un suo eventuale malumore, lo tormenta chiedendogli mille volte “che
cos’hai?” oppure “a che cosa pensi?”, cerca di sondarne l’intimo, disperatamente

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interessata a ciò che gli accade dentro. Per amore, si direbbe, no?, perché lui è il
centro del suo universo, perché lei è la moderna geisha che non si occupa di
massaggiargli i piedi (almeno non tutte!) ma è dell’animo che si prende cura amorosa.
Pronta a farsi stuoino, sembrerebbe, per le sue esigenze: vuoi parlarmi del tuo
lavoro?, vuoi un po’ più di sale?, non hai freddo senza maniche?, hai sentito oggi tua
madre? Che intollerabile condiscendenza, un servilismo umiliante in gran parte
orientato a disinnescare la violenza temuta di lui: fisica (e quanto!), verbale, il suono
alto della voce che grida, le spalle di lei che si chiudono, la voce di lui che si arrochisce
per la furia che monta, lei che volge il viso come a stornare da sé l’aggressione,
raccoglie le stoviglie, stira con le dita la tovaglia, rifugi modesti di un quotidiano
domestico che fedelmente la riconosce.
Sono scene che sappiamo da sempre (anche se ogni volta ci stringono d’angoscia
rinnovata), le donne se le raccontano, consolano, accolgono in abbracci e carezze
tenere la donna e l’amica, affastellano considerazioni trite rassicuranti e inoppugnabili
proprio nella loro stolida banalità e, poi, scaduto il tempo, sciolgono il cerchio che le
proteggeva e tornano sole, ciascuna a rivestire il suo chimono stropicciato. Allora,
questa versione la conosco, la conosciamo da tanto tempo, il refrain dell’uomo
prevaricatore l’abbiamo spolpato fino all’ultimo impostandovi su rivendicazioni
femministe di ogni genere e qualità, diversamente capaci di produrre risultati ma che
tutte, nella loro gamma variegata, riconosco e faccio mie anche oggi. Semplicemente,
propongo di aggiungere un altro punto di vista mirato a cogliere le nostre
partecipazioni al perpetuarsi di un circuito brutto e maligno, anche perché,
banalmente, mi appare improbabile affidarsi alla capacità maschile di modificare un
canovaccio da cui, in prima battuta, risulterebbe trarre vantaggio.
E, appunto, il vantaggio è solo sul piano del cosiddetto potere sociale ma la
pesantissima contropartita è il disprezzo con cui le donne valutano l’uomo italiano:
ragazzone, semplice nei suoi pensieri fino a rasentare una rigida stupidità, violento in
quanto incapace di vincere altrimenti sulla donna, sostanzialmente un bambino mal
cresciuto da accudire, frenare, educare, perennemente incompetente nel vivere. Non
sa scegliersi i vestiti (la donna governante), non sa tenere la casa (la donna
domestica), non sa maneggiare i figli (dammelo qua che piange), si imbrana nei
rapporti (la padrona di casa che entra trionfalmente con le lasagne), viene mandato
ogni giorno fuori di casa a lavorare (e non diciamo ai nostri figli che la scuola è il loro
lavoro?) e ne ritorna “stressato” (come odio questa parola, onnicomprensiva e sterile
quanto il senso di colpa!), un bambino in più che la donna superwoman deve allevare
con infinita pazienza (io sono buona e cara, ma se mi arrabbio è la fine). Come è stato
detto che per molto tempo la donna non ha saputo trovare un suo stile femminile nel
lavoro, così, analogamente, i giovani padri al parco giochi, quelli al supermercato con
il figlio nello zaino, i single non hanno ancora trovato un loro stile maschile, ripetono
movenze e comportamenti femminili da sempre. Nulla di male, in verità, ma come è
fatto un padre di oggi che non sia un mammo? Come fa la spesa un vero uomo che
non sia Batman né Schwarzenegger?
Le più giovani generazioni vedono maschietti sempre maggiormente privi dei segni del
maschio adulto: avete notato che i trentenni di oggi non hanno più capelli?, che sono
efebici nella loro dinoccolatura?, che usano frasi sempre più semplici, elementari nella
loro gergalità?, che a quarant’anni sono già disinteressati ai rapporti sessuali? E non è
perché, intimiditi da questa novella virago, la vagina dentata di tanti studi (maschili),
si ritraggono spuntando e amputando la loro virilità cercando da eunuchi la protezione
sicura dell’harem, ma è perché divengono sempre di più simili al bambino che,
notoriamente, è privo di sesso. Non accade così per le ragazze, non sono efebiche,
magari anoressiche ma è veramente un altro discorso.
Che voglio dire, dove voglio andare a parare? molto semplicemente, fino a che non
spezzeremo il terribile circuito per cui l’uomo è un figlio mal cresciuto (la Badinter

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scriveva anni fa che ogni maschio deve dimostrare 1) di essere cresciuto, 2) di essersi
staccato dalla mamma, 3) di non essere gay; tutte richieste che non vengono rivolte
alle donne) saremo anche noi donne a perpetuare, molto più che solo una tragica
disparità sociale, una ugualmente tragica incompletezza nel rapporto fra i sessi: non si
può, non si deve andare a letto con il proprio figlio, ma il compagno adulto dov’è? E se
è il figlio di mamma, beh le mamme italiche, pettone e accudenti, non sanno neanche
dov’è di casa il rispetto e la stima per i figli: loro proprietà inalienabile, ne fanno l’uso
di un oggetto: possono prestarli, mandarli in giro, affidarli a un lavoro che li tenga
impegnati ma stima, perché mai? Una madre risponde a una persona che critica il
figlio: “beh, che devo farci se ho fatto un figlio deficiente?” attenzione: l’ha fatto lei
deficiente, non gli vien riconosciuta nemmeno la capacità di essere deficiente in
proprio, come ribattevamo a nostra madre sulle cattive compagnie: non ci valuti
capaci neppure di perderci in proprio, ci vogliono le cattive compagnie per traviarci? Di
mancanza di stima si può morire dentro ben di più che di mancanza d’amore, non è
ora di finirla con questi asili d’infanzia sempre pieni, in cui non c’è più posto per
accogliere i piccoli veri, con l’età giusta?
Oppure vogliamo continuare dolorosamente a vedere i nostri figli entrare nel Regno, al
seguito del guerrafondaio di turno?

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Lei o lui?

Un fatto che mi sembra sempre singolare è l’obbligo cui tutti più o meno obbediamo di
scegliere uno su due, di fare graduatorie, di comparare prendendo le misure, di
elicitare il vincente definendo perdenti l’altro o gli altri. Sembra che non siamo capaci
(o abilitati) a considerare la coppia, (l’insieme, il gruppo) vedendone chiaramente i
membri, apprezzare le qualità dell’una o dell’altro senza che il giudizio debba
necessariamente capovolgersi in constatazione di vuoti o demeriti dell’altro.
Mi spiego, se si parla di una donna che ha avuto successo, che ha concluso bene una
attività, che è stata brava con un pubblico riconoscimento, che ha gestito un affare
difficile in maniera eccellente, subito dopo l’apprezzamento ecco comparire il
sorrisetto o la battuta sarcastica sul suo compagno: ma l’hai visto, a quella
premiazione, costretto a fare il principe consorte? Poveretto, convivere con una
manager, non lo invidio certo, magari deve anche cucinare e tenere i bambini, con lei
che porta i pantaloni in casa, e poi si lamentano se i matrimoni saltano e dicono che di
maschi di un tempo non se ne trovano più. Oppure, se è lui il vincente, ecco la
compassione per doversi tenere quella moglie così limitata, che fa rappresentanza ma
per piacere non la fate parlare! D’altronde, è ancora carina, doveva essere una
bellezza da giovane, da ragazzi si va dietro l’amore e poi lui è bravo, forse si prende
qualche svogliatura ma in fondo è discreto,...

Quello che mi colpisce è l’inclinazione su cui scivola immediatamente il nostro


pensare, perché magari non lo diciamo apertamente ma il pensiero si forma quasi da
solo ed è lì, bello chiaro e ben leggibile. Un riflesso automatico che, sia pur
prescindendo per ora dalle sacrosante diatribe e filippiche sul femminismo, certamente
condiziona i nostri rapporti ma, soprattutto, sarebbe apertamente smentito dalla
nostra esperienza quotidiana. I nostri amici, quelli che invitiamo a cena o con cui ci
confrontiamo, quelli che ci consolano e ci confortano nella fatica del vivere, raramente
formano coppie così squilibrate. O, meglio, raramente formano coppie in cui il pieno
dell’uno debba obbligatoriamente corrispondere al vuoto dell’altro. Sembra un’eco
della drammatica confusione fra parità e uguaglianza, sembra che comunque per
tranquillizzarci la nostra sommatoria debba avere risultato zero. Ma perché mai? E
quanto ci costa in termini di libertà di pensiero, di gestione delle nostre emozioni, dei
nostri sentimenti? Quanto ci vincola e ci anchilosa un’idea del gioco relazionale e
sociale pensato solo come una gara, un giudizio, una selezione estenuante? E quanto
ci mette a rischio anche per quanto riguarda noi stessi?

È ovvio che esistono i conflitti, le discriminazioni, le lotte di conquista, il tentativo di


sopraffare il parere dell’altro, di spuntarla sulla collocazione dell’armadio, la scuola dei
figli, la dieta, il modo di curarsi, se va chiusa la chiavetta del gas e abbassati gli
avvolgibili la sera, se si deve dormire con la finestra aperta o chiusa, se la mia
mamma è meglio o peggio della tua, l’uso del denaro (chi è il risparmiatore e chi
scialacqua? Chi spende con oculatezza e chi è troppo di classe per badare agli
spiccioli?), la politica, la spiritualità, le credenze, i sogni. Né certamente propongo o
auspico un’armonia ininterrotta, no, semplicemente mi chiedo come potremmo essere
nei rapporti se sapessimo concepire il successo contemporaneo dell’una e dell’altro,
quale ne sarebbe il costo sociale e personale oltre ai vantaggi che mi appaiono più
facilmente.

Forse, si potrebbe immaginare di rendere dinamica questa costrizione, lasciare che la


luce di un partner richieda il temporaneo oscurarsi dell’altro e poi mutare la messa a
fuoco, forse ciò che mi appare faticoso e pesante è la persistenza monotona del punto

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di vista. Come nei tarocchi, la carta del mondo in cui s’inseguono e mai si raggiungono
ma ambedue corrono. Forse, allora, affrettando ogni volta un poco di più lo scambio
del gioco figura sfondo, abbreviando i tempi, chissà mai che ci abituiamo a saper
tollerare una contemplazione in cui il valore dell’uno si appoggi su quello dell’altro e
non debba spiccare su di un vuoto. Si dice, certo, che dietro il successo di un
grand’uomo c’è una gran donna ma sapremmo realmente pensarlo e dirlo anche per il
successo di una donna senza che questo le apporti una certa diminuzione di valore?
Difficile, se ancora oggi è così impervio che una donna possa semplicemente offrire un
caffè a un uomo senza imbarazzo reciproco. Galateo, ruoli sociali, d’accordo, e tutti i
mille timori di una perequazione che sfili i perni centrali della convivenza eppure come
possiamo non considerarla una questione essenziale dei nostri tempi?

Sempre la Mastretta (e non metteremmo l’articolo per un uomo!) scriveva acida:


perché al compagno di una donna ambasciatrice non viene mai proposto di visitare un
istituto di beneficenza? Perché non ne siamo capaci, Angeles, perché ci stride in mano
e in testa una proposta così semplice, perché anche noi donne in fondo non credo che
lo vorremmo. Perché vorremmo al nostro fianco, nel momento del successo, non un
mesto principe consorte (costretto, magari, come Filippo d’Inghilterra a vendicarsi
prendendo a calci i cani della consorte) ma un uomo di cui essere fiere. Perché la pari
dignità non passa, non può passare attraverso lo scacco del vincitore di ieri. Per
quanto violento, sopraffattore, sfruttatore e becero sia stato, non è più il tempo di
fargliela pagare, questo credo che noi femministe vintage l‘abbiamo dovuto e saputo
finalmente comprendere fino al nocciolo più legnoso: non funziona così, o, meglio, se
funziona così non ci appaga. Non è la sconfitta dell’altro il nostro risarcimento, non è
questo che frantuma il tetto di cristallo. Sarebbe ancora il gioco antico che ci ha fatto
tanto soffrire. Ma un gioco altro che non si concluda con un vincitore e uno sconfitto
richiede un pensiero che sappia accogliere una vittoria di ambedue.

E, poi, forse, la vittoria per l’una o per l’altro ha lineamenti differenti. Forse, ma
bisognerebbe ragionarci un po’ su, forse quello che cercano le donne è la stima più
che l’amore mentre gli uomini hanno più bisogno, nello scambio, di ottenere l’amore.
So bene come è difficile districare questi due valori ma è una questione di
accentuazione. Nel sociale, il successo si chiama prevalentemente stima, nell’ambito
privato amore. E se vogliamo rendere più facilmente comunicabili questi due mondi (il
privato è politico dicevamo nel lontano e mai dimenticato ’68) forse occorre che ne
cogliamo a fondo i linguaggi differenti per saperli tradurre da un mondo all’altro. Sono
di uomini i grandi romanzi d’amore, anche se le protagoniste possono essere donne
ma se le donne sono quelle da cui si cerca la conferma d’amore, non è detto che
anche per loro sia questo l’obiettivo vitale. Questo sì che è un pensiero maschile: se
questo è per me il bene più importante, lo sarà sicuramente anche per te. Ma se si
può vivere, per quanto dolorosamente, senza amore, non si può calcare la terra senza
stima, senza essere legittimati a vivere, riconosciuti. Forse, nel lungo deteriorarsi di
una inizialmente trionfante e festosa rivendicazione di diritti per le donne, la nostra
società più che femminilizzata si è devirilizzata. Non riuscendo ad acquisire e
assimilare il pensiero femminile, ha smussato i tratti maschili ripetendo il terribile
assunto che un uomo privato della mascolinità è sostanzialmente una femmina.
Equivoco tragico e violento che ha murato il dire femminile distorcendone senso e
significato. Sì che alla richiesta di autorevolezza, stima, visibilità nel sociale si è
creduto di rispondere in eco beffarda con proposte di armonia, infantilizzazioni,
accudimenti estetici, cosmesi da parte del mondo maschile. Femminielli nel sociale,
sempre più apertamente violenti nel privato, in una escalation drammatica di
fraintendimenti reciproci che hanno finito per mettere in ridicolo, e dunque tacitare, le
istanze di una parità. Nata gioiosa e combattiva, la parità delle donne e degli uomini è

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divenuta faticosa e dolente come un livido che fa male solo a sfiorarlo. Un discorso
inacidito che richiede oggi pensieri e parole differenti, freschi, inusuali. Anche da parte
delle donne, se non soprattutto da parte loro. Da parte nostra.

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La lingua mochena

Ero a Trento, svolgevamo un programma interessante che coinvolgeva l’intero


complesso delle scuole materne, uno dei classici fiori all’occhiello della Provincia. E
giustamente, è una realtà antica che comprende praticamente tutti i bambini del
territorio trentino con una esperienza consolidata capace di non immusonirsi nella
ripetitività degli anni ma ancora curiosa di assaggiare il non esplorato, di ripensare
diversamente il già noto. Bene, il programma triennale, appunto, prevedeva di
prendere in esame il riflesso dell’organizzazione della scuola materna sulla relazione
con il bambino, per cui giravo in tutte le scuole della Provincia per cogliere le
particolari caratteristiche di ciascuna e intersecarle con le linee comuni, dichiarate,
volute o reali che fossero. Un giorno, studiando con le insegnanti i dati di un distretto,
mi imbatto nella questione della lingua mochena che ignoravo completamente. Si
trattava di un lembo di terra delle valli trentine dove si parlava, un tempo, la lingua
mochena e la questione, evidentemente, era cosa farne, come conservarla (era un
patrimonio culturale, non dello stesso rango del ladino ma insomma...), come
articolarla con l’insegnamento della lingua italiana, sciogliere gli inevitabili nodi
burocratici e organizzativi. Già, perché per garantire i diritti dei piccoli cittadini del
luogo occorrevano insegnanti che parlassero la lingua mochena, non una sola, però,
per scuola, doveva essere assicurato il ricambio o la sostituzione in caso di malattia.
Sì, ma secondo le norme condivise ci voleva anche personale di servizio che sapesse e
parlasse il mocheno, però ne basta una di persona per scuola? Sì, ne basta una, il
problema era trovarla e poi verificarne la padronanza della lingua, che problema è?,
beh, ci vorrebbero dei membri della commissione esaminatrice che assegna gli
incarichi capaci di parlare il mocheno, anzi così esperti da saper controllare la
conoscenza degli esaminandi. Perché è così difficile?, chiedevo, affascinata da un tema
di cui non sapevo nulla, perché, mi spiegano con gentilezza, la lingua mochena non è
scritta, è solo orale, non ci sono testi da studiare né verifiche immaginabili, ma il
problema è ancora un altro, interviene una insegnante simpatica con begli occhi che ti
guardano con franchezza, il problema è che i genitori dei bambini non vogliono che i
loro figli parlino quello che ritengono solo un dialetto, vogliono che i figli parlino, e
bene, l’italiano. È vero, ribatte l’altra alla mia sinistra, la coda di cavallo che danza
accompagnando la sua foga, ma infatti dalle elementari in poi insegniamo solo
l’italiano. Pacata, la responsabile dell’organizzazione ci espone il prospetto dei costi,
altissimi, dell’operazione “lingua mochena”. Dunque, riassumo per me
silenziosamente, i genitori non vogliono che i figli la parlino, il costo è alto tale da
sottrarre risorse ad altro anche nella ricchissima provincia autonoma, la verifica
praticamente impossibile, il tempo di esposizione per i piccoli ristretto ai tre anni della
frequenza alla scuola materna, privilegiare la conoscenza del mocheno significa anche
condizionare pesantemente le graduatorie per assumere il personale rischiando
oggettive ingiustizie, ne vale la pena? E, silenziosamente, mi rispondo: e chi ha il
diritto di cancellare una lingua dal consesso culturale di un luogo? Oggi non facciamo
follie estatiche per il ladino dedicandogli istituti e corsi di studio prestigiosi? Non ci
emozioniamo quando possiamo accedere a squarci di culture che pensavamo sepolte o
di cui non conoscevamo neppure l’esistenza? Chi può decretare che il mocheno non
serve più? Solo per l’esilità della sua presenza nel territorio, trentino e, peggio ancora,
nazionale? In una regione che non ama poi così tanto la nazione di cui fa fatica a
considerarsi parte integrante, non dovremmo sostenere l’italiano senza confusioni? Ma
questo comporta annullare i contrasti, le differenze, le variegature che danno il senso
al tessuto unitario?

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La settimana dopo, le domande si ripetono sotto altra forma: oggi il punto è garantire
l’apertura di due scuole materne sui bricchi, popolazione prevista meno di dieci
bambini, settanta chilometri di salita per raggiungerle. Ovviamente con la dotazione
prevista di maestre, e loro sostitute, personale di servizio e cuoca. Con meno di tre
presenze si può non aprire, però bisogna considerare gli eventuali ritardi per neve o
panne della corriera, il problema ora è organizzare il coordinamento delle informazioni
per prendere tempestivamente la decisione se aprire o meno. Per quattro piccolini, se
va bene dieci? E perché mai questi bambini non dovrebbero avere il diritto di usufruire
di un servizio che è garantito a tutta la popolazione dai tre ai cinque anni? Solo perché
sono una minoranza esigua? Ma, pure, di nuovo, si ripresentano gli interrogativi sulle
risorse e, quasi, alla fin fine sul significato stesso del servizio che sembra sfumarsi in
un nonsense suscitando echi antichi di soluzioni che abbiamo rifiutato con energia:
pagare le mamme affinché si occupino dei bambini loro e degli altri, ridurre l’impianto
previsto di personale a due, tre dipendenti. Com’è facile semplificare quando si è un
poco fuori dal problema, ma per noi e per i nostri figli abbiamo voluto servizi completi,
e per tutti, abbiamo irriso e sbugiardato gli amministratori che ci proponevano di
restare a casa con un contributo di denaro che equivalesse al costo degli asili nido.
Abbiamo fatto bene, e lo penso ancora, ma il pensiero mi corre a tutti i bambinetti
degli immigrati nel nostro paese, con lingue ben più significative e coinvolgenti della
mochena, si ripete la stessa sequela di dubbi difficili: i genitori vogliono che parlino
l’italiano per un loro migliore integrazione ma la pratica della lingua locale li allontana
dalla cultura d’origine, ovvio e in parte inevitabile. E, in altri termini, ma
sostanzialmente identico il problema si ripropone nei paesi in via di sviluppo: corrente
elettrica, scambi culturali, farmaci occidentali e vaccinazioni, sicuramente fattori di
sviluppo ma necessariamente squassanti il tessuto della convivenza che ha tenuto
assieme nel tempo con ritualità codificate e valori precisi e condivisi.

Ma come possiamo fare affinché non si affermi tanto il progetto dell’integrazione


mortificante ma dell’interazione a pari merito? Lo penso uno dei quesiti più seri e
determinanti dei nostri tempi, per tutti noi, perché se, appunto come si dice, ogni
popolo ha i suoi meridionali e, aggiungo io, la sua lingua mochena, anzi, non solo ogni
popolo, ognuno di noi, dentro e fuori di sé, nello spazio e nel tempo, combattuto fra il
desiderio di conservare le sue antichità preziose e insostituibili e l’ansia di conoscere il
nuovo, delle modifiche, di cambiamenti, di aria fresca. Ma che non sciupi le dorature
antiche, che non ingiallisca i merletti.

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Magie

Ogni tanto, la magia entra nella vita quotidiana: se la sai accogliere, ti rallegra. A me
è capitato, e mi piace raccontarlo anche perché me ne rinnova l’incanto.
Per prima, voglio raccontare di Praga. Sapevo che era una città magica ma non
sapevo che mi avrebbe regalato una sua magia. La storia comincia quando un caro
amico appassionato di Mozart ci propone di organizzare una gita a Praga per il
duecentesimo anniversario del Don Giovanni: grande divertimento, preparativi
accurati, obbligo per tutti (eravamo poi undici) di studiare a memoria musica e
libretto. Partiamo e Praga si apre in una magnificenza stupefacente, velata dalla
tristezza dell’occupazione sovietica. Ci siamo organizzati per stare qualche giorno,
l’esecuzione del Don Giovanni è struggente, restano negli occhi i giovani padri che con
i bambini a cavalluccio sulle spalle fanno la fila per i biglietti e la povertà
dell’allestimento, amorosamente curato con i mezzi disponibili.
Ci sentiamo in vacanza, è la fine d’ottobre e noi siamo evasi dalle nostre diverse
professioni, l’aria è dolce e il fiume incantato. Uno di noi ha letto sulla guida che
bisogna assolutamente andare a mangiare dai Tre Struzzi, noi facciamo un po’ gli
snob, ma dai, sarà un posto turistico, fa molto più gita intelligente andare nelle loro
birrerie, lui insiste e finiamo per accontentarlo, dai, andiamo. Il locale è estremamente
suggestivo, affacciato sul ponte Carlo, facciamo per entrare ma ci fermano subito: non
c’è posto, bisogna prenotare. Pazienza, non ci rimanere male, torniamo domani.

La mattina dopo, chiediamo a un cameriere dell’albergo di telefonare per prenotare,


occorre qualcuno che parli bene la lingua, ma il ristorante è ancora chiuso, non
importa, per favore può telefonare fra un po’? Grazie, e ce ne andiamo in giro. Ecco la
villa (splendida, fra gli alberi) dove Mozart ha terminato la composizione del Don
Giovanni la notte prima della rappresentazione, gli strumenti musicali, le stanze
sommesse, le dimensioni raccolte. Ma vogliamo andare anche al Castello, c’è una
meravigliosa collezione di quadri, strano, i mezzi oggi sono radi, fino a ieri erano
frequentissimi, beh finalmente è arrivato, saliamo. Il Castello è affascinante, la salita
dove arrancava Giordano Bruno densa di memorie, i quadri vorremmo vederli con più
calma ma l’amico ci fa fretta: è ora di andare altrimenti perdiamo la prenotazione.
Facciamo un po’ i preziosi ma non ci sentiamo di sabotare un desiderio così innocente,
giù a passo veloce verso il ponte Carlo mentre il cielo s’imbruttisce, Praga sembra
diventata di malumore? Ci rimandiamo ridendo l’idea ma il vento si è alzato,
stringiamo i colletti delle giacche e affrettiamo ancora il passo, ecco il ristorante
all’ingresso del ponte, andate avanti voi signori che noi ragazze ci si va a rifare il
trucco…in bagno. Collegiali un po’ tardone, finalmente ci avviamo verso la sala da
pranzo, illuminata e con un buon tepore, cerchiamo con lo sguardo il nostro tavolo,
girandolo incontriamo gli occhi dei maschietti: che fanno lì all’ingresso, perché non
entrano? Non entrano perché non c’è posto, ma non avevamo fatto telefonare? Certo,
ma quando l’albergo ha telefonato gli era stato detto che era già tutto prenotato.

