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Antonio Montanari

Iano Planco, la puttanella, il vescovo


La condanna all’Indice (1752)
del rifondatore dei Lincei
«E si sa che nulla vi è di più
inviso di ciò che ti è più vicino
ma può risultare
concorrenziale rispetto ai tuoi
fini. Non si è più feroci contro
gli “eretici” che contro gli
avversari?» Luciano Canfora

«Mi dispiace, che nessuno è


padrone di se stesso» Antonia
Cavallucci
1. Il Carnovale del 1752
«Serva Amica e Figlia obligatissima», si dichiara
Antonia Cavallucci in calce alla lettera che da Bologna, il
25 marzo 1751, scrive all’anziano medico riminese
Giovanni Bianchi. Lei è una giovane cantante ed attrice
romana, figlia d’arte: suo padre Bartolomeo, morto cinque
anni prima, lo ricordano come un noto Pulcinella. Calca il
palcoscenico da undici anni in ogni parte d’Italia: da Torino
alla Sicilia, dalla Calabria a Padova. E’ maritata da due.
Sono state nozze infelici.
Quella missiva ha per scopo la richiesta di «una difesa
sopra il fatto del mio matrimonio, […] un discorso tanto,
che lo possi imparare a memoria», e recitare davanti ad un
giudice ecclesiastico. Antonia Cavallucci vuole dimostrare
che le è stato estorto il consenso: «in pubblica chiesa mi
sono dichiarata con il confessore che non lo volevo, e che lo
mettevo in carico della sua coscienza, e di quella di [mia]
madre». Accusa il marito: «mi à ferita tre volte se non
baston due»; «in tre anni non mi aveva mai portato un tocco
di pane». Poi c’è un debito del coniuge, tal Celestini, di
ottanta o cento scudi. Lei ha dovuto mantener casa,
mamma e serva, sborsare soldi per vestirsi, calzarsi, e
rimediare l’occorrente alla vita d’ogni giorno.
Antonia viaggia accompagnata dalla madre
(amministratrice avara di scarse sostanze), con cui in
passato spesso ha mangiato «le mosche». L’aiutano a
sopravvivere bellezza e naturale bravura. Si esibisce nei
pubblici teatri, rallegra affollati salotti nobiliari. Ha una
grazia particolare che conquista gli uomini, giovani e
vecchi. La sua venustà sollecita anche le fantasie di placidi
poeti d’Arcadia come l’avvocato imolese Giambattista
Zappi, il quale paragona la lingua della fanciulla ad un
piccolo, vezzoso rubino che graziosamente corre, e sembra
l’ala di una farfalla «tra le foglie di una rosa». Lo lascia
senza parole il «grazioso movimento di quel seno / per cui
godo, e per cui peno».
Pure Giovanni Bianchi paga il suo debito in versi alla
«gentil donzella» che canta (precisa nella dedica)
«graziosissime Ariette nel Pubblico Teatro, e per varie
Accademie della Città di Rimino». Ne loda le «bellissime
nere pupille», «il volto morbido», la «voce armonica» e
«sempre soave». Confessa che un’«incognita forza d’amore»
gli «lega il core». Bianchi pubblica quest’Ode Anacreontica
per Antonia Cavallucci nel 1752, quando ha cinquantanove
anni, ed è personaggio famoso nel mondo scientifico non
soltanto italiano. I suoi numerosi scritti, firmati con lo
pseudonimo di Iano Planco, hanno una vasta (e talora
contrastata) circolazione. Ha insegnato Anatomia umana
all’Università di Siena dal 1741 al ’44, chiamato dal
Granduca di Toscana per meriti e non «maneggi», sottolinea
con orgoglio. Da buon erudito non trascura nessun campo
della cultura, dalla Botanica alla Zoologia, dall’Idraulica
all’Antiquaria.
Dal 1720 ha iniziato a gestire un Liceo privato che ha
tenuto aperto pure a Siena. Gli allievi vi studiano come
materia obbligatoria e comune Medicina, poi Logica,
Geometria e Lingua greca. «La nostra setta», chiama questa
scuola uno di loro. Un altro parla di «Bianchisti», con
l’orgoglio di appartenere ad una comunità eletta, sul
modello degli antichi circoli filosofici. Vi passano giovani
diventati poi celebri: Giovanni Vincenzo Ganganelli (papa
Clemente XIV, che soppresse la Compagnia di Gesù nel
1773), il cardinale e storico Giuseppe Garampi, il
naturalista Giovanni Antonio Battarra ed il filosofo
Giovanni Cristofano Amaduzzi, oppositore dei lojolisti. Da
fuori, accusano la «scuola di Rimino», di segnare le proprie
pagine con «velenoso inchiostro».
«Figlia obligatissima»: la chiusa della lettera di
Antonia Cavallucci è simmetrica all’invocazione iniziale,
con cui ella si rivolge a Bianchi chiamandolo «Mio Padre», e
rimanda pure a quella intermedia: «Caro papà». Antonia
scrive da Bologna. E’ senza alcun contratto, «per la qual
cosa mi rincresce assai, ma Iddio mi agiuterà, e così lo
spero: desidero di sapere, come ve la passate di salute
dandovi in aviso che anco io appoco appoco mi vado
ristabilendo, non altro che da tre, o quattro giorni, a questa
parte mi viene un fino dolor di stomaco, che mi corrisponde
fra un fianco, e quasi sempre verso l’ora del pranzo. Per me
già non manca mai qualche disastro, ma fido in Dio, che
essendo sua creatura ancor io, e sorta da agiutare».
Poi Antonia annota, utilmente per noi: «Credo, che
adesso non abiate più motivo di lagnarvici se non vi scrivo
mentre questa, è la terza che vi invio». Le lettera invece è la
prima di tutte le sue missive lasciateci da Bianchi. Resta
irrisolto il problema di quando, e soprattutto come, sia
avvenuta la loro conoscenza che sembra risalire ad un
precedente soggiorno riminese della giovane: lo
dimostrerebbe la confidenza da lei manifestata nei
confronti di molte persone, anche di sesso femminile, di cui
elenca i nomi in un post scriptum ove accenna pure di
sfuggita a recite dilettantesche con la loro partecipazione
al suo fianco, su tavole di palcoscenici forse improvvisati in
qualche salotto. Nell’autunno dello stesso 1751, l’attrice
romana si trasferisce (potremmo dunque pensare, ritorna)
a Rimini, dove offre avvenenza ed arte all’élite cittadina.
Racconta Bianchi: un marchese forestiero di nome
Giambattista aveva affidato la giovane alla protezione di un
cavaliere riminese che però mancò alla parola data.
Abbandonata dal cavaliere, e senza poter più ricorrere al
marchese morto nel frattempo, Antonia è confortata da
Bianchi: «presi a farle qualche assistenza, per la quale
molto è stata onorata dai principali Signori di questa Città,
non senza però una molta invidia de’ malevoli», confida
Planco al padre di Giambattista.
Durante gli spettacoli al teatro, per festeggiarla gli
spettatori salgono sul palcoscenico, con grande «sconcerto»
degli amministratori della cosa pubblica che, senza fare il
suo nome, emanano il 25 gennaio 1752 un apposito bando,
minacciando «pene pecuniarie, ed anche di Corpo afflittive
gravissime ad arbitrio dell’Eminentissimo e
Reverendissimo Signor Cardinale Legato». Per le feste di
Carnovale, scrive il cronista Ernesto Capobelli, «la Città
tutta era in grand’allegria» con «la moltitudine delle
mascare» ed «il corso di numerose carrozze, ed altri legni».
Bianchi, la sera dell’11 febbraio 1752, ultimo venerdì
di Carnovale, invita Antonia Cavallucci ad esibirsi nella
propria casa, come cantatrice con accompagnamento di
musica in un’«Accademia solenne» dei rinnovati Lincei.
L’istituzione creata da Federico Cesi nel 1603 e silente dal
1630, è stata rifondata a Rimini proprio da Planco nel
1745, poco dopo il suo ritorno in patria da Siena, o per
meglio dire dopo la sua fuga da quell’Università dove aveva
incontrato, e si era creato, troppi nemici per insegnare in
pace.
Terminato il concerto della sua ospite, Bianchi
pronuncia un discorso In lode dell’Arte comica che,
osservarono le Novelle letterarie fiorentine di Giovanni
Lami, «fu fatto più in grazia della Signora Antonia
Cavallucci, che per altra cosa, alla quale il Sig. Bianchi
dovette per un impegno far da Protettore nel passato
Carnovale, la quale era insieme Comica, e Cantatrice, e che
come Comica rappresentava il più la parte da serva».
La cronaca riassume, probabilmente per mano dello
stesso Planco, un passo del discorso, che lo dichiara
composto «in grazia» della «valorosa fanciulla», per
dimostrarle il «molto obbligo» che la città di Rimini aveva
verso di lei, perché, con la sua «gentilezza, e grazia», aveva
«quasi per un mezz’anno sulle Scene rallegrati
onestamente gli animi de’ nostri Concittadini», mostrandosi
del tutto degna del padre che in Roma aveva goduto di
eccellente fama.
Il resoconto del giornale fiorentino non narra che la
cantatrice, a causa di quello spettacolo di Carnovale, fu
costretta ad andarsene in tutta fretta da Rimini: lo
testimonia lei stessa in altra lettera a Bianchi, il 24
febbraio da Bologna. Qui, ha recapitato le raccomandazioni
che Planco aveva steso per lei, senza ottenerne nessun
frutto: «tutti cortesemente sono venuti a favorirmi in nome
di V. S. esibendosi ogni uno per favorirmi, ma fin ora
nessuno mi à dato niente. […] Sono a dirli che non sarò mai
per scordarmi mai per li tanti obblighi, che ne tengo, che
non solo mi avete onorata in Rimino, ma non tralasciate
tuttavia di beneficiarmi anco da lontano, benché non abiate
nessun obligo meco: ma fu tutto eccesso del suo bel core, e
di vostra gentilezza».
Antonia accusa Bianchi di averla allontanata da lui e
dalla città. Al rimprovero unisce l’implorazione: «Solo mi
rincresce d’esser partita di Rimino per voi, che spero di
vedervi ben presto in Bologna per mia consolazione, e per
dispetto de’ miei malevoli».
Più sola che mai, ha uno scatto d’ira e di sdegno:
«Potrò ben dire di aver incontrata in questa Città di Rimino
poca buona sorte, dove avendomi affaticata per
acquistarmi qualche poco di benevolenza e gratitudine. In
premio delle mie fatiche mi sono acquistata de’ malevoli, e
delle perseguzioni, e tra li Amici che mostravano esser
nostri sviscerati ed a me favorevoli non posso dire ricevuta
nessuna cosa. Come volessi dire una cena o un pranzo. Ben,
sia mercé la vostra bontà e carità non avea bisogno de’ loro
pranzi». (Già il 25 marzo dell’anno precedente, la
Cavallucci aveva scritto a Bianchi «di questi Signori che
erano tanto nostri nemici».)
La sua salute è «poco buona per le tante
ipocondriache idee uterine, che mi abbattono», soprattutto
al mattino, aggiunge, pregando Planco di salutare «i nostri
fedeli Amici per li quali credo che ne abiamo pochini».
Ancora una volta ricorda tra gli altri il «cavalier Paci», cioè
il poeta Nicolò Paci Ippoliti, sui venticinque anni, che ha
studiato prima con Planco e poi a Modena ed a Bologna.
Paci è in corrispondenza con la Cavallucci che gli manda a
dire, attraverso Planco, che ha «trovato un cavaliere degno
di esserli cogniato», sempre, par di capire, in quelle recite
domestiche. (La settimana dopo, a proposito del «cavalier
Paci», aggiunge sprezzante: «poco mi curo perché lui poco si
curava di me». La famiglia Paci possedeva nel pubblico
teatro uno dei 24 palchi di prim’ordine, ai quali se ne
aggiungevano altri 75 suddivisi tra secondo e quart’ordine,
tutti riservati ai nobili cittadini.)
«Intanto siate persuaso», conclude con Bianchi, «del
mio rispetto e della mia gratitudine verso di V. S. che non
sarò mai capace dimenticarmi della vostra carità, che mi
ha fatta, come vi prego a non scordarvi di me, mentre di già
sapete vi ò fatto sortire con impegno essendo stata
ubediente: e fate sapere, a quelli Signori del festino che già
avevano messo li editti sopra i Cantori, che era padrona di
andarci, ma, che non sono andata per non darvi dispiacere:
baroni fottuti razze porche li roda il fistolo a quelli che
mostravano esser miei dipendenti mi criticavano […] e
soprattutto vi prego a difendermi da’ malevoli». (Gli «editti
