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Chi ha tradito l economia italiana 5th

Edition Nino Galloni


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Nino Galloni

Chi ha tradito l'economia italiana?


Nel saggio introduttivo a questa quinta edizione, l'autore propone di con­
siderare quattro modelli economici corrispondenti ad altrettante tipologie
capitalistiche che hanno caratterizzato gli ultimi 70 anni, dagli accordi di
Bretton Woods ad oggi: l) un capitalismo espansivo, manageriale e key­
nesiano che punta alla massimizzazione del profitto totale (e, quindi, della
produzione, dell'occupazione e delle vendite alle condizioni di mercato) dal
1944 al197 9, vale a dire da Bretton Woods al G7 di Tokio; 2 ) un capitalismo
«proprietario» con l'esplosione dei tassi di interesse (voluta, appunto, per
restituire centralità ai proprietari) e conseguenza della nuova regolazione
delle bilance dei pagamenti, della limitazione alla sovranità degli Stati e alla
moneta esogena, della concorrenza tra le banche per il controllo della li­
quidità, dal1980 al1992 quando, nel settembre, crolla il Sistema Moneta­
rio Europeo proprio per l'insostenibilità di tale tipo di modello economico;
3) un capitalismo finanziario che ha come obiettivo la redditività dei titoli in
borsa e che dura dal1992 (crollo degli interessi obbligazionari che hanno
caratterizzato la fase «proprietaria» precedente) all'inizio del 2001, quando
si manifesta la crisi nelle borse stesse, e infine; 4) il capitalismo che l'au­
tore definisce «ultrafinanziario» dove l'obiettivo è la numerosità delle emis­
sioni di titoli (anche tossici), a prescindere dalla loro redditività.
Secondo l'autore, gli ultimi tre modelli capitalistici si caratterizzano per la loro
insostenibilità: dimostrata, per quelli «proprietario» e finanziario, in base alla
esigua durata dei periodi di riferimento, mentre- per quanto riguarda l'attuale,
ultrafinanziario - Galloni solleva provocanti e preoccupanti perplessità, visto
il suo completo distacco dall'economia reale e locale ed il sostegno che ha
avuto e che sta avendo dalle Banche Centrali. Da questo punto di vista, la
svolta voluta da Mario Draghi il 5 Giugno del 2014 appare cruciale.
Unico capitalismo sostenibile, dunque, sarebbe quello espansivo e
keynesiano, ma Galloni non propone solo un ritorno a Keynes («riveduto e
corretto»), ma anche di riflettere sull'alternativa - per la prima volta - al
capitalismo stesso, pur sollevando dubbi, sempre in termini di sostenibilità,
sui modelli della «decrescita».
Secondo Galloni è la politica - che ha tradito il Paese all'inizio degli anni
'80 - a dover essere reinventata per fungere da guida alle scelte
economiche, poiché queste ultime possono (e devono), venir indirizzate
verso un capitalismo espansivo oppure verso un non-capitalismo.

www.editoririuniti.it
ISBN 978-88-6473-161-2

Euro 20.00 (IVA compresa) 9


l l
788864 731612
Nino Galloni, IRoma 1953), direttore ge­
nerale del Ministero del Lavoro, funzio­
nario in diversi ministeri finanziari, è at­
tualmente membro effettivo del Colle­
gio dei sindaci dell'lnps. È stato ricerca­
tore all'università di Berkeley in Califor­
nia, stretto collaboratore di Federico
Caffè e ha insegnato nelle università di
Roma, Milano, Napoli, Modena e Cassi­
no. È autore di numerosissimi articoli e
libri fra cui, per Editori Riuniti, L'occupa­
zione tradita 11998) e Il grande mutuo
12008); e con altri editori, Mercato sen­
za padroni 12001), Dopo lo sviluppo so­
stenibile 12002), Misteri dell'euro, mi­
sfatti della finanza 12005), La moneta
copernicana con M. Della Luna 12008),
Prendi i tuoi soldi ... e scappa? 12010),
Eurocidio con Giovanni Passali 12013) e
Moneta e Società 12013).
Nino Galloni

Chi ha tradito
l'economia italiana?
Quinta edizione

Editori Riuniti
university press
V edizione luglio 2014

IV edizione novembre 2013


III edizione giugno 2013
Il edizione giugno 2012
I edizione novembre 201 1
© 201 1 Editori Riuniti university press, Roma
GEI Gruppo editoriale italiano s.r.L

ISBN 978-88-6473-16 1-2

www .editoririuniti.it

Questo libro è stato stampato su carta


certificata FSC, che unisce fibre riciclate post-consumo
a fibre verginiprovenienti da buona gestione
forestale e da fonti controllate

L'autore ringrazia la dottoressa Francesca Venditti


per le elaborazioni statistiche e il signor Stefano Poggio
per l'editing e i preziosi suggerimenti informatici.
Indice generale

VII Saggio introduttivo alla quinta edizione

XXIII Presentazione della quarta edizione


XXIX Presentazione della terza edizione
XLIII Presentazione della seconda edizione

13 Premessa
L'evoluzione dell'attuale crisi mondiale

29 Capitolo l
Dall947 al1962
1 . 1 . Le svolte del 1947 e l'impostazione degasperiana, p. 31 -1.2.
Le partecipazioni statali, p. 36 - 1.3. Dall'omicidio di Mattei ai pro­
dromi del centro-sinistra, p. 4 1

45 Capitolo 2
Gli anni '60 e '70
2 . 1 . L'Italia ha un ruolo nello scacchiere internazionale, p. 47 -
2.2. Fiducia negli affari, investimenti elevati e valore dei patrimoni,
p. 50 - 2.3. Piccole imprese e strane virtu della lira, p. 52 - 2.4.
Un Paese che va troppo bene: bisogna ammazzare qualcuno, p. 54

59 Capitolo 3
Dal <<divorzi m> tra Tesoro e Banca d'Italia
alla messa a regime delle privatizzazioni
3.l. La crisi della sovranità p olitica e la sterilizzazione dello svi­
luppo, p. 6 1 - 3.2. La fine della sovranità monetaria come puni-
zione della politica, p. 68 - 3 .3 . Restrizioni del bilancio pubblico
e svendita delle imprese partecipate, p . 75 - 3 .4. La riforma del
mercato del lavoro e la negazione delle strategie per l'industria, p.
78 - 3.5. Il ribaltamento del rischio sulla società civile come ele­
mento fondamentale della insostenibilità dell'attuale modello eco­
nomico, p. 84 - 3 .6. Le ripercussioni sulle grandi reti infrastrut­
turali, la ricerca e l'innovazione applicata, p. 85 - 3. 7. La mancata
attuazione della Costituzione e la sottrazione della politica al­
l'elettorato, p. 9 1

95 Capitolo 4
n nuovo millennio:
dopo la fine della globalizzazione, il nulla?

4.1 Verso la netta separazione dei soggetti che esercitano credito


ordinario, finanza speculativa e compravendita di obbligazioni a
basso rischio, p. 97 - 4.2 . Una regolamentazione internazionale
dei costi di produzione, p. 102 - 4.3. Conflitto inter o intrage­
nerazionale?, p. 104 - 4.4. È possibile una necessaria riforma pre­
videnziale?, p. 110 - 4.5. Riforme fiscali, economia sommersa (non
osservata) , usura, p. 1 1 3 - 4.6. Una rivisitazione della politica eco­
nomica per gestire in modo diverso la cooperazione tra tutte le re­
altà mediterranee, p. 120

127 Conclusione
Come contrastare la catastrofe?

13 5 Indice dei grafici e delle tabelle

Appendice alla seconda edizione


137 È possibile salvare l'euro?

Appendici alla terza edizione


159 Sei punti per lo sviluppo e la piena occupazione
161 Interventi urgenti per il rilancio dell'economia

169 Indice dei nomi e degli argomenti


184 Bibliografia aggiornata e ampliata
Saggio introduttivo alla quinta edizione
Luglio 2014

Dove ci porteranno Draghi e


il capitalismo <(ultrafìnanziario»?

Dopo la violenta tempesta della tornata elettorale del 25


maggio u.s., una tempesta in un bicchier d'acqua a confronto
di quanto bolle nelle pentole delle banche centrali, ecco
quanto ci si prospetta come futuro dell'umanità in termini di
nuovi modelli economici, sconquasso degli attuali equilibri
geopolitici, alternativa tra messa a regime di tecnologie rivo­
luzionarie (energia a costi negativi, produzioni e consumi a ri­
fiuti zero, centralità dello sviluppo locale, sfruttamento mi­
nerario degli asteroidi, infrastrutture fantascientifiche, treni a
lievitazione magnetica) e regresso nella decrescita.
Cerchiamo, allora, di vedere meglio come l'Europa rischia
di divenire una periferia e come si sia giunti all'attuale fase ca­
pitalistica - dopo l'inizio della crisi nel 2001 - che definisco
<<Ultrafinanziaria>> per sottolinearne l'intento principale a mas­
simizzare le emissioni di titoli (e guadagnare, owero valoriz­
zare il capitale, soprattutto grazie a tali sfrenate operazioni);
in ciò differenziandosi dal classico capitalismo finanziario
quale abbiamo subito nella fase precedente, 1992-2001, dove
l'obiettivo di valorizzazione passava principalmente per la
VII
quotazione (e, quindi, il rendimento) dei titoli in borsa: vedi
soprattutto l'ultimo lavoro di Paolo Leon, Il capitalismo e lo
Stato, Castelvecchi, Roma 20 14, p. 45 sgg., p. 149 sgg..
La periferizzazione dell'Europa può dipendere da W1a sua
scarsa autonomia a fronte dei processi geopolitici che Russia,
Cina e India stanno cominciando ad innescare. Citando solo
le tre più grandi economie alternative agli USA ed ai suoi se­
guaci europei; essendo la posizione del Giappone simile- in
fondo- a quella nostrana, visto che ancora non si capisce se
esso si schiererà definitivamente con gli USA o tenterà una
carta inaspettata e, tuttavia, non improbabile.
Peraltro, secondo i dati dell'International Comparison
Program della Banca Mondiale- pubblicati quest'anno ed ag­
giornati al20 1 1 per quanto riguarda la graduatoria dei Paesi
in base al loro reddito calcolato ai tassi di cambio delle valute -
si è passati da W1 controllo delle economie più sviluppate (pari
al 16% della popolazione mondiale) sul 78 % del flusso di ric­
chezza prodotta nel pianeta nel 2005, al 67 % di esso nel
20 1 1 (sebbene in tale anno, l'ultimo, come si è già detto, di cui
si disponga come dati, i Paesi più agiati corrispondano al 17%
della popolazione complessiva); se ne deduce che, nel2005,
le economie a basso e medio reddito, corrispondenti
all'8 4 % della popolazione mondiale, controllavano solo il·
22 % del PIL del pianeta, mentre sei anni dopo, con 1'8 3 %
della popolazione sul totale, erano passate al 33 % circa. In­
vece, considerando il flusso produttivo rapportato alle ca­
pacità di acquisto della moneta interna, le economie più svi­
luppate sono passate dal 60 % del PIL mondiale nel 2005
al 50 % del 20 1 1, mentre le altre sono cresciute dal 40 al
50 % (fonte citata, pag. 80 ).
Se ne deduce che molti Paesi meno ricchi abbiano visto W1
progresso reddituale significativo, mentre il «ranking>> delle 12
maggiori potenze planetarie, calcolato al cambio delle va­
lute, vede gli Usa al primo posto (ma quest'anno la Cina do-

VIII
vrebbe superarli sebbene quest'ultima sia al 99° posto come
reddito pro-capite ed i primi al 12 °), mentre l'India (al 12 r
posto come reddito-procapite) appaia come la terza potenza
prima di Giappone, Germania, Russia e Brasile; seguono al­
l'ottavo posto la Francia, al nono il Regno Unito, al decimo
l'Indonesia che precede Italia e Messico. Se invece si guarda
alle capacità di acquisto interne, il Giappone balza al terzo po­
sto (dopo Cina ed USA), la Germania è quarta, la Francia
quinta e precede Inghilterra e Brasile, poi ottava l'Italia, nona
l'India e decima la Russia (fonte citata, pag. 8 1).
Dunque, è in corso un certo rimescolamento di carte, dove
le nuove potenze si stanno distinguendo per rincorsa ai livelli
produttivi dei Paesi di più antica industrializzazione; per­
tanto, decisivi saranno i nuovi equilibri geopolitici e le scelte
dei modelli economici che dipendono anche dalla disponibi­
lità di tecnologie adatte al sostegno di dinamiche demografi­
che così diverse.
Per fare ipotesi ragionevoli circa non solo il futuro che ci
attende, ma anche il presente che non risulta affatto chiaro,
forse occorre riassumere i passaggi precedenti l'attuale fase.

Dopo gli accordi di Bretton Woods (1944), si era aperta


una lunga fase di sviluppo, durata effettivamente 35 anni,
quando nel 1 979 cade l'ultimo baluardo di quegli accordi in
quanto si decide - al G7 di Tokio- che ciascun Paese dovrà
essere responsabile della propria bilancia dei pagamenti; in
precedenza, invece, un Paese debole (che esportava poco o
importava troppo) veniva aiutato sia consentendogli di sva­
lutare la propria moneta, sia portando a rivalutare quella di
Paesi che, invece, registrassero forti avanzi commerciali. In al­
tri termini, vigeva una sorta di solidarietà e i Paesi deboli ve­
nivano aiutati dai Paesi forti: ciò contribuiva a rendere stabile
il modello a differenza di quanto succederà dal 1980 in poi;
ma restiamo al periodo 1 944- 1 979.