Siamo frastornati, infreddoliti, è sgradevole sentirsi buttati fuori ma non facciamone


un dramma, troveremo mille posti dove andare a mangiare. Beh, mica poi tanto visto
che si sono fatte nel frattempo le due, ci aggiriamo per le strade ma è tutto chiuso,
perfino le costose vinerie mostrano i camerieri che rassettano al di là dei vetri.
Comincia a far proprio freddo, l’umore da vacanza perde smalto, poi uno di noi
avverte: là c’è aperto, come ma sembra un seminterrato, no, è un ristorante, beh
proviamo magari un panino lo rimediamo. Entriamo e un cameriere ci viene incontro:
prego, è tutto pronto. Che cosa sta dicendo? Ci fa strada, e noi lo seguiamo storditi, ci
conduce in una sala dove c’è una tavola apparecchiata per undici: prenotata per voi,

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sorride il cameriere. È vietata la scappatoia che l’albergo avesse chiamato un
ristorante per l’altro (lo verificheremo d’altronde la sera), no, è una magia di Praga
che ci ha presi in giro con garbo. Ci accomodiamo soddisfatti, stiamo per ordinare,
entra uno studente che ci mostra dei suoi disegni, il Castello, i Tre Struzzi, il ponte
Carlo. Forse glieli avremmo acquistati lo stesso ma l’allegria è stata tanta. A casa li
abbiamo incorniciati, forse le magie non avvengono solo a Praga. Vuoi dire che il
problema è riconoscerle?

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Prendere gli stivali ad un morto

Una scena di film, la neve, i soldati con i cappottoni lunghi delle guerre passate, molti
caduti e altri che arrancano con tanta fatica. Il soldato giovane ha freddo, i suoi stivali
sono inutilizzabili, sta gelando ma i caduti, guarda, hanno stivali ancora buoni. A loro
non servono più ed ecco che il ragazzo si china, s’inginocchia vicino a un morto, glieli
sfila, ne lascia ricadere i piedi indifesi, li indossa, si rialza e va.

E a me si solleva un nuvoletta di pensieri, pietà per chi è morto e non può protestare,
non ha più diritti, tenerezza per quel viso giovane e per quel freddo di adolescente, il
fatto che la vita di ciascuno si svolge in contemporanea con quella degli altri, e che
questo comporta dei diritti incrociati di proprietà e di supremazia. In quel caso, certo,
sembra tutto più facile, ma resta una decisione non banale appropriarsi degli stivali di
un morto. Ma il ragazzo è in guerra, sta difendendo la patria, il suo proteggersi dal
freddo non si limita alla sua persona ma è ordinato a un obiettivo più alto. E, se
invece, in guerra non fosse? Se si trattasse di due barboni? Sempre giovane
resterebbe, sempre sentirebbe il freddo, sempre avrebbe paura di morirne, allora
potrebbe lo stesso? Mi sa di no, penso proprio che la comunità intera si rivolterebbe
disgustata riscoprendo all’improvviso una tardiva pietà per quel povero morto, cui si è
fatto l’estremo insulto di derubarlo mentre non poteva più difendersi, cosa può esserci
di più spregevole? Mi immagino il ragazzo circondato minacciosamente, mi immagino
gli vengano tolti rudemente gli stivali, lo vedo scacciato da una indignazione che
gonfia il petto e rassicura le menti. E, adesso, mani intenerite calzano nuovamente gli
stivali a quel barbone che, pure, di stenti è appena morto e per cui non c’era stata
pietà né tenerezza né generosità.

Allora va bene derubare un morto? No, certo che non va bene ma nella nostra vita
quotidiana spesso lasciamo fra le righe, per non esserne infastiditi o turbati, la realtà
evidente che il danno o la morte dell’uno può portare vantaggio ad un altro senza che
per questo chi se ne avvantaggia debba esserne colpevole o subire la riprovazione.
Ogni tanto, nelle storie della cronaca, si affaccia per un attimo l’eterna possibilità del
cannibalismo: in situazioni estreme, ci si può cibare di un altro essere umano? Si può
farlo ma non poterlo dire? Non vogliamo saperlo troppo, ci diciamo che sono domande
morbose, una curiosità malsana. Eppure, anche nel caso apparentemente tranquillo
dell’eredità, situazione ultranormata e sminuzzata nei dettagli più piccoli, è così
difficile accettare e riconoscere il diritto del passaggio di mano. C’è il dolore per la
morte di un familiare, forse la frequentissima lite nella spartizione dell’eredità assolve
anche alla funzione di spostamento della sofferenza e della terribile contesa su a chi di
più apparteneva il morto stesso, sono messi in moto meccanismi psichici e sentimenti
profondissimi ma forse c’è anche proprio la difficoltà di poter fruire a testa alta, senza
infingimenti, di un vantaggio derivato dalla morte di un altro. Più brutalmente ancora,
i trapianti d’organo sono possibili se a qualcuno invece che gli stivali accade che non
possa più utilizzare il suo cuore. Lo vestiamo con il termine mellifluo di donazione ma
è come se non sopportassimo di vederlo con chiarezza, forse non sapremmo
perdonare chi ne usufruisce, forse è un forma di pietà per chi vive, per chi può
sopravvivere perché un altro è morto. Non al posto suo, non per colpa sua ma, tant’è,
occorre giustificare, riformulare, dirci che il morto torna a vivere perché il suo cuore
batte in un altro corpo sottratto alla morte. Ma ascoltando un medico che, al telefono,
gioisce perché sta morendo quel ricoverato giovanissimo e fa poco si potrà operare il
trapianto, comunque scoppia un sussulto interno per quanto silenzioso, il medico si
volta, coglie lo sconcerto non espresso, si affretta a giustificare, si costringe a restare

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ancora un poco invece di correre in ospedale dove è già con il pensiero che si deterge
le mani.

E ha ragione, è il suo lavoro, ma ha ragione anche chi vuole ricordare l’insopprimibile


civiltà del culto dei morti, ma ha ragione chi aspetta con ansia drammatica un cuore
nuovo, ha ragione la madre che smuore dal dolore nel vedere il corpo morto della
figlia avviarsi sulla barella verso la sala operatoria. Sono limiti, confini tremendi cui
non possiamo sottrarci incalzati dalle tecnologie sempre migliorate. Qualche anno fa
gli ospedali britannici segnavano una piccola bara vicino ai pazienti che avevano
superato una certa età, come dire che per loro non ci sarebbero stati trapianti, gli
organi sarebbero andati sprecati per tenere in vita delle persone anziane. Come non
capire una scelta così elementare? Certo, se gli organi a disposizione non sono
sufficienti per tutti, se un trapianto, inoltre, è sommamente costoso, un piano di
sanità nazionale non può sottrarsi a scelte di questo impegno. È brutale, coraggioso,
trasparente o inumano applicare la piccola bara vicino a quei nomi in modo visibile?

Forse si potrebbe pensare di completare il gesto della scelta con una sorta di
risarcimento sociale a favore del valore che nella scelta è stato inevitabilmente
penalizzato, andando a impoverire il nostro tessuto sociale. Evitando che la terribile
piccola bara vada a significare una volta per tutte che degli anziani non sappiamo che
farcene, come se la scelta di un piano sanitario andasse a cancellare il valore sociale e
civile degli anziani nella collettività. Perché il pericolo mi sembra stia non tanto nella
scelta che, discutibile o meno, è compito e diritto di chi governa e, casomai, va
valutata in quei termini. Il pericolo è nell’estrapolare direttamente e senza filtri da una
scelta tecnica una ricaduta obbligata sulla società. Che diventa, dunque, uno
slittamento dei valori cui si informa la convivenza. Perché queste scelte sono
quotidiane e dovunque: chi va assistito per primo, il più giovane, il più grave, chi può
farcela, chi è allo stremo e avrebbe diritto a morire assistito? A chi riservare le
medicine scarse, ai più piccoli che forse non riusciranno a diventare grandi, a chi è
adulto e sarebbe utile? Agli anziani? Quante volte, nel nostro mestiere, incontriamo
diritti che stridono e facciamo fatica a districarci nello scegliere chi privilegiare
nell’ascolto? L’adulto che sta costruendosi una professione e ha chiuso la porta per
studiare e il piccolo che scuote la maniglia chiedendo di vedere assieme i cartoni
animati. La donna quarantenne che vuole brillare nella sua bellezza piena e
l’adolescente bruttina che soffre nel contrasto. Il padre cinquantenne che mette al
mondo un bambino con la nuova moglie e la figlia che non riesce a concepire.

E, ancora, drammaticamente, a chi va dato il lavoro, la casa? Ai più bisognosi? A chi


ha meritato, a chi è più malato, a chi è più inserito, a chi è più emarginato? Come
riaffermare il valore della salute, del rispetto delle regole civili, come risarcire nella
nostra cultura chi sembrerebbe penalizzato non avendo malattie da esibire e non è né
un ex detenuto né un ex tossicodipendente? In modo da evitare che la fondamentale
civilissima attenzione per il disagio si stravolga in un suo perverso essere premiato? Sì
che si appanna il valore dell’adulto responsabile fino a non costituirsi più come un
orizzonte e una meta ma viene insistentemente suggerito il fascino del piccolo,
dell’immaturo, del debole, sensibile, delicato, incapace di fronteggiare conflitti e
difficoltà. Figli spaventati dalla fatica del vivere per cui si sentono non
sufficientemente attrezzati e adulti bambineggianti occupati a conservare il diritto a
essere giovani.

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Razzista anch’io

Li chiamiamo princìpi, come se da lì, da loro prendessimo le mosse, come se da loro


derivassero, a caduta, i nostri comportamenti, quelli giusti, s’intende, quelli di cui
andiamo fieri. Ma a me sembrerebbe più adeguato chiamarli obiettivi, mete finali,
orizzonti cui guardare. Riferimenti progettuali, questi sì cui orientare i comportamenti
che vorremmo ci caratterizzassero. Come si dice, le utopie sono come l’orizzonte, non
le raggiungi mai ma è a loro che guardi per indirizzare il tuo cammino.
Ancora una volta solo un gioco di parole? Beh, ancora una volta le parole sono
importanti, è diverso discendere da qualcosa o orientarsi verso qualcosa. Intanto,
nella nostra abitudine mentale, ciò da cui si discende è immutabile, eternamene
scritto nella roccia, mio padre emigrante, la mamma primogenita di una schiera di
fratelli, il nonno studioso o contadino, la nonna altera, scostante o un po’ pettona,
tutta morbida e profumata di mele. Geni e cromosomi, abitudini, educazione, rituali,
ecco di che cosa siamo composti, e già facciamo fatica a modulare l’impasto a modo
nostro, figurarsi a modificare gli antecedenti! Tutt’al più, possiamo dirazzare, deviare
in alto o in basso la linea tracciata ma non tornare sui passi antichi. Come pensiamo,
più per cultura dominante che per vera ingenuità, che il passato non si può
modificare, che la memoria è un archivio magari un poco affastellato ma completo nel
suo disordine, (ma di questo parleremo meglio) così i sacri principi vengono posti
all’origine del nostro comportamento. Sì che, nell’ovvio divario fra il nostro
comportamento e loro, vediamo riaffacciarsi trionfante la metafora del peccatore.
Flagellatevi perché avete mancato, nascondete il vostro operato se appena potete o,
quanto meno, provatene vergogna. E proprio come sui testi sacri non è ammessa vera
critica o discussione (tutt’al più interpretazioni differenti!), così sui princìpi, signori
miei, non si discute. Nemmeno per ischerzo, aggiungerebbe mio suocero.

Ora, mi sembra opportuno svincolarsi finalmente dalla condizione di penitenti,


militanti, seguaci più o meno obbedienti, pecorelle distratte e un po’ svagate che si
perdono per un ciuffo d’erba più in là. Mi sembra che potremmo finalmente
considerarci soggetti a pieno titolo, come si diceva negli anni della politica che
sperava, titolari di una cittadinanza compiuta. Che si muovono appassionatamente
verso degli obiettivi civili, che custodiscono diritti e responsabilità nelle loro mani, che
li vogliono sempre più attuali perché è a loro, i cittadini compiuti, che ne occorre la
diffusione e la realizzazione. Obiettivi che danno senso e valore al nostro muoverci da
persone, non più crocette da apporre al quotidiano esame di coscienza. Verso la
chiesa, verso il partito, verso la famiglia, verso la scuola di pensiero, verso le
tradizioni, verso qualunque appartenenza, che comunque controllerà il nostro operato
e, inevitabilmente, lo sanzionerà o perdonerà o proporrà degli esercizi per rafforzare
la nostra fede debole. Qualche penitenza per redimerci, ben sapendo che redenzione
completa non ci sarà mai per noi, tanto più nelle appartenenze che vogliono chiamarsi
laiche e, come tali, si pensano esenti da bigottismi per cui non se ne proteggono fino a
configurare vere e proprie inquisizioni più o meno velate. In nome dei princìpi,
s’intende, che non si discutono sì che noi dobbiamo chiederti di confessare
apertamente il tuo errore per preservare il corpo sano di tutti noi, a meno che tu, ma
noi non lo vorremmo mai, finisca per meritare di essere espulso. Fuori, privo di
appartenenze che trattengono anche la nostra identità, perché ben cucita a quei
princìpi: certo, possiamo sempre formare un’altra appartenenza rivale che difende, ah
sì, molto meglio e con molta più correttezza quei princìpi così sacri, ma, capiamoci
bene, dobbiamo tornare alle origini, riprendere il passo dalle antiche radici, riscoprire i
veri princìpi, quel nocciolo essenziale che non tradiremo mai più. Anzi, che non
permetteremo mai più che vengano traditi, sai, forse tu non ti sei accorto ma debbo

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correggerti fin da subito, con la fermezza necessaria. Il padre del presidente Schreber
aveva ideato dei piccoli tensori collegati alle radici dei capelli dei bambini così che, se
accadeva loro inconsapevolmente di curvare la schiena, potevano correggersi
immediatamente evitando (ed era qui la terrificante e insieme sollecita amorevolezza)
di essere puniti.

Nulla di nuovo, certo, e certo non basta spostare i princìpi dal mondo del passato
mitico verso il tempo del futuro, certo non basta un nominalismo d’accatto ma chissà
mai che, dovendo formulare dei pensieri e delle parole, ci troviamo il passo inciampato
da questa diversa collocazione e, chissà mai, appunto, ci accada di provare la fatica
appagante di un pensiero, di una parola tutta fresca, contingente, valida oggi, anzi
ora, per il tempo di una bolla di sapone. Iridescente, bella, se mi piace ci proverò
ancora, domani o fra un minuto, ecco, sì, se mi piace la soffio e resto a guardare
come le mani dell’altro si tendono a raccoglierla e, contemplando le goccioline che la
formavano, ancora ne soffi una fresca, iridescente, caduca verso di me. Un pensare,
un conversare, un scambio fra persone che non discende dai princìpi ma li cerca, li
vuole, fors’anche li pretende. Mani protese che si stringono per fare assieme.

Ma, soprattutto, ci si porrà finalmente il problema, la questione, l’interrogativo vitale


di che cosa farsene dei pensieri, delle emozioni, dei sentimenti degli impulsi che non
solo non fanno avverare i sacri princìpi in questa valle di lacrime ma, addirittura, li
contrastano, li negano. Che ne facciamo di quell’impulso a difenderci? A difendere la
nostra persona, i nostri beni (ahi! ahi!), a trovare pericoloso il diverso, a voler
stroncare le obiezioni, a trovare estenuante e noioso l’obbligo del rispetto dell’altro, a
pensare, colpevolmente ma con buona approssimazione reale, che se decidessimo
tutto da soli le cose andrebbero meglio. Che ne facciamo della voglia che ci fa prudere
le mani di intervenire bruscamente, togliendo dalle mani esitanti dell’inesperto lo
strumento che noi sappiamo usare così agevolmente, sovrapponendoci al genitore
imbelle che sta facendo impazzire il figlio, scrollando l’adolescente apatico che gioca
irresponsabilmente con la morte, suggerendo di coprire il capo di un bambinello
perché il sole è forte o inserendoci in un litigio così evidentemente insulso e che li fa
soffrire così tanto?
È da qui che, a mio parere, che prende valore l‘etica di ciascuno di noi, è perché sono
capace di essere profondamente razzista, intollerante, violenta che posso scegliere un
comportamento, un atteggiamento che, sia pur minimamente, renda un poco più
prossimo l’orizzonte dei princìpi. È perché sono ben capace di un pensiero banale e
normativo (a quell’anoressica lì quattro schiaffi al momento opportuno e vedi come
smetteva di far la malata e di far ballare tutti quanti intorno a lei) che posso
distaccarmene e cercare altrove, un punto di vista da cui restituire ai protagonisti il
diritto e l’autorevolezza e la dignità di gestire la loro esistenza. Ma se mi pensassi
aliena da banalità, come potrei accorgermi di scivolarci dentro? E, più precisamente,
se non percorressi a sazietà la saggezza del pensiero banale, come potrei uscirne
fuori? Veramente si può fare a meno del buon senso, anche di quello più becero? Non
è una insopportabile supponenza decidere che la verità, la saggezza, la giustizia si
collocano da un gradino in su? È in questo quadro che mi sembra più funzionale
immaginare tante, tantissime persone al nostro interno, capaci di presidiare ciascuna
uno dei nodi della rete, capaci di porgere il punto di vista del razzista, del banale,
dell’interventista, dell’ideologizzato, del cinico, del laico e del laicista, affinché si
possano raccogliere le diverse informazioni, analizzare i suggerimenti, ascoltare e poi
giudicare, decidere, assumendosi la responsabilità di far proprio quell’orizzonte che un
tempo chiamavamo princìpi.

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Regina della casa?

Continuano a dircelo, sembra una banale ovvietà che la casa sia il regno della donna,
il suo luogo d’elezione, non tanto e non solo perché la donna se ne deve occupare ma
perché ci gabellano che è il luogo suo, su cui, appunto, dovrebbe regnare.
Eppure basta una osservazione superficiale per accorgersi che ne è responsabile, che
generalmente la governa, che tiene le redini dell’andamento complessivo. Ma non è lei
ad abitarla sul serio. La rende abitabile, per il compagno, per i figli, non per lei.
Compagno e figli hanno angoli privilegiati, luoghi privati cui eventualmente le è
concesso di curare, di tenere in ordine ma lei, lei dove abita? Dove sono i luoghi
privati delle donne in casa loro? Con la scusa che la casa è tutta della donna, regina
appunto, le viene scippata la scelta, l’esclusività di uno spazio tutto suo. Che sia
testimonianza della sua esistenza lì, in quella casa su cui regna. E se ha un suo
angolo, praticamente sempre le è riservato in quanto dedicato al lavoro fuori casa: la
scrivania, su cui appoggiare documenti, testi, computer. Le spetta in quanto,
lavorando, si avvicina al rango dell’uomo, ma forse ha la sua poltrona preferita?
Professioniste qualificate, donne di bella intelligenza ed autorevolezza, magari perfino
carismatiche, se state leggendo una rivista, il giornale, se state giocando al computer,
siete capaci di continuare tranquillamente anche se entra in casa il vostro compagno?
Se un figlio entra in camera dove siete? Oppure, sbrigativamente, vi ricomponete
dissimulando le tracce di una permanenza che sa di abitante illegittimo? Anche se
avete già preparato la cena, anche se state aspettando ed è l’altro ad essere in
ritardo, quanto vi costa stroncare il moto istintivo di rassettarvi e continuare la partita
a spider sul computer oppure seguitare a leggere? E perché mai trovate, invece,
naturalissimo che il vostro compagno alzi gli occhi dal giornale per salutarvi, ma non
mostri neanche l’ombra di una scusa per il suo stare in quiete dentro la sua casa?
Che i ragazzi, anzi, vi chiedano di non interromperli che stanno per vincere?

Quante volte, donne, siete state comodamente sul divano a leggere (ma non a
studiare!) in bella vista mentre gli altri girano per casa? E perché avete sempre a
portata di mano ferri da calza, cucito o chissà che altro? Quanto siete, quanto siamo
capaci di mostrarci apertamente senza far nulla? All’epoca del femminismo militante,
quando ce ne andavamo in giro con le gonne lunghe e gli zoccoli, sembrò di grande
innovazione mettersi a lavorare a maglia durante le riunioni (noiose e ripetitive ieri
come oggi). Caspita, marcavamo con attività femminili luoghi tradizionalmente
maschili. Ma non eravamo, e non siamo, capaci di stare serenamente in quiete. O,
meglio, lo sappiamo fare solo se siamo fra donne, ecco allora il cazzeggio, il
lunghissimo parlare, il conforto, il confronto, lo psicodramma e le risate. Lì non
dobbiamo lavorare, possiamo starcene con le mani in mano, tutt’al più rifare il caffè o
svuotare i portacenere.

Le donne non hanno ancora imparato a pensarsi come detentrici di diritti semplici ma
fondamentali, il tempo, lo spazio per sé. E la nostra furia per gli uomini incapaci e
disordinati, ingombranti e fannulloni, che non si accorgono di ciò che serve, che in
casa sanno solo fare guai, che quando cucinano lasciano tutta la cucina in disordine,
che, quando fanno la spesa bisogna dirgli tutto e ricordarglielo, la nostra furia in gran
parte nasce proprio dalla loro paese capacità, invece, di abitare liberamente a casa, di
fruirne pienamente, di piegarla ai loro comodi. Ma, diciamolo sia pur sottovoce, hanno
ragione loro, la casa a questo deve servire, ad accogliere, abbracciare, a dare
permessi e possibilità. È per questo che ne siamo le governanti, abili, competenti,
efficaci, siamo brave a rendere abitabile, piacevole la casa ma poi ci dimentichiamo di
usarla, restiamo rancorose ed emarginate a guardare con rabbia la facilità con cui lui

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si accomoda, con cui nostra figlia apre il frigorifero, beve, poggia il bicchiere dove
capita, con cui il piccolo fruga nello zaino aperto all’ingresso. Ma la nostra furia sa di
invidia, come non ci avessero invitato a giocare anche noi: il punto è che a loro non
viene neanche in mente che ci sia bisogno di un invito, siamo noi che non sappiamo
come entrare nel gioco. E allora, per rappresaglia, diventiamo acide, nervose,
accampiamo scuse per guastare il gioco da cui ci sentiamo respinte, parliamo di tempi
da rispettare, affibbiamo incombenze fastidiose, ci rinchiudiamo in cucina con la
corona delle martiri. Noiosissime!

La parità della donna comincia ad affermarsi nel mondo del lavoro, sia pur fra estreme
difficoltà e contini scivoloni, ma all’interno della casa abbiamo capovolto lo schema:
incapaci di custodire i nostri diritti, il tentativo è di abbassare il livello di quelli degli
altri. Invece di apprendere dagli orrendi maschi la facile leggerezza con cui si
appropriano della casa, con cui la abitano a uso loro, vogliamo accollare loro la noia
delle incombenze domestiche: perché mai dovrebbe essere una prospettiva
accattivante lavare i piatti, fare la polvere, stirare? Passi pure il cucinare che ha un
qualche risvolto di creatività e di divertimento ma portare fuori la pattumiere vi
sembra poetico? So bene che qualcuno deve pur farlo ma non è questo il punto: gli
uomini non ci hanno costretto a lavorare perché qualcun doveva pur farlo e loro non lo
volevano fare più, no, era una loro esclusiva, a noi sembrava un diritto essenziale che
consolidasse la dignità di una cittadinanza piena e abbiamo voluto fortemente
conquistare il diritto al lavoro. Perché in casa, invece, tutto quel che sappiamo
richiedere è la condivisione della noia, della fatica? Perché non cominciamo a usare
della casa e dalla piena capacità di abitarla impostare alla pari la questione delle
faccende? Qualcuna ha delle idee? Come cominciare, da dove partire? Dal tempo per
sé, da uno spazio protetto (per la donna in casa, non per la lavoratrice che ci ritorna),
da un’alternanza di qualche genere? So bene che è artificioso come qualunque
partenza, come ogni avvio, ma prima cominciamo, più presto ci risulterà naturale, si
accettano proposte ma mettiamoci in moto!

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Storia di una sonda spaziale

Racconto questa storia che ho tratto da un articolo, (La difficoltosa missione della
NASA fino a Giove, e il suo trionfo) di Michael Benson, pubblicato sul New Yorker
Magazine, 8 settembre 2003 e che Valérie mi ha tradotto con grande gentilezza.

Allora, Benson narra che a 1995 al 2003 “la storica navicella spaziale conosciuta sotto
il nome di Galileo Orbiter ha tracciato un sentiero complesso tra le quattro grandi lune
di Giove. Durante questi anni, ha fatto osservazioni scientifiche dettagliate, ha preso
migliaia di fotografie ad alta risoluzione, trasmettendole a Terra, a mezzo miliardo di
miglia di distanza.(...) La navicella ha anche condotto quaranta sorvoli di pianete e di
lune, molto di più di qualsiasi altra nave spaziale. E’ stata la prima ad avvicinarsi ad
un asteroide; la prima ad orbitare uno dei pianeti esterni; la prima a documentare
fontane di fuoco che eruttavano dalla superficie della luna vulcanica di Giove che si
chiama Io; e la prima a volare attraverso una piuma atmosferica di Io, un pianeta di
un colore giallo arancione sporco, e che ha circa trecento vulcani in eruzione in
qualsiasi momento. Nel luglio 1994 Galileo ha fornito osservazioni dirette dei
frammenti della cometa Shoemaker-Levy che si scontravano con Giove; queste
collisioni hanno prodotto esplosioni più potenti di quella della più grande bomba ad
idrogeno”.
Una navicella meravigliosa, insomma, capace di attuare operazioni straordinarie, per
questo diventa ancora più interessante la sua storia.

