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Ὅ ρ ἐ Ὁ ήρ υ σαφ ί ει μ introduzione a Megastene

Noi uomini, noi persone intelligenti, come amiamo definirci,


agiamo più o meno nello stesso modo, e ne sono una prova i nostri
ragionamenti eruditiέ Dapprincipio l’erudito si accosta a una
questione con straordinaria codardia, esordisce timidamente, con
sobrietà, esordisce con la domanda più umile: «Non proverrà forse
di lì? Non è forse da questo angolo che l’intero paese ha preso il
nomeς»έ τppureμ «Questo documento non sarà forse di un’epoca
diversa, più tarda?». Oppure: «Non bisognerà, invece di questo
popolo, intenderne un altro?». E cita senza indugio questi e quegli
scrittori antichi, e non appena coglie in essi una qualche allusione,
o quel che gli sembra un’allusione, subito si mette a trottare, e si fa
animo, conversa senza tante cerimonie con gli scrittori antichi, fa
loro domande, e arriva persino a rispondersi per loro, dimenticando
completamente di aver cominciato da una timida supposizione; già
gli sembra di vedere il tutto chiaramente, e il ragionamento si
conclude con le parole: «Ecco dunque come sono andate le cose,
ecco dunque quale popolo bisogna intendere, ecco dunque da che
punto di vista occorre esaminare la faccenda!». Quindi si mette a
urlare a gola spiegata, dall’alto della cattedra, e la verità appena
scoperta se ne va in giro per il mondo, raccogliendo seguaci e
ammiratori.

(σέ ύogol’, Le anime morte1)

Uno studio dettagliato degli Indika di Megastene, opera frammentaria dedicata ad una
presentazione generale dell’India, presenta numerose incogniteμ le informazioni che si hanno a
disposizione sulla figura di questo autore, enigmatico ambasciatore in terra indiana a cavallo di
quarto e terzo secolo aέωέ, sono ridotte all’estremo, così come sono scarse le fonti utili a ricostruire
l’India che egli ha visitatoέ χ questo si aggiunga che lo stato frammentario del suo lavoro ha lasciato
spazio alle più varie interpretazioni. Nel corso degli ultimi due secoli, su Megastene è stato detto di
tutto: che fosse un ottimo storico o che non lo fosse; che avesse un grande spirito di osservazione o
una scarsa capacità di filtrare le notizieν che la sua opera dovesse preparare un’invasione dell’India
oppure che fosse scritta dopo il fallimento di quella stessa spedizione; che alla base della redazione
ci fossero basi filosofiche o scopi prevalentemente politici. Di fronte a questo mare magnum
interpretativo, si rende necessario isolare i pochi dati certi che la tradizione fornisce, inserendoli
all’interno della cornice politica e culturale in cui εegastene ha operatoέ Per rispondere a tali
esigenze, questa introduzione si muoverà su tre piani diversi: in primo luogo, si tenterà una
ricostruzione del contesto storico degli Indika, ovvero della situazione indiana alla fine del quarto
secolo (§ 1)ν in seguito, si presenterà la tradizione etnografica greca dedicata all’India prima di
Megastene (§ 2); una volta esaminati tali precedenti, si darà un rapido prospetto delle

1
Cf. S. Prina (a cura di), Nicolàj Gogol. I Capolavori, Milano 2008, 628s.
interpretazioni che sono state date, nel corso del tempo, all’opera megastenica, partendo
dall’antichità e arrivando fino alla fine del ventesimo secolo (§ γ)έ Dalla convergenza di questi tre
percorsi si trarranno infine delle conclusioni sulla vita dell’etnografo e sulla sua opera (§ 4)έ

1. Il contesto storicoμ l’India del IV sec. a.C.

Inserire l'opera di Megastene all'interno di un preciso contesto storico non è semplice:


un'inquadratura di questo tipo prevederebbe infatti conoscenze della situazione politica indiana
assai più esaustive e precise di quelle che sono a disposizione. Dei secoli tormentati che vanno
dall'invasione persiana all'affermazione dell'impero Maurya su gran parte del subcontinente indiano,
le fonti greche non trasmettono quasi nulla; per quanto riguarda invece l'ambito indiano, si può
affermare tranquillamente che nessuna opera letteraria può essere legata a quel periodo senza timore
di contaminazioni e modifiche successive2.
Nel 326, dopo parecchi mesi di avanzata nell'area nord-occidentale dell'India – alla quale era
arrivato, seguendo la valle del fiume Kabul, nell'estate del 327 (cf. Musti 1989, 651) – giunto ormai
in prossimità dell'Ifasi, ultimo bacino fluviale del Punjab, Alessandro prese la decisione di
interrompere la campagna indiana e di ritirarsi verso Occidente. Le fonti riportano questo episodio
in due versioni differenti: la prima, presentata da Diodoro (cf. II 37,3, XVIII 6,1), sostiene che
Alessandro, una volta conosciuta la potenza di un grande regno collocato sul Gange e l'entità del
suo esercito, abbia deciso autonomamente di ritirarsi; la seconda, fatta propria da un altro passo
diodoreo (cf. XVII 93,4) e da Plutarco (Alex. 62,3), Arriano (Anab. V 25) e Curzio Rufo (IX 2,8),
attribuisce la ritirata alla volontà dell'esercito, ormai stanco di una marcia che sembrava infinita e
spaventato dalla forza del futuro nemico (cf. Matelli 1984, 59). La coesistenza di queste due
possibilità ha dato origine ad un lungo dibattito interpretativo, che, nel tentativo di ricostruire le
dinamiche della ritirata macedone, ha cercato di sondare le intenzioni di Alessandro e i suoi progetti
di conquista. Varie proposte sono state avanzate a questo riguardo: secondo Lassen, il sovrano
sarebbe stato intenzionato a marciare fino alle foci del Gange, per esserne distolto
dall’ammutinamento dell’esercito (cfέ Bosworth 1996b, 187 n. 4); ancora più estrema la tesi di
Berve (1966, 95s.), secondo il quale Alessandro avrebbe puntato addirittura alle coste orientali