IX
Si tratta di un capitalismo sostenibile, espansivo, manage­
riale, keynesiano. I guadagni di produttività venivano divisi tra:
i lavoratori (questo modello presuppone democrazia e forti
sindacati); lo Stato; i capitalisti o proprietari. I primi fuoriu­
scivano, dunque, dalla loro condizione di «proletari» e par­
tecipavano alla spartizione del profitto; il secondo spendeva
per l'istruzione a tutti, la sanità universale, i trasporti pubblici,
così sgravando la classe media che poteva destinare il maggior
reddito ai consumi; i terzi, pur assistendo ad una possente ri­
valutazione dei loro patrimoni - determinata dalle continue
prospettive di vendite e sviluppo- soffrivano non solo del li­
vello non così soddisfacente dei profitti correnti, ma soprat­
tutto del ruolo poco importante che giocavano nella società
e nell'impresa.
Questo tipo di capitalismo, proprio perché voleva espan­
dere le vendite ed i mercati, sosteneva redditi e consumi,
massimizzando produzione ed utilizzo delle risorse: quindi, i
manager portavano alla crescita del valore dell'investimento,
ma spingevano in su l'occupazione fino a ridurre significati­
vamente la redditività di esso. Ciò accadeva, ovviamente, non
solo se la derivata prima (incremento) dei salar� fosse stata
maggiore di quella della produttività, ma anche se l'incre­
mento dell'occupazione superava la derivata prima della pro­
duttività: ecco la via maestra per far crescere occupazione, pro­
duzione, profitti, consumi e far decrescere i saggi di profitto
(la redditività dell'investimento). Su questo, è evidente, Marx
e Keynes avevano detto cose tra loro compatibili. Owia­
mente, la cultura del tempo - da costi decrescenti e, quindi,
con sprone ad aumentare redditi, produzione e consumi- po­
teva venir improntata da maggiore sobrietà, vale a dire crescita
dei salari in linea con l'andamento della produttività.
Così, l'alto livello dell'impiego portava a ridurre il saggio
di rendimento del capitale: contro questa situazione i pro­
prietari (capitalisti) cominciarono a reagire nella società e

x
nell'impresa. Così Marx che aveva previsto un conflitto mor­
tale tra forze produttive ed organizzazione Jel sistema- e che
in questo era stato smentito dall'esistenza di un capitalismo
molto espansivo - rientrava in gioco grazie alla prospettiva di
un azzeramento della redditività Jel capitale (finanziario)
quando si optava per una riduzione del conflitto tra forze pro­
duttive e organizzazione della società.
La critica - anche ambientalistica - al consumismo, il
problema dell'inflazione (da costi), la demonizzazione
della spesa pubblica e delle tasse provocarono una cultura
reazionaria e neoconservatrice che uscì dai suoi ambiti na­
turali ed invase gli stessi ambienti politici che, pure, ave­
vano sostenuto il trentacinquennio di marcata crescita
economica.
Gli economisti (quelli di una volta) sapevano che la pro­
duttività non poteva crescere di più dei salari; e, se i salari cre­
scevano di più della produttività, c'era una parte dell'incre­
mento che si perdeva per l'inflazione, ma l'occupazione
cresceva. Viceversa, con salari che crescono entro la produt­
tività l'equilibrio (teorico) dei prezzi è garantito, tuttavia l'oc­
cupazione si riduce se non si fanno innovazioni di prodotto:
ma, se sobrietà, parsimonia, austerità divengono obiettivi, al­
lora si ritorna a far crescere i salari di meno della produttività
e, infine, a ridurli a prescindere dall'andamento di essa. Ecco
la via maestra per le crisi di sovrapproduzione, tipiche del ca­
pitalismo arretrato, ma con alti indici di profitto: una parte dei
mancati guadagni dei lavoratori poteva ben servire il paga­
mento di nuovi economisti che predicassero i limiti dello svi­
luppo ovvero quello dei redditi non da capitale.
In effetti, se i salari crescono costantemente oltre la pro­
duttività si hanno inflazione, piena occupazione, consumismo
illimitato: quindi si sarebbe dovuto intervenire su una dina­
mica insostenibile, ma senza giungere a politiche deflattive,
alta disoccupazione, ecc.

XI
Così, dopo il 1979, la ricerca di elevata remunerazione del
risparmio, la fine della solidarietà fra Paesi diversamente abili
nel commercio internazionale, la priorità nella lotta all'infla­
zione, la sottrazione di sovranità monetaria agli apparati sta­
tali spinsero in un'unica direzione: l'aumento vertiginoso dei
tassi di interesse sulle obbligazioni.
Dopo il G7 di Tokio ed i contemporanei e di poco suc­
cessivi accordi in Europa, infatti, i Paesi deboli - non po­
tendo più svalutare per riequilibrare i loro conti con
l'estero - dovevano far crescere i tassi di interesse allo
scopo di attirare capitali dall'estero e iniziare a svalutare i
salari interni. Viceversa, i Paesi «forti», non dovendo più ri­
valutare, potevano tener bassi i tassi di interesse ed au­
mentare i loro investimenti in tecnologia ed innovazione, di­
venendo sempre più forti: ecco un bel modello economico
non sostenibile! Esso dura, infatti, solo una dozzina d'anni
e si schianta con la crisi del Sistema Monetario Europeo
(settembre 1992) che riporta repentinamente i tassi obbli­
gazionari verso le medie storiche.
Ma la frittata è fatta: l'orizzonte temporale delle imprese si
è accorciato (durante gli anni '80, metà dei profitti e degli in­
vestimenti è attirato dal rendimento delle obbligazioni), di­
minuisce l'occupazione e, con essa, i salari; i proprietari ri­
conquistano la scena in azienda potendo scegliere fra
investimenti reali e finanza e, nella società, propugnano una
cultura contraria alla solidarietà; gli investimenti pubblici e la
spesa sociale risultano fortemente ostacolati dagli alti tassi di
interesse e il debito pubblico esplode.
Questa seconda fase capitalistica può esser definita (di ri­
vincita) dei proprietari e riguarda asimmetricamente la di­
mensione del capitale: rigida culturalmente per quanto ri­
guarda il risparmio e i grandi investitori (anche istituzionali,
fondi pensione e fondi di investimento), più flessibile per
quanto riguarda le piccole imprese dove la figura del pro-

XII
prietario coincide fisicamente con quella dell'imprendi­
tore/manager. Quando la crisi si farà sentire di più, tale ca­
ratteristica risulterà decisiva per la soprawivenza dei piccoli
imprenditori.
Dunque, la fine della fase (di rivincita) dei proprietari, la­
scia a questi ultimi, dopo il 1992 ed il ritorno a tassi obbliga­
zionari contenuti, la decisione di portare il capitale verso le
borse: inizia così una tipica fase finanziaria che durerà, ap­
punto, fino all'inizio della speculazione al ribasso appena il pe­
riodo di rialzi si concluderà con la primavera del 200 1 . Co­
mincia da qui, nel 200 1 , la classica crisi finanziaria del
capitalismo, quando anche i comparti trainanti (elettronica, e­
economy, ecc.) subiranno le conseguenze di una domanda
non più in linea con le capacità dell'offerta; ma, come si ve­
drà, l'evoluzione di tale crisi sarà diversa e inaspettata ri­
spetto alle consuete crisi finanziarie del capitalismo (perché
porterà a un modello nuovo pur con molte delle sciagure ti­
piche di tali circostanze).
Ma restiamo ancora un attimo sulla fase finanziaria 1 992-
2001: in essa prendono il soprawento gli investitori istitu­
zionali ed i fondi pensione i quali (contrariamente agli ab­
bagli di chi vi aveva voluto vedere chissà quale meraviglia
di progresso capitalistico) ragionano esattamente da pro­
prietari, in modo gretto. I profitti elevati saranno frutto di
riduzioni dell'occupazione maggiori di quelle produttive,
peraltro asseverate dal nuovo verbo della globalizzazione
che, in nome delle riduzioni salariali, giustificherà la vitto­
ria del produttore meno onesto e peggiore: colui che pa­
gherà di meno per la manodopera, l'ambiente, la salute. Ma
tant'e '... .
'

Questo capitalismo finanziario, alla ricerca della valoriz­


zazione dei titoli azionari e dintorni, arrecherà danni impres­
sionanti all'economia reale, oramai in balia della scarsità mo­
netaria dovuta alla sottrazione di sovranità agli Stati.

XIII
Vince, dunque, una cultura da costi crescenti che consente
l'abbassamento delle barriere all'entrata per i nuovi compe­
titori e sposta il focus su una riduzione dei costi stessi ottenuta
cancellando la macroeconomia- vale a dire il nesso tra an­
damento dei conswni e livello delle vendite- grazie, infatti,
ad un calo occupazionale strategico.
Nel frattempo, quindi durante questa terza fase, le banche
hanno ottenuto il ripristino del modello universale: potranno
convogliare capitali e rispanni verso impieghi speculativi e non
dovranno più attenersi alla regola di netta separazione tra chi
esercita il credito e chi svolge attività finanziaria a vario ter­
mme.
Quindi, quando iniziano la crisi (tarda primavera del200 1)
e la speculazione al ribasso, le banche che, intanto, avevano
assunto impegni di elevata remunerazione dei titoli da loro
stesse emessi, iniziano operazioni di derivazione (inizialmente
per difendere il reddito dei loro clienti) nella prospettiva di
una celere ripresa: prospettiva rapida, certa, autorevolmente
sostenuta, ma senza ragioni o spiegazioni scientifiche.
Infatti, di trimestre in trimestre, di semestre in semestre, di
anno in anno abbondano le ottimistiche quanto ingiustificate
previsioni di ripresa e, in tredici anni di tale situazione, si emet­
tono 800.000 miliardi di dollari di derivati, ma, per gestirli, si
emettono quattro volte tanto di altri titoli tossici: totale quat­
tro milioni di miliardi di dollari pari a 55 volte il PIL mondiale.
Altro che il debito pubblico dell'Italia o di altri Paesi pari a
poco più di una volta il relativo PIL!
Ma l'obiettivo è questo: massimizzare l'emissione di titoli,
guadagnare sull'emissione stessa, non più tanto o solo (come
nella fase «finanziaria») sulla redditività del titolo.
E, allora, servono interi Paesi e debitori (come per i famosi
mutui «sub-prime») che vadano male, non bene. Se un Paese
va bene, se il debitore dev'essere giudicato affidabile e solvi­
bile, non serve a niente: il titolo va conservato fino a scadenza.

XIV
Ma se, invece, ristÙta inaffidabile (o viene giudicato tale), al­
lora, finalmente, ci si deve liberare del titolo e chi lo acquista
lo fa per rivenderlo e così via, guadagnando sui relativi pas­
saggi..
E infatti. Nel 2008 esplode una delle più importanti crisi
di liquidità di tutti i tempi. Le grandi banche e le élites dei
gruppi finanziari Oe due situazioni si identificano, a rischio di
qualche imprecisione) dovrebbero fare, tutte, la stessa fine
della Leheman Brothers; ma non è così, le Banche Centrali in­
tervengono - seppure con modalità e tempi diversi - nello
stesso modo e senza guardare alla nazionalità dei beneficiari:
viene partorita la dottrina delle autorizzazioni monetarie illi ­
mitate a favore delle grandi banche speculatrici e, questo è si­
gnificativo, senza chiedere nulla in cambio, nemmeno di
smetterla!
La ragione è presto spiegata: qualche anno dopo, tra la fine
del20 13 e l'inizio di quest'anno, la grande finanza, il Fondo
Monetario Internazionale, la BCE fanno presente alle banche
che hanno troppi debiti e crediti inesigibili (bella scoperta!
Sono state proprio le banche centrali ed il FMI a sostenere il
finanziamento illimitato della spectÙazione e le perdite!),
quindi saranno commissariate, aggregate, controllate, sotto­
poste a «bai! in», vale a dire che non dovranno più essere solo
gli Stati (i comuni cittadini) ad intervenire, ma i sottoscrittori
dei titoli bancari e gli intestatari dei depositi.
Adesso- da parte di molti leader politici anche europei -
si parla di abbandonare l'austerity e la spen?ing review;
forse sono servite abbastanza. Ma a che cosa? E semplice: a
peggiorare i conti pubblici, perché tale circostanza è funzio­
nale alla massimizzazione nella emissione di derivati, altri ti­
toli tossici, scommesse, ecc.
Fin qui, tutto «normale»: cosa, infatti, ci sarebbe da aspet­
tarsi da un sistema così «tÙtrafinanziario», lontano dall'eco­
nomia reale, avido e senza scrupoli?

xv
E, invece, ecco le sorprese a cui la BCE (al pari delle altre
banche centrali) ed il massimo interprete di tale modello, il
Presidente Mario Draghi, ci stanno cominciando ad abituare.
Proprio perché così lontano dall'economia reale, questo ca­
pitalismo ultrafinanziario risulta meno dannoso di quello fi­
nanziario classico e può lasciare spazio alle realtà locali che,
con moneta complementare, liquidità fiduciaria e le piccole
banche ancorate al territorio, avrebbero l'opportunità di ri­
prendersi. Owiamente, gli Stati che, in Europa, hanno ab­
bandonato la facoltà di emettere moneta a corso legale, pos­
sono emettere quella fiduciaria (che, poi, dovrebbero accettare
in pagamento delle tasse) se e solo se andranno al governo
forze politiche favorevoli a tali soluzioni e restie all'austerity,
nell'attesa della resa dei conti sull'euro; le banche piccole ri­
schiano di venir fagocitate dalle grandi se prevalgono le stra­
tegie di accorpamento delle attuali banche centrali. Si tratta
di una prospettiva <<Illarginale>> o, meglio, di marginalizzazione
dell'economia reale, ma col capitalismo finanziario non c'era
nemmeno tale possibilità.
Andrebbe, allora, chiarito che nessuna politica anti-au­
sterity (anche quelle, come si vedrà tra poco, favorite
dalla BCE, dal Presidente Renzi e dagli USA) può rag­
giungere livelli adeguati senza abbandonare l'attuale euro,
vale a dire un progetto unicamente funzionale all' austerity
perché incapace di sostituirsi ai «mercati» quando questi
ultimi arrancano. E quanto Mario Draghi ha comunicato
il 5 giugno 20 14 potrebbe andare proprio a smentire la
continuità tra l'euro attuale (quale abbiamo conosciuto fi­
nora) ed il suo futuro se verranno comperati titoli di
Stato indirettamente dalla BCE, anche attraverso mezzi
direttamente autorizzati da essa ovvero in cambio di As­
set Backed Securities (ABS, cioè qualunque credito verso
privati) destinati, oggi, a far debito - seppure allo
0, 15%- e, domani, essere eliminato, rendendo definitiva

XVI
l'operazione di conferimento di ABS per ottenere mo­
neta: così e solo così- consentendo l'aumento della spesa
pubblica al netto delle tasse e del debito stesso -la poli­
tica monetaria espansiva avrebbe effetti diretti sull'eco­
nomia reale e sulla crescita.
La mossa di ridurre ulteriormente il tasso di interesse dà il
segnale di un consolidamento di questo regime ultrafinan­
ziario: si punta, quindi, al continuo aumento delle emissioni,
non al loro contenimento. I messaggi sull'inflazione sono
chiari e la prospettiva di una «iperinflazione» con annulla­
mento di debiti, titoli, valute ormai prive di credibilità (in pri­
mis il dollaro) tramontata come ogni teoria monetaria quan­
titativa. Va peraltro aggiunto e sottolineato come questa svolta
ultrafinanziaria della BCE (riunione del 5 giugno20 14 e pro­
spettive future) possa accompagnarsi ad auspici di sviluppo
reale dell'economia; ma anche le maggiori disponibilità liquide
per le banche andranno verso lo sviluppo se la domanda di im­
pieghi per tale scopo aumenterà mentre né il saggio di inte­
resse, né la maggiore disponibilità di moneta è sufficiente a
modificare il corso degli eventi. Solo la maggiore liquidità agli
Stati, se destinata a piani adeguati (ambiente, scuola, lavoro,
welfare) potrebbe: ma, come si ripeterà tra poco, così, si re­
stituirebbe quella competitività che i singoli Stati mediterra­
nei (soprattutto l'Italia) hanno dovuto strategicamente per­
dere, con l'euro stesso e Maastricht e quant'altro, nei decenni
scorsi.
Si sta, infatti, andando verso la virtuale abolizione del tasso
di interesse; questo renderebbe facile finanziare i fabbisogni
pubblici qualora venissero ridotte le tasse, ma non le spese
(una via per la ripresa!). E, la virtuale abolizione del tasso di
interesse porterebbe anche alla trasformazione della moneta
da debito a «mutuo» (nel senso etimologico del termine);
chiunque potrebbe creare moneta, prestarla e ottenerne in
cambio altrettanta che, così, si confermerebbe nella realtà

