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Riflessioni su alcuni aspetti

del mio percorso professionale*


di Salomon Resnik**

Non è un caso che mi sia stato chiesto di inserire una sezione dedicata ai
gruppi in un Congresso sulla Storia della psicoanalisi; è la dimostrazione che
l’approccio psicoanalitico al gruppo con le sue implicazioni istituzionali e so-
ciali appartiene alla storia della psicoanalisi, ovvero al patrimonio freudiano.
Quando Freud arrivò a Parigi, il 13 ottobre 1885, Charcot era all’apice del-
la propria fama. In quel periodo la presentazione pubblica delle pazienti iste-
ro-epilettiche alla Salpêtrière era il principale spettacolo teatrale in città. Le
fotografie e i quadri del tempo mostrano al centro della scena una bellissima
donna (sicuramente M.lle Blanche) che, come una “vamp”, affascina, ipnotiz-
za e addirittura seduce il Prof. Charcot e i suoi collaboratori. Questa era come
una prima forma di psicodramma moreniano, con i suoi “io ausiliari” e il suo
pubblico.
Evidentemente Freud era rimasto affascinato da tali rappresentazioni, che
di certo risvegliavano in lui ciò che era avvenuto tra Breuer e Anna O, senza
che egli potesse assistervi.
Immagino Freud uno spettatore “avido”, entusiasta degli stupefacenti psi-
codrammi orchestrati da Charcot. Le riunioni del martedì con le pazienti iste-
riche venivano organizzate come una rappresentazione teatrale di tipo catarti-
co. La catharsis greca in Aristotele implica un gioco triangolare tra gli attori,
il coro e il pubblico.
Ho sempre pensato che il coro sia la personificazione superegoica del pub-
blico sulla scena. A sua volta il coro si proietta al centro dell’auditorium in
uno scambio dialettico tra essere, apparire (le maschere degli attori) e opinio-
ne pubblica. Il termine catharsis era già familiare a Freud grazie allo zio di
sua moglie, il filosofo Jacob Bernays, che nel 1880 aveva pubblicato a Berlino
una tesi dal titolo Über die Aristoteliche Teorie des Drama. Secondo Aristote-

*
Si tratta di un contributo inedito, mai pubblicato prima, scritto per A. de Mijolla per un
Congresso di Storia della psicoanalisi tenutosi a Parigi nel luglio del 2000.
**
Psichiatra, Psicoanalista, membro didatta della International Psychoanalytic Association,
già professore di Semiologia Psichiatrica all’Università di Lione e all’Università Cattolica di
Roma alla Scuola di Specializzazione in Psichiatria.

Gruppi, 3/2004

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le la catarsi è legata alla poesia epica e al dramma. Spesso il dramma, con
l’accompagnamento del flauto e dell’arpa, veniva recitato su un ritmo simile a
quello di una danza, e ciò dava alla rappresentazione una dimensione trascen-
dente la scena.
Tra tragedia, commedia e vita, il fondamento dell’espressione artistica, so-
no la metafora e la metonimia. Il teatro rappresenta la vita, e la vita è una spe-
cie di teatro veritiero tra persone che si fanno personaggi.
I fenomeni di transfert tra il teatro e il pubblico erano già presenti nello
spettacolo di Charcot.
Charcot conosceva la parola “transfert”. Aveva infatti autorizzato V. Burq
(1876) a usare il termine “transfert” nel corso delle sue esperienze di metallo-
terapia con pazienti isteriche che consistevano nello stabilire un contatto con i
corpi isterici, e le loro varie parti, grazie alla mediazione dei metalli. Secondo
Burq ogni metallo, in base alla propria natura, doveva esercitare un particolare
effetto. Compito del terapeuta era quindi di individuare il metallo adatto a o-
gni paziente. Il transfert, nella descrizione di Burq e Charcot aveva un’im-
plicazione non solo inter-personale (paziente-terapeuta) ma soprattutto intra-
corporea e intra-psichica.
I ricordi del teatro di Charcot alla Salpêtrière ricompariranno poi nella casa
dello stesso Freud nel corso delle famose riunioni del mercoledì.
Tra i suoi invitati c’erano i futuri fondatori della Società Psicoanalitica di
Vienna (1906-1908).
Leggendo le Minute della Società Psicoanalitica di Vienna, si capisce che
l’intensità affettiva raggiungeva livelli talmente elevati che Freud, conduttore
del gruppo, era spesso imbarazzato di fronte alla catarsi spontanea, quasi in-
controllabile del gruppo. Le “confessioni” catartiche dei suoi membri e il cli-
ma di regressione psicoanalitica preannunciavano la comparsa di alcuni pro-
blemi legati al transfert e al controtransfert, ancor prima della nascita di questi
concetti psicoanalitici. La necessità di istituzionalizzare la formazione psicoa-
nalitica potrebbe essere legata al bisogno di introdurre una scena formale, un
setting, in grado di contenere le pulsioni e le inevitabili contraddizioni di un
gruppo tanto appassionato. Il gruppo del mercoledì era un’esperienza difficile
da gestire in sé. Arrivati a quel punto si trattava non soltanto di creare una
cornice adeguata, ma anche di dare un ordine paterno, cioè un Super-io opera-
tivo in grado di favorire la strutturazione e l’organizzazione di uno spazio ma-
terno di fondo. E fu così che la giusta combinazione spontanea di funzioni ma-
terne e paterne divenne essenziale nella fondazione della materia psicoanalitica
in statu nascendi e implicitamente nella formazione dei futuri psicoanalisti.
La conflittualità inevitabile, ma anche creativa di queste riunioni, fu alla
base di quelle che più avanti diverranno la formazione psicoanalitica e
l’analisi didattica.