“Concepita dalla NASA nei primi anni ’70, Galileo ha avuto degli inizi difficili; la sua
storia all’inizio è stata segnata da una serie di ritardi. L’intero piano di volo è stato
ridisegnato cinque volte, sia per motivi di cambiamento delle specifiche tecniche che
per il cambiamento delle posizioni dei pianeti tra le date di lancio riviste. E’ stata
portata tra la Florida e la California numerose volte, ed è stata smontata, pulita,
messa in deposito e poi rimontata. Anche se la navicella era un pezzo di tecnologia
molto avanzato negli anni settanta, quando finalmente è andata nello spazio nel 1989
molti dei suoi sistemi erano già obsoleti.”
La cosa comincia a complicarsi, ma non è finita: “Durante tutta la prima parte del
viaggio di Galileo nello spazio, la sua antenna ad alta capacità a forma d’ombrello, che
doveva essere il principale collegamento con la Terra da Giove, è rimasta ripiegata su
un lato della sonda. Era l’antenna più grande mai mandata fuori dall’orbita della Terra.
Si prevedeva di dispiegarla solo dopo che la sonda si fosse allontanata
sufficientemente dal sole: come Galileo, l’antenna era stata disegnata per operare
nelle temperature gelide della parte esterna del sistema solare. Nel frattempo, la
navicella spaziale si sarebbe affidata ad un’antenna più piccola e molto più lenta che
avrebbe dovuta servire solo vicino a Terra”.

Siamo in aprile del 1991, Galileo si è ormai addentrata nelle zone più fresche della
cintura degli asteroidi che si colloca tra Marte e Giove: è venuto il momento di aprire
l’antenna ad alta capacità e iniziare a mandare gli impulsi di dati verso Terra. La
velocità prevista è di 134 kilobyte per secondo e Galileo era stata disegnata per avere
una larghezza di banda sufficiente a trasmettere un’immagine per minuto,
trasmettendo contemporaneamente informazioni dagli altri suoi strumenti. E qui
avviene il vero colpo di scena: l’antenna, questo strumento chiave per la missione, è
bloccato. Gli scienziati che dirigono la missione sono disperati: senza un mezzo per
trasmettere degli alti volumi di dati, la funzione di Galileo sarebbe stata duramente
limitata. Entro una settimana, vengono formate due teams di ingegneri, una per
disincastrare l’antenna, l’altra per capire come salvare la missione senza l’utilizzo

100
dell’antenna fornendo, cioè “i cacciaviti a un milione di miglia”, un modo di riparare
una navicella spaziale trasmettendo dei segnali radio da Terra.

In un brainstorming, si valuta: “supponiamo che non cambiamo niente. Quale sarà la


velocità di trasmissione dei dati quando arriviamo a Giove, se dobbiamo utilizzare
quest’antenna a bassa capacità?” La risposta è desolante: circa un’immagine al mese
e solo se gli altri dieci strumenti scientifici di Galileo non fossero stati utilizzati
contemporaneamente. Ma nello spazio fenomeni complessi devono spesso essere
fotografati molte centinaia di volte prima di poter essere compresi!

Invece di provare a cambiare l’hardware della navicella spaziale, l’équipe di soccorso


inizia a pensare a come migliorare le capacità di Galileo di processare le informazioni:
riscrivere in pratica il software di base di Galileo. Il computer di bordo avrebbe dovuto
essere sufficientemente potente per elaborare gli algoritmi più avanzati del codice
riscritto. Ma “il sistema di computer di Galileo era antico.” Allora, “guardammo che
tipo di microprocessore avesse a bordo, e quanta memoria ci fosse. E ci furono delle
buone notizie e delle cattive notizie”.

Le cattive notizie erano che i processori di Galileo erano talmente vecchi che i loro
disegnatori originali avrebbero dovuto essere richiamati dalla pensione per un
consulto. Le buone notizie erano che poco prima di essere lanciata nello spazio,
Galileo era stata dotata di due volte tanto il numero originale di chips di memoria di
quanto avessero inteso i disegnatori originali. Ma i chips forse erano restati
danneggiati da radiazioni assorbite durante il lungo viaggio nello spazio. No, dopo
diciannove mesi di volo tutti i chips della navicella erano ancora funzionanti. Si rischia
ciò che non era mai stato tentato prima: cambiare l’intero software della navicella a
metà volo. Aggiornare il software avrebbe permesso al team di introdurre tecniche
avanzate di compressione di dati, il che avrebbe permesso a Galileo di mandare
immagini utili e altre preziose informazioni da Giove attraverso l’antenna a bassa
capacità. Galileo sarebbe stato in grado di trasmettere più di duecento immagini al
mese, insieme con altri dati, velocità molto più lenta di quella originalmente prevista,
qualcuno degli obiettivi di Galileo avrebbe dovuto essere modificato o abbandonato,
ma la missione avrebbe comunque potuto raggiungere il settanta per cento dei suoi
obiettivi.

Ci sono voluti anni, ma quando la navicella è arrivata a completare il suo primo giro di
Giove, il suo software era stato interamente sostituito. Era una mossa con dei rischi
senza precedenti – “un trapianto completo di cervello con un link radio di 400 milioni
di miglia”, come dice un documento del team ed ogni errore avrebbe potuto significare
la perdita della navicella. Ma l’aggiornamento era necessario, ed il trasferimento di
codice è stato senza errori.

Rimaneva ancora un problema: Galileo poteva raccogliere le informazioni molto più


velocemente di quanto riusciva a trasmetterle. I suoi disegnatori avevano bisogno di
trovare un modo di memorizzare le immagini, per permettere che potessero essere
lentamente ritrasmesse a Terra. E assistiamo a un nuovo colpo di scena: la navicella
aveva un registratore di nastri a bordo, uno di quei registratori con due avvolgitori di
nastro che venivano utilizzati con gli apparecchi stereo negli anni ’60 e ’70. E un
registratore quasi obsoleto diventa uno dei componenti più importanti di Galileo. (Il
registratore era stato incluso nel disegno della navicella per una sola ragione: doveva
fare da backup per i dati dalla sonda atmosferica che doveva penetrare nelle nuvole di
Giove nel 1995, quando Galileo arrivava vicino al pianeta. La sonda doveva dispiegare
il suo scudo contro il calore, aprire un paracadute, e trasmettere le informazioni

101
relative all’atmosfera di Giove mentre cadeva verso il pianeta. Tutta la procedura
doveva durare un’ora. Durante questo tempo, i dati della sonda sarebbero stati
trasmessi da Galileo verso Terra).

Il registratore diviene uno strumento critico per la missione. I gestori di Galileo si


accorgono che sarebbe stato necessario memorizzare tutte le immagini in entrata
insieme con gli altri dati scientifici raccolti dai suoi strumenti durante il sorvolo delle
lune di Giove. Queste informazioni avrebbero poi potuto essere inserite nel computer
di Galileo utilizzando il nuovo software di compressione dati e lentamente ritrasmesse
a Terra durante i lunghi mesi di inattività che trascorrevano quando la navicella
viaggiava da una luna all’altra.

Il nastro magnetico arrotolato nel registratore di Galileo diventa il sottile filo al quale è
appeso tutto il destino della missione, il sistema era stato interamente improvvisato e
raffazzonato, ma ha funzionato. Galileo inizia lentamente a trasmettere immagini
spettacolari di Giove e delle sue lune fino a Terra, dove un’antenna potenziata
raccoglie i segnali lenti e deboli della navicella.

Leggendo la storia di Galileo sono restata affascinata dallo snodarsi della vicenda,
dalla spregiudicatezza delle intelligenze, dall’uso straordinario delle risorse. Sì, è
ovvio, mi è sembrata una storia assai simile a una terapia.

102
Strisce pedonali e sellini di bicicletta

Ditemi pure borghesuccia, perbenista, ma trovo estremamente irritante l’abitudine


molto diffusa di lasciare l’auto ferma un po’ dovunque, in seconda o terza fila, se non
sulle strisce pedonali, chiusa e con le quattro frecce lampeggianti. Un uso che sta
diventando quasi una norma sfrontata, come dichiarasse: non hai visto le frecce?
Sono impegnato e non ho tempo per trovare un parcheggio, ho da fare, no?
Ugualmente mi irrita, forse addirittura talvolta mi spaventa il modo di guidare
spostandosi di corsia o frenando all’improvviso, magari, ed ecco ancora le quattro
frecce, per un’improvvisa retromarcia. Mi può irritare perché mi costringe a reagire
con immediatezza in un soffuso senso di pericolo ma mi spaventa perché non ho
l’impressione che si tratti di banale maleducazione, strafottenza, trascuratezza nei
confronti degli altri sulla stessa strada. Scortese ma in qualche termine compreso
nell’ambito della normalità. Ma invece gli automobilisti che incontro, sempre più
spesso mi danno l’impressione di non sapere che gli altri ci sono: non è che lo sanno e
se ne disinteressano alla grande, a me sembra che realmente non lo sappiano, sì che
non guardano infastiditi chi eventualmente si permette di protestare ma, ma lo
guardano stupiti, come sorpresi di trovarlo lì, a un centimetro dai loro paraurti o
reduce da un’inchiodata secca per evitare lo scontro. Sorpresi, e solo dopo un po’
infastiditi da una presenza di cui non vedono l’utilità. Mi preoccupa perché mi sembra
che siamo andati oltre, al di là di un recinto di consapevolezza che in qualche modo
dovrebbe tenerci assieme in un contesto vitale e dotato di una sua logica interna. Mi
spaventa perché se non si sa che gli altri esistono non si è in grado neppure di
proteggere se stessi, magari violando le regole ma sapendo o percependo un quadro
connesso in cui muoversi. E la preoccupazione, lo spavento, si trasforma rapidamente
in pena, come fosse stato tolto un po’ a tutti noi un confine protettivo, e tanto più in
pericolo è proprio chi non è venuto mai a saperlo, né che il confine esisteva, né che
oggi sembra sbreccato, assottigliato, evanescente.

Devo, però, confessare che quando a sciamare, disordinati, colorati, svagati,


invadendo con la stessa noncuranza marciapiedi, strada e strisce, coppie o gruppi di
ragazzi, allora la mia insofferenza cambia colore, quasi si accordasse con le loro
sciarpe, con gli zaini su quelle spalle giovani. L’insofferenza si fa come un sussulto di
tenerezza, mi si sveglia quell’illogica allegria che citava Gaber, li guardo con quelle
faccette fresche, le mani che raccontano, i sorrisi d’intesa dentro il giubbino, il passo
strascicato non di chi è stanco ma di chi non è costretto a tenersi bello dritto perché
sta facendo altro. A loro (quando sono pedoni, però, non automobilisti!) perdono
pregiudizialmente un po’ tutto, uso il tempo in cui sono costretta ad attendere che lo
stormo passi oltre per guardarli, lanciare pensieri d’immagini verso il loro futuro, con
un affetto che non è certo privo di una certa pena dolente, da brava mamma italica,
pettona e ansiosa. Ma il pensiero non è che a loro è permesso tutto, evidentemente
no, anche perché loro, i ragazzi, sono quelli maggiormente esposti al pericolo se si
sfalda il connettivo sociale, se non è ben tracciato il reticolo delle norme della
convivenza. No, il pensiero è attorno alla perdita di una misura della trasgressione
delle regole, quella misura che permette di forzare gradualmente i limiti spingendoli in
là con le spalle che crescono, con un passo che si fa adulto. Mi spiego: l’altro giorno,
scendendo in strada, ho trovato la mia bicicletta senza più il sellino. Da una parte mi è
parsa una seccatura, neanche poi grandissima, la spesa per la sostituzione non era
certamente impegnativa, ma da un’altra parte ho avuto un moto di gioia: questo
potevo riconoscerlo come una ragazzata, equivalente a suonare i campanelli alle tre di
mattina, a fare il verso ai professori, a falsificare le firme sulle giustificazioni.
Ovviamente è come me lo sono raccontata, mi sono immaginati dei ragazzi che,

103
passando per strada, hanno pensato bene di togliere un sellino da una bicicletta e
magari di gettarlo un po’ più in là, alla prossima strada, a buon bisogno dentro un
cestino per i rifiuti! Un gesto che mi ha fatto pensare un poco, mi sono accorta di
desiderare veramente di incontrare ancora ragazzate, di saperne, di sentirmene
raccontare in giro. Troppo seriosi e cupi, questi nostri ragazzi, troppo svelti al gesto
grave, alla violenza irrimediabile, dimentichi della leggerezza fantasiosa del dispetto,
della bugia sfacciata, degli intrighi complicati per ottenere ciò che è stato vietato.
Portati in volo sulla sommità della scalinata senza aver dovuto (o potuto) contare i
gradini, li troviamo storditi e goffi a maneggiare soldi veri, armi vere, potenzialità
reali, tecnologie da governare senza nessuno al fianco. Adolescenti che non sanno
dove sistemare i piedi cresciuti nella notte, che non hanno ancora fatto a tempo a
imparare, cui temiamo di contrapporci, che intortiamo con fumosi e ambigui discorsi
cosiddetti democratici, trattandoli bugiardamente da pari solamente perché abbiamo
orrore di non piacere loro. Come possono fronteggiarci se ci sentono così esitanti,
timorosi, asserviti alla necessità di compiacerli affinché ci vogliano bene?

Non voglio dire che la soluzione sia organizzare gite di gruppo per rubare sellini di
bicicletta ma alle prossime strisce pedonali da cui trasborderanno impedendovi di
muovervi, guardateli anche voi e poi ci raccontiamo che ne pensiamo!

104
Sudafrica e Ruanda tracciano la strada

Stavolta il cosiddetto mondo sviluppato deve inchinarsi di fronte alla grandissima


civiltà dei neri e spero tanto che anche noi possiamo cominciare a costruire pensieri
diversi sulla tragica questione delle vittime. Dapprima il Sudafrica e recentemente
anche il Ruanda hanno avuto il coraggio di prendere risolutamente in mano il
problema che sembrava impossibile da sciogliere di come ricostruire un tessuto di
convivenza lacerato da massacri spaventosi. Con animo lucido e forte, capace di
guardare veramente al futuro della loro cultura civile, connettendo assieme i
riferimenti politici e religiosi della popolazione, hanno insediato commissioni che hanno
chiamato “per la verità e la riconciliazione”. Con audace semplicità, queste
commissioni vanno a indagare i singoli casi di violenza sanguinosa invitando gli
assassini a dichiararsi responsabili, riconoscendo esplicitamente la paternità dei
crimini commessi davanti ai familiari delle vittime. Smuovendo emozioni terribili e
prevedendone uno sfogo pubblico capace di ripercuotersi su tutti gli abitanti, i membri
della commissione facilitano, poi, la reintegrazione degli assassini e dei torturatori nel
corpo della collettività. A pieno titolo.
Pensiero e prassi scandalosi per la nostra mentalità piccina, che sbattuta fra l’idea
religiosa del perdono, l’esigenza di una giustizia che spesso vorremmo innamorata
della vendetta, la fatica di guardare a occhi aperti il dolore insopportabile, il rifiuto di
rallentare il tempo e sostare entro un’emozione grave, un impulso di chiudere la
faccenda definendo rapidamente i colpevoli pur di non esserne tirati dentro
personalmente, una insofferenza miserabile per queste vittime che continuano a
soffrire e non ne escono così che non ci riesce di archiviare la pratica. E tutto questo
dentro la patina di dichiarazioni di principio compassionevoli verso la sofferenza,
simbolo cult purché riservato agli altri e, per piacere, che non schiamazzino troppo, la
sofferenza è una cosa seria, non va esibita e occorre tollerare che noi, sani, ci
dedichiamo ad altro. Oppure che ce ne occupiamo come mestiere, indossata una
facies pietosa e ferma, la denudiamo, la districhiamo, la restituiamo al mittente dopo
una breve, quando accade, condivisione.
Poco tempo fa ragionavamo con gli studenti universitari della Bicocca sulla percezione
che abbiamo delle vittime dell’abuso, se veramente i sentimenti che pensavamo di
provare per loro corrispondevano a ciò che ci accadeva nei fatti. Intanto, ci siamo
faticosamente confessati, le vittime non sono simpatiche, non ci attraggono per nulla
mentre è agli stupratori che va il nostro malcelato interesse, anche degradato in
curiosità, magari un po’ guardona e vigliacca.
Diceva una ragazza, la testa di ricci, gli occhi chiari, la persona bella di chi vuol capire,
diceva che stava dal parrucchiere e aveva sentito una signora di mezz’età
commentare velenosamente un episodio di violenza su una ragazza, c’è da dire che
portava il tanga! La studentessa allora ha ribattuto alla signora rancorosa con i
bigodini che prima il violentatore non poteva sapere che la vittima sotto gli abiti
portava il tanga, e mi ha guardato soddisfatta per aver rimesso a posto le cose. Ma a
me è venuta una gran tristezza, ma perché, se si fosse potuto sapere che portava il
tanga, questo avrebbe motivato o addirittura giustificato la violenza? Nel 68 sui muri
di Milano c’era una scritta: maschio, maschietto, se tu mi hai violentato, la colpa è
mia che ti ho provocato. E c’è da sottolineare che l’ambiente di questo scambio era il
negozio di un parrucchiere, a parlarne due donne: dove avremmo potuto trovare un
ascolto più favorevole, più capace di accogliere la vittima di un abuso?
Ma, appunto, le vittime non ci piacciono, non sappiamo che farne, come racconta
crudelmente Alice Sebold in “Lucky”, quando descrive lo sguardo su di lei, massacrata
e sanguinante dopo una violenza selvaggia, della sua migliore amica: vi ha letto una
esplicita ripulsa, lei, la vittima, era insostenibile, aveva perso la sua migliore amica

105
che definiva con il suo distogliere lo sguardo l’emarginazione sociale di chi aveva
subito violenza. Definitivamente, chi aveva subito violenza si collocava al di fuori del
normale, consueto, tessuto sociale espulsa affinché non lo contagiasse con la sua
disperazione. Violento il suo dolore, insopportabili le sue ferite, colpevole il suo
aspetto discinto e non composto da una doccia e da abiti puliti. È la stessa esperienza
che raccontano, quelle poche che sono riuscite a raccontare, le donne bruciate vive
dai loro familiari di tanti paesi del mondo, è quello che sussurrava una ragazza nel mio
studio, quando gridavo perché mio fratello mi molestava, mia madre mi sgridava forte
che figura, diceva, stai zitta, non fare rumore, non ti vergogni?
Non ci piacciono le vittime, siamo affascinati dagli assassini, da chi ha usato violenza.
Mi tornano in mente le lettere emozionate e ammirate per Erika; meno per Omar,
valutato come esecutore, non mente guida del massacro. E, contemporaneamente, mi
struggevo per quella piccola dal visetto ancora arrotondato da un’eco di infanzia e mi
dicevo che lei ancora ce l’avevamo, ancora potevamo fare qualcosa per lei, potevamo
recuperare il suo diritto a una giovinezza e poi una vita adulta da vivere.
Ecco, a me sembra che in questo stia la grandezza del Sudafrica e del Ruanda,
nell’aver compreso fino in fondo che lo strappo della violenza può essere risarcito, così
da reintegrare l’unitarietà del corpo sociale, solamente da chi ha subito violenza,
affiancato e sostenuto da chi rifiuta di scegliere quali parti amputare ed emarginare
dei sopravvissuti. Questi paesi hanno accettato con fermezza di assumersi la
responsabilità pesantissima di un risarcimento, di un risanamento di una società
sconvolta e spezzata da violenze inimmaginabili. E non percorrendo la strada bigotta e
un poco ambigua del perdono o, peggio ancora, con la dichiarazione di essere tutti
colpevoli sì che la colpa ne risulta attenuata e come annegata: tutti colpevoli, nessun
colpevole. (bello, da questo punto di vista, il film “In my country”, sempre su questo
tema, che contrappone l’esperienza dolente della bianca afrikaaner alla rozzezza un
poco ideologica del giornalista nero che vive a New York).
Mi sembra importante e da assimilare profondamente il respiro grande di chi non ha
voluto aderire o al perdono o alla giustizia o alla pietà ma che ha preteso di tenere
tutto assieme andando oltre, tracciando un nuovo dominio di pensiero e di prassi.
Verità e riconciliazione, per un futuro da volere e vivere senza lasciar fuori nessuno:
grandi, chissà se ne sapremo fare un’edizione innestata sulla nostra cultura,
squassando la nostra civiltà immiserita per darle una speranza. La mia generazione ha
perso, canta Gaber e son d’accordo con lui ma ce n’è un’altra in campo, abbiamo
bisogno di poter sperare.

106
Un polpo in Sardegna

Questa è un’altra storia di magia, una di quelle che, come si dice, se non l’avessi
vissuta non ci crederei.

Dunque, siamo in estate in Sardegna, con nostra figlia quindicenne e una coppia
d’amici carissimi, sposati da qualche mese. Ogni giorno ci scegliamo una spiaggia
diversa fra le tante libere, una volta più di scoglio, un’altra più ampia e dorata,
un’altra ancora con un po’ di verde. È diventata una gradevole abitudine, ogni mattina
ci presenta un nuovo patto e anche quel giorno lì, quando comincia la storia, ci siamo
sistemati su una spiaggetta silenziosa e aperta. L’acqua è meravigliosa, sobbolle di
luce nella brezza, siamo tutti a mollo e si alza un’esclamazione: Alberto non ha più la
fede al dito, è scivolata in mare. Tutti a far cerchio attorno a lui, tutti a tuffarsi e
rituffarsi ma non ci tiriamo fuori proprio nulla. Un po’ mogi, usciamo dall’acqua e
cominciamo a districare i commenti: in effetti Alberto è dimagrito, anche le dita si
saranno assottigliate oltre alla pancia, strappiamo un sorriso ma la moglie Rosaria non
ride tanto, a riva con i panini in mano, si accatastano le proposte: Alberto potrebbe
prendere per sé la fede di Rosaria e comprare a lei una fedina sarda, no, è meglio fedi
sarde per tutti e due, anzi cerchiamo se c’è un orefice qui in paese, ma è agosto e fra
quattro giorni partiamo, beh vediamo. E il giorno dopo Alberto trova effettivamente un
orefice, pensa!, sulla salita verso la casa, ordina la fede nuova per sé, l’incidente
sembra rientrato senza scosse. Il giovedì sera Alberto e Rosaria si fanno una
passeggiata da innamorati e tornano con la fede nuova, lucente, al dito di Alberto.
Festeggiamo con le seadas e il mosto cotto, la ricotta è freschissima, la pelle brucia
piano di sole.

Ma la mattina di venerdì, l’ultima in Sardegna, si apre malmostosa: nulla di grave ma


una serie di piccoli inciampi, cesti che si rovesciano, borse sparite e poi ritrovate. Non
ci facciamo smontare e ci sistemiamo in spiaggia: oggi ne abbiamo trovata una piccola
e raccolta, lontano sfilano le barche, il sole è splendido. Ancora una volta entriamo in
mare alzando spruzzi tiepidi, Federica, nostra figlia, si aggira con la maschera
incantata dai fondali, noi nell’acqua già pensiamo un po’ alla partenza, ma no, dai,
godiamoci quest’ultima giornata di vacanza, Rosaria ha comprato delle buste di
bottarga, le mette in acqua per non farle scaldare troppo al sole e, poi, di nuovo,
incredibilmente, Alberto perde la fede in mare. Rosaria si abbuia e tutti noi ci
sentiamo passare un brivido di malessere. Facciamo cerchio attorno ad Alberto attenti
a non smuovere il fondo, cerchiamo e cerchiamo ma dopo una mezz’ora Alberto
interrompe bruscamente le ricerche. C’è un silenzio pesante, ci distribuiamo in mare,
Rosaria prova, sulla riva, a poggiare la sua fede sulla sabbia: due, tre passate d’onda
ed è già nascosta. Se la rimette al dito, pensosa, addolorata. Federica, qualche metro
più in là, fa finta di niente, la maschera sul viso, le braccia allargate sulla superficie
dell’acqua, poi si solleva di colpo, fa un cenno ad Alberto, vieni a vedere, c’è un polpo
che si arrotola in mare. Alberto, sulla spiaggia, il volto scuro e teso, si nega all’invito
ma Federica, che lo conosce bene, torna a riva, insiste, gli dà la maschera. Alberto
allora si alza controvoglia, prende la maschera dalle mani di Federica, entra in acqua,
si avvia scontento verso il punto dove c’era il polpo, si china rivolto al fondale. E sul
fondale il polpo allunga i tentacoli, li stira, li inarca, lento, sicuro, ma no, guarda!,
indica, sì certo, la vedi? Al limite di un tentacolo allungato, sorretta in piedi da due
sassolini lucenti, la fede nuova riluce piano tremando nell’acqua. E mentre tutti si fa
cerchio intorno al braccio trionfante di Alberto, il polpo, messaggero del regno
dell’aldilà e protettore dei Capricorni, (Alberto è del 4 gennaio!) scivola via, un po’ più
in là, nell’acqua alta, verso il buio.

107
Incontri

“Inchino“
Nota breve

Nella scelta delle sedute, ho privilegiato gli incontri che, oltre a garantire una buona
protezione dell’intimità delle persone coinvolte, potessero evidenziare alcuni aspetti
della tecnica per l’interlocuzione con quelle che chiamo le persone interne o gli organi
del corpo. Mi sembra evidente che il punto se queste persone interne esistano
effettivamente non è di così grande rilevanza, può risultare un approccio di qualche
utilità per affrontare tematiche, emozioni, sentimenti o nodi difficili da maneggiare in
diretta. Le persone interne, la voce di un organo interno, il suggerimento di un
ginocchio o la protesta di un piede hanno la stessa valenza, se vogliamo, di una
qualunque finzione letteraria. Un poco meno che allucinazioni, un po’ di più che solo
pensieri, permettono alle persone, e a me con loro, di addentrarci in modo protetto
fuori dal terreno conosciuto su cui calchiamo ogni giorno. Un tempo sospeso, un
ragionare altro, un’avventura da sperimentare. Poiché penso che la persona umana
sia di una complessità pressoché infinita, nell’articolata varietà di tutti i suoi livelli
esistenziali, e poiché penso, appunto, l’identità come quella firma, quello stile che in
tutti riecheggia e che tutti, in qualche modo misterioso, li collega, ritengo utile
avventurarsi sul livello che, in quel momento, per quella persona, può mostrarsi più
agevole. Starà, poi, all’interezza complessa assicurarsi che il messaggio, la
conoscenza, la scoperta attinti ad un livello vengano veicolati fino al livello che può
trarne la maggiore utilità. Mi sembra proprio che accada, spesso, rendendo
estremamente significativo il tempo fra un nostro incontro e l’altro, quando è la
persona che maneggia e modella a suo piacimento il senso e il dettaglio di ciò che
abbiamo vissuto insieme. Questo modo di lavorare si poggia anche sulla convinzione
che non provoca rigetto, non è un trapianto da un pensiero all’altro ma,
ecologicamente, si compone di elementi già fin da subito appartenenti alla persona
stessa. In questa modalità di lavoro, mi affianco e anch’io partecipo dell’esperienza:
non potrei seguire un andamento senza, a mio modo, farmene anch’io un film, un
racconto, una visione. Sì che i miei sentimenti, le mie intolleranze, le mie curiosità
vanno a integrare, nel rapporto fortissimo che si crea, l’esperienza stessa.

