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x y Un manifesto matematico per

ripensare la questione di genere Italian


Edition Eugenia Cheng
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Eugenia Cheng insegna presso la School of the Art Institute of
Chicago ed è «Fellow» Onorario dell’Università di Sheffield. Su
YouTube potete trovare le sue lezioni di cucina e matematica. Suona
il pianoforte come una concertista e ha inventato The Liederstube,
incontri mensili tra musicisti non professionisti che suonano insieme
per godere della musica classica in modo informale. Parla francese,
inglese e cantonese e la sua missione nella vita è liberare il mondo
dalla paura della matematica. Con Ponte alle Grazie ha pubblicato
Biscotti e radici quadrate (2016), La matematica dell'infinito (2018) e
L'arte della logica (2019). Vive a Chicago.
www.ponteallegrazie.it

facebook.com/PonteAlleGrazie

@ponteallegrazie

www.illibraio.it

Titolo originale:
x + y. A Mathematician’s Manifesto for Rethinking Gender

Progetto grafico e illustrazione: Mauro De Toffol / theWorldofDOT

Ponte alle Grazie è un marchio


di Adriano Salani Editore s.u.r.l.
Gruppo editoriale Mauri Spagnol

Copyright © Eugenia Cheng, 2020


First published in Great Britain in 2020 by Profile Books Ltd
© 2021 Adriano Salani Editore s.u.r.l. – Milano

ISBN 978-88-3331-671-0

Prima edizione digitale: febbraio 2021


Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
A Gregory Peebles,
la costante congressiva in continua evoluzione
Prefazione

Mentre scrivo queste righe il mondo è in uno stato di straordinaria


incertezza.
È metà marzo 2020 e una pandemia globale sta trasformando la
nostra società.
Sembra impossibile iniziare un libro senza menzionare questo
fatto, ma è altrettanto impossibile scrivere qualcosa con la certezza
che sarà ancora rilevante quando arriverà nelle vostre mani.
Sta succedendo tutto troppo in fretta per prevedere cosa ci aspetta
nei prossimi giorni, settimane, mesi. Il ventaglio di possibilità è
troppo ampio.
Ad ogni modo, questa crisi mondiale ha tristemente evidenziato la
netta opposizione fra chi pensa in modo egoistico e chi pensa in
termini di comunità. Vediamo singoli individui decidere quanto rischio
di infezione sono disposti ad assumersi, come se si trattasse di una
scelta personale, che riguarda soltanto loro. Avremmo invece
bisogno di individui che agiscono per il bene della comunità, per
ridurre il rischio collettivo e tutelare la salute di tutti.
Il contrasto tra un pensiero individualistico e uno orientato alla
comunità è un tema importante di questo libro, e vederlo messo in
scena in modo tanto vivido durante questa crisi mi addolora e al
tempo stesso mi galvanizza.
La crisi non c’era quando ho iniziato a scrivere questo libro, e non
so in che condizioni sarà il mondo quando lo leggerete. In ogni caso,
spero che possa aiutarci a riflettere su questi due diversi approcci
alla vita e indicarci la strada verso un futuro migliore.
PARTE PRIMA
Pensiero di genere
1. Introduzione

Essere una donna significa tante cose.


Molte di queste in realtà non hanno proprio niente a che vedere
con l’essere una donna – sono artificiose, inventate, imposte,
condizionate, superflue, ostacolanti, dannose, e i loro effetti
riguardano tutti, non soltanto le donne.
Come può aiutarci il pensiero matematico?
Essendo una donna in un campo a prevalenza maschile come la
matematica, mi capita spesso di essere interpellata su questioni di
genere: come ci si sente a essere in così forte inferiorità numerica,
cosa penso di una presunta differenza di genere in termini di
capacità, come ritengo che dovremmo affrontare gli squilibri di
genere, come possiamo trovare più modelli a cui ispirarci.
Eppure per tanto tempo non mi sono interessata a queste
domande. Mentre scalavo i gradi della gerarchia accademica, la mia
attenzione era focalizzata sui modi di pensare e di interagire.
Quando infine ho iniziato a riflettere sul mio essere una donna,
sono rimasta colpita da un aspetto: perché non avevo mai sentito il
bisogno di pensarci prima? E soprattutto: come si può fare in modo
che nessun altro debba farlo? Sogno un giorno in cui tutti potremo
interessarci alla personalità invece che al genere, avere modelli di
riferimento basati sulla personalità invece che sul genere, e tenere
conto dei diversi tipi di personalità in diversi campi e ambiti della vita
invece che dell’equilibrio di genere.
Queste riflessioni hanno origine nella mia esperienza personale di
matematica, ma si applicano a tutte le mie esperienze, al mondo del
lavoro anche fuori dalla matematica, alle interazioni sociali in senso
lato, e al mondo stesso, ancora dominato dagli uomini, forse non in
numeri assoluti come nella matematica, ma in termini di
concentrazione del potere.
Da giovane non ho avuto matematiche donne come modelli di
riferimento. In parte perché le matematiche donne quasi non
esistevano, ma anche perché non ho mai sentito un’immediata
affinità per le poche che ho incontrato, e nessun desiderio
particolare di essere come loro. Tuttavia, sono cresciuta avendo
intorno a me donne forti e di successo a tutti i livelli: mia madre, la
mia insegnante di pianoforte, il primo ministro, la regina.
Ho lavorato sodo per avere successo, ma quel «successo» era un
concetto definito dalla società. Voti alti, università prestigiose,
incarichi accademici. Mi sono impegnata per affermarmi
adeguandomi a strutture preesistenti e a un modello tramandatomi
dalle precedenti generazioni di accademici.
E in un certo senso ci sono riuscita: sembravo una persona di
successo. In un altro senso, però, non lo ero: non mi sentivo una
persona di successo. Ho capito che i valori che determinavano agli
occhi degli altri il mio apparente «successo» non erano veramente i
miei valori. Così ho iniziato a cercare un modo che mi permettesse di
ottenere ciò che volevo, ma facendomi guidare dai miei valori –
aiutare gli altri e dare un contributo alla società – invece che da
attestati di eccellenza imposti dall’esterno.
Durante questo percorso ho imparato tante cose sull’essere una
donna e, più in generale, un essere umano, che fino ad allora avevo
fermamente ignorato. Cose su come noi umani creiamo per noi
stessi ostacoli, a livello individuale, interpersonale, strutturale,
sistemico, e su come pensiamo alle questioni di genere.
E la domanda che continua a tormentarmi è questa: quale può
essere il mio contributo di matematica? Cosa posso trarre, oltre che
dalla mia esperienza di vita come matematica, dalla matematica
stessa?

Cos’è la matematica?
La maggior parte di quello che si legge sul gender è scritto dal punto
di vista della sociologia, dell’antropologia, della biologia, della
psicologia o direttamente della teoria femminista (o anti-
femminista). Spesso vengono citate statistiche, nel bene e nel male:
statistiche sul rapporto fra uomini e donne in diverse situazioni,
statistiche su presunte differenze di genere (o sulla loro mancanza)
in test randomici, statistiche sui diversi livelli di successo in differenti
culture.
Come si inserisce la matematica pura in queste discussioni?
La matematica non è solo numeri ed equazioni. Ne ho già scritto
ampiamente in passato. La matematica inizia con numeri ed
equazioni, sia storicamente che nella maggior parte dei sistemi
educativi, ma si espande fino a comprendere molto altro, come lo
studio di forme, pattern, strutture, interazioni e relazioni.
Il cuore pulsante di tutto questo, che pompa la linfa vitale della
matematica, è la parte della disciplina che definisce una struttura per
creare argomentazioni. È questo che tiene insieme il tutto.
Una struttura è composta di due elementi: astrazione e logica.
L’astrazione è il processo che consente di guardare oltre i dettagli
superficiali di una situazione per individuarne l’essenza. È un punto
di partenza per costruire argomentazioni logiche, dal momento che
queste ultime devono funzionare al livello dell’essenza più che a
quello dei dettagli superficiali.
La matematica utilizza questi due strumenti per fare molto più di
calcolare risultati e risolvere problemi. Per esempio, è in grado di far
emergere strutture profonde basate su idee e spesso nascoste dalla
loro complessità. Credo che sia questo l’aspetto della matematica
che può offrire un contributo nell’affrontare le questioni spinose
relative al genere, un insieme di idee complesso e nebuloso che
nasconde molte cose.

Come funziona la matematica?


Il matematico Sir Tim Gowers scrive delle «due culture della
matematica», ovvero il problem solving e la costruzione di teorie.
A me sembra che in genere la matematica sia vista come la
disciplina del problem solving, mentre la parte di costruzione di
teorie è in larga parte ignorata o trascurata. Certo, i due aspetti non
si possono separare in modo netto, e alla fine penso che la
matematica dia il suo meglio quando si incontrano, cioè quando
costruendo una teoria si risolvono anche dei problemi. Ma cosa
significa «costruire una teoria»?
Le teorie matematiche sono descrittive, non prescrittive.
Descrivono ciò che sta alla radice di una situazione, ma non servono
soltanto a predire il suo sviluppo. Più in generale, il loro scopo è
aiutarci a pensare in modo diverso a quella situazione, a chiarirla, a
farci capire come funzionano certi aspetti. La teoria è astratta:
trascuriamo di proposito alcuni dettagli superficiali per vedere cosa
succede al di sotto della superficie.
In matematica una teoria inizia spesso con un’idea o una
possibilità, e si costruisce come una raccolta di conclusioni su
quell’idea, o conseguenze di quell’idea, o proprietà di quell’idea. A
volte si tratta soltanto di riformulare un’idea preesistente, ma una
variazione minima può portare a una teoria completamente diversa.
Se salite all’ultimo piano dell’edificio che un tempo si chiamava
Hancock Center, a Chicago, vedrete tutta la città e una vasta giungla
di «civiltà» che si estende all’orizzonte. Ma vi basta cambiare
angolazione di pochissimo e girarvi verso Michigan Avenue perché la
giungla si trasformi in un sistema a griglia che apparirà all’improvviso
davanti ai vostri occhi in un allineamento quasi perfetto. A volte nella
vita basta un piccolo cambio di prospettiva, ed è così che spesso
nascono nuove teorie matematiche.
Qui proporrò una teoria, o forse solo la riformulazione di una
teoria, per risolvere un problema.

Qual è il problema?
In questo libro affronterò il problema dei discorsi sull’uguaglianza di
genere, molti dei quali, anche se non tutti, sono divisivi, alimentano
divisione. In alcuni casi è il modo in cui parliamo del genere a
polarizzare le opinioni, in altri i confronti sono sterili perché non c’è
chiarezza su ciò di cui si sta discutendo. Prendiamo il termine
«femminismo», ad esempio. Un primo problema è che ne esistono
tante definizioni: è una parola che significa cose diverse per persone
diverse. Il risultato è che si finisce per parlare senza capirsi. Alcuni
danno al femminismo la definizione più ristretta possibile per poter
giustificare il fatto di denigrarlo. Per esempio:

Secondo il femminismo le donne sono migliori degli uomini e gli


uomini sono tutti cattivi.

Altri invece usano la definizione più generica possibile per raccogliere


consenso, oppure per convincersi di contribuire alla causa qualunque
cosa facciano. Per esempio:

Secondo il femminismo le donne hanno diritto tanto quanto gli


uomini di scegliere come vivere la propria vita.

