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Don Chisciotte (1605-15)

Erich Auerbach, Mimesis: Il realismo nella letteratura occidentale


(1946):
«Per Cervantes un buon romanzo non serve a null’altro scopo che un
onesto divertimento, “honesto entretienimento” [...]. A Cervantes non
sarebbe mai venuto in mente che lo stile d’un romanzo, sia pure il
migliore, potesse render trasparente l’ordine del mondo».
«Davanti al pazzo cavaliere della Mancia tutto diventa un girotondo
allegro, confuso e divertente. [...] Dare a questa follia un significato
simbolico e tragico, mi sembra una forzatura. Una tale interpretazione
può anche essere data, ma nel testo non esiste».

Montaigne, Saggi:
«Un lettore perspicace [suffisant lecteur] scopre spesso negli scritti
altrui perfezioni diverse da quelle che l’autore vi ha poste e
intravviste, e presta loro significati e aspetti più ricchi».
Don Chisciotte (1605-15)
Heinrich Heine, prefazione a una edizione tedesca del Don Chisciotte
(1837):
«Quale idea prima guidava il gran Cervantes nello scrivere il gran
libro? Mirava egli soltanto a battere i romanzi di cavalleria, la cui
lettura al tempo infuriava nella spagna tanto che nulla contro potevano
ordinanze ecclesiastiche e civili? [...]».
«Intenzione sua evidente fu la satira dei ricordati romanzi, che egli,
mettendone in luce le assurdità, voleva abbandonare alle risa del
mondo. Gli riuscì a meraviglia: [...] egli demolì i romanzi di cavalleria
così a fondo che, dopo l’apparizione del Don Chisciotte, il gusto di
quei romanzi si estinse in tutta Spagna e non ne fu stampato più uno».

«Ma la penna del genio è sempre più ardita del genio stesso, e vola
sempre al di là delle intenzioni del momento; e Cervantes, senza
averne coscienza, scrisse la più grande satira umana contro l’umano
entusiasmo»
Don Chisciotte (1605-15)
Thomas Mann, Una traversata con “Don Chisciotte” (1934):
«L’opera si evolve dallo spassoso scherzo satirico della sua prima
concezione fino a diventare un libro universale, un simbolo
dell’umanità. Per conto mio sempre le grandi opere furono il risultato
di intenzioni modeste. L’ambizione non deve stare all’inizio, prima
dell’opera, ma crescere con l’opera stessa che vuole farsi più grande di
quanto l’artista, nel suo sereno stupore, non si aspettasse; deve
insomma andar congiunta con l’opera, non con l’io dell’autore».
Don Chisciotte (1605-15)
Giudizio di Dostoevskij:
«In tutto il mondo non c’è nulla di più profondo e di più forte di
quest’opera. Per ora è l’ultima e la massima parola del pensiero
umano, è l’ironia più amara che l’uomo abbia mai potuto esprimere, e
se finisse la terra e chiedessero lassù agli uomini: “ebbene, avete
capito la vostra vita sulla terra e che conclusione ne avete tratto?”,
l’uomo potrebbe porgere in silenzio il Don Chisciotte: “Ecco la mia
conclusione sulla vita, potete voi giudicarmi per questo?”».
Don Chisciotte (1605-15)
Cap. I: «”In un borgo della Mancha”, il cui nome non mi viene a
mente, non molto tempo fa viveva un cavaliere [hidalgo] di quelli con
lancia nella rastrelliera, un vecchio scudo, un ronzino magro e un
levriero corridore. Un piatto più di vacca che di castrato, un tritato di
carne fredda in insalata tutte le sere, frittata coi ciccioli il sabato,
lenticchie il venerdì, qualche piccioncino in soprappiù la domenica,
consumavano tre quarti della sua rendita. Il resto se ne andava tra un
mantello di fino panno nero, calzoni di velluto per i giorni festivi, con
soprascarpe della stessa stoffa, e un vestito di lana greggia della
migliore per tutti i giorni. Aveva in casa una governante che passava i
quarant'anni, una nipote che non arrivava ai venti e un garzone per i
lavori della campagna e per la spesa, capace tanto di sellare il ronzino
quanto di maneggiare la roncola. L'età del nostro gentiluomo [hidalgo]
rasentava i cinquant'anni: era di complessione robusta, asciutto di
corpo, magro di viso, molto mattiniero e amante della caccia.
Don Chisciotte (1605-15)
Cap. I: Si afferma che avesse il soprannome di Quijada o Quesada (c'è
una certa discordanza tra gli scrittori che trattano di ciò), sebbene si
possa arguire, in base a plausibili congetture, che si chiamasse
Quijana. Ma questo poco interessa il nostro racconto: l'importante è
che nella narrazione non ci si allontani minimamente dalla verità [no
se salga un punto de la verdad]» (17).

