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Sergio Atzeni

I sogni della
citt bianca

Il Maestrale

Tascabili . Narrativa

Sergio Atzeni

I sogni della citt bianca


a cura di Giuseppe Grecu

Cura editoriale
Giancarlo Porcu
Grafica
Nino Mele
Imago multimedia
Impaginazione
Imago multimedia
2005 Edizioni Il Maestrale
Redazione: via Monsignor Melas 15 - 08100 Nuoro
Telefono e Fax 0784.31830
E-mail: redazione@edizionimaestrale.com
Internet: www.edizionimaestrale.com
ISBN 88-86109-99-7

Il Maestrale

Sergio Atzeni

I sogni della citt bianca


a cura di Giuseppe Grecu

Cura editoriale
Giancarlo Porcu
Grafica
Nino Mele
Imago multimedia
Impaginazione
Imago multimedia
2005 Edizioni Il Maestrale
Redazione: via Monsignor Melas 15 - 08100 Nuoro
Telefono e Fax 0784.31830
E-mail: redazione@edizionimaestrale.com
Internet: www.edizionimaestrale.com
ISBN 88-86109-99-7

Il Maestrale

Si vede qualche viso affascinante, a Cagliari: quei


grandi occhi scuri, senza luce... Duna oscurit morbida
e sorda, tutta velluto, da cui nessun diavoletto si affaccia
[...] Velasquez a volte, a volte Goya danno unidea di
questi grandi occhi scuri senza luce. E si accompagnano
a capelli neri e fini, vellosi: fini quasi come pelliccia.
Non ne ho visti a nord di Cagliari.
D. H. Lawrence
Vedo mare, vedo piroscafi, vedo gente, vedo automobili, vedo tranvai, vedo case, vedo alberi, vedo quanto
molto comune vedere ovunque, e tuttavia sento che Cagliari una citt diversa da qualsiasi altra.
fredda e gialla.
Fredda di pietra e dun giallore calcareo africano.
Spoglia. Sopra i bastioni pare una necropoli: e che dalle
finestre debbano uscire corvi, in volo. I tetti sono bianchi, di creta secca. Da qualche muro spunta il ciuffo nerastro, bruciacchiato di un palmizio. Ma non Africa.
ancora pi in l dellAfrica: in un continente ulteriore, dove sia citt essa sola. Attorno la terra sfuma in nulla; logora di stagni e di saline che sembrano spazi vuoti,
spazi puri. E il mare, al di l del cerchio delle gettate, anche lui di nulla; duna bianchezza di mare morto.
Elio Vittorini
Anche le reclute vanno a Cagliari cantando, perch
Cagliari la bandiera, perch Cagliari lavventura, la
luna da toccare con mano, liniziazione ai misteri.
Salvatore Cambosu

[La citt bianca]

Meglio fuggire. Sempre

Brutta storia di tedeschi cattivi.


Una produzione Radio Cagliari Centrale. La vostra radio.
C un bar.
C un bar, sul lungomare. Una striscia di cemento, il
lungomare, che passa sulla sabbia e taglia la spiaggia:
sabbia da una parte, e dallaltra. Proprio gettata sulla sabbia, la strada. E tutto attorno mare, e stagno. Acqua, negli
occhi, sempre acqua, dappertutto.
E stabilimenti balneari. Zeppi di micini stretti luno allaltro, sorridenti, in tanga, coi culetti al sole, rosa, e neri. Destate.
E deserti, dinverno, bianchi, e grigi, e il mare di quel
celeste di metalli, e candida e urlante, la schiuma.
Il mare: nigger. Scuro. Nero, il mare, di notte. Ogni
notte.
nero, il mare, dallalto delle colline. La citt distesa,
addormentata, dalle colline, si specchia.
E guarda.
Poche luci sul mare. Luci di torcia. Lampade. Lampras, sul mare. Luzern. Luci. Piccoli coni luminosi sullacqua scura. Vecchie barche, sul mare. Lampre.

Escono quando viene notte. Pescatori di sardine, lissa


e mummungioni: lampras. Fraccaroris.
In fondo al Poetto, alla fine del lungomare, quando la
strada lascia la sabbia e si inerpica sul fianco molle delle
colline, verso gli strapiombi, verso linterno, c un bar.
Un antro di cemento, una scatola, quel bar.
Ogni sera, soldati tedeschi della nato, sulle seggiole, infilano monetine italiane in un grasso jubox, che trasmette
canzoni tedesche, e bevono buone lattine di birra tedesca, che gonfia il cuore, buona birra tedesca, che chiama
lacrime agli occhi, e nostalgia alla memoria, buona birra
tedesca e care canzoni tedesche, tristi e disperate, tragiche, profumate, canzoni tristi, per quei ragazzi da tanto
e di tanto cos lontani da casa. Haus.
C anche Puppipepper sergente stanotte, nel bar.
triste, stanco di ascoltare quel jubox grasso e triste e lacrimoso, che canta sempre quella lingua lontana, le nere
notti sul mare di Amburgo. Hamburg.
Tutto attorno poveri tedeschi piagnoni. Ascoltano le
stesse canzoni, sempre le stesse canzoni. Piangono le stesse lontananze. Hamburg. Kol. Wuppertal. Siegburg. Essen. Soldati di Amburgo, Colonia, Acquisgrana. Lontani
da casa.
Puppipepper si spalla di star l, strapieno di birra. Stufo di quella compagnia.
Si lascia alle spalle lisola di luce elettrica del bar, Puppipepper, e sbuca fuori, al buio.
Puppi, solo e ubriaco, davanti a quel mare illuminato
fiocamente di lampras. Non trova lautomobile.

Lautomobile: una bestia tedesca, che taglia laria come


una freccia. Bmw.
Ma la Tuborg annebbia gli occhi di Puppi. E la notte
nasconde i colori metallizzati. E i modelli Bmw, il suo e
quelli degli altri, di tutti quegli altri germanici l dentro
nel bar, son tutti uguali.
Puppipepper buca la notte con un accendino. Piano
piano, strisciando sulle carrozzerie, arriva ai suoi poggiatesta rossi maculati, loro s, indistinguibili, anche di notte, al lume di un accendino.
Finalmente, lautomobile. Cercare in tasca le chiavi. In
tasca. Col tesserino della nato. Col sacchetto delle noccioline americane made in Germany. Con le lattine di Tuborg. In tasca: anche le chiavi.
Puppi sta bene. Ha aperto la macchina, si seduto alla guida, mastica le arachidi, sorseggia una nuova lattina.
Finalmente, lautomobile. In moto.
In moto.
Il motore ronfa. Familiare. Rassicurante.
Puppi, commosso, si appoggia al volante, lacrima.
Puppi si appoggia al volante, e si addormenta.
Il caro motore Bmw ronfa, e concilia il sonno. Allevia
le turbe psichiche, il sonno. calda e comoda, lautomobile. Puppi dorme.
Unoretta di sonno. Basta unoretta.
Puppi, finalmente, si sveglia. Ha dormito col motore
acceso. Benzina usata bene.
E ora, corsa.
Corsa sul lungomare, coi finestrini aperti, ch entri il

Escono quando viene notte. Pescatori di sardine, lissa


e mummungioni: lampras. Fraccaroris.
In fondo al Poetto, alla fine del lungomare, quando la
strada lascia la sabbia e si inerpica sul fianco molle delle
colline, verso gli strapiombi, verso linterno, c un bar.
Un antro di cemento, una scatola, quel bar.
Ogni sera, soldati tedeschi della nato, sulle seggiole, infilano monetine italiane in un grasso jubox, che trasmette
canzoni tedesche, e bevono buone lattine di birra tedesca, che gonfia il cuore, buona birra tedesca, che chiama
lacrime agli occhi, e nostalgia alla memoria, buona birra
tedesca e care canzoni tedesche, tristi e disperate, tragiche, profumate, canzoni tristi, per quei ragazzi da tanto
e di tanto cos lontani da casa. Haus.
C anche Puppipepper sergente stanotte, nel bar.
triste, stanco di ascoltare quel jubox grasso e triste e lacrimoso, che canta sempre quella lingua lontana, le nere
notti sul mare di Amburgo. Hamburg.
Tutto attorno poveri tedeschi piagnoni. Ascoltano le
stesse canzoni, sempre le stesse canzoni. Piangono le stesse lontananze. Hamburg. Kol. Wuppertal. Siegburg. Essen. Soldati di Amburgo, Colonia, Acquisgrana. Lontani
da casa.
Puppipepper si spalla di star l, strapieno di birra. Stufo di quella compagnia.
Si lascia alle spalle lisola di luce elettrica del bar, Puppipepper, e sbuca fuori, al buio.
Puppi, solo e ubriaco, davanti a quel mare illuminato
fiocamente di lampras. Non trova lautomobile.

Lautomobile: una bestia tedesca, che taglia laria come


una freccia. Bmw.
Ma la Tuborg annebbia gli occhi di Puppi. E la notte
nasconde i colori metallizzati. E i modelli Bmw, il suo e
quelli degli altri, di tutti quegli altri germanici l dentro
nel bar, son tutti uguali.
Puppipepper buca la notte con un accendino. Piano
piano, strisciando sulle carrozzerie, arriva ai suoi poggiatesta rossi maculati, loro s, indistinguibili, anche di notte, al lume di un accendino.
Finalmente, lautomobile. Cercare in tasca le chiavi. In
tasca. Col tesserino della nato. Col sacchetto delle noccioline americane made in Germany. Con le lattine di Tuborg. In tasca: anche le chiavi.
Puppi sta bene. Ha aperto la macchina, si seduto alla guida, mastica le arachidi, sorseggia una nuova lattina.
Finalmente, lautomobile. In moto.
In moto.
Il motore ronfa. Familiare. Rassicurante.
Puppi, commosso, si appoggia al volante, lacrima.
Puppi si appoggia al volante, e si addormenta.
Il caro motore Bmw ronfa, e concilia il sonno. Allevia
le turbe psichiche, il sonno. calda e comoda, lautomobile. Puppi dorme.
Unoretta di sonno. Basta unoretta.
Puppi, finalmente, si sveglia. Ha dormito col motore
acceso. Benzina usata bene.
E ora, corsa.
Corsa sul lungomare, coi finestrini aperti, ch entri il

profumo di trixia, ch entri, quellalito di mare. Ora,


Puppi respira.
fresca laria. Mette allegria.
Puppi accelera. Accelera. La Bmw un carro di fuoco
che corre fra il mare e lo stagno, un delirio di potenza,
fra il mare e lo stagno, corre, il re del mondo.
Corre, il nostro sergente.
A un tratto, nel silenzio, la bmw cozza contro qualcosa.
Un cane?
Maledetti cani, sempre in mezzo ai coglioni, c sempre qualche cane portato fuori a pisciare che attraversa
la strada nel momento sbagliato.
Veramente soltanto un cane? Eh? Sergente!
E fosse stato, diciamo, un ciclista?
Merda di ciclisti che nella notte non si vede per niente
quel loro catarifrangente minuscolo, dovrebbero proibirli, i ciclisti.
E fosse stato, sergente, addirittura, un pedone? Eh? Sergente!
Che cazzo combina, un pedone maledetto, a questora
di notte, sulla strada, sul lungomare, con questi odori di
magia, colle macchine che corrono, stupidissimo pedone, se cera.
Diciamolo, sergente. Si preparano casini.
Nel caso di cane schiacciato, vabb, pazienza. Tutto tranquillo. Il ciclista, invece, o il pedone, una rogna.
Un altro cagliaritano travolto al Poetto da militare tedesco? diranno i giornali, rogne. Verranno i carabinieri,
alla base, con quellaria da scemi falsamente rispettosi, a

fare domande senza senso, cercando di scoprire qualcuno da incastrare.


Puppi, comunque, scappa. Cane o non cane.
Meglio, sempre, scappare. Mai farsi beccare come imbecilli attorno a qualcosa di pericoloso. Scappare, sempre. una legge.
La Bmw scappa verso il centrocitt, verso il porto.
C una bionda platino, neanche tanto grassa, lustrini
rossi sulle cosce bianche ben in vista, e un fal di legna, ai
bordi di un lungo viale alberato. Puppi, finalmente, rallenta.
La bionda solleva la vestina rosa, di un palmo, quel tanto che basta a mostrare una gran figa nera fra le cosce
bianche. Puppi, ora, si ferma.
Vanno, in automobile, dentro la calda Bmw, nuovamente verso il mare, verso il porto, verso quel gran ponte
che taglia gli stagni dal mare. Sotto il grande ponte di cemento, fra il mare e gli stagni, su una minuscola lingua di
terra, a un amen dalle luci dei portici del centro, un gruppo di casette nerastre, di legno, di scarto.
Vanno dentro una casupola, c un letto. Un abat-jour.
Un comodino. La lucerna e la scorta di preservativi.
Il giorno sarebbero visibili anche altre sozzure, sul pavimento, nel piccolo cesso semiaperto, sulle lenzuola. Ma
di notte, al buio, qualunque posto merdoso pu diventare un paradiso.
Si spogliano.
La bionda ha due grandi tette bianche. Due cosce poderose. Una gran figa nerissima e folta.

profumo di trixia, ch entri, quellalito di mare. Ora,


Puppi respira.
fresca laria. Mette allegria.
Puppi accelera. Accelera. La Bmw un carro di fuoco
che corre fra il mare e lo stagno, un delirio di potenza,
fra il mare e lo stagno, corre, il re del mondo.
Corre, il nostro sergente.
A un tratto, nel silenzio, la bmw cozza contro qualcosa.
Un cane?
Maledetti cani, sempre in mezzo ai coglioni, c sempre qualche cane portato fuori a pisciare che attraversa
la strada nel momento sbagliato.
Veramente soltanto un cane? Eh? Sergente!
E fosse stato, diciamo, un ciclista?
Merda di ciclisti che nella notte non si vede per niente
quel loro catarifrangente minuscolo, dovrebbero proibirli, i ciclisti.
E fosse stato, sergente, addirittura, un pedone? Eh? Sergente!
Che cazzo combina, un pedone maledetto, a questora
di notte, sulla strada, sul lungomare, con questi odori di
magia, colle macchine che corrono, stupidissimo pedone, se cera.
Diciamolo, sergente. Si preparano casini.
Nel caso di cane schiacciato, vabb, pazienza. Tutto tranquillo. Il ciclista, invece, o il pedone, una rogna.
Un altro cagliaritano travolto al Poetto da militare tedesco? diranno i giornali, rogne. Verranno i carabinieri,
alla base, con quellaria da scemi falsamente rispettosi, a

fare domande senza senso, cercando di scoprire qualcuno da incastrare.


Puppi, comunque, scappa. Cane o non cane.
Meglio, sempre, scappare. Mai farsi beccare come imbecilli attorno a qualcosa di pericoloso. Scappare, sempre. una legge.
La Bmw scappa verso il centrocitt, verso il porto.
C una bionda platino, neanche tanto grassa, lustrini
rossi sulle cosce bianche ben in vista, e un fal di legna, ai
bordi di un lungo viale alberato. Puppi, finalmente, rallenta.
La bionda solleva la vestina rosa, di un palmo, quel tanto che basta a mostrare una gran figa nera fra le cosce
bianche. Puppi, ora, si ferma.
Vanno, in automobile, dentro la calda Bmw, nuovamente verso il mare, verso il porto, verso quel gran ponte
che taglia gli stagni dal mare. Sotto il grande ponte di cemento, fra il mare e gli stagni, su una minuscola lingua di
terra, a un amen dalle luci dei portici del centro, un gruppo di casette nerastre, di legno, di scarto.
Vanno dentro una casupola, c un letto. Un abat-jour.
Un comodino. La lucerna e la scorta di preservativi.
Il giorno sarebbero visibili anche altre sozzure, sul pavimento, nel piccolo cesso semiaperto, sulle lenzuola. Ma
di notte, al buio, qualunque posto merdoso pu diventare un paradiso.
Si spogliano.
La bionda ha due grandi tette bianche. Due cosce poderose. Una gran figa nerissima e folta.

Puppipepper e il suo uccello, tremano. Impauriti.


Scossi.
La bionda bacia, e bacia, il piccolo uccello tremante, lo
scalda fra le mani. Come unamante vogliosa.
Ma cosa possono, le astuzie della professione, e lesperienza, se manca lo spirito? A Puppipepper, manca lo spirito.
Sta bello sdraiato, una bionda nuda sta succhiando luccellino tremante, e la gran figa nera della bionda si agita
davanti ai suoi occhi, potrebbe toccarla, volendo.
E quel demonio non si solleva. Non risponde.
E il tedesco, questa volta, si incazza.
Puppi si incazza, e piange. E prende i capelli della bionda, li tira come fossero falsi. Ma sono veri. Attaccati. Soltanto, dipinti. La bionda si spaventa. Piange.
Tu piangi! Tu! Sgualdrina! Io. Io dovrei piangere. Sono io, quello che non riesce a scopare. Ho il cuore pesante.
E molla un cazzotto sul ventre della puttana. Un cazzotto da bestia feroce. Un cazzotto che lascia una gran
macchia viola sul ventre della bionda.
Urla, la bionda. Ma non la sente proprio nessuno, stanotte, nella casupola sotto il ponte.
Vuoi uccidere? Eh? Sergente!
Vorrebbe. Uccidere. Non manca, la voglia.
Ah! Non spaventatevi, carini! una storia damore!
Una produzione Radio Cagliari Centrale. La vostra! Radio.

Il miracolo.
Proprio mentre il sergente Puppipepper riempie di
botte il ventre di una prostituta bionda, su un lettaccio
sporco, in un tugurio abbandonato, sotto un ponte moderno, a due metri dallo stagno, arriva il miracolo.
Eccolo: dal ventre della bionda, dalla fessura fra quelle
labbra rosa, sotto quei peli neri neri, da quel ventre vien
fuori.
Una figura: la madre di Alfred Puppipepper, morta!
Tanti anni fa. Sotto i ferri di un odontoiatra esperto in
aborti, esperto in amori, prima procura il figlio, poi lo striscia via con un arnese da taglio, perch la Signora Madre
ne ha gi troppo di Alfred, e non ne vuole altri, figlioli.
Neanche dal dentista. Cos ci ha lasciato la pelle la signora
Puppipepper-madre, mai maritata.
la mamma di Puppipepper, che vien fuori dalla figa di
una chiara puttana. Un ectoplasma. Un fantasma. Ma lavresti detta proprio lei: la Signora Madre, in carne ed ossa.
Ben vestita: cappellino nero con fettuccia bord, e i
pantaloncini tirolesi attorno al culo. Ernte 23, fra le labbra. Bastone in mano.
E bastona, mammina, bastona come si deve. Non il
bastone di un fantasma. Picchia sul serio.
Ora Alfredino, ginocchioni, si pentito della cattiveria.
Piange. Chiede perdono.
La bionda, accovacciata sul letto, esplora la solita fica,
quellarnese da lavoro che non ha mai regalato un mistero. N una magia comunissima carne di figa.
C una provvidenza per tutti. Anche per le bagascie.

Puppipepper e il suo uccello, tremano. Impauriti.


Scossi.
La bionda bacia, e bacia, il piccolo uccello tremante, lo
scalda fra le mani. Come unamante vogliosa.
Ma cosa possono, le astuzie della professione, e lesperienza, se manca lo spirito? A Puppipepper, manca lo spirito.
Sta bello sdraiato, una bionda nuda sta succhiando luccellino tremante, e la gran figa nera della bionda si agita
davanti ai suoi occhi, potrebbe toccarla, volendo.
E quel demonio non si solleva. Non risponde.
E il tedesco, questa volta, si incazza.
Puppi si incazza, e piange. E prende i capelli della bionda, li tira come fossero falsi. Ma sono veri. Attaccati. Soltanto, dipinti. La bionda si spaventa. Piange.
Tu piangi! Tu! Sgualdrina! Io. Io dovrei piangere. Sono io, quello che non riesce a scopare. Ho il cuore pesante.
E molla un cazzotto sul ventre della puttana. Un cazzotto da bestia feroce. Un cazzotto che lascia una gran
macchia viola sul ventre della bionda.
Urla, la bionda. Ma non la sente proprio nessuno, stanotte, nella casupola sotto il ponte.
Vuoi uccidere? Eh? Sergente!
Vorrebbe. Uccidere. Non manca, la voglia.
Ah! Non spaventatevi, carini! una storia damore!
Una produzione Radio Cagliari Centrale. La vostra! Radio.

Il miracolo.
Proprio mentre il sergente Puppipepper riempie di
botte il ventre di una prostituta bionda, su un lettaccio
sporco, in un tugurio abbandonato, sotto un ponte moderno, a due metri dallo stagno, arriva il miracolo.
Eccolo: dal ventre della bionda, dalla fessura fra quelle
labbra rosa, sotto quei peli neri neri, da quel ventre vien
fuori.
Una figura: la madre di Alfred Puppipepper, morta!
Tanti anni fa. Sotto i ferri di un odontoiatra esperto in
aborti, esperto in amori, prima procura il figlio, poi lo striscia via con un arnese da taglio, perch la Signora Madre
ne ha gi troppo di Alfred, e non ne vuole altri, figlioli.
Neanche dal dentista. Cos ci ha lasciato la pelle la signora
Puppipepper-madre, mai maritata.
la mamma di Puppipepper, che vien fuori dalla figa di
una chiara puttana. Un ectoplasma. Un fantasma. Ma lavresti detta proprio lei: la Signora Madre, in carne ed ossa.
Ben vestita: cappellino nero con fettuccia bord, e i
pantaloncini tirolesi attorno al culo. Ernte 23, fra le labbra. Bastone in mano.
E bastona, mammina, bastona come si deve. Non il
bastone di un fantasma. Picchia sul serio.
Ora Alfredino, ginocchioni, si pentito della cattiveria.
Piange. Chiede perdono.
La bionda, accovacciata sul letto, esplora la solita fica,
quellarnese da lavoro che non ha mai regalato un mistero. N una magia comunissima carne di figa.
C una provvidenza per tutti. Anche per le bagascie.

Non difficile, per una puttana, sentirsi San Francesco,


dopo che la madre di quel maledetto soldato tedesco che
la stava ammazzando le uscita dalla figa. E lha pestato a
sangue.
Una vera madre. Una donna coi fiocchi.
Ora la signora Puppipepper, rimessa in sesto la situazione, sparisce, infilandosi nello stessissimo buco da cui
era uscita. Senza alcuna difficolt. Dentro la pancia della bionda. Un miracolo.
Puppipepper ha capito la lezione.
Ora sta sul letto, il nostro sergente. Finalmente pronto
allamore. Come chiunque, stando su quel letto, potrebbe
ben vedere.
La bionda inghiotte larnese, col suo ventre magico,
ventre di miracoli. E finalmente, succede: una cosa come
si deve: scopano. Veloci e rabbiosi, predaci. Caldi e umidi. Ansanti. La bionda celebra un altro miracolo: il miracolo di un orgasmo roba conservata nel cassetto delle
occasioni speciali, le occasioni senza lavoro, senza mestiere, le occasioni damore.
Finalmente si danza. Eh? Sergente!
Sposiamoci, perdio. Tendine rosa, alle finestre. Una casetta sul mare. A Cagliari. O Amburgo.
E quel cane, o ciclista, o pedone? Quello che hai schiacciato al buio, sul lungomare?
Sergente!
Sveglia, sergente!
un fantasma. Non esistono, i fantasmi. Lasciami i coglioni in pace.

I bambini

La luce dellalba frugava il giardino.


Lunghi coni di pulviscolo brillante sostenevano i limoni, colonne di colori.
Quando la luce frugava il giardino, da finestre diverse,
guardavamo il limone.
Prima il limone, poi la panchina.
Poi langolo delle rose: tre, le rose. Poi la graticciata delle campanule: le campanelle.
Lordine era concordato; primo gioco della giornata, il
gioco di incontrarsi sulle stesse cose guardando da finestre diverse, da diverse case negli stessi momenti.
I miei occhi, e quelli di Cristina, non dovevano incontrarsi.
La prima complicit.
Il limone-verde pallido, estenuato agrume da giardino;
la panchina-grigiomarrone, tre pezzi squadrati di granitella ruvida; il roseto cupo, verde, e a volte sanguigno; la
graticciata, scheletrica, in inverno, filo di ferro intrecciato
in un disegno a rombi; erano i punti cardinali di un rettangolo di giardino sprofondato fra tre palazzi, palazzi giallini e sbrecciati, case popolari.
Oltre la graticciata il lato aperto, il solo, aperto verso
una campagna selvatica cardi, acetosella e fango e in

Non difficile, per una puttana, sentirsi San Francesco,


dopo che la madre di quel maledetto soldato tedesco che
la stava ammazzando le uscita dalla figa. E lha pestato a
sangue.
Una vera madre. Una donna coi fiocchi.
Ora la signora Puppipepper, rimessa in sesto la situazione, sparisce, infilandosi nello stessissimo buco da cui
era uscita. Senza alcuna difficolt. Dentro la pancia della bionda. Un miracolo.
Puppipepper ha capito la lezione.
Ora sta sul letto, il nostro sergente. Finalmente pronto
allamore. Come chiunque, stando su quel letto, potrebbe
ben vedere.
La bionda inghiotte larnese, col suo ventre magico,
ventre di miracoli. E finalmente, succede: una cosa come
si deve: scopano. Veloci e rabbiosi, predaci. Caldi e umidi. Ansanti. La bionda celebra un altro miracolo: il miracolo di un orgasmo roba conservata nel cassetto delle
occasioni speciali, le occasioni senza lavoro, senza mestiere, le occasioni damore.
Finalmente si danza. Eh? Sergente!
Sposiamoci, perdio. Tendine rosa, alle finestre. Una casetta sul mare. A Cagliari. O Amburgo.
E quel cane, o ciclista, o pedone? Quello che hai schiacciato al buio, sul lungomare?
Sergente!
Sveglia, sergente!
un fantasma. Non esistono, i fantasmi. Lasciami i coglioni in pace.

I bambini

La luce dellalba frugava il giardino.


Lunghi coni di pulviscolo brillante sostenevano i limoni, colonne di colori.
Quando la luce frugava il giardino, da finestre diverse,
guardavamo il limone.
Prima il limone, poi la panchina.
Poi langolo delle rose: tre, le rose. Poi la graticciata delle campanule: le campanelle.
Lordine era concordato; primo gioco della giornata, il
gioco di incontrarsi sulle stesse cose guardando da finestre diverse, da diverse case negli stessi momenti.
I miei occhi, e quelli di Cristina, non dovevano incontrarsi.
La prima complicit.
Il limone-verde pallido, estenuato agrume da giardino;
la panchina-grigiomarrone, tre pezzi squadrati di granitella ruvida; il roseto cupo, verde, e a volte sanguigno; la
graticciata, scheletrica, in inverno, filo di ferro intrecciato
in un disegno a rombi; erano i punti cardinali di un rettangolo di giardino sprofondato fra tre palazzi, palazzi giallini e sbrecciati, case popolari.
Oltre la graticciata il lato aperto, il solo, aperto verso
una campagna selvatica cardi, acetosella e fango e in

fondo, sullorizzonte, al confine, altre case popolari, altri


giardini rinchiusi, altri giochi.
La noia mortale della scuola, lunghe ore trascorse in
complicati intagli sul banco di legno. Attesa.
Attesa: la noia mortale del pranzo, animato dalle chiacchiere materne sui prezzi, sulla vicina che ha affumicato
la biancheria di tutto il condominio perch ha arrostito in
giardino le interiora del bue, su quellaltra vicina che riceve gli uomini dopo il buio, uomini sempre diversi, e il
palazzo ha fama di casino.
Lattesa.
Dopo langosciante attesa quotidiana, finalmente, cominciavano i pomeriggi, il giardino.
Se qualcuno mi chiedesse di descrivere con precisione
le ore di gioco, le stesse per giorni e giorni e giorni, per anni, e laccavallarsi delle sensazioni, non saprei rispondere:
gran parte dei fatti sono sfuggiti alla memoria o forse
giacciono su un fondo coperto da troppe scorie, e torneranno a galla prima o poi e rammento soltanto, soltanto
che tutto era gioco.
Giochi con le pietre, e col fango, e coi fiori, e con le parole, interminabili collane di parole. Cristina sulle parole
saltava, le sottometteva a un suo dominio selvaggio. Parole ancora sconosciute, vaghe, imprecise.
Sentite pronunciare per caso, o lette in qualche pagina
misteriosa elencate con sgomento, misteri del senso.
Cristina le usava, per farsi bella, come facessero parte della sua vita: e un senso prima o poi lo acquistavano; misteri
da filastrocca.

E il sesso. Proprio perch nascosto, proprio perch detto quando il buio nascondeva i contorni delle cose. Maria
stava al piano terra, la sua camera da letto dava sul giardino. Silenziosi, arrampicati sul davanzale della finestra di
Maria, intuivamo volti duomo, sorridenti e tesi, svestizioni in penombra, e in penombra uomini penetrati fra le
lenzuola, fra le gambe di Maria. Risate e sussurri.
Maria con le tette minuscole, il ventre piatto: una macchia scura che ci pareva lugubre, proprio sul ventre. Io e
Cristina impuberi, chiari come il latte. Maria davanti allo
specchio che contempla se stessa: a quanto mi vender,
oggi?
Maria arrocchita sul letto, pestata da settanta chili duomo, settanta chili tremolanti e frenetici, settanta chili di
movimento e di parole bagascia, ah, mi fai impazzire, bagascia.
Con la pubert, arrivato anche Antonello, nel giardino.
Forse Cristina aveva ormai tredici anni, io forse quattordici. Sedici o diciassette, Antonello.
Antonello, pi grande e pi piccolo: giocava come un
bambino, rideva come un bambino: dispettucci, pianti,
risate inutili, lunghe corse da solo, oltre il giardino, nel
fango, a scaricare, chiss, una vitalit violenta quanto inconsapevole.
Antonello, la testa gonfia e ciondoloni, due grandi occhi marrone di cerbiatto incosciente, occhi senza fondo e
senza senso: qualche alito di furbizia non ne mascherava il
vuoto. Mamma di qua; mamma di l, mamma in ogni cantatina.

fondo, sullorizzonte, al confine, altre case popolari, altri


giardini rinchiusi, altri giochi.
La noia mortale della scuola, lunghe ore trascorse in
complicati intagli sul banco di legno. Attesa.
Attesa: la noia mortale del pranzo, animato dalle chiacchiere materne sui prezzi, sulla vicina che ha affumicato
la biancheria di tutto il condominio perch ha arrostito in
giardino le interiora del bue, su quellaltra vicina che riceve gli uomini dopo il buio, uomini sempre diversi, e il
palazzo ha fama di casino.
Lattesa.
Dopo langosciante attesa quotidiana, finalmente, cominciavano i pomeriggi, il giardino.
Se qualcuno mi chiedesse di descrivere con precisione
le ore di gioco, le stesse per giorni e giorni e giorni, per anni, e laccavallarsi delle sensazioni, non saprei rispondere:
gran parte dei fatti sono sfuggiti alla memoria o forse
giacciono su un fondo coperto da troppe scorie, e torneranno a galla prima o poi e rammento soltanto, soltanto
che tutto era gioco.
Giochi con le pietre, e col fango, e coi fiori, e con le parole, interminabili collane di parole. Cristina sulle parole
saltava, le sottometteva a un suo dominio selvaggio. Parole ancora sconosciute, vaghe, imprecise.
Sentite pronunciare per caso, o lette in qualche pagina
misteriosa elencate con sgomento, misteri del senso.
Cristina le usava, per farsi bella, come facessero parte della sua vita: e un senso prima o poi lo acquistavano; misteri
da filastrocca.

E il sesso. Proprio perch nascosto, proprio perch detto quando il buio nascondeva i contorni delle cose. Maria
stava al piano terra, la sua camera da letto dava sul giardino. Silenziosi, arrampicati sul davanzale della finestra di
Maria, intuivamo volti duomo, sorridenti e tesi, svestizioni in penombra, e in penombra uomini penetrati fra le
lenzuola, fra le gambe di Maria. Risate e sussurri.
Maria con le tette minuscole, il ventre piatto: una macchia scura che ci pareva lugubre, proprio sul ventre. Io e
Cristina impuberi, chiari come il latte. Maria davanti allo
specchio che contempla se stessa: a quanto mi vender,
oggi?
Maria arrocchita sul letto, pestata da settanta chili duomo, settanta chili tremolanti e frenetici, settanta chili di
movimento e di parole bagascia, ah, mi fai impazzire, bagascia.
Con la pubert, arrivato anche Antonello, nel giardino.
Forse Cristina aveva ormai tredici anni, io forse quattordici. Sedici o diciassette, Antonello.
Antonello, pi grande e pi piccolo: giocava come un
bambino, rideva come un bambino: dispettucci, pianti,
risate inutili, lunghe corse da solo, oltre il giardino, nel
fango, a scaricare, chiss, una vitalit violenta quanto inconsapevole.
Antonello, la testa gonfia e ciondoloni, due grandi occhi marrone di cerbiatto incosciente, occhi senza fondo e
senza senso: qualche alito di furbizia non ne mascherava il
vuoto. Mamma di qua; mamma di l, mamma in ogni cantatina.

Lo abbiamo provato, con le parole. Rimbalzavano su di


lui come oggetti magici, i pensieri gli scivolavano dalla testa.
Lo abbiamo provato con gli oggetti: li manipolava con
fatica, e le pietre gli scivolavano dalle mani.
Una sera si aggiunto alla comitiva dei guardoni.
Maria abbracciava le lunghe cosce tornite e magre di un
marinaio, si chinava a brucare il suo pane, Maria rideva
sommessa cavalcando un uomo liscio e glabro, un uomo
di pane, morbido e buono.
Ha visto, Antonello, come si guardano ombre cinesi: la
volpe mangia il gatto, la papera ride, il cagnolino morde
la mano del padrone. Ha visto, senza capire, e tutto in lui
entrato, forse, come un sogno indistinto, un sogno dombra.
Silenzio. Su tutto quello che hai visto. segreto. Se
parli finisce il gioco. Soprattutto a casa. Se lo racconti morirai bruciato. Silenzio.
Altre notti in adorazione di Maria e dei suoi amanti: Cristina ha cominciato a carezzarlo Antonello.
Buono, buono, non ridere.
Finch una vitalit che si era espressa soltanto con le
corse, ha preso la forma. Una vitalit imponente il suo
cazzo il pi grande, pi di quello di qualsiasi amante di
Maria, sembra un tronco. Silenzio, non parlare con nessuno, vieni che ti carezzo. Come un pupo, docile, docile.
Lunico rischio: che scoppiasse in qualcuna di quelle
sue urla gutturali che esprimevano gioia. Avrebbe spaventato Maria, e lamante.

Il bue ha cominciato a bazzicare attorno a Maria. Maria


cucinava, Antonello pelava le patate; Maria lavava il pavimento, Antonello andava avanti e indietro con un secchio colmo dacqua; Maria leggeva Grand Hotel, Antonello si accucciava ai suoi piedi e commentava i fatti di
amore e gelosia; Maria rassettava il letto, Antonello stava
immobile come una statua sulla porta della stanza, gelato, teso.
Piegarla con forza o fuggire?
Una sera. Domenica sera, silenzio, tutti gli adulti al
Centro Sociale per guardare la televisione, tutti gli adulti
e tutti i bambini, silenzio nel giardino e nel mondo, silenzio da abbassare la voce per non disturbare.
I giochi di pietre, dimenticati.
La noia, perch Maria la domenica non riceve clienti, la
domenica va a messa.
Domenica sera: Maria alla finestra, noi tre in giardino,
annoiati attorno a un mazzo di carte.
Ant canta la voce della puttana oggi mi hai abbandonato, oggi che ho bisogno di qualcuno che mi aiuti. C
da lavorare, Ant, da sola non riuscir mai.
Siamo in quattro nel mondo; due entrano nella casa; gli
altri due si appostano alla finestra, nellimbrunire.
Il gigante sposta gli armadi; pulizia di primavera.
Il gigante, per, ha esaurito la pazienza. Chiss i sogni,
nella sua testa: prende Maria e la piega.
Mai Maria cos felice di farsi piegare per amore.
La trascina sul letto e la spoglia.
Giuro che le risate si sentano fino in America, e solo i

Lo abbiamo provato, con le parole. Rimbalzavano su di


lui come oggetti magici, i pensieri gli scivolavano dalla testa.
Lo abbiamo provato con gli oggetti: li manipolava con
fatica, e le pietre gli scivolavano dalle mani.
Una sera si aggiunto alla comitiva dei guardoni.
Maria abbracciava le lunghe cosce tornite e magre di un
marinaio, si chinava a brucare il suo pane, Maria rideva
sommessa cavalcando un uomo liscio e glabro, un uomo
di pane, morbido e buono.
Ha visto, Antonello, come si guardano ombre cinesi: la
volpe mangia il gatto, la papera ride, il cagnolino morde
la mano del padrone. Ha visto, senza capire, e tutto in lui
entrato, forse, come un sogno indistinto, un sogno dombra.
Silenzio. Su tutto quello che hai visto. segreto. Se
parli finisce il gioco. Soprattutto a casa. Se lo racconti morirai bruciato. Silenzio.
Altre notti in adorazione di Maria e dei suoi amanti: Cristina ha cominciato a carezzarlo Antonello.
Buono, buono, non ridere.
Finch una vitalit che si era espressa soltanto con le
corse, ha preso la forma. Una vitalit imponente il suo
cazzo il pi grande, pi di quello di qualsiasi amante di
Maria, sembra un tronco. Silenzio, non parlare con nessuno, vieni che ti carezzo. Come un pupo, docile, docile.
Lunico rischio: che scoppiasse in qualcuna di quelle
sue urla gutturali che esprimevano gioia. Avrebbe spaventato Maria, e lamante.

Il bue ha cominciato a bazzicare attorno a Maria. Maria


cucinava, Antonello pelava le patate; Maria lavava il pavimento, Antonello andava avanti e indietro con un secchio colmo dacqua; Maria leggeva Grand Hotel, Antonello si accucciava ai suoi piedi e commentava i fatti di
amore e gelosia; Maria rassettava il letto, Antonello stava
immobile come una statua sulla porta della stanza, gelato, teso.
Piegarla con forza o fuggire?
Una sera. Domenica sera, silenzio, tutti gli adulti al
Centro Sociale per guardare la televisione, tutti gli adulti
e tutti i bambini, silenzio nel giardino e nel mondo, silenzio da abbassare la voce per non disturbare.
I giochi di pietre, dimenticati.
La noia, perch Maria la domenica non riceve clienti, la
domenica va a messa.
Domenica sera: Maria alla finestra, noi tre in giardino,
annoiati attorno a un mazzo di carte.
Ant canta la voce della puttana oggi mi hai abbandonato, oggi che ho bisogno di qualcuno che mi aiuti. C
da lavorare, Ant, da sola non riuscir mai.
Siamo in quattro nel mondo; due entrano nella casa; gli
altri due si appostano alla finestra, nellimbrunire.
Il gigante sposta gli armadi; pulizia di primavera.
Il gigante, per, ha esaurito la pazienza. Chiss i sogni,
nella sua testa: prende Maria e la piega.
Mai Maria cos felice di farsi piegare per amore.
La trascina sul letto e la spoglia.
Giuro che le risate si sentano fino in America, e solo i

lamenti di Maria, gli ululati di Maria, gli ave di Maria, i


deograzia di Maria, le cosce bianche di Maria, il ventre
frenetico di Maria, la gola spalancata di Maria accompagnano la prima, violenta carica dello scemo. Una carica di
mulo e di risa. Antonello infinito.
Ne ha per anni, prima di smettere. Ahi, Maria.
Sotto il limone, nel buio, fuggiti di casa in piena notte,
coi genitori e i fratelli addormentati ma calda laria,
aria di luglio io e Cristina, con la dolcezza di mille volte
non dette, ci tocchiamo, ci baciamo, ci sorridiamo, ci cerchiamo.
Tremavo. Ma soltanto tremavo, di desiderio e di angoscia, di desiderio e di paura, di amore e di pena. Tremavo.
Non ho dormito. Una notte e due notti. E tre notti.
Non sono disceso in giardino. Una sera e due sere. E tre
sere.
Una sera. Lasciamo il giardino alle nostre spalle, i due
amanti falliti e lo scemo felice. Cristina ha smesso di toccarlo, da quando Maria lo accoglie, ogni domenica, lunghe sere di domenica che non finiscono mai, fra le sue
cosce.
Una sera. Parole: le tentazioni del Santo Bue: di, Ant,
dove glielo metti, a Maria. Ant, cosa ti racconta, Maria,
quando ti sussurra nellorecchio. Ant, come fatta
quaggi, Maria. Ant, cosa provi quando Maria si fa leccare le cosce. Ant, che profumo ha, Maria, fra le gambe.
Ant, dio trionfante, si sbottona e si esibisce fra i cardi,
e si maneggia. Ant il mulo, lasino, la bestia.

E Cristina si avvicina, intimidita, e intimidita lo carezza, e intimidita lo bacia, e intimidita lo lecca, e intimidita
raccoglie un sasso e ride mentre glielo spacca sulla testa.
Il sangue, poco sangue, ha sporcato una pietra grigia
appuntita. Ant sta fra i cardi, caduto su se stesso, gigante abbattuto, dio ucciso, con la lingua fra i denti e il cazzo
fra le mani. Ant che morto sapendo quanta la gioia, e
quanta lamicizia.
Sotto il limone Cristina mi carezza. Mi bacia. Sotto il limone. I giochi di parole si incontrano sul ventre, e questa
volta come se un altro cavallo corresse la mia gara. Mi
guardo correre e andare.

***
Non ricordo molto. Ricordo il suo ventre bianco, e quei
pochi peli biondi. La sua lingua sul mio collo. Le sue parole damore.

lamenti di Maria, gli ululati di Maria, gli ave di Maria, i


deograzia di Maria, le cosce bianche di Maria, il ventre
frenetico di Maria, la gola spalancata di Maria accompagnano la prima, violenta carica dello scemo. Una carica di
mulo e di risa. Antonello infinito.
Ne ha per anni, prima di smettere. Ahi, Maria.
Sotto il limone, nel buio, fuggiti di casa in piena notte,
coi genitori e i fratelli addormentati ma calda laria,
aria di luglio io e Cristina, con la dolcezza di mille volte
non dette, ci tocchiamo, ci baciamo, ci sorridiamo, ci cerchiamo.
Tremavo. Ma soltanto tremavo, di desiderio e di angoscia, di desiderio e di paura, di amore e di pena. Tremavo.
Non ho dormito. Una notte e due notti. E tre notti.
Non sono disceso in giardino. Una sera e due sere. E tre
sere.
Una sera. Lasciamo il giardino alle nostre spalle, i due
amanti falliti e lo scemo felice. Cristina ha smesso di toccarlo, da quando Maria lo accoglie, ogni domenica, lunghe sere di domenica che non finiscono mai, fra le sue
cosce.
Una sera. Parole: le tentazioni del Santo Bue: di, Ant,
dove glielo metti, a Maria. Ant, cosa ti racconta, Maria,
quando ti sussurra nellorecchio. Ant, come fatta
quaggi, Maria. Ant, cosa provi quando Maria si fa leccare le cosce. Ant, che profumo ha, Maria, fra le gambe.
Ant, dio trionfante, si sbottona e si esibisce fra i cardi,
e si maneggia. Ant il mulo, lasino, la bestia.

E Cristina si avvicina, intimidita, e intimidita lo carezza, e intimidita lo bacia, e intimidita lo lecca, e intimidita
raccoglie un sasso e ride mentre glielo spacca sulla testa.
Il sangue, poco sangue, ha sporcato una pietra grigia
appuntita. Ant sta fra i cardi, caduto su se stesso, gigante abbattuto, dio ucciso, con la lingua fra i denti e il cazzo
fra le mani. Ant che morto sapendo quanta la gioia, e
quanta lamicizia.
Sotto il limone Cristina mi carezza. Mi bacia. Sotto il limone. I giochi di parole si incontrano sul ventre, e questa
volta come se un altro cavallo corresse la mia gara. Mi
guardo correre e andare.

***
Non ricordo molto. Ricordo il suo ventre bianco, e quei
pochi peli biondi. La sua lingua sul mio collo. Le sue parole damore.

Omicidio sotto la pioggia

Slow. Pioveva. Cielo bianco e grigio. Livido. Improvvisi chiarori. Pioveva. I palazzi fino dallalba piangevano lacrime di argilla, giallo e sporco. Autisti gesticolanti e
furiosi coi finestrini appannati maledizioni senza suono. Ogni tanto una clacsonata furibonda.
Schifo di questa mattina. Le foglie dei giardini, i petali
dei balconi, piegavano verso il grigio e il marrone, rassegnati alla pena generale, umiliati dalla pioggia battente,
impegnati al pi in nostalgiche rievocazioni del sole
passato. Mario, al suo posto dietro la Faema, al Bar Sport,
sfornava cappuccini tristi a una moltitudine acciuppata
che pestava il pavimento di fango e acqua. Anche le chiacchiere di football languivano, demotivate. Proprio uno
schifo di mattina bagnata e miserabile, insomma.

Swing. Ma c sempre qualcuno che non si arrende: al


quarto piano del condominio 47 A, a pochi passi da un
palazzone triste che sembra la mamma della pioggia, un
tulipano giallo screziato, seguendo unaltra sua personalissima logica, si apre, e brilla a metri di distanza, come le
luci del night, di notte. Dietro il tulipano quattro vetri incorniciati in una finestra sbriluccicano divertiti, oh s ,
rimandando limmagine del tulipano ribelle un po dap

Omicidio sotto la pioggia

Slow. Pioveva. Cielo bianco e grigio. Livido. Improvvisi chiarori. Pioveva. I palazzi fino dallalba piangevano lacrime di argilla, giallo e sporco. Autisti gesticolanti e
furiosi coi finestrini appannati maledizioni senza suono. Ogni tanto una clacsonata furibonda.
Schifo di questa mattina. Le foglie dei giardini, i petali
dei balconi, piegavano verso il grigio e il marrone, rassegnati alla pena generale, umiliati dalla pioggia battente,
impegnati al pi in nostalgiche rievocazioni del sole
passato. Mario, al suo posto dietro la Faema, al Bar Sport,
sfornava cappuccini tristi a una moltitudine acciuppata
che pestava il pavimento di fango e acqua. Anche le chiacchiere di football languivano, demotivate. Proprio uno
schifo di mattina bagnata e miserabile, insomma.

Swing. Ma c sempre qualcuno che non si arrende: al


quarto piano del condominio 47 A, a pochi passi da un
palazzone triste che sembra la mamma della pioggia, un
tulipano giallo screziato, seguendo unaltra sua personalissima logica, si apre, e brilla a metri di distanza, come le
luci del night, di notte. Dietro il tulipano quattro vetri incorniciati in una finestra sbriluccicano divertiti, oh s ,
rimandando limmagine del tulipano ribelle un po dap

pertutto. Dietro lallegra fontana due gambe scure giocano


a far scivolare verso lalto una mutandina di pizzo arancione, che arriva a coprire il piccolo delizioso ventre della
signorina Francesca, maestra elementare ventisettenne,
che sorride a se stessa riflessa in un vecchio specchio circondato da un armadio di legno lucidato (anni cinquanta), si infila una maglietta bianca di bucato, blu blujeans
di velluto liscio stretti stretti come una calzamaglia, maglioncino rosa tendresse di cashmere a V, sciarpetta indiana di seta multicolore, scarponcini scamosciati, giaccone
a vento tonalit rosarosella e via, si lascia dietro le spalle
la piccola stanza di allegrezza, cammina cammina con
passetti veloci, macchia colorata sulla strada, saltellante
giovinetta fra una pozzanghera e laltra, dolcissima infrazione dello status-quo.

Allora ti prendo sotto il braccio, sotto lala, bella mia,


e mander via le tue angosce una a una, vieni, vieni sotto
la pioggia, mi racconterai le tue pene, e le paure, ora vieni, dammi la mano, lasciati portare, guarda quante belle
vetrine, senti laria quanto umida, e come profuma.
Hai addosso un bel po di buon profumo costoso,
bella mia, se avessi una certa luce negli occhi sembreresti
una stella, ti offro un boccone, sei ghiotta come un piccolo lupo, se non ho dimenticato la tua pancetta rotonda e
morbidotta, dammi la mano, sei in buone mani, fatti trascinare, sei o non sei una fanciulla grintosa che conosce la
sua strada? Lasciati dietro le spalle quello stupido treno, non farti incasinare da questo cielo lacrimonoso, il
piccolo nido ci aspetta caldo e tenero come un ventre di
donna. Oh, sorella.

Blues. Arriva il treno. Lunico treno sullunico binario


di questa citt pi di mari, di navi e di maestrale che non
di puzza di ferrovia. Nel terzo vagone Lucia guarda i finestrini nerastri rigati di pioggia, e ha i suoi casini, Lucia.
Non arriva mai, cazzo, questo treno lungo e lento come
una morte di vecchiaia. Lucia con gli occhi fissi, aspetta.
Si ferma, alla fine, il treno, e Lucia si trascina verso la
porta e scende sul marciapiede. Non c quasi nessuno
sul marciapiede, solo Francesca che danzella incontro a
Lucia, la abbraccia e immediatamente si spegne, su
quel marciapiede, vicino al treno, appena sente che Lucia
gi, ma gi, triste, con gli occhi verdi opachi, le mani
flaccide, il cuore titubante.

Rock. un bastardo violento e monomaniaco dice


Lucia seduta al tavolino de Larosetta patelle crude, mumungione in vernaccia, zuppa inglese e il cameriere le
mira rimpiangendo i suoi piedi precedenti e sputando sugli orari impossibili dei camerieri. Mi segue dappertutto continua Lucia con la mano che raschia sulla tovaglia
bianca e Francesca non sa se sorridere complice, o lanciarsi in una tirata folle che strappi lamica ai brutti pensieri e ai rimorsi. In qualcosa ha anche ragione, cantilena
piano Lucia, la testa china sul piatto, e questa pioggia non
mette certo allegria, e beve. Oh, bimba, per dimenticare,
per assentarti? Un altro bicchiere di vino giallo e secco come lingua di vecchio.

pertutto. Dietro lallegra fontana due gambe scure giocano


a far scivolare verso lalto una mutandina di pizzo arancione, che arriva a coprire il piccolo delizioso ventre della
signorina Francesca, maestra elementare ventisettenne,
che sorride a se stessa riflessa in un vecchio specchio circondato da un armadio di legno lucidato (anni cinquanta), si infila una maglietta bianca di bucato, blu blujeans
di velluto liscio stretti stretti come una calzamaglia, maglioncino rosa tendresse di cashmere a V, sciarpetta indiana di seta multicolore, scarponcini scamosciati, giaccone
a vento tonalit rosarosella e via, si lascia dietro le spalle
la piccola stanza di allegrezza, cammina cammina con
passetti veloci, macchia colorata sulla strada, saltellante
giovinetta fra una pozzanghera e laltra, dolcissima infrazione dello status-quo.

Allora ti prendo sotto il braccio, sotto lala, bella mia,


e mander via le tue angosce una a una, vieni, vieni sotto
la pioggia, mi racconterai le tue pene, e le paure, ora vieni, dammi la mano, lasciati portare, guarda quante belle
vetrine, senti laria quanto umida, e come profuma.
Hai addosso un bel po di buon profumo costoso,
bella mia, se avessi una certa luce negli occhi sembreresti
una stella, ti offro un boccone, sei ghiotta come un piccolo lupo, se non ho dimenticato la tua pancetta rotonda e
morbidotta, dammi la mano, sei in buone mani, fatti trascinare, sei o non sei una fanciulla grintosa che conosce la
sua strada? Lasciati dietro le spalle quello stupido treno, non farti incasinare da questo cielo lacrimonoso, il
piccolo nido ci aspetta caldo e tenero come un ventre di
donna. Oh, sorella.

Blues. Arriva il treno. Lunico treno sullunico binario


di questa citt pi di mari, di navi e di maestrale che non
di puzza di ferrovia. Nel terzo vagone Lucia guarda i finestrini nerastri rigati di pioggia, e ha i suoi casini, Lucia.
Non arriva mai, cazzo, questo treno lungo e lento come
una morte di vecchiaia. Lucia con gli occhi fissi, aspetta.
Si ferma, alla fine, il treno, e Lucia si trascina verso la
porta e scende sul marciapiede. Non c quasi nessuno
sul marciapiede, solo Francesca che danzella incontro a
Lucia, la abbraccia e immediatamente si spegne, su
quel marciapiede, vicino al treno, appena sente che Lucia
gi, ma gi, triste, con gli occhi verdi opachi, le mani
flaccide, il cuore titubante.

Rock. un bastardo violento e monomaniaco dice


Lucia seduta al tavolino de Larosetta patelle crude, mumungione in vernaccia, zuppa inglese e il cameriere le
mira rimpiangendo i suoi piedi precedenti e sputando sugli orari impossibili dei camerieri. Mi segue dappertutto continua Lucia con la mano che raschia sulla tovaglia
bianca e Francesca non sa se sorridere complice, o lanciarsi in una tirata folle che strappi lamica ai brutti pensieri e ai rimorsi. In qualcosa ha anche ragione, cantilena
piano Lucia, la testa china sul piatto, e questa pioggia non
mette certo allegria, e beve. Oh, bimba, per dimenticare,
per assentarti? Un altro bicchiere di vino giallo e secco come lingua di vecchio.

Vorrei fuggire lontano, in un paese di sole, in Africa.


Vorrei che fuggissimo allimprovviso. Un viaggio in nave,
tutto mare tutto mare, e poi lAfrica, Tetouan, un tugurio
caldo con le mosche e le zanzare, al sole, una barca e un
po di soldi, un letto bianco, il sole mormora Lucia con
gli occhi oltre il muro senza quel coglione. Mai pi. Non
vederlo mai pi. Neanche una sola volta nella vita. Neanche da morto.
Intascano la ricevuta finale dagli occhi adoranti di un
cameriere basso con le basette lunghe fino alla mascella,
alla Tom Jones, piovuto da una moda vecchia un quindicennio, e corrono via sotto quel cielo grigio e bianco, livido come gli occhi del morto annegato e spolpato dalle onde e dai pesci.
Sinfonia op. 17. Organo and flute. Lucia e Francesca.
Nella piccola stanza, protette da un tulipano giallo e solare. Profumi di donna e in un angolo straccetti accatastati
uno sullaltro, ammiccanti. Sorrisi quasi impauriti e mani
fredde che si fanno compagnia in due si sempre pi
tiepidi prima esplorazione di un corpo, a partire dai piedi bianchi appena sciacquati, viaggiando lungo una gamba morbida di pelle doca, soffermandosi appena un attimo fra le prime labbra suadenti, un primo saluto di riconoscimento ben trovate, eccoci ancora, vagando su un
ventre rotondo come un canestro rovesciato, saltellando
su una tetta scura tornita da madre maestra, visitando
langolo di un braccio ah, la dolcezza di unascella levigata e i peli teneri della schiena inarcata, che sfuggono

alle carezze, sostando fra due natiche che anche noi avremmo voluto amare. Lucia e Francesca. Ogni fruscio ritmato
dal respiro comune di due bocche appena appena poggiate una sullaltra fino a che la saliva improvvisamente manca e nelluna e nellaltra, un appena appena di sensazione
di secco e di affanno fra quattro occhi sbarrati.
Hard rock. Il tulipano trema mentre una violenta spallata demolisce la porta dingresso della stanzetta degli
amori ah, questi amori interrotti brutalmente, che pena
e ragazzi Fausto digrigna i denti, alto e forte, maschietto incazzoso nonch poligrafico legittimo consorte
di Lucia, piomba nella stanza, Fausto, e ha in mano un
coltello luccicante e infido ah, bagascia trema persino quella mutandina bianca con ricamata la violetta maliziosa, avanza gigantesco con la bava alla bocca questa
volta ti schiaccio, puttana. Occhi di fuoco minacciano
sfracelli finir anche questa, anche questa dolcissima
fanciulla, in grigio su una colonna di giornale vittima
della follia omicida? porte che sbattono. Inquilini impauriti. Due fanciulle tenere e nude su un lettone bianco
guardano il sogghigno feroce di un bruto armato di coltello che procede, grande e grosso, bestiale e inumano,
un dio di vendetta, il vendicatore di milleuno mariti traditi sui letti di mezzomondo, sui prati, in auto e persino
perch no? sul sellino di una vespa. Fausto solleva il
braccio armato e piomba sul letto. Prenotazioni in macelleria. Tutto compiuto?

Vorrei fuggire lontano, in un paese di sole, in Africa.


Vorrei che fuggissimo allimprovviso. Un viaggio in nave,
tutto mare tutto mare, e poi lAfrica, Tetouan, un tugurio
caldo con le mosche e le zanzare, al sole, una barca e un
po di soldi, un letto bianco, il sole mormora Lucia con
gli occhi oltre il muro senza quel coglione. Mai pi. Non
vederlo mai pi. Neanche una sola volta nella vita. Neanche da morto.
Intascano la ricevuta finale dagli occhi adoranti di un
cameriere basso con le basette lunghe fino alla mascella,
alla Tom Jones, piovuto da una moda vecchia un quindicennio, e corrono via sotto quel cielo grigio e bianco, livido come gli occhi del morto annegato e spolpato dalle onde e dai pesci.
Sinfonia op. 17. Organo and flute. Lucia e Francesca.
Nella piccola stanza, protette da un tulipano giallo e solare. Profumi di donna e in un angolo straccetti accatastati
uno sullaltro, ammiccanti. Sorrisi quasi impauriti e mani
fredde che si fanno compagnia in due si sempre pi
tiepidi prima esplorazione di un corpo, a partire dai piedi bianchi appena sciacquati, viaggiando lungo una gamba morbida di pelle doca, soffermandosi appena un attimo fra le prime labbra suadenti, un primo saluto di riconoscimento ben trovate, eccoci ancora, vagando su un
ventre rotondo come un canestro rovesciato, saltellando
su una tetta scura tornita da madre maestra, visitando
langolo di un braccio ah, la dolcezza di unascella levigata e i peli teneri della schiena inarcata, che sfuggono

alle carezze, sostando fra due natiche che anche noi avremmo voluto amare. Lucia e Francesca. Ogni fruscio ritmato
dal respiro comune di due bocche appena appena poggiate una sullaltra fino a che la saliva improvvisamente manca e nelluna e nellaltra, un appena appena di sensazione
di secco e di affanno fra quattro occhi sbarrati.
Hard rock. Il tulipano trema mentre una violenta spallata demolisce la porta dingresso della stanzetta degli
amori ah, questi amori interrotti brutalmente, che pena
e ragazzi Fausto digrigna i denti, alto e forte, maschietto incazzoso nonch poligrafico legittimo consorte
di Lucia, piomba nella stanza, Fausto, e ha in mano un
coltello luccicante e infido ah, bagascia trema persino quella mutandina bianca con ricamata la violetta maliziosa, avanza gigantesco con la bava alla bocca questa
volta ti schiaccio, puttana. Occhi di fuoco minacciano
sfracelli finir anche questa, anche questa dolcissima
fanciulla, in grigio su una colonna di giornale vittima
della follia omicida? porte che sbattono. Inquilini impauriti. Due fanciulle tenere e nude su un lettone bianco
guardano il sogghigno feroce di un bruto armato di coltello che procede, grande e grosso, bestiale e inumano,
un dio di vendetta, il vendicatore di milleuno mariti traditi sui letti di mezzomondo, sui prati, in auto e persino
perch no? sul sellino di una vespa. Fausto solleva il
braccio armato e piomba sul letto. Prenotazioni in macelleria. Tutto compiuto?

Rond. Francesca si sposta. Lucia saltata gi. I piedi


scalzi corrono. Una chiude la porta. Laltra accende la radio ah, Michelle. Il tulipano si sposta per osservare gli
accadimenti prossimi, e mentre il toro furente si volta su
se stesso, sorpreso, una fanciulla svestita imbraccia un cuscino e gli si fa contro, mentre laltra decide che due piccoli pugni su una grande schiena sono pur sempre qualcosa di solido avreste dovuto vedere, che danza! Nessuno risparmia cuscinate e schiaffi, e sgambetti, e risate cristalline, un coltellaccio caduto vola sotto il lettone, e Fausto, chiss perch, invece di usare le sue grandi mani
pelose, grandi come pale, pelose come orsacchiotti, si china a inseguire larnese da taglio sotto larnese da sonno.
Una fanciulla lo colpisce sulla schiena con la schiena di
una sedia. Ah. Avreste dovuto vedere. Che danza! E
saltano qua e l, le pulzelle, mentre il gigante cattivo impacciato ha perduto la rabbia e, chiss, la certezza? si
aggira disperso, ora intontito, ora fragile, ora stordito, ora
impaurito.
Lultimo colpo mette tutto a tacere: uno snock di radio-transistor Grundig da due chili e mezzo sulla testa
del bruto, che crolla sulle ginocchia, vinto, e sbatte la
grande faccia tonda e il naso a uncino sul pavimento
freddo mentre un allegro tulipano saluta il primo timidissimo sole. Pomeridiano.

bi di ghiaccio, belle donne gioiose, e lo torturarono coi ricordi, misero hombre, saltandogli sul ventre da vomitare il pasto e gli acidi gastrici e lo stomaco infuriate come
gatti selvaggi, arruffate e maligne, e gli bruciarono i piedi
collaccendino senza ricarica oh, lasciate stare le povere
bestie indifese e gli spiluccarono i peli del culo, e gli recisero le tettine minime con un temperino infuocato, si
amarono davanti a quei poveri occhi, e gli infilarono un
fazzoletto in bocca e lo gettarono dalla finestra dopo aver
spostato un tulipano giallo screziato.
Cadde, luomo, leggero come una libellula, da un quarto piano, con la morte prenotata che triste sapere che
fra un pochissimo, sbaff, e a terra.
Cadde fino a terra. Resti e frattaglie sotto la pioggia.

Ballad. Lo legarono come un salame, poveruomo, e gli


risero in faccia, gli parlarono a lungo delle sue imprese,
povero vinto cowboy, e gli strizzarono il cazzo fra due cu

Rond. Francesca si sposta. Lucia saltata gi. I piedi


scalzi corrono. Una chiude la porta. Laltra accende la radio ah, Michelle. Il tulipano si sposta per osservare gli
accadimenti prossimi, e mentre il toro furente si volta su
se stesso, sorpreso, una fanciulla svestita imbraccia un cuscino e gli si fa contro, mentre laltra decide che due piccoli pugni su una grande schiena sono pur sempre qualcosa di solido avreste dovuto vedere, che danza! Nessuno risparmia cuscinate e schiaffi, e sgambetti, e risate cristalline, un coltellaccio caduto vola sotto il lettone, e Fausto, chiss perch, invece di usare le sue grandi mani
pelose, grandi come pale, pelose come orsacchiotti, si china a inseguire larnese da taglio sotto larnese da sonno.
Una fanciulla lo colpisce sulla schiena con la schiena di
una sedia. Ah. Avreste dovuto vedere. Che danza! E
saltano qua e l, le pulzelle, mentre il gigante cattivo impacciato ha perduto la rabbia e, chiss, la certezza? si
aggira disperso, ora intontito, ora fragile, ora stordito, ora
impaurito.
Lultimo colpo mette tutto a tacere: uno snock di radio-transistor Grundig da due chili e mezzo sulla testa
del bruto, che crolla sulle ginocchia, vinto, e sbatte la
grande faccia tonda e il naso a uncino sul pavimento
freddo mentre un allegro tulipano saluta il primo timidissimo sole. Pomeridiano.

bi di ghiaccio, belle donne gioiose, e lo torturarono coi ricordi, misero hombre, saltandogli sul ventre da vomitare il pasto e gli acidi gastrici e lo stomaco infuriate come
gatti selvaggi, arruffate e maligne, e gli bruciarono i piedi
collaccendino senza ricarica oh, lasciate stare le povere
bestie indifese e gli spiluccarono i peli del culo, e gli recisero le tettine minime con un temperino infuocato, si
amarono davanti a quei poveri occhi, e gli infilarono un
fazzoletto in bocca e lo gettarono dalla finestra dopo aver
spostato un tulipano giallo screziato.
Cadde, luomo, leggero come una libellula, da un quarto piano, con la morte prenotata che triste sapere che
fra un pochissimo, sbaff, e a terra.
Cadde fino a terra. Resti e frattaglie sotto la pioggia.

Ballad. Lo legarono come un salame, poveruomo, e gli


risero in faccia, gli parlarono a lungo delle sue imprese,
povero vinto cowboy, e gli strizzarono il cazzo fra due cu

Un eroe

Destate, le notti erano chiare e lunghe.


Nel Primo Blocco, allora cos lontano dalla citt, vivevano famiglie di mutilati, di prostitute, di ubriaconi, di
operai comuni, di impiegati dei gradi infimi della burocrazia pubblica: gente che aveva affrontato gli anni del
primo dopoguerra in alloggi di fortuna grotte, vecchie
caserme militari e che ora aveva avuto la fortuna dellassegnazione di una casa popolare.
I genitori stavano, tutti assieme, al Centro Sociale, a giocare a sette e mezzo, e a guardare la prima e unica tele del
quartiere, che trasmetteva i funerali di Coppi e i film di
Stanllio e Ollio.
Il giardinetto dove noi ragazzini ci incontravamo era riservato esclusivamente allinfanzia. Dalla pubert in poi
scompariva dai luoghi abituali di vita. Appena spuntavano i primi peli di barba, le prime tette, i ragazzi cercavano
altri punti di raduno, e si dividevano per sessi. Finch si
stava nel giardinetto non cera differenza, fra maschi e
femmine.
I grandi fuggivano verso altri quartieri i maschietti
in bande numerose.
Speravano in conoscenze nuove e meravigliose e in un
primo amore sconvolgente, e finivano per limitarsi a dar

Un eroe

Destate, le notti erano chiare e lunghe.


Nel Primo Blocco, allora cos lontano dalla citt, vivevano famiglie di mutilati, di prostitute, di ubriaconi, di
operai comuni, di impiegati dei gradi infimi della burocrazia pubblica: gente che aveva affrontato gli anni del
primo dopoguerra in alloggi di fortuna grotte, vecchie
caserme militari e che ora aveva avuto la fortuna dellassegnazione di una casa popolare.
I genitori stavano, tutti assieme, al Centro Sociale, a giocare a sette e mezzo, e a guardare la prima e unica tele del
quartiere, che trasmetteva i funerali di Coppi e i film di
Stanllio e Ollio.
Il giardinetto dove noi ragazzini ci incontravamo era riservato esclusivamente allinfanzia. Dalla pubert in poi
scompariva dai luoghi abituali di vita. Appena spuntavano i primi peli di barba, le prime tette, i ragazzi cercavano
altri punti di raduno, e si dividevano per sessi. Finch si
stava nel giardinetto non cera differenza, fra maschi e
femmine.
I grandi fuggivano verso altri quartieri i maschietti
in bande numerose.
Speravano in conoscenze nuove e meravigliose e in un
primo amore sconvolgente, e finivano per limitarsi a dar

fastidio alle ragazzine e ad accendere memorabili risse fra


coetanei.
Quando scendeva il buio, tornavano a Is Mirrionis-Primo Blocco, e si dividevano: qualcuno andava con gli adulti al solito Centro Sociale; i pi al bar-latteria di Guido,
malavitoso e triste, con una terrazzina sulla strada principale, da cui si controllava lingresso del quartiere.
Chi sceglieva il bar-latteria finiva puntualmente sulle
pagine della cronaca cittadina, e in carcere, o in casa di
correzione, prima di aver raggiunto let maggiore.
Questo succedeva, nelle notti fra bambini, nei giardinetti: si raccontavano a mezza voce le imprese degli eroi
di quartiere.
Leroe pi grande di tutti stato, per un lungo periodo,
Luigino Testadiferro.
La fama e il prestigio di Luigino avevano travalicato i
confini ristretti del Primo Blocco, per giungere fino ad altri, lontani, simili agglomerati di cemento, disseminati ai
margini della citt, come spunzoni incuneati nella pianura, che segnavano il progredire del tessuto urbano ai danni di quello agricolo e parevano, a qualcuno, come una
specie di conquista, di vittoria sulla natura ostile.
Noi stavamo proprio in quel punto, fra la citt e il vuoto, in una terra di frontiera.
Cento metri dietro le case, la campagna cominciava
davvero, con gli orti di carciofi e favette, ora sommersi
dalle case di altri Blocchi tutti uguali, che paiono germinati uno dallaltro come le cellule di un tumore.
I confini degli orti erano segnati da filari di fichi din-

dia, che in autunno si coloravano di rosso, di giallo, di


arancione.
In quella stagione Santina, ogni giorno, si faceva pegno
di gare produttive; a chi le avesse portato il maggior numero di frutti li raccoglievamo con una canna tagliata in
cima in tre parti, un sassolino infilato al centro del taglio
avrebbe permesso di ammirare il suo ventre nudo di
bambina di nove anni. Correvamo come dannati e lavoravamo con una energia inesauribile, per un attimo di nudit e una rapidissima carezza in punta di dita.
La piccolissima fica priva dombre, agitava i nostri racconti serali, in gruppi ridotti e con gli amici pi fidati, nascosti in qualche sottoscala.
La nudit di Santina uno di quei sogni che mi sono
portato dietro per anni, come pietra di paragone per misurare la realt.
Il nostro eroe, dunque, era Luigino Testadiferro, di cui
si narravano, nelle notti lunghe e chiare destate, gesta
inaudite.
Luigino, tanto per cominciare, fuggito di casa che
aveva tredici anni. Era ormai uomo fatto, dal punto di vista fisico vero e proprio si diceva che, per chiarire una
volta per tutte la raggiunta virilit, la sera prima della fuga, avesse scacciato di casa il padre, e avesse dormito con
la madre come pure era fatto dal punto di vista morale:
nel senso che aveva ormai una ampia e sufficiente conoscenza della vita.
Suo padre, era una rovina: una facciata corrosa e decrepita, distrutta dai vizi. Si trascinava, magro come un ran-

fastidio alle ragazzine e ad accendere memorabili risse fra


coetanei.
Quando scendeva il buio, tornavano a Is Mirrionis-Primo Blocco, e si dividevano: qualcuno andava con gli adulti al solito Centro Sociale; i pi al bar-latteria di Guido,
malavitoso e triste, con una terrazzina sulla strada principale, da cui si controllava lingresso del quartiere.
Chi sceglieva il bar-latteria finiva puntualmente sulle
pagine della cronaca cittadina, e in carcere, o in casa di
correzione, prima di aver raggiunto let maggiore.
Questo succedeva, nelle notti fra bambini, nei giardinetti: si raccontavano a mezza voce le imprese degli eroi
di quartiere.
Leroe pi grande di tutti stato, per un lungo periodo,
Luigino Testadiferro.
La fama e il prestigio di Luigino avevano travalicato i
confini ristretti del Primo Blocco, per giungere fino ad altri, lontani, simili agglomerati di cemento, disseminati ai
margini della citt, come spunzoni incuneati nella pianura, che segnavano il progredire del tessuto urbano ai danni di quello agricolo e parevano, a qualcuno, come una
specie di conquista, di vittoria sulla natura ostile.
Noi stavamo proprio in quel punto, fra la citt e il vuoto, in una terra di frontiera.
Cento metri dietro le case, la campagna cominciava
davvero, con gli orti di carciofi e favette, ora sommersi
dalle case di altri Blocchi tutti uguali, che paiono germinati uno dallaltro come le cellule di un tumore.
I confini degli orti erano segnati da filari di fichi din-

dia, che in autunno si coloravano di rosso, di giallo, di


arancione.
In quella stagione Santina, ogni giorno, si faceva pegno
di gare produttive; a chi le avesse portato il maggior numero di frutti li raccoglievamo con una canna tagliata in
cima in tre parti, un sassolino infilato al centro del taglio
avrebbe permesso di ammirare il suo ventre nudo di
bambina di nove anni. Correvamo come dannati e lavoravamo con una energia inesauribile, per un attimo di nudit e una rapidissima carezza in punta di dita.
La piccolissima fica priva dombre, agitava i nostri racconti serali, in gruppi ridotti e con gli amici pi fidati, nascosti in qualche sottoscala.
La nudit di Santina uno di quei sogni che mi sono
portato dietro per anni, come pietra di paragone per misurare la realt.
Il nostro eroe, dunque, era Luigino Testadiferro, di cui
si narravano, nelle notti lunghe e chiare destate, gesta
inaudite.
Luigino, tanto per cominciare, fuggito di casa che
aveva tredici anni. Era ormai uomo fatto, dal punto di vista fisico vero e proprio si diceva che, per chiarire una
volta per tutte la raggiunta virilit, la sera prima della fuga, avesse scacciato di casa il padre, e avesse dormito con
la madre come pure era fatto dal punto di vista morale:
nel senso che aveva ormai una ampia e sufficiente conoscenza della vita.
Suo padre, era una rovina: una facciata corrosa e decrepita, distrutta dai vizi. Si trascinava, magro come un ran-

dagio, e sfaldato, da un angolo allaltro del quartiere. Rubava.


Seguiva le donne, con proposte da porco e si imbatteva,
ogni tanto, in un marito o in un figlio che con due calci nel
sedere lo allontanavano, senza neanche infierire, col disinteresse con cui ci si libera di una mosca.
Tentava di brancicare il basso ventre delle bambine
che, misteriosamente istruite fin dallinfanzia sui meccanismi della sessualit, lo respingevano con grandi risate e,
spesso, con lanci di pietre.
La madre di Luigino manteneva lintera famiglia a
stento, a quel chera dato di vedere attraverso luso di
quella professione che frutta se chi la esercita ancora
splendente di vita. Quando lho conosciuta, ormai pochi
pervicaci e miserabili ubriaconi si davano da fare attorno al suo lardo.
Era immensa, smisurata, grassissima, coperta di gioielli
veri e falsi dalla testa ai piedi.
Lenta nel muoversi e con gli occhi piccolissimi che si
perdevano nella sterminata distesa della sua faccia.
Luigino fuggito di casa a tredici anni ha scelto la strada
del Monte di Is Mirrionis. Il monte stava proprio di fronte
al Primo Blocco: al di l di una grande e inutile strada
asfaltata.
Su quel monte abitavano decine di famiglie, accalcate
anche tre o quattro per volta in uno stesso cunicolo. Era,
come altri monti della nostra citt, una collinetta alta
cento metri, bucherellata come un formicaio. Grotte e casermette militari.

Fuori dalla porta si fa per dire di ogni grotta, avevano tracciato i confini, fra una propriet e laltra, con
paletti di legno, vecchio scatolame, vecchie lamiere. Allinterno dei cortili cos ricavati, giocavano i bambini nudi, e crescevano cipolle e basilico.
Le grotte, tutte assieme, formavano un altro quartiere,
dirimpetto al nostro.
Luigino arrivato alle grotte, in pieno pomeriggio:
mentre i buoni e i malvagi dormivano il sonno della fatica
di vivere, che a luglio ed era luglio anche pi pesante
del solito. Un pomeriggio di luglio, col sole che asciuga
anche lanima, e solo il sonno, quel sonno pesante che
vuota la testa, d un attimo di tregua.
Luigino entrato nel primo cortile che ha trovato aperto, e da l, passato nelle stanze interne. Non conosceva
le coordinate del luogo, e il luogo era puzzoso e oscuro.
Ha finito per inciampare in chiss cosa, provocando un
fracasso inadatto alla siesta.
Ogni stanza, grande al massimo quanto un materasso a
due piazze, era divisa, dalle altre stanze, da tramezzi di
cartone che, con le loro scritte multicolori, testimoniavano lesistenza di una florida civilt industriale, da qualche altra parte del mondo.
Luigino, insomma, entrando, ha fatto casino. Un tale,
uno degli abitanti si chiamava Sergio ventreampio,
professione magnaccia si svegliato urlando, e pronto
alla rissa. Ha insultato lintruso. Luigino ha risposto con
poche chiare parole.
I due si sono ritrovati, dopo cinque minuti, nella piaz-

dagio, e sfaldato, da un angolo allaltro del quartiere. Rubava.


Seguiva le donne, con proposte da porco e si imbatteva,
ogni tanto, in un marito o in un figlio che con due calci nel
sedere lo allontanavano, senza neanche infierire, col disinteresse con cui ci si libera di una mosca.
Tentava di brancicare il basso ventre delle bambine
che, misteriosamente istruite fin dallinfanzia sui meccanismi della sessualit, lo respingevano con grandi risate e,
spesso, con lanci di pietre.
La madre di Luigino manteneva lintera famiglia a
stento, a quel chera dato di vedere attraverso luso di
quella professione che frutta se chi la esercita ancora
splendente di vita. Quando lho conosciuta, ormai pochi
pervicaci e miserabili ubriaconi si davano da fare attorno al suo lardo.
Era immensa, smisurata, grassissima, coperta di gioielli
veri e falsi dalla testa ai piedi.
Lenta nel muoversi e con gli occhi piccolissimi che si
perdevano nella sterminata distesa della sua faccia.
Luigino fuggito di casa a tredici anni ha scelto la strada
del Monte di Is Mirrionis. Il monte stava proprio di fronte
al Primo Blocco: al di l di una grande e inutile strada
asfaltata.
Su quel monte abitavano decine di famiglie, accalcate
anche tre o quattro per volta in uno stesso cunicolo. Era,
come altri monti della nostra citt, una collinetta alta
cento metri, bucherellata come un formicaio. Grotte e casermette militari.

Fuori dalla porta si fa per dire di ogni grotta, avevano tracciato i confini, fra una propriet e laltra, con
paletti di legno, vecchio scatolame, vecchie lamiere. Allinterno dei cortili cos ricavati, giocavano i bambini nudi, e crescevano cipolle e basilico.
Le grotte, tutte assieme, formavano un altro quartiere,
dirimpetto al nostro.
Luigino arrivato alle grotte, in pieno pomeriggio:
mentre i buoni e i malvagi dormivano il sonno della fatica
di vivere, che a luglio ed era luglio anche pi pesante
del solito. Un pomeriggio di luglio, col sole che asciuga
anche lanima, e solo il sonno, quel sonno pesante che
vuota la testa, d un attimo di tregua.
Luigino entrato nel primo cortile che ha trovato aperto, e da l, passato nelle stanze interne. Non conosceva
le coordinate del luogo, e il luogo era puzzoso e oscuro.
Ha finito per inciampare in chiss cosa, provocando un
fracasso inadatto alla siesta.
Ogni stanza, grande al massimo quanto un materasso a
due piazze, era divisa, dalle altre stanze, da tramezzi di
cartone che, con le loro scritte multicolori, testimoniavano lesistenza di una florida civilt industriale, da qualche altra parte del mondo.
Luigino, insomma, entrando, ha fatto casino. Un tale,
uno degli abitanti si chiamava Sergio ventreampio,
professione magnaccia si svegliato urlando, e pronto
alla rissa. Ha insultato lintruso. Luigino ha risposto con
poche chiare parole.
I due si sono ritrovati, dopo cinque minuti, nella piaz-

zetta, circondati da una discreta e rumoreggiante folla in


canottiera, mutande e reggiseni, affogata dal sole.
Il magnaccia aveva un coltello in mano tipo pattada,
con manico dosso bianco e lama affilata dallarrotino e
Luigino aveva se stesso per compagno.
Si sono guardati senza simpatia per qualche secondo,
studiandosi. Poi Luigino partito come per mollare un
cazzotto e, mentre laltro si spostava agitando il coltello,
ha dato un balzo: piombato con la fronte proprio sul
setto nasale del nemico. Spaccato con un colpo solo. Il
perdente ha ripreso il sonno, Luigino ha completato il lavoro con un bel po di calci sui fianchi.
Quel colpo di testa, veloce, inatteso, folgorante, sarebbe diventato il simbolo, lo stemma araldico, il vanto esistenziale di Luigino, che da l ha tratto il suo vero e definitivo cognome, rinnegando la famiglia di debosciati.
Ora era Luigino Testadiferro.
Leroe, abbandonato nella piazzetta il nemico distrutto,
ha occupato la casa: quattro metri per quattro, dentro una
grotta, separati dal resto del mondo da pareti di scatole di
lavatrici. Nella casa cera un materasso, un armadio di legno laccato, a tre ante, una cassettiera, una scatola di latta
che un tempo aveva contenuto biscotti per bambini ed
ora era gonfia di biglietti da mille e di coltelli di pattada,
ma anche a scatto, di quelli che nel buio della notte vedi
un brillare improvviso dove prima cera soltanto una mano scura e una puttana ossigenata e addormentata, di circa diciotto anni, che pareva ne avesse trenta, e si chiamava
Luisa nonsocosa meglio conosciuta come Katiuscia.

Nessuno degli occupanti della stanza ha fatto fatica ad


accogliere il nuovo padrone.
Il maschio che si era beccato la prima memorabile testata di Luigino, tornato qualche notte dopo: entrato
nella grotta con due compari, leggermente ubriaco, e urlante; vieni fuori, finocchio ha detto, o qualcosa di simile.
La puttana ossigenata ha risposto: che cazzo vuoi, chi
cazzo sei, cosa cazzo ci fai in casa mia e altre cose del
genere, soprattutto perch bruscamente svegliata dal
sonno.
Ma Luigino non cera: dormiva allaperto, per prudenza, aspettandosi un assalto di quel genere. apparso subito alle spalle degli invasori, questa volta armato come si
deve, e ben sveglio e assolutamente lucido di cervello: li
ha fatti fuori con ben assestate piedate al basso ventre e al
viso, e ha compiuto lopera, ancora sul naso del magnaccia, con unaltra straordinaria testata. Mentre quello era a
terra, e gli amici avevano levato velocemente le tende,
Luigino si chinato sul viso nemico: ha aperto sulla guancia destra del maschio vinto una squarcio lungo due centimetri, con un solo colpetto di coltello, in modo che luomo portasse buona memoria dei fatti accaduti, e si astenesse da nuove riapparizioni.
Il tizio, da allora, sparito del tutto. Pare abbia trovato unaltra fanciulla in grado di mantenerlo, e con quella
si sia trasferito a Sassari, dove la sua cicatrice avrebbe un
certo effetto intimidatorio su eventuali clienti malpagatori.

zetta, circondati da una discreta e rumoreggiante folla in


canottiera, mutande e reggiseni, affogata dal sole.
Il magnaccia aveva un coltello in mano tipo pattada,
con manico dosso bianco e lama affilata dallarrotino e
Luigino aveva se stesso per compagno.
Si sono guardati senza simpatia per qualche secondo,
studiandosi. Poi Luigino partito come per mollare un
cazzotto e, mentre laltro si spostava agitando il coltello,
ha dato un balzo: piombato con la fronte proprio sul
setto nasale del nemico. Spaccato con un colpo solo. Il
perdente ha ripreso il sonno, Luigino ha completato il lavoro con un bel po di calci sui fianchi.
Quel colpo di testa, veloce, inatteso, folgorante, sarebbe diventato il simbolo, lo stemma araldico, il vanto esistenziale di Luigino, che da l ha tratto il suo vero e definitivo cognome, rinnegando la famiglia di debosciati.
Ora era Luigino Testadiferro.
Leroe, abbandonato nella piazzetta il nemico distrutto,
ha occupato la casa: quattro metri per quattro, dentro una
grotta, separati dal resto del mondo da pareti di scatole di
lavatrici. Nella casa cera un materasso, un armadio di legno laccato, a tre ante, una cassettiera, una scatola di latta
che un tempo aveva contenuto biscotti per bambini ed
ora era gonfia di biglietti da mille e di coltelli di pattada,
ma anche a scatto, di quelli che nel buio della notte vedi
un brillare improvviso dove prima cera soltanto una mano scura e una puttana ossigenata e addormentata, di circa diciotto anni, che pareva ne avesse trenta, e si chiamava
Luisa nonsocosa meglio conosciuta come Katiuscia.

Nessuno degli occupanti della stanza ha fatto fatica ad


accogliere il nuovo padrone.
Il maschio che si era beccato la prima memorabile testata di Luigino, tornato qualche notte dopo: entrato
nella grotta con due compari, leggermente ubriaco, e urlante; vieni fuori, finocchio ha detto, o qualcosa di simile.
La puttana ossigenata ha risposto: che cazzo vuoi, chi
cazzo sei, cosa cazzo ci fai in casa mia e altre cose del
genere, soprattutto perch bruscamente svegliata dal
sonno.
Ma Luigino non cera: dormiva allaperto, per prudenza, aspettandosi un assalto di quel genere. apparso subito alle spalle degli invasori, questa volta armato come si
deve, e ben sveglio e assolutamente lucido di cervello: li
ha fatti fuori con ben assestate piedate al basso ventre e al
viso, e ha compiuto lopera, ancora sul naso del magnaccia, con unaltra straordinaria testata. Mentre quello era a
terra, e gli amici avevano levato velocemente le tende,
Luigino si chinato sul viso nemico: ha aperto sulla guancia destra del maschio vinto una squarcio lungo due centimetri, con un solo colpetto di coltello, in modo che luomo portasse buona memoria dei fatti accaduti, e si astenesse da nuove riapparizioni.
Il tizio, da allora, sparito del tutto. Pare abbia trovato unaltra fanciulla in grado di mantenerlo, e con quella
si sia trasferito a Sassari, dove la sua cicatrice avrebbe un
certo effetto intimidatorio su eventuali clienti malpagatori.

Luigino si trovato il mestiere, fra le mani: la biondona, ogni sera, si trascinava lungo le mura del vecchio cimitero.
Luigino la seguiva a distanza, con le mani in tasca.
In quei primi anni la sua fama si consolidata e ha superato i confini del quartiere. Ogni tanto giungeva voce
di solenni bastonate inflitte da Luigino a certi rompiscatole che volevano toccare la merce senza pagare: il suo
colpo di testa al volo il pi veloce, il pi preciso, il pi
micidiale che ci fosse in citt diventato leggendario.
Ben presto la sua grotta stata meta di continui pellegrinaggi: una volta era il ragazzino di Is Mirrionis-Primo
Blocco, che aveva tentato di farsi la fidanzatina al Lazzaretto, e le aveva buscate da un gradasso del Lazzaretto.
Implorava Luigino di intervenire, per ristabilire la giustizia. Allora Luigino, e loffeso, andavano al Lazzaretto.
Un piccolo quartiere murato, sul mare, tanto lontano che
pareva fosse unaltra citt, e un tempo lazzaretto lo era
stato sul serio, mentre ora era soltanto una casbah. Il ragazzino si addentrava nel Lazzaretto finch scorgeva il
gradasso: lo chiamava a gran voce e lo spernacchiava. Il
tale, provocato in questo modo, seguiva il ragazzo, magari con alcuni amici, fin fuori le mura. Qui Luigino appariva, improvviso. Solitamente cominciava con fare da paciere: tu hai picchiato mio fratellino diceva e hai sbagliato. Ora gli chiedi scusa. Quello non chiedeva scusa.
Soprattutto perch avrebbe perduto la faccia davanti agli
amici che lavevano seguito. E allora Luigino pestava, finch qualcuno si scusava sul serio, faccia nel fango e col

setto nasale spaccato. Naturalmente, il fratellino non


era tanto fesso da tornare, subito dopo, al Lazzaretto, per
riaprire la catena di vendette. Ma i suoi appuntamenti, in
territorio neutro, lungo il mare, sugli scogli, sotto i pini
de Su Siccu, con la bella del Lazzaretto, non correvano
pi rischi di essere disturbati.
Unaltra volta era lamico che doveva vendicarsi di un
torto subito, a rivolgersi a Luigino. Unaltra volta era tizio, unaltra volta sempronio.
Luigino si trovato, cos, guerriero a tempo pieno, impegnato in azioni di giustizia, attento sempre alle sue
spalle per sfuggire a eventuali rabbiosi vendicativi pestati che giungevano in bande numerose, e impegnato nel
controllo del buon andamento del suo personale commercio.
La sua fama: chi poteva vantare unamicizia con Luigino camminava tranquillo per strada; e sapeva che a volte
poteva bastare una semplice evocazione verbale di tale
amicizia, per evitare numerosi guai.
La citt a quel tempo era piccola, anche se pareva
una federazione di piccoli stati isolati luno dallaltro da
incredibili frontiere.
La nomea di Luigino ha raggiunto persino gli ambienti
della piccola e media borghesia cittadina, che viveva asserragliata nel centro, impegnata in commerci e negozi di
ogni genere.
Di Luigino si parlava nei bar di lusso. Non sono mancati certi bottegai che lo hanno invitato a bere un bitter, allora di pranzo, al Bar Danubio o da Marabotto. Per farsi

Luigino si trovato il mestiere, fra le mani: la biondona, ogni sera, si trascinava lungo le mura del vecchio cimitero.
Luigino la seguiva a distanza, con le mani in tasca.
In quei primi anni la sua fama si consolidata e ha superato i confini del quartiere. Ogni tanto giungeva voce
di solenni bastonate inflitte da Luigino a certi rompiscatole che volevano toccare la merce senza pagare: il suo
colpo di testa al volo il pi veloce, il pi preciso, il pi
micidiale che ci fosse in citt diventato leggendario.
Ben presto la sua grotta stata meta di continui pellegrinaggi: una volta era il ragazzino di Is Mirrionis-Primo
Blocco, che aveva tentato di farsi la fidanzatina al Lazzaretto, e le aveva buscate da un gradasso del Lazzaretto.
Implorava Luigino di intervenire, per ristabilire la giustizia. Allora Luigino, e loffeso, andavano al Lazzaretto.
Un piccolo quartiere murato, sul mare, tanto lontano che
pareva fosse unaltra citt, e un tempo lazzaretto lo era
stato sul serio, mentre ora era soltanto una casbah. Il ragazzino si addentrava nel Lazzaretto finch scorgeva il
gradasso: lo chiamava a gran voce e lo spernacchiava. Il
tale, provocato in questo modo, seguiva il ragazzo, magari con alcuni amici, fin fuori le mura. Qui Luigino appariva, improvviso. Solitamente cominciava con fare da paciere: tu hai picchiato mio fratellino diceva e hai sbagliato. Ora gli chiedi scusa. Quello non chiedeva scusa.
Soprattutto perch avrebbe perduto la faccia davanti agli
amici che lavevano seguito. E allora Luigino pestava, finch qualcuno si scusava sul serio, faccia nel fango e col

setto nasale spaccato. Naturalmente, il fratellino non


era tanto fesso da tornare, subito dopo, al Lazzaretto, per
riaprire la catena di vendette. Ma i suoi appuntamenti, in
territorio neutro, lungo il mare, sugli scogli, sotto i pini
de Su Siccu, con la bella del Lazzaretto, non correvano
pi rischi di essere disturbati.
Unaltra volta era lamico che doveva vendicarsi di un
torto subito, a rivolgersi a Luigino. Unaltra volta era tizio, unaltra volta sempronio.
Luigino si trovato, cos, guerriero a tempo pieno, impegnato in azioni di giustizia, attento sempre alle sue
spalle per sfuggire a eventuali rabbiosi vendicativi pestati che giungevano in bande numerose, e impegnato nel
controllo del buon andamento del suo personale commercio.
La sua fama: chi poteva vantare unamicizia con Luigino camminava tranquillo per strada; e sapeva che a volte
poteva bastare una semplice evocazione verbale di tale
amicizia, per evitare numerosi guai.
La citt a quel tempo era piccola, anche se pareva
una federazione di piccoli stati isolati luno dallaltro da
incredibili frontiere.
La nomea di Luigino ha raggiunto persino gli ambienti
della piccola e media borghesia cittadina, che viveva asserragliata nel centro, impegnata in commerci e negozi di
ogni genere.
Di Luigino si parlava nei bar di lusso. Non sono mancati certi bottegai che lo hanno invitato a bere un bitter, allora di pranzo, al Bar Danubio o da Marabotto. Per farsi

ammirare dagli astanti. Per tentare di divenire uomini


temuti per spaventare colui che sospettavano allietasse
le mattinate misteriose della legittima consorte. Per vanteria. Perch prima o poi quella conoscenza poteva tornare utile. Perch si pensava che nessuno avrebbe avuto
il coraggio di svaligiare la bottega di un amico di Luigino.
Per meschinit: quando uno nessuno, crede di crescere
agli occhi del prossimo se accompagna la sua nullit a
una celebrit.
In breve tempo, Luigino ha avuto molti amici. Forse
troppi. E certamente non tutti sinceri. Noi del quartiere,
naturalmente, avremmo dato lanima per lui: era il nostro
difensore, il nostro prestigio, la gloria locale.
Un tale gli ha procurato una casetta in affitto, a SantAvendrace, sul bordo della ferrovia. Luigino ci si trasferito, per adeguarsi a un modello di vita che gli pareva pi
consono al suo successo. Ormai lagile gazzella lasciava
pian piano la velocit nel limbo dei ricordi: si dedicava a
certe mangiate pantagrueliche, e a bevute non meno clamorose. Aveva inoltre scoperto che una puttana buona
anche per farci lamore, non solo per guadagnarci sopra.
Se il cibo, lalcool e gli amori lo avevano appesantito, era
pur sempre impossibile averla vinta con lui, negli scontri:
lesperienza, ormai vastissima, di trucchi e colpetti proibiti, sostituiva laggressivit iniziale: e il timore reverenziale con cui lo affrontavano gli avversari gli lasciava un
buon margine di vantaggio.
Quando Santina ha compiuto tredici anni, era bella.
Luigino aveva da poco superato i venti.

Io mi ero, nel frattempo, trasferito al bar-latteria di Guido, dove organizzavo la mia vita futura: ville, gioiellerie,
auto, certi piccoli club priv con salette interne... insomma, ogni giorno che passava mi preparavo a progredire
lungo la strada segnata fin da principio.
Santina a tredici anni era una grazia di dio: due lunghe
gambe magre e nere, dritte come fusi, che sostenevano
un culo appena largo sui fianchi, un petto piccolo ma che
si teneva su da solo meglio di un cazzo ritto, e un viso da
madonna cubana: scuro, con gli occhi neri e i capelli neri,
ondulati, che coprivano mezza sopracciglia, con unaria
fra lo spavaldo e il tentatore, la bocca tagliata da un orefice, rossa e morbida... chiunque avrebbe fatto pazzie per
portarsela a letto.
Erano lontani i giorni in cui ci permetteva di guardare e
toccare il suo piccolo ventre.
A tredici anni Santina si allontanata dal quartiere era
proprio il giorno del suo compleanno e ha bussato alla
porta di Luigino.
Era ancora vergine. E non aveva intenzione di diventare puttana. Voleva soltanto che a toglierle lingombro fosse un maschietto con cui valeva la pena di farlo.
Ottenuto credo senza difficolt lobiettivo che si era
prefisso, Santina ha lasciato il santuario del nostro eroe.
tornata a Is Mirrionis-Primo Blocco. Era tranquilla e
rilassata come si fosse strappata un dente, e non altro. E
sorridente.
Abbiamo compiuto assieme, io e Santina, una parte dellapprendistato: farsela a piedi fino al centro; aprire una

ammirare dagli astanti. Per tentare di divenire uomini


temuti per spaventare colui che sospettavano allietasse
le mattinate misteriose della legittima consorte. Per vanteria. Perch prima o poi quella conoscenza poteva tornare utile. Perch si pensava che nessuno avrebbe avuto
il coraggio di svaligiare la bottega di un amico di Luigino.
Per meschinit: quando uno nessuno, crede di crescere
agli occhi del prossimo se accompagna la sua nullit a
una celebrit.
In breve tempo, Luigino ha avuto molti amici. Forse
troppi. E certamente non tutti sinceri. Noi del quartiere,
naturalmente, avremmo dato lanima per lui: era il nostro
difensore, il nostro prestigio, la gloria locale.
Un tale gli ha procurato una casetta in affitto, a SantAvendrace, sul bordo della ferrovia. Luigino ci si trasferito, per adeguarsi a un modello di vita che gli pareva pi
consono al suo successo. Ormai lagile gazzella lasciava
pian piano la velocit nel limbo dei ricordi: si dedicava a
certe mangiate pantagrueliche, e a bevute non meno clamorose. Aveva inoltre scoperto che una puttana buona
anche per farci lamore, non solo per guadagnarci sopra.
Se il cibo, lalcool e gli amori lo avevano appesantito, era
pur sempre impossibile averla vinta con lui, negli scontri:
lesperienza, ormai vastissima, di trucchi e colpetti proibiti, sostituiva laggressivit iniziale: e il timore reverenziale con cui lo affrontavano gli avversari gli lasciava un
buon margine di vantaggio.
Quando Santina ha compiuto tredici anni, era bella.
Luigino aveva da poco superato i venti.

Io mi ero, nel frattempo, trasferito al bar-latteria di Guido, dove organizzavo la mia vita futura: ville, gioiellerie,
auto, certi piccoli club priv con salette interne... insomma, ogni giorno che passava mi preparavo a progredire
lungo la strada segnata fin da principio.
Santina a tredici anni era una grazia di dio: due lunghe
gambe magre e nere, dritte come fusi, che sostenevano
un culo appena largo sui fianchi, un petto piccolo ma che
si teneva su da solo meglio di un cazzo ritto, e un viso da
madonna cubana: scuro, con gli occhi neri e i capelli neri,
ondulati, che coprivano mezza sopracciglia, con unaria
fra lo spavaldo e il tentatore, la bocca tagliata da un orefice, rossa e morbida... chiunque avrebbe fatto pazzie per
portarsela a letto.
Erano lontani i giorni in cui ci permetteva di guardare e
toccare il suo piccolo ventre.
A tredici anni Santina si allontanata dal quartiere era
proprio il giorno del suo compleanno e ha bussato alla
porta di Luigino.
Era ancora vergine. E non aveva intenzione di diventare puttana. Voleva soltanto che a toglierle lingombro fosse un maschietto con cui valeva la pena di farlo.
Ottenuto credo senza difficolt lobiettivo che si era
prefisso, Santina ha lasciato il santuario del nostro eroe.
tornata a Is Mirrionis-Primo Blocco. Era tranquilla e
rilassata come si fosse strappata un dente, e non altro. E
sorridente.
Abbiamo compiuto assieme, io e Santina, una parte dellapprendistato: farsela a piedi fino al centro; aprire una

automobile veloce, e filare verso la costa. Individuare la


villa temporaneamente disabitata, dinverno, e spaccare
la porta dingresso a colpi daccetta. Eravamo sbrigativi.
Nelle notti silenziose in riva al mare, il casino non ci faceva paura. Poi fuggire con televisori, impianti stereo, ninnoli, oggetti vari. Magari il frigo se di quelli piccoli che si
possono caricare con facilit.
Il vecchio Anselmo comprava tutto, a prezzo di castagne bollite.
Inutile dire che ho tentato, e pi di una volta, di convincere Santina a trasformare il nostro sodalizio operativo in
una pi ampia familiarit.
Lha presa sempre bene: mi ha sorriso, mi ha carezzato
la guancia grassa (davo un tantino sul lardoso, allora, mentre ora do sul cristo in croce da tre mesi) e mi ha fatto no
no con la testina, senza sfottermi.
Luigino tornato spesso, al quartiere. diventato un
omone grande e grosso, poderoso, sul viso i segni di cento
e cento battaglie, sul ventre, appena appena prominente,
quelli di una precoce decadenza.
Veniva per Santina. La seguiva dappertutto. Tentava di
toccarla, anche soltanto per un attimo.
Ha cominciato cercando di convincerla a battere per
lui. Ti protegger perch ti amo. I soldi tutti nelle tue tasche. E quando ha visto che la strada non portava da nessuna parte, ha cambiato disco. Ti sposo, Santina, davanti al prete. In abito bianco.
Lei lo allontanava con la sua solita, consueta, stupenda dolcezza di donna abituata a vivere con gli uomini, che

non voleva subirli e proseguiva con il tirocinio che si era


scelta: stata meravigliosa, una notte destate, quando
con un calcio ha sfondato con un solo calcio la porta di
un bar-casotto del Poetto; entrata come un fulmine, e
aveva gi staccato quattro prosciutti dal soffitto, quando
il padrone dellemporio, che credevamo in citt, e che invece stava dormendo con la merce, saltato fuori da uno
stanzino. Santina lha beccato con un destro alla mascella
che avrebbe tramortito anche Luigino, e io ho compiuto
lopera con una prosciuttata sulla testa. Una volta a terra,
abbiamo colpito ancora, per essere sicuri che dormisse,
con tutto quello che ci capitato sotto mano.
Quella notte ho chiesto, a Santina, le sue intenzioni riguardo a Luigino.
Lo sposi?
Ma sei matto?
In fondo, sei stata tu a scegliere proprio lui, per...
Per togliermi il pensiero. Non lo amo.
seguito un lungo silenzio, poi ha detto amer, forse,
un uomo delicato, chiaro, bello, coraggioso, ma non violento, dolce, che sappia suonare la chitarra, che sappia
cantare, che sappia farmi piangere...
Per quanto la vita che facevamo fosse poco romantica,
le nostre idee sullamore le strappavamo ai fotoromanzi.
Luigino proseguiva con la sua corte; ogni attimo libero
lo trascorreva nel vecchio regno, Is Mirrionis-Primo Blocco, seduto sulla terrazzina del bar-latteria di Guido. Appena intravedeva Santina la seguiva, con proposte di matrimonio.

automobile veloce, e filare verso la costa. Individuare la


villa temporaneamente disabitata, dinverno, e spaccare
la porta dingresso a colpi daccetta. Eravamo sbrigativi.
Nelle notti silenziose in riva al mare, il casino non ci faceva paura. Poi fuggire con televisori, impianti stereo, ninnoli, oggetti vari. Magari il frigo se di quelli piccoli che si
possono caricare con facilit.
Il vecchio Anselmo comprava tutto, a prezzo di castagne bollite.
Inutile dire che ho tentato, e pi di una volta, di convincere Santina a trasformare il nostro sodalizio operativo in
una pi ampia familiarit.
Lha presa sempre bene: mi ha sorriso, mi ha carezzato
la guancia grassa (davo un tantino sul lardoso, allora, mentre ora do sul cristo in croce da tre mesi) e mi ha fatto no
no con la testina, senza sfottermi.
Luigino tornato spesso, al quartiere. diventato un
omone grande e grosso, poderoso, sul viso i segni di cento
e cento battaglie, sul ventre, appena appena prominente,
quelli di una precoce decadenza.
Veniva per Santina. La seguiva dappertutto. Tentava di
toccarla, anche soltanto per un attimo.
Ha cominciato cercando di convincerla a battere per
lui. Ti protegger perch ti amo. I soldi tutti nelle tue tasche. E quando ha visto che la strada non portava da nessuna parte, ha cambiato disco. Ti sposo, Santina, davanti al prete. In abito bianco.
Lei lo allontanava con la sua solita, consueta, stupenda dolcezza di donna abituata a vivere con gli uomini, che

non voleva subirli e proseguiva con il tirocinio che si era


scelta: stata meravigliosa, una notte destate, quando
con un calcio ha sfondato con un solo calcio la porta di
un bar-casotto del Poetto; entrata come un fulmine, e
aveva gi staccato quattro prosciutti dal soffitto, quando
il padrone dellemporio, che credevamo in citt, e che invece stava dormendo con la merce, saltato fuori da uno
stanzino. Santina lha beccato con un destro alla mascella
che avrebbe tramortito anche Luigino, e io ho compiuto
lopera con una prosciuttata sulla testa. Una volta a terra,
abbiamo colpito ancora, per essere sicuri che dormisse,
con tutto quello che ci capitato sotto mano.
Quella notte ho chiesto, a Santina, le sue intenzioni riguardo a Luigino.
Lo sposi?
Ma sei matto?
In fondo, sei stata tu a scegliere proprio lui, per...
Per togliermi il pensiero. Non lo amo.
seguito un lungo silenzio, poi ha detto amer, forse,
un uomo delicato, chiaro, bello, coraggioso, ma non violento, dolce, che sappia suonare la chitarra, che sappia
cantare, che sappia farmi piangere...
Per quanto la vita che facevamo fosse poco romantica,
le nostre idee sullamore le strappavamo ai fotoromanzi.
Luigino proseguiva con la sua corte; ogni attimo libero
lo trascorreva nel vecchio regno, Is Mirrionis-Primo Blocco, seduto sulla terrazzina del bar-latteria di Guido. Appena intravedeva Santina la seguiva, con proposte di matrimonio.

Credo che verso la fine gli abbia anche promesso un bel


malloppo di quattrini in cambio di una notte damore.
Santina ha rifiutato tutti gli inviti, sempre. Era troppo
impegnata a imparare i fondamentali della spaccata in
gioielleria.
Un sabato di agosto Luigino ha forzato la porta di casa
di Santina.
Santina viveva con un fratellino poliomelitico, che quel
giorno era al mare con certi zii.
Santina rientrata coperta di sale, e scura. Anche lei
godeva la vacanza.
Ha trovato la porta di casa aperta, e Luigino nudo sul
letto.
Ha tentato di mandarlo via con i soliti sorrisi, con la solita tranquilla accondiscendenza che mascherava il ferro.
Forse era persino commossa da tanto amore.
Lui si mosso per abbrancarla, spingerla sul letto, pestarla col suo corpo.
Santina ha provato ancora, mentre lui le sfasciava labitino rosa di cotone una gioia per gli occhi, quando passeggiava sotto il portico, la sera ha provato ancora a convincerlo con le buone. Con i sorrisi.
Poi, vedendo che non cera nientaltro da fare, lha colpito sulla nuca con uno di quegli abajour di bronzo con le
lampadine, bianche come latte, a forma di goccia attorcigliata. Era robusto, Luigino, e lei ha dovuto colpire pi di
una volta.
Le hanno dato soltanto otto anni perch lomicidio
non era proprio tutto colpa sua, e aveva molte attenuanti.

Luigino ha avuto un bel funerale. Tutto il quartiere, Is


Mirrionis-Primo Blocco, stava dietro al carro, e attorno
alla fossa. Lo si rimpiangeva.
Molti erano anche disposti a comprendere il suo desiderio violento per Santina: chi non lavrebbe fatta, una
pazzia, per quella delizia di fica?
Santina, quando uscir da Buoncammino, dove vado a
trovarla ogni gioved e sabato, visita parenti, sar ancora
bellissima. Io, nel frattempo, dimagrisco, leggo poesie e
imparo a suonare il samba con la chitarra.

Credo che verso la fine gli abbia anche promesso un bel


malloppo di quattrini in cambio di una notte damore.
Santina ha rifiutato tutti gli inviti, sempre. Era troppo
impegnata a imparare i fondamentali della spaccata in
gioielleria.
Un sabato di agosto Luigino ha forzato la porta di casa
di Santina.
Santina viveva con un fratellino poliomelitico, che quel
giorno era al mare con certi zii.
Santina rientrata coperta di sale, e scura. Anche lei
godeva la vacanza.
Ha trovato la porta di casa aperta, e Luigino nudo sul
letto.
Ha tentato di mandarlo via con i soliti sorrisi, con la solita tranquilla accondiscendenza che mascherava il ferro.
Forse era persino commossa da tanto amore.
Lui si mosso per abbrancarla, spingerla sul letto, pestarla col suo corpo.
Santina ha provato ancora, mentre lui le sfasciava labitino rosa di cotone una gioia per gli occhi, quando passeggiava sotto il portico, la sera ha provato ancora a convincerlo con le buone. Con i sorrisi.
Poi, vedendo che non cera nientaltro da fare, lha colpito sulla nuca con uno di quegli abajour di bronzo con le
lampadine, bianche come latte, a forma di goccia attorcigliata. Era robusto, Luigino, e lei ha dovuto colpire pi di
una volta.
Le hanno dato soltanto otto anni perch lomicidio
non era proprio tutto colpa sua, e aveva molte attenuanti.

Luigino ha avuto un bel funerale. Tutto il quartiere, Is


Mirrionis-Primo Blocco, stava dietro al carro, e attorno
alla fossa. Lo si rimpiangeva.
Molti erano anche disposti a comprendere il suo desiderio violento per Santina: chi non lavrebbe fatta, una
pazzia, per quella delizia di fica?
Santina, quando uscir da Buoncammino, dove vado a
trovarla ogni gioved e sabato, visita parenti, sar ancora
bellissima. Io, nel frattempo, dimagrisco, leggo poesie e
imparo a suonare il samba con la chitarra.

Storia di Carluccio, e di colui che narra

Sono il musicista del manicomio. Non strano: sono


matto anchio, come gli altri; in pi suono la chitarra, e conosco storie che altri non conoscono; le cantavo, le mie
ballate, anche quando non ero matto; le canto ancora; storie comuni, di donne. Gelosie.
I matti hanno orecchie come gli altri. Dovreste vederli:
si commuovono e piangono e battono le mani; e mi commuovo anchio; mica sono matto per niente.
Voglio morire, diceva. Lo diceva sempre. Ma ieri notte era proprio disperato. Io sono Carluccio diceva e
Carluccio ha compiuto ventanni laltro giorno. Ventanni
ha compiuto Carluccio laltro giorno. Carluccio quando
esce dal manicomio gira per la citt. Al mercato gli danno
le mele, a Carluccio, perch vada fuori dai piedi e non
rompa i coglioni. E se Carluccio si avvicina, i ragazzi ridono, attorno. Perch Carluccio vestito come un matto, e
si vede che esce dal manicomio.
Era una nenia. Non dormiva mai. Si lamentava sempre.
Io, ormai, sono vecchio. E son stato tanto, tanto tempo,
fuori. Sono rassegnato, a stare in manicomio. Tutto sommato, non sono pi matto di voi. E so suonare: sempre
una bella soddisfazione. Uno suona. Gli altri cantano e
battono le mani.

Storia di Carluccio, e di colui che narra

Sono il musicista del manicomio. Non strano: sono


matto anchio, come gli altri; in pi suono la chitarra, e conosco storie che altri non conoscono; le cantavo, le mie
ballate, anche quando non ero matto; le canto ancora; storie comuni, di donne. Gelosie.
I matti hanno orecchie come gli altri. Dovreste vederli:
si commuovono e piangono e battono le mani; e mi commuovo anchio; mica sono matto per niente.
Voglio morire, diceva. Lo diceva sempre. Ma ieri notte era proprio disperato. Io sono Carluccio diceva e
Carluccio ha compiuto ventanni laltro giorno. Ventanni
ha compiuto Carluccio laltro giorno. Carluccio quando
esce dal manicomio gira per la citt. Al mercato gli danno
le mele, a Carluccio, perch vada fuori dai piedi e non
rompa i coglioni. E se Carluccio si avvicina, i ragazzi ridono, attorno. Perch Carluccio vestito come un matto, e
si vede che esce dal manicomio.
Era una nenia. Non dormiva mai. Si lamentava sempre.
Io, ormai, sono vecchio. E son stato tanto, tanto tempo,
fuori. Sono rassegnato, a stare in manicomio. Tutto sommato, non sono pi matto di voi. E so suonare: sempre
una bella soddisfazione. Uno suona. Gli altri cantano e
battono le mani.