Fra interpretazioni troppo ristrette e altre tanto ampie da essere


scontate, quello di femminismo diventa un concetto divisivo prima
ancora di essere stato definito.
Anche prescindendo dalle definizioni, ci sono varie ragioni per cui
alcune persone non sono entusiaste di essere associate alla parola
«femminismo». Lo stereotipo della femminista come la donna
arrabbiata, che odia gli uomini ed è contro la famiglia, infatti, è
scoraggiante per potenziali femministi di entrambi i sessi. E questo
fa emergere un altro elemento controverso del femminismo, che da
un lato sembra introdurre un’intrinseca distinzione fra donne e
uomini e dall’altro nega tale distinzione. È difficile parlare di uomini e
donne senza riconoscere che sono diversi, altrimenti non li
chiameremmo «uomini» e «donne». E così ci si lascia sviare e
assorbire da discussioni su ciò che accomuna e differenzia uomini e
donne. Un dibattito che al tempo stesso distrae e svilisce.
Il problema di questa mancanza di chiarezza è che ci costringe a
una meta-discussione in cui finiamo per litigare su quale debba
essere l’argomento di discussione. Alcuni ritengono che le uniche
esperienze di abuso condivise da tutte le donne siano per definizione
quelle delle donne più privilegiate: le donne bianche (o meglio, le
donne bianche ricche, eterosessuali e cisessuali). Ma al mondo ci
sono tanti altri problemi, forse anche peggiori di quelli di queste
donne, come il razzismo, l’omofobia, le disuguaglianze economiche.
E così, invece di affrontarli tutti, ci lasciamo distrarre da una sorta di
gara a quale sia il più importante e pressante.
Sospetto che le uniche a trarre vantaggio da queste meta-
discussioni siano le persone che detengono il potere e vogliono
mantenerlo. Le donne litigano fra loro sul significato di femminismo,
sulla branca intersezionale a cui dare più spazio e su chi subisce gli
abusi peggiori. Gli uomini discriminati – in base alla razza,
all’orientamento sessuale, alla ricchezza e allo status sociale,
all’educazione, all’istruzione, al genere, alla forza fisica e all’abilità
sportiva – si battono per far sentire la propria voce. Chiunque si
sente svantaggiato esprime il proprio dissenso, e i potenti si fregano
le mani soddisfatti e consolidano il loro potere.
Per fortuna la matematica può tornare molto utile quando si tratta
di dare definizioni e affrontare meta-discussioni.

Un approccio matematico
In matematica proponiamo una teoria dando una definizione di base,
che viene illustrata esplorando alcuni esempi chiave. Giustifichiamo
poi la teoria dimostrando che è onnipresente e utile. Può essere utile
perché ci permette di risolvere particolari problemi, oppure perché ci
mette in condizione di pensare più chiaramente. Quella che
propongo qui fa entrambe le cose.
L’importante, ad ogni modo, è che le teorie siano abbastanza
onnipresenti e abbastanza utili. Non è necessario che siano utili in
ogni situazione possibile, è sufficiente che lo siano in un solo caso,
ma è sempre fondamentale mettere sul piatto della bilancia vantaggi
e svantaggi. Una teoria matematica non è un’ipotesi fondata su
prove empiriche, la sua efficacia non si può giudicare in base alle
statistiche dei risultati ottenuti su un campione ampio e randomico.
In genere quando lavoriamo con le prove empiriche testiamo
qualcosa su larga scala e verifichiamo se ha effetti statisticamente
rilevanti. In media, è stato meglio di non fare niente? Nel caso di un
farmaco, in media è meglio di un placebo? E nel caso delle differenze
tra uomini e donne, si può dire che in media i comportamenti degli
uni e degli altri differiscono?
Le deduzioni matematiche funzionano in un altro modo. Prima di
tutto procedono secondo logica e non sulla base di prove empiriche.
E poi rispondono a una domanda diversa, ovvero: a quali condizioni
una certa ipotesi fa la differenza? O addirittura: a quali condizioni
potrebbe fare la differenza? È tutta un’altra storia rispetto a chiedersi
se qualcosa fa la differenza «in media». È importante ricordare,
infatti, che il valore medio non si applica agli individui, che si tratti di
media aritmetica, moda o mediana. «L’individuo medio» non è una
persona vera, e dire che «l’individuo medio» fa questa o quest’altra
cosa non significa che la maggior parte delle persone adottano un
dato comportamento.
Tante conclusioni basate su prove empiriche potrebbero essere
applicabili, in media, a un campione significativo di persone, ma non
a singoli individui. I risultati medi ottenuti su un campione esteso
non ci dicono nulla di concreto sulla persona che abbiamo davanti.
Questo vale per le ore di sonno di cui abbiamo bisogno (per alcuni
sono molto poche), le calorie da assumere per mantenere il peso
forma (alcuni devono limitarsi a dosi giornaliere molto inferiori a
quelle raccomandate), per gli effetti benefici dell’esercizio fisico
(secondo le statistiche fa bene, ma non vale per tutti), per le
possibilità di vincere alla lotteria (è così improbabile da sfiorare
l’impossibile, eppure quasi tutte le settimane qualcuno vince).
Si sente spesso dire che le esperienze individuali non si possono
generalizzare, ma è vero anche il contrario: l’esperienza media di un
gruppo non si può individualizzare. Ma allora come dobbiamo
pensare alle persone?
La deduzione matematica spesso opera attraverso casi studio.
Qualcosa ha funzionato in una data situazione: cosa l’ha fatta
funzionare? Possiamo scoprire come replicare quelle condizioni o fare
in modo che funzionino su scala più ampia? È questo il tipo di
approccio che adotterò nel libro.
Una precisazione importante. In un caso studio è ammesso
prendere in considerazione esperienze personali, a patto che non le
si consideri universalmente valide, statisticamente rilevanti o tipiche.
Diventa un caso studio, per l’appunto, un contesto in cui ci si può
chiedere, come fanno i matematici: qual è stato l’elemento decisivo?
Cosa può insegnarci?
Nel libro userò tanti casi studio per mettere in luce aspetti che
trovo significativi delle esperienze di persone brillanti e di successo.
Molte di queste sono donne che hanno ottenuto risultati a modo
loro, senza emulare l’eroismo, il coraggio, l’audacia, la fissazione per
i record o l’atletismo degli uomini. Per alcune di loro questo ha
significato essere state sottovalutate dalla società, e tratterò anche
di questo. Parlerò del lavoro della matematica Emmy Noether, delle
scienziate Jocelyn Bell Burnell e Rosalind Franklin, dell’attivista Susan
Burton e della sua battaglia per un sistema giudiziario più umano e
meno punitivo, delle conquiste più o meno note di Florence
Nightingale, delle idee di Dame Stephanie Shirley su come dovrebbe
funzionare un’azienda, di Mary Portas, della carriera di Michelle
Obama, delle esperienze della professoressa Deirdre McCloskey nel
suo «attraversamento» (come lo definisce lei) da uomo a donna.
È più che evidente che non sono una biologa, né una psicologa,
filosofa, storica, sociologa, teorica del gender, biografa o
neuroscienziata. Sono una matematica, e come tale scriverò questo
libro, formulando teorie da matematica ed esplorandole da
matematica.
Proporrò una riformulazione del discorso sul gender che consiste
nel focalizzarsi sui tratti caratteriali invece che sul genere,
introducendo una terminologia che può aiutarci a entrare in questa
nuova dimensione. Vedremo i molti modi in cui tutto ciò può farci
progredire, indipendentemente dal fatto di essere o meno donne.
Come molte riformulazioni matematiche, da un certo punto di vista è
un piccolissimo passo avanti rispetto a quello che tante persone
brillanti hanno intuito e fatto notare prima di me. Mi sembra però
che ci si sia sempre fermati appena prima di proporre una nuova
dimensione e un nuovo vocabolario. È un problema su cui si è scritto
tanto, senza però suggerire una soluzione.
Anche nel mio campo di ricerca, la teoria delle categorie, è iniziato
tutto da una nuova dimensione e un nuovo vocabolario. Un piccolo
passo all’apparenza insignificante che ha cambiato il modo di
pensare la matematica contemporanea. Sono convinta che qualcosa
di simile sia possibile anche per come pensiamo ai problemi di
genere. Non voglio proporre una matematica del gender, ma un
approccio matematico ai problemi di genere.

Il processo matematico
La matematica non si può ridurre a un mero calcolo di risposte, anzi:
la parte di costruzione delle teorie non ha niente a che vedere con la
ricerca di risposte e soluzioni. Ecco una schematizzazione di alcune
delle fasi che i matematici attraversano nell’elaborare una teoria.
Spesso il primo passo consiste nell’individuare i pattern, ovvero i
motivi ricorrenti. A un livello base può trattarsi di pattern che
interessano i numeri, per esempio il fatto che tutti i multipli di 10
finiscono con 0. Oppure possono esserci pattern di forme: per
esempio, nell’immagine qui sotto i triangoli piccoli creano pattern di
triangoli più grandi, di varie misure.
In ogni epoca e in quasi tutte le culture gli uomini si sono serviti dei
pattern per elaborare idee articolate a partire da concetti semplici.
Anche la natura li utilizza, per costruire strutture complesse come i
petali dei fiori o le spirali di un ananas. In sostanza, i pattern
mettono in relazione cose diverse, oppure parti diverse della stessa
cosa. Possiamo pensarli anche più in astratto e applicarli a fenomeni
non necessariamente visibili: i pattern di comportamento, per
esempio, ovvero analogie nel comportamento di una persona in
momenti diversi, oppure fra i comportamenti di persone diverse, o
su scala ancora più ampia fra i comportamenti di diverse specie di
animali o diverse comunità.
La matematica procede stabilendo relazioni sempre più astratte fra
le cose, cioè tralasciando di volta in volta i dettagli particolari di una
situazione in modo da vedere le somiglianze profonde. In generale è
così che funzionano le analogie, ma la matematica fa un passo in
più: non si limita a dichiarare che una somiglianza esiste, ma si
muove a un livello più astratto esaminando in cosa consiste tale
somiglianza, e trattandola come un concetto nuovo.
Per esempio, l’equazione

1+2=2+1

è analoga all’equazione

2+5=5+2

Ma in matematica, invece di fermarci a questa osservazione,


diciamo:

a+b=b+a

per qualsiasi numero a e b. Questa astrazione aiuta da un lato a


chiarire il concetto e dall’altro apre alla generalizzazione, includendo
molti più esempi.
Analogamente, se consideriamo le donne che non prendono la
parola alle riunioni e le studentesse che non fanno domande a
lezione, potremmo riassumere i due comportamenti nel pattern:
«Donne che non prendono la parola in contesti a genere misto». A
questo punto non abbiamo ancora misurato la diffusione del pattern,
non abbiamo scoperto cosa lo causa e non sappiamo come
intervenire per modificarlo. Ma individuando il motivo ricorrente,
limando i dettagli non pertinenti e concentrandoci su ciò che è
davvero importante abbiamo già fatto un primo passo. Ed è una
premessa fondamentale per costruire una buona teoria.
L’astrazione può aiutarci anche quando riflettiamo su ciò che causa
un pattern. La matematica è un continuo chiedersi perché e scavare
sempre più a fondo, in cerca di risposte sempre più fondamentali.
Una risposta superficiale al perché le donne tendono a parlare meno
in gruppi misti potrebbe essere: «Perché sono donne». Se
mettessimo questa teoria alla prova dei fatti, con ogni probabilità
scopriremmo che ci sono donne che sanno far sentire la propria voce
e uomini che non ne sono capaci. Forse troveremmo una
correlazione statistica fra l’essere donne e il non prendere la parola,
ma nella matematica astratta cerchiamo di andare più a fondo:
perché statisticamente essere una donna causa questo fenomeno?
Se è soltanto una correlazione statistica e non si tratta di un vero e
proprio nesso causa-effetto, possiamo scavare ancora e trovare una
causalità? Procedendo in questo modo emerge che non è tanto
importante essere o non essere donne, il punto sono le relazioni fra
le persone, e come persone diverse interagiscono fra loro. L’idea di
concentrarsi sulle relazioni invece che sulle caratteristiche intrinseche
fa il pari con un importante passo avanti nella matematica moderna:
l’affermarsi della teoria delle categorie, il mio campo di ricerca.

L’idea della teoria delle categorie


La teoria delle categorie è ritenuta una branca «fondazionale» della
matematica perché studia il funzionamento stesso della matematica.
Prima c’era la teoria degli insiemi, che ha un’ideologia diversa e di
conseguenza anche aspetti tecnici molto diversi. La teoria degli
insiemi si basa sull’idea che il punto di partenza della matematica sia
l’appartenenza, e cioè che tutto parte dal chiedersi se un
determinato elemento appartenga o meno a un insieme specifico.
Potete immaginarla un po’ come l’ossessione di alcuni di sentirsi
parte di un gruppo a tutti i costi, che si tratti di un club in senso
letterale, come gli antiquati ed esclusivi club per gentiluomini, o
gruppi più astratti come le «tribù» politiche di persone che
condividono le stesse opinioni, più per senso di appartenenza che
per altro.
La teoria delle categorie ha un diverso punto di partenza: le
relazioni. Si basa sull’idea che possiamo capire molto di una cosa o
di una persona osservando i modi in cui si relaziona con ciò che la
circonda.
Ecco alcune immagini che illustrano in cosa differiscono questi due
punti di vista. Un insieme può essere rappresentato come una
collezione di elementi all’interno di una linea chiusa, dove inclusione
ed esclusione sono determinate da caratteristiche intrinseche.