«Bisogna dunque sapere che il suddetto gentiluomo [hidalgo], nei


momenti di ozio (che erano la maggior parte dell'anno), si dedicava a
leggere libri di cavalleria con tanta passione e diletto che giungeva
quasi a dimenticare totalmente l'esercizio della caccia e perfino
l'amministrazione dei suoi beni; anzi, la sua maniaca curiosità a questo
riguardo arrivò al punto da fargli vendere molte are di terra da semina
per comprare romanzi cavallereschi da leggere, e così si portò a casa
quanti se ne poté procurare […]
Don Chisciotte (1605-15)
Cap. I: Il povero cavaliere perdeva la testa [perdía el pobre caballero
el juicio] dietro a queste argomentazioni e non dormiva per cercar di
capirle e sviscerarne il senso […]. Non lo convincevano molto le ferite
che don Belianigi dava e riceveva perché supponeva che, per quanto
grandi fossero i chirurghi che lo avevano curato, non poteva fare a
meno di avere il volto e tutto il corpo pieni di cicatrici e di segni. Ciò
nonostante lodava nell'autore quel suo modo di chiudere il libro con la
promessa di dar seguito a quella interminabile avventura, e molte
volte fu tentato di prendere la penna e scriver lui la fine,
rigorosamente rispettando la promessa dell'autore, e lo avrebbe fatto
certamente e vi sarebbe anche riuscito, se altri continui e più
importanti pensieri non glielo avessero impedito».
Don Chisciotte (1605-15)
Cap. I: «Insomma, si assorbì tanto in quelle letture che passava le
notti, dal principio alla fine, e i giorni, dalla mattina alla sera, a
leggere; e così, per effetto del dormir poco e leggere molto, gli si
inaridì il cervello al punto che perse il senno [se le secó el celebro, de
manera que vino a perder el juicio]. La fantasia gli si riempì di tutto
quello che leggeva nei libri: d'incantamenti, contese, battaglie, sfide,
ferite, galanterie, amori, tempeste e altre impossibili stramberie. E la
convinzione che fosse verità tutta quella macchina d'immaginarie
invenzioni che leggeva gli si conficcò talmente nella testa, che per lui
non c'era al mondo altra storia più certa».
Don Chisciotte (1605-15)
Cap. I: «Così, perduto ormai il senno, giunse alla determinazione più
stravagante che abbia mai preso un pazzo al mondo, cioè gli parve
conveniente e necessario, sia per accrescere la propria fama, sia per
servire il proprio paese, di farsi cavaliere errante, e andarsene per il
mondo con le sue armi e il suo cavallo in cerca di avventure e
cimentarsi in tutte le imprese in cui aveva letto che si cimentavano i
cavalieri erranti, vendicando ogni genere di torti ed esponendosi a
situazioni pericolose da cui potesse, portandole felicemente a termine,
trarre onore e fama eterna. Il pover'uomo si vedeva già incoronato, per
il valore del suo braccio, per lo meno imperatore di Trebisonda; e così,
con queste affascinanti prospettive, trascinato dallo strano piacere che
gli procuravano, si affrettò a mandare ad effetto il suo desiderio [lo
que deseaba]».
Don Chisciotte (1605-15)
Cap. II: «E così, senza informare nessuno delle sue intenzioni e senza
esser visto da nessuno, una mattina prima di giorno (era una delle più
calde giornate del mese di luglio), si rivestì di tutte le sue armi, montò
su Ronzinante con la testa coperta dalla mal congiunta celata,
imbracciò lo scudo, prese la lancia e, dalla porta segreta di un cortile,
uscì in aperta campagna, con grandissima soddisfazione e giubilo nel
vedere quanto facilmente avesse dato inizio all'attuazione del suo
nobile desiderio [su buen deseo]».
René Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca (1962)
“Don Chisciotte ha rinunciato, in favore di Amadigi, alla
prerogativa fondamentale dell’individuo: non sceglie più gli
oggetti del suo desiderio, ma è Amadigi che deve scegliere per
lui. Il discepolo si precipita verso gli oggetti che gli indica, o che
sembra indicargli, il modello di ogni cavalleria. Chiameremo
questo modello il mediatore del desiderio. […] Nella maggior
parte delle opere di finzione, i personaggi desiderano in modo
più semplice di Don Chisciotte. Non c’è il mediatore, ma ci sono
solo il soggetto e l’oggetto […] il desiderio è sempre spontaneo.
Può sempre essere rappresentato da una semplice linea retta che
collega il soggetto e l’oggetto. / La linea retta è presente, nel
desiderio di Don Chisciotte, ma non è l’essenziale. Al di sopra di
questa linea, c’è il mediatore che si irraggia al tempo stesso
verso il soggetto e verso l’oggetto. La metafora spaziale che
esprime questa triplice relazione è evidentemente il triangolo”
Mediatore
(Amadigi)

Soggetto Oggetto
(Don Chisciotte) (Gloria cavalleresca)