Io sono io. Ho questa certezza. E non mi mancano i ricordi. Io sono tutto quello che ho fatto, e quello che non
ho fatto e avrei voluto fare e allultimo momento mi son
tirato indietro. Io sono i miei sogni; i miei sogni di ieri e
quelli di oggi sono sempre io. Sono i miei ricordi, io.
Ho scopato, in altri tempi. E dovevate vedere le donne.
La chitarra come i sortilegi.
Basta che cominci a suonare, in qualunque angolo del
mondo, e cominci a raccontare una storia con la chitarra... noi eravamo dolci, io e Pietro, Pietro suonava larmonica a bocca. Sembrava nero, quando suonava larmonica. Lo accompagnavo con la chitarra.
Le donne si avvicinavano, come fossimo miele. Poi Pietro morto di cirrosi epatica, una brutta malattia. Ma soprattutto morto perch il tempo passa, e non si resta
mai quelli di un tempo, e prima o poi bisogna anche
morire, e la cirrosi non peggiore di tante altre morti.
Mi hanno raccolto e mi hanno portato in manicomio.
Questo sono io: tutto quello che ho fatto e che ho vissuto;
io sono la mia storia.
Ma Carluccio non aveva storia, non aveva ricordi, non
aveva sogni, non aveva mai goduto il profumo di una
donna.
Cos era Carluccio. Carluccio non aveva storia. E non
aveva coscienza di non esistere. Aveva sempre vissuto in
manicomio. Aveva visto il mare una volta sola, in gita, da
un pulmann, e si era spaventato. Non aveva memoria,
Carluccio. Aveva solo disperazione.
Voglio morire diceva Carluccio, e lo diceva tutte le

notti. Cosa vuole Carluccio dalla gente? diceva e la


gente, cosa vuole da Carluccio? La gente vuole che Carluccio stia buono. Stai buono, Carluccio, gli dicono. E se
Carluccio sta buono, la gente va via. Ma la gente va via anche se Carluccio non sta buono. Anche se Carluccio urla,
la gente va via lo stesso. La gente va sempre via, quando
c Carluccio.
Non dormiva mai. Si lamentava sempre; una nenia, vi
dico.
Io le canzoni le faccio per tutti. Viene Tonio e mi dice:
fai una canzone di Tonio in campagna, Tonio giovane
coi bambini, e la vigna, e quella volta che Tonio si ubriacato e ha pisciato sul tavolo della cena, e tutti ridevano, e
Marcella non rideva, ma guardava il cazzo di Tonio fuori
dai pantaloni, perch non ne aveva mai visto uno in tutta
la sua vita, verginella e io canto questi fatti in una canzone, e quando arrivo a verginella ridono quasi tutti.
Una volta volevo cantare la canzone di Carluccio, e ci
ho pensato per una settimana. Ma cosa posso raccontare,
di Carluccio? Il giorno del suo viaggio dallorfanotrofio
al manicomio? La gita in pulmann, col mare che gli fa
paura? Non cera niente da raccontare, di Carluccio. Come pu vivere, un uomo su cui non esiste niente da raccontare?
Era magro come un chiodo. Mangiava pochissimo.
Sembrava un santo, magro e coi capelli neri, lunghi e
sporchi. Se glielo avessero insegnato, cosa vuol dire santuomo, forse lo sarebbe diventato. Un eremita: uno di
quelli che stanno nelle grotte e leggono nel futuro e nel

Io sono io. Ho questa certezza. E non mi mancano i ricordi. Io sono tutto quello che ho fatto, e quello che non
ho fatto e avrei voluto fare e allultimo momento mi son
tirato indietro. Io sono i miei sogni; i miei sogni di ieri e
quelli di oggi sono sempre io. Sono i miei ricordi, io.
Ho scopato, in altri tempi. E dovevate vedere le donne.
La chitarra come i sortilegi.
Basta che cominci a suonare, in qualunque angolo del
mondo, e cominci a raccontare una storia con la chitarra... noi eravamo dolci, io e Pietro, Pietro suonava larmonica a bocca. Sembrava nero, quando suonava larmonica. Lo accompagnavo con la chitarra.
Le donne si avvicinavano, come fossimo miele. Poi Pietro morto di cirrosi epatica, una brutta malattia. Ma soprattutto morto perch il tempo passa, e non si resta
mai quelli di un tempo, e prima o poi bisogna anche
morire, e la cirrosi non peggiore di tante altre morti.
Mi hanno raccolto e mi hanno portato in manicomio.
Questo sono io: tutto quello che ho fatto e che ho vissuto;
io sono la mia storia.
Ma Carluccio non aveva storia, non aveva ricordi, non
aveva sogni, non aveva mai goduto il profumo di una
donna.
Cos era Carluccio. Carluccio non aveva storia. E non
aveva coscienza di non esistere. Aveva sempre vissuto in
manicomio. Aveva visto il mare una volta sola, in gita, da
un pulmann, e si era spaventato. Non aveva memoria,
Carluccio. Aveva solo disperazione.
Voglio morire diceva Carluccio, e lo diceva tutte le

notti. Cosa vuole Carluccio dalla gente? diceva e la


gente, cosa vuole da Carluccio? La gente vuole che Carluccio stia buono. Stai buono, Carluccio, gli dicono. E se
Carluccio sta buono, la gente va via. Ma la gente va via anche se Carluccio non sta buono. Anche se Carluccio urla,
la gente va via lo stesso. La gente va sempre via, quando
c Carluccio.
Non dormiva mai. Si lamentava sempre; una nenia, vi
dico.
Io le canzoni le faccio per tutti. Viene Tonio e mi dice:
fai una canzone di Tonio in campagna, Tonio giovane
coi bambini, e la vigna, e quella volta che Tonio si ubriacato e ha pisciato sul tavolo della cena, e tutti ridevano, e
Marcella non rideva, ma guardava il cazzo di Tonio fuori
dai pantaloni, perch non ne aveva mai visto uno in tutta
la sua vita, verginella e io canto questi fatti in una canzone, e quando arrivo a verginella ridono quasi tutti.
Una volta volevo cantare la canzone di Carluccio, e ci
ho pensato per una settimana. Ma cosa posso raccontare,
di Carluccio? Il giorno del suo viaggio dallorfanotrofio
al manicomio? La gita in pulmann, col mare che gli fa
paura? Non cera niente da raccontare, di Carluccio. Come pu vivere, un uomo su cui non esiste niente da raccontare?
Era magro come un chiodo. Mangiava pochissimo.
Sembrava un santo, magro e coi capelli neri, lunghi e
sporchi. Se glielo avessero insegnato, cosa vuol dire santuomo, forse lo sarebbe diventato. Un eremita: uno di
quelli che stanno nelle grotte e leggono nel futuro e nel

passato. Carluccio non era pi matto di loro. Ma nessuno


gli ha insegnato niente.
A tenere la forchetta in mano, gli hanno insegnato, che
una cosa inutile. E a pulirsi il culo con la carta igienica, altra cosa inutile. E a dire io sono Carluccio, matto di manicomio che ancora unaltra cosa inutile, perch lui vedeva se stesso dal di fuori, Carluccio ha detto questo, a
Carluccio gli hanno detto.
Solo di notte, nel letto, prendeva coscienza della sua
identit con se stesso, che lui cio, e quel Carluccio di cui
parlava, erano la stessa cosa. E non gli piaceva per niente.
Non gli piaceva per niente, la vita di quel Carluccio. Non
gli piaceva.
Ogni tanto il suo cazzo si metteva allegria, perch let
era quella, ventanni, let giusta per scopare. E non sapeva cosa farsene, di quel cazzo. Non sapeva neanche farsi
le seghe. Perch non sapeva immaginare.
Non aveva fantasia?
Ne avrebbe anche avuta, fantasia, se avesse avuto qualcosa su cui fantasticare. Ma lui, una donna nuda, non laveva mai vista. Questo lavremmo potuto anche fare, procurare una troia a Carluccio, per una volta. Ma nessuno
ci aveva mai pensato. E chi lavrebbe pagata, poi?
Carluccio non aveva neanche soldi. I soldi lo sapeva,
coserano, e a cosa servivano. Ma lui, soldi, non ne aveva
mai avuto. E non aveva madre e padre da maledire. Non
aveva padre e madre da odiare e da maledire. Non aveva
ricordo di loro. E non conosceva le maledizioni. Le parole, delle maledizioni, il suono e la cadenza.

Voglio morire diceva Carluccio.


Non dormiva mai. Si lamentava. Sempre. Sempre.
Otto matti, in quella stanza del manicomio. Gli altri si
sono abituati subito, alle nenie di Carluccio. Cullavano il
loro sonno, le nenie. Voglio morire diceva Carluccio, e
loro russavano.
Io no. Io ho il sonno leggero. Basta un niente, e mi
sveglio.
Eredit di quando dormivo allaperto, alle feste di paese.
Suonato e cantato e bevuto e guardato le donne negli
occhi per tutta la festa, io e Pietro ci addormentavamo in
campagna, vicini vicini, ma vegliavamo.
sempre meglio vegliare: potrebbe arrivare il ragazzotto stupido, incazzato perch la sua sposa di domani, oggi
ci ha promesso la fica, con gli occhi, o un furfantello, potrebbe arrivare, collidea di rubarci quel poco di quattrini
dalle tasche, profittando della nostra sbronza, o la chitarra, che magari ha capito che con la chitarra un uomo diverso da un uomo senza chitarra.
Basta un fruscio di foglie, per svegliarmi.
Ogni notte ascoltavo i lamenti di Carluccio. Ogni notte. Ogni notte.
La libert, dicono. Io non sono mai stato, un uomo libero, neanche quandero fuori. Cosa vuol dire, un uomo libero? Un uomo senza paura, vuol dire? O uno che la paura la vince, sempre? Uno che afferma se stesso ad ogni costo, un egoista? Uno che non piega la testa, mai, mai la testa? Libero uno che non pu perdere niente. Perch
non ha niente da perdere?

passato. Carluccio non era pi matto di loro. Ma nessuno


gli ha insegnato niente.
A tenere la forchetta in mano, gli hanno insegnato, che
una cosa inutile. E a pulirsi il culo con la carta igienica, altra cosa inutile. E a dire io sono Carluccio, matto di manicomio che ancora unaltra cosa inutile, perch lui vedeva se stesso dal di fuori, Carluccio ha detto questo, a
Carluccio gli hanno detto.
Solo di notte, nel letto, prendeva coscienza della sua
identit con se stesso, che lui cio, e quel Carluccio di cui
parlava, erano la stessa cosa. E non gli piaceva per niente.
Non gli piaceva per niente, la vita di quel Carluccio. Non
gli piaceva.
Ogni tanto il suo cazzo si metteva allegria, perch let
era quella, ventanni, let giusta per scopare. E non sapeva cosa farsene, di quel cazzo. Non sapeva neanche farsi
le seghe. Perch non sapeva immaginare.
Non aveva fantasia?
Ne avrebbe anche avuta, fantasia, se avesse avuto qualcosa su cui fantasticare. Ma lui, una donna nuda, non laveva mai vista. Questo lavremmo potuto anche fare, procurare una troia a Carluccio, per una volta. Ma nessuno
ci aveva mai pensato. E chi lavrebbe pagata, poi?
Carluccio non aveva neanche soldi. I soldi lo sapeva,
coserano, e a cosa servivano. Ma lui, soldi, non ne aveva
mai avuto. E non aveva madre e padre da maledire. Non
aveva padre e madre da odiare e da maledire. Non aveva
ricordo di loro. E non conosceva le maledizioni. Le parole, delle maledizioni, il suono e la cadenza.

Voglio morire diceva Carluccio.


Non dormiva mai. Si lamentava. Sempre. Sempre.
Otto matti, in quella stanza del manicomio. Gli altri si
sono abituati subito, alle nenie di Carluccio. Cullavano il
loro sonno, le nenie. Voglio morire diceva Carluccio, e
loro russavano.
Io no. Io ho il sonno leggero. Basta un niente, e mi
sveglio.
Eredit di quando dormivo allaperto, alle feste di paese.
Suonato e cantato e bevuto e guardato le donne negli
occhi per tutta la festa, io e Pietro ci addormentavamo in
campagna, vicini vicini, ma vegliavamo.
sempre meglio vegliare: potrebbe arrivare il ragazzotto stupido, incazzato perch la sua sposa di domani, oggi
ci ha promesso la fica, con gli occhi, o un furfantello, potrebbe arrivare, collidea di rubarci quel poco di quattrini
dalle tasche, profittando della nostra sbronza, o la chitarra, che magari ha capito che con la chitarra un uomo diverso da un uomo senza chitarra.
Basta un fruscio di foglie, per svegliarmi.
Ogni notte ascoltavo i lamenti di Carluccio. Ogni notte. Ogni notte.
La libert, dicono. Io non sono mai stato, un uomo libero, neanche quandero fuori. Cosa vuol dire, un uomo libero? Un uomo senza paura, vuol dire? O uno che la paura la vince, sempre? Uno che afferma se stesso ad ogni costo, un egoista? Uno che non piega la testa, mai, mai la testa? Libero uno che non pu perdere niente. Perch
non ha niente da perdere?

Carluccio non aveva niente da perdere. Ma non era libero: perch non aveva neanche niente da guadagnare.
Non basta essere in fondo alla scala, bisogna anche avere
la possibilit di salire, di salire in alto.
Ma Carluccio non sapeva neanche cosa su e gi. Non
sapeva cosa suonare, per i padroni, e per i servi. Non sapeva cosa prova il figlio di un servo quando guarda la figlia di un padrone. Non sapeva neanche che oggi difficile dire quali sono i servi, e quali i padroni. E non aveva
dignit. Non si era mai piegato a nessuno; ma nessuno gli
aveva mai chiesto di piegarsi.
Lui era cos: un commensale, al tavolo della vita, legato
alla sedia, con gli occhi tappati, le mani legate. Sentiva a
malapena gli odori dei cibi. A malapena: il tanto per far
sorgere la nostalgia. struggente, la nostalgia delle cose
che non si conoscono.
Insomma: se si lamentava sempre, se piangeva aveva
tutte le ragioni di questo mondo. E qualcuna in pi.
Voglio morire diceva, ieri notte. Perch Carluccio
non una lumaca. Non una lumaca, Carluccio. Io non
so chi glielo avesse detto, che era una lumaca. Ma certamente aveva aggravato la sua rabbia contro se stesso. Perch in fondo in fondo, aveva un dubbio maledetto: e se
Carluccio fosse veramente una lumaca, una lumaca proprio soltanto una lumaca di manicomio?
Io ho deciso, in piena e autonoma libert.
Mi sono sollevato dal letto, ho raccolto il bastone della
scopa, glielho spaccato sul cranio.
Sono forte, io. La vita allaria aperta mi ha fatto robu-

sto, e il manicomio non mi ha indebolito: lo sanno gli infermieri, che quando mi vengono gli attacchi, come dio li
manda, questo dio di merda che mi manda gli attacchi e
non mi ha mai mandato i denari, ne pesto tre o quattro, di
infermieri, prima che mi possano fermare.
Con pochi colpi lho ucciso.
Ora Carluccio libero di tornare a nascere in un altro
posto, con un altro cervello, e in migliore compagnia.
Io sono tornato a letto. Ho dormito, finalmente. Nuovamente libero di dormire.
E dovrete rimandarmi indietro, perch io conosco la
legge: sono matto e ho ucciso un uomo.
E dove si spedisce un matto che uccide un uomo? In
manicomio, si spedisce. Dove canteremo.

Carluccio non aveva niente da perdere. Ma non era libero: perch non aveva neanche niente da guadagnare.
Non basta essere in fondo alla scala, bisogna anche avere
la possibilit di salire, di salire in alto.
Ma Carluccio non sapeva neanche cosa su e gi. Non
sapeva cosa suonare, per i padroni, e per i servi. Non sapeva cosa prova il figlio di un servo quando guarda la figlia di un padrone. Non sapeva neanche che oggi difficile dire quali sono i servi, e quali i padroni. E non aveva
dignit. Non si era mai piegato a nessuno; ma nessuno gli
aveva mai chiesto di piegarsi.
Lui era cos: un commensale, al tavolo della vita, legato
alla sedia, con gli occhi tappati, le mani legate. Sentiva a
malapena gli odori dei cibi. A malapena: il tanto per far
sorgere la nostalgia. struggente, la nostalgia delle cose
che non si conoscono.
Insomma: se si lamentava sempre, se piangeva aveva
tutte le ragioni di questo mondo. E qualcuna in pi.
Voglio morire diceva, ieri notte. Perch Carluccio
non una lumaca. Non una lumaca, Carluccio. Io non
so chi glielo avesse detto, che era una lumaca. Ma certamente aveva aggravato la sua rabbia contro se stesso. Perch in fondo in fondo, aveva un dubbio maledetto: e se
Carluccio fosse veramente una lumaca, una lumaca proprio soltanto una lumaca di manicomio?
Io ho deciso, in piena e autonoma libert.
Mi sono sollevato dal letto, ho raccolto il bastone della
scopa, glielho spaccato sul cranio.
Sono forte, io. La vita allaria aperta mi ha fatto robu-

sto, e il manicomio non mi ha indebolito: lo sanno gli infermieri, che quando mi vengono gli attacchi, come dio li
manda, questo dio di merda che mi manda gli attacchi e
non mi ha mai mandato i denari, ne pesto tre o quattro, di
infermieri, prima che mi possano fermare.
Con pochi colpi lho ucciso.
Ora Carluccio libero di tornare a nascere in un altro
posto, con un altro cervello, e in migliore compagnia.
Io sono tornato a letto. Ho dormito, finalmente. Nuovamente libero di dormire.
E dovrete rimandarmi indietro, perch io conosco la
legge: sono matto e ho ucciso un uomo.
E dove si spedisce un matto che uccide un uomo? In
manicomio, si spedisce. Dove canteremo.

[I sogni della citt bianca]

[I sogni della citt bianca]

Cero io. Con Stalin

Quando ho smesso di addormentarmi sugli armadi,


aprile di questanno era passato.
Labitudine, di addormentarmi sugli armadi, era cominciata qualche mese prima. Avevo scoperto che, con un
lieve salto, dal pavimento del salone rosa, si poteva piombare sulla cima del vecchio armadio di noce della stanza
da letto di Amelia. La stanza di Amelia stava molto pi in
basso del salone rosa, e per passare dalluno allaltra senza
salti pericolosi bisognava affrontare certi cunicoli bui, invasi da topi e insettacci. Tutte le stanze, in quella vecchia
casa, erano separate luna dallaltra da dislivelli enormi, e
collegate luna allaltra da cunicoli contorti e spesso
ciechi. Era una specie di scala molto grande ogni stanza,
un gradino, gradini per gigantesse e la cucina stava in
fondo alla scala, in fondo ai budelli, allestremit pi profonda della casa. Pareva lanticamera dellinferno. O lingresso per lultimo cunicolo, quello che avrebbe condotto
dalla parte opposta del pianeta.
Dal basso in alto, in ascesa, dalla cucina in su, attraverso scale tronche e scaloni abbandonati, vicoli bui e budelli perigliosi, si arrivava alla cima della casa, il sottotetto, il salotto turco di Padre Oliviero, un piede nel regno
dei cieli.

Cero io. Con Stalin

Quando ho smesso di addormentarmi sugli armadi,


aprile di questanno era passato.
Labitudine, di addormentarmi sugli armadi, era cominciata qualche mese prima. Avevo scoperto che, con un
lieve salto, dal pavimento del salone rosa, si poteva piombare sulla cima del vecchio armadio di noce della stanza
da letto di Amelia. La stanza di Amelia stava molto pi in
basso del salone rosa, e per passare dalluno allaltra senza
salti pericolosi bisognava affrontare certi cunicoli bui, invasi da topi e insettacci. Tutte le stanze, in quella vecchia
casa, erano separate luna dallaltra da dislivelli enormi, e
collegate luna allaltra da cunicoli contorti e spesso
ciechi. Era una specie di scala molto grande ogni stanza,
un gradino, gradini per gigantesse e la cucina stava in
fondo alla scala, in fondo ai budelli, allestremit pi profonda della casa. Pareva lanticamera dellinferno. O lingresso per lultimo cunicolo, quello che avrebbe condotto
dalla parte opposta del pianeta.
Dal basso in alto, in ascesa, dalla cucina in su, attraverso scale tronche e scaloni abbandonati, vicoli bui e budelli perigliosi, si arrivava alla cima della casa, il sottotetto, il salotto turco di Padre Oliviero, un piede nel regno
dei cieli.

Mi piaciuto, dunque, per alcuni mesi, evitare i cunicoli, e passare, da una stanza allaltra, attraverso pavimenti e
armadi, con salti e saltelli e tuffi. Per gioco. Per spirito di
vana conoscenza: la grande casa mi incuriosiva: avrei voluto conoscerla tutta, dallalto in basso e viceversa.
Ma se scendere era facile, difficile era risalire. Non sono mai giunto alla soglia del salotto turco di Padre Oliviero. Troppo in alto, per il mio spirito. Troppo arduo, il
cammino.
Sugli armadi, qualche volta, mi sono fermato, durante
le notti, per dormire.
Ho scoperto quasi subito di non essere stato il solo ad
avere la pensata: Gioietta, la biondissima Gioietta candida e materna dimorava abitualmente sugli armadi, da
quando la tigna aveva fatto giustizia sommaria dei suoi
capelli, lasciandola meravigliosamente pelata come una
buccia darancia.
Sullarmadio grande della stanza da the, ho carezzato il
cranio liscio di Gioietta, e il suo ventre rosso, per molte
notti di seguito.
Una volta ho veduto Padre Oliviero io stavo, come
spesso mi capitava, accovacciato sulla credenzona bianca
della sala da pranzo del vecchio Duca mentre tentava di
infilarsi sotto le gonne di Giovanna, la cuoca, nativa di un
paese del nord produttore di vini forti e ragazze rudi. Sosteneva, il santuomo, un compito erudito: cercava un
breviario medioevale scomparso durante uno di quei turbolenti decenni fineseicento. Potrebbe essersi acquattato qui, sotto le gonne sosteneva allombra e al caldo.

Giovanna lha lasciato fare, a lungo e con mugolante pazienza. Ma il breviario non stato ritrovato, n in quella
n in consimili circostanze. Sfortuna.
Son stato presente anche alla battaglia fra Amelia e lo
specchio dei Padri Acuti.
Quello specchio era stato portato in casa, nei primi anni del nuovo secolo, dallo zio Giacinto, che laveva acquistato da un antiquario di Shangai, assieme a certe tazzine
di porcellana fine come un guscio duovo, dipinte a mano
da bambini decenni.
Era uno specchio grande come unostrica, se la temperatura ambiente tendeva al freddo. Nella stagione calda si
dilatava, invece, e assai: raggiungeva le dimensioni dellintera parete della stanza di Amelia.
Rifletteva a suo piacimento, senza ordine e senza logica: scene di caccia nelle foreste bulgare, episodi edificanti dellepopea dei Padri Acuti, suoi costruttori, altro. Stava nella stanza di Amelia, da parecchi anni.
Si era sempre decisamente rifiutato di riflettere le immagini che Amelia si affannava a trasmettergli: Amelia
sorridente con la veste di percalle cilestrina; Amelia nuda, coi sandali di Fra Luigi, terziario francescano, ai piedi; Amelia senza i sandali, e Fra Luigi ai piedi; Amelia
senza la veste di percalle cilestrina, vestita del solo Fra
Luigi; Fra Luigi senza Amelia perch Amelia era corsa
nel bagno di marmo nero, a sciacquarsi la fica col bicarbonato ...
Lui, lo specchio dei Padri Acuti, mentre Amelia in calore lo cercava di sottecchi, per guardare magari il sedere

Mi piaciuto, dunque, per alcuni mesi, evitare i cunicoli, e passare, da una stanza allaltra, attraverso pavimenti e
armadi, con salti e saltelli e tuffi. Per gioco. Per spirito di
vana conoscenza: la grande casa mi incuriosiva: avrei voluto conoscerla tutta, dallalto in basso e viceversa.
Ma se scendere era facile, difficile era risalire. Non sono mai giunto alla soglia del salotto turco di Padre Oliviero. Troppo in alto, per il mio spirito. Troppo arduo, il
cammino.
Sugli armadi, qualche volta, mi sono fermato, durante
le notti, per dormire.
Ho scoperto quasi subito di non essere stato il solo ad
avere la pensata: Gioietta, la biondissima Gioietta candida e materna dimorava abitualmente sugli armadi, da
quando la tigna aveva fatto giustizia sommaria dei suoi
capelli, lasciandola meravigliosamente pelata come una
buccia darancia.
Sullarmadio grande della stanza da the, ho carezzato il
cranio liscio di Gioietta, e il suo ventre rosso, per molte
notti di seguito.
Una volta ho veduto Padre Oliviero io stavo, come
spesso mi capitava, accovacciato sulla credenzona bianca
della sala da pranzo del vecchio Duca mentre tentava di
infilarsi sotto le gonne di Giovanna, la cuoca, nativa di un
paese del nord produttore di vini forti e ragazze rudi. Sosteneva, il santuomo, un compito erudito: cercava un
breviario medioevale scomparso durante uno di quei turbolenti decenni fineseicento. Potrebbe essersi acquattato qui, sotto le gonne sosteneva allombra e al caldo.

Giovanna lha lasciato fare, a lungo e con mugolante pazienza. Ma il breviario non stato ritrovato, n in quella
n in consimili circostanze. Sfortuna.
Son stato presente anche alla battaglia fra Amelia e lo
specchio dei Padri Acuti.
Quello specchio era stato portato in casa, nei primi anni del nuovo secolo, dallo zio Giacinto, che laveva acquistato da un antiquario di Shangai, assieme a certe tazzine
di porcellana fine come un guscio duovo, dipinte a mano
da bambini decenni.
Era uno specchio grande come unostrica, se la temperatura ambiente tendeva al freddo. Nella stagione calda si
dilatava, invece, e assai: raggiungeva le dimensioni dellintera parete della stanza di Amelia.
Rifletteva a suo piacimento, senza ordine e senza logica: scene di caccia nelle foreste bulgare, episodi edificanti dellepopea dei Padri Acuti, suoi costruttori, altro. Stava nella stanza di Amelia, da parecchi anni.
Si era sempre decisamente rifiutato di riflettere le immagini che Amelia si affannava a trasmettergli: Amelia
sorridente con la veste di percalle cilestrina; Amelia nuda, coi sandali di Fra Luigi, terziario francescano, ai piedi; Amelia senza i sandali, e Fra Luigi ai piedi; Amelia
senza la veste di percalle cilestrina, vestita del solo Fra
Luigi; Fra Luigi senza Amelia perch Amelia era corsa
nel bagno di marmo nero, a sciacquarsi la fica col bicarbonato ...
Lui, lo specchio dei Padri Acuti, mentre Amelia in calore lo cercava di sottecchi, per guardare magari il sedere

peloso del terziario francescano che pestava fra le sue


gambe di vecchia zingara, si divertiva a specchiare le lacrime di una lepre parlante, presa al laccio in una forra di
Katowice, nel 1218, da una trib di baffuti cacciatori
orientali.
Insomma, ad Amelia bisognava uno specchio specchiante, per fini puramente erotici, dannunziani. Lo specchio,
disgustato dal presente, riandava con le immagini al suo
glorioso passato.
Una convivenza difficile.
Io cero, quel giorno della battaglia fra Amelia e lo
specchio dei Padri Acuti. Stavo, sdraiato, sullarmadio di
Amelia.
Ancora una volta, frustrata aveva cercato di vedere,
nello specchio, lattimo durante il quale Fra Luigi poneva
la linguetta rasposa fra le sue cosce di vecchia, e aveva invece potuto godere la memorabile scena di un Padre
Acuto librato nella panna montata, anno di grazia 1543
Amelia ha deciso di farla finita con quello specchio disobbediente. Si sollevata, nuda e scheletrica, si armata
di una cazzuola da muratore, e ha colpito.
Lo specchio, resosi conto della minaccia incombente,
un attimo prima di ricevere la cazzuolata, si ridotto, in
un amen, alla grandezza di unostia. La cazzuola ha colpito la carta parati a fiori di francia, provocando uno sfregio a forma di sette.
Amelia ha cominciato a bestemmiare, ad alta voce, stridula. Ha seguito lo specchio che fuggiva su otto zampe
di gallina, prima mai notate da nessuno, ma sicuramente

facenti parte del suo repertorio di trucchi religiosi e


fuggiva fin sotto il letto, e quindi fra i cuscini, e sul materasso blunotte.
Amelia lo seguiva, con in mano quelle vecchie forbici
doro che il Duca aveva ricevuto in dono da Francesco
Giuseppe, e che aveva passato ad Amelia una storia triste di ritagli.
Lo specchio sfuggito per un pelo ad un assalto violento, sul materasso. Le forbici, per, non sono andate a
vuoto: hanno acchiappato nella loro morsa un affare pendulo, di carne e sangue, che sporgeva dal ventre di Fra
Luigi. Un cazzetto insignificante. Ma utile al Frate, e non
a lui solo.
Un rigoglioso fiotto di sangue sfuggito dal ventre reciso di Fra Luigi. Dalla sua bocca sfuggito un grido disumano.
Amelia si voltata verso il frate ferito. Commossa.
Velocissimo sulle zampe di gallina, lo specchio dei Padri Acuti piombato alle spalle della vecchia, e lha colpita alla nuca con una poderosa specchiata.
Lo specchio, mentre dava addosso, proponeva un programma special: un sogno collettivo dei Padri Acuti gonfi di segale cornuta, in un lontano Natale 1653: scende
candida la neve, dal cielo, e la vergine bianca, e cantano i
rovi, e cantano le spine, un vecchio spiritual.
Amelia morta sul colpo. Mentre la vergine bianca toccava terra, oh baby.
Il Duca, dopo aver attentamente esaminato la profonda
ferita che ha spaccato la nuca di Amelia, ha decretato che

peloso del terziario francescano che pestava fra le sue


gambe di vecchia zingara, si divertiva a specchiare le lacrime di una lepre parlante, presa al laccio in una forra di
Katowice, nel 1218, da una trib di baffuti cacciatori
orientali.
Insomma, ad Amelia bisognava uno specchio specchiante, per fini puramente erotici, dannunziani. Lo specchio,
disgustato dal presente, riandava con le immagini al suo
glorioso passato.
Una convivenza difficile.
Io cero, quel giorno della battaglia fra Amelia e lo
specchio dei Padri Acuti. Stavo, sdraiato, sullarmadio di
Amelia.
Ancora una volta, frustrata aveva cercato di vedere,
nello specchio, lattimo durante il quale Fra Luigi poneva
la linguetta rasposa fra le sue cosce di vecchia, e aveva invece potuto godere la memorabile scena di un Padre
Acuto librato nella panna montata, anno di grazia 1543
Amelia ha deciso di farla finita con quello specchio disobbediente. Si sollevata, nuda e scheletrica, si armata
di una cazzuola da muratore, e ha colpito.
Lo specchio, resosi conto della minaccia incombente,
un attimo prima di ricevere la cazzuolata, si ridotto, in
un amen, alla grandezza di unostia. La cazzuola ha colpito la carta parati a fiori di francia, provocando uno sfregio a forma di sette.
Amelia ha cominciato a bestemmiare, ad alta voce, stridula. Ha seguito lo specchio che fuggiva su otto zampe
di gallina, prima mai notate da nessuno, ma sicuramente

facenti parte del suo repertorio di trucchi religiosi e


fuggiva fin sotto il letto, e quindi fra i cuscini, e sul materasso blunotte.
Amelia lo seguiva, con in mano quelle vecchie forbici
doro che il Duca aveva ricevuto in dono da Francesco
Giuseppe, e che aveva passato ad Amelia una storia triste di ritagli.
Lo specchio sfuggito per un pelo ad un assalto violento, sul materasso. Le forbici, per, non sono andate a
vuoto: hanno acchiappato nella loro morsa un affare pendulo, di carne e sangue, che sporgeva dal ventre di Fra
Luigi. Un cazzetto insignificante. Ma utile al Frate, e non
a lui solo.
Un rigoglioso fiotto di sangue sfuggito dal ventre reciso di Fra Luigi. Dalla sua bocca sfuggito un grido disumano.
Amelia si voltata verso il frate ferito. Commossa.
Velocissimo sulle zampe di gallina, lo specchio dei Padri Acuti piombato alle spalle della vecchia, e lha colpita alla nuca con una poderosa specchiata.
Lo specchio, mentre dava addosso, proponeva un programma special: un sogno collettivo dei Padri Acuti gonfi di segale cornuta, in un lontano Natale 1653: scende
candida la neve, dal cielo, e la vergine bianca, e cantano i
rovi, e cantano le spine, un vecchio spiritual.
Amelia morta sul colpo. Mentre la vergine bianca toccava terra, oh baby.
Il Duca, dopo aver attentamente esaminato la profonda
ferita che ha spaccato la nuca di Amelia, ha decretato che

la vecchia morta di ascesso dentario. Il medico legale ha


confermato, scienza alla mano.
Quanto a Fra Luigi, e al suo ventre dissanguato, ne
nata una leggenda, che narra di una bestia selvaggia mangiauccelli. Uscita nottetempo dal boiler del bagno di
marmo nero.
Padre Oliviero ha cercato la bestia mangiauccelli fin
sotto le gonne della cuoca del nord per quanto, a rigor
di logica, essa bestia niente avesse a che vedere con quel
pertugio, e piuttosto sarebbe stato meglio cercarla, casomai, sotto il saio del Padre ma la bestia definitivamente scomparsa. Forse rientrata nel boiler.
Lo specchio, pacificato, da quel giorno ha cominciato a
riproporre scene recenti: Amelia nuda che si tocca; Amelia che tocca Fra Luigi; Fra Luigi che tocca quella parte di
s che non potr mai pi toccare. Il Duca assiste compiaciuto allo spettacolo.
Aprile era passato, quando ho smesso di abitare sugli
armadi. Gioietta era tornata a terra, coi capelli biondi
completamente ricresciuti finalmente e il ventre gonfio di un bimbo che ben presto avrebbe allietato le serate
monotone della casa.
Sono uscito. Era domenica mattina. Una bella mattina
di primavera, colle strade polverose e secche, e i raggi del
sole che facevano brillare il dorso dellerba.
Sono uscito di casa, quella domenica mattina dopo
dieci anni, otto mesi e tre giorni che non uscivo di casa.
Mi ero assuefatto, ormai, allaria di chiuso e di grotta che
accompagnava i miei giorni reclusi. Mi ero abituato, e ci

stavo bene. Il mondo, fuori, pensavo, senzaltro molto


peggio del mondo racchiuso fra queste pareti, fra queste
scale, fra questi cunicoli.
Quella domenica mi sentivo straordinariamente coraggioso. Mi sentivo nuovo.
La strada dalla casa al paese lunga, e penosa come una
Via Crucis. Non si incontra anima viva.
I campi coperti di erbacce puzzavano di carogna, e persino la fragranza opium che arricchiva gli umori di
chiuso delle mie ascelle stata ben presto sopraffatta da
quel solare odore di sudaticcio che odio.
Mi sono fermato, un attimo, ad annusare i fiori senza
profumo del Calecanzu, unica pausa nella disperazione
della campagna. Sotto i fiori, una cacca mattutina di volpe
mi ha spinto ad accelerare il passo.
Al paese, sono arrivato dopo mezzogiorno. Il sole picchiava sul cranio degli zotici, che infatti stavano al riparo
dei pergolati di vite aerea dei cortili, o allombra, nella
bottega di vino, seduti attorno a tavolacci rustici, a sorseggiare vernaccia gialla e fredda.
Il profumo di vino ha infiammato la mia fantasia, come
non aveva potuto laria aperta. Ho disceso gli scalini che
dalla strada principale, bianca e secca, conducono allumida e nera bettola di Alfonso. Ho scelto, per sedere inosservato, langolo pi buio dellosteria, e ho ordinato mezzo litro di vernaccia ghiacciata.
Sorseggiavo poco a poco, godendo il benessere fresco,
unito a quello dei muscoli caldi dalla passeggiata mattutina.

la vecchia morta di ascesso dentario. Il medico legale ha


confermato, scienza alla mano.
Quanto a Fra Luigi, e al suo ventre dissanguato, ne
nata una leggenda, che narra di una bestia selvaggia mangiauccelli. Uscita nottetempo dal boiler del bagno di
marmo nero.
Padre Oliviero ha cercato la bestia mangiauccelli fin
sotto le gonne della cuoca del nord per quanto, a rigor
di logica, essa bestia niente avesse a che vedere con quel
pertugio, e piuttosto sarebbe stato meglio cercarla, casomai, sotto il saio del Padre ma la bestia definitivamente scomparsa. Forse rientrata nel boiler.
Lo specchio, pacificato, da quel giorno ha cominciato a
riproporre scene recenti: Amelia nuda che si tocca; Amelia che tocca Fra Luigi; Fra Luigi che tocca quella parte di
s che non potr mai pi toccare. Il Duca assiste compiaciuto allo spettacolo.
Aprile era passato, quando ho smesso di abitare sugli
armadi. Gioietta era tornata a terra, coi capelli biondi
completamente ricresciuti finalmente e il ventre gonfio di un bimbo che ben presto avrebbe allietato le serate
monotone della casa.
Sono uscito. Era domenica mattina. Una bella mattina
di primavera, colle strade polverose e secche, e i raggi del
sole che facevano brillare il dorso dellerba.
Sono uscito di casa, quella domenica mattina dopo
dieci anni, otto mesi e tre giorni che non uscivo di casa.
Mi ero assuefatto, ormai, allaria di chiuso e di grotta che
accompagnava i miei giorni reclusi. Mi ero abituato, e ci

stavo bene. Il mondo, fuori, pensavo, senzaltro molto


peggio del mondo racchiuso fra queste pareti, fra queste
scale, fra questi cunicoli.
Quella domenica mi sentivo straordinariamente coraggioso. Mi sentivo nuovo.
La strada dalla casa al paese lunga, e penosa come una
Via Crucis. Non si incontra anima viva.
I campi coperti di erbacce puzzavano di carogna, e persino la fragranza opium che arricchiva gli umori di
chiuso delle mie ascelle stata ben presto sopraffatta da
quel solare odore di sudaticcio che odio.
Mi sono fermato, un attimo, ad annusare i fiori senza
profumo del Calecanzu, unica pausa nella disperazione
della campagna. Sotto i fiori, una cacca mattutina di volpe
mi ha spinto ad accelerare il passo.
Al paese, sono arrivato dopo mezzogiorno. Il sole picchiava sul cranio degli zotici, che infatti stavano al riparo
dei pergolati di vite aerea dei cortili, o allombra, nella
bottega di vino, seduti attorno a tavolacci rustici, a sorseggiare vernaccia gialla e fredda.
Il profumo di vino ha infiammato la mia fantasia, come
non aveva potuto laria aperta. Ho disceso gli scalini che
dalla strada principale, bianca e secca, conducono allumida e nera bettola di Alfonso. Ho scelto, per sedere inosservato, langolo pi buio dellosteria, e ho ordinato mezzo litro di vernaccia ghiacciata.
Sorseggiavo poco a poco, godendo il benessere fresco,
unito a quello dei muscoli caldi dalla passeggiata mattutina.

Quella donna entrata, allora, per la prima volta.


Era pi bassa che alta, pi magra che grassa. Vestiva una
tunica grigia lunga fino ai piedi, e portava sul capo un fazzoletto grigio che nascondeva qualunque traccia di capigliatura. Grigio smorto, era il colore. Grigio cenere. Grigio della morte che accorre senza fretta, comune.
Si guardata tuttattorno, la donna. Aveva occhi grigi
sfuggenti e semichiusi, brillanti, per, come il fondo di un
pozzo.
esplosa in una risatina nevrotica, prima di fuggire.
matta ha mormorato un tale, qualche tavolo pi in l.
Torner ha commentato parco loste.
Dopo qualche ora, esaurito il mezzo litro, ho ordinato
un piatto di fave fresche bollite, condite di solo sale e cipolla. E un altro mezzo litro.
Ho mangiato lentamente, godendo il gusto rude e semplice, elementare e acuto, delle fave, e laroma di cipolla
fresca.
Ho bevuto con abbondanza. Fino a sentirmi lanima
morbida. Al terzo mezzo litro anchio avrei volentieri frugato sotto le gonne di Giovanna, la cuoca nordica, per ritrovare il senno che avevo perduto tanto tempo prima,
forse il primo giorno di sole della mia vita di recluso volontario.
Cos trascorrevano le ore in quella bottega di vino. Lente e dolci, da scordare.
I clienti agli altri tavoli cambiavano in continuazione.
Stavano seduti per unora, due. Chiacchieravano a bassa
voce, e sorbivano con moderazione, poi sparivano. Sosti-

tuiti ai tavoli da altri, che si distinguevano dai primi per il


differente colore del basco, per la minore quantit di fango sugli scarponi di cuoio ingrassato, per un pi acuto
profumo di sapone Sole che ogni tanto riusciva persino
a sfondare il muro spesso di puzza di vino, di terra, di sudore, di pane, di fave e cipolle.
Non entrava pi il sole, dalla porta dingresso, e loste
aveva acceso due tubicini al neon coperti di cacca di mosche, carte moschicide, mosche morte e vive, e, ai tavoli,
uomini giocavano a terziglio con certi vecchi consunti
mazzi di carte, quando la donna riapparsa.
riapparsa, grigia. Ancora si guardata attorno, con
quegli occhi lucidi da luna fredda.
Questa volta non fuggita. Si avvicinata alloste, che
ha versato per lei un bicchiere di bianco.
Poi ha sussurrato ma stavamo tutti zitti a guardarla, e
labbiamo sentita, come se urlasse Manicomio. Alessandria, Piemonte.
1953. E tutti gli anni dopo il 53. Per ventanni. Lo sai come la chiamavano, Concetta Ribesi, che aveva ucciso il
marito e tre figli, a Messina? Stalin, la chiamavano. Stalin,
dicevano, vieni qui e sciacqua il cesso. Cosa ne hai fatto,
dei bambini, Stalin? E ridevano. Manicomio criminale.
Stare attenti la notte. Si avvicinano col buio. Se stai calma
tranquilla ti toccano. Lasci toccare: chi altro ti tocca, in
quei posti? Se sei agitata, meglio: ti spogliano, e ti toccano
duro. Pestano. Finch stai nuovamente calma. Cero anchio. Con Stalin. Alessandria. Altro che vino. Manicomio
criminale. Ventanni.

Quella donna entrata, allora, per la prima volta.


Era pi bassa che alta, pi magra che grassa. Vestiva una
tunica grigia lunga fino ai piedi, e portava sul capo un fazzoletto grigio che nascondeva qualunque traccia di capigliatura. Grigio smorto, era il colore. Grigio cenere. Grigio della morte che accorre senza fretta, comune.
Si guardata tuttattorno, la donna. Aveva occhi grigi
sfuggenti e semichiusi, brillanti, per, come il fondo di un
pozzo.
esplosa in una risatina nevrotica, prima di fuggire.
matta ha mormorato un tale, qualche tavolo pi in l.
Torner ha commentato parco loste.
Dopo qualche ora, esaurito il mezzo litro, ho ordinato
un piatto di fave fresche bollite, condite di solo sale e cipolla. E un altro mezzo litro.
Ho mangiato lentamente, godendo il gusto rude e semplice, elementare e acuto, delle fave, e laroma di cipolla
fresca.
Ho bevuto con abbondanza. Fino a sentirmi lanima
morbida. Al terzo mezzo litro anchio avrei volentieri frugato sotto le gonne di Giovanna, la cuoca nordica, per ritrovare il senno che avevo perduto tanto tempo prima,
forse il primo giorno di sole della mia vita di recluso volontario.
Cos trascorrevano le ore in quella bottega di vino. Lente e dolci, da scordare.
I clienti agli altri tavoli cambiavano in continuazione.
Stavano seduti per unora, due. Chiacchieravano a bassa
voce, e sorbivano con moderazione, poi sparivano. Sosti-

tuiti ai tavoli da altri, che si distinguevano dai primi per il


differente colore del basco, per la minore quantit di fango sugli scarponi di cuoio ingrassato, per un pi acuto
profumo di sapone Sole che ogni tanto riusciva persino
a sfondare il muro spesso di puzza di vino, di terra, di sudore, di pane, di fave e cipolle.
Non entrava pi il sole, dalla porta dingresso, e loste
aveva acceso due tubicini al neon coperti di cacca di mosche, carte moschicide, mosche morte e vive, e, ai tavoli,
uomini giocavano a terziglio con certi vecchi consunti
mazzi di carte, quando la donna riapparsa.
riapparsa, grigia. Ancora si guardata attorno, con
quegli occhi lucidi da luna fredda.
Questa volta non fuggita. Si avvicinata alloste, che
ha versato per lei un bicchiere di bianco.
Poi ha sussurrato ma stavamo tutti zitti a guardarla, e
labbiamo sentita, come se urlasse Manicomio. Alessandria, Piemonte.
1953. E tutti gli anni dopo il 53. Per ventanni. Lo sai come la chiamavano, Concetta Ribesi, che aveva ucciso il
marito e tre figli, a Messina? Stalin, la chiamavano. Stalin,
dicevano, vieni qui e sciacqua il cesso. Cosa ne hai fatto,
dei bambini, Stalin? E ridevano. Manicomio criminale.
Stare attenti la notte. Si avvicinano col buio. Se stai calma
tranquilla ti toccano. Lasci toccare: chi altro ti tocca, in
quei posti? Se sei agitata, meglio: ti spogliano, e ti toccano
duro. Pestano. Finch stai nuovamente calma. Cero anchio. Con Stalin. Alessandria. Altro che vino. Manicomio
criminale. Ventanni.

Beve. Un sorso rapido, famelico. Poi fugge.


Avete sentito, la matta? parco, ancora, loste .
Ho pagato.
Lho inseguita, con calma. Nelle strade sporche del paese, odore di piscio di cavallo, merda di vitello, galline, cipolle fresche negli orti; e, solo davanti alla chiesa, incenso.
Da allora, la seguo.
Nascosto, con passo lento, come un alunno che non
vuole lasciarsi scappare una sola parola della lezione.
La seguo. Ogni tanto, con la testa, sto altrove.

Delirio maschile

Stamattina, al risveglio, mi sentivo diverso: niente pi


pulsazioni spastiche allo stomaco, niente cerchio alla testa,
nessuna punta acuminata che batte sullocchio destro.
Per la prima volta, da chiss quanto tempo, niente ultralgina, niente depressione, nessuna voglia di suicidio.
I muscoli, leggeri, dicevano: andiamo. Combattiamo!
Combattiamo.
Bella parola combattere.
Suona bene.
Per prima ho ucciso la tele a pugni nudi. Mi guardava,
sorpresa, grande occhio nero implorante: Risparmiami,
ti supplico.
Non ho avuto piet. Lho abbandonata, sola, piangente, il vetro spaccato, il tubo catodico spezzato.
Sono uscito; avevo un brutto ghigno sulla faccia.
Sotto i Portici: un coniglio spacciatore bianco grassotto, con lo sguardo complice e labito di lino color tabacco,
mi trattiene per il polsino della camicia e mi fa: un malinconico rosa e verde, nuovo nuovo, quarantamila.
Sto per un attimo, immobile, preda delle vecchie abitudini.
Crede di averla gi vinta. Di pechino dice veramente
di pechino. Solo quarantamila.

Beve. Un sorso rapido, famelico. Poi fugge.


Avete sentito, la matta? parco, ancora, loste .
Ho pagato.
Lho inseguita, con calma. Nelle strade sporche del paese, odore di piscio di cavallo, merda di vitello, galline, cipolle fresche negli orti; e, solo davanti alla chiesa, incenso.
Da allora, la seguo.
Nascosto, con passo lento, come un alunno che non
vuole lasciarsi scappare una sola parola della lezione.
La seguo. Ogni tanto, con la testa, sto altrove.

Delirio maschile

Stamattina, al risveglio, mi sentivo diverso: niente pi


pulsazioni spastiche allo stomaco, niente cerchio alla testa,
nessuna punta acuminata che batte sullocchio destro.
Per la prima volta, da chiss quanto tempo, niente ultralgina, niente depressione, nessuna voglia di suicidio.
I muscoli, leggeri, dicevano: andiamo. Combattiamo!
Combattiamo.
Bella parola combattere.
Suona bene.
Per prima ho ucciso la tele a pugni nudi. Mi guardava,
sorpresa, grande occhio nero implorante: Risparmiami,
ti supplico.
Non ho avuto piet. Lho abbandonata, sola, piangente, il vetro spaccato, il tubo catodico spezzato.
Sono uscito; avevo un brutto ghigno sulla faccia.
Sotto i Portici: un coniglio spacciatore bianco grassotto, con lo sguardo complice e labito di lino color tabacco,
mi trattiene per il polsino della camicia e mi fa: un malinconico rosa e verde, nuovo nuovo, quarantamila.
Sto per un attimo, immobile, preda delle vecchie abitudini.
Crede di averla gi vinta. Di pechino dice veramente
di pechino. Solo quarantamila.

Lo acchiappo, lo piego, e gli rifilo due calci nel culo.


La sua faccia: tutta un tremolio, col labbro superiore
che sembra impazzito.
Scappa.
Verme urlo, mentre corre a nascondersi dietro qualche ammasso di cemento.
Mi sento Dio.
Attraverso i giardini: non chino la testa guardandomi
attorno.
Ci sono i soliti vecchietti e bambini e servette seduti
sulle panchine, con gli occhi sbarrati e la bava alla bocca.
Nessuno parla, figuriamoci.
Nello spiazzo di terra al centro, fra gli alberi, una decina di ruffiani saltella.
Giocano, tatuati sulle braccia, coi coltelli in mano.
Passo proprio in mezzo, tranquillo come un papa: il pi
grosso fa per sbarrarmi la strada.
Gli dico: merda.
Nessuna reazione. Penso: gli sciacalli, quando incontrano luomo, scappano.
Grido: via, via di qua. Digrigno i denti.
Il pi grosso si fa coraggio: viene avanti.
Ha un capellaccio nero da cauboi, e una lurida camicia
a righine bianche e rosa, lurida, e i pantaloni di tela incerata, tenuti su da due bretelle larghe, di pelle.
Urlo, come una bestia che attacca, come un leone incazzato, e gli vado addosso, a pugni chiusi.
Colpisco sul ventre molle. A due mani.
Reagisce: col coltello mi stacca un sopracciglio.

Strappo un orecchio con un morso.


Ci rotoliamo, avvinghiati, sul fango.
Gli ficco un dito in un occhio. Profondo, fino alla fine
del dito.
Esce in una voce, come quando le strozzano, le galline.
Nelle panchine i vecchietti terrorizzati, i bambini con le
teste gonfie, piene dacqua, e le servette senza mutande.
Gli sciacalli, quando incontrano luomo, scappano, dico.
Una servetta si avvicina, e medica la ferita, con colla liquida.
Brucia, la ferita. Si rimargina presto, con la colla.
Proseguo la marcia verso la citt. Ascolto il Mio corpo.
Sento i battiti nel petto, come avessi due cuori che picchiano assieme sul torace.
Lufficio. Ah, lufficio.
In ufficio, tutti chini sulle scrivanie, in silenzio. Tutti
con lultralgina nel primo cassetto. Tutti con gli antispastici sotto la carta copiativa. Tutti con lultimo programma della tele di ieri notte dentro la testa.
Buongiorno, Burriba fanno tutti, sottovoce, come
ogni altro giorno.
Viene fuori dal suo cubicolo lingegnere-capo. Burriba: lei in ritardo! Di unora! Si giustifichi!
Aspetta. Anche lui con gli occhi bassi: Capo, ma anche
mezzasega come gli altri: sa di poter comandare un pochino. Ma fuori dal dominio ha una paura turca. Il segnale della fifa che non guarda mai la gente negli occhi.
Aspetta. Che io inventi una storia credibile, e scivoli in
ginocchio fino alla scrivania.

Lo acchiappo, lo piego, e gli rifilo due calci nel culo.


La sua faccia: tutta un tremolio, col labbro superiore
che sembra impazzito.
Scappa.
Verme urlo, mentre corre a nascondersi dietro qualche ammasso di cemento.
Mi sento Dio.
Attraverso i giardini: non chino la testa guardandomi
attorno.
Ci sono i soliti vecchietti e bambini e servette seduti
sulle panchine, con gli occhi sbarrati e la bava alla bocca.
Nessuno parla, figuriamoci.
Nello spiazzo di terra al centro, fra gli alberi, una decina di ruffiani saltella.
Giocano, tatuati sulle braccia, coi coltelli in mano.
Passo proprio in mezzo, tranquillo come un papa: il pi
grosso fa per sbarrarmi la strada.
Gli dico: merda.
Nessuna reazione. Penso: gli sciacalli, quando incontrano luomo, scappano.
Grido: via, via di qua. Digrigno i denti.
Il pi grosso si fa coraggio: viene avanti.
Ha un capellaccio nero da cauboi, e una lurida camicia
a righine bianche e rosa, lurida, e i pantaloni di tela incerata, tenuti su da due bretelle larghe, di pelle.
Urlo, come una bestia che attacca, come un leone incazzato, e gli vado addosso, a pugni chiusi.
Colpisco sul ventre molle. A due mani.
Reagisce: col coltello mi stacca un sopracciglio.

Strappo un orecchio con un morso.


Ci rotoliamo, avvinghiati, sul fango.
Gli ficco un dito in un occhio. Profondo, fino alla fine
del dito.
Esce in una voce, come quando le strozzano, le galline.
Nelle panchine i vecchietti terrorizzati, i bambini con le
teste gonfie, piene dacqua, e le servette senza mutande.
Gli sciacalli, quando incontrano luomo, scappano, dico.
Una servetta si avvicina, e medica la ferita, con colla liquida.
Brucia, la ferita. Si rimargina presto, con la colla.
Proseguo la marcia verso la citt. Ascolto il Mio corpo.
Sento i battiti nel petto, come avessi due cuori che picchiano assieme sul torace.
Lufficio. Ah, lufficio.
In ufficio, tutti chini sulle scrivanie, in silenzio. Tutti
con lultralgina nel primo cassetto. Tutti con gli antispastici sotto la carta copiativa. Tutti con lultimo programma della tele di ieri notte dentro la testa.
Buongiorno, Burriba fanno tutti, sottovoce, come
ogni altro giorno.
Viene fuori dal suo cubicolo lingegnere-capo. Burriba: lei in ritardo! Di unora! Si giustifichi!
Aspetta. Anche lui con gli occhi bassi: Capo, ma anche
mezzasega come gli altri: sa di poter comandare un pochino. Ma fuori dal dominio ha una paura turca. Il segnale della fifa che non guarda mai la gente negli occhi.
Aspetta. Che io inventi una storia credibile, e scivoli in
ginocchio fino alla scrivania.

Non rispondo.
E lui dice con quella vocina isterica e malvagia comunque, se avesse qualche buona giustificazione che potrebbe evitarle ladozione di una misura disciplinare, mi
limiter a farle trattenere unora di salario.
Bisogna dare il buon esempio? sussurro.
Coglie sarcasmo, nella voce, solleva gli occhi, per la prima volta.
Vede le nocche delle mie mani sanguinanti, e il viso coperto per met di colla, e gli abiti sporchi di fango.
Intravede la luce dei miei occhi. Ih, ih.
Mi avvicino. Apro la patta.
sconvolto. Gli piscio addosso, sulla giacca di flanella
grigia.
Corre dietro la porta del suo ufficio. Si chiude a chiave.
Tengo la patta aperta. Li guardo: tutti, tutti, i colleghi e
le colleghe, rossi in faccia, colle mani nascoste fra i cassetti.
Me ne vado sbotto. Me ne vado, purch la smettiate
di tremare, lumache.
Nel corridoio, Antonietta la dolce, tenera, fragile Antonietta dai capelli bianchi e dalle labbra di corallo mi
raggiunge. Permettimi di asciugarti il pisello con la carta
assorbente dice. Lascio fare. La carta assorbente sembra una carezza.
Cos abbandono lufficio e le schifose scartoffie che mi
hanno fatto penare per anni: fatture e lettere personalizzate battute sempre su IBM uguali.
Fuori, un brutto cielo grigio vicino alla mia testa co-

me cazzo succede che non ho ancora lemicrania, questo


il mistero pi grande di tutta la storia.
Lumido talmente spesso che un alito basterebbe a
trasformarlo in nebbia.
Mi avvicino al porto. E vedo un gran casino.
Tre o quattro sorelline elettroniche da centomila la scopata (la fica pi calda, pi mobile, che si adatta alla vostra misura, che mugola da sola. Che non piange mai, che
gode sempre con voi, non un minuto prima n uno pi
tardi. La scopatina elettronica Rodrex, la pi bella del
mondo. Centomila a colpo) circondate da una banda di
tunisini, arcaici, coi capelli crespi, i mutandoni gialli allamericana, le canottiere bianche.
Mettono le manacce sui bottoni delle macchine i tunisini e tentano di forzarle con cacciavite, per la scopata
gratuita.
A due passi, un gruppetto di conigli bianchi si spella le
mani dalle risate.
Non me ne sbatte un cazzo, di intervenire.
Nessuno ha chiesto il mio aiuto.
Il fatto che, per, a un certo punto, una scopatrice
elettronica una grassa e alta, che ha due belle tette bianche morbide come burro mi corre incontro, mi abbranca e mi sussurra ti prego, ti prego, ti prego...
Insomma, pesto i tunisini che le stavano dietro.
Tornano alle altre macchinette. Tempo cinque minuti,
la rissa finisce da sola, e vanno via tutti assieme, tunisini,
macchinette, e conigli, verso chiss quale rifugio. Hanno
trovato un accordo.

Non rispondo.
E lui dice con quella vocina isterica e malvagia comunque, se avesse qualche buona giustificazione che potrebbe evitarle ladozione di una misura disciplinare, mi
limiter a farle trattenere unora di salario.
Bisogna dare il buon esempio? sussurro.
Coglie sarcasmo, nella voce, solleva gli occhi, per la prima volta.
Vede le nocche delle mie mani sanguinanti, e il viso coperto per met di colla, e gli abiti sporchi di fango.
Intravede la luce dei miei occhi. Ih, ih.
Mi avvicino. Apro la patta.
sconvolto. Gli piscio addosso, sulla giacca di flanella
grigia.
Corre dietro la porta del suo ufficio. Si chiude a chiave.
Tengo la patta aperta. Li guardo: tutti, tutti, i colleghi e
le colleghe, rossi in faccia, colle mani nascoste fra i cassetti.
Me ne vado sbotto. Me ne vado, purch la smettiate
di tremare, lumache.
Nel corridoio, Antonietta la dolce, tenera, fragile Antonietta dai capelli bianchi e dalle labbra di corallo mi
raggiunge. Permettimi di asciugarti il pisello con la carta
assorbente dice. Lascio fare. La carta assorbente sembra una carezza.
Cos abbandono lufficio e le schifose scartoffie che mi
hanno fatto penare per anni: fatture e lettere personalizzate battute sempre su IBM uguali.
Fuori, un brutto cielo grigio vicino alla mia testa co-

me cazzo succede che non ho ancora lemicrania, questo


il mistero pi grande di tutta la storia.
Lumido talmente spesso che un alito basterebbe a
trasformarlo in nebbia.
Mi avvicino al porto. E vedo un gran casino.
Tre o quattro sorelline elettroniche da centomila la scopata (la fica pi calda, pi mobile, che si adatta alla vostra misura, che mugola da sola. Che non piange mai, che
gode sempre con voi, non un minuto prima n uno pi
tardi. La scopatina elettronica Rodrex, la pi bella del
mondo. Centomila a colpo) circondate da una banda di
tunisini, arcaici, coi capelli crespi, i mutandoni gialli allamericana, le canottiere bianche.
Mettono le manacce sui bottoni delle macchine i tunisini e tentano di forzarle con cacciavite, per la scopata
gratuita.
A due passi, un gruppetto di conigli bianchi si spella le
mani dalle risate.
Non me ne sbatte un cazzo, di intervenire.
Nessuno ha chiesto il mio aiuto.
Il fatto che, per, a un certo punto, una scopatrice
elettronica una grassa e alta, che ha due belle tette bianche morbide come burro mi corre incontro, mi abbranca e mi sussurra ti prego, ti prego, ti prego...
Insomma, pesto i tunisini che le stavano dietro.
Tornano alle altre macchinette. Tempo cinque minuti,
la rissa finisce da sola, e vanno via tutti assieme, tunisini,
macchinette, e conigli, verso chiss quale rifugio. Hanno
trovato un accordo.

Puoi andare dico alla scatola, che ha riparato dietro le


mie spalle.
Ma quella mi segue come unombra.
Cammino lungo tutta la banchina, fino alla punta del
molo, mare aperto.
E quella sempre dietro.
Mi sdraio sulle pietre, a sentire i profumi del mare, a riposare.
E quella mi si sdraia vicino.
Non ti ho adottato, bella gli dico e non ho alcuna intenzione di tirar fuori il centone per la scopata. Perci,
smamma. Procurati un altro cliente.
La bestiolina elettronica, in risposta, stacca un filino
rosso dalla gettoniera, si sfila la gonna, sbava un liquido
nerastro sulla tetta e ci riempie una vecchia pipa giavanese, che accende, fuma e passa.
Si avvicina. Calda come un forno.
Quello che ci voleva. Uno sballo da oppio sintetico prodotto da una puttana meccanica.
Insomma, lei mi spoglia, mi carezza che mani, le elettroniche e mi stringe.
Una scopata memorabile. La risacca ci d i tempi e le cadenze.
Godo, come un vecchio asino di altri tempi: senza ritegno, con sonore risate, e brividi.
Il tramonto mi sorprende in un vicolo della Marina.
Ancora ce lho fuori dalla patta, penzoloni.
Torno a casa, soddisfatto. E stanco. Quella bella stanchezza che ti prende se hai combattuto sul serio, se non ti
sei nascosto.

Ho vissuto. Ho vissuto. Diograzie.


Non ho avuto piet per la tele spaccata, che chiede di
chiamare un tecnico riparatore.
Non chiudo la porta di casa. Che entrino, se hanno il coraggio. Se devo combattere, tanto vale combattere. Sar,
anchio, un caino.
Purch, domattina, non ricominci lemicrania.

Puoi andare dico alla scatola, che ha riparato dietro le


mie spalle.
Ma quella mi segue come unombra.
Cammino lungo tutta la banchina, fino alla punta del
molo, mare aperto.
E quella sempre dietro.
Mi sdraio sulle pietre, a sentire i profumi del mare, a riposare.
E quella mi si sdraia vicino.
Non ti ho adottato, bella gli dico e non ho alcuna intenzione di tirar fuori il centone per la scopata. Perci,
smamma. Procurati un altro cliente.
La bestiolina elettronica, in risposta, stacca un filino
rosso dalla gettoniera, si sfila la gonna, sbava un liquido
nerastro sulla tetta e ci riempie una vecchia pipa giavanese, che accende, fuma e passa.
Si avvicina. Calda come un forno.
Quello che ci voleva. Uno sballo da oppio sintetico prodotto da una puttana meccanica.
Insomma, lei mi spoglia, mi carezza che mani, le elettroniche e mi stringe.
Una scopata memorabile. La risacca ci d i tempi e le cadenze.
Godo, come un vecchio asino di altri tempi: senza ritegno, con sonore risate, e brividi.
Il tramonto mi sorprende in un vicolo della Marina.
Ancora ce lho fuori dalla patta, penzoloni.
Torno a casa, soddisfatto. E stanco. Quella bella stanchezza che ti prende se hai combattuto sul serio, se non ti
sei nascosto.

Ho vissuto. Ho vissuto. Diograzie.


Non ho avuto piet per la tele spaccata, che chiede di
chiamare un tecnico riparatore.
Non chiudo la porta di casa. Che entrino, se hanno il coraggio. Se devo combattere, tanto vale combattere. Sar,
anchio, un caino.
Purch, domattina, non ricominci lemicrania.

Post Office

Sullautobus le solite facce di terra, come ogni sera. Silenziose. Dopo ogni fermata un sospiro collettivo, perch
sono salite altre facce di terra silenziose, e non quelle
chiassose bande di teppisti che fanno la pip sui pantaloni
della gente onesta. La minore fra le loro bravate.
Mariotto scende al solito posto, Montemixi. Si guarda
attorno, nel buio tutto pace e silenzio. Corre sotto i portici dei grandi palazzi colorati. Soltanto Augustina, quella
bionda del caseggiato di fronte, che prende il sole nuda
sulla terrazza anche a dicembre, passeggia in mezzo alla
strada, col giubbotto dacciaio e gli speroni, prendendo a
calci le portiere delle automobili posteggiate. Mariotto
preferisce evitarla; sola e triste, forse incazzata, le unghie
verdi, lunghe come aghi da lana, brillano minacciose.
Nellatrio del condominio i pini non c anima viva.
Mariotto accende la pila per guardare dentro la cassetta
della posta. C una busta bianca, indirizzata proprio a
lui: signor dottor ragioniere Mariotto P. La raccoglie
con mano tremante.
posta! Vera posta! Non uno dei soliti depliant pubblicitari che riempiono ogni giorno la cassetta.
Con la busta bianca nella tasca della giacca, Mariotto si
arrampica per le scale buie, col cuore in gola.

Post Office

Sullautobus le solite facce di terra, come ogni sera. Silenziose. Dopo ogni fermata un sospiro collettivo, perch
sono salite altre facce di terra silenziose, e non quelle
chiassose bande di teppisti che fanno la pip sui pantaloni
della gente onesta. La minore fra le loro bravate.
Mariotto scende al solito posto, Montemixi. Si guarda
attorno, nel buio tutto pace e silenzio. Corre sotto i portici dei grandi palazzi colorati. Soltanto Augustina, quella
bionda del caseggiato di fronte, che prende il sole nuda
sulla terrazza anche a dicembre, passeggia in mezzo alla
strada, col giubbotto dacciaio e gli speroni, prendendo a
calci le portiere delle automobili posteggiate. Mariotto
preferisce evitarla; sola e triste, forse incazzata, le unghie
verdi, lunghe come aghi da lana, brillano minacciose.
Nellatrio del condominio i pini non c anima viva.
Mariotto accende la pila per guardare dentro la cassetta
della posta. C una busta bianca, indirizzata proprio a
lui: signor dottor ragioniere Mariotto P. La raccoglie
con mano tremante.
posta! Vera posta! Non uno dei soliti depliant pubblicitari che riempiono ogni giorno la cassetta.
Con la busta bianca nella tasca della giacca, Mariotto si
arrampica per le scale buie, col cuore in gola.

La porta di casa sempre al suo posto, stabile, ferrata,


robusta. Oggi nessuno ha tentato di forzarla. Le scheggiature sulla serratura sono le stesse della settimana scorsa.
Mariotto pensa, soddisfatto, che da quando ha comprato
la nuova porta indistruttibile, cio ormai da sei mesi, i tentativi di scasso sono stati pi di una decina, ma nessuno riuscito.
Si spranga la porta alle spalle, Mariotto, e perlustra lappartamento non si sa mai ispezionando sotto i letti e
dentro gli armadi, con la pila in una mano e la microbrowing nellaltra.
Lappartamento disabitato. Nessun maledetto intruso. Le finestre piombate sono intatte. Mariotto sorride,
chiss quanti bastardi avranno tentato di perforarle, con
la fiamma ossidrica!
Resisterebbero a un raggio laser.
Ora, nel vecchio salotto, sdraiato sulla poltrona grigia,
col viso ai bocchettoni di aerazione, Mariotto respira
tranquillo. Tele-accende il grande schermo a parete: dappertutto musica, concerti, film.
Trova un canale clandestino che trasmette un quiz erotico: mi parli del bompresso di prua, signorina.
Elimina del tutto il volume. Resta soltanto la schermo
colorato con un film sul bompresso di prua il bompresso di prua abitato da unorgia di cani selvaggi e femmine
umane in calore.
Un grosso doberman ha addentato la mano di una mulatta portoricana, quando Mariotto si sdraia e tira fuori
dalla tasca la busta bianca. Al signor dottor ragionier

Mariotto P. Condominio i pini. Montemixi. Proprio


lui, insomma.
Strappa la busta. Dentro c un foglio vergato a mano. A
mano!
Caro signore
che leggi questa lettera. Questa una lettera di una catena
di S. Antonio. La prima lettera della catena stata spedita
dal venezuela. Tu dovrai copiare questa lettera, a mano, in
chiara grafia, ventiquattro volte. E dovrai spedirla a ventiquattro persone differenti. Tempo una settimana.
Se obbedirai, te ne verr gran bene. Se invece disobbedirai, grandi pericoli e sciagure ti aspettano.
Il signor Izquerra, nel 1773, decise di non rispettare le
indicazioni della lettera di una catena di S. Antonio. Mor
di peste, qualche mese dopo, preda dei demoni del male.
Il signor Benini, in tempi pi recenti, rise e rese carta
straccia la sua lettera della catena. Tre giorni dopo, un serpente a sonagli si infil nel suo appartamento e addent il
calcagno del signor Benini, che mor fra grandi tormenti.
Il signor Luito, impiegato di banca, dopo aver deciso di
rispettare le indicazioni della lettera della catena, se ne
scord. Una settimana dopo, fu licenziato dalla banca in
cui lavorava, senza alcun ragionevole motivo. Si ricord
della lettera: mancavano poche ore allo scadere della settimana; prepar le ventiquattro copie, e le sped immediatamente. Qualche giorno dopo fu chiamato ad assolvere
ad un compito importante e ben retribuito migliore del
suo lavoro precedente da una importante banca di Santa Fe.

La porta di casa sempre al suo posto, stabile, ferrata,


robusta. Oggi nessuno ha tentato di forzarla. Le scheggiature sulla serratura sono le stesse della settimana scorsa.
Mariotto pensa, soddisfatto, che da quando ha comprato
la nuova porta indistruttibile, cio ormai da sei mesi, i tentativi di scasso sono stati pi di una decina, ma nessuno riuscito.
Si spranga la porta alle spalle, Mariotto, e perlustra lappartamento non si sa mai ispezionando sotto i letti e
dentro gli armadi, con la pila in una mano e la microbrowing nellaltra.
Lappartamento disabitato. Nessun maledetto intruso. Le finestre piombate sono intatte. Mariotto sorride,
chiss quanti bastardi avranno tentato di perforarle, con
la fiamma ossidrica!
Resisterebbero a un raggio laser.
Ora, nel vecchio salotto, sdraiato sulla poltrona grigia,
col viso ai bocchettoni di aerazione, Mariotto respira
tranquillo. Tele-accende il grande schermo a parete: dappertutto musica, concerti, film.
Trova un canale clandestino che trasmette un quiz erotico: mi parli del bompresso di prua, signorina.
Elimina del tutto il volume. Resta soltanto la schermo
colorato con un film sul bompresso di prua il bompresso di prua abitato da unorgia di cani selvaggi e femmine
umane in calore.
Un grosso doberman ha addentato la mano di una mulatta portoricana, quando Mariotto si sdraia e tira fuori
dalla tasca la busta bianca. Al signor dottor ragionier

Mariotto P. Condominio i pini. Montemixi. Proprio


lui, insomma.
Strappa la busta. Dentro c un foglio vergato a mano. A
mano!
Caro signore
che leggi questa lettera. Questa una lettera di una catena
di S. Antonio. La prima lettera della catena stata spedita
dal venezuela. Tu dovrai copiare questa lettera, a mano, in
chiara grafia, ventiquattro volte. E dovrai spedirla a ventiquattro persone differenti. Tempo una settimana.
Se obbedirai, te ne verr gran bene. Se invece disobbedirai, grandi pericoli e sciagure ti aspettano.
Il signor Izquerra, nel 1773, decise di non rispettare le
indicazioni della lettera di una catena di S. Antonio. Mor
di peste, qualche mese dopo, preda dei demoni del male.
Il signor Benini, in tempi pi recenti, rise e rese carta
straccia la sua lettera della catena. Tre giorni dopo, un serpente a sonagli si infil nel suo appartamento e addent il
calcagno del signor Benini, che mor fra grandi tormenti.
Il signor Luito, impiegato di banca, dopo aver deciso di
rispettare le indicazioni della lettera della catena, se ne
scord. Una settimana dopo, fu licenziato dalla banca in
cui lavorava, senza alcun ragionevole motivo. Si ricord
della lettera: mancavano poche ore allo scadere della settimana; prepar le ventiquattro copie, e le sped immediatamente. Qualche giorno dopo fu chiamato ad assolvere
ad un compito importante e ben retribuito migliore del
suo lavoro precedente da una importante banca di Santa Fe.

Il signor Daini, che rispett immediatamente gli ordini


della lettera e avrebbe potato dimenticarsene, poich
stava male veramente: disoccupato, la moglie e la figlia gli
erano appena morte di male incurabile il signor Daini rispett tutto senza sorridere, e dopo un mese vinse il primo premio della lotteria nazionale, e da allora vive beato.
Tenga conto degli ammonimenti del passato. Non rida.
Non sia irrispettoso nei confronti della sorte, e la sorte le
sar benigna. Rammenti bene: una settimana di tempo a
partire da questo esatto momento.
Mariotto non crede ai suoi occhi, non crede al cervello
che ha decifrato lo scritto. Il suo sguardo ritrova il grande
schermo panoramico, dove ora un uomo e una donna si
carezzano sulla sabbia rosa di marte. Una lettera di una
catena di S. Antonio. Incredibile.
La lettera riporta alla mente un passato finito del tutto,
da tanto, tanto tempo.
Un passato di processioni (lincontro fra Jesus e la Santa
Vergine Maria, il giorno di Pasqua, e Mariotto piangeva
assieme a tanti altri che piangevano e urlavano in via Roma, sotto i portici, lungo il mare). Il buio della chiesa, incenso e confessionali; la luce del sole che illumina un
mondo dove vivere agevole e tenero; le grandi speranze
della giovinezza, presto troppo presto deluse dai fatti;
la prima notte con Elena, sulla stuoia bagnata, mentre la
risacca accompagnava il lento vai e vieni scandito dai sussurri e dalle risatine che gli riempivano lorecchio.
Esistono ancora pensa Mariotto le lettere della catena di S. Antonio. Forse allora, da qualche parte del mon-

do, c ancora qualcuno che organizza processioni, e dichiara guerra al malocchio. E perch no?
Sorride, Mariotto. Piega la lettera in quattro, e la poggia
con mano delicata nel cassetto delle reliquie del tempo
andato, su un mazzo di figurine miralanza, vicino alla foto
di un bambino piccolo e grasso in costume da bagno.
Quando chiude il cassetto, Mariotto ha le lacrime agli
occhi. Ha dimenticato la microbrowing sulla poltrona
grigia, e ha affrontato disarmato il percorso dal salotto al
ripostiglio. Ora torna sui suoi passi, commosso, e spegne
il grande schermo proprio mentre una rana violacea, avvenente come una pin-up-girl del passato, vince il buono
per un viaggio ipnotico nelle paludi dei fenicotteri.
Ora, a letto, Mariotto non riesce a dormire. Il suo cervello ancora si adagia in un mondo di memorie ma la
mano stringe la microbrowning, e limpianto elettronico
di sorveglianza collegato alla porta e alle finestre ronza
tranquillo. Se qualcuno tenter di forzare, limpianto
emetter urla lancinanti.
Mariotto dorme, finalmente, col cuore gonfio di pace,
dopo ore di dolcissimi ricordi.
I giorni successivi al ricevimento della lettera scorrono
tranquilli e si arrotolano attorno a se stessi uno dopo laltro sempre uguali, nellufficio dentro il bunker dellamministrazione delle acque, animato dai soliti odi di corridoio e dalle solite battaglie per la promozione a capo-ufficio. Si arrotolano in mensa puzza di pesce fritto, e nel solito autobus alla solita ora straripieno delle solite facce di
terra silenziose e impaurite, e nelle solite nottate davanti

Il signor Daini, che rispett immediatamente gli ordini


della lettera e avrebbe potato dimenticarsene, poich
stava male veramente: disoccupato, la moglie e la figlia gli
erano appena morte di male incurabile il signor Daini rispett tutto senza sorridere, e dopo un mese vinse il primo premio della lotteria nazionale, e da allora vive beato.
Tenga conto degli ammonimenti del passato. Non rida.
Non sia irrispettoso nei confronti della sorte, e la sorte le
sar benigna. Rammenti bene: una settimana di tempo a
partire da questo esatto momento.
Mariotto non crede ai suoi occhi, non crede al cervello
che ha decifrato lo scritto. Il suo sguardo ritrova il grande
schermo panoramico, dove ora un uomo e una donna si
carezzano sulla sabbia rosa di marte. Una lettera di una
catena di S. Antonio. Incredibile.
La lettera riporta alla mente un passato finito del tutto,
da tanto, tanto tempo.
Un passato di processioni (lincontro fra Jesus e la Santa
Vergine Maria, il giorno di Pasqua, e Mariotto piangeva
assieme a tanti altri che piangevano e urlavano in via Roma, sotto i portici, lungo il mare). Il buio della chiesa, incenso e confessionali; la luce del sole che illumina un
mondo dove vivere agevole e tenero; le grandi speranze
della giovinezza, presto troppo presto deluse dai fatti;
la prima notte con Elena, sulla stuoia bagnata, mentre la
risacca accompagnava il lento vai e vieni scandito dai sussurri e dalle risatine che gli riempivano lorecchio.
Esistono ancora pensa Mariotto le lettere della catena di S. Antonio. Forse allora, da qualche parte del mon-

do, c ancora qualcuno che organizza processioni, e dichiara guerra al malocchio. E perch no?
Sorride, Mariotto. Piega la lettera in quattro, e la poggia
con mano delicata nel cassetto delle reliquie del tempo
andato, su un mazzo di figurine miralanza, vicino alla foto
di un bambino piccolo e grasso in costume da bagno.
Quando chiude il cassetto, Mariotto ha le lacrime agli
occhi. Ha dimenticato la microbrowing sulla poltrona
grigia, e ha affrontato disarmato il percorso dal salotto al
ripostiglio. Ora torna sui suoi passi, commosso, e spegne
il grande schermo proprio mentre una rana violacea, avvenente come una pin-up-girl del passato, vince il buono
per un viaggio ipnotico nelle paludi dei fenicotteri.
Ora, a letto, Mariotto non riesce a dormire. Il suo cervello ancora si adagia in un mondo di memorie ma la
mano stringe la microbrowning, e limpianto elettronico
di sorveglianza collegato alla porta e alle finestre ronza
tranquillo. Se qualcuno tenter di forzare, limpianto
emetter urla lancinanti.
Mariotto dorme, finalmente, col cuore gonfio di pace,
dopo ore di dolcissimi ricordi.
I giorni successivi al ricevimento della lettera scorrono
tranquilli e si arrotolano attorno a se stessi uno dopo laltro sempre uguali, nellufficio dentro il bunker dellamministrazione delle acque, animato dai soliti odi di corridoio e dalle solite battaglie per la promozione a capo-ufficio. Si arrotolano in mensa puzza di pesce fritto, e nel solito autobus alla solita ora straripieno delle solite facce di
terra silenziose e impaurite, e nelle solite nottate davanti

allo schermo che trasmette messaggi porno, sempre uguali, ambientati su nova.
Finch una mattina Mariotto scende dalla casa protetta
e proprio davanti al portone trova un maledetto enorme
gattaccio-di-controllo-sociale col pelame nero e folto,
lelmetto di plexigas giallo infrangibile, la baffettiera dacciaio di ordinanza e gli occhi bombati e rossastri di chi
strippato per troppa cocaina. Fermo, cittadino fa il gattaccio, e Mariotto subito si immobilizza. Perch tanta
fretta? prosegue il gattaccio non mi dirai che vuoi correre subito al lavoro, eh?
Veramente, voglio davvero correre al lavoro replica
Mariotto.
Prima parlerai con pap gattaccio che ha qualcosina
da chiederti, buono cittadino... All right?
Right fa Mariotto, ormai rassegnato, vista anche lenorme Colt carica, che il servo della legge gli tiene puntata proprio sullo stomaco.
Il gattaccio si lancia in una lunga chiacchierata su certi
soggetti sociali, irrecuperabili e malvagi, e lunica cosa
chiara quasi chiara, quasi comprensibile che forse sta
indagando su Augustina, la bionda dacciaio del condominio di fronte, quella che non avrebbe paura neanche
del diavolo.
Mariotto non ha informazioni da dare. un cittadino
disattento che pensa soltanto a se stesso e non al mondo
circostante, poi non fa vita di quartiere, e ormai da troppo
tempo ha le finestre piombate, per proteggersi dalla malvagit esterna.

Mariotto non ha informazioni da dare, e quel gattaccio


non ci mette n uno n due a incazzarsi come una bestia e
a saltare addosso al cittadino che rifiuta di collaborare
con la legge e non se la sente di denunciare quella sporca
troia coperta dacciaio che ha gi fatto fuori due agenti di
controllo sociale soltanto che non ci sono prove e serve
una confessione e tu sei uno sporco verme, un caino che
finge di stare dalla parte dellordine e invece magari ogni
notte vai a leccargli la fica a quella stronza assassina e ti nascondi dietro le finestre piombate perch lo Stato non
possa osservare i tuoi sporchi traffici coi fuorilegge.
Il gattaccio colpisce, col tirapugni di ghisa fra le dita, e
con la punta della Colt, e Mariotto incassa zitto aspettando che finisca finch sviene e quando rinviene il sole
gi alto e lui tutto pestato, macellato, sanguinante, davanti al portone di casa tutto attorno silenzio, la strada
vuota, le finestre chiuse come grandi occhi neri, soltanto il
sole se ne sbatte per lui estate.
Mariotto si solleva, attento a tutte le giunture, per sentire se qualche osso non abbia ceduto ai cazzotti, ma tutto
sembra intero, solo dolorante.
Lento, si arrampica per le scale. Riapre la porta di casa e
scivola fino al bagno. Si spoglia e si infila sotto la doccia
calda; lacqua passa su di lui e scorre mista a sangue fino
allo scarico. Mariotto vomita.
Quando viene fuori dalla doccia, sta un po meglio. Si
copre col grande accappatoio bianco, in cucina si prepara
un caff forte per riacquistare spirito.
Improvvisamente sente la musica che vien fuori dallo

allo schermo che trasmette messaggi porno, sempre uguali, ambientati su nova.
Finch una mattina Mariotto scende dalla casa protetta
e proprio davanti al portone trova un maledetto enorme
gattaccio-di-controllo-sociale col pelame nero e folto,
lelmetto di plexigas giallo infrangibile, la baffettiera dacciaio di ordinanza e gli occhi bombati e rossastri di chi
strippato per troppa cocaina. Fermo, cittadino fa il gattaccio, e Mariotto subito si immobilizza. Perch tanta
fretta? prosegue il gattaccio non mi dirai che vuoi correre subito al lavoro, eh?
Veramente, voglio davvero correre al lavoro replica
Mariotto.
Prima parlerai con pap gattaccio che ha qualcosina
da chiederti, buono cittadino... All right?
Right fa Mariotto, ormai rassegnato, vista anche lenorme Colt carica, che il servo della legge gli tiene puntata proprio sullo stomaco.
Il gattaccio si lancia in una lunga chiacchierata su certi
soggetti sociali, irrecuperabili e malvagi, e lunica cosa
chiara quasi chiara, quasi comprensibile che forse sta
indagando su Augustina, la bionda dacciaio del condominio di fronte, quella che non avrebbe paura neanche
del diavolo.
Mariotto non ha informazioni da dare. un cittadino
disattento che pensa soltanto a se stesso e non al mondo
circostante, poi non fa vita di quartiere, e ormai da troppo
tempo ha le finestre piombate, per proteggersi dalla malvagit esterna.

Mariotto non ha informazioni da dare, e quel gattaccio


non ci mette n uno n due a incazzarsi come una bestia e
a saltare addosso al cittadino che rifiuta di collaborare
con la legge e non se la sente di denunciare quella sporca
troia coperta dacciaio che ha gi fatto fuori due agenti di
controllo sociale soltanto che non ci sono prove e serve
una confessione e tu sei uno sporco verme, un caino che
finge di stare dalla parte dellordine e invece magari ogni
notte vai a leccargli la fica a quella stronza assassina e ti nascondi dietro le finestre piombate perch lo Stato non
possa osservare i tuoi sporchi traffici coi fuorilegge.
Il gattaccio colpisce, col tirapugni di ghisa fra le dita, e
con la punta della Colt, e Mariotto incassa zitto aspettando che finisca finch sviene e quando rinviene il sole
gi alto e lui tutto pestato, macellato, sanguinante, davanti al portone di casa tutto attorno silenzio, la strada
vuota, le finestre chiuse come grandi occhi neri, soltanto il
sole se ne sbatte per lui estate.
Mariotto si solleva, attento a tutte le giunture, per sentire se qualche osso non abbia ceduto ai cazzotti, ma tutto
sembra intero, solo dolorante.
Lento, si arrampica per le scale. Riapre la porta di casa e
scivola fino al bagno. Si spoglia e si infila sotto la doccia
calda; lacqua passa su di lui e scorre mista a sangue fino
allo scarico. Mariotto vomita.
Quando viene fuori dalla doccia, sta un po meglio. Si
copre col grande accappatoio bianco, in cucina si prepara
un caff forte per riacquistare spirito.
Improvvisamente sente la musica che vien fuori dallo

schermo del salotto, impugna la microbrowning e striscia lungo il muro fino alla stanza principale; lo schermo
acceso. Sulla poltrona grigia, un grasso coniglio bianco
segue il ritmo battendo le zampe.
Mariotto sbuca da dietro lo stipite, gli punta contro la
micro e chiede: che cazzo ci fai, tu, in casa mia?
Tranquillissimo, il coniglio risponde la porta era aperta, paparino, tutta aperta e spalancata, e io ero stanco
morto. Poi prosegue Ih, come ti hanno conciato male,
paparino caro, proprio male.
Si solleva, il coniglio, con fare concitato e nervoso, e si
avvicina a Mariotto: ma io, paparino caro, ho il rimedio
per ogni male, povero cocco picchiato, e ti ceder un fantastico viola di Kabul dai mille sogni, in cambio di poco,
pochissimo denaro. Potrai ritirarti a sognare tranquillo
con un viola veramente fantastico e recupererai le tue
forze, e il povero pusher coniglio continuer ad arrancare
in cerca di clienti. Affare fatto?
Un altro di quegli stupidi conigli-spacciatori. Tutte a
me, oggi pensa Mariotto. Ma paga il chiesto, acchiappa il viola di Kabul speriamo non sia la solita merda tagliata con chiss cosa accompagna il coniglio alla porta
tutto inchini e cerimonie inutili e saluti untuosi e finalmente spranga, tirando un sospiro di sollievo. Finalmente al riparo. Che giornata del cazzo.
Si sdraia sulla poltrona grigia. Ingurgita il viola dai mille sogni. E lascia che le immagini dallo schermo panoramico si tuffino su di lui, a rodergli il cervello.
Da principio va tutto bene: la solita sensazione di eufo-

ria, la smemoria del dolore, la testa che pare entrata nello


schermo, a produrre colori.
Poi qualcosa cambia. Chiss che scherzo del diavolo
cera dentro quel maledetto viola. Cominciano a sorgere
brutti fantasmi: fantasmi di morte e di guerra, fantasmi di
angoscia e di angoli neri, nuvole di disperazione e paura.
Mariotto combatte per ore contro se stesso. Una lunga
spada acuminata lo perseguita in fondo a un vicolo cieco.
Il sole si spegne con un interruttore di gelatina che sfugge
fra le dita. I piedi danzano come spettri e un grasso mulatto affila un rasoio in un tugurio pieno di cimici, una
lampada gialla si infila nel cranio e un cieco dalla nascita
strappa con le unghie locchio di Mariotto.
Quando il viola sfuma lentamente nel cervello, Mariotto spossato sulla poltrona grigia. La faccia di terra ora
bianca come quella di Dio. La morte circola nel sangue
con i residui di droga.
Forse fuori sera.
Forse sera quando il sistema di allarme comincia a
ululare, e Mariotto inebetito fa per alzarsi, ma un gruppo
di pazzi ha asportato la finestra piombata e gli sta gi attorno. Augustina con una maschera di ferro rosso ma
anche un cieco la riconoscerebbe, Augustina bella guida un manipolo di disperati invasori.
Mariotto ricade arreso sulla poltrona grigia prima che
Augustina lo tramortisca con una mazzata del suo bastone da guerra.
Lo guardano. Proprio dove la mazza ha colpito, una
striscia di sangue lascia la testa di Mariotto, assieme a

schermo del salotto, impugna la microbrowning e striscia lungo il muro fino alla stanza principale; lo schermo
acceso. Sulla poltrona grigia, un grasso coniglio bianco
segue il ritmo battendo le zampe.
Mariotto sbuca da dietro lo stipite, gli punta contro la
micro e chiede: che cazzo ci fai, tu, in casa mia?
Tranquillissimo, il coniglio risponde la porta era aperta, paparino, tutta aperta e spalancata, e io ero stanco
morto. Poi prosegue Ih, come ti hanno conciato male,
paparino caro, proprio male.
Si solleva, il coniglio, con fare concitato e nervoso, e si
avvicina a Mariotto: ma io, paparino caro, ho il rimedio
per ogni male, povero cocco picchiato, e ti ceder un fantastico viola di Kabul dai mille sogni, in cambio di poco,
pochissimo denaro. Potrai ritirarti a sognare tranquillo
con un viola veramente fantastico e recupererai le tue
forze, e il povero pusher coniglio continuer ad arrancare
in cerca di clienti. Affare fatto?
Un altro di quegli stupidi conigli-spacciatori. Tutte a
me, oggi pensa Mariotto. Ma paga il chiesto, acchiappa il viola di Kabul speriamo non sia la solita merda tagliata con chiss cosa accompagna il coniglio alla porta
tutto inchini e cerimonie inutili e saluti untuosi e finalmente spranga, tirando un sospiro di sollievo. Finalmente al riparo. Che giornata del cazzo.
Si sdraia sulla poltrona grigia. Ingurgita il viola dai mille sogni. E lascia che le immagini dallo schermo panoramico si tuffino su di lui, a rodergli il cervello.
Da principio va tutto bene: la solita sensazione di eufo-

ria, la smemoria del dolore, la testa che pare entrata nello


schermo, a produrre colori.
Poi qualcosa cambia. Chiss che scherzo del diavolo
cera dentro quel maledetto viola. Cominciano a sorgere
brutti fantasmi: fantasmi di morte e di guerra, fantasmi di
angoscia e di angoli neri, nuvole di disperazione e paura.
Mariotto combatte per ore contro se stesso. Una lunga
spada acuminata lo perseguita in fondo a un vicolo cieco.
Il sole si spegne con un interruttore di gelatina che sfugge
fra le dita. I piedi danzano come spettri e un grasso mulatto affila un rasoio in un tugurio pieno di cimici, una
lampada gialla si infila nel cranio e un cieco dalla nascita
strappa con le unghie locchio di Mariotto.
Quando il viola sfuma lentamente nel cervello, Mariotto spossato sulla poltrona grigia. La faccia di terra ora
bianca come quella di Dio. La morte circola nel sangue
con i residui di droga.
Forse fuori sera.
Forse sera quando il sistema di allarme comincia a
ululare, e Mariotto inebetito fa per alzarsi, ma un gruppo
di pazzi ha asportato la finestra piombata e gli sta gi attorno. Augustina con una maschera di ferro rosso ma
anche un cieco la riconoscerebbe, Augustina bella guida un manipolo di disperati invasori.
Mariotto ricade arreso sulla poltrona grigia prima che
Augustina lo tramortisca con una mazzata del suo bastone da guerra.
Lo guardano. Proprio dove la mazza ha colpito, una
striscia di sangue lascia la testa di Mariotto, assieme a

brandelli di cervello e di scatola cranica. Assieme ai sogni


e agli incubi. Assieme alle notti e ai giorni.
C rimasto fa uno. Peccato risponde Augustina
mascherata.
Si lanciano nel saccheggio. Urla di gioia, mentre limpianto dallarme continua a ululare e lo schermo grande
del salotto a vomitare immagini.
Augustina ridente fruga dappertutto, e apre un piccolo
cassetto del ripostiglio. Sopra un mazzo di figurine miralanza, affianco alla foto di un bambino grasso, c un foglio bianco ripiegato in quattro. Augustina lo apre e legge:
Cara signorina
che leggi questa lettera in condizione illegittima. Questa
una lettera di una catena di S. Antonio. La prima lettera
della catena stata spedita dal Venezuela. Tu dovrai copiare questa lettera, a mano, in chiara grafia, ventiquattro
volte ventiquattro il numero corrisponde alle condizioni e alle colpe di chi legge. E dovrai spedirla, ventiquattro
volte ventiquattro a persone differenti. Tempo: unora.
Unora dopo Augustina cade in un agguato. Gattaccipoliziotti. Che la schiantano. Con dodici colpi di bazooka. In un vicolo del centro.
Un quadratino bianco svolazza cercando clienti: caro
signore...

Frammenti di informazioni
attorno alla vita dellarabo Ibrahim

brandelli di cervello e di scatola cranica. Assieme ai sogni


e agli incubi. Assieme alle notti e ai giorni.
C rimasto fa uno. Peccato risponde Augustina
mascherata.
Si lanciano nel saccheggio. Urla di gioia, mentre limpianto dallarme continua a ululare e lo schermo grande
del salotto a vomitare immagini.
Augustina ridente fruga dappertutto, e apre un piccolo
cassetto del ripostiglio. Sopra un mazzo di figurine miralanza, affianco alla foto di un bambino grasso, c un foglio bianco ripiegato in quattro. Augustina lo apre e legge:
Cara signorina
che leggi questa lettera in condizione illegittima. Questa
una lettera di una catena di S. Antonio. La prima lettera
della catena stata spedita dal Venezuela. Tu dovrai copiare questa lettera, a mano, in chiara grafia, ventiquattro
volte ventiquattro il numero corrisponde alle condizioni e alle colpe di chi legge. E dovrai spedirla, ventiquattro
volte ventiquattro a persone differenti. Tempo: unora.
Unora dopo Augustina cade in un agguato. Gattaccipoliziotti. Che la schiantano. Con dodici colpi di bazooka. In un vicolo del centro.
Un quadratino bianco svolazza cercando clienti: caro
signore...

Frammenti di informazioni
attorno alla vita dellarabo Ibrahim

Storia della donna

Comincia sempre cos: io passeggio su un vialetto di


ghiaia bianca quelle pietruzze che la mia memoria affianca ai nostri paesi a mare, gi al sud fiancheggiato da
siepi basse di fichi dindia, oltre le quali si vedono giardini
darance e di piccole pere rosseggianti, e di terra bruna,
smossa di recente, grassa e secca assieme, con quel profumo della terra del sole, acuto e snervante.
pomeriggio, la calura fa lenti i passi, e pesanti, mentre
il profumo della terra e degli orti stordisce, alleato a un
qualche vino bianco che accompagnava un pasto di pesci
o di tordi, un pasto che ha anticipato la passeggiata come
un rito che anticipi il sacrificio, e gi si sa, fin da principio,
quale sar la conclusione, e chi la vittima.
per questo, forse per mascherare langoscia che ho
bevuto tanto di quel vino ghiacciato, suadente, ricopriva il bicchiere con una patina, e brillava, raccogliendo sul
fondo, sul principio dei barbagli, una fetta di pesca, gialla,
soda e matura. Piccole immagini speculari. Il sole che filtrava fra le canne del loggiato.
Passeggio lungo il vialetto dei fichi dindia, sotto il sole.
Mi vedo avanzare, in questo sogno, e mentre dormo so
che il palmo delle mie mani, sudato, si stringe alle lenzuo

Storia della donna

Comincia sempre cos: io passeggio su un vialetto di


ghiaia bianca quelle pietruzze che la mia memoria affianca ai nostri paesi a mare, gi al sud fiancheggiato da
siepi basse di fichi dindia, oltre le quali si vedono giardini
darance e di piccole pere rosseggianti, e di terra bruna,
smossa di recente, grassa e secca assieme, con quel profumo della terra del sole, acuto e snervante.
pomeriggio, la calura fa lenti i passi, e pesanti, mentre
il profumo della terra e degli orti stordisce, alleato a un
qualche vino bianco che accompagnava un pasto di pesci
o di tordi, un pasto che ha anticipato la passeggiata come
un rito che anticipi il sacrificio, e gi si sa, fin da principio,
quale sar la conclusione, e chi la vittima.
per questo, forse per mascherare langoscia che ho
bevuto tanto di quel vino ghiacciato, suadente, ricopriva il bicchiere con una patina, e brillava, raccogliendo sul
fondo, sul principio dei barbagli, una fetta di pesca, gialla,
soda e matura. Piccole immagini speculari. Il sole che filtrava fra le canne del loggiato.
Passeggio lungo il vialetto dei fichi dindia, sotto il sole.
Mi vedo avanzare, in questo sogno, e mentre dormo so
che il palmo delle mie mani, sudato, si stringe alle lenzuo

la, e il mio stomaco comincia a pulsare come un cuore, e


rifiuta il cibo che poco prima ha gradito.
Ma non mi sveglierei, neanche se lo volessi fortemente,
ch il sogno mi inchioda a se stesso pi che la realt quotidiana alle sue abitudini.
Un sacrificio: io so gi come il sogno andr a finire come la notte di ieri, come la notte di natale, come le notti di
sempre anche se vorrei fuggire. Ma pi forte di me.
un prezzo da pagare, notte dopo notte, un rito che non riesco a scongiurare.
Il vialetto di ghiaia pian piano si restringe, mentre il sole
continua a battere sulla camicia bianca, larga sui seni appesantiti, e sulla gonna bianca che potrebbe anche svolazzare, tutta di pieghe, ma sta immobile nellaria senza vento, e sui sandali bianchi infantili che stringono i piedi sudati, finch non giungo agli eucaliptus, che offrono una
pausa dombra, un momento di riposo e di quiete a questa
incredibile me stessa tutta bianca e mai, nelle mie giornate, mai e poi mai riuscirei a darmi quellaria da collegiale vergine e fanciulla che quegli abiti candidi sotto il sole
danno alla me stessa del sogno.
Sotto gli eucaliptus, che hanno occupato i bordi della
striscia di ghiaia, si respira. una liberazione dal soffoco
del sole, colla testa pi concreta, meno vinosa, pi rapida
nei riflessi e nei pensieri. Il passo si mantiene pomeridiano e meridionale e estivo, con una sua interna lentezza, un
andare lento di riposo, pi riflessivo che nevrotico, passo
di vacanza.
A quel punto, recuperato appena il respiro, e appena sot-

taciuta lansia, sento alle mie spalle I Passi, che subito trasportano la leggerezza del sogno nelle oscurit dellincubo.
Potrei fermarmi, allombra, e voltarmi, per scoprire lidentit dei Passi, attenderli, e magari scambiare con loro
quattro chiacchiere, passeggiando lenti nellora della digestione.
Ma sento, in quei Passi, come una minaccia incombente, un principio di inseguimento, un nemico da cui meglio fuggire.
Il respiro mi si spezza, mentre vedo le gambe correre a
perdifiato, come mai hanno corso, per conto loro, quasi
con una propria autonoma volont, che nasce dai miei
muscoli, dalle mie ossa, dal mio corpo e dal mio fegato,
non dalla mente, che se n andata, sparita sotto il sole.
Vedo la macchia di eucaliptus, alle mie spalle, rimpicciolirsi, e scomparire gli orti e le arance.
Tutto attorno il mondo si trasformato in deserto: terra
secca e spaccata, cespugli di erba giallastra e inutile, graniti che incombono come banditi da strada, e sole dappertutto, questo sole abbacinante che dissecca lanima
della terra e degli uomini.
Corro senza pi voltarmi, mentre in lontananza sento il
passo sempre tranquillo del nemico, che non si affatica,
un piede dopo laltro con scansione da metronomo, con
regolarit datleta. Sa che la preda non potr dissolversi
nella polvere, non potr acquattarsi in questa pianura,
con questa luce odiosa.
Questa luce illumina ogni angolo, ogni scheggia di pietra, ogni insetto, ogni granello di polvere.

la, e il mio stomaco comincia a pulsare come un cuore, e


rifiuta il cibo che poco prima ha gradito.
Ma non mi sveglierei, neanche se lo volessi fortemente,
ch il sogno mi inchioda a se stesso pi che la realt quotidiana alle sue abitudini.
Un sacrificio: io so gi come il sogno andr a finire come la notte di ieri, come la notte di natale, come le notti di
sempre anche se vorrei fuggire. Ma pi forte di me.
un prezzo da pagare, notte dopo notte, un rito che non riesco a scongiurare.
Il vialetto di ghiaia pian piano si restringe, mentre il sole
continua a battere sulla camicia bianca, larga sui seni appesantiti, e sulla gonna bianca che potrebbe anche svolazzare, tutta di pieghe, ma sta immobile nellaria senza vento, e sui sandali bianchi infantili che stringono i piedi sudati, finch non giungo agli eucaliptus, che offrono una
pausa dombra, un momento di riposo e di quiete a questa
incredibile me stessa tutta bianca e mai, nelle mie giornate, mai e poi mai riuscirei a darmi quellaria da collegiale vergine e fanciulla che quegli abiti candidi sotto il sole
danno alla me stessa del sogno.
Sotto gli eucaliptus, che hanno occupato i bordi della
striscia di ghiaia, si respira. una liberazione dal soffoco
del sole, colla testa pi concreta, meno vinosa, pi rapida
nei riflessi e nei pensieri. Il passo si mantiene pomeridiano e meridionale e estivo, con una sua interna lentezza, un
andare lento di riposo, pi riflessivo che nevrotico, passo
di vacanza.
A quel punto, recuperato appena il respiro, e appena sot-

taciuta lansia, sento alle mie spalle I Passi, che subito trasportano la leggerezza del sogno nelle oscurit dellincubo.
Potrei fermarmi, allombra, e voltarmi, per scoprire lidentit dei Passi, attenderli, e magari scambiare con loro
quattro chiacchiere, passeggiando lenti nellora della digestione.
Ma sento, in quei Passi, come una minaccia incombente, un principio di inseguimento, un nemico da cui meglio fuggire.
Il respiro mi si spezza, mentre vedo le gambe correre a
perdifiato, come mai hanno corso, per conto loro, quasi
con una propria autonoma volont, che nasce dai miei
muscoli, dalle mie ossa, dal mio corpo e dal mio fegato,
non dalla mente, che se n andata, sparita sotto il sole.
Vedo la macchia di eucaliptus, alle mie spalle, rimpicciolirsi, e scomparire gli orti e le arance.
Tutto attorno il mondo si trasformato in deserto: terra
secca e spaccata, cespugli di erba giallastra e inutile, graniti che incombono come banditi da strada, e sole dappertutto, questo sole abbacinante che dissecca lanima
della terra e degli uomini.
Corro senza pi voltarmi, mentre in lontananza sento il
passo sempre tranquillo del nemico, che non si affatica,
un piede dopo laltro con scansione da metronomo, con
regolarit datleta. Sa che la preda non potr dissolversi
nella polvere, non potr acquattarsi in questa pianura,
con questa luce odiosa.
Questa luce illumina ogni angolo, ogni scheggia di pietra, ogni insetto, ogni granello di polvere.

A una svolta del sentiero, stretta fra cespugli gialli e rinsecchiti, mi tuffo di lato, striscio fra zolle dure come pietre, e pietre aguzze come lame, che strappano gli abiti e
fanno sanguinare mani e ginocchia.
Striscio con la velocit di una indemoniata, fino a che
trovo riparo fra due alti massi che mi cullano fra loro come buoni fratelli, e mi coprono come le valve di unostrica; il mio cuore, direbbe il poeta, frulla in petto come
unallodola fra le mani, terrorizzato e stanco.
Quei Passi, di lontano, giungono forti e regolari.
Il loro suono viaggia portato dalla terra e mi raggiunge,
mentre affanno, e viene sempre pi forte, sempre pi vicino, sempre con la stessa inesorabile cadenza. Quando li
sento prossimi cerco di fondermi con la terra, nascondo il
viso sulle pietre, vorrei dimenticare il mondo.
Ma i passi abbandonano il sentiero, seguendo una traccia evidente, calpestano lerba tuttattorno, che si spezza
con crepitii secchi.
Improvvisamente lo sento, su di me, incombente ansimante anche lui, malgrado la regolarit dei passi muto e
minaccioso.
Tremo, sulla terra, e mi accuccio su me stessa, come una
bambina sola nel letto e nella casa e nella notte, singhiozzante.
Lui non parla, mi si aggrappa alle spalle, mi trascina allaperto, lontano dai massi che non sono intervenuti a
proteggermi , mi spoglia quasi con delicatezza, mentre
cerco di urlare, e la mia voce, i richiami flebili e soffocati
dallangoscia, non richiamano un cristo, sotto questo sole
desolato, in questo deserto.

Poi lo vedo in viso: non brutto, ma c nei suoi occhi


una scintilla laida, oscena, inumana. Vuota.
Resisto. Anche se resistere significa soltanto stringere le
gambe una contro laltra, rinchiudendo fra le gambe, in
quella piccola fetta del mio corpo che dovrebbe servire al
gioco e allamore, tutta la forza che mi rimane.
Cercando la salvezza nella rigida immobilit dei morti.
Vedo, tutto attorno, piccoli aguzzi sassi bianchi, che potrebbero tranquillamente stare nel pugno, e colpire la
tempia del mio nemico fino a farla sanguinare, per intimorirlo, o per ucciderlo.
Ma il braccio, abbrancato alla terra, raggricciato su se
stesso come un arto di metallo, come un uncino, rifiuta di
muoversi: vive, anche lui, il terrore: nella immobilit.
Sento le sue mani, grandi e calde, che lentamente si fanno forza fino al mio ventre, come due pale che scavino
nella pietra, due orrendi esseri macchinosi e sudati che
brancicano il mio corpo.
Il suo fiato di vino, di tabacco, di fatica, di aglio, mi copre il volto, mi annebbia, mi nasconde il cielo, mentre lui
riesce ad entrarmi dentro con furia di cane, e luomo pesante mi schiaccia sulla terra che doveva servirmi a difesa.
E penso. A Ibrahim che rifiutava con dolcezza di sprecare il suo seme nella mia pancia, mentre mi sussurrava allorecchio frasi smozzicate. A Ibrahim che mi raccontava
come il ventre di una donna sia il pozzo senza fondo da
cui viene fuori tutta la malvagit del mondo. A Ibrahim
che forzava la mia volont, che abusava di me, ed ero sua
complice, avvelenando le memorie della mia infanzia

A una svolta del sentiero, stretta fra cespugli gialli e rinsecchiti, mi tuffo di lato, striscio fra zolle dure come pietre, e pietre aguzze come lame, che strappano gli abiti e
fanno sanguinare mani e ginocchia.
Striscio con la velocit di una indemoniata, fino a che
trovo riparo fra due alti massi che mi cullano fra loro come buoni fratelli, e mi coprono come le valve di unostrica; il mio cuore, direbbe il poeta, frulla in petto come
unallodola fra le mani, terrorizzato e stanco.
Quei Passi, di lontano, giungono forti e regolari.
Il loro suono viaggia portato dalla terra e mi raggiunge,
mentre affanno, e viene sempre pi forte, sempre pi vicino, sempre con la stessa inesorabile cadenza. Quando li
sento prossimi cerco di fondermi con la terra, nascondo il
viso sulle pietre, vorrei dimenticare il mondo.
Ma i passi abbandonano il sentiero, seguendo una traccia evidente, calpestano lerba tuttattorno, che si spezza
con crepitii secchi.
Improvvisamente lo sento, su di me, incombente ansimante anche lui, malgrado la regolarit dei passi muto e
minaccioso.
Tremo, sulla terra, e mi accuccio su me stessa, come una
bambina sola nel letto e nella casa e nella notte, singhiozzante.
Lui non parla, mi si aggrappa alle spalle, mi trascina allaperto, lontano dai massi che non sono intervenuti a
proteggermi , mi spoglia quasi con delicatezza, mentre
cerco di urlare, e la mia voce, i richiami flebili e soffocati
dallangoscia, non richiamano un cristo, sotto questo sole
desolato, in questo deserto.

Poi lo vedo in viso: non brutto, ma c nei suoi occhi


una scintilla laida, oscena, inumana. Vuota.
Resisto. Anche se resistere significa soltanto stringere le
gambe una contro laltra, rinchiudendo fra le gambe, in
quella piccola fetta del mio corpo che dovrebbe servire al
gioco e allamore, tutta la forza che mi rimane.
Cercando la salvezza nella rigida immobilit dei morti.
Vedo, tutto attorno, piccoli aguzzi sassi bianchi, che potrebbero tranquillamente stare nel pugno, e colpire la
tempia del mio nemico fino a farla sanguinare, per intimorirlo, o per ucciderlo.
Ma il braccio, abbrancato alla terra, raggricciato su se
stesso come un arto di metallo, come un uncino, rifiuta di
muoversi: vive, anche lui, il terrore: nella immobilit.
Sento le sue mani, grandi e calde, che lentamente si fanno forza fino al mio ventre, come due pale che scavino
nella pietra, due orrendi esseri macchinosi e sudati che
brancicano il mio corpo.
Il suo fiato di vino, di tabacco, di fatica, di aglio, mi copre il volto, mi annebbia, mi nasconde il cielo, mentre lui
riesce ad entrarmi dentro con furia di cane, e luomo pesante mi schiaccia sulla terra che doveva servirmi a difesa.
E penso. A Ibrahim che rifiutava con dolcezza di sprecare il suo seme nella mia pancia, mentre mi sussurrava allorecchio frasi smozzicate. A Ibrahim che mi raccontava
come il ventre di una donna sia il pozzo senza fondo da
cui viene fuori tutta la malvagit del mondo. A Ibrahim
che forzava la mia volont, che abusava di me, ed ero sua
complice, avvelenando le memorie della mia infanzia

quando il sole buono accompagnava le ombre dei giochi,


e un corpo di fanciullo era una meraviglia da scoprire
dentro un antico armadio.
A Ibrahim che mi costringeva ad accettare il suo desiderio, e a negare il mio. A Ibrahim del deserto, che ho pugnalato in una serata di primavera, profumata di menta,
nel souk di Tetouan, perch odiavo lui e il suo amore.
Penso a Ibrahim.
Il mio corpo, ora, in questo sogno, anche il mio corpo
mi sembra complice e laido. Vittima di un sacrificio cui si
presta senza lamenti non per il piacere, cristo, ma per
sopportazione pura e semplice, per abitudine lungamente meditata, in espiazione di colpe mai commesse.
Tutto si mischia col faccione tondo della bestia che mi
nasconde il cielo e si muove fra le mie viscere mentre la
mia anima assente e il mio corpo sacrificale trova ancora
salvezza nellimmobilit rigida della morte.
Gli ultimi sussulti, e si ritrae col suo coso nauseante, ormai spento.
I suoi occhi non mi guardano pi. Cercano gi ora di dimenticare, di immaginare che le cose siano andate in tuttaltro modo.
Le sue orecchie paiono cercare tracce di qualche mio
gemito di piacere perduto, per oscurare la memoria del
pianto e delle maledizioni.
Volta le spalle e cerca, lanciando i suoi occhi, oltre lorizzonte di andar via da se stesso e dai suoi atti.
Ora, mentre voltato piscia in silenzio, ora potrei ancora
una volta sollevarmi dalla terra su cui sono scomparsa, e

ancora una volta impugnare il lungo coltello per piantarglielo in gola, e star l, ancora una volta, mentre il sangue
ribolle sulla lama e tutte le colpe spariscono in una immensa e tardiva piet.
Ma c sempre un Ibrahim nei miei sogni, e ucciderli
tutti non serve.
Ora sono stanca e vorrei dormire. Cambiando sogno,
una volta tanto.

quando il sole buono accompagnava le ombre dei giochi,


e un corpo di fanciullo era una meraviglia da scoprire
dentro un antico armadio.
A Ibrahim che mi costringeva ad accettare il suo desiderio, e a negare il mio. A Ibrahim del deserto, che ho pugnalato in una serata di primavera, profumata di menta,
nel souk di Tetouan, perch odiavo lui e il suo amore.
Penso a Ibrahim.
Il mio corpo, ora, in questo sogno, anche il mio corpo
mi sembra complice e laido. Vittima di un sacrificio cui si
presta senza lamenti non per il piacere, cristo, ma per
sopportazione pura e semplice, per abitudine lungamente meditata, in espiazione di colpe mai commesse.
Tutto si mischia col faccione tondo della bestia che mi
nasconde il cielo e si muove fra le mie viscere mentre la
mia anima assente e il mio corpo sacrificale trova ancora
salvezza nellimmobilit rigida della morte.
Gli ultimi sussulti, e si ritrae col suo coso nauseante, ormai spento.
I suoi occhi non mi guardano pi. Cercano gi ora di dimenticare, di immaginare che le cose siano andate in tuttaltro modo.
Le sue orecchie paiono cercare tracce di qualche mio
gemito di piacere perduto, per oscurare la memoria del
pianto e delle maledizioni.
Volta le spalle e cerca, lanciando i suoi occhi, oltre lorizzonte di andar via da se stesso e dai suoi atti.
Ora, mentre voltato piscia in silenzio, ora potrei ancora
una volta sollevarmi dalla terra su cui sono scomparsa, e

ancora una volta impugnare il lungo coltello per piantarglielo in gola, e star l, ancora una volta, mentre il sangue
ribolle sulla lama e tutte le colpe spariscono in una immensa e tardiva piet.
Ma c sempre un Ibrahim nei miei sogni, e ucciderli
tutti non serve.
Ora sono stanca e vorrei dormire. Cambiando sogno,
una volta tanto.