Ho annotato, qua e là, dei commenti di tecnica minuta o di controtransfert. Invitare al


colloquio le proprie persone interne o gli organi del nostro corpo, per quel che ne ho
capito in questi lunghi anni, richiede un certo galateo. Vanno invitate con una certa
apertura di opzioni, va considerato ciò che portano o dicono: non voglio dire che
occorra obbedire loro, è comunque la persona stessa che mantiene l’assoluto governo,
ma è tenuta, una volta invitatele, ad ascoltare e tener conto del loro intervento.
Magari per contrastarlo o negarlo, per fare tutt’altro ma non per fare come non
avessero detto nulla. Analogamente, a mio giudizio, vanno ringraziate per il loro
contributo e occorre andar dietro al tempo che ritengono maggiormente adeguato. La
cortesia nei rapporti resta comunque una buona sponda e permette alle persone di
accostarsi alle proprie cose con rispetto ed attenzione. Come tentiamo di fare in ogni9
incontro.

109
L’ambiguità del colesterolo

Qualche giorno fa, ci siamo incontrate, con Frances e ci siamo imbarcate in un gioco
d’immagini animate che aveva tutto il sapore della lanterna magica d’un tempo e ne
siamo riemerse, come dicono i libri di lettura, stanche ma felici. Racconto di lei e poi
sgraniamo la seduta, un passaggio dopo l’altro.
Di Frances, che dire? E’ una donna piena, con un grandissimo fascino umano: una
donna che riveste di un abito femminile, e lo dichiara apertamente, il suo conoscere
dell’uno e dell’altro sesso.
Qualche volta siamo finite a contarcela su, intrigate in un gioco sottile, quasi di
competizione nel bel dire. Ricordo di altri giorni, di quando abbiamo avuto passi
pesanti da palombaro, che perfino la voce era diventata tutta infreddolita, ricordo dei
contrasti da comari e delle intese da sorelle. Come in un film della von Trotta,? Beh,
forse, e allora Frances la facciamo impersonare da Hannah Schygulla o da Dominique
Sanda; anzi, magari da Vanessa Redgrave.
Comunque, torniamo al giorno di cui voglio raccontare: Frances si sistema sul lettino,
raccoglie con cura la gonna intorno a sé, si scherma, come fa spesso, gli occhi con il
braccio ripiegato e resta in silenzio, quieta per un po’. Anch’io me ne sto lì tranquilla,
in attesa. Lei comincia a parlare.

Frances: mi guidi Lei. Qui, accetto al buio: non so perché oggi


mi chieda di guidarla né tanto meno
Maria Cristina: cosa vuole osservare, cosa dove, ma lei lo saprà. Così, chiedo
le piacerebbe? indicazioni per andare avanti, seguendo
le tracce di ciò che le piace.
Frances: bene, mi piacerebbe toccare il Frances si sintonizza subito sulla mia
punto più debole se sapessi che riesco… richiesta e, mentre lascia in sospeso la
frase, fa un gesto di rappattumare con le
Maria Cristina: a ricomporlo? due mani che mi suggerisce la battuta; di
nuovo lei conferma
Frances: sì.

Maria Cristina: possiamo chiedere a chi Evidentemente a Frances è arrivata


controlla dentro di Lei che ci dia l’alt, l’informazione che potrebbe porsi il
mentre stiamo andando avanti, per problema della ricomposizione. Non ne so
garantire il tempo della ricomposizione? ancora nulla, così propongo di far conto
sul sistema di sicurezza: chi ne ha dato
Frances: (pausa in cui sembra ascoltare) avviso, può avvisarci ancora sul suo
sì. sistema di sicurezza: chi ne ha dato
Maria Cristina: è d’accordo? avviso, può avvisarci ancora che è il
tempo di fermarsi?
Frances: (brevemente) sì Frances mi appare a suo agio.

Maria Cristina: Lei sa come le darà il Ah, qui è bellissimo: io credo di


segnale? informarmi sul come accadrà per essere
sicura che il sistema funzioni e Frances
Frances: (ascolta) dice che a questo ci risponde tranquilla. Ma la sua risposta, io
pensa lei. la fraintendo e mi confondo: l’equivoco
sul lei (la parte di Frances) inteso come
Maria Cristina: (stupita) ci penso io? Lei (pronome di cortesia) mi sconcerta
come uno spruzzo d’acqua in faccia.
Frances: no, ci pensa lei, la mia parte Gocciolante, penso a quante volte mi è

110
Frances che controlla. capitato che il Lei formale si rigirasse a
indicare mogli invece che parti del corpo
o personaggi del mio interlocutore che,
maschio o femmina che sia, sempre con il
Lei mi ci rivolgo. Certo, però, è presente
qui anche un pensiero, una qualche ansia
su chi controllerà nei fatti il lavoro. Mi
sembro Dante, del: s’io vo, chi resta? E
s’io resto, chi va?

Maria Cristina: Possiamo andare, allora? Ecco che la richiesta di sicurezza ora la fa
Frances, chiede a me di garantirla da una
Frances: (sospira) proviamo e comunque svista possibile. La rassicuro ma
con la garanzia che se Lei se ne accorge preferisco che si allarghi la sfera del
che non mi avvisa in tempo, di, di tenerla controllo appoggiandosi anche su di lei.
a bada, di non assalirmi. Sempre per smorzare, parlo di dubbio:
non voglio in alcun modo che ne risulti
Maria Cristina: senz’altro, diciamo che se svalutato il lavoro assicurato dalla sua
nel frattempo a Lei o a me venisse un parte e ribadisco che ci conto; anzi che ci
dubbio, possiamo chiedere; altrimenti contiamo.
abbiamo il segnale.

Frances: va bene.

Maria Cristina: qual è il primo capo del Le chiedo da dove incominciamo, perché
discorso? penso che i capi del discorso possano
essere tanti, la invito a sceglierne uno: in
Frances: va beh, io martedì scorso ho ordine di tempo o di importanza, come lei
detto tante cose e abbiamo detto che non crede meglio. Frances traccia un rapido
le ricaccio indietro visto che ho fatto schema dello stato dell’arte centrando
tanta fatica a tirarle fuori e credo che sia come punto focale la sua ricerca
da cominciare da quelle … il discorso della dell’amore e le varie forme di tradimento
mia ricerca dell’amore, Lei l’ha detto da parte degli uomini. Mi sembra che il
giustamente, ma io l’avevo interpretato in suo “non lo so” finale sia come
qualche senso più codificato, invece interrogativo, rivolto a me. Ma Frances,
effettivamente verso … allo stesso tempo come se ci ripensasse, cambia tono e
… la ricerca dell’amore libero mi vien da velocità di voce e comincia a narrare.
dire, mentre … in qualche modo ne è
venuto fuori un ventaglio di uomini che in
un modo o nell’altro mi tradiscono,
okay?, ognuno per il suo verso dandomi
fiducia, l’altro togliendomela, uno non
lasciandomi sposare, l’altro volendomi
sposare, senza guardarci dentro … ecco,
credo che sia questo, non lo so.

Frances: ieri, poi, è stata una giornata


molto difficile. (Discorsiva per alcuni
minuti, racconta tempestosi equivoci in
cui “quanto più uno si affatica per andare
incontro all’altro tanto più l’altro vede la Ascoltandola, sento che la sua voce va ad
cosa opposta”, di fastidi e delusioni sul avvitarsi gradualmente, sempre più
lavoro). stretta, come un microsolco spinto ad

111
accelerare; e intervengo.

Maria Cristina: Frances, può controllare


un attimo con quella parte lì se stiamo
muovendoci bene? Frances va, ascolta, ha la conferma.
Con voce ora sicura riprende il racconto,
Frances: sì, stiamo andando bene. tutto d’un fiato ma non di fretta.

Frances: allora, a pranzo è venuto anche


un ragazzo che fa yoga e ha fatto in
modo tale che io parlassi un po’, dicendo
che mi vede, sa come fanno gli yoghisti, i
grandi indovini, e dice vedo che il tuo
subconscio è ancora molto ferito e tutte
queste cose qua e che ti sta
danneggiando molto. Può anche darsi che
in qualche modo si sia sintonizzato con il
mio colesterolo, non voglio neanche
minimizzare perché è una persona che
lavora da anni, e tutte queste cose qua. E
sta di fatto che ha fatto in modo tale che
io parlassi un po’ del mio dolore e io ho
incominciato a piangere. E poi sono
andata in ufficio. E sono rimasta a battere
una lettera e sono andata a parlare con
altri colleghi raccontando un po’ qual era
la mia impostazione di lavoro dicendo che
d’altro canto non stavo molto bene. E ho
detto che il mio dolore è causato dal mio
grosso senso di solitudine che ho vissuto
e ho visto che sono stati toccati
profondamente. Al che una di loro che
capisce un po’ di più ha detto: non
credere che perché uno non ha detto
niente non ha sofferto. Allora io ho
risposto: se non avessi una speranza,
anche una piccola speranza con questo,
non starei parlando adesso. Da un lato
sono contenta e mi sono piaciuta.
Dopodiché sono andata a lavorare e sono
venuta qui e ho avuto questa spossatezza
enorme per cui vorrei … io credo che
dovevo dire tutto quello che ho detto
perché credo che sia la spossatezza che si
riconduce un po’ a tutto. Io credo che
devo piano piano cominciare a guardare
in questa … non aprire la diga ma
guardarci almeno dentro in quella cosa
che la diga ha fermato perché io
guardassi tutto il resto perché da questo
dipende, dipende tutta la mia evoluzione
e il mio modo, il mio modo giusto di
avere rapporti.

112
Maria Cristina: diciamo che può essere un Propongo una prima ambiguità nel modo
serbatoio di linfa, se ben condotto? di considerare le cose: lei ha parlato di
diga del colesterolo, io riprendo
Frances: sì, assolutamente. l’immagine avanzando serbatoio di linfa
(attende ancora, come in ascolto, scuote in contrappunto e concludo con un
lievemente la testa) niente, io ho finito. condotto: che prende le mosse da un
sistema circolatorio ma può alludere
anche a un rapporto, un processo.
Come dire, se conduciamo bene il nostro
lavoro, Frances, ritiene che il colesterolo
possa assumere funzione di linfa? Lei
acconsente.

Maria Cristina: qual è, Frances, il punto Per guardarci dentro si può cercare ciò
che brilla di più, che chiede di essere che brilla di più: mi piace usare lo
richiamato per primo? strumento tecnico del “di più”, che
affianca e raddoppia. Avviando una nuova
Frances: io credo che tutto, perché sequenza, dopo il suo ho finito,
siccome ho imparato a congratularmi con riecheggia il tema iniziale della guida,
me stessa, ho incominciato a guardare un come la stella cometa che brilla a
po’ in quella diga di colesterolo, indicare. Assieme al visivo brillare,
parlandogli come ho parlato perché aggiungo (ancora un raddoppio) la
proprio per non continuare sulla stessa componente auditiva del chiedere di
scia dell’ambiguità. Io stavo guardando essere chiamato: vorrei fosse esplorata,
dentro la mia diga e la cosa che brilla infatti, la terza percezione, quella delle
diciamo in modo negativo, di più in sensazioni, per cogliere la spossatezza di
questo momento è Sandro. La cosa che cui parlava Frances.
brilla di più in senso positivo, e no non è Lei riconosce che due punti che brillano di
tanto che brilla sembra che la parte di più, in positivo e negativo, due uomini,
pensiero caldo, dove io mi rivolgo e ho ma osservando il secondo, Luis, il
del calore e ho del pensiero è Luis. guardare trasforma in pensiero caldo, una
sensazione.

Maria Cristina: che è in qualche modo Uso il termine collegato senza


collegato a Sandro, se non altro come specificarne altri modi oltre al suo essere
polo? polo, eventualmente sarà Frances a dare
indicazioni. Lei dà l’assenso di Luis,
Frances: Luis dice di sì, sono spuntati mentre Sandro nega, e da questo prendo
all’improvviso e stanno qui, Sandro dice le mosse per proporre a Luis di
di no. collaborare; in modo aperto, quel che ne
pensa. Applico ancora la contrapposizione
Maria Cristina: può darci qualche per precisare il senso della risposta di
indicazione, Luis, su quel che ne pensa? Luis.

Frances: è come se mi biasimasse perché


ho ripreso il rapporto con Sandro.

Maria Cristina: la biasima perché è


pericoloso o perché non deve?

Frances: perché non ne vale la pena!

113
Maria Cristina: questo è un po’ poco. Non Commento fra brusca e scherzosa la
mi sembra che Luis si interessi poi molto risposta laconica di Luis, rifacendomi a
dei suoi tempi morti. come Frances me ne ha parlato, per
saperne di più e con maggior precisione
Frances: (sovrapponendosi ride divertita) ma anche per confermare la confidenza
è vero! fra noi.

Maria Cristina: non vale la pena in che Sembra che Frances abbia una risposta
senso? nel senso che non è un uomo per emotivamente importante; provoco un
cui vale la pena di, e dovremmo sapere di ancor maggiore coinvolgimento
che si tratta, o non ne vale la pena di riproponendo, anch’io seria, il divario: se
andare ad indagare quello che lei , nel non è Sandro, chi?
rapporto con Sandro, può scoprire?

Frances: (la voce si fa molto seria, bassa)


no, no. Perché è uno che non vale la pena
di.

Maria Cristina: quale sarebbe invece


l’uomo che vale la pena di?

Frances: lui. E Luis si espone.

Maria Cristina: ma Luis è disponibile a Quello che cerco di chiarire è se il veto di


farle esplorare un sentimento, lo stesso Luis al rapporto con Sandro si allarghi
sentimento che lei intendeva anche a ciò che in questo rapporto può
sperimentare con Sandro? essere sperimentato, l’altro senso del non
vale la pena; Frances riferisce ciò che
Frances: no, ma Luis dice che non devo Luis va dicendo e commenta, poi, a
più sperimentare questo tipo di margine, che è un discorso differente la
sentimento; che ho già sperimentato. realtà del danno dall’uso potenzialmente
interessante che lei può farne. Dicendo
Maria Cristina: quindi non è questione così, differenzia il suo pensiero, e quindi
che è inutile ma che è dannoso ripetere la anche la sua posizione, da quella di Luis.
prova?

Frances: sì. E perché Sandro è comunque


dannoso. Sandro è danno. E che poi mi
possa servire perché a me il danno mi
aiuta, è un discorso differente. Il danno
vuol dire la sofferenza, l’impatto; mi aiuta
in che senso? mi aiuta ad andare avanti
perché io mi ci guardo dentro e non mi
distrugge, in qualche modo riesco a
ricostruire. Però, non è più necessario, Interessante lo scarto tra inutile,
tanto di danni ne sono stati fatti per cui dannoso, non più necessario.
non ci deve più stare.

Maria Cristina: cos’è che non ci deve più Ora è come se fossimo su di un
stare? Sembra che a Luis piaccia essere palcoscenico, tre persone, Frances, Luis e
un po’ sornione, le dà un foglietto per io, a formar triangolo e le luci che ogni
volta. volta illuminano una coppia: dapprima

114
chiedo a Frances che cosa Luis ha inteso
Frances: beh, sì (assorta e forse dire e la attiro in una complicità tra noi
compiaciuta), è sempre stato così. (Poi, due che di Luis commentiamo. Frances mi
come tornando ad una vigilanza risponde sintonica nel testo ma si sposta
differente) Beh, il suo consiglio è che ad affondare il rapporto con Luis facendo
intanto ho fatto bene quello che ho fatto, di me il terzo. Torna a me riferendo il
per quel lavoro. Poi mi dice di lasciar consiglio di Luis e stavolta sono io a
cuocere Sandro nel suo brodo per vedere distaccarmi da lei controllando l’esattezza
che minestra ne viene fuori. del pensiero di Luis. Lei aderisce e si
assume la paternità della minestra che la
Maria Cristina: sì, Frances, (la mia voce è differenzia dal brodo idiomatico cui
perplessa) ma non è un po’ in accenna Luis.
contraddizione con quello che le diceva
prima, nel senso che se Lei deve
distaccarsi dal suo rapporto con Sandro,
non dovrebbe neanche interessare che
minestra ne viene fuori. O invece non ho
capito?

Frances: beh, devo dire che questo viene,


viene da parte mia, ossia la mia tendenza
…ossia io avrei voglia già, già o domani, o
quando sia, quando avrò l’occasione, di
cominciare a fare con Sandro quello che
stavo facendo, che ho fatto con i miei
colleghi. Ma poi volevo sapere il suo Infine chiede il mio parere, con quel ma
parere, come le suona, come le è arrivato avversativo iniziale.
all’orecchio.

Maria Cristina: cosa ne dice Luis? Proprio con questo movimento a


triangolo, sono molto cauta nell’espormi
Frances: sta ascoltando. quando Frances mi chiede e, proprio
come un terzo in una coppia, mi assicuro
Maria Cristina: mi sembra che Lei abbia che l’altro, Luis, non se ne avrà a male.
riportato in gran parte il telex di Luis ma Formulo la frase con la stessa vaghezza
abbia aggiunto i suoi saluti finali, non c’è di quella di Frances perché non so bene
più solo il pensiero di Luis. su che cosa lei volesse il mio parere: sul
contenuto complessivo del discorso, sul
Frances: no, no, no. Non è più Luis che rapporto di coppia, sul suo differenziarsi
parla, sono io. da Luis, sul suo progetto di attuare con
Sandro ciò che ha già fatto con i colleghi.
Maria Cristina: Luis si è ritirato? Luis sta ascoltando: commento con
Frances che non c’è più solo il pensiero di
Frances: sì, sì, sì. Per cui io dico che la Luis (un tema, questo dell’autonomia del
mia tendenza sarebbe questa e quando pensiero femminile nella coppia che
dico: vediamo che minestra ne viene abbiamo ripreso tante volte). Lei, con
fuori, è perché prima o poi lo farò, lo grande vivacità, quasi ridente riafferma
devo fare. Chiaro che con metodi diversi, che non è più Luis che parla, sono io. E si
non fare le stesse cose che con i miei mangia le parole nella fretta di espormi
colleghi, fare una cosa con Sandro che gli ciò che farà.
entri dentro, ma proprio dentro al
midollo, come è arrivata ieri a quelle
persone.

115
Maria Cristina: dica un attimo a Luis di Chiedo a Frances di ricongiungere la
stare attento, volevo chiedervi questo, a coppia per un riassunto del punto che mi
Lei e a lui insieme. Se ho capito bene il è sembrato centrale del pensiero di Luis,
pensiero di Luis, Frances può il brodo di Sandro, e affido loro la verifica
sperimentare con Sandro qualcosa perché della correttezza della mia comprensione.
Sandro ne è un ottimo esemplare. Frances si immerge in un discorso a
spirale, punteggiato di allora che ogni
Frances: (attenta) sì. volta precisano meglio dove andare a
cercare la risposta. Che Frances ha già
Maria Cristina: ma Sandro è una persona ma che nel dialogo con Luis arriva a
pericolosa per sperimentarla. Allora possedere compiutamente, mi piace
Frances dovrebbe trovare un esemplare prenderla a metafora di una felice
che sia ugualmente significativo per il relazione terapeutica.
brodo di Sandro ma non è Sandro la Il mio commento sotto voce tende
persona giusta con cui indagare, sicuramente a verificare l’esattezza di
esplorare, sperimentare. quel che ho capito ma mi sembra voglia
anche richiamare Frances al rapporto con
Frances: allora: Luis ha abbassato giù la me: le offro una metafora, come fosse
testa perché considera che io ho già la una caramella. Forse c’è un sentimento di
risposta. Non è tanto che Sandro è la gelosia (ancora il terzo?) che la sua
persona, non è la persona giusta, da un intimità con Luis ha suscitato.
lato … allora: Luis dice che sui lati, nei lati
nei quali io ho sperimentato con Sandro,
ci sono esemplari a un livello diverso con
cui io posso sperimentare certi tipi di
rapporto con un uomo e che c’è già, l’ho
già trovato; che io lo so e che lui
approva. Io dico, e lui anche, che è
questo tipo di sperimentazione con
Sandro in cui alla fine penetra dentro la
mia, la mia parte di colesterolo perché
faccio perché finché … allora: è diverso.
Adesso invece di sperimentare con un
Sandro, io sto sperimentando guardando
dentro la mia diga, la mia, diciamo, parte
vitale che è tutta qui dentro. Allora,
siccome Sandro è una punta abbastanza
di … significativa della ambiguità … quella
che arriva a me, dentro, male. Quella che
a me crea il colesterolo. Allora in questo
momento … per cui, una volta individuato
che questo è danno, ma danno profondo,
e siccome anche se lo so, comunque
Sandro riesce a entrare in quella parte… e
riesce a entrare. Perché è per quello che
deve essere lasciato Sandro: perché
Sandro riesce a trovare un linguaggio tale
da farsi credere, da far credere che
veramente mi vuol bene. E io ci credo.
Come di fatto credo un po’ a tutti, però
questo è, diciamo, è così. E allora, Luis
dice due cose: prima di tutto non vale la

116
pena per il tipo che è, e secondo non
bisogna farlo perché nonostante sapere
tutto questo ti danneggia.

Maria Cristina: non vale la pena per il tipo


che è un po’ la stessa differenza che
passa fra l’ape e la vespa, tutte e due
hanno il pungiglione la vespa è sterile e
muore perso il pungiglione.

Frances: esatto, è proprio così.

Frances: (tace per qualche minuto, E’ un momento di quiete. Alle parole di


assorta, il respiro calmo, la figura Frances mi affianco interrogativa, come
abbandonata sul lettino. Poi con una voce fossi sospesa sul da farsi.
come umida) è molto bello, Luis così,
però.

Maria Cristina: (ascolto nel nastro una


nota complice e forse un’eco d’invidia nel
mio intervento) è amicale o è tenera?

Frances: (in registro lavorativo) è Lei mi rimanda subito un “riprendiamo a


attento, estremamente attento … la testa lavorare” con quell’accenno al tavolo
abbassata, le gambe incrociate, rotondo che appartiene ad un nostro
appoggiato ad un tavolo, non a caso è codice. Testo la qualità di un rapporto che
rotondo, le mani appoggiate sulle Frances in questo momento ha con Luis:
ginocchia e la testa appoggiata sul tavolo la tenuta, la confidenza, la
che ascolta con attenzione. differenziazione. Ci scherziamo anche un
po’ su, con l’irrisione leggera che
Maria Cristina: si fida, in questo ridimensiona senza diventare un
momento, di Luis? deridere. Una sfumatura particolare di
linguaggio fra donne che parlano di
Frances: sì. uomini.

Maria Cristina: totalmente?

Frances: no.

Maria Cristina: quanto le serve?

Frances: sì … è molto sorpreso Luis di


queste cose qua.

Maria Cristina: che Lei dica: fino ad un


certo punto?

Frances: che io dica: fino ad un certo


punto.

Maria Cristina: l’ha metabolizzato,


adesso, o è ancora lì che pensa?

117
Frances: gli è piaciuto, molto. Okay, è
pronto.

Maria Cristina: (sorridendo) mhm. Volevo Sembra che si possa cominciare a


chiederle, se è possibile, se è opportuno, raccogliere qualche filo di quelli che sono
che Lei chiedesse a Luis questo, di stati via via disseminati nel discorrere. La
mostrarle per un attimo, a fianco a lui, ricerca di Frances è intorno all’ambiguità
una immagine di Luis in cui sia nei rapporti ma Sandro non è un soggetto
distinguibile dell’ambiguità, affinché Lei utilizzabile: Luis sarebbe disposto a
possa distinguerne i contorni. esporsi lui, mostrando di sé una
immagine in cui Frances possa discernere
Frances: distinguerne i contorni. della ambiguità? Nei contorni, dapprima,
data la pericolosità di cui Frances e Luis si
Maria Cristina: sì, e conoscerla, diciamo. sono detti convinti, poi, dopo, il consenso
Chiedendo a Luis, proprio per la sua di Frances, per una conoscenza vera e
doppia nascita, per la sua doppia propria. Accampo come risorsa il sangue
appartenenza, di sdoppiarsi mantenendo doppio di Luis, una sua caratteristica che
davanti ai suoi occhi, Frances, ben saldo guiderà Frances nel discriminare fra
Luis che Lei conosce e di cui può fidarsi e doppio ed ambiguo. Propongo, insomma,
fare una sorta di proiezione a lato di Luis che venga evocata un’immagine di Luis
ambiguo, che abbia dell’ambiguità. In ben distinta da quella che Frances
modo che Lei possa vederla come brillare, conosce e di cui può fidarsi. Siamo in
nel confronto. Sono stata chiara? piena esperienza visiva: riprendo il
brillare di prima, sono stata chiara?.
Frances. Sì.