Una categoria invece può essere rappresentata come una collezione


di elementi con una rete di frecce che ne mostrano le relazioni. Un
po’ come un albero genealogico, solo che invece di genitori e figli
vediamo quali numeri sono legati agli altri come fattori.

Da un certo punto di vista è un cambio di prospettiva minimo,


eppure ha impresso una nuova direzione alla matematica moderna.
Per tornare al nostro argomento, un approccio di teoria degli insiemi
consisterebbe nel definire l’insieme delle donne sulla Terra sulla base
di alcune caratteristiche intrinseche, che possono essere, a seconda
di chi ne parla, i cromosomi, gli organi riproduttivi o gli ormoni. In
realtà, oltre a non essere affatto equivalenti, nessuna di queste
definizioni è chiara e lampante come si potrebbe pensare.
Adotterò quindi un approccio ispirato alla teoria delle categorie,
ovvero mi concentrerò su come le persone interagiscono fra di loro e
non sulle loro descrizioni biologiche. Nella storia sono stati fatti
diversi tentativi di definire la mascolinità e la femminilità in termini di
comportamento, a partire da come uomini e donne si relazionano
con le altre persone. Ci sono anche definizioni che contrappongono il
genere come costrutto sociale al sesso come descrizione biologica.
In questo libro, tuttavia, proporrò una teoria che si occupa
unicamente di come le persone si relazionano fra loro, senza legare
un certo genere a un certo modo di comportarsi. È possibile che un
dato comportamento sia connesso statisticamente o biologicamente
al genere, ma per scoprirlo sarebbe necessario uno studio a sé, e
non è l’obiettivo di questo libro. Chiedersi se certi comportamenti
sono dovuti alla biologia o alla cultura è in un certo senso irrilevante,
e rischia di distrarci dall’unico aspetto importante: come le persone
interagiscono fra loro.
L’idea di focalizzarsi sulle relazioni invece che sulle caratteristiche
intrinseche è una parte fondamentale del pensiero «categorico»,
inteso nel senso matematico della teoria delle categorie e non nel
senso generico di applicare concetti fissi, determinati e irremovibili.
Trovo che quest’ultimo sia un infelice riutilizzo dell’espressione
perché, come spiegherò più avanti, uno degli aspetti centrali
dell’approccio per categorie matematico è la flessibilità.
La flessibilità della teoria delle categorie deriva dal concentrarsi
sulle relazioni e non sulle caratteristiche intrinseche. Questo aspetto
permette di applicare le idee a contesti più ampi, che coinvolgono
vari tipi di persone, e di focalizzarsi su diversi livelli di dettaglio,
passando da temi specifici come videogiochi e giocattoli, ad altri più
ampi come scuole, aziende e la società in generale. Un esempio di
cui ho scritto nel mio ultimo libro, L’arte della logica, vede nelle
strutture di potere la causa dei privilegi strutturali della nostra
società, come essere ricchi, bianchi, maschi o diverse combinazioni
delle precedenti. Le relazioni si stabiliscono fra persone ricche e non
ricche, fra bianchi e non bianchi, fra maschi e non maschi, e tutte
possono essere riportate nel diagramma qui sotto, che mostra le
relazioni fra persone con diverse combinazioni di quei particolari tipi
di privilegio.
Le frecce indicano soltanto l’ipotetica perdita di un tipo di privilegio,
senza asserire nulla sulle sue cause o conseguenze.
Dal momento che stiamo pensando soltanto alle relazioni fra
persone che hanno o non hanno un certo tipo di privilegio, possiamo
applicare il modello a qualunque altro tipo di privilegio e di persone,
per esempio concentrandoci sulle donne e sul privilegio di essere
ricche, bianche, o cisessuali.
Questa struttura astratta non spiega da dove vengono le relazioni in
questione, come esattamente si manifestano nella pratica o come
affrontare la situazione se, come me, pensate che vada affrontata. Ci
permette però di fare chiarezza sui problemi, concentrarci su quelli
rilevanti in una data situazione, di raccogliere più relazioni in una
singola unità più facile da tenere a mente e di muoverci in modo più
fluido fra diverse situazioni in cerca di pattern. È in questo senso che
ritengo che il pensiero per categorie incentivi la flessibilità, oltre alla
profondità dell’analisi e all’ampiezza di applicazione. Anzi, questo è
un elemento chiave dell’astrazione matematica: una flessibilità che
deriva dall’ignorare alcuni dettagli di una situazione, un po’ come
rinunciare a dei bagagli per viaggiare più leggeri. In matematica
questo processo ci permette di scoprire analogie improbabili tra
situazioni molto diverse: per esempio, i diagrammi del privilegio
hanno la stessa forma del diagramma dei fattori di 30 che abbiamo
visto sopra.
Poiché viaggiamo leggeri, però, potreste giustamente preoccuparvi
di aver lasciato a casa qualcosa di importante. È legittimo temere di
perdersi qualcosa quando si sceglie di ignorare alcuni dettagli. E in
effetti nelle discussioni quotidiane spesso le cose vengono
semplificate troppo, spogliandosi di aspetti importanti e molto
rilevanti.
La soluzione in matematica è che scegliamo quali dettagli ignorare
per il momento in base a ciò su cui abbiamo deciso di concentrarci,
ma è una situazione temporanea. Lasciamo indietro parte del
bagaglio, ma non lo bruciamo. Riconosciamo che potrebbe tornarci
utile in un’altra occasione. È un’astrazione temporanea finalizzata a
esplorare un particolare aspetto di una situazione, non un’astrazione
definitiva e fine a sé stessa che pretende di darne una
rappresentazione esauriente.
In relazione al genere, questo significa che ci concentreremo sugli
aspetti della discussione che riguardano l’interazione fra le persone e
non sulle loro caratteristiche biologiche intrinseche. Non vogliamo
però affermare che queste ultime non siano mai rilevanti e possano
essere archiviate per sempre. Ci sono molti contesti in cui il genere e
il sesso giocano davvero un ruolo importante, che sia per aspetti
biologici come la riproduzione o altri motivi medici, per aspetti sociali
come il pregiudizio e le molestie, o ancora per questioni statistiche
come la corporatura media o la forza.
L’idea di un’astrazione temporanea serve a distinguere i problemi
ed esaminarli singolarmente, come in un esperimento controllato in
cui si varia un parametro alla volta per ricostruire con esattezza
cause ed effetti. Se non separiamo il genere dalla personalità non
stiamo facendo un esperimento controllato, stiamo confondendo i
problemi.
Il fatto che l’astrazione sia temporanea ci permette inoltre di
tenere conto dell’intersezionalità, e dunque di non tralasciare altre
forme di squilibrio di potere non determinate dal genere e che
dipendono, per esempio, dalla razza, dalla ricchezza,
dall’orientamento sessuale e così via. Nella matematica astratta non
facciamo esperimenti, ma studiamo strutture complesse cercando di
analizzarne un aspetto alla volta. In un certo senso è la nostra
versione di un esperimento controllato, in cui lo scopo non è tanto
cancellare le altre strutture, ma capire quali effetti derivano da
ognuna di esse.
Faccio un esempio semplice: se studiamo il mondo dei numeri,
scopriamo che è una struttura molto complessa in cui si può
addizionare, sottrarre, moltiplicare, dividere e molto altro. Se
provassimo a studiare queste relazioni tutte insieme da subito ci
troveremmo sicuramente in difficoltà. È molto meglio, invece,
analizzare l’idea di addizione in sé, e poi capire che la sottrazione è
così intimamente legata all’addizione da non poterne essere distinta
del tutto. Anche la moltiplicazione sembra legata all’addizione, visto
che è spesso pensata come una «addizione ripetuta»: moltiplicare 5
per 3 è lo stesso di addizionare 5 + 5 + 5. Ma a livello più astratto la
moltiplicazione può essere considerata un’operazione a sé, e questo
estende il suo campo di applicazione anche oltre i numeri, alle
forme, agli insiemi, oppure, nella teoria delle categorie, a intere
strutture.
In questo libro affronterò le tematiche gender differenziando le
questioni con lo stesso approccio. Il primo passo è focalizzarsi
temporaneamente sui problemi di genere, anche se ne esistono altri
più pressanti. Il secondo è che i tratti caratteriali non devono per
forza essere pensati in relazione al genere: possiamo considerarli a
livello più astratto come un argomento distinto e applicare questo
punto di vista non solo alle persone, ma anche alle strutture, ai
sistemi, alle comunità, alle discussioni. In un certo senso si tratta di
introdurre una nuova dimensione.

Dimensioni
In matematica le dimensioni, come i pattern, possono riferirsi a
concetti più o meno astratti. Al livello più concreto, le dimensioni
sono semplicemente diverse direzioni indipendenti in cui possiamo
muoverci nello spazio fisico. Il nostro mondo normale è
tridimensionale perché abbiamo tre direzioni: nord-sud, est-ovest, su
e giù. (La realtà è un po’ più complessa perché viviamo su una sfera,
ma il principio è valido, va soltanto preso con le pinze.) Nord e sud
non contano come dimensioni diverse perché non sono indipendenti
l’una dall’altra: sud è il «negativo» di nord, e lo stesso vale per est e
ovest. Nord-est non conta come dimensione a sé perché può essere
espressa come nord ed est e dunque non è «indipendente».
L’idea di una nuova direzione indipendente dà origine, in
matematica, a un concetto più astratto di direzione. La direzione
stessa può essere astratta, dunque non una bussola per il moto
fisico nello spazio, ma una direzione ideologica per il pensiero.
L’altezza e il colore di capelli di una persona sono due aspetti
indipendenti perché non si può misurare l’altezza in base al colore di
capelli. La teoria delle categorie coinvolge una dimensione in più
della teoria degli insiemi, perché gli oggetti sono considerati zero-
dimensionali, ma le relazioni fra di essi creano connessioni, simili a
delle strade, monodimensionali. Un esempio è quello che succede
quando rappresentiamo i numeri sulla retta dei numeri reali: passano
dall’essere un insieme disordinato di punti zero-dimensionali a una
retta monodimensionale costruita a partire dalle relazioni fra di essi.

Introdurremo nelle discussioni sul genere una nuova dimensione,


legata ai modi in cui le persone interagiscono. Rifletterò su specifici
modi di relazionarsi che ritengo particolarmente rilevanti per
l’inclusione delle donne nella società, ma cercherò di affrontarli in
modo da non doverli per forza collegare al genere. Oltre a essere
nuova in relazione alle questioni gender, sono convinta che sia una
dimensione diversa anche rispetto al modo in cui oggi pensiamo e
parliamo dei tratti caratteriali.
Definire una nuova dimensione è difficile, perché non la si può
esprimere nei termini di quelle esistenti. Eppure questa forma di
invenzione astratta è diffusissima in matematica. Può sembrare un
po’ che ci si stia inventando le cose di sana pianta, ma non è
scontato che farlo sia una cosa negativa. Un esempio significativo è
il fatto che i matematici abbiano inventato un nuovo tipo di numero,
chiamato immaginario, estraendo le radici quadrate dei numeri
negativi. A volte diciamo che non si può estrarre la radice quadrata
di un numero negativo, ma quello che intendiamo davvero è che
nessun numero ordinario può essere la radice quadrata di un
numero negativo. E allora perché non un qualche tipo di numero non
ordinario?
È così che i matematici hanno ideato i numeri ribattezzati con
l’efficace nome di «numeri immaginari». In buona sostanza abbiamo
inventato un numero i che corrisponde alla radice quadrata di –1,
quindi i2 = –1. Non sappiamo cosa sia i, conosciamo soltanto la sua
relazione con –1. Potremmo anche concludere che, se i numeri
ordinari possono essere rappresentati su una retta, questo buffo
nuovo numero i non può stare ovunque sulla retta. Quindi dobbiamo
rappresentarlo in una direzione nuova e indipendente.
E così abbiamo creato una dimensione nuova. Potreste pensare che
ci siamo limitati a inventarla, e anzi lo abbiamo persino ammesso
usando il termine «immaginario». Ma in un certo senso si può dire
che tutta la matematica astratta è inventata. In fondo anche i
numeri ordinari (1, 2, 3 ecc.) sono un’invenzione: non sono altro che
idee. Allora perché non creare l’idea di i? Possiamo inventare
qualunque concetto, a patto che non generi una contraddizione.
La cosa straordinaria è che questo universo all’apparenza fittizio
finisce per gettare luce sul nostro mondo familiare e ordinario. E a
volte scopriamo di aver guardato il mondo in bassa dimensione. È un
po’ come guardare un’ombra su una parete: l’ombra è una
proiezione bidimensionale di uno scenario tridimensionale, e a volte
può essere difficile risalire a quale reale situazione tridimensionale
corrisponde. Anzi, a volte le ombre possono trarci totalmente in
inganno, come in questa foto.