Storia del boxeur

A Quartu, sterminata appendice cagliaritana, palazzoni tutti grigi eguali, o leggiadre villette isolate fra strade di
fango, abusive, sul bordo dello stagno, o vecchie case di
paese, con la lolla e il patio dove le donne in costume ancora liquidano il tempo scegliendo le mandorle buone,
per i dolci, da quelle cattive.
A Quartu si mangia bene: cibi grassi e di sostanza,
come dicono: molti dolci e molta carne.
Antioco Casu, con la sua bottega di formaggi, non era
fra i pi ricchi di Quartu, ma stava, comunque, molto
lontano dai pi poveri. Per cui il suo unico figlio, Marcello, sempre stato un bambino ben nutrito. Dal padre ha
preso anche una struttura fisica possente: gambe grosse e
corte, culo basso e stretto, spalle larghe e bicipiti poderosi. Sollevava una cassa di forme di pecorino con la stessa
facilit di uno scaricatore del porto: un piccolo forzuto.
Non deve quindi meravigliare se, nei giochi fra adolescenti, la sua presenza bastasse da sola a calmare certi spiriti bollenti di ragazzotti prevaricatori, n che bastasse
vederlo prepararsi a una scazzottata il viso serio e compunto, le gambette mobili e le mani tese in avanti per
scoraggiare i pi pervicaci rompiscatole.
cresciuto con attorno una fama di forza e di invinci

Storia del boxeur

A Quartu, sterminata appendice cagliaritana, palazzoni tutti grigi eguali, o leggiadre villette isolate fra strade di
fango, abusive, sul bordo dello stagno, o vecchie case di
paese, con la lolla e il patio dove le donne in costume ancora liquidano il tempo scegliendo le mandorle buone,
per i dolci, da quelle cattive.
A Quartu si mangia bene: cibi grassi e di sostanza,
come dicono: molti dolci e molta carne.
Antioco Casu, con la sua bottega di formaggi, non era
fra i pi ricchi di Quartu, ma stava, comunque, molto
lontano dai pi poveri. Per cui il suo unico figlio, Marcello, sempre stato un bambino ben nutrito. Dal padre ha
preso anche una struttura fisica possente: gambe grosse e
corte, culo basso e stretto, spalle larghe e bicipiti poderosi. Sollevava una cassa di forme di pecorino con la stessa
facilit di uno scaricatore del porto: un piccolo forzuto.
Non deve quindi meravigliare se, nei giochi fra adolescenti, la sua presenza bastasse da sola a calmare certi spiriti bollenti di ragazzotti prevaricatori, n che bastasse
vederlo prepararsi a una scazzottata il viso serio e compunto, le gambette mobili e le mani tese in avanti per
scoraggiare i pi pervicaci rompiscatole.
cresciuto con attorno una fama di forza e di invinci

bilit, quasi mai sperimentata: i pi si intimorivano alla


sua sola presenza e al vedere quei suoi occhi castani incupirsi e stringersi fino a diventare piccoli piccoli.
Marcello aveva appena quattordici anni, che Tonino
Perria gli ha messo gli occhi addosso. Tonino Perria era
un preparatore di boxe, e scopritore di talenti: era stato
lui a mettere sulla strada dei pugni Lillino Pes, campione
dItalia dei leggeri nel 58, che soltanto per un soffio, e per
non aver trovato un manager che ne comprendesse la
grandezza, non era riuscito a battersi per il titolo europeo.
Lillino, ora che anziano, diventato sfasciacarrozze:
ha il suo negozio al bivio di Dolianova un enorme recinto pieno di centinaia di carcasse e, se passate da quelle parti, guardatelo mentre molla certe martellate sulla lamiera...
Tonino Perria coi boxeur ci sapeva fare: aveva fiuto,
nello scegliersi i ragazzi da instradare, e inesauribile pazienza nel prepararli. La sua lamentela preferita, al bar di
Saiu, era che quelli che hanno veramente la stoffa, non
gli piace di allenarsi; e quelli che gli piace di allenarsi, sono ciappuzzi...
Quando Tonino ha messo gli occhi su Marcello, ha fatto
una scommessa con se stesso: questo ha pensato come
minimo lo faccio campione sardo... e, se ha voglia, chiss
dove arriva.
Marcello ha cominciato a frequentare la vecchia palestra Stella Rossa, da cui erano venuti fuori fiore di talenti.
La palestra stava al piano terra di una sezione del Parti-

to Comunista; al piano di sopra cerano gli spogliatoi; le


rare volte in cui la sezione doveva funzionare da sezione,
bastava staccare dai ganci i punging-ball e i sacchi, e sistemare in bellordine certe sedie che stavano accatastate in
un angolo; il ring, privato delle corde, era unottima presidenza sopraelevata; mentre i quartesi discutevano di
politica, Perria e i suoi ragazzi facevano footing continuato, a sgambettare per i campi. Questo, per, appunto, accadeva molto raramente. Cera, naturalmente, lobbligo
non scritto, ma molto rigoroso per gli aspiranti pugili,
di tesserarsi al grande partito: lo facevano volentieri. Non
che avessero molta simpatia per la parrocchia e per le
beghine.
Tonino Perria, convinto di avere un diamante fra le mani, si dato a sbozzarlo con amore, perch splendesse nel
suo vero valore: ha concentrato su di lui tutti i suoi sforzi,
tutta la sua scienza. E i risultati gli davano ragione: ben
presto Marcello diventato veloce di gambe, mobile sul
tronco, abile nelluno-due e veloce col sinistro: pareva nato per affibbiare cazzotti al prossimo.
Il primo incontro da dilettante lo farai a luglio, alla festa dellUnit ha detto un giorno di maggio Perria al suo
allievo, ormai scozzonato e pronto a cominciare la scalata
verso la gloria.
Quegli ultimi due mesi stato richiamato in servizio
persino Lillino la vecchia gloria per fare da sparring allastro nascente. Lillino ha lavorato come si deve e qualche giorno prima dellincontro ha chiamato da parte Perria e gli ha detto: il ragazzo classe ne ha, tanta, e pu an-

bilit, quasi mai sperimentata: i pi si intimorivano alla


sua sola presenza e al vedere quei suoi occhi castani incupirsi e stringersi fino a diventare piccoli piccoli.
Marcello aveva appena quattordici anni, che Tonino
Perria gli ha messo gli occhi addosso. Tonino Perria era
un preparatore di boxe, e scopritore di talenti: era stato
lui a mettere sulla strada dei pugni Lillino Pes, campione
dItalia dei leggeri nel 58, che soltanto per un soffio, e per
non aver trovato un manager che ne comprendesse la
grandezza, non era riuscito a battersi per il titolo europeo.
Lillino, ora che anziano, diventato sfasciacarrozze:
ha il suo negozio al bivio di Dolianova un enorme recinto pieno di centinaia di carcasse e, se passate da quelle parti, guardatelo mentre molla certe martellate sulla lamiera...
Tonino Perria coi boxeur ci sapeva fare: aveva fiuto,
nello scegliersi i ragazzi da instradare, e inesauribile pazienza nel prepararli. La sua lamentela preferita, al bar di
Saiu, era che quelli che hanno veramente la stoffa, non
gli piace di allenarsi; e quelli che gli piace di allenarsi, sono ciappuzzi...
Quando Tonino ha messo gli occhi su Marcello, ha fatto
una scommessa con se stesso: questo ha pensato come
minimo lo faccio campione sardo... e, se ha voglia, chiss
dove arriva.
Marcello ha cominciato a frequentare la vecchia palestra Stella Rossa, da cui erano venuti fuori fiore di talenti.
La palestra stava al piano terra di una sezione del Parti-

to Comunista; al piano di sopra cerano gli spogliatoi; le


rare volte in cui la sezione doveva funzionare da sezione,
bastava staccare dai ganci i punging-ball e i sacchi, e sistemare in bellordine certe sedie che stavano accatastate in
un angolo; il ring, privato delle corde, era unottima presidenza sopraelevata; mentre i quartesi discutevano di
politica, Perria e i suoi ragazzi facevano footing continuato, a sgambettare per i campi. Questo, per, appunto, accadeva molto raramente. Cera, naturalmente, lobbligo
non scritto, ma molto rigoroso per gli aspiranti pugili,
di tesserarsi al grande partito: lo facevano volentieri. Non
che avessero molta simpatia per la parrocchia e per le
beghine.
Tonino Perria, convinto di avere un diamante fra le mani, si dato a sbozzarlo con amore, perch splendesse nel
suo vero valore: ha concentrato su di lui tutti i suoi sforzi,
tutta la sua scienza. E i risultati gli davano ragione: ben
presto Marcello diventato veloce di gambe, mobile sul
tronco, abile nelluno-due e veloce col sinistro: pareva nato per affibbiare cazzotti al prossimo.
Il primo incontro da dilettante lo farai a luglio, alla festa dellUnit ha detto un giorno di maggio Perria al suo
allievo, ormai scozzonato e pronto a cominciare la scalata
verso la gloria.
Quegli ultimi due mesi stato richiamato in servizio
persino Lillino la vecchia gloria per fare da sparring allastro nascente. Lillino ha lavorato come si deve e qualche giorno prima dellincontro ha chiamato da parte Perria e gli ha detto: il ragazzo classe ne ha, tanta, e pu an-

cora crescere. Ma non mi piace: non sa essere cattivo, tira


come fosse un gioco: non ci mette rabbia, n forza.
Perria ha sorriso, e ha risposto: aspetta che qualcuno
gli faccia male sul serio, e vedrai la rabbia, come viene fuori. Non pretenderai che si scateni contro di te, che potresti
essere suo padre, e sei anche il suo idolo?
Sar... ha risposto Lillino, e se n tornato a sfasciare
automobili.
Lavversario era un certo Rodolfo Senese, di Lunamatrona, al decimo incontro da dilettante sei vinti ai punti,
quattro perduti che con la borsa di duecentomila lire si
sarebbe comprato la Vespa per portare in campagna linnamorata, e poi si sarebbe ritirato a coltivare carciofi, un
ottimo mestiere, il pi confacente alla sua personalit...
un avversario adatto a un pivellino da sverginare, insomma: abbastanza esperto, per impegnarlo, abbastanza
scarso, per non impegnarlo troppo, abbastanza scafato da
sapere che cinque incontri perduti su undici lundicesimo anche ultimo, fuori casa, perdipi non gli avrebbero
rovinato la digestione.
Cera tutta Quartu, attorno al ring, sistemato al centro
della piazza grande, su cui fino a mezzora prima si era esibito il famoso complesso pop i volponi. I primi incontri
sono volati via fra le risate e le urla, senza passione: erano
tutta gente di fuori, i pugili che si fronteggiavano; senza
ambizioni e senza meriti: con in testa lidea di guadagnarsi la pagnotta con meno colpi in faccia possibile.
Un urlo poderoso ha salutato larrivo delleroe locale,
bardato con la tunica bianca ornata di stella rossa ricama-

ta da una vecchia militante che coi lavori di quel genere


esprimeva il suo amore per il partito, ed era diventata bravissima a fare le stelle, appunto, le falci e i martelli e in
privato ricamava rose sulle lenzuola degli sposini, perch
si deve pur lavorare, per vivere.
Lincontro era sui tre round. La misura-ragazzini.
Marcello si mosso bene, durante il primo: arrivava improvviso al mento e allo stomaco dellavversario, con colpi belli e puliti ma sfibrati, senza mordente; Senese resisteva con bella baldanza, e nellintervallo ha pensato che
forse poteva chiudere anche con sette vittorie, su undici, e
che quindi tanto valeva cercare di forzare e di ripagare il
pubblico e lorganizzazione che gli permettevano lacquisto della Vespa.
Nel secondo round Senese, con malagrazia evidente, si
fatto sotto e, pur prendendo colpi dati in bello stile,
troppo leggeri per, riuscito a menare un po di botte:
con una specie di manata goffa ma pesante ha incocciato il
mento di Marcello, che ha vacillato sulle gambe, per un
attimo.
Nellultimo intervallo Perria ha sussurrato allorecchio
del suo protetto: guarda che il bastardo non vuole fare
solo esibizione... ancora un po e ti stende... picchia con
cattiveria... magari gli stai sul cazzo perch sei pi bravo,
e lo vede... non risparmiarlo...
Il terzo round si aperto con Senese scatenato, che, abbandonata ogni precauzione difensiva, picchiava a due
mani, a testa bassa, cercando un tantino di gloria, tardiva.
Marcello ha continuato con andatura graziosa e leggera

cora crescere. Ma non mi piace: non sa essere cattivo, tira


come fosse un gioco: non ci mette rabbia, n forza.
Perria ha sorriso, e ha risposto: aspetta che qualcuno
gli faccia male sul serio, e vedrai la rabbia, come viene fuori. Non pretenderai che si scateni contro di te, che potresti
essere suo padre, e sei anche il suo idolo?
Sar... ha risposto Lillino, e se n tornato a sfasciare
automobili.
Lavversario era un certo Rodolfo Senese, di Lunamatrona, al decimo incontro da dilettante sei vinti ai punti,
quattro perduti che con la borsa di duecentomila lire si
sarebbe comprato la Vespa per portare in campagna linnamorata, e poi si sarebbe ritirato a coltivare carciofi, un
ottimo mestiere, il pi confacente alla sua personalit...
un avversario adatto a un pivellino da sverginare, insomma: abbastanza esperto, per impegnarlo, abbastanza
scarso, per non impegnarlo troppo, abbastanza scafato da
sapere che cinque incontri perduti su undici lundicesimo anche ultimo, fuori casa, perdipi non gli avrebbero
rovinato la digestione.
Cera tutta Quartu, attorno al ring, sistemato al centro
della piazza grande, su cui fino a mezzora prima si era esibito il famoso complesso pop i volponi. I primi incontri
sono volati via fra le risate e le urla, senza passione: erano
tutta gente di fuori, i pugili che si fronteggiavano; senza
ambizioni e senza meriti: con in testa lidea di guadagnarsi la pagnotta con meno colpi in faccia possibile.
Un urlo poderoso ha salutato larrivo delleroe locale,
bardato con la tunica bianca ornata di stella rossa ricama-

ta da una vecchia militante che coi lavori di quel genere


esprimeva il suo amore per il partito, ed era diventata bravissima a fare le stelle, appunto, le falci e i martelli e in
privato ricamava rose sulle lenzuola degli sposini, perch
si deve pur lavorare, per vivere.
Lincontro era sui tre round. La misura-ragazzini.
Marcello si mosso bene, durante il primo: arrivava improvviso al mento e allo stomaco dellavversario, con colpi belli e puliti ma sfibrati, senza mordente; Senese resisteva con bella baldanza, e nellintervallo ha pensato che
forse poteva chiudere anche con sette vittorie, su undici, e
che quindi tanto valeva cercare di forzare e di ripagare il
pubblico e lorganizzazione che gli permettevano lacquisto della Vespa.
Nel secondo round Senese, con malagrazia evidente, si
fatto sotto e, pur prendendo colpi dati in bello stile,
troppo leggeri per, riuscito a menare un po di botte:
con una specie di manata goffa ma pesante ha incocciato il
mento di Marcello, che ha vacillato sulle gambe, per un
attimo.
Nellultimo intervallo Perria ha sussurrato allorecchio
del suo protetto: guarda che il bastardo non vuole fare
solo esibizione... ancora un po e ti stende... picchia con
cattiveria... magari gli stai sul cazzo perch sei pi bravo,
e lo vede... non risparmiarlo...
Il terzo round si aperto con Senese scatenato, che, abbandonata ogni precauzione difensiva, picchiava a due
mani, a testa bassa, cercando un tantino di gloria, tardiva.
Marcello ha continuato con andatura graziosa e leggera

e schivava bene, e colpiva i punti deboli dellaltro ancor


meglio, ma con le mani di burro finch non si trovato
stretto allangolo dallaggressivit di quello, che continuava il suo onestissimo lavoro di spaccapietre; forse
stato per spostarselo di torno, ch si sentiva infastidito;
forse sono state le urla di incoraggiamento del pubblico
amico che prima di abbandonarsi ai fischi della delusione gettava lanima nellultima speranza; forse stato un
errore nello spostare il tronco; forse stata soltanto la voglia di tornare al centro del ring per riprendere la danza
interrotta, fatto sta che Marcello ha mollato un diretto
che ha colpito Rodolfo Senese di Lunamatrona in pieno
trance agonistico, scatenato verso la vittoria, privo di qualunque difesa proprio fra il naso e gli occhi; un diretto
che arrivato come una martellata di Lillino sui cassoni
degli autocarri: bestiale, spaccatutto, ruvido, smisurato.
Senese si svegliato sotto il ring, un quarto dora dopo,
mentre il suo manager gli gettava secchiate dacqua sul viso, e ha chiesto le duecentomila prima di sapere che era
crollato come una pera matura fra le urla di giubilo di migliaia di quartesi.
Perria ha ripensato spesso allavvertimento di Lillino,
nei due anni successivi: non ci mette n rabbia n forza, aveva detto il campione. Era proprio vero: Marcello
aveva vinto altri sette incontri, tutti contro gente in disarmo, e sempre ai punti, dopo il primo clamoroso knockout, e aveva vinto soprattutto grazie al bello stile, alle
mosse giuste e coordinate: ma, dietro le mosse, non cera
il pugile.

Un vincitore fisso e con quello stile non poteva comunque non arrivare a battersi per il titolo regionale; e ci
arrivato, sullonda della danza pi che su quella dellanima.
Se vinci il titolo regionale gli ha promesso Perria
tempo un anno e, parola, ti faccio combattere per quello
italiano... e fra due anni, per il professionismo, ti affido a
Branchini.
Promessa allettante, perch Branchini ha accompagnato decine di veri campioni, e qualcuno fino al titolo mondiale.
Ma, cazzo, ragazzo mio, bisogna che ti decidi: sul ring
ci vai per picchiare, e per picchiare sul serio, colla bava alla bocca devi picchiare, come fosse una guerra.
Non una guerra rispondeva Marcello e, comunque, vinco anche cos, quindi...
Finch dura, ragazzo ha avvisato, Perria finch dura. Il giorno che sbatti addosso a uno che non si fa fregare
dalle sgambettate, e che te le d sul serio, quel giorno, o ti
metti a combattere o le prendi brutte, le prendi.
Sorrideva, Marcello. Fino a quellincontro per il titolo,
contro Mariolino Atzei, di Monastir; era imbattuto, Mariolino, e con un curriculum ricco di sopracciglia spaccate
e ripestate e di pietrate nello stomaco ai tanti che lavevano trovato sulla loro strada. Era anche un violento: uno
che al caff Torino, quel bar proprio sotto i portici, dove si
raduna tutta la gente che non ha paura delle risse, una
notte, provocato da un tale famoso per saper usare i denti
e il coltello, lo aveva invitato a spostarsi dalla luce: andia-

e schivava bene, e colpiva i punti deboli dellaltro ancor


meglio, ma con le mani di burro finch non si trovato
stretto allangolo dallaggressivit di quello, che continuava il suo onestissimo lavoro di spaccapietre; forse
stato per spostarselo di torno, ch si sentiva infastidito;
forse sono state le urla di incoraggiamento del pubblico
amico che prima di abbandonarsi ai fischi della delusione gettava lanima nellultima speranza; forse stato un
errore nello spostare il tronco; forse stata soltanto la voglia di tornare al centro del ring per riprendere la danza
interrotta, fatto sta che Marcello ha mollato un diretto
che ha colpito Rodolfo Senese di Lunamatrona in pieno
trance agonistico, scatenato verso la vittoria, privo di qualunque difesa proprio fra il naso e gli occhi; un diretto
che arrivato come una martellata di Lillino sui cassoni
degli autocarri: bestiale, spaccatutto, ruvido, smisurato.
Senese si svegliato sotto il ring, un quarto dora dopo,
mentre il suo manager gli gettava secchiate dacqua sul viso, e ha chiesto le duecentomila prima di sapere che era
crollato come una pera matura fra le urla di giubilo di migliaia di quartesi.
Perria ha ripensato spesso allavvertimento di Lillino,
nei due anni successivi: non ci mette n rabbia n forza, aveva detto il campione. Era proprio vero: Marcello
aveva vinto altri sette incontri, tutti contro gente in disarmo, e sempre ai punti, dopo il primo clamoroso knockout, e aveva vinto soprattutto grazie al bello stile, alle
mosse giuste e coordinate: ma, dietro le mosse, non cera
il pugile.

Un vincitore fisso e con quello stile non poteva comunque non arrivare a battersi per il titolo regionale; e ci
arrivato, sullonda della danza pi che su quella dellanima.
Se vinci il titolo regionale gli ha promesso Perria
tempo un anno e, parola, ti faccio combattere per quello
italiano... e fra due anni, per il professionismo, ti affido a
Branchini.
Promessa allettante, perch Branchini ha accompagnato decine di veri campioni, e qualcuno fino al titolo mondiale.
Ma, cazzo, ragazzo mio, bisogna che ti decidi: sul ring
ci vai per picchiare, e per picchiare sul serio, colla bava alla bocca devi picchiare, come fosse una guerra.
Non una guerra rispondeva Marcello e, comunque, vinco anche cos, quindi...
Finch dura, ragazzo ha avvisato, Perria finch dura. Il giorno che sbatti addosso a uno che non si fa fregare
dalle sgambettate, e che te le d sul serio, quel giorno, o ti
metti a combattere o le prendi brutte, le prendi.
Sorrideva, Marcello. Fino a quellincontro per il titolo,
contro Mariolino Atzei, di Monastir; era imbattuto, Mariolino, e con un curriculum ricco di sopracciglia spaccate
e ripestate e di pietrate nello stomaco ai tanti che lavevano trovato sulla loro strada. Era anche un violento: uno
che al caff Torino, quel bar proprio sotto i portici, dove si
raduna tutta la gente che non ha paura delle risse, una
notte, provocato da un tale famoso per saper usare i denti
e il coltello, lo aveva invitato a spostarsi dalla luce: andia-

mo in via Napoli ha detto Mariolino che non c la pula,


e siamo tranquilli, e ti posso spaccare il culo come si deve
e, seguiti da un codazzo di magnaccia e spaccamontagne
curiosi, hanno raggiunto via Napoli. Se non glielo tolgono
dalle mani, a Mariolino, quel tale, ci lascia la pelle sotto
due mani che sembrano pietre e che non hanno paura dei
coltelli come non hanno paura dei fantasmi.
La sera, del combattimento per il titolo, al palazzetto
dello Sport di Cagliari, cerano cinquemila persone non
per Marcello e Mariolino, dilettanti, di contorno ma per
leuropeo-professionisti dei gallo, dove combatteva Piero
Rollo, eroe popolare, che quella volta le ha prese, mi pare,
da un francese nero come lafrica.
Il primo round Marcello si tenuto fuori tiro con calma
e eleganza: il pubblico accompagnava le sue finte con applausi convinti. Il secondo, Marcello si portato pi sotto, e ha colpito. Ma gli applausi per la delizia di quel muoversi di mani hanno spaventato Mariolino quanto le conseguenze delle botte incassate: praticamente zero.
Il terzo round stato massacro. Mariolino ha picchiato
sul viso grassotto e pacioso di Marcello fino a farlo diventare unaffiche di propaganda contro la guerra: cos la
guerra riduce gli essere umani: con le labbra che da due
diventano quattro; con gli occhi colore della notte che si
mescolano alle guance e al sangue che ha preso il posto
del naso, col naso perduto chiss dove, fra brandelli nerastri di pelle sfatta.
Non caduto, Marcello, e non si piegato sulle ginocchia. Se non sapeva darle, sapeva per prenderle: incassa-

va i cazzotti come fossero caramelle, e soltanto la sua danza pareva appesantita. Avrebbe proseguito fino alla fine,
senza cadere, con quella struttura da uomo di ferro, se
non fosse intervenuto un arbitro benevolo a decretare il
knock-out tecnico. Questo ragazzo non vede pi un cazzo ha detto a Perria ha sangue dappertutto, fino agli occhi. Lo mandiamo a casa.
Dopo questa dura, dura lezione, Tonino Perria ha perduto le speranze ma un peccato ha detto a Lillino
perch, se volesse, sarebbe un dio e Marcello che evidentemente non voleva ha chiuso con la carriera agonistica, e se n tornato alla bottega paterna, a scaricare casse di formaggio, come niente fosse.
Viveva i suoi sedici anni circondato dal rispetto generale: aveva smesso di boxare, ma la faccia sfigurata, e il ricordo delle tante vittorie, formavano come uno scudo fra
lui e gli altri; lo si trattava coi guanti; ogni sua richiesta di
favore era quasi un ordine, per chiunque... non si sa mai
che decida di mollarmi una manata.
stata grande quindi, anni dopo, la sorpresa dei rispettosi concittadini quando il diciannovenne Marcello apparso sulle pagine di cronaca nera del quotidiano cagliaritano: lavevano preso mentre tentava di carezzare le cosce
e il cazzo di un biondino, in un cinema del centro. Il biondino aveva urlato: le luci si erano accese in un attimo, e i
numerosi spettatori di Lucy a gambe aperte avevano visto le maschere che fermavano leggermente impaurite,
invero quellomaccione dallaspetto tuttaltro che equivoco, che si lasciato condurre pacificamente in questu-

mo in via Napoli ha detto Mariolino che non c la pula,


e siamo tranquilli, e ti posso spaccare il culo come si deve
e, seguiti da un codazzo di magnaccia e spaccamontagne
curiosi, hanno raggiunto via Napoli. Se non glielo tolgono
dalle mani, a Mariolino, quel tale, ci lascia la pelle sotto
due mani che sembrano pietre e che non hanno paura dei
coltelli come non hanno paura dei fantasmi.
La sera, del combattimento per il titolo, al palazzetto
dello Sport di Cagliari, cerano cinquemila persone non
per Marcello e Mariolino, dilettanti, di contorno ma per
leuropeo-professionisti dei gallo, dove combatteva Piero
Rollo, eroe popolare, che quella volta le ha prese, mi pare,
da un francese nero come lafrica.
Il primo round Marcello si tenuto fuori tiro con calma
e eleganza: il pubblico accompagnava le sue finte con applausi convinti. Il secondo, Marcello si portato pi sotto, e ha colpito. Ma gli applausi per la delizia di quel muoversi di mani hanno spaventato Mariolino quanto le conseguenze delle botte incassate: praticamente zero.
Il terzo round stato massacro. Mariolino ha picchiato
sul viso grassotto e pacioso di Marcello fino a farlo diventare unaffiche di propaganda contro la guerra: cos la
guerra riduce gli essere umani: con le labbra che da due
diventano quattro; con gli occhi colore della notte che si
mescolano alle guance e al sangue che ha preso il posto
del naso, col naso perduto chiss dove, fra brandelli nerastri di pelle sfatta.
Non caduto, Marcello, e non si piegato sulle ginocchia. Se non sapeva darle, sapeva per prenderle: incassa-

va i cazzotti come fossero caramelle, e soltanto la sua danza pareva appesantita. Avrebbe proseguito fino alla fine,
senza cadere, con quella struttura da uomo di ferro, se
non fosse intervenuto un arbitro benevolo a decretare il
knock-out tecnico. Questo ragazzo non vede pi un cazzo ha detto a Perria ha sangue dappertutto, fino agli occhi. Lo mandiamo a casa.
Dopo questa dura, dura lezione, Tonino Perria ha perduto le speranze ma un peccato ha detto a Lillino
perch, se volesse, sarebbe un dio e Marcello che evidentemente non voleva ha chiuso con la carriera agonistica, e se n tornato alla bottega paterna, a scaricare casse di formaggio, come niente fosse.
Viveva i suoi sedici anni circondato dal rispetto generale: aveva smesso di boxare, ma la faccia sfigurata, e il ricordo delle tante vittorie, formavano come uno scudo fra
lui e gli altri; lo si trattava coi guanti; ogni sua richiesta di
favore era quasi un ordine, per chiunque... non si sa mai
che decida di mollarmi una manata.
stata grande quindi, anni dopo, la sorpresa dei rispettosi concittadini quando il diciannovenne Marcello apparso sulle pagine di cronaca nera del quotidiano cagliaritano: lavevano preso mentre tentava di carezzare le cosce
e il cazzo di un biondino, in un cinema del centro. Il biondino aveva urlato: le luci si erano accese in un attimo, e i
numerosi spettatori di Lucy a gambe aperte avevano visto le maschere che fermavano leggermente impaurite,
invero quellomaccione dallaspetto tuttaltro che equivoco, che si lasciato condurre pacificamente in questu-

ra, senza fare male a nessuno, mentre un biondino magrolino gli urlava dietro finocchio di merda. E fra i due
proprio lui sembrava il finocchio, e laltro lavresti detto
un maschio con quattro palle, a vedere quel naso sfatto,
quegli occhi sfigurati, quelle braccia da giovane ercole.
In questura il commissario Brigaglia vecchio patito
della boxe, che sa tutto su tutti coloro che hanno poggiato
i piedi sui ring isolani lha riconosciuto subito. Casu
gli ha detto o uno scherzo o sei diventato tutto matto e
Marcello gli ha letto negli occhi che sarebbe bastata una
parola, una sola, magari anche soltanto un sorriso, e in
guardina sarebbe finito il biondino, che laria da finocchietto non gliela toglieva proprio nessuno.
Ma Marcello, onesto e limpido, Caro commissario gli
ha detto a me, le donne, non piacciono. E a lei?
Giocoforza, Marcello ha lasciato la questura per il carcere. Qualche giorno; poi subito fuori, in attesa del processino: non aveva fatto male a nessuno, che senso cera,
tenerlo assieme ai delinquenti?
Da allora, la vita di Marcello cambiata radicalmente.
Antioco Casu, commerciante in formaggi, non ha voluto
saperne di avere per casa un figlio che molla il culo, e
lex-boxeur non se la sentiva, del resto, di affrontare le
battute di scherno per strada dei monelli che fino allaltro ieri lavevano guardato come fosse Maciste nella
valle dei leoni.
Si trasferito a Is Mirrionis, dalla parte opposta della
citt: cinquantamila persone in un riquadro di cemento
dove lunico verde lerba che in primavera cresce sul

bordo dei marciapiedi mal tenuti, fra i rifiuti e le cartacce.


Lha ospitato Luca Raccis Nanette, per gli amici che
divideva le sue notti fra tre amori: il furto negli appartamenti, i maschi appena usciti di galera, e gli schizzi di eroina. Il furto negli appartamenti perch bisogna ben lavorare, per mangiare; i maschi appena usciti di galera perch
sono quelli che hanno le palle pi cariche, per dirla col
vocabolario di Raccis Luca Nanette , e gli schizzi di
eroina perch quando voglio stare bene, ma bene davvero, ma bene davverissimo, uno schizzo meglio che tornare nella pancia di mamma.
Marcello ha condiviso la prima passione i furti negli
appartamenti anche se avrebbe preferito un lavoro pi
tranquillo: ma quando la ruota gira in un senso, ha senso
tentare di farla girare al contrario? Ha condiviso anche la
seconda, di passione, con qualche difficolt: i galeotti liberati, che si davano volentieri a Nanette che aveva due
belle tette al silicone e un culo, che se fosse stato donna
davvero, molto donne glielavrebbero invidiato, e non
detto che non glielo invidiassero anche cos quando vedevano Marcello i galeotti gli ringhiavano sul muso:
spiacente, amico. Ma mi sembrerebbe di incularmi allo
specchio, e non questa la cosa che voglio di pi dalla vita. Per il terzo vizio, Marcello ha resistito, un pochino:
dopo un sette-otto rifiuti da parte dei possibili amanti, si
fatto convincere, e ha condiviso la passione dellamico:
meglio, molto meglio di un cazzo, e anche della boxe, e
anche di tutto.
Di giorno dormivano ed erano le ore pi belle, per

ra, senza fare male a nessuno, mentre un biondino magrolino gli urlava dietro finocchio di merda. E fra i due
proprio lui sembrava il finocchio, e laltro lavresti detto
un maschio con quattro palle, a vedere quel naso sfatto,
quegli occhi sfigurati, quelle braccia da giovane ercole.
In questura il commissario Brigaglia vecchio patito
della boxe, che sa tutto su tutti coloro che hanno poggiato
i piedi sui ring isolani lha riconosciuto subito. Casu
gli ha detto o uno scherzo o sei diventato tutto matto e
Marcello gli ha letto negli occhi che sarebbe bastata una
parola, una sola, magari anche soltanto un sorriso, e in
guardina sarebbe finito il biondino, che laria da finocchietto non gliela toglieva proprio nessuno.
Ma Marcello, onesto e limpido, Caro commissario gli
ha detto a me, le donne, non piacciono. E a lei?
Giocoforza, Marcello ha lasciato la questura per il carcere. Qualche giorno; poi subito fuori, in attesa del processino: non aveva fatto male a nessuno, che senso cera,
tenerlo assieme ai delinquenti?
Da allora, la vita di Marcello cambiata radicalmente.
Antioco Casu, commerciante in formaggi, non ha voluto
saperne di avere per casa un figlio che molla il culo, e
lex-boxeur non se la sentiva, del resto, di affrontare le
battute di scherno per strada dei monelli che fino allaltro ieri lavevano guardato come fosse Maciste nella
valle dei leoni.
Si trasferito a Is Mirrionis, dalla parte opposta della
citt: cinquantamila persone in un riquadro di cemento
dove lunico verde lerba che in primavera cresce sul

bordo dei marciapiedi mal tenuti, fra i rifiuti e le cartacce.


Lha ospitato Luca Raccis Nanette, per gli amici che
divideva le sue notti fra tre amori: il furto negli appartamenti, i maschi appena usciti di galera, e gli schizzi di eroina. Il furto negli appartamenti perch bisogna ben lavorare, per mangiare; i maschi appena usciti di galera perch
sono quelli che hanno le palle pi cariche, per dirla col
vocabolario di Raccis Luca Nanette , e gli schizzi di
eroina perch quando voglio stare bene, ma bene davvero, ma bene davverissimo, uno schizzo meglio che tornare nella pancia di mamma.
Marcello ha condiviso la prima passione i furti negli
appartamenti anche se avrebbe preferito un lavoro pi
tranquillo: ma quando la ruota gira in un senso, ha senso
tentare di farla girare al contrario? Ha condiviso anche la
seconda, di passione, con qualche difficolt: i galeotti liberati, che si davano volentieri a Nanette che aveva due
belle tette al silicone e un culo, che se fosse stato donna
davvero, molto donne glielavrebbero invidiato, e non
detto che non glielo invidiassero anche cos quando vedevano Marcello i galeotti gli ringhiavano sul muso:
spiacente, amico. Ma mi sembrerebbe di incularmi allo
specchio, e non questa la cosa che voglio di pi dalla vita. Per il terzo vizio, Marcello ha resistito, un pochino:
dopo un sette-otto rifiuti da parte dei possibili amanti, si
fatto convincere, e ha condiviso la passione dellamico:
meglio, molto meglio di un cazzo, e anche della boxe, e
anche di tutto.
Di giorno dormivano ed erano le ore pi belle, per

Marcello. Si stringeva a Nanette, sullo stesso letto perch Nanette lha amato quasi subito e sognava, tiepidi e
delicati sogni da ventenne che non racconta niente a nessuno perch non sa che esiste lattivit della confessione.
Poi il tempo passa, i giorni consumano le novit, anche
le pi belle, e subentra lassuefazione, la stanchezza, e il
bisogno di cambiare: e Marcello non aveva pi voglia di
sentirsi rifiutato da uomini che avrebbe amato tanto, ma
tanto volentieri, e la solidariet di Nanette non gli bastava
pi, e i soldi dei colpetti non bastavano pi alleroina
che era diventata uno schizzo ogni quattro ore, e non pi
per star bene, ma soltanto per non stare da cani e in conclusione arrivata una brutta epatite virale che ha chiuso
tutto un periodo che aveva dato a Marcello qualche gioia
e molti dolori.
In ospedale, mentre gli aggiustavano il fegato e lo disintossicavano, ha avuto modo di pensare alla sua vita. Non
aveva nientaltro da fare.
E cos, una volta uscito, corre a casa, trova duecentomila lire che Nanette teneva di riserva per i momenti difficili,
scrive un accorato biglietto di scuse e daddio, e prima
che lamico si faccia vivo, fugge.
Si imbarca, quella stessa sera, sulla nave per la Tunisia.
Poi prosegue, su un vecchio treno che si ferma a ogni pisciata di cammello, per il Marocco.
Scende a Tetouan. Si infila in un intrico di stradette. E in
quellintrico di stradette, nel souk di Tetouan, sta, per un
anno. Diventa lattrazione del locale di ma Hasbesh
una vecchia strega nera di et indefinita, ch stata, in gio-

vent, floridissima e ricercata puttana, la cui nomea ha superato il mare coi carghi della Legione che fuggivano lalgeria, e che ora gestisce una casa da the, animata dalla presenza di tanti giovani bianchi di mezzo mondo che passano a Tetouan per caso, e finiscono per fermarcisi chi per
un giorno, chi per sempre. Serviva the alla menta, ma Hasbesh, e pezzetti di montone arrostiti sul fuoco e coperti
di fuliggine, e bicchieri di bianco e pesante vino di Marocco, ai giovani bianchi che fumavano ottimo kif e stralunato hashish di Ketama, e imbastivano affari di carichi e scarichi di sostanze allucinogene, e ai giovani neri che si rotolavano in certe piccole stanzette luride piene di mosche
assieme alle bambine di ma Hasbesh. Marcello, coi suoi
muscoli, il viso sfigurato da pugile, le mani forti, la dolcezza da eroinomane, diventa una attrazione per tutto il
souk. Persino il vecchio Ibrahim, vecchio brigante, algerino pazzo che dopo aver combattuto contro i francesi e
quanti ne uccise, quanti ne sevizi aveva scoperto che al
socialismo di Ben Bella preferiva le mollezze del souk e
larte del furto e dello stupro, persino il vecchio Ibrahim
decide di andare a conoscere questo straordinario uomoputtana di cui tutta Tetouan parla. tanto soddisfatto
Ibrahim, dopo lincontro, che decide di visitare i paesi
delluomo bianco odiato, prima che giunga la morte.
Per un anno Marcello compagno di letto di giovani e
vecchi marocchini per niente spaventati dalla sua mole o
dalla faccia pestata; per un anno regala a ma Hasbesh la
met dei suoi ingenti guadagni di uomo puttana, e spende
laltra met nella bottega di ma Hasbesh, per acquistare

Marcello. Si stringeva a Nanette, sullo stesso letto perch Nanette lha amato quasi subito e sognava, tiepidi e
delicati sogni da ventenne che non racconta niente a nessuno perch non sa che esiste lattivit della confessione.
Poi il tempo passa, i giorni consumano le novit, anche
le pi belle, e subentra lassuefazione, la stanchezza, e il
bisogno di cambiare: e Marcello non aveva pi voglia di
sentirsi rifiutato da uomini che avrebbe amato tanto, ma
tanto volentieri, e la solidariet di Nanette non gli bastava
pi, e i soldi dei colpetti non bastavano pi alleroina
che era diventata uno schizzo ogni quattro ore, e non pi
per star bene, ma soltanto per non stare da cani e in conclusione arrivata una brutta epatite virale che ha chiuso
tutto un periodo che aveva dato a Marcello qualche gioia
e molti dolori.
In ospedale, mentre gli aggiustavano il fegato e lo disintossicavano, ha avuto modo di pensare alla sua vita. Non
aveva nientaltro da fare.
E cos, una volta uscito, corre a casa, trova duecentomila lire che Nanette teneva di riserva per i momenti difficili,
scrive un accorato biglietto di scuse e daddio, e prima
che lamico si faccia vivo, fugge.
Si imbarca, quella stessa sera, sulla nave per la Tunisia.
Poi prosegue, su un vecchio treno che si ferma a ogni pisciata di cammello, per il Marocco.
Scende a Tetouan. Si infila in un intrico di stradette. E in
quellintrico di stradette, nel souk di Tetouan, sta, per un
anno. Diventa lattrazione del locale di ma Hasbesh
una vecchia strega nera di et indefinita, ch stata, in gio-

vent, floridissima e ricercata puttana, la cui nomea ha superato il mare coi carghi della Legione che fuggivano lalgeria, e che ora gestisce una casa da the, animata dalla presenza di tanti giovani bianchi di mezzo mondo che passano a Tetouan per caso, e finiscono per fermarcisi chi per
un giorno, chi per sempre. Serviva the alla menta, ma Hasbesh, e pezzetti di montone arrostiti sul fuoco e coperti
di fuliggine, e bicchieri di bianco e pesante vino di Marocco, ai giovani bianchi che fumavano ottimo kif e stralunato hashish di Ketama, e imbastivano affari di carichi e scarichi di sostanze allucinogene, e ai giovani neri che si rotolavano in certe piccole stanzette luride piene di mosche
assieme alle bambine di ma Hasbesh. Marcello, coi suoi
muscoli, il viso sfigurato da pugile, le mani forti, la dolcezza da eroinomane, diventa una attrazione per tutto il
souk. Persino il vecchio Ibrahim, vecchio brigante, algerino pazzo che dopo aver combattuto contro i francesi e
quanti ne uccise, quanti ne sevizi aveva scoperto che al
socialismo di Ben Bella preferiva le mollezze del souk e
larte del furto e dello stupro, persino il vecchio Ibrahim
decide di andare a conoscere questo straordinario uomoputtana di cui tutta Tetouan parla. tanto soddisfatto
Ibrahim, dopo lincontro, che decide di visitare i paesi
delluomo bianco odiato, prima che giunga la morte.
Per un anno Marcello compagno di letto di giovani e
vecchi marocchini per niente spaventati dalla sua mole o
dalla faccia pestata; per un anno regala a ma Hasbesh la
met dei suoi ingenti guadagni di uomo puttana, e spende
laltra met nella bottega di ma Hasbesh, per acquistare

carne di montone arrostito coperto di fuliggine, acqua cacata dalle mosche, the alla menta, e verde, straordinario
morbido e fresco hashish che lo accompagna in un pianeta di nebbia e di risate.
Finch conosce Henry Stax, poeta, proveniente da chiss dove una notte ha detto Alabama, e ha cantato certi
vecchi blues che raccontavano di donne e di scopate, e alla fine del canto la bottega di ma Hasbesh sembrava il sogno inarrivabile di un erotomane: la pi grossa e composita e gratuita ammucchiata sessuale che uomo possa immaginare: ma casta, tranquilla e, come dire, persino pulita;
ch nella testa di ognuno cera sola la voglia di amare, e
Marcello ha creduto che Has il beduino, il fantasma del
deserto, fosse di ronda davanti al souk, e se veniva violenza la scacciava con urla e preghiere.
Unaltra notte Henry Stax ha detto Texas, laggi sono
nato e ha sputato con disgusto.
Unaltra notte ancora ha raccontato della sua infanzia a
Chicago, e della sua amicizia con certi musicisti, e ha tirato fuori da una strana piccola scatolina coperta di velluto
nero che si portava sempre appresso, una piccola tromba
pieghevole di plastica, che pareva un giocattolo, rossa e
oro, e con quella ha suonato nenie rabbiose e struggenti, e
ha salmodiato poi una sua poesia, una strana poesia che
raccontava la morte di un nero nel cesso di una catena di
montaggio alla Ford...
Quando Henry Stax decide di lasciare Tetouan, Marcello lo segue, servo fedele, innamorato fradicio, coperto
soltanto da una lunga tunica marrone che pare tanto pe-

sante e invece protegge dal caldo meglio di qualunque


nudit.
Col poeta nero e colla tunica arriva a Casablanca. Si sistema in una vecchia casa coloniale bianca di calce,
splendente sotto il sole, circondata dalla sabbia, proprio
davanti alloceano , assieme a un gruppo di poeti e scrittori yankee che accolgono Stax come un messia. Marcello
non ha bisogno di lavorare: diventa ospite fisso della casa:
suo compito unico, spaventare i ragazzini che ogni tanto,
profittando di certe sedute collettive a base di allucinogeni, tentano di filare con in tasca qualche orologio doro.
Quando Henry Stax decide di rientrare negli States
con un nuovo libro sotto il braccio e una certa noia della
vita di Casablanca Marcello tenta di trattenerlo. Mi hai
insegnato molto gli dice.
Io insegno a tutti, non a un solo individuo risponde
Stax.
Ti amo.
Amerai altri uomini.
La vita qui a Casablanca stupenda, bianca e tranquilla...
Ma ognuno, prima o poi, deve tornare alla sua casa. Altrimenti finisce di essere qualcuno, e diventa nessuno. Un
uomo fuori dalla sua terra come un cavallo senza testa.
Io non posso tornare, alla mia casa. Verr con te in
America.
Non si pu. Piuttosto ti lascio un bel po di quattrini, e
ti mando dalluomo che te li ruber... ma in cambio ti dar
qualcosa che ti aiuter a tornare a casa.

carne di montone arrostito coperto di fuliggine, acqua cacata dalle mosche, the alla menta, e verde, straordinario
morbido e fresco hashish che lo accompagna in un pianeta di nebbia e di risate.
Finch conosce Henry Stax, poeta, proveniente da chiss dove una notte ha detto Alabama, e ha cantato certi
vecchi blues che raccontavano di donne e di scopate, e alla fine del canto la bottega di ma Hasbesh sembrava il sogno inarrivabile di un erotomane: la pi grossa e composita e gratuita ammucchiata sessuale che uomo possa immaginare: ma casta, tranquilla e, come dire, persino pulita;
ch nella testa di ognuno cera sola la voglia di amare, e
Marcello ha creduto che Has il beduino, il fantasma del
deserto, fosse di ronda davanti al souk, e se veniva violenza la scacciava con urla e preghiere.
Unaltra notte Henry Stax ha detto Texas, laggi sono
nato e ha sputato con disgusto.
Unaltra notte ancora ha raccontato della sua infanzia a
Chicago, e della sua amicizia con certi musicisti, e ha tirato fuori da una strana piccola scatolina coperta di velluto
nero che si portava sempre appresso, una piccola tromba
pieghevole di plastica, che pareva un giocattolo, rossa e
oro, e con quella ha suonato nenie rabbiose e struggenti, e
ha salmodiato poi una sua poesia, una strana poesia che
raccontava la morte di un nero nel cesso di una catena di
montaggio alla Ford...
Quando Henry Stax decide di lasciare Tetouan, Marcello lo segue, servo fedele, innamorato fradicio, coperto
soltanto da una lunga tunica marrone che pare tanto pe-

sante e invece protegge dal caldo meglio di qualunque


nudit.
Col poeta nero e colla tunica arriva a Casablanca. Si sistema in una vecchia casa coloniale bianca di calce,
splendente sotto il sole, circondata dalla sabbia, proprio
davanti alloceano , assieme a un gruppo di poeti e scrittori yankee che accolgono Stax come un messia. Marcello
non ha bisogno di lavorare: diventa ospite fisso della casa:
suo compito unico, spaventare i ragazzini che ogni tanto,
profittando di certe sedute collettive a base di allucinogeni, tentano di filare con in tasca qualche orologio doro.
Quando Henry Stax decide di rientrare negli States
con un nuovo libro sotto il braccio e una certa noia della
vita di Casablanca Marcello tenta di trattenerlo. Mi hai
insegnato molto gli dice.
Io insegno a tutti, non a un solo individuo risponde
Stax.
Ti amo.
Amerai altri uomini.
La vita qui a Casablanca stupenda, bianca e tranquilla...
Ma ognuno, prima o poi, deve tornare alla sua casa. Altrimenti finisce di essere qualcuno, e diventa nessuno. Un
uomo fuori dalla sua terra come un cavallo senza testa.
Io non posso tornare, alla mia casa. Verr con te in
America.
Non si pu. Piuttosto ti lascio un bel po di quattrini, e
ti mando dalluomo che te li ruber... ma in cambio ti dar
qualcosa che ti aiuter a tornare a casa.

Con mille dollari, Marcello entra per una settimana nella clinica del dottor Rudy Schultze si diceva che avesse
effettuato esperimenti di trapianto di organi, e di inserimento di sostanze estranee nel sangue degli uomini, in un
laboratorio di un posto chiamato Dachau che a Casablanca libera gli uomini-donna da un ingombrante ammennicolo al posto del quale, fra le gambe, crea una piccola, stretta, delicata, quasi inutile fica una felicit, per
qualcuno.
Con quei mille dollari Schultze inventa la prima fica della vita di Marcello Casu, che fino a ventidue anni si era servito di un altro arnese. Con una speciale sostanza Schultze
fa crescere il petto dello stesso Marcello Casu, che si trova
cos a dover superare con lo sguardo due grandi tette sode,
se vuole guardarsi i piedi. Infine Schultze gli ricostruisce
un nasino accettabile. Schultze fa questo po po di lavoro,
parte per i mille dollari, parte per Henry Stax che anche
Schultze avrebbe seguito volentieri in Alabama, nel Texas,
a Chicago o al corno della forca parte perch quellexboxeur gli simpatico.
Ad Algesiras i guardiani del confine spagnolo ridono
molto, vedendo Marcello, e leggendo i suoi dati anagrafici sul passaporto. Ridono, ma non pi di tanto, perch in
fondo chiunque capisce che un solo pugno di una di quelle mani staccherebbe il collo anche a uomini pi robusti
dei frontalieri spagnoli.
Da Barcellona Marcello telegrafa a Cagliari, al suo fratellino Luca Raccis meglio noto come Nanette arrivo
fra qualche giorno. Nave da Barcellona. Marcello. Cio

Annina. Ha scelto il nome il nuovo nome della nuova


donna che abita nel suo corpo seduto ad un tavolino
tondo di un piccolo ufficio postale di Barcellona, mentre
scrive il telegramma.
A Barcellona acquista una straordinaria parrucca di capelli veri, rossi come i capelli di un irlandese e forse
qualche capelluto irlandese nei guai li ha venduti per acquistare chiss un biglietto ferroviario o dieci dosi.
Nella doccia della sua cabina divide la cabina con un
anziano magistrato spagnolo che non incontra mai una
sola volta nel corso di tutta la traversata si rasa il cranio,
si pulisce il viso, si copre di ciprie, fard e ombretti, e infila
come un trofeo la parrucca della sua nuova identit.
Ai cancelli del porto di Cagliari, vede Nanette pi magro di come lo ricordasse, infilato in un giubbone nero di
pelle e in un paio di jeans, luno e gli altri lisi e sbiancati da
un uso troppo continuato, e un paio di occhiali neri di
quelli che nascondono completamente gli occhi, e che in
quel caso dicevano che Nanette aveva negli occhi qualcosa che non voleva che altri notassero.
Nanette non lo riconosce. Quando quella biondona tutta finta, coi fianchi stretti e le braccia da pugile, gli occhi
gonfi e il nasino da fotomodella, lo abbraccia, Nanette,
dopo la sorpresa, piange.
Le cose vanno male, racconta Nanette; ora in casa ha altri due ospiti. Per sopravvivere assieme; e assieme tirare
su i quattrini per il cibo, per laffitto, e per gli schizzi, soprattutto.
Ormai ci sono in circolazione certi quindicenni che

Con mille dollari, Marcello entra per una settimana nella clinica del dottor Rudy Schultze si diceva che avesse
effettuato esperimenti di trapianto di organi, e di inserimento di sostanze estranee nel sangue degli uomini, in un
laboratorio di un posto chiamato Dachau che a Casablanca libera gli uomini-donna da un ingombrante ammennicolo al posto del quale, fra le gambe, crea una piccola, stretta, delicata, quasi inutile fica una felicit, per
qualcuno.
Con quei mille dollari Schultze inventa la prima fica della vita di Marcello Casu, che fino a ventidue anni si era servito di un altro arnese. Con una speciale sostanza Schultze
fa crescere il petto dello stesso Marcello Casu, che si trova
cos a dover superare con lo sguardo due grandi tette sode,
se vuole guardarsi i piedi. Infine Schultze gli ricostruisce
un nasino accettabile. Schultze fa questo po po di lavoro,
parte per i mille dollari, parte per Henry Stax che anche
Schultze avrebbe seguito volentieri in Alabama, nel Texas,
a Chicago o al corno della forca parte perch quellexboxeur gli simpatico.
Ad Algesiras i guardiani del confine spagnolo ridono
molto, vedendo Marcello, e leggendo i suoi dati anagrafici sul passaporto. Ridono, ma non pi di tanto, perch in
fondo chiunque capisce che un solo pugno di una di quelle mani staccherebbe il collo anche a uomini pi robusti
dei frontalieri spagnoli.
Da Barcellona Marcello telegrafa a Cagliari, al suo fratellino Luca Raccis meglio noto come Nanette arrivo
fra qualche giorno. Nave da Barcellona. Marcello. Cio

Annina. Ha scelto il nome il nuovo nome della nuova


donna che abita nel suo corpo seduto ad un tavolino
tondo di un piccolo ufficio postale di Barcellona, mentre
scrive il telegramma.
A Barcellona acquista una straordinaria parrucca di capelli veri, rossi come i capelli di un irlandese e forse
qualche capelluto irlandese nei guai li ha venduti per acquistare chiss un biglietto ferroviario o dieci dosi.
Nella doccia della sua cabina divide la cabina con un
anziano magistrato spagnolo che non incontra mai una
sola volta nel corso di tutta la traversata si rasa il cranio,
si pulisce il viso, si copre di ciprie, fard e ombretti, e infila
come un trofeo la parrucca della sua nuova identit.
Ai cancelli del porto di Cagliari, vede Nanette pi magro di come lo ricordasse, infilato in un giubbone nero di
pelle e in un paio di jeans, luno e gli altri lisi e sbiancati da
un uso troppo continuato, e un paio di occhiali neri di
quelli che nascondono completamente gli occhi, e che in
quel caso dicevano che Nanette aveva negli occhi qualcosa che non voleva che altri notassero.
Nanette non lo riconosce. Quando quella biondona tutta finta, coi fianchi stretti e le braccia da pugile, gli occhi
gonfi e il nasino da fotomodella, lo abbraccia, Nanette,
dopo la sorpresa, piange.
Le cose vanno male, racconta Nanette; ora in casa ha altri due ospiti. Per sopravvivere assieme; e assieme tirare
su i quattrini per il cibo, per laffitto, e per gli schizzi, soprattutto.
Ormai ci sono in circolazione certi quindicenni che

sembrano donne sul serio, belli come stars, disposti a qualunque perversione purch ci sia la moneta. Per noi restano i vecchi sudici che non vogliono pagare.
Marcello-Annina, fidando nel suo sesso tutto nuovo,
non si arrende. Per mesi batte sul lungomare Colombo; e
sbriga i rari clienti sotto i pini. Per il resto subisce le risate
dei magnaccia, che non tentano manco di intimorirlo per
farlo sloggiare, un po perch accontenta soltanto certa
clientela miserabile che ha pochissimo da spendere, un
po perch le sue braccia, per quanto paludate da una camicetta bianca col collettino di pizzo, fanno sempre paura
e in fondo ai suoi occhi, dietro quel nasino grazioso giulivo che pare una farfalla posata per sbaglio al centro di
Hiroshima trenta secondi dopo lesplosione, in fondo ai
suoi occhi c una luce nera di disperazione e di rabbia
che spaventerebbe animi pi temprati di quelli di quattro
magnaccia.
Quando un commercio non funziona, bisogna ritirarsi,
dichiarare fallimento, salvare il salvabile e cambiare genere. Non laveva sempre detto, Antioco Casu, al piccolo
Marcello, durante i pranzi e le cene? Tutta in quelle parole, la filosofia del commerciante di formaggi.
Annina, memore dei consigli paterni, e contagiata dalla
disperazione di Nanette e dei nuovi amici coi quali convive, cambia mestiere.
I due amici si chiamano Roberto Stefanino, e Efisio Sau.
Il primo, che forse non ha ancora compiuto diciotto anni,
fuggito da casa a tredici i genitori non hanno neanche
denunciato la scomparsa: se avr fame torner. Se non

torner vorr dire che non avr fame hanno detto, chiudendo lepisodio.
A quattordici anni Stefanino si sistemato a Amsterdam. Mestiere: spacciatore di acido lisergico e droghe varie. tornato, poi, chiss perch. E da quando tornato
pensa a un colpo che gli faccia guadagnare milioni a palate, per fuggire in California.
Efisio Sau, invece, un omaccione alto alto che non parla mai di se stesso.
Non se ne sa niente. Se non che, forse, Efisio Sau non
deve essere il suo nome vero; e che, forse, evaso dalla
colonia penale di Mamone una foto di un tizio che assomiglia straordinariamente a Efisio Sau apparsa sul giornale, qualche giorno prima che Efisio Sau si aggiungesse
alla piccola famiglia di Is Mirrionis: nellarticolo che affiancava la foto si raccontavano i particolari dellevasione
da Mamone di un certo Francesco Carta, rapinatore e
omicida.
Efisio non forse, ma sicuramente in grado di procurare degli ottimi Thompson e di guidare una giulia super nel traffico di Cagliari a cento allora; questultima cosa gi stata sperimentata, creando il panico generale; in
piazzetta Savoia i pazzi del volante hanno mollato la giulia, rubata, sono fuggiti.
I quattro hanno deciso che la filiale del Banco di Sassari
di Via Pola un buon obiettivo un po fuori mano, rispetto al centro vero e proprio della citt, e quindi con
buone possibilit di fuga, ma anche ben frequentata dai
numerosissimi commercianti allingrosso di Viale Trieste,

sembrano donne sul serio, belli come stars, disposti a qualunque perversione purch ci sia la moneta. Per noi restano i vecchi sudici che non vogliono pagare.
Marcello-Annina, fidando nel suo sesso tutto nuovo,
non si arrende. Per mesi batte sul lungomare Colombo; e
sbriga i rari clienti sotto i pini. Per il resto subisce le risate
dei magnaccia, che non tentano manco di intimorirlo per
farlo sloggiare, un po perch accontenta soltanto certa
clientela miserabile che ha pochissimo da spendere, un
po perch le sue braccia, per quanto paludate da una camicetta bianca col collettino di pizzo, fanno sempre paura
e in fondo ai suoi occhi, dietro quel nasino grazioso giulivo che pare una farfalla posata per sbaglio al centro di
Hiroshima trenta secondi dopo lesplosione, in fondo ai
suoi occhi c una luce nera di disperazione e di rabbia
che spaventerebbe animi pi temprati di quelli di quattro
magnaccia.
Quando un commercio non funziona, bisogna ritirarsi,
dichiarare fallimento, salvare il salvabile e cambiare genere. Non laveva sempre detto, Antioco Casu, al piccolo
Marcello, durante i pranzi e le cene? Tutta in quelle parole, la filosofia del commerciante di formaggi.
Annina, memore dei consigli paterni, e contagiata dalla
disperazione di Nanette e dei nuovi amici coi quali convive, cambia mestiere.
I due amici si chiamano Roberto Stefanino, e Efisio Sau.
Il primo, che forse non ha ancora compiuto diciotto anni,
fuggito da casa a tredici i genitori non hanno neanche
denunciato la scomparsa: se avr fame torner. Se non

torner vorr dire che non avr fame hanno detto, chiudendo lepisodio.
A quattordici anni Stefanino si sistemato a Amsterdam. Mestiere: spacciatore di acido lisergico e droghe varie. tornato, poi, chiss perch. E da quando tornato
pensa a un colpo che gli faccia guadagnare milioni a palate, per fuggire in California.
Efisio Sau, invece, un omaccione alto alto che non parla mai di se stesso.
Non se ne sa niente. Se non che, forse, Efisio Sau non
deve essere il suo nome vero; e che, forse, evaso dalla
colonia penale di Mamone una foto di un tizio che assomiglia straordinariamente a Efisio Sau apparsa sul giornale, qualche giorno prima che Efisio Sau si aggiungesse
alla piccola famiglia di Is Mirrionis: nellarticolo che affiancava la foto si raccontavano i particolari dellevasione
da Mamone di un certo Francesco Carta, rapinatore e
omicida.
Efisio non forse, ma sicuramente in grado di procurare degli ottimi Thompson e di guidare una giulia super nel traffico di Cagliari a cento allora; questultima cosa gi stata sperimentata, creando il panico generale; in
piazzetta Savoia i pazzi del volante hanno mollato la giulia, rubata, sono fuggiti.
I quattro hanno deciso che la filiale del Banco di Sassari
di Via Pola un buon obiettivo un po fuori mano, rispetto al centro vero e proprio della citt, e quindi con
buone possibilit di fuga, ma anche ben frequentata dai
numerosissimi commercianti allingrosso di Viale Trieste,

che ogni venerd mattina depositano lincasso, magari anche dellintera settimana.
Efisio Sau procura due Beretta, tre Thompson e una
Lancia Beta.
Venerd mattina alla una, due ragazzi magrissimi col viso coperto da calze di seta, e un terzo complice camuffato
da donna con in testa una incredibile parrucca rossa e
due tette enormi da maggiorata fisica, ma che sia un uomo
lo si capisce da uno strano viso sfregiato, da due grosse
braccia da scaricatore, e dalla corporatura complessiva,
come dicono i testimoni del fatto alla una di venerd
mattina i tre sono entrati, imbracciando un mitra ciascuno, nella filiale del Banco di Sassari, in Via Pola.
Sono entrati urlando, come in un film americano, e
puntando i mitra addosso a tutti. I clienti della banca si
sono convinti a sdraiarsi sul pavimento, tenuti sotto mira
dal donnone fasullo, mentre uno dei ragazzi vuota il tiretto del cassiere, e laltro spinge con la punta del Thompson
il direttore della banca verso la cassaforte. Sentono il suono stridente di una sirena. Chiamata dal cassiere, che fin
dal principio dellazione calpesta un piccolo pulsante sotto i suoi piedi, collegato alla stazione dei carabinieri del
Corso Vittorio Emanuele non pi di duecento metri
dalla banca, seppure fuori vista e separata da due angoli
di strada.
Il ragazzo che sta assieme al direttore salta il banco al
volo, e i tre scompaiono dalla porta dingresso uno ha in
mano il sacchetto col denaro della cassa.
Allangolo con viale Trieste attende una Lancia Beta col

motore acceso e con tre portiere aperte. Mentre i ladri si


catapultano dentro, una gazzella scende a velocit folle e a
sirene spiegate in senso proibito da Via Pola, e la gente
che esce dal mercato si schiaccia contro le case.
Annina si blocca un attimo. Guarda in alto verso i caramba che arrivano; decide senza esitazioni: resta in strada e si chiude alle spalle la portiera della Lancia urlando
Via, via, rapidi.
La Lancia schizza via, a cento, nel traffico caotico di madri che tornano dalla spesa e di paesani che arrivano verso
il centro della citt per le compere.
Annina si sistema a gambe larghe al centro della strada e
spara. La prima raffica colpisce le gomme dellauto nemica, che sbanda e si infila dritta nella vetrina di un grande
emporio di moquette.
Da una seconda auto che arriva alle spalle, da Viale Trieste, parte una raffica; Annina cade, fra la gente terrorizzata un colpo partito da chiss dove ha spaccato la vaschetta dei gerani della signorina Mulas, professoressa di
liceo, nubile quarantenne; la vaschetta dei gerani stava su
un balconcino a cui la signorina era affacciata; la signorina svenuta, credendo di essere stata colpita.
Su Annina caduta sparano ancora altri colpi, i carabinieri che arrivano da tutte le parti. Confusione generale.
Cadendo, Annina perde la parrucca rossa. Tutti possono vedere il suo cranio perfettamente rasato, ora rigato di
sangue, come lasfalto, come il petto, come le gambe divaricate di Annina caduta.

che ogni venerd mattina depositano lincasso, magari anche dellintera settimana.
Efisio Sau procura due Beretta, tre Thompson e una
Lancia Beta.
Venerd mattina alla una, due ragazzi magrissimi col viso coperto da calze di seta, e un terzo complice camuffato
da donna con in testa una incredibile parrucca rossa e
due tette enormi da maggiorata fisica, ma che sia un uomo
lo si capisce da uno strano viso sfregiato, da due grosse
braccia da scaricatore, e dalla corporatura complessiva,
come dicono i testimoni del fatto alla una di venerd
mattina i tre sono entrati, imbracciando un mitra ciascuno, nella filiale del Banco di Sassari, in Via Pola.
Sono entrati urlando, come in un film americano, e
puntando i mitra addosso a tutti. I clienti della banca si
sono convinti a sdraiarsi sul pavimento, tenuti sotto mira
dal donnone fasullo, mentre uno dei ragazzi vuota il tiretto del cassiere, e laltro spinge con la punta del Thompson
il direttore della banca verso la cassaforte. Sentono il suono stridente di una sirena. Chiamata dal cassiere, che fin
dal principio dellazione calpesta un piccolo pulsante sotto i suoi piedi, collegato alla stazione dei carabinieri del
Corso Vittorio Emanuele non pi di duecento metri
dalla banca, seppure fuori vista e separata da due angoli
di strada.
Il ragazzo che sta assieme al direttore salta il banco al
volo, e i tre scompaiono dalla porta dingresso uno ha in
mano il sacchetto col denaro della cassa.
Allangolo con viale Trieste attende una Lancia Beta col

motore acceso e con tre portiere aperte. Mentre i ladri si


catapultano dentro, una gazzella scende a velocit folle e a
sirene spiegate in senso proibito da Via Pola, e la gente
che esce dal mercato si schiaccia contro le case.
Annina si blocca un attimo. Guarda in alto verso i caramba che arrivano; decide senza esitazioni: resta in strada e si chiude alle spalle la portiera della Lancia urlando
Via, via, rapidi.
La Lancia schizza via, a cento, nel traffico caotico di madri che tornano dalla spesa e di paesani che arrivano verso
il centro della citt per le compere.
Annina si sistema a gambe larghe al centro della strada e
spara. La prima raffica colpisce le gomme dellauto nemica, che sbanda e si infila dritta nella vetrina di un grande
emporio di moquette.
Da una seconda auto che arriva alle spalle, da Viale Trieste, parte una raffica; Annina cade, fra la gente terrorizzata un colpo partito da chiss dove ha spaccato la vaschetta dei gerani della signorina Mulas, professoressa di
liceo, nubile quarantenne; la vaschetta dei gerani stava su
un balconcino a cui la signorina era affacciata; la signorina svenuta, credendo di essere stata colpita.
Su Annina caduta sparano ancora altri colpi, i carabinieri che arrivano da tutte le parti. Confusione generale.
Cadendo, Annina perde la parrucca rossa. Tutti possono vedere il suo cranio perfettamente rasato, ora rigato di
sangue, come lasfalto, come il petto, come le gambe divaricate di Annina caduta.

Storia della monaca

Non per sparlare della morta, poveranima, diomenescampi, ancora calda nella bara, e noi qui che seguiamo
lamatissimo feretro, ma Maddalena, da giovane, era magra e pallida, uno stecco passato in lisciva, ti dico, studiosa e religiosa, bigotta cio, sempre appiccicata alle sottane di Don Mos, fino alla terza magistrale. Allora ha cominciato, con le coglionate.
Me la vedo, come fossi oggi, era sera tardi, e stavamo
mangiando un tranquillo minestrone dopo una giornata
di merda, tutti l in silenzio attaccati al cucchiaio. La strada fuori era pacifica, solo qualche comare a prendere il
fresco, e noi con la finestra aperta a piano terra, una oasi.
E quella parla Ho deciso di farmi monaca dice Dio
mi ha chiamato, e, se Lui vorr...
Cera mio cognato, maresciallo dei carabinieri, uomo
che aveva cultura e esperienza, che gli ha detto di ripensarci; e tutte le sorelle, incazzate che non ti dico, noi qui
a farci il mazzo per farti studiare, per farti diventare maestra, e tu sprechi tutto perch Don Mos ti ha montato la
testa...; e mammina buonanima si fatta dare la cinghia
e glielha pestata sul culo, e gli ha lasciato tracce profonde sulle natiche. Ma nella coscienza...
Sprecona, era. Aveva sprecato tutto. A cominciare dagli

Storia della monaca

Non per sparlare della morta, poveranima, diomenescampi, ancora calda nella bara, e noi qui che seguiamo
lamatissimo feretro, ma Maddalena, da giovane, era magra e pallida, uno stecco passato in lisciva, ti dico, studiosa e religiosa, bigotta cio, sempre appiccicata alle sottane di Don Mos, fino alla terza magistrale. Allora ha cominciato, con le coglionate.
Me la vedo, come fossi oggi, era sera tardi, e stavamo
mangiando un tranquillo minestrone dopo una giornata
di merda, tutti l in silenzio attaccati al cucchiaio. La strada fuori era pacifica, solo qualche comare a prendere il
fresco, e noi con la finestra aperta a piano terra, una oasi.
E quella parla Ho deciso di farmi monaca dice Dio
mi ha chiamato, e, se Lui vorr...
Cera mio cognato, maresciallo dei carabinieri, uomo
che aveva cultura e esperienza, che gli ha detto di ripensarci; e tutte le sorelle, incazzate che non ti dico, noi qui
a farci il mazzo per farti studiare, per farti diventare maestra, e tu sprechi tutto perch Don Mos ti ha montato la
testa...; e mammina buonanima si fatta dare la cinghia
e glielha pestata sul culo, e gli ha lasciato tracce profonde sulle natiche. Ma nella coscienza...
Sprecona, era. Aveva sprecato tutto. A cominciare dagli

anni. Perch uno pensa vabb, suora si fa suora, pazienza. E invece quella parte, diventa novizia, va in convento, lass, Bressanone... e poi, invece...
Non si mai saputo perch sia tornata, esattamente.
Storie se ne son dette, certo. Ma, con certezza, nessuna.
Prima pare si fosse legata a un tale, uno che stava attorno
al convento, uno di Bressanone. Questo tale la aspettava
fuori, di nascosto.
Come vanno le cose, la carne carne. Maddalena deve
aver pensato che un matrimonio con Dio, a quel punto,
era impossibile, visto che un altro matrimonio era stato
consumato, con banchetto, immagino.
Ma quella torna, senza il tale di Bressanone, e man mano che passano gli anni si vede sempre pi chiaro che i
maschietti proprio non le piacciano. Anzi, la vicinanza
dei maschi le provoca reazioni di rigetto, di disgusto.
Allora la storia venuta fuori diversa, pi ambigua.
Hanno cominciato a dire di questa sua compagna di
cella, lass in convento, a Bressanone, una novizia bella e
alta e buona, e il letto stava proprio affianco a quello di
Maddalena, a furia di vedersi, bardate di nero, in preghiera e in pianto, e poi nude e allegre e giovani, i letti si
sono avvicinati, e chiss... certo non erano cose per un
padreterno che imponeva veste e castit...
Cos tornata: al punto esatto di prima di partire. Studentessa magistrale. E nuovamente tutta la famiglia a
sgobbare per lei, per farla studiare, lintellettuale di casa.
E lei che continuava a sprecare gli anni. Due anni per classe, con contorno estivo di ripetizioni. Insomma, quando

arrivato il diploma magistrale che ormai eravamo tutti


maestri, in famiglia i trentanni erano l a due passi.
Tu dirai, arrivato il diploma, finiti i sacrifici. Avr cominciato finalmente a lavorare e a restituire. Macch.
Tutti convinti che avesse finito di scroccare, che potesse
finalmente aiutare. E quella se ne va a insegnare al Corno
della Forca, un paesino sperduto in montagna, dove affitta una casetta, con limpegno della padrona di casa a lavarle le mutande lei li aveva sempre disprezzati, i lavori
manuali, capirai, lintellettuale e a prepararle i pasti.
Noi, in conclusione, non vedevamo una lira.
Lass al paese ingrassata. Ingrassata. Al punto che a
baciarla, quando la incontravamo, ci faceva schifo. Perch la pelle del viso ce laveva tanto grassa che produceva
un olio con odore di pane di casa e di fritto misto. Motivo
per cui abbiamo smesso di baciarla. Per lei, una pacchia.
Perch disdegnava il contatto fisico, con chiunque. Pareva che tutti le facessero schifo.
Lho spiata, una volta, a quel tempo, mentre si calava
nella vasca da bagno. Uno spettacolo imponente. Come il
varo di una nave. Come una piattaforma di cemento gettata dentro lo stagno. Una enormit di carne bianca arrotolata a cuscinetti uno sullaltro, sul ventre. Due cascate
di lardo sulle natiche. Le tette due pere cicciotte che le
arrivavano allo stomaco. E le cosce come fisarmoniche di
lardo ambulante. Un incubo lardoso.
Anche Ibrahim, quel bastardo, io non credo che se la
scopasse. Secondo me voleva esporla in qualche macelleria, gi in Africa, dove mangiano i cristiani.

anni. Perch uno pensa vabb, suora si fa suora, pazienza. E invece quella parte, diventa novizia, va in convento, lass, Bressanone... e poi, invece...
Non si mai saputo perch sia tornata, esattamente.
Storie se ne son dette, certo. Ma, con certezza, nessuna.
Prima pare si fosse legata a un tale, uno che stava attorno
al convento, uno di Bressanone. Questo tale la aspettava
fuori, di nascosto.
Come vanno le cose, la carne carne. Maddalena deve
aver pensato che un matrimonio con Dio, a quel punto,
era impossibile, visto che un altro matrimonio era stato
consumato, con banchetto, immagino.
Ma quella torna, senza il tale di Bressanone, e man mano che passano gli anni si vede sempre pi chiaro che i
maschietti proprio non le piacciano. Anzi, la vicinanza
dei maschi le provoca reazioni di rigetto, di disgusto.
Allora la storia venuta fuori diversa, pi ambigua.
Hanno cominciato a dire di questa sua compagna di
cella, lass in convento, a Bressanone, una novizia bella e
alta e buona, e il letto stava proprio affianco a quello di
Maddalena, a furia di vedersi, bardate di nero, in preghiera e in pianto, e poi nude e allegre e giovani, i letti si
sono avvicinati, e chiss... certo non erano cose per un
padreterno che imponeva veste e castit...
Cos tornata: al punto esatto di prima di partire. Studentessa magistrale. E nuovamente tutta la famiglia a
sgobbare per lei, per farla studiare, lintellettuale di casa.
E lei che continuava a sprecare gli anni. Due anni per classe, con contorno estivo di ripetizioni. Insomma, quando

arrivato il diploma magistrale che ormai eravamo tutti


maestri, in famiglia i trentanni erano l a due passi.
Tu dirai, arrivato il diploma, finiti i sacrifici. Avr cominciato finalmente a lavorare e a restituire. Macch.
Tutti convinti che avesse finito di scroccare, che potesse
finalmente aiutare. E quella se ne va a insegnare al Corno
della Forca, un paesino sperduto in montagna, dove affitta una casetta, con limpegno della padrona di casa a lavarle le mutande lei li aveva sempre disprezzati, i lavori
manuali, capirai, lintellettuale e a prepararle i pasti.
Noi, in conclusione, non vedevamo una lira.
Lass al paese ingrassata. Ingrassata. Al punto che a
baciarla, quando la incontravamo, ci faceva schifo. Perch la pelle del viso ce laveva tanto grassa che produceva
un olio con odore di pane di casa e di fritto misto. Motivo
per cui abbiamo smesso di baciarla. Per lei, una pacchia.
Perch disdegnava il contatto fisico, con chiunque. Pareva che tutti le facessero schifo.
Lho spiata, una volta, a quel tempo, mentre si calava
nella vasca da bagno. Uno spettacolo imponente. Come il
varo di una nave. Come una piattaforma di cemento gettata dentro lo stagno. Una enormit di carne bianca arrotolata a cuscinetti uno sullaltro, sul ventre. Due cascate
di lardo sulle natiche. Le tette due pere cicciotte che le
arrivavano allo stomaco. E le cosce come fisarmoniche di
lardo ambulante. Un incubo lardoso.
Anche Ibrahim, quel bastardo, io non credo che se la
scopasse. Secondo me voleva esporla in qualche macelleria, gi in Africa, dove mangiano i cristiani.

Eppure, ti sembrer incredibile, questo sproposito di


donna era persino riuscita a conquistare un tale, al Corno
della Forca, un anzianotto allevatore locale, forse pi abituato alle vacche che agli esseri umani, ormai da troppi
anni privo di punti di riferimento attorno al concetto di
donna. Lui le fa una corte spietata.
Una corte rurale, se mi capisci. Con ambasciate, attraverso la padrona di casa di Maddalena. Lettere, biglietti,
cosucce profumate. E regali: caciotte, bidoni di latte
schiumante, prosciutti, culatte e parasangue. E Maria tiene lo spasimante sulla corda per un po di mesi, senza dire n si n no. Accettando, comunque, i regali.
Finch una volta, quel povero si chiamava Figurino e
pesava novanta chili abbondanti per una statura di centocinquantadue centimetri abborda direttamente la signorina, a sera, sulla strada vuota che conduce dalla chiesa alla casa. Quella, per tutta risposta alle avances, gli affonda uno schiaffo, pesante come un agnello, sulla guancia. Figurino abbozza, e torna alle vacche. Per sempre.
Insomma, tutti pi o meno lasciamo la famiglia. Chi si
sposa, chi emigra. Alla fine resta sola mammina, pensionata. E Maddalena ritorna. Per non lasciare sola la carissima mamma dice.
Per cominciare a fregarsi meglio leredit diciamo
noi, che la conoscevamo abbastanza.
Comunque, sotto gli occhi di tutti, mentre finalmente
ce lavevamo in citt, cominciato un processo di decadenza micidiale. Una cosa mai vista. Io te lo racconto come lho visto. Ma so che sembra una esagerazione.

Si svegliava, la mattina, e, prima cosa, faceva colazione.


Mammina si accontentava di un cappuccino. Maddalena
si preparava mezzo litro abbondante di cafflatte, e ci inzuppava dentro una bella focaccia infarinata. Poi attaccava unaltra focaccia, ripiena: burro e marmellata, o salsiccia, o lardo secco, o qualunque altra cosa si trovasse nel
frigo. Concludeva, inevitabilmente, con un sorso di vino
nero. Non vinello da signori: di quel vino che facciamo
noi nei paesi, vino pesante e pastoso, vino per stordire, vino per dimenticare. Attingeva direttamente dalla bottiglia, senza mediazioni del bicchiere, a garganella. Un minuto di apnea, incollata al collo di vetro, e le sue guance
prendevano quel rubizzo che non lavrebbe pi abbandonata per tutto il giorno.
Poi usciva. Apparentemente sazia. Si arrampicava per
Via Garibaldi, la strada del commercio e dei negozi, la
strada delle vetrine e dei Carnevali. Qui, mentre qualcuno cominciava a sollevare le serrande, lei zampettava con
la grazia sua propria, quella duna enorme foca incinta. Si
stoppava puntualmente davanti a quellantico caff che
ha profumato di dolce linfanzia di tutti i suoi concittadini. E in quel luogo, di fronte a spettatori mattutini, sempre esterrefatti, celebrava il suo trionfo. Ingollava, una
dopo laltra, cinque enormi bombe rigonfie di crema, e
faceva seguire un cappuccino caldo. Poi, appena appena
meno esagitata, assaggiava le sfoglie e i cannoncini, le fette di torta e il gelato al limone. Due yoghurt conditi con
zucchero completavano il pasto. Prendo lo yoghurt per
dimagrire, diceva.

Eppure, ti sembrer incredibile, questo sproposito di


donna era persino riuscita a conquistare un tale, al Corno
della Forca, un anzianotto allevatore locale, forse pi abituato alle vacche che agli esseri umani, ormai da troppi
anni privo di punti di riferimento attorno al concetto di
donna. Lui le fa una corte spietata.
Una corte rurale, se mi capisci. Con ambasciate, attraverso la padrona di casa di Maddalena. Lettere, biglietti,
cosucce profumate. E regali: caciotte, bidoni di latte
schiumante, prosciutti, culatte e parasangue. E Maria tiene lo spasimante sulla corda per un po di mesi, senza dire n si n no. Accettando, comunque, i regali.
Finch una volta, quel povero si chiamava Figurino e
pesava novanta chili abbondanti per una statura di centocinquantadue centimetri abborda direttamente la signorina, a sera, sulla strada vuota che conduce dalla chiesa alla casa. Quella, per tutta risposta alle avances, gli affonda uno schiaffo, pesante come un agnello, sulla guancia. Figurino abbozza, e torna alle vacche. Per sempre.
Insomma, tutti pi o meno lasciamo la famiglia. Chi si
sposa, chi emigra. Alla fine resta sola mammina, pensionata. E Maddalena ritorna. Per non lasciare sola la carissima mamma dice.
Per cominciare a fregarsi meglio leredit diciamo
noi, che la conoscevamo abbastanza.
Comunque, sotto gli occhi di tutti, mentre finalmente
ce lavevamo in citt, cominciato un processo di decadenza micidiale. Una cosa mai vista. Io te lo racconto come lho visto. Ma so che sembra una esagerazione.

Si svegliava, la mattina, e, prima cosa, faceva colazione.


Mammina si accontentava di un cappuccino. Maddalena
si preparava mezzo litro abbondante di cafflatte, e ci inzuppava dentro una bella focaccia infarinata. Poi attaccava unaltra focaccia, ripiena: burro e marmellata, o salsiccia, o lardo secco, o qualunque altra cosa si trovasse nel
frigo. Concludeva, inevitabilmente, con un sorso di vino
nero. Non vinello da signori: di quel vino che facciamo
noi nei paesi, vino pesante e pastoso, vino per stordire, vino per dimenticare. Attingeva direttamente dalla bottiglia, senza mediazioni del bicchiere, a garganella. Un minuto di apnea, incollata al collo di vetro, e le sue guance
prendevano quel rubizzo che non lavrebbe pi abbandonata per tutto il giorno.
Poi usciva. Apparentemente sazia. Si arrampicava per
Via Garibaldi, la strada del commercio e dei negozi, la
strada delle vetrine e dei Carnevali. Qui, mentre qualcuno cominciava a sollevare le serrande, lei zampettava con
la grazia sua propria, quella duna enorme foca incinta. Si
stoppava puntualmente davanti a quellantico caff che
ha profumato di dolce linfanzia di tutti i suoi concittadini. E in quel luogo, di fronte a spettatori mattutini, sempre esterrefatti, celebrava il suo trionfo. Ingollava, una
dopo laltra, cinque enormi bombe rigonfie di crema, e
faceva seguire un cappuccino caldo. Poi, appena appena
meno esagitata, assaggiava le sfoglie e i cannoncini, le fette di torta e il gelato al limone. Due yoghurt conditi con
zucchero completavano il pasto. Prendo lo yoghurt per
dimagrire, diceva.

Quindi, finalmente in pace col proprio stomaco e col


mondo, andava a scuola. Mi sono sempre chiesto cosa
potesse insegnare ai bambini. Pare la chiamassero culo
di elefante. Non avevano tutti i torti.
Puoi ben immaginare il pranzo e la cena.
In pi, beveva. Litri di vino. Senza misura. Anche se
credo che nessuno possa dirti di averla mai vista ubriaca.
Poi succede che a mammina gli si gonfia una bolla sul
collo. E si gonfiava e si gonfiava. E noi tutti a dire
mammina, va a farti vedere allospedale. Mammina,
dellospedale, aveva paura. Ce labbiamo portata moribonda. Hanno operato. Ma non cera pi niente da fare,
povera donna.
La mattina che mammina morta, tutti a vegliarla nella sala mortuaria dellospedale. A un certo punto Maddalena sparisce. Qualcuno dice sar andata a consolarsi con un chiletto di filetto e ridiamo. Non giusto,
quando c la morte. Ma si sa, proprio allora viene da ridere. E la battuta era buona.
Non era vero un cazzo. Maddalena, tutta tranquilla, se
nera andata a casa. Prende il libretto postale che aveva
fatto mettere a nome di tutte due, mamma e figlia, e va
a ritirare i milioni, che non si mai saputo quanti fossero, e nel libretto non lascia un centesimo. Un centesimo
ch uno. Puoi immaginare il casino. La accusiamo tutti,
e quella, con una faccia di suola da metterla al muro, dice che i quattrini erano suoi, che lei risparmiava, e che
mammina la sua pensione se lera regalata ai nipotini, e

quindi ognuno la sua parte di eredit se lera presa attraverso i figli.


Lavremmo strozzata, se non fosse stato chera nostra
sorella, e il sangue non acqua, ma qualcuno glielha predetto, che i soldi rubati in quel modo al proprio sangue
non sarebbero andati in buona sorte.
Cos stato. Si comprata lappartamento nuovo. E la
cucina nuova nuova tutta di metallo. Milioni sprecati,
come al solito.
Poi la prima crisi. I medici gli hanno detto di smetterla di bere, che gli faceva salire la pressione. Allora le sorelle, buone, anche se tradite, andavano ogni sera a casa
sua a controllare che non ci fosse vino. E vino, almeno
apparentemente, non ce nera. Doveva fare dieta. Doveva contenersi.
E improvvisamente si mette in casa quelluomo, quellIbrahim, arabo bastardo che chiss da dove piovuto,
e nessuno lo conosceva. Puoi immaginare le chiacchiere.
Larabo, magrissimo, pareva un drogato. E lei immensa,
madama tonnellata, culo di elefante. Naturalmente nessuno ha pensato al sesso. Alla sua et, poi. Era chiaro che
larabo voleva i quattrini.
E lei sbatte fuori le sorelle che vanno a visitarla. Non
ne voglio becchini anticipati dice. Carogna come sempre. E vive un mese con questo arabo.
Una volta arrivo l di mattina presto, allalba. Larabo
mi apre la porta in mutande, e mi saluta tutto cerimonioso e sparisce. Vado in camera di Maddalena, e la vedo nuda un mostro addormentata con la testa sul ter-

Quindi, finalmente in pace col proprio stomaco e col


mondo, andava a scuola. Mi sono sempre chiesto cosa
potesse insegnare ai bambini. Pare la chiamassero culo
di elefante. Non avevano tutti i torti.
Puoi ben immaginare il pranzo e la cena.
In pi, beveva. Litri di vino. Senza misura. Anche se
credo che nessuno possa dirti di averla mai vista ubriaca.
Poi succede che a mammina gli si gonfia una bolla sul
collo. E si gonfiava e si gonfiava. E noi tutti a dire
mammina, va a farti vedere allospedale. Mammina,
dellospedale, aveva paura. Ce labbiamo portata moribonda. Hanno operato. Ma non cera pi niente da fare,
povera donna.
La mattina che mammina morta, tutti a vegliarla nella sala mortuaria dellospedale. A un certo punto Maddalena sparisce. Qualcuno dice sar andata a consolarsi con un chiletto di filetto e ridiamo. Non giusto,
quando c la morte. Ma si sa, proprio allora viene da ridere. E la battuta era buona.
Non era vero un cazzo. Maddalena, tutta tranquilla, se
nera andata a casa. Prende il libretto postale che aveva
fatto mettere a nome di tutte due, mamma e figlia, e va
a ritirare i milioni, che non si mai saputo quanti fossero, e nel libretto non lascia un centesimo. Un centesimo
ch uno. Puoi immaginare il casino. La accusiamo tutti,
e quella, con una faccia di suola da metterla al muro, dice che i quattrini erano suoi, che lei risparmiava, e che
mammina la sua pensione se lera regalata ai nipotini, e

quindi ognuno la sua parte di eredit se lera presa attraverso i figli.


Lavremmo strozzata, se non fosse stato chera nostra
sorella, e il sangue non acqua, ma qualcuno glielha predetto, che i soldi rubati in quel modo al proprio sangue
non sarebbero andati in buona sorte.
Cos stato. Si comprata lappartamento nuovo. E la
cucina nuova nuova tutta di metallo. Milioni sprecati,
come al solito.
Poi la prima crisi. I medici gli hanno detto di smetterla di bere, che gli faceva salire la pressione. Allora le sorelle, buone, anche se tradite, andavano ogni sera a casa
sua a controllare che non ci fosse vino. E vino, almeno
apparentemente, non ce nera. Doveva fare dieta. Doveva contenersi.
E improvvisamente si mette in casa quelluomo, quellIbrahim, arabo bastardo che chiss da dove piovuto,
e nessuno lo conosceva. Puoi immaginare le chiacchiere.
Larabo, magrissimo, pareva un drogato. E lei immensa,
madama tonnellata, culo di elefante. Naturalmente nessuno ha pensato al sesso. Alla sua et, poi. Era chiaro che
larabo voleva i quattrini.
E lei sbatte fuori le sorelle che vanno a visitarla. Non
ne voglio becchini anticipati dice. Carogna come sempre. E vive un mese con questo arabo.
Una volta arrivo l di mattina presto, allalba. Larabo
mi apre la porta in mutande, e mi saluta tutto cerimonioso e sparisce. Vado in camera di Maddalena, e la vedo nuda un mostro addormentata con la testa sul ter-

mosifone. Mi pare ubriaca. Frugo in cucina per trovare il


fiasco. Ma fiasco vuoto non ce n, e manco pieno. Nessuna bottiglia di vino.
Ti giuro, quel giorno era rossa proprio come quando si
ubriacava.
E improvvisamente quellIbrahim ci telefona, laltra
notte, di correre. E corriamo. E troviamo Maddalena
tutta rossa addormentata con la testa sul termosifone.
Di notte aveva i pensieri freddi spiega il musulmano.
Per questo dormiva con la testa sul termosifone morta. Morta.
Ieri allora tutti a casa sua, per vedere di recuperare
qualcosa prima che larabo faccia sparire tutto. Tu dirai:
appena morta e gi l a dividere. Eh no. Una volta ci ha
fregato. Ma dopo morta no. Perdio.
E cominciamo a vedere cosa c e cosa non c, e a dividere. In cucina un nipote fruga proprio per bene e vede
tutte queste scatolette di the in bustina e si meraviglia.
Come! dice la zia non ha mai bevuto un sorso di the in
tutta la sua vita. Apre, ed proprio pieno di bustine, ma
guardiamo meglio, e son tutte bustine, di quelle tedesche,
per fare il vino. Una bustina due litri di rosso. Per sfuggire
i controlli familiari.
Capito? Questa ogni notte si piazzava davanti ai due litri e se li scolava, e neanche vino sano, vino tedesco in bustine; poi si addormentava collarabo, colla testa sul termosifone. La morte se l proprio cercata. Senza contare
che larabo poteva anche contagiarle qualche infezione,
lurido com.

Insomma, conta e riconta, dividi e decidi, siamo ancora


tutti nella casa della povera morta, quando Francesca ha
voglia di pisciare, va nel cesso, e nel cesso c Ibrahim con
una mutanda enorme di Maddalena, una mutanda per il
culo di un elefante. Nel cesso c Ibrahim con la mutanda
in mano che si fa una sega. Urla che non ti dico. E tutti
che corrono. Ibrahim seminudo apre la finestra e salta
gi dal secondo piano. Non si fa un cazzo. Corre e sparisce chiss dove.
Non per sparlare della morta, poveranima, diomenescampi, ancora calda nella bara, e noi qui che seguiamo
lamatissimo feretro.
Ma era proprio una troia!

mosifone. Mi pare ubriaca. Frugo in cucina per trovare il


fiasco. Ma fiasco vuoto non ce n, e manco pieno. Nessuna bottiglia di vino.
Ti giuro, quel giorno era rossa proprio come quando si
ubriacava.
E improvvisamente quellIbrahim ci telefona, laltra
notte, di correre. E corriamo. E troviamo Maddalena
tutta rossa addormentata con la testa sul termosifone.
Di notte aveva i pensieri freddi spiega il musulmano.
Per questo dormiva con la testa sul termosifone morta. Morta.
Ieri allora tutti a casa sua, per vedere di recuperare
qualcosa prima che larabo faccia sparire tutto. Tu dirai:
appena morta e gi l a dividere. Eh no. Una volta ci ha
fregato. Ma dopo morta no. Perdio.
E cominciamo a vedere cosa c e cosa non c, e a dividere. In cucina un nipote fruga proprio per bene e vede
tutte queste scatolette di the in bustina e si meraviglia.
Come! dice la zia non ha mai bevuto un sorso di the in
tutta la sua vita. Apre, ed proprio pieno di bustine, ma
guardiamo meglio, e son tutte bustine, di quelle tedesche,
per fare il vino. Una bustina due litri di rosso. Per sfuggire
i controlli familiari.
Capito? Questa ogni notte si piazzava davanti ai due litri e se li scolava, e neanche vino sano, vino tedesco in bustine; poi si addormentava collarabo, colla testa sul termosifone. La morte se l proprio cercata. Senza contare
che larabo poteva anche contagiarle qualche infezione,
lurido com.

Insomma, conta e riconta, dividi e decidi, siamo ancora


tutti nella casa della povera morta, quando Francesca ha
voglia di pisciare, va nel cesso, e nel cesso c Ibrahim con
una mutanda enorme di Maddalena, una mutanda per il
culo di un elefante. Nel cesso c Ibrahim con la mutanda
in mano che si fa una sega. Urla che non ti dico. E tutti
che corrono. Ibrahim seminudo apre la finestra e salta
gi dal secondo piano. Non si fa un cazzo. Corre e sparisce chiss dove.
Non per sparlare della morta, poveranima, diomenescampi, ancora calda nella bara, e noi qui che seguiamo
lamatissimo feretro.
Ma era proprio una troia!

Storia coloniale

Ancora questa citt. Questi canali.


Un attimo: lumido che esalava dallacqua, da questacqua mezzo-mare mezzo-fiume, si mosso. diventato
una mano. Una mano fredda e viscida, che ha strizzato il
mio cuore. Come un presentimento di sciagura.
II.
Ho ricordato la mia prima volta.
Nel villaggio sotto Algeri. Hans de Pool, lolandese,
aveva sparato una carica di pallettoni dentro la bocca rossa di quella bambina nera come linferno. Che dicevano
figlia di Ibrahim, limprendibile.
Era toccato a me, allora, tirarmi da parte, per vomitare
il disgusto con lultimo couscous ingurgitato in fretta e
furia.
III.
Quando mi sono lasciato il Damrak alle spalle, e ho
camminato sul bordo del canale, che ha sputato sensazioni umide di morte, ho sognato al mio fianco il ventenne che nel 1942, con la divisa fascista addosso, scopriva
la sua prima, inutile vocazione, proprio attorno a questi
canali.

Storia coloniale

Ancora questa citt. Questi canali.


Un attimo: lumido che esalava dallacqua, da questacqua mezzo-mare mezzo-fiume, si mosso. diventato
una mano. Una mano fredda e viscida, che ha strizzato il
mio cuore. Come un presentimento di sciagura.
II.
Ho ricordato la mia prima volta.
Nel villaggio sotto Algeri. Hans de Pool, lolandese,
aveva sparato una carica di pallettoni dentro la bocca rossa di quella bambina nera come linferno. Che dicevano
figlia di Ibrahim, limprendibile.
Era toccato a me, allora, tirarmi da parte, per vomitare
il disgusto con lultimo couscous ingurgitato in fretta e
furia.
III.
Quando mi sono lasciato il Damrak alle spalle, e ho
camminato sul bordo del canale, che ha sputato sensazioni umide di morte, ho sognato al mio fianco il ventenne che nel 1942, con la divisa fascista addosso, scopriva
la sua prima, inutile vocazione, proprio attorno a questi
canali.

Lho guardato, quel me stesso dellaltroieri.


Lho guardato. Aveva gli occhi lucidi, di gioia. E ignorava la forza del mondo.
Preparava la brigantata inaugurale.
In quella notte di esordio, nel buio di Amsterdam
oscurata dalla paura, ha aggredito un ricco, grasso, giallo alleato. Giapponese.
Gli ha sfilato il denaro dalla tasca della giubba, dopo
avergli quasi spaccato la testa con uno sfollagente dal
cuore di acciaio.
Ha preso il giapponese, e lha gettato nel canale, ancora tramortito.
Che vivesse. Se sapeva nuotare.
Incontrando quellio farabutto di trentotto anni fa,
lho guardato.
Senza affetto. Senza vergogna. Ho imparato a accettarmi.
***

I passi mi portano lentamente in Warmoes Straat: una


lunga strada stretta, zeppa di portoncini bianchi di hotel per studenti, vecchi negozi di importatori di the e
caff, con gli interni in legno stile vecchio-paese-coloniale e birrerie nere che vomitano fuori nuvole di hashish e accordi elettrici.

no dal Dam, allegri, sbronzi, furtivi, dondolanti, stravolti, bianchi e neri.


Un negretto di ventanni mi sfiora il braccio. S, non
pi di ventanni. Mi volto a guardarlo.
Hash? chiede in un soffio.
Forse sorrido. Sorride lui, comunque.
Cocaina?
Prendo il suo braccio che dondolava avanti e indietro.
Stringo. Stringo forte. Ho ancora forza, in queste grandi
mani da scimmia.
Mi guarda con una smorfia, prima di svincolarsi e fuggire.

V.

successo a Tetouan.
Prova, prova gorgogliava Jean Pierre Savant, che era
ingrassato in Messico, prima di accontentarsi del soldo
della Legione niente come un buon the di marjuana,
per farti dimenticare la puzza di cammello. Ottimo anche contro i dolori reumatici.
Ero giovane, allora. Ancora giovane.
Ho ingurgitato lintruglio.
E dormito. Solo dormito. Niente allucinazioni. N
scorpioni. Un gran sonno dolce in una bettola pidocchiosa di Tetouan.

VI.

IV.

Warmoes Straat. Ragazzi dappertutto. Vanno e vengo

Ancora il negretto. E tre o quattro amichetti.


Gli sorrido. Tutto dimenticato in un amen.

Lho guardato, quel me stesso dellaltroieri.


Lho guardato. Aveva gli occhi lucidi, di gioia. E ignorava la forza del mondo.
Preparava la brigantata inaugurale.
In quella notte di esordio, nel buio di Amsterdam
oscurata dalla paura, ha aggredito un ricco, grasso, giallo alleato. Giapponese.
Gli ha sfilato il denaro dalla tasca della giubba, dopo
avergli quasi spaccato la testa con uno sfollagente dal
cuore di acciaio.
Ha preso il giapponese, e lha gettato nel canale, ancora tramortito.
Che vivesse. Se sapeva nuotare.
Incontrando quellio farabutto di trentotto anni fa,
lho guardato.
Senza affetto. Senza vergogna. Ho imparato a accettarmi.
***

I passi mi portano lentamente in Warmoes Straat: una


lunga strada stretta, zeppa di portoncini bianchi di hotel per studenti, vecchi negozi di importatori di the e
caff, con gli interni in legno stile vecchio-paese-coloniale e birrerie nere che vomitano fuori nuvole di hashish e accordi elettrici.

no dal Dam, allegri, sbronzi, furtivi, dondolanti, stravolti, bianchi e neri.


Un negretto di ventanni mi sfiora il braccio. S, non
pi di ventanni. Mi volto a guardarlo.
Hash? chiede in un soffio.
Forse sorrido. Sorride lui, comunque.
Cocaina?
Prendo il suo braccio che dondolava avanti e indietro.
Stringo. Stringo forte. Ho ancora forza, in queste grandi
mani da scimmia.
Mi guarda con una smorfia, prima di svincolarsi e fuggire.

V.

successo a Tetouan.
Prova, prova gorgogliava Jean Pierre Savant, che era
ingrassato in Messico, prima di accontentarsi del soldo
della Legione niente come un buon the di marjuana,
per farti dimenticare la puzza di cammello. Ottimo anche contro i dolori reumatici.
Ero giovane, allora. Ancora giovane.
Ho ingurgitato lintruglio.
E dormito. Solo dormito. Niente allucinazioni. N
scorpioni. Un gran sonno dolce in una bettola pidocchiosa di Tetouan.

VI.

IV.

Warmoes Straat. Ragazzi dappertutto. Vanno e vengo

Ancora il negretto. E tre o quattro amichetti.


Gli sorrido. Tutto dimenticato in un amen.

Una vocina sarcastica, in falsetto, sussurra un hello,


paparino.
Stop. Immediato. Mani tese sul ventre. Nervi a fiutare
laria.
Da un muraccio buio alle spalle, due scampoli dombra
mi piombano addosso. Uno si piega, subito, appena incocciato su un gomito solido. Laltro mi colpisce col taglio
della mano. Colpisce male, fuori misura, sulla scapola.
Un mostro volante mi molla un calcio tremendo al collo. Una banda di maledetti karateka. Sono caduto proprio su una banda di maledetti veloci karateka.
Ho ancora un buon sinistro. Forte. Sodo. Pesante.
Naturalmente, non serve a un cazzo un sinistro pesante, se spaventa soltanto laria e manca il setto nasale di
quel bastardo negro karateka. Il quale bastardo, invece,
con un colpetto secco strappa la vecchia carotide di un
vecchio arnese da guerra, in Warmoes Straat.
Mi accascio.
Tutti assieme, cinquantotto anni. Dietro gli occhi.
Sono troppi.
Continuano a pestare, al buio.
Crollo.
VII.

va avere pi di trentanni soffiava su un gran fuoco di


paglia.
Hans de Pool ha urlato un bel po, prima di crepare.
Era capace, Ibrahim, con un coltello. Pareva un chirurgo.
Ha tagliato la sacca delle palle di Hans, con delicatezza.
Ha preso i coglioni in una mano. Li ha gettati su una piccola graticola. Si sono rinsecchiti. Cotti, chef.
Ibrahim li ha inghiottiti senza masticare, poi ha sputato
sulle mie scarpe.
Vaia, taliano, e raconta. Mi hanno detto, prima di
mollarmi. Tre notti, in quelloasi, col corpo di Hans che
mi imputridiva affianco. Non ho avuto il coraggio di coprirlo con la sabbia.
Le mosche sono state meno schizzinose di me. Il pi
bel banchetto per mosche di Rehreh e dintorni, dalla
creazione in gi. Tonnellate di mosche gialle sul giovane
Hans de Pool, biondo fanciullo olandese, assassino
straordinario, capace di sparare un colpo fra i denti di
una bambina, e di dormire come un angelo, subito dopo.
Quando mi hanno trovato, sragionavo e arrostivo un
muscolo del fanciullo. Cose che non succedono a chi non
ha fame.
Sentivo dappertutto, nellaria, nellacqua, nella sabbia,
nel simn, il canto di morte di una algerina irriducibile di
anni nove.

Mi hanno costretto, a guardare: Ibrahim sezionava il


torace di Hans in tanti piccoli quadretti di pelle, che infilava in uno spiedo, uno dopo laltro, come cubetti di
montone.
Un berbero con una gran barba bianca ma non dove-

Quando mi hanno trovato, la bambina ancora cantava,


e Hans ce leravamo diviso. Monsieur e le formiche.

VIII.

Una vocina sarcastica, in falsetto, sussurra un hello,


paparino.
Stop. Immediato. Mani tese sul ventre. Nervi a fiutare
laria.
Da un muraccio buio alle spalle, due scampoli dombra
mi piombano addosso. Uno si piega, subito, appena incocciato su un gomito solido. Laltro mi colpisce col taglio
della mano. Colpisce male, fuori misura, sulla scapola.
Un mostro volante mi molla un calcio tremendo al collo. Una banda di maledetti karateka. Sono caduto proprio su una banda di maledetti veloci karateka.
Ho ancora un buon sinistro. Forte. Sodo. Pesante.
Naturalmente, non serve a un cazzo un sinistro pesante, se spaventa soltanto laria e manca il setto nasale di
quel bastardo negro karateka. Il quale bastardo, invece,
con un colpetto secco strappa la vecchia carotide di un
vecchio arnese da guerra, in Warmoes Straat.
Mi accascio.
Tutti assieme, cinquantotto anni. Dietro gli occhi.
Sono troppi.
Continuano a pestare, al buio.
Crollo.
VII.

va avere pi di trentanni soffiava su un gran fuoco di


paglia.
Hans de Pool ha urlato un bel po, prima di crepare.
Era capace, Ibrahim, con un coltello. Pareva un chirurgo.
Ha tagliato la sacca delle palle di Hans, con delicatezza.
Ha preso i coglioni in una mano. Li ha gettati su una piccola graticola. Si sono rinsecchiti. Cotti, chef.
Ibrahim li ha inghiottiti senza masticare, poi ha sputato
sulle mie scarpe.
Vaia, taliano, e raconta. Mi hanno detto, prima di
mollarmi. Tre notti, in quelloasi, col corpo di Hans che
mi imputridiva affianco. Non ho avuto il coraggio di coprirlo con la sabbia.
Le mosche sono state meno schizzinose di me. Il pi
bel banchetto per mosche di Rehreh e dintorni, dalla
creazione in gi. Tonnellate di mosche gialle sul giovane
Hans de Pool, biondo fanciullo olandese, assassino
straordinario, capace di sparare un colpo fra i denti di
una bambina, e di dormire come un angelo, subito dopo.
Quando mi hanno trovato, sragionavo e arrostivo un
muscolo del fanciullo. Cose che non succedono a chi non
ha fame.
Sentivo dappertutto, nellaria, nellacqua, nella sabbia,
nel simn, il canto di morte di una algerina irriducibile di
anni nove.

Mi hanno costretto, a guardare: Ibrahim sezionava il


torace di Hans in tanti piccoli quadretti di pelle, che infilava in uno spiedo, uno dopo laltro, come cubetti di
montone.
Un berbero con una gran barba bianca ma non dove-

Quando mi hanno trovato, la bambina ancora cantava,


e Hans ce leravamo diviso. Monsieur e le formiche.

VIII.

IX.

Non mi mai piaciuto, il carcere. Nessun carcere, fra


tanti che ne ho conosciuto. Mi sconvolgono i corridoi e le
celle, le urla e i lamenti notturni, la puzza e la cattiva compagnia.
Nessuno riuscirebbe a dimenticare la cella in cui vissuto, anche durante un solo, unico, brevissimo giorno in
una lunga, lunghissima vita.
Quando mi ha trovato, il capitano Saln, in unoasi battuta da un vento infinito, deliravo su uno scheletro spolpato.
Mi ha chiuso in una cella, appena a Rehreh.
Forse per ridarmi un tono nervoso, mi ha torturato per
dieci giorni, e per dieci notti ha lasciato che tremassi di
freddo.
Poi, per due mesi, mi stato concesso il riposo: ho imparato a danzare con le lucertole anche se laria torrida mi
staccava il sangue dai polmoni. Ho imparato a cantare
con le capre anche se il gelo del buio mi cacciava sotto il
tavolaccio. Cantavo, tremante come un epilettico.
Con la grazia di un apache del tango, una grazia tutta
parigina, Saln insultava e frustava.
Stronzo, Saln.
Se Ibrahim avesse chiesto. Qualcosa, qualunque cosa,
camarade italien avrebbe raccontato, scritto. Spiegato.
Tutto. Mi sarei venduto al prezzo pi basso possibile.
Canter come un usignolo, fratellini neri, ma risparmiate
questa preziosissima pelle.
Invece niente. Nessuna domanda. Nessuna tortura.

Niente informazioni. Vaia, taliano, raconta. Tutto, e


basta.
Merda, Saln. Non capisci un cazzo.

X.

La banda di El Yussuf mi ha trovato, unico uomo vivo


bianco, impazzito per la seconda volta e per sempre, fra
le rovine del fortino bombardato. Salvato dal muro doppio della cella.
Mi hanno coperto con un telo bianco. Hanno spalmato sulla mia anima unguenti profumati.

XI.

Striscio nel buio. Warmoes Straat. Questa lurida citt


pulita. Striscio per arrivare chiss dove. A un qualcuno
che mi impedisca, ancora una volta, di morire. Forse a un
canale, che mi accolga, freddo, per ridarmi la vita. O
prendersela, una buona volta.

XII.

Ben Tahia versava il the alla menta in una vecchia tazza


sbeccata, di legno, mai lavata. Prima di berlo, lo annusavo
a lungo, e il vapore dava vita e tinta agli innumerevoli precedenti giri di kif. A quellet non vedevo cattedrali, dietro le palpebre socchiuse, ma cosce di donna, e ventri semiaperti.

XIII.

Strisciavo, nella bettola di Ben Tahia, sotto i tavoli, per

IX.

Non mi mai piaciuto, il carcere. Nessun carcere, fra


tanti che ne ho conosciuto. Mi sconvolgono i corridoi e le
celle, le urla e i lamenti notturni, la puzza e la cattiva compagnia.
Nessuno riuscirebbe a dimenticare la cella in cui vissuto, anche durante un solo, unico, brevissimo giorno in
una lunga, lunghissima vita.
Quando mi ha trovato, il capitano Saln, in unoasi battuta da un vento infinito, deliravo su uno scheletro spolpato.
Mi ha chiuso in una cella, appena a Rehreh.
Forse per ridarmi un tono nervoso, mi ha torturato per
dieci giorni, e per dieci notti ha lasciato che tremassi di
freddo.
Poi, per due mesi, mi stato concesso il riposo: ho imparato a danzare con le lucertole anche se laria torrida mi
staccava il sangue dai polmoni. Ho imparato a cantare
con le capre anche se il gelo del buio mi cacciava sotto il
tavolaccio. Cantavo, tremante come un epilettico.
Con la grazia di un apache del tango, una grazia tutta
parigina, Saln insultava e frustava.
Stronzo, Saln.
Se Ibrahim avesse chiesto. Qualcosa, qualunque cosa,
camarade italien avrebbe raccontato, scritto. Spiegato.
Tutto. Mi sarei venduto al prezzo pi basso possibile.
Canter come un usignolo, fratellini neri, ma risparmiate
questa preziosissima pelle.
Invece niente. Nessuna domanda. Nessuna tortura.

Niente informazioni. Vaia, taliano, raconta. Tutto, e


basta.
Merda, Saln. Non capisci un cazzo.

X.

La banda di El Yussuf mi ha trovato, unico uomo vivo


bianco, impazzito per la seconda volta e per sempre, fra
le rovine del fortino bombardato. Salvato dal muro doppio della cella.
Mi hanno coperto con un telo bianco. Hanno spalmato sulla mia anima unguenti profumati.

XI.

Striscio nel buio. Warmoes Straat. Questa lurida citt


pulita. Striscio per arrivare chiss dove. A un qualcuno
che mi impedisca, ancora una volta, di morire. Forse a un
canale, che mi accolga, freddo, per ridarmi la vita. O
prendersela, una buona volta.

XII.

Ben Tahia versava il the alla menta in una vecchia tazza


sbeccata, di legno, mai lavata. Prima di berlo, lo annusavo
a lungo, e il vapore dava vita e tinta agli innumerevoli precedenti giri di kif. A quellet non vedevo cattedrali, dietro le palpebre socchiuse, ma cosce di donna, e ventri semiaperti.

XIII.

Strisciavo, nella bettola di Ben Tahia, sotto i tavoli, per

arrivare alla porticina del paradiso, bianca e gialla, coperta su un lato da uno straccio di cotone verde recuperato
chiss come, e chiss perch appuntato a coprire un angolo di porta.
Dietro cera una stanzetta nera che sapeva di muffa, e
una stuoia lurida sul pavimento. Sulla stuoia, Ma Kada.
Marrone e nuda, madre di gioia. Una collana finissima di
chicchi davorio. I capelli raccolti in una lunga treccia
gonfia. Liride sorridente di mille pagliuzze di miele.
Sono state chiare, piovose, argentate, morbide giornate di dimenticanza.
Nel souk.

XIV.
Mi trascino, in Warmoes Straat. Come quel pesce, lunico della cesta che muove ancora le branchie, e tutti gli altri
stecchiti.

XV.
Ma Kada. Tutto attorno, il pavimento e la stuoia brulicavano di insetti. Lei era profumata, sempre. Odorava di
menta e di olive. Il corpo unto, i capelli lisci di cera.
Chiunque fosse, lospite, per lei era il principe del
Maghreb, benvenuto, e donava se stessa a spicchi e ad angoli, trattenuta.
XVI.
Quattro ragazzacci da niente, non maledetti karateka
addestrati. No. Bambini senza misura. Volevano metter-

mi paura. E invece mi hanno spezzato. Pivelli senza professionalit.


Ma io. Io. Non combatto.
Sfoglio i ricordi, come un adolescente.
I ricordi che dormivano, ora tutti svegli. Dormivano,
come i sogni della valle di Zerekhten.
XVII.
Quando piove sono scure, le foglie della vite, a Zerekhten. Una notte di pioggia, quando Bon Ralem, efebo nero,
fianchi danfora e viso di donna, Bon Ralem si infilato
sotto la mia coperta, e ho avuto una donna-uomo, un uomo-donna dai fianchi danfora che mordicchiava i lobi
delle mie orecchie.
Io stesso, evitando sempre i suoi occhi umidi di uomodonna innamorato, io stesso ho sparato tre colpi di beretta, nel cranio di Bon Ralem, un mese dopo.
Perch la spia che abitava il campo di Zerekhten, fra le
viti, e suggeriva i nostri itinerari a Ibrahim, Bon Ralem era
la spia.
Ho sparato. E ho seppellito quel nemico incomprensibile, assieme ai rimorsi ancora caldi.
XVIII.
Quel negretto a cui ho stretto il braccio, poco fa. Quel
bastardello che mi ha colpito poco fa con gli amici. Forse
lho visto perch portava con s gli stessi fianchi di donna-uomo, lo stesso sorriso di uomo-donna.

arrivare alla porticina del paradiso, bianca e gialla, coperta su un lato da uno straccio di cotone verde recuperato
chiss come, e chiss perch appuntato a coprire un angolo di porta.
Dietro cera una stanzetta nera che sapeva di muffa, e
una stuoia lurida sul pavimento. Sulla stuoia, Ma Kada.
Marrone e nuda, madre di gioia. Una collana finissima di
chicchi davorio. I capelli raccolti in una lunga treccia
gonfia. Liride sorridente di mille pagliuzze di miele.
Sono state chiare, piovose, argentate, morbide giornate di dimenticanza.
Nel souk.

XIV.
Mi trascino, in Warmoes Straat. Come quel pesce, lunico della cesta che muove ancora le branchie, e tutti gli altri
stecchiti.

XV.
Ma Kada. Tutto attorno, il pavimento e la stuoia brulicavano di insetti. Lei era profumata, sempre. Odorava di
menta e di olive. Il corpo unto, i capelli lisci di cera.
Chiunque fosse, lospite, per lei era il principe del
Maghreb, benvenuto, e donava se stessa a spicchi e ad angoli, trattenuta.
XVI.
Quattro ragazzacci da niente, non maledetti karateka
addestrati. No. Bambini senza misura. Volevano metter-

mi paura. E invece mi hanno spezzato. Pivelli senza professionalit.


Ma io. Io. Non combatto.
Sfoglio i ricordi, come un adolescente.
I ricordi che dormivano, ora tutti svegli. Dormivano,
come i sogni della valle di Zerekhten.
XVII.
Quando piove sono scure, le foglie della vite, a Zerekhten. Una notte di pioggia, quando Bon Ralem, efebo nero,
fianchi danfora e viso di donna, Bon Ralem si infilato
sotto la mia coperta, e ho avuto una donna-uomo, un uomo-donna dai fianchi danfora che mordicchiava i lobi
delle mie orecchie.
Io stesso, evitando sempre i suoi occhi umidi di uomodonna innamorato, io stesso ho sparato tre colpi di beretta, nel cranio di Bon Ralem, un mese dopo.
Perch la spia che abitava il campo di Zerekhten, fra le
viti, e suggeriva i nostri itinerari a Ibrahim, Bon Ralem era
la spia.
Ho sparato. E ho seppellito quel nemico incomprensibile, assieme ai rimorsi ancora caldi.
XVIII.
Quel negretto a cui ho stretto il braccio, poco fa. Quel
bastardello che mi ha colpito poco fa con gli amici. Forse
lho visto perch portava con s gli stessi fianchi di donna-uomo, lo stesso sorriso di uomo-donna.

XIX.
Bon Ralem, prima uomo, poi coniglio, poi pietra, poi
topo, poi uomo daccapo, in Warmoes Straat, Amsterdam,
incarnazioni e reincarnazioni una dopo laltra, mentre io
vivevo la mia unica vita.

nellate di inutili. Cos tanti, che uno si chiede cosa ci sia


sotto.
Non c niente sotto. C un giorno come gli altri, stupido come gli altri, e lacqua strega di un canale ti avvisa: fine della storia.

XX.
Ibrahim rideva, quando labbiamo messo al muro. Di
fronte al plotone di esecuzione, rideva. Il tenente Jabouille stava per ordinare il fuoco, e Ibrahim rideva. Rideva, e
parlava, in buon francese. Glieli ho mangiati, i coglioni,
al vostro camarada, me li sono arrostiti e li ho mangiati.
Cotti, chef.
Abbiamo sparato contro il diavolo. Non un plotone di
esecuzione. Un sacrificio rituale. La sua morte per la nostra vita.
Bon Ralem mi guarda senza amore, e soffia nel mio
orecchio, in Warmoes Straat. Soffia: dimmi un motivo,
un motivo solo perch tu non debba morire. Nobile o
ignobile. Un motivo.
Bon Ralem, fianchi danfora, ha un coltello di pietra posato leggero come una farfalla sulla mia carotide.
Che debbo dirti. Bon. Mon ami-e?
Non merito tanta bont, dal destino. Tanta tolleranza,
quanta ne ho avuta. Non pi di chiunque altro. Non pi
di qualunque altro assassino.
Non ho chiesto, io, alla sorte, i giorni per raccontare le
morti degli altri.
il mondo; Bon Ralem, bon ami. Tiene in vita ton-

XIX.
Bon Ralem, prima uomo, poi coniglio, poi pietra, poi
topo, poi uomo daccapo, in Warmoes Straat, Amsterdam,
incarnazioni e reincarnazioni una dopo laltra, mentre io
vivevo la mia unica vita.

nellate di inutili. Cos tanti, che uno si chiede cosa ci sia


sotto.
Non c niente sotto. C un giorno come gli altri, stupido come gli altri, e lacqua strega di un canale ti avvisa: fine della storia.

