È un ragazzo tenero, anzi tenerissimo, ogni notte quando torna a
casa dà un bacio al suo cane (e ogni volta, quando pensa che lo ritiene suo, torna a porre sotto processo l'aggettivo, dunque ciò che sottende: il pensiero si fa lungo, persino politico, e quasi mai sta dentro i margini della contestualità), guai se no, se no non va a letto, e poi il cane comincia a ululare, così, al dunque, "mica sei un lupo" gli dice nell'ipotesi il ragazzo, e lo assiste affaccendandosi, interrompendo volentieri il sonno, "sei un cane, e un cane...", e riaccende la consapevolezza nel cane, che risoluto e con un'espressione ferma del muso fa come se la consapevolezza non fosse solo una proiezione del ragazzo, come se pensasse, e pensasse: "il mio compito è guaire" (che il cane pensi per davvero? forse, ma di un pensiero tutto esteriore, stirato sugli angoli della bocca e affacciantesi alle imposte degli occhi, nella sclera che mostra), così guaisce, e guaisce di gusto, offrendo al luccichio il naso umido sotto la candela, fino a quando trova più piacere a mordicchiarsi la zampa posteriore, a lisciarsi con la lingua il pelo lungo sopra le unghie nere; ma se anche non guaisce è come se piangesse, scende dalla sedia e non ci vuole più salire. Come se poi il ragazzo potesse dare un bacio a questo cane, che allora sì si calmerebbe facendo il cerchio alla sedia, chiudendo gli occhi. Ma non è così, e il ragazzo non lo bacia se il bacio è solo uno schiocco dato più a se stesso che all'altro. Il cane ne soffre, soffre anche il suo padrone che torna a casa ogni notte come entrando in un sogno. In silenzio, senza ululare, senza guaire, senza scendere dalla sedia. È un dolore articolatosi negli occhi, nel suo umido naso scintillante, e anche nel sogno dell'altro, che non torna mai davvero, forse nemmeno sogna più, ma davvero piange alla finestra il canto disperato del cielo.