Maria Cristina: però, non so se è Frances è d’accordo, ragioniamo


opportuno farlo. sull’opportunità della proposta e sui rischi
che può comportare; una verifica che mi
Frances: (sovrapponendosi) diciamo che torna piuttosto abituale.
quello che Luis mi dice è che se può Interessantissimo come Frances dichiari
sdoppiarsi, può sdoppiarsi nella sua parte per Luis difficile sdoppiarsi perché è
nera e bianca e se deve dare i suoi difficile restare nero: mi sembra che
connotati all’ambiguità, può temere che difficile non sia qui l’aggettivo contrario di
mi dispiaccia. facile ma piuttosto alluda a un rischio,
questo sì fin troppo facile, di restare poi
Maria Cristina: questo è un ostacolo, per dimezzato come il visconte di Calvino.
Lei, Frances?

Frances: no, però non riesce, quando lui


si sdoppia, non riesce a diventare, a
rimanere Luis di sempre, diventa nero e
bianco. Certe volte, dice, è difficile
sdoppiarsi perché è pericoloso restare
nero.

Maria Cristina: pericoloso per lui o


pericoloso perché Frances potrebbe
temere di averlo perso?

Frances: no, pericoloso per lui.

118
Maria Cristina: pericoloso per lui?

Frances: sì. Oltre alla difficoltà di mostrarsi in un


Maria Cristina: (come pensando a voce rapporto importante nella propria parte
alta) potrebbe mettersi al fianco, allora, nera. Da qui, il suggerimento di chiedere
un Luis bianco da una parte e un Luis a Luis non più di sdoppiarsi ma, meglio,
nero dall’altra, mantenendo lui, intero, al di raddoppiarsi, restando intero al centro
centro, fra tutti e due. e affiancandosi un bianco e un nero.
Questo si può fare e resta subito evidente
Frances: sì, okay. E la parte bianca si come sia la parte nera quella più
vede pochissimo. interessata.

Maria Cristina: la parte nera?

Frances: sì, si vede, ha un braccio sulle


spalle e Luis la stringe.

Maria Cristina: cos’è che le interessa


verificare e scoprire?

Frances: beh, intanto ho visto che, che è


la sua parte nera che gli dà la vecchiezza,
l’antichità. Luis ogni tanto sembra quasi
un vecchio come parla e come pensa, un
vecchio, un vecchio saggio, no?, che ha
dentro di lui la parte bianca e la parte
nera, e proprio la parte nera di Luis negro
è un Luis vecchio, diciamo come se fosse
il suo bisnonno. La parte bianca è quasi
senza contorni, però è la parte che gli
serve per proteggere la potenzialità della
sua negrezza. Lui ha assentito e a questo
punto si è potuto permettere di
abbracciare tutte e due le parti e la parte
bianca, mentre la parte nera è un
vecchio, la parte bianca è quasi un
ragazzo. E’ come per dire l’ambiguità dei
bianchi è nel carattere dei piccoli, fin da
piccoli.

Maria Cristina: (sottovoce) Frances,


gliel’hanno insegnata i bianchi?

Frances: gli ha insegnato la sua parte


nera al confronto con i bianchi, dipende
dalla struttura in cui si vive e c’è la parte
di Luis ambiguo, è la parte di Luis che
forzatamente è stata la struttura per
difenderlo. E questa è la parte ambigua.
Allora, quello che mi vuol dire Luis, di non
soffrire se magari anzi sembra che io
faccia delle cose sbagliate nei suoi
confronti e anche nei miei confronti e

119
nello stesso tempo mi dice: adesso posso
essere meno sbagliato di prima … perché
l’ambiguità è usata non cambiando
persona, non cercando di aiutarti perché
questo non si poteva fare. Ed è proprio
così, perché è la legge dei bianchi che
l’ha detto. Eppure l’ambiguità era vestita
di nero … ha usato la sua parte bianca,
indubbiamente …
(Frances lascia morire la frase, lascia
assaporare il discorso, forse per ospitare
una riflessione. Poi si riscuote e:)

Frances: (bruscamente) e adesso il nero C’è un soprassalto di Frances, come si


mi dice: adesso che mi sono mostrato io, sentisse aggredita. E mi giunge violento il
quando andrai a fare la tua parte, tu? teso messaggio. Così, mi informo con un
po’ d’ansia e, quando Frances riporta una
Maria Cristina: e Lei ha accettato, risposta banalizzante non mi accontento e
Frances? incalzo Luis che si era promesso
protettore, distinguendolo dal nero.
Frances: dice di no, stava scherzando.
Sembro un po’ mamma lupa, no?,
Maria Cristina: non so se stava sospettosa e con i denti ben in mostra.
scherzando. Frances mi risponde tranquilla
ridistribuendo con cura i ruoli in gioco: la
Frances: l’ha detto che è un sornione, io parte di controllo deve fronteggiare la
penso che lo sa già. richiesta rendendone conto a Luis in
termini reali, il tempo rotondo della
Maria Cristina: il nero, ma Luis cosa ne seduta. Lei, Frances, che ha un rapporto
dice? con Luis, può fargli una promessa. Senza
condizioni.
Frances: sta aspettando e ascolta e
sorride.

Maria Cristina: sta anche aspettando la


sua risposta?

Frances: sì. Io credo che la parte di me


che sta conservandomi nel tempo rotondo
della seduta, deve rispondere a Luis che
non ce la faremmo. Io comunque
prometto a Luis, che la prossima volta
che, che lo chiede, lo farò.

Maria Cristina: c’è altro che Lei vuole Frances sta rassettando: questo è a
sapere, Frances? posto, questo lo sapevo già quindi
neanche chiederlo.
Frances: mah, è come se lui mi avesse S’interroga e ha le risposte che le
già risposto una cosa che io avevo già da servono, sa cosa non è il caso di fare
tempo, questo lo sai già quindi neanche perché non sarebbe il modo giusto di
chiederlo. Sì, mi interessa più sapere su parlare. E allora, e questa sincronia mi
di lui, nei confronti di lui piuttosto che di incanta, con ovvia naturalezza le due

120
lui nei miei confronti. Questo è vero. Dice parti si ricompongono dapprima fra di
che basta. Perché io adesso parlerei con loro e poi rientrando in Luis.
lui ma non sarebbe il modo giusto di Permettendogli di sedersi. Mi informo,
parlare. E allora le due parti adesso si molto interessata, sul come è andata
sono sedute e lui è rimasto in piedi, si precisamente la ricomposizione e
guarda in giro e non ha dove sedersi, e le Frances, docile, descrive. C’è un clima di
due parti sono riunite e lui si è seduto. tranquillità corposa, di conversazioni
senza tensioni.
Maria Cristina: riunite, come?

Frances: prima si sono riunite e poi sono


entrate in lui.

Maria Cristina: prima fra di loro si sono Intreccio, ora, il tema della spossatezza,
riunite? faccio anch’io la donnina di casa che
rimette in ordine: di questa spossatezza
Frances: sì, adesso è seduto un po’ che ci è rimasta in giro, cosa ne facciamo,
affaticato. Luis la conosce? Lo chiamo in causa e un
po’ lo punzecchio: sono cose da donna o
Maria Cristina: se fosse stato più a lungo anche un uomo può sfinirsi?
o più faticoso il lavoro, invece che Frances dapprima lo copre escludendolo
affaticato sarebbe stato spossato come lo automaticamente per rivendicare la
era ieri sera? paternità della sua spossatezza del tutto
autonoma, svincolata da lui e da me: la
Frances: non credo, a parte che le parti mia spossatezza era mia, non c’entra il
non si sono proprio riunite del tutto lavoro che avevamo fatto. Poi si
perché le vedo, io credo che la mia reinserisce la risposta piccata di Luis che
spossatezza era mia, non c’entra molto apre una nuova parentesi di grande
con il lavoro che avevamo fatto. Ah, Luis, complicità fra Frances e me.
prima di tutto lui dice che lui non arriva
mai ad essere spossato.

Maria Cristina: oh, ecco mi pareva,


(ridiamo assieme) mi pareva un po’
troppo tranquillo!

Frances: quando ha capito, quando ha


realizzato quello che ha detto, ha detto:
non scherziamo. (a me) Vogliamo
scherzare? (ride a gola piena) Bellissimo
questo! (ride ancora).

Frances: (dopo un po’ e con una voce Frances passa, ora, a commentare,
meditativa) eppure quando sento quello s’interroga sul che cosa è avvenuto e sul
che dice, mi dico cosa mi sto inventando come è potuto accadere. Sbrigativa, e
io, no?, eppure quando è lui che saggia, conclude: non importa. Entra in
risponde, io non c’entro, son convinta. E campo la parte deputata al controllo che
poi non importa. C’è la parte che la rimprovera di invadere il tempo che è
controlla il tempo che mi sta contrapposto al tempo rotondo della
redarguendo: come ti permetti di seduta.
invadere il tempo che è, il tempo reale.
Basta.

121
Frances: probabilmente, in questo rapido C’è qui l’ultimo passaggio, il rapporto
fluire di battute, come lui ha risposto diretto di Frances con la sua parte di
così, io immediatamente stavo controllo; che l’ha avvertita che stava
sganciandomi da questo tempo qua. sganciandosi da questo tempo qua, in
relazione alla risposta di Luis. È
Maria Cristina: cos’è che rischiava? stupefacente l’agilità di Frances nel
passare da un livello logico ad un altro,
Frances: rischiavo molto, non so cosa ma da un rapporto a un commento a
rischiavo. Rischiavo di, di dimenticare, di un’emozione. Senza incertezze, senza
non capire. Secondo me, è la parte che confusioni, con una brava cordialità.
abbiamo chiamato in causa da subito che Anche con la capacità di fidarsi delle
mi ha fatto questa cosa qui perché indicazioni che le giungono senza saperne
rischiavo di non capire, perché questa poi troppo: rischiavo molto, non so cosa
parte crede che io debba parlare della ma rischiavo. Mi allineo a lei per valutare
mia spossatezza. come va usato il tempo, ora, nella zona
crepuscolare in cui il tempo rotondo della
Maria Cristina: deve parlarne adesso, in seduta va stingendo sul tempo reale. E
questi quattro minuti che mancano? Frances tira le ultime fila.

Frances: sì, perché è molto breve. Io


credo che questo affaticamento, enorme,
che io avevo, era proprio causato dal
fatto che ci avevo ficcato il naso nella mia
parte colesterolica, l’ambiguità. E ho
collegato i due poli, ho collegato i due
punti. Nel senso che, guardando dentro
nella mia parte dolente, ho parlato agli
altri di cosa mi procurava dolore, okay?,
e questo è stata una grossa fatica perché
mentre la mia tendenza è stata quella di
mettere un argine, racchiudere questa
mia parte profondamente dolente, e
ammalata, per poter continuare a vivere
nel suo complesso, ieri ho fatto una cosa
diversa, ho vissuto parlando un pezzo di
parte malata. E questo mi ha provocato
un’enorme spossatezza. C’è stato, il fisico
ha fatto sì che io non toccassi null’altro
perché mi avrebbe distrutto. Mi ha
spossato anche perché c’è sempre una
donna nel ventaglio dell’ambiguità e
questo mi ricorda che c’è un conto in
sospeso che va saldato e che da lì non si
scappa, l’ambiguità della donna che vive
il distacco mentre vive il rapporto.

Maria Cristina: ci torniamo su?

Ho consegnato a Frances la trascrizione di questa seduta e gli appunti a lato,


proponendole, se lo desiderava, di farne un commento suo. E lei mi ha consegnato
una lettera che accompagnava un suo lavoro. La lettera l’ho conservata per me, il suo
testo eccolo:

122
Parla Frances

Ho letto e riletto questa seduta per ben tre volte. Ho sentito la necessità di rileggerla
perché alla prima lettura quello che mi è balzato di più all’attenzione che ha offuscato
tutto il resto è stata l’enorme imprecisione che ho nell’esprimermi. Constatare questo
mi ha turbato e preoccupato, tant’è che non riuscivo a focalizzare nient’altro.
Ritornando successivamente al nostro lavoro questa imprecisione mi ha toccata
sempre con forza. Adesso dopo esserne ritornata per la terza volta mi viene da dire
che questa mia attuale difficoltà di parlare adeguatamente può essere di nuovo
collegata al colesterolo. Direi che il colesterolo, questa mia parte vitale inferma, si
manifesta sintomaticamente attraverso il mio parlare. E penso che sia molto
importante a questo punto guardarci dentro, con amore e cautela però anche con
decisione e costanza. Ho risentito come molto mio il fatto di considerare che questa
mia parte dolente, ammalata, può essere un serbatoio di linfa, di nuove energie e di
nuove più grosse capacità. Per la prima volta sto considerando l’idea di essere malata,
penso sia dovuto al fatto che credo di poter guarire.

Sto già guarendo?


E’ stato molto utile rileggermi più volte ed avere possibilità di prendere coscienza della
malattia. Solo adesso capisco perché mi ha tanto sconvolto il mio esprimermi
sconnesso; perché ho realizzato che stavo toccando la malattia.
Ho avuto ed ho un po’ di paura, paura che il torrente colesterolico, tenuto fino ad ora
a bada, sia più forte di tutto il resto … più forte di me. Ho realizzato che ci aspetta
ancora un arduo lavoro, sono fiduciosa ma anche timorosa. Penso che si dovrà
lavorare sopra con molta cautela e amore.
(Credo che questo sia un avvertimento principalmente per me). Sento amore per
questa parte, un amore protettivo come si sente per il figlio più fragile.
Rileggendo la parte riguardante Sandro ho sentito che una parte di me non è più
disposta a subire le ambiguità altrui ed a proteggermi contro di esse. Lo sente come
una grande offesa e vuole e ha bisogno di chiederne conto.

-LUIS-

Mi ha sorpreso (favorevolmente) la Sua ammissione di complicità e del pizzico di


invidia che riscontrò ascoltandosi. E’ stata la conferma del nostro percorso comune,
del percorso di questi anni e della sua partecipazione al mio/nostro lavoro. Ho
ammirato la Sua capacità di seguirmi, nonostante il mio esprimermi difficoltoso. (Per
seguirmi voglio dire intendermi). Sembrerebbe che Luis sia già membro della mia
parte guarita e un segnale che proviene da me guarita.
Mi sono vista, però, molto acritica nei suoi confronti, non succube. Mi incuriosisce e
affascina molto questa dimensione surreale; è una chiave che mi permette di avere
accesso a tante stanze chiuse che altrimenti sarebbero rimaste sempre chiuse. Per
esempio attraverso la parte nera Luis mi chiede perdono di quello che non fa nei miei
confronti e che secondo lui dovrebbe fare. Sarà così, oppure sono io che necessito di
giustificarlo a tutti i costi? …
La parte finale della seduta ci invita a tornare sulla mia parte malata.
Torniamoci

123
Gli occhi del sarcofago

Monica, donna simpatica e fattiva, fa l’insegnante, ha una famiglia ma le sembra di


divertirsi poco. O, meglio, è questo il punto cui siamo giunte e su cui stiamo lavorando
quando ci incontriamo, in una giornata estiva, calda ma non soffocante.

Monica: oh mamma. (ansima per un po’, È una richiesta che faccio abbastanza
ha fatto le scale; poi ricorda la mia spesso, questa di un sogno o due, di
richiesta di un sogno o due che ci qualche informazione sotto qualche
chiarisse le idee, sa di averlo fatto ma non forma, in merito o inerenti a quello che è
lo ricorda) poi è suonata la sveglia e io nel passato fra di noi la scorsa volta. Questo
dormiveglia ho cercato di manipolare il restituisce autonomia e controllo all’altro
sogno, farlo andare come volevo io, però che torna ad essere il gestore principale
di che cosa fosse proprio non ricordo. delle sue cose. Chiedo, in genere, di
rivolgersi al “facitore di sogni” affinché
venga messo a disposizione un sogno, un
cenno, un’impressione, un qualcosa,
insomma che possa essere inteso come
inerente alla domanda. Suggestione,
realtà, immaginario non mi interessa poi
molto, il fatto è che generalmente le
persone ritornano con una conquista.

Maria Cristina: vediamo cosa riusciamo a E, coerentemente, presuppongo, già nel


recuperare. mio domandare, che qualcosa
recuperabile poi sia. Sono al suo fianco. E
Monica: guardi, ho cercato, non riesco a Monica collabora ampliando il suo
recuperare niente, so che c’è qualcosa ma racconto, con una ironia pungente, che
non, poi dopo mi domandavo: sto sfiora il sarcasmo, nei suoi stessi
sognando o sto pensando? Zero assoluto. confronti, che cerca di far andare le cose
Non è la prima volta che mi capita, cosa come piacciono a lei. Questo mi conforta
faccio?, cerco di fare andare le cose come nell’aver avanzato la richiesta, è evidente
piacciono a me; non sempre ci riesco, che a Monica piace tenere le redini e,
perché guarda caso se devo sparare non come di consueto cerco di andare al suo
riesco a sparare, oltretutto ho sempre gli passo anzi accentuandolo.
occhi semichiusi (…) sono in pericolo, Ma ecco che Monica introduce di botto un
devo agire in un certo modo, ma per agire ostacolo grave, parla di pericolo, di
devo avere gli occhi aperti. Invece io ho sparare, e annota, angosciata, come
gli occhi chiusi. E non riesco a vedere. avere gli occhi aperti renda impossibile
agire, proprio mentre agire dovrebbe.

Maria Cristina: e li deve tenere chiusi? Intervengo con voce molto bassa e
interessata al dato tecnico: li deve tenere
Monica: no, io cerco di tenerli aperti ma chiusi? Perché, chi la obbliga, come
non riesco. Proprio il contrario, non è che succede, che cosa esattamente succede?
io debba tenerli chiusi, io devo tenerli Spostando l‘interesse sull’indagine cerco
aperti, ma faccio una fatica immensa, per di sottrarla alla morsa dell’incubo in cui
cui tipo, tipo saracinesca, ogni tanto mi sembra confinata e di tenerla con me:
riesco ad aprirli ma al momento giusto mi cerchiamo insieme di capire che cosa
si chiudono, per cui devo andare al buio. succede, Monica. La sua voce sale di
Per cui, così io so che posso sparare e tono, torna nella relazione con me. E

124
colpire, però non riesco a farlo perché ho descrive, dettagliatamente, quel che lei
gli occhi chiusi. cerca, quel che le riesce. Ancora le vado
dietro e introduco il tema della
Maria Cristina: sa che potrebbe. possibilità: sa che potrebbe. Lei ne
conviene.
Monica: sì, so che potrei.

Maria Cristina: questo farebbe pensare Dunque, se potrebbe e non lo fa, (gli
che gli occhi devono rimaner chiusi occhi lei non li deve tenere chiusi ma
altrimenti lei sparerebbe, si può dir così? devono rimanere chiusi) è importante che
non lo possa fare, e che cosa in
Monica: si può anche dire così. particolare? Ma, lei ha parlato di sparare,
è questo il punto su cui dobbiamo
soffermarci a capire? Monica ne conviene.

Maria Cristina: a chi è che sparerebbe? Allora, se non deve sparare, c’è qualcuno
che non deve essere colpito?
Monica: al pericolo del momento. Dipende Sparerebbe al pericolo del momento, ma,
dal contesto del sogno. Ieri io ho sentito qui riassume brevemente, sono dei flash,
parlare al telegiornale che c’è la droga in il dramma è un altro: io sono, non so,
Colombia, che cosa faccio, mi sogno di sono io e non sono io e poi la cerniera: so
essere un poliziotto che va in Colombia di essere io ma non mi vedo. Lo sguardo,
contro la droga, roba del genere, devo meglio, la vista è il controllo della realtà,
sparare a un certo punto però è difficile per Monica.
sparare, ho gli occhi chiusi. E questi sono
dei flash che mi vengono in mente dei
sogni che ho fatto. Però la cosa che mi
rimane impressa è che io sono … non so
... sono io e non sono io … so di essere io
ma non mi vedo (c’è un’angoscia forte
nella voce).

Maria Cristina: non vede neanche se Nel mio intervento aggiungo il neanche
stessa. che lei riprenderà nella risposta, è a tutto
campo il test di ciò che esiste. Non riesce
Monica: non vedo neanche me stessa. a vedere ciò che fa e allora subentra la
Però so che sono io, non è una terza sensazione di impotenza e dice ma allora
persona e non so, devo fare una certa non è vero che so fare, è come se ho
cosa, adesso in effetti non saprei dirle qualcosa che mi sfugge di mano. Perso il
esattamente i sogni, so che devo farlo contatto visivo, irrompono l’auditivo e il
però non riesco a farlo perché, perché cenestesico che sembrano sigillarla
arrivo a un certo punto che ho gli occhi nell’impotenza. Agire richiede l’uso del
chiusi, non riesco a vedere quello che corpo ma se non può uscirne con la vista
faccio. E mi viene una sensazione di non può agire.
impotenza e dico ma allora non è vero che Ma ogni tanto ci riesce.
so fare, è come se ho qualcosa che sfugge
di mano (…) Tutto quello che implica
un’azione mia, che sia sparare, che sia ,
non so, un colpo di karaté, che sia
danzare, non posso farlo perché io non ci
vedo… Ogni tanto riesco a aprire gli occhi.

Maria Cristina: che succede quando li E che succede? Apre gli occhi e si

125
apre? arrabbia. Resta comunque bloccata, non
abbiamo ancora trovato il capo, alla mia
Monica: mi arrabbio perché non riesco a richiesta lei risponde non saprei, quella
fare. Sono comunque bloccata. Anche se consapevolezza che sembrava legata al
apro gli occhi sono bloccata. vedere sprofonda in una certezza
interiore, sa che li richiude subito dopo.
Maria Cristina: come mai? Riprendo il filo e glielo ripropongo. Lei
segue una sua pista interna, come se le si
Monica: non lo so, non saprei proprio. No, dipanasse davanti, intenta, racconta a
forse sono bloccata dal fatto che so che ho frasi interrotte e sospese quel che le si
aperto gli occhi un momento e se poi so mostra. Poiché evidentemente è in visivo
che li richiudo subito dopo non riesco a accoppiato al cenestesico, come se stesse
agire. toccando il velo, la nebbiolina, fa
addirittura lievi gesti con le mani come
Maria Cristina: allora, apre gli occhi ma sfilasse, modellasse, cogliesse.
per troppo breve tempo per agire, è
questo il punto?

Monica: il punto è questo. Cioè, è come se


tenessi costantemente gli occhi chiusi e
poi ogni tanto riesco a aprirli. E come se
poi ci fosse un velo davanti agli occhi, una
nebbiolina…cioè all’interno degli occhi non
all’esterno. E’ proprio una cosa fisica, non
esterna. Fisica interna, non fisica esterna.
Degli occhi in se stessi, non che ci sia un
velo.

Maria Cristina: appartiene proprio alla Intervengo a voce bassa, puntualizzando


vista. quel che mi ha detto, mentre lei è in una
specie di sogno. E ancora, riprende a
Monica: è la vista proprio. A me è capitato raccontare ciò che va conoscendo. Poi, il
tempo fa di avere un po’ di congiuntivite e salto forte: ecco, il discorso. E qui torna
avevo una specie di velo sugli occhi e l’emozione, la rabbia, la voce aumenta di
faceva fatica al mattino a andar via questo volume, decisa, ritorna il verbo sapere, è
velo. Ecco, la stessa cosa mi capita di furiosa perché è in trappola ma non più
notte, cioè, io ho questo velo sugli occhi e angosciata.
non riesco a vedere se vedo, vedo tutto Intervengo con voce morbida suggerendo
sfocato, tutto annebbiato. Oppure ho gli una sua capacità che lei accoglie
occhi chiusi. Ecco, il discorso … Cioè, e a prontamente, ora asserisce.
me prende una rabbia, un senso di
frustrazione perché so di poterlo fare, so
che posso agire, so di essere in grado,
però non posso farlo perché non ci vedo.
E’ una cosa costante il fatto che io non
riesco a tenere gli occhi aperti e quando
sono aperti ho questa membrana. E ogni
tanto vedo con lucidità, vedo nitidamente
però in linea di massima no.

Maria Cristina: e quando vede nitidamente


cosa succede?

126
Monica: succede che mi rendo conto se
sono in pericolo o se devo agire oppure se
devo fare una cosa anziché un’altra. Ma è
talmente breve questo momento di
nitidezza che comunque non posso far
niente.

Maria Cristina: è quasi peggio. Fra domanda e definizione, ciò che dico.
Lei ne fa una constatazione. La voce è
Monica: è quasi peggio. Forse è meglio tornata brillante, riappare l’autoironia
non vedere (…) Un po’ come uno struzzo. quando si paragona a uno struzzo con un
Però il discorso cos’è, lo struzzo si dice popò grosso così, ma non è un sarcasmo
metta la testa sotto la sabbia per non acido, si prende in giro per quel suo
vedere, però a un certo punto si dimentica corpo ingombrante che la fa ansimare
che fuori ha un popò grosso così. Quindi quando sale le scale.
lui non vede, però gli altri lo vedono. Il Le propongo che il grosso popò dello
discorso è quello. struzzo possa essere una risorsa, un
modo di ottenere una comunicazione
Maria Cristina: d’altra parte, questo può doppi e contrappuntata.
anche giustificare perché lo struzzo ha un
popò così grosso. Per bilanciare, per cui
quello che da una parte afferma dall’altra
nega, le sembra?

Monica: sì, però la negazione è molto più


forte dell’affermazione, è sproporzionato. Da brava insegnante, lei corregge verso
la banalizzazione, riprendo la mia tesi
Maria Cristina: per l’interno dello struzzo, introducendo il divario fra il dentro e il
ma per chi lo guarda la negazione non si fuori e le dico se lei viene da dietro
vede proprio, le sembra? Cioè, faccia invitandola a spostarsi, dunque, al di fuori
conto che lei viene da dietro, non se ne del suo corpo e sciogliendo per ora la
accorge neanche in un primo momento contrapposizione perché la testa sepolta
che non si vede la testa dello struzzo. non si vede.