Schema del desiderio triangolare


Don Chisciotte (1605-15)
Cap. VIII: «In quel mentre scoprirono trenta o quaranta mulini a vento
che si trovano in quella campagna, e non appena don Chisciotte li vide,
disse al suo scudiero: “La fortuna guida le nostre cose meglio di quel
che potremmo desiderare; perché, guarda lì, amico Sancho Panza, dove si
scorgono trenta, o poco più, smisurati giganti con i quali mi propongo di
venire a battaglia e di ucciderli tutti, in modo che con le loro spoglie
cominceremo ad arricchirci, ché questa è buona guerra, ed è rendere un
gran servigio a Dio togliere questa mala semenza dalla faccia della terra”.
“Che giganti?” domandò Sancho Panza. “Quelli che vedi lì”, rispose il
suo padrone, “dalle lunghe braccia, ché alcuni possono averle di quasi
due leghe”.
“Badi la signoria vostra”, replicò Sancho, “che quelli che si vedono là
non son giganti, ma mulini a vento, e ciò che in essi sembrano braccia
sono le pale che, girate dal vento, fanno andare la pietra del mulino”.
“È chiaro”, disse don Chisciotte, “che non te ne intendi di avventure;
quelli sono giganti; e se hai paura, togliti da qui e mettiti a pregare,
mentre io combatterò con essi un'aspra e impari battaglia”.
Don Chisciotte (1605-15)
Cap. III: «[L’oste] Gli domandò se portava denaro; don Chisciotte
rispose che non aveva un soldo, perché non aveva mai letto nelle
storie dei cavalieri erranti che alcuno di essi ne avesse portato con sé.
A ciò l'ospite replicò che s'ingannava; che se anche nelle storie non lo
si scriveva, non essendo sembrato ai loro autori necessario scrivere
una cosa di cui era tanto evidente la necessità [no era menester
escrebir una cosa tan clara y tan necesaria], come quella di portar
denari e camicie pulite, non per ciò si doveva credere che non ne
portassero; quindi poteva ritener per certo, senza il minimo dubbio,
che tutti i cavalieri erranti, di cui tanti libri son pieni zeppi, partavano
le borse ben fornite per ogni eventualità; e portavano anche camicie e
una cassettina piena di unguenti per risanare le ferite ricevute, perché
non sempre nelle campagne o nei luoghi disabitati dove combattevano
o restavano feriti c'era chi li curasse […]
Don Chisciotte (1605-15)
Cap. III: Gli antichi cavalieri stimarono opportuno che i loro scudieri
fossero provvisti di denaro e di altre cose necessarie, come filacce e
unguenti per medicarsi; e se avveniva che quei cavalieri non avessero
scudieri (il che capitava poche, anzi rare volte), si portavano tutto essi
stessi in bisacce di poco spessore, che quasi non si vedevano, in
groppa al cavallo, come se fossero qualcosa d'altro di maggior valore,
perché, se non per siffatta ragione, non era solitamente ammesso che i
cavalieri erranti portassero bisacce; pertanto gli dava il consiglio, e
avrebbe potuto anche ordinarglielo come a suo figlioccio, poiché
presto lo sarebbe stato, che, da quel momento in poi, non si mettesse
in viaggio senza denaro e senza provvedersi di quanto gli aveva detto;
avrebbe visto come se ne sarebbe trovato bene, quando meno se
l'aspettava».
Don Chisciotte (1605-15)
Cap. XVII: «”Molti e assai grandi sono i favori, signor castellano, da
me ricevuti in questo vostro castello, e rimango sommamente
obbligato a esservene riconoscente per tutto il resto della mia vita. Se
posso ripagarvene vendicandovi di qualche potente che vi abbia recato
oltraggio, sappiate che il mio ufficio non è altro che proteggere i
deboli, vendicare coloro che ricevono torti e punire fellonie. Cercate
nella vostra memoria e se trovate qualcosa di questo genere da
raccomandarmi, non avete che da dirmela, giacché vi prometto, per
l'ordine della cavalleria che ho ricevuto, di rendere pago e soddisfatto
ogni vostro volere”.
Il locandiere gli rispose con altrettanta calma:
“Signor cavaliere, io non ho bisogno che la signoria vostra mi
vendichi di alcuna offesa, perché io so prendermi da me la vendetta
che mi pare, quando mi si fanno offese. Soltanto ho bisogno che la
signoria vostra mi paghi la spesa che ha fatto stanotte nella locanda,
così di paglia e biada per le sue bestie, come della cena e dei letti”.
Don Chisciotte (1605-15)
Cap. XVII: “Dunque, questa è una locanda?” chiese don Chisciotte. “E
molto onorata”, rispose il locandiere. “Sono stato in errore fino a questo
momento”, replicò don Chisciotte “ché, in verità, pensavo fosse un
castello, e non cattivo; ma dal momento che non è un castello, bensì una
locanda, ciò che si può fare ora è che mi esentiate dal pagare, giacché non
posso contravvenire alle leggi dei cavalieri erranti, dei quali so con
certezza (senza che finora abbia letto nulla in contrario) che non pagarono
mai alloggi né altro nelle locande ove si fermavano, perché si deve loro
per diritto e privilegio ogni buona accoglienza che vien loro usata, in
compenso degli intollerabili travagli che patiscono cercando avventure di
notte e di giorno, d'inverno e d'estate, a piedi e a cavallo, con la sete e con
la fame, col caldo e col freddo, soggetti a tutte le inclemenze del cielo e a
tutti i disagi della terra”. “Io non ho nulla a che vedere con questo”,
rispose il locandiere; “mi si paghi ciò che mi si deve e lasciamo perdere
le chiacchiere e la cavalleria, ché a me importa solo di riscuotere quello
ch'è mio”.