sopra i Cantori» a cui accenna Antonia Cavallucci, sono il
ricordato bando del 25 gennaio 1752 contro le invasioni
del palcoscenico durante le recite di quell’inverno.)
2. Reverendissime insolenze
La serata musicale organizzata da Bianchi, crea in
città un pubblico scandalo, in apparenza inatteso ma
certamente repentino. La Curia si agita. Ha fretta di punire
Iano Planco per l’ospitalità concessa alla cantatrice
romana. «Poca favilla gran fiamma seconda». E’ un pretesto
ridicolo, accusare Bianchi per l’adunanza lincea. In verità,
sullo stomaco agli ecclesiastici, Bianchi ci sta da un pezzo.
E’ un intellettuale giudicato pericoloso per la sua
dottrina scientifica che nega le armonie naturali e la
filosofia ufficiale della Chiesa, quella aristotelico-tomista.
Un rivale nell’educazione dei giovani, che ha incrinato il
monopolio pedagogico dei religiosi. Un dotto insofferente di
qualsiasi disciplina imposta dall’autorità. Un carattere
ironico ed irriverente fino all’insolenza più graffiante.
Merita una lezione che lo metta in riga. O lo faccia tacere,
almeno per qualche tempo.
Il vescovo di Rimini Alessandro Guiccioli prende
carta e penna, e denuncia Planco alli Superiori presso la
Sede di Pietro, dove certamente, per questioni d’ufficio, le
ragazze come Antonia Cavallucci non sono del tutto ignote.
E da Roma, il primo di marzo, un corrispondente di
Planco, Giuseppe Giovanardi Bufferli, gli comunica che in
quella città, contro di lui, si erano fatte «illustrissime e
reverendissime insolenze»: «Se il Vescovo di Rimini non si
fosse mai fatto ridere appresso dai Romani, ed avesse ad
ogni modo desiderato di farlo, ora non potrà lagnarsi, che
ciò non siagli riuscito, poiché delle sue stravaganze in
proposito della Signora Antonia Cavallucci si è qui parlato
quanto forse non sarassi parlato in Rimino».
Giovanardi Bufferli conferma la versione dei fatti
fornitaci dalla giovane («Solo mi rincresce d’esser partita di
Rimino per voi», «essendo stata ubediente»): «Il contegno,
poi, che si è tenuto da V. S. Ill.ma nel rimettere a Bologna
con tutta sollecitudine la medesima Signora Antonia è stato
veramente lodevole, e degno di lei, e posso dirle, che tutti li
suoi Amici, che qui sono molti l’hanno sentito con piacer
sommo».
Il 18 marzo Giovanardi Bufferli scrive a Bianchi: «Ho
tutto il piacere di sentire, che la Signora Cavallucci sia
destinata ad una recita in Spagna, dove gli auguro quella
sorte, che per altro non incontrarono altre Donne romane
colà capitate per servire a que Teatri troppo diversi dai
nostri; se V. S. Ill.ma avesse occasione di scrivergli, si degni
di salutarla in mio nome». La notizia della recita in Spagna
è certamente giunta a Giovanardi Bufferli dallo stesso
Bianchi, a cui Antonia il 4 marzo ha fatto sapere che si era
procurata la scrittura grazie alla Divina Provvidenza, al
proprio padrone di casa ed al «compagno» che aveva
cantato con lei a Venezia. In Spagna, sperava di «ritrovar
persona che mi faccia del bene, senza che me lo rinfacci e
da vicino, e da lontano». Il progetto naufraga per la morte
del viceré, come la Cavallucci precisa a Planco due
settimane dopo (18 marzo).
A Bologna, Antonia fa visita a Laura Bentivoglio che
era stata allieva di Bianchi a Rimini nel suo liceo privato.
Laura Bentivoglio è cognata del vescovo di Rimini
cardinale Giovanni Antonio Davìa, presso cui era stata
relegata dal marito, Francesco Davìa, uomo dalla vita
sregolata. Il suo ‘soggiorno’ in riva all’Adriatico durò dal
1722 al ’26, anno della rinunzia del vescovo alla sede. Con
lei fu il figlio Giuseppe che, nato nel 1710, fece il suo
tirocinio scolastico con Planco. Della permanenza a Rimini,
Laura Bentivoglio non conservò un buon ricordo: «Il mal
animo de Riminesi contro di me o per meglio dire contro al
loro prossimo in generale, che per verità è tale; non mi
giunge nuovo avendolo riconosciuto dal primo giorno, che
la mala sorte qui mi portò», confidò a Bianchi il 29
settembre 1722.
Anche se Laura Bentivoglio gode di privilegi sociali
inaccessibili alla povera Antonia Cavallucci, le due donne
sono accomunate da un analogo sentimento che sfocia nello
stesso giudizio negativo verso la città in cui sono vissute. Il
che dà un significato meno soggettivo (o capriccioso) allo
sfogo dell’attrice: «Potrò ben dire di aver incontrata in
questa Città di Rimino poca buona sorte…».
Il vescovo Davìa nel 1715 aveva creato a Rimini
un’«Accademia di scienze, e d’erudizione». Ne era stato
segretario Giovanni Bianchi che vi aveva recitato quattro
dissertazioni sulle Odi di Pindaro. Due anni dopo, nel
novembre ’17, Planco iniziò a frequentare a Bologna la
Facoltà di Medicina e Filosofia, laureandosi il 7 luglio 1719.
Il successivo 19 ottobre l’Ateneo felsineo lo invitò a tenere
un’orazione per l’inaugurazione dell’anno accademico. Il
cardinal Davìa era stato allievo di Marcello Malpighi,
maestro di Anatomia comparata e di Embriologia. Una
certa affinità di studi scientifici lo legava a Bianchi che
dopo la laurea ha stretto amicizia a Padova con
Giambattista Morgagni, fondatore dell’Anatomia
patologica, e con Antonio Vallisnieri, sostenitore del
metodo sperimentale di Galilei nell’arte medica.
Nella propria autobiografia latina apparsa a Firenze
nel 1742, Planco ricorda che a Rimini ha frequentato Laura
Bentivoglio, «nobilissimam, doctissimamque feminam». Lei,
da donna «sapientissima», è intervenuta in suo favore,
sostenendo che i permessi per le autopsie dovevano essere
richiesti soltanto al vescovo ed ai parenti del defunto, e non
pure alla Sede Apostolica. (Dopo che nel ’26 il vescovo
Davìa se ne va da Rimini, e che nell’anno successivo l’amico
cardinal Legato di Romagna Cornelio Bentivoglio lascia la
carica, per Bianchi comincia a farsi sentire la mancanza di
così autorevoli protettori. La Curia cittadina prende a
tormentarlo per la questione delle autopsie. Lo accusano di
violata religione per la sezione dei cadaveri, il vicario lo
censura e gli ingiunge di chiedere licenza direttamente a
Roma.)
A Laura, la devozione e l’amicizia nutrite verso
Bianchi, non fanno velo quando il 26 febbraio 1752 gli
scrive sulle visite che Antonia Cavallucci ha fatto presso la
sua abitazione, senza poterla mai incontrare: «Da tutt’altri,
che da un Grande Filosofo, quale è il Sig. Bianchi mi sarei
aspettata una Raccomandazione per una Comica, o sia
Cantatrice, [la] quale per due volte si portò da me […]
senza ritrovarmi» (aveva la madre malata, ed il marito
quasi moribondo). «Io poi che sono alienissima dei Teatri, e
che questi sono per me Provincie incognite […] l’ò
raccomandata al Generale Davìa mio cognato».
Il primo marzo è la Cavallucci a narrare a Planco gli
incontri avuti con Laura Davìa ed il generale, chiamandolo
erroneamente cugino della signora: «Mio Padre. Ho
ricevuta una cara vostra dalla quale sento, che desiderate
di sapere, che accoglienze ho ricevute dalli Signori che
sono stata per vostra bontà raccomandata; di già non
saprete, che in altra mia vi scrissi le finezze che ricevei da
cotesti Signori. Ma adesso li scrivo quelle, che ricevei dalla
Ecc.ma Signora Laura Bentivoglio Davìa: sappiate
adunque, che mi portai due volte dalla medesima dove era
andata a messa, vi fui il doppo pranzo, e mi dissero le sue
genti, che era restata fuori di casa a desinare, dove, che
essendo io lontana dalla sua, e mia abitazione, a dir la
verità mi recava un poco d’incomodo far quella strada
inutilmente; siché risolvei tornarci dopo 3 giorni, e mi fu
detto, che ella dormiva. Per fine consegnai la lettera ad uno
dei suoi servi, e vi tornai il dopo pranzo, dove mi riuscì di
vederla e di baciarle le mani, ma la stessa non volle
onorarmi del baciamano, ma cortesemente mi fece una
carezza così nel viso, dopo mandò dall’Ecc.mo Signor
General Davia suo cugino facendoli intendere, se voleva
vedere la giovane da voi a lei raccomandata: e così
facendomi sedere vicino a lei mi domandò varie cose. Come
se era romana, se aveva marito, e simili, lo dire tutto. Con
la mia da voi sperimentata modestia li rispondeva. Si esebì
gentilmente la Dama in tutto ciò che ella poteva, e mi
mandò per il suo bracciere dall’Em.mo suo cugino al quale
veramente non digenera dall’esser suo, e della Dama, ancor
lui si essebì in tutto, e per tutto. Abiamo discorso per
qualche mezz’ora, e poi me ne partij tutta rispetto, o
almeno mi lusingo che tale mi partissi».
La lettera verbalizza l’amaro resoconto del nulla che
la Cavallucci ha «ricevuto da cotesti Signori», nonostante le
credenziali di Bianchi. Al quale Antonia chiede soltanto di
essere creduta per la verità esposta nei suoi «mal scritti in
materia d’ortografia»: «non mi sarei mai creduta, che doppo
qualche tempo di servitù avuta con voi non abiate
conosciuta la mia sincerità, e schiettezza di cose». «Per lo
scriver poi correttamente», aggiunge, «io non ci faccio
troppo mente perché ho altro da fare, pensando che non ho
da salire in tribunale per difendere cause, ma bastami il
farmi intendere». (Se poi sua madre scrive «più appuntato»
di lei, «ciò aviene di aversi fatto scriver la lettera da quel
giovane» che la condusse in casa di Laura Davìa.)
Gli amici di Bianchi la menano per il naso: «Se non
incontrava in Cesena il Curtini nostro Pantalone», sarei
morta «di freddo, e di fame avendone da voi avuta la
raccomandazione e l’assistenza» per un «barone»
(certamente anch’egli «fottuto»), che non la trattò punto
bene durante il viaggio, quello dell’allontamento da Rimini.
A Bologna nessuno le fa da accompagnatore, tranne
un amico del padrone di casa, che l’ha condotta dalla
Signora Davìa. Senza dover «aspettare quella benedetta
opera in musica» che le era stata promessa per poter
lavorare, pensa di unirsi alla Compagnia dei Comici di
Francesco Masgonieri (e della moglie «che mirabilmente
esercita la professione di far lo echilibrio a meraviglia»),
con l’incarico di «cantare gli intermezzi». Alla fine della
lettera, il tono si raddolcisce con un gioco di parole sul
nome del medico riminese e del proprio marito: «il color
bianco per me, è stato più fortunato che quello celeste,
quale non mai me lo scorderò».
«Averò per me prima Idio e poi il mio Giovanni
Bianchi», gli scrive il 18 marzo, quando chiede scusa delle
proprie sciocchezze e «male grazie» espresse nel messaggio
precedente, e fa sapere di esser stata «dal Signor general
Davia [il] quale procura per me per la fiera di Sinigaglia»,
dove ogni anno a luglio si danno appuntamento i librai del
centro Italia.
Ed il 22: a Bologna c’è una dama, Isabella Boni, la
quale si vanta di essere protettrice delle «virtuose». Ad
Antonia basterebbe che un «qualche cavaliero» facesse finta
di raccomandarla alla dama, «che io all’ora averei campo di
poterci andare, e raccomandarmi per qualche recita».
A Ravenna, tra maggio e giugno, riesce ad ottenere
una scrittura come cantante d’intermezzi: «spero in Dio di
non far più la comica perché sono poco stimata. La musica,
è più decorata, e virtuosa». Per sette anni continui il suo
mestiere è stato quello di cantatrice: soltanto «per non fare
la puttana mi è convenuto fare la comica».
3. L’infame sgualdrina
Il giudizio di censura amabilmente inoltrato da Laura
Davìa a Giovanni Bianchi («Da tutt’altri, che da un Grande
Filosofo…») sull’accoglienza e la protezione dimostrate ad
Antonia Cavallucci, ritorna con parole più libere in alcuni
corrispondenti del medico riminese, dopo aver letto l’Arte