XVII
(sempre che il «prenditore» si riveli capace di ottenerne del­
Lùtra - per ipotesi in pari quantità - owero di produrre
beni e servizi di identico controvalore).
Anche la tentazione. per l'Italia. di tma b�mca pubblica fi­
nalizzata a fare come «f<m tutti», v<Ùe a dire collateralizzare i
crediti delle pubbliche <muninistmzioni e portarli alla BCE per
farseli monetizzare- quasi alla pari- cozza solo contro la con­
venienza delle banche private a comperare titoli pubblici a
tassi di interesse 10-15 volte più alti della BCE, lucrando sul
differenzhùe: con una b.mca pubblica ci si può finanziare al
TUR (0.25 fino <Ù 5 giugno 2014. ora solo 0,15). risparmiando
oltre 60 miliardi d.i interessi all'cmno. ma. come ricorda Pro­
fumo ... s<Ùterebbe tutto il sistema bancario (privato) italiano
che si regge, appunto, sullo «spread».
Allora. il paradosso è che questo capitalismo ultrafinan­
ziario ristùta meno insostenibile del previsto e, infatti. grazie
,ùl'azione delle b<mche centnùi resiste da più di 13 <mni. un re­
cord. secondo solo <Ù trentacinquennio di quello espansivo e
manageriale 1 944-1 979.
Quali sono. dunque. le prospettive per l'Europa e per
l'euro?
lnnanzitutto. il destino dell'euro dipenderà dalla resa dei
conti tra i suoi ideatori e promotori.
Col Fiscal Compact. il Meccanismo Europeo di Stabilità,
l'European Redemption Found {che trasforma in garanzie
re<Ùi escutibili le proprietà di quei Paesi che non riducono il
loro debito pubblico entro il60% del PIL) e <Ùtre diavolerie
- come. nel caso it<Ùiano. il p<treggio di bil,mcio in Costitu­
zione -l'Europa non reggerà.
Con golden nùe tin\'estimenti pubblici produttivi in disa­
\'anzo). una seria politic.t europea di infrastrutture e quanto
Matteo Renzi dice di \'oler re.ùizzare. sarebbe possibile vedere
miglioramenti {ad esempio occupazionali e reddittuùi) e non
peggioramenti: ma c'è un problema che è lo stesso dell'euro.

XVIII
Esso fu introdotto, principalmente, per impedire all'Italia
di essere troppo competitiva in Europa; quindi- si disse an­
che durante la recente campagna elettorale dd 2014 - per
uscire dall'euro occorre impegnarsi a non intervenire sui
cambi pena una guerra commerciale c non solo, owero le sva­
lutazioni competitive di tutti contro tutti. Ma se la nuova va­
luta nazionale non si svaluta, che senso avrebbe uscire dal­
l'curo� Casomai sarebbe più sano svalutare l'curo stesso, ma
non ce ne sono le condizioni finchè esiste il dollaro; e, per
quanto riguarda il «dopo», è difficile fare previsioni senza ca­
dere nella complessa considerazione del ruolo che avranno i
grandi Paesi emergenti, Cina, Russia, India, ecc.).
Il senso di un'uscita dall'euro senza svalutazione della
nuova moneta (essendo «teorico» questo esercizio quanto
quello di proporre la svalutazione della eventuale «nuova»
moneta) sta, invero, nell'ipotesi di recupero della sovranità
valutaria nazionale ovvero nella decisione di finanziare
spese pubbliche produttive e necessarie in disavanzo: ma ciò
renderebbe tanto competitiva la nostra economia, quanto
accadrebbe con l'uscita dall'euro e la svalutazione. Quindi,
anche le proposte di grandi investimenti europei e spese
pubbliche in disavanzo devono - prima - vincere le resi­
stenze di chi non ci vuole competitivi, vale a dire la Ger­
mania e la Francia.
È vero che le recenti elezioni europee hanno spezzato
l'asse francotedesco con Hollande in posizione pericolante,
ma appare più probabile che quest'Europa freni contro i
suoi stessi interessi putativi perché- in realtà- prevale, come
per il passato, solo la difesa degli interessi dci più forti.
Quindi, l'ipotesi più affidabile è quella di scarsi cambia­
menti (in senso favorevole all'ltaliaJ se questi ultimi non sa­
ranno veramente radicali, riguardando le alleanze geopoliti­
che: ci si salva se l'Europa esplode, se la Germania va per aria
(ma è difficile che non la preceda la Francia), se si vara un'al-

XIX
leanza verso i Balcani ed il Mediterraneo (persino conti­
nuando a fare l'occhiolino agli USA).
Alla fine, questo capitalismo ultrafinanziario finirà per
agevolare le prospettive di una decrescita travestita da svi­
luppo locale; ma si tratta di un modello economico insoste­
nibile perché, in esso, la diminuzione demografica deve essere
superiore a quella produttiva.
È in questa situazione che andrebbe inserita un'analisi o,
meglio ancora, un tentativo di previsione circa il futuro del­
l'attuale partito di maggioranza relativa in Italia (e anche in
Europa) ed il suo presente leader. Dunque: Matteo Renzi ha
vinto, anzi stravinto, per due ragioni. In primo luogo ha riu­
nificato le componenti del suo partito e l'elettorato tende a
premiare tale tendenza così come a penalizzare le divisioni; in
secondo luogo ha dato messaggi concreti, positivi e, soprat­
tutto, di speranza (in questo ha sbaragliato il principale av­
versario, giudicato - anche da parte di molti dei suoi- troppo
aggressivo e distruttivo). In fondo, queste elezioni hanno mo­
strato, primo, che l'elettorato moderato non vuole più l'au­
sterity, ma teme l'uscita dall'euro (il che non vuoi dire che sia
favorevole all'euro: infatti se mettiamo in fila, soprattutto in
Europa, con l'eccezione della Germania, le varie componenti
euroscettiche si ha una massa elettorale più che consistente);
secondo, che il tema della sovranità (nazionale, monetaria,
ecc.) non è risultato particolarmente premiato.
Ma, se risultasse corretta tutta l'analisi economico-finan­
ziaria precedente, allora i governi e tutti i pro-euro, si trove­
ranno- già tra pochi mesi, vale a dire anche prima della fine
del semestre italiano- a verificare che la preparazione del ri­
spetto delle attuali regole impedisce il rispetto della principale
indicazione dell'elettorato, vale a dire la fuoriuscita dall'au­
sterity senza negare tutto il presente apparato europeistico.
L'unica via di uscita, si ripete, potrebbe dipendere dal­
l' azione delle Banche Centrali, ma nemmeno l'azzeramento

xx
del tasso di interesse (un cambiamento storico), baste­
rebbe se, poi, i privati non chiedessero prestiti finalizzati
ad investimenti reali (acquisti di appartamenti esclusi)
alle istituzioni creditizie e queste ultime non fossero messe
in condizione di fornire adeguata liquidità al sistema: oc­
correrebbe, infatti, uscire dali' austerity in senso stretto,
per quanto riguarda la spesa pubblica (produttiva, per in­
vestimenti buoni, ecc.). Ciò potrà esser fatto senza au­
mento del debito pubblico se il progetto di rendere defi­
nitiva l'acquisizione di crediti (ABS) da parte della BCE,
in cambio di moneta, andasse in porto. Ma è proprio que­
sto che la Germania - salvo sconvolgimenti oggi abba­
stanza remoti - vuole impedire e che tutto lo stesso ap­
parato burocratico europeo non è attrezzato per
conseguire. Tale, mi pare, lo scenario contradditorio che
il governo guidato da Matteo Renzi dovrà affrontare da su­
bito quando a iniziali realizzazioni e molte promesse non
dovesse seguire un cambiamento effettivo.
Per contro, maggiore attenzione andrebbe prestata a fe­
nomeni come l'«Unlocking Funding» che è una forma alter­
nativa per darsi liquidità da parte delle imprese (vedi AFME
- Association for Financial Markets in Europe, London/Bru­
xelles 20 14) e la ricerca di soluzioni sostenibili.
Di esse, la prima sembra essere il ritorno ad un capitalismo
espansivo (con tecnologie che minimizzano la quantità di
agenti inquinanti e di risorse pregiate o non rinnovabili per
unità di prodotto, ripristino della netta separazione tra il cre­
dito e la finanza speculativa, utilizzo della sovranità moneta­
ria per raggiungere la piena occupazione combinando welfare
permanente, investimenti reali e politiche del consumo a fa­
vore della produzione dei beni immateriali); la seconda, un ab­
bandono del modello capitalistico con una moneta non avente
valore intrinseco vale a dire non passibile di cupidigia, accu­
mulazione o risparmio e la piena occupazione a livello locale

XXI
con esportazione delle sole eccedenze per finanziare le im­
portazioni inevitabili.
In fondo, il processo interrotto alla fine degli anni '70
stava portando il capitalismo ad un livello di crescita della
classe media e di emarginazione del ruolo della proprietà
nell'impresa e nella società da far presagire, alla fine, il pas­
saggio ad un modello non capitalistico (senza rendite, senza
necessità di risparmio, senza moneta avente valore intrin­
seco, con piena occupazione); per questo, tra le due soluzioni
sostenibili (immediato passaggio ad un modello non capita­
listico oppure ripristino di tm modello capitalistico di tipo key­
nesiano - pur riveduto e corretto anche alla luce dell'esi­
genza di riqualificare, nei contenuti, la funzione dei consumi
- sia preferibile trovare alleanze politiche su questa seconda
strategia. Tanto, qualtmque alternativa al proseguire così (con
continui regressi fino alla catastrofe) porterebbe allo stesso ri­
sultato: superamento del capitalismo subito o dopo aver ri­
portato a maturazione il modello keynesiano espansivo.
Entrambe tali soluzioni, comunque, richiedono una cre­
scita della consapevolezza generale, l'espressione di tma classe
dirigente esclusivamente interessata al bene di tutti, l'identi­
ficazione e la messa a regime delle tecnologie oggi disponibili
per avere energia a costi negativi e rifiuti zero, il ripristino del­
l'obiettivo di solidarietà nel rapporto tra gli Stati sovrani, la
piena valutazione del ruolo e delle prospettive dei Paesi emer­
genti, tra cui la Russia, la Cina, l'India, il Brasile, il Messico,
l'Indonesia, l'Iran, la Siria, l'Egitto, l'Italia e molte altre realtà
africane, europee, asiatiche ed americane.

XXII
Presentazione della quarta edizione
Novembre 2013

All'inizio della edizione precedente auspicavo questa


quarta edizione ipotizzando che le elezioni in Germania del
22 settembre u.s. avrebbero scompigliato gli equilibri po­
litici dell'Europa, sulla falsariga di quanto stava awenendo
in Norvegia, era awenuto in Italia e poteva awenire in
Francia: forze diverse dai partiti tradizionali della destra
moderata e della sinistra trastullona si sarebbero imposte
prepotentemente sulla scena: il caso più interessante sem­
brerebbe quello dell'Ungheria che ha ribadito la propria
sovranità decretando notevoli vantaggi per i suoi citta­
dini; anche qui si tratta di un'impostazione di destra na­
zionale, ma colpisce il silenzio di tutta l'Europa sulla im­
portante vicenda.
Aggiungerei anche qualche riflessione sulla Perfida Al­
bione che ha continuato a giocare su più tavoli: impone
svolte tragiche agli USA, un po' alleati un po' succubi, si
pensi alle vicende Irak (dove manipolò i dati per pro­
muovere la guerra) e, adesso, Siria quando ottenne - con­
siderando le posizioni di Russia e Cina - di soprassedere
rispetto ad un attacco con prevedibili esiti disastrosi; ha
tutti i vantaggi dell'euro o, meglio, di questa disunita

XXIII
Unione Europea, ma nessun vincolo; stringe accordi stra­
tegici sul nucleare civile con Russia e Cina che, se non con­
dizionati dal costo del danaro privato a lungo termine, po­
trebbero portare a risultati decisivi sul fronte della fusione
o di nuove tecnologie.
Ma torniamo alla Germania, dove non è awenuto niente
di quanto ci si poteva aspettare guardando al resto del­
l'Europa: Angela Merkel ha vinto ed il popolo tedesco ha
accettato le riduzioni salariali.
In effetti, la vittoria della Merkel non è stata completa
proprio a causa della sua stessa indicazione (di non utiliz­
zare il secondo voto a disposizione dell'elettore per difen­
dere l'alleato liberale che, così, non è entrato in Parla­
mento) che le ha fatto mancare una maggioranza
sufficiente a scongiurare un'alleanza coi Verdi oppure con
i Socialdemocratici. Salvo voler sostenere che l'intenzione
fosse proprio quella di dover coinvolgere questi ultimi in
un governissimo giustificato dall 'esigenza di condividere i
sacrifici per mantenere la supremazia dell'export e gli
equilibri dei conti pubblici.
Già dalle precedenti edizioni di questo testo sappiamo
quanto siano taroccati i conti pubblici della Germania (e
non è la sola): si considera il suo debito al netto della Pre­
videnza e della gestione dei Lander; la sua banca di pro­
prietà pubblica compera i titoli di Stato per mantenere
bassi i tassi di interesse.
Ma non è questo il punto. La debolezza della Germania,
infatti, consiste in un'errata valutazione sua e degli osser­
vatori internazionali circa le conseguenze degli stessi avanzi
commerciali. L'effetto positivo delle esportazioni nette, an­
drebbe sottolineato, dipende dalla crescita della domanda
interna e delle retribuzioni che awiene, in un Paese in via