“Voi siete uno sciocco e miserabile taverniere”, rispose don Chisciotte»
Don Chisciotte (1605-15)
Marthe Robert: Roman des origines et origines du roman (1972):
I cavalieri erranti sono persone «che vagabondano a loro piacimento
attraverso il tempo e lo spazio, che sfuggono per una speciale grazia
tanto alle leggi naturali quanto ai vincoli sociali legati a ogni
organizzazione. Capaci di colmare in un batter d’occhio distanze
enormi e di rovesciare come giocattoli tutti gli ostacoli accumulati
contro di loro, sono interamente al di sopra della natura, superiori ai
semplici mortali, sottratti alla fatica, all’usura del corpo, al bisogno.
Mai li si vede mangiare o occuparsi del loro sostentamento, [...]
possono subire senza grande danno delle spaventose ferite, ma le pene
quotidiante sono loro visibilmente risparmiate, perché ignorano il
lavoro e l’uso del denaro».
Don Chisciotte (1605-15)
Cap. XI: «”Felice età e secoli felici quelli a cui gli antichi diedero il
nome di età dell'oro, e non perché in essi l'oro, di cui si fa tanta stima
in questa nostra età di ferro, si ottenesse in quell'epoca fortunata senza
alcuna fatica, ma perché allora quelli che in essa vivevano ignoravano
queste due parole: tuo e mio. In quell'età benedetta tutte le cose erano
comuni: a nessuno era necessario, per ottenere il suo quotidiano
alimento, fare altro lavoro che alzare la mano e prenderselo dalle
robuste querce, che l'invitavano con generosità a cogliere i loro frutti
maturi e gustosi. Le chiare fonti e i fiumi correnti gli offrivano in
meravigliosa abbondanza deliziose e limpide acque. Nelle fenditure
delle rocce e nel cavo degli alberi le sollecite e ingegnose api
costituivano la loro repubblica, offrendo a qualunque mano, senza
alcun interesse, l'abbondante raccolto del loro dolcissimo lavoro”».
Don Chisciotte (1605-15)
Alfonso Berardinelli, L’incontro con la realtà:
«Ecco il presupposto del romanzo: l’invenzione di un tipo di eroe
impermeabile al mondo, che non capisce il mondo e che sfida il mondo.
Sfidandolo, decidendo di agire in esso ignorandone le leggi e gli usi,
questo eroe rivela pienamente la “realtà” di questo mondo che gli è
estraneo. Ogni volta rivela e consacra come più vera e reale della propria
esistenza l’esistenza del mondo. [...]
Siamo di fronte alla costituzione elementare del romanzo moderno nel
suo maggiore archetipo: due elementi eterogenei che non riescono a
incontrarsi, mescolarsi, contaminarsi, don Chisciotte e l’ambiente sociale
[...].
L’attore che è fonte di tutte le azioni ed è il centro magnetico intorno a
cui ruotano tutti gli altri personaggi [...], nasce in un altrove, viene da uno
spazio-tempo immaginario, separato e alieno. È un uomo fato di libri, di
favole e di fantasmi. La materia di cui si nutre viene da un altro mondo.
Ed è questa alterità che permette all’autore di rivelare la realtà di un
mondo attuale e presente, di un mondo vero».
Don Chisciotte (1605-15)
György Lukács, Teoria del romanzo (1916):
«E così accade che questo primo grande romanzo della letteratura
universale [Don Chisciotte] si ponga all’inizio del tempo in cui il dio
del cristianesimo comincia ad abbandonare il mondo; in cui l’uomo
diviene solitario, e può trovare il senso e la sostanza nella propria
anima, che in nessun luogo trova una patria; in cui il mondo, sciolto
dal suo paradossale ancoramento nel mondo dell’al di là presente, sarà
preda della propria immanente mancanza di significato».
Don Chisciotte (1605-15)
Milan Kundera: L’arte del romanzo (1986):
Cervantes è il «fondatore dei Tempi moderni»;
«Quando Dio abbandonò lentamente il posto da cui aveva diretto
l’universo e il suo sistema di valori, da cui aveva separato il bene dal
male e fornito un significato a ogni cosa, don Chisciotte uscì di casa e
non fu più in grado di riconoscere il mondo. Esso, in assenza del
Giudice supremo, apparve subito in tutta la sua terribile ambiguità:
l’unica Verità divina si frammentò in centinaia di verità relative che
gli uomini si spartirono. Così il mondo dei Tempi moderni nacque, e il
romanzo, sua immagine e modello, insieme a lui».
Romanzo: alcune tappe nella storia del termine
1) Il significato originario, attestato per la prima volta nell’XI
sec., è legato all’avverbio medievale romanice, derivato
dall’aggettivo romanicus, che deriva a sua volta dal
termine Romània, che fin dalla tarda latinità designava
l’insieme dei territori abitati dai cittadini romani.
Romanice (= relativo alla Romània, e a ciò che è
romanicus)
 Entra nella locuzione romanice parabolare (parlare
“romanico”), contrapposta a latine loqui
 Si dirama nelle varie regioni d’Europa e passa a designare
le nuove lingue nate dal latino (i volgari): fr. ant. romanz,
prov. ant. romans, sp. ant. romance, it. ant. romanzo
Romanzo: alcune tappe nella storia del termine
2) Nel XII sec., il termine romanzo (per metonimia)
incomincia ad essere usato per designare i testi redatti in
lingua volgare, in opposizione ai testi “normali” che erano
scritti in latino.
Dunque, è un percorso scandito da vari slittamenti semantici:
a) Termine che designa un’appartenenza politica e
culturale (romanice);  b) Lingua parlata dal popolo
(volgare, o romanza);  c) Testo letterario composto (o
anche tradotto) in quella lingua.