XX.
Ibrahim rideva, quando labbiamo messo al muro. Di
fronte al plotone di esecuzione, rideva. Il tenente Jabouille stava per ordinare il fuoco, e Ibrahim rideva. Rideva, e
parlava, in buon francese. Glieli ho mangiati, i coglioni,
al vostro camarada, me li sono arrostiti e li ho mangiati.
Cotti, chef.
Abbiamo sparato contro il diavolo. Non un plotone di
esecuzione. Un sacrificio rituale. La sua morte per la nostra vita.
Bon Ralem mi guarda senza amore, e soffia nel mio
orecchio, in Warmoes Straat. Soffia: dimmi un motivo,
un motivo solo perch tu non debba morire. Nobile o
ignobile. Un motivo.
Bon Ralem, fianchi danfora, ha un coltello di pietra posato leggero come una farfalla sulla mia carotide.
Che debbo dirti. Bon. Mon ami-e?
Non merito tanta bont, dal destino. Tanta tolleranza,
quanta ne ho avuta. Non pi di chiunque altro. Non pi
di qualunque altro assassino.
Non ho chiesto, io, alla sorte, i giorni per raccontare le
morti degli altri.
il mondo; Bon Ralem, bon ami. Tiene in vita ton-

Storia del carnevale

Una sera. Fuori un maledetto temporale tuonava indifferente, indifferente al destino di chi lavora allaperto,
sulle impalcature o sui tralicci, agli angoli dei vicoli sporchi, o davanti a vecchi portoni anneriti, elettricisti e muratori, carbonai e puttanelle.
Pioveva. Noi stavamo al riparo coi gomiti strisciosi su
un impasto di gocce di vino, di gocce di sugo, di gocce di
chisscosaltro, di gocce di pioggia portate dai gomiti di
chi piombava dentro, spinto dalla pioggia. Quello strano
impasto di gocce e polvere e fango impiastrava il ripiano
di un tavolaccio da vecchia osteria dei miserabili. Stavamo tutti attorno, poggiati coi gomiti sul tavolo. Io e gli altri. Al riparo dal temporale. A preparare il carnevale.
Carnevale. Avevamo gi deciso tutto, per il carnevale,
che arrivava proprio questa domenica, e bisognava farsi
trovar pronti. Avevamo gi deciso tutto, quando Fisio
salta su, si pesta le mani con gesto da ubriaco senza ritorno, e strilla: Tonino, poi, lo vestiamo da matto. E si piega sulle gambe, e pesta i piedi e gli zoccoli sul pavimento
di fango, e saltella sulla sedia, folletto spiritato a contorcersi dalle risate, e tutti attorno che sembrano presi da accessi di tosse, da quanto ridono.
Tonino, bisogna sapere, uno che ti struscia in piazzetta

Storia del carnevale

Una sera. Fuori un maledetto temporale tuonava indifferente, indifferente al destino di chi lavora allaperto,
sulle impalcature o sui tralicci, agli angoli dei vicoli sporchi, o davanti a vecchi portoni anneriti, elettricisti e muratori, carbonai e puttanelle.
Pioveva. Noi stavamo al riparo coi gomiti strisciosi su
un impasto di gocce di vino, di gocce di sugo, di gocce di
chisscosaltro, di gocce di pioggia portate dai gomiti di
chi piombava dentro, spinto dalla pioggia. Quello strano
impasto di gocce e polvere e fango impiastrava il ripiano
di un tavolaccio da vecchia osteria dei miserabili. Stavamo tutti attorno, poggiati coi gomiti sul tavolo. Io e gli altri. Al riparo dal temporale. A preparare il carnevale.
Carnevale. Avevamo gi deciso tutto, per il carnevale,
che arrivava proprio questa domenica, e bisognava farsi
trovar pronti. Avevamo gi deciso tutto, quando Fisio
salta su, si pesta le mani con gesto da ubriaco senza ritorno, e strilla: Tonino, poi, lo vestiamo da matto. E si piega sulle gambe, e pesta i piedi e gli zoccoli sul pavimento
di fango, e saltella sulla sedia, folletto spiritato a contorcersi dalle risate, e tutti attorno che sembrano presi da accessi di tosse, da quanto ridono.
Tonino, bisogna sapere, uno che ti struscia in piazzetta

per scroccare una sigaretta, dopopranzo, e tu cos, per


controllare gli chiedi: di, Tonino, bene hai mangiato?
E lui ti fissa, spento, con quei suoi occhi neri e vuoti, vuoti
e neri, che sembra un disperato che si prepara a strozzarti,
e balbetta e-e-e-eh, e-e-e-eh e ridacchia che cazzo ci
trover di buffo in quellesistenza di merda.
Tre ore dopo stai giocando a scopa nella bettola di
Ibrahim, mauritano di merda che pare vecchio come Gerusalemme e che abbia cento orecchie pronte a raccogliere qualunque spazzatura di chiacchiera che gli capiti a tiro, e Tonino te lo sei dimenticato, e invece lui arriva, ti
scrocca la seconda sigaretta, e concentrato e tranquillo ti
recita il riassuntino completo: prima un poco di pastasciutta, dopo tre carciofi, e finanche una mela.
Coshai bevuto, di, Tonino?
Secondo tilt consecutivo a distanza di poco tempo, e ti
guarda come un rospaccio che ti voglia annegare nello
stagno, e strascica un e-e-e-eh, e-e-e-eh, e torna tre ore
dopo, terza sigaretta. Esatto come un cronometro.
Certe risposte, invece, Tonino le sa a memoria, e le sputa come una macchinetta elettronica, a domanda risponde. I bambini gli chiedono certi monelli infangati, senza
mutande, dotati di maglietta sport.
Quanti anni hai, Tonino?
E lui spara convinto: quindici.
Quante orecchie hai, Tonino?
Trac-trac il cervellino che fruga, sputa due.
Quanti occhi hai, Tonino?
Qui siamo sul sicuro, una filastrocca: due.

E gambe, Tonino, quante ne hai?


Il tempo di contare, ch queste le vede: una, e due.
Vai Tonino, vai tranquillo ridacchia un bambino vai
proprio tranquillo, che non ti manca nulla. Non ti manca
proprio nulla.
E va, Tonino tranquillo poco, diciamo contento
contento, va per la sua strada. Perch capisce che non gli
manca veramente nulla, ma proprio nulla. E di quel nulla
che a malapena gli manca, lui non sa che farsene. Non
gliene serve nulla.
Cos, domenica di carnevale, lo vestiamo da matto di
manicomio, di quelli coi pantaloni grigi e la giacca marroncina, che stoppano il traffico per cento lire e di notte
vanno a dormire nellex-manicomio, dove adesso dormono i matti che prima dormivano nel manicomio. Tonino
bello con la tuta da matto-liberato ufficiale, che se si presenta in manicomio, una notte per dormire, non lo mandano pi fuori, e gli sperimentano il cervello con le macchine.
Lui si aggira per il villaggio a farsi vedere e ammirare da
tutti. Travestito. E cos non gli manca proprio nulla, ma
nulla davvero.
una bella festa ben organizzata, questo carnevale.
Tutti travestiti. Quelli del villaggio. Tutti quanti. Proprio proprio.
Tutti quelli che abitano qui. Pescatori. E qualche puttana decrepita. E certi eleganti personaggi che pagano un
abito di lino circa sei mesi di galera per sfruttamento della
prostituzione, e magari furto con scasso, e persino ma

per scroccare una sigaretta, dopopranzo, e tu cos, per


controllare gli chiedi: di, Tonino, bene hai mangiato?
E lui ti fissa, spento, con quei suoi occhi neri e vuoti, vuoti
e neri, che sembra un disperato che si prepara a strozzarti,
e balbetta e-e-e-eh, e-e-e-eh e ridacchia che cazzo ci
trover di buffo in quellesistenza di merda.
Tre ore dopo stai giocando a scopa nella bettola di
Ibrahim, mauritano di merda che pare vecchio come Gerusalemme e che abbia cento orecchie pronte a raccogliere qualunque spazzatura di chiacchiera che gli capiti a tiro, e Tonino te lo sei dimenticato, e invece lui arriva, ti
scrocca la seconda sigaretta, e concentrato e tranquillo ti
recita il riassuntino completo: prima un poco di pastasciutta, dopo tre carciofi, e finanche una mela.
Coshai bevuto, di, Tonino?
Secondo tilt consecutivo a distanza di poco tempo, e ti
guarda come un rospaccio che ti voglia annegare nello
stagno, e strascica un e-e-e-eh, e-e-e-eh, e torna tre ore
dopo, terza sigaretta. Esatto come un cronometro.
Certe risposte, invece, Tonino le sa a memoria, e le sputa come una macchinetta elettronica, a domanda risponde. I bambini gli chiedono certi monelli infangati, senza
mutande, dotati di maglietta sport.
Quanti anni hai, Tonino?
E lui spara convinto: quindici.
Quante orecchie hai, Tonino?
Trac-trac il cervellino che fruga, sputa due.
Quanti occhi hai, Tonino?
Qui siamo sul sicuro, una filastrocca: due.

E gambe, Tonino, quante ne hai?


Il tempo di contare, ch queste le vede: una, e due.
Vai Tonino, vai tranquillo ridacchia un bambino vai
proprio tranquillo, che non ti manca nulla. Non ti manca
proprio nulla.
E va, Tonino tranquillo poco, diciamo contento
contento, va per la sua strada. Perch capisce che non gli
manca veramente nulla, ma proprio nulla. E di quel nulla
che a malapena gli manca, lui non sa che farsene. Non
gliene serve nulla.
Cos, domenica di carnevale, lo vestiamo da matto di
manicomio, di quelli coi pantaloni grigi e la giacca marroncina, che stoppano il traffico per cento lire e di notte
vanno a dormire nellex-manicomio, dove adesso dormono i matti che prima dormivano nel manicomio. Tonino
bello con la tuta da matto-liberato ufficiale, che se si presenta in manicomio, una notte per dormire, non lo mandano pi fuori, e gli sperimentano il cervello con le macchine.
Lui si aggira per il villaggio a farsi vedere e ammirare da
tutti. Travestito. E cos non gli manca proprio nulla, ma
nulla davvero.
una bella festa ben organizzata, questo carnevale.
Tutti travestiti. Quelli del villaggio. Tutti quanti. Proprio proprio.
Tutti quelli che abitano qui. Pescatori. E qualche puttana decrepita. E certi eleganti personaggi che pagano un
abito di lino circa sei mesi di galera per sfruttamento della
prostituzione, e magari furto con scasso, e persino ma

questi sono rari, malvestiti e brutti, e fanno paura rapina


a mano armata.
Al villaggio dei pescatori, quattro casacce vecchie disseminate sulla sabbia, col mare davanti alla porta di casa,
e lo stagno dalla finestra del bagno, solo gente di queste
razze: pescatori, puttane, fuorilegge formato mignon.
In citt c questa citt, a cinquecento metri di ponti,
in fondo sullorizzonte. Grande come una madre sdraiata
a gambe aperte, e noi a proteggere lingresso della pancia
della vecchia madre in citt, credetemi, pure: furfanti
anche in citt, e pescatori, e decine di piccole sceme puttanelle borghesi che si vendono per la continuit-spaghetti, spaghetti assieme tutta la vita. Spaghetti e televisione.
Spaghetti e politica. Spaghetti e rock e roll.
E hanno paura dei coltelli sotto la luna. Hanno paura
delle botte. Si chiudono nelle scatolette di ceramica liscia
hanno paura.
Qui nessuno si vergogna del suo mestiere. Perch bisogna rispettare il pane che si mangia.
E comincia la partita di calcio, primo clou del carnevale. Si sparsa la voce, e certi vecchi contadini e nuovi
strani ragazzi di citt, che sembrano i fratelli dei nostri ragazzi del villaggio, sono arrivati per partecipare allo spettacolo. E quasi ci sentiamo un carnevale di quelli che arriva anche la televisione.
Una squadra travestiti da donne. Certe tette da incubo.
E minigonne. E cappucci da notte. Fisio ci aveva la gonna
con lo spacco. Di qualche fondo di baule. La gonna con
lo spacco e la cappellina con veletta, una mise molto fi-

ne. E per segnare il terzo goal si schiacciato lelmo sulla


nuca, perch non volasse, e si strappato la gonna per
correre meglio, mentre ne dribblava due pi portiere e finiva in porta con pallone e faccia sulla rete. Un bel goal.
E una squadra travestiti da calciatori. Senza tacchi a
spillo, ma anche con poco cervello. Il bello della sfida era
proprio questo: riusciranno i nostri eroi, incerti sulle
gambe e con le mutandine di seta nera e le giarrettiere
elastiche, riusciranno i migliori a vincere i ciappuzzi piedistorti, ben calzati con tacchetti, in regolamentare divisa
e con la voglia di vincere al pallone una volta nella vita, almeno questa che gli avversari pensano pi a fare i buffoni
che a giocare?
arrivata la zeppolata. Per residenti e stranieri. Zeppole caldissime coperte di zucchero. Portate a braccia dalle
fighe pi belle del villaggio. Una festa da signori.
E continua la partita. E Luigi in uno scontro perde la
pancia. Il pancione. Perch sotto labitino minimissimo
rosa da ballerina di decima fila aveva portato un pancione da gravida al quinto mese. E si muoveva come un insetto grasso e velocissimo, le mani a sorreggere il pancione.
Luigi si scontra in un takle selvaggio, gli si sfila il pancione, e Tonino vestito da matto entra in campo urlando
come un matto: aborto, aborto.
E cerca laborto e trova un cuscino di piume. Un cuscino di piume, e non laborto regolare, come quelli che si
trovano qualche mattina nellacqua dello stagno: piccoli
piccoli accucciati. Sembrano quasi bambini.

questi sono rari, malvestiti e brutti, e fanno paura rapina


a mano armata.
Al villaggio dei pescatori, quattro casacce vecchie disseminate sulla sabbia, col mare davanti alla porta di casa,
e lo stagno dalla finestra del bagno, solo gente di queste
razze: pescatori, puttane, fuorilegge formato mignon.
In citt c questa citt, a cinquecento metri di ponti,
in fondo sullorizzonte. Grande come una madre sdraiata
a gambe aperte, e noi a proteggere lingresso della pancia
della vecchia madre in citt, credetemi, pure: furfanti
anche in citt, e pescatori, e decine di piccole sceme puttanelle borghesi che si vendono per la continuit-spaghetti, spaghetti assieme tutta la vita. Spaghetti e televisione.
Spaghetti e politica. Spaghetti e rock e roll.
E hanno paura dei coltelli sotto la luna. Hanno paura
delle botte. Si chiudono nelle scatolette di ceramica liscia
hanno paura.
Qui nessuno si vergogna del suo mestiere. Perch bisogna rispettare il pane che si mangia.
E comincia la partita di calcio, primo clou del carnevale. Si sparsa la voce, e certi vecchi contadini e nuovi
strani ragazzi di citt, che sembrano i fratelli dei nostri ragazzi del villaggio, sono arrivati per partecipare allo spettacolo. E quasi ci sentiamo un carnevale di quelli che arriva anche la televisione.
Una squadra travestiti da donne. Certe tette da incubo.
E minigonne. E cappucci da notte. Fisio ci aveva la gonna
con lo spacco. Di qualche fondo di baule. La gonna con
lo spacco e la cappellina con veletta, una mise molto fi-

ne. E per segnare il terzo goal si schiacciato lelmo sulla


nuca, perch non volasse, e si strappato la gonna per
correre meglio, mentre ne dribblava due pi portiere e finiva in porta con pallone e faccia sulla rete. Un bel goal.
E una squadra travestiti da calciatori. Senza tacchi a
spillo, ma anche con poco cervello. Il bello della sfida era
proprio questo: riusciranno i nostri eroi, incerti sulle
gambe e con le mutandine di seta nera e le giarrettiere
elastiche, riusciranno i migliori a vincere i ciappuzzi piedistorti, ben calzati con tacchetti, in regolamentare divisa
e con la voglia di vincere al pallone una volta nella vita, almeno questa che gli avversari pensano pi a fare i buffoni
che a giocare?
arrivata la zeppolata. Per residenti e stranieri. Zeppole caldissime coperte di zucchero. Portate a braccia dalle
fighe pi belle del villaggio. Una festa da signori.
E continua la partita. E Luigi in uno scontro perde la
pancia. Il pancione. Perch sotto labitino minimissimo
rosa da ballerina di decima fila aveva portato un pancione da gravida al quinto mese. E si muoveva come un insetto grasso e velocissimo, le mani a sorreggere il pancione.
Luigi si scontra in un takle selvaggio, gli si sfila il pancione, e Tonino vestito da matto entra in campo urlando
come un matto: aborto, aborto.
E cerca laborto e trova un cuscino di piume. Un cuscino di piume, e non laborto regolare, come quelli che si
trovano qualche mattina nellacqua dello stagno: piccoli
piccoli accucciati. Sembrano quasi bambini.

Piange, Tonino, che non capisce lo scherzo. E intorno


si fermato anche larbitro, a pisciarsi dalle risate.
Il pranzo. Tutti assieme, nella piazzetta. Coi tavoli da
cucina coperti di drappi colorati. venuto un sole che
sembrava giugno, e non febbraio. Stiamo bene, in maniche di camicia. A ridere di ogni cazzata. E Fisio che racconta le barzellette sporche agli ospiti importanti. Il pesce fritto a tegami. E grigliate di anguille. Da berci brocche di vino.
Col buio arrivato il carnevale vero, quello grande,
scuro e misterioso. Ognuno sembra un altro, trasforma
persino la piega ai pensieri e alle parole: quello che cammina trasformato da leopardo, chi ti dice che non creda
di esserci, leopardo?
Il leopardo, e il gangster, e la vecchia baldracca assatanata, e persino un Topolino di trentaquattro anni che pare reduce fresco dal carcere mandamentale di Buoncammino quella piccola sing-sing che spadroneggia, dallalto del colle pi alto, spadroneggia su tutta la citt, e si vede persino dal mare, rossastra e scura, per quanto tentino
di nasconderla con un viale alberato che la domenica pomeriggio canta le voci di certi bambini che i genitori tengono accompagnati per mano in una futile passeggiata e
canta le voci di certi detenuti incarogniti che pestano la
loro rabbia in canzoni di fica accompagnate dal rozzo
battito di un cucchiaio.
Canta strane canzoni il Buoncammino, certi cori discordanti di voglio il gelato voglio questo voglio quello,
appena sono pi grande voglio la motocicletta, voglio

smetterla di andare a scuola, voglio fare il ciabattino, l


un bel mestir... Certi cori di voglio la fica e ce lavevo
certi cori di mugugni avvelenati, certaria di galera...
Il leopardo, il gangster, il condannato a dodici anni di
galera. Tutti mascherati. Da ogni porta uscita una figura
mascherata, e non ci si riconosce fra padri e figli.
Le donne hanno pi fantasia e i giovanissimi e i bambini e le vedi saltellare mimando i gesti di una bestia, o
quelli del vicino di casa e il riso scoppia, a ogni burla
ben riuscita.
Annalisa si vestita da supermen, con uno scialle rosso
su una tuta blu, e un bello stemma giallo sul petto, leroe
degli oppressi, e se l cucito di nascosto, il vestito. bellissima. Insomma... si vede ch Annalisa.
Ma il pi spaventoso Ibrahim. Che sulle vesti dimesse
da vecchio mauritano ha costruito una mostruosa immagine di mostro e mostro veramente, con le sue cento
orecchie coprendosi tutto con un piegone pi volte avvolto e gonfiato che pare plastica rubata da un ladro impazzito e sconvolto in un cortile petrolchimico. O qualche operaio che smercia la plastica al mercato nero, per
copertoni, teloni e telini. Plastica garantita. Ibrahim tutto
avvolto nella plastica grigia, solo i piedini neri di vecchio
caprone che spuntano sulla terra, spuntano dalla plastica. E quella plastica gobba e contorta. Sembra uno scarto di magazzino che cammina.
E una maschera bianca di cartapesta, tutta avvizzita in
unespressione da corvo, con quegli occhietti malati nascosti da un buco nella cartapesta, che gli permette di

Piange, Tonino, che non capisce lo scherzo. E intorno


si fermato anche larbitro, a pisciarsi dalle risate.
Il pranzo. Tutti assieme, nella piazzetta. Coi tavoli da
cucina coperti di drappi colorati. venuto un sole che
sembrava giugno, e non febbraio. Stiamo bene, in maniche di camicia. A ridere di ogni cazzata. E Fisio che racconta le barzellette sporche agli ospiti importanti. Il pesce fritto a tegami. E grigliate di anguille. Da berci brocche di vino.
Col buio arrivato il carnevale vero, quello grande,
scuro e misterioso. Ognuno sembra un altro, trasforma
persino la piega ai pensieri e alle parole: quello che cammina trasformato da leopardo, chi ti dice che non creda
di esserci, leopardo?
Il leopardo, e il gangster, e la vecchia baldracca assatanata, e persino un Topolino di trentaquattro anni che pare reduce fresco dal carcere mandamentale di Buoncammino quella piccola sing-sing che spadroneggia, dallalto del colle pi alto, spadroneggia su tutta la citt, e si vede persino dal mare, rossastra e scura, per quanto tentino
di nasconderla con un viale alberato che la domenica pomeriggio canta le voci di certi bambini che i genitori tengono accompagnati per mano in una futile passeggiata e
canta le voci di certi detenuti incarogniti che pestano la
loro rabbia in canzoni di fica accompagnate dal rozzo
battito di un cucchiaio.
Canta strane canzoni il Buoncammino, certi cori discordanti di voglio il gelato voglio questo voglio quello,
appena sono pi grande voglio la motocicletta, voglio

smetterla di andare a scuola, voglio fare il ciabattino, l


un bel mestir... Certi cori di voglio la fica e ce lavevo
certi cori di mugugni avvelenati, certaria di galera...
Il leopardo, il gangster, il condannato a dodici anni di
galera. Tutti mascherati. Da ogni porta uscita una figura
mascherata, e non ci si riconosce fra padri e figli.
Le donne hanno pi fantasia e i giovanissimi e i bambini e le vedi saltellare mimando i gesti di una bestia, o
quelli del vicino di casa e il riso scoppia, a ogni burla
ben riuscita.
Annalisa si vestita da supermen, con uno scialle rosso
su una tuta blu, e un bello stemma giallo sul petto, leroe
degli oppressi, e se l cucito di nascosto, il vestito. bellissima. Insomma... si vede ch Annalisa.
Ma il pi spaventoso Ibrahim. Che sulle vesti dimesse
da vecchio mauritano ha costruito una mostruosa immagine di mostro e mostro veramente, con le sue cento
orecchie coprendosi tutto con un piegone pi volte avvolto e gonfiato che pare plastica rubata da un ladro impazzito e sconvolto in un cortile petrolchimico. O qualche operaio che smercia la plastica al mercato nero, per
copertoni, teloni e telini. Plastica garantita. Ibrahim tutto
avvolto nella plastica grigia, solo i piedini neri di vecchio
caprone che spuntano sulla terra, spuntano dalla plastica. E quella plastica gobba e contorta. Sembra uno scarto di magazzino che cammina.
E una maschera bianca di cartapesta, tutta avvizzita in
unespressione da corvo, con quegli occhietti malati nascosti da un buco nella cartapesta, che gli permette di

sbirciare fuori senza che nessuno lo veda. E gli occhiali


neri da drogato.
I bambini lo tengono lontano. Vecchio sadico. Se li
sfiora scappano, hanno paura che li porti in qualche tomba.
Lui prende le donne per mano le riconosce, lui, le
donne vere, da quelle finte e le trascina saltellante, vecchio sadico, dietro qualche angolo buio. E sposta un lembo misterioso di quellaffare di plastica, e spunta un cazzo grandissimo di plastica sporchiccia, tutto rosso e nero,
da malato di fegato. Uno schifo.
Uno schifo di travestimento da sozzissima bestia. Il pi
riuscito del carnevale. Il pi veritiero.
Quando stiamo ballando. Succede quando stiamo ballando. buio, ormai, e umido, dal mare. Io rabbrividisco
sotto un maglione. Con luci ancora accese, e maschere
ubriache che torneranno in vita fra due giorni giusto
per scaricare la bevuta.
Fisio balla con Annalisa. Una bella coppia. Lui mascherato da puttanella dalto bordo di dieci anni fa. Lei vestita
da uomo delle favole. Ti rapisco e ti vendo. Dolcezza mia.
Ibrahim si trascina dietro Tonino impaurito. Lo trascina in un sottoscala buio. E lo spaventa. Facendogli vedere quello schifo di cazzo di gomma.
E quello corre come un disperato in piazza. Con gli occhi sgranati.
Eppure di cosucce sporchine ne deve conoscere: allunga il suo tempo spiando dalle finestre delle case, tutte finestre che, se passi fuori, guardi dentro per forza per-

ch non c altro che finestre aperte ad altezza duomo da


una parte e dallaltra, e davanti e dietro. Spiando, Tonino
si fatto una cultura. I marinai turchi. Li ha visti, i marinai turchi, dalle finestre delle case.
Corre e urla in piazza. Spaventato. Cos, si spaventano i
bambini.
E tutti attorno a ridere, e a battergli le pacche sulle
spalle. Diciotto sigarette.
Forse luna di notte. Si scherza ancora bene.
Rodolfo uno che quandera giovane, ha combattuto
per il titolo italiano dei medi, una bestia grande, che sfascia carrozze, a cinquantanni sfascia pi carrozze lui con
un martellone di gomma che una demolitrice dacciaio.
Rodolfo, per quanto grosso e ciccioso sul ventre, non regge mezzo litro, ubriaco. Rodolfo, travestito da ballerinetta, col tut e le scarpine bianche e rosa, vomita il pranzo e la cena addosso a Francolino, che un bulletto che
sincazza subito. Rodolfo molla un cazzotto da stendere
un cinghiale in corsa. E Fisio, con lautorit del campione, si mette di mezzo a placare la vecchia gloria: cazzo,
dovrebbe essere una festa. E gli hai gi vomitato addosso.
Logico che sincazza. Ma perch il cazzotto, eh?, e Rodolfo picchia anche Fisio, che pure un campione di pallone in serie D, e gloria domenicale del villaggio. Lo seguono anche in trasferta, in citt. E Rodolfo lo stende.
Ci mettiamo in quattro, per fermare Rodolfo, che
strappa come un mulo, come una barca arenata. E ce ne
vuole.
Annalisa scopre che non c Tonino. Non c pi.

sbirciare fuori senza che nessuno lo veda. E gli occhiali


neri da drogato.
I bambini lo tengono lontano. Vecchio sadico. Se li
sfiora scappano, hanno paura che li porti in qualche tomba.
Lui prende le donne per mano le riconosce, lui, le
donne vere, da quelle finte e le trascina saltellante, vecchio sadico, dietro qualche angolo buio. E sposta un lembo misterioso di quellaffare di plastica, e spunta un cazzo grandissimo di plastica sporchiccia, tutto rosso e nero,
da malato di fegato. Uno schifo.
Uno schifo di travestimento da sozzissima bestia. Il pi
riuscito del carnevale. Il pi veritiero.
Quando stiamo ballando. Succede quando stiamo ballando. buio, ormai, e umido, dal mare. Io rabbrividisco
sotto un maglione. Con luci ancora accese, e maschere
ubriache che torneranno in vita fra due giorni giusto
per scaricare la bevuta.
Fisio balla con Annalisa. Una bella coppia. Lui mascherato da puttanella dalto bordo di dieci anni fa. Lei vestita
da uomo delle favole. Ti rapisco e ti vendo. Dolcezza mia.
Ibrahim si trascina dietro Tonino impaurito. Lo trascina in un sottoscala buio. E lo spaventa. Facendogli vedere quello schifo di cazzo di gomma.
E quello corre come un disperato in piazza. Con gli occhi sgranati.
Eppure di cosucce sporchine ne deve conoscere: allunga il suo tempo spiando dalle finestre delle case, tutte finestre che, se passi fuori, guardi dentro per forza per-

ch non c altro che finestre aperte ad altezza duomo da


una parte e dallaltra, e davanti e dietro. Spiando, Tonino
si fatto una cultura. I marinai turchi. Li ha visti, i marinai turchi, dalle finestre delle case.
Corre e urla in piazza. Spaventato. Cos, si spaventano i
bambini.
E tutti attorno a ridere, e a battergli le pacche sulle
spalle. Diciotto sigarette.
Forse luna di notte. Si scherza ancora bene.
Rodolfo uno che quandera giovane, ha combattuto
per il titolo italiano dei medi, una bestia grande, che sfascia carrozze, a cinquantanni sfascia pi carrozze lui con
un martellone di gomma che una demolitrice dacciaio.
Rodolfo, per quanto grosso e ciccioso sul ventre, non regge mezzo litro, ubriaco. Rodolfo, travestito da ballerinetta, col tut e le scarpine bianche e rosa, vomita il pranzo e la cena addosso a Francolino, che un bulletto che
sincazza subito. Rodolfo molla un cazzotto da stendere
un cinghiale in corsa. E Fisio, con lautorit del campione, si mette di mezzo a placare la vecchia gloria: cazzo,
dovrebbe essere una festa. E gli hai gi vomitato addosso.
Logico che sincazza. Ma perch il cazzotto, eh?, e Rodolfo picchia anche Fisio, che pure un campione di pallone in serie D, e gloria domenicale del villaggio. Lo seguono anche in trasferta, in citt. E Rodolfo lo stende.
Ci mettiamo in quattro, per fermare Rodolfo, che
strappa come un mulo, come una barca arenata. E ce ne
vuole.
Annalisa scopre che non c Tonino. Non c pi.

sparito, Tonino. Non c sotto i letti di nessuno, dentro nessun armadio, in nessun sottoscala, in nessuna baracca di latta e legna lungo lo stagno case dappuntamenti. Tonino sparito dal mondo.
Le case sono poche. Da una parte una strada, quella
che trascina nel ventre della citt madre, e nellaltro senso ti sputa fuori verso il cemento delle ville in condominio. Fisio e Francolino e Rodolfo, tutti svegli alle sei del
mattino, dopo tanti caff, corrono in macchina avanti e
indietro, verso i ponti, e verso il mare e le zanzare. E le
villette del cazzo. Avanti e indietro. E Tonino non c.
Neanche sotto i ponti.
Tutti nelle barche. Attorno nero. A febbraio la luce
aspetta ancora.
Con le lampade. Tutti nelle stagno. A guardare fra le
piante, a disturbare le galline.
Una luce ancora spenta schiaccia la notte, e noi nello
stagno. Sono le settemezza. E lo troviamo accucciato sul
gradino di una chiesetta diroccata, in unisola l dentro,
in mezzo allo stagno, sta zitto e non chiama.
Una specie di apparizione. venuto fin qui a nuoto. Da
solo. Di notte.
Cos si scopre che ha imparato a nuotare, e nessuno
glielha insegnato. Perch in spiaggia spaventa i bambini.
Lo scemo ha imparato a nuotare, e si portato via anche il costume da matto. scappato.
Vieni che torniamo a casa, Tonino.
Io non ci torno.
Con calma. E con le buone. Lo portiamo alla barca.

Sussurrandogli affetto. E lui zitto a guardare la lampada e


lacqua. Improvvisamente, sul bordo di un canneto, si
tuffa e sparisce.
Dopo un po lo vediamo lontano, che nuota, tenendo il
costume da matto in alto, con una mano. Nuota come un
giocatore di pallanuoto. Come un pazzo.
Cerchiamo tutto il giorno. Secondo di carnevale... E
tutta unaltra notte. Senza turni. Tutte le barche. E Tonino sparito via dal mondo. Non si vede neanche nuotare.
Non c pi, fra terra e acqua.
Ma lacqua che prima o poi riconduce a casa gli annegati, lacqua lha tenuto nascosto. Due giorni e due notti.
Nuotare, sa nuotare ha detto Fisio e se vuol tornare
la strada la conosce meglio di noi.
E la ricerca finita.

Ma non torna, Tonino.


Marietta, ogni notte, e Annalisa, lasciano accese le finestre sullo stagno. Ch gli serva per vedere le barche. Per
tornare tranquillo, senza farsi male.

sparito, Tonino. Non c sotto i letti di nessuno, dentro nessun armadio, in nessun sottoscala, in nessuna baracca di latta e legna lungo lo stagno case dappuntamenti. Tonino sparito dal mondo.
Le case sono poche. Da una parte una strada, quella
che trascina nel ventre della citt madre, e nellaltro senso ti sputa fuori verso il cemento delle ville in condominio. Fisio e Francolino e Rodolfo, tutti svegli alle sei del
mattino, dopo tanti caff, corrono in macchina avanti e
indietro, verso i ponti, e verso il mare e le zanzare. E le
villette del cazzo. Avanti e indietro. E Tonino non c.
Neanche sotto i ponti.
Tutti nelle barche. Attorno nero. A febbraio la luce
aspetta ancora.
Con le lampade. Tutti nelle stagno. A guardare fra le
piante, a disturbare le galline.
Una luce ancora spenta schiaccia la notte, e noi nello
stagno. Sono le settemezza. E lo troviamo accucciato sul
gradino di una chiesetta diroccata, in unisola l dentro,
in mezzo allo stagno, sta zitto e non chiama.
Una specie di apparizione. venuto fin qui a nuoto. Da
solo. Di notte.
Cos si scopre che ha imparato a nuotare, e nessuno
glielha insegnato. Perch in spiaggia spaventa i bambini.
Lo scemo ha imparato a nuotare, e si portato via anche il costume da matto. scappato.
Vieni che torniamo a casa, Tonino.
Io non ci torno.
Con calma. E con le buone. Lo portiamo alla barca.

Sussurrandogli affetto. E lui zitto a guardare la lampada e


lacqua. Improvvisamente, sul bordo di un canneto, si
tuffa e sparisce.
Dopo un po lo vediamo lontano, che nuota, tenendo il
costume da matto in alto, con una mano. Nuota come un
giocatore di pallanuoto. Come un pazzo.
Cerchiamo tutto il giorno. Secondo di carnevale... E
tutta unaltra notte. Senza turni. Tutte le barche. E Tonino sparito via dal mondo. Non si vede neanche nuotare.
Non c pi, fra terra e acqua.
Ma lacqua che prima o poi riconduce a casa gli annegati, lacqua lha tenuto nascosto. Due giorni e due notti.
Nuotare, sa nuotare ha detto Fisio e se vuol tornare
la strada la conosce meglio di noi.
E la ricerca finita.

Ma non torna, Tonino.


Marietta, ogni notte, e Annalisa, lasciano accese le finestre sullo stagno. Ch gli serva per vedere le barche. Per
tornare tranquillo, senza farsi male.

[Nella citt murata]

[Nella citt murata]

Primavera, nella citt murata

Aveva gli occhi oscurati da una lanugine bianca, quel


Mendicante. Era cieco.
Donna Annalena lo incontrava ogni mattina.
Scendeva verso la chiesa, la Donna, e mormorava unantica preghiera, penitenziale e cupa, timorosa e ubbidiente. Una preghiera spagnola, triste, eternamente disperata.
La preghiera di una nobildonna impoverita nelle case alte
del Castello, nella citt murata e bastionata.
Allalba, ogni santo giorno, Donna Annalena scendeva,
dalla vecchia citt spagnola, attraverso le Porte della fortezza, spalancata, verso la chiesa di SantAntonio, in Sa
Costa.
Sdraiata ai piedi del Castello, Sa Costa (la costa, la costola, il litorale...) una via del Centro. una salita, un
sentiero, che taglia nel mezzo la collina, e divide la citt
alta da quella bassa.
Quelli che stavano lass, nei palazzi del Castello, circondati dai bastioni, erano prima Pisani, poi Spagnoli.
Ogni notte, gli armigeri stranieri che custodivano le Porte urlavano: Il buio arrivato. Fuori i sardi.
Gi, in basso, sotto Sa Costa, i vicoli, selciati di pietre
rotonde conficcate nel fango. Laltra citt, dei pescatori e
dei mercanti. (Pareva una maschera fenicia, il volto del
mercante, ghigno del diavolo).

Primavera, nella citt murata

Aveva gli occhi oscurati da una lanugine bianca, quel


Mendicante. Era cieco.
Donna Annalena lo incontrava ogni mattina.
Scendeva verso la chiesa, la Donna, e mormorava unantica preghiera, penitenziale e cupa, timorosa e ubbidiente. Una preghiera spagnola, triste, eternamente disperata.
La preghiera di una nobildonna impoverita nelle case alte
del Castello, nella citt murata e bastionata.
Allalba, ogni santo giorno, Donna Annalena scendeva,
dalla vecchia citt spagnola, attraverso le Porte della fortezza, spalancata, verso la chiesa di SantAntonio, in Sa
Costa.
Sdraiata ai piedi del Castello, Sa Costa (la costa, la costola, il litorale...) una via del Centro. una salita, un
sentiero, che taglia nel mezzo la collina, e divide la citt
alta da quella bassa.
Quelli che stavano lass, nei palazzi del Castello, circondati dai bastioni, erano prima Pisani, poi Spagnoli.
Ogni notte, gli armigeri stranieri che custodivano le Porte urlavano: Il buio arrivato. Fuori i sardi.
Gi, in basso, sotto Sa Costa, i vicoli, selciati di pietre
rotonde conficcate nel fango. Laltra citt, dei pescatori e
dei mercanti. (Pareva una maschera fenicia, il volto del
mercante, ghigno del diavolo).

Sul lato destro, per chi sale, in Sa Costa, due grandi


gradini bianchi, di marmo annerito, consumati dai piedi
strascicati di migliaia di cagliaritani: la chiesa di SantAntonio.
Il Mendicante, accovacciato, rattrapito, sedeva sul pi
interno dei gradini, coperto da un frontone che sporge
sulla strada.
Aveva mani che parevano di quella stessa materia dei
gradini, e della stessa et.
Mani candide, tese, che sorgevano da un cappotto,
opaco, nelle giornate di sole, brunito e umido, nelle altre.
scesa, ogni mattina, lungo quel percorso, Donna Annalena. Per cinquantanni.
Il mondo cambiato, nel frattempo.
Bottegucce di pizzi e merletti, e botteghe di abiti da
sposa, e pesce salato e conservato, baccal, e aringhe affumicate, nelle vecchie ceste di legno, rotonde: tutto questo sparito.
Non c, il pescatore di stagno, colle arselle bianche,
scavate, (cocciula rigra), da inghiottire, vive, con una
goccia di limone, e pane, e vino.
Ci sono ancora, i gioiellieri. Pochi. Un tempo stavano
nelloscurit, dentro i bastioni. Poi hanno arricchito Sa
Costa. E oggi vanno verso la citt nuova.
Al posto del passato, le boutiques: affogate di musica,
colorate. Appartengono a certi vecchi ladroni napoletani, arrivati, un giorno, col piroscafo, e con le pezze al
culo.
Sola, eguale a se stessa, per cinquantanni filati, lalba

cagliaritana, chiara, e coi bagliori dellacqua: la citt


bianca.
Ogni mattina Donna Annalena incontrava la mano
bianca e secca del mendicante, sul gradino di SantAntonio, e posava una moneta, lungamente riscaldata nella
mano. Preparata.
Una moneta.
Il mendicante biascicava grzias, VisSignora.
Poi ripartiva con la consueta cantilena: fate la carit
per grazia di Dio, SantAntonio e Giovanni, signore, signora, signorina, bella bambina, giovanotto, sono cieco
dalla nascita e fino alla morte... Cantilena speciale, moderna, italiana.
Colle Nobildonne di Castello, unaltra lingua, pi antica; e degna.
Un giorno, il Mendicante scomparso. Non si presentato, allappuntamento col solito gradino.
Da quel giorno, nessuno lha pi visto. Sparito.
Arrivava allalba, solo, ogni giorno. E solo si allontanava, allimbrunire. Per trenta anni. Estate e inverno.
Improvvisamente: non c pi.
La polizia ha indagato.
Ha scoperto ben poco: che il Mendicante si avventurava, ogni sera, in un giro per appartamenti di ricchi signori. Costoro conservavano per lui qualche moneta,
qualche residuo di buon cibo.
Ha sventrato il materasso, lindagine: non son state trovate, le ricchezze che, ragionevolmente, ciascuno attende
di scoprire nel materasso di un mendicante.

Sul lato destro, per chi sale, in Sa Costa, due grandi


gradini bianchi, di marmo annerito, consumati dai piedi
strascicati di migliaia di cagliaritani: la chiesa di SantAntonio.
Il Mendicante, accovacciato, rattrapito, sedeva sul pi
interno dei gradini, coperto da un frontone che sporge
sulla strada.
Aveva mani che parevano di quella stessa materia dei
gradini, e della stessa et.
Mani candide, tese, che sorgevano da un cappotto,
opaco, nelle giornate di sole, brunito e umido, nelle altre.
scesa, ogni mattina, lungo quel percorso, Donna Annalena. Per cinquantanni.
Il mondo cambiato, nel frattempo.
Bottegucce di pizzi e merletti, e botteghe di abiti da
sposa, e pesce salato e conservato, baccal, e aringhe affumicate, nelle vecchie ceste di legno, rotonde: tutto questo sparito.
Non c, il pescatore di stagno, colle arselle bianche,
scavate, (cocciula rigra), da inghiottire, vive, con una
goccia di limone, e pane, e vino.
Ci sono ancora, i gioiellieri. Pochi. Un tempo stavano
nelloscurit, dentro i bastioni. Poi hanno arricchito Sa
Costa. E oggi vanno verso la citt nuova.
Al posto del passato, le boutiques: affogate di musica,
colorate. Appartengono a certi vecchi ladroni napoletani, arrivati, un giorno, col piroscafo, e con le pezze al
culo.
Sola, eguale a se stessa, per cinquantanni filati, lalba

cagliaritana, chiara, e coi bagliori dellacqua: la citt


bianca.
Ogni mattina Donna Annalena incontrava la mano
bianca e secca del mendicante, sul gradino di SantAntonio, e posava una moneta, lungamente riscaldata nella
mano. Preparata.
Una moneta.
Il mendicante biascicava grzias, VisSignora.
Poi ripartiva con la consueta cantilena: fate la carit
per grazia di Dio, SantAntonio e Giovanni, signore, signora, signorina, bella bambina, giovanotto, sono cieco
dalla nascita e fino alla morte... Cantilena speciale, moderna, italiana.
Colle Nobildonne di Castello, unaltra lingua, pi antica; e degna.
Un giorno, il Mendicante scomparso. Non si presentato, allappuntamento col solito gradino.
Da quel giorno, nessuno lha pi visto. Sparito.
Arrivava allalba, solo, ogni giorno. E solo si allontanava, allimbrunire. Per trenta anni. Estate e inverno.
Improvvisamente: non c pi.
La polizia ha indagato.
Ha scoperto ben poco: che il Mendicante si avventurava, ogni sera, in un giro per appartamenti di ricchi signori. Costoro conservavano per lui qualche moneta,
qualche residuo di buon cibo.
Ha sventrato il materasso, lindagine: non son state trovate, le ricchezze che, ragionevolmente, ciascuno attende
di scoprire nel materasso di un mendicante.

La stanzetta del Mendicante stata ripassata, da cima


a fondo: un letto, una sedia, un baule semivuoto. Nientaltro.
Pareva la cella di un monaco: sulla parete, una vecchia
madonna appesa, di gesso bianco.
Quel giorno, Annalena si fermata, sul solito gradino,
colla moneta calda nella mano.
Ha sostato, come immersa in un pensiero, in un sogno,
per un lungo minuto.
Si voltata su se stessa, e si arrampicata verso casa.
Non entrata, a SantAntonio.
Da quel giorno, non pi uscita di casa.
Ha preso labitudine, per le spese, di chiamare un ragazzino del vicinato.
Lo chiamava dalla finestra. Gli gettava gi lelenco.
Quello si arrampicava sulle scale, fino al quarto piano
della Donna, per consegnare gli acquisti, e ritirare un
pugno di monete e biglietti di banca.
La mano, contratta attorno al denaro, usciva, un attimo, da uno spiraglio di porta aperta, col catenaccio.
Il ragazzino ha detto al padre che nella casa della vecchia c puzza di gatto morto.
Il padre ha risposto: Dogninu si tniri ndmu is frgus chi lidi. Sus in demgrazzia (pi o meno, vuol dire che, in questo regime, ognuno si tiene le puzze che
vuole. Ogni casa ha le sue puzze).
Da Sa Costa si sale, sulla strada asfaltata, o per scalinate ripidissime, verso le Porte del Castello.
Ancora si sale, dentro i bastioni, per viottoli strettissimi

e bui, chiusi da altissimi palazzi neri che stringono il cielo


sulla testa, imponenti e squadrati, e sfatti, miserabili: come
i segni dellantico potere, sulle facciate e negli androni.
La luce appare, improvvisa, nella piazza pi alta della
citt bianca, dopo larrampicata a capo chino.
Guardando verso il palazzo del Vicer a sinistra, la luce scompare allimbocco di una stradina buia: Via Cannelles.
Limbocco di Via Cannelles era affollato.
Decine di onesti cittadini, e qualche ubriacone, si sbracciavano e conversavano, animati. Un piccolo, tumultuoso
assembramento, che proseguiva dentro Via Cannelles, fino allingresso di un palazzo.
Chi avesse sostato, in quel punto, il tempo necessario,
avrebbe udito, da bocche beninformate, pi o meno la
narrazione che segue:
Cssa mcca, giai de una cira no bissiara prus de dmu.
Mandava un ragazzino, a farle le commissioni.
Il ragazzino lo diceva, che cera puzza di gatto morto.
Ieri mattina, lei non si affacciata.
Oggi, neanche.
Il ragazzino, allora, salito, ha bussato, e non rispondeva nessuno, e cera sempre pi puzza.
C un battente di ferro, sulla porta: il ragazzino ha insistito.
Non rispondeva nessuno.
Alla fine, ha sfondato a spallate.
Una vecchia anticamera buia e senza finestre: dentro

La stanzetta del Mendicante stata ripassata, da cima


a fondo: un letto, una sedia, un baule semivuoto. Nientaltro.
Pareva la cella di un monaco: sulla parete, una vecchia
madonna appesa, di gesso bianco.
Quel giorno, Annalena si fermata, sul solito gradino,
colla moneta calda nella mano.
Ha sostato, come immersa in un pensiero, in un sogno,
per un lungo minuto.
Si voltata su se stessa, e si arrampicata verso casa.
Non entrata, a SantAntonio.
Da quel giorno, non pi uscita di casa.
Ha preso labitudine, per le spese, di chiamare un ragazzino del vicinato.
Lo chiamava dalla finestra. Gli gettava gi lelenco.
Quello si arrampicava sulle scale, fino al quarto piano
della Donna, per consegnare gli acquisti, e ritirare un
pugno di monete e biglietti di banca.
La mano, contratta attorno al denaro, usciva, un attimo, da uno spiraglio di porta aperta, col catenaccio.
Il ragazzino ha detto al padre che nella casa della vecchia c puzza di gatto morto.
Il padre ha risposto: Dogninu si tniri ndmu is frgus chi lidi. Sus in demgrazzia (pi o meno, vuol dire che, in questo regime, ognuno si tiene le puzze che
vuole. Ogni casa ha le sue puzze).
Da Sa Costa si sale, sulla strada asfaltata, o per scalinate ripidissime, verso le Porte del Castello.
Ancora si sale, dentro i bastioni, per viottoli strettissimi

e bui, chiusi da altissimi palazzi neri che stringono il cielo


sulla testa, imponenti e squadrati, e sfatti, miserabili: come
i segni dellantico potere, sulle facciate e negli androni.
La luce appare, improvvisa, nella piazza pi alta della
citt bianca, dopo larrampicata a capo chino.
Guardando verso il palazzo del Vicer a sinistra, la luce scompare allimbocco di una stradina buia: Via Cannelles.
Limbocco di Via Cannelles era affollato.
Decine di onesti cittadini, e qualche ubriacone, si sbracciavano e conversavano, animati. Un piccolo, tumultuoso
assembramento, che proseguiva dentro Via Cannelles, fino allingresso di un palazzo.
Chi avesse sostato, in quel punto, il tempo necessario,
avrebbe udito, da bocche beninformate, pi o meno la
narrazione che segue:
Cssa mcca, giai de una cira no bissiara prus de dmu.
Mandava un ragazzino, a farle le commissioni.
Il ragazzino lo diceva, che cera puzza di gatto morto.
Ieri mattina, lei non si affacciata.
Oggi, neanche.
Il ragazzino, allora, salito, ha bussato, e non rispondeva nessuno, e cera sempre pi puzza.
C un battente di ferro, sulla porta: il ragazzino ha insistito.
Non rispondeva nessuno.
Alla fine, ha sfondato a spallate.
Una vecchia anticamera buia e senza finestre: dentro

ha trovato un appendiabiti addossato alla parete. E puzza.


Una grande sala da pranzo: le pareti erano nascoste da
cassette piene di frutta e verdure andate a male. E bottiglie vuote di ogni genere. E barattoli di latta. Giornali
ammucchiati. Polvere, e blatte. Puzza.
Al centro della sala: un divanetto marrone, e la nobildonna, avvolta in uno scialle a quadri, morbido: morta.
Veramente morta. Ma, ancora, non puzzava.
La camera da letto della Donna, attigua al salone: da
un armadio aperto scivolava fuori, a mezzaria, una valigia: strapiena di monete, coniate nellultimo secolo.
Dentro larmadio: abiti tarlati, velette muffite.
La puzza viene da uno stanzino. La puzza pi violenta.
La peggiore.
Lo stanzino: resti di un uomo il Mendicante di SantAntonio con le gambe recise dal tronco, e il ventre
aperto e svuotato a pugnalate, e i coglioni inchiodati al
muro, come un altarino.
La sala da pranzo, di fronte al divanetto della Donna:
un tavolino basso, di legno.
Sulla polvere del tavolino: un pezzo di carta, bianco,
stemmato: una busta.
Sulla busta, parole. Un nome (Luca Cini) e una professione (marinaio).
In seguito, la polizia ha dipanato una parte della matassa: lunico Luca Cini di cui si fosse mai sentito parlare, era un tale, stato una volta a Cagliari, nato in una citt oltremare, e ucciso nella guerra di spagna.

Dentro la busta, una lettera:


Caro Luca,
la primavera vicina.
Malgrado il freddo, e per quanto mi resta da vivere, non
potr mai perdonarti.
febbraio

Ti ho narrato i Fatti, Signore.


Appena pi oltre esistono illazioni, e storie sballate.
Particolari piccanti, agitati dai giornalisti della citt
bianca, che razzolano con gusto nella cronaca nera.
I Fatti, per, sono questi.
Nientaltro.

ha trovato un appendiabiti addossato alla parete. E puzza.


Una grande sala da pranzo: le pareti erano nascoste da
cassette piene di frutta e verdure andate a male. E bottiglie vuote di ogni genere. E barattoli di latta. Giornali
ammucchiati. Polvere, e blatte. Puzza.
Al centro della sala: un divanetto marrone, e la nobildonna, avvolta in uno scialle a quadri, morbido: morta.
Veramente morta. Ma, ancora, non puzzava.
La camera da letto della Donna, attigua al salone: da
un armadio aperto scivolava fuori, a mezzaria, una valigia: strapiena di monete, coniate nellultimo secolo.
Dentro larmadio: abiti tarlati, velette muffite.
La puzza viene da uno stanzino. La puzza pi violenta.
La peggiore.
Lo stanzino: resti di un uomo il Mendicante di SantAntonio con le gambe recise dal tronco, e il ventre
aperto e svuotato a pugnalate, e i coglioni inchiodati al
muro, come un altarino.
La sala da pranzo, di fronte al divanetto della Donna:
un tavolino basso, di legno.
Sulla polvere del tavolino: un pezzo di carta, bianco,
stemmato: una busta.
Sulla busta, parole. Un nome (Luca Cini) e una professione (marinaio).
In seguito, la polizia ha dipanato una parte della matassa: lunico Luca Cini di cui si fosse mai sentito parlare, era un tale, stato una volta a Cagliari, nato in una citt oltremare, e ucciso nella guerra di spagna.

Dentro la busta, una lettera:


Caro Luca,
la primavera vicina.
Malgrado il freddo, e per quanto mi resta da vivere, non
potr mai perdonarti.
febbraio

Ti ho narrato i Fatti, Signore.


Appena pi oltre esistono illazioni, e storie sballate.
Particolari piccanti, agitati dai giornalisti della citt
bianca, che razzolano con gusto nella cronaca nera.
I Fatti, per, sono questi.
Nientaltro.

Rond Final

I pensieri di un questore
Un attimo di sospensione, nellaria: come la pausa di silenzio di unorchestra, un attimo prima del rond final. I
bambini, muti, sgranano gli occhi a una straordinaria meravigliosa apparizione sullasfalto: i cavalli.
Sui cavalli, sorridenti allegri diavoli rossi, sorridenti
stanno gli uomini dai lunghi fucili, i miliziani, i guerrieri.
I miliziani rossi a cavallo stanno arrivando, li hanno veduti sbucare su, lass, sulla strada.
Comincia la commedia. Fra le urla di gioia dei bambini.
Il questore stringe la mano a un cretino, e sorride al cretino, e ride quasi e con la coda dellocchio sbircia la
consorte.
Sul palco drappeggiato di rosso delle autorit. I maggiori col culo protetto da un telo rosso di antiche consuetudini.
Consuetudini create da nobili finissimi volgari estenuati spagnoli spagnoli estenuati spesso di malaria che
hanno goduto quaggi dellultimo dominio prima della
caduta, lultimo casareccio oriente. Consuetudini raccolte da contadini ricchi piemontesi, che quaggi hanno
conquistato tardive nobilt, e da nobili si sono estenuati,

Rond Final

I pensieri di un questore
Un attimo di sospensione, nellaria: come la pausa di silenzio di unorchestra, un attimo prima del rond final. I
bambini, muti, sgranano gli occhi a una straordinaria meravigliosa apparizione sullasfalto: i cavalli.
Sui cavalli, sorridenti allegri diavoli rossi, sorridenti
stanno gli uomini dai lunghi fucili, i miliziani, i guerrieri.
I miliziani rossi a cavallo stanno arrivando, li hanno veduti sbucare su, lass, sulla strada.
Comincia la commedia. Fra le urla di gioia dei bambini.
Il questore stringe la mano a un cretino, e sorride al cretino, e ride quasi e con la coda dellocchio sbircia la
consorte.
Sul palco drappeggiato di rosso delle autorit. I maggiori col culo protetto da un telo rosso di antiche consuetudini.
Consuetudini create da nobili finissimi volgari estenuati spagnoli spagnoli estenuati spesso di malaria che
hanno goduto quaggi dellultimo dominio prima della
caduta, lultimo casareccio oriente. Consuetudini raccolte da contadini ricchi piemontesi, che quaggi hanno
conquistato tardive nobilt, e da nobili si sono estenuati,

rassomigliandosi a certa spagna sfaticata e triste. Uomini


dordine, i piemontesi. Ma addolciti. Stupefatti. Piagnoni
e delicati. Hanno tenuto la guida anche nel ventennio
appena imbarbariti dolenti camicie nere. E infine la
consuetudine dei sardi, intelligenti e lunatici, ma stanchi, piegati con sprazzi di acuta ironia stimolata dal
ventre per una volta pieno.
Il questore, in prima fila, stringe la mano al ventunesimo cretino della mattinata.
E con la coda dellocchio sbircia la consorte che agitata
si contorce da mezzora, sulla sedia, con improvvisi arrossamenti del viso pudicamente trattenuti, con brontolii
mielati.
Si muove come un gatto, la moglie del questore, mentre
lui stringe la solita mano di un cretino.
Proprio mentre sfilano i miliziani, rossi, sugli agitati cavalli bruni, sulle cavalle bianche pacificate.
Passano i miliziani e la gente per strada ondeggia, sui
bordi della massa accalcata al bordo della strada, ondeggia spinta dalle bizze di un bruno cavallaccio da tiro irritato dalla calca.
E il questore, in piedi, deve guardare negli occhi e sorridere a tutti quei cavalieri soldati.
Guardare negli occhi e sorridere a un cretino, impiegato regionale travestito da soldato, che sogna chiss quale
carriera, e sfila a cavallo, spinto sul cavallo e nella vita
da una confraternita modesta e potente.
E non pu che ogni tanto solo ogni tanto, povero questore sbirciare il mistero di sua moglie, che assoluta-

mente lontana dalle tentazioni palesi o occulte di qualunque maschietto comune, si contorce sulla sedia. Col viso
arrossato e accaldato, gli occhi languidi teneramente abbassati.
Quei miliziani mascherati e anche quelli del passato,
quelli soldati veri, una guerra sola hanno vinto, una
volta sola, la pi stupida, quando i francesi hanno sbagliato approdo:
si sono incagliati nella notte della palude, mangiati vivi
dalle zanzare, affogati nel fango. Sono finiti di filato, dalla spiaggia di sbarco alla palude, assorbiti nella palude
notturna delle zanzare, spaventati da quelle acque nere,
da quelle canne basse, da quei viottoli di terra battuta che
nel buio portavano diritto a pozze dacqua salmastra, canali, canaletti e bordi di fango capaci di sprofondare.
Impauriti dalla notte e dagli spari, i francesi, gli uomini
della rivoluzione, impauriti soldati della rivoluzione, affamati, non ancora ingrassati (Napoleone ha guidato una
nave, una volta, da queste parti, ma era ancora un ragazzino, ancora non era Napoleone, ma lo sconosciuto ufficiale Bonaparte).
Gli affamati uomini della rivoluzione, i donatori dellalbero della libert, i giacobini, si son fatti mangiare vivi
dalle zanzare, nelle notti in palude mentre i cagliaritani
con le giubbe rosse, per un pugno di pane (duecento Miliziani li sfam don Cadoni Pillai di Quartu per cibo e
munizioni...)
Per un pugno di pane stanno, nascosti sulle prime colline aspettano, ogni tanto sparando salve di fucilate.

rassomigliandosi a certa spagna sfaticata e triste. Uomini


dordine, i piemontesi. Ma addolciti. Stupefatti. Piagnoni
e delicati. Hanno tenuto la guida anche nel ventennio
appena imbarbariti dolenti camicie nere. E infine la
consuetudine dei sardi, intelligenti e lunatici, ma stanchi, piegati con sprazzi di acuta ironia stimolata dal
ventre per una volta pieno.
Il questore, in prima fila, stringe la mano al ventunesimo cretino della mattinata.
E con la coda dellocchio sbircia la consorte che agitata
si contorce da mezzora, sulla sedia, con improvvisi arrossamenti del viso pudicamente trattenuti, con brontolii
mielati.
Si muove come un gatto, la moglie del questore, mentre
lui stringe la solita mano di un cretino.
Proprio mentre sfilano i miliziani, rossi, sugli agitati cavalli bruni, sulle cavalle bianche pacificate.
Passano i miliziani e la gente per strada ondeggia, sui
bordi della massa accalcata al bordo della strada, ondeggia spinta dalle bizze di un bruno cavallaccio da tiro irritato dalla calca.
E il questore, in piedi, deve guardare negli occhi e sorridere a tutti quei cavalieri soldati.
Guardare negli occhi e sorridere a un cretino, impiegato regionale travestito da soldato, che sogna chiss quale
carriera, e sfila a cavallo, spinto sul cavallo e nella vita
da una confraternita modesta e potente.
E non pu che ogni tanto solo ogni tanto, povero questore sbirciare il mistero di sua moglie, che assoluta-

mente lontana dalle tentazioni palesi o occulte di qualunque maschietto comune, si contorce sulla sedia. Col viso
arrossato e accaldato, gli occhi languidi teneramente abbassati.
Quei miliziani mascherati e anche quelli del passato,
quelli soldati veri, una guerra sola hanno vinto, una
volta sola, la pi stupida, quando i francesi hanno sbagliato approdo:
si sono incagliati nella notte della palude, mangiati vivi
dalle zanzare, affogati nel fango. Sono finiti di filato, dalla spiaggia di sbarco alla palude, assorbiti nella palude
notturna delle zanzare, spaventati da quelle acque nere,
da quelle canne basse, da quei viottoli di terra battuta che
nel buio portavano diritto a pozze dacqua salmastra, canali, canaletti e bordi di fango capaci di sprofondare.
Impauriti dalla notte e dagli spari, i francesi, gli uomini
della rivoluzione, impauriti soldati della rivoluzione, affamati, non ancora ingrassati (Napoleone ha guidato una
nave, una volta, da queste parti, ma era ancora un ragazzino, ancora non era Napoleone, ma lo sconosciuto ufficiale Bonaparte).
Gli affamati uomini della rivoluzione, i donatori dellalbero della libert, i giacobini, si son fatti mangiare vivi
dalle zanzare, nelle notti in palude mentre i cagliaritani
con le giubbe rosse, per un pugno di pane (duecento Miliziani li sfam don Cadoni Pillai di Quartu per cibo e
munizioni...)
Per un pugno di pane stanno, nascosti sulle prime colline aspettano, ogni tanto sparando salve di fucilate.

Stanno l che aspettano, i cagliaritani, strappati alla pesca


di stagno, e ogni tanto sparano, in aria.
Sparano allaria e al vento, impauriti.
Il miracolo allalba: i demoni francesi, i senzacristo, i
violentatori, i nemici di Dio, arrivano uno ad uno, stravolti, e si fanno catturare senza resistenza, con i piedi
zuppi e la faccia gonfia di punture.
E se ne vanno, tre navi francesi, in fuga verso casa, stanchi giacobini, a urlare nelle piazze di Parigi.
Le donne, con le gonne piegate sul ventre, correvano
fra le casupole del porto, alzando canti al santo armato
con le spada di fuoco che dal bastione pi alto del castello ha disperso il nemico, SantEfisio collo scudo e la spada, vecchio profugo romano, soldato perseguitato, (sbattuto nellisola a inaugurare una lunga tradizione) SantEfisio eroe dei vescovi e dei canonici, con la spada in fiamme, col viso al mare, dal bastione pi alto, lhanno visto le
donne, a proteggere la povera citt.
Un maledetto errore della storia e ora sfilano, convinti di essere eroi di qualche guerra, colle tuniche rosse e i
fucili fine-settecento, arnesi da museo.
Il questore sorride e vuole andare via, aspetta il santo liberatore, che si porta via la festa e la sfilata, per capire cosa cazzo succede alla signora, che si strofina sul sedile,
con gli occhietti chiusi al sole di maggio e un dolcetto di
mandorle spezzato in mano da tutta la mattina, che mugola appena, ogni tanto, cogli occhi liquidi e tersi.
Se ne sbatte, del luogo e dellora, e del marito, e dei pettegolezzi. Non ha un giovanotto vicino, ma benvestite be-

ghine invecchiate troppo presto. Sta facendo lamore con


la fantasia, unoscena situazione sul drappo rosso delle
autorit, davanti agli occhi di tutti: chiacchiere per faccendieri: che ne trarranno immagini per viziosi conciliaboli da osteria, da trattoria, da ristorante per burocrati
arrivati, e oscuri.

Il cielo, bianco. Il mare, bianco. Il sole gonfiato, allargato, squagliato a imbiancare il mondo.
Con questa luce dura, una manina, delicata, si infila.
Le gonne coprono, nascondono, la carezza clandestina.
Comincia la sfilata: tante oche di campagna in panni
colorati, pizzi e merletti, colori ricchi di contadini di pianura, colori di pescatori pezzenti, corpetti di rincagnita
vecchia nobilt del nord, sfila la maschera di una corporazione, di un paese misterioso di montagna, di una minima citt.
Trascinano le zampe sullasfalto, le figurine colorate, e
mascherate.
E quel ridicolo omino, quel signore mio marito, colla
faccia pi cretina, moscia e gialla, di albanese, stringe
centinaia di mani.
Quelle mani di sempre. Le solite. Solite mani di sottoposti untuosi e servizievoli. Mascherati e indecenti. Solite
mani di mestatori di pratiche e servizi, affabili, false ma-

Una signora

Stanno l che aspettano, i cagliaritani, strappati alla pesca


di stagno, e ogni tanto sparano, in aria.
Sparano allaria e al vento, impauriti.
Il miracolo allalba: i demoni francesi, i senzacristo, i
violentatori, i nemici di Dio, arrivano uno ad uno, stravolti, e si fanno catturare senza resistenza, con i piedi
zuppi e la faccia gonfia di punture.
E se ne vanno, tre navi francesi, in fuga verso casa, stanchi giacobini, a urlare nelle piazze di Parigi.
Le donne, con le gonne piegate sul ventre, correvano
fra le casupole del porto, alzando canti al santo armato
con le spada di fuoco che dal bastione pi alto del castello ha disperso il nemico, SantEfisio collo scudo e la spada, vecchio profugo romano, soldato perseguitato, (sbattuto nellisola a inaugurare una lunga tradizione) SantEfisio eroe dei vescovi e dei canonici, con la spada in fiamme, col viso al mare, dal bastione pi alto, lhanno visto le
donne, a proteggere la povera citt.
Un maledetto errore della storia e ora sfilano, convinti di essere eroi di qualche guerra, colle tuniche rosse e i
fucili fine-settecento, arnesi da museo.
Il questore sorride e vuole andare via, aspetta il santo liberatore, che si porta via la festa e la sfilata, per capire cosa cazzo succede alla signora, che si strofina sul sedile,
con gli occhietti chiusi al sole di maggio e un dolcetto di
mandorle spezzato in mano da tutta la mattina, che mugola appena, ogni tanto, cogli occhi liquidi e tersi.
Se ne sbatte, del luogo e dellora, e del marito, e dei pettegolezzi. Non ha un giovanotto vicino, ma benvestite be-

ghine invecchiate troppo presto. Sta facendo lamore con


la fantasia, unoscena situazione sul drappo rosso delle
autorit, davanti agli occhi di tutti: chiacchiere per faccendieri: che ne trarranno immagini per viziosi conciliaboli da osteria, da trattoria, da ristorante per burocrati
arrivati, e oscuri.

Il cielo, bianco. Il mare, bianco. Il sole gonfiato, allargato, squagliato a imbiancare il mondo.
Con questa luce dura, una manina, delicata, si infila.
Le gonne coprono, nascondono, la carezza clandestina.
Comincia la sfilata: tante oche di campagna in panni
colorati, pizzi e merletti, colori ricchi di contadini di pianura, colori di pescatori pezzenti, corpetti di rincagnita
vecchia nobilt del nord, sfila la maschera di una corporazione, di un paese misterioso di montagna, di una minima citt.
Trascinano le zampe sullasfalto, le figurine colorate, e
mascherate.
E quel ridicolo omino, quel signore mio marito, colla
faccia pi cretina, moscia e gialla, di albanese, stringe
centinaia di mani.
Quelle mani di sempre. Le solite. Solite mani di sottoposti untuosi e servizievoli. Mascherati e indecenti. Solite
mani di mestatori di pratiche e servizi, affabili, false ma-

Una signora

ni, di antica e stanca borghesia locale, attardata nelle vecchie case, circondata da giardini e parchi, nascosta nel
cuoricino caro della citt, mercanti furbi e abili, ma spenti e stroncati dalla malaria, acquattati nel buio, con le mani sul piccolo regno, tristi e solitari dignitari di una casta
che campa da millenni.
Mani di ogni giorno sfilano riconoscibili, a due a due,
sullasfalto.
E quel ridicolo omino, domattina, in ufficio, sar pavone, colla foto ben riconoscibile, in quinta del giornale, la
mano stretta a quellaltra di un cretino.

Storia damore

Quella mano che fruga con dolcezza inaudita, con tatto


da vecchio e pratico amante che striscia e carezza, che
schiude e intenerisce.
Nascosto fra i tubi, nascosti da quei drappi rossi, quasi
al buio, il fanciullo, acquattato, disilluso, elegante, grigio
e ferito. Al buio sotto il drappo che protegge il culo dei
majores de oi. Avvicina la preda.
Unapparsa da spezzare il cuore, stamattina, con questo chiaro negli occhi, traditore, e quei capelli biondi, un
sedicenne piovuto dal nulla, occhi dolci, povero bambino, da baciarlo di voglia occhi da soldato inseguito,
sperso nella vita, caro eroe.
Una mano da cittadino dei bar, e del buio, e dei letti di
donna.
Un angelo-ladrone. Acquattato fra i tubi innocenti.

Si sono incontrati allalba, culetto tondo di porcellana, unalba silenziosa e chiara, una signora triste, tristi e
caldi occhi chiari, e quel fanciullo cupo, stralunato, pregante. Fra gli alberi. E quello, sembrava un vagabondo,
un clandestino.
Un vagabondo raffinato e dolce. Piccolo delinquente
appena fuggito di galera, mercante triste di vecchi sogni e
melodrammi, e gli occhi di bambino.
sua, lultima mano.
La mano che stuzzica un ventre di donna, sposato per
sbaglio, da una zia impicciona, con un funzionario fesso
(s, ma emergente). Ventre circondato da anziane nobildonne in abito sportivo.
La mano che fruga, nota.

Un urlo, alto e acuto.


Si infila, nel chiasso della processione, un teppista sedicenne. apparso, non si sa come, sul palco rosso delle
autorit, proprio mentre sfila la processione accalcata
dietro il santo (una statua di gesso, piccola, coperta di
collane doro, rinchiusa in una teca di legno, e vetro, traballante su quattro ruote, trainata da un vecchio cavallo,
vecchio e robusto, la statua del santo martire e guerriero)
quel teppista sedicenne ha strappato gli orecchini doro
che pendevano dai lobi della moglie del questore.

Finalmente, i Fatti!

ni, di antica e stanca borghesia locale, attardata nelle vecchie case, circondata da giardini e parchi, nascosta nel
cuoricino caro della citt, mercanti furbi e abili, ma spenti e stroncati dalla malaria, acquattati nel buio, con le mani sul piccolo regno, tristi e solitari dignitari di una casta
che campa da millenni.
Mani di ogni giorno sfilano riconoscibili, a due a due,
sullasfalto.
E quel ridicolo omino, domattina, in ufficio, sar pavone, colla foto ben riconoscibile, in quinta del giornale, la
mano stretta a quellaltra di un cretino.

Storia damore

Quella mano che fruga con dolcezza inaudita, con tatto


da vecchio e pratico amante che striscia e carezza, che
schiude e intenerisce.
Nascosto fra i tubi, nascosti da quei drappi rossi, quasi
al buio, il fanciullo, acquattato, disilluso, elegante, grigio
e ferito. Al buio sotto il drappo che protegge il culo dei
majores de oi. Avvicina la preda.
Unapparsa da spezzare il cuore, stamattina, con questo chiaro negli occhi, traditore, e quei capelli biondi, un
sedicenne piovuto dal nulla, occhi dolci, povero bambino, da baciarlo di voglia occhi da soldato inseguito,
sperso nella vita, caro eroe.
Una mano da cittadino dei bar, e del buio, e dei letti di
donna.
Un angelo-ladrone. Acquattato fra i tubi innocenti.

Si sono incontrati allalba, culetto tondo di porcellana, unalba silenziosa e chiara, una signora triste, tristi e
caldi occhi chiari, e quel fanciullo cupo, stralunato, pregante. Fra gli alberi. E quello, sembrava un vagabondo,
un clandestino.
Un vagabondo raffinato e dolce. Piccolo delinquente
appena fuggito di galera, mercante triste di vecchi sogni e
melodrammi, e gli occhi di bambino.
sua, lultima mano.
La mano che stuzzica un ventre di donna, sposato per
sbaglio, da una zia impicciona, con un funzionario fesso
(s, ma emergente). Ventre circondato da anziane nobildonne in abito sportivo.
La mano che fruga, nota.

Un urlo, alto e acuto.


Si infila, nel chiasso della processione, un teppista sedicenne. apparso, non si sa come, sul palco rosso delle
autorit, proprio mentre sfila la processione accalcata
dietro il santo (una statua di gesso, piccola, coperta di
collane doro, rinchiusa in una teca di legno, e vetro, traballante su quattro ruote, trainata da un vecchio cavallo,
vecchio e robusto, la statua del santo martire e guerriero)
quel teppista sedicenne ha strappato gli orecchini doro
che pendevano dai lobi della moglie del questore.

Finalmente, i Fatti!

Quellurlo di signora ferita spezza il chiasso della processione.


Il marito, il questore, sfiora il viso insanguinato di una
moglie matta e romantica e il teppista biondo di quel
biondo sporco dei cagliaritani salta gi dal palco, e si
infila fra la folla della processione.
Il questore lo vede, per un attimo, i capelli biondi che si
allontanano nella folla colorata, sotto il sole. Proprio ora,
dal mare, tutte le navi del porto attaccano a ululare, sirene per il santo.

Fatti privati di un carabiniere

Un ladro scappa fra la gente, una signora sanguinante


sul palco, il questore si agita, e indica agli agenti quel
biondino veloce che scalpita e salta, e non pare spaventato. La calca si muove addosso a se stessa e separa Ofelia e
il suo giovane sergente.
difficile non cadere, il biondino saltella veloce e deciso, e Ofelia inciampa sul bordo della gonna.
Ricercato re della festa, il ladruncolo si arrampica sul
cocchio dorato del santo, e gli agenti boccheggiano immobili nella ressa, non si possono divincolare.
Ofelia, in ginocchio, quasi calpestata, si rifugia sotto il
palco della televisione. Subito seguita da un certo sergente dei carabinieri.

Fra lurlo, e la fuga, a Ofelia Pintus, nota beghina, cpita una storia. Proprio dietro il santo, nella processione.
Un sergente dei carabinieri, un giovanotto fragrante di
lavanda, nella mischia, gli si struscia alle spalle.
Le carezza il culo, piatto.
Alita fra i capelli di lei.
Una mano sulla coscia.
Ofelia Pintus, nota beghina, silenziosa, brutta frequentatrice di chiese incantate e cristi insanguinati, ogni notte
suda per paura del cattivo demonio che potrebbe infilarsi fra le coperte, imbucando la finestra aperta volesse
Dio. Una finestra inutilmente aperta.
Se lo gode, Ofelia, il suo carabiniere.
E la storia si straccia improvvisa, con quellurlo forsennato, e comincia il casino.

Il biondino indiavolato sulla cima del cocchio. Il cavallo, mogio, che trascina il santo, si imbizza, contro il peso supplementare.
Ofelia e il sergente si allacciano per terra, atterriti, fra le
gambe della folla, a malapena protetti dalla torre di tubi
innocenti del palco della televisione.
E il cocchio esplode. Bum. Bum. Bum. Una nuvola colorata che si allarga nel cielo, e ricade in lampi blu, e rossi,
e verdi, e lividi, come una bomba, o un fuoco artificiale.
Il cocchio esplode proprio. E dopo il botto, ancora stupefatto silenzio una pausa nella vita. Un attimo di pace.
Immobile.

Rond

Quellurlo di signora ferita spezza il chiasso della processione.


Il marito, il questore, sfiora il viso insanguinato di una
moglie matta e romantica e il teppista biondo di quel
biondo sporco dei cagliaritani salta gi dal palco, e si
infila fra la folla della processione.
Il questore lo vede, per un attimo, i capelli biondi che si
allontanano nella folla colorata, sotto il sole. Proprio ora,
dal mare, tutte le navi del porto attaccano a ululare, sirene per il santo.

Fatti privati di un carabiniere

Un ladro scappa fra la gente, una signora sanguinante


sul palco, il questore si agita, e indica agli agenti quel
biondino veloce che scalpita e salta, e non pare spaventato. La calca si muove addosso a se stessa e separa Ofelia e
il suo giovane sergente.
difficile non cadere, il biondino saltella veloce e deciso, e Ofelia inciampa sul bordo della gonna.
Ricercato re della festa, il ladruncolo si arrampica sul
cocchio dorato del santo, e gli agenti boccheggiano immobili nella ressa, non si possono divincolare.
Ofelia, in ginocchio, quasi calpestata, si rifugia sotto il
palco della televisione. Subito seguita da un certo sergente dei carabinieri.

Fra lurlo, e la fuga, a Ofelia Pintus, nota beghina, cpita una storia. Proprio dietro il santo, nella processione.
Un sergente dei carabinieri, un giovanotto fragrante di
lavanda, nella mischia, gli si struscia alle spalle.
Le carezza il culo, piatto.
Alita fra i capelli di lei.
Una mano sulla coscia.
Ofelia Pintus, nota beghina, silenziosa, brutta frequentatrice di chiese incantate e cristi insanguinati, ogni notte
suda per paura del cattivo demonio che potrebbe infilarsi fra le coperte, imbucando la finestra aperta volesse
Dio. Una finestra inutilmente aperta.
Se lo gode, Ofelia, il suo carabiniere.
E la storia si straccia improvvisa, con quellurlo forsennato, e comincia il casino.

Il biondino indiavolato sulla cima del cocchio. Il cavallo, mogio, che trascina il santo, si imbizza, contro il peso supplementare.
Ofelia e il sergente si allacciano per terra, atterriti, fra le
gambe della folla, a malapena protetti dalla torre di tubi
innocenti del palco della televisione.
E il cocchio esplode. Bum. Bum. Bum. Una nuvola colorata che si allarga nel cielo, e ricade in lampi blu, e rossi,
e verdi, e lividi, come una bomba, o un fuoco artificiale.
Il cocchio esplode proprio. E dopo il botto, ancora stupefatto silenzio una pausa nella vita. Un attimo di pace.
Immobile.

Rond

Il cocchio esplode, e genera il caos. Lampi di luce nel


cielo bianco, il cielo devastato. Una ghignante, buffonesca, sgangherata esplosione da circo equestre, da fiera di
paese.
Una qualunque Elena scappa, corre, non sia una bomba, un principio di cataclisma. Una qualunque Elena, e
cento altri.
I bambini restano, stupiti, a bocca aperta, sorpresi da
un sogno ad occhi aperti.
E la parola sfugge da una bocca, miracolo, e corre come
un serpente, miracolo, nella processione inginocchiata,
miracolo, il santo ha fatto un miracolo.
La telecamera di una emittente inglese scivola gi dal
bordo del palco televisivo. Scivola e si spenzola. Loperatore inglese, inginocchiato, prega. Locchio della camera
fuggiasca, funziona. Raccoglie, per spedirle a mezzo mondo, le immagini che passa il convento. Ora, per esempio,
inquadra per la prima volta il sottopalco, e spedisce via
etere certe pose della signorina Ofelia Pintus, movimentata e seminuda, affaccendata attorno al corpo bianchiccio di un sergente dei carabinieri. I pantaloni di ordinanza, con relativa pistola, pendono da un tubo innocente.
La telecamera piombata, suo malgrado, in pieni misteri da sottopalco.
Quando appare, quellamplesso, improvviso, sullo
schermo di propriet della signora Elisa Faggioli, in un
sudicio appartamento di citt, pieno di fumo, e lolio attaccato alle pareti, la vecchia megera sbraita. E Carmelo
Faggioli, consorte legittimo, attardato sulla poltroncina

del salotto, deve subire linsulto: Carmelo, vecchio porco, fammi sparire quella teleporno.
Lo spettacolo di folgori, la festa di luce e colori, si placa,
nel cielo, sulla testa della processione. Si placa in caramelle.
Piovono caramelle, dappertutto.
Caramelle di ogni gusto, colle cartine colorate.
Fra tante caramelle colorate, piovono gli occhi e i coglioni di un teppista biondo che un attimo fa stava sul cocchio del santo, ed sparito nellesplosione, fatto fuori dal
santo amante della giustizia, un vero miracolo.
Una mano piove al sicuro. Ben dentro una borsetta di
pelle nera, una borsetta elegante, che si chiude, a nascondere una mano piovuta dal cielo. La borsetta di una moglie di questore, derubata poco fa.
La mano al sicuro. Cimelio e oggetto duso. Una mano
vibrante.
Il questore in un incubo. Vorrebbe spararsi. Il mondo
gli si avventa contro fin da questa mattina, questo mondo
infantile e disordinato, gli si avventa contro, infame, regalandogli una moglie impazzita e la pioggia di caramelle.
Gli orecchini rubati pendono al punto giusto, sono volati in alto, nel cielo, ma ora son tornati, proprio sulle
orecchie del santo. Sulla faccia di gesso del santo, miracolosamente incolume al centro della strada, su un ammasso
di rovine di legno e vetro, e un cavallo stecchito.
Dieci biondi marinai di Odessa, sul ponte di un vecchio
mercantile, intonano un canto sacro.
Pregano anche i bambini, nelle strade sporche, che il

Il cocchio esplode, e genera il caos. Lampi di luce nel


cielo bianco, il cielo devastato. Una ghignante, buffonesca, sgangherata esplosione da circo equestre, da fiera di
paese.
Una qualunque Elena scappa, corre, non sia una bomba, un principio di cataclisma. Una qualunque Elena, e
cento altri.
I bambini restano, stupiti, a bocca aperta, sorpresi da
un sogno ad occhi aperti.
E la parola sfugge da una bocca, miracolo, e corre come
un serpente, miracolo, nella processione inginocchiata,
miracolo, il santo ha fatto un miracolo.
La telecamera di una emittente inglese scivola gi dal
bordo del palco televisivo. Scivola e si spenzola. Loperatore inglese, inginocchiato, prega. Locchio della camera
fuggiasca, funziona. Raccoglie, per spedirle a mezzo mondo, le immagini che passa il convento. Ora, per esempio,
inquadra per la prima volta il sottopalco, e spedisce via
etere certe pose della signorina Ofelia Pintus, movimentata e seminuda, affaccendata attorno al corpo bianchiccio di un sergente dei carabinieri. I pantaloni di ordinanza, con relativa pistola, pendono da un tubo innocente.
La telecamera piombata, suo malgrado, in pieni misteri da sottopalco.
Quando appare, quellamplesso, improvviso, sullo
schermo di propriet della signora Elisa Faggioli, in un
sudicio appartamento di citt, pieno di fumo, e lolio attaccato alle pareti, la vecchia megera sbraita. E Carmelo
Faggioli, consorte legittimo, attardato sulla poltroncina

del salotto, deve subire linsulto: Carmelo, vecchio porco, fammi sparire quella teleporno.
Lo spettacolo di folgori, la festa di luce e colori, si placa,
nel cielo, sulla testa della processione. Si placa in caramelle.
Piovono caramelle, dappertutto.
Caramelle di ogni gusto, colle cartine colorate.
Fra tante caramelle colorate, piovono gli occhi e i coglioni di un teppista biondo che un attimo fa stava sul cocchio del santo, ed sparito nellesplosione, fatto fuori dal
santo amante della giustizia, un vero miracolo.
Una mano piove al sicuro. Ben dentro una borsetta di
pelle nera, una borsetta elegante, che si chiude, a nascondere una mano piovuta dal cielo. La borsetta di una moglie di questore, derubata poco fa.
La mano al sicuro. Cimelio e oggetto duso. Una mano
vibrante.
Il questore in un incubo. Vorrebbe spararsi. Il mondo
gli si avventa contro fin da questa mattina, questo mondo
infantile e disordinato, gli si avventa contro, infame, regalandogli una moglie impazzita e la pioggia di caramelle.
Gli orecchini rubati pendono al punto giusto, sono volati in alto, nel cielo, ma ora son tornati, proprio sulle
orecchie del santo. Sulla faccia di gesso del santo, miracolosamente incolume al centro della strada, su un ammasso
di rovine di legno e vetro, e un cavallo stecchito.
Dieci biondi marinai di Odessa, sul ponte di un vecchio
mercantile, intonano un canto sacro.
Pregano anche i bambini, nelle strade sporche, che il

miracolo ricominci unaltra volta, ancora daccapo; ancora meraviglie.


Sfumano nella preghiera, i personaggi della commedia.
Resta Ofelia, che rassettata corre verso casa. Un miracolo, stato un miracolo.
Pensa. E chiss cosa laspetta.

Un uomo arrivato

Lusciere saluta col solito riverente cenno del capo.


Lassessore risponde con un sorriso, mesto e cordiale.
Poi si inerpica lentamente sulla vecchia scalinata di marmo bianco venato di verde.
Guarda senza interesse la parte centrale di ogni singolo gradino, consumata e appiattita dai piedi di funzionari, faccendieri, lavoratori in delegazione di protesta, postulanti, avvoltoi, avventurieri e venditori ambulanti. Attraversa il lungo corridoio dalle pareti vetrate, osservando senza vederla la collezione di minerali ch su quelle
mensole da anni e anni, impolverata.
Supera il grande tendone di vellutaccio bordeaux spostandone un lembo afoso con mano stanca.
Percorre la sala degli incontri ufficiali rimirando la
punta dei suoi piedi e non il lungo tavolo di noce coperto di bicchieri e bottiglie di minerale, n i quadri di quel
pittore naive amico del tale, n i tendaggi arabescati fatti acquistare da un predecessore amante del liberty e della decadenza.
Traversa lentamente il corridoio interno tappezzato di
moquette giallognola qua e la bruciacchiata dalle cicche
dei visitatori che in quei pochi metri hanno pendolato su
e gi in attese estenuanti, aspettando la grazia di essere

miracolo ricominci unaltra volta, ancora daccapo; ancora meraviglie.


Sfumano nella preghiera, i personaggi della commedia.
Resta Ofelia, che rassettata corre verso casa. Un miracolo, stato un miracolo.
Pensa. E chiss cosa laspetta.

Un uomo arrivato

Lusciere saluta col solito riverente cenno del capo.


Lassessore risponde con un sorriso, mesto e cordiale.
Poi si inerpica lentamente sulla vecchia scalinata di marmo bianco venato di verde.
Guarda senza interesse la parte centrale di ogni singolo gradino, consumata e appiattita dai piedi di funzionari, faccendieri, lavoratori in delegazione di protesta, postulanti, avvoltoi, avventurieri e venditori ambulanti. Attraversa il lungo corridoio dalle pareti vetrate, osservando senza vederla la collezione di minerali ch su quelle
mensole da anni e anni, impolverata.
Supera il grande tendone di vellutaccio bordeaux spostandone un lembo afoso con mano stanca.
Percorre la sala degli incontri ufficiali rimirando la
punta dei suoi piedi e non il lungo tavolo di noce coperto di bicchieri e bottiglie di minerale, n i quadri di quel
pittore naive amico del tale, n i tendaggi arabescati fatti acquistare da un predecessore amante del liberty e della decadenza.
Traversa lentamente il corridoio interno tappezzato di
moquette giallognola qua e la bruciacchiata dalle cicche
dei visitatori che in quei pochi metri hanno pendolato su
e gi in attese estenuanti, aspettando la grazia di essere

ricevuti. Esalando un sospiro, come di chi ha corso a


lungo, spinge delicatamente la porta di legno chiaro su
cui una targa dorata recita Assessore e, pi in grande,
il suo nome.
Entra nellufficio e si appoggia alla scrivania di mogano intagliato gi appartenuta a un sindaco carogna dei
primi del Novecento e a numerosi successivi podest.
Apre il primo cassetto di destra, con la chiave sfilata da
un taschino del panciotto di renna, ed estrae la lunga
corda arrotolata e ben impeciata.
Si impicca al lampadario di cristallo, come in un bel romanzo dottocento.
Non lasci spiegazioni scritte. N sospetti validi a indirizzare la pubblica opinione verso una spiegazione plausibile. Lo scopr una donna delle pulizie, quattro giorni
dopo. Vedendolo appeso e gonfio, emise un urlo sguaiato che interruppe la placida calma delle stanze, rimbalz
sui muri dei corridoi, rotol per le scale, super i cancelli e si plac, fino a tacere, nella piazza antistante il palazzo, disabitata nel sole di mezzogiorno.

Caro Leonardo Sole

Questo uomo di legno, muto, che mi sta al fianco, se


non fosse cos come , se fosse diverso, forse parlerebbe.
Invece non parla.
Primo: perch di legno, e non si mai sentito di un
uomo di legno che abbia parlato, se si eccettua Pinocchio, che per era un personaggio di favola, e perdipi
anche abbastanza ambiguo: infatti ogni tanto il lettore
scopre che il burattino non un burattino ma un bambino in carne ed ossa, e magari era tale fin da principio,
chiss, un trovatello, o un figlio della colpa che si mascherava da bambino di legno per suscitare la piet della
povera gente che ha sempre piet da regalare delle fatine, delle volpi e dei gatti; usando, come strumenti, quei
poveri vecchi allucinati, Ciliegia e Geppetto.
Secondo: perch lo scultore lha scolpito con la bocca
chiusa, e non esiste alcuna traccia di un eventuale apparato di fonazione (lingua, glottide e quelle cose l) interno a quella bocca chiusa.
Lobbiettivo dello scultore era una statua silenziosa: altrimenti lavrebbe scolpita a bocca aperta, magari nellatto di gridare, e allora le cose sarebbero state diverse,
un po come quelle statue equestri in cui il cavallo ha una
zampa immobile, sollevata per in unillusione di movi

ricevuti. Esalando un sospiro, come di chi ha corso a


lungo, spinge delicatamente la porta di legno chiaro su
cui una targa dorata recita Assessore e, pi in grande,
il suo nome.
Entra nellufficio e si appoggia alla scrivania di mogano intagliato gi appartenuta a un sindaco carogna dei
primi del Novecento e a numerosi successivi podest.
Apre il primo cassetto di destra, con la chiave sfilata da
un taschino del panciotto di renna, ed estrae la lunga
corda arrotolata e ben impeciata.
Si impicca al lampadario di cristallo, come in un bel romanzo dottocento.
Non lasci spiegazioni scritte. N sospetti validi a indirizzare la pubblica opinione verso una spiegazione plausibile. Lo scopr una donna delle pulizie, quattro giorni
dopo. Vedendolo appeso e gonfio, emise un urlo sguaiato che interruppe la placida calma delle stanze, rimbalz
sui muri dei corridoi, rotol per le scale, super i cancelli e si plac, fino a tacere, nella piazza antistante il palazzo, disabitata nel sole di mezzogiorno.

Caro Leonardo Sole

Questo uomo di legno, muto, che mi sta al fianco, se


non fosse cos come , se fosse diverso, forse parlerebbe.
Invece non parla.
Primo: perch di legno, e non si mai sentito di un
uomo di legno che abbia parlato, se si eccettua Pinocchio, che per era un personaggio di favola, e perdipi
anche abbastanza ambiguo: infatti ogni tanto il lettore
scopre che il burattino non un burattino ma un bambino in carne ed ossa, e magari era tale fin da principio,
chiss, un trovatello, o un figlio della colpa che si mascherava da bambino di legno per suscitare la piet della
povera gente che ha sempre piet da regalare delle fatine, delle volpi e dei gatti; usando, come strumenti, quei
poveri vecchi allucinati, Ciliegia e Geppetto.
Secondo: perch lo scultore lha scolpito con la bocca
chiusa, e non esiste alcuna traccia di un eventuale apparato di fonazione (lingua, glottide e quelle cose l) interno a quella bocca chiusa.
Lobbiettivo dello scultore era una statua silenziosa: altrimenti lavrebbe scolpita a bocca aperta, magari nellatto di gridare, e allora le cose sarebbero state diverse,
un po come quelle statue equestri in cui il cavallo ha una
zampa immobile, sollevata per in unillusione di movi

mento, che non si muover mai, ma, comunque, se proprio il mondo dovesse andare a fondo in su, potrebbe
anche muoversi, e il cavallo poggerebbe quello zoccolo e
scenderebbe dal piedistallo col suo Armando Diaz sulla
groppa.
Ma questo uomo di legno ha la bocca perfettamente sigillata: manca anche unidea, una minima intenzione di
suono.
Terzo: perch non si capisce che cosa mai potrebbe voler dire una statua di legno che da anni e anni sta ininterrottamente sempre ferma in questo stesso posto, e
non ha mai viaggiato o vissuto alcuna esperienza degna
di essere narrata, e sta nella medesima immutabile posizione, con gli occhi aperti fissi che guardano sempre
quellangolo della stanza dove non c mai stato nulla: un
angolo vuoto.
Questa terza osservazione, in verit, suscettibile di
contraddizione: si potrebbe infatti osservare, che qualunque punto di vista, per quanto limitato, marginale, esterno, dalla pi eccentrica periferia dellimpero, pur sempre un punto di vista, e come tale merita di essere narrato,
se si possiedono gli strumenti e il mestiere per renderlo
narrabile, cio pi generalmente comprensibile anche
per coloro che non condividono quel punto di vista.
Quanto a questo, il mio uomo di legno non ha mai dato alcuna prova, n il sospetto di una prova, di possedere volont e potenzialit sufficienti a narrare il suo punto di vista.
Ma non si pu neanche escludere che, in qualche mo-

mento, mantenendo il silenzio, non facendosi accorgere,


egli abbia pensato di mettersi allopera.
Resta la constatazione che, in ogni caso, non potrebbe
raccontare con parole; per quanto il terzo motivo possa
essere contestato, i primi due mi paiono insuperabili: il
mio uomo di legno perfettamente muto.
Se volesse, potrebbe scrivere?
un interrogativo interessante, che porta ad esaminare con attenzione le sue mani: una, quella destra, posata sul fianco, lenta e morta come quella di un impiccato.
La mano della scrittura inusabile, perch rigorosamente appiccicata al fianco, e perch le dita finiscono
per rientrare nel tronco: se ne vede solo il principio: questa mano non stata scolpita perfettamente, un moncherino.
Potrebbe anche darsi che il mio uomo sia mancino.
Ecco, la mano sinistra inquietante, sollevata a mezzaria, in procinto di darsi ad un gesto, che al momento
indefinito, ma potrebbe benissimo trasformarsi nel gesto
di impugnare una matita.
Potrebbe anche voler raccogliere una vanga, per, o
un coltello a serramanico, o addirittura imbracciare un
fucile, un mitra, uno strumento di morte.
Potrebbe.
In realt quella mano disponibile a molte avventure.
Anche se mantiene il mistero di quale sia lutilizzazione
definitiva cui stata destinata: magari un gesto damore,
una carezza sul volto dellamata, o un gesto quotidiano,
un saluto agli altri che partono, o una stretta di mano.

mento, che non si muover mai, ma, comunque, se proprio il mondo dovesse andare a fondo in su, potrebbe
anche muoversi, e il cavallo poggerebbe quello zoccolo e
scenderebbe dal piedistallo col suo Armando Diaz sulla
groppa.
Ma questo uomo di legno ha la bocca perfettamente sigillata: manca anche unidea, una minima intenzione di
suono.
Terzo: perch non si capisce che cosa mai potrebbe voler dire una statua di legno che da anni e anni sta ininterrottamente sempre ferma in questo stesso posto, e
non ha mai viaggiato o vissuto alcuna esperienza degna
di essere narrata, e sta nella medesima immutabile posizione, con gli occhi aperti fissi che guardano sempre
quellangolo della stanza dove non c mai stato nulla: un
angolo vuoto.
Questa terza osservazione, in verit, suscettibile di
contraddizione: si potrebbe infatti osservare, che qualunque punto di vista, per quanto limitato, marginale, esterno, dalla pi eccentrica periferia dellimpero, pur sempre un punto di vista, e come tale merita di essere narrato,
se si possiedono gli strumenti e il mestiere per renderlo
narrabile, cio pi generalmente comprensibile anche
per coloro che non condividono quel punto di vista.
Quanto a questo, il mio uomo di legno non ha mai dato alcuna prova, n il sospetto di una prova, di possedere volont e potenzialit sufficienti a narrare il suo punto di vista.
Ma non si pu neanche escludere che, in qualche mo-

mento, mantenendo il silenzio, non facendosi accorgere,


egli abbia pensato di mettersi allopera.
Resta la constatazione che, in ogni caso, non potrebbe
raccontare con parole; per quanto il terzo motivo possa
essere contestato, i primi due mi paiono insuperabili: il
mio uomo di legno perfettamente muto.
Se volesse, potrebbe scrivere?
un interrogativo interessante, che porta ad esaminare con attenzione le sue mani: una, quella destra, posata sul fianco, lenta e morta come quella di un impiccato.
La mano della scrittura inusabile, perch rigorosamente appiccicata al fianco, e perch le dita finiscono
per rientrare nel tronco: se ne vede solo il principio: questa mano non stata scolpita perfettamente, un moncherino.
Potrebbe anche darsi che il mio uomo sia mancino.
Ecco, la mano sinistra inquietante, sollevata a mezzaria, in procinto di darsi ad un gesto, che al momento
indefinito, ma potrebbe benissimo trasformarsi nel gesto
di impugnare una matita.
Potrebbe anche voler raccogliere una vanga, per, o
un coltello a serramanico, o addirittura imbracciare un
fucile, un mitra, uno strumento di morte.
Potrebbe.
In realt quella mano disponibile a molte avventure.
Anche se mantiene il mistero di quale sia lutilizzazione
definitiva cui stata destinata: magari un gesto damore,
una carezza sul volto dellamata, o un gesto quotidiano,
un saluto agli altri che partono, o una stretta di mano.

Per quanto le potenzialit siano pressoch infinite, non


si pu escludere a priori che quella mano manca, la mano
del demonio, si appresti a scrivere.
Altrove bisogna cercare di capirne lintenzione. Magari
nello sguardo, che potrebbe tradire la voglia che anima
quelle dita, se una qualche voglia le anima.
Lo sguardo lo specchio fedele, dellanima.
In questo caso rivolto obliquamente verso terra, con
le palpebre leggermente abbassate sugli occhi, come di
chi si appresti ad esalare lultimo respiro. Ma non detto:
la vivacit di quella mano contrasta con labbandono dello sguardo; e, magari, lo sguardo vuole ingannare losservatore disattento.
Potrebbe darsi benissimo che quelle palpebre abbassate e quegli occhi liquidi servano a nascondere ci che bolle in pentola.
Un modo di mimetizzarsi tipico di chi non ha il coraggio delle proprie azioni, e si appresta, col coltello nel pugno, facendo finta di niente, con passo leggero, fingendosi semiaddormentato, e guardando un angolo qualunque
per nascondere il lampo omicida. Potrebbe celare, con
quegli occhi abbassati un desiderio anche innocente:
scrivere un messaggio al babbo degli alberi.
Il legno delluomo di legno un legno che denuncia gli
anni: secco e crepato come un ramo secco, come un tronco bruciato, come le mura di un vecchio castello abbandonato agli sterpi e ai rovi.
Ha, purtuttavia, una qualche parvenza di vita, che lo
scultore gli ha dato, chiss quanto volontariamente, e che

nasce tutta da quella mano sinistra semisollevata e da


quello sguardo di non ancora morto.
Certo: per credere che il mio uomo di legno possieda
unanima, bisogna avere una ben particolare concezione
del cosmo.
Bisogna avere la capacit di immaginare una qualche
anima sensibile anche allalbero, alla vecchia quercia sotto i cui rami sono stati arrostiti molti agnelli, profumati di
mirto, e che ha veduto Lucia perdere la verginit e lingenuit, dopo una serata di balli vorticosi e di vino nero,
sdraiata sullerba, mentre attorno le ombre della notte
rendevano invisibile il mondo, ma non le labbra, del maschio, disteso al suo fianco.
Vorrei avere la certezza che la vecchia quercia non in
grado di vedere, di comprendere. E ricordare quanto ha
veduto e ha capito. Da quella quercia, quando gi le Lucie erano vecchie, (e da quella serata damore erano nate
altre Lucie che cercavano altre labbra sulle foglie cadute)
da quella quercia lo scultore ha tratto il legno che sotto le
sue mani diventato il quasi-impiccato con la mano sinistra sollevata che mantiene ferreo giuramento di silenzio
con le labbra serrate.

***

Se c una qualit della legna di quercia secca, di saper


bruciare bene, crepitando. Anche le memorie, i ricordi, i
sogni, la volont, possono essere persi in fumo.

Per quanto le potenzialit siano pressoch infinite, non


si pu escludere a priori che quella mano manca, la mano
del demonio, si appresti a scrivere.
Altrove bisogna cercare di capirne lintenzione. Magari
nello sguardo, che potrebbe tradire la voglia che anima
quelle dita, se una qualche voglia le anima.
Lo sguardo lo specchio fedele, dellanima.
In questo caso rivolto obliquamente verso terra, con
le palpebre leggermente abbassate sugli occhi, come di
chi si appresti ad esalare lultimo respiro. Ma non detto:
la vivacit di quella mano contrasta con labbandono dello sguardo; e, magari, lo sguardo vuole ingannare losservatore disattento.
Potrebbe darsi benissimo che quelle palpebre abbassate e quegli occhi liquidi servano a nascondere ci che bolle in pentola.
Un modo di mimetizzarsi tipico di chi non ha il coraggio delle proprie azioni, e si appresta, col coltello nel pugno, facendo finta di niente, con passo leggero, fingendosi semiaddormentato, e guardando un angolo qualunque
per nascondere il lampo omicida. Potrebbe celare, con
quegli occhi abbassati un desiderio anche innocente:
scrivere un messaggio al babbo degli alberi.
Il legno delluomo di legno un legno che denuncia gli
anni: secco e crepato come un ramo secco, come un tronco bruciato, come le mura di un vecchio castello abbandonato agli sterpi e ai rovi.
Ha, purtuttavia, una qualche parvenza di vita, che lo
scultore gli ha dato, chiss quanto volontariamente, e che

nasce tutta da quella mano sinistra semisollevata e da


quello sguardo di non ancora morto.
Certo: per credere che il mio uomo di legno possieda
unanima, bisogna avere una ben particolare concezione
del cosmo.
Bisogna avere la capacit di immaginare una qualche
anima sensibile anche allalbero, alla vecchia quercia sotto i cui rami sono stati arrostiti molti agnelli, profumati di
mirto, e che ha veduto Lucia perdere la verginit e lingenuit, dopo una serata di balli vorticosi e di vino nero,
sdraiata sullerba, mentre attorno le ombre della notte
rendevano invisibile il mondo, ma non le labbra, del maschio, disteso al suo fianco.
Vorrei avere la certezza che la vecchia quercia non in
grado di vedere, di comprendere. E ricordare quanto ha
veduto e ha capito. Da quella quercia, quando gi le Lucie erano vecchie, (e da quella serata damore erano nate
altre Lucie che cercavano altre labbra sulle foglie cadute)
da quella quercia lo scultore ha tratto il legno che sotto le
sue mani diventato il quasi-impiccato con la mano sinistra sollevata che mantiene ferreo giuramento di silenzio
con le labbra serrate.

***

Se c una qualit della legna di quercia secca, di saper


bruciare bene, crepitando. Anche le memorie, i ricordi, i
sogni, la volont, possono essere persi in fumo.

Una leggenda meridionale

La storia che Vi porgo, Signore, giunge da una citt


lontana.
Sta laggi, davanti ai Vostri occhi, ma in fondo, oltre
lorizzonte dove il mondo si piega, dove locchio delluomo non arriva.
Un mare, leggero, la lecca.
Ai confini pi lontani del Regno di cui siete Signore.
C stato un vescovo, in quella citt, nel secolo settimo
del primo millennio, che aveva nome Domenico.
Una gran parte, di un quartiere di quella citt, appartiene a un San Domenico, di Guzman, vissuto allalba del
secondo millennio, mendicante e guerriero, santo e inquisitore, padre di filosofi insigni, e di assassini.
Domenico, in unantica lingua di quel mondo, significa
del Signore.
Come Vedrai, tutti i protagonisti della storia appartengono a un qualche signore. Si chiamino Lia, Cameriere, o
Giacomo, il loro nome vero, sempre, Domenico.
Spesso, i Signori e i Dominici, si intersecano fra loro, e
oscurano lintelletto della storia, come accade nelle narrazioni primitive.
Comincer, dunque, dal principio.
Fra i tavolini di un Caff si muove un uomo. magro,
anziano, e scuro.

Una leggenda meridionale

La storia che Vi porgo, Signore, giunge da una citt


lontana.
Sta laggi, davanti ai Vostri occhi, ma in fondo, oltre
lorizzonte dove il mondo si piega, dove locchio delluomo non arriva.
Un mare, leggero, la lecca.
Ai confini pi lontani del Regno di cui siete Signore.
C stato un vescovo, in quella citt, nel secolo settimo
del primo millennio, che aveva nome Domenico.
Una gran parte, di un quartiere di quella citt, appartiene a un San Domenico, di Guzman, vissuto allalba del
secondo millennio, mendicante e guerriero, santo e inquisitore, padre di filosofi insigni, e di assassini.
Domenico, in unantica lingua di quel mondo, significa
del Signore.
Come Vedrai, tutti i protagonisti della storia appartengono a un qualche signore. Si chiamino Lia, Cameriere, o
Giacomo, il loro nome vero, sempre, Domenico.
Spesso, i Signori e i Dominici, si intersecano fra loro, e
oscurano lintelletto della storia, come accade nelle narrazioni primitive.
Comincer, dunque, dal principio.
Fra i tavolini di un Caff si muove un uomo. magro,
anziano, e scuro.

Dal colore del viso, si direbbe arabo, e dal taglio degli


occhi.
cotta dal sole, la pelle delluomo, e aggrinzita dagli
anni.
bianca, di capelli, la testa. Le spalle coperte da una
giacca splendente. un cameriere, quellarabo.
Il Caff sta sulla cima di un colle, nel Centro della lontana citt.
affollato, in questo tempo, dai giovani pi ricchi: figli dei migliori mercanti e dei pi elevati funzionari dellamministrazione. Sono giovani allegri, iridescenti e volatili, acuti e smemorati.
Il cameriere arabo affanna fra i tavolini.
Lo chiamano per una cioccolata, calda e con panna,
un frapp, un the caldo, e per innumeri liquori e vini, e
maritozzi. Lo chiamano, eleganti, quei giovani di ingegno. E certi ricchi stupidi.
Affanna, quel cameriere, servile come il cane di casa.
un uomo dei Signori: uno schiavo.
Ora permettetemi, Signore, di mostrarvi un secondo
personaggio, nello stessissimo luogo.
Lia pensa. Ricorda.
Le docili mani dellamante, e i sospiri.
Conta.
Il tempo che manca allappuntamento.
Immagina.
I suoni e le pause, e le paure, di un dialogo profondo,
diverso dalla solita melina di ogni giorno.
Si allontana.

Larabo la guarda, dalla punta dei piedi, al culo, alla


radice dei capelli. Dagli zoccoli gialli, ai jeans, alla
collana.
Lia scende una Via, che abbandona la collina, e conduce agli stagni.
Quella citt, Signore, circondata dal mare, e dagli stagni, circondata dallacqua, rosa, e bianca, dei riflessi del
sole.
La Via si chiama Garibaldi. unarteria del Centro:
un lungo condotto colorato, fra due file di negozi, illuminati dalle luci dellepoca, Luci dello Spazio, e gonfi di
musica che sputano sulla strada.
Lia scende. Ha il passo lento di chi cela pensieri gravi e
tormentosi, il passo di chi pensa.
Vive una brutta storia damore, Lia. Ama un furfante.
Permettetemi, Signore, di lasciare la donna e introdurre questo terzo personaggio. Lo vedrete attraverso i pensieri di lei.
bello, e cupo, e parrebbe, a un primo sguardo, un
mendicante delle terre a Meridione. Lunghi, grossi, neri
e lucidi, i capelli. Oscuro nellanima, come i vicoli di quel
porto.
Ama, Lia. Ha subto la magia degli occhi neri, veloci,
capaci di ingrandire e aprirsi, nei momenti dellamore.
Lui si chiama Giacomo. uno spacciatore. Sempre curvo in conciliaboli e traffici, acquattato nel ventre di unaltra citt, pi oscura, umida e antica di quella del tempo
del neon e del tramway.
stata capitale di un Regno, Signore, quella citt. Un

Dal colore del viso, si direbbe arabo, e dal taglio degli


occhi.
cotta dal sole, la pelle delluomo, e aggrinzita dagli
anni.
bianca, di capelli, la testa. Le spalle coperte da una
giacca splendente. un cameriere, quellarabo.
Il Caff sta sulla cima di un colle, nel Centro della lontana citt.
affollato, in questo tempo, dai giovani pi ricchi: figli dei migliori mercanti e dei pi elevati funzionari dellamministrazione. Sono giovani allegri, iridescenti e volatili, acuti e smemorati.
Il cameriere arabo affanna fra i tavolini.
Lo chiamano per una cioccolata, calda e con panna,
un frapp, un the caldo, e per innumeri liquori e vini, e
maritozzi. Lo chiamano, eleganti, quei giovani di ingegno. E certi ricchi stupidi.
Affanna, quel cameriere, servile come il cane di casa.
un uomo dei Signori: uno schiavo.
Ora permettetemi, Signore, di mostrarvi un secondo
personaggio, nello stessissimo luogo.
Lia pensa. Ricorda.
Le docili mani dellamante, e i sospiri.
Conta.
Il tempo che manca allappuntamento.
Immagina.
I suoni e le pause, e le paure, di un dialogo profondo,
diverso dalla solita melina di ogni giorno.
Si allontana.

Larabo la guarda, dalla punta dei piedi, al culo, alla


radice dei capelli. Dagli zoccoli gialli, ai jeans, alla
collana.
Lia scende una Via, che abbandona la collina, e conduce agli stagni.
Quella citt, Signore, circondata dal mare, e dagli stagni, circondata dallacqua, rosa, e bianca, dei riflessi del
sole.
La Via si chiama Garibaldi. unarteria del Centro:
un lungo condotto colorato, fra due file di negozi, illuminati dalle luci dellepoca, Luci dello Spazio, e gonfi di
musica che sputano sulla strada.
Lia scende. Ha il passo lento di chi cela pensieri gravi e
tormentosi, il passo di chi pensa.
Vive una brutta storia damore, Lia. Ama un furfante.
Permettetemi, Signore, di lasciare la donna e introdurre questo terzo personaggio. Lo vedrete attraverso i pensieri di lei.
bello, e cupo, e parrebbe, a un primo sguardo, un
mendicante delle terre a Meridione. Lunghi, grossi, neri
e lucidi, i capelli. Oscuro nellanima, come i vicoli di quel
porto.
Ama, Lia. Ha subto la magia degli occhi neri, veloci,
capaci di ingrandire e aprirsi, nei momenti dellamore.
Lui si chiama Giacomo. uno spacciatore. Sempre curvo in conciliaboli e traffici, acquattato nel ventre di unaltra citt, pi oscura, umida e antica di quella del tempo
del neon e del tramway.
stata capitale di un Regno, Signore, quella citt. Un

piccolo Regno medioevale governato da Giudici. passata attraverso le guerre, le chiese e le dominazioni.
Lia cerca e segue il suo uomo, muta e fedele. la
donna di quelloscuro Signore, Lia: unamante appassionata.
Giacomo langoscia celata in tutti gli incubi, e loggetto di ogni pensiero.
Ama loscurit che accompagna le sue solitudini, il pericolo e il mistero, e ama i coltelli, Lia, quando brillano,
sulla spiaggia, sotto la luna.
Ama il senso di possedere il fumo, e gli odori, e i profumi di un fantasma melanconico.
torbido e freddo, quellamante, e pare fatto a immagine del mare che accompagna i giorni invernali di quella citt, torbido e freddo, dalle banchine del porto, e sul
lembo della spiaggia.
astuto, e ipocrita, come certi avi sanguinari e predoni.
attento, sempre, alle spalle, e sempre pronto a colpire per primo.
Lapprensione domina il moto dei suoi occhi.
Eppure, degli antichi ha la gioia frenetica e violenta, e
la passione cupa e inquisitoria.
Eppure, quelle volte che accade, ha il sangue torbido e
caldo dellamante, come certe giornate di sole estivo, intorbidite dallo scirocco, in quella citt, e calde.
Non mancano, i motivi, allamore di una fanciulla per
un criminale di quel genere. Pure a un amore onesto,
non mancano i motivi.

Il passo di Lia, ora, rallenta, sul principio di una salitella, che si inerpica su un lato della Via, torna alla collina, e penetra il buio della citt Spagnola.
Permettimi, Signore, una descrizione dei luoghi.
La salitella ha termine in una piazza angusta, un rettangolo deforme sfondato, su un lato, da una chiesa.
Guardando, dalla chiesa, si vede la piazza che curva, si
restringe e si imbottiglia in una viuzza: Via San Domenico.
San Domenico la chiesa. Il chiostro collegato anche
lui di San Domenico. Pure la piazza, ha il nome del santo del Signore.
Proprio quel chiostro era sede legittima del tribunale
che dettava la Legge, e ne imponeva il prezzo. Regnava
LInquisizione.
Allinterno di questa descrizione dei luoghi, Signore,
mi sia permessa e perdonata una memoria di quel tribunale: una leggenda meridionale.
La fede primitiva, la magia, e lignoranza, intrecciate,
legate da un patto inviolabile, animano la leggenda.
Il tempo, Signore, remoto.
Una primavera, e quella successiva, i campi del Regno
subirono violente devastazioni. Invasioni di cavallette.
La raccolta del grano non diede alcun frutto: la spiga divorata dagli insetti.
Le strade, e i sentieri, parevano ricoperti da un manto.
Le ruote dei carri, mordendo la terra, si lasciavano, dietro, due nastri paralleli di cavallette schiacciate.
I Signori Domenicani, giudici di quel Tribunale, deci-

piccolo Regno medioevale governato da Giudici. passata attraverso le guerre, le chiese e le dominazioni.
Lia cerca e segue il suo uomo, muta e fedele. la
donna di quelloscuro Signore, Lia: unamante appassionata.
Giacomo langoscia celata in tutti gli incubi, e loggetto di ogni pensiero.
Ama loscurit che accompagna le sue solitudini, il pericolo e il mistero, e ama i coltelli, Lia, quando brillano,
sulla spiaggia, sotto la luna.
Ama il senso di possedere il fumo, e gli odori, e i profumi di un fantasma melanconico.
torbido e freddo, quellamante, e pare fatto a immagine del mare che accompagna i giorni invernali di quella citt, torbido e freddo, dalle banchine del porto, e sul
lembo della spiaggia.
astuto, e ipocrita, come certi avi sanguinari e predoni.
attento, sempre, alle spalle, e sempre pronto a colpire per primo.
Lapprensione domina il moto dei suoi occhi.
Eppure, degli antichi ha la gioia frenetica e violenta, e
la passione cupa e inquisitoria.
Eppure, quelle volte che accade, ha il sangue torbido e
caldo dellamante, come certe giornate di sole estivo, intorbidite dallo scirocco, in quella citt, e calde.
Non mancano, i motivi, allamore di una fanciulla per
un criminale di quel genere. Pure a un amore onesto,
non mancano i motivi.