XXIV
di sviluppo, finché può fare crescere queste ultime tro­
vandosi in condizione di recuperare la differenza con i con­
correnti e, in un Paese industrializzato, grazie a continui in­
vestimenti tecnologici e innovativi.
Ma la Germania non si trova in nessuna delle situazioni
sopra riportate: non è la Cina (che pur tuttavia - lo ricor­
davo alla fine della presentazione della terza edizione - si
sta adeguando al suo ruolo di potenza non più arretrata),
ma non registra nemmeno investimenti tecnologi e inno­
vativi come un tempo. In altri termini, le forti riduzioni sa­
lariali compromettono la domanda del più grande Paese
europeo, non invogliano investimenti produttivi (i capitali
cercano remunerazione finanziaria all'estero) e preludono
ad una generalizzata e maggiore crisi di sovrapproduzione.
In Europa non c'è che una strada: l'aumento deciso dei
salari degli operai tedeschi, la riduzione delle esportazioni
e l'aumento delle importazioni della Germania. Se la Ger­
mania facesse questo si salverebbe e salverebbe i suoi par­
tner, candidandosi ad una leadership europea giustificata;
ma, per ora, non sembra disponibile ad una soluzione del
genere.
A seguito dei malumori connessi con lo spionaggio
delle comunicazioni informatiche, la Germania ha ribadito
la propria linea, in contrasto con quella del FMI, degli USA
e dello stesso Draghi che vorrebbero più sviluppo e meno
rigidità; ma i Tedeschi vanno avanti così, ritenendo che po­
litiche economiche, di bilancio e monetarie espansive,
creerebbero maggiori problemi del permanere di una si­
tuazione dove stringendo la cinghia (ma fino a quanto?) si
sopravviva.
In Italia, il governo Letta sta assicurando il massimo ral­
lentamento possibile nella direzione del baratro; parados-

xxv
salmente, se cadessero prima la Germania o l'euro, l'Italia
potrebbe giovarsi del passaggio da Monti (che aveva esa­
sperato la citata velocità) al governo di rallentamento ov­
vero delle larghe fraintese.
Ma non mi sento di escludere che, invece, le tensioni so­
ciali in Italia esplodano prima; e sarebbe un'occasione
persa per un Paese che, non ostante tutto, ha i fondamen­
tali a posto ed è, per diversificazione merceologica al­
l'esportazione, il terzo del mondo (dopo Cina e Germania).
In Francia, la rinascente destra lepénista, sta cercando
di candidarsi alla guida di un cambiamento nazionalista:
prospettiva antistorica, ma non certo peregrina .. .
Ovviamente, il quadro internazionale continua ad esser
caratterizzato dalla palese contraddizione tra declino del­
l'impero statunitense (e, quindi, incertezza del dollaro
che, per ora e pericolosamente, però continua a dominare
i mercati) e crescita del potere della grande finanza.
Ormai anche le banche sono diventate subalterne ad
una finanza che guadagna distruggendo risparmio e capi­
tale; è la forma suprema di un capitalismo ingestibile, ir­
responsabile e anarchico. Le stesse Banche Centrali che,
dopo il 2008 , avevano fornito liquidità illimitata alle ban­
che universali in crisi per continuare sulla cattiva strada,
non rispondono più a queste ultime, ma direttamente alla
finanza internazionale dominatrice.
La scorsa estate sono state avanzate politiche di bail-in
consistenti nell'esproprio dei depositi bancari: si sa che
l'unico modo di mettere in difficoltà le banche è far loro
mancare la liquidità, effetto derivante dalla diffusione del
panico dei depositanti per la sottrazione delle loro so­
stanze; e, adesso, addirittura il Commissario europeo Olli
Rehn propone un aumento dei deficit pubblici, purché

XXVI
unicamente finalizzati ai salvataggi bancari, vale a dire
fornire liquidità per continuare a distruggerla sui mercati
finanziari.
La nuova politica viene avanzata dal citato Commissa­
rio ai ministri finanziari dell'Unione il 9 ottobre, cioè il
giorno dopo la storica riunione del FMI in cui si annun­
ciano, nell'ordine:
a) la insostenibilità delle situazioni bancarie (perché
circa il 50 % dei crediti è inesigibile);
b) la necessità di porre le banche stesse sotto un sistema
di controllo-coordinamento-commissariamento;
c) la possibilità di far uscire la BCE dalla Troika.
Mario Draghi è l'uomo del cambiamento: si allinea sulle
posizioni della grande finanza, promette che ci sarà credito
per lo sviluppo e riesce a contenere le proposte della Mer­
kel che approva la nascita dell'Unione Bancaria proprio
perché sa che gli istituti più incasinati sono quelli tedeschi:
come al solito, tutti cercano di trattenere i guadagni e
condividere i problemi.
Un'altra Europa è possibile (alternativa ad utopistici
Stati Uniti d'Europa e a nazionalismi vecchia maniera)?
In teoria, sarebbe possibile una Confederazione di
Stati sovrani, che abbia una sua moneta di conto e rego­
lazione, ma ammetta la circolazione sia delle valute na­
zionali, sia di quelle locali: che si ispiri ai principi del
Trattato di Westfalia, di rispetto reciproco tra soggetti su­
periorem non recognoscentes. Ma tutto ciò richiede un au­
mento di consapevolezza che è il primo ingrediente di
una speranza possibile.
La Confederazione dovrebbe mutare orientamento di
politica economica, dialogare di più con l'Africa, aprirsi ad
una nuova stagione della Storia dove i Paesi oramai emersi

XXVII
(Russia, Cina India, Brasile, Argentina, Sudafrica .. . ) possano
giocarsi la partita decisiva coi vecchi poteri del pianeta.
Oggi la politica è in bilico tra vecchie logiche egoistiche
e la nascita di un necessario nuovo che si caratterizzerà per
un materiale umano diverso, più consapevole e lungimi­
rante.
Ci arriveremo pacificamente o dopo ulteriore crisi e
dolore?

XXVIII
Presentazione della terza edizione
Giugno 2013

Le ragioni di questa terza edizione sono, fondamental­


mente, tre: la conferma di quanto sostenuto nell'edizione
precedente, andata, però, completamente esaurita; gli av­
venimenti prodottisi in questo anno (giugno 20 12 - giugno
20 13 ) ; la riflessione preparatoria alle non del tutto preve­
di bili conseguenze delle elezioni in Germania (22 settem­
bre prossimo) ...che potrebbero richiedere, forse, una
quarta edizione!
Rispetto alla precedente di un anno fa, dunque, qualcosa
è intervenuto: non cambiamenti veri, certamente, ma di
prospettive.
In primo luogo, è oramai accettato generalmente che
l'impostazione del governo Monti- e di altre esperienze si­
milari in giro per il mondo - era ed è sbagliata e contro­
producente: in condizioni di forte ed evidente difficoltà
economica, infatti, qualsiasi tipo di austerity non può che
peggiorare le cose. Gli spread e i tassi di interesse sono ca­
lati perché la BCE ha ammesso interventi non solo per il
mercato cosiddetto secondario, ma soprattutto perché la
Cassa Depositi e Prestiti (CDP) ha accentuato l'utilizzo del
risparmio postale per acquistare titoli direttamente sul

XXIX
mercato primario. Ciò che, però, risulta ancora non dige­
rita è la diversificazione- già accennata nella seconda edi­
zione di questo testo- tra posizioni «americane» (quanti­
tative easing monetario, il risanamento dei bilanci pubblici
assieme allo sviluppo, accettate anche dalla BCE) e posi­
zioni dell'Unione Europea (Germania, ma non solo), di ri­
sanamento e, quindi, ancora di austerity, come premessa
dello sviluppo.
In secondo luogo, il caso Cipro ha portato alla luce una
prospettiva terrificante di bail-in generale, tendente ad af­
fiancare le oramai logore strategie di quantitative easing
(sostegno alle esigenze di liquidità delle banche mediante
autorizzazioni monetarie illimitate) con misure di confisca
dei depositi: sebbene si tratti di quelli oltre i lOOmila
euro, si sa che non c'è altra strada certa per abbattere le
banche oltre quella di diffondere il panico circa la loro sol­
vibilità. Questa è la vera novità, il vero mistero: se i pa­
droni erano le banche, come mai c'è qualcuno (le banche
centrali, le burocrazie internazionali, quegli stessi politici
che erano sui libri paga delle banche) che le vuole sotto­
mettere? E perché si considera piu facile toccare i depo­
siti, rischiare il caos, continuare con l'autorizzazione di
mezzi monetari illimitati (mentre l'economia reale soffre
la scarsità di credito e di mezzi per gli investimenti), invece
di reintrodurre la Glass Steagall, cioè la netta separazione
tra i soggetti che speculano sulle piazze internazionali e le
banche ordinarie?
Le risposte potrebbero essere due: confusione mentale;
consapevolezza del fatto che la liquidità necessaria a gestire
tutti i titoli tossici o derivati è un decuplo dei 30 mila mi­
liardi di dollari che le banche centrali hanno autorizzato
dopo il 2008 .

xxx
In terzo luogo, si è riaperto il dibattito non solo sulla te­
nuta dell'euro e della stessa UE, ma su criteri - che po­
trebbero portarci fuori sia dalla cosiddetta crisi, sia dal­
l'austerity - come la golden rule (spese in disavanzo per
investimenti produttivi) o i titoli obbligazionari europei
(aspetto, credo, piu complicato da far accettare ai rigori­
sti o sedicenti tali fino al 22 settembre 20 13 ).
In quarto luogo, ogni Paese sta cercando la propria via
di uscita, riaddomesticando il debito cosiddetto sovrano,
modificando la classificazione delle spese, attrezzandosi
con banche pubbliche allo scopo di ottenere mezzi mo­
netari a basso prezzo dalla BCE, cercando di orientare
l'opinione pubblica secondo strategie precostituite di ab­
bandono dell'euro o, addirittura, della UE così come si è
evoluta dopo l'introduzione della moneta unica.
Così c'è un Portogallo a cui si propone Uoao Ferreira do
Amara!, Why We Should Leave the Euro?) di uscire dalla
moneta unica e chi ragiona all'opposto: mantenere un
euro (debole, tendenzialmente svalutato) per i Paesi PIIGS
e far uscire la Germania e i Paesi forti con un ritorno alle
loro valute (Bagnai, Borghi, Sapir e altri, Manifesto di So­
lidarietà europea per avviare la Ricostruzione). Ma se la Ger­
mania voleva aiutarci, poteva farlo anche con l'euro: e se
poi svalutasse il marco? Visto che, non crediamo sia un mi­
stero, a fronte delle sue intense esportazioni, si sono ac­
cumulati enormi quantitativi di prodotti metalmeccanici
(soprattutto automobili) che si potranno comprare solo a
fronte di una svalutazione e non di una rivalutazione della
moneta usata dai Tedeschi.
La Francia versa in condizioni pessime sia sul fronte com­
merciale, sia su quello sociale: non riesce ad essere competi­
tiva e, quindi, si presenta alla BCE con quasi 500 miliardi di

XXXI
collaterale (spazzatura) e, però- a regole vigenti - essendo
garantito (tripla A) da una seppur fantomatica e scono­
sciuta agenzia di rating d'oltremare, ottiene autorizzazioni
monetarie allo 0,5 % .
I Paesi nordici, nonostante il loro eccellente welfare, non
riescono piu a tenere i giovani. . . il sociale va sgretolandosi.
Date queste quattro premesse, vediamo di approfondire
alcuni cambiamenti, anche alla luce di quanto è accaduto
e potrebbe accadere a livello politico in Italia, Paese che
non smette mai di stupire, persino gli stessi Italiani: stiamo
esportando piu del previsto e stiamo cominciando a im­
portare di meno. Vi è un rapporto tra questo, la riduzione
di reddito ufficiale, una ripresa- persino occupazionale-
in agricoltura?
Cerchiamo, se possibile, di andare con ordine; soprat­
tutto per quanto riguarda il necessario passaggio all'evo­
luzione politica che appare notevolmente annessa a quella
economica.
Dopo l'estate del2012 si è aperta una stagione che sem­
brava poter preludere - per le elezioni che non si sapeva
ancora quando celebrare - ad una coalizione nettamente
contraria all'austerity, di cui però non tutti avevano ap­
prezzato la fallimentarietà: era stata introdotta l'IMU- ad
esempio, con il beneplacito di quasi tutte le forze presenti
in Parlamento- senza considerare che essa avrebbe com­
portato un ulteriore peggioramento per le prospettive del
mercato immobiliare già molto depresso. Forse tassare le
seconde o, meglio, le terze case sfitte avrebbe fatto conse­
guire quattro risultati: un notevole gettito fiscale, la rivita­
lizzazione degli affitti, il non peggioramento delle com­
pravendite, una maggiore trasparenza e regolarizzazione
(sarebbe diventato conveniente regolarizzarsi, vale a dire

XXXII
cedere alle amministrazioni il 20 % degli affitti e rispar­
miare la tassa sugli sfitti). Era stato approvato in modo piu
bulgaro che latino il cosiddetto MES (Meccanismo Euro­
peo di Stabilità) che - se non si farà una necessaria e ge­
nerale retromarcia - comporterà danni evidenti allo svi­
luppo e spese aggiuntive capaci di riportarci oltre i
parametri, selvaggiamente e inopinatamente, decisi a Maa­
stricht.
Ma, quando le elezioni anticipate erano oramai certe, i
partiti, i gruppi e i movimenti che avrebbero potuto dar
vita ad una coalizione alternativa, basata su un programma
minimo - capace di unire le forze a differenza di un pro­
gramma massimo che, ovviamente, divide - finirono per ar­
roccarsi allo scopo di garantire visibilità, certezza di can­
didature e via dicendo ai propri leader.
Il programma «minimo» in sei punti viene allegato a
questa edizione così come un insieme di proposte/dise­
gni/progetti di legge sulle questioni piu urgenti, atti a
fronteggiare l'emergenza occupazionale, eventuali attacchi
della speculazione internazionale, la continua difficoltà
per la cassa dello Stato che impone - per pagare i debiti
delle amministrazioni nei confronti delle imprese, già de­
finiti compiutamente - l'emissione di nuovi titoli che vanno
ad appesantire la situazione del debito pubblico.
Fino ad un certo punto, tutte le forze di centro (cen­
trodestra e centrosinistra), con esclusione di SEL e Lega,
vanno a braccetto sotto la regia del premier Mario Monti,
come si è accennato (vedi IMU, MES, ecc.), quando que­
st'ultimo annuncia la propria candidatura con un nuovo
partito, dopo essere stato solo virtualmente, ma non effet­
tivamente, «sfiduciato» dal leader del centrodestra che
avrebbe sostituito Berlusconi; a quel punto (incolmabile