 E.R. Curtius, Letteratura europea e Medioevo latino:


I termini “enromancier, romançar, romanzare hanno il
significato di ‘tradurre o comporre libri in volgare’. Tali libri
potevano poi chiamarsi, a seconda del paese, romanz, romant,
romance, romanzo: tutte derivazioni da romanice” (39).
Romanzo: alcune tappe nella storia del termine
3) Il secondo significato si espande a dismisura, incomincia
ad ampliare la sua portata e ad abbracciare opere letterarie
molto diverse tra di loro.

Così, dal primo e piuttosto generico significato (“opera di


immaginazione scritta in volgare”), romanzo passa a
designare
• I romanzi cortesi in versi (XIII e XIV sec.),
• I romanzi cavallereschi in prosa (XV sec.),
• I romanzi pastorali (XVI sec.),
• I romanzi picareschi (XVII sec.),
• E così via, fino al romanzo moderno che si sviluppa tra
Sei e Settecento
Romanzo: connotazioni e sensi figurati
Alcune definizioni dei dizionari sotto il lemma romanzo (figur.):
 “Creazione fantastica della mente, fantasticheria, illusione”
 “Progetto inattuabile, sogno vano, prodotto dall’abbandono
sentimentale, dall’immaginazione, da speranze e desideri”
 “Affermazione, notizia o insieme di notizie inventate, prive di
fondamento, immaginarie; finzione, falsità, menzogna”
 “Teoria scientifica o filosofica del tutto assurda o infondata”
 “Insieme di vicende, fatti, esperienze così singolari, eccezionali
e talvolta incredibili, da apparire frutto della creazione
fantastica di uno scrittore o degne di costituire il soggetto di
un’opera narrativa”
 “Storia d’amore o relazione amorosa, per lo più singolare per
l’intensità o il carattere inconsueto delle esperienze e delle
vicende (e ha valore enfatico e scherzoso)”
Romanzo: il bisogno di un “altro nome”
D. Diderot, Elogio di Richardson (1762):
“Per romanzo [roman] si intendeva fino a oggi un
tessuto di avvenimenti chimerici e frivoli, la cui lettura era
pericolosa per il gusto e per i costumi. Vorrei proprio che
si trovasse un altro nome per le opere di Richardson, che
elevano lo spirito, che toccano l’anima, che traspirano da
ogni parte l’amore del bene, e che pure vengono chiamati
romanzi [romans]”.
Novel e romance
• Termine ing. novel (e sp. novela)
– Deriva dall’italiano novella
– Viene usato per designare i romanzi scritti a partire dal
Settecento, caratterizzati da un bisogno di verosimiglianza
e di realismo
• Il vecchio termine romance viene riservato ai testi narrativi
scritti in precedenza, caratterizzati da inverosimiglianza e da
atmosfera idealizzata, avventurosa, fiabesca, meravigliosa
ecc.
In base a questa distinzione
• I romanzi greci, i romanzi cortesi, cavallereschi, pastorali
ecc. = romance;
• I romanzi “moderni” di Richardson, Balzac, Manzoni,
Tolstoj ecc. = novel
Novel e romance
William Congreve, prefazione a Incognita (1691): “I romances sono
costituiti in genere dall’amore costante e dal coraggio invincibile di
eroi, eroine, re e regine, mortali d’alto rango e simili. Ivi il linguaggio
sublime, gli eventi miracolosi e le imprese impossibili sorprendono ed
elevano il lettore a una vertigine di delizia che lo lascia a terra quando
interrompe la lettura e lo irrita al pensiero di essersi fatto divertire e
trasportare, coinvolgere e angosciare dalle peripezie che ha letto, ossia
successi di cavalieri, sventure di damigelle e simili, quando non può
non essere convinto che si tratta di menzogne. I romanzi [novels] sono
di natura più familiare: ci vengono vicini e rappresentano intrighi in
atto, ci dilettano con casi ed eventi singolari ma non del tutto
inconsueti o senza precedenti che, non allontanandosi troppo dalla
credibilità, ci rendono più accessibile il piacere. I romances suscitano
maggior meraviglia, i romanzi maggior diletto”.
Novel e romance
Clara Reeve, Lo sviluppo del romance attraverso le epoche, i paesi e i
costumi (1785):
“Euprhasia La parola Novel [...] significa qualcosa di nuovo.
All’inizio fu usata per distinguere queste opere dal Romance, benché
in seguito siano stati confusi insieme e spesso scambiati l’uno con
l’altro.
Sophronia Ma come tracci la linea di distinzione, in modo da
separarli efficacemente, e da scongiurare ulteriori sbagli?
Novel e romance
Clara Reeve, Lo sviluppo del romance attraverso le epoche, i paesi e i
costumi (1785):
Euprhasia Tenterò di fare questa distinzione [...]. Il Romance è una
favola eroica, che tratta di persone e cose favolose. – Il Novel è una
rappresentazione della vita e dei costumi reali, al tempo in cui è stato
scritto. Il Romance descrive, con un linguaggio alto e raffinato, ciò
che non mai accaduto né è probabile che accada. – Il Novel fornisce
una relazione familiare di quelle cose che passano tutti giorni davanti
ai nostri occhi, che potrebbero accadere ai nostri figli, o a noi stessi; e
la sua perfezione consiste nel rappresentare ogni scena in modo così
semplice e naturale, facendola apparire così probabile, da darci
l’illusione (almeno finché leggiamo) che tutto sia reale, fino a provare
le gioie o le sofferenze delle persone nella storia, come se fossero le
nostre”
Il romanzo sotto accusa
Pierre Nicole, Lettere sull’eresia immaginaria (1664-65):
“Non solo [...] i Romanzi rendono lo spirito mal disposto a tutte le
opere di religione e di pietà, ma lo disgustano in qualche modo da tutte
le azioni serie e ordinarie. Dato che non vi si rappresentano che
galanterie e avventure eccezionali, e dato che i discorsi che vi si fanno
sono lontanissimi da quelli che sono abituali nelle faccende serie, ecco
che leggendoli si assume insensibilmente una disposizione d’animo
tutta romanzesca; ci si riempie la testa di eroi e di eroine; e le donne
soprattutto, leggendo le adorazioni che vi si rendono a quelle del loro
sesso [...], s’imprimono così a fondo nella fantasia quel genere di vita,
che le piccole incombenze del loro ménage diventano loro
insopportabili; e quando tornano a casa loro, con la testa svaporata e
imbottita di queste follie, trovano che in casa tutto è sgradevole, e più di
tutto i loro mariti, che essendo occupati negli affari non sempre sono in
umore di omaggiare con quelle compiacenze ridicole che si offrono alle
donne [...] nei Romanzi e nella vita romanzesca”.
Il romanzo sotto accusa
Gotthard Heidegger, Mitoscopia romantica: ovvero Discorso sul
cosiddetto romanzo (1698): Sostiene che i romanzi devono essere
considerati “come un vacuo fiume d’inchiostro su carta straccia. [...] Con
artificiose rivoluzioni, invenzioni di ogni genere, con espressioni
impetuose e macchinazioni divertenti i romanzi turbano l’animo del
lettore, suscitano in lui ogni sorta di bramosia, di inquietudine, di
lascivia e concupiscenza, gli impegnano totalmente il cervello, gli fanno
fare un bagno turco di passioni, ne minano la salute, ne fanno un
malinconico e un pusillanime; l’appetito se ne va, il sonno diminuisce
[...]. Finora i romanzi sono stati avversati perché si riteneva che non
fossero altro che paccottiglia pagana, fatta per sciupare tempo prezioso.
D’ora in poi bisogna considerarli anche come menzogne, come favole.
Poiché [...] è senza dubbio molto importante aver ben presente che chi
legge romanzi legge delle menzogne. [...] Non ci sono forse state proibite
le menzogne, non solo quelle che potremmo dire noi, ma anche quelle
che amavamo? Non ci hanno forse messo in guardia dalle favole, e
precisamente da quelle storie per vecchierelle, storie sciocche e
interminabili, che si chiamano appunto romanzi?”
“Questo non è un romanzo”
Marivaux, La vie de Marianne (1731-41): [Narrato in prima persona
dalla protagonista, che nelle prime pagine dice]
“A quindici anni non sapevo ancora se il sangue da cui provenivo
era nobile o meno, se ero bastarda o legittima. Questo inizio
sembrerebbe annunciare un romanzo: e tuttavia non è un romanzo che
io racconto; io dico la verità per come l’ho appresa da coloro che mi
hanno cresciuta”.