Il passo di Lia, ora, rallenta, sul principio di una salitella, che si inerpica su un lato della Via, torna alla collina, e penetra il buio della citt Spagnola.
Permettimi, Signore, una descrizione dei luoghi.
La salitella ha termine in una piazza angusta, un rettangolo deforme sfondato, su un lato, da una chiesa.
Guardando, dalla chiesa, si vede la piazza che curva, si
restringe e si imbottiglia in una viuzza: Via San Domenico.
San Domenico la chiesa. Il chiostro collegato anche
lui di San Domenico. Pure la piazza, ha il nome del santo del Signore.
Proprio quel chiostro era sede legittima del tribunale
che dettava la Legge, e ne imponeva il prezzo. Regnava
LInquisizione.
Allinterno di questa descrizione dei luoghi, Signore,
mi sia permessa e perdonata una memoria di quel tribunale: una leggenda meridionale.
La fede primitiva, la magia, e lignoranza, intrecciate,
legate da un patto inviolabile, animano la leggenda.
Il tempo, Signore, remoto.
Una primavera, e quella successiva, i campi del Regno
subirono violente devastazioni. Invasioni di cavallette.
La raccolta del grano non diede alcun frutto: la spiga divorata dagli insetti.
Le strade, e i sentieri, parevano ricoperti da un manto.
Le ruote dei carri, mordendo la terra, si lasciavano, dietro, due nastri paralleli di cavallette schiacciate.
I Signori Domenicani, giudici di quel Tribunale, deci-

frarono la trama degli avvenimenti, e sorpresero, nelloscuro suo fondo una congiura infernale.
Invocarono uno scongiuro, e lo trassero dalla sacca della loro esperienza: il Processo.
Lossequio fedele al rito inquisitorio, fu la soluzione che
i monaci indicarono, per vincere il nemico.
La Cavalletta venne condotta a processo: accusata di
esistere.
La difesa, affidata a un frate disilluso e lontano dalla gerarchia, tent di resistere, asserragliata alle muraglie del
dogma: anche questo animale sinistro disse, il frate
necessario allesistenza del Tutto, se vi senso, e ragione,
nella superiori leggi del Creatore.
Ma la Cavalletta aveva arricchito la Fame, nel piccolo
regno, e la Penuria, nelle casse dellOrdine, e in quelle
dellImpero.
Condannarono la Cavalletta, allestinzione della specie.
Il tribunale che non aveva il potere di eseguire materialmente il dettato di una sentenza cos dispersiva e planetaria, si appell al Signore, e gli comand di perseguitare e distruggere la Cavalletta, dovunque essa esistesse,
procreasse o tentasse di nascondersi.
A questo punto, la leggenda si interrompe. Eccomi
nuovamente ai personaggi della Storia.
La passeggiata lenta, e riflessiva, di Lia, penetrata nel
cuore di quellaltra citt, pi umida, e antica, e scura.
Giunge al Chiostro di San Domenico, sul limite della
piazza.

La accolgono, bianche, e rosse, e nere, tre maschere di


Carnevale, che occultano i volti di tre agili danzatori.
Spingono Lia verso il centro della piazza.
Uomini incappucciati, tutto attorno, come monaci.
Uno di loro giudice.
Ha sulla veste, gli ori e i gioielli che significano il potere, e il primato.
Il viso oscuro, coperto dai lembi del cappuccio, e si
intravvedono, soli, due occhi, neri, e rapidi, e apprensivi.
Come in un sogno pauroso, uno degli incubi atroci che
quelle terre lontane producono (assieme agli ulivi), si
svolge il processo.
Lia lo subisce. indifesa: manca della facolt che distingue la realt dalla fantasia, e dagli incubi.
il pianeta di un Signore, quella donna, e segue la Legge. Il giudice stesso, il monaco potente, il suo signore.
Lia lha riconosciuto, allapparire degli occhi.
Il volto del Giudice freddo, spigoloso, geometrico.
Come quello degli spacciatori.
Interroga, quel monaco. Indaga di scienza e di sapienza, di ordini, di specie, di teorie. Chiede le graduatorie
del Creato.
La risposta della donna: conosco labnegazione, e il
sacrificio, al Signore. Lo amo.
E lo ameresti, ancora, se distruggesse la tua vita, come
quella di Giobbe, e mostrasse eternamente il volto del
persecutore e del padre degli affanni?
Ancora, Signore, lo amerei. Per gli attimi di gioia.
Non c sorpresa, nellanimo del Giudice. La legge la

frarono la trama degli avvenimenti, e sorpresero, nelloscuro suo fondo una congiura infernale.
Invocarono uno scongiuro, e lo trassero dalla sacca della loro esperienza: il Processo.
Lossequio fedele al rito inquisitorio, fu la soluzione che
i monaci indicarono, per vincere il nemico.
La Cavalletta venne condotta a processo: accusata di
esistere.
La difesa, affidata a un frate disilluso e lontano dalla gerarchia, tent di resistere, asserragliata alle muraglie del
dogma: anche questo animale sinistro disse, il frate
necessario allesistenza del Tutto, se vi senso, e ragione,
nella superiori leggi del Creatore.
Ma la Cavalletta aveva arricchito la Fame, nel piccolo
regno, e la Penuria, nelle casse dellOrdine, e in quelle
dellImpero.
Condannarono la Cavalletta, allestinzione della specie.
Il tribunale che non aveva il potere di eseguire materialmente il dettato di una sentenza cos dispersiva e planetaria, si appell al Signore, e gli comand di perseguitare e distruggere la Cavalletta, dovunque essa esistesse,
procreasse o tentasse di nascondersi.
A questo punto, la leggenda si interrompe. Eccomi
nuovamente ai personaggi della Storia.
La passeggiata lenta, e riflessiva, di Lia, penetrata nel
cuore di quellaltra citt, pi umida, e antica, e scura.
Giunge al Chiostro di San Domenico, sul limite della
piazza.

La accolgono, bianche, e rosse, e nere, tre maschere di


Carnevale, che occultano i volti di tre agili danzatori.
Spingono Lia verso il centro della piazza.
Uomini incappucciati, tutto attorno, come monaci.
Uno di loro giudice.
Ha sulla veste, gli ori e i gioielli che significano il potere, e il primato.
Il viso oscuro, coperto dai lembi del cappuccio, e si
intravvedono, soli, due occhi, neri, e rapidi, e apprensivi.
Come in un sogno pauroso, uno degli incubi atroci che
quelle terre lontane producono (assieme agli ulivi), si
svolge il processo.
Lia lo subisce. indifesa: manca della facolt che distingue la realt dalla fantasia, e dagli incubi.
il pianeta di un Signore, quella donna, e segue la Legge. Il giudice stesso, il monaco potente, il suo signore.
Lia lha riconosciuto, allapparire degli occhi.
Il volto del Giudice freddo, spigoloso, geometrico.
Come quello degli spacciatori.
Interroga, quel monaco. Indaga di scienza e di sapienza, di ordini, di specie, di teorie. Chiede le graduatorie
del Creato.
La risposta della donna: conosco labnegazione, e il
sacrificio, al Signore. Lo amo.
E lo ameresti, ancora, se distruggesse la tua vita, come
quella di Giobbe, e mostrasse eternamente il volto del
persecutore e del padre degli affanni?
Ancora, Signore, lo amerei. Per gli attimi di gioia.
Non c sorpresa, nellanimo del Giudice. La legge la

stessa, per gli ignari e i sapienti. La risposta scontata,


quando limputato riconosce la legge dellinquisitore.
Soltanto i ruoli sono statici e definitivi: schiavo del Signore, e schiavo di Domenico, una volta e per sempre.
Uno Domenico; laltro Domenico, schiavo di Domenico.
Il primo interroga, il secondo adora.
Non ti condanna, questo tribunale. Gi pesante la
pena che sconti, costretta a vivere, cieca, senza la ragione.
Lia sta, china, al centro della piazza, fra i monaci silenziosi.
Uno di quelli, vecchio e scuro (lo si direbbe arabo, dai
colori del viso, e dal taglio degli occhi. La sua pelle cotta dal sole). Uccidetela! urla. Reclama la condanna, per
troncare la pena.
la difesa: il servo di quella Signora.
La Storia, Signore, finita.
parsa, forse, confusa. Gli stessi personaggi ritornano,
in momenti diversi, ognuno col suo proprio Signore.
Tuttavia, mi ha conquistato. E ho voluto narrarVela.
Anchio ho Voi, Signore.
Anchio, mi chiamo Domenico.

Da Nicola a Nicola,
il giorno della sua morte

Prologo
Una storia di uno che scrive?
No, messi, nossignore. Non va.
A chi interessa, sta storia. Chi vuole sentirne parlare di
storie siffatte: di gente che scrive... giammai.
Allora, forse, potresti narrarmi una storia istruttiva.
Daccordo, messi. E colorata.
Una sera, un giovane comandante un pirata, giovane comandante di un fantomatico gruppo politico clandestino...
Attraversa la citt, Nicola, una sera.
Lhai chiamato Nicola! E perch?
Un nome come un altro, messi. Non vorrai chiamarlo Jimmy, n Pedro o Perdu vivaddio.
Va bene, Nicola. Che nome locale. Di questa provincia lontana. Eppure, laggi, un Nicola, pirata...
Perdona, messi. Io ignoro il costume della tua civilt. Il costume letterario. Non so molto scrivere. Non so
parlare. Mi esprimo male. Il mio accento, e i miei nomi,
sono umili. Lontani.
Ma questo Nicola di cui parlo, messi, lho visto per

stessa, per gli ignari e i sapienti. La risposta scontata,


quando limputato riconosce la legge dellinquisitore.
Soltanto i ruoli sono statici e definitivi: schiavo del Signore, e schiavo di Domenico, una volta e per sempre.
Uno Domenico; laltro Domenico, schiavo di Domenico.
Il primo interroga, il secondo adora.
Non ti condanna, questo tribunale. Gi pesante la
pena che sconti, costretta a vivere, cieca, senza la ragione.
Lia sta, china, al centro della piazza, fra i monaci silenziosi.
Uno di quelli, vecchio e scuro (lo si direbbe arabo, dai
colori del viso, e dal taglio degli occhi. La sua pelle cotta dal sole). Uccidetela! urla. Reclama la condanna, per
troncare la pena.
la difesa: il servo di quella Signora.
La Storia, Signore, finita.
parsa, forse, confusa. Gli stessi personaggi ritornano,
in momenti diversi, ognuno col suo proprio Signore.
Tuttavia, mi ha conquistato. E ho voluto narrarVela.
Anchio ho Voi, Signore.
Anchio, mi chiamo Domenico.

Da Nicola a Nicola,
il giorno della sua morte

Prologo
Una storia di uno che scrive?
No, messi, nossignore. Non va.
A chi interessa, sta storia. Chi vuole sentirne parlare di
storie siffatte: di gente che scrive... giammai.
Allora, forse, potresti narrarmi una storia istruttiva.
Daccordo, messi. E colorata.
Una sera, un giovane comandante un pirata, giovane comandante di un fantomatico gruppo politico clandestino...
Attraversa la citt, Nicola, una sera.
Lhai chiamato Nicola! E perch?
Un nome come un altro, messi. Non vorrai chiamarlo Jimmy, n Pedro o Perdu vivaddio.
Va bene, Nicola. Che nome locale. Di questa provincia lontana. Eppure, laggi, un Nicola, pirata...
Perdona, messi. Io ignoro il costume della tua civilt. Il costume letterario. Non so molto scrivere. Non so
parlare. Mi esprimo male. Il mio accento, e i miei nomi,
sono umili. Lontani.
Ma questo Nicola di cui parlo, messi, lho visto per

strada. (Che grazia vuoi, nel racconto? Non certo la grazia delle vecchie bianche signore scrittrici dEuropa.
Non mi appartiene. N la grazia degli arditi giocolieri di
parole che abitano il tuo mondo).
Questa mia lingua povera. Io mi chiamo Nicola. Credi, signore, esistono anche i Nicola, a questo mondo.
Attraversa la citt, dunque, Nicola, il pirata. giovane, e vecchio.

Come pure cercher di fare e perch mi chiami signore,


e mi parli col tu.
Una terza domanda, la porr a suo tempo. Accetto. Si
chiamava Nicola. Era giovane, e vecchio.

Giovane? Ho udito bene? giovane, e vecchio, nello


stesso tempo? E perch?
Perdona, messi. Sappi che alla terza interruzione il
viaggio si interrompe, e la nostra storia finisce.
Ti devo, dunque, questultima spiegazione.
umile, dicevo, la mia lingua. Altrettanto il mio nome.
A me pareva giovane, quel Nicola, e vecchio. E questa
specie di contraddizione non manca di senso, come cercher di dirti, se mi lascerai proseguire.
Uso parole povere. Messi. Ma esse pure hanno, voglia
iddio, un significato: quello che hanno in questa lontana
citt. In questo borgo di periferia.
(Perdonaci. Ci sforziamo, a parlare nella tua lingua
straniera. Eppure abbiamo letto bei libri).
Credimi, messi: unaltra interruzione, e concludo il
narrare.
Star ad ascoltarla, la tua storia.
Con pazienza.
Anche se vorrei sapere di te, e il nome di tuo padre.
E perch credi ti debba dare ascolto, magari per ore.

Era, dunque, Nicola.


Potremmo chiamarlo anche A. E B. Un nome qualunque da un elenco telefonico. Dallelenco telefonico di
questa citt. Della mia.
Tullio. Alfredo. Antonio. Dio, quanti Antonio, quaggi, al mio paese.
Aurelio. Aventino. Cesare. E Bruno, Cecilia, Daniele.
Efisio, quanti Efisio.
Giovanni, e Giuseppe.
Luigino e Maddalena. Mario e Maria.
Quaggi, eccolo, un Nicol. Toscano, diresti?
Vive in questa mia citt. Col mio stesso cognome. Forse viene dal paese di mio padre. Aveva un padre innamorato di vecchie scritture italiane?
Guardiamoli, i nomi del paese di mio padre. Tullio e
Virgilio, messi.
Si chiamano cos, alla bocca della miniera. Tullio e Virgilio. E Nicolino. Eleoterio e Remigio. Quinzio e Rodolfo. Ulisse. E Filippo. Venanzio e Nino.
C una Malvina, e un Guerino. Virgilio, e nuovamente Virgilio. Sullelenco telefonico del paese di mio padre.
Son pochi i Nicola?
Vediamo al paese di Umberto, allora, sui monti, fra i
banditi, in Barbagia.

strada. (Che grazia vuoi, nel racconto? Non certo la grazia delle vecchie bianche signore scrittrici dEuropa.
Non mi appartiene. N la grazia degli arditi giocolieri di
parole che abitano il tuo mondo).
Questa mia lingua povera. Io mi chiamo Nicola. Credi, signore, esistono anche i Nicola, a questo mondo.
Attraversa la citt, dunque, Nicola, il pirata. giovane, e vecchio.

Come pure cercher di fare e perch mi chiami signore,


e mi parli col tu.
Una terza domanda, la porr a suo tempo. Accetto. Si
chiamava Nicola. Era giovane, e vecchio.

Giovane? Ho udito bene? giovane, e vecchio, nello


stesso tempo? E perch?
Perdona, messi. Sappi che alla terza interruzione il
viaggio si interrompe, e la nostra storia finisce.
Ti devo, dunque, questultima spiegazione.
umile, dicevo, la mia lingua. Altrettanto il mio nome.
A me pareva giovane, quel Nicola, e vecchio. E questa
specie di contraddizione non manca di senso, come cercher di dirti, se mi lascerai proseguire.
Uso parole povere. Messi. Ma esse pure hanno, voglia
iddio, un significato: quello che hanno in questa lontana
citt. In questo borgo di periferia.
(Perdonaci. Ci sforziamo, a parlare nella tua lingua
straniera. Eppure abbiamo letto bei libri).
Credimi, messi: unaltra interruzione, e concludo il
narrare.
Star ad ascoltarla, la tua storia.
Con pazienza.
Anche se vorrei sapere di te, e il nome di tuo padre.
E perch credi ti debba dare ascolto, magari per ore.

Era, dunque, Nicola.


Potremmo chiamarlo anche A. E B. Un nome qualunque da un elenco telefonico. Dallelenco telefonico di
questa citt. Della mia.
Tullio. Alfredo. Antonio. Dio, quanti Antonio, quaggi, al mio paese.
Aurelio. Aventino. Cesare. E Bruno, Cecilia, Daniele.
Efisio, quanti Efisio.
Giovanni, e Giuseppe.
Luigino e Maddalena. Mario e Maria.
Quaggi, eccolo, un Nicol. Toscano, diresti?
Vive in questa mia citt. Col mio stesso cognome. Forse viene dal paese di mio padre. Aveva un padre innamorato di vecchie scritture italiane?
Guardiamoli, i nomi del paese di mio padre. Tullio e
Virgilio, messi.
Si chiamano cos, alla bocca della miniera. Tullio e Virgilio. E Nicolino. Eleoterio e Remigio. Quinzio e Rodolfo. Ulisse. E Filippo. Venanzio e Nino.
C una Malvina, e un Guerino. Virgilio, e nuovamente Virgilio. Sullelenco telefonico del paese di mio padre.
Son pochi i Nicola?
Vediamo al paese di Umberto, allora, sui monti, fra i
banditi, in Barbagia.

Sebastiano e Salvatore. Serafino e Gigina. Anche mia


nonna, si chiamava Gigina.
Francesco e Giacomino. Graziano. Graziano. Graziano. Michela e Mariangela. Pietrina e Maria Rosa.
Raimondo. E Diego. E Luigi. E Anania.
E tre, e quattro, e cinque Nicol. E Nicola. C anche
Nicola, viene di lass, Nicola.
Usano il coltello, lass. Come briganti corsi, come nei
vicoli napoletani, come signori siciliani, come servi romani, come neri dellAfrica, convertiti a colpi di fucile, che
ora tornano, dalloriente, strani messaggeri, con nomi del
corano, delle mille e una notte.
Lass, di lass viene Nicola.
Viene da lontano: da una citt di pietra. Un popolo di
pastori.
Che conosce il fucile. E il cavallo.
Come indiani dAmerica. Amici dellanimale. (Dellanima, dellanimale, di questo amico cavallo), senza sella,
fratellino, correremo meglio.
Pochi, un pugno di guerrieri pastori seminati lass.
Che parlano latino. E scrivono da martiri cristiani.
Un pugno di migliaia. Circondati. Sulla costa, sul mare
nemico, circondati da atomici elettronici USA.
Quaggi, nella citt, nel porto, i tedeschi non mancano.
Vecchi signori della guerra. E flaccidi ubriaconi. Agili automi da battaglia. Matti e assassini: non sturm: ammazzano per strada.
Non piace, a Nicola, la citt, quaggi, in fondo.
Ma qualcuno deve pure spostarsi, a vendere il formag-

gio. Dalla barbagia meridionale, abili mediatori, a misurarsi coi mercanti della citt, coi mercanti pisani, e genovesi mia bisnonna, genovese e coi domestici, sanguinari spagnoli.
Non piace, a Nicola, la citt. N i funzionari piemontesi e gli avvocati (Chabert, e Chapelle, e Chenet, cagnetto), n i ras del piccolo regno, residuati spagnoli o virgulti sassaresi, mediatori di favori, che scrivono in toscano, e
guidano, a testa china. Vecchi notabili del passato, famiglie di signori.
Il nostro Nicola barbaricino. Pensatore di frontiera,
che ninna la bimbetta in latino medioevale.
Sono pochi, in citt, i Nicola. Colti e coraggiosi, gente
dequilibrio. In un gran mare di astuti arrivati dal Libano, o dalla grande Napoli, da Palermo, persino, e Toledo.
E dunque mediatore di formaggi, Nicola. Mercante
delle barbagie meridionali. Avido di denari.
cos avido di denari. Vizioso come un bandito marocchino, avido di donne. Veloce col coltello, elegante vede la tele, anche lui, messi. Ha imparato a vestire.
Un barbaro di citt, un cartaginese, un astuto signore.

Attraversa la citt, Nicola, il pirata.


La citt di un tempo: met Algeri, met Siviglia. Avamposto di frontiera.
Prima il porto. Pescatori e malaria. Coltelli malati.

Moto

Sebastiano e Salvatore. Serafino e Gigina. Anche mia


nonna, si chiamava Gigina.
Francesco e Giacomino. Graziano. Graziano. Graziano. Michela e Mariangela. Pietrina e Maria Rosa.
Raimondo. E Diego. E Luigi. E Anania.
E tre, e quattro, e cinque Nicol. E Nicola. C anche
Nicola, viene di lass, Nicola.
Usano il coltello, lass. Come briganti corsi, come nei
vicoli napoletani, come signori siciliani, come servi romani, come neri dellAfrica, convertiti a colpi di fucile, che
ora tornano, dalloriente, strani messaggeri, con nomi del
corano, delle mille e una notte.
Lass, di lass viene Nicola.
Viene da lontano: da una citt di pietra. Un popolo di
pastori.
Che conosce il fucile. E il cavallo.
Come indiani dAmerica. Amici dellanimale. (Dellanima, dellanimale, di questo amico cavallo), senza sella,
fratellino, correremo meglio.
Pochi, un pugno di guerrieri pastori seminati lass.
Che parlano latino. E scrivono da martiri cristiani.
Un pugno di migliaia. Circondati. Sulla costa, sul mare
nemico, circondati da atomici elettronici USA.
Quaggi, nella citt, nel porto, i tedeschi non mancano.
Vecchi signori della guerra. E flaccidi ubriaconi. Agili automi da battaglia. Matti e assassini: non sturm: ammazzano per strada.
Non piace, a Nicola, la citt, quaggi, in fondo.
Ma qualcuno deve pure spostarsi, a vendere il formag-

gio. Dalla barbagia meridionale, abili mediatori, a misurarsi coi mercanti della citt, coi mercanti pisani, e genovesi mia bisnonna, genovese e coi domestici, sanguinari spagnoli.
Non piace, a Nicola, la citt. N i funzionari piemontesi e gli avvocati (Chabert, e Chapelle, e Chenet, cagnetto), n i ras del piccolo regno, residuati spagnoli o virgulti sassaresi, mediatori di favori, che scrivono in toscano, e
guidano, a testa china. Vecchi notabili del passato, famiglie di signori.
Il nostro Nicola barbaricino. Pensatore di frontiera,
che ninna la bimbetta in latino medioevale.
Sono pochi, in citt, i Nicola. Colti e coraggiosi, gente
dequilibrio. In un gran mare di astuti arrivati dal Libano, o dalla grande Napoli, da Palermo, persino, e Toledo.
E dunque mediatore di formaggi, Nicola. Mercante
delle barbagie meridionali. Avido di denari.
cos avido di denari. Vizioso come un bandito marocchino, avido di donne. Veloce col coltello, elegante vede la tele, anche lui, messi. Ha imparato a vestire.
Un barbaro di citt, un cartaginese, un astuto signore.

Attraversa la citt, Nicola, il pirata.


La citt di un tempo: met Algeri, met Siviglia. Avamposto di frontiera.
Prima il porto. Pescatori e malaria. Coltelli malati.

Moto

Ha un lavoro da compiere, Nicola. Un lavoro difficile,


attraverso la citt: condurre un clandestino, un dirigente
nazionale di un fantomatico gruppo di guerriglia. Un
operaio torinese. Raggiungere unauto. Correre allaeroporto.
Partirai fra mezzora, in aereo.
Ti ringrazio di tutto, Nicola. Anche la riunione andata bene. Mi sembrate a buon punto, quasi pronti a colpire.
Abbiamo lavorato.
Attraversa la citt, Nicola, collospite. Dieci passi pi
avanti, una coppia, Luigi e Mariantonia, abbracciati. La
testa sulla testa, come giovani, teneri innamorati. Lenti e
dolci. Mariantonia ha in mano, nascosta sotto uno scialle
nero, una pistola.
Camminano lenti, gli innamorati. La testa della processione. Dieci metri pi in fondo, affiancati e quasi muti,
Nicola e Oreste, il dirigente nazionale.
Camminano sui ciottoli. Fra i vicoli della marina. Nella
strada profumi, di erbe e maestrale, di frittura di pesce.
Ogni tanto, dietro il tettuccio a tegole di una vecchia casa, uno scorcio di mare.
buio presto, a Novembre. Il vento fresco porta la
gente allaperto, fuori per strada. E gli amanti, sul mare.
Lasciano i portici, pieni di folla, alle spalle. La folla delle sette del pomeriggio. Sotto i portici, nei caff, alla luce,
di fronte al mare. Cento metri pi in fondo, il primo orizzonte: ciminiere di navi.
Di lass, dalla parte alta della citt, dove va Nicola, dal-

la Marina al Castello, sempre sui ciottoli, per scalinate


scure, pare gi mezzanotte.
Di lass il mare nero. Attraversato dalle luci delle fabbriche, dai lampi di fuoco delle ciminiere lontane, e da
una luna straordinaria e immensa.
Perdonami, messi, se dico argentea. I riflessi sul mare,
della luna, sono bianchi, e dargento.
Ancora cammina, la processione dei mimi. Avanti a tutti, i fanciulli innamorati. Quindi gli amici silenziosi.
In fondo, a chiudere il corteo ancora dietro, dieci metri alle spalle di Nicola un tale, solitario, fuma una sigaretta dietro laltra. Ha un cappotto elegante, sulle spalle.
Cammello. E sotto lascella, un mitra corto. Carico.
Basta spostare la sicura, tirare sulla destra il cappotto.
In venti secondi pronto a sparare. Rinaldo. Addestrato
a Beirut. Anche a vederlo in faccia: un palestinese.
Questa storia ci porta, messi, fin sulla piazza della Cattedrale.
Si sono arrampicati, a piedi. Attraverso tutta la citt
vecchia, in salita, dal porto ai rifugi nobili. Antichi, cupi
palazzi spagnoli. Palazzi scuri a chiudere vicoli stretti,
umidi, e squarci di mare. Dai piani alti, tutto il mare negli
occhi, e la citt sdraiata, in basso, illuminata.
Un gomito, il passaggio in un cunicolo, sul retro della
grande chiesa.
Infine, improvvisa apertura, la piazza luminosa della
Cattedrale.
I gradini di marmo.
E in fondo, nellombra, un parcheggio di auto, davanti

Ha un lavoro da compiere, Nicola. Un lavoro difficile,


attraverso la citt: condurre un clandestino, un dirigente
nazionale di un fantomatico gruppo di guerriglia. Un
operaio torinese. Raggiungere unauto. Correre allaeroporto.
Partirai fra mezzora, in aereo.
Ti ringrazio di tutto, Nicola. Anche la riunione andata bene. Mi sembrate a buon punto, quasi pronti a colpire.
Abbiamo lavorato.
Attraversa la citt, Nicola, collospite. Dieci passi pi
avanti, una coppia, Luigi e Mariantonia, abbracciati. La
testa sulla testa, come giovani, teneri innamorati. Lenti e
dolci. Mariantonia ha in mano, nascosta sotto uno scialle
nero, una pistola.
Camminano lenti, gli innamorati. La testa della processione. Dieci metri pi in fondo, affiancati e quasi muti,
Nicola e Oreste, il dirigente nazionale.
Camminano sui ciottoli. Fra i vicoli della marina. Nella
strada profumi, di erbe e maestrale, di frittura di pesce.
Ogni tanto, dietro il tettuccio a tegole di una vecchia casa, uno scorcio di mare.
buio presto, a Novembre. Il vento fresco porta la
gente allaperto, fuori per strada. E gli amanti, sul mare.
Lasciano i portici, pieni di folla, alle spalle. La folla delle sette del pomeriggio. Sotto i portici, nei caff, alla luce,
di fronte al mare. Cento metri pi in fondo, il primo orizzonte: ciminiere di navi.
Di lass, dalla parte alta della citt, dove va Nicola, dal-

la Marina al Castello, sempre sui ciottoli, per scalinate


scure, pare gi mezzanotte.
Di lass il mare nero. Attraversato dalle luci delle fabbriche, dai lampi di fuoco delle ciminiere lontane, e da
una luna straordinaria e immensa.
Perdonami, messi, se dico argentea. I riflessi sul mare,
della luna, sono bianchi, e dargento.
Ancora cammina, la processione dei mimi. Avanti a tutti, i fanciulli innamorati. Quindi gli amici silenziosi.
In fondo, a chiudere il corteo ancora dietro, dieci metri alle spalle di Nicola un tale, solitario, fuma una sigaretta dietro laltra. Ha un cappotto elegante, sulle spalle.
Cammello. E sotto lascella, un mitra corto. Carico.
Basta spostare la sicura, tirare sulla destra il cappotto.
In venti secondi pronto a sparare. Rinaldo. Addestrato
a Beirut. Anche a vederlo in faccia: un palestinese.
Questa storia ci porta, messi, fin sulla piazza della Cattedrale.
Si sono arrampicati, a piedi. Attraverso tutta la citt
vecchia, in salita, dal porto ai rifugi nobili. Antichi, cupi
palazzi spagnoli. Palazzi scuri a chiudere vicoli stretti,
umidi, e squarci di mare. Dai piani alti, tutto il mare negli
occhi, e la citt sdraiata, in basso, illuminata.
Un gomito, il passaggio in un cunicolo, sul retro della
grande chiesa.
Infine, improvvisa apertura, la piazza luminosa della
Cattedrale.
I gradini di marmo.
E in fondo, nellombra, un parcheggio di auto, davanti

al palazzo viceregio, il palazzo dei signori di ieri, e di oggi.


Il parcheggio al buio. I gradini e la facciata della cattedrale illuminati a giorno. Traffico di anziane signore, sui
gradini della chiesa, in cappelline fin de siecle. E dignitosi
signori in grigio. E magri e umili servi, ossequiosi: donne
addobbate in nero, e vecchie giacche marrone smesse
da Vossignoria sulle spalle degli uomini.
Mariantonia. Mintonia, abbracciata a Luigi, stringe la
pistola. Si guarda attorno, davanti alla chiesa. Come una
nemica nella citt straniera. Ha paura della luce, della
gente, della confusione.
Nicola e Oreste. Tranquilli e muti. I pirati. Attraversano
la luce.
Ultimo, Rinaldo. Giovane borghese. Guerrigliero bizantino.
Dopo la Cattedrale, dopo la luce, in una sola piazza,
uno spazio buio. Decine di auto. In penombra. I ragazzi
vanno verso le macchine.
Sono arrivati, messi. Hanno recuperato la vettura.
Mintonia slaccia il fidanzato. E si apposta. Colla sua pistola.
Luigi apre una sitron. Si accuccia sul sedile posteriore.
Nicola sale alla guida. Oreste gira attorno alla automobile.
Mariantonia in piedi, guardiana.
I fari li beccano cos. Due in auto, il motore acceso, due
in piedi, un uomo e una donna.
Due fari enormi, montati sul tettuccio di due macchine
bianca, e marrone mascherate.

Due fari enormi, illuminano la sitron. Improvvisi, lividi.


Mani in alto. Polizia.
Mani in alto, polizia.
La scena illuminata da due fari lividi, biancastri, che
spezzano la penombra, davanti al vecchio palco viceregio,
come un grande teatro.
Oreste si tuffa dentro una portina aperta. Dentro la sitron.
Nicola d gas, una sgommata feroce.
Mariantonia, in piedi.
In piedi, Mintonia, tranquilla, incrocia le mani attorno
al manico della beretta, come in preghiera. Solleva la pistola davanti agli occhi, e spara. Spegne una delle luci,
uno dei fari.
Met della scena al buio. Mintonia ha sparato.
Nella met illuminata, dentro il raggio di un unico faro,
rimasto un solo personaggio, messi. Una Mintonia che
cade, e pare una Maria inginocchiata, cade da cento fucili,
e ancora spara.
Lunghi capelli neri, inginocchiata nel cono di luce, spara, spara ancora.
Lavresti detta unindia, una meticcia, una bianca cubana.
solo figlia di un vecchio minatore. Razza sfortunata,
coi polmoni neri di catarro e carboni, eppure razza robusta, come la pietra. Gente strana di schiavi, che solleva
piano la testa, piano, un tanto al giorno, da cento anni, almeno. Piano, un passo al giorno.

al palazzo viceregio, il palazzo dei signori di ieri, e di oggi.


Il parcheggio al buio. I gradini e la facciata della cattedrale illuminati a giorno. Traffico di anziane signore, sui
gradini della chiesa, in cappelline fin de siecle. E dignitosi
signori in grigio. E magri e umili servi, ossequiosi: donne
addobbate in nero, e vecchie giacche marrone smesse
da Vossignoria sulle spalle degli uomini.
Mariantonia. Mintonia, abbracciata a Luigi, stringe la
pistola. Si guarda attorno, davanti alla chiesa. Come una
nemica nella citt straniera. Ha paura della luce, della
gente, della confusione.
Nicola e Oreste. Tranquilli e muti. I pirati. Attraversano
la luce.
Ultimo, Rinaldo. Giovane borghese. Guerrigliero bizantino.
Dopo la Cattedrale, dopo la luce, in una sola piazza,
uno spazio buio. Decine di auto. In penombra. I ragazzi
vanno verso le macchine.
Sono arrivati, messi. Hanno recuperato la vettura.
Mintonia slaccia il fidanzato. E si apposta. Colla sua pistola.
Luigi apre una sitron. Si accuccia sul sedile posteriore.
Nicola sale alla guida. Oreste gira attorno alla automobile.
Mariantonia in piedi, guardiana.
I fari li beccano cos. Due in auto, il motore acceso, due
in piedi, un uomo e una donna.
Due fari enormi, montati sul tettuccio di due macchine
bianca, e marrone mascherate.

Due fari enormi, illuminano la sitron. Improvvisi, lividi.


Mani in alto. Polizia.
Mani in alto, polizia.
La scena illuminata da due fari lividi, biancastri, che
spezzano la penombra, davanti al vecchio palco viceregio,
come un grande teatro.
Oreste si tuffa dentro una portina aperta. Dentro la sitron.
Nicola d gas, una sgommata feroce.
Mariantonia, in piedi.
In piedi, Mintonia, tranquilla, incrocia le mani attorno
al manico della beretta, come in preghiera. Solleva la pistola davanti agli occhi, e spara. Spegne una delle luci,
uno dei fari.
Met della scena al buio. Mintonia ha sparato.
Nella met illuminata, dentro il raggio di un unico faro,
rimasto un solo personaggio, messi. Una Mintonia che
cade, e pare una Maria inginocchiata, cade da cento fucili,
e ancora spara.
Lunghi capelli neri, inginocchiata nel cono di luce, spara, spara ancora.
Lavresti detta unindia, una meticcia, una bianca cubana.
solo figlia di un vecchio minatore. Razza sfortunata,
coi polmoni neri di catarro e carboni, eppure razza robusta, come la pietra. Gente strana di schiavi, che solleva
piano la testa, piano, un tanto al giorno, da cento anni, almeno. Piano, un passo al giorno.

Cos erano i padri: robusti. Poi vinti, infine, dallet.


Colla pensione dello stato.
I figli vanno via chiss dove. Hanno studiato, i figli.
Vanno via chiss dove.
Una figlia sta qui, nella met illuminata della scena e tutto attorno la penombra di un parcheggio per notabili.
Giovane madonna che crolla sullasfalto, travolta dalla seconda scarica.

pista, lamore. Altro tipo di eroe: scuro cagliaritano


mezzomatto, ingrassato re di periferia, vecchio galeotto
rissoso, ubriacone violento.
Mirabilmente dolce, ammaestrato, ogni tanto.
Un principe bruno della casba. Raffinato ergastolano
quarantenne. Un signore.
Sta sdraiata bocconi, Mintonia, ai piedi della cattedrale. Sparata viva. Squarciata. Titoli sui giornali. La guerra
finita.

Interludio

La storia continua

Cosa vorresti ora, messi?


Meglio: cosa aspetti che succeda, in questa storia?
Forse immagini che io voglia narrarti, ora, una storia
damore.
Una storia damore. Anche a me, piacerebbe. Credi.
Negli autunni cagliaritani, serate delicate, la bella del
fuorilegge, protetta dai vecchi alberi, abbracciata sulla
spiaggia, nei rifugi clandestini.
Ma non la donna di Nicola.
La storia, messi, differente. La ragazza non ha amanti, nel gruppo clandestino. solo vittima di un vecchio sogno: combattere nel cuore delle citt. Come Palestina, come i papisti dIrlanda, i militanti baschi. Orizzonte lontano, feroce e polveroso. Terroristi arrabbiati.
Ci crede, Mintonia. Credetemi, messi. Ci crede davvero, con disperazione.
Ma lamore. Lamore altra cosa. Un invecchiato tep-

Nellangolo buio della scena, mentre lunico faro, e i


colpi di mitraglia, convergevano su lei, Nicola scappa.
Sgomma via, con le portine spalancate, la sitron.
Una portina sbatte su un angolo della cattedrale, e si
stacca.
Una portina sbatte su una vecchia pietra allimbocco
di via del Fossario, e si stacca.
Lauto schizza via sui bastioni, sbuca in cima alla citt.
Il mare, nuovamente, negli occhi.
Nicola sbatte sui palazzi dei signori di un tempo. Striscia, graffia, ammacca.
Scappa verso il mare, nei vicoli, una discesa impazzita
dal colle, gi gi, verso il mare.
Dietro le spalle, una sola, insistente, sirena.
Una sola pantera. Le altre, bloccate davanti alla cattedrale, nella penombra di fronte al palazzo viceregio. Le

Cos erano i padri: robusti. Poi vinti, infine, dallet.


Colla pensione dello stato.
I figli vanno via chiss dove. Hanno studiato, i figli.
Vanno via chiss dove.
Una figlia sta qui, nella met illuminata della scena e tutto attorno la penombra di un parcheggio per notabili.
Giovane madonna che crolla sullasfalto, travolta dalla seconda scarica.

pista, lamore. Altro tipo di eroe: scuro cagliaritano


mezzomatto, ingrassato re di periferia, vecchio galeotto
rissoso, ubriacone violento.
Mirabilmente dolce, ammaestrato, ogni tanto.
Un principe bruno della casba. Raffinato ergastolano
quarantenne. Un signore.
Sta sdraiata bocconi, Mintonia, ai piedi della cattedrale. Sparata viva. Squarciata. Titoli sui giornali. La guerra
finita.

Interludio

La storia continua

Cosa vorresti ora, messi?


Meglio: cosa aspetti che succeda, in questa storia?
Forse immagini che io voglia narrarti, ora, una storia
damore.
Una storia damore. Anche a me, piacerebbe. Credi.
Negli autunni cagliaritani, serate delicate, la bella del
fuorilegge, protetta dai vecchi alberi, abbracciata sulla
spiaggia, nei rifugi clandestini.
Ma non la donna di Nicola.
La storia, messi, differente. La ragazza non ha amanti, nel gruppo clandestino. solo vittima di un vecchio sogno: combattere nel cuore delle citt. Come Palestina, come i papisti dIrlanda, i militanti baschi. Orizzonte lontano, feroce e polveroso. Terroristi arrabbiati.
Ci crede, Mintonia. Credetemi, messi. Ci crede davvero, con disperazione.
Ma lamore. Lamore altra cosa. Un invecchiato tep-

Nellangolo buio della scena, mentre lunico faro, e i


colpi di mitraglia, convergevano su lei, Nicola scappa.
Sgomma via, con le portine spalancate, la sitron.
Una portina sbatte su un angolo della cattedrale, e si
stacca.
Una portina sbatte su una vecchia pietra allimbocco
di via del Fossario, e si stacca.
Lauto schizza via sui bastioni, sbuca in cima alla citt.
Il mare, nuovamente, negli occhi.
Nicola sbatte sui palazzi dei signori di un tempo. Striscia, graffia, ammacca.
Scappa verso il mare, nei vicoli, una discesa impazzita
dal colle, gi gi, verso il mare.
Dietro le spalle, una sola, insistente, sirena.
Una sola pantera. Le altre, bloccate davanti alla cattedrale, nella penombra di fronte al palazzo viceregio. Le

ha bloccate. Rinaldo, la retroguardia della processione,


col cappotto cammello e la mira da professionista. Ha
colpito, ammazzato. Si dato da fare. Piegato nel buio.
Ora corre verso il porto, a piedi, disarmato. Corre sulle scalinate, allenato, insistente, col fiato controllato.
Raggiunger un rifugio sicuro. Una casa centenaria e
sicura.
Quel signore elegante che vive per sparare, preciso come un orologio, in perfetta forma, sparisce nella notte
cagliaritana. Spinge il portoncino di una villa centenaria.
Sfuma.

La sitron cerca le strade grandi, larghe, le arterie.


Vuole un attimo di vantaggio, Nicola, per mollare lauto, sparire nel buio, volare verso un rifugio sicuro.
La sitron si infila nello stradone che costeggia lo sta-

dio. La strada della domenica pomeriggio. Guarda il mare, la strada, e ora vuota. Come vuota, stasera, la citt
qui attorno, buia.
La strada dello stadio deserta. Come ogni sera di novembre. Appena sera: le diciannove e quindici. Le sette e
un quarto. Banditi in fuga.
Dietro le spalle ununica, noiosa, sirena.
Ponti e ponticelli, asfaltati, larghi e vuoti. Finch Nicola si ferma, infine, su un vialetto di terra battuta, che pare
campagna aperta, appoggiato a un canale verdastro, sul
bordo dello stagno. Lo stagno: nel cuore notturno della
citt, sotto i pini rinsecchiti di una collina per innamorati.
Dietro le spalle. Un minuto dopo. Eccola, la pantera.
Nicola, sdraiato sullasfalto, la pistola puntata, spara.
Oreste cade. Scappava. caduto. Beccato sulla guancia, e il colpo finito fin dentro il cervello. Sulla strada di
terra, sul bordo dello stagno. Nella diabolica palude di
un tempo. Senza urla. Una morte sul lavoro. Un signore
straniero.
Nicola la preda che sfugge. Nellacqua dello stagno.
Spaventa una famiglia di fenicotteri rosa ora soltanto
neri, e imbiancati che sinvola. Le gallinelle dacqua
stanno mute, acquattate fra le canne.
Lintruso corre fra lacqua su un sentierino di fango,
bello visibile alla luna.
Basta un solo colpo, preciso.
Nicola affonda. Colpito da un mirino telescopico sistemato su un elicottero: ha puntato un signore della guerra,
un ubriacone tedesco.

La storia, ancora, continua

Una sitron, ferita sui fianchi, aperta, corre lungo il


mare.
Nicola, autista tranquillo, tiene i centotrenta. Oreste
nervoso. Ma non tanto impaurito.
Dietro, nel divanetto posteriore dellauto, Luigi, innamorato per finta, la recluta del gruppo, uno sconosciuto,
ragazzo senza storia, crepato. Sbrindellato da una farfalla di piombo che ha macinato il vetro posteriore, prima di
poggiarsi fra il fegato e la testa del ragazzo. morto.

ha bloccate. Rinaldo, la retroguardia della processione,


col cappotto cammello e la mira da professionista. Ha
colpito, ammazzato. Si dato da fare. Piegato nel buio.
Ora corre verso il porto, a piedi, disarmato. Corre sulle scalinate, allenato, insistente, col fiato controllato.
Raggiunger un rifugio sicuro. Una casa centenaria e
sicura.
Quel signore elegante che vive per sparare, preciso come un orologio, in perfetta forma, sparisce nella notte
cagliaritana. Spinge il portoncino di una villa centenaria.
Sfuma.

La sitron cerca le strade grandi, larghe, le arterie.


Vuole un attimo di vantaggio, Nicola, per mollare lauto, sparire nel buio, volare verso un rifugio sicuro.
La sitron si infila nello stradone che costeggia lo sta-

dio. La strada della domenica pomeriggio. Guarda il mare, la strada, e ora vuota. Come vuota, stasera, la citt
qui attorno, buia.
La strada dello stadio deserta. Come ogni sera di novembre. Appena sera: le diciannove e quindici. Le sette e
un quarto. Banditi in fuga.
Dietro le spalle ununica, noiosa, sirena.
Ponti e ponticelli, asfaltati, larghi e vuoti. Finch Nicola si ferma, infine, su un vialetto di terra battuta, che pare
campagna aperta, appoggiato a un canale verdastro, sul
bordo dello stagno. Lo stagno: nel cuore notturno della
citt, sotto i pini rinsecchiti di una collina per innamorati.
Dietro le spalle. Un minuto dopo. Eccola, la pantera.
Nicola, sdraiato sullasfalto, la pistola puntata, spara.
Oreste cade. Scappava. caduto. Beccato sulla guancia, e il colpo finito fin dentro il cervello. Sulla strada di
terra, sul bordo dello stagno. Nella diabolica palude di
un tempo. Senza urla. Una morte sul lavoro. Un signore
straniero.
Nicola la preda che sfugge. Nellacqua dello stagno.
Spaventa una famiglia di fenicotteri rosa ora soltanto
neri, e imbiancati che sinvola. Le gallinelle dacqua
stanno mute, acquattate fra le canne.
Lintruso corre fra lacqua su un sentierino di fango,
bello visibile alla luna.
Basta un solo colpo, preciso.
Nicola affonda. Colpito da un mirino telescopico sistemato su un elicottero: ha puntato un signore della guerra,
un ubriacone tedesco.

La storia, ancora, continua

Una sitron, ferita sui fianchi, aperta, corre lungo il


mare.
Nicola, autista tranquillo, tiene i centotrenta. Oreste
nervoso. Ma non tanto impaurito.
Dietro, nel divanetto posteriore dellauto, Luigi, innamorato per finta, la recluta del gruppo, uno sconosciuto,
ragazzo senza storia, crepato. Sbrindellato da una farfalla di piombo che ha macinato il vetro posteriore, prima di
poggiarsi fra il fegato e la testa del ragazzo. morto.

Nicola affonda con la testa esplosa, spaccata.

Astrud

Interrogatorio finl
questo, lepilogo, messi.
Un personaggio scampato. Gli altri, morti.
La ruota ha girato, da Nicola a Nicola, il giorno della
sua morte.
Non ho voluto interromperti. Ho udito, con pazienza. E ascoltato.
Volevo sapere, dove saresti andato a parare.
Ora so. Ho sprecato il mio tempo, seguendo le tue parole.
Non , questa, una storia. Ha un corpo sgraziato. N
capo, n coda.
E non significa niente di importante. Anche se hai cercato di condirla con certi strampalati repertori antropologici.
Perch cazzo me lhai raccontata?
Perdona, messi.
Questa terza domanda, lultima che meriti risposta.
Ho raccontato una storia.
Racconta tu, ora, la tua.

un tunnel.
Un tunnel lungo-lungo. Forse dieci chilometri, sottoterra.
Chiuso da una parte, e dallaltra. Linterno di una scatola chiusa ermeticamente. Una scatola laccata, di pietre e
fango. Nera.
un tunnel buio, Anima degli Angeli. Al ventesimo livello sotterraneo.
Un tempo era il sogno colorato di una citt bianca: lultima conquista del Progresso, venti sotterranei sotto il
mare, sotto la citt, illuminati a giorno, brulicanti di poveri.
Sotterranei ben illuminati, ben forniti di Coca, e di Luce. Il sogno colorato di una citt, lanima bassa e musicale.
Un tempo era tutto questo, Anima degli Angeli. Un
tempo: quando cera la Luce.
Il Giorno Che Si Spenta la Luce, il mondo cambiato. La vita diventata fredda, e buia. La terra, umida e
inabitabile. arrivata la notte: la vita di un uomo che non
ha mai visto il sole, n lo vedr, mai. Mai una luce. N un
colore.
Dal tunnel partono i budelli minori, che si infilano nel

Nicola affonda con la testa esplosa, spaccata.

Astrud

Interrogatorio finl
questo, lepilogo, messi.
Un personaggio scampato. Gli altri, morti.
La ruota ha girato, da Nicola a Nicola, il giorno della
sua morte.
Non ho voluto interromperti. Ho udito, con pazienza. E ascoltato.
Volevo sapere, dove saresti andato a parare.
Ora so. Ho sprecato il mio tempo, seguendo le tue parole.
Non , questa, una storia. Ha un corpo sgraziato. N
capo, n coda.
E non significa niente di importante. Anche se hai cercato di condirla con certi strampalati repertori antropologici.
Perch cazzo me lhai raccontata?
Perdona, messi.
Questa terza domanda, lultima che meriti risposta.
Ho raccontato una storia.
Racconta tu, ora, la tua.

un tunnel.
Un tunnel lungo-lungo. Forse dieci chilometri, sottoterra.
Chiuso da una parte, e dallaltra. Linterno di una scatola chiusa ermeticamente. Una scatola laccata, di pietre e
fango. Nera.
un tunnel buio, Anima degli Angeli. Al ventesimo livello sotterraneo.
Un tempo era il sogno colorato di una citt bianca: lultima conquista del Progresso, venti sotterranei sotto il
mare, sotto la citt, illuminati a giorno, brulicanti di poveri.
Sotterranei ben illuminati, ben forniti di Coca, e di Luce. Il sogno colorato di una citt, lanima bassa e musicale.
Un tempo era tutto questo, Anima degli Angeli. Un
tempo: quando cera la Luce.
Il Giorno Che Si Spenta la Luce, il mondo cambiato. La vita diventata fredda, e buia. La terra, umida e
inabitabile. arrivata la notte: la vita di un uomo che non
ha mai visto il sole, n lo vedr, mai. Mai una luce. N un
colore.
Dal tunnel partono i budelli minori, che si infilano nel

le viscere della terra: quartieri di straducole di fango, che


cola dal soffitto.
Un tunnel di ghiaccio: fango e ghiaccio, secondo le stagioni.
Tanti budelli partono dal corpo del Verme, e finiscono
nel nulla: sui graniti.
Da una parte il Verme chiuso da una frana. Laltra
parte aperta: d su una rete. Una rete animata da una
scarica di diecimila volts.
Una rete che prosegue, tutto attorno al corpo del Verme, come una ragnatela: dovunque si potrebbe scavare:
si trova una parte della rete.
Astrud: un nome di stella. Vive in una grotta, Astrud,
poco prima della frana. Una grotta chera alloggio di
prima: ceramiche bianche, incanti, cervelli elettronici e
cibi caldi. Prima.
Ora una grotta.
Con la porta di legno. Niente barricate di sassi dietro
lingresso.
Dorme su un pagliericcio, Astrud, dietro la porta.
Collorecchio sveglio, sulla terra.

Astrud esce di casa.


Si avvia, lenta, rasente al muro. A passo di gatto: a quattro zampe.
Colle orecchie affilate di un gatto abituato a muoversi
al buio.

Nellaria c un unico fiato: quello di chi respira, mescolato allaria che arriva dal condotto principale, e passa
fra le maglie della rete senza farle imbizzarrire.
Un vento silenzioso come una tomba.
Astrud in mano ha un coltello. Un fratellino caldo, colla lama dacciaio. La vita pericolosa, a Anima degli Angeli. Bisogna stare allerta.
Astrud si ferma, gatto immobile: laria si intorbidita,
attorno.
Sono almeno due, gli aliti che soffiano.
Due aliti neri che tentano di colpire.
Le mani, le armi, la memoria: ogni pietra conosciuta
sorella, al buio.
La Lotta. La battaglia. Oggetti: forse ferro, forse vetro,
legno, metalli. Oggetti che colpiscono.
Hanno sbagliato preda. Hanno proprio sbagliato preda. Astrud forte e armata. una donna guerriero, giovane e robusta. un gatto sotterraneo armato di pugnale.
In mano ha un coltello, fratellino addestrato.
Quando torna, la pace, tacciono due aliti neri.
Astrud si china, tranquilla, per la ripulitura: taglia e seziona i corpi. Pesca due cuori caldi e teneri.
Si mangia, anche a Anima degli Angeli.
Astrud, ancora, cammina. Per ore, e ore. Lenta e tranquilla.
Infine siede, giovane guerriero in attesa di Dio. In attesa di un rito, a venti passi dalla maledetta barriera elettrica che ronza.
C chi giura che, dietro la rete, esiste ancora la vecchia

***

le viscere della terra: quartieri di straducole di fango, che


cola dal soffitto.
Un tunnel di ghiaccio: fango e ghiaccio, secondo le stagioni.
Tanti budelli partono dal corpo del Verme, e finiscono
nel nulla: sui graniti.
Da una parte il Verme chiuso da una frana. Laltra
parte aperta: d su una rete. Una rete animata da una
scarica di diecimila volts.
Una rete che prosegue, tutto attorno al corpo del Verme, come una ragnatela: dovunque si potrebbe scavare:
si trova una parte della rete.
Astrud: un nome di stella. Vive in una grotta, Astrud,
poco prima della frana. Una grotta chera alloggio di
prima: ceramiche bianche, incanti, cervelli elettronici e
cibi caldi. Prima.
Ora una grotta.
Con la porta di legno. Niente barricate di sassi dietro
lingresso.
Dorme su un pagliericcio, Astrud, dietro la porta.
Collorecchio sveglio, sulla terra.

Astrud esce di casa.


Si avvia, lenta, rasente al muro. A passo di gatto: a quattro zampe.
Colle orecchie affilate di un gatto abituato a muoversi
al buio.

Nellaria c un unico fiato: quello di chi respira, mescolato allaria che arriva dal condotto principale, e passa
fra le maglie della rete senza farle imbizzarrire.
Un vento silenzioso come una tomba.
Astrud in mano ha un coltello. Un fratellino caldo, colla lama dacciaio. La vita pericolosa, a Anima degli Angeli. Bisogna stare allerta.
Astrud si ferma, gatto immobile: laria si intorbidita,
attorno.
Sono almeno due, gli aliti che soffiano.
Due aliti neri che tentano di colpire.
Le mani, le armi, la memoria: ogni pietra conosciuta
sorella, al buio.
La Lotta. La battaglia. Oggetti: forse ferro, forse vetro,
legno, metalli. Oggetti che colpiscono.
Hanno sbagliato preda. Hanno proprio sbagliato preda. Astrud forte e armata. una donna guerriero, giovane e robusta. un gatto sotterraneo armato di pugnale.
In mano ha un coltello, fratellino addestrato.
Quando torna, la pace, tacciono due aliti neri.
Astrud si china, tranquilla, per la ripulitura: taglia e seziona i corpi. Pesca due cuori caldi e teneri.
Si mangia, anche a Anima degli Angeli.
Astrud, ancora, cammina. Per ore, e ore. Lenta e tranquilla.
Infine siede, giovane guerriero in attesa di Dio. In attesa di un rito, a venti passi dalla maledetta barriera elettrica che ronza.
C chi giura che, dietro la rete, esiste ancora la vecchia

***

vita: una postazione di controllo, acquattata in un fosso,


coi cannoni atomici puntati su Anima degli Angeli. I Signori del Bracciale Atomico Che Circonda il Ventre. I Signori dellAria che si Respira.
Un urlo.
Un urlo straccia il silenzio in mille pezzi. Un maledetto
ululato.
Astrud tende il corpo di gatto in amore, nellattesa.
Una corsa, un galoppo di passi disperati, nel tunnel. Un
ululato sgraziato, singhiozzato, corre, sempre pi vicino,
sempre pi vicino.
Un uomo supera Astrud, e urla. Uno di Anima degli
Angeli, che corre e si abbatte sulla rete da diecimila volte:
il Segno di Dio.
Luomo sbatte sulla rete: un attimo di luce, rovente e
bianca, come lo scoppio di una bomba, quando hanno
distrutto la vostra citt.
Bianca e straziante: la Luce dei racconti che colavano
dalle labbra del vecchio padre: un tempo la citt, il porto, circondata dagli stagni, era sempre Luce bianca. Luce
dacqua, e di sole. Canta questa canzone, Astrud: una
vecchia canzone di parole misteriose: una litania incomprensibile.
Astrud canta. Non mancano le canzoni, a Anima degli
Angeli. Ci sono i mugolii dellamore, i richiami per lamore, e le urla delle puerpere: perch dovrebbero mancare, le canzoni?
Anche oggi, Astrud ha visto: il lungo lampo bianco, la
Voce di Dio, e il sacrificato.

Ha visto due bambini, tenuti per mano. Addentavano


una mano calda e bruciata, e cantavano.
Non mancano gli uomini, e non manca il cibo, e non
mancano le ragioni per vivere. Si vive, ancora, a Anima
degli Angeli. In compagnia di Dio.
Astrud ha veduto. E torna a casa.

vita: una postazione di controllo, acquattata in un fosso,


coi cannoni atomici puntati su Anima degli Angeli. I Signori del Bracciale Atomico Che Circonda il Ventre. I Signori dellAria che si Respira.
Un urlo.
Un urlo straccia il silenzio in mille pezzi. Un maledetto
ululato.
Astrud tende il corpo di gatto in amore, nellattesa.
Una corsa, un galoppo di passi disperati, nel tunnel. Un
ululato sgraziato, singhiozzato, corre, sempre pi vicino,
sempre pi vicino.
Un uomo supera Astrud, e urla. Uno di Anima degli
Angeli, che corre e si abbatte sulla rete da diecimila volte:
il Segno di Dio.
Luomo sbatte sulla rete: un attimo di luce, rovente e
bianca, come lo scoppio di una bomba, quando hanno
distrutto la vostra citt.
Bianca e straziante: la Luce dei racconti che colavano
dalle labbra del vecchio padre: un tempo la citt, il porto, circondata dagli stagni, era sempre Luce bianca. Luce
dacqua, e di sole. Canta questa canzone, Astrud: una
vecchia canzone di parole misteriose: una litania incomprensibile.
Astrud canta. Non mancano le canzoni, a Anima degli
Angeli. Ci sono i mugolii dellamore, i richiami per lamore, e le urla delle puerpere: perch dovrebbero mancare, le canzoni?
Anche oggi, Astrud ha visto: il lungo lampo bianco, la
Voce di Dio, e il sacrificato.

Ha visto due bambini, tenuti per mano. Addentavano


una mano calda e bruciata, e cantavano.
Non mancano gli uomini, e non manca il cibo, e non
mancano le ragioni per vivere. Si vive, ancora, a Anima
degli Angeli. In compagnia di Dio.
Astrud ha veduto. E torna a casa.

Anche le pratiche possono morire

Gioacchino
Gioacchino si specchia sulla scrivania. La scrivania
verde, e sottomarina. Un telo di plastica verde copre il legno (per preservarlo da generazioni di impiegati che ci
hanno poggiato i gomiti, che ci poggiano i gomiti, che ci
poggeranno i gomiti. Gomiti, quotidianamente. Fino alla
fine dei giorni di quella scrivania), una lastra di vetro infrangibile copre il telo verde. Specchiandosi, Gioacchino, vede una illusoria immagine di se stesso che sale dal
fondo di un mare verde, uno specchio cupo.
Gioacchino si solleva. Le grandi, nere lancette di un
grande, bianco orologio da muro, dicono cinquemmezza. Gioacchino si solleva con ordine, calmo e tranquillo,
dando un ultimo colpetto alla piega dei pantaloni, grigioferro, forse lisi, si sguarda un attimino sulla scrivania effetto-mare, chiude con un gesto plateale il cassetto della
scrivania, girando e rigirando la piccola chiave in ottone
qualcuno sorride, al vedere lometto grande quanto un
manico dombrello, che chiude la scrivania come se chiudesse una cassaforte piena doro, con un volto da napoleone della finanza, ha paura dei ladri di tamponi assorbenti, il vecchietto, ha paura dei ladri e infine si avvia.

Anche le pratiche possono morire

Gioacchino
Gioacchino si specchia sulla scrivania. La scrivania
verde, e sottomarina. Un telo di plastica verde copre il legno (per preservarlo da generazioni di impiegati che ci
hanno poggiato i gomiti, che ci poggiano i gomiti, che ci
poggeranno i gomiti. Gomiti, quotidianamente. Fino alla
fine dei giorni di quella scrivania), una lastra di vetro infrangibile copre il telo verde. Specchiandosi, Gioacchino, vede una illusoria immagine di se stesso che sale dal
fondo di un mare verde, uno specchio cupo.
Gioacchino si solleva. Le grandi, nere lancette di un
grande, bianco orologio da muro, dicono cinquemmezza. Gioacchino si solleva con ordine, calmo e tranquillo,
dando un ultimo colpetto alla piega dei pantaloni, grigioferro, forse lisi, si sguarda un attimino sulla scrivania effetto-mare, chiude con un gesto plateale il cassetto della
scrivania, girando e rigirando la piccola chiave in ottone
qualcuno sorride, al vedere lometto grande quanto un
manico dombrello, che chiude la scrivania come se chiudesse una cassaforte piena doro, con un volto da napoleone della finanza, ha paura dei ladri di tamponi assorbenti, il vecchietto, ha paura dei ladri e infine si avvia.

Gioacchino strascica senza grazia le vecchie scarpacce


nere mai spolverate da un decennio, e tiene le mani nelle
tasche profonde di un cappottino marrone che sussurra
tutti i volta e giravolta della sua storia lunga e avventurosa di pezza da stoffa di lana, una storia antica. Ha le spalle ingobbite del corvo, Gioacchino. E come il corvo incassa il testone fra le spalle strette, raggricciando le spalle
come quelle di un corvo pensieroso e triste.
Non si guarda attorno, timido come un selvaggio davanti alla divinit burocratica che molla stipendi in cambio di un modernissimo lavoro di imbrattacarte contabile. Timido come un liquido amante daltri tempi, timido
come tutti i piccoli corvacci vecchi che si aggirano qua e
l, nei meandri di una burocrazia di cui paiono essere i
soli schiavi, ma anche i soli autentici interpreti, i soli capaci di comprendere il senso del volteggiare delle pratiche da un ufficietto polveroso ad un altro.
Solo una volta si udita la voce di Gioacchino risuonare fra le quattro mura del suo cubicolo dufficio. Una sola
volta, di cui non si perduta la memoria, nelle chiacchiere da corridoio, nelle pause dal lavoro mentre le mani
tamburellano sulla scrivania. Una sola memorabile volta,
da anni ed anni: tre giovani alle primissime avventure impiegatizie, desiderosi del meglio ma sconvolti dai margini
di un disegno incompiuto, tre giovani illusi attirati dal
miraggio stravagante della carriera, tre giovani di questo
tipo, gli avevano chiesto: cazzo, Gioacchino, m me lo
spieghi perch questa pratica torna indietro in questa
merda di ufficio per la trentaduesima volta, sempre pi

imbrattata di firme e sempre pi inutile per chi la aspetta


da mesi immemorabili, m me lo spieghi perch non la
mandi via. Spediscila al suo posto, che non torni pi. Anche se il suo posto fosse linferno.
Allora udirono la voce del vecchietto, del vecchio
Gioacchino, una voce tenue da tubercolotico, tenue come quella di un bimbo, ma straordinariamente esile e
chiara. Tu parli di inferno senza conoscenza diretta, giovanotto.
Ti interessa la storia di questa pratica; vuoi comprenderne il significato.
Perch non se ne va, vuoi sapere.
Hai dimenticato di interrogarti sulla sorte della tua vita, su quanto essa sia priva di senso compiuto. La tua vita
come quella di tutti noi. Priva di senso. Creata da un dio
insensato e crudele, che ci sbatacchia da un ufficio allaltro come pedine di una musica stonata.
Che senso ha il mondo, io ti chiedo, bambino.
Che senso ha la nostra esistenza su questo sputo di pavimenti, dovresti chiederti. Quanti gomiti hanno gomitato questa merda di scrivania, e quale frutto ha avuto la loro sorte.
Non hanno cambiato il mondo, i mezzemaniche.
Le pratiche vanno dove vogliono, se vuoi proprio saperlo, in piena autodecisione e volont.
il signore, che comanda il gran ballo, bambino, ed
un signore tanto in alto che tu non ci arriverai mai, come
mai ci sono arrivato io. Diventerai vecchio, su quella pratica, come io sono invecchiato sulle mie, e il mondo non

Gioacchino strascica senza grazia le vecchie scarpacce


nere mai spolverate da un decennio, e tiene le mani nelle
tasche profonde di un cappottino marrone che sussurra
tutti i volta e giravolta della sua storia lunga e avventurosa di pezza da stoffa di lana, una storia antica. Ha le spalle ingobbite del corvo, Gioacchino. E come il corvo incassa il testone fra le spalle strette, raggricciando le spalle
come quelle di un corvo pensieroso e triste.
Non si guarda attorno, timido come un selvaggio davanti alla divinit burocratica che molla stipendi in cambio di un modernissimo lavoro di imbrattacarte contabile. Timido come un liquido amante daltri tempi, timido
come tutti i piccoli corvacci vecchi che si aggirano qua e
l, nei meandri di una burocrazia di cui paiono essere i
soli schiavi, ma anche i soli autentici interpreti, i soli capaci di comprendere il senso del volteggiare delle pratiche da un ufficietto polveroso ad un altro.
Solo una volta si udita la voce di Gioacchino risuonare fra le quattro mura del suo cubicolo dufficio. Una sola
volta, di cui non si perduta la memoria, nelle chiacchiere da corridoio, nelle pause dal lavoro mentre le mani
tamburellano sulla scrivania. Una sola memorabile volta,
da anni ed anni: tre giovani alle primissime avventure impiegatizie, desiderosi del meglio ma sconvolti dai margini
di un disegno incompiuto, tre giovani illusi attirati dal
miraggio stravagante della carriera, tre giovani di questo
tipo, gli avevano chiesto: cazzo, Gioacchino, m me lo
spieghi perch questa pratica torna indietro in questa
merda di ufficio per la trentaduesima volta, sempre pi

imbrattata di firme e sempre pi inutile per chi la aspetta


da mesi immemorabili, m me lo spieghi perch non la
mandi via. Spediscila al suo posto, che non torni pi. Anche se il suo posto fosse linferno.
Allora udirono la voce del vecchietto, del vecchio
Gioacchino, una voce tenue da tubercolotico, tenue come quella di un bimbo, ma straordinariamente esile e
chiara. Tu parli di inferno senza conoscenza diretta, giovanotto.
Ti interessa la storia di questa pratica; vuoi comprenderne il significato.
Perch non se ne va, vuoi sapere.
Hai dimenticato di interrogarti sulla sorte della tua vita, su quanto essa sia priva di senso compiuto. La tua vita
come quella di tutti noi. Priva di senso. Creata da un dio
insensato e crudele, che ci sbatacchia da un ufficio allaltro come pedine di una musica stonata.
Che senso ha il mondo, io ti chiedo, bambino.
Che senso ha la nostra esistenza su questo sputo di pavimenti, dovresti chiederti. Quanti gomiti hanno gomitato questa merda di scrivania, e quale frutto ha avuto la loro sorte.
Non hanno cambiato il mondo, i mezzemaniche.
Le pratiche vanno dove vogliono, se vuoi proprio saperlo, in piena autodecisione e volont.
il signore, che comanda il gran ballo, bambino, ed
un signore tanto in alto che tu non ci arriverai mai, come
mai ci sono arrivato io. Diventerai vecchio, su quella pratica, come io sono invecchiato sulle mie, e il mondo non

avr fatto un passo avanti, per nostro sforzo, n un passo


indietro, o, se lha fatto, noi non ceravamo, stavamo seguendo una pratica.
Il mondo incomprensibile. Non il tragitto della pratica, che in se solo piccolo specchio di numerose scrivanie. Insensatezza clandestina, di fronte alla follia che ci
sta attorno.
La pratica, comunque, dammela. Forse conosco il trucco per farla sparire per sempre dalla tua vita.
Lometto minuto, il corvaccio Gioacchino, carezz la
pratica, con un sorriso di commiato, poi la ridusse in mille minuscoli pezzi, la infil nel cestino della carta straccia,
la schiacci con un fermacarte, si pul le mani come un
assassino si libera del sangue che lha imbrattato e rientr
nel suo silenzio, accovacciato sulla scrivania, le spalle
curve e la faccia incassata sul collo.
Quellunica volta udirono la sua voce flebile e nitida.
Quellunica volta e mai pi. Non salutava neanche. Mai
un buongiorno, come stai. Mai un buonasera, arrivederci.
Entrava e usciva come un fantasma, infagottato in un
vecchio cappottino marrone voltato e rivoltato.
Entrava, usciva, e sedeva alla scrivania, muto come una
vecchia mummia, timido come una giovane dattilografa.
Gioacchino porta le sue scarpacce nere attraverso vecchie strade di acciottolato, attraverso vecchissimi vicoli
di terra fra palazzo e palazzo, dal centro alla periferia,
dalla citt antica a quella vecchia, nata vecchia quand
ancora nuova, tutto attorno, fra la terra e la sabbia, tutto
attorno nella citt scura.

Accovacciato su se stesso, rasente il muro, Gioacchino


ciabatta attraverso la citt, sfuggendo bande di giovani
teppisti accoltellatori, e sfuggendo i posti di blocco. I
posti di blocco fermano soltanto le automobili, non i
vecchietti infagottati nel cappotto che strisciano lungo i
muri.
Gioacchino striscia sulla citt, coperto dallombra, senza guardare mai a destra, n a sinistra. neanche si volta
quando unanziana baldracca lo invita a dormire in una
pensioncina al primo piano di un vecchio casermone popolare di impiegati comunali.
Gioacchino saluta il portinaio dello stabile 48 C, il vecchio portinaio di quel palazzo celeste sbrecciato, mai ridipinto, attorcigliato attorno a un cortile che ostenta i
suoi panni alle finestre.
Il portinaio dello stabile 48 C, risponde da anni al saluto del vecchietto marrone che rientra alle settemezza
sempre puntualmente ogni sera, eppure, se gli chiedete
in che scala abita quel vecchietto cos ben conosciuto,
non ve lo sa dire, perch lo vede soltanto uscire, la mattina alle sette, e rientrare, la sera alle settemezza, e mai nessuno si lamentato di quellinquilino, e lui mai si dovuto sgobbare le scale per portare a quel vecchietto uningiunzione di pagamento, o un avviso di chiamata giudiziaria.
Gioacchino si addentra in un corridoio semibuio, con
grandi finestre bianche, che a malapena lasciano filtrare
la luce del giorno, e di notte a malapena riflettono i fanali
stradali. Gioacchino scende e sale per vecchie scale sudi-

avr fatto un passo avanti, per nostro sforzo, n un passo


indietro, o, se lha fatto, noi non ceravamo, stavamo seguendo una pratica.
Il mondo incomprensibile. Non il tragitto della pratica, che in se solo piccolo specchio di numerose scrivanie. Insensatezza clandestina, di fronte alla follia che ci
sta attorno.
La pratica, comunque, dammela. Forse conosco il trucco per farla sparire per sempre dalla tua vita.
Lometto minuto, il corvaccio Gioacchino, carezz la
pratica, con un sorriso di commiato, poi la ridusse in mille minuscoli pezzi, la infil nel cestino della carta straccia,
la schiacci con un fermacarte, si pul le mani come un
assassino si libera del sangue che lha imbrattato e rientr
nel suo silenzio, accovacciato sulla scrivania, le spalle
curve e la faccia incassata sul collo.
Quellunica volta udirono la sua voce flebile e nitida.
Quellunica volta e mai pi. Non salutava neanche. Mai
un buongiorno, come stai. Mai un buonasera, arrivederci.
Entrava e usciva come un fantasma, infagottato in un
vecchio cappottino marrone voltato e rivoltato.
Entrava, usciva, e sedeva alla scrivania, muto come una
vecchia mummia, timido come una giovane dattilografa.
Gioacchino porta le sue scarpacce nere attraverso vecchie strade di acciottolato, attraverso vecchissimi vicoli
di terra fra palazzo e palazzo, dal centro alla periferia,
dalla citt antica a quella vecchia, nata vecchia quand
ancora nuova, tutto attorno, fra la terra e la sabbia, tutto
attorno nella citt scura.

Accovacciato su se stesso, rasente il muro, Gioacchino


ciabatta attraverso la citt, sfuggendo bande di giovani
teppisti accoltellatori, e sfuggendo i posti di blocco. I
posti di blocco fermano soltanto le automobili, non i
vecchietti infagottati nel cappotto che strisciano lungo i
muri.
Gioacchino striscia sulla citt, coperto dallombra, senza guardare mai a destra, n a sinistra. neanche si volta
quando unanziana baldracca lo invita a dormire in una
pensioncina al primo piano di un vecchio casermone popolare di impiegati comunali.
Gioacchino saluta il portinaio dello stabile 48 C, il vecchio portinaio di quel palazzo celeste sbrecciato, mai ridipinto, attorcigliato attorno a un cortile che ostenta i
suoi panni alle finestre.
Il portinaio dello stabile 48 C, risponde da anni al saluto del vecchietto marrone che rientra alle settemezza
sempre puntualmente ogni sera, eppure, se gli chiedete
in che scala abita quel vecchietto cos ben conosciuto,
non ve lo sa dire, perch lo vede soltanto uscire, la mattina alle sette, e rientrare, la sera alle settemezza, e mai nessuno si lamentato di quellinquilino, e lui mai si dovuto sgobbare le scale per portare a quel vecchietto uningiunzione di pagamento, o un avviso di chiamata giudiziaria.
Gioacchino si addentra in un corridoio semibuio, con
grandi finestre bianche, che a malapena lasciano filtrare
la luce del giorno, e di notte a malapena riflettono i fanali
stradali. Gioacchino scende e sale per vecchie scale sudi-

ce, senza luce. I monelli del palazzo non permettono tre


ore di vita ad una lampadina nuova.
Gioacchino si addentra in un intrico di corridoietti a
falsopiano, che conducono gi e su, a destra e a manca.
Gioacchino sprofonda, sotto il livello della strada, in
qualche oscuro cunicolo che lo porta sempre pi sotto,
sempre pi lontano.
La porticina di legno che conduce alla casa, pare lingresso a un inferno, sotto la citt, sotto il mondo, al centro di un universo brulicante.
Gioacchino la pensa come una piccola nicchia, scura o
illuminata, un cavo della mano caldo, un rifugio profondo.
Quella casa sperduta, nei meandri di una periferia
smisurata, in una citt immensa, in un mondo senza limiti di follia.
In questa periferia di questa citt, sotto tonnellate di
cemento, Gioacchino spinge la porticina di legno di un
buio antro sotterraneo dello stabile 48 C.
Con un fiammifero familiare accende un mozzicone di
candela, e un fornello di cucina.
Sul fornello posa con cura una vecchia pentola, piena
di piombo.
Quando il piombo si squaglia al calore, Gioacchino
prende da una vecchia credenza un barattolo di polverina dorata, ne pesa una quantit su un bilancino, una
quantit come un pugnetto di bambino, e la versa nella
pentola. In un quarto dora, quel piombo assume le sfumature lucenti delloro.

In quel piombo color delloro Gioacchino intinge il


pennello.
Con quel pennello dipinge figure di vita, fiori e animali,
uomini e donne, scene di caccia e di castelli, citt e tramonti, duelli e bandiere, dipinge immagini del mondo su
certe tazze bianche di ceramica, che si coprono di figure
color delloro.

Abramo
Sono le sei del pomeriggio quando Abramo tira gi con
un colpo secco la serranda anti-ladro che protegge la vetrinetta un metro per due, una vetrinetta da quattro soldi della sua bottega di calzature.
Un negoziante stravagante. Pensa e disegna modelli di
scarpe, con la fantasia, modelli che sa di non poter costruire, ci vorrebbe tuttunaltra scienza: scarpe da duello
per giganti cattivi, scarpe da jumbo-jet adatte ad atterrare
a Niuiork; scarpe per saltare sulla luna, dalla terra; scarpe
di fettuccine alluovo, e scarpe di mollica di pane. Sogna
scarpe meravigliose, mentre infila le ultime adidas sul
piedino puzzolente di un adolescente pustoloso, e mentre liscia la calza di nylon su un piede di quella signora
che vuole il trentasei, ma il trentasei non entra, forse
colpa della calza di nylon, proviamo a lisciarla, e invece
proprio che la signora avrebbe bisogno di un trentasei
rinforzato, diciamo un quaranta.
Quando il primo buio della sera avvisa che le sei si stan-

ce, senza luce. I monelli del palazzo non permettono tre


ore di vita ad una lampadina nuova.
Gioacchino si addentra in un intrico di corridoietti a
falsopiano, che conducono gi e su, a destra e a manca.
Gioacchino sprofonda, sotto il livello della strada, in
qualche oscuro cunicolo che lo porta sempre pi sotto,
sempre pi lontano.
La porticina di legno che conduce alla casa, pare lingresso a un inferno, sotto la citt, sotto il mondo, al centro di un universo brulicante.
Gioacchino la pensa come una piccola nicchia, scura o
illuminata, un cavo della mano caldo, un rifugio profondo.
Quella casa sperduta, nei meandri di una periferia
smisurata, in una citt immensa, in un mondo senza limiti di follia.
In questa periferia di questa citt, sotto tonnellate di
cemento, Gioacchino spinge la porticina di legno di un
buio antro sotterraneo dello stabile 48 C.
Con un fiammifero familiare accende un mozzicone di
candela, e un fornello di cucina.
Sul fornello posa con cura una vecchia pentola, piena
di piombo.
Quando il piombo si squaglia al calore, Gioacchino
prende da una vecchia credenza un barattolo di polverina dorata, ne pesa una quantit su un bilancino, una
quantit come un pugnetto di bambino, e la versa nella
pentola. In un quarto dora, quel piombo assume le sfumature lucenti delloro.

In quel piombo color delloro Gioacchino intinge il


pennello.
Con quel pennello dipinge figure di vita, fiori e animali,
uomini e donne, scene di caccia e di castelli, citt e tramonti, duelli e bandiere, dipinge immagini del mondo su
certe tazze bianche di ceramica, che si coprono di figure
color delloro.

Abramo
Sono le sei del pomeriggio quando Abramo tira gi con
un colpo secco la serranda anti-ladro che protegge la vetrinetta un metro per due, una vetrinetta da quattro soldi della sua bottega di calzature.
Un negoziante stravagante. Pensa e disegna modelli di
scarpe, con la fantasia, modelli che sa di non poter costruire, ci vorrebbe tuttunaltra scienza: scarpe da duello
per giganti cattivi, scarpe da jumbo-jet adatte ad atterrare
a Niuiork; scarpe per saltare sulla luna, dalla terra; scarpe
di fettuccine alluovo, e scarpe di mollica di pane. Sogna
scarpe meravigliose, mentre infila le ultime adidas sul
piedino puzzolente di un adolescente pustoloso, e mentre liscia la calza di nylon su un piede di quella signora
che vuole il trentasei, ma il trentasei non entra, forse
colpa della calza di nylon, proviamo a lisciarla, e invece
proprio che la signora avrebbe bisogno di un trentasei
rinforzato, diciamo un quaranta.
Quando il primo buio della sera avvisa che le sei si stan-

no avvicinando, Abramo smette di calzare e sognare;


chiude la porta del negozio e si ritira nel retrobottega. Un
retrobottega illuminato e bello come il camerino di una
diva del variet: specchi e specchietti, seggiole e ripiano
dei saponi, un piccolo armadio laccato di bianco, un faretto che illumina a giorno.
Abramo si sciacqua le mani, le braccia, la fronte. Si spoglia. Butta in un angolo il camicione grigio da lavoro,
guarda con odio la giacchetta di panno marrone che copre le sue spalle nelle giornate invernali, in bottega.
Una camicia pulita lo aspetta. Assieme a un gil blu ben
spazzolato, e ad un abito celeste di buona lana, e di buona fattura. Un cappotto spigato, tagliato secondo i dettami dellultima moda, completa la vestizione.
Alle sei del pomeriggio in punto, Abramo, addobbato
come un signore, tira gi la serranda della bottega.
Si incammina con passo spedito; saluta conoscenti, a
destra e a sinistra. Saluta con laffabilit di un vecchio padrone che batte la pacca sulla spalla del dipendente fedele. A chiunque regala un sorriso di circostanza. Con qualcuno si ferma a chiacchierare di inutilit quotidiane. Ha
la tranquillit di chi sa stare al mondo.
Abramo cammina nel bel mezzo del marciapiede. un
vecchio maschio alto e ben piantato, che non permette ai
decenni di curvargli le spalle.
La sua figura, tranquillamente autorevole, intimidisce
anche certi pivellini teppisti che affollano le strade di
questa citt. Se qualcuno di loro dovesse, malauguratamente, pensare di impadronirsi del portafoglio che quel

cappotto spigato sembra nascondere e promettere, troverebbe pane per i suoi denti. Abramo non si lascia pregare, e molla cazzotti pesanti come pietre, se bruscamente invitato a combattere.
Qualche volta, quando le sue scarpe di vacchetta morbida pestano i dintorni del vecchio cimitero, zeppo di
giovinette multicolori in vendita per non troppi quattrini, Abramo si lascia tentare: sceglie capelli biondi su occhi giovani niente di meno, per lui e li trasporta in un
angolo buio, dove, allaperto anche in Dicembre, carica
con la foga di un torello ancora giovane. Paga con gentilezza, e col sorriso da vecchio tombeur de femmes.
Acciottolato e vicoli fangosi subiscono il suo passo ritmato, finch di fronte ai suoi occhi non appare il grande
casamento celeste sbrecciato, il 48 C.
Il portinaio lo saluta con un certo atteggiamento di rispetto. Il signor Abramo uno degli inquilini pi notevoli del vecchio stabile: un vero signore. La sua casa una
delle pi grandi cos si mormora, il portinaio non lha
mai veduta dal di dentro nella scala F, laggi, in fondo
al cortile attorno a cui il 48 C sta attorcigliato: quel cortile
come il buco della ciambella.
Abramo conta lentamente gli scalini che lo conducono
al terzo piano della scala F. La porta di casa bella grande, di noce massiccio, con la maniglia color argento brunito.
Lappartamento completamente vuoto. Solo in anticamera un attaccapanni: Abramo ci appende il cappotto
e la giacca. Poi prosegue fino al bagno. Solleva il ripiano

no avvicinando, Abramo smette di calzare e sognare;


chiude la porta del negozio e si ritira nel retrobottega. Un
retrobottega illuminato e bello come il camerino di una
diva del variet: specchi e specchietti, seggiole e ripiano
dei saponi, un piccolo armadio laccato di bianco, un faretto che illumina a giorno.
Abramo si sciacqua le mani, le braccia, la fronte. Si spoglia. Butta in un angolo il camicione grigio da lavoro,
guarda con odio la giacchetta di panno marrone che copre le sue spalle nelle giornate invernali, in bottega.
Una camicia pulita lo aspetta. Assieme a un gil blu ben
spazzolato, e ad un abito celeste di buona lana, e di buona fattura. Un cappotto spigato, tagliato secondo i dettami dellultima moda, completa la vestizione.
Alle sei del pomeriggio in punto, Abramo, addobbato
come un signore, tira gi la serranda della bottega.
Si incammina con passo spedito; saluta conoscenti, a
destra e a sinistra. Saluta con laffabilit di un vecchio padrone che batte la pacca sulla spalla del dipendente fedele. A chiunque regala un sorriso di circostanza. Con qualcuno si ferma a chiacchierare di inutilit quotidiane. Ha
la tranquillit di chi sa stare al mondo.
Abramo cammina nel bel mezzo del marciapiede. un
vecchio maschio alto e ben piantato, che non permette ai
decenni di curvargli le spalle.
La sua figura, tranquillamente autorevole, intimidisce
anche certi pivellini teppisti che affollano le strade di
questa citt. Se qualcuno di loro dovesse, malauguratamente, pensare di impadronirsi del portafoglio che quel

cappotto spigato sembra nascondere e promettere, troverebbe pane per i suoi denti. Abramo non si lascia pregare, e molla cazzotti pesanti come pietre, se bruscamente invitato a combattere.
Qualche volta, quando le sue scarpe di vacchetta morbida pestano i dintorni del vecchio cimitero, zeppo di
giovinette multicolori in vendita per non troppi quattrini, Abramo si lascia tentare: sceglie capelli biondi su occhi giovani niente di meno, per lui e li trasporta in un
angolo buio, dove, allaperto anche in Dicembre, carica
con la foga di un torello ancora giovane. Paga con gentilezza, e col sorriso da vecchio tombeur de femmes.
Acciottolato e vicoli fangosi subiscono il suo passo ritmato, finch di fronte ai suoi occhi non appare il grande
casamento celeste sbrecciato, il 48 C.
Il portinaio lo saluta con un certo atteggiamento di rispetto. Il signor Abramo uno degli inquilini pi notevoli del vecchio stabile: un vero signore. La sua casa una
delle pi grandi cos si mormora, il portinaio non lha
mai veduta dal di dentro nella scala F, laggi, in fondo
al cortile attorno a cui il 48 C sta attorcigliato: quel cortile
come il buco della ciambella.
Abramo conta lentamente gli scalini che lo conducono
al terzo piano della scala F. La porta di casa bella grande, di noce massiccio, con la maniglia color argento brunito.
Lappartamento completamente vuoto. Solo in anticamera un attaccapanni: Abramo ci appende il cappotto
e la giacca. Poi prosegue fino al bagno. Solleva il ripiano

della doccia, che nasconde un cunicolo, si infila nel cunicolo, dove lo aspettano alcuni provvidenziali gradini che
lo aiutano in una lunga discesa.
E poi scende e sale, attraverso un dedalo buio, scende e
sale, e la strada sembra un budello.
Scende e sale, nei meandri di una periferia smisurata,
fino ad arrivare ad una certa porticina che pare incassata
direttamente sulla nuda terra.
Ciao, Gioacchino fa, entrando, e subito si preoccupa di mescolare meglio il piombo dorato nella pentola, e
aggiunge quella polverina color delloro, e mugugna
strane frasi a mezza voce, e intinge i pennelli, e attacca
una zuppiera di ceramica bianca: la copre di figure alate
e fragili, di voli duccello e di veli di donna, di zampe di
gazzella e code di pavone, macchie dorate sulla ceramica
bianca.

Era una stanzetta piccola incastrata chissdove sottoterra. I fuochi di un mozzicone di candela e di un fornello
a gas sprizzavano dappertutto certe fiammelle multicolori che, saltellando e volando, ingrandendosi e improvvisamente sparendo, creavano un disegno di ombra e luce
sempre diverso, in mutazione perenne, che dava allambiente unaria da covo di maghi.
Due figurine nere stanno in fondo allantro, che il fuoco colora di rosso. Intingono i pennelli in una pentola

piena di piombo dorato. Disegnano immagini del mondo


esterno, immagini antiche, su bianca ceramica acquistata
ai grandi magazzini.
Gioacchino osserva la mano veloce di Abramo. Sembra
una farfalla incerta fra tanti fiori, leggera e rapida come
un lampo. Anche il colore del piombo, posato da quella
mano-farfalla, diverso: pi brillante, pi vivace, risplendente, sembra davvero oro. Un color doro che neanche
loro.
Abramo dipinge le tazze con la mano di un artista avvezzo a sognare scarpe da fiaba, Gioacchino pesta i pennelli con la brutalit con cui una pratica burocratica copre la precedente, sulla scrivania.
Abramo, senza interrompere il lavoro, sussurra le prime parole.
In questo tugurio si affoga, e si soffoca, Gioacchino.
Preferisco sognare in questo nascondiglio, perch qui
si sogna, anche se si soffoca, che non correre fuori, in
quelle strade piene di disperazione risponde Gioacchino, con la tranquilla indifferenza di chi quel discorso lo
conosce gi, e molte volte lha ripetuto, in risposta a quelle stesse accuse, con la stessa persona. Non era un discorso fra tanti discorsi. Era il discorso di Abramo e
Gioacchino.
Correre fuori. Disperazione. I termini che usi, amico
mio, indicano la tua paura del mondo. Ma il mondo non
cos cattivo. Si pu passeggiare, nel mondo, e sollevare il
viso allaria fresca che riempie i polmoni, che carezza il
viso. Si pu correre, nel mondo, in groppa a una motoci-

Il Discorso

della doccia, che nasconde un cunicolo, si infila nel cunicolo, dove lo aspettano alcuni provvidenziali gradini che
lo aiutano in una lunga discesa.
E poi scende e sale, attraverso un dedalo buio, scende e
sale, e la strada sembra un budello.
Scende e sale, nei meandri di una periferia smisurata,
fino ad arrivare ad una certa porticina che pare incassata
direttamente sulla nuda terra.
Ciao, Gioacchino fa, entrando, e subito si preoccupa di mescolare meglio il piombo dorato nella pentola, e
aggiunge quella polverina color delloro, e mugugna
strane frasi a mezza voce, e intinge i pennelli, e attacca
una zuppiera di ceramica bianca: la copre di figure alate
e fragili, di voli duccello e di veli di donna, di zampe di
gazzella e code di pavone, macchie dorate sulla ceramica
bianca.

Era una stanzetta piccola incastrata chissdove sottoterra. I fuochi di un mozzicone di candela e di un fornello
a gas sprizzavano dappertutto certe fiammelle multicolori che, saltellando e volando, ingrandendosi e improvvisamente sparendo, creavano un disegno di ombra e luce
sempre diverso, in mutazione perenne, che dava allambiente unaria da covo di maghi.
Due figurine nere stanno in fondo allantro, che il fuoco colora di rosso. Intingono i pennelli in una pentola

piena di piombo dorato. Disegnano immagini del mondo


esterno, immagini antiche, su bianca ceramica acquistata
ai grandi magazzini.
Gioacchino osserva la mano veloce di Abramo. Sembra
una farfalla incerta fra tanti fiori, leggera e rapida come
un lampo. Anche il colore del piombo, posato da quella
mano-farfalla, diverso: pi brillante, pi vivace, risplendente, sembra davvero oro. Un color doro che neanche
loro.
Abramo dipinge le tazze con la mano di un artista avvezzo a sognare scarpe da fiaba, Gioacchino pesta i pennelli con la brutalit con cui una pratica burocratica copre la precedente, sulla scrivania.
Abramo, senza interrompere il lavoro, sussurra le prime parole.
In questo tugurio si affoga, e si soffoca, Gioacchino.
Preferisco sognare in questo nascondiglio, perch qui
si sogna, anche se si soffoca, che non correre fuori, in
quelle strade piene di disperazione risponde Gioacchino, con la tranquilla indifferenza di chi quel discorso lo
conosce gi, e molte volte lha ripetuto, in risposta a quelle stesse accuse, con la stessa persona. Non era un discorso fra tanti discorsi. Era il discorso di Abramo e
Gioacchino.
Correre fuori. Disperazione. I termini che usi, amico
mio, indicano la tua paura del mondo. Ma il mondo non
cos cattivo. Si pu passeggiare, nel mondo, e sollevare il
viso allaria fresca che riempie i polmoni, che carezza il
viso. Si pu correre, nel mondo, in groppa a una motoci-

Il Discorso

cletta rombante, col vento che si avventa sui capelli, col


viso protetto da un casco che ha i colori del metallo.
La mia disperazione qui dentro, in questa cantina
umida e sordida, con questo calore di piombo fuso.
Tu mi parli di sogni.
Io preferisco la vita vera, ai sogni, Gioacchino.
La vita vera di cui cianci, Abramo, porta dritta in galera. Vita vera. Galera. Bella rima.
Qui nessuno ci disturba. Siamo protetti. Al caldo. Il nostro lavoro progredisce: le tazze si fanno sempre pi credibili. Fra qualche tempo le nostre imitazioni le tue, soprattutto saranno in grado di ingannare anche un gonzissimo espertissimo gioielliere del centro. Quattrini a palate senza rischiare un dito. Stando al coperto, nel tepore.
La pazienza umile di questi anni di apprendistato sta
per avere il suo premio: il piombo-oro si trasformer in
oro-moneta: saremo ricchi, e riveriti. Niente pi scrivanie, per Gioacchino: abiti di lino e crociere nei Caraibi.
Abramo picchia la scarpina sul pavimento di mattoni,
con un gesto di stizza repressa, senza peraltro interrompere n danneggiare i volteggi della mano-farfalla; perdio, Gioacchino esplode con voce un po meno contenuta tu non ti guardi mai allo specchio. Sei vecchio come
un cucco. Sembri un corvo rattrappito. E non controlli il
calendario: da trentanni che prometti il miracolo del
piombo che si fa oro. Il nostro apprendistato ci porter alla tomba, e ancora non sar concluso.
Gli abiti di lino e le crociere nei Caraibi li far la tua anima immortale. Il tuo corpicino di vecchio si consumer

qua dentro. In questo caldo tepore asfissiante, per me, almeno, asfissiante.
Io voglio respirare aria pura.
Il silenzio accompagna il pennellare dei vecchietti. Un
silenzio che si protrae per ore.
Finch Gioacchino riprende: devo nuovamente osservare la tua sgradevole abitudine di perdere la calma e alterare la voce. Trentanni di apprendistato non ti hanno
cambiato. Ancora credi che basti pestare i piedi sul pavimento per averla vinta.
I due nuovamente tacciono, muti disegnatori curvi sulla
ceramica.
Ancora Gioacchino sceglie di interrompere il silenzio:
avanti, sentiamo, di quale banca si tratta, questa volta!
I due vecchietti sollevano il capo dal lavoro, si sorridono timidamente.
Sono le quattro del mattino fa Abramo ed gi ora
di andare a dormire. Ne parliamo domani.
I vecchietti si accucciano, uno affianco allaltro, con addosso certi pigiami di vecchia lana di pecora, su quel lettino scuro che si vede in fondo allantro, fra il buio e gli ultimi bagliori di una candela che si spegne su se stessa, consunta.

Chiunque li avesse visti anche diecimila volte, non li


avrebbe riconosciuti. Saltano fuori da una finestrina al

Rapina e abbandono

cletta rombante, col vento che si avventa sui capelli, col


viso protetto da un casco che ha i colori del metallo.
La mia disperazione qui dentro, in questa cantina
umida e sordida, con questo calore di piombo fuso.
Tu mi parli di sogni.
Io preferisco la vita vera, ai sogni, Gioacchino.
La vita vera di cui cianci, Abramo, porta dritta in galera. Vita vera. Galera. Bella rima.
Qui nessuno ci disturba. Siamo protetti. Al caldo. Il nostro lavoro progredisce: le tazze si fanno sempre pi credibili. Fra qualche tempo le nostre imitazioni le tue, soprattutto saranno in grado di ingannare anche un gonzissimo espertissimo gioielliere del centro. Quattrini a palate senza rischiare un dito. Stando al coperto, nel tepore.
La pazienza umile di questi anni di apprendistato sta
per avere il suo premio: il piombo-oro si trasformer in
oro-moneta: saremo ricchi, e riveriti. Niente pi scrivanie, per Gioacchino: abiti di lino e crociere nei Caraibi.
Abramo picchia la scarpina sul pavimento di mattoni,
con un gesto di stizza repressa, senza peraltro interrompere n danneggiare i volteggi della mano-farfalla; perdio, Gioacchino esplode con voce un po meno contenuta tu non ti guardi mai allo specchio. Sei vecchio come
un cucco. Sembri un corvo rattrappito. E non controlli il
calendario: da trentanni che prometti il miracolo del
piombo che si fa oro. Il nostro apprendistato ci porter alla tomba, e ancora non sar concluso.
Gli abiti di lino e le crociere nei Caraibi li far la tua anima immortale. Il tuo corpicino di vecchio si consumer

qua dentro. In questo caldo tepore asfissiante, per me, almeno, asfissiante.
Io voglio respirare aria pura.
Il silenzio accompagna il pennellare dei vecchietti. Un
silenzio che si protrae per ore.
Finch Gioacchino riprende: devo nuovamente osservare la tua sgradevole abitudine di perdere la calma e alterare la voce. Trentanni di apprendistato non ti hanno
cambiato. Ancora credi che basti pestare i piedi sul pavimento per averla vinta.
I due nuovamente tacciono, muti disegnatori curvi sulla
ceramica.
Ancora Gioacchino sceglie di interrompere il silenzio:
avanti, sentiamo, di quale banca si tratta, questa volta!
I due vecchietti sollevano il capo dal lavoro, si sorridono timidamente.
Sono le quattro del mattino fa Abramo ed gi ora
di andare a dormire. Ne parliamo domani.
I vecchietti si accucciano, uno affianco allaltro, con addosso certi pigiami di vecchia lana di pecora, su quel lettino scuro che si vede in fondo allantro, fra il buio e gli ultimi bagliori di una candela che si spegne su se stessa, consunta.

Chiunque li avesse visti anche diecimila volte, non li


avrebbe riconosciuti. Saltano fuori da una finestrina al

Rapina e abbandono

primo piano del palazzone 48 C. ancora notte. La strada deserta.


Gioacchino sembra Anfribogar. Invece delle spalle
strette da corvaccio, un largo attaccapanni da duro della
mala. Al posto del cappottino sfinito, un abito grigio di
lana, da padrone del vapore; persino i capelli sembrano
pi lunghi e folti, pi giovani. In una mano ha un casco
amaranto, da motociclista, nellaltra una valigetta nera,
da bisnessmen.
Abramo sembra Vanessa. I capelli biondi, leggermente
ondulati gli ricadono sulle spalle. Un completo di tweed
firmato Dior valorizza una figura slanciata di donna: due
piccole tette ben appese danno il giusto tocco di grazia,
assieme a due gambe slanciate, danzanti. Con una mano
sorregge un casco blu da motociclista, con laltra una
borsetta di pelle bianca, gonfia allinverosimile.
Sono entrati in un garage del centro, dove un meccanico pulitino e solerte ha consegnato una Norton Commando. Una moto nera, robusta pesante.
Duecentottanta chili sospira il meccanico, lumando con invidia le braccia erculee del maschio, e le rotondit posteriori della femmina mentre ritira il pagamento di un mese di garage, e consegna la moto ai signori.
Si sono allontanati in un rombo, mentre il meccanico
sussurra fra i denti due begli esemplari.
La Norton Commando si ferma davanti al Credito Italiano del Largo Carlo Felice, proprio mentre la porticina
della banca lascia penetrare i primi frettolosi clienti mattutini: negozianti che hanno bisogno degli spiccioli per la

giornata, impiegati che pagheranno la cambiale scaduta


per correre subito dopo in ufficio.
Anfri e Vanessa scendono tranquilli, i caschi sulla testa e
le valigette in mano. Mentre aprono la porta agitano le
mani come se stessero sfilandosi i caschi: spettacolino riservato alla guardia giurata che staziona allesterno della
banca, e li guarda con simpatia giovani, belli e ricchi.
Appena dentro, le mani abbandonano i sottogola dei
caschi, e corrono a borse e valigette. In un attimo un feroce Thompson ben montato sta, bello fermo, sotto il braccio di un ragazzo alto e robusto, e una pesante Luger sfigura le fragili mani di una graziosa signorina.
La voce alta e roboante del maschio intima il classico
fermi e mani in alto, questa una rapina.
La canna della Luger si sposta da un impiegato allaltro,
da una vecchia cliente incartapecorita a un tremebondo
salumaio. Stanno tutti fermi. Trattengono il respiro, o cercano di respirare con le orecchie, per non farsi notare.
Il gangster salta dietro il banco riservato ai clienti. Apre
i cassetti dietro gli sportelli. Vuota la cassaforte, che stava
l, bella, invitante e aperta. Il mitra pende sotto lascella,
ma sembra pronto a scattare come un cobra. Nervoso e
diffidente.
Ancora un salto, e via verso la porta. Mentre salta fuori
dalla banca, il maschietto spara a raffica e squarcia in pi
punti il ventre della guardia giurata, che non ha fatto in
tempo a portare la mano alla cintola, a una P 38 pressoch
inutile.
La donna con la Luger corre alla moto, e doma subito

primo piano del palazzone 48 C. ancora notte. La strada deserta.


Gioacchino sembra Anfribogar. Invece delle spalle
strette da corvaccio, un largo attaccapanni da duro della
mala. Al posto del cappottino sfinito, un abito grigio di
lana, da padrone del vapore; persino i capelli sembrano
pi lunghi e folti, pi giovani. In una mano ha un casco
amaranto, da motociclista, nellaltra una valigetta nera,
da bisnessmen.
Abramo sembra Vanessa. I capelli biondi, leggermente
ondulati gli ricadono sulle spalle. Un completo di tweed
firmato Dior valorizza una figura slanciata di donna: due
piccole tette ben appese danno il giusto tocco di grazia,
assieme a due gambe slanciate, danzanti. Con una mano
sorregge un casco blu da motociclista, con laltra una
borsetta di pelle bianca, gonfia allinverosimile.
Sono entrati in un garage del centro, dove un meccanico pulitino e solerte ha consegnato una Norton Commando. Una moto nera, robusta pesante.
Duecentottanta chili sospira il meccanico, lumando con invidia le braccia erculee del maschio, e le rotondit posteriori della femmina mentre ritira il pagamento di un mese di garage, e consegna la moto ai signori.
Si sono allontanati in un rombo, mentre il meccanico
sussurra fra i denti due begli esemplari.
La Norton Commando si ferma davanti al Credito Italiano del Largo Carlo Felice, proprio mentre la porticina
della banca lascia penetrare i primi frettolosi clienti mattutini: negozianti che hanno bisogno degli spiccioli per la

giornata, impiegati che pagheranno la cambiale scaduta


per correre subito dopo in ufficio.
Anfri e Vanessa scendono tranquilli, i caschi sulla testa e
le valigette in mano. Mentre aprono la porta agitano le
mani come se stessero sfilandosi i caschi: spettacolino riservato alla guardia giurata che staziona allesterno della
banca, e li guarda con simpatia giovani, belli e ricchi.
Appena dentro, le mani abbandonano i sottogola dei
caschi, e corrono a borse e valigette. In un attimo un feroce Thompson ben montato sta, bello fermo, sotto il braccio di un ragazzo alto e robusto, e una pesante Luger sfigura le fragili mani di una graziosa signorina.
La voce alta e roboante del maschio intima il classico
fermi e mani in alto, questa una rapina.
La canna della Luger si sposta da un impiegato allaltro,
da una vecchia cliente incartapecorita a un tremebondo
salumaio. Stanno tutti fermi. Trattengono il respiro, o cercano di respirare con le orecchie, per non farsi notare.
Il gangster salta dietro il banco riservato ai clienti. Apre
i cassetti dietro gli sportelli. Vuota la cassaforte, che stava
l, bella, invitante e aperta. Il mitra pende sotto lascella,
ma sembra pronto a scattare come un cobra. Nervoso e
diffidente.
Ancora un salto, e via verso la porta. Mentre salta fuori
dalla banca, il maschietto spara a raffica e squarcia in pi
punti il ventre della guardia giurata, che non ha fatto in
tempo a portare la mano alla cintola, a una P 38 pressoch
inutile.
La donna con la Luger corre alla moto, e doma subito

quei duecentottanta chili di plastica e metalli; ora non


sembra pi Vanessa. I capelli biondi sfuggono ancora al
casco. Ma le braccia che tengono il manubrio sono quelle
di una virago cecoslovacca. Anfri salta dietro, e partono in
un amen.
La Norton Commando fila via svelta per le stradette del
porto, strette e coperte di ciottoli. Rischia pi di una volta
di travolgere qualche bambino che batte le pietre contro
il muro, o che maneggia una pallina, bambini per strada,
sporchi e malvestiti.
Il maschietto sta stretto stretto allacciato alle spalle della signorina. Il mitra sparito in una sporta appesa alla
fiancata della moto pirata, assieme alla Luger. Sembrano
soltanto due folli motociclisti.
La guidatrice sta gi cominciando a rallentare, e il compagno gi emette un sospiro di sollievo, quando una sirena insistente scoppia alle loro spalle.
Una pantera sussurra fra i denti Anfri-Gioacchino.
La corsa ricomincia, fra bambini che volano e cassette
di insalata e baccal che rotolano sui ciottoli.
La Norton si arrampica su per i gradini di una chiesa,
sfonda la porta di legno, piomba nella navata centrale affollata di beghine della seconda messa del mattino, che si
spostano verso il muro urlando.
La moto si ferma e si capovolge, mentre i due giovani
saltano a terra.
La moto atterrata continua a rombare, nel centro della
chiesa, terrorizzando le vecchiette.
I due giovani col casco si fermano un attimo, sotto lalta-

re, e si guardano negli occhi davanti a un preticello progressista ma svenuto.


Aiutami dicono gli occhi di Abramo-Vanessa-virago
cecoslovacca non so pi dove cazzo andare, e mi duole
una gamba, ho sbattuto male saltando gi.
Va allinferno rispondono gli occhi di Gioacchinocorvaccio-Anfri Io, se posso, torno ai miei sogni sotterranei.
Il maschio piomba fuori dalla chiesa proprio mentre tre
agenti di polizia si arrampicano sulle scale. Spara. Una sola raffica e tre birilli a terra.
Poi corre per le stradine del porto. Inseguito dagli ululati delle sirene.
Si arrampica sulle scale nerastre di un vecchio palazzo
sporco e abbandonato.
Riappare da un ingressino posteriore proprio mentre i
poliziotti hanno cominciato a sfondare le porte delle case
del primo piano, facendo cagare di paura una vecchietta,
un gatto cieco, un grassone addormentato, una lavastoviglie accesa.
Da quellingressino posteriore riappare Gioacchino,
nero corvaccio curvo coperto da una tutaccia sporca della
ditta del gas di citt. Un operaio da pensione.
Lappuntato Sotgiu scoprir, fra unora, in una soffitta
di quella vecchia casa nel porto, un paio di spalle imbottite con anima dacciaio, un mitra scarico, un abito grigio
tagliato da un sarto inglese, e una parrucca di capelli folti,
neri e ricci, adagiata dentro un casco amaranto da motociclista.

quei duecentottanta chili di plastica e metalli; ora non


sembra pi Vanessa. I capelli biondi sfuggono ancora al
casco. Ma le braccia che tengono il manubrio sono quelle
di una virago cecoslovacca. Anfri salta dietro, e partono in
un amen.
La Norton Commando fila via svelta per le stradette del
porto, strette e coperte di ciottoli. Rischia pi di una volta
di travolgere qualche bambino che batte le pietre contro
il muro, o che maneggia una pallina, bambini per strada,
sporchi e malvestiti.
Il maschietto sta stretto stretto allacciato alle spalle della signorina. Il mitra sparito in una sporta appesa alla
fiancata della moto pirata, assieme alla Luger. Sembrano
soltanto due folli motociclisti.
La guidatrice sta gi cominciando a rallentare, e il compagno gi emette un sospiro di sollievo, quando una sirena insistente scoppia alle loro spalle.
Una pantera sussurra fra i denti Anfri-Gioacchino.
La corsa ricomincia, fra bambini che volano e cassette
di insalata e baccal che rotolano sui ciottoli.
La Norton si arrampica su per i gradini di una chiesa,
sfonda la porta di legno, piomba nella navata centrale affollata di beghine della seconda messa del mattino, che si
spostano verso il muro urlando.
La moto si ferma e si capovolge, mentre i due giovani
saltano a terra.
La moto atterrata continua a rombare, nel centro della
chiesa, terrorizzando le vecchiette.
I due giovani col casco si fermano un attimo, sotto lalta-

re, e si guardano negli occhi davanti a un preticello progressista ma svenuto.


Aiutami dicono gli occhi di Abramo-Vanessa-virago
cecoslovacca non so pi dove cazzo andare, e mi duole
una gamba, ho sbattuto male saltando gi.
Va allinferno rispondono gli occhi di Gioacchinocorvaccio-Anfri Io, se posso, torno ai miei sogni sotterranei.
Il maschio piomba fuori dalla chiesa proprio mentre tre
agenti di polizia si arrampicano sulle scale. Spara. Una sola raffica e tre birilli a terra.
Poi corre per le stradine del porto. Inseguito dagli ululati delle sirene.
Si arrampica sulle scale nerastre di un vecchio palazzo
sporco e abbandonato.
Riappare da un ingressino posteriore proprio mentre i
poliziotti hanno cominciato a sfondare le porte delle case
del primo piano, facendo cagare di paura una vecchietta,
un gatto cieco, un grassone addormentato, una lavastoviglie accesa.
Da quellingressino posteriore riappare Gioacchino,
nero corvaccio curvo coperto da una tutaccia sporca della
ditta del gas di citt. Un operaio da pensione.
Lappuntato Sotgiu scoprir, fra unora, in una soffitta
di quella vecchia casa nel porto, un paio di spalle imbottite con anima dacciaio, un mitra scarico, un abito grigio
tagliato da un sarto inglese, e una parrucca di capelli folti,
neri e ricci, adagiata dentro un casco amaranto da motociclista.

Separazione

Gioacchino non riesce a dipingere, questa sera.


Non dipinge. immobile. Il piombo ribolle, nella grande pentola. Ma nessun pennello ne trae colore, e persino
la polverina dorata si disperde come in un mare, non attecchisce, e il piombo resta colore del piombo.
Limmobilit dellantro interrotta soltanto dal guizzare e lampeggiare della fiamma del fornello. Piccoli, luminescenti, infimi tizzoni incendiari attraversano il buio come fulmini artificiali alla festa di paese; ma, qui, senza
botti. Fiammelle che attraversano il buio e lo spezzano, e
dietro ognuna di loro, il buio si ricompone: ancora pi
nero.
Il fracasso della porticina che si apre spacca il silenzio in
mille pezzi.
Abramo spinge la porta con cautela. Si affaccia dalluscio, e vede Gioacchino immobile, perduto nel buio.
Buonasera, signor giuda sfruscia con voce roca il vecchietto elegante.
Ah una esclamazione soffocata tormenta per un attimo limperturbabile impiegato sei riuscito a scamparla,
malgrado tutto: la fortuna ti stata amica.
Il merito tutto tuo, giuda carissimo. Quando sei saltato fuori, falciando quei poveri poliziotti, le beghine ti
hanno seguito e ammirato fin sulla porta del sagrato, i poliziotti ti son corsi dietro, persino il prete svenuto ti ha seguito.
Nella chiesa silenziosa, mi sono spogliato di tutti gli in-

gombri femminili, ho mollato tette di gomma e luger dietro laltare, e sono sgusciato dalla porticina della sagrestia, in canottiera e pantaloncini corti.
Per fortuna tengo sempre un abito pulito di scorta, nel
retrobottega del negozio.
Ho rispettato lorario di apertura e quello di chiusura.
Ci ho pensato per tutto il giorno: tu, stamattina, dentro
quella chiesa maledetta, mi hai salvato, con un gesto da
eroe, mi hai veramente abbandonato come sembravano
voler dire i tuoi occhi?
Gioacchino sta immobile e muto, in cerca delle parole
giuste.
Biascica un pochino, prima di mollare una risposta.
Volevo vederti finire in galera dice, voce moscia e
poi riprende tono volevo vederti in galera. Finch non
avrai provato cosa significa galera, non capirai la bellezza
di questo tepore, e non apprezzerai questa tranquillit.
Volevo che soffrissi, in galera. Tornassi domato, una buona volta.
Tu devi dipingere queste ceramiche del cazzo.
Devi continuare a farlo. E Gioacchino trattiene il fiato
per un minuto buono, prima di riprendere perch il miracolo avvenuto. Il piombo diventato oro.
Abramo guarda lamico, con gli occhi sgranati del drogato: attonito.
La magia lhai completata tu, con quelle dita da strega:
il servizio che hai finito di dipingere ieri, oggi lho portato
dai migliori gioiellieri cagliaritani, e tutti lhanno valutato
oro zecchino e, come minimo, offrono diciotto milioni

Separazione

Gioacchino non riesce a dipingere, questa sera.


Non dipinge. immobile. Il piombo ribolle, nella grande pentola. Ma nessun pennello ne trae colore, e persino
la polverina dorata si disperde come in un mare, non attecchisce, e il piombo resta colore del piombo.
Limmobilit dellantro interrotta soltanto dal guizzare e lampeggiare della fiamma del fornello. Piccoli, luminescenti, infimi tizzoni incendiari attraversano il buio come fulmini artificiali alla festa di paese; ma, qui, senza
botti. Fiammelle che attraversano il buio e lo spezzano, e
dietro ognuna di loro, il buio si ricompone: ancora pi
nero.
Il fracasso della porticina che si apre spacca il silenzio in
mille pezzi.
Abramo spinge la porta con cautela. Si affaccia dalluscio, e vede Gioacchino immobile, perduto nel buio.
Buonasera, signor giuda sfruscia con voce roca il vecchietto elegante.
Ah una esclamazione soffocata tormenta per un attimo limperturbabile impiegato sei riuscito a scamparla,
malgrado tutto: la fortuna ti stata amica.
Il merito tutto tuo, giuda carissimo. Quando sei saltato fuori, falciando quei poveri poliziotti, le beghine ti
hanno seguito e ammirato fin sulla porta del sagrato, i poliziotti ti son corsi dietro, persino il prete svenuto ti ha seguito.
Nella chiesa silenziosa, mi sono spogliato di tutti gli in-

gombri femminili, ho mollato tette di gomma e luger dietro laltare, e sono sgusciato dalla porticina della sagrestia, in canottiera e pantaloncini corti.
Per fortuna tengo sempre un abito pulito di scorta, nel
retrobottega del negozio.
Ho rispettato lorario di apertura e quello di chiusura.
Ci ho pensato per tutto il giorno: tu, stamattina, dentro
quella chiesa maledetta, mi hai salvato, con un gesto da
eroe, mi hai veramente abbandonato come sembravano
voler dire i tuoi occhi?
Gioacchino sta immobile e muto, in cerca delle parole
giuste.
Biascica un pochino, prima di mollare una risposta.
Volevo vederti finire in galera dice, voce moscia e
poi riprende tono volevo vederti in galera. Finch non
avrai provato cosa significa galera, non capirai la bellezza
di questo tepore, e non apprezzerai questa tranquillit.
Volevo che soffrissi, in galera. Tornassi domato, una buona volta.
Tu devi dipingere queste ceramiche del cazzo.
Devi continuare a farlo. E Gioacchino trattiene il fiato
per un minuto buono, prima di riprendere perch il miracolo avvenuto. Il piombo diventato oro.
Abramo guarda lamico, con gli occhi sgranati del drogato: attonito.
La magia lhai completata tu, con quelle dita da strega:
il servizio che hai finito di dipingere ieri, oggi lho portato
dai migliori gioiellieri cagliaritani, e tutti lhanno valutato
oro zecchino e, come minimo, offrono diciotto milioni

per tutto il servizio. Il pi generoso voleva acquistare per


venticinque milioni. Venticinque milioni, poi altri trenta,
poi quaranta: si pu arricchire con miracoli come questi.
Abramo mantiene lespressione attonita. Quindi, veramente, mi hai tradito.
Se qualcuno me lavesse predetto...
Mi volevi spedire in cella!
E, ora, parli di venticinque milioni!
Sei una merda. Sai dove me li sbatto i tuoi venticinque
milioni?
E Abramo si volta, torna alla porta, la spalanca, e tira
dentro un sacco credito italiano zeppo di biglietti, che
evidentemente stava nel corridoio in attesa del momento
in cui si potesse entrare con un discreto effetto scenico,
personaggio inatteso e imprevedibile, il malloppo nel pianerottolo.
Trecentottanta milioni in moneta corrente non segnata sbotta Abramo laria, oltre alla salute, regala monete.
E getta il sacchetto sopra una pila di sacchetti molto simili che ingombrano un angolino dellantro dei maghi.
Ti sei salvato per il rotto della cuffia Gioacchino ancora e ancora insisti. Ma io ci ho i coglioni gonfi, della
paura di essere acchiappato. Basta con questa mania delle
rapine. Io non ci sto pi, giuro, mai pi.
Sei un vecchio scemo, Gioacchino dice ora lamico,
con intonazione solenne ancora qui a dettare condizioni: niente aria pulita, niente rapine. Solo oro zecchino fasullo.