Le «ombre» fuorvianti possono manifestarsi anche in dimensioni


astratte, come quella che introdurrò per ripensare il gender. Finora
abbiamo affrontato i problemi legati alla disuguaglianza di genere
senza questa dimensione, e sono convinta che questo ci abbia
portati fuori strada. Anche se in un certo senso l’ho inventata di sana
pianta, credo che questa nuova dimensione possa far luce su
situazioni familiari. In verità si tratta di un piccolo cambio di
prospettiva, come la teoria delle categorie dopo la teoria degli
insiemi. Sono però convinta che questo piccolo slittamento possa
cambiare radicalmente il modo in cui vediamo le cose, facendo
chiarezza e semplificando (nel senso migliore del termine).
Lavorare con le nuove dimensioni è complicato proprio perché
sono nuove, ma in matematica dare loro un nome può rivelarsi
molto utile. L’atto di attribuire un nome è un altro piccolo passo
fondamentale per riordinare le idee e farle progredire. L’adozione di
una nuova terminologia è un’idea già suggerita da altri autori in
relazione al tema gender, ma io farò un passo ulteriore e avanzerò
alcune proposte concrete. Se si possono avere i pensieri senza le
parole, si potranno anche avere i pensieri con parole diverse. Ma
sarebbe stato difficile elaborare la teoria delle categorie senza la
parola «categoria» per designare la nuova struttura, così come
sarebbe impossibile studiare la radice quadrata inventata di –1 se
dovessimo riferirci a lei tutte le volte con un lungo giro di parole
invece che con il suo nuovo nome i. Allo stesso modo, difficilmente
riusciremo a fare passi avanti nella nostra discussione sul gender se
restiamo attaccati a una terminologia antiquata e spesso
genderizzata. Dare un nome a una nuova teoria è la premessa per
fare progressi.

Come facciamo progressi


In linea di massima la nuova teoria ci consente di progredire in due
modi e misurare i progressi negli stessi due modi. Quando in
matematica giudichiamo il valore di una teoria, teniamo conto di un
lato pratico, ovvero ciò che la teoria ci permette di fare, e di un lato
teorico, ovvero la generalità e la flessibilità della teoria, e la sua
capacità di trovare un equilibrio tra la ricerca di numerosi esempi e la
necessità di selezionare gli aspetti pertinenti. Il lato pratico e quello
teorico sono collegati, naturalmente, e la teoria che sta dietro alla
valutazione teorica (sperando non sia troppo contorta) è trovare gli
indizi in base a cui concludere di avere una teoria che ci permetterà
di fare molte cose, anche imprevedibili.
Un importante contributo della teoria delle categorie, ad esempio,
è che ci permette di pensare all’identità in modi più sfumati. Se ci
focalizziamo sulle caratteristiche intrinseche, infatti, finiamo con
l’affermare che due cose sono uguali se hanno le stesse
caratteristiche intrinseche. Se spostiamo l’attenzione sulle relazioni,
invece, possiamo accettare che cose e persone si relazionino in
modo analogo anche se hanno caratteristiche intrinseche diverse.
Queste ultime possono essere importanti, come per un attore che
deve fare da controfigura in un film, ma anche in quel caso la
somiglianza non deve per forza essere completa: per esempio lo
stuntman Gary Connery, un uomo, ha fatto da controfigura per la
regina alle Olimpiadi del 2012, quando l’abbiamo vista lanciarsi da
un elicottero e atterrare in paracadute alla cerimonia di apertura.
Nel caso delle problematiche gender c’è il rischio di restare
impantanati in situazioni in cui tentiamo da un lato di sostenere che
uomini e donne sono «uguali», e dall’altro di affrontare l’oggettiva
disparità fra uomini e donne in un’infinità di campi. Alcuni si limitano
ad alzare le spalle e osservare che uomini e donne sono diversi,
quindi non è ingiusto che ci sia disparità. Altri concordano
sull’ingiustizia della situazione (perché uomini e donne sono
«uguali»), ma pensano che non ci si possa fare niente, perché i due
sessi devono essere trattati «allo stesso modo».
L’approccio ispirato alla teoria delle categorie ci mostrerà come
trattare uomini e donne «allo stesso modo» se si relazionano con gli
altri «allo stesso modo». Questo non significa che tutti gli uomini e
tutte le donne sono uguali, una semplificazione così eccessiva da
risultare assurda, ma che possiamo individuare comportamenti
positivi e vantaggiosi, trovare persone che assumono quei
comportamenti e trattarle «allo stesso modo». Per esempio, invece
di dire «gli uomini chiedono più aumenti di stipendio delle donne e
per questo vengono pagati di più», potremmo dire «le persone che
chiedono aumenti di stipendio vengono pagate di più
(indipendentemente dal fatto che siano uomini o donne)».1
Potremmo fare un passo ulteriore e chiederci se è davvero così che
vorremmo che funzionasse il sistema: dovremmo pagare di più le
persone soltanto perché lo chiedono? Io penso che il compenso
debba essere commisurato alla qualità del lavoro e non alla capacità
di chiedere un aumento. È una soluzione più sfumata e più difficile
da implementare rispetto a pagare a uomini e donne lo stesso
stipendio perché «sono uguali», ma è anche molto meno divisiva.
L’idea di identità può essere applicata agli individui all’interno delle
strutture, ma anche alle strutture stesse. È un modo di zoomare
avanti e indietro tipico della flessibilità introdotta dalla teoria delle
categorie e dell’astrazione in generale. Gli oggetti concreti sono
troppo fissi per essere usati in questo modo. Un libro è un libro, ma
possiamo provare ad astrarre e pensarlo come una collezione di idee
comunicate in modo coerente. Se riduciamo lo zoom possiamo
applicare il ragionamento alle biblioteche; se lo aumentiamo, invece,
arriviamo ai singoli capitoli o addirittura ai paragrafi.
La nuova dimensione che useremo per uscire dai confini del
pensiero genderizzato dovrà essere sufficientemente astratta da
poter comprendere, oltre alle persone, anche i gruppi di persone e i
processi. Possiamo applicarla ad attività, relazioni, modalità di
insegnamento, persino diversi tipi di matematica. Questo garantisce
un vantaggio che, a questo livello di astrazione, non avremmo se ci
affidassimo a una delle parole esistenti per descrivere i tratti
caratteriali, nemmeno quelli in una certa misura legati alla nuova
dimensione.
È una delle strategie teoriche per giudicare se una teoria
matematica è valida, ma anche un modo per farla crescere,
applicandola a un campo più vasto di quello concepito in origine.
Prendiamo l’idea di simmetria, ad esempio, osservando che alcuni
oggetti si possono piegare a metà facendo combaciare alla
perfezione i due lati.
Ma se pensiamo alla simmetria più in generale, come una relazione
fra un oggetto e sé stesso in cui possiamo spostare l’oggetto senza
che questo cambi aspetto, allora includiamo l’idea di simmetria
rotazionale. Ne sono un esempio i mulini a vento o la forma qui
sotto, realizzata con le stesse metà dell’immagine precedente, ma
ruotate invece che riflesse.

Se estendiamo questo concetto a trasformazioni degli oggetti diverse


dallo spostamento, troviamo che una cosa può essere identica a sé
stessa anche quando aumentiamo e riduciamo lo zoom, il che ci dà
una auto-similarità, come in questo albero frattale.
E se lo espandiamo ancora, fino a includere le trasformazioni astratte
(e quindi non puramente fisiche), otteniamo una simmetria come
quella della formula:

a2 + ab + b2

Qui la simmetria è astratta, perché se la trasformiamo invertendo a e


b diventa:

b2 + ba + a2

che in effetti è identica all’originale.


È per questo che in matematica una nuova teoria non può mai
essere completa fin dall’inizio, o meglio, se lo è significa che è
piuttosto limitata. Una buona teoria, invece, ha opportunità di
espansione illimitate. La teoria delle categorie, ad esempio, in origine
si applicava a una branca molto specifica dell’algebra astratta; con il
tempo è arrivata a includere il resto della matematica pura, poi la
fisica e l’informatica teorica, e di recente persino la biologia, la
chimica, l’ingegneria e l’economia.
La teoria delle categorie è cresciuta grazie all’astrazione, alla
flessibilità di pensiero e alla sua capacità di guardare alle cose da
punti di vista diversi: dall’esterno verso l’interno e viceversa,
dall’interno verso l’esterno. A volte scegliamo quali relazioni studiare
e osserviamo il mondo a cui danno origine, ma a volte facciamo il
contrario: pensiamo al mondo che vorremmo studiare e cerchiamo le
relazioni che serviranno a crearlo. Funziona un po’ come per gli
approcci interni ed esterni alla matematica, e alla vita in generale, in
cui possiamo scegliere un percorso e vedere dove ci porta, oppure
scegliere una destinazione e cercare un percorso per raggiungerla.
Se i due approcci coincidono significa che si è sulla buona strada, e
può essere molto soddisfacente, altrimenti bisognerà decidere quale
dei due ci interessa di più. Immaginate di voler visitare la Torre Eiffel
e di vedere all’improvviso una bella stradina laterale: svoltate e
rischiate di perdervi la Torre Eiffel o andate avanti e lasciate perdere
la stradina?
La matematica astratta è diversa dal mondo concreto, perché le
cose che cerchiamo possono essere anche sogni o mondi
immaginari.