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Immagino Adler, Stekel e Federn darsi appuntamento in un caffè e discute-
re tra loro – in una specie di esperienza preliminare e informale – prima di
presentarsi insieme da Freud. Secondo me l’esperienza gruppale a casa di
Freud è collegata con l’idea latente della psicoterapia di gruppo.
Nel 1906 negli Stati Uniti, G.H. Pratt scoprì la psicoterapia di gruppo os-
servando gli scambi che avvenivano tra i suoi pazienti affetti da tubercolosi
nella sala d’aspetto. Notò l’utilità di questo scambio tra pazienti e concepì una
presa in carico istituzionale che gli consentisse di elaborarne la tecnica. Egli
tentava di suscitare nel gruppo uno spirito di fratellanza e di condivisione dei
sentimenti attorno alla figura di un padre-guida. Questo “padre” aveva il com-
pito di dare ai pazienti un insight delle loro malattie organiche e delle impli-
cazioni psico-nevrotiche che queste avevano nella vita quotidiana.
La mia introduzione storica ha lo scopo di presentare l’avvio di quello che
diventerà un approccio veramente psicoterapeutico, e in seguito psicoanaliti-
co, alla dinamica gruppale e psicodrammatica.
Nel 1935 nacque negli Stati Uniti una forma di terapia di gruppo con gli
Alcolisti Anonimi. Fu una delle prime associazioni spontanee (senza un leader
riconosciuto) a tentare di stimolare sentimenti di responsabilità e di controllo
sulle tendenze tossicomaniche individuali.
A differenza di Pratt che esercitava una funzione paterna, gli Alcolisti A-
nonimi dovevano inventarsi un padre, un Super-io efficace nel gruppo dei pari.
Enrique Pichon-Rivière, in Argentina, riteneva che l’insieme dei membri,
fratelli e sorelle, il gruppo come comunità di fratelli, rappresentassero i “pez-
zi” di un corpo materno.
Il compito consisteva allora nel costruire un “corpo-asilo” in grado di con-
tenere, di creare uno spazio-laboratorio dove elaborare le preoccupazioni con-
sce e inconsce del gruppo.
A partire dal 1911 Moreno ha formalizzato con la propria équipe (gli io
ausiliari) la possibilità di una catarsi e di una rappresentazione ludica dell’in-
conscio individuale nel gruppo attraverso la drammatizzazione teatrale.
Negli anni ’30, le figure più rappresentative dell’approccio psicoanalitico
al gruppo sono state Slavson, Schilder e Klapman.
Ma lo sviluppo successivo della storia della psicoterapia di gruppo avrà
luogo soprattutto in Inghilterra attorno a Foulkes e Bion. Essi svolsero i loro
primi lavori nei centri di riabilitazione militari durante e dopo la Seconda
guerra mondiale (Rehabilitation Center). Tali esperienze hanno poi ispirato ri-
cerche sui gruppi e sulle comunità alla Tavistok Clinic (Bion, Ezriel, Suther-
land…).
La nozione di “comunità terapeutica” (definizione di T. Main) verrà svi-
luppata in diversi centri, tra cui il Cassel Hospital a Richmond vicino a Lon-
dra (diretto da T. Main), dove ho lavorato con Malcom Pines alla fine degli