Monica: infatti, si deve proprio vederlo Monica ne conviene, nel suo dire sembra
bene, avvicinarsi e controllare. Sì, però proprio che stia attuando la mia proposta
non riesco a capire, a cosa porta tutto di vivere in diretta l’avvicinamento, ed è
questo (pausa lunga) Non riesco a capire per questo che stride di più il suo non
cosa porta, capisce? (le mani sul viso) ma, riesco a capire, capisce? Come se si
è come se si volesse far uscire qualcosa, volesse far uscire qualcosa, dice, e poi
però non c’è nient’altro. Ho avuto una quel mancamento che mirabilmente
sensazione di mancamento, un attimino, incapsula in sé ciò che manca e un venir
di respiro e basta. C’è un silenzio totale. meno dei sensi. E, dopo il silenzio, che
Non c’è risposta. (pausa lunga) No, una sembra averle fermato il cuore, ecco la
mezza risposta c’è, non devo cercare di mezza risposta: non manipolare le cose,
manipolare le cose, di farle andare per il lasciarsi guidare dall’istinto, ragionare di
verso che voglio io, devo lasciare le cose meno.
che vadano per il loro verso e lasciarmi E se deve ragionare di meno, per
guidare un attimino dall’istinto. Come se contrappunto, che cosa deve fare di più?
dicesse che devo ragionare meno. Ancora una volta il gioco dei poli che
racchiudono tutte le possibilità. E lei,
Maria Cristina: cos’è che deve fare di più? tranquilla, risponde subito: pensare di più
al mio fisico. E avanza una idea, che il

127
Monica: pensare un po’ meno alla testa e non vedere sia un dormire della testa, un
un po’ di più al mio fisico. (lenta, da suo voler essere lasciata in pace, come se
vaticinio) E’ il mio fisico che ha bisogno di mente e corpo si disturbassero
essere seguito. E il lavoro della testa è reciprocamente e reciprocamente si
anche di vagare ogni tanto. chiedessero una sosta.
E il lavoro del corpo è quello di star
sempre con i piedi per terra (…) Non può
essere che il fatto dei sogni che io non
vedo nei sogni sia anche un voler dormire
della testa, della mente, un rifiutare
l’azione perché vuole essere lasciata in
pace?

Maria Cristina: beh, è carina come Approvo sorridendo la sua ipotesi, è una
domanda, no?, E’ molto elegante come buona pista, no? Rapida e dottorale lei ne
soluzione. propone un test ma io svio ammettendo
facilmente la mia ignoranza e la interrogo
Monica: (didattica) ma è la soluzione? sull’aria che tira al suo interno, aria in
tanti sensi, atmosfera emotiva,
Maria Cristina: non lo so (ridiamo insieme) movimento di vento, suoni. Lei prende il
che aria tira dentro di lei? filo del suono, del detto proverbiale, un
capo agganciandosi al quale srotola tutto
Monica: sa quel che si dice? Se sei al un discorso importante in cui coinvolge
cinema e lascia che se la sbrighino quelli bravamente tutti i temi: la vista, il
che sono sullo schermo tanto in effetti tu pericolo, il sogno come un film, la
in pericolo non sei. Come se mi dicesse di memoria e l’identità, ciò che vede come
non agitarmi troppo e di valutare le cose suo corpo e ciò che sa essere il suo
per quello che veramente sono. (pausa corpo. E quel bellissimo, incisivo: l’unico
lunga, mani sul viso) . Mi è venuto in modo per riconoscermi sarebbe
mente che per assurdo se io perdessi la modificarmi.
memoria e mi guardassi allo specchio non Di diverso colore emotivo, distanziante, il
mi riconoscerei, perché quello che vedo commento su un corpo che non riesce a
non è l’immagine che ho dentro di me (…) essere dinamico ma resta tutta presa
L’unico modo per riconoscermi, sarebbe dentro il suo saper essere il contrario di
modificarmi. Fare in modo che in quello ciò che vede di sé, preferirei, dice.
che vedo riflesso allo specchio fosse quello
che vedo riflesso dentro di me. (pausa) Il
mio corpo sta diventando un
impedimento, oltre tutto è un corpo
estraneo, un corpo straniero, non è, non è
quello che io so di essere. … Un corpo
simile non riesce a essere dinamico, dopo
tre scalini ha il fiatone, mentre io mi sento
di fare una rampa di scale di corsa.
Preferirei immaginarmi grassa e essere
magra, cioè il contrario.

Maria Cristina: avere lo stupore di essere Avallo il suo desiderio aggiungendo lo


meglio di come uno si pensa. stupore di essere meglio di come uno si
pensa. È anche una chiara semina di
Monica: esatto! suggestione ipnotica, del tipo: vedrai
come sarà bello quando ti scoprirai
Maria Cristina: eh, certo è una bella meglio di come ti pensavi. E lei aderisce,

128
sensazione. prontissima, io rincalzo, lei riprende la
contrapposizione introdotta con lo
Monica: così è positiva mentre nell’altro struzzo, ma non si potrebbe far
modo è negativa. Meglio ancora sarebbe coincidere ciò che si è e ciò che si vede?
essere come ci si vede.

Maria Cristina: beh, perderebbe lo Certo, Monica, ma se non è possibile, ora,


stupore, però. In ogni soluzione c’è un qualche motivo ci sarà, ne cerco il
vantaggio. versante positivo, l’incanto dello stupore.
Lei coglie i vantaggi dell’una e dell’altra
Monica: si perderebbe lo stupore. Diciamo soluzione poi con un gesto delle mani si
che essere come ci si vede, ci si riconosce. dichiara divisa. Sia convenendo che non è
Anche questo è un vantaggio (…) Però io il momento di vedere ciò che si è sia nel
sono così, non sono così. marcare la differenza fra ciò che vede e
ciò che sente, dissidio doloroso fra
diverse percezioni di senso.

Maria Cristina: cosa ne dicono gli occhi? E gli occhi, Monica, cosa ne dicono?
Connetto con naturalezza i due canali
Monica: gli occhi sono fissi allo specchio e percettivi e gli occhi di Monica ribaltano la
all’immagine che c’è sullo specchio. Però doppiezza in dentro e fuori, con quel sono
sono in bilico: cioè guardano dentro e in bilico che dice di loro e di lei, dice
guardano fuori. Strano, perché se tengo anche di una prossimità di una decisione
gli occhi chiusi non fisicamente, io vedo quanto di un equilibrio forse rischioso
quello che c’è fuori, se apro gli occhi, quanto di un movimento che scatta come
l’immagine che c’è fuori è uguale a quella un interruttore o il bilico degli occhi delle
che c’è dentro. E’ tutto al contrario. In bambole, apri, chiudi, apri.
effetti, gli occhi non è che siano chiusi, è Ecco lo stupore, è tutto al contrario, si
come se ci fossero delle ante vuote, per affaccia la maschera con le sue dense
cui c’è il nero, quando riescono a inserirsi implicazioni teatrali, sociali, etiche.
gli occhi. E’ come se fosse dietro a una E quando lei chiede: mi sono spiegata?
maschera, con gli occhi della maschera, non so bene decidere a quale livello e
con delle tendine che si possono sollevare rispetto a quale contenuto vuole che ci
e abbassare. Però gli occhi sono sempre collochiamo.
aperti dietro, è la maschera che dà
l’impossibilità di vedere. Mi sono spiegata?

Maria Cristina: sto cercando di capire, Dunque, rispondo tangenzialmente,


come è arrivata questa maschera: da aprendo un ventaglio di possibilità, che
quanto tempo c’è, che forma ha, com’è spaziano nel tempo e nei livelli, (come è
fatta, i colori. arrivata, ora e allora, la maschera, che
tempo ha, che forma, che colori) lei
Monica: più che maschera, ha presente i passa oltre, attenta ai termini, no non è
sarcofaghi? Quelli tipo egizio, son fatti una maschera, piuttosto un sarcofago. E
così, hanno i loro begli occhi eccetera. Al dentro c’è una persona. Il tono emotivo si
posto degli occhi, cioè gli occhi si possono è alzato fortemente, la sua voce narra
aprire e chiudere, dentro c’è una persona incantata.
che ha gli occhi aperti, però vede buio,
vede nero. Quando invece ha la possibilità
di aprire gli occhi del sarcofago, allora
riesce a vedere esternamente, però è
tutto un miscuglio.

129
Maria Cristina: chi è che può comandare Mi sintonizzo con la voce bassa e chiedo
gli occhi della maschera, del sarcofago? introducendo il verbo comandare che
Monica: non riesco a capire se è una riprende il filo dell’avvio che voleva far
persona o se è il sarcofago stesso. andar le cose a suo modo ma che è anche
contiguo all’azione di chi opera in un
Maria Cristina: vero? E’ un po’ là che si macchinario. Lei non sa decidere se è la
bilancia la contrattazione. persona che è intrappolata o se, invece,
usa il sarcofago stesso come
Monica: ma vede, nel sogno però, proprio nascondiglio, ne convengo
io ho la sensazione di avere gli occhi che reintroducendo il bilanciamento e
appiccicano. aggiungendovi la contrattazione: se ci
son due poli, c’è anche modo di
Maria Cristina: quelli suoi o quelli del negoziare. L’accordo che nasce dal
sarcofago? divario riconosciuto.
Lei parla di occhi che appiccicano, colgo
Monica: quelli miei. una nota di spavento, son proprio i suoi.

Maria Cristina: e non può essere che lei Come per lo struzzo, le propongo un
nel sogno sia il sarcofago? Sia già a livello distanziamento dall’interno che le fa
più esterno? paura immedesimandosi nel sarcofago e,
implicitamente, assumendo il comando.
Monica: può essere, ma questo cosa Esita, vuol sapere, tranquilla come
comporta? svagata descrivo il sogno come momento
privilegiato di apprendimento, poi
Maria Cristina: beh, nel sogno per depotenzio l’idea, so come sia importante
esempio può apprendere delle capacità che sia lei a governare: non so, non
che durante il giorno non ha tempo o serve? Non è così?
occasione di apprendere. Per esempio, No, dice Monica, è così, e continua
come si fa a tenere gli occhi aperti per un l’indagine, il sarcofago le parla, le fa delle
po’ poi sentirli richiudere, le palpebre così proposte.
pesanti, stanno bene con un sarcofago.
Non so, non serve? Non è così?

Monica: no, no è così. Però non riesco a


spiegare com’è. E’ come se il sarcofago
dicesse: io ti faccio entrare in me e diventi
una parte di me, però non puoi agire, devi
comportarti da sarcofago.

Maria Cristina: cos’è che dice? Ti do la possibilità di avvicinarti


all’esterno, dice il sarcofago, ma come se
Monica: cioè, io ti do la possibilità di fossi un sarcofago, dunque non devi agire
avvicinarti all’esterno, quindi per farlo devi (eco del sogno iniziale) e ora Monica
tramutarti in me, però devi comportarti da sposta l’emozione di paura sul sarcofago.
sarcofago, fermo, senza possibilità di
agire, di interagire o, o così. Devi solo
assistere. Per cui la domanda, non è che
abbia paura il sarcofago?

Maria Cristina: questo sarebbe Indago con lei, cercando di cogliere il


interessante, perché il sarcofago abbia punto, paura di che? Come d’abitudine,
paura di prendere movimento? chiedo proponendo, lei chiarisce: di
perdere le sue prerogative, di non essere

130
Monica: no, di perdere le sue prerogative. più il padrone.
Di non essere più il padrone.

Maria Cristina: avrebbe da perdere? Ora sono io a testare: sarebbe un guaio?


E lei, drastica, sarebbe l’annullamento, la
Monica: penso che non esisterebbe più, mia voce è un poco scettica, come dire,
sarebbe l’annullamento. ma veramente verrebbe annullato? Mi
sembra un’ipotesi tragica e Monica cerca
Maria Cristina: verrebbe annullato? ancora sollievo nel capire, verbo
anch’esso di dense significazioni fisiche e
Monica: (pausa lunga) non riesco a capire. mentali. Riappare il dilemma iniziale,
(voce agitata) Non riesco a capire. E’ agire e non vedere, l’ansia è palpabile.
come se io dovessi agire, però devo agire
al buio, se ho la possibilità di vedere, non
posso agire.

Maria Cristina: tornando al discorso dello Intervengo con voce assertiva ma non
struzzo, di vedere o di essere vista? Viene bassa per invitarla a distanziarsi un
in mente quello che fanno i bambini, pochino da quell’ansia che sembra
quando si nascondono, chiudono gli occhi, sommergerla, riprendo lo struzzo, parlo
perché se loro non vedono è come se di bambini che se non vedono è come se
nessun altro li vedesse. nessun altro li vedesse, Monica è un
caleidoscopio di dentro e fuori, di loro e di
Monica: ma io sono sempre dentro al lei, di vista e di sensazioni, non vede, non
sarcofago, quindi non mi vedono. No, però direttamente.
mi vedono, sono io che non vedo. Ho la
sensazione che mi vedono, ho la
sensazione. Ma non vedo, non
direttamente.

La seduta si chiude qui, il tempo è proprio scaduto, lei si alza, mi sembra più leggera,
si accomoda la veste con un gesto femminile, un’occhiata allo specchio mentre vi
passa accanto per uscire, un bel sorriso e ci lasciamo. A me rimangono in testa gli
avvertimenti di Leonardo: havvi uno specchio e dipingi ciò che vi si riflette. Non si
accede direttamente alla realtà, mi ripeto, la terapia e lo specchio son due elementi
accostati da sempre, ci lavoreremo ancora su, mi dico mentre rassetto la stanza, fra
dieci minuti si aprirà tutta un’altra storia.

131
Un volpino per Sergio

Ci eravamo detti, con Sergio, che un giorno o l’altro avremmo ripreso il nostro
incontrarci. Quando? Non lo sapevamo né lui né io ma eravamo certi che ad un certo
punto sarebbe accaduto. Lui mi aveva chiamato e mi aveva detto che era arrivato il
momento, due parole per stabilire data e ora ed eccoci oggi qua assieme. Un sorriso
cordiale nel salutarci e ci accomodiamo ai posti consueti di lavoro.

Maria Cristina: come ha deciso che era il Mi sembra importante allinearci


momento di rincontrarsi? dall’informazione che ha dato il via al
nostro incontro. Così gli cedo il
passo e gli chiedo dove debbo
situarmi.

Sergio: mi è uscita la rabbia, quando mi esce Ecco, è stata una manifestazione di


la rabbia esce anche la paura, settimana scorsa rabbia e si accompagna con la
c’era, lunedì mi è venuta una paura pazzesca, paura. Altre volte con Sergio
per andare a lavorare ho dovuto fare un avevamo trovato il modo di
giochino con cui ho chiesto alla paura di interloquire con la paura affinché si
lasciarmi un po’ di tempo per andare a potesse avviare una collaborazione
lavorare. con lei invece di trovarsi paralizzato
appiattito in un angolo.

Maria Cristina: e lo ha fatto? Controllo che, come d’abitudine, la


paura abbia siglato l’accordo.

Sergio: sì, le ho chiesto di lasciarmi fino a Certo, ha accettato di astenersi fin a


giovedì, anche perché dovevo andare a Parma, un giorno stabilito. Se Sergio ne ha
mi serviva essere un po’ tranquillo. bisogno, la sua paura collabora. Ma
poi dovrà essere ascoltata.

Maria Cristina: c’è stata ai patti la sua paura! E l’ha ovviamente mantenuto.

Sergio: sì.

Maria Cristina: sono molto seri questi nostri Sottolineo l’affidabilità dei
personaggi. personaggi interni, voglio rafforzare
la tenuta del rapporto fra tutti noi e,
indirettamente, rassicurare Sergio
che dovrà confrontarsi con la paura
e la rabbia, emozioni che lo
spaventano grandemente.

Sergio: porco cane!

Maria Cristina: se noi li trattiamo con serietà Sta a noi utilizzarli al meglio, sta a
loro, sono seri, siamo noi che siamo più lei, Sergio, guidare il gioco, i suoi
discontinui…. personaggi son a sua disposizione.

Sergio: ma le ho dato una immagine di una E, finalmente, Sergio tira un gran

132
volpe, un volpino, e niente, io dicevo a mia sospiro e comincia a raccontare.
moglie che non riuscivo ad andare a lavorare e
allora le faccio: “senti quasi quasi dico alla
paura se mi da un pochino di tregua e magari
la mando un po’ in vacanza”. La paura, mi ha La paura prende forma su richiesta
chiesto Lucia che forma aveva e le faccio un di Lucia, la moglie ed è un volpino.
volpino ma ci ho pensato dopo mi è venuto
istintivo: il volpino scappa è bellissima come
concezione.
La mandiamo in vacanza dove? In montagna! Se deve allontanarsi, la paura,
Io avevo una immagine che avevo visto una meglio mandarla in vacanza e Sergio
volta in un quadro, montagna ruscelli, così, ma studia attentamente cosa proporle,
a trovare chi? A trovare una famiglia di castori! frugando fra i suoi ricordi che si
I castori erano, ma ci ho pensato dopo, quando dispiegano affinché lui possa
sono stato male, due anni fa, continuavo a dire scegliere.
che avevo nello stomaco una famiglia di castori
perché mi sentivo rosicchiare, picchiare e allora
dicevo, per scherzare, per sdrammatizzare, che
nello stomaco avevo una famiglia di castori, e
io ho detto che andavo a trovare i castori e Compaiono i castori, rosicchiano ma
dopo un po’ mi sono reso conto che i castori sono costruttori e simpatici. Il
sono quelli che avevo nello stomaco. volpino ha l’intelligenza. La paura ci
E lei ci è andata sul serio a trovare i castori. è andata, Sergio poteva controllare
Tutta la famiglia, mamma papà, figlio e figlia, che avvenisse, hanno stabilito i
nella diga che giocavano eccetera eccetera. contatti.
Ogni tanto mi guardava. Abbiamo fatto un
patto che nel caso avessi avuto bisogno di lei,
lei sarebbe corsa immediatamente da me, ci
volevano circa quattro ore per arrivare, tutti i Poteva accadere che Sergio avesse
giorni ci sentivamo per vedere se era tutto ok. bisogno della paura: bene, sarebbe
Quindi lei in qualsiasi momento sarebbe stata tornata in un tempo ragionevole.
pronta ad arrivare in mio soccorso. Se ci fosse
stato un problema grosso. Poi nel week end è
arrivata, tranquilla

Maria Cristina: ma lei era più tranquillo Sergio? La paura era tranquilla, anche lei,
Sergio? Uso il termine per trasferire
emozioni e aumentare il
collegamento che hanno strutturato
e che è stato così funzionale.

Sergio: si, però credo che a questo punto sia il Dunque, finora la paura ha fatto
caso di parlare della rabbia e di affrontarla e di schermo alla rabbia, è di questa che
far uscire la rabbia. Io, seguendo il suo Sergio sente maggiormente il
consiglio, non le ho dato ancora una timore.
connotazione, con la paura ci scherzo, le
chiedo gentilmente di andare in vacanza, sulla
rabbia la lascio così.

Maria Cristina: le serve avere a fianco il volpino Sergio ha già le sue risorse.
oppure no?

Sergio: in questo momento sì, direi che se alla Infatti, sì, con il permesso della

133
rabbia non dà fastidio che io mi tengo il mio rabbia.
volpino al fianco non mi dispiacerebbe.

Maria Cristina: se fosse il volpino ad Dal tenersi il volpino al fianco, cane


accompagnare la rabbia da lei? da guardia e da difesa, al volpino
come Mercurio, psicopompo e guida.

Sergio: potrebbe essere una bella idea, anche Sergio acconsente, recupera la
perché il volpino e la rabbia vanno sempre descrizione iniziale: vanno insieme.
insieme, quando arriva la rabbia arriva anche il Più che una parentesi, il rapporto
volpino, arrivano sempre insieme, non arriva con il volpino da solo, in vacanza e
mai una cosa da sola suo alleato, appartiene a un altro
contesto. Non in contraddizione con
questo ma semplicemente altro.

Maria Cristina: cosa le sembra meglio, di Cerco l’intersezione: chi deve andare
chiedere al volpino di accompagnare a lei la da chi? Questioni di rango e il
rabbia o di accompagnare Sergio dalla rabbia? volpino è il tramite fra i due.

Sergio: forse potrebbe essere che il volpino Va bene, Sergio si inchina alla
accompagna Sergio dalla rabbia. La rabbia mi rabbia. Nessuna perdita di dignità, è
sembra molto importante, sarebbe anche un importante che la rabbia abbia il suo
gesto di rispetto, sì, mi sembra un’ottima idea, omaggio.
sono convinto che la rabbia sarebbe molto
contenta.

Maria Cristina: cosa dice il volpino? Controllo veloce.

Sergio: il volpino dice che è ok, mi Ci siamo. La voce di Sergio è


accompagna dalla rabbia. lontana, il suo corpo in riposo,
disteso morbidamente.

Maria Cristina: quale Sergio accompagna dalla Ma quale Sergio deve andare dalla
rabbia? rabbia?
Vuole la luce o il buio? Poi, anche la mia voce è bassa,
chiedo se desidera che abbassi la
luce nello studio.

Sergio: va bene così, al limite chiudo gli occhi. Estremamente conciliante. Mi alzo
abbasso la luce. E comincia
l’avventura.

Maria Cristina: quanto è alto il volpino? Come sempre, le domande che


dettagliano hanno la funzione di
aumentare la concentrazione ma
anche di conoscere meglio i
particolari (non sappiamo quali
saranno quelli determinanti) e anche
di poter condividere. Per poter
accompagnare Sergio anch’io vedo il
volpino, i castori e la montagna.
Come diversi verbali di uno stesso

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evento, spesso le versioni sua e mia
hanno incredibili coincidenze e
suggestive divaricazioni.

Sergio: è alto un metro, il Sergio è grande, è Risposta interessante, com’è


alto quasi il doppio. Sembra mentre differente stare dentro e guardare da
camminano il Sergio che accompagna il volpino fuori.
invece che il contrario.

Maria Cristina: da che parte si mette il volpino?

Sergio: sulla sinistra, io lo tengo con la mano La parte del cuore, delle emozioni,
sinistra. del cervello destro.

Maria Cristina: e il volpino?

Sergio: con la sua destra.

Maria Cristina: chi è che tiene la mano Chi accompagna chi? Chi tiene a
dell’altro? mano dell’altro?

Sergio: così (me lo mostra) sono io che tengo


la sua.

Maria Cristina: tiene per mano la sua paura. La Asserisco dando un significato pieno:
direzione come fate a darvela? tenere per mano la propria paura,
come si fa ad averne paura?

Sergio: c’è un sentiero, con tante foglie.

Maria Cristina: che ora è? L’ora è importante per la luce e per


la fase della giornata/ vita.

Sergio: verso sera, le 17.30 di sera.

Maria Cristina: è autunno? Parlava di foglie, l’autunno va bene


con le 17.30.

Sergio: si

Maria Cristina: quindi sono foglie rosse.

Sergio: sì, sono le foglie che cadono dagli Entra il canale cenestesico interno.
alberi, per terra sembra quasi un po’ bagnato.

Maria Cristina: e adesso?

Sergio: adesso stiamo andando, è una sorta di Sergio ancora una volta sovrappone
bosco, non molto fitto, abbastanza rado, paura e rabbia.
stiamo andando la paura dovrebbe essere in
una grotta, non so come faccio a saperlo.

135
Maria Cristina: la paura? Dobbiamo riunificarle?

Sergio: la rabbia! La sua voce è tesa

Maria Cristina: fermiamoci un attimo. C’è tempo, prenda fiato, Sergio.

Sergio: è una grotta scura, buia, vedo E, dopo un paio di minuti, ecco la
l’entrata, non è tanto alta l’entrata. grotta, scura, ancora l’altezza, una
annotazione sempre rilevante per
Sergio.

Maria Cristina: rispetto alla porta del Il cancelletto verde fa parte di un


cancelletto verde? nostro lessico, è stato l’avvio di un
suo profondo viaggio all’interno di
sé.

Sergio: in altezza uguale, doppio in orizzontale. Precisissimo!

Maria Cristina: e adesso?

Sergio: e adesso sento odore di muschio, di L’odore è fortissimo, caratteristico,


umido, di bagnato, l’odore che la pioggia fa tutti i sensi di Sergio sono coinvolti
sull’erba, sulla roccia, sul terreno, odore di in pieno.
questo tipo, si sente anche una sensazione
toccando la parete della roccia, si sente
bagnato.

Maria Cristina: la terra è umida o ha piovuto È successo qualcosa di cui ora


recentemente? tocchiamo le conseguenze?

Sergio: ha piovuto recentemente.

Maria Cristina: quindi è fresca l’aria. Il termine fresco induce piacere.


Voglio che Sergio si senta a suo
agio, forse farà fatica dopo.

Sergio: sì, mi piace. Sta bene.

Maria Cristina: il primo suono che sente Dopo le sensazioni, facciamo entrare
entrando? il suono per completare l’esperienza.

Sergio: una specie, come se fosse caduto Sergio echeggia nello studio il suono
qualcosa e che rimbomba nella grotta. Che fa della grotta, un colpo sordo.
bum.

Maria Cristina: forse questo è il suo cuore? Fra domanda e asserzione, per far
rientrare in scena il corpo di Sergio.

Sergio: potrebbe essere, ...sì. Ascolta, concorda.

Maria Cristina: e adesso? Il volpino le tiene Ricordiamoci che il volpino c’è e


sempre la sua mano? protegge.