2
Cf. Majumdar 1981, XI: «Although a mass of Indian literature belonging to the same period supplied a great deal of
information on other aspects of history, its value […] was considerably reduced by the fact that not even an approximate
date could be assigned to the various literary sources». Vale per i testi della letteratura indiana quanto Goyal scrive per
l'Arta stra e i problemi relativi alla sua datazione: «its author drew not only on the Arta stra texts available in his age
but also on the vast mass of the floating materials of different origins chronogically far separated […]. In other words,
the problem of the date of Kuţilya […] should not be confused with the date of the contents of the Arta stra, some of
which certainly belonged to the pre-Kauţilyan period» (1985, 20). Ogni testo indiano attinge da un vasto assortimento di
notizie precedenti; una volta redatto, esso subisce poi un continuo rimaneggiamento, perché possa adattarsi alle nuove
circostanze di fruizione: ciò rende assai difficile (per non dire impossibile) proporre una datazione.
dell’χsiaέ Di diverso avviso la proposta di Tarn (1979, 275s.) e Kornemann (1948, 137s.),
nell’interpretazione dei quali il re avrebbe voluto «nur noch eine kleinere Exkursion über den
Hyphasis wagen» (Schachermeyr 1955, 123), senza superare quelli che erano stati i confini
dell’impero persiano (si veda anche εusti 1λκλ, θηί)έ Simile a questa posizione è quella di ψreloer
(1941, 201), che vede nell’avanzata indiana di χlessandro la volontà di tutelare i traffici
commerciali dell’Indoέ
A prescindere dalle sue motivazioni, la ritirata di χlessandro dall’India permette di gettare
un primo sguardo sulla situazione politica del bacino gangetico: il re nemico, la cui potenza avrebbe
convinto i Macedoni a ritirarsi, viene chiamato Ξα da Diodoro e Agrammes da Curzio;
Giustino utilizza invece la forma Nandrum (XV 4,16)3. Le informazioni che vengono fornite su
questo personaggio permettono un’identificazione con l’ultimo esponente della dinastia dei σanda,
il sovrano deposto da Candragupta nella sua ascesa al potere. Il regno di Magadha, situato nell'area
nord-orientale dell'India, è stato – per unanime testimonianza delle fonti – il primo reame ad
affermare il proprio potere anche su altre parti del subcontinente (cf. CSHI, 15s.). Ricostruire
l'esatta successione di sovrani e dinastie alla base di questa espansione è assai difficile. Un esempio
delle difficoltà che un tale tentativo di ricostruzione presenta, riguarda l'ordine e la successione
delle case regnanti: prima dell'affermazione dei Nanda, in ambito brahmanico, i Pur ņas parlano di
otto dinastie regnanti; una fonte buddhista come il Mah vamsa presenta invece solo otto sovrani
(cf. Majumdar 1951, 18s.). A prescindere dalla loro esatta successione, questi sovrani hanno portato
Magadha ad estendere il proprio potere su buona parte delle terre circostanti, a discapito di potenze
come il regno di Ko ala o la repubblica di Lichchhavi (cf. Majumdar 1951, 22s.). All'inizio del IV
secolo a.C., il fondatore della dinastia Nanda conquistò il potere uccidendo l'ultimo regnante della
linea dei Sisun ga (cf. CSHI, 19); di questo usurpatore sono stati tramandati vari nomi: i Pur ņas lo
chiamano Mah padma o Mah padmapati, «presumably either with reference to his military
strenght as 'lord of an infinite host'» (Majumdar 1951, 31), mentre le fonti buddhiste Ugrasena (un
nome dal significato analogo a quello brahmanico: cf. Altheim – Stiehl 1970, 274); a questi nomi si
aggiunge il titolo significativo di Para ur ma, ‘sterminatore dell'intera razza Kshatriya’, ovvero
della classe regnante tradizionale (cf. Majumdar 1951, 32). Le umili origini di questo personaggio,
ricordate anche da alcune fonti greche (cf. Diod. XVII 93,3, Curt. IX 2,5), sono evidenziate
concordemente da tutta la tradizione orientale: nel Vividhatīrthakalpa (tradizione gianista), egli
viene chiamato n pitaganik sutah, «‘figlio di un barbiere e di una cortigiana’» (Matelli 1984, 60),

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Per quanto riguarda il nome presentato da Giustino, è possibile fornire di esso una duplice interpretazione, dal
momento che la tradizione stessa ne tramanda due versioniμ una metà dei testimoni ( , π, ) presenta Nandrum, l'altra (D
e ) Alexandrum (cf. Seel 1972, 143). La prima famiglia di codici sembra essere quella più autorevole (cfr. Matelli
1984, 60s. n.4).
mentre i Pur ņas lo definiscono «'the son of king εahānandin4 by a ūdra woman'» (εajumdar
1951, 31): su questa base, l'intera sua stirpe viene etichettata come adh rmik h, ‘priva del dharma,
illegale’ (cf. Matelli 1984, 61). Nonostante questa patina di illegalità, i successi militari di questo
sovrano dovettero essere notevoli (cf. Nilakanta Sastri 1952, 20). Più che il frutto di segrete
cospirazioni di palazzo, la conquista del trono dovette essere il culmine di una vita dedita al
brigantaggio e alla violenza: questo è l'aspetto su cui si concentrano di più le fonti buddhiste (cf.
Majumdar 1951, 32) ed è la base della loro disapprovazione (cf. Matelli 1984, 61). La dinastia
fondata da Ugrasena / Mah padma comprenderebbe, secondo la tradizione, nove sovrani; dopo
ventotto anni di regno5, il fondatore avrebbe lasciato il potere ai suoi otto figli, che avrebbero
regnato – in ordine di età – negli anni successivi (cf. CSHI, 20). L'ultimo re, quello che era al potere
quando in India arrivò l'esercito macedone, viene chiamato Dhana6.
χlla sua partenza dall’India, χlessandro provvide a dare una disposizione alle regioni
appena conquistate, nel tentativo di stabilizzare una frontiera che «demeurait précisément plus
symbolique que réelle tant elle était complexe et ambiguë dans le détail de sa structure politique»
(Capdetrey 2007, 44). La nuova amministrazione dell'area indiana prevedeva un passaggio – da