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anni ’50. Anche Maxwell Jones ha sviluppato le proprie idee sull’argomento
nel suo Rehabilitation Center per pazienti psicopatici (Henderson Hospital), le
ha portate avanti negli Stati Uniti e poi, di ritorno in Inghilterra, in un ospeda-
le scozzese.
A partire da questa proto-storia (di cui sono stato testimone e attore allo
stesso tempo) e dalle sue implicazioni possiamo concepire un quadro generale
della terapia di gruppo e del suo sviluppo nei diversi paesi.
Dalla fine degli anni ’50 a Buenos Aires abbiamo subito l’influenza delle
idee di Bion e di Foulkes, e più tardi di quelle di Moreno.
Già alla fine degli anni ’40 ebbi la fortuna di collaborare con Pichon-
Rivière nell’ospedale psichiatrico di Buenos Aires e nella sua clinica privata,
dove aveva introdotto le idee di P. Schilder sul gruppo.
Riprendo qui la storia della nascita della psicoterapia di gruppo. Il libro
Psicoterapia del grupo di Leon Grinberg, Marie Langer e Emilio Rodrigue
(1957) mette in risalto gli eventi storici di cui siamo stati protagonisti. Nel
mio ultimo libro Temps des glaciations (1999), dedicato al dottor Raul Usan-
divaras, ho scritto un capitolo su questa prima esperienza di terapia gruppale e
sulle sue implicazioni istituzionali.
A partire dagli anni ’50 con Usandivaras e Morgan (che aveva fatto pratica
alla Tavistok Clinic ai tempi di Bion) decidemmo di applicare la psicoanalisi
alla terapia di gruppo. Facemmo la nostra prima esperienza con pazienti psi-
cotici cronici istituzionalizzati. A quei tempi Usandivaras, Morgan e io era-
vamo giovani psichiatri in formazione psicoanalitica, e lavoravamo nel servi-
zio di Edoardo Krapf1. Raul Usandivaras, il vero pioniere, mi aveva trasmesso
il suo entusiasmo per un articolo scritto da Paul Schilder nel 1939: “Results
and Problems of Group Psychotherapy in Severe Neuroses” (Schilder, 1939:
87-99). Egli voleva intraprendere una ricerca sull’argomento con la mia colla-
borazione e come punto di partenza prese un gruppo di una decina di pazienti
psicotici cronici istituzionalizzati, ospedalizzati da diversi anni.
L’arrivo del medico argentino Juan Morgan2, che a quei tempi stava facen-
do pratica presso la clinica Tavistock di Londra, rappresentò per noi un punto
di svolta fondamentale.
Il nostro ospedale era un vecchio manicomio, dove i pazienti soggiornava-
no per diversi anni, e il gruppo curante aveva la possibilità di fare un lavoro
spontaneo sul campo (field work): proprio quello che facevo io.
Mi ha sempre affascinato la vita quotidiana di una “comunità di matti” (v.

1
Psicoanalista e professore di Psichiatria prima in Germania, poi a Buenos Aires; l’ho infi-
ne ritrovato a Ginevra nel 1955 in qualità di direttore delle Ricerche psichiatriche all’OMS.
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Juan Morgan alla fine degli anni ’40 aveva assistito per sei mesi alle esperienze in gruppo
di Bion. Raul Usandivaras e io abbiamo così avuto l’opportunità di usufruire della trasmissione
delle conoscenze di Bion, e della sua collaborazione.