Mondi immaginari
Un mondo di fantasia non è propriamente «reale» (qualunque cosa
significhi), ma può aiutarci a capire meglio il mondo reale intorno a
noi, proprio come le opere di narrativa (e per questo è importante
prendere sul serio l’arte interpretativa). Sognare il tipo di mondo che
desideriamo può aiutarci a fare luce sulle nostre convinzioni
fondamentali, oppure, aumentando lo zoom, sul tipo di vita che
vogliamo vivere. Alcuni sognano una ricchezza illimitata, vestiti
firmati, un jet privato o uno yacht, ma c’è anche chi, me inclusa,
sogna di aiutare gli altri a capire meglio le cose e a superare gli
svantaggi strutturali. Sono due scopi differenti, che richiedono
attività diverse per essere raggiunti. Tuttavia, provare a immaginare
cosa farei se fossi molto ricca mi ha permesso di fare chiarezza sui
miei principi. In questo modo sono riuscita a introdurre nella mia vita
dei cambiamenti che ritengo siano vantaggiosi sia per me che per il
mondo, anche se non sono ricchissima.
In matematica non importa soltanto trovare le risposte giuste, ma
anche sognare mondi alternativi in cui possono essere giuste
risposte diverse. Per esempio, i bambini (e gli adulti) spesso
chiedono se l’infinito è un numero. La risposta è che dipende da
quale mondo di numeri si considera. L’infinito non si trova nel nostro
mondo ordinario di numeri quotidiani, e se proviamo semplicemente
ad aggiungerlo «inventandolo» in modo ingenuo ci ritroviamo con
una miriade di contraddizioni e paradossi. Ma questo non significa
che è impossibile ideare mondi numerici alternativi che includano
l’infinito senza causare problemi.
Nella teoria delle categorie ci sono diversi modi di inventare mondi
alternativi. Possiamo decidere su che tipo di relazione focalizzarci e
osservare a che tipo mondo dà origine, ma anche scegliere che tipo
di mondo vorremmo e cercare le relazioni che serviranno a
generarlo. La ricerca della giustizia sociale, in qualunque sua forma,
può beneficiare di entrambi gli approcci, e in questo libro cercherò di
applicarli. Visualizzare la nostra utopia immaginaria può aiutarci a
capire quali sono le caratteristiche generali a cui teniamo di più e
quali passi ci porteranno a quella meta dalla nostra situazione
attuale. Ma possiamo anche aumentare lo zoom e concentrarci sul
tipo di interazioni che vorremmo fra le persone, per poi mettere
insieme queste caratteristiche locali e osservare la struttura globale
che ne emerge. A volte i problemi dipendono dal fatto che ci si fissa
sulle caratteristiche locali e si trascurano quelle globali che ne
risultano. È quello che succede, per esempio, quando si insiste per
giudicare le persone unicamente in base al rendimento (senza tenere
conto di possibili svantaggi come il genere, la razza o il background
socio-economico), trascurando il fatto che in questo modo si
cementa la già ridotta partecipazione di gruppi sociali svantaggiati.
Se un comportamento locale all’apparenza corretto dà luogo a effetti
globali ingiusti, dobbiamo chiederci quanto lo riteniamo importante e
fare una scelta consapevole, come con la Torre Eiffel e la bella
stradina laterale. Se invece i nostri sogni utopici e le riflessioni sui
problemi locali portano agli stessi risultati globali, tanto meglio. E
sono convinta che per la teoria che intendo proporre il caso sia
proprio questo.
Concluderò il libro esponendo il mio sogno di un mondo illuminato
da un modo nuovo di pensare al gender. Devo riconoscere che molti
sono costretti ad affrontare minacce più gravi e urgenti del sessismo,
ma ritengo comunque che sia un problema serio per il mondo,
nonostante il lavoro eccellente che è stato fatto da chi se ne è
occupato prima di me. E credo nell’importanza di fare la propria
parte, riconoscendo i nostri limiti e impegnandoci per costruire il
mondo in cui vorremmo vivere.
Vorrei un mondo più giusto, in cui le persone non vengono
ostacolate sulla base di caratteristiche che non dovrebbero essere
rilevanti. Penso che il genere sia troppo spesso un criterio di scelta,
anche quando non dovrebbe esserlo. Sogno un mondo utopico in cui
ci si concentrerà sui tratti caratteriali invece che sul genere, e in cui
smetteremo di associare le due cose, come è stato fatto nella storia
per tratti come la forza, l’ambizione, la sicurezza, l’empatia, la
gentilezza, le abilità comunicative. Non voglio vedere uomini e donne
competere in una lotta per il predominio. Non mi piace che tratti
caratteriali «mascolini» e «femminili» vengano messi a confronto in
un gioco a somma zero, in cui soltanto una parte può vincere e
l’altra deve perdere. Non voglio che le donne vengano incoraggiate
ad adeguarsi al tradizionale modello maschile se vogliono avere
successo. Ci sono altri modi di ottenerlo, modi che, a differenza di
quelli tradizionali, danno anche un contributo utile alla società.
Vorrei una discussione più coerente e soluzioni che uniscono
piuttosto che dividere, che evitano di separare gli uomini dalle donne
e di cancellare l’esistenza delle persone di genere non-binario. Il
mondo non è una dicotomia fra due generi, ne facciamo parte tutti.
Questo libro è il mio sogno su come usare il pensiero matematico
per costruire un mondo migliore e più giusto, ma anche una
proposta concreta dei primi passi necessari per realizzarlo.
Inizieremo in piccolo, arrivando gradualmente a comprendere e
riformare sempre più strutture difettose della nostra società.
Nella matematica bidimensionale disegniamo grafici nelle due
dimensioni x e y. Ma y non deve necessariamente essere
contrapposta a x: x e y possono essere sommate in modo da creare
una dimensione nuova e un nuovo modo di pensare.
2. Le difficoltà della differenza

Tra uomini e donne ci sono differenze innate? E se è così, una


disparità di trattamento è legittima?
Iniziamo analizzando queste due domande e, cosa ancora più
importante, gli argomenti addotti per motivare una risposta
affermativa. Esamineremo e confuteremo questi argomenti con gli
strumenti della matematica, dimostrando la debolezza delle
argomentazioni che suggeriscono che la disparità di genere sia
«nella natura delle cose». Ma alla fine non possiamo limitarci a
confutarle: se l’obiettivo è smettere di pensare alle differenze di
genere quando non sono rilevanti, e non farci coinvolgere in
discussioni utili soltanto a chi detiene il potere nella nostra società,
dobbiamo ripensare l’intero dibattito sul gender.
Perché ci ostiniamo a pensare in termini di differenze di genere?
Forse può essere utile riflettere su chi trae vantaggio da questa
situazione e chiedersi perché mai si faccia ricerca in questo campo.
Perché qualcuno dovrebbe voler dimostrare che ci sono differenze
innate fra uomini e donne in termini di intelligenza, abilità
scientifiche, competitività o altri tratti che sembrano garantire uno
status privilegiato nella nostra società? In generale una buona
ragione per restare aggrappati all’idea della capacità innata è avere
la scusa pronta per quando non siamo in grado di fare qualcosa. Se
dico che non ho alcuna attitudine per lo sport è per giustificare la
mia totale incapacità in qualsiasi attività motoria. Viceversa, quando
mi dicono che ho «talento» per il pianoforte è come se
disconoscessero le migliaia di ore di studio che gli ho dedicato.
Alcuni usano il fatto di essere «creativi» e di avere un emisfero
destro predominante come scusa per la loro disorganizzazione.
Oppure si vantano di essere «razionali» e con un emisfero sinistro
predominante per giustificare la loro insensibilità. (Il tutto
nonostante il fatto che la teoria degli emisferi cerebrali sia stata
ampiamente smentita.)
Un’altra ragione, più odiosa, per affermare che certi tratti sono
innati è sottrarsi alla responsabilità di aiutare gli altri a migliorarsi. È
un modo per non affrontare i nostri pregiudizi. Se in qualche modo
arriviamo a sostenere che le donne sono per natura meno intelligenti
degli uomini, allora possiamo fare a meno di affrontare i problemi di
disparità nell’istruzione, nella scienza, nell’economia, in politica e in
ogni grado di potere. Le differenze biologiche «innate» sono benzina
sul fuoco per chi cerca una motivazione pseudo-razionale per
mantenere strutture discriminatorie nei confronti delle donne.
Ma se questi argomenti si basano sulla biologia, cosa può fare la
matematica? Può fornirci una struttura per dare spiegazioni e
giudicarle. In altri termini, ci dà modo di stimare il valore di qualsiasi
opinione. Per questo può essere rilevante anche in ambiti che
sembrano molto poco «matematici». Sono convinta che qualunque
idea coinvolga qualche genere di giustificazione o dimostrazione,
possa essere analizzata matematicamente.
Una dimostrazione matematica è definita prova. Potete pensarla
come una specie di viaggio, con un punto di partenza, una
destinazione e un percorso per arrivare dal punto di partenza alla
destinazione attraverso una catena di deduzioni logiche. E quando si
tratta di valutarla ci concentriamo sul punto di partenza e sulle
deduzioni.
Inoltre, spesso in un viaggio l’importante non è raggiungere la
meta, ma anche cosa si può fare una volta arrivati. Talvolta, se per
esempio avete scalato una montagna, non vi resta che ammirare il
panorama e tornare indietro. Altre volte si arriva in una città ricca di
cultura in cui si può gironzolare, scoprire cose nuove e ampliare la
propria visione del mondo.
Useremo questo approccio per giudicare alcuni argomenti sulle
differenze di genere ed elaborare una teoria dei loro difetti. Questi
argomenti, tuttavia, non seguono il modello di una dimostrazione
matematica, quindi la prima cosa da fare è individuarne la struttura
logica (o meglio il tentativo di struttura logica) ed esprimerla in
modo più simile a una prova matematica, riducendola all’osso. In
matematica è fondamentale rimuovere gli strati superficiali di
un’argomentazione, che spesso ne celano la reale struttura, un po’
come in un gioco di prestigio. In questo modo diventa più facile
esporne i passaggi fallaci. Una delle ragioni per cui la matematica
utilizza le astrazioni e un linguaggio molto preciso è proprio lasciare
meno margine a questi depistaggi. Commettere errori di
ragionamento deve diventare difficile come nascondere un’arma in
una spiaggia di nudisti.

Caso studio
Una teoria che si sente spesso nei discorsi sulla disparità di genere
nelle scienze e in matematica ha a che fare con la classificazione
delle persone in base alla loro tendenza «sistematizzante» o
«empatizzante»:2
Il cervello degli uomini tende a essere più sistematizzante che
empatizzante. Sistematizzare è importante in matematica, quindi è
normale che ci siano più matematici che matematiche.

È un ragionamento che ricorda una serie di implicazioni semplici:

1. essere uomini implica essere più bravi a sistematizzare;


2. essere più bravi a sistematizzare implica essere più bravi in
matematica;
3. pertanto essere uomini implica essere più bravi in matematica.

Ora, se queste fossero implicazioni logiche valide, come quelle


utilizzate nelle dimostrazioni matematiche, la conclusione sarebbe
corretta. Questo perché la logica pura ci insegna che se sappiamo
che «X implica Y» e anche che «Y implica Z», allora è logicamente
valido concludere che «X implica Z». Anche le più complesse
dimostrazioni logiche si costruiscono a partire da queste semplici
deduzioni, un gradino alla volta, finché tutti i gradini non si
incastrano alla perfezione a formare una scala continua che porta dal
punto di partenza alla conclusione.
Nella situazione che abbiamo visto sopra, tuttavia, non abbiamo
implicazioni veramente logiche. Siamo di fronte a qualcosa di più
complesso. Il primo step è un’osservazione statistica, non
un’implicazione logica. È stato osservato che gli uomini, in media,
tendono a essere più bravi a sistematizzare che a empatizzare,
secondo una certa definizione di queste due abilità. Il passo
successivo, l’idea che sistematizzare sia importante in matematica,
ha uno status a metà fra un’ipotesi e un’osservazione. Sembra
logica, ma in realtà si basa su supposizioni sul vero significato di
«sistematizzare» e sulle abilità che dovrebbe avere un ricercatore in
matematica (e quindi non per chi, per esempio, è molto bravo a fare
i calcoli a mente o agli esami di matematica). Esistono studi
osservazionali a supporto di quest’ipotesi, è vero, ma così si
tornerebbe allo status di mera correlazione statistica.
Il fatto che queste siano osservazioni statistiche inoltre solleva
un’altra questione: siamo di fronte ad abilità innate negli uomini o
acquisite per effetto della cultura? Una catena di implicazioni più
onesta suggerirebbe:

1. è stato osservato statisticamente che gli uomini tendono a


essere più bravi a sistematizzare che a empatizzare, secondo
accezioni molto specifiche di questi due concetti;
2. è stata osservata una correlazione fra questa nozione di
sistematizzazione e il diventare matematici;
3. pertanto potremmo aspettarci che i matematici maschi siano più
numerosi.

È una conclusione piuttosto debole, che tuttavia riflette la debolezza


delle singole implicazioni. Non ci dice se il persistere dello squilibrio
di genere sia giusto o biologicamente inevitabile.
Basandomi su questo esempio, vorrei proporre una teoria generale
delle argomentazioni deboli legate al gender.
Una teoria delle argomentazioni deboli
Una fase importante del processo matematico è elaborare una teoria
generale che si applica a più di una situazione. Spesso questo
avviene con l’aiuto dell’astrazione, che rimuove i dettagli superficiali
per mettere a nudo la struttura essenziale di una situazione, che può
essere vista a sua volta come la struttura essenziale di altre
situazioni.
Prima ho usato le lettere X, Y e Z al posto di alcuni elementi delle
implicazioni proprio per focalizzarmi sulla loro struttura logica, che
non dipende da cosa X, Y e Z rappresentavano in quel caso
particolare.
Il mio scopo era mostrare come dovrebbe essere
un’argomentazione logica solida, per poter poi introdurre un esempio
generico di argomentazione fallace:

1. è stato osservato che in media gli uomini possiedono la qualità


Y, in alcune circostanze specifiche;
2. si ritiene, senza un solido fondamento, che la qualità Y sia utile
per l’attività Z;
3. «pertanto» gli uomini sono più bravi (o meno bravi) nell’attività
Z;
4. «pertanto» non è necessario intervenire per pareggiare lo
squilibrio nell’attività Z.