comica, stampata nel marzo dello stesso 1752 a Venezia.
Lodovico Coltellini, un avvocato cortonese che
Giovanni Lami gratifica con i termini di birro e di spia,
elogia lo scritto planchiano, ma ritiene inopportuno «lodare
una bagasciuola, una puttanella dichiarata, che tali sono
generalmente queste contrabbandiere, che millantano il
nome di virtuose» del bel canto, e che appartengono ad una
«razza di Donne» di cui si dovrebbe «dir male» nelle
composizioni, «e dir loro molto bene in Camera». Bianchi ha
profanato l’«illustre Accademia», «con quella sua Druda
Cantatrice, a cui poteva contentarsi di fare soltanto da
Maestro di Cappella»; e si è «fatto coglionare addirittura»
per una donna che meritava soltanto d’«esser mandata a
far dei Bambini».
Non meno severo il teatino padre Paolo Paciaudi: la
Cavallucci è un’«infame sgualdrina» e «cortigiana
svergognata».
Giovanni Lami l’aveva chiamata alla francese una
«figlia di gioia», ancor prima che la fanciulla apparisse
nell’adunanza dei Lincei, quando si era rallegrato per le
«galanti occupazioni» di Planco, impegnato (chissà da chi) a
far da protettore alla fanciulla. Bianchi non gradisce le
allusioni del collega fiorentino, da cui sarà deriso anche
successivamente (sei anni dopo!), al punto di sentirsi dire
che i reumatismi dei quali soffriva gli erano stati «attaccati»
dalla Cavallucci.
La pubblicazione dell’Arte comica costringe il padre
domenicano Daniele Concina («violento e torrentizio
teologo», secondo Franco Venturi), a fermare i torchi dai
quali stavano uscendo le pagine di un suo trattato, De
spectaculis theatralibus, per comporre un’isterica pagina
sul medico riminese: lo accusa di aver scritto da pazzo il
discorso di Carnovale ai Lincei. Padre Concina bolla come
leziosa puttanella («putidula meretricula») Antonia
Cavallucci, al pari di tutte le sue colleghe. Attrici, cantanti
e saltatrici, sostiene il domenicano, rovinano le famiglie
nobili, irretendo i loro giovani rampolli, i quali sperperano
per tali donnacce il patrimonio economico, la salute del
corpo e quella dell’anima.
Più delicato il bolognese «monsignor» Giuseppe Pozzi,
archiatro pontificio straordinario di papa Lambertini e
presidente dell’Accademia dell’Istituto delle Scienze della
sua città: «Ho letto l’orazion vostra, e ad altri Amici l’ho
comunicata. Tutti concludono che facendola eravate
innamorato, ma parimenti tutti conchiudono, che siete un
valent’uomo, e benche l’Amore nella vostra e nella mia età
non possa fare che un nido assai disagiato, pure merita
compatimento, quando ne escono pulcini sì ben covati […]».
Pozzi, essendo nato nel 1697, era di poco più giovane di
Bianchi. Aveva diritto al titolo di «monsignore», come
avverrà anche a Planco, per la carica di archiatro la quale
non obbligava al celibato (le biografie ne ricordano i due
matrimoni).
Bianchi smentisce fermamente la teoria
dell’innamoramento. Pozzi gli risponde: «Che voi foste
innamorato, o no della Cavallucci non avete a rendermene
raggione, e qual sia stato l’impegno vostro non cerco, non
intendo che vi confessiate ora de’ peccati vostri.
Unicamente, io alla buona vi dico che avete gitato il tempo,
che è meglio assai né impegnarsi né per maschij né per
femmine».
Non esiste alcuno scritto autobiografico sulle
sollecitazioni sentimentali o sulle urgenze sessuali di
Planco che visse sempre solitario, afflitto per tutta la vita
da continui problemi famigliari, compresa la follia di un
fratello. Gli storici della Medicina raccontano la sua
particolare passione nel collezionare imeni, tra cui
troviamo quello «bellissimo» di Catterina Vizzani. Costei era
stata costretta a fuggire di casa a Roma, e peregrinare per
l’Italia, a causa del suo amore per una tal Margherita.
Volendo obbedire all’istinto, e scansare altri guai, Catterina
assume panni maschili, e si fa chiamare Giovanni Bordoni.
Ha la sfortuna di sedurre e rapire la nipote di un pievano
che si vendica con l’archibugiata fatale di un sicario. In
compenso, la scoperta anatomica del suo essere vergine, le
crea presso alcuni religiosi un’aureola da santa «per aver
serbato con tanta costanza» la propria castità.
Catterina Vizzani è protagonista di un breve scritto
di Planco del 1744. Gli appetiti d’Amore, egli osserva,
spesso sono «strani veramente e incredibili oltremodo», al
punto che non conoscono ostacoli o condizionamenti pur di
«giugnere in fine al possedimento della disiata cosa».
Commentando che ciò non deve destar meraviglia, Bianchi
dimostra di considerare lecito ogni comportamento erotico,
compreso quello della giovane romana, seguace di Saffo e
delle altre «Donzelle di Lesbo», in contrasto con i dettami
morali della Religione.
4. Li spasemi e rancori
La campagna di diffamazione promossa dal vescovo
di Rimini contro Bianchi, coinvolge pure la Cavallucci,
perseguitata prima a Bologna e poi a Ravenna, dove si
trasferisce all’inizio di maggio (il viaggio dura quattro
giorni «perché le strade erano cattive»). Antonia precipita
nella miseria più umiliante: «mi raccomando a lei per pietà
fate da quello che siete e da quello che siete stato, aiutatemi
per l’amor di Dio: lo domando per carità e baciandole di
nuovo le mani unita alla Signora Madre» (22 marzo); «e
pure mi prometeste in Rimino, che qualche volta mi
avereste soccorso di qualche carità, e questo lo potreste
ancor fare», scrive il 12 aprile bussando a soldi: «in virtù
della mia fedeltà, e dell’amore che mi avete portato ve li
domando, fate conto di dar tante messe alle anime del
Purgatorio, ed io pregharò Idio per la di lei salute».
Gli amici bolognesi di Bianchi sembrano divertirsi
con questa ragazza, inesperta dei più riposti aspetti del
galateo sociale, e paiono prenderla in giro con le loro
formalità aristocratiche: «sabato dall’8 del corrente», spiega
sempre il 12 aprile, «ebbi un biglietto dal Signor Pozzi nel
quale mi dice, che lei li scrive di non so che lettera per il
Sig. Mario Spada, ed io, che non intendevo il carattere suo
li risposi, che si fosse degniato venire in mia casa, che
celaverei detto perché se volevo scrivere il mio sentimento
nel biglietto la cosa sarebbe stata lunga. Dove mandatogli la
risposta del suo biglietto non ho visto né lui né altri: lui mi
scrive nelle sue, che andassi dallo stesso già che lui non
vuol venir da me, ma io li rispondo, che lui ha una sua
donna in casa per la qual cosa io non mi attento d’andarci,
tanto più che questo signore vi lasciò detto, che io volevo
far l’amore con lui, se pure questo sia vero: perché avendo
io domandato, a persona, che lo conosceva perché lui non
sia venuto più, mi rispose, che non voleva più venire
perché io voleva fare l’innamorata seco, dove dalla sua
mancanza mi figuro che sia vero quello che mi fu detto:
lascio a lei considerare se questa cosa ha del ragionevole».
L’ansia di liberarsi da accuse e sospetti affastella le
frasi, produce un testo sconnesso. Antonia confida tutta la
sua elementare inadeguatezza ad escogitare strumenti
diversi da quelli di una naturale capacità di sedurre. I
giochi raffinati, che abili e spregiudicati uomini di mondo le
creano intorno, sono una specie di tela di ragno da cui è
inevitabilmente catturata la piccola mosca, accecata dai
bagliori salottieri. Tutto il suo discorso si riduce a
difendersi da quell’imputazione di voler «far l’amore», che
non sembra nemmeno indignarla, tanto è pratica comune
vedere lei, sola e povera, semplicemente come infimo
strumento per appagare un desiderio. Le donne sue pari
hanno l’ironica e buona sorte di ottenere addirittura
pagamento per quello che invece concedono gratis ai loro
amanti le più fortunate, accasatesi con matrimoni
combinati, dopo aver anzi portato loro un premio al marito,
come richiedeva a quei tempi l’usanza della dote. Però
l’infamia pubblica si abbatte soltanto su queste disgraziate.
Alle altre peccatrici, nessuna condanna sociale, soltanto
sorrisi di complici silenzi da parte di una folta schiera di
Giovin Signori che, come nel carme pariniano, indossano la
stupidità con la stessa grazia con cui si muovono nelle sale
dove «si ministran bevande ozio e novelle».
Da Ravenna qualcuno informa Bianchi che la casa
della ragazza è bazzicata da troppi giovani. «Non mi
mortifichi più con questi abatini e zerbinotti», sbotta
Antonia, dopo aver smentito i presunti incontri amorosi:
sono tutte storie inventate da un «contrario» di Planco che
lui ben conosce. I pochi amici che la frequentano, sono
gente perbene e si comportano «con tutta proprietà e
cortesia». E’ una lettera dura (gliene chiederà scusa),
questa del 31 maggio: «io poi non pretendo che lei
proseguisca altro impegno per me, e sappiate che di già l’ho
capito da un pezzo, che lei ha finito questo suo caritatevole
impegno né più lo voglio né lo pretenderò già mai in vita
mia, ma li fo sapere che questo suo impegno di già tutti lo
sanno, e sanno come lo so ancor io che ora è finito».
Il 4 marzo Antonia si era lasciata andare ad una
confessione amara, tra rimpianti e delusione: «Se le vostre
finezze le vendete a prezzo di rimproveri e di lagrime, vi
dico che potete fare a meno di farmele: io per me non so
capire la vostra intenzione e il vostro umore, o vero, che io
sono volubile, ma voi scusatemi, non mi conosciete né alla
digiuna, né alla satolla; mi meraviglio di voi, che trattate
così con me dopo avermi mostrato tanto parziale e
favorevole, starei per dire che mostrate tutte finzioni.
Come? Scriverei delle lepidezze quale so che vi piacciono e
che questo era per lo più il nostro trattenimento. Adesso
volete che vi scriva con rispetto, che scriva appartato, e
che sono ingrata se vi domando altro, o se pretendo altro».
Infine la stoccata più dolorosa, sia per lei come
vittima di riflesso, sia per Planco quale causa diretta:
«godeva la mia quiete, e doppo che vi conobbi non ebbi
un’ora di pace, che è vero, che mi avete regalata… ma so io
li spasemi, e rancori che provava solo nel vedervi:
perdonate: io questo non voleva scriverlo, ma voi mi
mortificate senza motivo. Egli è di bene che ancor io vi dica
la verità».
«Mostrate tutte finzioni», abbiamo letto. Detta da
un’attrice comica, è una bella battuta, a renderci
consapevoli che nella commedia della vita manca sempre
un copione, seguendo il quale non ci si comporterebbe nel
modo che Antonia rimprovera a Bianchi. La giovane ha del
temperamento. Il dottore lo sa, ma ora non può perdersi in
ciance. D’improvviso è tornato al suo ruolo di severo
pedagogo, dimentica di esser stato un cavalier servente
forse ingenuamente adorabile, e financo troppo
arrendevole. Deve seguire le vicende dell’Arte comica. Non
c’è tempo per le bizzarrie di una donna. Di una ragazza. Di
un’attricetta, infine. (Che male c’è nell’ipotizzare che anche
Planco partecipasse dei pregiudizi più comuni dei
contemporanei?)
Il suo discorso di Carnovale gira in fretta l’Italia, fino
a che approda a Roma, alla Sacra Congregazione dell’Indice
dei libri proibiti. Planco scopre così esser corrispondente al
vero (o, per meglio dire, a ciò che tale crediamo essere),
una frase della lettera inviatagli dalla Cavallucci il 4
marzo. Prima di scrivergli che anche lui, benché potesse
esserle nonno, aveva più bisogno di lei di correzioni, aveva
commentato: «Mi dispiace, che nessuno è padrone di se
stesso». Qualcun altro ci giudica sempre. A torto o a
ragione. Sopra il capo innocente di Giovanni Bianchi
s’addensano minacciose le ombre di un processo strano, ed