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la Nave dei folli ancorata nel centro di Parigi, dipinto di Jérôme Bosch che si
trova al Louvre), che mi ha consentito di seguire, sia durante il turno di lavoro
che nelle pause in giardino, lo sviluppo delle loro relazioni col mondo, cioè
con le possibilità e le difficoltà della vita sociale. Lì ho imparato che gli psico-
tici, soprattutto gli schizofrenici, condividono un linguaggio e un sistema di
valori, se non addirittura “una logica nel delirio”, e contemporaneamente con-
servano un aspetto sano e intatto della propria personalità.
Il gruppo della nostra ricerca divenne così un vero field work, che permise
un confronto implicito tra discipline diverse. A quei tempi ero abbonato alla
rivista Psychiatry (Journal for the study of interpersonal processes, pubblica-
ta a Washington e ispirata all’opera di Stack Sullivan e dei suoi collaboratori),
che mi è stata di grande aiuto nella concezione di un approccio interdisciplina-
re tra la psichiatria, la psicoanalisi e le scienze sociali.
Harry Stack Sullivan e la scuola di Washington-Baltimora fornivano la
possibilità di uno scambio continuo tra i rappresentanti della psicologia socia-
le come Talcott Parson e antropologi culturali come Ruth Benedict, Margaret
Mead e altri. Queste idee rientrano così nella mia formazione umanistica.
Il gruppo di psicotici cronici di Buenos Aires, il nostro field work, è durato
diversi anni. Questo ci ha permesso di cominciare a elaborare una teoria e una
tecnica gruppali nelle istituzioni.
Riunire in gruppo i pazienti cronici ci ha dato l’occasione di osservare di-
rettamente il loro comportamento, e di respirare la loro “atmosfera”.
Da qui sono partito per sviluppare negli anni successivi l’idea di una “eco-
logia del transfert”. Il tentativo di comunicare e di decifrare cosa potesse si-
gnificare un gesto, un movimento o un’atmosfera particolare emergente dal
gruppo era un’esperienza difficile, ma ricca. I pazienti cronici del gruppo era-
no letteralmente “congelati” ed emotivamente “bloccati”. È proprio sulla no-
zione di scongelamento del sé e di depressione narcisistica (successiva allo
“svuotamento” del delirio) (Daumézon, 1980) che ho concentrato le mie ri-
cerche più recenti.
Di quell’esperienza fondamentale a Buenos Aires ciò che mi ha maggior-
mente colpito nel contro-transfert è stata la presenza piena di significato, pe-
sante e invasiva del silenzio. Quel silenzio psicotico era abitato da un “pieno
di vuoto” estremamente angosciante e difficile da contenere. Il gruppo stesso
ha manifestato il proprio bisogno di contenere la pesantezza di un tale silenzio
pieno di vuoto, attraverso un atto simbolico ricco di pathos: un giorno un pa-
ziente ha alzato in aria una gavetta metallica vuota, che portava con sé in ogni
seduta, quasi fosse parte integrante dello schema corporeo del gruppo.
Questa gavetta era un significante primordiale che simbolizzava il bisogno
di un contenitore solido (metallico in questo caso) in grado di tollerare tutte le
ansie psicotiche del gruppo: un gruppo con l’armatura.