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Ultimogenito del re KalAsoka i unāgaμ cf. Bongard – Levin 1985, 71.
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I Pur ņa parlano in realtà di 88 anni, ma secondo alcuni studiosi si tratterebbe solo di un errore di grafia, presentato da
alcuni manoscritti e poi diffusosi a tutta la tradizione: si veda al riguardo, Majumdar 1951, 36s.
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Riguardo al sovrano regnante durante la spedizione di Alessandro, si può menzionare – oltre alla versione più
comunemente accettata, che vede in esso Dhana Nanda, ultimo esponente della dinastia – la diversa interpretazione di
Bongard-Levin (1985, 68): secondo questa versione, l'Agrammes temuto dai soldati macedoni e il re deposto da
Candragupta non sarebbero la stessa persona, ma padre e figlio. Su quali argomenti si appoggia l'assunto? Per prima
cosa, sul fatto che «the transformation of the Sanskrit Augrasainya into Agrammes is hardly possible. It is significant
that the name Augrasainya is almost absent from ancient Indian sources» (Bongard-Levin 1985, 103 n. 45); in secondo
luogo, sulla cronologia fornita dai Pur ņa, che – come si è visto nella nota precedente – assegnano a Mah padma /
Ugrasena un regno di 88 anni, lasciando ai suoi figli solo 12 anni. Dando valore pieno a questa asserzione, emergono
infatti alcune complicazioni a livello di tempistica: Alessandro giunge in India nel 326; come si vedrà in seguito, la data
tradizionale nella quale si fa cadere il crollo dei Nanda ad opera di Chandragupta è il 312. Tra queste due date c'è un
segmento di 14 anni. Se i figli di Mah padma / Ugrasena hanno regnato per una dozzina d'anni, come è possibile che
lo stesso personaggio fosse sul trono di Magadha all'arrivo dei Macedoni e alla rivolta di Candragupta? Bisognerà
ipotizzare che nel 326 fosse ancora re il capostipite dei Nanda, che dovrebbe aver lasciato il trono ai sucessori poco
dopo. La prima obiezione che può essere fatta ad un'interpretazione di questo tipo viene dalle fonti occidentali: come si
è visto, esse affermano infatti che il re Agrammes era il figlio di un barbiere salito al potere grazie ad una relazione con
la regina. Se Mah padma / Ugrasena fosse davvero l'Agrammes degli occidentali, che fine avrebbe fatto questo
barbiere? Egli è noto infatti come il fondatore della dinasta. A un problema del genere Bongard-Levin 1985, 68-71
risponde partendo dalle tradizioni induista e gianista: come già si è spiegato, quest'ultima riprende la versione
occidentale (cf. Nilakanta – Sastri 1952, 13: «Jaina works, on the other hand, represent Nanda as the son of a courtezan
by a barber»), mentre la prima dichiara Mah padma / Ugrasena figlio dell'ultimo re degli i un ga (cf. Bongard-Levin
1985, 71). Per giustificare questa divergenza all'interno della letteratura indiana, Bongard-Levin (cf. 1985, 68) ipotizza
«a later interpolation into the ancient original text». In altri termini, il padre di Mah padma sarebbe stato il primo re
della famiglia: viste le sue umili origini e la sua provenienza castale, la tradizione indù non lo avrebbe inserito affatto
nelle genealogie dei Pur ņa. Visto il vuoto tra Kal soka e εahāpadma, un interpolatore avrebbe inserito la figura di
Mahanandin, così da legare insieme i Nanda con la dinastia precedente (pur mantenendo, attraverso l'unione di
Mahanandin con una fuori-casta, la bassa posizione sociale dei primi). Quella dell'origine di Agrammes non è tuttavia
l'unica obiezione che è possibile fare: si potrebbe suggerire infatti che gli 88 anni di regno assegnati al primo re Nanda
siano troppi e dotati di poca credibilità, così come non sarebbe insensato dire che l'assenza di una forma lessicale
all'interno di una tradizione non completa, non implica necessariamente la sua impossibilità ad esistere: di fronte a
queste obiezioni, risulta più conveniente mantenersi nell'alveo della tradizione, identificando negli 88 anni presentati dai
Pur ņa un errore e nell'Agrammes delle fonti lo stesso re eliminato da Candragupta quattordici anni dopo.
ovest a est – dal modello più tradizionale di satrapia (usato nei territori strategicamente più
importanti, lasciati in mano a generali macedoni) ad un tipo di stato-cuscinetto, lasciato in gestione
a potentati locali, formalmente sottomessi al potere centrale. Questo cambiamento rendeva
l'influenza macedone sempre più indiretta ed esile, man mano che ci si allontanava dal bacino
dell'Indo (cf. Capdetrey 2007, 44s.). Il territorio strategicamente più importante, soprattutto
nell'ottica di un ritorno dell'esercito in India, era la valle del Cophen / Kabul, un affluente dell'Indo;
essa costituiva infatti l'ingresso ufficiale al Punjab: quest'area fondamentale fu affidata da
Alessandro al satrapo macedone Nicanore (cf. Berve 1936, 267), messo a capo di una guarnigione
molto numerosa e nominato governatore di un territorio esteso dalla Paropamisadae fino all'Indo
(cf. Bosworth 1983, 37). Tra questo fiume e l'Idaspe si trovava poi l’altra satrapia, che a sud
arrivava fino alla confluenza tra Indo e Acesine: a capo di questa regione – che comprendeva il
principato di Taxila, uno dei maggiori alleati di Alessandro – fu messo Filippo, figlio di Macate (cf.
Ameling 2000, 805); anche per lui erano a disposizione parecchie armate, tra cui una
particolarmente forte proveniente dalla Tracia (cf. Bosworth 1983, 37s.). Al di là dell'Idaspe si
estendeva invece il territorio di Poro: già prima della guerra contro Alessandro, «das Zentrum seiner
Herrschaft war das Gebiet zwischen Hydaspes und Akesines» (Schaefer 1953, 1225); dopo aver
combattuto gli invasori ed essere stato sconfitto, egli non si vide solo confermare quest'area come
territorio sotto il suo controllo, ma la vide parecchio ampliata, arrivando a diventare la potenza
principale del Punjab. «He may have had the technical title of satrap but he was in fact
plenipotentiary, exercising power without Macedonian troops or Macedonian officials» (Bosworth
1983, 38). Andando verso est, la sua era la prima area sulla quale Alessandro voleva mantenere un
controllo unicamente di facciata, lasciando di fatto il controllo pratico al suo alleato. A sud
dell'Acesine si trovava poi un'altra satrapia, che – affidata al macedone Pitone, figlio di Agenore (cf.
Iust. XIII 4,21, Heckel 1990, 456-459) – seguiva il corso dell'Indo sino all'Oceano. La scelta di
questo personaggio, che già una volta aveva aiutato Alessandro a catturare il ribelle indiano
Musicano (cf. Arr. Anab. VI 17,1s.), deve essere stata determinata dalla sua conoscenza della
regione (cf. Heckel 1990, 457). Questo rapido prospetto permette di sintetizzare le intenzioni di
Alessandro nella sua divisione in un unico punto fondamentale: il mantenimento del confine
fluviale rappresentato dall'Indo in mano macedone, attraverso le tre satrapie create lungo il suo
corso (cf. Mehl 1986, 157). Tale struttura territoriale non durò a lungo: già nel 326, Nicanore fu
ucciso da movimenti di ribellione locali (cf. Arr. Anab. V 20,7); chiamato a pacificare quella
regione, Filippo se la vide assegnare come nuovo territorio; poco tempo dopo (325), anch'egli trovò
la morte (cf. Bosworth 1983, 38 n. 6): a quel punto, Pitone fu spostato a nord e il suo antico
territorio venne inglobato dal regno di Poro (cf. Diod. XVIII 3,3, Bosworth 1983, 38s.). Va
sottolineato ancora una volta con quanta decisione Alessandro cercasse di mantenere la valle del
Cophen sotto il controllo macedone, nonostante le evidenti difficoltà di gestione: il suo valore come
via d'accesso al Punjab la rendeva evidentemente troppo importante per essere affidata a principi
indiani, una sorte che fu assegnata invece al resto del Punjab (cf. Majumdar 1951, 58). Questa
decisione, riconducibile ad una scelta personale di Alessandro (cf. Bosworth 1983, 39), era ancora
valida all'accordo di Triparadiso (321), secondo il quale Pitone avrebbe controllato la valle del
Cophen, il corso meridionale dell'Indo sarebbe stato unito ai possessi di Poro e quello settentrionale
sarebbe stato in mano di mbhi, principe di Taxila. Visto il silenzio delle fonti, che non riportano
variazioni di sorta, si deve supporre che una sistemazione di questo tipo fosse stata accettata anche
nei precedenti accordi di Babilonia (323 a.C.). Un abbandono così graduale di un controllo diretto
sul bacino dell'Indo indica difficoltà sempre crescenti nella gestione di un territorio così vasto e
composito (solo nel regno di Poro si trovavano sette popoli diversi e duemila città: cf. Schaefer
1953, 1228); alcuni studiosi hanno visto, in questi cambiamenti, l'inizio di una guerra di liberazione
guidata da Candragupta, un conflitto che sarebbe partito dal basso corso dell'Indo, l'originario
territorio di Pitone (cfr. Majumdar 1951, 58s.). Nella sua epitome, Giustino (XV 4,18) scrive infatti
che il giovane guerriero raccolse intorno a sé una banda di mercenari (latrones) e dichiarò guerra ai
prefetti di Alessandro, uccidendoli tutti. È probabile che, al di là di queste truppe, le sue manovre
abbiano sfruttato anche l'appoggio della classe brahmanica, nemica implacabile degli invasori
macedoni e dei principi che li avevano aiutati (cf. Daffinà 1977, 14). Schwarz (citato da Mehl 1986,
163), ha datato questi moti rivoluzionari agli ultimi due anni di vita di Alessandro, dal 325 al 323:
una versione che va contro la lettera di Giustino, che scrive post mortem Alexandri (XV 4,7).
Matelli (1984, 68) sostiene invece che queste azioni siano partite dopo la morte di Poro e la
partenza di Eudemo (317): anche un'interpretazione di questo tipo, tuttavia, non tiene pienamente
conto del testo di Giustino, dove si legge che Candragupta ha combattuto contro i praefectos
Alexandri; come avrebbe potuto farlo dopo il 317, se uno degli aspetti più particolari della partenza
di Eudemo e Pitone (gli ultimi satrapi macedoni rimasti in area indiana), fu la loro mancata
sostituzione con altri governatori? La fase di ostilità aperta contro i dominatori stranieri dovrebbe
dunque essere partita intorno al 323. Le fonti non forniscono descrizioni dettagliate di queste
vicende: Giustino si limita ad osservare che l'India stessa si ribellò nella sua totalità ed uccise i suoi
prefetti velut cervicibus iugo servitutis excusso (XV 4,12). Un breve testo, dunque, che presenta
pure un'inesattezza: «Die von Alexander am Indus eingesetzen Satrapen oder Strategen Eudamos
und Peithon waren gerade nicht in Indien ungekommen» (Mehl 1986, 165). Come riassume
efficacemente Majumdar, «although details are lacking, we can accept it as a historical fact that the
army of occupation left behind by Alexander was thoroughly defeated by Candragupta and he made
himself master of the Punjab and Sind» (1951, 59)7.
La prima parte della vita di Candragupta è stata inglobata e trasfigurata dal mito (cf.
Mookerij 1966, 15). Sulle sue origini le fonti sono tutt'altro che concordi: «seine Abkunft wird je
nachdem, ob es sich um brahmanisches, buddhistisches oder jinistisches Schrifttum handelt,
verschiedentlich interpretiert. Eine vierte Version steuert der Westen bei» (Altheim – Stiehl 1970,
268). Quattro versioni, dunque: due di queste attribuiscono al futuro re una nascita umile, due una
nobile8. Presi in rassegna questi due gruppi di tradizioni, si può considerare come maggiormente