insolito nella sua procedura. Padre Concina non ha tuonato
invano contro di lui.
5. La Chiesa ed i Commedianti
Gli ecclesiastici rubano il mestiere a Planco.
Eseguono una specie di cartacea dissezione anatomica ai
suoi danni, seguendo un percorso inquisitorio intessuto di
rancori e spirito di vendetta. Attraverso un libello,
esaminano un uomo vivo, con il sadismo infantile di chi
tortura il corpo indifeso di lucertola, nella speranza di
annientarla. Quell’uomo è soprattutto le sue idee. Basta
colpire queste, per distruggere l’altro. Non è una procedura
inedita: Bruno, Campanella, Galileo, fatte le debite
proporzioni, ricordano qualcosa, ed insegnano pure che, se
un caso è un’eccezione, due formano già una consuetudine.
Per fortuna, questa volta, trattandosi soltanto dell’Arte
comica, sembra che il titolo abbia avvolto di sé l’intera
vicenda, allontanando esiti drammatici.
Nella sua dissertazione, Planco s’avventura in un
terreno pericoloso. Non gli interessa tracciare soltanto il
profilo storico dell’arte teatrale, sottolineandone l’utilità.
Vuole con elegante sottigliezza (più giuridica che
letteraria), rimettere in discussione il trattamento
riservato dalla Chiesa agli «istrioni», che in Francia erano
ancora privati dalle leggi canoniche «fino de’ Sagramenti, e
dell’Ecclesiastica Sepoltura». Bianchi precisa: le leggi civili
non si riferiscono agli attori «in genere», ma a quelli che si
esibiscono in «alcuni crudeli, e osceni spettacoli, e
specialmente de’ Gladiatori, e de’ Mimi, o Pantomimi» (i
quali ricorrono ad «oscenità» nei loro «sozzi atteggiamenti»),
per cui meritatamente sono puniti essi, e «scomunicati»
quanti vanno a vederli. Tutt’altra cosa, aggiunge, appaiono
«quegl’Istrioni, o Commedianti» i quali rappresentano
«Tragedie, o Commedie oneste più atte a correggere
piacevolmente il vizio, che ad eccitare spirito di crudeltà, o
di libidine nelle persone». Ma la Chiesa se la prende anche
con loro.
Bianchi cita san Tommaso, il quale ritiene che
«l’Officio dell’Arte degli istrioni […] è ordinato per sollevar
l’animo degli uomini, e che coloro che l’esercitano dentro
de’ debiti modi, non sono mai in istato alcuno di peccato; e
che a loro si conviene una giusta mercede per le loro
fatiche». E si domanda: se la Chiesa permette la lettura
delle commedie di Plauto e Terenzio, allora non si dovrebbe
permettere anche la loro rappresentazione? Perché
debbono essere considerati «infami» quei comici che «le
rappresentano venalmente», mentre «diventano onesti quei
che le rappresentano gratis»? Da queste idee nasce il vero
scandalo che avvolge la radunanza accademica di
Carnovale, non dall’esibizione di Antonia Cavallucci. Padre
Concina le esamina minuziosamente, e con durezza le
censura nel suo De spectaculis.
Planco considererà padre Concina il vero ed unico
responsabile della sua condanna: «Il mio Discorso dell’Arte
comica fu proibito, seppure è tale, per gli schiamazzi de
Giansenisti d’Italia, giacche l’Esaminatore fece alla
Congregazione dell’Indice una relazione favorevole di detto
Discorso, ma Concina stampò contro d’esso Discorso». E’
una lettera inedita di Bianchi, scritta dieci anni dopo
(1762) ad un suo ex allievo, Pietro Godenti allora a
Ginevra. Le cose erano andate diversamente. La colpa non
fu dei Giansenisti, né ad essi apparteneva Concina, anche
se esisteva un’opinione diffusa in tal senso. (Circa il
problema del Giansenismo, mentre nell’Arte comica si
schiera dalla parte dei Gesuiti, nella sua scuola privata
Bianchi fu avverso a questi ultimi, dichiarandosi «nimico
sempre del Probabilismo», anche se non approfondisce mai
il tema di questa nuova corrente teologica.)
Sostenendo retoricamente la nobiltà dell’arte comica,
Bianchi finisce per proclamare in modo non troppo
sottinteso il bisogno di libertà per la cultura in genere, e
non soltanto per commedianti od attricette in particolare.
E’ quella stessa libertà che fa paura a padre Concina, il
quale immagina che il discorso planchiano possa essere
golosamente divorato da giovanetti e damigelle, portandoli
così sulla strada della perdizione.
A Planco non interessa proporre una riforma del
teatro comico come invece, molto prima di lui, aveva fatto
Muratori, preoccupato per ragioni di ordine morale del
fatto che la scena fosse finita «in mano a gente ignorante» la
quale poneva «tutta la sua cura in far ridere», ricorrendo ad
un genere letterario consistente «non poca parte […] in atti
buffoneschi e in sconci intrecci, anzi viluppi di azioni
ridicole, in cui non troviamo un briciolo di quel verisimile
che è tanto necessario alla favola». Bianchi rovescia
l’impostazione muratoriana, di cui ignora le finalità: non
vuole un teatro nuovo, ma semplicemente la licenza di
rappresentare quello antico, del quale non mette in
discussione nulla, consapevole della grandezza letteraria
dei suoi autori preferiti, come Plauto e Terenzio.
6. Il decreto
I fulmini dell’Indice si abbattono su Bianchi il 4 luglio
1752. Possiamo ricostruire tutti i particolari della vicenda,
attraverso le lettere che Giuseppe Garampi e Planco si
scambiano, ed altre epistole di corrispondenti romani di
Bianchi.
L’Arte comica è stampata in marzo, come abbiamo
già visto, ed immediatamente a Roma se ne parla male.
Garampi confida a Planco di prevedere che l’opera «potrà
incontrare presso varie persone qualche eccezione». I punti
controversi sono due: «quello ch’ella dice della onoratezza
dell’arte comica presso i Romani; giacché abbiamo gli
antichi Giuristi, che l’annoverano fra’ le infami […]». Ed «il
vedere, ch’ella contrapponga all’osservanza che praticano i
Francesi delle Canoniche Leggi, quanto si fà dalla Chiesa
protestante d’Inghilterra». Bianchi nel Discorso [pp. 18-19]
sostiene che «l’invitta e gloriosa Nazion Britannica non ha
avuto difficoltà di fare seppellire solennemente in Londra
nella cattedrale di Westimster, Chiesa, dove si coronano, e
dove si sepelliscono i loro Re, la valorosa e ricchissima non
men che bella loro Attrice Madamigella d’Oldfield,
rendendole in morte per poco i medesimi onori, che
poc’anzi renduti aveano all’immortale loro Filosofo
Newton». Per Padre Concina, la Madamigella d’Oldfield era
una «meretricula» al pari della Cavallucci.
Il 20 maggio l’abate Costantino Ruggeri avvisa
Planco: «mi dispiace che qui in Roma i vostri nemici ne
hanno fatto un chiasso straordinario per quel paragone che
voi fate fra il rigorismo, come voi dite, della Chiesa di
Francia, colla generosità di quella d’Inghilterra nel dar
sepoltura magnifica a quella loro famosa Attrice.
Veramente la cosa è un poco avanzata, né dovevate voi far
questo paragone fra la Chiesa Anglicana Eretica e la
Gallicana Cattolica. […] Insomma hanno fatto un baccano
grandissimo per tutta Roma in tutti i ceti e ranghi di
persone; e vi è stato chi ha detto di denunciarvi al S.
Uffizio. Queste cose mi sono dispiaciute in etterno, ed ho
fatto, e fò quanto posso per difendervi con dire che questa
[è] una cosa fatta in Carnovale, onde non merita tanta
dote. Voi sapete che jo vi sono buon e leale amico, e che ho
stima infinita de’ fatti vostri; e perciò mi sono indotto a
scrivervi tutto questo per vostra Regola». Ruggeri
suggerisce, nel caso di ristampa dell’operetta, di «togliere
quel paragone de’ Franzesi, e degl’Inglesi, che non fà buon
suono».
L’8 luglio Garampi comunica: «Con mio sommo
dispiacere seppi ieri l’altro, che nell’ultima Congregazione
dell’Indice, essendo stata riferita la di lei Orazione in lode
dell’arte comica, ne fosse da’ Cardinali e Consultori
variamente parlato, e che finalmente s’indussero a
proibirla. Questa proibizione, benché nulla offenda
l’erudizione e la sostanza dell’argomento, ma piuttosto paja
cagionata da una cautela di Ecclesiastica economia,
nulladimeno, se ne avessi avuto qualche sentore, si poteva
facilmente riparare con esibirsi di meglio dichiarare que’
sentimenti, che fossero stati censurati, ò di farne una
nuova edizione più corretta. Ma la cosa è stata improvvisa,
né io l’ho penetrata, se non dopo fatta già la
Congregazione».
La cosa è stata «improvvisa». Questa notizia
fondamentale, il bravo discepolo Garampi la inserisce per
ultima, nel crescendo delle argomentazioni, ma anche con
il distacco che preannuncia in lui lo spirito del grande
diplomatico che sarà, in tutta Europa ed in particolare
presso la corte di Giuseppe II d’Austria, il nemico di Roma.
Bianchi risponde a Garampi il 13 luglio di saper già
tutto, perché lo ha informato l’abate Garatoni con lettera
del 5, dove leggiamo: «Nell’atto, che stò per chiudere questa
mia mi avvisa l’Abate Ruggieri, che ieri mattina dalla
Congregazione dell’Indice fu proibito il vostro discorso
sopra l’arte comica. Sentiremo in appresso il perché».
Planco spiega a Garampi quel 13 luglio: «Veramente
ancor io sarei stato prontissimo di far una Dichiarazione, o
di far una nuova Edizione dell’Operetta togliendo via que’
sentimenti, che non piacessero, e di quest’ultimo me n’ero
espresso anche col signor Abate Ruggieri; ma ad un
Giudizio fatto così alla sordina, cioè indicta caussa, o
inaudita parte come dicono; non si può por riparo. Se Ella
credesse bene mandar un Memoriale a Nostro Signore, o
alla medesima S. Congregazione dell’Indice a mio nome,
dicendo che io son pronto a far una Dichiarazione de’
sentimenti censurati, o di fare una nuova edizione costì
corretta, per impedire che non si pubblichi ora codesto
Decreto di Proibizione, o almeno che si moderi con il donec
corrigatur mi farebbe un molto favore».
7. Con sommo rigore
Il 15 luglio Garatoni illustra a Bianchi «il perché sia
stato proibito il vostro discorso sopra l’arte comica»:
«principalmente, per essere stato scritto in italiana favella,
dicendosi che in tal guisa s’insinuano negli animi di taluni
più facilmente alcune massime le quali pareano un po’
troppo avvanzate». L’ abate lucchese Monsecrati
dell’Ordine degli Scopettini (canonici del SS. Salvatore) fu
costretto controvoglia ad accusare Planco, ma «nella
Congregazione dell’Indice trattò da Galantuomo, perché
mostrò, che» l’Arte comica «non meritava tanta severità». Il
suo atteggiamento «non giovò per il riflesso dettovi di
sopra», cioè per esser stato il discorso «scritto in italiana
favella».
Garampi il 25 luglio precisa a Bianchi: il Padre
Reverendissimo Tommaso Agostino Ricchini, segretario
dell’Indice, «si protesta di essere stato necessitato a fare
riferire in Congregazione la di lei Orazione, per replicate
istanze di Prelati e persone, che dic’Egli di distinzione». E
«crede di non poterle suggerire nelle presenti circostanze
migliore partito, che quello di scrivere una lettera di
sommissione a Nostro Signore, assoggettandosi e
riconoscendo la giustizia della censura, e supplicandolo a
non volere almeno, che detta proibizione sia pubblicata nel
Decreto, o che non vi comparisca il di lei nome; e ciò a fine
di non soggiacere a qualche impertinenza de’ suoi
malevoli». Si è avuta una gran fretta che rivela l’attenzione
particolare rivolta al caso riminese: «Veramente questa
proibizione non dovea farsi nella passata Congregazione, e
giacché per l’ordinario si fa riferire il libro censurato in due
o tre Congregazioni. Ma sento, che alla relazione allora
fatta insorgessero varj Cardinali, acciò il libro fosse
proibito, avendone fatta gran specie quel contrapposto
della Chiesa Gallicana e Inglese, e quella lunga apostrofe
alla Comediante. Ma de hoc satis, giacché io di una simil
