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L’EDITORIALE BASTA IMPARARE!
di Ivan Rachieli

Bisogna imparare a riconoscere la complessità. In particolar modo quando la si ha davanti agli


occhi. Per farlo si può cominciare col dare di nuovo significato alle parole. Identità e comunità
sono parole che letteralmente non significano. L’atto della significazione, della produzione di sen-
so, è un atto sociale e convenzionale. Convenzionale perchè non determinato a priori da alcun
elemento trascendente. Detto più semplicemente: non c’è alcun legame necessario che lega un
concetto ad una parola. C’è bisogno invece di un gruppo sociale che convenzionalmente accetti
un termine e la sua significazione come validi. Questo detto in estrema sintesi, le parole, la loro
significazione, la lingua e ogni sistema comunicativo sono – così come i gruppi umani che li de-
terminano – fenomeni dinamici e in costante mutazione. Cercare di stabilire punti fermi e defini-
zioni valide, stabilire sistematizzazioni che non siano volutamente e consapevolmente provvisorie
costituisce sempre una limitazione e una mutilazione alla produzione di sapere di una società.
Paradossalmente è quando si giunge a questo punto, o meglio nel percorso che si compie per
giungerci, che le parole perdono capacità significativa, si svuotano e muoiono: più il significato di
una parola sembra essere palese più il concetto cui quella parola dovrebbe fare riferimento perde
di complessità e senso. Chiarezza e semplicità sono cose estremamente diverse. Si può dire che
siano antitetiche: la chiarezza non esclude affatto la complessità delle cose, si limita a tentare di
coglierla e descriverla. La semplicità desidera scenari semplici, poveri, limitati. Un aut – aut che
delimiti il campo e imponga di decidere da che parte stare. Ognuno di noi pensa di sapere come
definire semplicemente i concetti di identità e comunità. Eppure nel momento in cui si tenta di
farlo la chiarezza viene meno. A questo punto o si riconosce l’impossibilità e si dà spazio al dubbio,
o si leva di mezzo tutto quanto è d’impiccio, ci si unisce compatti e si dà la caccia al nemico. La
caccia al nemico è semplice, appagante, serra i ranghi e dà un senso ad ogni cosa. Nel frattempo
uccide le parole e con loro le idee, rende ognuno meno consapevole e capace di comprendere.

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TRAME
Quelle dei migranti sono identità fluide, meticce, deter-
ritorializzate e fanno riferimento a “comunità immagi-
nate”, come le ha ben definite Benedict Anderson, che
non si trovano esclusivamente nel paese di partenza o
in quello di approdo, ma che si estendono tra i paesi e a
cavallo di frontiere e confini.

“Traffico di culture” caratteristico del mondo


globalizzato
città come “territorio circolatorio”
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IDENTITA’ IN TRANSITO
di Francesco Vietti

Il caldo di quest’estate è eccezionale, lo dicono tutti i meteorologi. La più calda del secolo. Alle due del
pomeriggio la città è deserta. O meglio, è deserto questo angolo di periferia che si scioglie nei campi e
negli svincoli dell’autostrada.

Sono alle Vallette, il quartiere nato nel dopoguerra per ospitare gli immigrati giunti a Torino per lavorare
alla FIAT. Un quartiere di cemento, grigio e bollente. Ai balconi penzola qualche bandiera tricolore. Su
un palo della luce noto un piccolo manifesto che recita: Transport persoane internaţional. 100 per cento
garantat. Confort, siguranţa, seriozitate. Sotto la scritta il disegno di un pulmino. Per vederlo dal vivo
basta aguzzare lo sguardo.

Il parcheggio del macello di Torino è una spianata assolata. Sul muro di mattoni una grande scritta in
vernice nera: Mattatoio 300 metri. Una freccia indica risoluta la direzione di un piccolo campo nomadi
installato nella prima parte del parcheggio. Una famiglia rom dorme all’ombra sul marciapiede di via Tra-
ves; una donna fa il bucato con l’acqua di una fontanella e appende vestiti e biancheria a un lungo filo teso
tra i tronchi del viale alberato.

Una lunga fila di bottiglie vuote di birra Chişinau divide la zona zingara del parcheggio da quella trasfor-
mata in parcheggio per i pulmini che approdano qui dall’Europa orientale. Ogni paese ha una sua area,
informale eppure ben precisa: prima i romeni, in fondo gli ucraini, nel mezzo i moldavi, quasi a riprodurre
in questo microcosmo la geografia fisica e politica reale.

Mi fermo nell’area moldava. Dodici minibus bianchi sono schierati pronti per la partenza. Qualche autista
cerca di riparare il suo mezzo con degli ombrelli, altri con dei grandi cartoni. Tutti espongono sul cofano
una plancia con l’itinerario di viaggio. Ungheni, Teleneşti, Soroca, Chişinau, Piteşti, ComratI. I migranti,
soprattutto donne che lavorano a Torino come badanti, arrivano per ritirare i pacchi spediti dalla Molda-
via e per inviare a loro volta scatole, regali, buste con denaro e fotografie ai loro parenti e amici rimasti in
patria.