Puah. Alle tue proposte, e ai tuoi atteggiamenti da


prete.
E puah soprattutto a te. Perch sei un uomo squallido.
Un becero, fraccico, terrorizzato vecchietto piccolo borghese. Coraggioso come un topino, e viscido come un serpente.
Sei un caino. Un caino. Un caino di merda.
Sono io che se ne va. E senza dettare condizioni. Vado
via solo, solissimo, alle mie rapine.
Sffocati, nelloro di piombo.
Caino di merda.
Abramo si allontana, con le spalle piene di dignit, alte e
fiere.
Gioacchino tace, curvo su se stesso, vecchio corvaccio
bastardo.

Spleen
Abramo lascia la stanzetta scura, nel ventre della periferia. Per non tornare mai pi.
Mai pi indietro.
Per mesi e mesi il vecchio rapinatore di banche si aggira
per bettole e localini equivoci e sale da biliardo.
Ogni tanto gli pare di trovare un tipo interessante, gagliardo. E lo stadia. Magari, il tipo ha anche qualcosa di
buono.
Ma, sempre, qualcosaltro manca.
Nessuno ha il tranquillo autocontrollo di s, la ferocia

per tutto il servizio. Il pi generoso voleva acquistare per


venticinque milioni. Venticinque milioni, poi altri trenta,
poi quaranta: si pu arricchire con miracoli come questi.
Abramo mantiene lespressione attonita. Quindi, veramente, mi hai tradito.
Se qualcuno me lavesse predetto...
Mi volevi spedire in cella!
E, ora, parli di venticinque milioni!
Sei una merda. Sai dove me li sbatto i tuoi venticinque
milioni?
E Abramo si volta, torna alla porta, la spalanca, e tira
dentro un sacco credito italiano zeppo di biglietti, che
evidentemente stava nel corridoio in attesa del momento
in cui si potesse entrare con un discreto effetto scenico,
personaggio inatteso e imprevedibile, il malloppo nel pianerottolo.
Trecentottanta milioni in moneta corrente non segnata sbotta Abramo laria, oltre alla salute, regala monete.
E getta il sacchetto sopra una pila di sacchetti molto simili che ingombrano un angolino dellantro dei maghi.
Ti sei salvato per il rotto della cuffia Gioacchino ancora e ancora insisti. Ma io ci ho i coglioni gonfi, della
paura di essere acchiappato. Basta con questa mania delle
rapine. Io non ci sto pi, giuro, mai pi.
Sei un vecchio scemo, Gioacchino dice ora lamico,
con intonazione solenne ancora qui a dettare condizioni: niente aria pulita, niente rapine. Solo oro zecchino fasullo.

Puah. Alle tue proposte, e ai tuoi atteggiamenti da


prete.
E puah soprattutto a te. Perch sei un uomo squallido.
Un becero, fraccico, terrorizzato vecchietto piccolo borghese. Coraggioso come un topino, e viscido come un serpente.
Sei un caino. Un caino. Un caino di merda.
Sono io che se ne va. E senza dettare condizioni. Vado
via solo, solissimo, alle mie rapine.
Sffocati, nelloro di piombo.
Caino di merda.
Abramo si allontana, con le spalle piene di dignit, alte e
fiere.
Gioacchino tace, curvo su se stesso, vecchio corvaccio
bastardo.

Spleen
Abramo lascia la stanzetta scura, nel ventre della periferia. Per non tornare mai pi.
Mai pi indietro.
Per mesi e mesi il vecchio rapinatore di banche si aggira
per bettole e localini equivoci e sale da biliardo.
Ogni tanto gli pare di trovare un tipo interessante, gagliardo. E lo stadia. Magari, il tipo ha anche qualcosa di
buono.
Ma, sempre, qualcosaltro manca.
Nessuno ha il tranquillo autocontrollo di s, la ferocia

saputa usare, solo se serve a qualcosa, il coraggio folle,


lassoluta assenza di paura del timido Gioacchino, il fragile Gioacchino, il sognante Gioacchino, che se gli mettevi
un mitra in mano sembrava nato per svaligiare le banche.
Tanti Gioacchino in piccolo, trova nelle bettole, e nei
localini equivoci, nelle sale da biliardo.
In piccolo. Una rapina con loro, ventanni di galera garantita; quando hanno il coraggio, gli manca il cervello.
E viceversa allinfinito. Mai uno completo.
E il vecchio, trasformista svaligiatore di banche, Abramo, appassisce alle luci al neon delle sue notti inutili,
delle sue ricerche infruttuose.
Gioacchino invece tenta, per mesi, di infondere loro
alle ceramiche. Ma c ben poco da fare. Manca la volatile leggerezza delle mani di Abramo. Manca il suo animo di mago, che sapeva dare vita al piombo, trasformarlo in oro. Manca la strega; e lartista.
Gioacchino pestaccia pennellate con le sue mani pesanti. Pennellate sgraziate. Lavoro inutile.

Nuovamente assieme
Trascorre lento un anno, dopo la separazione. Un anno di ricerche infruttuose per Abramo. Un anno di disegni inutili per Gioacchino.
Non deve destare meraviglia, quindi, se, esattamente un
anno dopo i fattacci del credito italiano, i due compari si
ritrovano, una notte, nella vecchia stanza al centro della

terra, sotto i palazzoni, sotto gli svincoli stradali, sotto il


fango e sotto i marciapiedi delle puttane.

Dialogo
Il fornello spento fa Abramo.
da molto, che spento replica Gioacchino.
Potremo riprovare ad accenderlo... e i vecchietti si
rituffano fra le luci e le ombre dellantro, ora nuovamente caldo, e riintingono i pennelli nella broda imbrogliona, e ricominciano a dipingere sogni su tazze bianche di
ceramica. Il pennello di Abramo lascia una traccia pi
stellare e delicata, pi preziosa: una traccia doro zecchino.
C comunque un odoraccio di viziato, in questo tugurio mormora Gioacchino mormora Gioacchino, il
topo, luomo sotterraneo... forse dovremmo saltar fuori a respirare...
Ho perso la grinta replica, mesto, Abramo in questanno non sono riuscito a cavare un ragno dal buco.
Possiamo provare: una bella porsche decappottabile,
il vento, il sole, la salsedine, i mitra e le pistole, e lodore
di polvere da sparo...
Gioacchino che propone, che immagina. O soltanto
forse soltanto vuol pagare il debito con chi tornato
senza porre condizioni. Vuole ricambiare.

saputa usare, solo se serve a qualcosa, il coraggio folle,


lassoluta assenza di paura del timido Gioacchino, il fragile Gioacchino, il sognante Gioacchino, che se gli mettevi
un mitra in mano sembrava nato per svaligiare le banche.
Tanti Gioacchino in piccolo, trova nelle bettole, e nei
localini equivoci, nelle sale da biliardo.
In piccolo. Una rapina con loro, ventanni di galera garantita; quando hanno il coraggio, gli manca il cervello.
E viceversa allinfinito. Mai uno completo.
E il vecchio, trasformista svaligiatore di banche, Abramo, appassisce alle luci al neon delle sue notti inutili,
delle sue ricerche infruttuose.
Gioacchino invece tenta, per mesi, di infondere loro
alle ceramiche. Ma c ben poco da fare. Manca la volatile leggerezza delle mani di Abramo. Manca il suo animo di mago, che sapeva dare vita al piombo, trasformarlo in oro. Manca la strega; e lartista.
Gioacchino pestaccia pennellate con le sue mani pesanti. Pennellate sgraziate. Lavoro inutile.

Nuovamente assieme
Trascorre lento un anno, dopo la separazione. Un anno di ricerche infruttuose per Abramo. Un anno di disegni inutili per Gioacchino.
Non deve destare meraviglia, quindi, se, esattamente un
anno dopo i fattacci del credito italiano, i due compari si
ritrovano, una notte, nella vecchia stanza al centro della

terra, sotto i palazzoni, sotto gli svincoli stradali, sotto il


fango e sotto i marciapiedi delle puttane.

Dialogo
Il fornello spento fa Abramo.
da molto, che spento replica Gioacchino.
Potremo riprovare ad accenderlo... e i vecchietti si
rituffano fra le luci e le ombre dellantro, ora nuovamente caldo, e riintingono i pennelli nella broda imbrogliona, e ricominciano a dipingere sogni su tazze bianche di
ceramica. Il pennello di Abramo lascia una traccia pi
stellare e delicata, pi preziosa: una traccia doro zecchino.
C comunque un odoraccio di viziato, in questo tugurio mormora Gioacchino mormora Gioacchino, il
topo, luomo sotterraneo... forse dovremmo saltar fuori a respirare...
Ho perso la grinta replica, mesto, Abramo in questanno non sono riuscito a cavare un ragno dal buco.
Possiamo provare: una bella porsche decappottabile,
il vento, il sole, la salsedine, i mitra e le pistole, e lodore
di polvere da sparo...
Gioacchino che propone, che immagina. O soltanto
forse soltanto vuol pagare il debito con chi tornato
senza porre condizioni. Vuole ricambiare.

Finalmente, i Fatti!

Un certo pubblico clamore accoglie la notizia che i due


bonny en claid non due giovani bellissimi, erano, ma

due vecchierelli in et pensionabile: un impiegato di


quinta categoria e un commerciantucolo di scarpe.
Ancora pi clamore suscita la seguente scoperta: il brigadiere Orr, incaricato di ispezionare la casa di Abramo
Santovito, la trova totalmente vuota, si insospettisce, e
fruga e fruga finch non scopre una botola il cui ingresso
sta sotto il ripiano della doccia.
Attraversa cunicoli umidi e scale antiche, il brigadiere
Orr, e alla fine sbuca in un tugurietto da quattro soldi
zeppo di meraviglie: un lettino sordido, alcuni servizi di
ceramica dipinti con autentico oro zecchino, roba di gran
valore, e in un angolo un cumulo di sacchetti di banca:
dentro ogni sacchetto centinaia di bigliettoni fruscianti.
E quindi una pentola piena di piombo, un fornellino a
gas, un pacco di candele, e fiammiferi, e certe buste di
polverina dorata forse droga, quella nuova droga che
chiamano passo degli angeli? La scientifica sta effettuando gli esami di laboratorio.
Come ogni clamore, anche questo si cheta, dopo qualche tempo.
Gli impiegati che avevano diviso lo stanzone col timido
Gioacchino, dopo tante esclamazioni di meraviglia, dopo
tante lunghe lunghe chiacchierate fatte di mah! chi
lavrebbe mai detto! vedi un po! certo che la vita, che
sorprese! e altre consimili profonde riflessioni da passi
perduti, dopo tutto questo, dimenticano.
Finch, un bel giorno, in quellufficio giunge una circolare di questo tenore: egregio ufficio tal dei tali, spero che vogliate spiegarmi che fine ha fatto la circolare

Anfri e Vanessa, questa volta su porsche decappottabile blu-metallo, con solite valigette nere, si stoppano davanti allingresso principale della Banca Nazionale del
Lavoro.
Entrano tranquilli due begli esemplari e senza maschera di sorta: un uomo vogue, una donna vogue.
Nel grande salone di marmi rossastri, la voce ferma e alta di Gioacchino recita, con la calma consueta, il rituale
fermi tutti, una rapina.
Vanessa tiene tutti sotto tiro di una grossa Smith e Wesson. Tiene tutti sotto tiro. Quasi tutti.
Gente veloce. Due poliziotti privati di Cleveland
Ohio , dopo essersi lanciati uno sguardo dintesa, estraggono due gentili revolver, e sparano: un colpo a testa.
Vanessa, la bionda, crolla su se stessa, senza un grido.
Anfri, il gangster, spara una sventagliata senza senso,
che sbreccia il soffitto bianco, mentre cade. Cade Anfri.
Cadono i calcinacci dal soffitto.
Un colpo e fatti fuori. Lavoro da professionisti: due
professionisti di Cleveland Ohio che passano la vacanza in Sardegna. Nervi dacciaio, come si dice.

Mesto finl

Finalmente, i Fatti!

Un certo pubblico clamore accoglie la notizia che i due


bonny en claid non due giovani bellissimi, erano, ma

due vecchierelli in et pensionabile: un impiegato di


quinta categoria e un commerciantucolo di scarpe.
Ancora pi clamore suscita la seguente scoperta: il brigadiere Orr, incaricato di ispezionare la casa di Abramo
Santovito, la trova totalmente vuota, si insospettisce, e
fruga e fruga finch non scopre una botola il cui ingresso
sta sotto il ripiano della doccia.
Attraversa cunicoli umidi e scale antiche, il brigadiere
Orr, e alla fine sbuca in un tugurietto da quattro soldi
zeppo di meraviglie: un lettino sordido, alcuni servizi di
ceramica dipinti con autentico oro zecchino, roba di gran
valore, e in un angolo un cumulo di sacchetti di banca:
dentro ogni sacchetto centinaia di bigliettoni fruscianti.
E quindi una pentola piena di piombo, un fornellino a
gas, un pacco di candele, e fiammiferi, e certe buste di
polverina dorata forse droga, quella nuova droga che
chiamano passo degli angeli? La scientifica sta effettuando gli esami di laboratorio.
Come ogni clamore, anche questo si cheta, dopo qualche tempo.
Gli impiegati che avevano diviso lo stanzone col timido
Gioacchino, dopo tante esclamazioni di meraviglia, dopo
tante lunghe lunghe chiacchierate fatte di mah! chi
lavrebbe mai detto! vedi un po! certo che la vita, che
sorprese! e altre consimili profonde riflessioni da passi
perduti, dopo tutto questo, dimenticano.
Finch, un bel giorno, in quellufficio giunge una circolare di questo tenore: egregio ufficio tal dei tali, spero che vogliate spiegarmi che fine ha fatto la circolare

Anfri e Vanessa, questa volta su porsche decappottabile blu-metallo, con solite valigette nere, si stoppano davanti allingresso principale della Banca Nazionale del
Lavoro.
Entrano tranquilli due begli esemplari e senza maschera di sorta: un uomo vogue, una donna vogue.
Nel grande salone di marmi rossastri, la voce ferma e alta di Gioacchino recita, con la calma consueta, il rituale
fermi tutti, una rapina.
Vanessa tiene tutti sotto tiro di una grossa Smith e Wesson. Tiene tutti sotto tiro. Quasi tutti.
Gente veloce. Due poliziotti privati di Cleveland
Ohio , dopo essersi lanciati uno sguardo dintesa, estraggono due gentili revolver, e sparano: un colpo a testa.
Vanessa, la bionda, crolla su se stessa, senza un grido.
Anfri, il gangster, spara una sventagliata senza senso,
che sbreccia il soffitto bianco, mentre cade. Cade Anfri.
Cadono i calcinacci dal soffitto.
Un colpo e fatti fuori. Lavoro da professionisti: due
professionisti di Cleveland Ohio che passano la vacanza in Sardegna. Nervi dacciaio, come si dice.

Mesto finl

numero tale, che, dopo un lungo tragitto, e dopo essere


passata utilmente nel vostro ufficio per trentadue volte,
proprio nel vostro ufficio sparita, senza lasciare alcuna
traccia di s.
Mentre attendo una giustificazione rapida e veloce
compatibilmente con gli altri vostri egualmente rilevanti
impegni vi saluto. Firmato: il capo.
Tre vecchietti canuti sollevano la testolina dalle scrivanie, e si guardano a lungo.
Infine. Il pi coraggioso, solleva delicatamente la lettera con le dita della mano sinistra, la mira con occhi sognanti e vede Gioacchino, che cos appare per lultima
volta in questo mondo proprio nel gesto di strappare
una circolare, con gli occhietti per una volta diabolici.
Limpiegato canuto afferra la pratica, la strappa in mille pezzi, la rovescia nel cestino della carta straccia.
I fanciulli dufficio sogguardano sbalorditi.
Anche le pratiche, possono morire. Proprio come i
cristiani sbotta lanziano laceratore. E tace.

Rosso di cina

Quanta immondezza ci sta dire il peso, per favore, e la


quantit volumetrica in uno spiazzo di fango, davanti a
un casermone di periferia?
Elena non lo sa. Quanta monnezza. Ma si vede, che aumenta. A vista docchio, un giorno dopo laltro, un sacchetto sopra laltro: ogni tanto squarciato dai visitatori
notturni: gatti, cani, ladri e disperati ubriachi.
Pestano sui sacchetti, e questi si spaccano: dentro, le
bucce danguria una tonnellata? e i vuoti a perdere.
Prima erano unisola. Unisoletta bianca e puzzosa. Poi
una collina maleodorante, umida e abitata. Ora una torre,
che sovrasta i palazzi, in altezza, abitata dai cercatori di
cartone, coi loro carretti: una montagna di merda.
E lepoca : un dopoguerra. Le macerie della citt bombardata, e le isole. Le isole abitate, dentro la citt, dove la
bomba stata clemente coi palazzi. Un dopoguerra qualsiasi, davanti al mare ingrigito di dicembre. Pomeriggio.
Limmondezza, ormai, invade i vecchi orti di periferia,
coperti di calcinacci. E invade i sottoscala dei palazzi abitati. La bruciano di notte, per far festa.
Limmondezza di sera, al buio, gli abitanti delle rovine
la lanciano dalle finestre di casa, direttamente sul mucchio. Dove cade cade. Urla accompagnano il trionfo. La
gente in festa.

numero tale, che, dopo un lungo tragitto, e dopo essere


passata utilmente nel vostro ufficio per trentadue volte,
proprio nel vostro ufficio sparita, senza lasciare alcuna
traccia di s.
Mentre attendo una giustificazione rapida e veloce
compatibilmente con gli altri vostri egualmente rilevanti
impegni vi saluto. Firmato: il capo.
Tre vecchietti canuti sollevano la testolina dalle scrivanie, e si guardano a lungo.
Infine. Il pi coraggioso, solleva delicatamente la lettera con le dita della mano sinistra, la mira con occhi sognanti e vede Gioacchino, che cos appare per lultima
volta in questo mondo proprio nel gesto di strappare
una circolare, con gli occhietti per una volta diabolici.
Limpiegato canuto afferra la pratica, la strappa in mille pezzi, la rovescia nel cestino della carta straccia.
I fanciulli dufficio sogguardano sbalorditi.
Anche le pratiche, possono morire. Proprio come i
cristiani sbotta lanziano laceratore. E tace.

Rosso di cina

Quanta immondezza ci sta dire il peso, per favore, e la


quantit volumetrica in uno spiazzo di fango, davanti a
un casermone di periferia?
Elena non lo sa. Quanta monnezza. Ma si vede, che aumenta. A vista docchio, un giorno dopo laltro, un sacchetto sopra laltro: ogni tanto squarciato dai visitatori
notturni: gatti, cani, ladri e disperati ubriachi.
Pestano sui sacchetti, e questi si spaccano: dentro, le
bucce danguria una tonnellata? e i vuoti a perdere.
Prima erano unisola. Unisoletta bianca e puzzosa. Poi
una collina maleodorante, umida e abitata. Ora una torre,
che sovrasta i palazzi, in altezza, abitata dai cercatori di
cartone, coi loro carretti: una montagna di merda.
E lepoca : un dopoguerra. Le macerie della citt bombardata, e le isole. Le isole abitate, dentro la citt, dove la
bomba stata clemente coi palazzi. Un dopoguerra qualsiasi, davanti al mare ingrigito di dicembre. Pomeriggio.
Limmondezza, ormai, invade i vecchi orti di periferia,
coperti di calcinacci. E invade i sottoscala dei palazzi abitati. La bruciano di notte, per far festa.
Limmondezza di sera, al buio, gli abitanti delle rovine
la lanciano dalle finestre di casa, direttamente sul mucchio. Dove cade cade. Urla accompagnano il trionfo. La
gente in festa.

Ma Elena no. Non in festa. triste. Forse turbata.


Sporca.
La chiave gira nella toppa. Elena ha ancora una casa. E
una voglia, ha ancora una voglia: vuol fare lamore.
Invece, ecco cosa laspetta: cena veloce e solitaria, un
po dordine in casa (almeno lavare i piatti) sonno dormire. Proprio un brutto programma.
Elena entra in casa, lenta e senza voglia.
In cucina, i piatti di sette giorni la attendono, implacabili. Sembrano, addirittura, ironici. Nel frigo non c un
cazzo di niente. Forse due uova, affezionate. Neanche un
goccio di vino.
Niente cena, oggi. Son stufa mormora, e si getta sul
letto.
Il letto sfatto. Un po giallastro. Abbandonato. Vissuto non diciamo di che vita. Niente candeggina.
Sulle sedie, vecchie camicie. Una camicia non si muove
mai: sta ferma, in quel punto esatto, al bordo del letto, per
terra; fra il letto e il muro. Ferma l da due anni esatti: la
vacanza a Rimini: che follia.
A Rimini.
Aveva conosciuto un tale, un ganzo. Uno che alla terza
scopata le propone di darsi da fare con certi amici, amici
suoi di lui. Darsi da fare collamore, giusto per tirare su
qualche soldo che a lui serve per una certa faccenda.
Elena, ancora un po, e abbocca.
Per fortuna scopre le altre due amiche fisse di lui. E di
altri. E il resto della storia.
Scappa.

Dallo psicanalista. A Roma.


Due anni fa.
Oggi grassa. Abbastanza grassa. Di tette e di culo. Ma
tutto con misura. Non uno schifo, insomma. ancora una
donna. E qualche fidanzato lha anche avuto.
Periodi brevi, per, i fidanzati. Chiss perch. Dopo
qualche giorno se ne vanno. Scappano via. Sar perch
Elena prende le misure di quegli affari che meglio non
misurare. Sar perch puzza. Chiss: se ne vanno; i fidanzati.
Si gettata sul letto. Elena, tredici capoversi addietro, e
si spogliata. Senza confrontarsi con lo specchio: brutte
visioni, tette, e ciccia sul culo: tette cascanti.
Ora Elena sta distesa, al buio, nuda, colle finestre aperte.
Vien dentro il profumo di immondezza. Non brutto.
Portasse con s il tale che Elena incontra sul piazzale, ogni
sera, quello che odora di cipolle soffritte... voglioso di
lei...
Il sogno tira al passato. Incontri poco plausibili con garcons affascinanti, che veloci troppo veloci si concludono a letto. E non scappano via. Dal sogno.
E intanto, Elena si carezza.
Elena abbandona le dita sulla fica, sdraiata sul letto, nuda. Sogna amplessi con fantastici sconosciuti, e tenta di
donarsi un piacere pi domestico, un piacere come dire
manuale, e uno sognante, che insieme gli daranno la pace, e il sonno, fino a domani.
Ma non vanno! Le cose non vanno.

Ma Elena no. Non in festa. triste. Forse turbata.


Sporca.
La chiave gira nella toppa. Elena ha ancora una casa. E
una voglia, ha ancora una voglia: vuol fare lamore.
Invece, ecco cosa laspetta: cena veloce e solitaria, un
po dordine in casa (almeno lavare i piatti) sonno dormire. Proprio un brutto programma.
Elena entra in casa, lenta e senza voglia.
In cucina, i piatti di sette giorni la attendono, implacabili. Sembrano, addirittura, ironici. Nel frigo non c un
cazzo di niente. Forse due uova, affezionate. Neanche un
goccio di vino.
Niente cena, oggi. Son stufa mormora, e si getta sul
letto.
Il letto sfatto. Un po giallastro. Abbandonato. Vissuto non diciamo di che vita. Niente candeggina.
Sulle sedie, vecchie camicie. Una camicia non si muove
mai: sta ferma, in quel punto esatto, al bordo del letto, per
terra; fra il letto e il muro. Ferma l da due anni esatti: la
vacanza a Rimini: che follia.
A Rimini.
Aveva conosciuto un tale, un ganzo. Uno che alla terza
scopata le propone di darsi da fare con certi amici, amici
suoi di lui. Darsi da fare collamore, giusto per tirare su
qualche soldo che a lui serve per una certa faccenda.
Elena, ancora un po, e abbocca.
Per fortuna scopre le altre due amiche fisse di lui. E di
altri. E il resto della storia.
Scappa.

Dallo psicanalista. A Roma.


Due anni fa.
Oggi grassa. Abbastanza grassa. Di tette e di culo. Ma
tutto con misura. Non uno schifo, insomma. ancora una
donna. E qualche fidanzato lha anche avuto.
Periodi brevi, per, i fidanzati. Chiss perch. Dopo
qualche giorno se ne vanno. Scappano via. Sar perch
Elena prende le misure di quegli affari che meglio non
misurare. Sar perch puzza. Chiss: se ne vanno; i fidanzati.
Si gettata sul letto. Elena, tredici capoversi addietro, e
si spogliata. Senza confrontarsi con lo specchio: brutte
visioni, tette, e ciccia sul culo: tette cascanti.
Ora Elena sta distesa, al buio, nuda, colle finestre aperte.
Vien dentro il profumo di immondezza. Non brutto.
Portasse con s il tale che Elena incontra sul piazzale, ogni
sera, quello che odora di cipolle soffritte... voglioso di
lei...
Il sogno tira al passato. Incontri poco plausibili con garcons affascinanti, che veloci troppo veloci si concludono a letto. E non scappano via. Dal sogno.
E intanto, Elena si carezza.
Elena abbandona le dita sulla fica, sdraiata sul letto, nuda. Sogna amplessi con fantastici sconosciuti, e tenta di
donarsi un piacere pi domestico, un piacere come dire
manuale, e uno sognante, che insieme gli daranno la pace, e il sonno, fino a domani.
Ma non vanno! Le cose non vanno.

Non vanno pi, le cose, come dovrebbero andare. Il


mondo cambiato. Elena oggi, su quel letto, pi depressa del solito, pi sola del solito, e aspetta la notte con pi
calore del solito. Forse, il ricordo di qualche avventura, la
accompagna. (Alla luce del giorno, uno sfregamento leggero di tette, unocchiata assassina, un muso adorabile,
un alito caldo sul collo un incontro, di sfuggita, nellombra cera un flauto dietro quellangolo di strada, estenuato e dolce, che ha bollito, nel sangue, e ha saltato, ha
ballato, cantato. Un attimo-lunghissimo, per guardarsi, e
amarsi, solo cogli sguardi, e una lunga carezza sulle tette).
Ora, stasera, le sue dita, le sue proprie, Elena non le
vuole, sulla sua, propria, fica. La schifano, un po, la intristiscono: un senso di nausea.
Dare lanima al diavolo. Darei lanima, al diavolo per
un diavolo, di compagnia, un diavolo caldo.
Un pensiero qualunque, nasce morto, la sera tardi, crepa in un attimo. Questa preghierina al demonio appena
nata no! un attimo: ancora non morta: c una presenza nuova, nella stanza di Elena, entrata dalla finestra:
unombra.
Un tale sdraiato al suo fianco, sul letto.
Una strana persona. Che sia maschio non c dubbio,
ma: tutto il resto. Tutto di metallo. Lucente come il sogno
di una catena di montaggio nuova, tutta dacciaio. Come
una luce su uno specchio: lucente.
mobile, umano, e persino sorride come un neonato,
con una bella bianca bocca smaltata. Una bocca talmente
bianca, che la cavit orale pare la sala di un incubo sugli

ospedali, le malattie, le morti. Un sorriso da incubo di


ospedale.
maschio: ostenta un enorme cazzodritto tutto inossidabile, forse dacciaio, e rosso, rosso splendente, in cima.
Rosso di lacca di cina.
Mia piccola signora dice.
(Parla il diavolo macchina parla!).
Mia piccola signora, puoi soltanto chiedere. Io sono al
tuo fianco. Pronto a tutto. Io sono il Gran Vecchio Caprone un vecchio sogno, come saprai, di altri tempi. Il Vecchio Caprone, meccanico, tecnoversione infernale.
Potrebbe lamentarsi? Nessuno suona il sax, l. E il diavolo ha mandato un cucchiaio animato. La follia di qualche compiuter attorno, scampato alla distruzione, e impazzito. Un cucchiaio meccanico.
Lamante del diavolo stipendiato dagli inferni, si impegna al suo dovere.
Perch non accettare? Potrebbe anche girarsi come
quella vecchia storia di quella tal Margherita, che il diavolo lha fatta volare, so io come.
Descriviamo la scopata? Lascia andare, le scopate
sono tutte eguali, e non porta fondamentali variazioni
linconsueta apparizione meccanica: finiremmo in barzelletta.
Nessuna modifica al copione: tutto entra dove deve, e i
ritmi sono quelli giusti, e i movimenti sono dolci, e caldo il
corpo.
Ecco: forse c pure, qualcosa che non va. Una punta di
sgomento. Sar questaria da vecchio incubo, questidea

Non vanno pi, le cose, come dovrebbero andare. Il


mondo cambiato. Elena oggi, su quel letto, pi depressa del solito, pi sola del solito, e aspetta la notte con pi
calore del solito. Forse, il ricordo di qualche avventura, la
accompagna. (Alla luce del giorno, uno sfregamento leggero di tette, unocchiata assassina, un muso adorabile,
un alito caldo sul collo un incontro, di sfuggita, nellombra cera un flauto dietro quellangolo di strada, estenuato e dolce, che ha bollito, nel sangue, e ha saltato, ha
ballato, cantato. Un attimo-lunghissimo, per guardarsi, e
amarsi, solo cogli sguardi, e una lunga carezza sulle tette).
Ora, stasera, le sue dita, le sue proprie, Elena non le
vuole, sulla sua, propria, fica. La schifano, un po, la intristiscono: un senso di nausea.
Dare lanima al diavolo. Darei lanima, al diavolo per
un diavolo, di compagnia, un diavolo caldo.
Un pensiero qualunque, nasce morto, la sera tardi, crepa in un attimo. Questa preghierina al demonio appena
nata no! un attimo: ancora non morta: c una presenza nuova, nella stanza di Elena, entrata dalla finestra:
unombra.
Un tale sdraiato al suo fianco, sul letto.
Una strana persona. Che sia maschio non c dubbio,
ma: tutto il resto. Tutto di metallo. Lucente come il sogno
di una catena di montaggio nuova, tutta dacciaio. Come
una luce su uno specchio: lucente.
mobile, umano, e persino sorride come un neonato,
con una bella bianca bocca smaltata. Una bocca talmente
bianca, che la cavit orale pare la sala di un incubo sugli

ospedali, le malattie, le morti. Un sorriso da incubo di


ospedale.
maschio: ostenta un enorme cazzodritto tutto inossidabile, forse dacciaio, e rosso, rosso splendente, in cima.
Rosso di lacca di cina.
Mia piccola signora dice.
(Parla il diavolo macchina parla!).
Mia piccola signora, puoi soltanto chiedere. Io sono al
tuo fianco. Pronto a tutto. Io sono il Gran Vecchio Caprone un vecchio sogno, come saprai, di altri tempi. Il Vecchio Caprone, meccanico, tecnoversione infernale.
Potrebbe lamentarsi? Nessuno suona il sax, l. E il diavolo ha mandato un cucchiaio animato. La follia di qualche compiuter attorno, scampato alla distruzione, e impazzito. Un cucchiaio meccanico.
Lamante del diavolo stipendiato dagli inferni, si impegna al suo dovere.
Perch non accettare? Potrebbe anche girarsi come
quella vecchia storia di quella tal Margherita, che il diavolo lha fatta volare, so io come.
Descriviamo la scopata? Lascia andare, le scopate
sono tutte eguali, e non porta fondamentali variazioni
linconsueta apparizione meccanica: finiremmo in barzelletta.
Nessuna modifica al copione: tutto entra dove deve, e i
ritmi sono quelli giusti, e i movimenti sono dolci, e caldo il
corpo.
Ecco: forse c pure, qualcosa che non va. Una punta di
sgomento. Sar questaria da vecchio incubo, questidea

del metallo, tutta questa perfezione meccanica programmata ai millesimi: la troppa scienza distrugge le sorprese,
dellamore, i rilassamenti, i contorcimenti. I sussulti del
cuore, i respiri spezzati tutto questo manca.
Elena stanca.
Grazie, Tommy, puoi andare. Sembri un flipper. Un
flipper con un cazzo caldo.
E il soldatino di stagno, puff!!! Sparisce. In un attimo,
in una nuvoletta di zolfo. Goldrake non sa fare lamore.
A noi dispiace per Elena, povera e sola, lintervento
esterno, soprannaturale, il deus-ex-machina, lapparizione straordinaria, un soffio di magia pareva costruito
bene. Moderno.
Avremmo compatito, la disperazione di Elena. Avremmo dato un altro, piangente, sguardo alla sua casa sfatta.
Al suo quartiere di rovine.
E avremmo pianto, assieme. Come sempre, per ogni
amore finito male, senza le sorprese dei romanzi. Con le
tristezze degli amori da romanzo.
Ma Elena non daccordo. Non va bene. Elena si incazza.
E si alza. Si solleva dal letto.
Si veste in un attimo.
E spranga la porta di casa alle spalle!
Si avventura fra le colline dimmondezza.
Corre. Si allontana.
Cammina, cammina.
Finch incontra un tale, un miserabile, uno rifiutato
dalla morte in guerra, un alienato, accovacciato sulla cima

di una collina di rifiuti, circondato da vecchie riviste di informazioni televisive. Guarda le fotografie colorate, tutte
grigie alla luce della luna. Le cantanti svestite. La propaganda per gli slip da signora.
Elena si siede al suo fianco. Sfoglia.
Guarda le foto degli eroi, Elena, e allunga cinque dita
sulla coscia magra del vicino, una carezza timida e suadente, un invito morbido.
E lui, luomo della monnezza, il lettore solitario, il cristo dei rifiuti, sorride al cielo: un panettone doro per il
suo compleanno.
No! Di pi, molto di pi: un adolescente corrotto da
una stupenda signora, un letto caldo di donna, certi sogni
dimenticati dalla giovinezza.
Ah Elena. Ahi. Malandrina.

del metallo, tutta questa perfezione meccanica programmata ai millesimi: la troppa scienza distrugge le sorprese,
dellamore, i rilassamenti, i contorcimenti. I sussulti del
cuore, i respiri spezzati tutto questo manca.
Elena stanca.
Grazie, Tommy, puoi andare. Sembri un flipper. Un
flipper con un cazzo caldo.
E il soldatino di stagno, puff!!! Sparisce. In un attimo,
in una nuvoletta di zolfo. Goldrake non sa fare lamore.
A noi dispiace per Elena, povera e sola, lintervento
esterno, soprannaturale, il deus-ex-machina, lapparizione straordinaria, un soffio di magia pareva costruito
bene. Moderno.
Avremmo compatito, la disperazione di Elena. Avremmo dato un altro, piangente, sguardo alla sua casa sfatta.
Al suo quartiere di rovine.
E avremmo pianto, assieme. Come sempre, per ogni
amore finito male, senza le sorprese dei romanzi. Con le
tristezze degli amori da romanzo.
Ma Elena non daccordo. Non va bene. Elena si incazza.
E si alza. Si solleva dal letto.
Si veste in un attimo.
E spranga la porta di casa alle spalle!
Si avventura fra le colline dimmondezza.
Corre. Si allontana.
Cammina, cammina.
Finch incontra un tale, un miserabile, uno rifiutato
dalla morte in guerra, un alienato, accovacciato sulla cima

di una collina di rifiuti, circondato da vecchie riviste di informazioni televisive. Guarda le fotografie colorate, tutte
grigie alla luce della luna. Le cantanti svestite. La propaganda per gli slip da signora.
Elena si siede al suo fianco. Sfoglia.
Guarda le foto degli eroi, Elena, e allunga cinque dita
sulla coscia magra del vicino, una carezza timida e suadente, un invito morbido.
E lui, luomo della monnezza, il lettore solitario, il cristo dei rifiuti, sorride al cielo: un panettone doro per il
suo compleanno.
No! Di pi, molto di pi: un adolescente corrotto da
una stupenda signora, un letto caldo di donna, certi sogni
dimenticati dalla giovinezza.
Ah Elena. Ahi. Malandrina.

Pornomovie

Un altro al suo posto godrebbe questo venticello autunnoso che rinfresca laria, che si lascia assorbire dolce e
morbido come un cuscino di piume; che porta dal mare
profumo di reti asciutte e di arselle bianche e sussurri di
innamorati che si baciano sulla banchina languida.
Un altro rallenterebbe il passo, riempirebbe i polmoni e
gli occhi e le orecchie di tutta la vita docile che circola nel
pomeriggio della citt assonnata, a settembre.
Un altro, forse.
Non lui.
Lui preferisce tenersi dentro lincazzo e camminare rapido continuando a mugugnare; ripensare alla mattinata
trascorsa, preferisce, e a tutte le imprecazioni che ha soffocato fra le viscere, e allodio che gli provoca il mondo, a
partire dal barista che gli serve il primo caff, fino ai rompiscatole che lo ossessionano chiedendo, implorando,
imponendo.
Lui ne ha le palle piene, del lavoro. Ha le palle piene
della gente, di tutti quei fessi che si sono sposati, che hanno generato torme di piccoli rompiscatole, che riempiono
la citt di racconti di villeggiature, di avventurette extraconiugali e di lattine vuote di cocacola.
Puff. Ora dopo ora, man mano che la vita quotidiana

Pornomovie

Un altro al suo posto godrebbe questo venticello autunnoso che rinfresca laria, che si lascia assorbire dolce e
morbido come un cuscino di piume; che porta dal mare
profumo di reti asciutte e di arselle bianche e sussurri di
innamorati che si baciano sulla banchina languida.
Un altro rallenterebbe il passo, riempirebbe i polmoni e
gli occhi e le orecchie di tutta la vita docile che circola nel
pomeriggio della citt assonnata, a settembre.
Un altro, forse.
Non lui.
Lui preferisce tenersi dentro lincazzo e camminare rapido continuando a mugugnare; ripensare alla mattinata
trascorsa, preferisce, e a tutte le imprecazioni che ha soffocato fra le viscere, e allodio che gli provoca il mondo, a
partire dal barista che gli serve il primo caff, fino ai rompiscatole che lo ossessionano chiedendo, implorando,
imponendo.
Lui ne ha le palle piene, del lavoro. Ha le palle piene
della gente, di tutti quei fessi che si sono sposati, che hanno generato torme di piccoli rompiscatole, che riempiono
la citt di racconti di villeggiature, di avventurette extraconiugali e di lattine vuote di cocacola.
Puff. Ora dopo ora, man mano che la vita quotidiana

scorre e lo trasporta veloce verso i trenta, lui sente lincazzo montargli dentro, sempre pi forte, sempre pi irrevocabile, sempre pi nevrotico e aggressivo.
Ma ora rallenta, mentre il groppo di angoscia esala in un
interminabile sospiro: la parte scura della giornata si sta
chiudendo, sulla soglia del cinema dove entra con fare
brusco e timido, circospetto, mentre tenta per di assumere unaria ribalda, come a dire: se vengo qui dentro sono cazzi miei, e nessuno autorizzato a pensare niente di
particolare sul mio conto.
La maschera di sufficienza e di sicurezza crolla dopo
quattro passi, alla cassa: quella fanciulla obesa che vende
biglietti lha gi notato troppe volte per non riconoscerlo
come un cliente abituale, uno che ci marcia, colla pornoautonomia.
Lo guarda, la fanciulla obesa, da dietro certe lenti spesse e compatte che fanno sembrare gli occhi due piccoli
spilli perduti nel vetro, laggi in fondo.
Lui sa bene cosa chiedono quegli occhi: ha persino immaginato, una volta, di accettare linvito: si trovato in
un bagno gigante, enorme come quello di una stazione
ferroviaria e altrettanto sporco, con una gigantesca vasca
bianca proprio al centro di una sala illuminata da lampadine giallastre, da terzo grado, e nella vasca, piena dacqua profumata, la lardosa sguazzava da una parte allaltra, muta come un pesce, mostrando ora una tetta enorme come una boa, con un capezzolo nerofumo che sembrava un turacciolo bruciacchiato, ora un culo bianco
smisurato come unisola di formaggio fresco attraversata

da un crepaccio senza fondo, ora un ventre di pieghe


poggiate una sullaltra che terminava in ununica mostruosa vorace bocca depilata... non era un sogno di suo
gusto, e lha piantato l, preferendo concentrarsi su oggetti pi appetibili.
Ha voglia di farle la lingua, alla fanciulla obesa. E perch no? Eccolo, la tira fuori, una brutta lingua biancastra,
tutta crepata come una salina dagosto.
Lei, la fanciulla obesa, ha un attimo di indecisione, e
mentre forse pensa a quale risposta scegliere per proseguire il dialogo, lui ha gi voltato le spalle e si avviato
verso il secondo ostacolo: luomo che stacca i biglietti.
uno, zoppo, con i grandi occhi bianchi, vuoti, liquidi
liquidi, che guardano complici, stringendosi ripetutamente per creare sensazioni di familiarit: siamo fratelli,
noi sporcaccioni.
Lui preferisce non sollevare lo sguardo. Ma oggi, lo
zoppo, ha una stupefacente novit. Guardi gli dice,
strattonandolo per una manica. Lui si volta un attimo e fa
appena in tempo a vedere la pagina di una rivista, tutta accartocciata e bisunta; c la foto di una bella donna bianca
coi boccoli tutta nuda con due tette candide di panna e fra
le gambe ha un grosso cazzo nero. Sensazionale, eh? aggiunge lo storpio rigirando e ripiegando la paginetta con
le dita. Si accorge in ritardo che il cliente fuggito su per
le scale.
Finalmente si chiude alle spalle la tenda dingresso alla
sala. Dentro, le note di un valzerino accompagnano la
febbrile ricerca di un posto libero, lontano dagli altri pre-

scorre e lo trasporta veloce verso i trenta, lui sente lincazzo montargli dentro, sempre pi forte, sempre pi irrevocabile, sempre pi nevrotico e aggressivo.
Ma ora rallenta, mentre il groppo di angoscia esala in un
interminabile sospiro: la parte scura della giornata si sta
chiudendo, sulla soglia del cinema dove entra con fare
brusco e timido, circospetto, mentre tenta per di assumere unaria ribalda, come a dire: se vengo qui dentro sono cazzi miei, e nessuno autorizzato a pensare niente di
particolare sul mio conto.
La maschera di sufficienza e di sicurezza crolla dopo
quattro passi, alla cassa: quella fanciulla obesa che vende
biglietti lha gi notato troppe volte per non riconoscerlo
come un cliente abituale, uno che ci marcia, colla pornoautonomia.
Lo guarda, la fanciulla obesa, da dietro certe lenti spesse e compatte che fanno sembrare gli occhi due piccoli
spilli perduti nel vetro, laggi in fondo.
Lui sa bene cosa chiedono quegli occhi: ha persino immaginato, una volta, di accettare linvito: si trovato in
un bagno gigante, enorme come quello di una stazione
ferroviaria e altrettanto sporco, con una gigantesca vasca
bianca proprio al centro di una sala illuminata da lampadine giallastre, da terzo grado, e nella vasca, piena dacqua profumata, la lardosa sguazzava da una parte allaltra, muta come un pesce, mostrando ora una tetta enorme come una boa, con un capezzolo nerofumo che sembrava un turacciolo bruciacchiato, ora un culo bianco
smisurato come unisola di formaggio fresco attraversata

da un crepaccio senza fondo, ora un ventre di pieghe


poggiate una sullaltra che terminava in ununica mostruosa vorace bocca depilata... non era un sogno di suo
gusto, e lha piantato l, preferendo concentrarsi su oggetti pi appetibili.
Ha voglia di farle la lingua, alla fanciulla obesa. E perch no? Eccolo, la tira fuori, una brutta lingua biancastra,
tutta crepata come una salina dagosto.
Lei, la fanciulla obesa, ha un attimo di indecisione, e
mentre forse pensa a quale risposta scegliere per proseguire il dialogo, lui ha gi voltato le spalle e si avviato
verso il secondo ostacolo: luomo che stacca i biglietti.
uno, zoppo, con i grandi occhi bianchi, vuoti, liquidi
liquidi, che guardano complici, stringendosi ripetutamente per creare sensazioni di familiarit: siamo fratelli,
noi sporcaccioni.
Lui preferisce non sollevare lo sguardo. Ma oggi, lo
zoppo, ha una stupefacente novit. Guardi gli dice,
strattonandolo per una manica. Lui si volta un attimo e fa
appena in tempo a vedere la pagina di una rivista, tutta accartocciata e bisunta; c la foto di una bella donna bianca
coi boccoli tutta nuda con due tette candide di panna e fra
le gambe ha un grosso cazzo nero. Sensazionale, eh? aggiunge lo storpio rigirando e ripiegando la paginetta con
le dita. Si accorge in ritardo che il cliente fuggito su per
le scale.
Finalmente si chiude alle spalle la tenda dingresso alla
sala. Dentro, le note di un valzerino accompagnano la
febbrile ricerca di un posto libero, lontano dagli altri pre-

senti che sembrano tante ombre isolate, una qua una l,


alle diverse estremit delle file di sedili.
Ora si sente pi tranquillo, e un altro grosso sospiro elimina le ultime scorie dansia. Sprofonda nella poltroncina e allunga lo sguardo verso lo schermo.
una scena medioevale: c un grosso castello di cartapesta, laggi in fondo; in primo piano una pastorella biancovestita con quattro pecore candide; sdraiata sotto un albero la pastorella sogna; a guardarla meglio, la pastorella,
mostrerebbe le prime rughe; i trenta li ha abbandonati da
un pezzo; gli occhi bistrati denunciano il tentativo di non
farsi arraffare dalla vecchiaia incipiente. Ma un attimo:
ecco, ora invece la pastorella non ha neanche raggiunto i
venti.
La pastorella biancovestita sta aspettando chiaramente
qualcuno: ogni tanto i suoi occhi vanno da destra a sinistra e viceversa, a seguire una specie di sentierino che da
una parte va a finire su un ponticello di legno che sovrasta
un fiume inesistente, e dallaltra sbuca proprio al centro
dello schermo, verso la sala.
La pastorella non ha molta pazienza, nellattendere; dopo un tre-quattro lumate veloci veloci, chiude gli occhi e
lascia che la mano corra a sollevare il biancovestito, mostrando agli spettatori la sua biancheria intima; tuttaltro
che medioevale, questa: piuttosto liberty, sul nero trasparente, ricca di pizzi e spacchi.
Ora la pastorella si masturba, con la lingua fuori dai
denti e con gli occhi spalancati verso la sala di occhi spalancati e di lingue fuori dai denti.

Lui comincia a sentire un certo brividino di benessere che corre lungo la spina dorsale, e lascia che i pensieri tristi vadano veloci a tuffarsi nel fiume dal quale
esce un grosso drago verde che si avvicina alla pastorella.
Che ora sta sdraiata e biascica frasi senza senso compiuto mentre continua a smanacciarsi mettendo al centro
dello schermo proprio le sue intimit pi riposte definitivamente private da qualsiasi resto di biancheria, dogni
epoca.
Tutti guardano il drago che chiede: stai aspettando
qualcuno? La pastorella sembra non abbia sentito, e infatti continua tranquilla nella sua ginnastica, mentre lui,
sulla poltroncina, sogna di trasformarsi in quel castello di
cartapesta l in fondo per vedere la scena pi dal vivo e
corpore praesenti.
Come quel cavaliere che viene fuori dal castello in
groppa a un cavallo bianco.
Quando il drago visto che la piccola non si degna di rispondere si slaccia i grossi pantaloni di fustagno verde
mostrando al pubblico orripilato un enorme cazzo legnoso e nodoso che sembra un tronco di leccio e con quellarnese monta sulla pastorella che continua a biascicare frasi
senza senso che
lui, lui sulla sedia ascolta con piacere pensando che a
dirle sia la ragazza della porta accanto e le dica a lui, tante porcate.
Quella che non lo guarda, neanche quando si incrociano nellangolo dellascensore stretti stretti, e pare pro-

senti che sembrano tante ombre isolate, una qua una l,


alle diverse estremit delle file di sedili.
Ora si sente pi tranquillo, e un altro grosso sospiro elimina le ultime scorie dansia. Sprofonda nella poltroncina e allunga lo sguardo verso lo schermo.
una scena medioevale: c un grosso castello di cartapesta, laggi in fondo; in primo piano una pastorella biancovestita con quattro pecore candide; sdraiata sotto un albero la pastorella sogna; a guardarla meglio, la pastorella,
mostrerebbe le prime rughe; i trenta li ha abbandonati da
un pezzo; gli occhi bistrati denunciano il tentativo di non
farsi arraffare dalla vecchiaia incipiente. Ma un attimo:
ecco, ora invece la pastorella non ha neanche raggiunto i
venti.
La pastorella biancovestita sta aspettando chiaramente
qualcuno: ogni tanto i suoi occhi vanno da destra a sinistra e viceversa, a seguire una specie di sentierino che da
una parte va a finire su un ponticello di legno che sovrasta
un fiume inesistente, e dallaltra sbuca proprio al centro
dello schermo, verso la sala.
La pastorella non ha molta pazienza, nellattendere; dopo un tre-quattro lumate veloci veloci, chiude gli occhi e
lascia che la mano corra a sollevare il biancovestito, mostrando agli spettatori la sua biancheria intima; tuttaltro
che medioevale, questa: piuttosto liberty, sul nero trasparente, ricca di pizzi e spacchi.
Ora la pastorella si masturba, con la lingua fuori dai
denti e con gli occhi spalancati verso la sala di occhi spalancati e di lingue fuori dai denti.

Lui comincia a sentire un certo brividino di benessere che corre lungo la spina dorsale, e lascia che i pensieri tristi vadano veloci a tuffarsi nel fiume dal quale
esce un grosso drago verde che si avvicina alla pastorella.
Che ora sta sdraiata e biascica frasi senza senso compiuto mentre continua a smanacciarsi mettendo al centro
dello schermo proprio le sue intimit pi riposte definitivamente private da qualsiasi resto di biancheria, dogni
epoca.
Tutti guardano il drago che chiede: stai aspettando
qualcuno? La pastorella sembra non abbia sentito, e infatti continua tranquilla nella sua ginnastica, mentre lui,
sulla poltroncina, sogna di trasformarsi in quel castello di
cartapesta l in fondo per vedere la scena pi dal vivo e
corpore praesenti.
Come quel cavaliere che viene fuori dal castello in
groppa a un cavallo bianco.
Quando il drago visto che la piccola non si degna di rispondere si slaccia i grossi pantaloni di fustagno verde
mostrando al pubblico orripilato un enorme cazzo legnoso e nodoso che sembra un tronco di leccio e con quellarnese monta sulla pastorella che continua a biascicare frasi
senza senso che
lui, lui sulla sedia ascolta con piacere pensando che a
dirle sia la ragazza della porta accanto e le dica a lui, tante porcate.
Quella che non lo guarda, neanche quando si incrociano nellangolo dellascensore stretti stretti, e pare pro-

prio che non lo veda, perch il suo sguardo lo attraversa di


netto ma forse la ragazza miope.
E intanto il drago ha cominciato anche lui a biascicare
ma il cavaliere smonta dal cavallo bianco e sguaina una
grossa spada di gomma con lelsa a forma di fiore e la
spinge dentro la schiena del mostro che si arrossa di sangue.
Il drago rotola lungo la china mentre la pastorella
continua la ginnastica e i richiami gutturali, ormai completamente totalmente infinitamente nuda e il cavaliere
dice vi ho salvata, madamigella poi, visto che non riesce ad ottenere manco lui risposta si sfila i pantaloni di
raso bianco e mostra al pubblico attento un cazzo bianco
forse di plastica tanto ritto e immobile e con quello si d
da fare sul corpo della pastorella che prosegue nella litania.
Ma il cavallo bianco colto da raptus di gelosia nei
confronti del cavaliere, gli molla una zoccolata sul cranio
e in sala si trattiene il respiro perch arriva la parte migliore del film e dal castello fuoriesce una dama con fucile, su calesse trainato da due muli nerastri, e il cavallo
bianco sposta il cadavere del cavaliere e si d alla bella vita colla pastorella impazzita lungo quellasse.
Ma non finita perch la dama e lei finalmente ha
una mise celeste! gelosa su calesse vede il suo sposo trucidato, che lei voleva trucidare per il tradimento, e invece
lha fatto fuori il cavallo, e allora assale il cavallo col fucile
spianato e
bum! Il cavallo rotola lungo la china ad aggiungersi ai

predecessori mentre la marchesa cerca di consolare la pastorella che la guarda lungamente negli occhi e si capiscono al volo.
Infatti ora anche la dama smessa la mise celeste naturalmente scambia con la pastora languidi baci e furtive carezze.
Ma i muli non sono daccordo e si gettano nella mischia.
Mentre i titoli di coda avvisano che la luce sta per accendersi in sala e lui si solleva lungo la poltrona e si rassetta
tutto attorno trenta signori si sollevano lungo le poltrone
e si rassettano con in testa sinfonie di fiche spalancate.
Eccolo che abbandona il cinemino seguito dallo sguardo implorante della cassiera obesa e dalle risatine dello
zoppo che sussurra le cavalle, ha visto, le cavalle, eh?
Ora, tranquillo, si avvia verso casa. Il venticello gonfiato in maestrale, e dal porto salgono profumi di nafta e
di caldarroste.
Unaltra giornata fuggita via, una come le altre, una
come tante.
Vorrebbe festeggiare qualcosa, ma non sa bene cosa, e
comunque una festa sempre una festa, e vale un bicchiere di vino.
Un bel bicchiere di vino rosso fresco, bevuto al banco di
unosteria, fa una bella festa. Una festa.
Le cavalle riflette eh, certo che le cavalle... ho fatto
bene, io, a non sposarmi.
Cos, con lanima in pace, assale e violenta una vecchia
cinquecento rossa targata trecentoventiduemilatrecento
che lascia fare, senza protestare, con animo buono e gran-

prio che non lo veda, perch il suo sguardo lo attraversa di


netto ma forse la ragazza miope.
E intanto il drago ha cominciato anche lui a biascicare
ma il cavaliere smonta dal cavallo bianco e sguaina una
grossa spada di gomma con lelsa a forma di fiore e la
spinge dentro la schiena del mostro che si arrossa di sangue.
Il drago rotola lungo la china mentre la pastorella
continua la ginnastica e i richiami gutturali, ormai completamente totalmente infinitamente nuda e il cavaliere
dice vi ho salvata, madamigella poi, visto che non riesce ad ottenere manco lui risposta si sfila i pantaloni di
raso bianco e mostra al pubblico attento un cazzo bianco
forse di plastica tanto ritto e immobile e con quello si d
da fare sul corpo della pastorella che prosegue nella litania.
Ma il cavallo bianco colto da raptus di gelosia nei
confronti del cavaliere, gli molla una zoccolata sul cranio
e in sala si trattiene il respiro perch arriva la parte migliore del film e dal castello fuoriesce una dama con fucile, su calesse trainato da due muli nerastri, e il cavallo
bianco sposta il cadavere del cavaliere e si d alla bella vita colla pastorella impazzita lungo quellasse.
Ma non finita perch la dama e lei finalmente ha
una mise celeste! gelosa su calesse vede il suo sposo trucidato, che lei voleva trucidare per il tradimento, e invece
lha fatto fuori il cavallo, e allora assale il cavallo col fucile
spianato e
bum! Il cavallo rotola lungo la china ad aggiungersi ai

predecessori mentre la marchesa cerca di consolare la pastorella che la guarda lungamente negli occhi e si capiscono al volo.
Infatti ora anche la dama smessa la mise celeste naturalmente scambia con la pastora languidi baci e furtive carezze.
Ma i muli non sono daccordo e si gettano nella mischia.
Mentre i titoli di coda avvisano che la luce sta per accendersi in sala e lui si solleva lungo la poltrona e si rassetta
tutto attorno trenta signori si sollevano lungo le poltrone
e si rassettano con in testa sinfonie di fiche spalancate.
Eccolo che abbandona il cinemino seguito dallo sguardo implorante della cassiera obesa e dalle risatine dello
zoppo che sussurra le cavalle, ha visto, le cavalle, eh?
Ora, tranquillo, si avvia verso casa. Il venticello gonfiato in maestrale, e dal porto salgono profumi di nafta e
di caldarroste.
Unaltra giornata fuggita via, una come le altre, una
come tante.
Vorrebbe festeggiare qualcosa, ma non sa bene cosa, e
comunque una festa sempre una festa, e vale un bicchiere di vino.
Un bel bicchiere di vino rosso fresco, bevuto al banco di
unosteria, fa una bella festa. Una festa.
Le cavalle riflette eh, certo che le cavalle... ho fatto
bene, io, a non sposarmi.
Cos, con lanima in pace, assale e violenta una vecchia
cinquecento rossa targata trecentoventiduemilatrecento
che lascia fare, senza protestare, con animo buono e gran-

de, finch lui non pretende di strusciarsi alle bielle con le


unghie nere e allora lei si scoccia e gli molla una cofanata
sulla testa.
Mentre fugge via lui pensa ancora alle cavalle, e la notte
arriva furtiva, col sole che scende dietro lo stagno, lento
lento lento e senza voglia.

Lorso e la faina

Alle sei di mattina, di ferragosto, il sole gi brilla sullerba del grande prato allinglese che circonda la chiesa del Polpo Rovesciato (Octopus church se la canticchia Faina mentre si avvicina).
Anche la Chiesa, brilla in ogni tentacolo, di vetrate.
Faina, canticchiando, si avvicina, alle sei di mattina.
Di tutta fretta. Il fatto che ieri sera lui arrivato al
prato del Polpo Rovesciato, al raduno di tutti i freaks
e gli sballati e i coatti di questa citt, che si sdraiano su
quellerba verde e commerciano e vivacchiano e cantano
e parlano e si allontanano un attimo per andare in pineta a pomiciare o a stringere un laccio sul braccio nudo
finch fuoriesce la vena.
arrivato sul prato con in tasca un etto di libanese rosso oppiato tagliato a striscioline di due grammi luna
(cinque grammi netti senza stagnola, fratello, tutto pesato al millimetro, me mi conosci e ti puoi fidare, no?)
per definire un paio di buoni bisnass e raccogliere la moneta necessaria a ingrandire limpresa.
Quel libano red, con laggiunta di un superficiale pennello doppio, era un dono di dio: potevi fumarne una
puntina un niente, un assaggio che subito ti sentivi un
cuscino sotto i piedi e camminavi dondolo-dondolo per la

de, finch lui non pretende di strusciarsi alle bielle con le


unghie nere e allora lei si scoccia e gli molla una cofanata
sulla testa.
Mentre fugge via lui pensa ancora alle cavalle, e la notte
arriva furtiva, col sole che scende dietro lo stagno, lento
lento lento e senza voglia.

Lorso e la faina

Alle sei di mattina, di ferragosto, il sole gi brilla sullerba del grande prato allinglese che circonda la chiesa del Polpo Rovesciato (Octopus church se la canticchia Faina mentre si avvicina).
Anche la Chiesa, brilla in ogni tentacolo, di vetrate.
Faina, canticchiando, si avvicina, alle sei di mattina.
Di tutta fretta. Il fatto che ieri sera lui arrivato al
prato del Polpo Rovesciato, al raduno di tutti i freaks
e gli sballati e i coatti di questa citt, che si sdraiano su
quellerba verde e commerciano e vivacchiano e cantano
e parlano e si allontanano un attimo per andare in pineta a pomiciare o a stringere un laccio sul braccio nudo
finch fuoriesce la vena.
arrivato sul prato con in tasca un etto di libanese rosso oppiato tagliato a striscioline di due grammi luna
(cinque grammi netti senza stagnola, fratello, tutto pesato al millimetro, me mi conosci e ti puoi fidare, no?)
per definire un paio di buoni bisnass e raccogliere la moneta necessaria a ingrandire limpresa.
Quel libano red, con laggiunta di un superficiale pennello doppio, era un dono di dio: potevi fumarne una
puntina un niente, un assaggio che subito ti sentivi un
cuscino sotto i piedi e camminavi dondolo-dondolo per la

strada, con lanima straordinariamente morbida e felice.


Ieri sera Faina era proprio in questo stato di grazia, con
in tasca letto da smerciare, quando una banda di pulotti
ha circondato il prato dando il via a una perquisizione di
massa.
Faina, visto-capito-fatto in un attimo, ha gettato il pacchetto compromettente dentro un cespuglio floreale:
passato, sorridente, fra le mani degli inquisitori, e si seduto proprio di fronte al prato, sulla porta del bar di Panciadinsetto, a guardarli, e ad aspettare che se ne andassero, per recuperare il bisnass.
Ma quelli, bastardi, sembrava che lo facessero apposta:
stavano l fissi, con quelle facce che hanno i pulotti quando si credono furbi. Non si muovevano. Le sette, le otto,
le nove, le dieci, le undici, mezzanotte. Alla fine Faina
lunico cristiano nellarco di molti chilometri, oltre ai pulotti, e non pu certo continuare a sostare sul gradino del
bar ormai chiuso.
Si allontana verso casa, voltandosi ogni dieci metri a
controllare la situazione; la pantera sta sempre immobile
e tranquilla davanti allingresso del Polpo Rovesciato.
per questo che Faina stanotte non ha dormito un cazzo, e alle sei del mattino va veloce verso la Chiesa canticchiando. La polizia scomparsa, lerba verde, le vetrate
dei tentacoli del Polpo brillano. Il sole caldo. California, california canticchia Faina. Raggiunge il cespuglio
floreale dove ha gettato il libanese compromettente e comincia a frugare. Non trova niente.
Star sbagliando cespuglio pensa Faina. E comincia a

ispezionare il cespuglio vicino. Poi laltro ancora. E pian


piano completa il tour attorno al Polpo.
Possibile? pensa eppure li ho visti chiari i bastardi;
non si sono neanche chinati a cercare. Un coatto? Uhm si
sarebbe dovuto svegliare alle quattro per arrivare qui prima di me... e poi, non mi ha visto nessuno, mentre mi liberavo del pacco. Vuoi scommettere che stato quel
merda del parroco? Ah, sarebbe bella. Si svegliato presto, uscito allalba e ha trovato il regalo divino. Uhm,
improponibile. E allora?
Faina tornato al cespuglio di partenza e, con meno
calma di quando ha cominciato il lavoro, riprende a frugare. Niente di niente.
Facciamo una cosa scientifica. Ora questo cazzo di cespuglio lo spiumo a poco a poco, fino a che non rester
che nuda terra. E allora vedremo.
Se qualcuno fosse passato vicino alla chiesa del Polpo
Rovesciato, alle sei e mezza del mattino di ferragosto,
avrebbe visto un tale coi capelli lunghi ricci e una bella
barba selvatica e una camicia rossa e un paio di blu-jeans
scoloriti, che tagliava un cespuglio, ramo a ramo, e ogni
ramo sollevava verso il sole per guardarlo in controluce,
come stesse cercando uno spillo. Era Faina.
Ma un cespuglio floreale, per quanto folto (e, soprattutto, se privo di spine) fa in fretta, a finire. E sulla nuda
terra il pacchetto non c.
Faina non si perde danimo e comincia a sradicare il cespuglio a fianco, con gesti ormai da catena di montaggio,
o rigorosamente maniacali.

strada, con lanima straordinariamente morbida e felice.


Ieri sera Faina era proprio in questo stato di grazia, con
in tasca letto da smerciare, quando una banda di pulotti
ha circondato il prato dando il via a una perquisizione di
massa.
Faina, visto-capito-fatto in un attimo, ha gettato il pacchetto compromettente dentro un cespuglio floreale:
passato, sorridente, fra le mani degli inquisitori, e si seduto proprio di fronte al prato, sulla porta del bar di Panciadinsetto, a guardarli, e ad aspettare che se ne andassero, per recuperare il bisnass.
Ma quelli, bastardi, sembrava che lo facessero apposta:
stavano l fissi, con quelle facce che hanno i pulotti quando si credono furbi. Non si muovevano. Le sette, le otto,
le nove, le dieci, le undici, mezzanotte. Alla fine Faina
lunico cristiano nellarco di molti chilometri, oltre ai pulotti, e non pu certo continuare a sostare sul gradino del
bar ormai chiuso.
Si allontana verso casa, voltandosi ogni dieci metri a
controllare la situazione; la pantera sta sempre immobile
e tranquilla davanti allingresso del Polpo Rovesciato.
per questo che Faina stanotte non ha dormito un cazzo, e alle sei del mattino va veloce verso la Chiesa canticchiando. La polizia scomparsa, lerba verde, le vetrate
dei tentacoli del Polpo brillano. Il sole caldo. California, california canticchia Faina. Raggiunge il cespuglio
floreale dove ha gettato il libanese compromettente e comincia a frugare. Non trova niente.
Star sbagliando cespuglio pensa Faina. E comincia a

ispezionare il cespuglio vicino. Poi laltro ancora. E pian


piano completa il tour attorno al Polpo.
Possibile? pensa eppure li ho visti chiari i bastardi;
non si sono neanche chinati a cercare. Un coatto? Uhm si
sarebbe dovuto svegliare alle quattro per arrivare qui prima di me... e poi, non mi ha visto nessuno, mentre mi liberavo del pacco. Vuoi scommettere che stato quel
merda del parroco? Ah, sarebbe bella. Si svegliato presto, uscito allalba e ha trovato il regalo divino. Uhm,
improponibile. E allora?
Faina tornato al cespuglio di partenza e, con meno
calma di quando ha cominciato il lavoro, riprende a frugare. Niente di niente.
Facciamo una cosa scientifica. Ora questo cazzo di cespuglio lo spiumo a poco a poco, fino a che non rester
che nuda terra. E allora vedremo.
Se qualcuno fosse passato vicino alla chiesa del Polpo
Rovesciato, alle sei e mezza del mattino di ferragosto,
avrebbe visto un tale coi capelli lunghi ricci e una bella
barba selvatica e una camicia rossa e un paio di blu-jeans
scoloriti, che tagliava un cespuglio, ramo a ramo, e ogni
ramo sollevava verso il sole per guardarlo in controluce,
come stesse cercando uno spillo. Era Faina.
Ma un cespuglio floreale, per quanto folto (e, soprattutto, se privo di spine) fa in fretta, a finire. E sulla nuda
terra il pacchetto non c.
Faina non si perde danimo e comincia a sradicare il cespuglio a fianco, con gesti ormai da catena di montaggio,
o rigorosamente maniacali.

Alle sei del mattino, attorno alla chiesa del Polpo Rovesciato, cera una bella corona di cespugli verdi ornati di
fiorellini rosa. Alle sette c un massacro di erba calpestata e di fiori secchi. Ma il pacchetto non stato trovato.
Bisogna calmarsi pensa Faina tanto con la rabbia
non si conclude un cazzo e si accende uno spino coi residui di libano rosso oppiato la riserva personale tratti dalla vaschetta del cesso questa mattina alle cinque.
Una canna calmante che non calma un cazzo. La paranoia aumenta: ormai chiaro che qualche bastardo si
fottuto letto. Un capitale andato in fumo. Un ferragosto
rovinato.
Faina torna sul luogo della maledetta sparizione. E pesta coi piedi, incazzato, sui resti di quel cespuglio ladrone.
Oh, non ora di pestarci sulla testa, questa. Si, proprio cos. Da sottoterra una voce ha gridato esattamente
queste parole, come se invece di aver pestato un prato
Faina avesse pestato sul pavimento del terzo piano di un
condominio.
Inutile star qui a raccontare la meraviglia del baldanzoso spacciatore che alle sette e mezzo del mattino di ferragosto, sotto il sole, sente una specie di venticello di dicembre che gli corre su dal culo alla schiena.
Insomma, dopo aver smaltito la paura, Faina riesplora
con gli occhi la base del cespuglio maledetto.
Ora vede un aggeggino mai notato prima, una specie di
anello di ferro, di quelli che si vedono nei film e nei fumetti, s, proprio quelli che servono a sollevare una botola.

Una botola? E dove cazzo porta? E chi cazzo ci abita,


sotto? Ma guarda che razza di roba stravagante pensa il
nostro eroe che, se non fosse per via di quel suo etto famoso, se ne andrebbe di corsa, lasciando a qualcun altro
il compito di scoprire cosa ci faccia una botola a due passi dallingresso della chiesa del Polpo Rovesciato, una botola, perdipi, dalla quale emergono anche delle voci di
gente che chiaramente abita sottoterra.
Ma linteresse d coraggio son le condizioni materiali
che fanno la coscienza, quelletto insomma e Faina solleva lanello. Una botolina sepolta sotto la terra si solleva.
Una botolina da nulla che, sotto, lascia intravedere il
principio di una scaletta di ferro.
Ormai siamo in ballo pensa virilmente Faina, e comincia a scendere. Scalino dopo scalino, ne ha contati ormai diciotto quando una vocetta stridula e incazzata, da
molto pi sotto ancora, una voce duomo, ma anche una
voce di donna, (una voce insomma che se avessimo chiesto a Faina che voce era, lui non ci avrebbe saputo dire
niente di preciso se non osservazioni molto vaghe e generiche) questa voce ha urlato Chi quel coglione che ha
lasciato aperta la botola?
C, in quella voce, una tale quantit di autorit e di comando, che Faina si sente obbligato a risalire gli scalini fino al livello del suolo e a chiudere la botola da lui stesso
lasciata aperta.
Poi ridiscende e riconta. Conta fino a trentatre scalini.
Poi, sotto, sente il vuoto. Cerca col piede, al buio, un appoggio qualunque. Niente.

Alle sei del mattino, attorno alla chiesa del Polpo Rovesciato, cera una bella corona di cespugli verdi ornati di
fiorellini rosa. Alle sette c un massacro di erba calpestata e di fiori secchi. Ma il pacchetto non stato trovato.
Bisogna calmarsi pensa Faina tanto con la rabbia
non si conclude un cazzo e si accende uno spino coi residui di libano rosso oppiato la riserva personale tratti dalla vaschetta del cesso questa mattina alle cinque.
Una canna calmante che non calma un cazzo. La paranoia aumenta: ormai chiaro che qualche bastardo si
fottuto letto. Un capitale andato in fumo. Un ferragosto
rovinato.
Faina torna sul luogo della maledetta sparizione. E pesta coi piedi, incazzato, sui resti di quel cespuglio ladrone.
Oh, non ora di pestarci sulla testa, questa. Si, proprio cos. Da sottoterra una voce ha gridato esattamente
queste parole, come se invece di aver pestato un prato
Faina avesse pestato sul pavimento del terzo piano di un
condominio.
Inutile star qui a raccontare la meraviglia del baldanzoso spacciatore che alle sette e mezzo del mattino di ferragosto, sotto il sole, sente una specie di venticello di dicembre che gli corre su dal culo alla schiena.
Insomma, dopo aver smaltito la paura, Faina riesplora
con gli occhi la base del cespuglio maledetto.
Ora vede un aggeggino mai notato prima, una specie di
anello di ferro, di quelli che si vedono nei film e nei fumetti, s, proprio quelli che servono a sollevare una botola.

Una botola? E dove cazzo porta? E chi cazzo ci abita,


sotto? Ma guarda che razza di roba stravagante pensa il
nostro eroe che, se non fosse per via di quel suo etto famoso, se ne andrebbe di corsa, lasciando a qualcun altro
il compito di scoprire cosa ci faccia una botola a due passi dallingresso della chiesa del Polpo Rovesciato, una botola, perdipi, dalla quale emergono anche delle voci di
gente che chiaramente abita sottoterra.
Ma linteresse d coraggio son le condizioni materiali
che fanno la coscienza, quelletto insomma e Faina solleva lanello. Una botolina sepolta sotto la terra si solleva.
Una botolina da nulla che, sotto, lascia intravedere il
principio di una scaletta di ferro.
Ormai siamo in ballo pensa virilmente Faina, e comincia a scendere. Scalino dopo scalino, ne ha contati ormai diciotto quando una vocetta stridula e incazzata, da
molto pi sotto ancora, una voce duomo, ma anche una
voce di donna, (una voce insomma che se avessimo chiesto a Faina che voce era, lui non ci avrebbe saputo dire
niente di preciso se non osservazioni molto vaghe e generiche) questa voce ha urlato Chi quel coglione che ha
lasciato aperta la botola?
C, in quella voce, una tale quantit di autorit e di comando, che Faina si sente obbligato a risalire gli scalini fino al livello del suolo e a chiudere la botola da lui stesso
lasciata aperta.
Poi ridiscende e riconta. Conta fino a trentatre scalini.
Poi, sotto, sente il vuoto. Cerca col piede, al buio, un appoggio qualunque. Niente.

La scala finisce e sotto non c niente, assolutamente


niente. E ora pensa Faina che cazzo faccio?
La paura, che durante la discesa si era annullata nel difficile compito di contare gli scalini e di mantenere lequilibrio nelloscurit, riappare, provocando brividi di vario
genere al povero spacciatore impegnato in una impresa
sotterranea pi grande di lui.
Giunge, in aiuto, la solita voce ambigua mezzouomomezzodonna, questa volta animata da una sorta di contenuta allegria, che urla Chi quel figlio di puttana che si
fregato il pavimento del corridoio? Rimettetelo subito al
suo posto e non fate penare il nostro amico.
Il nostro amico il loro amico, lamico della voce doveva essere proprio Faina, che ora si ritrova un solido pavimento in terra battuta sotto gli zoccoli.
Non raccontiamo le sensazioni provate da Faina quando qualcuno gli ha ricostruito il solido sotto i piedi,
perch chiunque di voi perfettamente in grado di coglierle.
Ora il nostro eroe si avventura lungo un corridoio ad
altezza duomo, fiocamente illuminato alle pareti da certi
strani lumini che sembrano ma forse la deformazione
mentale del visitatore a vederli cos dei piccoli silun. Pipe per haschish.
A dire il vero, deformazione a parte, un certo odore di
hashish pervade tutto lambiente, rassicurando lincerto
passo delluomo che avanza.
A un certo punto, subito dopo una improvvisa svolta
del camminamento sotterraneo, Faina si trova di fronte a

un vecchio montone un vecchio montone? Forse sar


questa luce cos stramba, devessere senzaltro un vecchio uomo barbuto con uno strano cappello cornuto.
Un vecchio montone accovacciato che inala fumo il
fumo di un enorme pipa direttamente dalle narici, e che
dice Buono, siss. Buono questo libanese, ragazzo. Quellaggiunta di oppio, poi, cos delicata e allo stesso tempo
cos presente, una vera delicatezza. Un bouquet perfetto. Una stoffa impareggiabile.
Mentre Faina, praticamente di sasso (noi lo sappiamo,
e sia detto una volta per tutte, che certe immagini retoriche, come quella delluomo di sasso o di sale per lo
spavento o la meraviglia, bisognerebbe abolirle. Ogni
narratore come si deve dovrebbe sforzarsi di trovare altre
pi nuove e ricche immagini. Ma non abbiamo pretese di
fare letteratura. Raccontiamo la storia di Faina o qualunque storia con intento puramente didattico, educativo. Ci serviamo quindi di mezzi e strumenti adatti ad
evitare sorprese allottimo lettore, che cos potr correre
verso la morale che conclude la storia, senza stare tanto a
scervellarsi sui significati di quello che ha letto: i significati sono qui, palesi. Ogni parola significa se stessa, e non
c assolutamente nulla fra le righe). Faina, di sasso, guarda luomo che sembra il montone, e quello insiste Non
stia fermo, caro, prosegua, prosegua, un comune amico
la attende laggi in fondo.
Le gambe delleroe underground riprendono la lenta
marcia in un corridoio terroso.
Finch giungono ad una grande porta tutta nera, nera

La scala finisce e sotto non c niente, assolutamente


niente. E ora pensa Faina che cazzo faccio?
La paura, che durante la discesa si era annullata nel difficile compito di contare gli scalini e di mantenere lequilibrio nelloscurit, riappare, provocando brividi di vario
genere al povero spacciatore impegnato in una impresa
sotterranea pi grande di lui.
Giunge, in aiuto, la solita voce ambigua mezzouomomezzodonna, questa volta animata da una sorta di contenuta allegria, che urla Chi quel figlio di puttana che si
fregato il pavimento del corridoio? Rimettetelo subito al
suo posto e non fate penare il nostro amico.
Il nostro amico il loro amico, lamico della voce doveva essere proprio Faina, che ora si ritrova un solido pavimento in terra battuta sotto gli zoccoli.
Non raccontiamo le sensazioni provate da Faina quando qualcuno gli ha ricostruito il solido sotto i piedi,
perch chiunque di voi perfettamente in grado di coglierle.
Ora il nostro eroe si avventura lungo un corridoio ad
altezza duomo, fiocamente illuminato alle pareti da certi
strani lumini che sembrano ma forse la deformazione
mentale del visitatore a vederli cos dei piccoli silun. Pipe per haschish.
A dire il vero, deformazione a parte, un certo odore di
hashish pervade tutto lambiente, rassicurando lincerto
passo delluomo che avanza.
A un certo punto, subito dopo una improvvisa svolta
del camminamento sotterraneo, Faina si trova di fronte a

un vecchio montone un vecchio montone? Forse sar


questa luce cos stramba, devessere senzaltro un vecchio uomo barbuto con uno strano cappello cornuto.
Un vecchio montone accovacciato che inala fumo il
fumo di un enorme pipa direttamente dalle narici, e che
dice Buono, siss. Buono questo libanese, ragazzo. Quellaggiunta di oppio, poi, cos delicata e allo stesso tempo
cos presente, una vera delicatezza. Un bouquet perfetto. Una stoffa impareggiabile.
Mentre Faina, praticamente di sasso (noi lo sappiamo,
e sia detto una volta per tutte, che certe immagini retoriche, come quella delluomo di sasso o di sale per lo
spavento o la meraviglia, bisognerebbe abolirle. Ogni
narratore come si deve dovrebbe sforzarsi di trovare altre
pi nuove e ricche immagini. Ma non abbiamo pretese di
fare letteratura. Raccontiamo la storia di Faina o qualunque storia con intento puramente didattico, educativo. Ci serviamo quindi di mezzi e strumenti adatti ad
evitare sorprese allottimo lettore, che cos potr correre
verso la morale che conclude la storia, senza stare tanto a
scervellarsi sui significati di quello che ha letto: i significati sono qui, palesi. Ogni parola significa se stessa, e non
c assolutamente nulla fra le righe). Faina, di sasso, guarda luomo che sembra il montone, e quello insiste Non
stia fermo, caro, prosegua, prosegua, un comune amico
la attende laggi in fondo.
Le gambe delleroe underground riprendono la lenta
marcia in un corridoio terroso.
Finch giungono ad una grande porta tutta nera, nera

come la notte eh, le immagini retoriche che non si


apre, per quanto Faina si dia da fare a spingere.
La voce, la solita voce strampalata, giunge ancora una
volta in soccorso: Qualcuno apra urla.
Il montone, improvvisamente, riappare, con un grosso
mazzo di chiavi in mano che cazzo mormora sottovoce
neanche il tempo di una bella fumata che subito mi
chiamano, porta di qua, porta di l, perch non si decideranno a lasciarle aperte, le porte, vorrei sapere.
Faina passa dal buio alla luce.
Viene introdotto in un enorme salone, illuminato da un
unico gigantesco lampadario a forma di pipa, acceso proprio nel fornello: fuoco vero e brace, non enel.
Lungo le pareti della sala, su certi armadi di vetro, in
apparenza fragilissimo, stanno forme e pani di hashish, di
ogni colore, di ogni tipo, di ogni provenienza. Non mancano grosse ceste di cristallo piene stracolme di mariagiovanna e mariantonietta.
Una procace fanciulla completamente nuda sdraiata su
un sof di piume che stanno una sullaltra da sole, fuma
una lunga finissima pipa nera, mentre sul fondo, a chilometri di distanza, a Faina pare di vedere un palco da festa
popolare con sopra unorchestrina ambulante di straccioni che suona un valzer.
Le note del valzer giungono chiarissime fino a lui.
La fanciulla si solleva e passa la pipa allesterrefatto Faina, che comunque la prende forse un po a risarcimento
del pacchetto perduto, che chiaramente finito in questo
posto di pazzi e la fuma.

Mi chiamo Ganja sussurra la donna con voce roca e


dolcissima e ho il compito di prepararti allincontro.
Dopodich estrae apparentemente dal nulla un flacone di oli profumati.
Spogliati dice a Faina, che diventa rosso e non sa da
che parte girarsi, ma comunque non ha altra scelta.
Insomma, ora il nostro eroe sta l, completamente nudo, perfettamente oliato, fatto oltre misura dal misterioso
contenuto di quella pipetta, e continua a lasciarsi carezzare dalle giovani mani della fanciulla sotterranea.
Scusa, cazzo dice improvvisamente ma questo... il
paradiso?
Lei sorride, mentre la luce si attenua e lorchestrina
lontana attacca un babylon, e gli fa cenno di tacere con
un dito che ora improvvisamente sembra rosso fuoco, e
poi si sdraia su di lui, dando inizio a quella danza che
ognuno di voi pensa sia la sintesi, appunto, dello stare assisi Lass, al fianco del padre.
Quando un flauto sussurra le ultime frasi del canto la
donzella si solleva e si allontana veloce, e Faina resta fermo sdraiato sperando di non doversi sollevare pi.
Basta urla quella voce famosa che gi abbiamo incontrato nel corso di questo raccontino didattico.
Lorchestra tace. Le luci si riaccendono.
Al fianco di Faina c un orsetto alto non pi di trenta
centimetri, tutto rosso e con due enormi baffi da carabiniere primi novecento. E tu chi sei? Chiede mollemente, ormai ambientato, il piccolo spacciatore del Polpo
Rovesciato.

come la notte eh, le immagini retoriche che non si


apre, per quanto Faina si dia da fare a spingere.
La voce, la solita voce strampalata, giunge ancora una
volta in soccorso: Qualcuno apra urla.
Il montone, improvvisamente, riappare, con un grosso
mazzo di chiavi in mano che cazzo mormora sottovoce
neanche il tempo di una bella fumata che subito mi
chiamano, porta di qua, porta di l, perch non si decideranno a lasciarle aperte, le porte, vorrei sapere.
Faina passa dal buio alla luce.
Viene introdotto in un enorme salone, illuminato da un
unico gigantesco lampadario a forma di pipa, acceso proprio nel fornello: fuoco vero e brace, non enel.
Lungo le pareti della sala, su certi armadi di vetro, in
apparenza fragilissimo, stanno forme e pani di hashish, di
ogni colore, di ogni tipo, di ogni provenienza. Non mancano grosse ceste di cristallo piene stracolme di mariagiovanna e mariantonietta.
Una procace fanciulla completamente nuda sdraiata su
un sof di piume che stanno una sullaltra da sole, fuma
una lunga finissima pipa nera, mentre sul fondo, a chilometri di distanza, a Faina pare di vedere un palco da festa
popolare con sopra unorchestrina ambulante di straccioni che suona un valzer.
Le note del valzer giungono chiarissime fino a lui.
La fanciulla si solleva e passa la pipa allesterrefatto Faina, che comunque la prende forse un po a risarcimento
del pacchetto perduto, che chiaramente finito in questo
posto di pazzi e la fuma.

Mi chiamo Ganja sussurra la donna con voce roca e


dolcissima e ho il compito di prepararti allincontro.
Dopodich estrae apparentemente dal nulla un flacone di oli profumati.
Spogliati dice a Faina, che diventa rosso e non sa da
che parte girarsi, ma comunque non ha altra scelta.
Insomma, ora il nostro eroe sta l, completamente nudo, perfettamente oliato, fatto oltre misura dal misterioso
contenuto di quella pipetta, e continua a lasciarsi carezzare dalle giovani mani della fanciulla sotterranea.
Scusa, cazzo dice improvvisamente ma questo... il
paradiso?
Lei sorride, mentre la luce si attenua e lorchestrina
lontana attacca un babylon, e gli fa cenno di tacere con
un dito che ora improvvisamente sembra rosso fuoco, e
poi si sdraia su di lui, dando inizio a quella danza che
ognuno di voi pensa sia la sintesi, appunto, dello stare assisi Lass, al fianco del padre.
Quando un flauto sussurra le ultime frasi del canto la
donzella si solleva e si allontana veloce, e Faina resta fermo sdraiato sperando di non doversi sollevare pi.
Basta urla quella voce famosa che gi abbiamo incontrato nel corso di questo raccontino didattico.
Lorchestra tace. Le luci si riaccendono.
Al fianco di Faina c un orsetto alto non pi di trenta
centimetri, tutto rosso e con due enormi baffi da carabiniere primi novecento. E tu chi sei? Chiede mollemente, ormai ambientato, il piccolo spacciatore del Polpo
Rovesciato.

Io sono il Padrone risponde la voce che ci ha guidato


fin qui, e che viene fuori dalle fauci dellorsetto, che,
quando si aprono, mostrano un inusitato spettacolo: i
denti sono una citt indiana in miniatura, abitata da milioni di cristi affamati, e percorsa da un fiume nerastro
nel quale tutti si gettano biascicando.
Sono il Signore del Fumo Felice e del Nirvana Tranquillo, il protettore di tutti gli spacciatori, il dio dei venditori dinganni e di fantasie, vicario di ogni attivit allucinante, fratello di Peiotl e cugino di mia cugina Ganja che
ti ha preso a benvolere, come ho potuto vedere poco fa.
Io sono lala sotto cui si nascondono tutti quelli che
hanno scelto di vedere oltre il comune e di addentrarsi
nel regno della conoscenza. Benvenuto, amico.
Dette queste parole, che ne illustrano abbondantemente il ruolo, lorsetto rosso acchiappa la mano destra e trascina via violentemente Faina dal suo sonnolento divano.
In quel preciso momento, non prima e non dopo, lorchestrina attacca una specie di rumba frenetica e ultra accelerata, e i due volteggiano sul pavimento della stanza,
un pavimento di cristallo, a velocit folli.
Faina sente il cielo girargli tutto attorno, e non sa pi
dove sia il su e il gi e dove sia lui e guarda soltanto il viso
dellorsetto rosso che sorride amabilmente. Si preoccupa
di non perdere la presa.
Quando dio vuole la danza finisce. Ganja riappare e,
assieme al Signore etc. allunisono, dicono Ora scegli
quello che vuoi, ma, bada, non pi del tanto necessario
per una sola fumata e guidano lospite verso quegli scaf-

fali dove ogni genere di fumo fa bella mostra, affiancato


da oppio anchesso di molte e differenti scelte, da eroina
bianchissima e metedrina saltellante, mescalina ultraraffinata e morfina base.
Faina costruisce con centotrenta cartine il pi grosso
spino mai visto prima, e si d da fare a riempirlo di ogni
ben di dio. Bada gli ripetono i cugini dovrai consumarlo in una sola fumata, altrimenti sparir. Certo,
certo risponde lui con occhi avidi.
Una volta conclusa la lunga e difficile preparazione dellenorme regalo, lorsetto urla, con quella voce che gi gli
conosciamo: Sia accompagnato fuori.
Faina si trova sdraiato sul dorso del montone o del
vecchio che sembra un montone che comincia a correre
a perdifiato lungo la galleria da cui siamo arrivati e poi su
per le scalette di metallo.
Il viaggiatore viene depositato sul prato massacrato.
La botola si richiude alle sue spalle, dopo che lessere
cornuto gli ha gridato nuovamente complimenti per quel
libanese, amico, e arrivederci.
Faina si ritrova cos sdraiato allaria aperta, sul prato,
con unenorme canna in mano.
Tutto attorno non c nessuno, e lui accende.
E tira, e tira, e tira, e tira, finch i suoi polmoni reggono
al compito, finch la sua gola non brucia, finch la sua
bocca non un forno. Poi abbandona, esausto, e quello
spinello appena cominciato. E gi sparito.
Poi Faina si solleva, barcolla, e pensa: Ora che so dove abitano quelli, chi mi impedisce di tornarci? la vol-

Io sono il Padrone risponde la voce che ci ha guidato


fin qui, e che viene fuori dalle fauci dellorsetto, che,
quando si aprono, mostrano un inusitato spettacolo: i
denti sono una citt indiana in miniatura, abitata da milioni di cristi affamati, e percorsa da un fiume nerastro
nel quale tutti si gettano biascicando.
Sono il Signore del Fumo Felice e del Nirvana Tranquillo, il protettore di tutti gli spacciatori, il dio dei venditori dinganni e di fantasie, vicario di ogni attivit allucinante, fratello di Peiotl e cugino di mia cugina Ganja che
ti ha preso a benvolere, come ho potuto vedere poco fa.
Io sono lala sotto cui si nascondono tutti quelli che
hanno scelto di vedere oltre il comune e di addentrarsi
nel regno della conoscenza. Benvenuto, amico.
Dette queste parole, che ne illustrano abbondantemente il ruolo, lorsetto rosso acchiappa la mano destra e trascina via violentemente Faina dal suo sonnolento divano.
In quel preciso momento, non prima e non dopo, lorchestrina attacca una specie di rumba frenetica e ultra accelerata, e i due volteggiano sul pavimento della stanza,
un pavimento di cristallo, a velocit folli.
Faina sente il cielo girargli tutto attorno, e non sa pi
dove sia il su e il gi e dove sia lui e guarda soltanto il viso
dellorsetto rosso che sorride amabilmente. Si preoccupa
di non perdere la presa.
Quando dio vuole la danza finisce. Ganja riappare e,
assieme al Signore etc. allunisono, dicono Ora scegli
quello che vuoi, ma, bada, non pi del tanto necessario
per una sola fumata e guidano lospite verso quegli scaf-

fali dove ogni genere di fumo fa bella mostra, affiancato


da oppio anchesso di molte e differenti scelte, da eroina
bianchissima e metedrina saltellante, mescalina ultraraffinata e morfina base.
Faina costruisce con centotrenta cartine il pi grosso
spino mai visto prima, e si d da fare a riempirlo di ogni
ben di dio. Bada gli ripetono i cugini dovrai consumarlo in una sola fumata, altrimenti sparir. Certo,
certo risponde lui con occhi avidi.
Una volta conclusa la lunga e difficile preparazione dellenorme regalo, lorsetto urla, con quella voce che gi gli
conosciamo: Sia accompagnato fuori.
Faina si trova sdraiato sul dorso del montone o del
vecchio che sembra un montone che comincia a correre
a perdifiato lungo la galleria da cui siamo arrivati e poi su
per le scalette di metallo.
Il viaggiatore viene depositato sul prato massacrato.
La botola si richiude alle sue spalle, dopo che lessere
cornuto gli ha gridato nuovamente complimenti per quel
libanese, amico, e arrivederci.
Faina si ritrova cos sdraiato allaria aperta, sul prato,
con unenorme canna in mano.
Tutto attorno non c nessuno, e lui accende.
E tira, e tira, e tira, e tira, finch i suoi polmoni reggono
al compito, finch la sua gola non brucia, finch la sua
bocca non un forno. Poi abbandona, esausto, e quello
spinello appena cominciato. E gi sparito.
Poi Faina si solleva, barcolla, e pensa: Ora che so dove abitano quelli, chi mi impedisce di tornarci? la vol-

ta buona che mi levo dal mercato, dallo spaccio, dalla fifa di esser preso dalla polizia. E fumer ogni meraviglia,
roba che a lui gli arriva da tutte le parti del mondo, perch quello uno che ha contatti come si deve, mica io
che per un etto di libanese oppiato devo fare i salti mortali, e poi quella citt fra i denti, che razza di personaggio, e Ganja, e quellorchestrina...
Cos riflette fra s e s, e si avvicina barcollante al cespuglio incantato, alla botola meravigliosa.
Ma proprio nello stesso punto da cui entrato in quel
paradiso, proprio in quello stesso punto a due passi dalla
porta della chiesa del Polpo Rovesciato, non c pi botola, non c pi anello, non c pi traccia del suo viaggio.
Faina ricomincia a pestare se li disturbo mi faranno
entrare unaltra volta, pensa. E pesta, e pesta, e pesta.
Finch dalla chiesa non esce il prete e lo guarda. E Faina
gli legge negli occhi che quello sta per girarsi e andare a
telefonare alla neurodeliri. E infatti il prete si gira, e si allontana verso la sacrestia.
Faina fugge. Ha capito che tanto non c nulla da fare,
nulla da ottenere, e che le botole che portano nei mondi
incantati si trovano una sola volta nella vita, ed anche
troppo.
Qui il racconto finito. Il lettore attento potr anche
chiedersi dove diavolo sia la morale da noi promessa nel
corso della narrazione: essa rispondiamo nei fatti,
nelle cose narrate, nelle vicende, ora allegre ora tristi, di
Faina.
Ma per chi da queste vicende non sia in grado di trarre

il dovuto insegnamento ci sono anche gli interdetti,


perdio ricapitoliamo il succo didattico della storia
utile anche ai bambini : mai buttare un etto di libanese
rosso o anche di pakistano nero in un cespuglio. Ci
perderete letto e, per bene che vi vada, la finirete a parlare con certi orsacci rossi che magari vi costringeranno
persino a ballare la rumba. Vade Retro.

ta buona che mi levo dal mercato, dallo spaccio, dalla fifa di esser preso dalla polizia. E fumer ogni meraviglia,
roba che a lui gli arriva da tutte le parti del mondo, perch quello uno che ha contatti come si deve, mica io
che per un etto di libanese oppiato devo fare i salti mortali, e poi quella citt fra i denti, che razza di personaggio, e Ganja, e quellorchestrina...
Cos riflette fra s e s, e si avvicina barcollante al cespuglio incantato, alla botola meravigliosa.
Ma proprio nello stesso punto da cui entrato in quel
paradiso, proprio in quello stesso punto a due passi dalla
porta della chiesa del Polpo Rovesciato, non c pi botola, non c pi anello, non c pi traccia del suo viaggio.
Faina ricomincia a pestare se li disturbo mi faranno
entrare unaltra volta, pensa. E pesta, e pesta, e pesta.
Finch dalla chiesa non esce il prete e lo guarda. E Faina
gli legge negli occhi che quello sta per girarsi e andare a
telefonare alla neurodeliri. E infatti il prete si gira, e si allontana verso la sacrestia.
Faina fugge. Ha capito che tanto non c nulla da fare,
nulla da ottenere, e che le botole che portano nei mondi
incantati si trovano una sola volta nella vita, ed anche
troppo.
Qui il racconto finito. Il lettore attento potr anche
chiedersi dove diavolo sia la morale da noi promessa nel
corso della narrazione: essa rispondiamo nei fatti,
nelle cose narrate, nelle vicende, ora allegre ora tristi, di
Faina.
Ma per chi da queste vicende non sia in grado di trarre

il dovuto insegnamento ci sono anche gli interdetti,


perdio ricapitoliamo il succo didattico della storia
utile anche ai bambini : mai buttare un etto di libanese
rosso o anche di pakistano nero in un cespuglio. Ci
perderete letto e, per bene che vi vada, la finirete a parlare con certi orsacci rossi che magari vi costringeranno
persino a ballare la rumba. Vade Retro.

Destino questurino

La barba, cazzo, il momento migliore della giornata:


mi guardo allo specchio, mi carezzo, elargisco buffetti
amichevoli alle mie guance, mi profumo, mi trovo simpatico, mi sorrido, con la luce che filtra dalla persiana socchiusa e tutto nel bagno sbriluccica e lo specchio risponde alle mie sollecitazioni affettuose, complice allegro.
Quando mi sbatto alle spalle la porta di casa, praticamente sono felice: la camicia bianca pulita, il viso fresco, i
piedi asciutti nelle calze di filo e nelle scarpe estive di vitello morbido che respira, la scriminatura a posto per
noi della pula conta anche la scriminatura, sissignori , i
pantaloni di lino freschi freschi con la piega perfetta: sono io, agile e snello, pronto alla vita, aperto agli avvenimenti, alle novit e agli incontri.
Nellascensore e nellatrio spero sempre di incocciare
la fanciulla del piano di sopra, liceale ribelle ma simpatica, con le tettine che ballonzolano sotto la maglietta bianca del coccodrillo, coi pantaloncini corti che scoprono le
gambe lunghe e nervose e abbronzate di gazzella, e i piedi
con le unghie smaltate che sembra che sorridano dagli
zoccoli, e mi saluta sempre con allegria, con un ammiccare degli occhi, un brillio, lei che va al mare, io che resto al
lavoro, ma in questo momento, con la mattina giovane

Destino questurino

La barba, cazzo, il momento migliore della giornata:


mi guardo allo specchio, mi carezzo, elargisco buffetti
amichevoli alle mie guance, mi profumo, mi trovo simpatico, mi sorrido, con la luce che filtra dalla persiana socchiusa e tutto nel bagno sbriluccica e lo specchio risponde alle mie sollecitazioni affettuose, complice allegro.
Quando mi sbatto alle spalle la porta di casa, praticamente sono felice: la camicia bianca pulita, il viso fresco, i
piedi asciutti nelle calze di filo e nelle scarpe estive di vitello morbido che respira, la scriminatura a posto per
noi della pula conta anche la scriminatura, sissignori , i
pantaloni di lino freschi freschi con la piega perfetta: sono io, agile e snello, pronto alla vita, aperto agli avvenimenti, alle novit e agli incontri.
Nellascensore e nellatrio spero sempre di incocciare
la fanciulla del piano di sopra, liceale ribelle ma simpatica, con le tettine che ballonzolano sotto la maglietta bianca del coccodrillo, coi pantaloncini corti che scoprono le
gambe lunghe e nervose e abbronzate di gazzella, e i piedi
con le unghie smaltate che sembra che sorridano dagli
zoccoli, e mi saluta sempre con allegria, con un ammiccare degli occhi, un brillio, lei che va al mare, io che resto al
lavoro, ma in questo momento, con la mattina giovane

giovane, siamo uguali, freschi e lavati e profumati, uguali


dopo un bel sonno tranquillo, uguali per viverci la nostra
vita con allegria.
Diverso quando rientro dal lavoro: sudato, attaccaticcio, distrutto, dopo ore ed ore di interrogatori in questura, di routine con quellagente che ogni cinque minuti
mette in dubbio la tua virilit e quellaltro che racconta le
corna di tutti e anche le sue ridendoci su ma ci ride
amaro e dietro tutti gli scherzi paura tremenda di non
farcela, di non farcela a scopare.
Ogni tanto mi arriva uno di questi ragazzini coi boccoli, e non parla e mi guarda come fosse colpa mia se esiste
una legge che ci impone di arrestarli quando tentano di
commerciare le loro droghette, e gli chiedo ma dimmi
almeno chi te la vende e lui risponde niente, silenzio
completo, e allora via con la solita vecchia storia detta
con voce sempre meno convinta noi non abbiamo nulla
contro di te, che sei la ruota piccola la vittima il cristo
qualunque, ma cristo c chi lucra alle tue spalle, pensa a
te stesso porcaeva se alle prime armi ascolta senza battere ciglio, magari piagnucola anche, e sbotta qualche nome di cristi qualunque come lui; se invece un habitu, e
magari gi qualche volta labbiamo spedito al Buoncammino per sei mesi, e magari in cella capitato con un vecchio malandro che se l fatto ad amante, allora lui ride, e
ride, e ride da far pena e io ho piet di lui e di me stesso,
ma Luca, che il mio vice, un coglione, ride anche lui e
gli molla un cazzotto in piena faccia e quello sanguina e
sanguina e non smette di ghignare.

Quando rientro, la sera, sono diverso. Non mi piaccio


pi. Faccio schifo. Puzzo di sudore e di fumo e di pesce
fritto e di sugo rancido: perch il sugo da ulcera e il pesce
fritto nellolio di qualche seme putrido sono il meglio
della trattoria dove mi siedo e di fronte ho un altro scapolo sudato e dietro le spalle un altro scapolo sudato e affianco una vecchia zitella con una gonna di lanetta a fiori
fuori moda lunga fino alle caviglie e sporca di giallo duovo e i capelli tinti di rosso tiziano che su quel viso di prugna rinsecchita fanno un belleffetto terrore che piacerebbe a Dario Argento e anchio avrei un attimo di dubbio, se dovesse capitare: una di quelle pazze che prima o
poi trucida con un coltello da macellaio uno spasimante
della sua giovinezza lunico, magari che lha mollata
per sposarsi con unaltra, e ora ha quattro figli e la pancetta e non si ricorda neanche che lei esiste, in questa
trattoria dove tutto attorno stanno altri scapoli sudati tutti immersi nellafa e nellodore di sugo rancido come pesci nel mare quasi senza respirare in un bagno di odori e
vapori che Dante non lo conosceva altrimenti lavrebbe
infilato dritto dritto in una bolgia.
Quando rientro a casa, la sera, ho voglia soltanto di pisciare e di dormire.
Dopo la doccia, che sbatte via lodore di questura e anche i cattivi ricordi, comincio a risorgere. Allora mi siedo
sulla veranda, in penombra, con tutte le ossa e i muscoli
che piano piano, uno ad uno, si abbandonano, staccano i
contatti, si rilassano, e mastico un wurstel arrosto e un
pomodoro e una pesca gialla tagliuzzata in un bicchiere

giovane, siamo uguali, freschi e lavati e profumati, uguali


dopo un bel sonno tranquillo, uguali per viverci la nostra
vita con allegria.
Diverso quando rientro dal lavoro: sudato, attaccaticcio, distrutto, dopo ore ed ore di interrogatori in questura, di routine con quellagente che ogni cinque minuti
mette in dubbio la tua virilit e quellaltro che racconta le
corna di tutti e anche le sue ridendoci su ma ci ride
amaro e dietro tutti gli scherzi paura tremenda di non
farcela, di non farcela a scopare.
Ogni tanto mi arriva uno di questi ragazzini coi boccoli, e non parla e mi guarda come fosse colpa mia se esiste
una legge che ci impone di arrestarli quando tentano di
commerciare le loro droghette, e gli chiedo ma dimmi
almeno chi te la vende e lui risponde niente, silenzio
completo, e allora via con la solita vecchia storia detta
con voce sempre meno convinta noi non abbiamo nulla
contro di te, che sei la ruota piccola la vittima il cristo
qualunque, ma cristo c chi lucra alle tue spalle, pensa a
te stesso porcaeva se alle prime armi ascolta senza battere ciglio, magari piagnucola anche, e sbotta qualche nome di cristi qualunque come lui; se invece un habitu, e
magari gi qualche volta labbiamo spedito al Buoncammino per sei mesi, e magari in cella capitato con un vecchio malandro che se l fatto ad amante, allora lui ride, e
ride, e ride da far pena e io ho piet di lui e di me stesso,
ma Luca, che il mio vice, un coglione, ride anche lui e
gli molla un cazzotto in piena faccia e quello sanguina e
sanguina e non smette di ghignare.

Quando rientro, la sera, sono diverso. Non mi piaccio


pi. Faccio schifo. Puzzo di sudore e di fumo e di pesce
fritto e di sugo rancido: perch il sugo da ulcera e il pesce
fritto nellolio di qualche seme putrido sono il meglio
della trattoria dove mi siedo e di fronte ho un altro scapolo sudato e dietro le spalle un altro scapolo sudato e affianco una vecchia zitella con una gonna di lanetta a fiori
fuori moda lunga fino alle caviglie e sporca di giallo duovo e i capelli tinti di rosso tiziano che su quel viso di prugna rinsecchita fanno un belleffetto terrore che piacerebbe a Dario Argento e anchio avrei un attimo di dubbio, se dovesse capitare: una di quelle pazze che prima o
poi trucida con un coltello da macellaio uno spasimante
della sua giovinezza lunico, magari che lha mollata
per sposarsi con unaltra, e ora ha quattro figli e la pancetta e non si ricorda neanche che lei esiste, in questa
trattoria dove tutto attorno stanno altri scapoli sudati tutti immersi nellafa e nellodore di sugo rancido come pesci nel mare quasi senza respirare in un bagno di odori e
vapori che Dante non lo conosceva altrimenti lavrebbe
infilato dritto dritto in una bolgia.
Quando rientro a casa, la sera, ho voglia soltanto di pisciare e di dormire.
Dopo la doccia, che sbatte via lodore di questura e anche i cattivi ricordi, comincio a risorgere. Allora mi siedo
sulla veranda, in penombra, con tutte le ossa e i muscoli
che piano piano, uno ad uno, si abbandonano, staccano i
contatti, si rilassano, e mastico un wurstel arrosto e un
pomodoro e una pesca gialla tagliuzzata in un bicchiere

colmo di vino bianco ghiacciato che sorseggio lentamente guardando le luci tutto attorno delle case che si riflettono sullacqua dello stagno e piano piano il sonno mi
prende e mi trascina fino a letto e io spero di sognare ogni
notte sogni pi belli.
Me li ricordo tutti, i miei sogni. Talmente tutti che potrei elencarli uno per uno, quelli sognati una sola volta e
mai pi ripetuti, e quelli invece che si srotolano come un
gomitolo notte dopo notte, e a volte si interrompono per
una settimana, un mese o un anno, e allimprovviso riprendono proprio dal punto esatto in cui li avevo lasciati.
Come se in testa avessi una sognoteca, e pesco qualcosa
che sempre gi conosco; e ogni volta anche nuovo, con
nuovi sviluppi e svolte inattese e fatti imprevisti.
C un sogno che mi trasporta in una palude che non
ho mai conosciuto, in una citt accaldata come questa,
spietata e pietrosa e acquatica, e nella palude si nascondono insidie e inganni, e personaggi ambigui che mi indirizzano verso strade sbagliate e mi tendono trappole: lacci, buche, falsi richiami. Il mio obiettivo consiste nel raggiungere un isolotto sul quale, in qualche sogno precedente chiss quando, ho abbandonato unauto bianca, e
dentro lauto una donna che non ricordo, ma devo raggiungere ad ogni costo.
Cos tiro avanti, sogno dopo sogno, interrogatorio dopo interrogatorio. Mi lascio vivere cercando di rallentare
i tempi, godendomi i pochi momenti buoni, sfuggendo
alle vecchiaia che mi sembra sempre di vedere dietro
langolo a ogni nuova ruga.

Oggi, mentre uscivo di casa, sentivo una specie di inquietudine strana, come unattesa o una previsione fosca
di fatti nuovi e angoscianti, che non avrei saputo dire
quali, ma anche sapevo che non avrei saputo prevenirli, e
non li avrei vinti una volta che fossero arrivati.
Con questa sensazione addosso stavo dietro la mia scrivania senza nientaltro da fare se non lasciare che i pensieri corressero morbidi uno dopo laltro senza ordine n
autocontrollo, quando entrato Luca eccitato come sempre quando ha sotto i denti un boccone da cui aspetta
soddisfazione la sua anima sadica.
Abbiamo preso una pupa mi ha detto proprio di
fronte alla Chiesa del Polpo, e vedessi che ragazza, meravigliosa, da scopare senza dire amen ma solo grazie a Dio
che lha fatta, e aveva in borsa mezzo chilo di hashish libanese, ottantacinque pastiglie di anfetamina e venti
grammi di eroina pura, e poi siringhe, cartine, bilancini
vari e cos via le solite cose di tutti gli spacciatori... la vuoi
vedere tu?
Chiss se quellattesa di sconvolgimenti era proprio
questarresto ho pensato per un attimo, mentre dicevo
portamela dentro.
entrata con passo di danza, con le gambe lunghe e
nervose e abbronzate di gazzella e le tettine che ballonzolavano sotto la maglietta bianca del coccodrillo e gli occhi
splendenti e senza paura, franchi e allegri, la fanciulla del
piano di sopra, la mia piccolissima passione vissuta tutta
in quegli attimi nellatrio o sullascensore.
Siediti le ho detto, e a Luca lasciaci soli e mi ha

colmo di vino bianco ghiacciato che sorseggio lentamente guardando le luci tutto attorno delle case che si riflettono sullacqua dello stagno e piano piano il sonno mi
prende e mi trascina fino a letto e io spero di sognare ogni
notte sogni pi belli.
Me li ricordo tutti, i miei sogni. Talmente tutti che potrei elencarli uno per uno, quelli sognati una sola volta e
mai pi ripetuti, e quelli invece che si srotolano come un
gomitolo notte dopo notte, e a volte si interrompono per
una settimana, un mese o un anno, e allimprovviso riprendono proprio dal punto esatto in cui li avevo lasciati.
Come se in testa avessi una sognoteca, e pesco qualcosa
che sempre gi conosco; e ogni volta anche nuovo, con
nuovi sviluppi e svolte inattese e fatti imprevisti.
C un sogno che mi trasporta in una palude che non
ho mai conosciuto, in una citt accaldata come questa,
spietata e pietrosa e acquatica, e nella palude si nascondono insidie e inganni, e personaggi ambigui che mi indirizzano verso strade sbagliate e mi tendono trappole: lacci, buche, falsi richiami. Il mio obiettivo consiste nel raggiungere un isolotto sul quale, in qualche sogno precedente chiss quando, ho abbandonato unauto bianca, e
dentro lauto una donna che non ricordo, ma devo raggiungere ad ogni costo.
Cos tiro avanti, sogno dopo sogno, interrogatorio dopo interrogatorio. Mi lascio vivere cercando di rallentare
i tempi, godendomi i pochi momenti buoni, sfuggendo
alle vecchiaia che mi sembra sempre di vedere dietro
langolo a ogni nuova ruga.

Oggi, mentre uscivo di casa, sentivo una specie di inquietudine strana, come unattesa o una previsione fosca
di fatti nuovi e angoscianti, che non avrei saputo dire
quali, ma anche sapevo che non avrei saputo prevenirli, e
non li avrei vinti una volta che fossero arrivati.
Con questa sensazione addosso stavo dietro la mia scrivania senza nientaltro da fare se non lasciare che i pensieri corressero morbidi uno dopo laltro senza ordine n
autocontrollo, quando entrato Luca eccitato come sempre quando ha sotto i denti un boccone da cui aspetta
soddisfazione la sua anima sadica.
Abbiamo preso una pupa mi ha detto proprio di
fronte alla Chiesa del Polpo, e vedessi che ragazza, meravigliosa, da scopare senza dire amen ma solo grazie a Dio
che lha fatta, e aveva in borsa mezzo chilo di hashish libanese, ottantacinque pastiglie di anfetamina e venti
grammi di eroina pura, e poi siringhe, cartine, bilancini
vari e cos via le solite cose di tutti gli spacciatori... la vuoi
vedere tu?
Chiss se quellattesa di sconvolgimenti era proprio
questarresto ho pensato per un attimo, mentre dicevo
portamela dentro.
entrata con passo di danza, con le gambe lunghe e
nervose e abbronzate di gazzella e le tettine che ballonzolavano sotto la maglietta bianca del coccodrillo e gli occhi
splendenti e senza paura, franchi e allegri, la fanciulla del
piano di sopra, la mia piccolissima passione vissuta tutta
in quegli attimi nellatrio o sullascensore.
Siediti le ho detto, e a Luca lasciaci soli e mi ha

guardato furioso, per tutto il divertimento che si era pregustato e che ora io gli strappavo via in un attimo. Sto
qui fuori, pronto, nel caso avessi bisogno di aiuto ha replicato, con ancora qualche cenno di speranza nella voce.
Soli.
Soli. Lho guardata a lungo senza dire una parola. Lei
altrettanto. Per minuti e minuti lunghi e teneri.
Ecco il corpo del reato rientrato Luca allimprovviso, portando pacchi e pacchetti che mi ha lasciato sulla
scrivania, sperando in un cenno che volesse dire resta
ma che io non ho fatto, anzi, fuori dai piedi gli ho urlato.
Ancora e ancora sguardi e silenzi. Fino a che lei si solleva dalla sedia e mi si avvicina, mi mette a nudo il braccio e
io tremo, stringe con un laccio emostatico, e cos il suo
braccio, raccoglie una siringa e una fialetta dacqua distillata dal ripiano della scrivania, mescola con un tanto di
polvere bianca riscaldata su un cucchiaino, inietta nella
mia vena e nella sua vena, con la stessa siringa, e sorride
dolcissima a me e al mondo.
Con la stessa siringa.
Poi raccoglie tutte le sue cose, rimette tutto in borsa,
con una mano si aggiusta una ciocca di capelli, poi si china, mi sfiora le labbra con un bacio e mi sussurra, con una
voce delicata che non avevo mai sentito, solo in qualche
sogno perduto chiss dove e quando, come un canto dice
andiamo e mi prende per mano.
Ed stato cos che siamo saltati dalla mia finestra al
quinto piano della questura.

E ora siamo quaggi in questo mio sogno in questa auto


bianca.
In un isolotto al centro di una palude piena di trappole
e inganni.
E lentamente ci spogliamo di tutto quello che resta.

guardato furioso, per tutto il divertimento che si era pregustato e che ora io gli strappavo via in un attimo. Sto
qui fuori, pronto, nel caso avessi bisogno di aiuto ha replicato, con ancora qualche cenno di speranza nella voce.
Soli.
Soli. Lho guardata a lungo senza dire una parola. Lei
altrettanto. Per minuti e minuti lunghi e teneri.
Ecco il corpo del reato rientrato Luca allimprovviso, portando pacchi e pacchetti che mi ha lasciato sulla
scrivania, sperando in un cenno che volesse dire resta
ma che io non ho fatto, anzi, fuori dai piedi gli ho urlato.
Ancora e ancora sguardi e silenzi. Fino a che lei si solleva dalla sedia e mi si avvicina, mi mette a nudo il braccio e
io tremo, stringe con un laccio emostatico, e cos il suo
braccio, raccoglie una siringa e una fialetta dacqua distillata dal ripiano della scrivania, mescola con un tanto di
polvere bianca riscaldata su un cucchiaino, inietta nella
mia vena e nella sua vena, con la stessa siringa, e sorride
dolcissima a me e al mondo.
Con la stessa siringa.
Poi raccoglie tutte le sue cose, rimette tutto in borsa,
con una mano si aggiusta una ciocca di capelli, poi si china, mi sfiora le labbra con un bacio e mi sussurra, con una
voce delicata che non avevo mai sentito, solo in qualche
sogno perduto chiss dove e quando, come un canto dice
andiamo e mi prende per mano.
Ed stato cos che siamo saltati dalla mia finestra al
quinto piano della questura.