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Solo in seguito capimmo che questo messaggio era rivolto anche a noi: an-
che noi dovevamo contenere la nostra ansia da controtransfert psicotico. Le
questioni del vuoto e dell’avidità sono fondamentali nel paziente cronico. Col
tempo ho imparato quale importanza abbia il vuoto. Mi aveva colpito uno
scritto in cui Einstein affermava che il vuoto assoluto non esiste, dando quindi
ragione a Cartesio. Effettivamente studi ulteriori, soprattutto quelli di Max-
well e Faraday, hanno dimostrato l’esistenza del campo elettromagnetico, os-
sia di una proprietà sostanziale sempre presente nel vuoto e nello spazio.
Nella psicosi e in certi pazienti autistici ho ritrovato spesso la fantasia di
abitare in una casa vuota di vita, ma piena di angoscia e di persecutorietà.
Una delle mie pazienti, che chiamerò Giulia, da anni si sente prigioniera
nel proprio corpo fortezza. È curioso che si tratti di una fortezza fatta di coto-
ne, impermeabile al rumore e agli attacchi esterni, che la protegge ma le rende
la vita insopportabile.
Però una voce è entrata all’interno: vi è penetrato un grido che da tempo
abita la sua coscienza. La paziente la riconosce come la voce persecutoria di
sua madre. Ultimamente ha scoperto anche un occhio critico e minaccioso che
la guarda dal fondo del suo vuoto interiore.
È lo sguardo di suo padre. Nel transfert Giulia a volte confonde il mio
sguardo analitico, amichevole, con lo sguardo spaventoso del padre.
L’idea di un vuoto abitato da suoni e da sguardi intimidatori mi riporta alla
mente le parole pronunciate da Melanie Klein, nel 1959, all’Istituto Psicoana-
litico di Londra, durante una riunione del mercoledì sera.
In quell’occasione le avevamo chiesto cosa pensasse del vuoto in analisi.
Ci pensò un momento e rispose: “Ricordo un bambino che all’inizio di una
seduta, guardava impaurito la sala dei giochi e diceva: ‘È vuota!’”. Melanie
gli chiese: “Perché questo vuoto ti fa tanta paura?”. Il piccolo rispose: “La
stanza non è accogliente, è piena di nemici che mi spaventano”.
Così ho capito che nel “pieno di vuoto” della mia paziente mancava una
presenza amichevole… Cosa che mi ha confermato con queste parole: “Effet-
tivamente non ho amici, neppure dentro me stessa”. Per quanto riguarda il
transfert positivo e negativo, nel caso di Giulia, la mia paziente, coesistevano
spesso aspetti negativi e positivi, nelle situazioni più diverse.
La psicoanalisi, come tutte le psicoterapie, è un atto trasgressivo, perché
consiste nel “penetrare” e nel “guardare” dentro l’intimità dell’essere. Nel ca-
so di Giulia il mio sguardo psicoanalitico era sicuramente una ferita narcisisti-
ca, ma anche una presenza comprensiva e amichevole.
Mi permetto di mescolare la mia esperienza psicoanalitica, gruppale e isti-
tuzionale per spiegare come in qualunque situazione professionale io conservi
lo sguardo di colui che pensa in modo psicoanalitico. Il mio modo di pensare
è sempre personale, è così come sento, in tutti gli ambiti di ricerca.

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Sono convinto che quello che conta a livello etico e pratico, sia raggiunge-
re la spontaneità e acquisire il proprio stile. È traumatizzante per il paziente,
in qualunque contesto, l’artificiosità di un interlocutore che parla a nome del
maestro o di una scuola.
Nella mia versione personale della storia della psicoterapia di gruppo, in
Argentina e in Europa – dove ho lavorato a partire dal 1957 – le ricerche con-
dotte a Buenos Aires con Usandivaras e Morgan sono rimaste fondamentali
per lo sviluppo successivo della mia pratica.
Era la prima esperienza di gruppo in Argentina ed è durata diversi anni.
Avevo già lavorato prima degli anni ’50 con bambini autistici e con adulti
psicotici in analisi individuale, con la supervisione di Pichon-Rivière. Ri-
cordo che il mio maestro E. Pichon-Rivière ci diceva: “Sapete, è sempre
possibile fare qualcosa con gli psicotici cronici. Anche quelli istituzionaliz-
zati da molto tempo sono spesso vergini di qualunque esperienza psicotera-
peutica. Il fatto che siano isolati nel loro delirio non significa che siano in-
capaci di comunicare”.
Ritengo che l’esperienza gruppale e istituzionale, che ho sviluppato in pae-
si diversi, completi la dotazione psicoanalitica individuale. Secondo me la ca-
ratteristica di ogni gruppo è la sua natura schizoide. Qualunque gruppo, ne-
vrotico o psicotico, è una molteplicità vivente corrispondente al concetto di
inconscio nell’opera di Ignacio Matte Blanco (1975).
È questa “materia” gruppale che a un certo punto assume la forma di un
gruppo. Molteplicità e gruppalità non sono sinonimi. È possibile che lo psico-
tico sia una “personalità-gruppo”, come segnala Bion, ma non è sempre così.
Spesso si tratta dell’Uno che ha perso la propria integrità e diventa una mol-
teplicità discordante. La nozione di follia discordante di Chaslin è più rappre-
sentativa della nozione di schizofrenia descritta da Bleuler l’anno successivo,
nel 1911. Ciò che caratterizza tutti i gruppi, bene o male integrati che siano a
seconda dei momenti, a differenza di quanto avviene nell’analisi individuale, è
la presenza di un terzo, dell’opinione pubblica. Questa nozione ci riporta alla
struttura della tragedia greca dove il coro, il Super-io parlante, gioca un ruolo
importantissimo. La dialettica tra individuo, molteplicità, gruppalità e società si
dispiega nell’analisi del transfert analitico in tutte le sue dimensioni.
Ho sempre pensato che lo psicotico cronico viva in una realtà-sogno. Lo
psicotico vive spesso avvolto in un sogno-delirio che lo protegge dalla realtà
percepita nella veglia. Dal momento che non può negoziare con il principio di
realtà quotidiano, egli tenta di convalidare il proprio punto di vista, o meglio
di creare un “mondo nuovo”, una nuova realtà.
Bion ha ripetuto molte volte che lo psicotico non sa se dorme o è sveglio.
Generalmente penso che gli psicotici cronici sognino continuamente il reale,
senza potersi svegliare completamente nella realtà.