cosa carnevalesca, non pare che se ne dovesse fare tanto
caso».
Il 3 agosto Bianchi invia a Garampi una risposta
improntata a scetticismo: circa il suggerimento del padre
Ricchini di «scrivere una lettera di sommissione» al papa,
scrive, «io non so, se con ciò si ottenesse niente, perché da
quello che ella mi scrive vedo che ci è stato molto impegno
contro del mio Discorso, pel quale senza sentir ragioni si
volle ad ogni costo proscritto. Chi ha quest’impegno per
sostentarlo inquieterebbe Nostro Signore e me, onde è
meglio a dargliela vinta per non dar occasione d’inquietarsi
maggiormente. Se poi qualche mio malevolo scriverà una
qualche impertinenza, la trascurerò, come tant’altre».
Planco sottolinea che con lui «s’è proceduto con un sommo
rigore per una cosa finalmente che è stata stampata in una
Città Cattolica con tutte le Licenze de’ Superiori, e che
viene generalmente lodata da tutti i Letterati», mentre si
lasciano «poi correre liberamente tante impertinenze
stampate alla macchia» contro la sua persona, «e il più con
nomi finti».
«Io veramente», prosegue, «come scrissi al Signor
Abate Ruggieri avea intenzione di far ristampare quel mio
discorso togliendoli via l’esempio di quella Oldfield, e
mettendoci in suo luogo quello d’Isabella Andreini detta la
Comica gelosa, che fu onorata in Francia, come grande
Dama, e che fu sepolta in Lione solennemente con un
epitaffio in bronzo; benché io in quel luogo non faccia
alcuna comparazione tra Chiesa, e Chiesa, ma solamente
tra Nazione, e Nazione, e poco dopo io soggiunga, ma la
nostra Santa Chiesa Cattolica etc., con ché vengo a dire che
non sono cattolici, ma eretici gl’Inglesi. Benché non tutte le
cose che fanno, e che dicono gli Eretici siano Eresie, come si
vede in questa cosa, dove convengono gl’Inglesi con noi,
perché anche in Roma si seppelliscono in Chiesa i Comici.
Così io volea tor via a quel mio Discorso quell’Apostrofe a
quella Comica per miei privati riguardi, ma se io ce l’avessi
lasciata non vedo, come quell’Apostrofe avesse meritata
proibizione alcuna».
Planco va diretto al cuore del problema: «Ché io
riconosco maggiormente lo spirito d’impegno, che costì s’ha
avuto codesta proibizione, il quale spirito d’impegno
peravventura sarà stato fomentato di qua da chi ora non
può più per sé stesso fomentarlo, essendo passato tra i più,
forse mandatoci prima del tempo da chi egli si serviva per
consiglieri nelle sue ingiustizie, e violenze. Io veramente
ancora dopo l’ultimo dì di Carnovale non voleva parlar più
di queste cose, ma sono stato costretto a parlarne, giacché
la persecuzione dura ancora, né la morte l’ha potuta far
cessare». Quel personaggio «passato tra i più» che lo ha
trascinato davanti al Sant’Ufficio, è il vescovo di Rimini
Alessandro Guiccioli, scomparso appunto da poco, l’8
maggio. Non è un’ipotesi, ma una certezza, quella di
Bianchi, confermata dai vari accenni che abbiamo già letto
in Garampi circa le «replicate istanze di Prelati e persone,
[…] di distinzione»; ed in Giovanardi Bufferli, a proposito
delle «illustrissime, e Reverendissime insolenze» e del ruolo
avuto dallo stesso vescovo Guiccioli nel diffonderle in Roma
contro Bianchi, denunciando la «sua stravaganza in
proposito della Signora Antonia Cavallucci».
Il 12 agosto c’è un’importante puntualizzazione di
Garampi: la condanna del libro è venuta «unicamente per
certa ammirazione, che ha data alle pie orecchie, la
semplice lettura di alcune poche espressioni o periodi.
Almeno così mi pare di avere ricavato da varj soggetti della
Congregazione».
8. La supplica
Il 17 agosto Planco spedisce a Garampi la supplica da
«presentare, o far presentare» al papa «da persona a lui
grata per vedere, se si può ottenere la grazia»,
aggiungendo: «Io mi credeva veramente che ci fosse stato
dell’impegno per far quella Proibizione; giacché il Signor
Avvocato Garatoni m’avea scritto che benché un Padre
Abate Scoppettino [è il ricordato abate Monsecrati], cui era
stato commesso d’esaminare l’Operetta ne avesse data
buona Relazione, tanto l’aveano voluta proibire; così ella
m’avea scritto che era stata proibita, come
improvvisamente, e senza riferirla più volte, come è solito
a farsi quando si tratta di fare una proibizione. Se
solamente per la Lettura d’alcune poche espressioni, o
periodi l’hanno proibita, se io fossi stato avvisato con un
Carticino, o due che si fossero fatti si sarebbe potuto
rimediare a tutto».
Il 31 agosto Planco, come risulta dal registro della
sua corrispondenza, scrive direttamente a papa Benedetto
XIV, con il quale vantava un’antica amicizia. E’ forse
l’epistola «di sommissione» suggeritagli dal segretario
dell’Indice.
Il 10 settembre Bianchi conferma a Garampi che la
sua lettera è stata presentata al papa «il quale mi ha fatto
rispondere, che egli vedrà di fare quanto io disidero almeno
per la seconda parte». Questa «seconda parte» riguarda,
come vedremo tra poco, la supplica a render nota la
condanna all’Indice senza il suo nome. (Forse nella prima
parte Planco espose quanto già dichiarato il 13 luglio a
Garampi, cioè la sua disponibilità a ritrattare i «sentimenti
censurati», oppure a stampare «una nuova edizione»
corretta dell’Arte comica, allo scopo di non far pubblicare il
«Decreto di Proibizione».) Il papa, aggiunge Bianchi, ha poi
promesso «che con quest’altro spaccio avrà la degnazione
di rispondermi».
Planco ha ricevuto notizie tramite monsignor
Marcantonio Laurenti, che il 6 settembre gli ha
comunicato: dal pontefice «ho avuta commissione di
scriverLe, che sà essere vero il decreto già emanato dalla
Congregazione dell’Indice, e però non può impedire, che la
cosa, che è già di fatto, non lo sia, ma che dirà, che quando
questo Decreto dovrà propallarsi, si taccia in esso il nome
di lei, come autore e lo che, dice il Papa, è almeno
desiderato, e chiesto da esso Lei: mi ha poi soggiunto, che
giovedì prossimo parlarà col Commissario e Segretario del
S. Offizio, e che indi responderà alla suddetta Sua; e per me
prendo la lusinga che Nostro Signore farà il fattibile per
indennizzare la di Lei estimazione, e decoro». Il pontefice
non mantiene la promessa, e mai scriverà a Bianchi.
Il 16 settembre Laurenti osserva: «Circa l’affare non
ne hò più sentito parlare, e perché sò che il Papa quando hà
detto di fare una cosa, non si scorda di farla, perciò mi
lusingo, che già abbia parlato, e forse forse, che abbiale
scritto in risposta alla sua da me già presentatale: ma di
questi passi a me non è lecito per ora di interrogarlo se
pure li ha fatti, o no: bisogna trovare le opportunità di
parlarne, le quali talvolta mi riescono facili, e pronte, e
tall’altra nò. In ogni modo Le predìco che non andarà male».
Il 21 ottobre Laurenti aggiunge: «Questa mattina ho
potuto parlare a Monsignor Guglielmi Assessore del S.
Offizio; e lo ho interrogato se sà cosa divenisse nella
Congregazione di certa dissertazione accademica detta e
stampata dal dott. Bianchi di Forlì [sic!] in lode de Comici,
e Ballarini; egli subito mi ha risposto che ben si ricorda, che
fu questa proscritta, e che passò al Segretario dell’Indice, il
quale poi la fà stampare nel libro de libri proibiti, cioè
aggiungere ai già proibiti: ma mi assicurò che tali piccole
cose non si proibiscono pubblicamente e con strepito con
cedole, che si attaccano per la Città, e come dicesi ad
Valuas: e mi soggiunse che ne parlerebbe col Segretario
dell’Indice Padre Recchini [recte, Ricchini], che
presentemente è fuori di Roma, accioche accennasse
l’operetta, ma non l’autore: ed essendo questo Padre mio
favorevole, lo pregarò similmente anch’io, subito che
tornerà in Città: tutto ciò potrebbe avere già fatto il Papa
medesimo e allora me ne chiarirò».
Il 25 novembre Laurenti informa Bianchi sull’esito
della vicenda: «Nostro Signore memore della lettera
scrittagli tempo fa da V. S. Ill.ma avant’ieri mi disse, che
aveva avuta opportunità di vedere, e parlare al Padre
Segretario dell’Indice, e inteso da questo che di fatto era
emanato il decreto proibitivo della consaputa sua operetta,
e che il già registrato non potevasi avere per non
registrato, e che in seguito bisognava o presto o tardi
stampare in un foglio, o in un libro ed allora il Papa gli
ordinò che se pure era proscritta la dissertazione, non se le
aggiungesse il nome dell’autore, cioè di Lei, e così
certamente avverrà: e di questo, mi soggiunse il Papa, ne
darete contezza al Signor Bianchi, che servirà per mia
risposta alla di lui lettera con cui appunto mi pregava che
almeno non fosse enunciato pubblicamente il suo nome:
nell’eseguire questo sovrano comando, mi dò l’onore di
riverirla […]».
Il 29 novembre Garampi conferma che il papa ha
concesso a Bianchi di «tacere» il di lui «nome nella
pubblicazione, che si farà in breve del consaputo decreto
della Congregazione dell’Indice». Infatti, il decreto e il
successivo Index del 1758 recano soltanto il titolo dello
scritto planchiano, Discorso (in lode dell’Arte Comica), e
non pure le generalità dell’autore. Ma Bianchi, come lui
stesso spiega a Garampi il 3 dicembre, vorrebbe pure che la
sua «Operetta» non «fosse esposta in quegl’Indici, che
s’affiggono». Garampi il 16 dicembre gli risponde: «Il Padre
Secretario dell’Indice […] mi dice di non aver arbitrio
alcuno per poterla servire in quello ch’Ella gli richiede,
senza un nuovo beneplacito del Papa. Non sarebbe male
ch’Ella scrivesse a Nostro Signore una lettera di
ringraziamento per l’ordine già dato, affinché si taccia il di
lei nome, e quando ella pensasse di chiedergli nello stesso
tempo questa nuova grazia, ella faccia quel che stimerà più
opportuno».
In questa epistola di Garampi leggiamo anche: «Si è
veduto un manifesto, e credo anche i primi due tomi di una
nuova Enciclopedia, lavorata da vari grand’Uomini di
Francia, e si suppone non solo la migliore di questa classe
di libri zibaldonarj, ma un capo d’opera relativamente a
ogni scienza e arte». Bianchi è già informato, come
ricaviamo dalla sua risposta del 21 dicembre: «Quella tale
Enciclopedia, della quale mi parla sono de’ mesi, e forse più
d’un anno, che in Francia, cioè in Parigi, cominciò ad
uscire, ma incontrò degli intoppi, onde furono soppressi, o
almeno sospesi i due primi Tomi, giacché v’erano molte
Proposizioni ardite. Adesso forse l’avranno corretta con
metterci de’ Carticini, o con mutarci i fogli, dove sono
quelle Proposizioni ardite, e facendo che i Tomi, che sono
per uscire, escano tutti gastigati, e corretti».
Lo stesso 21 dicembre Bianchi confida a Garampi che
non gli «dispiace il pensiero» di scrivere «a dirittura» al papa
«ringraziandolo, e pregandolo dell’altro favore», ma di non
avere, quel giorno, tempo di comporre la lettera. Di questa
lettera non si parla più tra Bianchi e Garampi: è facile
immaginare che Planco non l’abbia voluta scrivere. Forse
per superbia ed arroganza, secondo l’immagine
convenzionale che di lui è stata accreditata. Probabilmente
per non subire nuove umiliazioni da un ambiente che gli si
era rivelato ostile aldilà di ogni limite ragionevole, e nel
quale aveva potuto sperimentare gli effetti concreti delle
invidie altrui e delle censure verso le proprie idee.
Tra le carte planchiane esiste un inedito sonetto che
ha per protagonista papa Benedetto XIV. Non sappiamo
nulla sul suo autore, né se esso abbia relazione con la sua
condanna all’Indice, ma soltanto che la grafia è
sicuramente di Bianchi:

Ma cazzo! Santo Padre ogni ordinario


ci vengono nuovi guai, nuovi pericoli,
e voi posate quieto il tafanario
grattandovi i santissimi testicoli.

Ci vuol altro che aggiungere al Bollario


Chiose, Brevi, Paragrafi ed Articoli
e studiar la riforma del Breviario
per fare i Santi Grandi uguali a Piccoli.

Tutto ciò Padre mio non vale un pavolo


e forse voi le chiamereste Buggere
in altri tempi, e vi dareste al Diavolo.

Or mentre ce ne andiamo in precipizio


Voi coglionando ci lasciate struggere
per Dio, che ci venite in quel servizio.
9. L’elogio fattogli da Voltaire
Il discorso sull’Arte comica ha limiti evidenti,
determinabili in quella stessa struttura che ne costituisce
nel contempo la cornice di originalità: Bianchi parte da
un’esposizione convenzionale ed erudita, per approdare ad
un risultato del tutto inatteso rispetto alle premesse. In
questa conclusione c’è una forza innovativa in cui
possiamo forse rintracciare echi delle esperienze giovanili
compiute nella Bologna dove, a partire dal 1718, aveva
operato Pier Jacopo Martello, che lo stesso Bianchi
ricordava tra i suoi amici. (A Martello, secondo Walter
Binni, si deve la proposta di «una forma di commedia per
letterati […] fondata chiaramente su temi letterari anche
se indirettamente facendovi rifluire elementi di vita e
costume del tempo».)
La dissertazione procura a Bianchi un messaggio ben
più significativo della stessa condanna, recante la firma di
Voltaire: «Vous avez prononcé, Monsieur, l’eloge de l’art
dramatique, et je suis tenté de prononcer le votre».
Comincia così una lunga lettera che contiene la difesa del
teatro e della sua funzione: «Je regardai cet art dés mon
enfance comme la premier de tous ceux à qui ce mot de
beau est attaché. […] Je voi avec plaisir que dans l’Italie
cette mére de tous les beaux arts, plusieurs personnes de la
premiére consideration, non seulement font des Tragédies
et des Comédie, mais les representent. […] Y a t’il une
meilleur éducation que de faire jouer Auguste à un jeune
prince, et Emilie à une jeune princesse? On apprend en
même temps à bien prononcer sa langue, et à la bien parler.
L’esprit acquiert des lumiéres et de goût; le corps acquiert
des graces; on a du plaisir, et on en donne trés
honnétement. […] Ce qu’il y avait de mieux au collége de
jesuites de Paris où j’ai été élevé, c’était l’usage de faire
representer des piéces par le pensionaires, en présence de
leur parents». Dopo aver ricordato l’opposizione contro i
Gesuiti da parte dei Giansenisti, Voltaire scrive: «On dit
quel’ils fermeront bientot leurs ecoles; ce n’est pas mon
avis. Je crois quel’il faut les soutenir et les contenir; leur
faire païer leurs dettes quand ils sont banquerottiers; les
pendre même, quand’ils enseignent le parricide […]. Mais
je ne crois pas qu’il faille livrer nôtre jeunesse aux
jansénistes, attendu que cette secte n’aime que le traitté de
la grace de St. Prosper, et se soucie de Sophocle, d’Euripide,
de Terence», anche se quest’ultimo autore è stato tradotto
dai Portorealisti. Prosegue il testo: «Faites aimer l’art de ces
grands hommes (je ne parle pas des jansénistes), je parle
des Sophocles. Vous serez secondé en deça des Alpes.
Malheur aux barbares jaloux, à qui Dieu a refusé un coeur
et des oreilles. Malheur aux autres barbares qui disent, on
ne doit enseigner la vertu qu’en monologue, le dialogue est
pernicieux. Eh! mes amis, si l’on peut parler de morale tout
seul, pourquoi pas deux, et trois?».
Soltanto la chiusa con il saluto e con la firma, è
autografa: «J’ai l’honneur d’etre, monsieur, avec une
estime infinie votre tres humble e tres observent Voltaire
gentilhome de la chambre du roy».
A questa lettera del 1761 si riallaccia Bianchi
scrivendo nella già citata missiva a Pietro Godenti, del
1762: «Io sono del sentimento del Signore di Voltaire che i
persecutori de Gesuiti in Francia, che sono quei chiamati
Giansenisti che sieno fanatici, e credo che sia meglio ad
aver che fare coi Gesuiti, che coi Giansenisti».
Planco si spinge a proporre l’abolizione di tutti gli
Ordini religiosi: «basterebbe che ci fossero solamente i
Preti, e questi anche non in tanta copia, come era nella
primitiva Chiesa».
10. L’Orazion funerale
La condanna all’Indice non ha conseguenze nella
successiva carriera pubblica di Bianchi, se nel 1755 egli è
nominato consultore dell’Inquisizione e medico del
Sant’Uffizio, prima di diventare nel 1769 «Archiatro
Segreto Onorario» per volere del suo antico allievo
Clemente XIV.
Sulle Novelle letterarie [n. 30, 27 luglio 1770],
Bianchi ricorda la benevolenza dimostratagli da papa
Ganganelli: «Nostro Signore oltre ad avermi dichiarato suo
Archiatro Segreto Onorario, mi ha fatto duplicare lo
stipendio, che mi dava la mia Patria, acciocché possa tirare
avanti i miei studi, e le mie stampe, raccomandandomi
nelle sue lettere, che io seguiti a promuovere nella gioventù
i buoni studi della filosofia tutta, e della lingua Greca
spezialmente». Nei propri diari il 25 settembre 1769
Bianchi rammenta che Clemente XIV rispose alle sue
felicitazioni per l’elezione, con una lettera «dove mi stimola
a seguitare a promuovere li buoni studi di Filosofia, e di
Lingua Greca nella Gioventù». Nella stessa carica di
archiatro lo conferma Pio VI, il cesenate Giovanni Angelo
Braschi, grande protettore anche di Giovanni Cristofano
Amaduzzi.
Iano Planco muore il 3 dicembre 1775, ad 82 anni e
11 mesi, per «un’atroce infreddatura» contratta sei giorni
prima nell’assistere alla sacra funzione celebratasi in
«rendimento di grazie» per la promozione alla sacra
porpora del concittadino Francesco Banditi. Come
meritava per il titolo di «monsignore» spettantegli quale
archiatro, Bianchi è sepolto in abito e rocchetto, cioè in
vesti prettamente ecclesiastiche, nell’antica chiesa di
sant’Agostino di Rimini. La lapide del monumento reca un
testo in latino da lui stesso dettato, dove si legge che
infelice nacque, ancor più infelice visse, ed infelicissimo
morì.
Nemmeno dopo la morte, Bianchi può riposare in
pace. La colpa è ancora di un vescovo della città, Francesco
Castellini, il quale fermamente vuole ostacolare il progetto
editoriale che il nipote di Planco, dottor Girolamo Bianchi,
medico dell’Ospedale riminese, sta curando per soddisfare
le ultime volontà del defunto zio. Il 5 giugno 1773 Bianchi
le aveva dettate al notaio Francesco Masi, disponendo tra
l’altro che l’orazione funebre in suo onore, senza l’obbligo
di recitarla, venisse stampata «in 4° in buona carta, non in
Rimino, né in Pesaro, ma in Cesena, o altrove ove siano
buoni caratteri», con una tiratura di «cinquecento copie per
distribuirle». Nel testamento, Bianchi indicava anche una
terna di autori tra cui scegliere l’incaricato per l’orazione:
due suoi ex allievi (don Giovanni Paolo Giovenardi ed il
dottor Cesare Torri), e Lorenzo Drudi, un riminese che
allora studiava Medicina a Bologna e che tra 1797 e 1818
sarebbe divenuto bibliotecario civico.
La scelta cade su Giovanni Paolo Giovenardi che
recita l’Orazion funerale nel Palazzo pubblico di Rimini il 5
dicembre 1776. Essa è poi pubblicata in Venezia presso
Simone Occhi nell’aprile del 1777. Forse si preferì Venezia
per dare maggiore diffusione allo scritto. (Drudi, «uomo
asiatico, pesante, e per conseguenza mediocre» a detta di
Giovanni Cristofano Amaduzzi, non volle essere da meno, e
scrisse pure lui, nello stesso 1776, una Laudatio in onore
del medico scomparso.)
Delle difficoltà incontrate per la pubblicazione
dell’Orazion funerale, parla Giovenardi in due lettere
inedite al nipote di Planco, Girolamo. In quella del 7
gennaio 1777 leggiamo che, in caso di edizione del testo,
era minacciata allo stesso Girolamo Bianchi «la privazione
dell’Ospitale dal vescovo», come si vociferava
autorevolmente in città. Il 5 aprile 1777 Giovenardi poi
suggerisce a Girolamo Bianchi di restare estraneo alla
distribuzione dell’opuscolo, «per isfuggire qualunque odiosa
taccia di parzialità, e mettersi al coperto da qualunque
vendetta trasversale, alla quale potesse pensare il vescovo
contro di lei».
Il fantasma di Giovanni Bianchi angoscia gli
ecclesiastici riminesi. Il ricordo delle idee che ha professato
in vita, provoca nuove ostilità verso la sua figura di
scienziato. Fanno ancora paura, di lui, l’insegnamento
svolto e la sua funzione di educatore, che Giovanni Paolo
Giovenardi, don Filippo Zambelli e Girolamo Bianchi
cercano di rinverdire, creando una scuola sul tipo di quella
che Iano Planco aveva retto in casa propria. Il loro
progetto, che è dei giorni immediatamente successivi alla
scomparsa di Bianchi, lo possiamo leggere in un volantino,
diretto «a’ Studiosi Giovani Riminesi, ed amanti della soda
letteratura», con il quale si annunciava l’apertura di una
«pubblica Scuola di Medicina, e lingua Greca», dotata della
«sceltissima, e copiosissima Libreria in ogni genere di
Scibile» lasciata dallo scienziato scomparso, e con «il
comodo di potere fare le sezioni Anatomiche in
quest’Ospedale», dove il dottor Girolamo Bianchi esercitava
l’arte medica.
Il fatto che i volumi di quella «sceltissima, e
copiosissima Libreria» potessero essere riaperti,
diffondendo nuovamente dottrine sospette se non
condannate, allarma la Chiesa di Rimini, e spinge il suo
vescovo a correre verso i necessari ripari. Alla fine, anche
se la scuola non rinasce, l’Orazion funerale circola
liberamente, e Girolamo mantiene il suo posto all’Ospedale.
Bianchi non aveva anteposto la Religione alla
Scienza: su questo punto, era stato chiaro, più di quanto
non si fosse dimostrato in campo filosofico, dove (così
scrisse Amaduzzi in un Elogio in sua memoria, apparso
sull’Antologia Romana), «mancò di un certo criterio, per il
che fu soggetto talvolta a qualche paralogismo», cioè a
sillogismi falsi con apparenza di verità.
Planco sapeva bene che una cosa è la Teologia ed
un’altra la Medicina. L’aveva appreso proprio dall’esempio
del cardinal Davìa. Secondo Bianchi, Davìa è stato uno
spirito innovatore per aver chiamato ad insegnare nel
Seminario riminese alcuni «valenti Professori», tra i quali
due medici, Felice Palese («morto Primario Professore del
Collegio Borbonico di Palermo») e mons. Antonio Leprotti,
divenuto in seguito archiatro pontifico. E’ stato Leprotti a
convincere il giovane Bianchi ad intraprendere il corso di
studi nel quale si laureò. Planco ricorda con riconoscenza
Leprotti anche per la pratica di Anatomia a cui l’avviò, e
che considerava un tirocinio dimostratosi utile per i
successivi sviluppi della sua carriera universitaria.
11. La rivoluzione anatomica
Grazie soprattutto a Leprotti, «celebre Notomista»
che «moltissime sezioni di cadaveri Umani qui fece» avendo
come allievo lo stesso Planco, Rimini era stata allora una
città all’avanguardia. Poi, quando nel 1726 Leprotti se ne
va contemporaneamente a Davìa, le cose cambiano: «con
mio dispiacere», spiega Bianchi in una radunanza dei Lincei
nel ’51, «debbo dire che» l’Anatomia «insieme con altri buoni
studj, non è in quel grado avuta, che una tanta cosa si
dovrebbe avere, essendovi chi per una cosa schifosa, e
semplicemente curiosa, e di niun’utile la tengano, e chi
altre strane opinioni d’essa hanno, che qui non fa luogo a
rammentare, ma che danno bensì un grandissimo
argomento della Barbarie di quei, che le portano».
L’appassionata difesa di questa «necessarissima
scienza», rimanda ad un discorso più generale. Nei
confronti dell’Anatomia, allora si manifesta una
sostanziale ostilità per motivi nello stesso tempo diversi e
convergenti, bene illustrati da Elena Brambilla che al
riguardo fa tre fondamentali osservazioni. L’Anatomia
«metteva in forse la distinzione di rango tra medici e
chirurghi, professione liberale ed arte meccanica, nobiltà
della teoria e viltà del lavoro manuale». La sua pratica
«vedeva scontrarsi, sul cadavere, la competenza del medico
con quella del prete, il rito funebre contrastare il passo
all’autopsia»; infine, «su quello stesso cadavere la teoria
poteva essere smentita dalla pratica, e il paradigma
medico, con le sue radici filosofico-teologiche nell’invisibile,