E ora siamo quaggi in questo mio sogno in questa auto


bianca.
In un isolotto al centro di una palude piena di trappole
e inganni.
E lentamente ci spogliamo di tutto quello che resta.

Il vento soffia, dai bastioni

Era una sera di marzo. Una di quelle sere solari, con la


luce che carezza la citt in un saluto dolce.
Era una sera di marzo, quando il vento uccise mio padre. Mio padre stava seduto sul bastione grande. Seduto
e immobile guardava le barche da pesca che uscivano dal
porto. Come tutte le sere della sua vita, come tutte le altre
sere, seduto che pareva un pensionato che si gode lultimo sole dellultimo giorno, guardava le barche da pesca
che uscivano, con occhi che avresti detto di amante dei
paesaggi romantici, e invece controllava gli equipaggi, e
molti visi di chi si preparava a uscire si voltavano a guardarlo, seduto sopra la loro testa, cento metri pi in alto,
che controllava tutto come un buon padrone.
Il vento, hanno detto. arrivato un maestrale improvviso, una maledetta folata di maestrale a centoquaranta
lora, che ha prelevato il vecchio dalla cima del bastione,
e lha fatto volare per cento metri in basso, a spiaccicarsi
sui ciottoli gialli e rossi della piazzetta del mercato.
Qualunque cosa ti dicano, figlio mio, qualunque racconto fatato ti facciano, la colpa di quello che succede, di
tutto, la colpa e il merito delle cose belle e brutte, la colpa
e il merito sono sempre degli uomini. Luomo fa e disfa.
Non c Dio che tenga. Cos mi diceva mio padre. Non
una volta sola, lha ripetuto.

Il vento soffia, dai bastioni

Era una sera di marzo. Una di quelle sere solari, con la


luce che carezza la citt in un saluto dolce.
Era una sera di marzo, quando il vento uccise mio padre. Mio padre stava seduto sul bastione grande. Seduto
e immobile guardava le barche da pesca che uscivano dal
porto. Come tutte le sere della sua vita, come tutte le altre
sere, seduto che pareva un pensionato che si gode lultimo sole dellultimo giorno, guardava le barche da pesca
che uscivano, con occhi che avresti detto di amante dei
paesaggi romantici, e invece controllava gli equipaggi, e
molti visi di chi si preparava a uscire si voltavano a guardarlo, seduto sopra la loro testa, cento metri pi in alto,
che controllava tutto come un buon padrone.
Il vento, hanno detto. arrivato un maestrale improvviso, una maledetta folata di maestrale a centoquaranta
lora, che ha prelevato il vecchio dalla cima del bastione,
e lha fatto volare per cento metri in basso, a spiaccicarsi
sui ciottoli gialli e rossi della piazzetta del mercato.
Qualunque cosa ti dicano, figlio mio, qualunque racconto fatato ti facciano, la colpa di quello che succede, di
tutto, la colpa e il merito delle cose belle e brutte, la colpa
e il merito sono sempre degli uomini. Luomo fa e disfa.
Non c Dio che tenga. Cos mi diceva mio padre. Non
una volta sola, lha ripetuto.

Il vento, dicevano. Tutti. Anche gli amici. Anche i carabinieri.


Ma il vento come Dio, pensavo. Il vento non si vede.
Non mi riusciva di immaginare questa mano che prende
il vecchio, lo strappa alle sue radici e lo butta gi. Perch
era vecchio ma quattro sere prima che venisse il vento
aveva dato una battuta, lui, il vecchio, ad un coatto ventenne grande come un armadio, bravo a pestare, coraggioso quanto basta. E il vecchio laveva piegato, con quelle braccia come alberi secchi, che nella lotta diventavano
ferro.
Il vento pu portare via un uomo-uccello, un uomopiuma, anche un uomo-fiore. Ma il vento non riuscir
mai a muovere un uomo-roccia, un uomo-pietra.
Il vento, dicevano. Ma io sapevo che mai nessun vento
al mondo ce lavrebbe fatta, con quel vecchio bestione
selvatico chera mio padre.
E cos mi sono dato la prima parte della risposta. Il vento non lha ucciso. Se non stato il vento, chi...?
La seconda parte della risposta tardava ad arrivare.
Poi arrivato il funerale. Io stavo pronto a prendere il
posto in prima fila dietro la bara nera e dorata portata
sulle spalle a turno da tutti i pescatori del porto. Ero
pronto ad occupare il posto che mi spettava, il primo dietro la bara, attraverso tutti i vicoli della Marina, a passo
lento, e le donne piangevano alle finestre. Piangevano
tutti. Tutti piangevano il vecchio padrone buono che dava gli incarichi sulle barche, e decideva il prezzo del pesce al mercato, e quanto ad ogni venditore, e quanto ad

ogni pescatore. Un padrone buono: con la sua parte di intermediazione (su tutto quello che passava nel porto)
aveva pagato, per ventanni, tutti i funerali di tutti i morti
in mare. Pi un padre che un padrone. Per questo lo
piangevano.
E io, io che sono lunico figlio maschio, io che non ho
paura di sobbarcarmi il peso delleredit di mio padre, io
che camminando dietro la bara per primo avrei comunicato al mondo la mia volont. Io sono stato mandato in
terza fila.
Dietro la bara solo la moglie addolorata, avevano deciso.
Subito dopo, i pi importanti fra gli uomini che avevano obbedito al vecchio in questo ventennio. E fra loro,
proprio al centro e mezzo passo avanti, Nicola senzapelo.
Nicola senzapelo mezzo passo avanti, con le lacrime
agli occhi, e piangeva mio padre, come fosse stato suo padre. Tutti lhanno visto. E hanno capito tutti che non doveva essere stata una decisione difficile. In due giorni di
veglia al morto, avevano gi deciso la faccia del nuovo padrone. Nicola senzapelo, che mio padre, quando stava
con gli amici pi fidati, diceva: Nicola, un mezzouomo, e sputava in un angolo il suo disprezzo.
E infatti, mio padre era stato appena appena infilato in
un tombino di cemento nel cimitero nuovo, un tombino
di cemento fra altri cinquecento, come un morto qualunque, trattato peggio dei suoi pescatori, mio padre era stato appena infilato in quello schifo di tombino, e gi Nico-

Il vento, dicevano. Tutti. Anche gli amici. Anche i carabinieri.


Ma il vento come Dio, pensavo. Il vento non si vede.
Non mi riusciva di immaginare questa mano che prende
il vecchio, lo strappa alle sue radici e lo butta gi. Perch
era vecchio ma quattro sere prima che venisse il vento
aveva dato una battuta, lui, il vecchio, ad un coatto ventenne grande come un armadio, bravo a pestare, coraggioso quanto basta. E il vecchio laveva piegato, con quelle braccia come alberi secchi, che nella lotta diventavano
ferro.
Il vento pu portare via un uomo-uccello, un uomopiuma, anche un uomo-fiore. Ma il vento non riuscir
mai a muovere un uomo-roccia, un uomo-pietra.
Il vento, dicevano. Ma io sapevo che mai nessun vento
al mondo ce lavrebbe fatta, con quel vecchio bestione
selvatico chera mio padre.
E cos mi sono dato la prima parte della risposta. Il vento non lha ucciso. Se non stato il vento, chi...?
La seconda parte della risposta tardava ad arrivare.
Poi arrivato il funerale. Io stavo pronto a prendere il
posto in prima fila dietro la bara nera e dorata portata
sulle spalle a turno da tutti i pescatori del porto. Ero
pronto ad occupare il posto che mi spettava, il primo dietro la bara, attraverso tutti i vicoli della Marina, a passo
lento, e le donne piangevano alle finestre. Piangevano
tutti. Tutti piangevano il vecchio padrone buono che dava gli incarichi sulle barche, e decideva il prezzo del pesce al mercato, e quanto ad ogni venditore, e quanto ad

ogni pescatore. Un padrone buono: con la sua parte di intermediazione (su tutto quello che passava nel porto)
aveva pagato, per ventanni, tutti i funerali di tutti i morti
in mare. Pi un padre che un padrone. Per questo lo
piangevano.
E io, io che sono lunico figlio maschio, io che non ho
paura di sobbarcarmi il peso delleredit di mio padre, io
che camminando dietro la bara per primo avrei comunicato al mondo la mia volont. Io sono stato mandato in
terza fila.
Dietro la bara solo la moglie addolorata, avevano deciso.
Subito dopo, i pi importanti fra gli uomini che avevano obbedito al vecchio in questo ventennio. E fra loro,
proprio al centro e mezzo passo avanti, Nicola senzapelo.
Nicola senzapelo mezzo passo avanti, con le lacrime
agli occhi, e piangeva mio padre, come fosse stato suo padre. Tutti lhanno visto. E hanno capito tutti che non doveva essere stata una decisione difficile. In due giorni di
veglia al morto, avevano gi deciso la faccia del nuovo padrone. Nicola senzapelo, che mio padre, quando stava
con gli amici pi fidati, diceva: Nicola, un mezzouomo, e sputava in un angolo il suo disprezzo.
E infatti, mio padre era stato appena appena infilato in
un tombino di cemento nel cimitero nuovo, un tombino
di cemento fra altri cinquecento, come un morto qualunque, trattato peggio dei suoi pescatori, mio padre era stato appena infilato in quello schifo di tombino, e gi Nico-

la dettava gli ordini alla partenza delle barche. Non stava


sul bastione, lui. Stava in piedi, sul molo.
Ancora pensavo che niente dimportante sarebbe cambiato.
Ma non erano passati tre giorni che Nicola mi ha mandato a chiamare, e con la scusa delle condoglianze mi ha
spostato, dal controllo del mercato allingrosso, al comando di una scassatissima barca da pesca. A quel punto
ho capito che non aveva la volont di rispettare la memoria del defunto.
Sono stato a trovare i suoi vecchi amici, uno per uno.
Quelli che si lamentavano dei mali della vecchiaia, e ricordavano la giovent, dietro un bicchiere di vino, rifiutandosi di parlare della morte del buon padrone, questi
erano i migliori. Perch molti altri non si son fatti trovare,
in casa. E hanno smesso di incontrarmi, alla passeggiata,
sotto i portici: stavo per incrociarli ed erano gi spariti.
Finch Nicola mi ha chiamato nuovamente, e mi ha
detto che i morti son morti, e i vivi son vivi, ed era inutile
che andassi a disturbare tanta brava gente con ricordi che
non servivano, tanta brava gente che voleva pensare a lavorare. E mi ha tolto il comando della barca e mi ha spostato alla pesa del pescato, sotto Antioco lumaca.
Antioco lumaca! Prendere ordini da Antioco lumaca!
Una sola persona ha guadagnato dalla morte di mio padre. Solo Nicola. E una sola persona voleva diminuire la
memoria di mio padre, infangando il figlio. Sempre Nicola.

Poi, una sera di luglio, con la luce spiovente sul molo di


ponente, ormai quasi buio, ho visto Nicola che si avvicinava al bastione su cui era stato seduto mio padre, tutte le
sere per ventanni. E l si fermava, a lungo, e dove si era
spiaccicato il vecchio.
A quel punto, proprio allora, ho saputo che non era stato il vento, che non cera stata una manata di maestrale a
strappare il vecchio dalle sue pietre. Ma mani di uomo
lavevano strappato e gettato via. E ho capito anche chi
aveva guidato quelle mani.
Laltra notte cera una specie di musica, nellaria, di
questo principio di agosto, una musica con voci di gabbiani e urla di donne dalle finestre. Una musica tranquilla. Sono entrato a casa di Nicola dal cortile dellalbero di
fico. Dalla finestra della camera ho visto Elena la moglie del nuovo padrone. Ho visto Elena che si sdraiava
sotto un lenzuolo bianco profumato. Aspettava Nicola. E
invece arrivato il mio coltello, che gli ha squarciato prima la gioia di vivere che il ventre.
Quando entrato Nicola, unora pi tardi, il lenzuolo
era rosso, e Elena sembrava una capretta pronta ad arrostire, aperta dalla pancia alla gola. Mancava solo il mirto.
Nicola non ha fatto in tempo a capire completamente
tutto, perch io ho sparato subito, appena i suoi occhi mi
hanno incontrato sulla loro strada. E ho sparato ancora e
ancora. Ho tirato fuori il coltello.
Quando sono andato via, Elena sembrava viva, rispetto
a Nicola. La testa di Nicola sul com e i piedi sotto al letto, come il verso di una filastrocca.

la dettava gli ordini alla partenza delle barche. Non stava


sul bastione, lui. Stava in piedi, sul molo.
Ancora pensavo che niente dimportante sarebbe cambiato.
Ma non erano passati tre giorni che Nicola mi ha mandato a chiamare, e con la scusa delle condoglianze mi ha
spostato, dal controllo del mercato allingrosso, al comando di una scassatissima barca da pesca. A quel punto
ho capito che non aveva la volont di rispettare la memoria del defunto.
Sono stato a trovare i suoi vecchi amici, uno per uno.
Quelli che si lamentavano dei mali della vecchiaia, e ricordavano la giovent, dietro un bicchiere di vino, rifiutandosi di parlare della morte del buon padrone, questi
erano i migliori. Perch molti altri non si son fatti trovare,
in casa. E hanno smesso di incontrarmi, alla passeggiata,
sotto i portici: stavo per incrociarli ed erano gi spariti.
Finch Nicola mi ha chiamato nuovamente, e mi ha
detto che i morti son morti, e i vivi son vivi, ed era inutile
che andassi a disturbare tanta brava gente con ricordi che
non servivano, tanta brava gente che voleva pensare a lavorare. E mi ha tolto il comando della barca e mi ha spostato alla pesa del pescato, sotto Antioco lumaca.
Antioco lumaca! Prendere ordini da Antioco lumaca!
Una sola persona ha guadagnato dalla morte di mio padre. Solo Nicola. E una sola persona voleva diminuire la
memoria di mio padre, infangando il figlio. Sempre Nicola.

Poi, una sera di luglio, con la luce spiovente sul molo di


ponente, ormai quasi buio, ho visto Nicola che si avvicinava al bastione su cui era stato seduto mio padre, tutte le
sere per ventanni. E l si fermava, a lungo, e dove si era
spiaccicato il vecchio.
A quel punto, proprio allora, ho saputo che non era stato il vento, che non cera stata una manata di maestrale a
strappare il vecchio dalle sue pietre. Ma mani di uomo
lavevano strappato e gettato via. E ho capito anche chi
aveva guidato quelle mani.
Laltra notte cera una specie di musica, nellaria, di
questo principio di agosto, una musica con voci di gabbiani e urla di donne dalle finestre. Una musica tranquilla. Sono entrato a casa di Nicola dal cortile dellalbero di
fico. Dalla finestra della camera ho visto Elena la moglie del nuovo padrone. Ho visto Elena che si sdraiava
sotto un lenzuolo bianco profumato. Aspettava Nicola. E
invece arrivato il mio coltello, che gli ha squarciato prima la gioia di vivere che il ventre.
Quando entrato Nicola, unora pi tardi, il lenzuolo
era rosso, e Elena sembrava una capretta pronta ad arrostire, aperta dalla pancia alla gola. Mancava solo il mirto.
Nicola non ha fatto in tempo a capire completamente
tutto, perch io ho sparato subito, appena i suoi occhi mi
hanno incontrato sulla loro strada. E ho sparato ancora e
ancora. Ho tirato fuori il coltello.
Quando sono andato via, Elena sembrava viva, rispetto
a Nicola. La testa di Nicola sul com e i piedi sotto al letto, come il verso di una filastrocca.

Ieri mattina con quel levante morbido, e profumato di


sabbia, che entrava nella pelle e nella bocca al mercato,
le voci dei venditori erano mosce, spaurite.
Quando son sceso da Castello e mi sono infilato fra i primi banchi, si fatto silenzio, al mercato.
Io ho salutato tutti, per educazione.
Davanti al banco di Cesare toccheffuggi mi sono fermato. Ho esclamato, a voce alta: Nicola senzapelo, un
mezzuomo, e ho sputato in un angolo, con disprezzo.
Poi ho guardato negli occhi Cesare toccheffuggi, che a
Nicola gli era cognato, e ho gettato sui suoi gamberi la mano destra dellassassino di mio padre.
Mentre uscivo dal mercato tutti mi salutavano. Tutti.
Anche le pietre. Anche i muti. Anche i cartellini dei prezzi. E tutti giuravano e spergiuravano che non avevano mai
dimenticato mio padre. E chi in questi mesi mi aveva sfuggito, si nascondeva dietro le palpebre abbassate, mentre
salutava con rispetto.
venuto il maresciallo Savona, a prendermi a casa. Era
venuto lui anche quellaltra volta, quella del furto nella
villa di quellingegnere. Mi conosceva bene.
Cazzo mi ha detto hai proprio combinato un bel casino. Non ti bastato il macello. Hai anche voluto metterci sotto la firma, di persona, davanti a tutto il mercato.
Io mica volevo fare il delitto perfetto gli ho risposto
mentre mi portava in caserma io volevo soltanto bastonare quel vento che si era preso mio padre dal bastione.
Quel vento, non strapper pi niente, da questa terra.

Un duello

Viveva in una vecchia prigione. Sul fondo, oscuro, di


un pozzo. In una citt di provincia. Tanto lontana dal
cuore dellimpero. Attardata su se stessa, decaduta e dolente.
Una prigione cagliaritana, sulla cima di un vecchio colle. Un carcere del passato, con le bocche di lupo, e i soldati col fucile carico che passeggiavano da una garitta allaltra, sulle mura di cinta.
Viveva in una cella comune, con altri due galeotti qualunque. Una cella umida, scura, sovraffollata e maleodorante.
Non si lamentava. Mai.
Era giunto a una differente conclusione: che gli servissero, quelle quattro pareti, e dessero, colloppressione, al
suo animo, la forza di reagire, di combattere di vivere,
in buona sostanza. In una situazione di libert, avrebbe
pensato, piuttosto, alle dolcezze del vivere, al cibo, alle
donne, e si sarebbe lasciato morire nellincoscienza di altre, e ben pi potenti, pareti nel mondo di fuori, pareti
nascoste, ma incombenti, minacciose.
Lui le vedeva, le pareti del mondo, dal fondo del suo
pozzo.
Affrontava, dunque, con tranquillit, la vita, nel vec

Ieri mattina con quel levante morbido, e profumato di


sabbia, che entrava nella pelle e nella bocca al mercato,
le voci dei venditori erano mosce, spaurite.
Quando son sceso da Castello e mi sono infilato fra i primi banchi, si fatto silenzio, al mercato.
Io ho salutato tutti, per educazione.
Davanti al banco di Cesare toccheffuggi mi sono fermato. Ho esclamato, a voce alta: Nicola senzapelo, un
mezzuomo, e ho sputato in un angolo, con disprezzo.
Poi ho guardato negli occhi Cesare toccheffuggi, che a
Nicola gli era cognato, e ho gettato sui suoi gamberi la mano destra dellassassino di mio padre.
Mentre uscivo dal mercato tutti mi salutavano. Tutti.
Anche le pietre. Anche i muti. Anche i cartellini dei prezzi. E tutti giuravano e spergiuravano che non avevano mai
dimenticato mio padre. E chi in questi mesi mi aveva sfuggito, si nascondeva dietro le palpebre abbassate, mentre
salutava con rispetto.
venuto il maresciallo Savona, a prendermi a casa. Era
venuto lui anche quellaltra volta, quella del furto nella
villa di quellingegnere. Mi conosceva bene.
Cazzo mi ha detto hai proprio combinato un bel casino. Non ti bastato il macello. Hai anche voluto metterci sotto la firma, di persona, davanti a tutto il mercato.
Io mica volevo fare il delitto perfetto gli ho risposto
mentre mi portava in caserma io volevo soltanto bastonare quel vento che si era preso mio padre dal bastione.
Quel vento, non strapper pi niente, da questa terra.

Un duello

Viveva in una vecchia prigione. Sul fondo, oscuro, di


un pozzo. In una citt di provincia. Tanto lontana dal
cuore dellimpero. Attardata su se stessa, decaduta e dolente.
Una prigione cagliaritana, sulla cima di un vecchio colle. Un carcere del passato, con le bocche di lupo, e i soldati col fucile carico che passeggiavano da una garitta allaltra, sulle mura di cinta.
Viveva in una cella comune, con altri due galeotti qualunque. Una cella umida, scura, sovraffollata e maleodorante.
Non si lamentava. Mai.
Era giunto a una differente conclusione: che gli servissero, quelle quattro pareti, e dessero, colloppressione, al
suo animo, la forza di reagire, di combattere di vivere,
in buona sostanza. In una situazione di libert, avrebbe
pensato, piuttosto, alle dolcezze del vivere, al cibo, alle
donne, e si sarebbe lasciato morire nellincoscienza di altre, e ben pi potenti, pareti nel mondo di fuori, pareti
nascoste, ma incombenti, minacciose.
Lui le vedeva, le pareti del mondo, dal fondo del suo
pozzo.
Affrontava, dunque, con tranquillit, la vita, nel vec

chio carcere. Colla pazienza di certi filosofi del passato,


col loro ascetico estraniarsi dalle brutture del mondo visibile. E con un fare da rivoluzionario rassegnato, capace
solo di discutere e scontrarsi con se stesso.
Un vecchio detenuto, irascibile e solitario, silenzioso.
Che sognava di assistere, un giorno, a una generale,
apocalittica, luminosa distruzione di tutti i carceri del
mondo.
Intanto, lui, giocava a scacchi.
Nella sua cella, ogni lunga serata, era dedicata ad estenuanti partite con certi altri carcerati, che parevano soci
di una stessa setta segreta, chiusi e taciturni. Visionari e
rassegnati.
Nel cortile dellaria, le lunghe ore solitarie e le poche
parole erano continuamente impegnate nellesame di
certe, difficoltose, partite. Una riflessione continua, colta, scientifica.
***

Ha appreso larte di difendersi, colla sapienza di generazioni di mercanti orientali, pronti al colpo improvviso,
astuti come pirati, e rapaci.
E quella di attaccare, con la violenza di unaquila, sempre al momento giusto, quando il nemico si gi perduto
da se stesso.
Un maestro, nellarte degli scacchi. Ha giocato persino
col direttore del carcere, una partita memorabile.

***
Una serata di aprile. Il vecchio stava nel fondo del suo
pozzo, curvo sulla scacchiera, accovacciato per terra,
sporco.
Sono arrivate le guardie, e lhanno portato via. Attraverso cunicoli solitamente sbarrati, per lunghi anditi sconosciuti, fuori dalla cerchia delle bocche di lupo, fino a
una stanza illuminata da un finestrone grande quanto
uno schermo cinematografico.
Sul fondo della visione, il mare.
Ha sostato, incantato, cogli occhi sul mondo di fuori,
sulla dolcezza del pomeriggio, sul brulichio della citt,
sui chiarori dellacqua. Finch la voce del direttore non
lha ricondotto alla realt.
Un invito per una partita a scacchi.
Lui ha accettato, ponendo una sola condizione: che il
tavolino fosse posto di fronte alla finestra, alla luce del
sole.
Si dovuto accorgere ben presto che il signor direttore veniva da intensi studi, chino sui libri di teoria, e conosceva molte situazioni, praticamente a memoria.
Un avversario scorbutico: chiss per quanto tempo si
preparato a questa partita.
Il detenuto, incantato dal sole, si lascia vincere: addolcito dal dono ricevuto, ringrazia il suo benefattore. Una
difesa meccanica, estatica, benevola, perdente.
Il direttore circondato. Attorno a lui certi vecchi amici, giornalisti. E le guardie, armate. Alla conclusione della

chio carcere. Colla pazienza di certi filosofi del passato,


col loro ascetico estraniarsi dalle brutture del mondo visibile. E con un fare da rivoluzionario rassegnato, capace
solo di discutere e scontrarsi con se stesso.
Un vecchio detenuto, irascibile e solitario, silenzioso.
Che sognava di assistere, un giorno, a una generale,
apocalittica, luminosa distruzione di tutti i carceri del
mondo.
Intanto, lui, giocava a scacchi.
Nella sua cella, ogni lunga serata, era dedicata ad estenuanti partite con certi altri carcerati, che parevano soci
di una stessa setta segreta, chiusi e taciturni. Visionari e
rassegnati.
Nel cortile dellaria, le lunghe ore solitarie e le poche
parole erano continuamente impegnate nellesame di
certe, difficoltose, partite. Una riflessione continua, colta, scientifica.
***

Ha appreso larte di difendersi, colla sapienza di generazioni di mercanti orientali, pronti al colpo improvviso,
astuti come pirati, e rapaci.
E quella di attaccare, con la violenza di unaquila, sempre al momento giusto, quando il nemico si gi perduto
da se stesso.
Un maestro, nellarte degli scacchi. Ha giocato persino
col direttore del carcere, una partita memorabile.

***
Una serata di aprile. Il vecchio stava nel fondo del suo
pozzo, curvo sulla scacchiera, accovacciato per terra,
sporco.
Sono arrivate le guardie, e lhanno portato via. Attraverso cunicoli solitamente sbarrati, per lunghi anditi sconosciuti, fuori dalla cerchia delle bocche di lupo, fino a
una stanza illuminata da un finestrone grande quanto
uno schermo cinematografico.
Sul fondo della visione, il mare.
Ha sostato, incantato, cogli occhi sul mondo di fuori,
sulla dolcezza del pomeriggio, sul brulichio della citt,
sui chiarori dellacqua. Finch la voce del direttore non
lha ricondotto alla realt.
Un invito per una partita a scacchi.
Lui ha accettato, ponendo una sola condizione: che il
tavolino fosse posto di fronte alla finestra, alla luce del
sole.
Si dovuto accorgere ben presto che il signor direttore veniva da intensi studi, chino sui libri di teoria, e conosceva molte situazioni, praticamente a memoria.
Un avversario scorbutico: chiss per quanto tempo si
preparato a questa partita.
Il detenuto, incantato dal sole, si lascia vincere: addolcito dal dono ricevuto, ringrazia il suo benefattore. Una
difesa meccanica, estatica, benevola, perdente.
Il direttore circondato. Attorno a lui certi vecchi amici, giornalisti. E le guardie, armate. Alla conclusione della

partita ha offerto un goccio di brandy al detenuto. E ha


commentato, con gli amici: il carcere mitizza troppe cose, cari miei, al giorno doggi, credetemi!
Il maestro carcerato, interrotto il sogno, ha reagito con
una certa durezza. Le tre partite successive, circondato
pure dalla luce, e da uomini sconosciuti, si rinchiuso
nella propria concentrazione, come fosse nel fondo di un
pozzo, circondato dalle stesse pareti, luride, di ogni altro
giorno.
E ha umiliato il benevolo signore straniero, suo signore
e padrone, lha gettato nel fango, e calpestato.
In tre lunghe partite, proseguite finch la finestra non
rimandava nientaltro che luci di lontani lampioni, e barlumi luccicanti di qualcosa sul mare, il detenuto ha stravinto su un direttore sempre pi stravolto e distrutto e
pazzo.
Vedete, cari signori ha detto poi agli amici di quellaltro, e alle guardie armate la scienza ha lo stesso esatto
valore, dentro o fuori da un carcere.
Lhanno riaccompagnato in cella. E non stato pi invitato.

Eppure, anche in un animo giusto, albergano desideri e


tentazioni.
Lui, che pareva un uomo tranquillo, un ascetico studioso, un cupo frate della sapienza, proprio lui, evaso assieme ad altri quattro cupi e silenziosi confratelli: son venuti

a prenderli, da fuori: un vero e proprio assalto, con mitra


e bombe a mano.
Nella babele di una guerra simulata, i cinque hanno
varcato il vecchio portone del carcere, sono spariti nel
mezzogiorno, nella citt caotica.
Lui, lex-detenuto, ha mosso i suoi passi con lanimo di
un predestinato alla sconfitta. Ha ripreso a uccidere, a
combattere, ma senza pi fede. Si innamorato di una
guerriera valorosa, senza amore.
Conosceva il limite di un campo di scacchi: e quello era
il solo limite entro cui si sentiva di combattere. Fuori di
quello, tutto il resto gli pareva fragilissima illusione, gioco senza pi scampo.
Troppo chiari, e spiegati, e imbattibili, erano i limiti del
mondo.
Ma proseguiva sulla strada che si era trovato sotto i piedi, senza motivazioni, e pure senza cedimenti: era convinto che non valesse la pena di sforzarsi per mutare il corso
delle cose, e aveva concluso che un impiego quotidiano,
pure vuoto di senso, ha in se stesso, nel suo ripetersi immutabile, una qualche forma di dignit. Era rassegnato al
proprio destino, e preferiva affrontarlo a viso aperto.
Ha vissuto, dunque, una breve e violenta e intensa stagione, fuori dalle mura, con la freddezza di un medico al
capezzale di uno sconosciuto: senza emozioni, senza curiosit, senza passione, senza commozioni.
Un pomeriggio, in solitudine, in una vecchia casa nobiliare, una casa-rifugio, ha affrontato una lunga partita
con se stesso. A scacchi.

***

partita ha offerto un goccio di brandy al detenuto. E ha


commentato, con gli amici: il carcere mitizza troppe cose, cari miei, al giorno doggi, credetemi!
Il maestro carcerato, interrotto il sogno, ha reagito con
una certa durezza. Le tre partite successive, circondato
pure dalla luce, e da uomini sconosciuti, si rinchiuso
nella propria concentrazione, come fosse nel fondo di un
pozzo, circondato dalle stesse pareti, luride, di ogni altro
giorno.
E ha umiliato il benevolo signore straniero, suo signore
e padrone, lha gettato nel fango, e calpestato.
In tre lunghe partite, proseguite finch la finestra non
rimandava nientaltro che luci di lontani lampioni, e barlumi luccicanti di qualcosa sul mare, il detenuto ha stravinto su un direttore sempre pi stravolto e distrutto e
pazzo.
Vedete, cari signori ha detto poi agli amici di quellaltro, e alle guardie armate la scienza ha lo stesso esatto
valore, dentro o fuori da un carcere.
Lhanno riaccompagnato in cella. E non stato pi invitato.

Eppure, anche in un animo giusto, albergano desideri e


tentazioni.
Lui, che pareva un uomo tranquillo, un ascetico studioso, un cupo frate della sapienza, proprio lui, evaso assieme ad altri quattro cupi e silenziosi confratelli: son venuti

a prenderli, da fuori: un vero e proprio assalto, con mitra


e bombe a mano.
Nella babele di una guerra simulata, i cinque hanno
varcato il vecchio portone del carcere, sono spariti nel
mezzogiorno, nella citt caotica.
Lui, lex-detenuto, ha mosso i suoi passi con lanimo di
un predestinato alla sconfitta. Ha ripreso a uccidere, a
combattere, ma senza pi fede. Si innamorato di una
guerriera valorosa, senza amore.
Conosceva il limite di un campo di scacchi: e quello era
il solo limite entro cui si sentiva di combattere. Fuori di
quello, tutto il resto gli pareva fragilissima illusione, gioco senza pi scampo.
Troppo chiari, e spiegati, e imbattibili, erano i limiti del
mondo.
Ma proseguiva sulla strada che si era trovato sotto i piedi, senza motivazioni, e pure senza cedimenti: era convinto che non valesse la pena di sforzarsi per mutare il corso
delle cose, e aveva concluso che un impiego quotidiano,
pure vuoto di senso, ha in se stesso, nel suo ripetersi immutabile, una qualche forma di dignit. Era rassegnato al
proprio destino, e preferiva affrontarlo a viso aperto.
Ha vissuto, dunque, una breve e violenta e intensa stagione, fuori dalle mura, con la freddezza di un medico al
capezzale di uno sconosciuto: senza emozioni, senza curiosit, senza passione, senza commozioni.
Un pomeriggio, in solitudine, in una vecchia casa nobiliare, una casa-rifugio, ha affrontato una lunga partita
con se stesso. A scacchi.

***

Pioveva, e lacqua batteva sulla strada con un fragore


metallico, inatteso.
Ricordava. Una sparatoria, in centro. Una lunga e difficile fuga.
Avrebbe voluto poggiarsi sul ventre della donna delle
sue notti, per dimenticare, e dormire.
Si sentito sopraffatto, dal mondo, e incapace di giocare: distratto, incongruente, con la concentrazione sfilacciata.
Ha ceduto al sonno, senza concludere la partita.
La mattina successiva, allalba, i carabinieri hanno sfondato la porta di casa, e sono entrati, in assetto di guerra.
Si sollevato dal letto, con le mani ben alte e disarmate
sulla testa, che a qualcuno non venisse la paura, e sparasse magari per sbaglio.
Non si sarebbe sorpreso, comunque, se qualcuno di
quelli avesse deciso di premere un grilletto: era gi vinto,
e non fidava nella piet di nessuno.

Questa volta, lhanno spinto ancora pi in fondo, nel


pozzo. Nei sotterranei del carcere-fortezza. In una cella
buia, umida, senza bocca di lupo la luce del giorno,
continuamente surrogata da un tubo al neon.
Ha un solo compagno, questa volta. Un solo coabitatore del tugurio. Uno solo: un assassino.
Un giovane lupo, il suo compagno. Un uomo semplice.
Abituato a vivere in un difficile mondo di lupi: rispondere

colpo su colpo, e, se possibile, colpire per primo. Un compagno aggressivo.


finito, anche lui, lassassino, in fondo al pozzo: ha pugnalato una donna. Forse, la sua amante: era appena uscito di galera, quando lha uccisa. Ha vissuto tre giorni allaria aperta, annusando i profumi del mare, con lansia di
un segugio disperato ch ha perduto la pista, per sempre.
Aveva perduto la pista in un intrico di amici ipocriti e tradimenti soavi. Uccidere la donna. Gli era parsa la soluzione pi immediata, pi semplice, pi lineare.
Per lui era una religione: se ti tradiscono, uccidi. Se ti
fanno male, uccidi se ti opprimono, uccidi. Non farti sottomettere mai da nessuno: combatti, piuttosto. E, se
necessario, muori. Un uomo donore, in unepoca di mediatori sordidi e carogna.
Per tutto il resto, lassassino, era un ragazzo gentile, abile nei giochi, negli scherzi, disposto a sorridere e cantare,
persino attento a non offendere la sensibilit di un amico.
Una buona compagnia, per il carcere.
La loro vita, in fondo al pozzo, ha preso un andamento
regolare. Il vecchio maestro insegna larte degli scacchi al
giovane allievo un allievo promettente, volenteroso, intelligente.
Negli intervalli fra una partita e laltra, alle lezioni di
teoria, si alternano i racconti del giovane assassino. Ricorda episodi della sua vita turbolenta, e li restituisce al singolare uditorio, senza aggiungere n togliere, senza abbellire n incensare: racconta con la cupa convinzione di
un profeta dellomicidio.

***

Pioveva, e lacqua batteva sulla strada con un fragore


metallico, inatteso.
Ricordava. Una sparatoria, in centro. Una lunga e difficile fuga.
Avrebbe voluto poggiarsi sul ventre della donna delle
sue notti, per dimenticare, e dormire.
Si sentito sopraffatto, dal mondo, e incapace di giocare: distratto, incongruente, con la concentrazione sfilacciata.
Ha ceduto al sonno, senza concludere la partita.
La mattina successiva, allalba, i carabinieri hanno sfondato la porta di casa, e sono entrati, in assetto di guerra.
Si sollevato dal letto, con le mani ben alte e disarmate
sulla testa, che a qualcuno non venisse la paura, e sparasse magari per sbaglio.
Non si sarebbe sorpreso, comunque, se qualcuno di
quelli avesse deciso di premere un grilletto: era gi vinto,
e non fidava nella piet di nessuno.

Questa volta, lhanno spinto ancora pi in fondo, nel


pozzo. Nei sotterranei del carcere-fortezza. In una cella
buia, umida, senza bocca di lupo la luce del giorno,
continuamente surrogata da un tubo al neon.
Ha un solo compagno, questa volta. Un solo coabitatore del tugurio. Uno solo: un assassino.
Un giovane lupo, il suo compagno. Un uomo semplice.
Abituato a vivere in un difficile mondo di lupi: rispondere

colpo su colpo, e, se possibile, colpire per primo. Un compagno aggressivo.


finito, anche lui, lassassino, in fondo al pozzo: ha pugnalato una donna. Forse, la sua amante: era appena uscito di galera, quando lha uccisa. Ha vissuto tre giorni allaria aperta, annusando i profumi del mare, con lansia di
un segugio disperato ch ha perduto la pista, per sempre.
Aveva perduto la pista in un intrico di amici ipocriti e tradimenti soavi. Uccidere la donna. Gli era parsa la soluzione pi immediata, pi semplice, pi lineare.
Per lui era una religione: se ti tradiscono, uccidi. Se ti
fanno male, uccidi se ti opprimono, uccidi. Non farti sottomettere mai da nessuno: combatti, piuttosto. E, se
necessario, muori. Un uomo donore, in unepoca di mediatori sordidi e carogna.
Per tutto il resto, lassassino, era un ragazzo gentile, abile nei giochi, negli scherzi, disposto a sorridere e cantare,
persino attento a non offendere la sensibilit di un amico.
Una buona compagnia, per il carcere.
La loro vita, in fondo al pozzo, ha preso un andamento
regolare. Il vecchio maestro insegna larte degli scacchi al
giovane allievo un allievo promettente, volenteroso, intelligente.
Negli intervalli fra una partita e laltra, alle lezioni di
teoria, si alternano i racconti del giovane assassino. Ricorda episodi della sua vita turbolenta, e li restituisce al singolare uditorio, senza aggiungere n togliere, senza abbellire n incensare: racconta con la cupa convinzione di
un profeta dellomicidio.

***

***

Ricorda i nemici, lassassino, uno per uno, nome, cognome e torti ricevuti. E ogni minuto di ogni singolo odio.
Si ritiene innocente, candido di ogni colpa. Lui andava
per la sua strada, tranquillo. Un insulto improvviso, una
carognata, gli ha sbarrato il cammino. stato costretto
a colpire. A organizzare la risposta: la furia immediata
della volpe ferita, o il lungo maturare di una vendetta acuminata.
In ogni singola avventura c stato un momento dominante, bello sopra ogni altro, fascinoso, notturno e brillante. Lo stesso esatto momento, in ognuno dei racconti:
il duello.
Il duello era un agguato notturno in una viuzza animata,
pistola in pugno, a viso scoperto. Perch il nemico morisse conoscendo lidentit precisa di colui che lo mandava a
morire; se avesse avuto tanta forza nellanimo, da rispondere colpo su colpo, e morire combattendo, tanto meglio:
lassassino avrebbe avuto la gioia di vincere in un duello
leale; che si sapesse, che certi uomini non tollerano le offese, e combattono a viso aperto, e vincono le battaglie, uccidono per primi.
Il duello era una leppa di pattada un lungo coltello, col
manico dosso bianco che rifletteva i bagliori di un fuoco notturno, in una pineta lungo il mare, attorniato da
quegli uomini, da quelle donne, da quel popolo di fuorilegge incoscienti ed eroici. Il coltello disegnava le figure
di una danza, preparata con anni di lungo tirocinio, e vis-

suta col sangue freddo dei serpenti: un battaglia sapiente


e feroce.
Il duello era la gioia di una rapina, logica come un teorema di matematica, studiata nei tempi e nelle giravolte,
condotta da un gruppo di lupi perfetti come macchine,
che conoscono il proprio mestiere con la stessa paziente e
precisa conoscenza di certi vecchi artigiani. Lupi coraggiosi e sapienti.
La fede Dio Omicidio era servita da una scienza raffinata: il duello.
Solo mentre combatte, in duello, contro un vero nemico ha sostenuto, una volta, lassassino luomo certamente se stesso: solo allora usa, tutte assieme, le risorse
del suo coraggio, della sua fede, del suo corpo, della sua
intelligenza, della sua scienza.
Solo in un duello regolare.
In un duello regolare, lomicidio non pi una scelta
disumana: la conclusione corretta di un regolarissimo
combattimento. Ad armi pari. Come in una partita di
scacchi. Le regole del gioco, sono diverse. E la posta. La
posta pi alta: unottima ragione per prepararsi a dovere.
Il vecchio maestro di scacchi, che pure non ignorava le
leggi dellassalto a mano armata, diventato allievo dellassassino. Si sottomesso a un duro allenamento quotidiano di mosse e contromosse. Ha ritrovato il gusto di alternare i colpi e il respiro. Ha appreso la risposta pi efficace ad ogni tipo di assalto.
Il maestro insegna allassassino. Lassassino insegna al

***

Ricorda i nemici, lassassino, uno per uno, nome, cognome e torti ricevuti. E ogni minuto di ogni singolo odio.
Si ritiene innocente, candido di ogni colpa. Lui andava
per la sua strada, tranquillo. Un insulto improvviso, una
carognata, gli ha sbarrato il cammino. stato costretto
a colpire. A organizzare la risposta: la furia immediata
della volpe ferita, o il lungo maturare di una vendetta acuminata.
In ogni singola avventura c stato un momento dominante, bello sopra ogni altro, fascinoso, notturno e brillante. Lo stesso esatto momento, in ognuno dei racconti:
il duello.
Il duello era un agguato notturno in una viuzza animata,
pistola in pugno, a viso scoperto. Perch il nemico morisse conoscendo lidentit precisa di colui che lo mandava a
morire; se avesse avuto tanta forza nellanimo, da rispondere colpo su colpo, e morire combattendo, tanto meglio:
lassassino avrebbe avuto la gioia di vincere in un duello
leale; che si sapesse, che certi uomini non tollerano le offese, e combattono a viso aperto, e vincono le battaglie, uccidono per primi.
Il duello era una leppa di pattada un lungo coltello, col
manico dosso bianco che rifletteva i bagliori di un fuoco notturno, in una pineta lungo il mare, attorniato da
quegli uomini, da quelle donne, da quel popolo di fuorilegge incoscienti ed eroici. Il coltello disegnava le figure
di una danza, preparata con anni di lungo tirocinio, e vis-

suta col sangue freddo dei serpenti: un battaglia sapiente


e feroce.
Il duello era la gioia di una rapina, logica come un teorema di matematica, studiata nei tempi e nelle giravolte,
condotta da un gruppo di lupi perfetti come macchine,
che conoscono il proprio mestiere con la stessa paziente e
precisa conoscenza di certi vecchi artigiani. Lupi coraggiosi e sapienti.
La fede Dio Omicidio era servita da una scienza raffinata: il duello.
Solo mentre combatte, in duello, contro un vero nemico ha sostenuto, una volta, lassassino luomo certamente se stesso: solo allora usa, tutte assieme, le risorse
del suo coraggio, della sua fede, del suo corpo, della sua
intelligenza, della sua scienza.
Solo in un duello regolare.
In un duello regolare, lomicidio non pi una scelta
disumana: la conclusione corretta di un regolarissimo
combattimento. Ad armi pari. Come in una partita di
scacchi. Le regole del gioco, sono diverse. E la posta. La
posta pi alta: unottima ragione per prepararsi a dovere.
Il vecchio maestro di scacchi, che pure non ignorava le
leggi dellassalto a mano armata, diventato allievo dellassassino. Si sottomesso a un duro allenamento quotidiano di mosse e contromosse. Ha ritrovato il gusto di alternare i colpi e il respiro. Ha appreso la risposta pi efficace ad ogni tipo di assalto.
Il maestro insegna allassassino. Lassassino insegna al

maestro. Sono, entrambi, maestri e discepoli. Un rapporto solido e caldo, come fratelli.
Cos succede che il loro tirocinio come ogni tirocinio
finisca per rendere lallievo pari al maestro. Si equivalgono negli scacchi. E nella simulazione del duello.
Nella simulazione, corpo a corpo nella cella.
Ma la sapienza non accetta distanza, fra pratica e teoria.
Se duello devessere, sia duello. Per amore di perfezione.
Ora si fronteggiano, al centro del cortile dellaria, sotto
il sole di luglio, con i coltelli in mano, pronti a colpire, e rispondere.
Un vero duello.

Notizia sul testo


Criteri di edizione
Apparati
Nota biobibliografica

maestro. Sono, entrambi, maestri e discepoli. Un rapporto solido e caldo, come fratelli.
Cos succede che il loro tirocinio come ogni tirocinio
finisca per rendere lallievo pari al maestro. Si equivalgono negli scacchi. E nella simulazione del duello.
Nella simulazione, corpo a corpo nella cella.
Ma la sapienza non accetta distanza, fra pratica e teoria.
Se duello devessere, sia duello. Per amore di perfezione.
Ora si fronteggiano, al centro del cortile dellaria, sotto
il sole di luglio, con i coltelli in mano, pronti a colpire, e rispondere.
Un vero duello.

Notizia sul testo


Criteri di edizione
Apparati
Nota biobibliografica

NOTIZIA SUL TESTO

I ventisette racconti che costituiscono il presente volume si trovano in forma dattiloscritta in una cartella di color granata che Sergio Atzeni, quando nel 1986 decide di trasferirsi nel continente, lascia nella propria casa cagliaritana. Custodita in questi anni da
Rossana Copez e dalla figlia Jenny Atzeni, la cartella tornata alla
luce ed stata riesaminata nel 2004, nel corso di una ricerca fra le
carte dautore condotta dalle stesse e da Giancarlo Porcu, editor
della casa editrice Il Maestrale.
I racconti riprodotti in questa edizione rappresentano la gran
parte del contenuto della cartella (27 racconti su un totale di 32),
dattilografati in maniera uniforme (30 righe per foglio, con una
media di 65 caratteri per riga) su un solo lato di fogli che misurano
280 x 213. Anche sotto il profilo redazionale si pu parlare di uniformit, trattandosi di stesure pulite con pochi e non particolarmente significativi interventi correttori dautore a penna blu, di cui
si d comunque conto negli Apparati. I fogli, ordinatamente numerati (in alto al centro), sono raggruppati per racconto e tenuti insieme da graffette (in molti casi si rilevano tracce di punti metallici rimossi).
Per differenti condizioni materiali e redazionali si distingue il
gruppo dei cinque racconti esclusi da questa raccolta: tutti dattilografati su un lato solo di fogli non numerati di mm 296 x 210 (31 righe per foglio, 55 caratteri in media per riga). I racconti sono: Un
amico a Babele, stesura pressoch definitiva del racconto radiofonico (1990) poi a stampa ne Gli anni della grande peste (2003; vedi

NOTIZIA SUL TESTO

I ventisette racconti che costituiscono il presente volume si trovano in forma dattiloscritta in una cartella di color granata che Sergio Atzeni, quando nel 1986 decide di trasferirsi nel continente, lascia nella propria casa cagliaritana. Custodita in questi anni da
Rossana Copez e dalla figlia Jenny Atzeni, la cartella tornata alla
luce ed stata riesaminata nel 2004, nel corso di una ricerca fra le
carte dautore condotta dalle stesse e da Giancarlo Porcu, editor
della casa editrice Il Maestrale.
I racconti riprodotti in questa edizione rappresentano la gran
parte del contenuto della cartella (27 racconti su un totale di 32),
dattilografati in maniera uniforme (30 righe per foglio, con una
media di 65 caratteri per riga) su un solo lato di fogli che misurano
280 x 213. Anche sotto il profilo redazionale si pu parlare di uniformit, trattandosi di stesure pulite con pochi e non particolarmente significativi interventi correttori dautore a penna blu, di cui
si d comunque conto negli Apparati. I fogli, ordinatamente numerati (in alto al centro), sono raggruppati per racconto e tenuti insieme da graffette (in molti casi si rilevano tracce di punti metallici rimossi).
Per differenti condizioni materiali e redazionali si distingue il
gruppo dei cinque racconti esclusi da questa raccolta: tutti dattilografati su un lato solo di fogli non numerati di mm 296 x 210 (31 righe per foglio, 55 caratteri in media per riga). I racconti sono: Un
amico a Babele, stesura pressoch definitiva del racconto radiofonico (1990) poi a stampa ne Gli anni della grande peste (2003; vedi

Nota biobibliografica); Vecchi fantasmi nella citt murata, redazione


collocabile fra la pi antica intitolata Primavera, nella citt murata
(in questo volume) e lultima dal titolo Nella citt murata a stampa
su lUnione Sarda del 4 dicembre 1988 (poi ne Gli anni della
grande peste); La maschera da matto, intermedia, al modo del precedente, fra la redazione intitolata Storia del carnevale e il testo definitivo pubblicato in Stazione di Posta, 36/37, luglio/ottobre
1990 (anchesso ripreso ne Gli anni della grande peste); cui si aggiungono gli inediti: Angeli e un racconto privo di titolo (incipit:
Questestate non la reggo, troppo afosa).

I restanti quattordici racconti (Primavera, nella citt murata;


Rond Final; Un uomo arrivato; Caro Leonardo Sole; Una leggenda
meridionale; Da Nicola a Nicola, il giorno della sua morte; Astrud;
Anche le pratiche possono morire; Rosso di cina; Pornomovie;
Lorso e la faina; Destino questurino; Il vento soffia, dai bastioni; Un
duello) non rispondono ad un esplicito disegno unitario ma mostrano affinit sia interne sia rispetto alle due sezioni sopra illustrate, su cui spiccano identit dambientazione e cifra stilistica.

In cima alla cartella si trovano due fogli sciolti non numerati recanti citazioni, battute sulla parte destra (foglio 1: 29 righe; foglio
2: 15 righe) da D. H. Lawrence (Mare e Sardegna), Elio Vittorini
(Sardegna come uninfanzia) e Salvatore Cambosu (Miele amaro).
Fra i ventisette racconti pubblicati si riconoscono raggruppamenti parzialmente corrispondenti alle sezioni in cui si articola il
nostro ordinamento. I cinque racconti: Meglio fuggire. Sempre; I
bambini; Omicidio sotto la pioggia; Un eroe; Storia di Carluccio, e di
colui che narra sono riconducibili alla serie La citt bianca. La pagina iniziale di ogni racconto, infatti, reca in alto a sinistra, la dicitura
la citt bianca, cassata con un tratto di penna blu. Negli otto racconti: Cero io. Con Stalin; Delirio maschile; Post Office; Storia della
donna; Storia del boxeur; Storia della monaca; Storia coloniale; Storia del carnevale la pagina iniziale di ogni racconto reca, in alto a sinistra, il titolo I sogni della citt bianca, cassato con un tratto di
penna blu. Cinque di questi racconti (Storia della donna; Storia del
boxeur; Storia della monaca; Storia coloniale; Storia del carnevale)
riportano nella pagina iniziale un titolo di sezione aggiuntivo
Frammenti di informazioni attorno alla vita dellarabo Ibrahim,
cui segue, dopo due punti, il titolo del singolo racconto.

Nota biobibliografica); Vecchi fantasmi nella citt murata, redazione


collocabile fra la pi antica intitolata Primavera, nella citt murata
(in questo volume) e lultima dal titolo Nella citt murata a stampa
su lUnione Sarda del 4 dicembre 1988 (poi ne Gli anni della
grande peste); La maschera da matto, intermedia, al modo del precedente, fra la redazione intitolata Storia del carnevale e il testo definitivo pubblicato in Stazione di Posta, 36/37, luglio/ottobre
1990 (anchesso ripreso ne Gli anni della grande peste); cui si aggiungono gli inediti: Angeli e un racconto privo di titolo (incipit:
Questestate non la reggo, troppo afosa).

I restanti quattordici racconti (Primavera, nella citt murata;


Rond Final; Un uomo arrivato; Caro Leonardo Sole; Una leggenda
meridionale; Da Nicola a Nicola, il giorno della sua morte; Astrud;
Anche le pratiche possono morire; Rosso di cina; Pornomovie;
Lorso e la faina; Destino questurino; Il vento soffia, dai bastioni; Un
duello) non rispondono ad un esplicito disegno unitario ma mostrano affinit sia interne sia rispetto alle due sezioni sopra illustrate, su cui spiccano identit dambientazione e cifra stilistica.

In cima alla cartella si trovano due fogli sciolti non numerati recanti citazioni, battute sulla parte destra (foglio 1: 29 righe; foglio
2: 15 righe) da D. H. Lawrence (Mare e Sardegna), Elio Vittorini
(Sardegna come uninfanzia) e Salvatore Cambosu (Miele amaro).
Fra i ventisette racconti pubblicati si riconoscono raggruppamenti parzialmente corrispondenti alle sezioni in cui si articola il
nostro ordinamento. I cinque racconti: Meglio fuggire. Sempre; I
bambini; Omicidio sotto la pioggia; Un eroe; Storia di Carluccio, e di
colui che narra sono riconducibili alla serie La citt bianca. La pagina iniziale di ogni racconto, infatti, reca in alto a sinistra, la dicitura
la citt bianca, cassata con un tratto di penna blu. Negli otto racconti: Cero io. Con Stalin; Delirio maschile; Post Office; Storia della
donna; Storia del boxeur; Storia della monaca; Storia coloniale; Storia del carnevale la pagina iniziale di ogni racconto reca, in alto a sinistra, il titolo I sogni della citt bianca, cassato con un tratto di
penna blu. Cinque di questi racconti (Storia della donna; Storia del
boxeur; Storia della monaca; Storia coloniale; Storia del carnevale)
riportano nella pagina iniziale un titolo di sezione aggiuntivo
Frammenti di informazioni attorno alla vita dellarabo Ibrahim,
cui segue, dopo due punti, il titolo del singolo racconto.

CRITERI DI EDIZIONE

La raccolta si articola in tre sezioni: La citt bianca, I sogni della


citt bianca (con una sottosezione intitolata Frammenti intorno
alla vita dellarabo Ibrahim) e Nella citt murata. Lordinamento
riflette parzialmente loriginaria volont dellautore, come detto
nella Notizia sul testo; risale, infatti, riguardo a La citt bianca e a
I sogni della citt bianca, agli originari titoli di sezione dichiarati
dallautore. Ma per il fatto che sui dattiloscritti tali diciture figurano depennate, abbiamo preferito segnalare questa scelta editoriale ponendo i titoli di sezione fra parentesi quadre. Nostro ,
invece, il titolo di sezione Nella citt murata, anchesso fra parentesi quadre, che comprende il restante gruppo di racconti. Questa
soluzione trae spunto dal titolo di uno dei racconti pi significativi di tale gruppo, Primavera, nella citt murata. Il titolo del volume riprende quello della sezione I sogni della citt bianca.

e limitatamente ai nomi propri di persona (laddove, nellun caso


e nellaltro, lautore usa le minuscole senza apparenti ragioni stilistiche); in tutti gli altri casi si preferito mantenere oscillazione,
in ossequio a ragioni autoriali dichiarate a questo proposito in una
lettera a Loriano Macchiavelli riportata e argomentata da Porcu
nei Criteri di edizione ai Racconti con colonna sonora.
Per quanto concerne le rarissime distrazioni grammaticali, gli
emendamenti riguardano lutilizzo dellapostrofo dopo larticolo
indeterminativo maschile (correggiamo quindi scritture come
unaltro e unincontro), e pochi altri trascorsi. Particolare ,
inoltre, luso dei trattini, utilizzati nei dattiloscritti anche in chiusura di incisi a fine periodo, laddove si optato per leliminazione del trattino conclusivo. Lutilizzo dei trattini nei dattiloscritti
riguarda anche la delimitazione del discorso diretto, in alternanza
con le virgolette; si proceduto ad uniformare attraverso queste
ultime. Gli sporadici casi di parti di testo sottolineate nei dattiloscritti (soprattutto titoli di paragrafo) sono state rese in corsivo.
Tutti gli altri usi, salvo diversa indicazione in apparato, appartengono agli originali.

I testi riproducono con fedelt i dattiloscritti. Si tiene conto


delle correzioni dautore presenti su questi ultimi, portandole a
testo. Si interviene soprattutto sugli accenti, dei quali Atzeni fa un
uso molto personale (almeno fino ai Racconti con colonna sonora,
alla cui recente edizione critica curata da Giancarlo Porcu rinviamo per la trattazione del problema). Vengono cos uniformati:
st (sta), d (do), s (so), se (s), si (s), n (n),
p (po) (), perch (perch), bench (bench), finch (finch), ch (ch) ecc. Nelluso di maiuscole e minuscole
ci si limitati ad inserire sempre le prime al principio di periodo

CRITERI DI EDIZIONE

La raccolta si articola in tre sezioni: La citt bianca, I sogni della


citt bianca (con una sottosezione intitolata Frammenti intorno
alla vita dellarabo Ibrahim) e Nella citt murata. Lordinamento
riflette parzialmente loriginaria volont dellautore, come detto
nella Notizia sul testo; risale, infatti, riguardo a La citt bianca e a
I sogni della citt bianca, agli originari titoli di sezione dichiarati
dallautore. Ma per il fatto che sui dattiloscritti tali diciture figurano depennate, abbiamo preferito segnalare questa scelta editoriale ponendo i titoli di sezione fra parentesi quadre. Nostro ,
invece, il titolo di sezione Nella citt murata, anchesso fra parentesi quadre, che comprende il restante gruppo di racconti. Questa
soluzione trae spunto dal titolo di uno dei racconti pi significativi di tale gruppo, Primavera, nella citt murata. Il titolo del volume riprende quello della sezione I sogni della citt bianca.

e limitatamente ai nomi propri di persona (laddove, nellun caso


e nellaltro, lautore usa le minuscole senza apparenti ragioni stilistiche); in tutti gli altri casi si preferito mantenere oscillazione,
in ossequio a ragioni autoriali dichiarate a questo proposito in una
lettera a Loriano Macchiavelli riportata e argomentata da Porcu
nei Criteri di edizione ai Racconti con colonna sonora.
Per quanto concerne le rarissime distrazioni grammaticali, gli
emendamenti riguardano lutilizzo dellapostrofo dopo larticolo
indeterminativo maschile (correggiamo quindi scritture come
unaltro e unincontro), e pochi altri trascorsi. Particolare ,
inoltre, luso dei trattini, utilizzati nei dattiloscritti anche in chiusura di incisi a fine periodo, laddove si optato per leliminazione del trattino conclusivo. Lutilizzo dei trattini nei dattiloscritti
riguarda anche la delimitazione del discorso diretto, in alternanza
con le virgolette; si proceduto ad uniformare attraverso queste
ultime. Gli sporadici casi di parti di testo sottolineate nei dattiloscritti (soprattutto titoli di paragrafo) sono state rese in corsivo.
Tutti gli altri usi, salvo diversa indicazione in apparato, appartengono agli originali.

I testi riproducono con fedelt i dattiloscritti. Si tiene conto


delle correzioni dautore presenti su questi ultimi, portandole a
testo. Si interviene soprattutto sugli accenti, dei quali Atzeni fa un
uso molto personale (almeno fino ai Racconti con colonna sonora,
alla cui recente edizione critica curata da Giancarlo Porcu rinviamo per la trattazione del problema). Vengono cos uniformati:
st (sta), d (do), s (so), se (s), si (s), n (n),
p (po) (), perch (perch), bench (bench), finch (finch), ch (ch) ecc. Nelluso di maiuscole e minuscole
ci si limitati ad inserire sempre le prime al principio di periodo

APPARATI

Il rinvio al testo avviene attraverso la numerazione per righe a


margine. A seguito del numero di riga si riporta il testo implicato in
variante o lintervento editoriale, chiuso a destra da parentesi quadra. Quando si richiama unestesa parte di testo, si riportano la parola iniziale e quella finale con in mezzo tre punti spaziati prima e
dopo (ad esempio, con Il silenzio ... per ore sintende Il silenzio accompagna il pennellare dei vecchietti. Un silenzio che si protrae per
ore). Dopo la parentesi quadra riproduciamo la lezione del dattiloscritto, sia nei casi in cui compaiono correzioni dautore accolte a
testo (avvalendoci dei segni radunati nella tavola della pagina seguente), sia nei pochi casi in cui loriginale diverge dalla lezione a
testo per scelta editoriale. Le correzioni a penna dei dattiloscritti
sono segnalate in corsivo, per distinguerle da quelle a macchina, in
tondo. Si evitato di segnalare palesi errori di battitura.

APPARATI

Il rinvio al testo avviene attraverso la numerazione per righe a


margine. A seguito del numero di riga si riporta il testo implicato in
variante o lintervento editoriale, chiuso a destra da parentesi quadra. Quando si richiama unestesa parte di testo, si riportano la parola iniziale e quella finale con in mezzo tre punti spaziati prima e
dopo (ad esempio, con Il silenzio ... per ore sintende Il silenzio accompagna il pennellare dei vecchietti. Un silenzio che si protrae per
ore). Dopo la parentesi quadra riproduciamo la lezione del dattiloscritto, sia nei casi in cui compaiono correzioni dautore accolte a
testo (avvalendoci dei segni radunati nella tavola della pagina seguente), sia nei pochi casi in cui loriginale diverge dalla lezione a
testo per scelta editoriale. Le correzioni a penna dei dattiloscritti
sono segnalate in corsivo, per distinguerle da quelle a macchina, in
tondo. Si evitato di segnalare palesi errori di battitura.

Tavola dei segni

\a/

a scritta in interlinea

/a\

a aggiunta in linea

Meglio fuggire. Sempre

\\a//

a scritta a margine

[ a]

a depennata ma leggibile

[]

depennata e irrecuperabile

[ a \ b]

b aggiunta in interlinea in sostituzione di a depennata e leggibile

[ \ a]

a aggiunta in interlinea in sostituzione di lezione depennata e


irrecuperabile

[a + b]

b ricalcata su a

[ + b]

b ricalcata su lezione irrecuperabile

a b
2

mutamento di ordine di a e b segnalato a penna dallautore

segno di rimando a capo apposto a penna dallautore

segno di accapo

6 lungomare, ] lungomare [. + ,] 24 sardine ] sardin[a + e] 40 lontana ]


[ + lontana] 52 fiocamente ] fioc[ c][a + a]mente 56 metallizzati ] meta[li + lli]zzati Bmw, ] Bmw[. + ,] 57 altri, ] altri [. + ,] 71 ronfa ] ron[z + f]a
102 questi ] que[l + st]/i\ 124 bianche. ] bianche[, + .] 131 abat-jour ]
aba[jo + t-]jour 153 Attaccati. ] attaccati/.\ 156 io, ] io/,\ 171 lettaccio ]
lett[u + a]ccio 188 pantaloncini ] pantalon[i + c]ini

I bambini
9 primo ] prim[ + o] 27 Attesa. ] /Attesa.\ 28 attesa:] attesa[. + :] 71 diciassette ] dicia[se + sse]tte 83 scivolavano ] scivola[no + vano] 129 hai ]
ha/i\ 162 Parole: ] Parole: Parole: 175 gioia, ] gioia/,\

Omicidio sotto la pioggia


14 miserabile ] mis[ + er]abile 23 rimandando ] ri[ + mandando][ l]
32 maglioncino ] maglionci[on + no][ o] 54 vieni ] vien[e + i][ i]
62 mano, sei ] mano/,\ se/i\ 63 sei ] se/i\ 67 donna. ] donna[, + .]
82 Vorrei ] V[ + orrei][ o] 124 ah ] ha 153 schiena ] schi[ + en]a
164 pomeridiano ] pomeridi[ + ano] 175 tettine ] tettin[a + e] 177 dopo ]
[ + dop][p + o] [ o] 180 prenotata ] prenotat[e + a]

Un eroe
53 autunno ] [ primavera \ autunno] 104 Primo Blocco ] [p + P]rimo
[b + B]locco 139 piazzetta ] piaz | \\z// [z + e]tta 146 ] \/ 150 ha completato ] \ha/ completa[va + to] 153 stemma ] [ schema \ stemma]
153 esistenziale ] esi[t + st]en | ziale 163 biglietti ] bi[ + gl]ietti 165 brillare ] bril|[ + lare] 203 i confini ] \i/ confini 219-220 seguiva amici ]
magari con alcuni amici2seguiva il ragazzo1 258 vanteria ] vant[ + e]ria
274 bevute ] bev[ + u]te 283 era bella. ] era [ , una] bella/.\ [ fanciulla]
286 ville, ] ville/,\ 299 ci ] [ + c]i 312 assieme, ] assieme/,\ 315 dinverno ]

Tavola dei segni

\a/

a scritta in interlinea

/a\

a aggiunta in linea

Meglio fuggire. Sempre

\\a//

a scritta a margine

[ a]

a depennata ma leggibile

[]

depennata e irrecuperabile

[ a \ b]

b aggiunta in interlinea in sostituzione di a depennata e leggibile

[ \ a]

a aggiunta in interlinea in sostituzione di lezione depennata e


irrecuperabile

[a + b]

b ricalcata su a

[ + b]

b ricalcata su lezione irrecuperabile

a b
2

mutamento di ordine di a e b segnalato a penna dallautore

segno di rimando a capo apposto a penna dallautore

segno di accapo

6 lungomare, ] lungomare [. + ,] 24 sardine ] sardin[a + e] 40 lontana ]


[ + lontana] 52 fiocamente ] fioc[ c][a + a]mente 56 metallizzati ] meta[li + lli]zzati Bmw, ] Bmw[. + ,] 57 altri, ] altri [. + ,] 71 ronfa ] ron[z + f]a
102 questi ] que[l + st]/i\ 124 bianche. ] bianche[, + .] 131 abat-jour ]
aba[jo + t-]jour 153 Attaccati. ] attaccati/.\ 156 io, ] io/,\ 171 lettaccio ]
lett[u + a]ccio 188 pantaloncini ] pantalon[i + c]ini

I bambini
9 primo ] prim[ + o] 27 Attesa. ] /Attesa.\ 28 attesa:] attesa[. + :] 71 diciassette ] dicia[se + sse]tte 83 scivolavano ] scivola[no + vano] 129 hai ]
ha/i\ 162 Parole: ] Parole: Parole: 175 gioia, ] gioia/,\

Omicidio sotto la pioggia


14 miserabile ] mis[ + er]abile 23 rimandando ] ri[ + mandando][ l]
32 maglioncino ] maglionci[on + no][ o] 54 vieni ] vien[e + i][ i]
62 mano, sei ] mano/,\ se/i\ 63 sei ] se/i\ 67 donna. ] donna[, + .]
82 Vorrei ] V[ + orrei][ o] 124 ah ] ha 153 schiena ] schi[ + en]a
164 pomeridiano ] pomeridi[ + ano] 175 tettine ] tettin[a + e] 177 dopo ]
[ + dop][p + o] [ o] 180 prenotata ] prenotat[e + a]

Un eroe
53 autunno ] [ primavera \ autunno] 104 Primo Blocco ] [p + P]rimo
[b + B]locco 139 piazzetta ] piaz | \\z// [z + e]tta 146 ] \/ 150 ha completato ] \ha/ completa[va + to] 153 stemma ] [ schema \ stemma]
153 esistenziale ] esi[t + st]en | ziale 163 biglietti ] bi[ + gl]ietti 165 brillare ] bril|[ + lare] 203 i confini ] \i/ confini 219-220 seguiva amici ]
magari con alcuni amici2seguiva il ragazzo1 258 vanteria ] vant[ + e]ria
274 bevute ] bev[ + u]te 283 era bella. ] era [ , una] bella/.\ [ fanciulla]
286 ville, ] ville/,\ 299 ci ] [ + c]i 312 assieme, ] assieme/,\ 315 dinverno ]

dinverno/,\ 332 battaglie, ] battaglie[. + ,] 337 lui. ] lui. [] 339 parte, ]


parte/,\ 359 per... ] per... [] 361 silenzio, ] silenzio[. + ,] 410 chitarra ]
chi[t]tarr[. + a]

Storia di Carluccio, e di colui che narra


20 manicomio. ] manicomio[, + .] 44 ricordi, ] ricordi, [ non] 55 se ]
se [] 66 Marcella ] marcell[o + a] 98 sapeva ] s[ \ ap]eva 98-99 immaginare. | Non] immaginare. Non 127-128 la chitarra ... uomo ] [ per \ la
chitarra, | che magari ha capito che con la chitarra un uomo ] 144 cosa ]
[ + co]sa 167 cranio. ] cranio[? + .] 177 finalmente ] finalmente[, + .]
182 spedisce. ] spedisce/.\

Cero io. Con Stalin


Tit. Cero io] cero [ anch]io 1 smesso ] s[ + me]sso 6 cima ] c[ + im]a
10 insettacci ] in | se[ta + tta]cci 45 credenzona ] creden[ + zo]na 49 un
compito ] [ + un] compito 72 trasmettergli ] trasmetter[l + g]li 81 cercava ] [ + c]ercava 97 cosce ] cosc[ + e] [ e] 105 un amen ] \un/ amen
120 vuoto ] v[ + u]oto 122 utile ] [ in]utile 149 pertugio ] per | tugi[ + o]
167 assuefatto ] assuef[ f]atto 178 da ] da[ l] 183 accelerare ] accel[ l]erare 192 sedere ] [ + sedere] 199 grassa ] gr[ + assa] 235 e, ai
tavoli, ] e/,\ ai tavoli/,\ 237 riapparsa ] [ + riapparsa] 248 qui e ] qui
[a + e] 249 bambini, ] bambini/,\ 261 e, ] e/,\ chiesa, ] chiesa/,\
265 Ogni ] [o + O]gni

57 signore ] sign[i + o]re 59 lettera ] letter[ + a] 64 aspettano ]


a[ + s]pettano 69 dopo, ] dopo/,\ 81 Fe ] Fe[z + .][ .] 88 degli ] /de\gli
90 benigna ] be | nign[ + a] 92 cervello ] [ + c]ervello 98 tanto ]
t[ + ant]o 117 lacrime ] lacri[ + me] 119 dal ] d[e + a]l 134 amministrazione ] amministrazion[i + e] 137 mensa ] mensa[ w]/\ 165 disattento ] di[ + sa]ttento 170 bestia ] [ + be]stia 176 parte ] parte []
179 fuorilegge. ] fuorilegge[]/.\ 187 Mariotto ] Mari[e + o]tto 195 bianco, ] bianco/,\ 198 salotto, ] salotto, [ aloora] 199 fino ] [ + f]ino
212 denaro. ] denaro. [ ti] 216 altro ] altr[a + o] 217 chiesto ] chiest[ + o]
222 cazzo ] caz[ + zo] 223 viola ] [ + v]iola 230 dentro ] de[ + n]
[t + t]ro 237-238 un rasoio ... si infila ] \un rasoioin un tugurio pieno di cimici, una lampada gialla si infila/ 249 Augustina ] Augustin[i + a][ na la]
252 tramortisca ] tra[s + m]ortisca 268 condizione illegittima ] condizion[i + e] illeg[ g]ittima 273 legge ] legge [ questa letter] 275 agguato. ]
agguato/.\ 278 svolazza cercando clienti: ] \svolazza cercando clienti:/

Storia della donna


6 assieme] assi[ + eme] 16 patina ] patina [ dacqua] 20 passeggio ]
[ a] passeggio 21 avanzare ] av[ + a][n + n]zare 41 collegiale ] colleg[ g]iale 44 bordi ] bo[ + rd]i 55 e magari ] a magari 94 nascondo ]
nascond[ + o] 159 immaginare ] immag[ g]inare

Storia del boxeur

1 Silenziose ] silenzios[ + e] 11 giubbotto ] giu[ + bbo]tto 17 indirizzata ] indirizzat[ + a] 25 le ] l[ + e] 36 piombate ] [ + p]iombate 37 tentato ] ten[ + ta]to 40 Ora, ] ora[n + ,] 42 tele-accende ] tele/-\accende

32 manager ] m[e + a]nager 63 tesserarsi ] tess[ + e]rarsi 81 tanta, ]


tanta[. + ,] 98 impegnarlo ] impegnarlo[ lo] 99 incontri ] incontri[ *]
127 per, ] per/,\ 139 leggera ] legger[ + a] 142 di quello ] [ dellaltro
\ di quello] 147 stato un ] stat[ + o][ + u]n 148 stata ] stat[ + a] 242 vittorie, ] vittorie/,\ 246 quindi, ] quindi/,\ 246 rispettosi ] rispett[i + o] |
[v + s]i 252 numerosi ] numerosi [ a] 286 Nanette, per gli amici ] Nanette/,\ [ -] per gli amici/\ 294 davverissimo ] da\v/verissimo 327 ]
accento aggiunto a penna 346 Legione ] [l + L]egione 358 viso ] [ suo] viso 358 mani ] [ sue] mani 358 dolcezza ] [ sua] dolcezza 371 regala a ]
[ ha] re[l + g]ala[ to] \a/ 397 poesia ] poesi/a\ 398 morte ] [] morte
402 pare ] pare[ va] 403 protegge ] protegge[ va] 405 arriva ] [ ] arriva[ to] 409 accolgono ] [ r]accolgono 441 Schultze ] Schultze[ r]
443 arnese. ] arnese/.\ [ perlomeno per pisciare] 447 fa ] fa[ tto] 451 ]
e[ ra] accento aggiunto a penna 458 telegrafa ] [ ha] telegrafa][ to]

Delirio maschile
3 acuminata ] [ a][ + ac]uminata 10 prima ho ] [ + prima ho] 11 Risparmiami ] /\risp[ + ar]miami 22 Crede ] Cred[ + e] 25 tutta un tremolio ] tutt[ + a] un tremoli[t + o][ o] 28 Verme ] Verme/\ 107 le
schifose scartoffie ] l[ + e] schifos[ + e] scartoffi[ + e] 118 mugola ]
mug[u + o]la 125 forzarle ] forz\a/rle 136 macchinette ] ma\c/chinette
138 verso ] [ + verso] 157 da ] d[i + a] 168 combattuto ] combat[u + t]uto

Post office

dinverno/,\ 332 battaglie, ] battaglie[. + ,] 337 lui. ] lui. [] 339 parte, ]


parte/,\ 359 per... ] per... [] 361 silenzio, ] silenzio[. + ,] 410 chitarra ]
chi[t]tarr[. + a]

Storia di Carluccio, e di colui che narra


20 manicomio. ] manicomio[, + .] 44 ricordi, ] ricordi, [ non] 55 se ]
se [] 66 Marcella ] marcell[o + a] 98 sapeva ] s[ \ ap]eva 98-99 immaginare. | Non] immaginare. Non 127-128 la chitarra ... uomo ] [ per \ la
chitarra, | che magari ha capito che con la chitarra un uomo ] 144 cosa ]
[ + co]sa 167 cranio. ] cranio[? + .] 177 finalmente ] finalmente[, + .]
182 spedisce. ] spedisce/.\

Cero io. Con Stalin


Tit. Cero io] cero [ anch]io 1 smesso ] s[ + me]sso 6 cima ] c[ + im]a
10 insettacci ] in | se[ta + tta]cci 45 credenzona ] creden[ + zo]na 49 un
compito ] [ + un] compito 72 trasmettergli ] trasmetter[l + g]li 81 cercava ] [ + c]ercava 97 cosce ] cosc[ + e] [ e] 105 un amen ] \un/ amen
120 vuoto ] v[ + u]oto 122 utile ] [ in]utile 149 pertugio ] per | tugi[ + o]
167 assuefatto ] assuef[ f]atto 178 da ] da[ l] 183 accelerare ] accel[ l]erare 192 sedere ] [ + sedere] 199 grassa ] gr[ + assa] 235 e, ai
tavoli, ] e/,\ ai tavoli/,\ 237 riapparsa ] [ + riapparsa] 248 qui e ] qui
[a + e] 249 bambini, ] bambini/,\ 261 e, ] e/,\ chiesa, ] chiesa/,\
265 Ogni ] [o + O]gni

57 signore ] sign[i + o]re 59 lettera ] letter[ + a] 64 aspettano ]


a[ + s]pettano 69 dopo, ] dopo/,\ 81 Fe ] Fe[z + .][ .] 88 degli ] /de\gli
90 benigna ] be | nign[ + a] 92 cervello ] [ + c]ervello 98 tanto ]
t[ + ant]o 117 lacrime ] lacri[ + me] 119 dal ] d[e + a]l 134 amministrazione ] amministrazion[i + e] 137 mensa ] mensa[ w]/\ 165 disattento ] di[ + sa]ttento 170 bestia ] [ + be]stia 176 parte ] parte []
179 fuorilegge. ] fuorilegge[]/.\ 187 Mariotto ] Mari[e + o]tto 195 bianco, ] bianco/,\ 198 salotto, ] salotto, [ aloora] 199 fino ] [ + f]ino
212 denaro. ] denaro. [ ti] 216 altro ] altr[a + o] 217 chiesto ] chiest[ + o]
222 cazzo ] caz[ + zo] 223 viola ] [ + v]iola 230 dentro ] de[ + n]
[t + t]ro 237-238 un rasoio ... si infila ] \un rasoioin un tugurio pieno di cimici, una lampada gialla si infila/ 249 Augustina ] Augustin[i + a][ na la]
252 tramortisca ] tra[s + m]ortisca 268 condizione illegittima ] condizion[i + e] illeg[ g]ittima 273 legge ] legge [ questa letter] 275 agguato. ]
agguato/.\ 278 svolazza cercando clienti: ] \svolazza cercando clienti:/

Storia della donna


6 assieme] assi[ + eme] 16 patina ] patina [ dacqua] 20 passeggio ]
[ a] passeggio 21 avanzare ] av[ + a][n + n]zare 41 collegiale ] colleg[ g]iale 44 bordi ] bo[ + rd]i 55 e magari ] a magari 94 nascondo ]
nascond[ + o] 159 immaginare ] immag[ g]inare

Storia del boxeur

1 Silenziose ] silenzios[ + e] 11 giubbotto ] giu[ + bbo]tto 17 indirizzata ] indirizzat[ + a] 25 le ] l[ + e] 36 piombate ] [ + p]iombate 37 tentato ] ten[ + ta]to 40 Ora, ] ora[n + ,] 42 tele-accende ] tele/-\accende

32 manager ] m[e + a]nager 63 tesserarsi ] tess[ + e]rarsi 81 tanta, ]


tanta[. + ,] 98 impegnarlo ] impegnarlo[ lo] 99 incontri ] incontri[ *]
127 per, ] per/,\ 139 leggera ] legger[ + a] 142 di quello ] [ dellaltro
\ di quello] 147 stato un ] stat[ + o][ + u]n 148 stata ] stat[ + a] 242 vittorie, ] vittorie/,\ 246 quindi, ] quindi/,\ 246 rispettosi ] rispett[i + o] |
[v + s]i 252 numerosi ] numerosi [ a] 286 Nanette, per gli amici ] Nanette/,\ [ -] per gli amici/\ 294 davverissimo ] da\v/verissimo 327 ]
accento aggiunto a penna 346 Legione ] [l + L]egione 358 viso ] [ suo] viso 358 mani ] [ sue] mani 358 dolcezza ] [ sua] dolcezza 371 regala a ]
[ ha] re[l + g]ala[ to] \a/ 397 poesia ] poesi/a\ 398 morte ] [] morte
402 pare ] pare[ va] 403 protegge ] protegge[ va] 405 arriva ] [ ] arriva[ to] 409 accolgono ] [ r]accolgono 441 Schultze ] Schultze[ r]
443 arnese. ] arnese/.\ [ perlomeno per pisciare] 447 fa ] fa[ tto] 451 ]
e[ ra] accento aggiunto a penna 458 telegrafa ] [ ha] telegrafa][ to]

Delirio maschile
3 acuminata ] [ a][ + ac]uminata 10 prima ho ] [ + prima ho] 11 Risparmiami ] /\risp[ + ar]miami 22 Crede ] Cred[ + e] 25 tutta un tremolio ] tutt[ + a] un tremoli[t + o][ o] 28 Verme ] Verme/\ 107 le
schifose scartoffie ] l[ + e] schifos[ + e] scartoffi[ + e] 118 mugola ]
mug[u + o]la 125 forzarle ] forz\a/rle 136 macchinette ] ma\c/chinette
138 verso ] [ + verso] 157 da ] d[i + a] 168 combattuto ] combat[u + t]uto

Post office

464 scrive ] scrive[ va] 465 A Barcellona acquista] //A\\ [ a] Barcellona


[ ha] acquista[ to] 470 incontra ] [ha visto + incontra] 471 rasa ] [ ]
rasa[ to] 472 pulisce ] [ ri]puli[to + sce] 472 copre ] [ ] cop[er + re]
[ to] 472 infila ] [ ha] infila[ to] 486 sopravvivere ] soppra[ v]vivere
489 Ormai ] [ di commeri carnali manco a parlarne:] ormai 498 ha ]
\ha/ 518 convive ] convive/,\ 520 Stefanino ] Stefanino/,\ 527 Mestiere ]
[m + M]estiere 531 parla ] par[ + l]/a\|[ va] 542 di ] [ + d]i 547 fuggiti ] fuggiti [ sotto il naso a due pantere che li hanno seguiti]
555 Thompson ] T\h/ompson 558 camuffato ] ca[ + mu]ffato 566 americano, ] americano/,\ 571 Sentono ] [ proprio a quel punto] sentono
583 gazzella ] [ giulietta dei car.] \gazzella/ 584 proibito ] [ + proibito]
594 colpisce ] co[ + l]pisce 596 emporio ] em[ + p]//orio\\|[ prio]
597 che ] che [ gli] 605 parti. Confusione] parti/.\ [ fra la] [c + C]onfusione

Storia della monaca


1 poveranima ] pover[ + a]nima 13 E ] [a + e] 52 ripetizioni ]
ripe[ + tizio]ni 60 lavarle ] lavar[gli + le] 62 prepararle ] prepar[gli + le]
76 che le ] che [gli + le] 179 pressione. ] pressione[, + .] 182 nera ]
n[e + ]era 225 contagiarle ] contagiarl[a + e]

Storia coloniale

Primavera, nella citt murata


43 arselle ] arselle [ grandi.] 49 al ] [da + al] 61 grzias ] accento a penna 109 Da ] D[ + a] 111 bastioni ] bastioni [ Castello] 154 violenta. La
] violenta/.\ [l + L]a 180 razzolano ] r[u + a]zzolano

Rond final
47 cretino, ] cretino/,\ 51 ogni ] [ qui \ ogni] 61 nella ] nell[ + a] 67
di sprofondare ] [ + d]i [s + s]profondare 81 fucilate ] fucila[ + te] 85 i
senzacristo ] [ + i] senzacristo 128 rincagnita ] ri\n/cagnita 133 mascherate. ] mascherate/.\ [ corteo ordinato] 140 borghesia ] bor[ + g]hesia
142 mercanti ] merca\n/ti 160 dolce. ] dolce/.\ [ un] 163 sua, ] sua/,\
169 inaudita ] inaudite 173 disilluso, ] disilluso, [ disnibito] 188 urlo, ]
urlo/,\ 212 capita ] [c][ + p]ita accento aggiunto a penna 247 allacciano ]
a[ffa + lla]cciano 269 spenzola ] spe[nzuo + nzo]la 271 mondo, ] mondo/,\ 282 attaccato ] atta\c/cato 287 festa di ] festa [ + d]i

Un uomo arrivato
11 impolverata ] impolverat[e + a] 21 bruciacchiata ] bru[ c]ciacchiata 40 interruppe ] interrup\p/e

Caro Leonardo Sole

19 canale, ] canale[. + ,] 26 mondo. ] mondo.| [ rava la forza del mondo.] 32 uno ] un/o\ 34 preso ] preso[ .] 36 sapeva ] [ paveva \ sapeva]
60 Prendo ] prend[e + o] 68 Jean ] Iean 73 ero ] er[a + o] 94 sinistro ] sinistr[ a]o 138 bambina ] [b + b][ + am]bina 151 Mi ] [ forse per tranquillarmi] mi 153 tremassi ] tr[ + ema]ssi 169 taliano ] tali[en + an]o
184 impedisca ] impedisc[e + a] 212 Warmoes ] wa[e + r]moes 225 niente, ] niente[. + ,] 226 misura ] m[ + isu]ra 241 uomo-donna ] uomo- |
[ + d]onna 280 ho ] [ha + ho] 284 tiene ] tien[i + e]

Storia del carnevale


7 gocce ] g[ + oc]ce 36 pastasciutta ] pastasc[ + iu]tta 104 villaggio, ]
villaggio/,\ 111 schiacciato ] [ + sc]hiacciato 118-119 e le giarrettiere ...
vincere i ] \e le giarrettiere elastiche, riusciranno i migliori a vincere i/
126 signori ] sign[ i]ori 145 camicia ] camici[e + a] 156 mandamentale ]
mandamen[d + t]ale 286 canneto ] cannet[ t]o 294 pi, ] pi[; + ,]

Tit. Caro Leonardo Sole ] [ Un pezzo di legno \ Caro Leonardo Sole...]


47 non condividono ] \non/ condivid[ + o][n + n]o 50 sufficienti ] sufficien[ + t][e + i] 69 mezzaria ] mezz[ + ]a|ria 87 dita, ] dita/,\ 88 ]
[ sempre] 88 fedele, ] fedele/,\ 93 e, magari,] e/,\ ma | gari/,\ [ proprio] 100 facendo ] [ alle spalle della propria madre, o di qualunque altro,] facendo 102 celare, ] celare/,\ 105 delluomo di legno ] [ di cui
costituita questa statua \ delluomo di legno] 110 quanto ] quan[d + t]o
114 avere ] aver[ + e] 118 agnelli, ] agnelli/,\ 119 lingenuit ] lingenuit/,\ 120 vino ] [ forte] vino 121 sullerba ] suller | ba/,\ 122 labbra ]
labbra/,\ 122 maschio, ] maschio/,\ 129 il legno ] [ tronco \ il legno]

Una leggenda meridionale


63 lungo ] lu[ + ng]o 76 Lia. ] Lia/.\ 151 animale ] ani[ + im]ale
170 La ] L[ + a] 175 Ha ] [ + Ha] 177 il ] [] [i + I]l

464 scrive ] scrive[ va] 465 A Barcellona acquista] //A\\ [ a] Barcellona


[ ha] acquista[ to] 470 incontra ] [ha visto + incontra] 471 rasa ] [ ]
rasa[ to] 472 pulisce ] [ ri]puli[to + sce] 472 copre ] [ ] cop[er + re]
[ to] 472 infila ] [ ha] infila[ to] 486 sopravvivere ] soppra[ v]vivere
489 Ormai ] [ di commeri carnali manco a parlarne:] ormai 498 ha ]
\ha/ 518 convive ] convive/,\ 520 Stefanino ] Stefanino/,\ 527 Mestiere ]
[m + M]estiere 531 parla ] par[ + l]/a\|[ va] 542 di ] [ + d]i 547 fuggiti ] fuggiti [ sotto il naso a due pantere che li hanno seguiti]
555 Thompson ] T\h/ompson 558 camuffato ] ca[ + mu]ffato 566 americano, ] americano/,\ 571 Sentono ] [ proprio a quel punto] sentono
583 gazzella ] [ giulietta dei car.] \gazzella/ 584 proibito ] [ + proibito]
594 colpisce ] co[ + l]pisce 596 emporio ] em[ + p]//orio\\|[ prio]
597 che ] che [ gli] 605 parti. Confusione] parti/.\ [ fra la] [c + C]onfusione

Storia della monaca


1 poveranima ] pover[ + a]nima 13 E ] [a + e] 52 ripetizioni ]
ripe[ + tizio]ni 60 lavarle ] lavar[gli + le] 62 prepararle ] prepar[gli + le]
76 che le ] che [gli + le] 179 pressione. ] pressione[, + .] 182 nera ]
n[e + ]era 225 contagiarle ] contagiarl[a + e]

Storia coloniale

Primavera, nella citt murata


43 arselle ] arselle [ grandi.] 49 al ] [da + al] 61 grzias ] accento a penna 109 Da ] D[ + a] 111 bastioni ] bastioni [ Castello] 154 violenta. La
] violenta/.\ [l + L]a 180 razzolano ] r[u + a]zzolano

Rond final
47 cretino, ] cretino/,\ 51 ogni ] [ qui \ ogni] 61 nella ] nell[ + a] 67
di sprofondare ] [ + d]i [s + s]profondare 81 fucilate ] fucila[ + te] 85 i
senzacristo ] [ + i] senzacristo 128 rincagnita ] ri\n/cagnita 133 mascherate. ] mascherate/.\ [ corteo ordinato] 140 borghesia ] bor[ + g]hesia
142 mercanti ] merca\n/ti 160 dolce. ] dolce/.\ [ un] 163 sua, ] sua/,\
169 inaudita ] inaudite 173 disilluso, ] disilluso, [ disnibito] 188 urlo, ]
urlo/,\ 212 capita ] [c][ + p]ita accento aggiunto a penna 247 allacciano ]
a[ffa + lla]cciano 269 spenzola ] spe[nzuo + nzo]la 271 mondo, ] mondo/,\ 282 attaccato ] atta\c/cato 287 festa di ] festa [ + d]i

Un uomo arrivato
11 impolverata ] impolverat[e + a] 21 bruciacchiata ] bru[ c]ciacchiata 40 interruppe ] interrup\p/e

Caro Leonardo Sole

19 canale, ] canale[. + ,] 26 mondo. ] mondo.| [ rava la forza del mondo.] 32 uno ] un/o\ 34 preso ] preso[ .] 36 sapeva ] [ paveva \ sapeva]
60 Prendo ] prend[e + o] 68 Jean ] Iean 73 ero ] er[a + o] 94 sinistro ] sinistr[ a]o 138 bambina ] [b + b][ + am]bina 151 Mi ] [ forse per tranquillarmi] mi 153 tremassi ] tr[ + ema]ssi 169 taliano ] tali[en + an]o
184 impedisca ] impedisc[e + a] 212 Warmoes ] wa[e + r]moes 225 niente, ] niente[. + ,] 226 misura ] m[ + isu]ra 241 uomo-donna ] uomo- |
[ + d]onna 280 ho ] [ha + ho] 284 tiene ] tien[i + e]

Storia del carnevale


7 gocce ] g[ + oc]ce 36 pastasciutta ] pastasc[ + iu]tta 104 villaggio, ]
villaggio/,\ 111 schiacciato ] [ + sc]hiacciato 118-119 e le giarrettiere ...
vincere i ] \e le giarrettiere elastiche, riusciranno i migliori a vincere i/
126 signori ] sign[ i]ori 145 camicia ] camici[e + a] 156 mandamentale ]
mandamen[d + t]ale 286 canneto ] cannet[ t]o 294 pi, ] pi[; + ,]

Tit. Caro Leonardo Sole ] [ Un pezzo di legno \ Caro Leonardo Sole...]


47 non condividono ] \non/ condivid[ + o][n + n]o 50 sufficienti ] sufficien[ + t][e + i] 69 mezzaria ] mezz[ + ]a|ria 87 dita, ] dita/,\ 88 ]
[ sempre] 88 fedele, ] fedele/,\ 93 e, magari,] e/,\ ma | gari/,\ [ proprio] 100 facendo ] [ alle spalle della propria madre, o di qualunque altro,] facendo 102 celare, ] celare/,\ 105 delluomo di legno ] [ di cui
costituita questa statua \ delluomo di legno] 110 quanto ] quan[d + t]o
114 avere ] aver[ + e] 118 agnelli, ] agnelli/,\ 119 lingenuit ] lingenuit/,\ 120 vino ] [ forte] vino 121 sullerba ] suller | ba/,\ 122 labbra ]
labbra/,\ 122 maschio, ] maschio/,\ 129 il legno ] [ tronco \ il legno]

Una leggenda meridionale


63 lungo ] lu[ + ng]o 76 Lia. ] Lia/.\ 151 animale ] ani[ + im]ale
170 La ] L[ + a] 175 Ha ] [ + Ha] 177 il ] [] [i + I]l

Da Nicola a Nicola

Rosso di cina

5 chi ] chi la 98 amici ] amic[o + i] 99 senza ] se[ + nz]a 112 citt, ]


citt, [ coi mercanti della citt,] 134 Moto ] [ + M]oto 159 strada ]
strad[ + a] 159 pesce ] pesc[ + e] 168 citt, ] citt[ ;]/,\ 209 muti. ]
muti. [ il cartaginese e loperaio] 225 fari enormi ] [ + fari en]ormi
234 sitron ] [c + s]itron 258 vanno ] v[ + an]no 279 Come ] [ come
bolivia,] 345 vantaggio, Nicola, ] vantaggio/,\ Nicola/,\ 355 asfaltati, ]
asfaltati/,\ 361 spara. ] spara. [ cartaginese o balente che sia.]

Astrud
49 quattro ] qua/t\tro 54 condotto ] co[ + ndo]tto 58 a Anima ] [ + a]
Anima 73 seziona ] se | [ le]ziona 75 a Anima ] \a/Anima 85 dellAria ]
dell[a + A]ria 106 mugolii ] mugoli/i\ 110 e il ] [o + e] [ + i]l

Anche le pratiche possono morire


40 ufficietto ] uffic[ce + ie]tto 53 firme ] firm[ + e] 76 vogliono ] vogliono [ loro] 78 signore, ] signore/,\ 87 clandestina, ] clandestina/,\
307 Abramo ] [ GIOACCHINO e] Abramo[. + e] /Gioacchino\ 313 in ]
[ e] in 326 gioielliere ] gioie[ + ll][e + i]ere 346-347 Il silenzio ... per ore. ]
battuto in calce con rinvio numerico (1), in segno dinserimento, nel testo
371 riconosciuti. Saltano ] riconosciuti/.\ [s + S]altano 372 48 C. ancora
notte. La] 48 C/.\ [ + ] ancora notte/.\ [l + L]a 391 meccanico, ] meccanico[. + ,] 396 denti ] denti [ proprio] 399 mattutini ] mattut[ t]ini
404 mano. ] mano/.\ 404 agitano ] \agitano/ 415 Luger ] Luger [ , ferma
dietro lingresso,] 419 il gangster ] il gan\g/ster 425 spara ] [ a]para
445 sirena ] sirena [ vi | cina e ] 463-464 Gioacchino-corvaccio-Anfri Io ]
Gioacchino-corvaccio-Anfri[ -][i + I]o 474 case ] case [ vec | chie]
492 si ] [di + si] 503 spinge ] [ + s][l + p]inge 508 limperturbabile ] lim |
pertu\r/babile 511 fuori ] fuori/,\ 519 scorta, ] scorta/,\ 520 negozio. Ho
] negozio/.\ [h + H] 528 una ] un/a\ 529 Volevo ] vole[ndo + vo] 531 significa ] [ voleva dire \ significa] 542 servizio ] servizio [ da the] 549 mi
hai tradito.] [ veramente,] mi hai tradito. [ Mi hai tradito dopo trentanni.] 568 delle ] dell[a + e] 600 magari, ] magari, [ si,] 602 sempre ] /,\
sempre/,\ 620 lartista ] [m + l][a + a]rt[o + i] [ + s]ta 639 Abramo ]
A[ +bra]mo 664 decappottabile ] decappo/t\tabile 671 Gioacchino ]
Gio[ + ac]chino 687 Mesto ] [H + M][ + e] 690 bonny en ] bonny[ e]
en[ d] 721 passata ] [ in]util | mente 732 mondo ] mondo[ -schifo]

21 delle rovine ] dell[a + e] rovin[a + e] 35 affezionate ] affez[ z]ionate 84 Elena ] [ -] Elena 84 letto, ] letto [ -]/,\ 104 letto ] letto[ !]/.\
118 Parla ] parla /\ 123 l ] l/.\ [ attorno] 132 le ] l[a + e] 162 E si ] E
[ + s]i 167 Cammina, cammina] Cammina, Cammina 171 fotografie ] fotog[ a]rafie ] [ d] /,\|

Pornomovie
15 caff ] caff [ della mattina] 52 formaggio ] formagg[ + i] 57 appetibili ] appet[ t]ibili 58 lingua ] lingua[] 59 la ] [or + l]a 65 uno, zoppo, ] uno/,\ zoppo/,\ 66 che guardano complici ] che [ ti] guardano
[ con sguardo] complic[e + i] 74 panna e] panna[, + e] 77 dita. Si ] dita/.\ [ e] [s + S]i 122 sembra non ] sembra \non/ 126 praesenti ]
pr\a/esenti 130 slaccia ] sla\c/cia 133 biascicare ] [ s]biascicare 138 che
non lo guarda, ] che \non/ lo guarda/,\ 139 stretti, ] stretti/,\ 150 salvata ]
salvat[o + a] 166 fatto ] [ + f]atto 172 mise ] [ + mi]se 185 caldarroste ]
calda[- + r] | roste

Lorso e la faina
14 ] E[ ra] accento aggiunto a penna 20 pennello ] p[ + e]nnello
21 fumarne ] fumar\n/e 49 Raggiunge ] Ra\g/giunge 76 e, soprattutto, ]
e/,\ soprattutto/,\ 90 Una canna ] Un/a\ [ bello spino \ canna] 114 corsa,] corsa/,\ 125 dopo ] [ + d]opo 138 Poi, sotto, ] Poi/,\ sotto/,\
[ di/,\se] 159 un ] [ il \ un] 162 silun. Pipe] silun/.\ [p + P]ipe 192 quello ] que[st + ll]o 195 underground ] unde\r/ground 223 esterrefatto ]
este\r/refatto 226 pazzi ] pazzi [ e] 240 babylon ] [ eltonjohn \ babylon] 257 che, ] che/,\ 258 aprono, ] aprono/,\ 259 denti ] [ suoi] denti
264 vicario ] [ il] vicario 274 accelerata ] acce[ll + l]erata 287 e ] e [ di]
287 metedrina ] metedrina [ di] 287 mescalina ] [ di] mescalina
288 morfina ] [ di] 311 canna ] [ spinello \ canna] 322 mica ] [ + mica]
343 chiedersi ] chieder[e + s]i 345 vicende, ] vicende/,\ 345 tristi, ] tristi/,\

Destino questurino
5 sbriluccica ] sbrilucci[a, + ca] 7 la ] \la/ 27 attaccaticcio ] attaccat[ t]iccio 38 chi ] ch[e + e][ i] 44 anche, ] anche/,\ 59 gonna ] \gonna/ 63 Argento ] [ .][ + A] 63 dubbio, ] dubbio/,\ 67 unaltra, ]

Da Nicola a Nicola

Rosso di cina

5 chi ] chi la 98 amici ] amic[o + i] 99 senza ] se[ + nz]a 112 citt, ]


citt, [ coi mercanti della citt,] 134 Moto ] [ + M]oto 159 strada ]
strad[ + a] 159 pesce ] pesc[ + e] 168 citt, ] citt[ ;]/,\ 209 muti. ]
muti. [ il cartaginese e loperaio] 225 fari enormi ] [ + fari en]ormi
234 sitron ] [c + s]itron 258 vanno ] v[ + an]no 279 Come ] [ come
bolivia,] 345 vantaggio, Nicola, ] vantaggio/,\ Nicola/,\ 355 asfaltati, ]
asfaltati/,\ 361 spara. ] spara. [ cartaginese o balente che sia.]

Astrud
49 quattro ] qua/t\tro 54 condotto ] co[ + ndo]tto 58 a Anima ] [ + a]
Anima 73 seziona ] se | [ le]ziona 75 a Anima ] \a/Anima 85 dellAria ]
dell[a + A]ria 106 mugolii ] mugoli/i\ 110 e il ] [o + e] [ + i]l

Anche le pratiche possono morire


40 ufficietto ] uffic[ce + ie]tto 53 firme ] firm[ + e] 76 vogliono ] vogliono [ loro] 78 signore, ] signore/,\ 87 clandestina, ] clandestina/,\
307 Abramo ] [ GIOACCHINO e] Abramo[. + e] /Gioacchino\ 313 in ]
[ e] in 326 gioielliere ] gioie[ + ll][e + i]ere 346-347 Il silenzio ... per ore. ]
battuto in calce con rinvio numerico (1), in segno dinserimento, nel testo
371 riconosciuti. Saltano ] riconosciuti/.\ [s + S]altano 372 48 C. ancora
notte. La] 48 C/.\ [ + ] ancora notte/.\ [l + L]a 391 meccanico, ] meccanico[. + ,] 396 denti ] denti [ proprio] 399 mattutini ] mattut[ t]ini
404 mano. ] mano/.\ 404 agitano ] \agitano/ 415 Luger ] Luger [ , ferma
dietro lingresso,] 419 il gangster ] il gan\g/ster 425 spara ] [ a]para
445 sirena ] sirena [ vi | cina e ] 463-464 Gioacchino-corvaccio-Anfri Io ]
Gioacchino-corvaccio-Anfri[ -][i + I]o 474 case ] case [ vec | chie]
492 si ] [di + si] 503 spinge ] [ + s][l + p]inge 508 limperturbabile ] lim |
pertu\r/babile 511 fuori ] fuori/,\ 519 scorta, ] scorta/,\ 520 negozio. Ho
] negozio/.\ [h + H] 528 una ] un/a\ 529 Volevo ] vole[ndo + vo] 531 significa ] [ voleva dire \ significa] 542 servizio ] servizio [ da the] 549 mi
hai tradito.] [ veramente,] mi hai tradito. [ Mi hai tradito dopo trentanni.] 568 delle ] dell[a + e] 600 magari, ] magari, [ si,] 602 sempre ] /,\
sempre/,\ 620 lartista ] [m + l][a + a]rt[o + i] [ + s]ta 639 Abramo ]
A[ +bra]mo 664 decappottabile ] decappo/t\tabile 671 Gioacchino ]
Gio[ + ac]chino 687 Mesto ] [H + M][ + e] 690 bonny en ] bonny[ e]
en[ d] 721 passata ] [ in]util | mente 732 mondo ] mondo[ -schifo]

21 delle rovine ] dell[a + e] rovin[a + e] 35 affezionate ] affez[ z]ionate 84 Elena ] [ -] Elena 84 letto, ] letto [ -]/,\ 104 letto ] letto[ !]/.\
118 Parla ] parla /\ 123 l ] l/.\ [ attorno] 132 le ] l[a + e] 162 E si ] E
[ + s]i 167 Cammina, cammina] Cammina, Cammina 171 fotografie ] fotog[ a]rafie ] [ d] /,\|

Pornomovie
15 caff ] caff [ della mattina] 52 formaggio ] formagg[ + i] 57 appetibili ] appet[ t]ibili 58 lingua ] lingua[] 59 la ] [or + l]a 65 uno, zoppo, ] uno/,\ zoppo/,\ 66 che guardano complici ] che [ ti] guardano
[ con sguardo] complic[e + i] 74 panna e] panna[, + e] 77 dita. Si ] dita/.\ [ e] [s + S]i 122 sembra non ] sembra \non/ 126 praesenti ]
pr\a/esenti 130 slaccia ] sla\c/cia 133 biascicare ] [ s]biascicare 138 che
non lo guarda, ] che \non/ lo guarda/,\ 139 stretti, ] stretti/,\ 150 salvata ]
salvat[o + a] 166 fatto ] [ + f]atto 172 mise ] [ + mi]se 185 caldarroste ]
calda[- + r] | roste

Lorso e la faina
14 ] E[ ra] accento aggiunto a penna 20 pennello ] p[ + e]nnello
21 fumarne ] fumar\n/e 49 Raggiunge ] Ra\g/giunge 76 e, soprattutto, ]
e/,\ soprattutto/,\ 90 Una canna ] Un/a\ [ bello spino \ canna] 114 corsa,] corsa/,\ 125 dopo ] [ + d]opo 138 Poi, sotto, ] Poi/,\ sotto/,\
[ di/,\se] 159 un ] [ il \ un] 162 silun. Pipe] silun/.\ [p + P]ipe 192 quello ] que[st + ll]o 195 underground ] unde\r/ground 223 esterrefatto ]
este\r/refatto 226 pazzi ] pazzi [ e] 240 babylon ] [ eltonjohn \ babylon] 257 che, ] che/,\ 258 aprono, ] aprono/,\ 259 denti ] [ suoi] denti
264 vicario ] [ il] vicario 274 accelerata ] acce[ll + l]erata 287 e ] e [ di]
287 metedrina ] metedrina [ di] 287 mescalina ] [ di] mescalina
288 morfina ] [ di] 311 canna ] [ spinello \ canna] 322 mica ] [ + mica]
343 chiedersi ] chieder[e + s]i 345 vicende, ] vicende/,\ 345 tristi, ] tristi/,\

Destino questurino
5 sbriluccica ] sbrilucci[a, + ca] 7 la ] \la/ 27 attaccaticcio ] attaccat[ t]iccio 38 chi ] ch[e + e][ i] 44 anche, ] anche/,\ 59 gonna ] \gonna/ 63 Argento ] [ .][ + A] 63 dubbio, ] dubbio/,\ 67 unaltra, ]

unaltra/,\ 97 conosciuto, ] conosciuto/,\ 111 casa, sentivo ] casa, [ mi]


sentivo[ ,] 135 del ] d[i + e] 139 le ] gli 147 allimprovviso,] allimprovviso/,\ 158 vena e ] ve[ + na][ ,][ + e][ e] 169 siamo ] sia[n + m]o

NOTA BIOBIBLIOGRAFICA

Il vento soffia, dai bastioni


9 occhi che ] occhi \che/ 39 nessun ] nessun[ o] 40 bestione ]
b[ + es]tione 49 attraverso ] [ mentre scendevano] attraverso 66 dopo ]
dopo/,\ 84 piedi, ] piedi/,\ 95 giovent ] giovent/,\ 115 e ] /e\ 150 toccheffuggi ] toccheffuggi uniformato alle altre occorrenze con virgolette

Un duello
3-5 dolente. Una prigione] dolente [, + . ] [ affezio /la citt:\ | nata alla
sua propria storia: gli occhi rivolti a un passato di | principesche e crudeli
dominazioni, il cuore gonfio di ladri | eleganti, vecchi signori levantini, impauriti dalloscuro fu- | turo di quegli anni.] 21 dal ] [ nel \ dal] 89 pareti ] [a + p][p + a][r + r]eti 114 vecchio ] v[h + e]cchio 124 imbattibili, ]
imbattibili/,\ 233 attorniato ] atto\r/niato

Sergio Atzeni nasce a Capoterra (Cagliari) nel 1952 ma da subito


vive a Cagliari, la sua citt, dove trascorrer linfanzia, ladolescenza - con una parentesi a Orgosolo (Nuoro) frequentando le scuole
medie - e parte della maturit. A Cagliari compie gli studi liceali e
siscrive alla Facolt di Filosofia, senza per altro laurearsi. Quelli
giovanili sono anni dimpegno politico, nelle file del partito Comunista, che trovano riscontro in esperienze teatrali pure militanti,
solo in parte affidate alla stampa. Sono anche gli anni in cui inizia
una ininterrotta e precoce (1966) attivit giornalistica condotta su
vari periodici e quotidiani (Rinascita sarda, Il Luned della Sardegna, LUnione Sarda, lUnit, La Nuova Sardegna, Altair rivista da Atzeni fondata e diretta) ma anche per la radio. Al
1976 risale il primo impiego stabile, allENEL, lavoro dufficio sgradito che accompagna agli inizi letterari in terra sarda fino alla decisione di trasferirsi dallIsola nel 1986, lanno della pubblicazione
dellApologo del giudice bandito, il suo primo romanzo. Dopo un
periodo trascorso in giro per lEuropa, si ferma a SantIlario dEnza in Emilia, tra il 1990 e il 1993, anni occupati dalla professione di
traduttore per conto di diversi editori italiani; in seguito si stabilisce a Torino, sua residenza fino alla morte avvenuta il 6 settembre
1995 nelle acque dellisola di Carloforte durante un soggiorno in
Sardegna. Tra il 1986 e il 1995 si colloca il periodo pi produttivo
di Atzeni: scrive e pubblica i suoi romanzi pi noti (Il figlio di Bakunn, Il quinto passo laddio, Passavamo sulla terra leggeri postumo ma consegnato in vita alleditore), pubblica numerosi articoli e
recensioni sui giornali, oltre ad affermarsi come apprezzato traduttore (dal francese) di saggistica e narrativa.

unaltra/,\ 97 conosciuto, ] conosciuto/,\ 111 casa, sentivo ] casa, [ mi]


sentivo[ ,] 135 del ] d[i + e] 139 le ] gli 147 allimprovviso,] allimprovviso/,\ 158 vena e ] ve[ + na][ ,][ + e][ e] 169 siamo ] sia[n + m]o

NOTA BIOBIBLIOGRAFICA

Il vento soffia, dai bastioni


9 occhi che ] occhi \che/ 39 nessun ] nessun[ o] 40 bestione ]
b[ + es]tione 49 attraverso ] [ mentre scendevano] attraverso 66 dopo ]
dopo/,\ 84 piedi, ] piedi/,\ 95 giovent ] giovent/,\ 115 e ] /e\ 150 toccheffuggi ] toccheffuggi uniformato alle altre occorrenze con virgolette

Un duello
3-5 dolente. Una prigione] dolente [, + . ] [ affezio /la citt:\ | nata alla
sua propria storia: gli occhi rivolti a un passato di | principesche e crudeli
dominazioni, il cuore gonfio di ladri | eleganti, vecchi signori levantini, impauriti dalloscuro fu- | turo di quegli anni.] 21 dal ] [ nel \ dal] 89 pareti ] [a + p][p + a][r + r]eti 114 vecchio ] v[h + e]cchio 124 imbattibili, ]
imbattibili/,\ 233 attorniato ] atto\r/niato

Sergio Atzeni nasce a Capoterra (Cagliari) nel 1952 ma da subito


vive a Cagliari, la sua citt, dove trascorrer linfanzia, ladolescenza - con una parentesi a Orgosolo (Nuoro) frequentando le scuole
medie - e parte della maturit. A Cagliari compie gli studi liceali e
siscrive alla Facolt di Filosofia, senza per altro laurearsi. Quelli
giovanili sono anni dimpegno politico, nelle file del partito Comunista, che trovano riscontro in esperienze teatrali pure militanti,
solo in parte affidate alla stampa. Sono anche gli anni in cui inizia
una ininterrotta e precoce (1966) attivit giornalistica condotta su
vari periodici e quotidiani (Rinascita sarda, Il Luned della Sardegna, LUnione Sarda, lUnit, La Nuova Sardegna, Altair rivista da Atzeni fondata e diretta) ma anche per la radio. Al
1976 risale il primo impiego stabile, allENEL, lavoro dufficio sgradito che accompagna agli inizi letterari in terra sarda fino alla decisione di trasferirsi dallIsola nel 1986, lanno della pubblicazione
dellApologo del giudice bandito, il suo primo romanzo. Dopo un
periodo trascorso in giro per lEuropa, si ferma a SantIlario dEnza in Emilia, tra il 1990 e il 1993, anni occupati dalla professione di
traduttore per conto di diversi editori italiani; in seguito si stabilisce a Torino, sua residenza fino alla morte avvenuta il 6 settembre
1995 nelle acque dellisola di Carloforte durante un soggiorno in
Sardegna. Tra il 1986 e il 1995 si colloca il periodo pi produttivo
di Atzeni: scrive e pubblica i suoi romanzi pi noti (Il figlio di Bakunn, Il quinto passo laddio, Passavamo sulla terra leggeri postumo ma consegnato in vita alleditore), pubblica numerosi articoli e
recensioni sui giornali, oltre ad affermarsi come apprezzato traduttore (dal francese) di saggistica e narrativa.

Una prima bibliografia completa (aggiornata al 1996) delle opere di Atzeni, curata da Gigliola Sulis, si trova in GIUSEPPE MARCI GIGLIOLA SULIS, Trovare racconti mai narrati, dirli con gioia. Convegno di studi su Sergio Atzeni - Cagliari 25-26 novembre 1996,
Cuec, Cagliari 2001, pp. 155-186.
Tra le prime cose del periodo sardo ricordiamo: Quel maggio
1906. Ballata per una rivolta cagliaritana [teatro], Edes, Sassari
1977 e Araj dimoniu. Antica leggenda sarda, con illustrazioni di
Giorgio Pellegrini, Le Volpi Editrice, Cagliari 1984 [poi in Linea
dombra, nn. 21-22, novembre-dicembre 1987; in seguito, postumo, in versione di poco variata dallautore, in Bellas mariposas,
1996, con altro titolo; vedi sotto]. Chiude questo periodo il primo
romanzo: Apologo del giudice bandito, Sellerio, Palermo 1986 [nel
2003 riproposto fra I capolavori sardi, collana curata dal quotidiano La Nuova Sardegna].
In vita Atzeni pubblica ancora Il figlio di Bakunn, Sellerio, Palermo 1991 [nel 2004 ripubblicato nella Biblioteca dellidentit
curata dal quotidiano lUnione Sarda] e far in tempo a vedere
stampato Il quinto passo laddio, Mondadori, Milano 1995, ripreso un anno dopo da Il Maestrale di Nuoro con presentazione di
Giuseppe Marci [ristampato nel 2001 con prefazione di Stefano
Giovanardi, Ilisso, Nuoro].
Postumi escono: Passavamo sulla terra leggeri, Mondadori, Milano 1996 (gi consegnato alleditore); nel 1997 ancora per Il Maestrale con presentazione di Mauro Pala [poi: Ilisso, Nuoro 2000, introduzione di Giovanna Cerina] e Bellas mariposas, Sellerio, Palermo 1996 [vi si ripropone anche il racconto del 1984 Araj dimoniu,
con il titolo Il demonio cane bianco; ledizione Sellerio verr poi ripresa ne La Biblioteca dellidentit de lUnione Sarda con prefazione di Goffredo Fofi, 2003]. Altre tessere dellAtzeni narratore
si hanno col racconto lungo Giochi di una storia minima pubblicato
su lUnione Sarda il 7 ottobre 1995 [riproposto nel volumetto
Sotto! col titolo Campane e cani bagnati, a cura di Giuseppe
Marci, Condaghes, Cagliari 1996; contiene anche Il mestiere dello

scrittore, conferenza tenuta a Cagliari dallautore nel 1991] e, in volume e in edizione critica, con i Racconti con colonna sonora e altri
in giallo, a cura di Giancarlo Porcu, Il Maestrale, Nuoro 2002
[racconti risalenti ai primi anni Ottanta solo in parte editi sul mensile di fumetti Orient Express e su Il Giallo Mondadori]; e ancora con Gli anni della grande peste, Con una nota di Paola Mazzarelli, Sellerio, Palermo 2003 [raduna racconti comparsi a stampa in
diverse riviste fra 1977 e il 1995].

zas - Zere
zas / i istoriedLAtzeni poeta si pu conoscere in Zere
das / i cantus de amorau / i muttettus, Cagliari, edizione fuori commercio a tiratura limitata, 1995; e poi ampiamente rivelato nella
raccolta Due colori esistono al mondo. Il verde il secondo, a cura di
Giovanni Dettori, introduzione di Leandro Muoni, Il Maestrale,
Nuoro 1997.
Sul versante della scrittura giornalistica il volume intitolato
Raccontar fole, a cura di Paola Mazzarelli, Sellerio, Palermo 1999,
ironica confutazione delle invenzioni riportate da viaggiatori stranieri passati in Sardegna. Lintera produzione propriamente giornalistica ora disponibile, a cura di Gigliola Sulis, nei due volumi
della collana I Menhir de Il Maestrale (Nuoro 2005): Scritti giornalistici. 1966-1995.
Tra i titoli tradotti da Atzeni ricordiamo: CLAUDE LVI-STRAUSS,
La storia di Lince. Il mito dei gemelli e le radici etiche del dualismo
amerindiano, Einaudi, Torino 1993; GRARD GENETTE, Finzione e
dizione, Pratiche Editrice, Parma 1994; PATRICK CHAMOISEAU, Texaco, Einaudi, Torino 1994 [ora: Il Maestrale, Nuoro 2004]; JEAN
PAUL ROUX, Tamerlano, Garzanti, Milano 1995. Particolarmente
preziosa per comprendere il traduttore, con interessanti addentellati rispetto alla poetica che informa la personale produzione narrativa, la pubblicazione (in Portales, 2, agosto 2002, pp. 101122, con introduzione di Gigliola Sulis) della trascrizione di un seminario tenuto presso lUniversit di Parma il 3 maggio 1995: Tradurre dal creolo [su Texaco di Chamoiseau].