XXXIII
vantaggio per il centrosinistra e «salita» in campo di Ma­
rio Monti), rientra in gioco lo stesso Berlusconi, con una
mossa disperata a fronte del subbuglio nel centrodestra e
di un PD sempre piu forte.
Risultato: il neonato Movimento 5 Stelle (M5 S) di
Beppe Grillo ottiene il25 % circa dei voti, l08 Deputati e
56 Senatori, numero sufficiente a far mancare la maggio­
ranza al PD di Bersani dove non c'è il consistente premio
della Camera.
Berlusconi recupera parecchio.
Sulla carta sono possibili due maggioranze: PD e M5S;
PD e PDL.
Dato l'andamento della campagna elettorale e i prece­
denti storici, tutti negano cittadinanza a questa seconda op­
zione. Bersani tenta di coinvolgere nel nuovo governo
M5S che, per motivi vari, non è disponibile; l'occasione
storica tramonta, un (nuovo) governo appare ipotesi di ar­
dua realizzazione e, allora, si passa alla elezione del Presi­
dente della Repubblica. Chiunque, ma non una conferma
dell'uscente, tuona lo stesso Napolitano in buona compa­
gnia. Il PD non accetta la candidatura (fatta emergere dal
M5S) di un insigne giurista, molto di sinistra, il prof. Ro­
dotà, e, gira e rigira, molla e rimolla, chi viene eletto? Ma
Giorgio Napolitano, naturalmente; e il governo come sarà?
Ma PD-PDL, naturalmente.
Viene proposto, anzi, preposto, Enrico Letta che, prima
ancora di andare a giurare, scampa ad un attentato perché
lo sparatore (un novellino del terrorismo che, chissà come,
si rivelerà un tiratore scelto) - non si capisce se disperato
o meno, perplesso o meno, confuso o meno - ripiega su
due poveri Carabinieri , di cui uno in gravissime condizioni.
Enrico Letta annuncia il superamento dello schema

XXXIV
montiano. Da Berlusconi accetta la sospensione dell'IMU:
il PDL annuncia che farà cadere il governo se essa non sarà
definitiva. Incassa la chiusura della procedura contro l'Ita­
lia per deficit eccessivo. Si impegna a perorare la causa
della golden rule (investimenti per la ripresa anche in di­
savanzo). Sembra in preda alla tentazione di abbassare le
tasse sui neoassunti dimenticando che le imprese doman­
dano tanto lavoro quanto gliene serve per raggiungere
obiettivi produttivi dettati dagli ordinativi; se il super­
mercato mette in offerta l'acqua minerale ne posso acqui­
stare dieci casse, ma non mi metterò giornalmente a bere
venti litri d'acqua al giorno se prima ne bevevo due! Inol­
tre il film lo si conosce già: per risparmiare sul costo del la­
voro, le imprese si disfano di trentacinquenni o cinquan­
tenni (che, poi, sono, comunque, piu difficili da gestire) e
assumono giovani - scaricando sulla collettività la diffe­
renza - che poi, non appena compiranno 35, 40 o 50 ver­
ranno sostituiti di nuovo da lavoratori piu giovani, piu
istruiti, disponibili a paghe piu basse. Casomai si dovrebbe
puntare su un rilancio dell'apprendistato (che interessa
adeguatamente anche l'artigianato e le piccole imprese),
abbassando, sì, il piu possibile le cosiddette barriere al­
l' entrata, ma poi - questo è il punto - assicurandosi che il
lavoratore formato inizi una carriera stabile: non importa
se nella stessa azienda, nello stesso settore o nello stesso
Paese.
Non stupisce, quindi, se la situazione sociale ed econo­
mica ufficiale continua a peggiorare, sebbene l'Italia, come
si è accennato, si trovi in buona compagnia, in Europa ed
anche fuori di essa.
Pesa la difficoltà dello Stato a procurarsi liquidità per ri­
durre lo scarto tra cassa (fabbisogno) e competenza (spesa

xxxv
che viene stanziata e impegnata), il quale determina resi­
dui passivi come mancate erogazioni e trasferisce sulle
imprese la (ulteriore) carenza di liquidi.
Si arriva persino a confondere l'eventuale garanzia - a fa­
vore delle banche - su un debito proprio dello Stato con un
aumento della spesa pubblica.
La rinuncia alla sovranità monetaria, se non determina
una delega piena ed efficace alla BCE, è illegittima oltre
che dannosa. Ma la lira era sostenibile alle condizioni pre­
cedenti il 1 98 1, come si argomenta nel testo; oggi l'Italia,
con le modalità suggerite nell'articolato che si propone (al­
legato), potrebbe emettere Certificati di Credito Erariali
(CCE) che, utilizzati tra le imprese, immessi (con le mo­
dalità descritte) nei depositi bancari, accettati in paga­
mento di tasse e tributi, consentirebbero allo Stato di non
indebitarsi ulteriormente, onorando i propri impegni e di
dare respiro all'economia; nella prevedibile ipotesi di do­
ver gestire una successiva procedura di infrazione anche fa­
cendo pesare seri argomenti a proposito della contabilità
e dei modi di autorizzazione di mezzi monetari a favore di
Francia e Germania (di cui si è accennato nella seconda
come in questa edizione).
Oggi, prima delle elezioni tedesche del 22 Settembre,
quali previsioni si possono fare?
Il Giappone ha scelto la via dell'accelerazione del quan­
titative easing monetario: tassi di interesse reali negativi e
liquidità abbondante. Meglio della scarsità europea, ma
non appare la soluzione: i «fondamentali» del Giappone
non tornano in ordine per la semplicissima ragione che
l'elemento strategico sono i buoni investimenti (industrie,
infrastrutture, istruzione, welfare) , investimenti sosteni­
bili per uno sviluppo responsabile e a misura d'uomo.

XXXVI
Non sembrano sostenibili, né responsabili, le ipotesi di de­
crescita come quelle di crescita illimitata.
Al contrario, lo sviluppo dovrebbe essere un vincolo (da
parametrare alle esigenze di valorizzazione delle risorse
umane da occupare), mentre l'ambiente un obiettivo da
«massimizzare» in termini di benessere e qualità della vita.
L'ambiente come vincolo e lo sviluppo come obiettivo
appaiono un ossimoro col rischio o di bloccare lo svi­
luppo per proteggere l'ambiente o di non accettare che un
limite allo sviluppo ci sia: non quello che ritengono certi
ambientalismi (vedi il mio Oltre lo sviluppo sostenibile, cit.
in bibliografia) ma quello definito dai buoni, sostenibili e
necessari investimenti dell'economia reale.
Parimenti, le risorse monetarie non dovrebbero essere
né scarse (è insensato dal momento in cui esse non sono
piu legate ad alcunché di prezioso); né illimitate, come si
diceva, ma tante quante ne servono per realizzare gli in­
vestimenti di cui c'è bisogno.
Anche rispetto all'euro, occorrerebbe ribadire che non
può essere valida né la sua difesa acritica (a parte il princi­
pio di conservazione dell'esistente come punto di partenza
che, però, appare ardua in fasi storiche connotate da forti
mutazioni), né il suo abbandono, altrettanto acritico: certa­
mente esso ha fatto piu danni che altro - soprattutto- nei
Paesi mediterranei, ma il suo abbandono (anche con le mo­
dalità proposte nell'appendice alla precedente edizione) e
l'adozione della situazione pregressa, non sarebbe la solu­
zione dei problemi.
Le questioni monetarie, infatti, se male impostate -
come l'euro - determinano problemi; ma, se bene impo­
state, sono solo premessa necessaria di uno sviluppo che di­
pende dalla capacità di effettuare investimenti socialmente

XXXVI I
ed economicamente necessari o, almeno, non inutili. Si
parla, infatti, di sviluppo potenziale per intendere quello
in cui tutte le risorse reali vengono opportunamente uti­
lizzate e valorizzate.
Così, l'Italia può rinunciare alla moneta nazionale, ma
non alla moneta; e ciò vale per tutti i Paesi che abbiano ri­
sorse reali- soprattutto umane- da valorizzare. Ma persino
quelli che - teoricamente - fossero a sviluppo potenziale
zero o negativo (decrescita demografica e stabilizzazione del
PIL monetario procapite owero stabilizzazione di entrambi
gli indicatori) avrebbero bisogno di una vera moneta.
Fra l'altro, l'analisi del dato demografico recente, al­
meno in realtà come quella italiana, dimostra un aumento,
non dovuto alla semplicistica ragione delle presenze ex­
tracomunitarie, ma ad una non prevista tendenza dei cit­
tadini nazionali a fare piu figli: sommando, dunque, i due
effetti (nati da genitori comunitari e non) e sottraendo i de­
cessi, si ha che la decrescita del PIL disponibile procapite
è maggiore di quella del PIL reale.
Se non si cambia urgentemente la politica economica,
una eventuale decrescita del PIL monetario andrebbe a
pregiudicare consolidati equilibri sociali e previdenziali
O' attuale sistema italiano, infatti, detto «a contribuzione»,
è in equilibrio tendenziale- per definizione- con un tasso
di valorizzazione notevole, rispetto a tutti i fondi di altro
tipo, ma è legato alla media quinquennale del PIL mone­
tario o nominale).
Il problema della fuoriuscita dall'euro, come si cerca di
sottolineare nell'appendice (già della seconda edizione) si
diversifica a seconda della dimensione e delle caratteristi­
che di ciascun Paese.
La discriminante piu importante, infatti, potrebbe essere

XXXVI II
tra Paesi con sufficiente diversificazione produttiva e Paesi
troppo limitati o «specializzati». Ad esempio, la crisi po­
litica internazionale dell'euro ha avuto la sua impennata
con la situazione della Grecia: situazione che, lo si era di­
mostrato nelle precedenti edizioni di questo testo e lo si
conferma adesso, forse è stata voluta, certamente agevolata
dai comportamenti europei (soprattutto, ma non solo, te­
deschi) che avrebbero potuto e dovuto minimizzare il
danno. Ma, a prescindere da chi fa che cosa e perché, oc­
correrebbe domandarsi quanti yogurt sarebbero occorsi a
comperare (dalla Germania e dalla Francia) tutti quei sot­
tomarini e carri armati.
Nessuno qui discute la priorità, per la Grecia, di ar­
marsi, ma delle due l'una: o si hanno degli alleati (e, allora,
si possono studiare le ottimizzazioni situazionali) o non si
hanno e, allora, bisogna fare da sé. Vale a dire: tanti sot­
tomarini e carri armati di importazione quanti yogurt si rie­
scono ad esportare.
Questo discorso, però, andrebbe opportunamente ge­
neralizzato: a partire dal G7 del 1 979, contrariamente a
quanto era stato programmato e, in qualche modo pra­
ticato, dopo gli accordi di Bretton Woods del 1 944, si
decise che ciascun Paese dovesse essere responsabile
della propria bilancia dei pagamenti. In precedenza (fino
al G7 del 1 97 9), invece, erano i Paesi forti che, rivalu­
tando la propria moneta o accettando le svalutazioni di
quelli deboli, fornendo aiuti e altro, consentivano l'equi­
librio.
Dopo il 1 979, quell'equilibrio non c'è piu stato, perché
i Paesi deboli tendono a peggiorare (devono alzare i pro­
pri tassi di interesse per cercare di riequilibrare i loro di­
savanzi commerciali importando capitali) e quelli forti a

XXXI X
migliorare: possono ridurre al minimo il costo dei loro in­
vestimenti (reali, tecnologici, ecc.) avendo già un avanzo
della propria bilancia commerciale.
Per questo la Germania vuole esportare il piu possibile,
per minimizzare il costo del denaro owero ottenere lo
stesso risultato con meno moneta; per far ciò massimizza
la produzione (quindi l'occupazione) , ma, in difficoltà, ri­
duce i salari, dandone la colpa ai PIIGS e riversando
odio su di loro. A fine settembre, dopo le loro elezioni, sarà
possibile valutare l'effetto di tali dinamiche. Owiamente,
la Germania si sta awiando ad una situazione di super­
produzione che va bene per le esportazioni, ma può
esporla ad altri e piu seri problemi. Fra l'altro, nessun
Paese che voglia esser leader può evitare un disavanzo
commerciale: come gli USA, deve aiutare - finchè può e gli
stessi USA, ad esempio, non (ne) possono piu - gli alleati.
Quindi, la posizione tedesca è anomala: vuole dominare,
ma a spese degli altri. Questo non funziona: è un ele­
mento di forte debolezza per l'Europa, ma, paradossal­
mente, non sempre per l'euro . . . nel senso che - con le at­
tuali regole internazionali - la Germania potrebbe anche
fare di peggio.
Se una soluzione da economie chiuse (seppure nella ver­
sione keynesiana di un'apertura trascurabile) non pare
praticabile; se l'attuale soluzione delle economie aperte con
squilibri che aumentano Oa cosiddetta globalizzazione)
risulta, ormai, chiaramente, insostenibile; quale potrebbe
essere la vera soluzione?
Sembrerebbe importante sottolineare sia la svolta del­
l'ultimo congresso del Partito Comunista Cinese - ottobre
20 12 - di assegnare piu importanza allo sviluppo del­
l' economia interna e meno alle esportazioni, sia i primi ac-
XL
cordi «sistemici» tra i BRICS (Brasile, Russia, India, Cina,
Sudafrica) .
Essi hanno ormai deciso di fare una Banca Mondiale al­
ternativa e loro Agenzie di rating per opporsi alle politiche
e ai diktat delle versioni «occidentali» di esse; e, gli «Oc­
cidentali», owiamente, stanno - per ora - tuonando con­
tro gli stessi BRICS a causa di questa importante, storica,
decisione.
La possibile soluzione è un cambiamento di paradigma
epocale: fuori dalle economie chiuse (e da qualsiasi ana­
cronistica ipotesi autarchica), fuori dalle economie keyne­
siane, fuori dalla attuale globalizzazione, si potrebbe pro­
spettare un futuro in cui ciascun Paese spinge al massimo
le proprie capacità produttive interne e, per finanziare le
proprie importazioni necessarie, esporta le eccedenze: ma
queste ultime ad un prezzo arbitrario, vale a dire senza un
vincolo a portare i propri salari sotto quelli della concor­
renza. Fenomeno quest'ultimo che ha finito per depri­
mere la domanda complessiva e awiare la solita crisi da in­
sufficienza della domanda.
E l'Europa che farà? Si schiererà con gli USA, oramai
del tutto succubi della potenza egemonica inglese o at­
tenderà una nuova (possibile, ma non si sa quanto proba­
bile) indipendenza americana?
Anche per l'Italia potrebbero prospettarsi cambiamenti
epocali; soprattutto se l'attuale governo fallisse, la linea filo
mediterranea verso Africa, Medio-Oriente e Balcani po­
trebbe riacquistare peso e, chissà . . . potremmo parlare di
BRIICS ! ! !