In questo libro ci focalizzeremo sul gender, ma vale la pena notare


che questa argomentazione generica è applicabile a molti altri ambiti
in cui ci sono problemi di disparità, come la razza, la ricchezza, il
background culturale, l’orientamento sessuale ecc. Un vantaggio
dell’astrazione è che ci permette di individuare connessioni fra
situazioni diverse da quella in esame.
Ad ogni modo, abbiamo visto come, attraverso una serie di
slittamenti minimi, l’argomentazione debole si trasforma in una
versione all’apparenza più stringente, ma in realtà priva di valore,
come nell’esempio citato sopra. «È statisticamente più probabile che
gli uomini siano più bravi a sistematizzare che a empatizzare» si
trasforma in «Essere uomini implica essere più bravi a sistematizzare
che a empatizzare», con tanto di deduzioni errate sulle statistiche.
La versione astratta è qualcosa del genere:

Abbiamo poi un altro slittamento che trasforma «È stato osservato


che gli uomini sono più bravi a sistematizzare» in «Gli uomini sono
per natura più bravi a sistematizzare», supponendo che si tratti di un
talento naturale e non acquisito per effetto della cultura. È il genere
di argomento ingannevole che consente ad alcune persone di
affermare che le differenze di genere sono biologiche e di
conseguenza non dipendono da una forma di discriminazione. La
versione astratta è:

E infine abbiamo lo slittamento di significato che trasforma «Gli


uomini sono più bravi a sistematizzare» in «Gli uomini sono più bravi
in matematica», dove la caratteristica che è stata (presumibilmente)
misurata viene presa come indicatore di qualcosa di molto più
difficile da misurare. La versione astratta sarebbe:
dove Y è stata scambiata con Z senza giustificazioni e senza troppi
complimenti. Sono tre slittamenti discreti che, se combinati,
indeboliscono notevolmente una teoria con forzature che si notano a
malapena. Se partiamo dalla punta del diagramma successivo e
seguiamo la freccia, potremmo sostenere di procedere secondo
logica, ma in realtà ogni volta che ci spostiamo lungo una freccia
l’argomentazione diventa più debole.
La generalità di questa teoria la rende applicabile a una vasta
gamma di esempi legati alla disparità di genere. In matematica una
teoria viene giudicata sulla base dell’ampiezza degli esempi che
riesce a unificare e del grado di chiarezza che apporta a quegli
esempi. Dopo aver elaborato una teoria matematica, dunque, la
mettiamo alla prova testandola su altri esempi. Possiamo provare ad
applicare la nostra a un altro argomento usato per giustificare le
disparità di genere in ambito accademico, stavolta in fisica:3

1. gli uomini hanno più citazioni accademiche delle donne in fisica;


2. le citazioni sono una misura di quanto si è bravi in fisica;
3. pertanto gli uomini sono più bravi delle donne in fisica;
4. pertanto è giusto che ci siano più uomini che donne in fisica.

Il primo punto è abbastanza ben documentato. La seconda


affermazione, invece, più che uno slittamento di significato è un vero
e proprio salto logico. La conclusione per cui «gli uomini sono più
bravi delle donne in fisica» potrebbe anche essere vera –
statisticamente, se intendessimo «essere più bravi in fisica» come
sinonimo di «avere più successo nel proporre e far progredire teorie»
– ma dedurne che sia anche giusto è un altro salto logico
ingiustificato: gli uomini potrebbero avere più successo perché il
mondo li avvantaggia ingiustamente. In questo caso i problemi sono
più legati alle conclusioni che a supposizioni trasformate in fatti. Ci
occuperemo delle questioni relative alla sezione in basso a destra del
diagramma precedente nel prossimo capitolo, mentre nel resto di
questo ci focalizzeremo sulla sezione in alto a sinistra: la parte che
dovrebbe dimostrarci che esistono differenze innate fra uomini e
donne.
C’è una forte percezione delle differenze tra uomini e donne, il che
è comprensibile, perché alcune differenze fisiche generiche sono
piuttosto ovvie. Qui affronteremo i problemi che si originano quando
si prendono troppo sul serio o se ne traggono conclusioni
ingiustificate. Invece di chiederci se le differenze di genere sono o
meno innate, sarebbe più produttivo domandarsi in che senso e fino
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went into effect. I did not propose to put myself in the shape of a
criminal.”[56]
It may be a matter of surprise to many that even one man of this
kind could be found in Chicago. If such virtue were prevalent the
enforcement of law would be easy. Mr. Douseman says that for 6
months after the Interstate Law was passed no rebates were paid;
everybody was on an equality. “After the first six months, rebates
began to be given. At the end of the first year they were quite
frequent, and they have continued ever since. Prior to 1887 the only
time when rates were absolutely solid, when every one was on the
same basis, was when the Vanderbilts were trying to bankrupt the
West Shore road, and rates were down to 12 cents in New York.
Everybody then, as I understand, had the same rates.”
The condition of things in 1890 is shown by the reported
statement of a Chicago railroad manager quoted by the Commission.
“The situation in the West is so bad that it could hardly be worse.
Rates are absolutely demoralized, and neither shippers, passengers,
railways, nor the public in general make anything by this state of
affairs. Take passenger rates for instance; they are very low; but who
benefits by the reduction? No one but the scalpers.... In freight
matters the case is just the same. Certain shippers are allowed heavy
rebates, while others are made to pay full rates.... The management is
dishonest on all sides, and there is not a road in the country that can
be accused of living up to the Interstate Law. Of course when some
poor devil comes along and wants a pass to save him from starvation,
he has several clauses of the Interstate Act read to him; but when a
rich shipper wants a pass, why, he gets it at once.”[57]
Complaints and investigations from time to time in subsequent
years showed the continuance of these conditions. For one concern a
large number of cars of corn were carried from Kansas City to St.
Louis at 6 cents per hundred lbs. while the tariff was 15 cents.[58] In
the traffic to Chicago one firm shipped all the grain over one road,
and another firm “had the rate” on another line. It was clear that
these shippers had advantages that enabled them to keep other
shippers out of the field.[59]
A wholesale grocery house getting 25 percent rebate on its
shipments established branches in various cities. Through a
disagreement with one of the railroads that thought it was not
getting its share of the business, the rebate enjoyed by one of the
branches was withdrawn, and the branch in that city went out of
business. A leading dry-goods firm declared that so long as it secured
a rebate of 25 percent it had no objection to existing methods of rate-
making.[60]
The International Coal Company declared, in a suit against the
Pennsylvania Railroad for damages, that it was driven out of
business by discrimination, its rival receiving rebates of 20 cents per
ton in 1898–9 and 10 cents per ton in 1899–1900.
The railroads show a disposition to back each other in disregarding
the law. Mr. McCabe, traffic manager for the Pennsylvania lines west
of Pittsburg, said the Pennsylvania system would stand by any rate
made by its connecting lines.[61]
CHAPTER IX.
SUBSTITUTES FOR REBATES.

Numerous substitutes for the direct rebate were used. In some


cases $10 a car was paid on shipments of flour from the Northwest
under pretence of paying for the cost of loading the car above the
minimum weight.[62] Railroads paid 50 cents for the loading of each
private stock car, and ¾ of a cent for every mile the car was hauled,
loaded or empty. Yardage was also paid to the car-line for keeping
the cattle in its charge in its own yards, at the rate of 3½ cents per
hundred lbs. for all cattle hauled to its yards. “The amount of these
rebates,” said the Commission, “more than pays the entire cost of the
improved stock cars within 2 years, besides covering operating
expenses.”[63]
Twenty-six railroad companies operating in the territory extending
in different directions from Chicago, and engaged in the business in
which discriminations by allowances of car-mileage were supposed
to exist, were summoned to make a showing of the allowances paid
by each of them for car-mileage for the different classes of cars
furnished by shippers, car companies, and individuals, or connecting
lines. A single railroad company paid car-mileage to 65 different
companies or firms owning cars, of which number 54 were shippers
and the rest fast freights. The Commission found that the mileage
paid on private cars yielded a profit in many cases of 25 percent, 50
percent, and even more.
“The rates allowed for car-mileage were shown to be as follows:
For ordinary freight cars, a uniform rate of ¾ of a cent a mile; for
Pullman palace cars, 3 cents a mile; for Pullman tourist sleepers, 1
cent a mile; for ordinary passenger cars exchanged with other
companies, 3 cents a mile; for baggage, mail, and express cars
exchanged with other companies, 1½ cents a mile by some roads,
and 3 cents a mile by others; for refrigerator cars used for carrying
dressed beef, 1 cent a mile in some cases, and in other cases ¾ of a
cent a mile; for furniture cars, oil-tank cars, palace live-stock cars,
and other cars owned by private individuals and companies, ¾ of a
cent a mile. Some companies pay mileage on tank cars both loaded
and empty, and some only when loaded. For palace horse-cars no
mileage is allowed on some roads, shippers in such cars paying for
the car.
“The cost of the investment in cars, and the amount of mileage
allowed for their use, show that the investment is very profitable.
Refrigerator cars cost from $900 to $1000; private cattle-cars cost
about $650; oil-tank cars about $610; cars used for the
transportation of live hogs about $500; ordinary freight cars from
$450 to $500. Repairs on the cars are made by the railroad company
in whose use they are when repairs are required. The life of a box car
averages 15 years, and of a refrigerator car 8 years.”[64]
“Private cars,” owned by the railroads but chartered for private
use, were the subject of discrimination of another kind. For example,
a commercial salesman travelled with his assistant over the Northern
Pacific in a private car stocked with samples. For the first trip he paid
15 round-trip fares between St. Paul and Portland, but for
subsequent trips the road charged 15 local fares from point to point
where stoppages were made. As theatrical and other parties in
private cars were usually carried for 15 round-trip fares it was alleged
to be unfair to charge the drummer local rates.[65]
Terminal charges for delivery at certain places were made a means
of discrimination.[66] Free cartage for some shippers and not for
others,[67] or for one town and not for another, gave a decided
advantage to the favored shippers.
To get the business of B., a Pittsburg dealer in beer, the B. & O.,
with the approval of Wight, one of its general officers, gave B. 3½
cents per hundred for hauling his own beer from the station, while
K., another beer dealer there, received no such concession, but paid
the same freight rates and hauled his beer at his own expense. Wight
was indicted and convicted before the district court for violation of
Section 2 of the Interstate Act, and the United States Supreme Court
sustained the decision in 167 U. S. 512, May, 1897, holding that the
cartage allowance in one case and not in the other was a
discrimination under the 2d section of the Commerce Act.
In Grand Rapids, Michigan, free cartage had been in vogue for 25
years, but in Ionia, near by, no free cartage was afforded by the
railroads, although the station was nearer the centre or main delivery
area of the city than in Grand Rapids. This had the effect of a
discrimination against the merchants of Ionia amounting to about 2
cents per hundred lbs.[68]
In June, 1889, the Commission asked most of the leading roads,
585 in number, for information about free cartage delivery. From the
answers it appears “that 65 railroads allowed free cartage delivery or
equalizing cartage allowances, and 389 railroads do neither; 200
companies only switch cars over to mills and manufacturers. No
company furnishes free cartage delivery at all stations, but as a rule,
only at a few stations. The estimated cost of free cartage delivery will
average about 2½ cents per hundred pounds. Where an allowance is
made for switching or for equalizing distances from shippers, the
average cost is about $2 per car or $2.50.”[69]
Denial of the stoppage-in-transit privilege at one locality while
allowing it to others is unlawful.[70] Differences in the time allowed
for unloading may amount to a substantial preference. At
Philadelphia 96 hours was allowed for unloading, against 72 hours at
interior points, for coal, coke, or iron, and 48 hours for other goods.
With demurrage charges of $1 for each day’s delay in unloading
beyond the allotted time, the difference between 48 and 96 hours
would mean $2 a car.[71]
Free storage is another method of favoritism, sometimes used
systematically and extensively, as described by the Commission. “A
shipper sends a carload of freight to a specific destination consigned
to his order by arrangement with the carrier. The freight is kept in
the car or freight house or some warehouse which the carrier
controls, and on orders of the shipper or his agent issued from time
to time the freight is delivered in small lots to designated persons.
These persons are the actual consignees, and the shipper is enabled
by this means to avoid paying the higher less-than-carload rate and
to reap other advantages through this privilege of storage. Such
special facilities as storage, handling, cartage, distribution, and
reshipment of less quantities, either without charge or at extremely
low compensation for the character of the service, amounted
substantially to providing a shipper with branch business houses.”[72]
Overbilling and underbilling have been found to be very
convenient substitutes for the rebate. A bill of lading may
acknowledge the receipt of 70 barrels of flour; 65 only are shipped,
and the railway pays damages for the loss of the 5 non-existent
barrels. On the other hand railroads have been known to suggest to
millers that they ship flour on the generous plan of shipping 200
barrels and billing 125.[73] Some shippers have been allowed to ship
only 4 boxes of peaches to the hundred lbs., while others were
permitted to ship 6 boxes to the hundred lbs. “That is the billing.
Sometimes peaches are billed 4 boxes to the hundred lbs. to one
point, and 6 boxes to the hundred lbs. to a point 350 miles farther
on.”[74] At another time the cashier of an important firm is made a
nominal agent for the railway company, and under the name of
commission to him an enormous rebate is allowed for all the
business his employers send over the line. Or again, the railway
company purchases from a favored trader its supplies of the goods in
which he deals, at a fancy price.
The “expense bill system” has proved to be an instrument of
preference and fraud. On presentation of an “expense bill” showing
payment for shipments into Kansas City the railroads would allow
reshipment of an equal weight from Kansas City to Chicago at the
balance of the through rate from the point of origin to Chicago.[75]
This gave grain from the West an advantage over grain grown near
Kansas City. When the rate from Kansas City to Chicago was 20 cents
on wheat and 17 cents on corn the grain carried on the balance of the
through rate under the expense bill system was carried 8 to 10 cents
less than grain grown in Missouri and Iowa.[76]
Not satisfied with the discounts obtained on actual expense bills,
shippers altered bills and forged new ones to enlarge their traffic at
the cut rates. In this way “expense bills showing a high balance were
constantly substituted for those showing a low balance.”[77]
Rebate equivalents were given in the form of elevator rebates and
allowances. Elevators owned or controlled by railroad companies
were leased at nominal charges to favored shippers, or secret
commissions were paid to favored parties for all grain consigned to
specified elevators. One railroad for example paid a concern, holding
a line of elevators on the railroad, 1¼ cents per 100 on all grain
consigned to those elevators.[78]
In this case the consignment was 150 cars a day from November to
May, averaging 32,000 to 34,000 lbs. a car. The commissions
therefore amounted to $4 a car, $600 a day, $120,000 a year.
The United States Industrial Commission says, under the head of
“Freight discriminations and allowances to elevators:” “On each of
the leading railways from grain-producing sections to Chicago,
allowances, ranging from one-half to 1½ cents per bushel, are made
on grain to one or two favored firms.... The favored elevators are thus
enabled to pay higher prices for grain. The average profit in handling
grain is less than 1½ cents per bushel, and smaller buyers can thus
easily be driven out of business.... The small shipper being driven out
of business, the large dealer is then in a position to depress the price
of grain to the producer.”[79]
The railroads deny equal rights in the building of elevators. A
railroad which had granted the right for two elevators at Elmwood on
the company’s right of way refused to give H. & Co. the same
privilege. The State Board of Transportation ordered the railroad to
discontinue the discrimination against H. & Co., and give them the
same privileges as others. But the United States Supreme Court held
that the road could not be forced to grant its property for private use.
[80]