essere confutato dall’osservazione visibile».
Quest’ultimo aspetto ci permette di cogliere tutta la
forza rivoluzionaria che la pratica anatomica porta con sé.
Essa infatti rovescia la metodica delle conoscenze: non si
parte più dalla pagina scritta, ma con l’osservazione diretta
si inizia il procedimento che deve concludersi nella
descrizione di un rapporto di causa e d’effetto. In tal modo
si demolisce il castello dell’ortodossia scolastico-
aristotelica, affermando (osserva ancora Elena Brambilla),
la necessità di una nuova «base filosofica della medicina
pratica», e propugnando un’«emancipazione delle scienze
fisiche dalla teologia».
L’attenzione dimostrata dal vescovo Davìa verso la
Medicina, è un fatto straordinario nel contesto
ecclesiastico del tempo. Il Diritto canonico faceva divieto di
esercitarla a tutte «le Persone consagrate
all’amministrazione de’ Sagri Misteri». L’opinione che sta
alla base di questa norma, è bene illustrata da un anonimo
scritto riminese, dove della professione sanitaria si dà
un’immagine talmente degradata al punto di chiamarla
«arte di toccagione della persona», la quale oltretutto
obbliga a visitare il cesso degli infermi «per riconoscere gli
escrementi», ed a fare «crestieri a uomini, donne e
fanciulle», per cui non poteva essere svolta dal clero senza
profanare «la santità del ministero» e prostituire «il regal
Sacerdozio».
Anche la figura di Davìa offre un’altra faccia della
medaglia, del tutto diversa dagli elogi che gli tributa
Planco. Nel ’22 egli, che in anni successivi avrebbe
presieduto la Congregazione dell’Indice, aveva avversato
nella diocesi riminese la diffusione del pensiero di John
Locke (considerato «cento volte più pericoloso del
Machiavelli»), con un forte anticipo sulla condanna
all’Indice del 1734. Ciononostante Planco riconosce a Davìa
di aver introdotto da noi quella «puriorem philosophiam»
che il vescovo aveva studiato a Bologna, e che fece
insegnare a Rimini, togliendo la città «dalla barbarie, nella
quale ci avevano tenuto quei che prima della sua venuta
qui d’amaestrare la gioventù professarono».
In quella «barbarie», la cultura riminese era tornata
dopo la rinuncia di Davìa. Bianchi sperimentò direttamente
le conseguenze del cambiamento di clima, ma proseguì
lungo la sua strada con la fermezza degna del vero
scienziato, e senza i timori che avrebbero potuto avvolgere
un qualsiasi erudito di provincia, ossequiente all’autorità.
12. Storie di mostri
L’insegnamento di Planco ed il significato della
rivoluzione anatomica si compendiano in un suo testo, da
lui letto il 28 febbraio 1749 ai Lincei riminesi, l’epistola De
monstris ac monstrosis quibusdam, poi pubblicata a
Venezia nello stesso anno in due edizioni. Osserva oggi
Stefano De Carolis: «la storiografia medica più recente è
concorde nel ritenere degni di nota», tra tutte le opere
d’argomento medico pubblicate da Bianchi, «solo i suoi
studi teratologici», tra i quali «l’opera più importante» è
appunto questa sui mostri.
Planco vi affronta una questione fondamentale, cioè
il concetto di Natura e la classificazione dei fenomeni
osservati. I mostri, scrive, si possono dividere in tre specie.
Alla prima appartengono quelli che «in Utero Animantium
oriuntur ictu vel casu quodam alio». Alla seconda, quelli che
derivano «ex conformatione naturali, sive ex plastica
quadam vi naturæ, sive a natura ipsa ludente». Questi
mostri (come spiegano le Novelle letterarie il 25 luglio
1749, forse per mano dello stesso Bianchi), sono «prodotti
nell’uovo ab initio da Domineddio secondo la sentenza degli
sviluppi; oppure che una qualche virtù plastica abbia
prodotte, e vada producendo queste parti di più, che si
trovano ne’ Mostri», che hanno un dito, un braccio, un
piede o qualche altro membro o viscere in eccesso. Infine,
nella terza specie, incontriamo quelli che nascono «ex
morbo in Animantibus».
Bianchi dà per scontato che la perfezione naturale,
presupposta dai filosofi ufficiali della Chiesa, sia smentita
dai fenomeni mostruosi. Le ipotesi che egli formula,
oscillano tra il discorso rigorosamente scientifico ed
affermazioni che, in apparenza, sembrano negarlo, quando
presuppone (con immagine del suo tempo) che alcuni di
quei casi siano provocati «a natura ipsa ludente». Quello che
ancor oggi noi chiamiamo «lo scherzo di natura», per
indicare qualcosa fuori dell’ordinario, ci rimanda
etimologicamente al «ludus» quale gioco o scommessa, cioè
ad esempio al calcolo delle probabilità dei dadi, per
dimostrare appunto che la realtà, tra le possibili sue
varianti, oltre alla perfezione, ha anche l’errore, il mostro.
Ma «ludere» vale pure per «ingannare», quasi ad ipotizzare
(se non dimostrarci) che la Natura voglia prendersi beffa
degli uomini, violando le regole da essa stessa imposte.
Un’altra scelta eretica di Bianchi, oltre alla
comprensione dimostrata verso le «Donzelle di Lesbo» vista
a proposito di Catterina Vizzani, è quella che lo ha portato
ad accettare la fisica di Pierre Gassendi, un filosofo che
aveva riproposto gli atomi ed il vuoto come princìpi primi
di tutte le cose, scombinando le carte in tavola ai teologi.
Gassendi aveva attaccato il dogmatismo degli aristotelici,
gli occultisti, i cartesiani. Come spiega Paolo Rossi,
Gassendi era stato vicino a posizioni libertine ed aveva
teorizzato uno scetticismo metafisico che costituiva la
premessa per l’accettazione consapevole del sapere
‘limitato’ della scienza. Secondo una «tesi centrale» di
Gassendi, prosegue Paolo Rossi, «la nuova scienza non è
interessata né alle scolastiche quidditates rerum né agli
arcana naturæ dei maghi del Rinascimento: è conoscenza
fenomenica del mondo».
Attraverso Gassendi, seguendo un itinerario
inaugurato sul finire del ’600, come racconta Giambattista
Vico nella sua Autobiografia, Planco era risalito sino ad
Epicuro, allo scandaloso Epicuro. Bianchi ne aveva fatto
conoscenza tramite padre Giovanni Bernardo Calabro, al
convento cittadino dei padri Minimi. Ben presto a padre
Calabro venne ordinato, dal Generale del suo Ordine, di
allontanarsi dai «giardini di Epicuro» e di passare
nell’«accampamento dei Peripatetici».
L’obbedienza fin troppo ovvia, da parte curiale, ai
divieti di far professare pubblicamente idee proibite e
pericolose, e la buona memoria tramandatasi di
generazione in generazione nell’ambito ecclesiastico (tra la
condanna di Planco all’Indice nel 1752 e la questione
dell’Orazion funerale passano trentacinque anni), facevano
dell’eredità scientifica di Bianchi una summa eretica, che
era meglio non rifiorisse e non circolasse più dopo la sua
scomparsa. Questo spiega l’accanimento dimostrato dal
vescovo Castellini, sino a fare temere la «vendetta
trasversale» ai danni di un altro dottor Bianchi, il nipote
Girolamo.
L’opinione che alcuni mostri fossero «prodotti
nell’uovo ab initio da Domineddio» non era facile da
digerire, per quegli ecclesiastici. Ma nemmeno da spiegare
alla luce della Scienza moderna. L’Encyclopédie, alla voce
«monstre (zool.)», scrive ad esempio che trattasi di «animal
qui naît avec une conformation contraire à l’ordre de la
nature».
In questo «ordre de la nature» è fatto coincidere dalla
vecchia Filosofia il presupposto metafisico-teologico capace
di spiegare tutta la realtà, mentre il nuovo pensiero
scientifico vi identifica invece le regole generali,
ammettendo che da esse si differenzino le eccezioni
particolari rilevate mediante l’osservazione dei fenomeni.
Queste eccezioni, i cosiddetti mostri, sono tanto evidenti da
non poter essere negate, come spiega anche lo scritto
planchiano, dove riscontriamo una minor consapevolezza
rispetto agli Enciclopedisti, a causa dei ricordi e dei lasciti
della vecchia erudizione.
Di essa troviamo traccia consistente proprio nelle
leggi dei Lincei riminesi, dove la lettura delle opinioni dei
«dottissimi filosofi» e degli «uomini eruditissimi» è anteposta
all’«investigazione della stessa natura». Bianchi non aveva
assimilato le novità filosofiche relative ai processi della
conoscenza, commettendo quindi errori epistemologici, il
più conosciuto (e drammatico) dei quali è quello relativo
all’inoculazione del vaiolo. Bianchi la riteneva una delle
«cose letterarie» da discutere magari nel «miglior latino» con
il quale mandare «al diavolo tutti i pretesi calcoli […] e tutte
le altre ragioni sofistiche de’ fautori» della nuova pratica
profilattica, giacché essi «non sono filosofi e meno medici,
ma sono sfaccendati».
Sfaccendati, Planco ha una volta definito anche
«buona parte de’ nostri Academici di Rimino», accusandoli
di essere «diventati non so come Pittagorici fuori di tempo
essendosi fatti mutoli la maggior parte», per cui in futuro si
vedeva costretto a recitare soltanto cose sue «o cose
mandatemi di fuori da altri nostri Academici forestieri, o
da altri, i quali per rendersi benemeriti della nostra
Academia meritano d’essere aggregati, e riposti nel luogo
di que’ nostri, che si sono fatti mutoli, e massimamente nel
luogo di quelli, che non vogliono ne meno più onorare colla
loro presenza le nostre sessioni forse avendole a vile, o
forse, com’è più verisimile amando meglio di marcire
nell’ozio, o d’affaticarsi solamente per qualche poco per un
picciolo guadagno, o per rendersi abili a gli amoretti di
qualche femminuccia». Sono parole pronunciate da Bianchi
come prologo alla dissertazione De Lumbricis Corporis
Humani di Gaspare Adeodato Zamponi, nella quale
erroneamente si sostiene che i vermi del corpo umano si
riproducono per parto e non con uova.
Forse il mutismo pitagorico di alcuni seguaci di
Planco, e la loro assenza dai Licei lasciano intravedere non
tanto un volgare abbandono del maestro, quanto
giustificati timori di apparire pubblicamente come suoi
sostenitori. Siamo al 30 aprile 1751, un anno prima della
condanna all’Indice.
A quel 1752 abbiamo lasciato Antonia Cavallucci. La
sua ultima lettera a Planco è del 2 dicembre 1753: lamenta
di non aver ricevuto risposta da alcuni mesi all’invio di un
dramma recitato in Venezia («stimai che lei non agradisse
più la mia Amicizia, o per dir meglio la mia servitù»);
dichiara di non aver obliato «la memoria per i tanti favori, e
grazie ricevute, ma da me non meritate»; e prega il
«riveritissimo signor Dottore» di farla degna di sue nuove
corrispondenze.
Bianchi la rincontra soltanto dieci anni dopo, a
Sinigaglia, il 23 luglio 1763. Lei non aveva più «quello
spirito» dimostrato «in Rimino». Avendo saputo della
presenza di Planco in teatro, sale due volte nel suo palco
per omaggiarlo. «Vidi che era miserabile non avendo
nemmeno un fazzoletto per asciugarsi il sudore del viso»,
scrive Bianchi nel diario: l’ingaggio per due recite è di sei
zecchini, si lamenta l’attrice, «onde l’opera era una cosa
ladra in tutto e per tutto».
Sul finire del secolo XIX lo storico Luigi Rasi lascia
di Antonia Cavallucci queste notizie: «Benché lodata»
nell’Arte comica, «distrusse in breve ogni speranza fondata
sul suo avvenire, passando meschinamente la vita in
compagnie d’infimo ordine, e finendo poi, vecchia e
abbandonata da’ compagni di ogni specie, infermiera
nell’ospedale di Udine».
Non Antonia Cavallucci, ma una sconosciuta dama
riminese, era stata il vero amore di Bianchi che,
nell’autobiografia latina, la definisce «forma, ingenio, et
moribus præstans»: la sua scomparsa nel 1740 lo getta in
una prostrazione tale per cui «et amici et patria sordescere
cœperint», gli amici e la città presero ad essergli
insopportabili.
Fu allora che Planco decise di partire alla volta di
Venezia per un viaggio in precedenza rimandato a causa
della di lei malattia, e non più con lo scopo di divertirsi, ma
di levarsi ed abbandonare il dolore. E’ una delicata
annotazione autobiografica, utile anche per leggere senza
pregiudizi tutta la vicenda di Antonia Cavallucci. Sembra,
fatte ovviamente le debite proporzioni, di riascoltare il
lamento di Francesco Petrarca che fugge da «ogni segnato
calle» per fare acquetare «l’alma sbigottita» (Canzoniere,
CXXIX, Di pensier in pensier, di monte in monte).
Nota bibliografica