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Per cogliere qualche elemento i più, si può far riferimento alle vicende degli ultimi due funzionari macedoni rimasti in
India, Pitone (Gandhara) e Eudemo (regno di Taxila). Diodoro (XIX 56,4) scrive che il primo dei due fu nominato da
Antigono satrapo di Babilonia nel 315, al posto di Seleuco, fuggito in Egitto. In questo passo, lo storico lo definisce
Π α ὸ ἐ Ἰ α α αμ ciά lascia intuire che il satrapo si fosse già ritirato dall'Indiaέ σon si sa se
questo spostamento sia stato determinato dalla nuova disposizione imposta da Antigono alle satrapie orientali dopo la
vittoria su Eumene o, più in particolare, da un'effettiva partecipazione di Pitone alla battaglia di Gabiene (cf. Heckel
1990, 457): per la prima soluzione si schiera Bosworth – secondo il quale, Pitone «was perhaps a late comer to
Antigonus' forces» (1996, 120) – così come Heckel (1990, 458). Quest'ultimo, in particolare, evidenzia la particolarità
dell'appoggio fornito da Pitone ad Antigono, una particolarità che emerge con forza particolare se si pensa che tutti gli
altri satrapi orientali avevano dato il loro appoggio ad Eumene. Visto il silenzio delle fonti al riguardo, l'ipotesi più
credibile che si possa fare è che Pitone non si sia subito schierato nello scontro tra i due strateghi d'Asia, ma che abbia
pensato piuttosto di restare al sicuro nei propri territori (dove le possibilità di nuocergli erano assai scarse: cf. Heckel
1990, 458); costretto poi a lasciare la propria satrapia, a causa dell'instabilità politica provocata da Candragupta, egli
avrebbe deciso di spostarsi ad occidente, dove lo scontro tra Antigono ed Eumene si era già risolto a favore del primo;
l'unica soluzione che restava a Pitone era salire – come molti altri – sul carro del vincitore. Non si dovrebbe dunque
parlare di un appoggio convinto fin dall'inizio, quanto di un esempio di pragmatismo politico. Per quanto riguarda
Eudemo, la situazione si mostra ugualmente evanescente: anch'egli lasciò la regione sotto la sua custodia, dopo aver
ucciso a tradimento Poro e aver prelevato centoventi elefanti da guerra (cf. Diod. XIX 14,8). Sulle motivazioni che
possono averlo spinto a questo spostamento, possono dirsi svariate cose. Mehl (1986, 158) propone che la partenza di
Eudemo fosse in realtà una fuga, dovuta alla reazione violenta della popolazione indiana all'uccisione del suo re:
un'ipotesi che giustifica lo spostamento, senza dar conto dell'omicidio. Bosworth lega invece il trasferimento alla lega
che i satrapi delle regioni più orientali dell'impero organizzarono contro Pitone di Media. Egli infatti «established his
brother in Partyaea, and so intimidated the other satraps of the region that they formed a coalition against him. Peithon
obviously posed a serious threat, and the response was commensurate» (1996, 119). Una volta giunto in quest'area con
il suo contingente di guerra, Eudamo si unì a questa alleanza: secondo lo studioso, l'uccisione del sovrano indiano
potrebbe essere stata causata dalla sua opposizione a fornire un appoggio alla lega di satrapi . Un'altra soluzione che
potrebbe essere chiamata in causa coinvolge Candragupta: egli potrebbe essere stato il segreto mandante dell'uccisione
di Poro, ovvero del personaggio più potente (e scomodo) della regione. Eudemo potrebbe aver eseguito questo mandato
in cambio della possibilità di allontanarsi con il carico di elefanti. A prescindere dalle motivazioni che hanno spinto le
ultime due autorità macedoni della regione ad allontanarsi senza essere sostituite da nessuno, rimane comunque il fatto
che il 317, anno in cui Eudemo si unì agli altri satrapi asiatici, può essere considerato l'ultimo anno della guerra
condotta da Candragupta contro i macedoni.
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Le fonti brahmaniche apparentano Candragupta alla dinastia dei Nanda, ovvero ai sovrani che il futuro imperatore
avrebbe privato del potere: come esempio si può prendere Ratnagrabha, commentatore del quarto libro dei
Vişņupur ņa, secondo il quale ωandragupta sarebbe stato il figlio del re σanda e di sua moglie εurāέ Un altro
commentatore, Dhuņḑir ja, definisce questa donna come una ūdra (cf. Altheim – Stiehl 1970, 268s.) e afferma che il
termine Maurya fosse derivato dal nome di lei (cf. Mookerji 1966, 9); un'etimologia non corretta: «the commentator is
guilty both of fictitious history and bad grammar. The derivative from εurā is εaureya» (εajumdar 1λη1, ηη)έ χ
prescindere dalla correttezza grammaticale di certe derivazioni, un dato va sottolineato: agli occhi di un induista
ortodosso, i Nanda erano usurpatori, tanto quanto Candragupta; un apparentamento con loro non si sarebbe tradotto
comunque in un innalzamento del livello sociale. Un'origine oscura viene riportata anche da Giustino (cf. XV 4,15):
Fuit hic humili quidem genere natus, sed ad regni potestatem maiestate numinis inpulsus. Un'obiezione che può essere
fatta a queste umili origini si basa sul successivo rapporto pedagogico tra Candragupta e C nakya: quest'ultimo era
infatti il figlio di un Brahmano; nel contesto culturale dell'epoca, era assai difficile (per non dire impossibile) che un
membro della casta più alta curasse l'educazione e la preparazione di un fuori-casta, favorendone addirittura l'ascesa
sociale. Di diverso avviso sono le fonti buddhiste e giainiste, che «sind sich darin einig, dass Candragupta edler Geburt
sei» (Altheim – Stiehl 1970, 271). Secondo i testi buddhisti, il futuro re «was a scion of the Kshatriya clan called
Moriya» (Majumdar 1951, 56); dal nome della «Dorfgemeinde» – cioè di questa tribù rurale – dovrebbe essere derivato
valido il secondo. Se infatti il futuro imperatore fosse stato realmente un fuori-casta e avesse cercato
di sollevare le satrapie macedoni contro i loro governanti, il suo tentativo sarebbe stato
probabilmente vanificato dagli stessi Brahmani che tanti problemi avevano dato ad Alessandro (cf.
Majumdar 1951, 51). Dal momento che questa eventualità non si è verificata, è lecito attribuire al re
un'origine più elevata. Secondo la tradizione buddhista, il giovane Candragupta sarebbe stato
sorpreso da ωhānakya a giocare con i suoi amici, mentre recitava la parte del reν attratto dalle
promesse di grandezza che quest'immagine gli suggeriva, il futuro consigliere di Candragupta
avrebbe preso con sé il bambino, portandolo a Taxila e fornendogli un'adeguata educazione (cf.
Majumdar 1951, 56)9. Dopo aver descritto le umili origini di Candragupta, Giustino aggiunge:
Quippe, cum procacitate sua Nandrum regem offendisset, interfici a rege iussus salutem pedum
celeritate quaesierat (XV 4,16). Ipotizzando come rivale di Candragupta il re Nanda10, si può
supporre una sequenza di eventi simile a questa: una volta terminata la sua istruzione a Taxila, il
giovane allievo di ωhānakya avrebbe tentato un primo colpo di stato contro il dominio di Dhanaν
fallito questo atto di procacitas, il giovane sarebbe stato condannato a morte dal re e costretto a
fuggire (cf. Matelli 1984, 67). Durante la fuga, il segno divino di cui parla Giustino (XV 4,17)
dovrebbe averlo convinto a mantenersi costante nel suo intento, cambiando però strategia.
Testimonianza di questo cambio di mentalità emerge anche da due testi indiani, il buddhista
Mah vamsa Tik e il gianista Pari işţaparvan; entrambi parlano di «una donna che rimprovera un
bimbo perché mangia il cibo in un modo sbagliato e che cita Candragupta (o il suo consigliere
ωānakya) come modello di comportamento» (εatelli 1984, 66)11. Questa variazione di piani ha