3 giugno 2013

XLI
Presentazione della seconda edizione
Giugno 2012

La prima edizione di questo testo venne redatta alla fine


dell'estate del 20 1 1 quando una serie interessante di eventi
cominciò a determinarsi e produrre effetti: il trentennio !i­
berista sembrava chiudersi con la scoperta che si potevano
autorizzare emissioni di mezzi monetari per trilioni di dollari
(da fornire alle banche in difficoltà per i loro stessi compor­
tamenti) senza tema di inflazione; in seguito si farà lo stesso
in Europa e Mario Draghi confermerà la circostanza in sva­
riate occasioni nel corso del 20 12; l'economia basata solo sulla
prevaricazione del piu forte (non sempre il piu meritevole)
si rivela, miseramente, ingestibile; il «sistema» non è in grado
di fornire soluzioni, ma solo di contraddirsi sui principi, sul­
l'etica, sulle scelte pratiche.
In piu, rispetto alla prima edizione - di cui permangono
i tentativi di approfondimento della situazione non con­
traddetti dall'esperienza - si devono registrare: un netto ag­
gravarsi degli eventi; l'embrionale rafforzarsi di gruppi e
movimenti che, fra sogni pericolosi e proposte utili, comin­
ciano a rivisitare quella che decenni fa si chiamava «politica»
(in senso non spregiativo); l'aggiungersi di elementi nuovi
come la situazione della Deutsche Bank cui saranno dedicati
XLIII
passaggi decisivi per capire che la sorte dei PIGS (Portogallo,
Irlanda, Grecia, Spagna) o, se si vuole, dei PIIGS (l'ulteriore
I sta per Italia) non è migliorabile senza un rivoluziona­
mento delle regole già stabilite e degli atteggiamenti europei
owero da un qualche tipo di fuoriuscita dall'euro.
n fatto che molte istituzioni, infatti, abbiano speculato e
continuino a speculare sui differenziali nei tassi di interesse
(o spread) crea una convenienza al peggioramento delle
condizioni dei Paesi deboli: già si sapeva e sarebbe stato suf­
ficiente a capire che il circolo vizioso di alti spread (col Bund
tedesco) e spiazzamento delle risorse per lo sviluppo poteva
e può esser interrotto solo col ripristino di moneta sovrana
(europea, quale l'attuale euro non è, o nazionale); ma, adesso,
i titoli assicurativi che si valorizzano nella prospettiva di uno
o piu default, di uno o piu crolli degli Stati spiegherebbe in
modo maligno il comportamento di alcuni leader europei,
vale a dire che guadagni e vantaggi dei «forti» discendereb­
bero dalle sofferenze dei piu deboli.
Ne consegue una sostanziale ingestibilità della Germa­
nia nell'attuale contesto europeo: la Germania non po­
trebbe sostenere - e non avrebbe interesse a - soluzioni ve­
ramente stabili.
Recentemente, una ricercatrice italiana (Alessandra Nucci,
«Reliable Germans vs. foxy Italians?», Mercatornet del 20
giugno 2012, pag. 2) ha sostenuto e documentato che la
Germania contabilizza il proprio debito in modo di nascon­
dere che esso non è 1'80,7 % del PIL, ma il 1 85 % di esso.
Scendendo a livello microeconomico due fenomeni an­
drebbero, almeno, correlati. n primo: le operazioni finan­
ziarie fortemente speculative (destinate a bruciare i risparmi
di qualcuno a vantaggio di qualcun altro, come al solito) ri­
sultano oramai guidate da algoritmi matematici - del tutto
XLIV
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XII.
Allerlei Chronika von 1846—1849.
Anno 1846 Abends 7 Uhr am 29. August ertönten die Brand
Sturmglocken von allen Stadtthürmen, die Tamboure der vom
Communalgarde wirbelten durch die Straßen und die Hotel
Signalhörner der Jäger schmetterten durch die Luft. de
Feuerruf ertönte aus der Hainstraße! — Es brannte im Pologn
e.
Hotel de Pologne. Ein Markthelfer in der Droguenhandlung
von Marx daselbst war mit offener Kerze in den Keller des Hauses
gegangen, wo große Vorräthe von Naphta, Vitriolöl und Spiritus
lagerten und hatte daselbst ein Anfangs unbedeutendes Feuer
verursacht. Erschrocken suchte er es selbst zu dämpfen, aber im
Augenblick hatte dasselbe Spirituosen und andere feuergefährliche
Stoffe erfaßt und wuchs riesig an. Die schnell herbeigeeilten
Feuerwehren, insbesondere die Spritzen der Nachtwächter,
Lampenleute und Chaisenträger vermochten den brennenden
Stoffen gegenüber nichts zu thun. Man warf Sand, Erde und Mist in
die Flammen, aber umsonst, dieselben durchbrachen schnell das
Parterre und durchschlugen den ersten und zweiten Stock des
Hauses. Der furchtbare Dampf zwang Alles zum Zurückweichen.
Das Feuer griff mit solcher Gewalt um sich, daß in wenig Stunden
nicht blos das Hotel de Pologne, sondern auch der »blaue Stern«
und der »Adler« in Flammen stand. Leider erforderte der kolossale
Brand viele Menschenopfer. Ein vom »Stern« einstürzendes Fenster
erschlug von einem vorüberfahrenden Sturmfaß Pferd und Kutscher,
sowie des Letzteren Knecht. Die ganze Nacht über heulten die
Sturmglocken und nach und nach kamen sämmtliche Spritzen der
umliegenden Orte an. Auch das Tags zuvor ins Cantonnement
gerückte Schützen-Bataillon wurde zurückberufen und traf wieder in
Leipzig ein. Alle Fabriken stellten ihre Leute zur zeitweiligen
Ablösung der Bedienung der Spritzen zur Verfügung, ein Gleiches
thaten die Turner. Die Schlauchführer griffen den riesigen
Feuerheerd, mit Todesverachtung und unter eigener Lebensgefahr,
von allen Seiten an und drangen sowohl von der Rückseite — der
Katharinenstraße aus, wie vom Brühl und vom »großen
Joachimsthal« her über die Dächer vor, während Massen von
Schläuchen von den in der Hainstraße gegenüber liegenden
Häusern und deren Dächern ebenfalls Ströme von Wasser in die
Gluth sandten; aber erst nach fast drei Tagen furchtbarer Arbeit war
das Feuer auf seinen Heerd beschränkt. Dasselbe brannte nach
Außen noch länger als 14 Tage und von Zeit zu Zeit hörte man im
Innern die Explosion der Spiritusfässer.
Da gerade diese drei Häuser hunderten von auswärtigen Tuch-
und Buxkinfabrikanten als Verkaufslokale dienten und die Messe
unmittelbar bevorstand, so wurden auf den theilweise noch
rauchenden Trümmern schleunigst Buden für die alsbald
eintreffenden Fremden errichtet, aber als man nach der Messe, fast
12 Wochen nach dem Brande, den Schutt gründlich aufzuräumen
begann, stieß man immer noch auf brennende Stellen. Mehrere
Fremde, sowie ein Oberkellner des Hotels verbrannten in den
Zimmern. Unter der eingestürzten Einfahrt fand man beim
Aufräumen die Ueberreste eines Weinküfers, eines Wollsortirers und
eines Mannes von der Feuer-Colonne erschlagen vor. Ein wackrer
Schornsteinfeger rettete mit eigner Lebensgefahr mittelst einer Leiter
eine um Hilfe rufende Dame aus dem über und über brennenden 3.
Stockwerk des Adlers, indem er sie aus einem Fenster auf die Leiter
trug und, selbst vom Feuer verletzt, glücklich vor dem Einsturz des
Gebälkes zur Erde brachte. Die Knochen und sonstigen Ueberreste
von 8 Personen wurden nach einigen Tagen feierlich zusammen
beerdigt, 6 weitere Personen fand man erst später auf oder
dieselben starben nachträglich an ihren Brandwunden, der Letzte
derselben war der Maurer Gehlicke, der beim Retten verunglückt
war. Er wurde am 30. September 1846 als erste Leiche auf dem
neuen Johannisfriedhof an den Thonberg-Straßenhäusern beerdigt.
Am 28. September 1846 Nachmittags übergab Neuer
Bürgermeister Dr. Groß den neuen Johannisfriedhof zur Fried-­
Benutzung, worauf durch Superintendent Dr. Großmann, hof.
unter Theilnahme einer großen Menschenmenge, die
feierliche Einweihung desselben stattfand.
Anno 1847 am 16. August erschoß sich hinter den Erscho
Gärten bei Sellerhausen ein junges Liebespaar aus ss.
Volkmarsdorf. Der Jüngling war 18, das Mädchen 17 Jahre Liebes-­
alt. Das Mädchen wurde am 18. August unter Vorantritt der paar.
Geistlichkeit und der Schuljugend, sowie ihrer Angehörigen und
Freunde beerdigt. Die Jünglinge von Volkmarsdorf trugen den Sarg.
Der Leichnam des jungen Mannes kam auf die Anatomie!!!
Am 4. November 1847 starb hierselbst in der Mende
Königstraße der Königl. Preuß. Capellmeister Dr. Felix ls­sohn-
Mendelssohn-Bartholdy. Am 7. November wurde der Sarg Barthol
mit dem Leichnam des Verewigten unter Vorantritt zweier, dy †.
abwechselnd Trauer-Märsche spielender Musikchöre, unter großem
Blumen- und Palmenschmuck und dem Geleit der Mitglieder des
Conservatoriums, der Universität, der Civil- und Militairbehörden im
feierlichen Zug durch Petersthor und Petersstraße, Markt,
Grimmaische Straße in das Innere der Universitäts-(Pauliner-)Kirche
gebracht, vor dem Altar niedergesetzt und mit brennenden
Wachskerzen umgeben. Nach abgehaltenem Trauergottesdienst und
Absingen des Chorals »O Haupt voll Blut und Wunden etc.« unter
Orgel- und Posaunenbegleitung, wurde der Sarg Abends per
Extrazug nach Berlin gebracht.
Anno 1848 am 14. November kam die Nachricht von Robert
Robert Blum’s Erschießung, in der Brigittenau zu Wien am Blum †.
9. November, dem Tage vor seinem Geburtstage, nach
Leipzig und fand desselben Tages eine große Volksversammlung in
der Thomaskirche statt. Dieser folgte am 26. November 1848 die
Todtenfeier für Robert Blum in Leipzig. Auf dem Roßplatz stellten
sich sämmtliche Innungen und Corporationen mit ihren Fahnen auf,
darunter die Buchdrucker mit einer rothen Fahne und der Inschrift
von Blum’s Namen und Todestag. Punkt 11 Uhr marschirte der Zug
vom Roßplatz um die Promenade, an der Post vorbei, durch die
Hallesche und Katharinenstraße auf den Markt. Hier theilte sich der
Zug und hatte die erste Abtheilung Gottesdienst in der Nikolai- — die
Andern in der Thomaskirche. Nachmittags gab der Turnerchor auf
dem Exercirplatz bei Gohlis zu Ehren des Erschossenen drei Salven
ab.
Robert Blum wurde am 4. November in Wien, nach Bewältigung
des dortigen Aufstandes gefangen genommen und nach
kriegsgerichtlichem, durch den Fürst Windischgrätz bestätigtem
Urtheil am 9. November standrechtlich erschossen.
Am 7. December 1848 veröffentlichte Rechtsanwalt Dr. Gustav
Haubold im Leipziger Tageblatt Folgendes:
»Ich übergebe hiermit die Abschiedsworte Robert
Blum’s, zur Widerlegung vielfach verbreiteter Gerüchte,
der Oeffentlichkeit.
Leipzig, den 7. Dec. 1848.
Dr. Gustav Haubold,
Vormund der 4 unmündigen Geschwister Blum.
Diese Abschiedsworte aber lauteten:
Mein theures, gutes, liebes Weib!
Lebe wohl für die Zeit, die man ewig nennt, die es aber
nicht sein wird. Erziehe unsre — jetzt nur Deine Kinder zu
edlen Menschen, dann werden sie ihrem Vater nimmer
Schande machen. — Unser kleines Vermögen verkaufe
mit Hilfe unsrer Freunde. Gott und gute Menschen werden
Euch ja helfen. Alles was ich empfinde rinnt in Thränen
dahin, daher nur nochmals: leb wohl theures Weib.
Betrachte unsre Kinder als theuerstes Vermächtniß, mit
dem Du wuchern mußt und ehre so Deinen treuen Gatten.
Leb wohl, leb wohl! Tausend, tausend — die letzten Küsse
von:
Deinem
Robert.
Wien, den 9. Nov. 1848, Morgens 5 Uhr.
Um 6 Uhr habe ich vollendet!
Nachschrift.
Die Ringe hatte ich vergessen, ich drücke Dir den letzten
Kuß auf den Trauring. Mein Siegelring ist für Hans, die
Uhr für Richard, der Diamantknopf für Ida, die Kette für
Alfred als Andenken. Alle sonstigen Andenken vertheile
Du nach Deinem Ermessen. —
Man kommt, lebe wohl! Lebe wohl!