Durante il giorno e mezzo di presenza dei pulmini, dal venerdì sera alla domenica mattina, l’area di sosta si
anima del via vai di centinaia di uomini e donne che vengono a prenotare un posto per i viaggi di rientro
o anche solo a informarsi dagli autisti della situazione nel loro paese e incontrare i connazionali presenti
in città. Tutte le settimane la sosta dei pulmini rappresenta un’ottima occasione per vedersi, parlare, man-
giare e bere qualcosa insieme nel giorno di pausa dal lavoro. Se la definizione di città come “territorio
circolatorio” proposta dal sociologo Alain Tarrius avesse bisogno di un’immagine simbolo, non vi sarebbe
nulla di meglio della trasformazione che ogni sabato fa di questo luogo abbandonato un crocevia di arrivi
e partenze. Qui la città passa realmente da una concezione statica ad una dinamica, da luogo di residenza
a luogo di passaggio, da ambiente discreto a continuum spaziale in un costante gioco di entrata e uscita
dai suoi confini sia spaziali sia sociali.

Pavel, uno degli autisti, mi racconta la sua storia: “Sono tre anni che lavoro così. Questo camioncino ha
già sei anni, l’ho comprato all’autobazar di Chişinau nel 1999 per dodicimila euro. È un po’ vecchio, ma
è un Mercedes, non si rompe mai e può fare tre tonnellate di merce senza problemi”. Pavel si diverte a
mostrarmi la capienza del suo “gioiello” e a fare insieme a me un inventario delle merci che in quei pochi
metri cubi si riescono a trasportare: due lavatrici, due frigoriferi, tre motocicli, sei biciclette, due televisori,
due ventilatori elettrici, venti pneumatici per auto, una moto giocatolo elettrica, circa duecento pacchi
imballati di diverse dimensioni, dieci fustini di detersivo per la lavatrice e una decina di borse con prodotti
alimentari.

Nei pulmini non viaggiano solo grandi pacchi, ma anche piccole buste altrettanto preziose: lettere, foto-
grafie e rimesse in denaro vengono affidate agli autisti per consegne di fiducia che costituiscono insieme
alle quotidiane telefonate l’unico mezzo per curare e rafforzare rapporti sentimentali e affettivi tra persone
che spesso non si vedono per mesi o anni.
E così ogni settimana le identità dei migranti viaggiano attraverso l’Europa sui piccoli pulmini bianchi dei
corrieri. Rimangano due giorni e una notte nascoste dentro pacchi e buste, racchiuse nella marca di un
paio di pantaloni o di una scatola i cioccolatini, pronte a riemergere a migliaia di chilometri di distanza tra
le mani di mariti, figli e amici in un villaggio della campagna moldava, romena o ucraina.

Quelle dei migranti sono identità fluide, meticce, deterritorializzate e fanno riferimento a “comunità
immaginate”, come le ha ben definite Benedict Anderson, che non si trovano esclusivamente nel paese
di partenza o in quello di approdo, ma che si estendono tra i paesi e a cavallo di frontiere e confini. An-
tropologi e sociologi parlano di transnazionalismo dell’identità, un concetto divenuto ormai familiare a
tutte le discipline che si occupano dello studio delle migrazioni: i flussi migratori non sono movimenti
unidirezionali, ma bidirezionali e spesso pluridirezionali di idee, beni e soprattutto persone che travalicano
confini e frontiere politiche e culturali.

Quale metafora migliore dei minibus dei migranti dunque per parlare del “traffico di culture” caratteristi-
co del mondo globalizzato? E non sono forse ideascapes, “ideorami” della modernità in polvere descritta
da un antropologo come Arjun Appadurai quelli che si vedono dai loro finestrini?
Il lavoro e la vita stessa di Igor, Cornel, Ivan e tanti altri autisti di pulmini si compie tra gli angusti spazi
dei minibus e gli indefiniti confini degli spazi transnazionali. Il viaggio è in definitiva l’unica dimensione
in cui è possibile incontrarli e seguirli. Se per gli ottusi meccanismi legislativi e burocratici della “Fortezza
Europa” l’assenza di un permesso di soggiorno li relega al ruolo di non-persone, come nota Alessandro Dal
Lago, i parcheggi dove sostano con i loro pulmini certamente non appartengono alla categoria dei non-
luoghi descritti da Marc Augé. Si tratta anzi di luoghi densi di legami e relazioni personali ed emozionali,
nonostante siano spesso relegati in periferie anonime e abbandonate. Molti autisti mantengono residenza
e famiglia in patria, parlano poche parole di italiano e hanno in Italia solo qualche punto d’appoggio
per trascorrere le notti di sosta prima di riprendere la strada. Alla loro responsabilità, capacità di guida e
resistenza al sonno sono affidati i risparmi, gli affetti e le vite di tante migranti e delle loro famiglie. Per
questo forse le badanti parlano spesso dei giovani autisti con affetto materno e con la stessa apprensione
che riserverebbero a un figlio lanciato a folle corsa con la sua auto per le strade buie d’Europa.

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