One method of discrimination I learned of in the West a few years


ago is not adequately described in any report.[81]
The head of a road running into Chicago from Missouri River
points formed a grain company to buy grain in Kansas City and sell it
in Chicago. The railway guaranteed the grain company against loss.
When wheat was 50 cents in Kansas City and 60 cents in Chicago,
the grain company paid 51 cents in Kansas City to get the grain. The
railroad charged the regular 10 cent tariff. The grain was sold at 60.
The railroad paid back 1 cent on the guarantee and still made 9 cents.
And the railroad-grain-company-combine was able to drive other
buyers out of the market and other railroads out of the traffic. The
Santa Fe, for example, carried 28 percent of the grain going into
Kansas City, but only hauled 3 percent out to Chicago.
Railroads sometimes seek to evade the law by contracting to
deliver goods at a certain price including the freight and the payment
for the goods in one lump sum, so that the freight charge is merged
and cannot be ascertained. Nine years ago, in 1896, the Chesapeake
and Ohio Railroad contracted with the New York, New Haven and
Hartford to deliver 2,000,000 tons of coal at New Haven at $2.75 a
ton. The published freight rate at that time was $1.15 and the price of
the coal at the mines $2 a ton. The Interstate Commerce Commission
held that this was a discrimination by the Chesapeake and Ohio
Railroad against every independent mine owner in its territory, and
that the railroad had no right to contract to sell coal at any price. The
Federal Court sustained this view, and it is stated that the
Department of Justice will ask the Supreme Court for a blanket
injunction against the two railroads, restraining them from carrying
freight at less than the published rates. It is said that J. Pierpont
Morgan guaranteed that the Chesapeake and Ohio would perform
the contract.
Action against an individual or company is quite as effective a
form of discrimination as action in favor of a rival. Shippers at a
certain place on the Chicago and Northwestern were handicapped by
refusal of through rates on asbestos, compelling them to pay higher
rates than their competitors.[82] A Southern railroad charged the
Bigby Packet Company a much higher rate on cotton from Mobile to
New Orleans than the established rate on local shipments of cotton,
in order to discourage shipments by way of the Packet Company
from the point of origin in Alabama, and compel the cotton to travel
all the way by rail.[83]
CHAPTER X.
DENIAL OF FAIR FACILITIES.

The refusal to furnish cars in fair proportion is a familiar form of


discrimination all through this period, usually in combination with
other forms of preference. In Kansas, on the line of the St. Louis and
San Francisco Railway, were two coal companies whose plants were
of about equal capacity, and several individual shippers. The railway
and its officials became interested in one of the coal companies, and
by rebate and other process it was given rates which averaged only
forty percent of the rates charged other shippers. The result was that
all the other shippers were driven out of business, part of them being
hopelessly ruined before giving up the struggle. In addition to rate
discrimination the railway practised gross favoritism in the
distribution of cars. For example, during one period of 564 days, as
was proven in court, the road delivered to the Pittsburg Coal
Company 2,371 empty cars to be loaded with coal, although such
company had sale for, and capacity to produce and load, during the
same period, more than 15,000 cars. During the same time this
railway company delivered to the Rogers Coal Company, in which the
railway company and C. W. Rogers, its vice-president and general
manager, were interested, no less than 15,483 coal cars, while 466
were delivered to individual shippers. In other words, the coal
company owned in large part by the railway and its officials, was
given 82 percent of all the facilities to get coal to market, although
the other shippers had much greater combined capacity than the
Rogers Coal Company.
During the last four months of the period named, and when the
Pittsburg Coal Company had the plant, force, and capacity to load
thirty cars per day, they received an average of one and one-fourth
cars per day, resulting as was intended, in the utter ruin of a
prosperous business and the involuntary sale of the property, while
the railway coal company, the railway officials, and the
accommodating friends who operated the Rogers Coal Company,
made vast sums of money; and when all other shippers had thus
been driven off the line the price of coal was advanced to the
consumer.
Another railway interested in a coal mine furnished cars in
abundance to that mine and to others that would sell their product to
the mining company in which the railway was interested, but
systematically failed to furnish cars to other operators.[84] One
operator, after being forced for years in this way to sell his product to
the railway mining company at a very low price, was obliged to build
a railway of his own in order to reach other lines of railroad and so
have a fighting chance for cars.
In Arkansas a coal mine owned by the Gould interests was able to
ship its product to market at very low rates, while the owners of an
adjoining mine were forced to haul their coal to the same market in
wagons because the rates charged them from the coal railway were so
high as to absorb the whole value of the coal at destination.
A big capitalist in the West got hold of great oil fields on the Pacific
slope, wonderful prospects, contracts to supply big cities, etc. Some
one told him he had better see the railroads before he made his
contracts. He thought the transportation question would be all right
and went ahead. When he got his contracts made and wanted to ship
the oil, he asked for cars, and then he found the transportation
question was not all right. He could not get the cars.
Sometimes a railroad has arbitrarily refused to haul goods to
certain consignees. A case of this kind came before the Texas Railway
Commission in the case of the Independent Compress v. Chicago,
Rock Island and Texas Railway Company. The Bowie Compress,
located at the same station with the Independent, had some sort of
pull which caused the railroad to refuse to haul cotton to that station
unless consigned to the Bowie Compress. The railway also allowed
compression charges out of the through rate on cotton shipped to the
Bowie Compress, refused freight from points of origin, and reshipped
the cotton from the Bowie press at through rates, while refusing such
concessions to others.[85]
The refusal to deliver at a certain place may be as effective
sometimes as the refusal to deliver at all. When in 1890 Mr. Nelson
Morris tried to establish competitive stock yards in Chicago to get rid
of the graft of the Union Stock Yards owned largely by railway
interests, the Vanderbilts being in the lead, his enterprise was loudly
applauded by the stock raisers of the West; but the railroads made
short work of Morris. They simply refused to deliver to his yards the
cars shipped there. They did not recognize any such place as the
Morris yards and calmly hauled all cars to the old terminal. If Mr.
Morris wanted them he must come and get them and pay switching
charges. This ruined the venture.
Big shippers may be given an undue advantage by excessive
difference between the rates on carloads and less than carloads.[86]
On June 29, 1898, the Western railroads advanced their less-than-
carload rates to the Pacific Coast to a minimum difference of 50
cents a cwt. above the carload rate; and “on a great many
commodities the difference is greater than the profit on the
goods.”[87] The Interstate Commission regards a moderate reduction
on carload shipments as fair, but will not sanction lower rates for
cargo or train-load quantities than for carloads.[88]
CHAPTER XI.
CLASSIFICATION AND COMMODITY RATES.

Classification and commodity rates afford many examples of


discrimination in the period we are studying. We find furs and fur
scraps classed as double first-class, while hats and fancy products,
for which these commodities constitute raw material, were first-
class.[89] Celery was classed with peaches and grapes, instead of with
cauliflower and asparagus, lettuce and peas.[90] The charge for beans
and peas (70 cents) was almost double the charge on tomatoes (44
cents).[91] Flour for export was carried at much lower rates than
wheat. Before 1886 wheat was carried from Texas, Missouri, and
Kansas at 15 cents per hundred lbs. less than flour, without regard to
distance. From 1886 to the end of this middle period the rates on
wheat for export show a difference of 4 to 11 cents per hundred below
the rates on flour. As the profit to American millers on flour for
export is from 1 to 3 cents per hundred it is clear that such
discrimination is prohibitive upon American millers in favor of
English and other foreign millers. The public policy and good railway
policy seem to require the same rate on export wheat and export
flour.[92] Corn was carried between Kansas points and Texas points
for 7 cents per hundred less than corn meal,—a strong discrimination
against Kansas millers.[93] The Eastern railways also carried corn at
lower rates than corn meal to Eastern mills, and carried the meal,
hominy, ground corn, etc., back to Indiana. This gave the railways
more traffic, but it was a tremendous waste of industrial force and
injured the Western mills, since a discrimination of 5 percent was
sufficient to eat up three or four times the profit of any miller.
The Southern Railway put soap in the sixth class with a rate of 49
cents a hundred, or 33 cents when shipped by large manufacturers,
while Pearline was put in the fourth class with a rate of 73 cents a
hundred. Pearline and soap are competitors. There is no appreciable
difference in the cost of transportation. But Pearline commands a
higher price, so the railways charged more than double the rate they
got for soap from the manufacturers. In another case brought before
the Commission in 1889, soap in carload lots was put in class V,
while sugar, cerealine, cracked wheat, starch, rice, coffee, pickles,
etc., were in class VI. One make of soap was put by many railroads in
the second class, while other soaps of similar use and value were in
the fourth class.[94]
One of the strangest anomalies of classification is the rating of
patent medicines as first-class, while ale and beer are third class. In a
complaint on the latter score by a prominent manufacturer of patent
medicines against the New York Central and other railroads, it was
shown that the medicines were similar in bulk and intrinsic value to
the liquors, and it is possible that the similarity went much farther
than this.
Blocks intended for wagon-hubs took one rate on the Lake Shore
and Michigan Southern and boards for wagon boxes another rate.
Railroad ties have been charged a higher rate than lumber. A high
rate on railroad ties prevents their being shipped and depreciates
their value at home, so that the discriminating company is able to
buy them at a low price.
The Union Pacific years ago made prohibitory rates on steel rails in
order to hinder or prevent the construction of a road that promised
to become a competitor of one of the Union Pacific’s connecting
lines. Prohibitory rates on rails, ties, etc., have often been maintained
to obstruct the building of competing lines, and to render them more
costly.
CHAPTER XII.
OIL AND BEEF.