Anno 1849 wurde die frühere Getreide-Expedition am Neue


Königsplatz (jetzt Ecke Königsplatz und Markthallenstraße) Speise-­
in eine städtische Speiseanstalt umgewandelt. Die Portion anstalt.
Gemüse und Fleisch kam 12 Pfennige. Die Anstalt wurde am 1.
Februar 1849 eröffnet.
Am 6. Mai ging auch in Leipzig die Revolution los, Revolu-­
nachdem dieselbe bereits am 3. Mai in Dresden zum tion
Ausbruch gekommen war. Vom 3. bis mit den 5. Mai und
passirten viele Freischaaren nach Dresden hier durch, Straße
n­kampf
darunter allein 900 Mann aus Werdau und Crimmitzschau. in
Am 6. Mai sammelten sich Volksmassen auf dem Roß- und Leipzig
Königsplatze an, welche die Escadron der Communalgarde .
durch Einreiten zu zerstreuen suchte. Hierbei fiel ein
Schuß, wodurch ein Mann aus dem Volkshaufen verwundet wurde.
Nun begann der Kampf zwischen dem Volk und den Bürger-
Gardisten. Die Aufständischen erbauten Barrikaden an der Ecke des
Marktes und des Thomasgäßchens, ferner am Neumarkt, gegenüber
der Reichsstraße und die höchste und stärkste am Café Francais in
der Grimmaischen Straße. Hierbei plünderten die Aufständischen
den Meißnerschen Gewehrladen im Thomasgäßchen. Die Bürger-
Gardisten nahmen die Barrikaden am Thomasgäßchen und
Neumarkt schnell, wobei auf Ersterer der Souffleur Wrede vom
Stadttheater erschossen wurde; aber bei der Barrikade am Ausgang
der Grimmaischen Straße fanden sie so lebhaften Widerstand, daß
sie sich am 6. Mai zurückziehen mußten, wobei Gardist Müller
erschossen und die Gardisten Böttchermeister Herrmann und
Bäckermeister Ottilie verwundet wurden. Erst am Morgen des 7. Mai
zwischen 5 und 6 Uhr gelang es der Bürger-Garde auch die letzte
Barrikade zu nehmen, wobei Gardist Seidenwaarenhändler Gontard
todt blieb und auf Seiten der Aufständischen der Schmiedegesell der
Leipzig-Dresdner-Bahn Merkisch fiel. Auch ein armes
Dienstmädchen Namens Emilie Dreßler, welche im weißen Engel
diente, wurde hierbei beim Milchholen auf dem Grimmaischen
Steinweg durch eine Kugel getödtet. Hiermit war der Aufstand in
Leipzig zu Ende.
Am 9. Juli starb noch an seiner Wunde Gardist Böttchermeister
Herrmann und wurde gleich den Gardisten Müller und Gontard mit
militairischen Ehren beerdigt.
Am 1. November wurde die Gottesackermauer, welche Alter
die um die Johanniskirche liegende Abtheilung des alten Friedh
Friedhofes umgab, niedergelegt und der Platz bis an den of.
Spittel eingeebnet und freigemacht.
XIII.
Die innere Stadt zur Messe vor 40
Jahren.
Bei den jetzigen Anstrengungen, welche man in
anerkennenswerther Weise macht, um die Leipziger Messen wieder
zu heben und den früheren Verkehr, wenn auch nur annähernd,
wieder herbeizuführen, dürfte es gewiß Jedermann interessiren,
einen Blick auf das Leben und Treiben innerhalb unseres Leipzig zur
Meßzeit um 40 Jahre zurückzuwerfen. Wer den damaligen Verkehr,
der bis zum Anfang der sechziger Jahre unseres Jahrhunderts
fortwährend stieg, um allerdings dann durch den Ausbau des
Eisenbahnnetzes und andere gewichtige Factoren, bis zur Mitte der
siebziger Jahre erst allmälig, dann aber, hauptsächlich wohl mit
veranlaßt durch allerlei verkehrte und den freien Verkehr hemmende
Maßregeln, rapid abzunehmen, nicht mit eigenen Augen gesehen
hat, vermag sich wohl kaum noch einen Begriff von demselben zu
machen, und deshalb soll eine möglichst genaue Schilderung
desselben in diesen Blättern den jetzigen und vielleicht auch
späteren Generationen ein Bild von demselben geben. Wenn wir
sagen, daß in der inneren Stadt z. B. jedes Haus bis in seine
entferntesten Winkel dazu eingerichtet war, Meßzwecken zu dienen,
so mag Mancher dies jetzt für arge Uebertreibung halten, und doch
war es nicht blos in der That so, sondern — was die Hauptsache ist
— diese entferntesten Winkel waren auch mit Verkäufern besetzt
und wurden mit horrenden Miethpreisen bezahlt. Es ist natürlich, daß
zu jener Zeit die Besitzer von Häusern der inneren Stadt thatsächlich
im Besitz der »goldene Eier« legenden Henne waren und an jene
Zeiten mit Wehmuth und voller Groll auf die Jetztzeit zurückdenken.
Gab es doch Grundstücke, welche durch ihre Meßvermiethungen
riesige Erträge abwarfen, und wenn z. B. zu jener Zeit Auerbach’s
Hof zu jeder Stunde, Tag und Nacht, das ganze Jahr über gerechnet,
einen Doppellouisdor eingebracht haben soll, was ungefähr jährlich
300 000 Mark beträgt, so ist dies ganz sicher nicht das einzige, ja
höchst wahrscheinlich noch gar nicht das einträglichste Grundstück
gewesen. Gab es doch Häuser, in denen sich, wie im Hotel de
Pologne, Elephant, goldnen Hahn, Anker, gr. Joachimsthal,
Mauricianum etc. etc. Hunderte von Ständen und Verkaufsgewölben
— ferner das alte Gewandhaus mit seiner riesigen Anzahl von
Tuchständen auf den sogenannten Tuchböden — befanden, und
einfache Hofstände wurden mit 4—500 Mark pro Messe, kleinere
Läden mit 8—1200 Mark und große Gewölbe mit 1500 bis 2000
Mark für die Hauptmesse bezahlt. Ja selbst in der nie zu der Größe
der Hauptmessen gekommenen, nur zwei Wochen währenden
Neujahrsmesse war der Verkehr immer noch ein vielfach stärkerer,
als jetzt zu den Hauptmessen. Aber alle diese Hausstände und
Läden genügten noch bei Weitem nicht für den riesigen
Engrosverkehr, denn es waren noch alle Straßen und Plätze mit
Buden für die kleineren Fabrikanten und Grossisten besetzt, und in
den Hauptstraßen befanden sich Waarenlager bis in die dritten und
vierten Stockwerke der Häuser. Dabei hatte jede Branche ihre
bestimmten Straßen inne. Die Grimmaische Straße, in welcher
Verkaufsstände und Buden fast die Hälfte der Straßenbreite vom
Grimmaischen Thor bis zum Markt einnahmen, enthielt die Lager der
Damenconfection, der Herrenconfection, Blumenfabriken, Gold- und
Silber- und Bijouteriewaarenfabrikanten, sowie Hüte, Mützen und
Kunsthandlungen (Bilder). Im Mauricianum hielten Hunderte von
Lederhändlern, ebenso im rothen Colleg und der ganzen
Ritterstraße, welche noch Buden für Kunstleder, Schäftefabriken,
Nähnadeln und Zwirngrossohändler trug. Der Nicolaikirchhof und die
Nicolaistraße waren mit rheinländischen und Lausitzer Posamenten,
Apoldaer Strumpf- und Phantasie-Wollartikeln, sowie sächsischen
Baumwollwaaren besetzt. Im Salzgäßchen domicilirten sächsische
Cravatten-, Cachenez- und Taschentücherfabriken und Grossisten,
im Goldhahngäßchen Chemnitzer Damaste und Berliner Chales und
Tücher. In der Reichsstraße standen die großen Firmen der
Manufacturwaarenbranche aus Greiz, Gera, Glauchau, Meerane,
sowie solche, die englische und sächsische Lüsters und Orleans
führten; in den Höfen und Durchgängen, sowie im Böttchergäßchen
wurden Hohenstein-Ernstthaler Westen, Bett- und Tischdecken,
Teppiche und Läuferstoffe, baumwollene Cords und Hosenstoffe,
Lamas und Flanelle, sowie Möbelplüsche feilgehalten. In der
Katharinenstraße waren die großen Lager Eilenburger und Berliner
Kattune und Piqués, die Lausitzer Leinwand-, Gedeck- und
Handtuchfabrikanten, Shlipse und Cravatten, Drelle und Bettzeuge
zu finden. Im Brühl von der Reichsstraße bis zur Hainstraße
befanden sich schweizer und englische, sowie sächsische Gardinen,
Crefelder und Berliner Seidenwaaren und Sammete, Jupons und
Schürzen, sowie Breslauer und Berliner Futterstoffe, im untern Brühl
bis zur Ritterstraße der riesige Rauchwaaren-, Fell-, Borsten- und
Därmehandel, sowie der jüdische Trödelmarkt, letzterer auf
hunderterlei Ständen mit ebensovielerlei alten und neuen
Gegenständen. Einen geradezu riesigen Complex aber nahmen die
noch jetzt zahlreichen Tuch- und Buckskin- und
Confectionsstofffabriken und Grossisten damals ein. Alle Höfe und
Durchgänge von der Katharinen- nach der Hainstraße, von dieser
bis zur Fleischergasse und wieder von dieser bis zum Neukirchhof,
auf welchem sich noch Hunderte von Ständen in Buden befanden,
sowie sämmtliche Läden der genannten Straßen waren mit dieser
Branche bis in die kleinsten Winkel besetzt. In den großen Läden der
Hainstraße dominirten die Berliner Weltfirmen der
Confectionsstoffbranche, welche oft mit einem Apparat von über
einem Dutzend Leuten, bestehend aus Chef, Procurist, Buchhalter,
Commis, Lehrlingen und Markthelfern, zu denen sie aber noch ein
anderes Dutzend Packer und Meßhelfer hier engagirten, zur Messe
kamen. Das Gewicht der Waaren, welche diese Häuser, wie Jacob
Landsberger, Reinhold Wolff und Co., Rosenstiel Söhne,
Morgenstern Söhne etc., hierher mit zur Messe brachten, betrug
Hunderte von Centnern, und bereits Wochen vor der Messe trafen
Ladungen derselben hier ein. Vor uns liegt die Specificirung der
Meßspesen eines solchen Geschäftes, dieselben betrugen für eine
einzige Michaelismesse in ihrer Gesammtheit 3215 Thaler 28
Neugroschen, also fast 10 000 Mark; dabei ist jedoch ausdrücklich
bemerkt, daß in dieser Summe die Gehalte des mitgebrachten
Personals nicht mit inbegriffen waren. Diese Geschäfte führten Alles,
was zur Herren- und Damenconfection (die Confection erstreckte
sich damals bei Damen nur auf Mäntel etc., nicht auf Kleider)
gehörte: Buckskins aller Art, Tuche, Ratiné, Double, Krimmer,
Plüsche etc. bis herab zu den Cloths. Welchen Meßumsatz ein
derartiges Haus machen mußte, um nur erst die Spesen zu
verdienen, kann sich wohl Jeder leicht vorstellen. Sie verdienten
aber nicht blos die Spesen, sondern mehr.
Die Katharinenstraße zur Messe Anno 1850.
Im großen Joachimsthal, Stern und Hotel de Pologne standen
die Tuch- und Buckskinhändler aus Aachen, Verviers, Quedlinburg
und Berlin, in den anderen Häusern und Straßen, sowie auf dem
Neukirchhof die Fabrikanten aus Cottbus, Spremberg, Forst, Sorau,
Crimmitschau und Werdau. Die kleineren Fabrikanten feiner Tuche
standen seltsamerweise weit von ihren Collegen entfernt und zwar
auf dem Neumarkt und im Gewandhaus. Es waren dies die aus
Roßwein, Leisnig und Döbeln. Auf der oberen Hälfte des
Neumarktes standen die Antiquare, in den Höfen und Hausfluren die
Gemäldehändler. Die Petersstraße war damals nur wenig
geschäftlich belebt, es saßen deshalb rechts und links auf derselben
die Obsthändler. Auf dem Marktplatz fanden sich Spielwaaren,
Geigen- und Instrumentenfabriken, Annaberger geklöppelte Spitzen,
Marmor-, Glas- und Meerschaumwaaren und tausenderlei Anderes,
im Thomasgäßchen Pariser Bijouterien, Schweizer Weißwaaren und
Spielwaaren. Auf dem Thomaskirchhof befanden sich die Eisen- und
Kurzwarenhändler.
So waren in der inneren Stadt die Branchen vertheilt, dabei fand
ein fortwährendes Gewühl und Gedränge statt: vor den
Geschäftslocalen standen trotz der die Straßen ohnehin sehr
beengenden Buden noch Pyramiden von Kisten und Waarenballen,
und auf dem schmalen, nun noch übrigen Fahrweg schlängelten sich
hin- und herschleudernde Schleifen, Roll- und Lastwagen,
Droschken und Handwagen im bunten Knäuel durcheinander.
Arbeiten — feste arbeiten! war die Losung während der Vor- und
Engroswoche, und wenn Abends spät in den Geschäften endlich die
Läden vorgesetzt wurden und der Andrang der Käufer für den Tag zu
Ende war, dann ging das Zusammenstellen der Commissionen, das
Registriren, Facturiren, Copiren, Vergleichen und Verpacken los,
denn am Tage war dazu keine Zeit, und oft schliefen die Ermüdeten
die wenigen verbleibenden Stunden auf den Ballen. Aber »der Alte«
ließ sich in dieser Zeit schwerer Arbeit »nicht lumpen«, es gab Bier,
Kaffee, Punsch und kalte Küche im Ueberfluß, und die
»Meßgratification« war auch nicht zu verachten.
Wo sind jetzt jene Zeiten? Längst und wohl für immer
vergangen! — — Die Buden verschwanden von den Straßen, die
sonst so belebten Höfe stehen meist leer, die Regaleinrichtungen in
den Hausfluren verfallen, und die früher so beschäftigten
Ballenaufzüge in den großen Durchgängen strecken betrübt ihren
Arm in die Luft. Daß bei solchem Verkehr und den kolossalen
Geschäftsumsätzen natürlich auch eine Menge Menschen ihre
Existenz fanden, ist einleuchtend. So kamen speziell aus den
ärmeren Gegenden des Erzgebirges und Vogtlandes zu jeder Messe
Hunderte von Leuten mit ihrem Schiebebock (einrädriger
Handwagen) und der hölzernen Trage zu Fuß nach Leipzig, lösten
sich für wenige Groschen bei der Behörde einen Arbeitsschein,
wurden registrirt und erhielten nun eine um den linken Arm zu
tragende Blechmarke mit ihrer Nummer. Diese Leute traten nun als
Packer oder Meßhelfer bei den Fremden in Dienst, erhielten zwei
Thaler pro Tag und kehrten nach der Messe ebenso wieder zu Fuß,
diesmal aber mit einem hübschen Sümmchen ersparten
Verdienstes, in ihre Heimath zurück. Sie waren treu und ehrlich und
meist viele Jahre bei demselben »Meßfremden« thätig. Solcher
Existenzen aber gab es vielerlei, und so verbreitete die Leipziger
Messe ihren Segen tausendfältig bis weit in die Ferne. Aber auch die
Leipziger Gewerbe fanden durch die Messe und ihren riesigen
Verkehr reichlichen Absatz. Zimmerleute zum Aufbau der tausenden
von Meßbuden, Tischler und Schlosser zu den Regalen,
Firmenschreiber, Schneider und Schuhmacher, alle, alle mußten zur
Messe mit verstärkten Kräften oft Tag und Nacht arbeiten.
Vom Bäuerlein, das zur Messe mit seinen Gäulen kam, um bei
Spediteuren oder dem Rollfuhrverein in den Dienst zu treten, bis