il nome dinastico: va sottolineato, a questo proposito, che un'etimologia di questo tipo si presenta molto più convincente
di quella brahmanica (cf. Altheim – Stiehl 1970, 270s.). Se tuttavia si cercasse un'obiezione anche a queste tradizioni, si
potrebbe suggerire che alla loro origine ci fossero forme diverse di parzialità: per i gianisti, lo stretto legame tra la loro
filosofia e il capostipite dei Maurya, che una volta invecchiato si sarebbe fatto monaco (cf. Majumdar 1951, 61); per i
Buddhisti, la grande importanza che per la diffusione del loro credo avrebbe avuto, anni dopo, il nipote di Candragupta,
Asoka (cf. Altheim – Stiehl 1970, 271).
9
C nakya riveste nei testi indiani una funzione fondamentale: figlio di un Brahmano – proveniente dunque da un rango
sociale assai elevato – egli «ist als spiritus rector Candraguptas mit diesem im indischen Schrifttum aufs engste
verbunden» (Altheim – Stiehl 1970, 274). Entrato in conflitto con il re Nanda, egli avrebbe giurato di vendicarsi e la sua
vendetta si sarebbe realizzata attraverso il suo pupillo (cf. Majumdar 1951, 60).
10
Interpretando in questo senso il Nandrum del testo ed evitando l’altra possibilità, che vedrebbe un ωandragupta
irrealmente opposto allo stesso Alessandro (cf. Mehl 1986, 163).
11
In entrambi i testi, il personaggio tirato in ballo dalla donna assiste travestito alla scena e chiede spiegazioni, traendo
insegnamento da quanto lei dice. Al centro del racconto c'è un dolce: nella versione buddhista, la madre del bambino
comincia a mangiarlo dal centro, passando poi alla crosta esterna. In questo, essa si paragona a Candragupta e al suo
«attack on the kingdom» (Majumdar 1951, 59); nella versione gianista, invece, è il bambino che tenta di mangiare in
questo modo; rimasto scottato, si vede rimproverare dalla madre l'essersi lasciato guidare dalla fretta e dall'ingordigia,
compiendo lo stesso errore di ωhānakyaμ invece di attaccare il regno σanda, partendo dai confini, egli aveva attaccato
direttamente il centro, rimanendone scottato (cfr. Matelli 1984, 66s.). Si è già visto come la letteratura indiana tenda ad
associare il maestro al suo discepolo: il fatto che entrambi vengano considerati protagonisti di questo aneddoto non deve
dunque meravigliare. Nel prosieguo della vicenda, l'ascoltatore cambia i suoi progetti, si allea con il sovrano di un
regno himalayano e torna all'attacco (cf. Matelli 1984, 67). Al di là della lettera del racconto, si può intravedere in
questo aneddoto una traccia del primo colpo di stato tentato da Candragupta. Egli puntò tutto ad attaccare il centro del
potere dei Nanda (versione buddhista), ma fallì e dovette fuggire (versione gianista).
portato il futuro sovrano nell’India occidentaleν una volta rafforzata la propria posizione con
l’eliminazione degli occupatori macedoni, egli fu in grado di tornare a εagadha, per conquistare il
trono (cf. Majumdar 1951, 38, Altheim – Stiehl 1970, 281). Per quanto riguarda la cronologia di
questi eventi, si può far riferimento a quanto scritto da Giustino: sic adquisito regno Sandrocottus
ea tempestate, qua Seleucus futurae magnitudinis fundamenta iaciebat, Indiam possidebat (XV
4,20). Un inciso di questo tipo permette infatti una parziale localizzazione temporale di tutti gli
eventi che sono stati presentati: Giustino sostiene che Candragupta ha conquistato il regno
(adquisito regno) contemporaneamente all'affermazione politica di Seleuco12. La migliore proposta
di identificazione di questa data, risulta quella di Tarn: «that is the year 312, the year in which
Seleucus returned to Babylon, the starting-point of the Seleucid Era» (1966, 47). Tale anno può
essere considerato, sulla base del passo di Giustino, un terminus ante quem per le manovre politiche
di Candragupta, che – mentre Seleuco ritornava trionfante nella sua vecchia satrapia dopo la
battaglia di Gaza (cfr. Musti 1989, 692s.) – doveva aver completato la conquista dell'intera area
settentrionale indiana.
Una volta riappropriatosi del suo originario territorio, Seleuco si mosse verso Oriente,
sottomettendo al proprio potere anche le satrapie vicine (cf. Diod. XX 53,4): questa marcia lo portò
poi ad invadere la ψattra (cfέ εehl 1λκθ, 1θθsέ) e ad affacciarsi sull’India, dove – come si è appena
visto – il potere di Candragupta si era da poco affermato. Varie motivazioni sono state proposte per
giustificare questa carica espansiva, dal movente più evidente dell’imitatio Alexandri ad una
‘politica del confine’ di stampo achemenide (cf. FSS 91): visti i dati a disposizione, nessuna di
queste ipotesi può essere scartata. Della spedizione in India le fonti antiche parlano pochissimo:
come evidenzia Krom, le uniche menzioni del conflitto sono riconducibili a cinque autori (cf. 1909,
1η4sέ)έ Il richiamo più ‘completo’ – se di completezza è lecito parlare, data la brevità del testo – è di
Appiano: αὶ ὸ Ἰ ὸ π α ἐπ Ἀ ῳ α ῖ π ὶ αὐ ὸ Ἰ ,
φ α αὐ αὶ υ έ αὶ π ὸ Ἀ υ υ , ᾽
Ἀ ἐπ (Syr. ηη)έ Il passo in questione ricorda un attraversamento dell’Indo e uno
scontro con ωandraguptaμ esso è l’unico testo che nomina esplicitamente una guerraέ δe altre fonti,
infatti, menzionano unicamente i patti che Seleuco e la sua controparte indiana misero in atto,
quando il primo tornò in Occidente: così fanno Plutarco (Alex. 62), Giustino (XV 4,21), Strabone
(XV 1,10, 2,9) e Plinio (NH VI 63)13. Tali accordi hanno previsto la cessione, da parte di Seleuco, di