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Recentemente uno dei miei pazienti schizofrenici, Samuel, che sta andando
meglio, ha detto:

“Sto perdendo la mia fama, non c’è più nessuno che mi riconosce per la strada e
non sento più voci”. In un sogno aveva avvertito il bisogno di dimostrare quella che
lui chiama realtà per migliorare.
“Quale realtà?” gli ho chiesto.
“Quella vera. Penso a un sottomarino”.
“Sei stato sommerso per anni nella vera realtà che hai costruito durante la tua ma-
lattia. È questa la tua realtà?”
“Fumo sempre molto, quindi è una realtà circondata dalle nuvole”.

Se uno psicotico si risveglia deve confrontarsi nuovamente con i problemi


che ha lasciato da parte o che ha trasformato in deliri, o forse come dice Sa-
muel “smontare il reale di questa realtà” per ricostruire la propria vita nel so-
ciale.
Abbandonare il delirio implica un lavoro di lutto molto faticoso e l’assun-
zione della stessa disillusione traumatica che un tempo aveva determinato la
creazione di un mondo psicotico illusorio. Nel momento dello svuotamento
narcisistico a cui mi riferisco occorre affrontare una scelta tra le luci della “ri-
velazione psicotica” e la deludente rivelazione di una realtà velata.
Scegliere di uscire da un mondo fatto di ombre o iper-reale (come nel caso
del sogno) per riprendere il movimento e il ritmo fluido della vita che scorre
comporta un ritorno penoso alla relazione con l’altro.
La dinamica di gruppo dà la possibilità di studiare il linguaggio del corpo
attraverso gli aspetti polimorfici e polisemici delle diverse forme di espressi-
vità. Nello psicotico le difficoltà a comunicare, e i suoi bisogni, trovano e-
spressione attraverso la gestualità e lo “stile” della posizione corporea, nel
“modo” di indossare la o le maschere.
Per esempio, un paziente psicotico può perdere la propria condizione di
persona e diventare una cosa, un essere inanimato. Si può identificare in un
mobile con dei cassetti. Ogni cassetto in questo caso è diverso e non comunica
con gli altri. A un simile fenomeno dò il nome di “divisione a compartimenti
dell’io”.
Si può anche immaginare che nella discordanza e nella dispersione dell’io
paziente i frammenti si raggruppino in modo adeguato o inadeguato, seguendo
un’anatomia del pensiero coerente o incoerente (Bion). Si dice spesso che in
questi casi ci sia la perdita della capacità di pensare e di comunicare.
In realtà succede che con i frammenti di un mondo disfatto e a pezzi venga
elaborato un nuovo linguaggio. Questo è quanto ho constatato nella mia lunga
pratica con i malati psicotici cronici. Sono spesso ancora sorpreso nel vedere
come riescano a capirsi tra loro, in una sorta di logica delirante. Questo non