Una prima bibliografia completa (aggiornata al 1996) delle opere di Atzeni, curata da Gigliola Sulis, si trova in GIUSEPPE MARCI GIGLIOLA SULIS, Trovare racconti mai narrati, dirli con gioia. Convegno di studi su Sergio Atzeni - Cagliari 25-26 novembre 1996,
Cuec, Cagliari 2001, pp. 155-186.
Tra le prime cose del periodo sardo ricordiamo: Quel maggio
1906. Ballata per una rivolta cagliaritana [teatro], Edes, Sassari
1977 e Araj dimoniu. Antica leggenda sarda, con illustrazioni di
Giorgio Pellegrini, Le Volpi Editrice, Cagliari 1984 [poi in Linea
dombra, nn. 21-22, novembre-dicembre 1987; in seguito, postumo, in versione di poco variata dallautore, in Bellas mariposas,
1996, con altro titolo; vedi sotto]. Chiude questo periodo il primo
romanzo: Apologo del giudice bandito, Sellerio, Palermo 1986 [nel
2003 riproposto fra I capolavori sardi, collana curata dal quotidiano La Nuova Sardegna].
In vita Atzeni pubblica ancora Il figlio di Bakunn, Sellerio, Palermo 1991 [nel 2004 ripubblicato nella Biblioteca dellidentit
curata dal quotidiano lUnione Sarda] e far in tempo a vedere
stampato Il quinto passo laddio, Mondadori, Milano 1995, ripreso un anno dopo da Il Maestrale di Nuoro con presentazione di
Giuseppe Marci [ristampato nel 2001 con prefazione di Stefano
Giovanardi, Ilisso, Nuoro].
Postumi escono: Passavamo sulla terra leggeri, Mondadori, Milano 1996 (gi consegnato alleditore); nel 1997 ancora per Il Maestrale con presentazione di Mauro Pala [poi: Ilisso, Nuoro 2000, introduzione di Giovanna Cerina] e Bellas mariposas, Sellerio, Palermo 1996 [vi si ripropone anche il racconto del 1984 Araj dimoniu,
con il titolo Il demonio cane bianco; ledizione Sellerio verr poi ripresa ne La Biblioteca dellidentit de lUnione Sarda con prefazione di Goffredo Fofi, 2003]. Altre tessere dellAtzeni narratore
si hanno col racconto lungo Giochi di una storia minima pubblicato
su lUnione Sarda il 7 ottobre 1995 [riproposto nel volumetto
Sotto! col titolo Campane e cani bagnati, a cura di Giuseppe
Marci, Condaghes, Cagliari 1996; contiene anche Il mestiere dello

scrittore, conferenza tenuta a Cagliari dallautore nel 1991] e, in volume e in edizione critica, con i Racconti con colonna sonora e altri
in giallo, a cura di Giancarlo Porcu, Il Maestrale, Nuoro 2002
[racconti risalenti ai primi anni Ottanta solo in parte editi sul mensile di fumetti Orient Express e su Il Giallo Mondadori]; e ancora con Gli anni della grande peste, Con una nota di Paola Mazzarelli, Sellerio, Palermo 2003 [raduna racconti comparsi a stampa in
diverse riviste fra 1977 e il 1995].

zas - Zere
zas / i istoriedLAtzeni poeta si pu conoscere in Zere
das / i cantus de amorau / i muttettus, Cagliari, edizione fuori commercio a tiratura limitata, 1995; e poi ampiamente rivelato nella
raccolta Due colori esistono al mondo. Il verde il secondo, a cura di
Giovanni Dettori, introduzione di Leandro Muoni, Il Maestrale,
Nuoro 1997.
Sul versante della scrittura giornalistica il volume intitolato
Raccontar fole, a cura di Paola Mazzarelli, Sellerio, Palermo 1999,
ironica confutazione delle invenzioni riportate da viaggiatori stranieri passati in Sardegna. Lintera produzione propriamente giornalistica ora disponibile, a cura di Gigliola Sulis, nei due volumi
della collana I Menhir de Il Maestrale (Nuoro 2005): Scritti giornalistici. 1966-1995.
Tra i titoli tradotti da Atzeni ricordiamo: CLAUDE LVI-STRAUSS,
La storia di Lince. Il mito dei gemelli e le radici etiche del dualismo
amerindiano, Einaudi, Torino 1993; GRARD GENETTE, Finzione e
dizione, Pratiche Editrice, Parma 1994; PATRICK CHAMOISEAU, Texaco, Einaudi, Torino 1994 [ora: Il Maestrale, Nuoro 2004]; JEAN
PAUL ROUX, Tamerlano, Garzanti, Milano 1995. Particolarmente
preziosa per comprendere il traduttore, con interessanti addentellati rispetto alla poetica che informa la personale produzione narrativa, la pubblicazione (in Portales, 2, agosto 2002, pp. 101122, con introduzione di Gigliola Sulis) della trascrizione di un seminario tenuto presso lUniversit di Parma il 3 maggio 1995: Tradurre dal creolo [su Texaco di Chamoiseau].

Atzeni tradotto soprattutto in Francia: Le Fils de Bakouine [Il


figlio di Bakunn], traduzione di Marc Porcu, La fosse aux ours,
Lyon 2000; La fable du juge bandit [Apologo del giudice bandito],
traduzione di Marc Porcu, La fosse aux ours, Lyon 2000; Bellas mariposas, traduzione di Claude Schmitt, Zulma, Paris 2000; Deux couleurs existent au monde le vert est la seconde [Due colori esistono
al mondo. Il verde il secondo], traduzione di Marc Porcu, ditions la passe du vent, Genouilleux 2003; Rcits avec bande-son
[scelta da: Racconti con colonna sonora e altri in giallo], traduzione di Paul Berthelot, Virginie Paumier, Aude Petiton SaintMard, Marc Porcu, Marion Reybaud, La fosse aux ours, Paris 2004.
Negli Stati Uniti: Bakunins Son [Il figlio di Bakunn], traduzione di
John H. Rugman, New York, Italica Press, 1996. In Spagna: El hijo
de Bakunin [Il figlio di Bakunn], traduzione di Sara Palacios, Barcelona, Juventud, 1995. Un saggio di traduzione in ungherese da Il
figlio di Bakunn sta in Magyar Napl, n. 4, ottobre-novembredicembre 2000: Bakunyin fia, traduzione di Lvia Brcz.
Ad Atzeni dedicava un capitolo GIUSEPPE MARCI, Narrativa sarda del Novecento, Cuec, Cagliari 1991. Schede sullApologo del giudice bandito e su Il figlio di Bakunn di GIOVANNA MURRU si trovano in Scrivere al confine, radici, moralit e cultura nei romanzieri
sardi contemporanei, a cura di Giuseppe Marci, Cuec, Cagliari
1994. Da segnalare un articolo di LUCA CANALI, Tre modi di raccontare, in Il Giornale, 8 febbraio 1995. Utile lintervista ad Atzeni
di GIGLIOLA SULIS, La scrittura, la lingua e il dubbio sulla verit. Intervista a Sergio Atzeni, La grotta della vipera, XX, 66-67, 1994,
pp. 34-41. Numerose le testimonianze e gli interventi giornalistici
allindomani della morte di Atzeni. Ci limitiamo a ricordare: GIULIO ANGIONI, Rabbia e ragione, Linea dOmbra, 108, ottobre
1995; ROBERTO CAGLIERO, Lultimo passo - in ricordo di Sergio Atzeni, Gazzetta di Parma, 10 ottobre 1995; FRANCO CORDELLI, Il
Quinto passo fatale, LIndipendente, 17-18 settembre 1995;
GIOVANNI DETTORI, Frammenti di pagine in fuga, lUnione Sar-

da, 26 ottobre 1995; ERNESTO FERRERO, Sergio Atzeni, uomo inattuale, La Nuova Sardegna, 10 ottobre 1995; GOFFREDO FOFI, La
morale di Atzeni, lUnit, 18 settembre 1995; GIUSEPPE MARCI,
E il tempo si preso parole e passioni, La Nuova Sardegna, 8 settembre 1995.
Una tempestiva ricognizione, tra testimonianza e critica, negli
interventi raccolti nel numero de La grotta della vipera dedicato
allo scrittore (XXI, 72-73, 1995; testimonianze di Sergio Bullegas,
Patrick Chamoiseau, Silvie Coyaud, Giovanni Dettori, Ernesto
Ferrero, Eleonora Frongia - Elisabetta Pireddu, Elvira Sellerio; interventi di Giuseppe Marci e Dino Manca; una poesia per Sergio
Atzeni, Fogli cancellati, di Dora Lias. Di Atzeni si riportano: la ricostruzione di una conferenza tenuta da Atzeni nellaprile del 1995
allUniversit di Verona, poi riproposta con aggiunte in Bollettino della societ letteraria, Verona, dicembre 1996; un saggio di
traduzione da Antan denfance di Chamoiseau; due testi poetici
inediti: una fuga e altro non so). Un primo ritratto complessivo di
Atzeni nella monografia di GIUSEPPE MARCI, Sergio Atzeni: a Lonely Man, Cagliari, CUEC, 1999 (vi si raccolgono scritti gi editi
tra il 1991 e il 1998 con laggiunta di contributi inediti). Interventi
di rilievo, sul piano documentario oltre che su quello interpretativo, sono ora disponibili nella pubblicazione degli atti di un convegno sullo scrittore a cura di MARCI - SULIS, Trovare racconti mai
narrati, dirli con gioia, cit. (contributi dei curatori, di Bruno Anatra, Monica Farnetti, Gianni Filippini, Cristina Lavinio, Tonina
Paba, Mauro Pala, Giorgio Rimondi). Sugli esordi del narratore si
veda GIANCARLO PORCU, Tumbano tamburi. Storie e progetti di
musica, scrittura e periferie (2002), saggio contenuto nelledizione
dei Racconti con colonna sonora e altri in giallo, cit. (pp. 173186). Alla Notizia sul testo, ai Criteri di edizione e agli Apparati critici (pp. 109-163) di tale edizione si rinvia per un primo esempio di
filologia atzeniana (integrabile con GIANCARLO PORCU, Unesistenza concentrata su un inesausto lavoro di scrittura, lUnione Sarda,
27 giugno 2003).

Atzeni tradotto soprattutto in Francia: Le Fils de Bakouine [Il


figlio di Bakunn], traduzione di Marc Porcu, La fosse aux ours,
Lyon 2000; La fable du juge bandit [Apologo del giudice bandito],
traduzione di Marc Porcu, La fosse aux ours, Lyon 2000; Bellas mariposas, traduzione di Claude Schmitt, Zulma, Paris 2000; Deux couleurs existent au monde le vert est la seconde [Due colori esistono
al mondo. Il verde il secondo], traduzione di Marc Porcu, ditions la passe du vent, Genouilleux 2003; Rcits avec bande-son
[scelta da: Racconti con colonna sonora e altri in giallo], traduzione di Paul Berthelot, Virginie Paumier, Aude Petiton SaintMard, Marc Porcu, Marion Reybaud, La fosse aux ours, Paris 2004.
Negli Stati Uniti: Bakunins Son [Il figlio di Bakunn], traduzione di
John H. Rugman, New York, Italica Press, 1996. In Spagna: El hijo
de Bakunin [Il figlio di Bakunn], traduzione di Sara Palacios, Barcelona, Juventud, 1995. Un saggio di traduzione in ungherese da Il
figlio di Bakunn sta in Magyar Napl, n. 4, ottobre-novembredicembre 2000: Bakunyin fia, traduzione di Lvia Brcz.
Ad Atzeni dedicava un capitolo GIUSEPPE MARCI, Narrativa sarda del Novecento, Cuec, Cagliari 1991. Schede sullApologo del giudice bandito e su Il figlio di Bakunn di GIOVANNA MURRU si trovano in Scrivere al confine, radici, moralit e cultura nei romanzieri
sardi contemporanei, a cura di Giuseppe Marci, Cuec, Cagliari
1994. Da segnalare un articolo di LUCA CANALI, Tre modi di raccontare, in Il Giornale, 8 febbraio 1995. Utile lintervista ad Atzeni
di GIGLIOLA SULIS, La scrittura, la lingua e il dubbio sulla verit. Intervista a Sergio Atzeni, La grotta della vipera, XX, 66-67, 1994,
pp. 34-41. Numerose le testimonianze e gli interventi giornalistici
allindomani della morte di Atzeni. Ci limitiamo a ricordare: GIULIO ANGIONI, Rabbia e ragione, Linea dOmbra, 108, ottobre
1995; ROBERTO CAGLIERO, Lultimo passo - in ricordo di Sergio Atzeni, Gazzetta di Parma, 10 ottobre 1995; FRANCO CORDELLI, Il
Quinto passo fatale, LIndipendente, 17-18 settembre 1995;
GIOVANNI DETTORI, Frammenti di pagine in fuga, lUnione Sar-

da, 26 ottobre 1995; ERNESTO FERRERO, Sergio Atzeni, uomo inattuale, La Nuova Sardegna, 10 ottobre 1995; GOFFREDO FOFI, La
morale di Atzeni, lUnit, 18 settembre 1995; GIUSEPPE MARCI,
E il tempo si preso parole e passioni, La Nuova Sardegna, 8 settembre 1995.
Una tempestiva ricognizione, tra testimonianza e critica, negli
interventi raccolti nel numero de La grotta della vipera dedicato
allo scrittore (XXI, 72-73, 1995; testimonianze di Sergio Bullegas,
Patrick Chamoiseau, Silvie Coyaud, Giovanni Dettori, Ernesto
Ferrero, Eleonora Frongia - Elisabetta Pireddu, Elvira Sellerio; interventi di Giuseppe Marci e Dino Manca; una poesia per Sergio
Atzeni, Fogli cancellati, di Dora Lias. Di Atzeni si riportano: la ricostruzione di una conferenza tenuta da Atzeni nellaprile del 1995
allUniversit di Verona, poi riproposta con aggiunte in Bollettino della societ letteraria, Verona, dicembre 1996; un saggio di
traduzione da Antan denfance di Chamoiseau; due testi poetici
inediti: una fuga e altro non so). Un primo ritratto complessivo di
Atzeni nella monografia di GIUSEPPE MARCI, Sergio Atzeni: a Lonely Man, Cagliari, CUEC, 1999 (vi si raccolgono scritti gi editi
tra il 1991 e il 1998 con laggiunta di contributi inediti). Interventi
di rilievo, sul piano documentario oltre che su quello interpretativo, sono ora disponibili nella pubblicazione degli atti di un convegno sullo scrittore a cura di MARCI - SULIS, Trovare racconti mai
narrati, dirli con gioia, cit. (contributi dei curatori, di Bruno Anatra, Monica Farnetti, Gianni Filippini, Cristina Lavinio, Tonina
Paba, Mauro Pala, Giorgio Rimondi). Sugli esordi del narratore si
veda GIANCARLO PORCU, Tumbano tamburi. Storie e progetti di
musica, scrittura e periferie (2002), saggio contenuto nelledizione
dei Racconti con colonna sonora e altri in giallo, cit. (pp. 173186). Alla Notizia sul testo, ai Criteri di edizione e agli Apparati critici (pp. 109-163) di tale edizione si rinvia per un primo esempio di
filologia atzeniana (integrabile con GIANCARLO PORCU, Unesistenza concentrata su un inesausto lavoro di scrittura, lUnione Sarda,
27 giugno 2003).

Indicazioni sempre utili si trovano comunque nelle introduzioni


dei curatori alle opere di Atzeni citate sopra. Si vedano anche le testimonianze di MARCELLO FOIS, Il coraggio del presente, e CARLO
LUCARELLI, Sergio e io, entrambe in La grotta della vipera, XXII,
78, 1997, pp. 49-51 e p. 52; il contributo di MARIE CARDINET ANTONA, Lopera di Sergio Atzeni: una poesia umanista e meridionale,
La grotta della vipera, XXIV, 81, 1998, pp. 34-38; larticolo di
FRANCO CORDELLI, La scrittura come sfida, La Nuova Sardegna,
1 ottobre 1996; la recensione a Bellas mariposas di ERNESTO FERRERO, Atzeni vive con le sue farfalle, La Stampa, Tuttolibri, 30
gennaio 1997.

Il sogno del prigioniero


La citt bianca tra realt e trasfigurazione fantastica

di Giuseppe Grecu
Giancarlo Porcu
giugno

Indicazioni sempre utili si trovano comunque nelle introduzioni


dei curatori alle opere di Atzeni citate sopra. Si vedano anche le testimonianze di MARCELLO FOIS, Il coraggio del presente, e CARLO
LUCARELLI, Sergio e io, entrambe in La grotta della vipera, XXII,
78, 1997, pp. 49-51 e p. 52; il contributo di MARIE CARDINET ANTONA, Lopera di Sergio Atzeni: una poesia umanista e meridionale,
La grotta della vipera, XXIV, 81, 1998, pp. 34-38; larticolo di
FRANCO CORDELLI, La scrittura come sfida, La Nuova Sardegna,
1 ottobre 1996; la recensione a Bellas mariposas di ERNESTO FERRERO, Atzeni vive con le sue farfalle, La Stampa, Tuttolibri, 30
gennaio 1997.

Il sogno del prigioniero


La citt bianca tra realt e trasfigurazione fantastica

di Giuseppe Grecu
Giancarlo Porcu
giugno

La vicenda umana di Sergio Atzeni si conclude tragicamente il 6 settembre 1995. Lo scrittore scompare nelle acque
invitanti, ma spesso infide, dellisola di S. Pietro, poco lontano dalla chiesetta un tempo dedicata ai Novelli Innocenti, i
ragazzi che parteciparono alla cosiddetta Crociata dei fanciulli e che perirono, secondo la tradizione, in quello stesso
mare in tempesta. Ci che non si spegne il ricordo, la memoria. Anche il rimpianto per una vicenda letteraria troppo
presto spezzata non si affievolisce, sebbene negli anni immediatamente successivi alla morte siano giunti frutti succosi e
maturi come Passavamo sulla terra leggeri e Bellas Mariposas.
La pubblicazione dei racconti che compongono I sogni
della citt bianca rappresenta, invece, un ritorno alle sorgenti narrative. La raccolta appartiene, infatti, al primo periodo
della carriera letteraria dellautore cagliaritano, quello sommerso, precedente alla pubblicazione, nel 1986, dellApologo del giudice bandito, e alla sofferta decisione di lasciare lisola, condizione necessaria per realizzare un sogno a lungo
inseguito: laspirazione a vivere del mestiere che sente proprio, quello di scrittore.
Due di questi racconti, Una leggenda meridionale e Un
duello, possono essere considerati come cartoni preparatori
al grande affresco che apre la stagione dei romanzi. Un cammeo allinterno del primo la leggenda meridionale dellinvasione e del processo alle cavallette, su cui si regge pro

La vicenda umana di Sergio Atzeni si conclude tragicamente il 6 settembre 1995. Lo scrittore scompare nelle acque
invitanti, ma spesso infide, dellisola di S. Pietro, poco lontano dalla chiesetta un tempo dedicata ai Novelli Innocenti, i
ragazzi che parteciparono alla cosiddetta Crociata dei fanciulli e che perirono, secondo la tradizione, in quello stesso
mare in tempesta. Ci che non si spegne il ricordo, la memoria. Anche il rimpianto per una vicenda letteraria troppo
presto spezzata non si affievolisce, sebbene negli anni immediatamente successivi alla morte siano giunti frutti succosi e
maturi come Passavamo sulla terra leggeri e Bellas Mariposas.
La pubblicazione dei racconti che compongono I sogni
della citt bianca rappresenta, invece, un ritorno alle sorgenti narrative. La raccolta appartiene, infatti, al primo periodo
della carriera letteraria dellautore cagliaritano, quello sommerso, precedente alla pubblicazione, nel 1986, dellApologo del giudice bandito, e alla sofferta decisione di lasciare lisola, condizione necessaria per realizzare un sogno a lungo
inseguito: laspirazione a vivere del mestiere che sente proprio, quello di scrittore.
Due di questi racconti, Una leggenda meridionale e Un
duello, possono essere considerati come cartoni preparatori
al grande affresco che apre la stagione dei romanzi. Un cammeo allinterno del primo la leggenda meridionale dellinvasione e del processo alle cavallette, su cui si regge pro

prio larchitettura dellApologo del giudice bandito; mentre


in Un duello la partita a scacchi col direttore del carcere prefigura quella di Itzoccor Gunale (protagonista del romanzo)
col vicer, e il combattimento con lassassino nel fondo del
pozzo, quello dello stesso giudice con Al.
Fra I sogni della citt bianca si rivelano familiari anche Primavera, nella citt murata e Storia del carnevale, redazioni
che precedono quelle di Nella citt murata, pubblicato sul
quotidiano lUnione Sarda nel 1988, e di La maschera da
matto, apparso nel 1990 allinterno della rivista fiorentina
Stazione di Posta. Nel passaggio alle versioni definitive, di
dimensioni simili alle precedenti, si ravvisa un pi disteso
periodare: sequenze di frasi di Storia del carnevale sono inglobate nei lunghi periodi di La maschera da matto. Significativo appare labbandono delle espressioni in sardo di Primavera, nella citt murata a favore del monolinguismo di Nella
citt murata, forse da collegare alla scelta, temporanea, di
una lingua unica (seppure su differenti livelli a seconda di
chi parli) per il romanzo Il figlio di Bakunn, dato alle stampe
nel 1991.
Storia coloniale costituisce la precedente stesura di Ancora
la citt, i canali, ora pubblicato in Racconti con colonna sonora1. , infatti, questultima versione che Atzeni porta con s
quando nel 1986 lascia Cagliari, e che, pertanto, dobbiamo
considerare al momento come definitiva2. Ancora la citt, i

canali una versione scorciata di Storia coloniale, pi accurata dal punto di vista stilistico e strutturale, mostrando come lo scrittore intervenga spesso sul testo per forza di levare, su un percorso che conduce verso una prosa essenziale e
brillante, individuata da larga parte della critica come tratto
dominante del suo stile.
Divenuti una preziosa riserva da cui attingere, i ventisette
racconti de I sogni della citt bianca non seguono per lautore nelle sue peregrinazioni in Europa e in Italia, ma restano a Cagliari, dove sono nati e dove sono, nella quasi totalit, ambientati.
Con la presente raccolta si ritorna quindi alla citt bianca
abbandonata da Ruggero Gunale, il luogo dove il protagonista de Il quinto passo laddio ha amato, sofferto e fatto il
buffone3. I tre brani da Lawrence, Vittorini e Cambosu,
epigrafi che dovevano essere poste in apertura allinsieme di
racconti qui pubblicati o delle sezioni La citt bianca e I sogni della citt bianca, riportano ad altrettante descrizioni di
Cagliari. Tre diversi punti di vista, la visione di scrittori di
tre nazionalit alle quali Atzeni dichiara, contemporaneamente, di appartenere: europea, italiana e sarda4.
Rammentando la genesi di La maschera da matto, Atzeni
lamenta che non vi siano narrazioni riguardanti la sua citt
fatte da scrittori locali: Devo dire la verit: raccontare Cagliari stato uno dei motivi che mi ha spinto a cercare di scrivere racconti. Avevo notato che nei giornali, in televisione,

1
ATZENI, Racconti con colonna sonora e altri in giallo, a cura di Giancarlo Porcu, Il Maestrale, Nuoro 2002.
2
Ancora la citt, i canali si conserva dattiloscritto nella Cartella Racconti,
custodita a Torino da Paola Mazzarelli (si veda la Notizia sul testo delledizione dei Racconti con colonna sonora curata da Porcu sopra citata, p. 110).

ATZENI, Il quinto passo laddio, Il Maestrale, Nuoro 1996, p. 15 (I edizione: Mondadori, Milano 1995).
4
ATZENI, Nazione e narrazione, lUnione Sarda, 9 novembre 1994.

prio larchitettura dellApologo del giudice bandito; mentre


in Un duello la partita a scacchi col direttore del carcere prefigura quella di Itzoccor Gunale (protagonista del romanzo)
col vicer, e il combattimento con lassassino nel fondo del
pozzo, quello dello stesso giudice con Al.
Fra I sogni della citt bianca si rivelano familiari anche Primavera, nella citt murata e Storia del carnevale, redazioni
che precedono quelle di Nella citt murata, pubblicato sul
quotidiano lUnione Sarda nel 1988, e di La maschera da
matto, apparso nel 1990 allinterno della rivista fiorentina
Stazione di Posta. Nel passaggio alle versioni definitive, di
dimensioni simili alle precedenti, si ravvisa un pi disteso
periodare: sequenze di frasi di Storia del carnevale sono inglobate nei lunghi periodi di La maschera da matto. Significativo appare labbandono delle espressioni in sardo di Primavera, nella citt murata a favore del monolinguismo di Nella
citt murata, forse da collegare alla scelta, temporanea, di
una lingua unica (seppure su differenti livelli a seconda di
chi parli) per il romanzo Il figlio di Bakunn, dato alle stampe
nel 1991.
Storia coloniale costituisce la precedente stesura di Ancora
la citt, i canali, ora pubblicato in Racconti con colonna sonora1. , infatti, questultima versione che Atzeni porta con s
quando nel 1986 lascia Cagliari, e che, pertanto, dobbiamo
considerare al momento come definitiva2. Ancora la citt, i

canali una versione scorciata di Storia coloniale, pi accurata dal punto di vista stilistico e strutturale, mostrando come lo scrittore intervenga spesso sul testo per forza di levare, su un percorso che conduce verso una prosa essenziale e
brillante, individuata da larga parte della critica come tratto
dominante del suo stile.
Divenuti una preziosa riserva da cui attingere, i ventisette
racconti de I sogni della citt bianca non seguono per lautore nelle sue peregrinazioni in Europa e in Italia, ma restano a Cagliari, dove sono nati e dove sono, nella quasi totalit, ambientati.
Con la presente raccolta si ritorna quindi alla citt bianca
abbandonata da Ruggero Gunale, il luogo dove il protagonista de Il quinto passo laddio ha amato, sofferto e fatto il
buffone3. I tre brani da Lawrence, Vittorini e Cambosu,
epigrafi che dovevano essere poste in apertura allinsieme di
racconti qui pubblicati o delle sezioni La citt bianca e I sogni della citt bianca, riportano ad altrettante descrizioni di
Cagliari. Tre diversi punti di vista, la visione di scrittori di
tre nazionalit alle quali Atzeni dichiara, contemporaneamente, di appartenere: europea, italiana e sarda4.
Rammentando la genesi di La maschera da matto, Atzeni
lamenta che non vi siano narrazioni riguardanti la sua citt
fatte da scrittori locali: Devo dire la verit: raccontare Cagliari stato uno dei motivi che mi ha spinto a cercare di scrivere racconti. Avevo notato che nei giornali, in televisione,

1
ATZENI, Racconti con colonna sonora e altri in giallo, a cura di Giancarlo Porcu, Il Maestrale, Nuoro 2002.
2
Ancora la citt, i canali si conserva dattiloscritto nella Cartella Racconti,
custodita a Torino da Paola Mazzarelli (si veda la Notizia sul testo delledizione dei Racconti con colonna sonora curata da Porcu sopra citata, p. 110).

ATZENI, Il quinto passo laddio, Il Maestrale, Nuoro 1996, p. 15 (I edizione: Mondadori, Milano 1995).
4
ATZENI, Nazione e narrazione, lUnione Sarda, 9 novembre 1994.

quando si prendevano descrizioni di Cagliari [] si finiva


sempre per citare autori non sardi, come se non ci fosse una
descrizione di Cagliari o del Campidano nella nostra letteratura [] Allinizio avevo un progetto narrativo di una serie
di racconti ambientati ognuno in un quartiere diverso di Cagliari; avevo cominciato a lavorarci, ne ho scritti diversi.
Uno, ambientato in un giorno di carnevale al Villaggio dei
Pescatori, stato pubblicato da una rivista clandestina, anarchica di Firenze5.
La citt, dove si svolge la maggior parte della vita dellautore, con una significativa parentesi rappresentata dallinfanzia barbaricina (a cui fa probabilmente riferimento Araj
dimoniu), presente in tutti i romanzi, ora in primo piano
ora sullo sfondo. Rappresenta un inesauribile serbatoio di
storie, dalle quali emergono figure emblematiche che ricorrono e si rincorrono nelle varie opere, rappresentazioni personificate delle anime della citt, della sua essenza, risultato
di vicende millenarie.
Il potere, che un tempo tiranneggiava dal colle di Castello con cadenze spagnole e savoiarde, si spostato nellultimo secolo verso il porto e i suoi traffici, da baronale si fatto borghese, ma non ha mutato il suo tratto fondamentale,
quello della sopraffazione e dellannichilimento della libert individuale. Il potere si fa carne, in cancrena, nel direttore del carcere di Un duello, in Don Ximene, vicer dellApologo del giudice bandito, nel capoufficio di Ruggero Gunale
de Il quinto passo laddio.
Nelle varie epoche, ne I sogni della citt bianca come nel-

lApologo del giudice bandito o in Passavamo sulla terra leggeri, la citt porta il marchio di succursale nellisola di un potere lontano e rapace, al quale per lunghi periodi soggiace.
Tanto lontana dal cuore dellimpero. Attardata su se stessa,
decaduta e dolente la Cagliari di Un duello.
Stranieri al pari del vicer Don Ximene, di Sorbi, direttore
della miniera ne Il figlio di Bakunn, del capitano della nave
di Ruggero Gunale, sono il benevolo direttore del carcere
di Un duello, lirritante personaggio che ascolta le vicende
narrate in Da Nicola a Nicola, il giorno della sua morte, gli armigeri che sbarrano le porte di Castello in Primavera, nella
citt murata, gridando: Il buio arrivato, fuori i sardi. Non
tutti vengono per prendere, anzi qualcuno per lideale ci rimette la vita, come Oreste, signore straniero di Da Nicola a
Nicola, il giorno della sua morte.
In Passavamo sulla terra leggeri Atzeni favoleggia le origini
di Cagliari, risultato della fusione tra lelemento locale e
quello fenicio, e ne delinea limmutabile carattere, forgiato
dalle mescolanze: Fu sempre il destino di Karale: ricca, corrotta, malata6. la constatazione del legame indissolubile
fra il dentro e il fuori, risultato di una storia sospesa fra realt
e leggenda. Lessere una citt aperta, esposta alla contaminazione di culture tra loro molto diverse il motivo della sua
corruzione, ma anche della sua ricchezza, della sua forza nellassorbire e inglobare gli elementi esterni.

5
GIGLIOLA SULIS, La scrittura, la lingua e il dubbio sulla verit. Intervista a Sergio Atzeni, La grotta della vipera, XX, 66-67, 1994, pp. 34-41.

6
ATZENI, Passavamo sulla terra leggeri, Il Maestrale, Nuoro 1998, p. 58
(I edizione: Milano, Mondadori, 1996).

I sogni della citt bianca ci parlano anche di altre fusioni


molto care ad Atzeni. In merito al rapporto tra testo lettera-

quando si prendevano descrizioni di Cagliari [] si finiva


sempre per citare autori non sardi, come se non ci fosse una
descrizione di Cagliari o del Campidano nella nostra letteratura [] Allinizio avevo un progetto narrativo di una serie
di racconti ambientati ognuno in un quartiere diverso di Cagliari; avevo cominciato a lavorarci, ne ho scritti diversi.
Uno, ambientato in un giorno di carnevale al Villaggio dei
Pescatori, stato pubblicato da una rivista clandestina, anarchica di Firenze5.
La citt, dove si svolge la maggior parte della vita dellautore, con una significativa parentesi rappresentata dallinfanzia barbaricina (a cui fa probabilmente riferimento Araj
dimoniu), presente in tutti i romanzi, ora in primo piano
ora sullo sfondo. Rappresenta un inesauribile serbatoio di
storie, dalle quali emergono figure emblematiche che ricorrono e si rincorrono nelle varie opere, rappresentazioni personificate delle anime della citt, della sua essenza, risultato
di vicende millenarie.
Il potere, che un tempo tiranneggiava dal colle di Castello con cadenze spagnole e savoiarde, si spostato nellultimo secolo verso il porto e i suoi traffici, da baronale si fatto borghese, ma non ha mutato il suo tratto fondamentale,
quello della sopraffazione e dellannichilimento della libert individuale. Il potere si fa carne, in cancrena, nel direttore del carcere di Un duello, in Don Ximene, vicer dellApologo del giudice bandito, nel capoufficio di Ruggero Gunale
de Il quinto passo laddio.
Nelle varie epoche, ne I sogni della citt bianca come nel-

lApologo del giudice bandito o in Passavamo sulla terra leggeri, la citt porta il marchio di succursale nellisola di un potere lontano e rapace, al quale per lunghi periodi soggiace.
Tanto lontana dal cuore dellimpero. Attardata su se stessa,
decaduta e dolente la Cagliari di Un duello.
Stranieri al pari del vicer Don Ximene, di Sorbi, direttore
della miniera ne Il figlio di Bakunn, del capitano della nave
di Ruggero Gunale, sono il benevolo direttore del carcere
di Un duello, lirritante personaggio che ascolta le vicende
narrate in Da Nicola a Nicola, il giorno della sua morte, gli armigeri che sbarrano le porte di Castello in Primavera, nella
citt murata, gridando: Il buio arrivato, fuori i sardi. Non
tutti vengono per prendere, anzi qualcuno per lideale ci rimette la vita, come Oreste, signore straniero di Da Nicola a
Nicola, il giorno della sua morte.
In Passavamo sulla terra leggeri Atzeni favoleggia le origini
di Cagliari, risultato della fusione tra lelemento locale e
quello fenicio, e ne delinea limmutabile carattere, forgiato
dalle mescolanze: Fu sempre il destino di Karale: ricca, corrotta, malata6. la constatazione del legame indissolubile
fra il dentro e il fuori, risultato di una storia sospesa fra realt
e leggenda. Lessere una citt aperta, esposta alla contaminazione di culture tra loro molto diverse il motivo della sua
corruzione, ma anche della sua ricchezza, della sua forza nellassorbire e inglobare gli elementi esterni.

5
GIGLIOLA SULIS, La scrittura, la lingua e il dubbio sulla verit. Intervista a Sergio Atzeni, La grotta della vipera, XX, 66-67, 1994, pp. 34-41.

6
ATZENI, Passavamo sulla terra leggeri, Il Maestrale, Nuoro 1998, p. 58
(I edizione: Milano, Mondadori, 1996).

I sogni della citt bianca ci parlano anche di altre fusioni


molto care ad Atzeni. In merito al rapporto tra testo lettera-

rio e musica, si suggerisce percezione e fruizione simultanea


in Omicidio sotto la pioggia e Rond final, come nei Racconti
con colonna sonora e ne Il quinto passo laddio7. Nel racconto Caro Leonardo Sole il gioco fra le arti coinvolge, invece, letteratura e scultura8. Cos, nella raccolta non mancano
pure le intersezioni fra i vari generi e sottogeneri letterari,
dal saggio al romanzo storico alla favola morale, dal giallo al
fantastico passando per il gotico. In particolare, del fantastico lo scrittore utilizza qui ogni sfumatura, dallo strano il
fantastico quotidiano teorizzato da Calvino, in cui il soprannaturale resta invisibile, si sente pi di quanto si veda9
a quello ortodosso canonizzato da Todorov10, al meraviglioso. E il sogno, parola-tema dellintera raccolta, spesso
introduce o accompagna questi tre stadi del fantastico.
Nella raccolta si trova tutto questo, ma anche storie che a
loro volta contengono altre storie, con finali ironici e sorprendenti, a volte ai confini di un solo apparente non sense,
implicite citazioni di modelli letterari, continui rimandi tra i
racconti e spunti autobiografici, che insieme rimandano a
Brani e musiche ne Il quinto passo laddio si citano alle pp. 45, 47, 50,
65, 102, 103, 104. Dellargomento si sono occupati, in particolare, GIORGIO RIMONDI, Uno scrittore in ascolto. Considerazioni su Sergio Atzeni e la
musica, in Trovare racconti mai narrati, dirli con gioia, a cura di Giuseppe
Marci e Gigliola Sulis, Cuec, Cagliari 2001; GIANCARLO PORCU, Tumbano tamburi. Storie e progetti di musica, scrittura e periferie, in Racconti con
colonna sonora, cit.
8
Leonardo Sole (Sassari 1934) docente di Linguistica Generale presso lUniversit di Sassari (anche critico teatrale, drammaturgo e poeta).
9
ITALO CALVINO, Introduzione a Racconti fantastici dellOttocento,
Mondadori, Milano 1983, vol. I, pp. 9-10.
10
TZVETAN TODOROV, La letteratura fantastica, Garzanti, Milano 1977,
pp. 26, 32.
7

fatti o personaggi di altre opere, costruendo la biografia fantastica di un superpersonaggio, lautore stesso11.
Tra i modelli letterari, citato in diversi articoli e recensioni,
ma soprattutto ne Il quinto passo laddio (p. 35), il patriarca delle lettere Jorge Luis Borges12, al quale si deve far
riferimento per introdurre quel feticcio della modernit letteraria che la metaletteratura.
Il dialogo diretto con il lettore, raccontare il proprio modo
di narrare, di scrivere una storia, pare essere quasi unesigenza per Atzeni, pi volte ripetuta ne I sogni della citt bianca,
ed espressa in particolare in Caro Leonardo Sole, la storia di
un uomo di legno. Lopera una statua silenziosa, imprigionata nella materia, e chi narra si interroga se possa almeno
scrivere, lasciar fluire in caratteri e parole quel gesto della
mano sinistra, immaginata a impugnare una matita. In Caro
Leonardo Sole la poetica dellautore si sposa allesigenza metaletteraria: Si potrebbe infatti osservare, che qualunque
punto di vista, per quanto limitato, marginale, esterno, dalla
pi eccentrica periferia dellimpero, pur sempre un punto
di vista, e come tale merita di essere narrato, se si possiedono
gli strumenti e il mestiere per renderlo narrabile, cio pi generalmente comprensibile anche per coloro che non condividono quel punto di vista.
Anche in Da Nicola a Nicola, il giorno della sua morte si

11
Il soprannome di Caino [] qualcosa vorr dire se tale quale a
quello che dei cittadini affibbiano al protagonista de Il quinto passo laddio, Ruggero Gunale, personaggio, si sa, dai forti sentori autobiografici
(PORCU, Tumbano tamburi, cit., pp. 182-183).
12
ATZENI, Indagine di uno strampalato detective sui peccati di una antica
Buenos Aires, La Nuova Sardegna, 7 agosto 1980.

rio e musica, si suggerisce percezione e fruizione simultanea


in Omicidio sotto la pioggia e Rond final, come nei Racconti
con colonna sonora e ne Il quinto passo laddio7. Nel racconto Caro Leonardo Sole il gioco fra le arti coinvolge, invece, letteratura e scultura8. Cos, nella raccolta non mancano
pure le intersezioni fra i vari generi e sottogeneri letterari,
dal saggio al romanzo storico alla favola morale, dal giallo al
fantastico passando per il gotico. In particolare, del fantastico lo scrittore utilizza qui ogni sfumatura, dallo strano il
fantastico quotidiano teorizzato da Calvino, in cui il soprannaturale resta invisibile, si sente pi di quanto si veda9
a quello ortodosso canonizzato da Todorov10, al meraviglioso. E il sogno, parola-tema dellintera raccolta, spesso
introduce o accompagna questi tre stadi del fantastico.
Nella raccolta si trova tutto questo, ma anche storie che a
loro volta contengono altre storie, con finali ironici e sorprendenti, a volte ai confini di un solo apparente non sense,
implicite citazioni di modelli letterari, continui rimandi tra i
racconti e spunti autobiografici, che insieme rimandano a
Brani e musiche ne Il quinto passo laddio si citano alle pp. 45, 47, 50,
65, 102, 103, 104. Dellargomento si sono occupati, in particolare, GIORGIO RIMONDI, Uno scrittore in ascolto. Considerazioni su Sergio Atzeni e la
musica, in Trovare racconti mai narrati, dirli con gioia, a cura di Giuseppe
Marci e Gigliola Sulis, Cuec, Cagliari 2001; GIANCARLO PORCU, Tumbano tamburi. Storie e progetti di musica, scrittura e periferie, in Racconti con
colonna sonora, cit.
8
Leonardo Sole (Sassari 1934) docente di Linguistica Generale presso lUniversit di Sassari (anche critico teatrale, drammaturgo e poeta).
9
ITALO CALVINO, Introduzione a Racconti fantastici dellOttocento,
Mondadori, Milano 1983, vol. I, pp. 9-10.
10
TZVETAN TODOROV, La letteratura fantastica, Garzanti, Milano 1977,
pp. 26, 32.
7

fatti o personaggi di altre opere, costruendo la biografia fantastica di un superpersonaggio, lautore stesso11.
Tra i modelli letterari, citato in diversi articoli e recensioni,
ma soprattutto ne Il quinto passo laddio (p. 35), il patriarca delle lettere Jorge Luis Borges12, al quale si deve far
riferimento per introdurre quel feticcio della modernit letteraria che la metaletteratura.
Il dialogo diretto con il lettore, raccontare il proprio modo
di narrare, di scrivere una storia, pare essere quasi unesigenza per Atzeni, pi volte ripetuta ne I sogni della citt bianca,
ed espressa in particolare in Caro Leonardo Sole, la storia di
un uomo di legno. Lopera una statua silenziosa, imprigionata nella materia, e chi narra si interroga se possa almeno
scrivere, lasciar fluire in caratteri e parole quel gesto della
mano sinistra, immaginata a impugnare una matita. In Caro
Leonardo Sole la poetica dellautore si sposa allesigenza metaletteraria: Si potrebbe infatti osservare, che qualunque
punto di vista, per quanto limitato, marginale, esterno, dalla
pi eccentrica periferia dellimpero, pur sempre un punto
di vista, e come tale merita di essere narrato, se si possiedono
gli strumenti e il mestiere per renderlo narrabile, cio pi generalmente comprensibile anche per coloro che non condividono quel punto di vista.
Anche in Da Nicola a Nicola, il giorno della sua morte si

11
Il soprannome di Caino [] qualcosa vorr dire se tale quale a
quello che dei cittadini affibbiano al protagonista de Il quinto passo laddio, Ruggero Gunale, personaggio, si sa, dai forti sentori autobiografici
(PORCU, Tumbano tamburi, cit., pp. 182-183).
12
ATZENI, Indagine di uno strampalato detective sui peccati di una antica
Buenos Aires, La Nuova Sardegna, 7 agosto 1980.

apre una parentesi di dialogo diretto col lettore: Che grazia


vuoi, nel racconto? Non certo la grazia delle vecchie bianche
signore scrittrici dEuropa. Non mi appartiene. N la grazia
degli arditi giocolieri di parole che abitano il tuo mondo.
Questultima frase pare un velato riferimento ad alcuni scrittori giovani e a una certa narrativa del nostro paese che Atzeni definisce petrarchista13, cio di forme eleganti, ma di
poca sostanza.
Il rapporto con Grazia Deledda, se a lei si riferisce lo scrittore con garbata allusione nel passo sopra riportato, si instaura fin dallinfanzia: Quando ero piccolino mia nonna
mi leggeva i racconti di Grazia Deledda e quanto quei racconti mi abbiano influenzato, non lo so14. Ha una stima
profonda per lautrice nuorese, ma ritiene il suo modello di
scrittura ormai inattuale per descrivere il mondo di oggi:
Credo sia importante sottolineare la grandezza di Grazia
Deledda, tenendo presente anche lepoca in cui ha scritto, il
fatto che era donna, e questo allora, non era certo un vantag13
Limpressione generale una: fanno un po gazosa. A Cagliari fare gazosa si dice, quando si gioca a football, di quei tizi che prendono il pallone,
dribblano uno, due, tre avversari, a volte anche se stessi, poi non riescono a
passare al compagno meglio piazzato, oppure fanno un lancio bellissimo di
quaranta metri, che per finisce nellunico angolo di campo dove non c
neppure un compagno. Gianni Brera ha inventato un verbo, per questi tizi:
venezianeggiano. Ecco, i migliori [secondo parte della critica] mi paiono un
po troppo venezianeggianti. Tra i colleghi che stima di pi, reputati allora
sottovalutati dalla critica, Carlo Lucarelli, che Atzeni apprezza perch le vicende che racconta accadono proprio come nella vita, cio, e non come
nella letteratura petrarchista di questo stivale (I salvati e i sommersi, lUnione Sarda, 28 Maggio 1992).
14
ATZENI, Il mestiere dello scrittore, conferenza tenuta nel 1991 pubblicata in Sotto!, a cura di Giuseppe Marci, Condaghes, Cagliari 1996, p. 89.

gio, e lincredibile mole di produzione. Allinterno di questa


mole ci sono quattro o cinque opere che sono ancora oggi
bellissime, nonostante il tempo che passato, nonostante
nessuno racconti pi in quel modo, nonostante un lettore
moderno possa avere qualche difficolt nellapproccio alla
Deledda. Per quel tempo era straordinaria. Se io fossi il mignolo della Deledda mi riterrei soddisfatto15.
Sempre in Da Nicola a Nicola, il giorno della sua morte interessante anche la parte che riguarda la scelta dei nomi. A
proposito del paese del padre, la voce narrante cita, primo di
una lunga serie, il nome Tullio, lo stesso del protagonista del
romanzo Il figlio di Bakunn, la storia del quale pare essere la
trasfigurazione romanzata della vita di Licio Atzeni, padre
dello scrittore: Tullio e Virgilio, messi. Si chiamano cos alla bocca della miniera.
I personaggi che popolano I sogni della citt bianca possiedono spesso nomi dalla forte carica ironica (Puppipepper,
Mariotto P, Burriba, Ofelia Pintus), meno frequente lidentificazione delle caratteristiche del personaggio fin dal
nome, lhomen nomen (Luigino Testadiferro, Panciadinsetto, Faina). In Una leggenda meridionale, invece, tutti si chiamano Domenico, e lautore ne spiega il motivo: ognuno
servo o padrone di qualcun altro. Lunica signoria che non
merita condanna, poich cela in s la propria pena, quella
damore.
Ibrahim, semi-occulto protagonista di un ciclo di racconti
allinterno della raccolta, traduzione araba di Abramo, nome di uno dei protagonisti, con Gioacchino, di Anche le pratiche possono morire. Ibrahim dunque arabo come Al
15

SULIS, La scrittura, la lingua e il dubbio sulla verit, cit.

apre una parentesi di dialogo diretto col lettore: Che grazia


vuoi, nel racconto? Non certo la grazia delle vecchie bianche
signore scrittrici dEuropa. Non mi appartiene. N la grazia
degli arditi giocolieri di parole che abitano il tuo mondo.
Questultima frase pare un velato riferimento ad alcuni scrittori giovani e a una certa narrativa del nostro paese che Atzeni definisce petrarchista13, cio di forme eleganti, ma di
poca sostanza.
Il rapporto con Grazia Deledda, se a lei si riferisce lo scrittore con garbata allusione nel passo sopra riportato, si instaura fin dallinfanzia: Quando ero piccolino mia nonna
mi leggeva i racconti di Grazia Deledda e quanto quei racconti mi abbiano influenzato, non lo so14. Ha una stima
profonda per lautrice nuorese, ma ritiene il suo modello di
scrittura ormai inattuale per descrivere il mondo di oggi:
Credo sia importante sottolineare la grandezza di Grazia
Deledda, tenendo presente anche lepoca in cui ha scritto, il
fatto che era donna, e questo allora, non era certo un vantag13
Limpressione generale una: fanno un po gazosa. A Cagliari fare gazosa si dice, quando si gioca a football, di quei tizi che prendono il pallone,
dribblano uno, due, tre avversari, a volte anche se stessi, poi non riescono a
passare al compagno meglio piazzato, oppure fanno un lancio bellissimo di
quaranta metri, che per finisce nellunico angolo di campo dove non c
neppure un compagno. Gianni Brera ha inventato un verbo, per questi tizi:
venezianeggiano. Ecco, i migliori [secondo parte della critica] mi paiono un
po troppo venezianeggianti. Tra i colleghi che stima di pi, reputati allora
sottovalutati dalla critica, Carlo Lucarelli, che Atzeni apprezza perch le vicende che racconta accadono proprio come nella vita, cio, e non come
nella letteratura petrarchista di questo stivale (I salvati e i sommersi, lUnione Sarda, 28 Maggio 1992).
14
ATZENI, Il mestiere dello scrittore, conferenza tenuta nel 1991 pubblicata in Sotto!, a cura di Giuseppe Marci, Condaghes, Cagliari 1996, p. 89.

gio, e lincredibile mole di produzione. Allinterno di questa


mole ci sono quattro o cinque opere che sono ancora oggi
bellissime, nonostante il tempo che passato, nonostante
nessuno racconti pi in quel modo, nonostante un lettore
moderno possa avere qualche difficolt nellapproccio alla
Deledda. Per quel tempo era straordinaria. Se io fossi il mignolo della Deledda mi riterrei soddisfatto15.
Sempre in Da Nicola a Nicola, il giorno della sua morte interessante anche la parte che riguarda la scelta dei nomi. A
proposito del paese del padre, la voce narrante cita, primo di
una lunga serie, il nome Tullio, lo stesso del protagonista del
romanzo Il figlio di Bakunn, la storia del quale pare essere la
trasfigurazione romanzata della vita di Licio Atzeni, padre
dello scrittore: Tullio e Virgilio, messi. Si chiamano cos alla bocca della miniera.
I personaggi che popolano I sogni della citt bianca possiedono spesso nomi dalla forte carica ironica (Puppipepper,
Mariotto P, Burriba, Ofelia Pintus), meno frequente lidentificazione delle caratteristiche del personaggio fin dal
nome, lhomen nomen (Luigino Testadiferro, Panciadinsetto, Faina). In Una leggenda meridionale, invece, tutti si chiamano Domenico, e lautore ne spiega il motivo: ognuno
servo o padrone di qualcun altro. Lunica signoria che non
merita condanna, poich cela in s la propria pena, quella
damore.
Ibrahim, semi-occulto protagonista di un ciclo di racconti
allinterno della raccolta, traduzione araba di Abramo, nome di uno dei protagonisti, con Gioacchino, di Anche le pratiche possono morire. Ibrahim dunque arabo come Al
15

SULIS, La scrittura, la lingua e il dubbio sulla verit, cit.

dellApologo del giudice bandito, figure entrambe dellaltro


s sognato e inseguito attraverso I sogni della citt bianca. Di
ascendenza ebraica , invece, lAlab di Araj dimoniu, come
anche il piccolo custode del tempo di Passavamo sulla terra
leggeri, di stirpe ebrea marrana, oltre che sarda e genovese
con sfumature arabe e catalane (p. 24), che scopre come il
sangue degli avi erranti perseguitati lo chiami a conoscere
e ad accettare le diversit, le proprie e quelle degli altri. Il
doppio dunque lo straniero che abita in noi, nel profondo,
e che non si pu ignorare perch prima o poi, in sogno o nella realt, destinato a tornare in superficie.
Anche riguardo ai modelli letterari, gli interessi di Atzeni
si aprono alla conoscenza di realt ed esperienze diverse16.
Segnato da una febbre precoce per la lettura e per la scrittura, divora fin dallinfanzia libri su libri, che formano una vasta biblioteca che spazia dal Sudamerica di Borges, Amado,
Garca Mrquez, Vargas Llosa alle giungle dasfalto delle citt americane descritte con realismo feroce dagli autori prediletti della hard boiled school, Hammet e Chandler, dallisola di Gramsci, Salvatore Satta, Grazia Deledda, fino allUnione Sovietica dei dissidenti, quella di Michail Afansevi
Bulgakov.
Lincontro con lautore kievita e con il suo capolavoro, Il
Maestro e Margherita, appare decisivo per la narrativa di Atzeni: un influsso che si avverte per tutto larco della sua opera.

16
Quando gli viene chiesto di esplicitarli, lo scrittore, sempre aperto al
dialogo con lettori e studenti, diviene evasivo: difficile individuare dei
modelli. E aggiunge: Leggo di tutto. Se vuoi ti posso dire cosa ho letto
ieri sera (SULIS, La scrittura, la lingua e il dubbio sulla verit, cit.). Si veda
anche ATZENI, Il mestiere dello scrittore, cit.

Tra I sogni della citt bianca, in Rosso di cina, si trova una implicita citazione del romanzo: Perch non accettare? Potrebbe anche girarsi come quella vecchia storia di quella tal
Margherita, che il diavolo lha fatta volare, so io come. Le vicende della protagonista del racconto, Elena, si rispecchiano
in quelle di Margherita. Per amore entrambe sono pronte a
venire a patti col diavolo. un sentimento ricco di comprensione e di compassione, perch temprato dalla sofferenza,
quello che Margherita riversa sullamato Maestro, scrittore
internato in manicomio, mentre Elena incontra infine un tale, un miserabile, uno rifiutato dalla morte in guerra, un alienato, accovacciato sulla cima di una collina di rifiuti [] Lui,
luomo della monnezza, il lettore solitario, il cristo dei rifiuti. La recensione di Appunti sui polsini per La Nuova Sardegna del 12 agosto 1978, intitolata Uno scrittore scomodo
cento volte censurato, offre ad Atzeni loccasione di dichiarare il suo entusiasmo fin dalle prime righe: Michail Afanesievic Bulgakov (1891-1940) conosciuto dal lettore italiano
anzitutto come autore di quello stupefacente romanzo che
Il Maestro e Margherita, la cui apparizione postuma (nel 1966
fu pubblicato per la prima volta a puntate su un quotidiano
moscovita in edizione censurata) ebbe un effetto dirompente
nel panorama letterario mondiale. Ha abbagliato scrisse
un critico per la sua luminosa, sconvolgente eccentricit. Ribadisce queste identiche parole in apertura di un
altro articolo per il quotidiano sassarese del 10 gennaio 1981,
Tra la satira e lumorismo. Bulgakov occupa ormai un posto
di tutto rilievo nella biblioteca di Atzeni, che ne conosce lopera intera, tanto da usare, come pietra di paragone in diversi altri articoli di critica letteraria lo scrittore che, in margine
ai numerosi significati di una grande opera, usa diavoli e sabba

dellApologo del giudice bandito, figure entrambe dellaltro


s sognato e inseguito attraverso I sogni della citt bianca. Di
ascendenza ebraica , invece, lAlab di Araj dimoniu, come
anche il piccolo custode del tempo di Passavamo sulla terra
leggeri, di stirpe ebrea marrana, oltre che sarda e genovese
con sfumature arabe e catalane (p. 24), che scopre come il
sangue degli avi erranti perseguitati lo chiami a conoscere
e ad accettare le diversit, le proprie e quelle degli altri. Il
doppio dunque lo straniero che abita in noi, nel profondo,
e che non si pu ignorare perch prima o poi, in sogno o nella realt, destinato a tornare in superficie.
Anche riguardo ai modelli letterari, gli interessi di Atzeni
si aprono alla conoscenza di realt ed esperienze diverse16.
Segnato da una febbre precoce per la lettura e per la scrittura, divora fin dallinfanzia libri su libri, che formano una vasta biblioteca che spazia dal Sudamerica di Borges, Amado,
Garca Mrquez, Vargas Llosa alle giungle dasfalto delle citt americane descritte con realismo feroce dagli autori prediletti della hard boiled school, Hammet e Chandler, dallisola di Gramsci, Salvatore Satta, Grazia Deledda, fino allUnione Sovietica dei dissidenti, quella di Michail Afansevi
Bulgakov.
Lincontro con lautore kievita e con il suo capolavoro, Il
Maestro e Margherita, appare decisivo per la narrativa di Atzeni: un influsso che si avverte per tutto larco della sua opera.

16
Quando gli viene chiesto di esplicitarli, lo scrittore, sempre aperto al
dialogo con lettori e studenti, diviene evasivo: difficile individuare dei
modelli. E aggiunge: Leggo di tutto. Se vuoi ti posso dire cosa ho letto
ieri sera (SULIS, La scrittura, la lingua e il dubbio sulla verit, cit.). Si veda
anche ATZENI, Il mestiere dello scrittore, cit.

Tra I sogni della citt bianca, in Rosso di cina, si trova una implicita citazione del romanzo: Perch non accettare? Potrebbe anche girarsi come quella vecchia storia di quella tal
Margherita, che il diavolo lha fatta volare, so io come. Le vicende della protagonista del racconto, Elena, si rispecchiano
in quelle di Margherita. Per amore entrambe sono pronte a
venire a patti col diavolo. un sentimento ricco di comprensione e di compassione, perch temprato dalla sofferenza,
quello che Margherita riversa sullamato Maestro, scrittore
internato in manicomio, mentre Elena incontra infine un tale, un miserabile, uno rifiutato dalla morte in guerra, un alienato, accovacciato sulla cima di una collina di rifiuti [] Lui,
luomo della monnezza, il lettore solitario, il cristo dei rifiuti. La recensione di Appunti sui polsini per La Nuova Sardegna del 12 agosto 1978, intitolata Uno scrittore scomodo
cento volte censurato, offre ad Atzeni loccasione di dichiarare il suo entusiasmo fin dalle prime righe: Michail Afanesievic Bulgakov (1891-1940) conosciuto dal lettore italiano
anzitutto come autore di quello stupefacente romanzo che
Il Maestro e Margherita, la cui apparizione postuma (nel 1966
fu pubblicato per la prima volta a puntate su un quotidiano
moscovita in edizione censurata) ebbe un effetto dirompente
nel panorama letterario mondiale. Ha abbagliato scrisse
un critico per la sua luminosa, sconvolgente eccentricit. Ribadisce queste identiche parole in apertura di un
altro articolo per il quotidiano sassarese del 10 gennaio 1981,
Tra la satira e lumorismo. Bulgakov occupa ormai un posto
di tutto rilievo nella biblioteca di Atzeni, che ne conosce lopera intera, tanto da usare, come pietra di paragone in diversi altri articoli di critica letteraria lo scrittore che, in margine
ai numerosi significati di una grande opera, usa diavoli e sabba

come agenti dirrisione di un sistema politico (Michail Bulgakov in Il Maestro e Margherita)17.


Lapparizione del diavolo un evento che, dopo Rosso di
cina, non si presenta in altre opere di Atzeni, ritornano, per, Behemot e Azazello, gli aiutanti del satana Woland ne Il
Maestro e Margherita, evocati per spaventare il torpido
Ugone di Passavamo sulla terra leggeri: Ogni notte verranno a trovarti i peggiori satanassi, Behemot, Lucifero e Azazello (p. 169). Le vicende successive di Ugone dimostrano,
per, che dagli uomini che bisogna guardarsi, non dai demoni, se non dal proprio.
Lintervento esterno, soprannaturale, il deus-ex-machina,
lapparizione straordinaria, un soffio di magia, come si legge
in Rosso di cina, sono consueti nellopera di Atzeni come in
quella di Bulgakov. In entrambi il fantastico, nelle sue molteplici forme, un intervento benefico che giunge a mettere pace in una realt disperante. LApologo del giudice bandito presenta diverse affinit con Il Maestro e Margherita. Di ordine
strutturale, innanzitutto: in entrambe il protagonista, colui
che in s cela le stimmate autobiografiche dellautore, entra
in scena piuttosto tardi, il maestro dopo circa un terzo, Itzoccor Gunale ben oltre la met dellApologo del giudice bandito.
I due romanzi si aprono, inoltre, con la misteriosa divinazione della morte di un personaggio, che puntualmente si avve-

ATZENI, Storia notturna (anche nostra) delle streghe di ogni secolo, Il


Giorno, 17 settembre 1989. Lo scrittore cita Bulgakov anche nei seguenti
articoli giornalistici per La Nuova Sardegna: Lindomito e feroce mondo
degli indios (14 dicembre 1978), Il dissenso autorizzato del polemico Trifonov (1 marzo 1979), Un complicato scambio di anime tra folli e cani bene addestrati (25 Agosto 1979), Quellassassino cos divertente (24 marzo 1981).
17

ra: poco pi avanti nel caso di Berlioz, al termine del romanzo


per Itzoccor. In entrambi qualcosa di soprannaturale aleggia
nei momenti cruciali dellinterrogatorio di Pilato a Cristo e
del Vicer al giudice. Al cospetto dei prigionieri, solo fisicamente allo spasimo, i rappresentanti del potere vengono presi come da unatroce malia che emana da Yehs a e Itzoccor.
Stravolto e distrutto e pazzo anche il direttore del carcere
di Un duello, dopo la partita a scacchi con il prigioniero.
Behemot, il gatto burlone assistente di Woland che si comporta proprio come una persona, viaggia in tram da solo, beve vodka e mangia con la forchetta funghi marinati, prefigura, invece, i gattacci-di-controllo-sociale di Post office e le irresistibili gesta dei gatti che accompagnano la coga in Bellas
mariposas. Tra I sogni della citt bianca solo in Il vento soffia,
dai bastioni presente, invece, il motivo, consueto in molte
altre opere di Atzeni come per Il Maestro e Margherita, della
testa spiccata dal corpo, che costituisce una delle variazioni
apportate nel passaggio da Primavera, nella citt murata a
Nella citt murata.
Negli articoli giornalistici posta in evidenza non solo lopera, ma anche la vita di Bulgakov, scampato al gulag, al manicomio o alla morte grazie alla benevolenza, sempre sul filo del rasoio, di Stalin, che forse si divertiva a leggere le opere
che poi lasciava venissero regolarmente censurate: La storia di Bulgakov ricca di censure protrattesi lungamente anche dopo la morte: mai per, di autocensure preventive. Egli
prefer infatti il silenzio al tradimento di se stesso, delle proprie convinzioni18.

18

ATZENI, Appunti sui polsini, La Nuova Sardegna, 12 agosto 1978.

come agenti dirrisione di un sistema politico (Michail Bulgakov in Il Maestro e Margherita)17.


Lapparizione del diavolo un evento che, dopo Rosso di
cina, non si presenta in altre opere di Atzeni, ritornano, per, Behemot e Azazello, gli aiutanti del satana Woland ne Il
Maestro e Margherita, evocati per spaventare il torpido
Ugone di Passavamo sulla terra leggeri: Ogni notte verranno a trovarti i peggiori satanassi, Behemot, Lucifero e Azazello (p. 169). Le vicende successive di Ugone dimostrano,
per, che dagli uomini che bisogna guardarsi, non dai demoni, se non dal proprio.
Lintervento esterno, soprannaturale, il deus-ex-machina,
lapparizione straordinaria, un soffio di magia, come si legge
in Rosso di cina, sono consueti nellopera di Atzeni come in
quella di Bulgakov. In entrambi il fantastico, nelle sue molteplici forme, un intervento benefico che giunge a mettere pace in una realt disperante. LApologo del giudice bandito presenta diverse affinit con Il Maestro e Margherita. Di ordine
strutturale, innanzitutto: in entrambe il protagonista, colui
che in s cela le stimmate autobiografiche dellautore, entra
in scena piuttosto tardi, il maestro dopo circa un terzo, Itzoccor Gunale ben oltre la met dellApologo del giudice bandito.
I due romanzi si aprono, inoltre, con la misteriosa divinazione della morte di un personaggio, che puntualmente si avve-

ATZENI, Storia notturna (anche nostra) delle streghe di ogni secolo, Il


Giorno, 17 settembre 1989. Lo scrittore cita Bulgakov anche nei seguenti
articoli giornalistici per La Nuova Sardegna: Lindomito e feroce mondo
degli indios (14 dicembre 1978), Il dissenso autorizzato del polemico Trifonov (1 marzo 1979), Un complicato scambio di anime tra folli e cani bene addestrati (25 Agosto 1979), Quellassassino cos divertente (24 marzo 1981).
17

ra: poco pi avanti nel caso di Berlioz, al termine del romanzo


per Itzoccor. In entrambi qualcosa di soprannaturale aleggia
nei momenti cruciali dellinterrogatorio di Pilato a Cristo e
del Vicer al giudice. Al cospetto dei prigionieri, solo fisicamente allo spasimo, i rappresentanti del potere vengono presi come da unatroce malia che emana da Yehs a e Itzoccor.
Stravolto e distrutto e pazzo anche il direttore del carcere
di Un duello, dopo la partita a scacchi con il prigioniero.
Behemot, il gatto burlone assistente di Woland che si comporta proprio come una persona, viaggia in tram da solo, beve vodka e mangia con la forchetta funghi marinati, prefigura, invece, i gattacci-di-controllo-sociale di Post office e le irresistibili gesta dei gatti che accompagnano la coga in Bellas
mariposas. Tra I sogni della citt bianca solo in Il vento soffia,
dai bastioni presente, invece, il motivo, consueto in molte
altre opere di Atzeni come per Il Maestro e Margherita, della
testa spiccata dal corpo, che costituisce una delle variazioni
apportate nel passaggio da Primavera, nella citt murata a
Nella citt murata.
Negli articoli giornalistici posta in evidenza non solo lopera, ma anche la vita di Bulgakov, scampato al gulag, al manicomio o alla morte grazie alla benevolenza, sempre sul filo del rasoio, di Stalin, che forse si divertiva a leggere le opere
che poi lasciava venissero regolarmente censurate: La storia di Bulgakov ricca di censure protrattesi lungamente anche dopo la morte: mai per, di autocensure preventive. Egli
prefer infatti il silenzio al tradimento di se stesso, delle proprie convinzioni18.

18

ATZENI, Appunti sui polsini, La Nuova Sardegna, 12 agosto 1978.

Un altro dei libri prediletti da Atzeni Sei problemi per don


Isidro Parodi, di Borges e Bioy Casares, dallaltro capo del
mondo, lArgentina dei dittatori e delle democrazie populiste. Ama lintelligenza del savio barbiere, incarcerato sebbene innocente. Si occupa spesso di chi si oppone, di chi rifiuta
di integrarsi con un potere liberticida, come nel caso di Dashiel Hammett, perseguitato durante il maccartismo. Ricorda
pi duna volta la sorte del sardo Sigismondo Arquer, autore
di una Sardiniae brevis historia et descriptio, uomo che ebbe
doti esemplari di dignit, di cultura, di umanit e di coraggio19, che lo condussero nel 1571 ad essere arso vivo a Toledo dal tribunale del SantUffizio con laccusa di eresia, e per
le critiche al clero sardo.
Aspirazioni e desideri repressi portano Atzeni a sentirsi
come prigioniero quando scrive I sogni della citt bianca,
quando affida allApologo del giudice bandito la sua vocazione di scrittore. La persecuzione quella di un potere certamente meno palpabile di quello dellinquisizione, o di quello staliniano o dei generali argentini, ma avvertito comunque come soffocante e tirannico per la libert individuale.
Unoppressione presente, come prevedeva Tocqueville, anche nelle moderne democrazie, che porta allemarginazione, allesclusione: I dimenticati, per loro il pozzo. Nessuno li ricorda, non sono sfamati n torturati20.
Ruggero Gunale si sente prigioniero di una citt amatissima, a volte splendida, ma anche, come detto in Campane e

19
ATZENI, Al rogo il nemico dellInquisizione, La Nuova Sardegna, 16
luglio 1978.
20
ATZENI, Apologo del giudice bandito, cit., p. 89.

cani bagnati, stretta, provinciale, untuosa, morta21. figlio


di una generazione che molto ha sognato, anche limpossibile, le spiagge sotto lasfalto, pari diritti e doveri per tutti, e
tanta libert. Una generazione passata dallutopia agli anni
di piombo, rifluita nella rassegnazione o peggio riciclata sotto altre bandiere. Dolorose e impietose sono le considerazioni su se stesso e sulla propria generazione: Noi, gli sbandati,
i fuori dal mondo che rifiutavano sia la guerriglia urbana che
il ritorno nei ranghi, i figli dei fiori, i poeti, i rimbambiti, i
pazzi, gli spaventati dalla velocit della storia e della tecnica
e dellassoluta assenza di guidatore, e quelli come me, che
non sapevano che fare di se stessi e cercavano motivi per vivere, rimasugli di una generazione che ha tentato di cambiare il mondo perch sapeva che fa schifo, ma non sapeva che
lo schifo ha costruito in millenni strutture solidissime di resistenza, le ha costruite con piramidi di sacrificati, le ha costruite anche nelle nostre anime. Guardavamo a occhi aperti
e spaventati un mondo che non ci apparteneva22.
Nelle viscere della citt bianca si sopravvive e si resiste: divorando cuori caldi ad Anima degli Angeli, la sotterranea
Cagliari post-atomica di Astrud, come in fondo al pozzo delle carceri di Un duello e dellApologo del giudice bandito,
creando opere darte, con la miscela di sogno e azione, nella
stanzetta sotterranea di Anche le pratiche possono morire. Si
sogna e si resiste in mezzo alle paludi, nei quartieri popolari
degradati, nella citt murata, nella necropoli punica di Tuvixeddu, dove fino a non molto tempo fa viveva un popolo di

21
22

ATZENI, Campane e cani bagnati, in S...otto!, cit., p. 30.


ATZENI, Il quinto passo laddio, cit., p. 212.

Un altro dei libri prediletti da Atzeni Sei problemi per don


Isidro Parodi, di Borges e Bioy Casares, dallaltro capo del
mondo, lArgentina dei dittatori e delle democrazie populiste. Ama lintelligenza del savio barbiere, incarcerato sebbene innocente. Si occupa spesso di chi si oppone, di chi rifiuta
di integrarsi con un potere liberticida, come nel caso di Dashiel Hammett, perseguitato durante il maccartismo. Ricorda
pi duna volta la sorte del sardo Sigismondo Arquer, autore
di una Sardiniae brevis historia et descriptio, uomo che ebbe
doti esemplari di dignit, di cultura, di umanit e di coraggio19, che lo condussero nel 1571 ad essere arso vivo a Toledo dal tribunale del SantUffizio con laccusa di eresia, e per
le critiche al clero sardo.
Aspirazioni e desideri repressi portano Atzeni a sentirsi
come prigioniero quando scrive I sogni della citt bianca,
quando affida allApologo del giudice bandito la sua vocazione di scrittore. La persecuzione quella di un potere certamente meno palpabile di quello dellinquisizione, o di quello staliniano o dei generali argentini, ma avvertito comunque come soffocante e tirannico per la libert individuale.
Unoppressione presente, come prevedeva Tocqueville, anche nelle moderne democrazie, che porta allemarginazione, allesclusione: I dimenticati, per loro il pozzo. Nessuno li ricorda, non sono sfamati n torturati20.
Ruggero Gunale si sente prigioniero di una citt amatissima, a volte splendida, ma anche, come detto in Campane e

19
ATZENI, Al rogo il nemico dellInquisizione, La Nuova Sardegna, 16
luglio 1978.
20
ATZENI, Apologo del giudice bandito, cit., p. 89.

cani bagnati, stretta, provinciale, untuosa, morta21. figlio


di una generazione che molto ha sognato, anche limpossibile, le spiagge sotto lasfalto, pari diritti e doveri per tutti, e
tanta libert. Una generazione passata dallutopia agli anni
di piombo, rifluita nella rassegnazione o peggio riciclata sotto altre bandiere. Dolorose e impietose sono le considerazioni su se stesso e sulla propria generazione: Noi, gli sbandati,
i fuori dal mondo che rifiutavano sia la guerriglia urbana che
il ritorno nei ranghi, i figli dei fiori, i poeti, i rimbambiti, i
pazzi, gli spaventati dalla velocit della storia e della tecnica
e dellassoluta assenza di guidatore, e quelli come me, che
non sapevano che fare di se stessi e cercavano motivi per vivere, rimasugli di una generazione che ha tentato di cambiare il mondo perch sapeva che fa schifo, ma non sapeva che
lo schifo ha costruito in millenni strutture solidissime di resistenza, le ha costruite con piramidi di sacrificati, le ha costruite anche nelle nostre anime. Guardavamo a occhi aperti
e spaventati un mondo che non ci apparteneva22.
Nelle viscere della citt bianca si sopravvive e si resiste: divorando cuori caldi ad Anima degli Angeli, la sotterranea
Cagliari post-atomica di Astrud, come in fondo al pozzo delle carceri di Un duello e dellApologo del giudice bandito,
creando opere darte, con la miscela di sogno e azione, nella
stanzetta sotterranea di Anche le pratiche possono morire. Si
sogna e si resiste in mezzo alle paludi, nei quartieri popolari
degradati, nella citt murata, nella necropoli punica di Tuvixeddu, dove fino a non molto tempo fa viveva un popolo di

21
22

ATZENI, Campane e cani bagnati, in S...otto!, cit., p. 30.


ATZENI, Il quinto passo laddio, cit., p. 212.

disperati come in Un eroe. Con quale mezzo vedere orizzonti diversi, pi puliti, se non con il ricorso alla fantasia, alla
creazione artistica, al sogno? Una fuga nella fantasticheria e
nel fantastico che presuppone e precorre un distacco reale
da Cagliari, visto con gli occhi umidi e impietriti23 di Ruggero, e la rinascita da uomo nuovo (e si ricorda che uno dei
Racconti con colonna sonora ha per titolo Luomo nuovo ritmmenbls).
Le fughe de I sogni della citt bianca si moltiplicano e vanno a intrecciarsi con quelle dei romanzi e degli altri racconti.
Non si tratta di fughe dal reale, ma di fughe nel reale, di cui il
sogno non che laltra faccia, quella pi nascosta. Atzeni
non elude la realt, tuttaltro, essa rappresentata, senza reticenze e senza remore, anche e soprattutto nei suoi aspetti
pi dimenticati, quelli dellemarginazione, dellabbandono,
della violenza sui minori e sulle donne. Una via di fuga forse il sogno, in special modo quello che si vive a occhi spalancati, sognando di essere diversi da quello che si , che le cose
miglioreranno. anche il modo per non essere sopraffatti
dal quotidiano, poich il genere umano non pu sopportare troppa realt24. Sognano cos i personaggi de I sogni della
citt bianca, come un sogno ripetuto, in attesa del miracolo,
di una trasformazione completa della realt.
La fuga nellimmaginario lega, ancora una volta, lepisodio
della partita a scacchi di Un duello con quello dellApologo
del giudice bandito. I prigionieri sono rapiti da un sogno a occhi aperti, invitante, ma in definitiva perdente nei confronti
23
24

Ivi, p. 13.
THOMAS STEARNS ELIOT, Quattro quartetti, Garzanti, Milano 1976, p. 7.

di chi detiene il potere. In Un duello il detenuto, incantato


dal sole, si lascia vincere. Altrettanto accade nellApologo
del giudice bandito: Itzoccor compie mossa uguale, ma non
ragiona, non pensa al gioco, le voci e i colori dominano lanima (p. 112), Itzoccor muove il cavallo nero, ma perduto
in se stesso. Don Ximene vince (p. 113). Sognare dunque
necessario, ma pericoloso. Pericoloso perch porta a esplorare i territori dellinconscio, i meandri pi interni del proprio s, dove non v argine alle pulsioni25. Per vincere occorre passare dal sogno allazione, rafforzando le risorse interiori, concentrando sulla partita la propria lucida forza.
Nella fantasticheria trova rifugio chi come Burriba di Delirio maschile e Gioacchino di Anche le pratiche possono morire (come Savino e Ruggero Gunale) lavora nel colombario burocratico, in luoghi dove si condannati a fantasticare, dove manca la passione spirituale o lesercizio dei
muscoli se non della mente26. Questo tipo di evasione genera mostri, tra questi molti degli assassini spietati e dei
personaggi disperati che popolano la citt bianca, poich
dalla fantasticheria nasce il bisogno di esacerbata realt,
della specie pi aspra, dolorosa, ripugnante, il bisogno del-

25
Si veda di Calvino lintroduzione a Racconti fantastici dellOttocento,
cit., vol. I, p. 18.
26
ELMIRE ZOLLA, Storia del fantasticare, Bompiani, Milano 1964, p. 7.
Zolla avverte dei pericoli insiti nel sogno a occhi aperti, ricordando che anche nella lingua italiana la condanna della fantasticheria era implicita:
fantasticamente voleva dire nel buon secolo: con modo rincrescevole, molesto ed in latino luomo fantastico si diceva morosus, che significa altres
stravagante, morboso. Opera fantastica equivaleva per la Crusca a senza
fondamento e uomo fantastico era come dire intrattabile dallavere sempre
la fantasia occupata (p. 7).

disperati come in Un eroe. Con quale mezzo vedere orizzonti diversi, pi puliti, se non con il ricorso alla fantasia, alla
creazione artistica, al sogno? Una fuga nella fantasticheria e
nel fantastico che presuppone e precorre un distacco reale
da Cagliari, visto con gli occhi umidi e impietriti23 di Ruggero, e la rinascita da uomo nuovo (e si ricorda che uno dei
Racconti con colonna sonora ha per titolo Luomo nuovo ritmmenbls).
Le fughe de I sogni della citt bianca si moltiplicano e vanno a intrecciarsi con quelle dei romanzi e degli altri racconti.
Non si tratta di fughe dal reale, ma di fughe nel reale, di cui il
sogno non che laltra faccia, quella pi nascosta. Atzeni
non elude la realt, tuttaltro, essa rappresentata, senza reticenze e senza remore, anche e soprattutto nei suoi aspetti
pi dimenticati, quelli dellemarginazione, dellabbandono,
della violenza sui minori e sulle donne. Una via di fuga forse il sogno, in special modo quello che si vive a occhi spalancati, sognando di essere diversi da quello che si , che le cose
miglioreranno. anche il modo per non essere sopraffatti
dal quotidiano, poich il genere umano non pu sopportare troppa realt24. Sognano cos i personaggi de I sogni della
citt bianca, come un sogno ripetuto, in attesa del miracolo,
di una trasformazione completa della realt.
La fuga nellimmaginario lega, ancora una volta, lepisodio
della partita a scacchi di Un duello con quello dellApologo
del giudice bandito. I prigionieri sono rapiti da un sogno a occhi aperti, invitante, ma in definitiva perdente nei confronti
23
24

Ivi, p. 13.
THOMAS STEARNS ELIOT, Quattro quartetti, Garzanti, Milano 1976, p. 7.

di chi detiene il potere. In Un duello il detenuto, incantato


dal sole, si lascia vincere. Altrettanto accade nellApologo
del giudice bandito: Itzoccor compie mossa uguale, ma non
ragiona, non pensa al gioco, le voci e i colori dominano lanima (p. 112), Itzoccor muove il cavallo nero, ma perduto
in se stesso. Don Ximene vince (p. 113). Sognare dunque
necessario, ma pericoloso. Pericoloso perch porta a esplorare i territori dellinconscio, i meandri pi interni del proprio s, dove non v argine alle pulsioni25. Per vincere occorre passare dal sogno allazione, rafforzando le risorse interiori, concentrando sulla partita la propria lucida forza.
Nella fantasticheria trova rifugio chi come Burriba di Delirio maschile e Gioacchino di Anche le pratiche possono morire (come Savino e Ruggero Gunale) lavora nel colombario burocratico, in luoghi dove si condannati a fantasticare, dove manca la passione spirituale o lesercizio dei
muscoli se non della mente26. Questo tipo di evasione genera mostri, tra questi molti degli assassini spietati e dei
personaggi disperati che popolano la citt bianca, poich
dalla fantasticheria nasce il bisogno di esacerbata realt,
della specie pi aspra, dolorosa, ripugnante, il bisogno del-

25
Si veda di Calvino lintroduzione a Racconti fantastici dellOttocento,
cit., vol. I, p. 18.
26
ELMIRE ZOLLA, Storia del fantasticare, Bompiani, Milano 1964, p. 7.
Zolla avverte dei pericoli insiti nel sogno a occhi aperti, ricordando che anche nella lingua italiana la condanna della fantasticheria era implicita:
fantasticamente voleva dire nel buon secolo: con modo rincrescevole, molesto ed in latino luomo fantastico si diceva morosus, che significa altres
stravagante, morboso. Opera fantastica equivaleva per la Crusca a senza
fondamento e uomo fantastico era come dire intrattabile dallavere sempre
la fantasia occupata (p. 7).

la scossa micidiale, del pericolo e infine, lattrazione della


morte27.
Pulsione sessuale e violenza sono voci inconfessabili e
dunque relegate allambito onirico, e alla narcosi del sogno
a occhi aperti28. Basta che la soglia dattenzione si abbassi
ed inevitabile piombare nel sogno o nella fantasticheria.
Abbandonarsi a questa dimensione comporta anche laccettazione degli istinti primordiali, dando sfogo con la fantasia
ai pi reconditi desideri29.
Il colore bianco, cos simbolicamente terrifico nella Storia
di Gordon Pym e in Moby Dick, per Atzeni laccecante, luminoso colore del sogno, che introduce il rosso, colore delle
passioni accese, della violenza e dellamore, preludio spesso
alla morte30. Bianca Cagliari, per via del sole africano, del riverbero delle acque del golfo degli Angeli, del roccione calcareo su cui poggia. Una remota Gerusalemme lha definita Lawrence. A Vittorini appare una citt di frontiera, fanta-

Ivi, p. 127.
ANDREA BATTISTINI - EZIO RAIMONDI, Le figure della retorica, Einaudi, Torino 1990, p. 380.
29
Si veda ROBERT CALLOIS, Lincertezza dei sogni, Feltrinelli, Milano
1983, p. 22.
30
Del simbolismo dei colori Atzeni si occupa in un articolo giornalistico
in cui riporta le valenze date alle tonalit cromatiche, ed in particolare al
rosso, da Ernst Jnger ne Il cuore avventuroso: Dedica alcune pagine al
valore simbolico del rosso e di alcuni altri colori. Mi pare interessante e riassumo: Rosso preannuncia fuoco, sangue, sesso. Minaccia, eccita. Giallo
quasi rosso. (Deserti sardi dagosto dopo gli incendi son gialli e neri).
Nero morte, premonizione di morte, minaccia di morte. (Invero le camice nere hanno dato e ricevuto morte, come chiedeva la loro bandiera).
Bianco resa senza condizioni. (Rosso minaccioso, giallo quasi rosso,
LUnione Sarda, 18 ottobre 1986).
27
28

sticamente lontana da tutto. Una barriera temporale da oltrepassare per raggiungere le Barbagie, la Cagliari di Carlo
Levi. Per Atzeni un limite da varcare, col sogno certo, ma soprattutto nella realt, col distacco: ununica fuga che in s
contenga tutte quelle sognate e raccontate ne I sogni della citt bianca e nellApologo del giudice bandito. Dalla nave Ruggero Gunale riesce a vedere con nitidezza le tonalit cromatiche della citt: i palazzi color catarro dei nobili ispanici
decaduti e sui bastioni le chiome di capperi al vento, di un
verde che ride31. Mentre la nave si allontana, la luce bianca
del pomeriggio illumina la citt, che sfuma nella luce e tra i
vapori, Gerusalemme che sale al Signore32. Ruggero pu
vedere con i propri occhi limmagine descritta da Lawrence,
la visione dello straniero, dello scrittore illustre.
Nel racconto Gli amori, le avventure e la morte di un elefante bianco Savino immaginava che anche lui avrebbe potuto e saputo, prima o poi, sollevarsi con quella leggerezza,
dimentico del ventre e dei trentotto anni mal spesi in quellufficio di merda a fare statistiche del cazzo sui consumi di
gas dei cittadini cagliaritani. Anche lui avrebbe imparato a
volare. C sempre tempo33. Il desiderio di Savino lo stesso del protagonista de Il quinto passo laddio: Nel sogno
era mattina e Ruggero volava sopra i vicoli e i giardini murati [...] Arrivava in riva, guardava il mare, si chiedeva: Lo attraverso? e rispondeva: No. troppo largo. Tornava indietro, rientrava dal tetto e si svegliava (p. 14). Un sogno,
ATZENI, Il quinto passo laddio, cit., p. 13.
Ivi, p. 15.
33
ATZENI, Gli amori, le avventure e la morte di un elefante bianco [1982],
ora in Racconti con colonna sonora e altri in giallo, cit., p. 48.
31
32

la scossa micidiale, del pericolo e infine, lattrazione della


morte27.
Pulsione sessuale e violenza sono voci inconfessabili e
dunque relegate allambito onirico, e alla narcosi del sogno
a occhi aperti28. Basta che la soglia dattenzione si abbassi
ed inevitabile piombare nel sogno o nella fantasticheria.
Abbandonarsi a questa dimensione comporta anche laccettazione degli istinti primordiali, dando sfogo con la fantasia
ai pi reconditi desideri29.
Il colore bianco, cos simbolicamente terrifico nella Storia
di Gordon Pym e in Moby Dick, per Atzeni laccecante, luminoso colore del sogno, che introduce il rosso, colore delle
passioni accese, della violenza e dellamore, preludio spesso
alla morte30. Bianca Cagliari, per via del sole africano, del riverbero delle acque del golfo degli Angeli, del roccione calcareo su cui poggia. Una remota Gerusalemme lha definita Lawrence. A Vittorini appare una citt di frontiera, fanta-

Ivi, p. 127.
ANDREA BATTISTINI - EZIO RAIMONDI, Le figure della retorica, Einaudi, Torino 1990, p. 380.
29
Si veda ROBERT CALLOIS, Lincertezza dei sogni, Feltrinelli, Milano
1983, p. 22.
30
Del simbolismo dei colori Atzeni si occupa in un articolo giornalistico
in cui riporta le valenze date alle tonalit cromatiche, ed in particolare al
rosso, da Ernst Jnger ne Il cuore avventuroso: Dedica alcune pagine al
valore simbolico del rosso e di alcuni altri colori. Mi pare interessante e riassumo: Rosso preannuncia fuoco, sangue, sesso. Minaccia, eccita. Giallo
quasi rosso. (Deserti sardi dagosto dopo gli incendi son gialli e neri).
Nero morte, premonizione di morte, minaccia di morte. (Invero le camice nere hanno dato e ricevuto morte, come chiedeva la loro bandiera).
Bianco resa senza condizioni. (Rosso minaccioso, giallo quasi rosso,
LUnione Sarda, 18 ottobre 1986).
27
28

sticamente lontana da tutto. Una barriera temporale da oltrepassare per raggiungere le Barbagie, la Cagliari di Carlo
Levi. Per Atzeni un limite da varcare, col sogno certo, ma soprattutto nella realt, col distacco: ununica fuga che in s
contenga tutte quelle sognate e raccontate ne I sogni della citt bianca e nellApologo del giudice bandito. Dalla nave Ruggero Gunale riesce a vedere con nitidezza le tonalit cromatiche della citt: i palazzi color catarro dei nobili ispanici
decaduti e sui bastioni le chiome di capperi al vento, di un
verde che ride31. Mentre la nave si allontana, la luce bianca
del pomeriggio illumina la citt, che sfuma nella luce e tra i
vapori, Gerusalemme che sale al Signore32. Ruggero pu
vedere con i propri occhi limmagine descritta da Lawrence,
la visione dello straniero, dello scrittore illustre.
Nel racconto Gli amori, le avventure e la morte di un elefante bianco Savino immaginava che anche lui avrebbe potuto e saputo, prima o poi, sollevarsi con quella leggerezza,
dimentico del ventre e dei trentotto anni mal spesi in quellufficio di merda a fare statistiche del cazzo sui consumi di
gas dei cittadini cagliaritani. Anche lui avrebbe imparato a
volare. C sempre tempo33. Il desiderio di Savino lo stesso del protagonista de Il quinto passo laddio: Nel sogno
era mattina e Ruggero volava sopra i vicoli e i giardini murati [...] Arrivava in riva, guardava il mare, si chiedeva: Lo attraverso? e rispondeva: No. troppo largo. Tornava indietro, rientrava dal tetto e si svegliava (p. 14). Un sogno,
ATZENI, Il quinto passo laddio, cit., p. 13.
Ivi, p. 15.
33
ATZENI, Gli amori, le avventure e la morte di un elefante bianco [1982],
ora in Racconti con colonna sonora e altri in giallo, cit., p. 48.
31
32

quello di varcare il mare, che infine si avvera, per Ruggero e


per lo scrittore, che dellodiato lavoro di digitatore di computer (limpiego allEnel dal 1976 al 1985) parla anche,
senza tanti rimpianti, in Salvato da Babbo Natale, racconto
pubblicato per la prima volta da lUnione Sarda nel 1991
e ambientato ad Amsterdam: Avevi il lavoro sicuro, la tana
calda nel parastato, come un topo nel formaggio, lo stipendiotto micamale... Ma in quel modo ti sentivi un saprofita34.
Trentotto anni mal spesi Savino, trentacinque anni
spesi male Ruggero. La leggera variatio rappresenta il crinale tra sogno e realt. Lasciandosi alle spalle la citt bianca
Ruggero avvera il sogno di Savino, tragica ed eroica rappresentazione di cosa poteva essere il protagonista de Il quinto
passo laddio dopo altri tre anni passati a compilare scartoffie, altri tre anni sempre con lo stesso, esacerbato, desiderio:
andare oltre il sogno, in qualsiasi modo. Savino soccombe
perch gli impedito dar corso ai desideri, se non con la violenza, rimanendo prigioniero dei propri sogni. Ruggero si
sottrae invece a questa triste condizione con la partenza, oltrepassando la soglia del sogno e tramutando in realt lesigenza di varcare lampio mare. Lo stesso mare al quale Araj
dimoniu conduce il piccolo Luisu alla fine del lungo viaggio
di iniziazione alla vita.
Tra Gli amori, le avventure e la morte di un elefante bianco
e Il quinto passo laddio c lApologo del giudice bandito,
con i suoi duelli, che rinnovano quelli de I sogni della citt
bianca. Il duello tra il sogno e lazione. Ed soprattutto un

duello interiore, che si combatte in nome della libert e della


creazione artistica quello che porta allo scontro Gioacchino
e Abramo in Anche le pratiche possono morire.
La creazione letteraria, vissuta con umilt da maestro artigiano, frutto di fatica e sofferenze, passione sotterranea, da
coltivare nel ventre della citt, perch in s contiene i germi
della denuncia sociale, del sabotaggio35. In Un duello, imprigionati in fondo a un pozzo, il protagonista e lassassino
combattono. Combattono in fondo alle segrete della citt
murata Itzoccor e Al, suo doppio, nel quale, in filigrana, si
rinnovano i tanti Ibrahim e Luisu Alab: Domani sarai Luisu, Luisu Alab pi tardi, e dovrai imparare, dovrai lottare, la
magia non sar pi tuo scudo, Araj dimoniu ti accompagner, ma soltanto se saprai domarlo36. Non pare quindi una
semplice coincidenza che il protagonista de Il quinto passo
laddio abbia nome Ruggero, che richiama alla mente lariostesco Ruggiero, che scorre il ciel sullanimal leggiero, e il
protagonista de Le ali dellippogrifo di Massimo Bontempelli.
Come diavoli sono rappresentati i cavalieri del corteo che
accompagna SantEfisio in Rond final. Il racconto si apre
dopo un attimo di sospensione, nellaria, con un evento
straordinario e meraviglioso, lingresso dei cavalli, che d
inizio a tutta una serie di avvenimenti che culminano nel
miracolo del Santo. In Da Nicola a Nicola, il giorno della
sua morte, invece, essi vengono messi in relazione allessenza

34
ATZENI, Salvato da Babbo Natale, in Gli anni della grande peste, Con
una nota di Paola Mazzarelli, Sellerio, Palermo 2003, p. 109.

35
Scrive nel maggio 1984: La poesia azione clandestina, sabotaggio,
zas, Cagliari, [edizione fuori comsfida perdente allordine delle cose (Zere
mercio] 1995, p. 12).
36
ATZENI, Araj dimoniu (I edizione, Cagliari, Le Volpi, 1984 ), con il titolo Il demonio cane bianco in Bellas mariposas, Sellerio, Palermo 1996, p. 59.

quello di varcare il mare, che infine si avvera, per Ruggero e


per lo scrittore, che dellodiato lavoro di digitatore di computer (limpiego allEnel dal 1976 al 1985) parla anche,
senza tanti rimpianti, in Salvato da Babbo Natale, racconto
pubblicato per la prima volta da lUnione Sarda nel 1991
e ambientato ad Amsterdam: Avevi il lavoro sicuro, la tana
calda nel parastato, come un topo nel formaggio, lo stipendiotto micamale... Ma in quel modo ti sentivi un saprofita34.
Trentotto anni mal spesi Savino, trentacinque anni
spesi male Ruggero. La leggera variatio rappresenta il crinale tra sogno e realt. Lasciandosi alle spalle la citt bianca
Ruggero avvera il sogno di Savino, tragica ed eroica rappresentazione di cosa poteva essere il protagonista de Il quinto
passo laddio dopo altri tre anni passati a compilare scartoffie, altri tre anni sempre con lo stesso, esacerbato, desiderio:
andare oltre il sogno, in qualsiasi modo. Savino soccombe
perch gli impedito dar corso ai desideri, se non con la violenza, rimanendo prigioniero dei propri sogni. Ruggero si
sottrae invece a questa triste condizione con la partenza, oltrepassando la soglia del sogno e tramutando in realt lesigenza di varcare lampio mare. Lo stesso mare al quale Araj
dimoniu conduce il piccolo Luisu alla fine del lungo viaggio
di iniziazione alla vita.
Tra Gli amori, le avventure e la morte di un elefante bianco
e Il quinto passo laddio c lApologo del giudice bandito,
con i suoi duelli, che rinnovano quelli de I sogni della citt
bianca. Il duello tra il sogno e lazione. Ed soprattutto un

duello interiore, che si combatte in nome della libert e della


creazione artistica quello che porta allo scontro Gioacchino
e Abramo in Anche le pratiche possono morire.
La creazione letteraria, vissuta con umilt da maestro artigiano, frutto di fatica e sofferenze, passione sotterranea, da
coltivare nel ventre della citt, perch in s contiene i germi
della denuncia sociale, del sabotaggio35. In Un duello, imprigionati in fondo a un pozzo, il protagonista e lassassino
combattono. Combattono in fondo alle segrete della citt
murata Itzoccor e Al, suo doppio, nel quale, in filigrana, si
rinnovano i tanti Ibrahim e Luisu Alab: Domani sarai Luisu, Luisu Alab pi tardi, e dovrai imparare, dovrai lottare, la
magia non sar pi tuo scudo, Araj dimoniu ti accompagner, ma soltanto se saprai domarlo36. Non pare quindi una
semplice coincidenza che il protagonista de Il quinto passo
laddio abbia nome Ruggero, che richiama alla mente lariostesco Ruggiero, che scorre il ciel sullanimal leggiero, e il
protagonista de Le ali dellippogrifo di Massimo Bontempelli.
Come diavoli sono rappresentati i cavalieri del corteo che
accompagna SantEfisio in Rond final. Il racconto si apre
dopo un attimo di sospensione, nellaria, con un evento
straordinario e meraviglioso, lingresso dei cavalli, che d
inizio a tutta una serie di avvenimenti che culminano nel
miracolo del Santo. In Da Nicola a Nicola, il giorno della
sua morte, invece, essi vengono messi in relazione allessenza

34
ATZENI, Salvato da Babbo Natale, in Gli anni della grande peste, Con
una nota di Paola Mazzarelli, Sellerio, Palermo 2003, p. 109.

35
Scrive nel maggio 1984: La poesia azione clandestina, sabotaggio,
zas, Cagliari, [edizione fuori comsfida perdente allordine delle cose (Zere
mercio] 1995, p. 12).
36
ATZENI, Araj dimoniu (I edizione, Cagliari, Le Volpi, 1984 ), con il titolo Il demonio cane bianco in Bellas mariposas, Sellerio, Palermo 1996, p. 59.

interiore, anelante libert: Come indiani dAmerica. Amici


dellanimale. (Dellanima, dellanimale, di questo amico cavallo), senza sella, fratellino, correremo meglio.
Il doppio, il diverso, lo straniero, non dunque altro che la
propria parte dombra, un demone che abita dentro se stessi,
non solo da assecondare ma anche, talvolta, da combattere,
perch possa nascere luomo nuovo. Sar forse un caino, un cristo dei rifiuti, un barabba di periferia, una
pecora nera, ma infine libero: La maschera che mi cuciranno addosso, lo straniero, lisolano, il mendicante, mi nasconder, occulter il nome, sar uomo fra uomini... Chi
mite compatisce i persecutori, ne vede la fragilit, le ferite
nascoste e non si lamenta del male che subisce37.
Nella sofferenza si rivela una saggezza antica, che si riconosce in quella, lapidaria, di Eraclito: La propria qualit interiore per luomo un demone. la saggezza di un uomo
che coltiva con tenacia il proprio talento, come un viziaccio
da tener segreto, ma non troppo. Nel frattempo Atzeni scrive, coniuga il sogno allazione, pessimismo della ragione a
ottimismo della volont, secondo la nota espressione di
Romain Rolland fatta propria da un altro prigioniero che
occupa una posizione fondamentale nella formazione culturale e politica dello scrittore, Antonio Gramsci. Gli articoli si
moltiplicano su Rinascita Sarda e lUnit, sulle pagine
culturali dei due quotidiani sardi, su piccole riviste semisconosciute come Altair. Atzeni prepara i suoi racconti con
cura, pronto per il grande duello, lApologo del giudice bandito, il romanzo, il suo sogno di scrittore.

37

ATZENI, Il quinto passo laddio, cit., p. 15.

Gli anni seguenti passano rapidi e lautore sommerso de


I sogni della citt bianca, con una forte idiosincrasia per gli
accenti e qualche incertezza con le lingue straniere, conquista con i romanzi un pubblico di lettori affezionati, si guadagna da vivere collaborando con alcune tra le pi note case
editrici italiane, per le quali traduce, tra gli altri, autori come
Grard Genette, Claude Lvi Strauss e Patrick Chamoiseau.
In fondo al pozzo lassassino e il maestro di scacchi si preparano allassalto finale, a un duello ad armi pari, come quello di Itzoccor e Al, che il destino [...] ha fatto fratelli38. Un
combattimento in cui ammesso anche il ricorso al talento,
al sogno, al fantastico. Un duello vero, leale. Quanto Atzeni
il suo duello lo abbia vinto spetta al lettore dirlo.
giugno

38

ATZENI, Apologo del giudice bandito, cit., p. 139.

interiore, anelante libert: Come indiani dAmerica. Amici


dellanimale. (Dellanima, dellanimale, di questo amico cavallo), senza sella, fratellino, correremo meglio.
Il doppio, il diverso, lo straniero, non dunque altro che la
propria parte dombra, un demone che abita dentro se stessi,
non solo da assecondare ma anche, talvolta, da combattere,
perch possa nascere luomo nuovo. Sar forse un caino, un cristo dei rifiuti, un barabba di periferia, una
pecora nera, ma infine libero: La maschera che mi cuciranno addosso, lo straniero, lisolano, il mendicante, mi nasconder, occulter il nome, sar uomo fra uomini... Chi
mite compatisce i persecutori, ne vede la fragilit, le ferite
nascoste e non si lamenta del male che subisce37.
Nella sofferenza si rivela una saggezza antica, che si riconosce in quella, lapidaria, di Eraclito: La propria qualit interiore per luomo un demone. la saggezza di un uomo
che coltiva con tenacia il proprio talento, come un viziaccio
da tener segreto, ma non troppo. Nel frattempo Atzeni scrive, coniuga il sogno allazione, pessimismo della ragione a
ottimismo della volont, secondo la nota espressione di
Romain Rolland fatta propria da un altro prigioniero che
occupa una posizione fondamentale nella formazione culturale e politica dello scrittore, Antonio Gramsci. Gli articoli si
moltiplicano su Rinascita Sarda e lUnit, sulle pagine
culturali dei due quotidiani sardi, su piccole riviste semisconosciute come Altair. Atzeni prepara i suoi racconti con
cura, pronto per il grande duello, lApologo del giudice bandito, il romanzo, il suo sogno di scrittore.

37

ATZENI, Il quinto passo laddio, cit., p. 15.

Gli anni seguenti passano rapidi e lautore sommerso de


I sogni della citt bianca, con una forte idiosincrasia per gli
accenti e qualche incertezza con le lingue straniere, conquista con i romanzi un pubblico di lettori affezionati, si guadagna da vivere collaborando con alcune tra le pi note case
editrici italiane, per le quali traduce, tra gli altri, autori come
Grard Genette, Claude Lvi Strauss e Patrick Chamoiseau.
In fondo al pozzo lassassino e il maestro di scacchi si preparano allassalto finale, a un duello ad armi pari, come quello di Itzoccor e Al, che il destino [...] ha fatto fratelli38. Un
combattimento in cui ammesso anche il ricorso al talento,
al sogno, al fantastico. Un duello vero, leale. Quanto Atzeni
il suo duello lo abbia vinto spetta al lettore dirlo.
giugno

38

ATZENI, Apologo del giudice bandito, cit., p. 139.

INDICE

INDICE

INDICE

I sogni della citt bianca

[LA CITT BIANCA]


Meglio fuggire. Sempre
I bambini
Omicidio sotto la pioggia
Un eroe
Storia di Carluccio, e di colui che narra
[I SOGNI DELLA CITT BIANCA]

Cero io. Con Stalin


Delirio maschile
Post Office

Frammenti di informazioni
attorno alla vita dellarabo Ibrahim

Storia della donna


Storia del boxeur
Storia della monaca
Storia coloniale
Storia del carnevale

[NELLA CITT MURATA]


Primavera, nella citt murata
Rond Final
Un uomo arrivato
Caro Leonardo Sole

INDICE

I sogni della citt bianca

[LA CITT BIANCA]


Meglio fuggire. Sempre
I bambini
Omicidio sotto la pioggia
Un eroe
Storia di Carluccio, e di colui che narra
[I SOGNI DELLA CITT BIANCA]

Cero io. Con Stalin


Delirio maschile
Post Office

Frammenti di informazioni
attorno alla vita dellarabo Ibrahim

Storia della donna


Storia del boxeur
Storia della monaca
Storia coloniale
Storia del carnevale

[NELLA CITT MURATA]


Primavera, nella citt murata
Rond Final
Un uomo arrivato
Caro Leonardo Sole

Una leggenda meridionale


Da Nicola a Nicola, il giorno della sua morte
Astrud
Anche le pratiche possono morire
Rosso di cina
Pornomovie
Lorso e la faina
Destino questurino
Il vento soffia, dai bastioni
Un duello

Notizia sul testo


Criteri di edizione
Apparati
Nota biobibliografica

Il sogno del prigioniero

La citt bianca tra realt e trasfigurazione fantastica


di Giuseppe Grecu

Una leggenda meridionale


Da Nicola a Nicola, il giorno della sua morte
Astrud
Anche le pratiche possono morire
Rosso di cina
Pornomovie
Lorso e la faina
Destino questurino
Il vento soffia, dai bastioni
Un duello

Notizia sul testo


Criteri di edizione
Apparati
Nota biobibliografica

Il sogno del prigioniero

La citt bianca tra realt e trasfigurazione fantastica


di Giuseppe Grecu

Volumi pubblicati:

Tascabili
Grazia Deledda, Chiaroscuro
Grazia Deledda, Il fanciullo nascosto
Grazia Deledda, Ferro e fuoco
Francesco Masala, Quelli dalle labbra bianche
Emilio Lussu, Il cinghiale del Diavolo (2a edizione)
Maria Giacobbe, Il mare (3a edizione)
Sergio Atzeni, Il quinto passo laddio
Sergio Atzeni, Passavamo sulla terra leggeri
Giulio Angioni, Loro di Fraus (2a edizione)
Antonio Cossu, Il riscatto
Bachisio Zizi, Greggi dira
Ernst Jnger, Terra sarda
Marcello Fois, Sempre caro (2a edizione)
Salvatore Niffoi, Il viaggio degli inganni (2a edizione)
Luciano Marrocu, Fulas (2a edizione)
Gianluca Floris, I maestri cantori
D.H. Lawrence, Mare e Sardegna
Salvatore Niffoi, Il postino di Piracherfa
Flavio Soriga, Diavoli di Nurai (2a edizione)
Giorgio Todde, Lo stato delle anime (2a edizione)
Francesco Masala, Il parroco di Arasol
Maria Giacobbe, Gli arcipelaghi (2a edizione)
Salvatore Niffoi, Cristolu
Giulio Angioni, Millantanni

Volumi pubblicati:

Tascabili
Grazia Deledda, Chiaroscuro
Grazia Deledda, Il fanciullo nascosto
Grazia Deledda, Ferro e fuoco
Francesco Masala, Quelli dalle labbra bianche
Emilio Lussu, Il cinghiale del Diavolo (2a edizione)
Maria Giacobbe, Il mare (3a edizione)
Sergio Atzeni, Il quinto passo laddio
Sergio Atzeni, Passavamo sulla terra leggeri
Giulio Angioni, Loro di Fraus (2a edizione)
Antonio Cossu, Il riscatto
Bachisio Zizi, Greggi dira
Ernst Jnger, Terra sarda
Marcello Fois, Sempre caro (2a edizione)
Salvatore Niffoi, Il viaggio degli inganni (2a edizione)
Luciano Marrocu, Fulas (2a edizione)
Gianluca Floris, I maestri cantori
D.H. Lawrence, Mare e Sardegna
Salvatore Niffoi, Il postino di Piracherfa
Flavio Soriga, Diavoli di Nurai (2a edizione)
Giorgio Todde, Lo stato delle anime (2a edizione)
Francesco Masala, Il parroco di Arasol
Maria Giacobbe, Gli arcipelaghi (2a edizione)
Salvatore Niffoi, Cristolu
Giulio Angioni, Millantanni

Luciano Marrocu, Debr Libans


Giorgio Todde, La matta bestialit (2a edizione)
Sergio Atzeni, Racconti con colonna sonora e altri in giallo
Marcello Fois, Materiali
Maria Giacobbe, Diario di una maestrina
Giuseppe Dess, Paese dombre
Francesco Abate, Il cattivo cronista
Gavino Ledda, Padre padrone
Salvatore Niffoi, La sesta ora
Jack Kerouac, Lultima parola. In viaggio. Nel jazz
Gianni Marilotti, La quattordicesima commensale
Giorgio Todde, Ei
Luigi Pintor, Servabo
Marcello Fois, Tamburini
Francesco Abate, Ultima di campionato
Patrick Chamoiseau, Texaco
Luciano Marrocu, Scarpe rosse, tacchi a spillo
Alberto Capitta, Creaturine
Romano Ruju, Quel giorno a Buggerru
Peppinu Mereu, Poesie complete
Maria Giacobbe, Le radici
Patrick Chamoiseau, Il vecchio schiavo e il molosso
Paolo Cherchi, Erostrati e astripeti
Marcello Fois, Sangue dal cielo (2a edizione)
Giorgio Todde, Paura e carne (2a edizione)
Giulio Angioni, Alba dei giorni bui
Roberto Concu, Verit per verit
Aldo Tanchis, Lanno senza estate
Ricuore, testi di Massimo Carlotto, Raul Montanari, Enzo Fileno
Carabba, Marcello Fois, Antonio Pascale, Carlo Lucarelli, Stefano
Tassinari, Matteo Galiazzo, Giosu Calaciura, Francesco Piccolo

Sergio Atzeni, I sogni della citt bianca

Narrativa
Salvatore Cambosu, Lo sposo pentito
Marcello Fois, Nulla (2a edizione)
Francesco Cucca, Muni rosa del Suf
Paolo Maccioni, Insonnie newyorkesi
Bachisio Zizi, Lettere da Orune
Maria Giacobbe, Maschere e angeli nudi:
ritratto duninfanzia
Giulio Angioni, Il gioco del mondo
Aldo Tanchis, Pesi leggeri
Maria Giacobbe, Scenari desilio. Quindici parabole
Giulia Clarkson, La citt dacqua
Paola Alcioni, La stirpe dei re perduti
Mariangela Sedda, Oltremare
Rossana Copez, Si chiama Violante
Rossana Carcassi, Lorafo

Poesia
Giovanni Dettori, Amarante
Sergio Atzeni, Due colori esistono al mondo. Il verde il secondo
Gigi Dess, Il disegno
Roberto Concu Serra, Esercizi di salvezza
Serge Pey, Nierika o le memorie del quinto sole

Saggistica
Bruno Rombi, Salvatore Cambosu, cantore solitario
Giancarlo Porcu, La parola ritrovata. Poetica e linguaggio in
Pascale Dessanai

FuoriCollana
Salvatore Cambosu, I racconti

Luciano Marrocu, Debr Libans


Giorgio Todde, La matta bestialit (2a edizione)
Sergio Atzeni, Racconti con colonna sonora e altri in giallo
Marcello Fois, Materiali
Maria Giacobbe, Diario di una maestrina
Giuseppe Dess, Paese dombre
Francesco Abate, Il cattivo cronista
Gavino Ledda, Padre padrone
Salvatore Niffoi, La sesta ora
Jack Kerouac, Lultima parola. In viaggio. Nel jazz
Gianni Marilotti, La quattordicesima commensale
Giorgio Todde, Ei
Luigi Pintor, Servabo
Marcello Fois, Tamburini
Francesco Abate, Ultima di campionato
Patrick Chamoiseau, Texaco
Luciano Marrocu, Scarpe rosse, tacchi a spillo
Alberto Capitta, Creaturine
Romano Ruju, Quel giorno a Buggerru
Peppinu Mereu, Poesie complete
Maria Giacobbe, Le radici
Patrick Chamoiseau, Il vecchio schiavo e il molosso
Paolo Cherchi, Erostrati e astripeti
Marcello Fois, Sangue dal cielo (2a edizione)
Giorgio Todde, Paura e carne (2a edizione)
Giulio Angioni, Alba dei giorni bui
Roberto Concu, Verit per verit
Aldo Tanchis, Lanno senza estate
Ricuore, testi di Massimo Carlotto, Raul Montanari, Enzo Fileno
Carabba, Marcello Fois, Antonio Pascale, Carlo Lucarelli, Stefano
Tassinari, Matteo Galiazzo, Giosu Calaciura, Francesco Piccolo

Sergio Atzeni, I sogni della citt bianca

Narrativa
Salvatore Cambosu, Lo sposo pentito
Marcello Fois, Nulla (2a edizione)
Francesco Cucca, Muni rosa del Suf
Paolo Maccioni, Insonnie newyorkesi
Bachisio Zizi, Lettere da Orune
Maria Giacobbe, Maschere e angeli nudi:
ritratto duninfanzia
Giulio Angioni, Il gioco del mondo
Aldo Tanchis, Pesi leggeri
Maria Giacobbe, Scenari desilio. Quindici parabole
Giulia Clarkson, La citt dacqua
Paola Alcioni, La stirpe dei re perduti
Mariangela Sedda, Oltremare
Rossana Copez, Si chiama Violante
Rossana Carcassi, Lorafo

Poesia
Giovanni Dettori, Amarante
Sergio Atzeni, Due colori esistono al mondo. Il verde il secondo
Gigi Dess, Il disegno
Roberto Concu Serra, Esercizi di salvezza
Serge Pey, Nierika o le memorie del quinto sole

Saggistica
Bruno Rombi, Salvatore Cambosu, cantore solitario
Giancarlo Porcu, La parola ritrovata. Poetica e linguaggio in
Pascale Dessanai

FuoriCollana
Salvatore Cambosu, I racconti

Antonietta Ciusa Mascolo, Francesco Ciusa, mio padre


Alberto Masala - Massimo Golfieri, Mediterranea

I Menhir
Salvatore Cambosu, Miele amaro
Antonio Pigliaru, Il banditismo in Sardegna. La vendetta barbaricina
Giovanni Lilliu, La civilt dei sardi
Giulio Angioni, Sa laurera. Il lavoro contadino in Sardegna
Sergio Atzeni, Scritti giornalistici (1966-1995)

Libristante
Giorgio Pisano, Lo strano caso del signor Mesina

In coedizione con Edizioni Frassinelli


Marcello Fois, Sempre caro
Marcello Fois, Sangue dal cielo
Marcello Fois, Laltro mondo
Giorgio Todde, Lo stato delle anime
Giorgio Todde, Paura e carne
Giorgio Todde, Locchiata letale
Giorgio Todde, E quale amor non cambia
Alberto Capitta, Creaturine

Antonietta Ciusa Mascolo, Francesco Ciusa, mio padre


Alberto Masala - Massimo Golfieri, Mediterranea

I Menhir
Salvatore Cambosu, Miele amaro
Antonio Pigliaru, Il banditismo in Sardegna. La vendetta barbaricina
Giovanni Lilliu, La civilt dei sardi
Giulio Angioni, Sa laurera. Il lavoro contadino in Sardegna
Sergio Atzeni, Scritti giornalistici (1966-1995)

Libristante
Giorgio Pisano, Lo strano caso del signor Mesina

In coedizione con Edizioni Frassinelli


Marcello Fois, Sempre caro
Marcello Fois, Sangue dal cielo
Marcello Fois, Laltro mondo
Giorgio Todde, Lo stato delle anime
Giorgio Todde, Paura e carne
Giorgio Todde, Locchiata letale
Giorgio Todde, E quale amor non cambia
Alberto Capitta, Creaturine

Finito di stampare
nel mese di luglio 2005
da Grafiche Ghiani S.r.l. - Monastir (CA)

Finito di stampare
nel mese di luglio 2005
da Grafiche Ghiani S.r.l. - Monastir (CA)

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