12
In questa analisi si segue l'interpretazione di Tarn, che accosta adquisito regno all'ea tempestate. Di diverso parere
alcuni studiosi, secondo i quali questa porzione testuale non andrebbe legata all'ablativo assoluto, ma al Indiam
possidebat: cf. Matelli 1984, 68.
13
δe difficoltà di interpretazione di quest’ultimo passo (reliqua inde Seleuco Nicatori peragrata sunt) si concentrano
prevalentemente sul significato da attribuire a Seleuco Nicatori, un dativo che può essere tradotto in due diversi modi.
σel testo sotto analisi, l’erudito latino presenta la regione che va dall’Ifasi al ύangeν quest’area puά essere stata
una parte dei suoi territori (Aria, Gedrosia, Arachosia e Paropamisadae: cf. Bongard-Levin 1985,
78) contro la donazione di cinquecento elefanti da guerra. Il tutto è stato accompagnato da un
accordo matrimoniale ( / ἐπ α α) tra le due case regnanti. Da una tale scarsità di riferimenti
sono sorte, nel corso degli studi, numerose interpretazioni, riconducibili a quattro principali
posizioni:
 «bellicam expeditionem esse factam, sed utrum leve bellum in finibus ortus sit, an pax sine
pugna facta» (Sschwanbeck 1846, 18)μ l’assenza di conflitti – o comunque il limitarsi della
guerra a poche scaramucce di confine – si basa prevalentemente sulla scarsa risonanza che
tale scontro ha avuto nella storiografia successiva (cf. Schwanbeck 1846, 14) e sulle
difficoltà logistiche che Seleuco avrebbe avuto nell’organizzare una spedizione di quella
portata, nel poco tempo a disposizione (cf. Altheim – Stiehl 1970, 282s., Saletore 1958,
127);
 «the Greek ruler fared badly at the hands of Candragupta» (Majumdar 1951, 60): la sconfitta
del sovrano greco sarebbe dimostrata dai termini della pace contratta con il re indiano; i
territori che Seleuco assegna a Candragupta sono infatti decisamente sproporzionati rispetto
alla cessione di cinquecento elefanti (cf. Majumdar 1951, l.c.). Secondo Grainger, il diadoco
avrebbe attraversato l’Indo, trovandosi così schiacciato tra il fiume e l’esercito indianoέ
Messo a mal partito, egli avrebbe intrapreso la ritirata, inseguito dalle truppe di
Candragupta: i territori che passarono a Magadha sono quelli in cui si svolse questo
inseguimento, terminato solo con la ratifica degli accordi (cf. 1990, 130-135);
 «il patto stipulato tra Seleuco e Candragupta implicava il riconoscimento dell'alta sovranità
seleucide da parte dei Maurya» (Daffinà 1977, 27). Di segno opposto l'interpretazione di
Daffinà, sicuramente interessante per il processo logico che segue, anche se discutibile per
alcuni suoi assunti. Il punto di partenza di questo studioso sono infatti i celebri editti bilingui
di Asoka il Grande, scritti in greco ed aramaico e scoperti nell'area afghana nel 1958 (cf.
Franci 1989, 225-231). In essi, il sovrano – il nipote di Candragupta, che portò l'impero
creato dal nonno alla sua massima estensione (cf. Majumdar 1951, 77s.) – afferma di aver
diffuso nei cinque regni circostanti il Dharma, la Legge Morale predicata dal Buddha, guida
della sua dolorosa conversione (cf. Daffinà 1977, 24s.). Il nome con cui l'imperatore si
presenta, Π , viene regolarmente usato anche nelle epigrafie indiane14 ed è