zum Rußbuttenmann und dem Verkäufer des »Wach—holder—beer
—saft«, von der armen Wittwe, die zur Messe mit Kind und Kegel in
der ärmlichen Küche auf der nur nothdürftig mit Stroh bedeckten
Diele schlief, um ihre Stube einem »Meßfremden« einzuräumen, bis
zum Hotel I. Ranges — Alle fanden Brot und Nahrung von der
Leipziger Messe.
XIV.
Der damalige Meßfremde.
Der »Meßfremde«, in keiner Weise identisch mit dem jetzt
gleich einem flüchtigen, oft nur scheinbar glänzenden Meteor nur auf
Tage die Messe besuchenden »Meßonkel«, war im Gegensatz zu
diesem leichtlebigen, anspruchsvollen, über alles raisonnirenden, oft
nur dem Vergnügen huldigenden und ebenso schnell, wie er
gekommen, wieder verschwindenden, unbeständigen Meßbesucher
— ein Mann von soliden Grundsätzen. Bescheidenheit und
Anspruchslosigkeit bezüglich der Meßquartiere und Toleranz gegen
mäßige Meßpreise und entsprechend verkleinerte Beefsteaks, sowie
den damals noch weitberühmten sächsischen Kaffee war seine
lobenswerthe Eigenschaft. Er nahm es nicht übel, wenn er für das
Bett in einem Zimmer des 4. Stockes, welches Zimmer außer ihm
noch zwei, drei andre »Meßfremde« zur Nachtzeit bewohnten, für
die Nacht drei Mark bezahlen mußte, und fiel nicht vor Schreck auf
den Rücken, wenn er des Morgens seine Stiefel nur mit
Studentenwichse (Speichel) nothdürftig gewichst fand. Wußte er
doch, daß im Uebrigen seine »Wirthsleute« Alles thaten, was sie ihm
an den Augen absehen konnten; und war erst der ärgste
»Meßtrubel« vorüber und die Masse der großen Einkäufer wieder
abgereist, dann avancirte er ohne Preiserhöhung zum Selbst- und
Alleinherrscher in seiner Stube, die Wirthin kochte ihm seine
Lieblingsgerichte. Der Kaffee wurde nicht mehr gar so sehr »in die
Länge« gezogen, er trat in den Alleinbesitz eines pfundschweren
Hausschlüssels, den er sich wegen der Größe und des Gewichtes
desselben in den auf seiner Kehrseite befindlichen Hosenriegel
schnallte, und schäkerte gern mit den ihn »Onkel« anredenden
Kindern seines Gastfreundes, selbst wenn dieselben nicht
weiblichen Geschlechtes und jünger als 16 Jahre waren. Schon sein
ganzes Aeußere bei seiner Ankunft machte einen
vertrauenerweckenden, soliden Eindruck. Seine Hauptkennzeichen
waren im Sommer langer Gehrock und hochgeschlossene Weste mit
massivgoldener Uhrkette nebst daran hängendem Petschaft,
niedrige Reisemütze mit breitem Schild, Regenschirm,
Cylinderhutschachtel, Geldkatze, bescheidene Vatermörder mit
schwarzseidenem Halstuch und dickbauchige Reisetasche mit den
aufgestickten Worten »Bon voyage« oder »Au revoir«; im Winter
kam ein mächtiger Reisepelz, Pelz- oder lange Filzstiefel oder
Fußsack (letzterer wieder mit Stickerei versehen), sowie ein dicker, 3
—4 Ellen langer gestickter Shawl hinzu, dessen Enden ihm
malerisch bis auf die Knie herabfielen. Den Platz der Sommermütze
hatte dann eine runde Pelzmütze eingenommen. So entstieg er
pustend, aber munter und beweglich, dem Post- oder
Eisenbahnwagen, mit nie fehlender Pünctlichkeit empfangen von
seinem über das ganze Gesicht lachenden erzgebirgischen
»Meßhelfer«, der nun hinter seinem »Herrn« mit dem Gepäck ins
»Logis« trabte. Hier fand nun feierlicher Empfang statt, der
»Meßfremde« schälte sich aus und hörte nun ebenso gewissenhaft
den Rapport seines »Wirthes« über etwaigen neuen
Familienzuwachs oder sonstige intimere Familienereignisse mit an,
wie er selbst gewissenhaft über die Seinen zu Hause rapportirte;
denn der »Meßfremde« wohnte oft wieder in derselben Familie, in
welcher schon sein Vater gewohnt hatte, und oft verband die beiden
Familien langjährige, enge Freundschaft. Nachdem sich der
»Meßfremde« von den Strapazen der Reise erholt hatte, ging es
sofort an die Arbeit, denn obwohl er meist schon Mittwoch oder
höchstens Donnerstag vor der »Vorwoche« eingetroffen war, gab es
doch scharf zu thun. Da mußte der »Meßzoll« (pro Centner 25
Pfennige) erlegt, die Ballen und Kisten angenommen und controlirt
und dann — zunächst hinter verschlossenen Ladenthüren —
ausgepackt werden. Daneben gab es die langjährigen Nachbarn,
welche ebenfalls aus allen Richtungen der Windrose eintrafen, zu
begrüßen, um Abends todtmüde in den »Kahn« oder »Gondel« zu
fallen. Freitags und Sonnabends trafen bereits die »Einkäufer« ein,
machten ihre Runden, drangen bis in die dunkelsten Winkel der
Höfe, und Montags ging das Geschäft los. Da wurde geprüft und
untersucht, geschachert und gefeilscht, die dickleibigen Brieftaschen
der Einkäufer wurden schlanker und zusehends dünner, dagegen
füllten sich die Geldkatzen der Verkäufer. Alle Quartiere waren
doppelt und dreifach belegt, die Hotels und Gasthöfe bis auf den
letzten Vorsaalplatz besetzt, und in den Judenherbergen in den
Hinterhäusern des Brühls und der Ritterstraße lagen die Söhne
Israels schichtenweise zur Nachtzeit neben- und aufeinander. Alles
arbeitete, hastete, lachte, scherzte, denn Alles verdiente Geld, und
»Leben und leben lassen« war der allgemeine Wahlspruch. Waren
aber die »großen Einkäufer« wieder verschwunden und die
Vorwoche zu Ende, so stellte sich zur nun kommenden Meßwoche
die »kleine Kundschaft aus der Provinz« ein. Diese treuesten aller
Kunden brachten ebenfalls straffe Beutel mit, beglichen ihre alten
Conten und belasteten dieselben durch neue Einkäufe. Das
Geschäft war hier ein glattes, auf gegenseitigem, durch langjährige
Verbindung begründetem Vertrauen basirend. Immer noch war die
Arbeit eine scharfe, angestrengte, denn wenn sich auch die zweite
Woche ihrem Ende zuneigte, die »Kunden« seltener wurden, fehlte
es doch nicht am Geschäft. Es stellten sich die Männer mit der
scharf ausgeprägten Physiognomie ein. Sie fragten nach »ä
Pöstchen Waare« oder »ä Ramschpöstchen, er kann sein groß oder
klein« — und dann neigte sich die Engrosmesse ihrem Ende zu, und
die Arbeit ließ bedeutend nach.
Jetzt ging aber auch mit dem »Meßfremden« eine bedeutende
Umwandlung vor. Er häutete sich geradezu.
Er steckte eine unternehmende, ja kecke Miene heraus; kam
der Abend heran, so legte er »den guten Anzug« an, steif gestärkte
Vatermörder, von einer leichtfertigen bunten Halsbinde lose
umschlossen, schauten über die großgeblumte seidene Weste mit
dem breiten Kragen; in der Mitte des Vorhemdchens prangte eine
ungeheure Busennadel, der langschößige solide Rock verschwand,
und ein »Schniepel« (Frack) oder kurzer Rock mit breitem Revers
umhüllte nur flüchtig seine Hüften. Breite Galons und straffe Stege
zierten die hellen Hosen, ein schwindelhaftes Fischbeinstöckchen
ersetzte den soliden Familienregenschirm, und der nach oben kühn
geschweifte Cylinderhut hielt aus der Tiefe seines Futterals seine
Auferstehung. Haupthaar und Backenbart erhielten durch
Brenneisen und Bürsten sanfte Kräuselungen und einen kühnen
Schwung, der Trauring marschirte in die Tiefen der Westentasche
und — — — der »Meßfremde« stürzte sich — in den
darauffolgenden Tagen am chronischen Kater leidend — mit
Todesverachtung in die Freuden und Genüsse der Messe, heute hier
— morgen da »den Affen loslassend« bis das allmälige
Verschwinden fast aller Einkäufer und auch etwas »moralischer
Katzenjammer« ihn wieder solideren Bahnen zulenkte und er — den
Trauring wieder ordnungsgemäß placirend — dem verführerischen,
aber, ach, so gemüthlichen Leipzig wieder einmal Ade sagte, schon
im Voraus die Wochen berechnend, welche vergehen mußten, ehe
er hier wieder seinen Einzug halten konnte.
XV.
Wichsekrah!
Einer der beliebtesten und drolligsten Volksoriginale der
damaligen Zeit in Leipzig war ein kleiner kaum vier Fuß hoher Mann,
im Volksmunde »Wichsekrah« genannt und unter diesem Namen
nicht blos den Einheimischen, sondern auch fast allen regelmäßigen
Meßbesuchern wohl bekannt. Seine zwerghafte aber keineswegs
verwachsene Person steckte stets in einem abgetragenen
schwarzen Anzug, Rock mit langen Schößen, Weste und meist viel
zu langen Hosen. Sein verhältnißmäßig viel zu großer Kopf, auf dem
er stets einen mehr oder minder abgeschabten Cylinderhut trug, war
nur von spärlichem Haar bedeckt, eine dicke, ziemlich lange Nase
saß in dem schwammigen, finnigen Gesicht und den großen breiten
Mund mit den wulstigen Lippen beschattete eine Anzahl Haare
zweifelhafter Farbe, welche Wichsekrah in ihrer Gesammtheit mit
dem Namen Schnurrbart beehrte: doch behaupteten seine
besonderen Gönner, insbesondere die stets zu allerlei Allotria
aufgelegten Studios, es seien die Motten in diese defecte und
lückenhafte Manneszierde hineingekommen. Ein Vorhemdchen,
dessen Weiße niemals zweifelsohne war, und dessen Hüftbänder
ihm consequent unter den Rockschößen hervorbaumelten, bedeckte
die breite Heldenbrust des kleinen Mannes, und ein Paar ebenfalls
bezüglich ihrer Farbe zwischen dem Weiß der Unschuld und einem
soliden Schmutziggrau schwankende Vatermörder umschlossen,
festgehalten durch ein altes zerknittertes Halstuch, den Hals
Wichsekrah’s.
Wenn wir nun noch hinzufügen, daß derselbe infolge einer
Angewohnheit den Kopf ein wenig nach links geneigt trug, wodurch
der linke Vatermörder stets traurig, einer geknickten Lilie gleich,
seine Spitze abwärts senkte, während die des rechten kühn in die
Lüfte starrte, so haben wir mit historischer Treue das Bild unseres
Helden der jetzigen und den späteren Generationen vor die Augen
geführt. — — Halt! Noch Eines fehlt! Eines — ohne welches
Wichsekrah eben nicht Wichsekrah gewesen wäre, eines — ohne
welches man ihn nie sah — das zu ihm gehörte wie die Sohle zum
Stiefel und der Kaftan zum polnischen Juden.
Dieses Eine war — sein Kasten; ein ziemlich großer, sehr fester
Holzkoffer, den sein Besitzer stets an einem breiten Lederbande,
welches er über die Brust und Schulter hängte, mit sich herumtrug.
Dieser Kasten, viel zu groß für seine angeblichen Zwecke, als
Behälter der wenigen Schachteln und Büchsen mit Wichse, Pomade
und Streichhölzern, mit welchen Gegenständen Wichsekrah
handelte, war denn auch zu Höherem bestimmt, denn — er war das
Podium eines ausübenden Künstlers, Declamators, Sängers und
— — Tänzers, als welcher sich einem verehrungswürdigen,
kunstliebenden Publicum, mochte dasselbe nun aus halbwüchsigen
Jungen, auf den Katerbummel begriffenen Studios oder ulklustigen
Meßonkels bestehen, wenn es nur irgend Geld einbrachte,
Wichsekrah sich entpuppte. Wichsekrah war trotz seines nicht sehr
geistreichen Aussehens und der dämlichen Miene, welche er in der
Regel aufsteckte, ein ganz aufgeweckter, heller Junge und in erster
Linie Geschäftsmann.
»Vor Nischt — is Nischt! — Die Wichs is gut!« war sein
heimlicher Wahlspruch, und der Zusatz »De Wichs is gut« war ihm
so zur Gewohnheit geworden, daß er überhaupt jeden Satz, jede
Rede und Declamation, ja sogar seine Leistungen auf dem Gebiete
Terpsichorens stets und unwiderruflich damit schloß. Leider stieß er
beim Sprechen etwas mit der Zunge an, was seine rhetorischen
Leistungen einigermaßen beeinträchtigte. An gewöhnlichen ruhigen
Tagen war Wichsekrah nur selten zu sehen, er besuchte dann
höchstens ab und zu die Kneipen der Studentenschaft, aber wenn
irgendwo zu einem Feste die Massen zusammenströmten,
hauptsächlich aber wenn Tausende von Meßfremden die Straßen
bevölkerten, dann fehlte auch Wichsekrah niemals und je lebhafter
es zuging, desto mehr war er in seinem Element, desto mehr ging er
aus sich heraus, desto größer war er in seinen Leistungen.
»Hollah — da is Wichsekrah! — Wichsekrah Hurra! Declamire
mal — willst ne feine Habbannah?«
Der Angeredete blinzelte unter seinen buschigen Brauen die ihn
auf diese Art Anredenden grüßend und schläfrig listig an.
»Wennst de eene hast?« schmunzelte er dann vergnügt, wenn
die Prüfung wenigstens mittelmäßig befriedigend ausgefallen war.
»De Wichs is gut!«
»Hier — eine ganz feine!«
Krah betrachtete die erhaltene Cigarre mißtrauisch eine Weile.
»De hast doch kee Feierwerk neingethan? De Wichs is gut.«
»I — wo — aber nu declamire ooch e mal — — —«
Aber Wichsekrah kannte seine Verehrer, hier war außer der
Cigarre sicher nichts Baares zu holen, eine Cigarre aber war nischt
und »vor Nischt is Nischt«. Er steckte deshalb auch die Giftnudel, als
was er sie sofort erkannte, ruhig ein, sagte:
»Danke — de Wichs is gut!« und trollte weiter, den etwas
verblüfften Cigarrenspender mit Gelassenheit dem spöttischen
Gelächter seiner Genossen preisgebend.
Es ist am Ende der Engroswoche. Die Vorwoche der Messe mit
ihren zur Zusammenstellung und Verpackung der massenhaften
Verkäufe durchgearbeiteten Nächten ist vorüber, und das
Engrosgeschäft neigt sich seinem Ende zu. Die stillen Tage
beginnen und vor den Geschäftslocalen stehen die Chefs und
Commis in rosiger unternehmender Laune, denn die Messe war gut
und der Umsatz ein bedeutender, kein Wunder, daß Scherz und
allerlei Ulk getrieben wird, zumal die fremden Verkäufer einander seit
vielen Jahren kennen und hier zusammen hausen. Da kommt
Wichsekrah mit seinem Kasten auf dem Rücken, einen qualmenden
Cigarrenstummel im Mundwinkel, langsam dahergebummelt, und im
Nu ist er von dem fidelen Chorus regelrecht gestellt.
»Guten Tag, meine Herren — scheene Wichse, Pommade,
Streichhelzer — de Wichs is gut!«

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