136
Sergio: si, ha preso una candela. Un gesto autonomo.

Maria Cristina: la candela dov’è? Qual è l’ambiente?

Sergio: ho visto la rabbia, sulla mano sinistra Quasi un grido soffocato. Risponde
del volpino, la rabbia è mia nonna. per la candela, poi la rivelazione
drammatica.

Maria Cristina: sua nonna. Ripeto a bassa voce, ci sono.

Sergio: è strana, però, mia nonna è tutta Stupito, attonito ma non spaventato,
bianca, anche la faccia è bianca. la voce sussurra.

Maria Cristina: ha il viso pallido? Bianca come?

Sergio: è tutta bianca quasi sformata, come se Sformata, informe, un’immagine che
avesse addosso una sorta di accappatoio, un però non fa paura.
telo molto grande, forse, non si capisce cosa La voce è tornata normale, stupita
abbia addosso, è una immagine bianca, però ma presente.
non mi fa paura come quando me lo faceva
l’altra volta.

Maria Cristina: cosa fa la nonna, la guarda? È importante che la nonna si rivolga


a Sergio, è lì per lui.

Sergio: sì, ha aperto gli occhi, si muove la Racconta incantato.


bocca, non riesco a capire che viso ha,
continua a cambiare viso, continua a cambiare,
anche gli occhi mi sembra che cambino, mi
sembra che abbiano, che siano grigi e azzurri,
mi sembra quasi che gli occhi siano l’unica
parte ferma del viso che cambia. Adesso vedo
proprio in primo piano il viso, come se fosse di Inquietante questo continuo
gomma, una cosa strana che continua a trasformarsi.
cambiare, come un’immagine che si sfuoca.
Che storia!, ma non mi fa paura, ecco adesso
parla ma parla…parla con un tono particolare Ecco il suono.
come al rallentatore, tono basso, come se
fosse…

Maria Cristina: come un disco? Da una tonalità monocorde di


Sergio.

Sergio: esatto come fosse, ecco, così “ciao” Concorda.


(tono basso).

Maria Cristina: e se lei la mettesse alla velocità Intervengo per evitare uno
giusta? Che voce sentirebbe? scivolamento eccessivo paralizzante.

Sergio: quella di mia mamma. Quasi un grido di dolore.

137
Maria Cristina: anche gli occhi? Siamo certi?

Sergio: sì.

Maria Cristina: cosa le sta dicendo?

Sergio: continua a sformarsi, adesso per un Un caleidoscopio ma segnato da quel


attimo mi è apparsa mia mamma. Però si è terribile sformarsi.
sformata, mamma mia, mi continua a cambiare
faccia è come un giochino di immagini che
guardi alla televisione, che non so che...ferma
lì. Adesso è diventata mia mamma. Non
capisco cosa mi vuole dire. Non capisce che cosa vuole da lui.

Maria Cristina: è rimasto anche il volpino? E la sicurezza?

Sergio: non lo so, sta aprendo un foglio di Sergio è oltre, la mamma cerca
giornale, tutto appallottolato, credo che stia qualcosa che deve dargli, un rosario.
cercando qualcosa da darmi, mi ha dato un
rosario.

Maria Cristina: con cinque o con quindici? Mi riferisco alle poste del rosario.

Sergio: credo con cinque, piccolini, ci sono 5 Un rosario molto composito.


stazioni più grandi e tra queste ci saranno otto,
dieci piccoline, quindi sono 55 o 45.

Maria Cristina: glielo dà con la destra? Un concetto o un’emozione?

Sergio: no, con la sinistra. Un’emozione.

Maria Cristina: cosa le dice? Accompagnata da un pensiero?

Sergio: mi dice di pregare.

Maria Cristina: con che voce glielo dice?

Sergio: la sua voce è molto...è la sua, molto È proprio la sua mamma, la voce è
pacata. la sua.

Maria Cristina: dove guarda? Rivolta a chi?

Sergio: ha gli occhi bassi. Non a lui, è concentrata in sé?

Maria Cristina: lei sa perché, Sergio? Ma lui ha la risposta.

Sergio: ha abbassato gli occhi, non capisco. Occhi abbassati per indicar il rosario
Vedo l’immagine del rosario in particolare dei che viene in primo piano, con quella
primi 5, la prima filata di sassolini, stazioni, le prima posta.
prime dieci palline più la stazione grande. Vedo
questo pezzettino qui come se fosse
importante arrivare fino alla prima stazione,

138
arrivare lì, dire queste dieci preghiere, sono
dieci ave Maria e un padre nostro.

Maria Cristina: e la mamma le può dire meglio La mamma vuole aiutare Sergio?
perché?

Sergio: sì, …adesso ha ricominciato a parlare È esausto, sta per cedere.


con la voce bassa…

Maria Cristina: racconta dei suoi cinque figli. Sergio è il primo di tre figli ma ci son
stati due aborti, più o meno celati.

Sergio: può essere, cazzo, sì! (piange) Sergio sembra travolto.

Maria Cristina: sospendiamo? Più importante di tutto è che Sergio


non sia in pericolo.

Sergio: no, è ok, (la voce è molto tenue) forse Riprende fiato, e lentamente torna a
posso dare un nome alle prime sue stazioni: parlare, attribuisce un nome ai
Marco e Giovanni, (riprende un volume più alto fratellini abortiti ma la mamma si sta
della voce) ha il rosario nella mano sinistra nel alterando.
palmo aperto, e con il dito fa scorrere dal
crocifisso e fa passare tutte le stazioni piccoline La voce di Sergio è allarmata e
fino alla prima stazione e poi va avanti con le dolente.
stazioni piccole, fino alla seconda, ha passato
la seconda, sta andando verso la terza ma si
sta arrabbiando…

Maria Cristina: dove guarda? A chi si rivolge?

Sergio: sulla sua mano, ha gli occhi fissi sulla Sta con sé, e il suo furore aumenta
sua mano, e un po’ con la testa così, non sulla terza stazione. Torna bianca,
guarda più me, sta guardando la sua mano, è respira affrettata.
andata sull’altra stazione e si è fermata, ma è
arrabbiata! Ha aumentato il ritmo del respiro
ed è tornata bianca sulla terza stazione.

Maria Cristina: glielo chiede il nome? È ora di avere la conferma.

Sergio: Sergio! Lo ha detto in un modo cattivo, Un’aggressione violenta, Sergio è


in un modo brutto (pianto). Anche il viso è sconvolto.
diventato brutto!

Maria Cristina: provi a tornare sulla seconda… Possiamo attenuare?

Sergio: non ci riesco. Non si può.

Maria Cristina: è così importante per lei! Un lei che abbraccia ambedue, un
senso bifronte.

Sergio: non mi ama, è arrabbiata con la terza L’aggressione Sergio la prende tutta,
stazione, con Sergio, è arrabbiata, ogni volta il rancore, come se la sua nascita

139
che ci mette su il dito il viso diventa duro, da fosse stata in qualche modo pagata
arrabbiata. con due aborti.

Maria Cristina: le può chiedere che cos’è che Cerco uno spiraglio d’incontro.
può dirle?

Sergio: è un po’ difficile. È troppo scorato.

Maria Cristina: chieda alla mamma che cosa Uso una voce molto dolce, è la sua
può dirle. mamma.

Sergio: che aspetta domani.

Maria Cristina: che aspetta di dirglielo, che ora Cerco di stabilire il senso.
non può rispondere?

Sergio: no, può rispondere!


Non mi vuole bene, me lo ha detto con la voce Una violenza secca, senza cedimenti.
sua, non mi vuole.

Maria Cristina: non le vuole bene? Affrontiamola, allora.

Sergio: lei dice così (pausa) Mi guarda con aria C’è un’ombra di dubbio ora nelle
cattiva, ce l’ha un po’ su con me, mi guarda parole di Sergio. Ci pensa su,
con un occhio, l’altro è quasi chiuso ma uno è sembra che la bufera sia passata, la
aperto. Ha ripreso il rosario e si è voltata, mi fa mamma chiude l’incontro.
segno di andare, adesso si è messa di laterale
e ha la testa china.

Maria Cristina: può chiedergli se può tornare? Forse non è una chiusura definitiva.

Sergio: si, ha detto di si. Io non vedo più il suo Forse no.
viso, però ha mosso la testa.

Maria Cristina: può tornare tra una settimana? Forse fra un tempo breve.

Sergio: sì, anche il volpino dice di sì, tutt’e due Torna fedele il volpino, come
con la testa, sto andando, mi sto all’inizio si sovrappongono paura e
incamminando sul sentiero … rabbia, Sergio si vede andar via.

Sergio è esausto, comprensibilmente, il viso stanco, qualche traccia di pianto ma è


come se avesse occhi nuovi, un passo più deciso. Ci lasciamo senza smancerie ma in
una commozione profonda partecipata. Lo guardo allontanarsi, è come un ragazzo
dentro un quadro, e quasi mi sembra di vedere il sentiero sotto i suoi piedi.

140
Una biciclettata per Giulietta

Giulietta è molto simpatica, brillante, di polso con quei suoi capelli ricci e delle
improvvise, esitanti ingenuità quando va ad avventurarsi nel terreno delle emozioni,
dei sentimenti che, come fili vagabondi, s’intrecciano e si confondono in un gioco
sottile.

Maria Cristina: allora cosa mi racconta? Giulietta si è sistemata, sta bella comoda,
Come è andata la settimana? rilassata, mi accomodo anch’o e la
sollecito con voce leggera.
Giulietta: allora la settimana è andata
bene! Bene, sì vabbè direi di sì! Però ho
una gran voglia di rinnovare, di cambiare
che implica… tutto, siamo sempre lì! E
quindi ritornando dalla vacanza è ancora
più concreta questa cosa.

Maria Cristina: cosa intende per Sembra che insegua dei suoi pensieri,
rinnovare? sottintendendo che le sto al passo ma
non so ancora come collocarmi, chiedo
Giulietta: per esempio stamattina, una per potermi sintonizzare.
delle ultime cose della mattina, ho aperto Lei racconta, generosa e decisa,
lo stipettino dove ci sono le solite tazze, abbondante.
ecc., così mi viene voglia, l’idea di
cambiarle tutte anche loro. Proprio di
cambiamento radicale, un po’ più di vita,
togliermi da questa situazione di coppia.
Non so tutta una serie di cose che però
non riesco a …

Maria Cristina: non le interessa travasare Cerco di capire, non vuole stare più in
questa situazione di coppia in un altro coppia o ha voglia di un altro compagno?
contesto.

Giulietta: no! Nel senso: la parte primaria E lei è combattuta fra il desiderio di
che mi viene subito in mente è di restare fidanzata e la fatica (forse anche
rimanere da sola. Comunque ho questo il dolore?) di recidere le mille piccole
desiderio da una parte di rimanere abitudini di una vita di coppia.
comunque sfidanzata diciamo così. E
quindi da lì tutto quello che sono i
cambiamenti che comportano il fatto di
non vivere più con una persona con la
quale si vive, quelle abitudini che si
prendono insieme.

Maria Cristina: e questo le è stato più L’ha capito meglio standosene in


chiaro quando è tornata, più che durante vacanza?
la vacanza?

Giulietta: no, beh e’ già un periodo che Lei corregge più che negare, è da tempo
ho proprio questa sensazione di voler che dura questa sensazione. Concludo

141
cambiare, rinnovare tutto… con la definizione dei giochi infantili:
Maria Cristina: come dicono i bambini: arimortis, tutto daccapo, e lei si
fare “arimo” insomma? entusiasma, si infervora, conferma e
ribadisce convenendo che è più forte
Giulietta: sì, sì! E quindi ritornando da un tornando dalla vacanza.
momento di parentesi fuori dal consueto,
dal solito proprio dall’abitudinario
ovviamente ne ritorno più rafforzata,
comprendendo anche quello che è il
lavoro, la città, il discorso che tante volte
fai…e tutto…e quindi stare via una
settimana, come mi succede sempre
quando mi allontano dal consueto,
ovviamente torno con questa cosa più
forte. Questo desiderio di ricambiare
tutto, di dare una mossa, non lo so come
dire, però un cambiamento, proprio
rinnovo.

Maria Cristina: quanto se ne rende conto, Ma se la coppia va ribaltata, vogliamo


di questo, Marco? informarne anche il partner? Marco lo sa?

Giulietta: ah, penso per niente…penso per Per nulla, anzi è contrario a ogni sorta di
niente perché lui come carattere dice: cambiamento.
sono sempre stato così, ho sempre fatto
le cose così, ho sempre pensato queste
cose in questo modo e “mi vanto di non
aver cambiato nulla”. Quindi non
comprende neanche quando si parla così
a livello generale di qualcuno che
ammetta un cambiamento. Per lui è una
cosa non buona un cambiamento di
qualsiasi genere.

Maria Cristina: che vuol dire, è È un problema di etica, Giulietta, di


“incoerenza” un cambiamento? Cosa vuol coerenza?
dire?

Giulietta: per lui incoerenza, sì per lui sì! Il punto sembra proprio questo.
Si vanta di essere coerente perché quello
in cui credeva, in cui pensava e
desiderava, non so, a quindici anni sono
le stesse cose di adesso. E si fa molto
forte di questa cosa, nonostante io gli
dica sì però se la società, il mondo
intorno a te cambia, è normale e non è
per questo un essere incoerente il fatto di
evolversi assieme a quello che c’è
intorno, è una cosa normale che sia da
Internet che lui a tutt’oggi non accetta
minimamente a qualsiasi altro tipo di
tecnologia di modernità vedi: carte di
credito o quant’altro.

142
Maria Cristina: lui non le usa?

Giulietta: assolutamente, assolutamente C’è molta sofferenza in questo rifiuto di


non solo non le usa, ma non le vuole Marco ad usare le carte di credito, è
nemmeno! rifiutare quello che lei potrebbe dargli,
Per cui ecco è proprio fermo a questa negare la rilevanza della sua
cosa che le dicevo l’altra volta di voler professionalità, non voler accettare da lei.
assomigliare a suo papà, che se suo papà Giulietta ha la voce che trema, sconfitta.
si è sempre messo i soldi sotto il
materasso…e lui, per grazia ricevuta, ha
aperto un conto corrente ma se appena,
appena, secondo me, si potesse fare li
metterebbe anche lui sotto il materasso!

Maria Cristina: quanto conta, in questo, E allora entro apertamente sul problema
Giulietta, il fatto che lei invece lavora in e lei conferma, è per questo che
banca e faccia esattamente questo litighiamo.
mestiere?

Giulietta: conta, che infatti litighiamo


sempre su questo argomento perché non
si riesce a fargli capire che il mondo
cambia, la tecnologia comunque sarà Poi sembra distaccarlo dalla sua persona,
sempre in via di sviluppo. E che quindi è la tecnologia la bestia nera di Marco,
con questa, adesso mi sfugge, con questa tanto che Giulietta sembra quasi scusarsi
tecnologia io ci lavoro e lui ovviamente con lui: Guarda che comunque io li uso
insulta a livello generale quelli che per lavorare.
adoperano per esempio, fermo restando
quello che è il discorso informatico, quindi
internet e tutto quanto…lui ce l’ha proprio
contro in una maniera incredibile e quindi
indirettamente anche con me. Gli dico:
“Guarda che comunque io li uso per
lavorare, oramai si lavora così”- “no ma
sono tutte storie non è così che va il
mondo” ho detto: “Come non è così che
va il mondo? E’ così che va il mondo”.

Maria Cristina: cos’è che dice Marco, che Da qui la mia domanda, è un fatto anche
lei va dietro a delle cose contingenti, che di valori? Sembra all’inizio di no ma poi è
non segue i valori veri? così che finisce, lei si sente aggredita da
Marco e tanto più teme di dovergli
Giulietta: no, questo no perché appunto comunicare una sua ulteriore voglia di
lui dice che io comunque sono una cambiamento: lasciarlo.
persona che tra le tante riconosce invece Mi domando se da qualche parte Giulietta
molto valida con delle basi molto belle, dia un poco ragione a Marco, mi sembra
molto chiare che sono in questi termini troppo tranchant e ripetuto il quadretto
come valori. E però ovviamente io non che fa di un giovane uomo orientato solo
sono una che sta ferma, sono una che a seguire le orme tradizionali del padre e
son sempre stata abituata al rinnovare, a mettere il denaro nel materasso. Marco è
seguire quello che è la tecnologia tutto di un’altra cultura ma i genitori vivono in
quanto e poi per giunta lavoro anche in Lombardia da molti decenni, Giulietta

143
questo contesto, per cui comunque fa tante volte mi ha parlato di loro con
parte di me e allora lì lui ne parla affetto e tenerezza. Lasciare Marco vorrà
genericamente in malo modo però anche dire perderli?
ovviamente ci son di mezzo anch’io ecco. Scarto di culture o scarto di personalità?
Poi mi dice: “Sì, ma tu non c’entri perché Giulietta si sente giudicata?
non sei come le altre, perché tu
comunque hai dei valori” sì, ho capito ma
non puoi allora generalizzando avercela in
questo modo con chi segue e chi ha un
telefonino piuttosto che una carta di
credito e comunque non colpire me, non
devi pensare tu che non stai colpendo
me, perché alla fine lui colpisce me.
Ci sono discussioni di questo genere:
“Perché tu stai parlando in generale ma è E finalmente sbotta: tu stai parlando in
me che stai colpendo comunque”. generale ma è me che stai colpendo.

Maria Cristina: lui ci crede? Di nuovo: ma Marco lo sa? Dal suo punto
di vista, come lo vedrebbe?
Giulietta: che mi sta colpendo? Lei è come sorpresa, si arresta, esita.

Maria Cristina: sì.

Giulietta: ma lui dice, beh sì a volte dice Sfuma in inutili.


di sì, che sono anch’io dentro questo
girone di cose che lui reputa inutili.

Maria Cristina: inutili o perverse o cattive Riprendo, accentuando, solo inutili o


o immorali? sbagliate?

Giulietta: (alzando il tono della voce) Ma lei ripete, sempre più irritata. Ho
Inutili perché lui sostiene che quello che come la sensazione che si senta in
non c’era cinquant’anni fa per esempio e trappola, costretta a ribattere lo stesso
comunque si stava bene, si viveva lo chiodo. Decido di provare a uscire dal
stesso, non dovrebbe esserci neanche circuito sempre uguale. Con voce
oggi perché tanto si riusciva a fare lo incuriosita, introduco le sue donne, figure
stesso determinate cose anche senza femminili che abbiamo già incontrato
questa velocità che dà per esempio la altre volte e Gianni, un signore anziano
tecnologia. distinto che Giulietta un giorno ha trovato
in una casa antica. Che è un poco un
guru per lei.

Maria Cristina: di tutta questa cosa, cosa Sono volutamente molto generica, quasi
dicono le sue ragazze? O quel signore, trascurata, di tutta questa cosa, come
Gianni? E’ ritornato Gianni? vorrà continuare Giulietta?

Giulietta: no però, io ho provato a Lei entra subito nel gioco, le ha pure


riguardare un attimo intorno se c’era cercate, soprattutto la donnina gnoma.
qualcuno in questi giorni e …no! Si sono
tutte staccate. Cercavo di rivedere il volto
dell’ultima donnina gnoma non so come
chiamarla, ed era sempre lì sorridente.

144
Però ecco non ho più avuto modo di
andarle a cercare o così beh adesso non
so bene devo andare a vedere dove siano
finite … Il (pausa) mah chi viene subito Non le ragazze, dunque, né Gianni, ma la
con il sorriso è sempre quella signora piccola gnoma. Entrata quasi di sbieco
gnometta. l’ultima volta.

Maria Cristina: prima di tutte!! Sottolineo con voce allegra, approvante.

Giulietta: sì, sì è la più vicina, le altre è Lei è in piena visione, si sta appoggiando
come se fossero sparpagliate in altri boh a persone più anziane di lei, la gnometta
in altri… no, beh c’è Gianni che ha…no, e Gianni, anche. In camicia bianca.
appare anche lui in camicia bianca. È pure guarito, stava sulla sedia a rotelle
ma ora, no, eccolo in piedi, Giulietta
Maria Cristina: è sulla sedia a rotelle o in sembra felice di vederlo, che le dia retta.
piedi?

Giulietta: no, in piedi!

Maria Cristina: ah in piedi ormai è! Sì che, come strappandosi


dall’incantamento, a un certo punto, mi
Giulietta: in piedi con la camicia bianca e chiede ma che cosa mai dovevamo
i pantaloni chiari e sorridente anche lui, di domandare? Ma il rapporto con le sue
solito non mi saluta. E quindi cosa persone appartiene a lei, la libero da
dovevamo domandare se? eventuali scorie di fedeltà a me e al
tempo di prima.
Maria Cristina: cosa vuol dire loro?
Lei, che cosa vuol dire loro?
Giulietta: (pausa) mah! Beh quel fatto C’è un punto, questa storia che loro
che loro mi mettano in attesa nel senso vogliono che lei aspetti…
che mi dicevano del discorso che: non
sono ancora pronta.

Maria Cristina: questa era Maria però, o Chiedo di Maria, una sua affidabile e
anche la gnoma? serena controfigura ma Giulietta è persa
dietro la gnoma.
Giulietta: anche la gnoma.

Maria Cristina: anche la gnoma diceva Le vengo dietro dandomi down e le


così, forse ricordo male. reintroduce Maria e anche Gianni.

Giulietta: lo diceva sì Maria quando è


stato confermato da Gianni e poi l’ha
detto in altri termini anche questa signora Ma è della gnoma che ha soggezione: ci
gnoma qui. E quindi siccome non so se ci si può azzardare?
si può azzardare a domandare: “che cosa
devo aspettare o se possono farmi capire
questa cosa”.

Maria Cristina: che succederebbe se lei lo Vediamo, quale sarebbe il pericolo?


domandasse, Giulietta?

Giulietta: non so! Non so se è anche una Giulietta esita, combattuta fra un fare da

145
forma di timore da parte mia nel sentire ganassa, un po’ spaccona, e la tenera
che cosa hanno da dire. Solo che resto in vulnerabilità di un suo sentimento di
attesa, non sapere...non so, l’idea che mi fanciulla.
sono fatta io è quella che potrebbe essere
qualche evento che non sia dentro di me,
quindi che non sia un’evoluzione dei miei
pensieri, delle mie constatazioni, di quello
di cui io mi possa accorgere da parte mia.
Ma come se fosse un evento esterno. E
quindi loro dicono: “non sei pronta ma E se si trattasse di un evento esterno?
perché c’è questo evento che deve Se non fosse lei a non essere pronta?
concretizzarsi”.

Maria Cristina: sono d’accordo, loro, con Un rapido controllo se loro sono al suo
questa sua posizione? fianco, poi lei dichiara lo spavento di
dover affrontare Marco. Se occorre
Giulietta: quindi non riesco a dire: va aspettare un evento esterno, allora lei
bene, se devo aspettare ma: in che per ora ne è esonerata?
modo? quanto? Cos’è questa cosa? E’ una
cosa che posso provocare io? Non so!
Mi son fatta l’idea riuscendo a trovare il
coraggio a due, a quattro mani di
azzardare in qualche modo un discorso
con Marco (pausa breve). E però siccome
d’altro canto mi hanno detto che non è
ancora maturo qualcosa che era avere
delle informazioni, delle cose che mi
potevano aiutare a capire questa cosa. Mi
blocco, perché dico: “Cavoli, se però io
faccio una cosa di questo genere magari
è un metterci troppo del mio” non so
come…

Maria Cristina: secondo lei, Giulietta, i Azzardo io, stavolta, quanto può
rapporti con Gianni e con la signora sono arrischiarsi?
troppo formali per permettere una
richiesta di consiglio, una richiesta
d’aiuto?

Giulietta: no è che io da sola non riesco! Sembra scherzosamente disperata ma c’è


Io ho provato a chiedere ma, non so un’eco di vuoto che rimbomba nella sua
“datemi appunto non lo so un segnale, un voce.
aiuto, un qualcosa”

Maria Cristina: un sacco di indicazioni? Rinforzo la qualità della sua richiesta.

Giulietta: indicazioni, ecc. Ma non ho Ma lei resta costretta in attesa, e per di


questa capacità di vedere le risposte o più le sorridono e le raccomandano di
comunque secondo me è sempre quella: aspettare.
mi sorridono, mi dicono: “Aspetta,
aspetta”. Come se dovesse appunto,
comunque passare del tempo, come se la
cosa non fosse in sé, come mi hanno

146
detto finora, matura.

Maria Cristina: anche adesso glielo Loro ci sono, le stanno accanto e Giulietta
stanno dicendo? sosta incerta, fra desiderio e timore di
quel che può esserle detto. Se chiedesse.
Giulietta: loro lo sanno, loro sanno
qualcosa però è come se non fossi io
comunque. È che non riesco a capire se
è: da una parte ho una gran voglia di
saperlo, dall’altra effettivamente ho
timore, e quindi …

Maria Cristina: potrebbe anche sembrare Avanzo l’idea che loro si astengano dal
che se sono loro a risponderle, dire per non rischiare di sopraffare il suo
potrebbero risultare alla fine loro che pensiero.
hanno risposto al posto suo? Cioè,
essendo dei signori molto attenti, molto
rispettosi, può essere che si astengano da
rispondere nel timore che lei possa essere
sopraffatta da una loro risposta e
rinunciare alla sua.

Giulietta: non lo so? Può essere? Lo chiedo rispettosamente a


Giulietta che ne testa la consistenza.
Maria Cristina: son d’accordo su questa
mia ipotesi, Gianni e la signora?