Defoe, Moll Flanders (1722), prefazione: “Oggi il mondo è così


invaso da romanzi e da racconti d’avventure che è difficile per una
storia di cronaca esser presa per vera”

Balzac, Papà Goriot (1834): “Dopo aver letto le segrete sventure di


Papà Goriot, cenerete con appetito attribuendo all’autore la vostra
ipersensibilità, tacciandolo di esagerazione, accusandolo di fare
poesia. Ah! sappiatelo; questo dramma non è una finzione, né un
romanzo. All is true, è così vero che ciascuno può riconoscerne gli
elemeni intorno a sé, forse nel proprio cuore”.
“Questo non è un romanzo”
La Vie de Marianne, preceduta da un’“avvertenza” di colui che
ha trovato e pubblicato il quaderno con le memorie di Marianne:
“Visto che si potrebbe sospettare che questa storia sia stata
fatta apposta per divertire il pubblico, credo di dover avvertire
che lo ho avuta da un amico che l’ha realmente trovata, [...] e
che non vi ho avuto altra parte che di averne ritoccato alcuni
passi troppo confusi e troppo trascurati. In realtà, se fosse una
storia semplicemente inventata, con tutta evidenza non avrebbe
avuto la forma che invece ha. [...] Insomma, ecco la sua opera
per come è, solo con qualche correzione di singole parole”.
“Questo non è un romanzo”
Defoe, Robinson Crusoe (1719):