esplorata da Seleuco (dativo d’agente) o per conto di Seleuco (dativus commodi). Chiaramente, la scelta tra le due
possibilità dipenderà strettamente dall’idea di fondo che ci si fa del conflitto con ωandraguptaμ la prima scelta implica
infatti una notevole avanzata del sovrano greco in terra indiana; la seconda no.
14
La forma indiana è Piyadasī o Priyadar in; il nome Asoka, con cui normalmente si identifica questo sovrano, viene
usato nelle iscrizioni solo due volte. Esso gode infatti di grande diffusione solamente in una fase cronologica
successiva, grazie all'influenza della tradizione buddhistica: cf. Daffinà 1977, 24.
normalmente accompagnato dall'epiteto dev n mpriya: questo termine può essere
ricondotto a due diversi significatiέ Il primo corrisponde al greco φ e significa «caro
agli dei», un titolo regale assai diffuso anche tra i sovrani ellenistici, con i quali il potere di
Asoka ha molto in comune (cf. Festugière 1951, 31-46); il secondo si basa invece su un altro
significato attribuibile a deva: non solo «dio», ma anche «maestà divina»15; in questa
seconda accezione l'epiteto andrebbe tradotto con «caro alle divine maestà», un titolo
presente nel mondo greco (φ α ) e indicante i principi subordinati (cf.
Daffinà 1977, 27s.)16. Si aggiunga poi il fatto che la tradizione ricorda un funzionario
seleucide alla corte dei Maurya, mentre nessun indiano è menzionato alla corte dei
Seleucidi. È possibile dunque che Megastene non abbia svolto le funzioni di ambasciatore,
ma quelle di sorvegliante: un funzionario accostabile – mutatis mutandis – «ai residenti
britannici, un tempo collocati presso i vari mah r ja dell'India allo scopo di sorvegliarli, sia
pure con discrezione» (Daffinà 1977, 22). Partendo da questi elementi, lo studioso arriva ad
affermare che Asoka – come il nonno e il padre prima di lui – «si trovava in posizione
subordinata rispetto al re di Siria» (Daffinà 1977, 27).
 Il conflitto tra Seleuco e Candragupta si conclude direttamente con i patti di pace, senza che
una delle due parti abbia preso il sopravvento sull’altra (cfέ Sherwin-White – Kuhrt 1993,
93). Come rileva Musti, nonostante l’accordo con ωandragupta comportasse per Seleuco la
rinuncia a buona parte dei suoi territori orientali, esso si rivelò comunque positivo per i
progetti del diadoco: egli infatti acquisì la forza militare degli elefanti (che si rivelarono
fondamentali per la vittoria di Ipso) e rinunciά ad un ‘confine naturale’ difficilmente
gestibile (cf. 1989, 715-717).
Di fronte a queste quattro posizioni, si possono fare alcune osservazioniέ δ’ipotesi più difficile da
sostenere risulta quella di Daffinà, contro la quale vanno mosse delle obiezioni. La prima riguarda
la presunta assenza di funzionari indiani alla corte dei Seleucidi: in questo, come in molti altri casi,
la lacunosità delle fonti non può assurgere al valore di dato sicuro. Scendendo più nel dettaglio, si
può osservare che, negli editti in greco, il termine dev n mpriya non viene mai tradotto
nell'accezione proposta dal Daffinà: in essi, si legge invece α υ (cf. Franci 1989, 230), titolo
che evidentemente riporta al primo significato dell'aggettivo. Infine, si può obiettare ancora che una
guerra vinta laddove Alessandro in persona aveva perso ed era stato costretto a ritirarsi, avrebbe
goduto sicuramente di un maggiore risalto, non solo a livello di monetazione, ma anche a livello di

15
Si veda al riguardo la definizione che fornita da SED: «heavenly, divine (also said of terrestrial things of high
excellence)» (492).
16
A riprova di questa diversa interpretazione, va ricordato che nelle iscrizioni aramaiche di Asoka, dev n mpriya viene
tradotto con m r n, termine indicante i satrapi persiani di Egitto e Giudea (cf. Daffinà 1977, 27).
fonti letterarie. Si è visto invece quanto i testi che ricordano i rapporti tra Seleuco e Candragupta
siano scarsi. Contro una negazione tout court della guerra tra i due re, si potrebbe evidenziare come
il passo dei Syriakà dica letteralmente che Seleuco ἐπ Ἀ ῳ: l'uso di π
dimostra chiaramente che una forma di scontro armato deve esserci stata. Rimangono dunque
l’ipotesi di una sconfitta di Seleuco e quella di una sospensione delle ostilità. Per operare una scelta
tra le due possibilità, si può sottolineare un aspetto: la stabilizzazione della frontiera indiana era un
punto che premeva tanto a Seleuco, quanto a Candragupta; una volta sanciti i patti di pace, il primo
fu libero di muoversi sul fronte occidentale (quello che evidentemente gli premeva di più: cf.
Bongard-δevin 1λκη, ιι), il secondo di stabilizzare il proprio potere, soprattutto all’interno del
regno (cf. Bongard-Levin 1985, 78). Date queste premesse, è lecito supporre un conflitto di breve
durata tra i due sovrani, uno scontro che potrebbe essere stato causato direttamente da Candragupta,
desideroso di approfittare delle discordie interne al mondo ellenistico per acquisire un’area focale
come l’altipiano afgano, la principale via d’accesso al Punjab. Come è stato osservato, la tempistica
era troppo ridotta per permettere a Seleuco un’invasione dell’Indiaμ spinto dalle circostanze a
combattere, il sovrano deve aver visto qual era la nuova situazione indiana, agendo di conseguenza.
δ’abilità politica di Seleuco emerge da una situazione che – se mal gestita – poteva costargli molto,
in termini di territori e di prestigio.