Giulietta: mah, dicono qualcosa del


genere (pausa) non so, mi veniva più la
sensazione del fatto che non fosse
proprio ancora tempo. E appunto come
dicevo prima, come se fosse un evento
esterno e quindi che loro non possono,
pur magari vedendo la percezione di
quello che è il poi, non hanno comunque
(parla molto più lentamente) questa sorta
di scintilla che deve esserci per far
partire…

Maria Cristina: però mi scusi, Giulietta, Siamo nuovamente in panne, provo a


mi pareva che la domanda di oggi non riprendere l’idea iniziale della domanda.
fosse tanto: quando? O che deve
succedere? Ma qual è il modo migliore di
attendere, no?

Giulietta: sì (lunga pausa). Beh Gianni mi Giulietta concorda, Gianni le parla.


dice di cercare di rimanere serena.

Maria Cristina: lo dice con affetto o con Con che tono, Giulietta?
serietà?
Con Gianni c’è affetto, con la signora,
Giulietta: (con tono affettuoso) siiii, con invece, la comunicazione sembra restare
affetto, no con affetto (pausa). Dice un poco difficile.

147
sempre invece la signora, dice qualcosa
che però (con un filo di voce) io non
riesco a sentire. E sento che ha delle cose
importanti da dire ma non riesco a
(pausa) sentirle.

Maria Cristina: cos’è che glielo impedisce? Qual è il punto, difficile perché?
La distanza? La posizione? Cioè se lei Questione di distanza, di posizione?
accostasse il suo orecchio? Intesa in senso fisico quanto relazionale.

Giulietta: (pausa molto lunga, è in


ascolto).

Maria Cristina: sembra che lei sia molto Evidentemente sono un po’ in ansia a
interessata a quello che la signora dice. lasciarla, forse non mi sento tranquilla?
Certo è che intervengo ancora,
Giulietta: ma perché è quella che è commentando sulla signora.
rimasta più vicina. A mano, a mano che, Giulietta, serena ma assorta, si racconta.
non so, Maria era stata molto forte per …
per quel periodo finché non è arrivato
Gianni. Adesso è molto presente Gianni E narra del peso che attribuisce alle sue
ma ancora di più lo è questa signora. diverse persone, delle loro vicende.

Maria Cristina: mhm (assente e


asseconda)

Giulietta: poi è come se avessero fatto La signora campeggia e la intriga;


una sorta di staffetta. Così, comunque, avverte che ha delle cose da dire ma non
tra loro tre che sono quelli che, più o le sente.
meno chiaramente, nel senso che Maria
appare meno chiara e sembra che voglia
parlare meno, che lasci il campo agli altri,
di questi quello che ha più parola,
diciamo, è la signora. E questa signora
avverto che ha delle cose grosse da dire,
ma che non sento. Come non sentivo
l’altra volta quando mi diceva che
comunque non sono ancora pronta.

Maria Cristina: se lei chiedesse aiuto e E farsi schermare da Gianni? Mi dispiace


consiglio a Gianni, cosa ne direbbe vederla lì come un uccellino con le piume
Gianni? Perché basta sapere per esempio bagnate.
che lei deve poter vedere che la signora
gnoma parla, ma che lei non può
intenderla. Basta saperlo forse. Oppure
invece che c’è un modo per intenderla o
per tradurla.

Giulietta: (pausa) mi dice: “lasciati Magico Gianni! Affidabile e cortese.


guidare”, (pausa) Gianni mi dice.

Maria Cristina: e la signora è d’accordo?

148
Giulietta: (pausa) sì, sì sono tutti molto Qui è splendido il quadro di diverse teste
legati, è come se fosse una mente unica e personalità sintonizzate in un unico
ecco. Sono sempre d’accordo, dicono impulso per conoscere!
questi ultimi tre: Maria, Gianni e la…la
gnoma.
Come se avessero un impulso unico di
mente e che quindi siano molto coalizzati
nel conoscere e quindi ognuno di loro
crede nella risposta dell’altro come se
fosse proprio la sua. Finora almeno è
così.

Maria Cristina: c’è una motivazione E allora avviciniamoci ancora, perché


specifica, Giulietta, per cui Gianni ha un qualcuno ha il suo nome ma non tutti?
suo nome, Maria pure e la signora deve
rimanere senza un suo nome proprio?
Cioè, è importante che rimanga solo L’accenno alla stirpe riecheggia il divario
come funzione, come stirpe diciamo in culturale di Marco, forse era funzionale
quanto gnoma? anche quello, chissà mai.

Giulietta: mhm sì, dice che comunque il


nome non ha importanza…fermo restando
che è l’unica cosa che mi dice nel
momento già anche quando si sentiva il Entra sicuro il nome Viola, profumo,
profumo l’altra volta lei mi dice sempre: suono e nome amati.
“Viola”. Penso che potrebbe, che le vada È nell’aria e si diffonde.
bene che la si chiami Viola. Continua a
dirmi ‘sta: “Viola”.

Maria Cristina: continua a dirlo la


signora?

Giulietta: è nell’aria, è molto presente


questa “Viola”. (pausa)
Non le dispiace se la chiamiamo Viola.

Maria Cristina: sembra un po’ esitante


però? Tutto bene, Giulietta? È al sicuro in
questo rapporto anelato con la signora?
Giulietta: no, no! Ero esitante io, ma lei
no.

Maria Cristina: la signora non era


esitante.

Giulietta: no, no! Ero io che…


Lei sembra ben disposta a farsi
Maria Cristina: lei era esitante, perché? accompagnare: l’aveva accennato prima,
stava pensando a come chiederle il vorrei far tutto da sola ma non ci riesco,
permesso? qualche volta, Giulietta, si può non dover
essere soli. E lei racconta, spigliata e
Giulietta: no, perché non è una cosa che compresa assieme. Un suo lungo e
dice e più …dovrebbe essere… quando complesso ragionare e la conclusione,

149
l’altra volta le abbiamo chiesto se sentiva ancora la stessa: Viola.
questo profumo e così…saltava fuori
“Viola”, le viole tra l’altro nel frattempo
stavo guardando giù dalla finestra.

Maria Cristina: sì

Giulietta: che c’era lì accanto quindi non


capivo se intendesse le viole che
potevano essere nell’aiuola che
intravedevo o che cosa: un profumo o
forse probabilmente intendeva a questo
punto il suo nome, comunque come
voleva essere chiamata, che non è il suo
nome. Però si vede che ama le viole e
quindi le sta bene: Viola.

Maria Cristina: sembrerebbe che una Sottolineo con ammirazione la


delle caratteristiche di questa signora è di complessità della comunicazione di Viola,
essere leggibile a più livelli. da difficile la valutiamo complessa,
Giulietta ne è contenta.
Giulietta: (tono deciso) sì! È molto più,
boh, telepatica direi.

Maria Cristina: mhm, meno di parole.

Giulietta: sì, sì anche perché queste Giulietta azzarda una franca superiorità
grosse cose che mi dice, non le sta della signora ma poi arretra, riavanza.
effettivamente dicendo, non vedo che Penso che incontreremo ancora questo
muove il viso che lo dice a parole, ma è suo bilanciarsi, non poter dire di uno che
tutta questa cosa qui che mi arriva ma le piace più di tutti, dover compensare gli
non riesco a capire che cosa, a scandire altri. Tenerli buoni? Perché, non si ha il
bene le parole, le frasi. Però si sente tutto diritto di eleggere uno su tutti?
sto bagaglio, mi dà la sensazione che è
quella che sa maggiormente più degli
altri.

Maria Cristina: sa di più.

Giulietta: sì! Anche se no, beh c’è sempre


questa sensazione che abbiano loro tre
un’unica mente però è come se lei fosse
una portatrice o comunque la … la
custode di queste cose e che quindi sia lei
quella che debba dire…come se avesse un
ruolo più importante diciamo e quindi sia
lei che debba dire delle cose.

Maria Cristina: anche se in realtà, è


l’unica che non dice. Comunica ma non
dice.

Giulietta: sì. (pausa)

150
Maria Cristina: cosa ne dicono questi due Come vedono, loro, questo nostro
di queste nostre considerazioni, Giulietta? conversare?

Giulietta: (pausa) mah, dice che siamo


sulla buona strada.

Maria Cristina: anche Gianni? Fedele al suo avvertimento, sto attenta a


non tralasciare nessuno.
Giulietta: sì, sì (pausa)

Maria Cristina: quindi si potrebbe dire, Il senso di tutto ciò, Giulietta, così ben
una cosa di questo genere: è proprio una rappresentato dalla signora, è che
domanda: l’informazione che darà la l’evento determinante sarà comunicato
possibilità a Giulietta di decidere, di sotto qualche forma ma nessuno glielo
valutare, di dare uno scarto, una svolta dirà?
no? le sarà comunicata, le apparirà ma
nessuno glielo dirà in qualche modo? Non
ci sarà un evento specifico.

Giulietta: mi stanno dicendo queste Ci sarà una donna a permetterle di


parole: “una donna” nel senso, ho seguito comprenderlo.
la domanda e come se questa cosa
venisse comunque portata, suggerita
comunque, che dia uno spunto per
comprendere questa cosa attraverso una
donna.

Maria Cristina: questo lo dice Gianni, o lo Con il permesso e l’assenso di Maria e di


dice anche la signora? Gianni.

Giulietta: lo dicevano Maria e…e Gianni


prevalentemente.

Maria Cristina: per cui non sappiamo se E la signora? Potrebbe essere lei? Lei
per esempio la donna è la signora? come c’entra?

Giulietta: sì perché comunque lei tace, in


effetti.

Maria Cristina: la mia impressione era Un controllo veloce fra di noi per
appunto che fossero più loro, che non ci confrontare le valutazioni, verificare le
fosse la comunicazione della signora, impressioni.
però volevo verificarlo con lei.

Giulietta: no, no, infatti tace. Sono stati


gli altri due a dirlo ma lei non …non dice.

Maria Cristina: e nello stesso tempo non Nessun’altra, vero? Nessuna delle
sarà nessuna delle altre ragazze? ragazze?

Giulietta: no (pausa lunga) e la Viola tace Giulietta è affascinata da Viola che

151
(con un filo di voce) però sorride sempre. sempre più misteriosamente comunica e
Non so se sia lei ma comunque non dice non dice, tace ma sorride.
nulla ecco (pausa lunga).

Maria Cristina: che sensazione c’è Che sensazione, vuol dire accettare il
adesso? silenzio di parole di Viola.

Giulietta: mah, c’è la Viola che mi sta E si avvia una sequenza meravigliosa, sul
dicendo di (perché le ho chiesto io se mi sedersi e leggere un libro, orchestrato e
poteva dare un suggerimento…per cosa interpretato diversamente da ciascuna
fare, come fare) e lei mi dice: “di sedermi delle persone di Giulietta. Al servizio di
e di leggere un libro” ma come se fosse Giulietta.
più di sedermi e leggere un libro”, “di
fermarmi e leggere un libro” che sarà uno
specifico perché comunque leggo sempre
ma…

Maria Cristina: ha in mente un libro


speciale la Viola?

Giulietta: (pausa) mah dice sì e no. Non Che può comporre pezzi e pezzi.
ce n’è uno ma…perché infatti diceva: “di
fermarmi e leggere” un libro ma non uno
solo (non so come dire è una cosa strana)
è come se fosse nel senso da tanti potrei
trovarne mettendo insieme pezzi e pezzi
… un po’ come diceva l’altra volta però
con un altro discorso potrei vedere una
cosa, dare corpo a una cosa prendendo
spunti, non so…suggerimenti qua e là e
poi…magari lì…

Maria Cristina: seguendo una traccia che Seguendo una traccia che si forma in
si verrebbe a comporre via, via… itinere.

Giulietta: (sovrapponendosi) sì, qualcosa


del genere.

Maria Cristina: a lei piacerebbe un Le farebbe piacere, Giulietta?


progetto del genere? Dopo tanto lavoro, come sta, Giulietta? Il
percorso tracciato ricalca il suo desiderio,
Giulietta: mah il mio pensiero è sempre ciò che le piace?
stato quello che …a me piace molto
leggere così e la mia idea è sempre stata
comunque quella che effettivamente da
ogni libro bello o brutto che sia, nel senso
che più o meno importante o, non so, più
o meno piacevole. Piacevole lo sono tutti Sembra che Giulietta sia molto a suo
perché altrimenti non…Però comunque agio.
più o meno importante, serio diciamo dal
romanzo a quelli lì scientifici così, tutti
hanno qualcosina di interessante a cui
fare appiglio…ecco sì. Solo non è che, io

152
non ho mai smesso di leggere, per cui
non riesco a capire anche se mi dà la
sensazione che mi dava l’altra volta
quando mi diceva di mettermi nel mezzo,
no, di lasciare l’oggetto del pensiero nel
mezzo e provare ad essere ognuno dei
paletti che può stare intorno per vedere
la cosa da una prospettiva diversa, ecco.
Mi da un po’ lo stesso richiamo di questa
cosa qui, di questa frase che mi ha detto.

Maria Cristina. ma, secondo lei Giulietta, Ora possiamo affrontare un ultimo
quando Viola dice: libro intende proprio chiarimento sul suggerimento che
un libro o l’azione dello stare là e Giulietta ha ottenuto.
pensare, leggere, riflettere, ascoltare…

Giulietta: no, è vero dava più questa


seconda immagine. Sì, come comunque
dello stare fermi a …

Maria Cristina: stavo pensando ad Dicevano che doveva entrarci una donna,
un’espressione che usano le donne: no? E allora cerchiamo il loro linguaggio
“fermarmi da una parte e leggere un per capir meglio.
libro” per cui non è tanto importante il
libro da leggere è proprio l’azione del
disporsi ad ascoltare delle parole non
dette, una cosa di questo genere.

Giulietta: sì. Direi che è valida questa.


perché è proprio quella cosa che non
riuscivo a capire io perché diceva di
fermarmi a leggere un libro. Non diceva
uno, o comunque uno in particolare ma
libri singolare plurale per cui questa qui Ecco: fermarsi a guardare con occhi
direi che è quella più simile a quella che diversi. Un’eco anche dell’avvio,
intendeva lei. E quindi si ritorna l’agitazione verso il cambiamento, gli
comunque a quello che mi aveva detto occhi diversi di Marco, un suggerimento
l’altra volta che era quello di fermarmi a da ripensare all’interno di Giulietta.
guardare con occhi diversi.

Maria Cristina: Gianni ne sa qualcosa di Dopo aver lasciato il passo alle signore,
più? ascoltiamo Gianni.

Giulietta: (pausa) Gianni dice che … che Questione di tempi e di tempo.


non è così complicato come può sembrare
nel fare attuare questa cosa e che c’è
sempre il solito discorso del tempo che
comunque c’è qualcosa che deve … che
deve maturare …

Maria Cristina: sa, Giulietta, che io ho Ricompongo il dire di Gianni e il


l’impressione che la forma del pensiero e comunicare di Viola in un unico pensiero
del comunicare di Gianni sia più, diciamo, espresso con linguaggi diversi (ancora la

153
su un andamento lineare rispetto a quello duplicità della differenza) e allargo a
della signora Viola. Cioè che Gianni dica a Maria (fra due sole opzioni, non c’è
modo suo la stessa cosa che sta dicendo scelta!), un movimento che vuol essere
la signora ma sono due modi diversi. Cioè anche proposta di leggere e ascoltare le
Gianni dice: occorre che qualcosa venga altre letture di uno stesso evento. Fisico,
a maturazione, no? Sarebbe forse pensiero, relazione o emozione che sia.
interessante sapere la versione che ne
darebbe Maria, a questo punto.

Giulietta: Maria, (lentamente) Maria dice Maria integra con l’assistenza fedele,
che è lì che mi aspetta e quindi non dice affettiva. Non sta a lei dire.
niente di preciso.

Maria Cristina: ecco c’è un modo di dirlo Allargo e dispiego il ventaglio delle
che è quello della signora Viola che dice opzioni. Ognuno ha un suo modo, una
appunto fermarsi e mettersi a leggere un sua funzione complementare alle altre nel
libro, c’è un modo di dirlo che è quello di gioco, ognuno rinforza con il suo modo il
Gianni che è questione di aspettare che messaggio degli altri.
qualcosa maturi, c’è un modo di Maria
che dice che è con lei, no?

Giulietta: sì

Maria Cristina: ma il modo di Giulietta di E lei, Giulietta, come vuole entrarci?


dire la stessa cosa? Quale modo sceglierà come suo?

Giulietta: (pausa) ma è sempre quello di Lei è incerta, sembra un poco confusa,


schierarmi in attesa e mi è ritornata ritrosa, arretra in ciò che già sa, che già
l’immagine di quando siamo caduti ha sperimentato.
praticamente nella pupilla per guardare
così dall’alto l’altra volta. Nello stesso
tempo è come un po’ il desiderio di
sciogliere queste … questa imbracatura,
queste briglie che comunque tengono
fermo tante cose … comunque vabbè si
fida e si schiera comunque con Maria,
Gianni con Viola ecco…si affida a loro Passa la palla a loro, si sottrae?
ecco.

Maria Cristina: si fida di loro o si affida A loro andrà bene? È evidente da tempo,
loro? in filigrana, il commento sul nostro, di
rapporto. Di fiducia, sì, ma di
Giulietta: entrambe! affidamento? Lo ribalto su loro, con
l’antica tecnica del parlare a nuora perché
Maria Cristina: ah entrambe. E loro suocera intenda. Sono le sue persone, le
accettano l’affidamento? Beh capisco faranno da specchio riflettendo il suo
bene che accettino la fiducia, la pensiero e riflettendo su.
riconoscono, ma l’affidamento? Cioè che
lei si metta nelle loro mani in qualche
modo. E’ una cosa che loro approvano?

Giulietta: beh insomma non proprio è Non si tradiscono, Giulietta ne prende


come se, è come se mi dicessero siamo atto con buona grazia.

154
qui nel caso in cui avessi necessità,
bisogno però ecco che non facciano tanto
da affidatari (sorride) non hanno questo
ruolo ecco, non lo accettano ecco (pausa)
comunque dimostrano sempre di essere lì
e che ci sono in caso di necessità ecco.
Però non si sentono assolutamente e non
mi devo comunque affidare a loro, ecco.

Maria Cristina: chi ha risposto di più, Chi ha dato il la?


qua?

Giulietta: Maria. Maria, ora molto differenziata da Viola,


donne ambedue ma che distanza di
Maria Cristina: Maria, vero? E la signora posizione, stile, funzione! Orma superato
Viola è stata a sentire oppure stava il passaggi difficile dell’affidamento
ascoltando altro? (si ride insieme) impossibile, siamo complici e alleate.

Giulietta: beh sì, un po’ e un po’ non era


molto partecipe.
Gianni e Maria affiancati, quanto simili
Maria Cristina: vero? Non è il suo gioco. alla coppia dei genitori di Giulietta,
attenti, presenti, ma che non accettano
Giulietta: no, no, non è il suo settore, deleghe.
diciamo il suo argomento.

Maria Cristina: e Gianni?

Giulietta: Gianni ecco sì, era più vicino a


Maria in questa cosa, condividendo quello
che stava dicendo lei sempre così
abbastanza…

Maria Cristina: sì, ma non è il loro gioco,


no?

Giulietta: no, no. Poi mi appare anche la E, dopo i genitori, ecco che si presenta
…come si chiamava? anche la sorella di Giulietta, alternativa,
eccentrica e spregiudicata, di cui Giulietta
Maria Cristina: Gloria? vorrebbe possedere lo stile sprezzante
delle consuetudini. Qui viene allusa da
Giulietta: No, forse Franca, quella vestita Franca, una delle persone di Giulietta,
di giallo, sì! tutta molto particolare come soggetto,
che alza di colpo il tono introducendo la
Maria Cristina: sì splendida immagine del vento, Franca
che è nel vento, sulla sua bicicletta.
Giulietta: eh sì, appare anche lei che dice
di (beh lei è tutta molto particolare come
soggetto) dice di affidarmi, come non so,
farmi una bella pedalata, di affidarmi al
vento come fosse una corrente da
…comunque ecco la vedo molto così,
come consiglio mi sembra di vedere

155
l’immagine di lei in bicicletta, quindi
nell’aria, nel vento.

Maria Cristina: inebriata di vento? Cioè


che va dentro al vento?

Giulietta: no, no no, il vento tipico di Ma l’idea è anche più bella e forte di
quando si va in bicicletta e così una come era sembrata in un primo
visione molto normale di pedalata che momento: il vento è quello provocato
però comunque dà questa rinfrescata, proprio dalla pedalata. Ecco, Giulietta, se
questo…questa pulizia. Poi non è una vuoi cambiare, resta stabile sulla tua
pulizia, qualcosa nell’aria in bicicletta si bicicletta, pedala, forte, che l’aria intorno
stacca, non so la polvere, queste cose smossa da te e trasformata in vento farà
qua abbastanza leggere. pulizia. A questo puoi affidarti.
Eccola mi fa vedere lei in bicicletta e mi
dice che dovrei affidarmi all’aria, al vento.

Maria Cristina: e anche le altre, una dopo Questo è specifico di Franca.


l’altra, potrebbero darle la loro versione?

Giulietta: no …no, direi di no…

Maria Cristina: quando Franca le ha


parlato e le ha fatto vedere la bicicletta,
Maria cosa ha fatto?

Giulietta: Maria sorride, è sempre molto Maria approva, con grande serietà,
… Ha accettato questa cosa molto questa magica biciclettata nell’aria. Non è
seriamente, nonostante sorrida perché il suo gioco ma approva.
approva nel senso di approvazione nei
confronti di Franca, però è molto seria
dopo che c’è stata questa biciclettata
nell’aria.

Maria Cristina: Gianni?

Giulietta: Gianni sì, anche lui, è serio e Anche Gianni, le ragazze, le figlie son
dice: sì, sì come conferma che la cosa sia grandi, si appoggeranno l’una all’altra.
… sia appropriata.

Maria Cristina: e la signora l’ha ascoltato? E la signora?

Giulietta: la signora sì, è più sorridente Non era il suo pensiero ma è valida.
anche lei, perché la trova, comunque sì,
valida anche se non è parte del suo
modo, ecco.

Maria Cristina: mi pare che Franca L’ingresso del vento va festeggiato e


nell’apparente semplicità del onorato, si può immaginare, Giulietta,
suggerimento della proposta che le fa, mi che la proposta fascinosa di Franca
pare che ha preso qualcosa di molto rappresenti quell’indicibile che andava
sacrale, di molto importante: il vento è trasmesso?

156
anche l’elemento biblico, è lo spirito santo
è la voce, come dire, dentro la quale si
trovano le indicazioni ma che non
indicano. Mi sembra che, come dire,
Franca abbia dato una rappresentazione
fisica di una cosa molto impegnata, molto
segreta, molto difficile da dire. Può
essere, Giulietta? Il mio tono è molto serio, rispettoso,
Giulietta si sintonizza, Viola dice che è poi
Giulietta: mah, vedendo la serietà di un po’ la stessa cosa che fermarsi a
come hanno accolto gli altri direi di sì che leggere, chiudendo il cerchio in una festa
può …sì, perché sono molto seri e molto di linguaggi incrociati che circondano un
concordi in questa cosa (pausa). Viola contenuto di grandissima rilevanza.
dice che comunque, no, che mi fa sempre
ricordare che il discorso del fermarsi e
leggere sia altrettanto valido. Però hanno
accolto seriamente tutti, tutti e tre questa
cosa qui della pedalata.

Maria Cristina: e forse è questo che Tiro le fila, concludiamo un lungo giro.
dicono di portarsi con sé.

Giulietta: cioè?

Maria Cristina: questa immagine di


andare dentro il vento. E’ il vento che la
stessa pedalata provoca. Che non è la
stessa cosa di andare dentro il vento.

Giulietta: eh no! E non è,non può essere


una cosa del tipo lasciarsi trasportare.

Maria Cristina: no, è fidarsi di sé stessi. Vada, Giulietta, vada, sono, siamo tutti lì
che facciamo il tifo per lei, si affidi al
Giulietta: ah… vento che lei stessa produrrà!

Maria Cristina: è affidarsi a se stessi….

Lei si muove leggera, veramente, (ma sarà solo suggestione?), sembra sostenuta da
un gentile refolo di vento, scuote i ricci mentre raccoglie la borsa ricamata, va verso la
porta, felicemente dimentica di me, tutta presa da un suo incanto privato. Poi si
ferma, sorride, mi porge la mano, morbida e piccolina: ci salutiamo rapidamente e la
guardo allontanarsi. E mentre scivola fuori dal mio sguardo, mi riecheggia in testa
l’antico saluto:

Possa il sentiero sorgere per salutarti.


Possa il vento essere sempre alle tue spalle.
Possa il sole splendere caldo sopra il tuo volto.
Possa la pioggia cadere gentilmente ai tuoi piedi.

157
Maria Cristina Koch vive e lavora a Milano nel suo studio di via Grossich, 16

Dirige la scuola triennale di counseling accreditata S.I.Co. Sistema Counseling


www.sistemanet.com

Nella stessa sede di via Luisa Sanfelice, 3 a Milano, ha promosso un centro multiculturale
dedicato alle donne e alle professioni, La Casa di Vetro www.lacasadivetro.com

dove opera anche EFF&CI-Facciamo Cose:


info@effeci-facciamocose.com che organizza e cura eventi.

Oltre a contributi a volumi collettivi e interventi a convegni, ha pubblicato:

Norma e patologia allo specchio, IPSA, Palermo 1985

Nel tempio nel bosco. Mito e fiaba nella conversazione terapeutica, Librerie Cortina,
Milano 1988

Dentro una locanda. La terapia come sosta Moretti e Vitali, Bergamo 1999

Misurare l’immateriale. Riflessioni per una società trasparente a cura di G. Lai e M.C.
Koch, Franco Angeli, Milano 2008

La grafica è di Leonardo Gandini


www.noicon.biz

Le statue riprodotte sono di Giovanna Basile


www.giovannabasile.it

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