“PREFAZIONE DELL'AUTORE

Se mai la storia delle avventure di un uomo qualsiasi di questo


mondo è stata degna di pubblicazione e, una volta pubblicata, di
essere accolta con favore, colui che l'ha data alle stampe è
convinto che questa lo sia.
Gli eventi straordinari della vita di quest'uomo superano a suo
avviso, tutto ciò di cui si sia avuta mai notizia, ed è quasi
impossibile che la vita di un singolo individuo possa presentare
maggior varietà”.
“Questo non è un romanzo”
Defoe, Robinson Crusoe (1719):
“La storia è raccontata con accenti sobri e sereni, e con
l'intendimento religioso di sfruttare le circostanze così come gli
uomini savi se ne servono sempre, cioè per istruire gli altri
mediante questo esempio, e per giustificare ed esaltare la
saggezza della Provvidenza nelle più svariate congiunture della
vita, comunque possano verificarsi.
Chi l'ha data alle stampe è convinto che questa storia sia una
cronaca di fatti realmente accaduti, e non vi sia in essa traccia
veruna di invenzione. Ad ogni modo, il fatto che si tratti di
avvenimenti pregressi non muta il valore del racconto, sia per il
diletto del lettore, sia per l'insegnamento che glie ne può venire.
Egli pertanto ritiene, senza ulteriori giustificazioni nei confronti
del pubblico, di rendergli un grandissimo servigio nel farlo
stampare”.
Due incipit a confronto
Defoe, Robinson Crusoe (1719):
“Io nacqui nel 1632 nella città di York da una buona famiglia
che peraltro non era del luogo. Mio padre infatti era uno
straniero, di Brema, e in un primo tempo si era stabilito ad Hull.
Poi, grazie al commercio, aveva accumulato un ragguardevole
patrimonio, cosicché, abbandonati i propri affari, aveva scelto di
vivere a York e vi aveva sposato mia madre, appartenente a
un'ottima famiglia locale. Mia madre di cognome si chiamava
Robinson, e perciò io ebbi il nome di Robinson Kreutznauer; ma
siccome notoriamente gli inglesi inclinano a storpiare le parole
ora noi veniamo chiamati, ed anzi ci chiamiamo e firmiamo,
Crusoe; ed è così del resto che mi hanno sempre chiamato i miei
compagni”.
Tra quotidiano e avventura
Defoe, Robinson Crusoe (1719):
“Poiché ero il terzogenito e non ero stato indirizzato a un mestiere
purchessia, ben presto il mio cervello prese a fantasticare, a
sognare di andare in giro per il mondo. Mio padre, che era molto
anziano, aveva provveduto a corredarmi di una congrua istruzione,
nei limiti normalmente consentiti dall'educazione familiare e dalle
modeste scuole di provincia, e intendeva avviarmi alla carriera
legale. Ma a me sarebbe piaciuta una cosa sola: navigare; e questa
mia aspirazione mi portava a oppormi con tanto accanimento alla
volontà, anzi agli ordini di mio padre, e del pari a tutti gli sforzi di
persuasione e alle preghiere di mia madre e dei miei amici, che
sembrava esservi alcunché di fatale in questa mia propensione
istintiva, la quale tendeva direttamente alla vita miseranda che poi
mi sarebbe toccata”.
Tra quotidiano e avventura
Defoe, Robinson Crusoe (1719):
“Sulla nave avevamo un certo numero di pennoni di riserva, uno o
due alberi di gabbia e certi grandi pali di legno. Decisi di cominciare
da questi e come meglio potei m'ingegnai (erano pesantissimi) a
gettarli in mare legandoli l'uno all'altro con una fune perché la
corrente non li disperdesse. Dopo di che mi calai lungo il fianco della
nave, li tirai verso di me e li unii alle due estremità quanto più
saldamente potevo per formare una specie di zattera; e dopo averci
posato sopra, in senso trasversale, due o tre brevi assi di legno,
constatai che potevo camminarci sopra senza difficoltà, ma che non
avrebbe potuto reggere un grosso peso perché il legname era troppo
leggero. Mi misi dunque al lavoro, e con la sega da carpentiere tagliai
in tre pezzi uno degli alberi di gabbia di riserva, e con grande fatica
riuscii ad aggiungerli alla zattera; ma la speranza di provvedermi del
necessario mi stimolava a fare più di quanto non sarei stato in grado di
fare in circostanze normali”.
Tra quotidiano e avventura
“Ora la mia zattera era abbastanza solida per sopportare un carico di
discreta consistenza; ma ancora non avevo deciso che cosa caricarvi e
come proteggere il carico dalle onde. Tuttavia non indugiai a lungo a
pensarci. Per prima cosa portai sulla zattera tutte le assi o tavole che
mi riuscì di raccogliere, e dopo aver riflettuto su ciò di cui avevo
maggior necessità, cominciai col prendere tre cassoni da marinaio, che
avevo svuotato dopo averne forzato la serratura, e li calai sulla zattera.
Riempii il primo di viveri, cioè pane, riso, tre formaggi olandesi,
cinque pezzi di carne di capretto disseccata, di cui solitamente ci
nutrivamo, e un piccolo residuo di grano europeo che tenevamo in
disparte per cibarne qualche pollo che avevamo imbarcato con noi, ma
che poi ci eravamo mangiati; in partenza, insieme a quel grano c'era
anche un poco di orzo e di frumento, ma con mio vivo disappunto vidi
che era stato divorato dai topi, o comunque sciupato senza rimedio”.
Un nuovo realismo
Ian Watt, The Rise of the Novel: Studies in Defoe, Richardson,
and Fielding (1957):
“Se il romanzo fosse realistico semplicemente perché vede la
vita nei suoi aspetti più spiacevoli, esso sarebbe semplicemente
un romance capovolto. In effetti esso cerca di ritrarre tutte le
varietà dell’esperienza umana e non solamente quelle che si
adattano a una particolare prospettiva letteraria: il realismo del
romanzo non consiste nel tipo di vita che esso presenta manel
modo in cui la presenta”.
Un nuovo realismo
Ian Watt, The Rise of the Novel:
1. Attenzione al dettaglio e alla circostanza precisa;
2. Individui concreti, con un’identità ben circostanziata e un nome
proprio riconducibile alla società reale: “I primi romanzieri ruppero
in modo significativo con la tradizione e nominarono i loro
personaggi in un modo tale da suggerire che dovevano essere
considerati come individui particolari nel contesto sociale
contemporaneo”.
3. Collocazione dei personaggi in un particolare sfondo storico e in un
particolare contesto temporale;
4. Collocazione in uno spazio concreto, quasi “visualizzato”: “Il luogo
era tradizionalmente vago come il tempo nella tragedia, nella
commedia e nel romance. […] Defoe sembra così esser stato il primo
scrittore inglese a ‘visualizzare’, per così dire, completamente ciò
che narrava come se fosse avvenuto in un ambiente reale”.
5. Stile piano e linguaggio referenziale.
Un nuovo realismo
Ian Watt, The Rise of the Novel:
“Il metodo narrativo mediante il quale il romanzo esprime
l'atteggiamento circostanziato verso la vita può essere de­finito
realismo formale. E diciamo formale perché il ter­mine realismo non si
riferisce qui ad alcun proposito o dottrina letteraria particolare ma
solamente a un insieme di procedure narrative che vengono usate così
spesso nel ro­manzo e così ra­ramente in altri generi da poter essere con­
siderate tipiche del primo. Il reali­smo formale è l'espres­sione di una
premessa che Defoe e Richardson accettavano in un senso molto
letterale, la premessa o convenzione fondamentale che il romanzo è un
rapporto autentico e completo su una esperienza umana e ha quindi
l’obbligo di soddisfare i suoi lettori fornendo loro dettagli sulla perso­
nalità degli attori e sulle circostanze di tempo e luogo delle loro
azioni, dettagli presentati usando il linguaggio in modo am­piamente
referenziale”.
Un nuovo realismo
Denis Diderot, Elogio di Richardson (1762):
“Per romanzo [roman] si intendeva fino a oggi un tessuto di
avvenimenti chimerici e frivoli, la cui lettura era pericolosa per il
gusto e per i costumi. Vorrei proprio che si trovasse un altro nome
per le opere di Richardson, che elevano lo spirito, che toccano
l’anima, che traspirano da ogni parte l’amore del bene, e che pure
vengono chiamati romanzi [romans]”.
Un nuovo realismo
Denis Diderot, Elogio di Richardson di Diderot (1762):
“Questo autore non fa colare il sangue [...]; non vi fa smarrire nelle
foreste; non vi trasporta in contrade sconosciute; non vi espone al
pericolo di essere divorati dai selvaggi; non si rinchiude in luoghi
clandestini di depravazione; non si perde mai nelle regioni
dell’incantesimo. Il mondo in cui viviamo è il luogo della sua scena;
lo sfondo del suo dramma è vero; i suoi personaggi hanno tutta la
realtà possibile; i sui caratteri sono tratti dall’ambiente sociale; i suoi
accadimenti rientrano tra i costumi di tutte le nazioni civili; le
passioni che rappresenta sono uguali a quelle che provo io; sono gli
stessi oggetti a suscitarle, e hanno l’energia che conosco in loro; le
traversie e le afflizioni dei suoi personaggi hanno la stessa natura di
quelle che mi minacciano di continuo; mi mostra il corso generale
delle cose che mi circondano”.
Un nuovo realismo
Denis Diderot, Elogio di Richardson di Diderot (1762):
“O Richardson! oserei dire che la storia più vera è piena di
menzogne e che il tuo romanzo è pieno di verità. La storia
rappresenta alcuni individui, tu rappresenti la specie umana [...]; la
storia abbraccia soltanto una porzione della durata, soltanto un punto
sulla superficie del globo; tu hai abbracciato tutti i luoghi e tutti i
tempi. Il cuore umano, che è stato e sarà sempre lo stesso, è il
modello dal quale tu copi. Se si sottoponesse il migliore degli storici
a una critica severa, chi la potrebbe sostenere meglio di te? Da questo
punto di vista, oserei dire che spesso la storia è un cattivo romanzo, e
che il romanzo, come l’hai fatto tu, è una buona storia. O pittore
della natura! sei il solo che non mente mai”.
Novel e romance