Nel riprodurre le carte di Antonia Cavallucci, ne ho


rispettato il tono narrativo spontaneo e sovente affannato,
intervenendo solamente a livello di punteggiatura e di
ortografia, e nella maniera più cauta e leggera possibile,
ma utile per una lettura più immediata. (A titolo
esemplificativo, ricordo che per lei «oh» ed «o» sono voci del
verbo avere. Una sua caratteristica del tutto particolare, è
il raddoppiamento di consonanti come in «giornni».
Abbondano poi gli accenti [«mà adesso…», «sé vi par…»,
ecc.]). Le parti sottolineate sono state rese in carattere
corsivo. Le integrazioni al testo sono in corsivo tra
parentesi quadre.
La frase di L. Canfora è tratta da un articolo apparso
sul Corriere della Sera del 22 aprile 2001, in cui si parla di
Epicuro, e di un’opera che Bianchi conosceva bene, le Vite
dei filosofi di Diogene Laerzio.
Per la condanna all’Indice di Planco, cfr. Index
Librorum Prohibitorum, Benedicti XIV P.O.M jussu editus,
per i tipi della Reverenda Camera Apostolica, Roma 1758,
p. 80.
La lettera inedita a P. Godenti, del 10 aprile 1762, è
in G. Urbani, Raccolta di Scrittori e Prelati Riminesi, SC-
MS. 195, Biblioteca Gambalunghiana di Rimini (BGR), p.
151. Il sonetto su papa Lambertini è in fasc. 310, Fondo
Gambetti, Miscellanea Manoscritta Riminese, ad vocem
Bianchi Giovanni (FGMB), BGR.
Le lettere di G. Garampi a Bianchi sono in Fondo
Gambetti, Lettere al dottor Giovanni Bianchi (FGLB), ad
vocem, BGR. Quelle di Bianchi a Garampi si trovano in
Archivio Segreto Vaticano, Fondo Garampi, vol. 275: una
trascrizione (inedita) è stata curata dallo storico dottor
Enzo Pruccoli che me ne ha gentilmente fornito copia, con
revisione di alcuni passi cortesemente fatta in loco dal
prof. Gian Ludovico Masetti Zannini. Ad entrambi va la
mia riconoscenza. Le lettere di altri corrispondenti di
Bianchi, come quelle della stessa Antonia Cavallucci, sono
in FGLB.
Il cognome Ruggeri nelle citazioni è conservato nella
variante «Ruggieri».
Appartiene a SC-MS. 965, Minute di lettere 1717-
1770, BGR, c. 101r, la missiva che racconta la protezione
del marchese Giambattista alla Cavallucci: essa è monca,
senza data (ma febbraio 1752) e senza destinatario,
un’«Eccellenza» che era il padre di Giambattista, forse
bolognese. Analoga minuta, c. 102r, è una
raccomandazione diretta a persona di quella città, dove
Antonia fu spedita da Planco.
Il testo sull’Anatomia, letto da Planco nella
radunanza dei Lincei del ’51, è nel fasc. 218, FGMB. Il suo
prologo alla dissertazione lincea scritta da Gaspare
Deodato Zamponi, è nel fasc. 219, FGMB. I diari di Bianchi
sono chiamati comunemente Viaggi 1740-1774 oppure
Libri Odeporici: cfr. SC-MS. 973, BGR.
Il titolo dello scritto di Bianchi su C. Vizzani è: Breve
storia della vita di Catterina Vizzani Romana che per
ott’anni vestì abito da uomo in qualità di Servidore la quale
dopo varj Casi essendo in fine stata uccisa fu trovata
Pulcella nella sezzione del suo Cadavero.
L’«autobiografia latina» di Bianchi è in G. Lami,
Memorabilia Italorum eruditione præstantium, I, Firenze
1742, pp. 353-407. Per la lettera di Planco a Benedetto
XIV, cfr. Commercium epistolicum 1745-1775, SC-MS.
974, BGR, ad diem.
La citazione di E. Capobelli è presa dai suoi
Commetarj, conservati in BGR, e precisamente da SC-MS.
303, pag. 163; ed è relativa all’anno 1743.
Altre citazioni. Per W. Binni, cfr. il suo saggio Il
Settecento letterario in «Storia della Letteratura Italiana.
Il Settecento», Garzanti, Milano 1968, p. 419. Per E.
Brambilla, La medicina del Settecento: dal monopolio
dogmatico alla professione scientifica, in «Storia d’Italia.
Annali 7. Malattia e medicina», Torino 1984, passim. Per P.
Rossi, La filosofia meccanica, in «Storia della Scienza
moderna e contemporanea. Dalla rivoluzione scientifica
all’età dei Lumi. 1», Tea, Torino 2000, p. 248. Per F.
Venturi, Settecento Riformatore. I. Da Muratori a
Beccaria, Einaudi, Torino 1998, p. 133.
Di L. Rasi, cfr. I comici italiani: biografia, bibliografia,
iconologia, I, Firenze (1897?), p. 618. (Debbo al prof. G. L.
Masetti Zannini la segnalazione di questo testo; ed alla
cortesia del dottor Vanni Tesei della Biblioteca Saffi di
Forlì la trascrizione del brano riguardante Antonia e
Bartolomeo Cavallucci.)
Il passo del dottor S. De Carolis è tratto dal suo
saggio La produzione pubblicistica su questioni mediche, in
«Giovanni Bianchi, Medico Primario di Rimini ed archiatra
pontificio», Verucchio 1999, p. 58.
L’anonimo scritto riminese contro la Medicina, extat
in P. Meldini, Il medico di parrocchia, in «San Vito e Santa
Giustina, contributi per la storia locale», a cura di C.
Curradi, Rimini 1988, pp. 175-187.
Il bando del 1762 si trova in Archivio storico
comunale, Archivio di Stato di Rimini (ASRi), Archivio
teatro, 1735-1838, busta 1. La notizia sui 99 palchi nel
teatro riminese, è tolta da un elenco esistente nelle
medesima busta. L’autorità vegliava attentamente sulla
pubblica moralità, come dimostra un editto (senza data)
rinvenuto in ASRi, AP 638, 2. Teatro, dove sono riportate
le regole stabilite dal Governatore, «da osservarsi ne’
Veglioni del Pubblico Teatro»: era proibito «levarsi la
Maschera dal Viso sotto qualunque pretesto», e con la
minaccia «di essere immediatamente cacciato dalla Festa».
Nessuno «o sia Uomo, o sia Donna» poteva «usar forza, o
violenza nel voler far ballare le Maschere», con la
medesima minaccia «ed anche ad altre pene corporali ad
arbitrio di Sua Eminenza». Per i balli infine, occorreva
seguire «l’ordine, e metodo stabilito dalli Signori Eletti» alla
sorveglianza del teatro, a cui toccava risolvere eventuali
controversie «sulla precedenza del Luogo, e del tempo». Da
altra stampa (ivi), apprendiamo che con l’arrivo dei
francesi, erano state introdotte quattro tariffe, per i
possidenti, i negozianti, gli «artisti» (artigiani), ed infine
per camerieri, domestici e portantini.
Su Bianchi, si possono consultare questi miei scritti:
La Spetiaria del Sole, Iano Planco giovane tra debiti e
buffonerie, Raffaelli, Rimini 1994; Modelli letterari
dell’autobiografia latina di G. B. (I. P., 1693-1775), «Studi
Romagnoli» XLV (1994, ma 1997), pp. 277-299; G. B. (I.
P.) studente di Medicina a Bologna (1717-19) in un
epistolario inedito, «Studi Romagnoli» XLVI (1995, ma
1998), pp. 379-394; Due maestri riminesi al Seminario di
Bertinoro. Lettere inedite (1745-51) a G. B. (I. P.), «Studi
Romagnoli» XLVII (1996, ma 1999), pp. 195-208; «Lamore
al studio et anco il timor di Dio», Precetti pedagogici di
Francesco Bontadini commesso della «Spetiaria del Sole»
per Iano Planco, suo padrone, «Quaderno di Storia n. 2»,
Rimini 1995; Tra erudizione e nuova scienza. I Lincei
riminesi di G. B. (1745), Convegno sulle Accademie
romagnole, Studi Romagnoli, Forlì 2000, di prossima
pubblicazione; Lettori di provincia nel Settecento
romagnolo. G. B. (I. P.) e la diffusione delle Novelle
letterarie fiorentine. Documenti inediti, Giornate della
Società di Studi Romagnoli, San Marino 2000, di prossima
pubblicazione; Nei «ripostigli della buona Filosofia». Nuovo
pensiero scientifico e censure ecclesiastiche nella Rimini
del sec. XVIII, «Romagna arte e storia», 64/2001, pp. 35-
54.
Su Bianchi, sono disponibili su Internet le pagine che
gli ho dedicate in due siti, raggiungibili agli indirizzi:
http://digilander.libero.it/ianoplanco;
http://digilander.libero.it/monari/planco.indice.html.

Desidero ringraziare il personale tutto dell’Archivio


di Stato di Rimini e della Biblioteca Civica
Gambalunghiana di Rimini. In quest’ultima, ho potuto poi
contare come sempre sull’attenta e sapiente assistenza
della dottoressa Paola Delbianco, responsabile della
Sezione manoscritti e fondi antichi, alla quale esprimo
doverosa gratitudine.

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