Oil in Standard hands continued to receive favorable attention


from the railroads throughout the middle period. The Combine was
preferred by an “unreasonable mileage” payment of ¾ of a cent a
mile on its tank cars, loaded or empty,[95] while others who attempted
to ship in tank cars had to pay mileage to the railroads for the return
of their empties; by practically compelling independents to ship in
barrels, and charging for the weight of the barrel; and by making an
arbitrary allowance of 42 gallons for leakage on tank shipments with
no allowance for waste in barrel shipments.[96]
The Commission held it unjust to allow for leakage on tank
shipments and not on barrel shipments; that the weight of the barrel
must not be charged for if the weight of the tank is not, the same
quantity of oil must have the same rate no matter what the package
might be, unless the shippers were offered facilities for shipment by
tank as well as barrels so that the option was theirs. The
representative of the oil combination was questioned by the
Interstate Commerce Commissioners, in relation to the mileage, etc.
“Are you allowed mileage on tank cars?”
“No, sir.”
“Neither way?”
“Neither way.”
But the railroad officials in this case refused to commit oil-perjury.
Asked what mileage they paid the Combine they replied: “Three-
quarters of a cent a mile.”
When Rice asked what the railroads would charge him for bringing
back his empty cars if he shipped in tanks, he was told he would have
to pay 1½ cents or more a mile. He found that if he tried to sell his
oil in California it would cost him $95 to get the empty tank car back,
while the railroads paid the Standard for the privilege of hauling its
empties back. Rice saw that from the South he could get return loads
of turpentine, but the railroads absolutely refused to give him rates.
[97]

Besides all this the Standard was accorded the privilege of


systematic underbilling. According to the testimony before the
Commission in 1898 by the Boston & Albany agent in East Boston,
the centre of the Standard Oil business in New England, the
Combine’s tank cars, which usually weigh from 35,000 to 50,000
lbs., were ordinarily billed at 24,000 lbs. Out of 14 cars sent over
another road from East Boston to Newport, R. I., at least half were
billed and paid for on the basis of 24,000 lbs. to the car, although
their average weight was shown to be 48,550 lbs. per car. It was
claimed that these underbillings were clerical errors. In considering
the motives and reliability of such a claim we must not forget the
curious habit shown by these clerical errors of piling up in great
bunches in the Standard Oil business, and the still more curious fact
that all the errors are in favor of the Trust—none against it. Long
before the Commission had found that the railroads leading from the
oil fields were in the habit of “blind billing” the Standard cars at
20,000 lbs., though the actual weight was frequently 30,000,
40,000, 44,000 or more.[98] Rice complained of this to the
Commission in July, 1887. Immediately all the old numbers on the
3000 tank cars of the Oil Trust were painted out and new numbers
painted on, so that the cars mentioned in the railroad accounts could
no longer be identified with the cars on the tracks.[99] The Standard
has some very oily ways, and knows how to use a pot of paint and a
brush as well as a rebate.
The Standard desired to fix the rates on oil to New England, the
South, and the West, and as usual the railroads let it have its way.
The result was a practice of adding the Boston rate to the local rate
on shipments of oil into New England, which puts the independent
refiners at a great disadvantage. The rate on corn from Cleveland to
Boston is 15 cents per hundred lbs., and to New Haven the same, but
the rate on petroleum from Cleveland to Boston is 24 cents, and to
New Haven it is the Boston rate, 24 cents, plus the local rate, or a
total of 36 cents from Cleveland to New Haven. Now the Standard
Oil has got large warehouses in East Boston, and they bring their oil
by boat and store it there, and then they get the freight rates simply
from Boston down to the Connecticut point, whereas the Western
refiner who has no storehouse has to pay first the Boston rate, and
then this local rate also to the other point, even though the oil may go
direct, so that the rates are practically prohibitive to the Western
refiners.[100]
To shut out the oil fields and independent refineries of Colorado
and Wyoming, the Standard resorted to terrific discrimination in
rates. The Chicago and Northwestern Road would bring a carload of
cattle from Wyoming to Chicago for $105, but for a car of 75 barrels
of oil the freight was lifted to $348. The rates from the Western fields
to San Francisco were also put very high, and the Standard built
great storehouses on the Pacific Coast, which it fills from the Eastern
fields, the freight rates from the East being suddenly lowered when it
wishes to refill the said storehouses, and put back again as soon as
they are full. The people of California are compelled to buy Eastern
oil for the profit of the Trust, instead of buying Colorado oil, because
the freight on the latter is prohibitive.
Aside from these sudden fainting spells of the oil tariff at
convenient seasons for the Standard, the ordinary arrangements
showed thoughtful care for its comfort. The regular rate on oil from
the Colorado oil wells to the Pacific Coast was made 96 cents per
hundred, while the rate from Chicago through Colorado is only 78½
cents per hundred.[101]
The Chicago pork-packers generally had things their own way in
this period, but apparently not always. In 1890 the Commission
decided that the railroads were discriminating against the Chicago
packers by lower rates from the Missouri River on hog products than
on live hogs.[102] Even then, however, they were receiving rebates
from the railroads which made questions of tariff rates comparatively
insignificant.
In 1891 the Federal Grand Jury indicted Swift & Co., the Chicago
packers, for having received $5,000 a month in rebates from one
road alone, the Nickel Plate. Compared to the train loads of their cars
passing east and west on other lines, their traffic on the Nickel Plate
was light.
In his testimony to the Senate Committee this spring, Mr. Davis
said: “A few years ago one of the Chicago packers was a director on a
Western railroad. He was a large receiver of live-stock from Kansas
City, upon which the freight rate was $54 per car. A rebate of $25
was paid to the packer at the time of shipment, and it was the custom
to file claims for the remaining $29, which were allowed on the
grounds of some imaginary loss or damage to the stock in transit.
The same party paid rebates amounting to from $30,000 to $50,000
a month for every month in the year. On putting down on a piece of
paper the amount of $10,000, and after placing this under the eyes
of a superior officer, he would leave and subsequently look for that
amount in currency by express, and would then proceed to divide it
among certain favored shippers.”[103]
A few years ago, in proceedings before Judge Grosscup of Chicago,
it appeared that while the published rate on packing-house products
was 23½ cents, the favored packers were given a rate as low as 15
cents.
Investigations by the Commission in December, 1901, and
January, 1902, took the lid off of the dressed-meat business and
discovered a large congregation of secret rebates. The Pennsylvania
system was cutting the rate on packing-house products 5 to 7 cents
below the published rate, making it 25 cents and sometimes 22 cents,
in place of 30 cents, from Chicago to New York. Rates from
Indianapolis, Cincinnati, and other points were also cut.[104]
The examination brought out the fact that President Cassatt and
other officers above the traffic manager knew what he was doing and
authorized or permitted the rate cutting.[105]
“Commissioner Clements. Who takes the responsibility for doing
these things, for making these serious departures and cuts, in regard
to the Pennsylvania Railroad? Is it you? Do you do it without any
authority from the officers of that road above you, or do you have
their approval of it?
“Mr. McCabe. I am in charge of the freight traffic, and I do the
best I can under the circumstances.
“Commissioner Clements. Do you act independently of them, or
do you have to have their approval?
“Mr. McCabe. I assume to do what I think is proper, being
governed by the competitive conditions.
“Commissioner Clements. Do you have reason to know that the
officers above you in the management of that company’s affairs knew
of it?
“Mr. McCabe. Not in detail.
“Commissioner Clements. I do not mean the details. I could have
answered that myself. But as to the general fact that the
Pennsylvania Railroad was cutting the rate in this serious way, was it
known to the president of that company and other officers?
“Mr. McCabe. I do not know.
“Commissioner Clements. Have you ever had any conference
with the officers above you in the management of that company’s
affairs in which you disclosed this condition of things?
“Mr. McCabe. I have said to them from time to time that rate
conditions were so and so; that rates were not being maintained, and
that our competitors were cutting the rates.
“Commissioner Clements. And that you must cut the rates? Did
they sanction it, or approve it, or tell you to stop it?
“Mr. McCabe. I think they left it to my discretion.”
The Big Four, a Vanderbilt line, cut rates 6 cents below the 30 cent
tariff from St. Louis.[106]
Mr. Mitchell, traffic manager of the Michigan Central, says his
road carried dressed meats at 40 cents, or 5 cents below the
published rate.
“Chairman of the Commission. Did you carry any considerable
amount of dressed meats during 1901 that paid the tariff rate?
“Mitchell. I think not.
“Chairman. Practically all of it went at some secret rate?
“Mitchell. Yes, sir.”
This man thought his road paid the four Beef Trust houses
$200,000 or $240,000 a year in rebates.[107]
Mr. Mitchell said rebates were paid indirectly by means of bank
drafts. The railroad makes a deposit in bank. The traffic manager
checks against it, and the bank supplies drafts on New York or
cashier’s checks which are sent to the persons who are to receive
rebates.[108]
The railroads try to be good sometimes, make New Year’s
resolutions, and stop the rebates; but some naughty boy breaks his
vows in two or three weeks, and then the rest follow suit. Here is the
testimony of a Western traffic manager on this point.[109]
“Commissioner. What proportion of the traffic (in provisions)
have you carried at the tariff rate?
“Traffic Manager. It was a very small proportion of the total, and
it was probably along about the first of last year.
“Commissioner. You are accustomed to indulge in New Year’s
resolutions?
“Manager. Yes, sir; we all swear off on New Year’s, and begin
again.
“Commissioner. Is it a fact that from Jan. 1, 1901, there was a
period when the tariff rate (on provisions) was actually applied by all
the roads?
“Manager. Yes, sir; I think it was.
“Commissioner. How long did it last?
“Manager. I think it lasted probably two weeks.
“Commissioner. What led you, then, to cut your rate through St.
Louis?
“Manager. Our agent in Kansas City discovered about January 20
that provisions were moving through Chicago at less than tariff rate.”
The Commission found that all the railroads made low rates for
the Beef Trust, but they could not find any railroad that led off in the
business of cutting rates. Each one said it cut rates because it found
the others were cutting. They were all followers.[110]
The Chairman of the Commission said to the Vanderbilt traffic
man: “I observed that you spoke of your road as following the others.
“Mr. Cost. Yes, sir.
“The Chairman. I have heard a similar statement from other
gentlemen. Have you any idea who is the leader?
“Mr. Cost. No; I have not. I could not give you that information.
“The Chairman. You have never heard of the leader?
“Mr. Cost. No, sir.
“The Chairman. They are all followers.
“Mr. Cost. That does really seem to be the case.”
Mr. Grammer, general traffic manager of the Lake Shore, testified
in 1902 in respect to “provisions,” cut meats, lard, etc., from Chicago
to New York: “The minimum weight on a car of provisions is 28,000
lbs. The rate is 25 cents. That is about the maximum rate obtained
this last year, 1901, and that means $70 a car. We pay out of that to
the stockyards $2.40 a car for switching, we pay $15 car-mileage for
a round trip of the car, and at New York we pay 3 cents a hundred
lighterage; that is, $2.40 and $15, $17.40, and $8.40—$25.80 which
we pay out of that rate as absolute arbitraries. That leaves the Lake
Shore $16 or $17 net for hauling that car to Buffalo, with the return
car empty, and we have to give practically passenger service to that
traffic. I think it is unremunerative business, and I have always taken
the position that we do not want any provisions on the Lake Shore
road at less than the full tariff rate, whatever that might be. The
dressed-beef minimum will average 22,000 lbs. That car is subject to
the same arbitraries and mileage. The lighterage is 3 cents a
hundred, which would be $6.60 instead of $8.40, and it is subject to
the same service eastbound and westbound as to movement; and
there is not 1 percent of those cars loaded east with dressed beef that
are loaded with any freight coming west.” In spite of the
unremunerative character of the business Manager Grammer says
they cut the rate 5 cents a hundred.[111]
Mr. Paul Morton, at the head of the traffic department of the Santa
Fe, testified in 1902[112] that his road carried dressed meats and
packing-house products below the published rates in violation of law.
“Mr. Morton. We have carried the business from Kansas City to
Chicago for 5 cents less than the published tariff to Chicago and
Chicago junction points.
“Mr. Day. Domestic as well as export?
“Mr. Morton. Both.”
“The Santa Fe,” he said, “at the beginning of 1901 joined with the
other roads in a general declaration of good faith and intention of an
absolute maintenance of rates. We maintained the rate until about
April 1.” The Santa Fe found that they were only carrying 2 percent of

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