Novel e romance intesi


• Non solo come generi letterari storicamente
determinati (es. romanzo cavalleresco, romanzo
borghese)
• Ma anche come modi di narrazione e di
rappresentazione, che possono manifestarsi in epoche e
in generi diversi

• Novel  Modo mimetico-realistico


• Romance  Modo romanzesco
Northrop Frye, Anatomia della critica (1957)
Distingue tre tipi di rappresentazione letteraria:
1) Mito: tratta di entità ed eventi soprannaturali, lontani
dall’esperienza umana
Northrop Frye, Anatomia della critica (1957)
Distingue tre tipi di rappresentazione letteraria:
1) Mito: tratta di entità ed eventi soprannaturali, lontani
dall’esperienza umana

3) Realismo o modo mimetico: rappresentazione verosimile


dell’esperienza quotidiana
Northrop Frye, Anatomia della critica (1957)
Distingue tre tipi di rappresentazione letteraria:
1) Mito: tratta di entità ed eventi soprannaturali, lontani
dall’esperienza umana

2) Romance:
“Il mito si trova dunque a una estremità del disegno letterario
e il realismo dall’altra; nel mezzo c’è l’intera area del
romance, termine con il quale vogliamo indicare non il
genere storico [...], ma la tendenza [...] a trasporre il mito in
una direzione umana, e tuttavia, in contrasto con il
“realismo”, a creare dei moduli convenzionali secondo i quali
la narrazione tende verso una direzione idealizzata”

3) Realismo o modo mimetico: rappresentazione verosimile


dell’esperienza quotidiana
Northrop Frye, Anatomia della critica (1957)
Distingue tre tipi di rappresentazione letteraria:

1) Mito: Tratta di dèi e demoni

2) Romance: Tratta di eroi

3) Modo mimetico: Tratta di uomini


Northrop Frye, Anatomia della critica (1957)
Anatomia della critica: “Il romance è tra tutte le forme letterarie
quella che più si avvicina alla rappresentazione del sogno o
soddisfazione dei desideri umani”
Tradotto in termini onirici, [...] è la ricerca di una soddisfazione
della libido o io desiderante che liberi l’io stesso dalle ansie della
realtà, pur continuando a contenere tutta questa realtà”.

La scrittura secolare. Studio sulla struttura del “romance” (1976


Il romance cerca di “sostituire il mondo dell’esperienza ordinaria
con un mondo di sogno, in cui il movimento narrativo continua ad
alzarsi nell’appagamento del desiderio o a sprofondare nell’ansietà
e nell’incubo”.
Northrop Frye, Anatomia della critica (1957)
Anatomia della critica: “L’elemento di perenne fanciullezza tipico
del romance è sottolineato dalla sua straordinariamente persistente
nostalgia, della sua ricerca di un’immaginaria età dell’oro attraverso
il tempo e lo spazio”
“Il modo del romance presenta un mondo idealizzato: nel romance
gli eroi sono coraggiosi, le eroine bellissime, i malvagi cattivissimi, e
si tiene ben poco conto delle frustrazioni, delle ambiguità, e delle
difficoltà della vita comune”.

La scrittura secolare: “Il romance evita le ambiguità della vita


ordinaria, ove ogni cosa è un misto di buono e cattivo, e dove è
difficile prendere le parti o credere che la gente sia di volta in volta
un modello consistente di virtù o di vizio. La popolarità del romance,
è ovvio, ha molto a che vedere con la sua semplificazione di fatti
morali”.
Northrop Frye, Anatomia della critica (1957)
Figure, trame e imagery del romance:

• Personaggi: cavaliere, vecchio saggio, bambino innocente, donna


angelica ecc.

• Animali tipici: pecora, cavallo, cane ecc.

• Immagine del giardino segreto e incantato (archetipo dell’Eden)

• Immagini acquatiche: fiumi, fontane, ruscelli, laghi ecc.

• Luoghi tipici: torre, castello, foresta, isola ecc.

• Schemi narrativi ricorrenti: avventura, viaggio, ricerca ecc.


Il “ciclo di ritorno”
Northrop Frye, La scrittura secolare:
«Nella scrittura di fiction degli ultimi quattro o cinque secoli vi è
stata una specie di spola reversibile che si è mossa fra
l’immaginazione e la realtà […]. Una direzione viene chiamata
‘romantica’, l’altra ‘realistica’. La tendenza realistica si muove nella
direzione del rappresentativo e del traslato, la tendenza romantica
nella direzione opposta, concentrandosi sulle unità formulaiche del
mito e della metafora».

Gianni Celati, Finzioni occidentali:


Parla di un «ciclo di ritorno» delle forme letterarie: «Il processo di
scarto dei prodotti letterari da parte degli adulti civilizzati è un
processo circolare. I romances sono scartati nelle zone dei bambini e
degli ignoranti, solo perché i loro motivi possano essere di nuovo
evocati e registrati».

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