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toglie che ci sia sempre una parte sana della personalità, come hanno segnala-
to Bion e Pichon-Rivière, che in certi momenti riesce a comunicare con il
mondo normale.
La nascita della dinamica della psicoterapia di gruppo in Argentina, e le
sue derivazioni in America Latina (Buenos Aires a quei tempi era il centro
della formazione analitica e gruppale) si è arricchita con il ritorno di Morgan
da Londra. Nello stesso periodo anche E. Rodrigué, che era stato analizzato da
Paula Heimann, e faceva delle supervisioni con Melanie Klein, era rientrato
da Londra dopo molti anni di formazione psicoanalitica alla British Psycho-
analityc Association e alla Tavistock Clinic. Anch’egli quindi era in contatto,
tra gli altri, con Bion. Grazie a lui ho deciso di partire a mia volta per Londra,
dove ho avuto la fortuna di incontrare Bion nel 1955 (Congresso Internaziona-
le di Psicoanalisi a Ginevra), che non si occupava più di gruppi, ma con il
quale ho fatto delle supervisioni individuali su pazienti psicotici.
Nello stesso periodo ho incontrato, sempre alla Tavistock, J.D. Sutherland,
Henry Ezriel, e in seguito Foulkes, Malcom Pines, De Maré, e coloro che fon-
deranno la Group Analytic Society.
Ho anche avuto l’occasione di conoscere personalmente Maxwell Jones e
ho collaborato con lui all’Henderson Hospital e al Cassel Hospital. Da quel
momento in poi a Buenos Aires c’è stato un progresso significativo nel campo
della psicoterapia di gruppo, familiare, di coppia (J. Puget e Isodoro Beren-
stein), così come, qualche anno dopo, nell’ambito dello psicodramma.
In questo hanno avuto un ruolo importante il dottor Bermudez, Pavlovsky
e Bouquet, che si erano formati a New York con Moreno. Enrique Pichon-
Rivière elaborò con H. Kesselmann, A. Bauleo e Pavlovsky la nozione di
gruppi operativi (grupos operativos) con le sue molteplici applicazioni. Alcu-
ni di loro hanno sviluppato lo psicodramma argentino e il gruppo operativo in
Europa.
In Europa mi sono sempre tenuto in contatto con la Group Analytic So-
ciety di Londra, l’Associazione di psicoterapia psicoanalitica di gruppo fran-
cese e con la COIRAG italiana e l’ASVEGRA a Padova.
Ultimamente sto collaborando con Ferlini a Padova e con la sua scuola di
specializzazione in psicoterapia ad orientamento psicoanalitico e fenomenolo-
gico dove, come ho sempre fatto, nell’insegnamento utilizzo la mia esperienza
di dinamica di gruppo.
Le mie ricerche terapeutiche sulla psicosi cronica all’Ospedale Sainte-
Anne di Parigi, e alla Clinica Santa Giuliana di Verona, hanno approfondito
ciò che avevo avviato a Buenos Aires e a Londra come si può leggere nel mio
libro Temps de glaciations (1999).
Negli ultimi tempi ho seguito per tre anni un gruppo di giovani psicotici
cronici a Venezia, in parte provenienti dalla Clinica Santa Giuliana.

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Vorrei riportare in quest’occasione un frammento di seduta risalente agli
inizi del gruppo. Il signor V.3 aveva sognato il gruppo come un’orchestra
composta da un pianoforte rotto, un violino con le corde discordanti e scorda-
te, e una fisarmonica. È chiaro che il clima del gruppo sognato dal signor V.
era il significante simbolico di una molteplicità di individui sofferenti per la
“mancanza di accordo” con i propri sentimenti, i propri pensieri e con gli altri.
Il gruppo scordato aveva bisogno di un accordatore.
Ho sempre pensato che l’apparato psichico sia una sorta di strumento mu-
sicale, non sempre ben accordato. In questo senso il già citato concetto di Ph.
Chaslin di “follia discordante” (1911-1912) quasi contemporaneo al concetto
di schizofrenia di Bleuler, si rivela fenomenologicamente molto vivido.

Conclusioni

In occasione della pubblicazione in questa rivista ho voluto dare il mio


contributo fornendo una descrizione storica del mio percorso psicoanalitico ed
esistenziale nel campo della psicosi in un contesto relazionale, nell’esperienza
individuale, gruppale e istituzionale.

Traduzione di Silvia Anfilocchi

Riferimenti bibliografici

Bernays J. (1880) Über die Aristoteliche Teorie des Drama, Verlag von Wilhelm
Hertz, Berlino.
Daumézon G. (Mélange en l’honneur de) (1980), À propos de la dépression narcissi-
que, in Regard, Accueil et Présence, Ed. Privat Toulouse.
Grinberg L., Langer M. (1957), Psicoterapia del grupo, Paidos, Buenos Aires.
Matte Blanco I. (1975), The Unconscious as Infinit Sets, Duckworth, Londra.
Renisk S. (1999), Temps des glaciations, Éres, Parigi.
Schilder P. (1939), Results and Problems of Group Psychotherapy in Severe Neuro-
ses, Review of Mental Hygiene, 23, 1939.

3
L’uomo congelato del mio ultimo libro, Temps de glaciations.

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