2. La tradizione greca sull’India

δa tradizione greca dedicata all’India prima della spedizione di Alessandro non è troppo
estesa. Tale scarsezza può essere ricondotta al sostanziale disinteresse che il mondo greco ebbe per
la più orientale regione dell’ecumene, un’indifferenza che è ancora leggibile nelle pagine di
Strabone (I 1,16) e che definisce l’India come «un universo a sé stante da descrivere più che da
conoscere» (Bruno Sunseri 2001, 202). La sua lontananza dalle regioni centrali del mondo greco la
rende un’area in cui realtà e mirabilia possono liberamente mescolarsi. Una peculiarità di questo
genere, consente agli etnografi di inserire all’interno delle loro narrazioni elementi fantasticiμ come
osserva Strabone, essi non lo facevano spinti da ignoranza, ma α α αὶ (I
β,γη), per un certo gusto dell’assurdo e desiderio di piacere.
Il primo greco ad interessarsi all’India e a scrivere su di essa è Scilace di Carianda (FGrHist
ιίλ), ammiraglio del re di Persia Dario Iμ incaricato dal sovrano di esplorare il corso dell’Indo in
vista di una futura sottomissione della regione indiana, egli seguì il corso del fiume fino al mare; da
lì giunse poi in Egitto (cf. Hd. IV 44, Panchenko 1998, 211-213). Alla fine del viaggio, Scilace
radunά le informazioni raccolte in un’opera – probabilmente un resoconto ufficiale per il Gran Re –
che costituì la fonte principale per Ecateo ed Erodoto relativamente a India, Golfo Persico e Arabia
(cf. Peretti 1979, 1). I trenta mesi di durata del viaggio, così come vengono presentati da Erodoto,
indicano che la traversata non fu continua, ma che l’ammiraglio «interrompeva il viaggio per fare
sopralluoghi, dedicandosi nelle soste all’esplorazione geografica e antropica […], come è
confermato nei frammenti superstiti dell’opera» (Peretti 1λιλ, ηι)έ δe informazioni riportate – per
quanto è possibile ricostruire sulla base dei frammenti rimasti – indicano che il trattato di Scilace
costituiva «un’opera ‘globale’ […] riassunto e sintesi di tutti i vari aspetti geografici, biologici,
sociali e favolistici legati all’India» (cfέ Zambrini 1λκβ, 1ίη)έ χ questo carattere onnicomprensivo si
deve la coesistenza di informazioni più realistiche (soprattutto in ambito botanico: cf. Peretti 1979,
61) con elementi fiabeschi difficilmente riconducibili ad autopsia (si vedano, ad esempio, le notizie
sui monocoli Arimaspi (cf. F 7b). Soprattutto le informazioni ricollegabili a tali mirabilia vanno
tenute in considerazione, nel momento in cui si analizza la tradizione etnografica greca sull’Indiaμ
come rileva Zambrini, esse «contribuiscono a creare il primo esempio di una immagine letteraria
dell’India», un quadro destinato ad essere ripreso da autori come ωtesia o εegastene (cfέ 1λκβ, l.c.).
Se con Scilace l’India viene messa al centro di una trattazione organica e compiuta, un
discorso diverso va fatto per Ecateo di Mileto (FGrHist 1)μ le informazioni che l’etnografo inserisce
nei propri scritti hanno infatti come unico fine il completamento della rappresentazione generale
dell’ecumene (cfέ ψruno Sunseri βίί1, βίλ) e in quest’ottica vanno contestualizzati i frammenti
indiani che sono rimasti (FF 294a-299). Come si è già detto, è probabile che alla base della
trattazione di Ecateo ci fosse l’opera di Scilaceμ visto tuttavia lo stato frammentario di questi passi,
non è possibile stabilire con certezza se la dipendenza del primo dal secondo fosse diretta o meno
(cf. Zambrini 1982, 107s.). Alcuni studiosi hanno tentato di farlo, ipotizzando una matrice ecataica
per i capitoli erodotei dedicati all’India e mettendo questi ultimi a confronto con i frammenti di
Scilace, ma un processo come questo non è metodologicamente corretto (cf. Bruno Sunseri 2001,
l.c.), dal momento che i rapporti tra lo storico di χlicarnasso e il suo predecessore sono tutt’altro
che chiari. Erodoto dedica all’India otto capitoli del suo terzo libro (cfέ III λκ-106): uno spazio non
troppo esteso, soprattutto se confrontato con quello del grande logos egizio nel secondo libro (cf. II
5-98), o di quello babilonese nel primo (cf. I 178-βίί)έ ωhe l’importanza attribuita dallo storico a
questa parte non fosse eccessiva, lo mostra l’assenza di una sezione dedicata alla storia della
regione (cfέ Zambrini 1λκβ, 11θ)έ δ’India erodotea è bloccata in un presente continuoέ δa sua
descrizione muove dall’elenco delle province dell’impero persiano e dalla presentazione dei tributi
che esse versano (cf. III 90-97): tra le popolazioni soggette al Gran Re, gli Indiani, inseriti
all’interno del ventesimo distretto, costituiscono il popolo più numeroso e pagano tasse pari a quelle
di tutti gli altri messi insieme (cfέ III λ4,βa)έ δ’excursus erodoteo intende mostrare da quali fonti gli
Indiani possano ricavare l’oro che inviano come tributo e inserisce come spiegazione la leggenda
delle formiche cercatrici d’oro, una storia destinata a godere di ampia fortuna (cfέ ό κ)έ χltre
informazioni riportate nel testo riguardano la posizione geografica dell’India, poco prima dei limiti
orientali del mondo, arsi dal calore (cf. III 98), la sua situazione climatica (cf. III 104), la flora e la
fauna (cf. III 106) e i suoi popoli (cf. III 98-105). Un ulteriore aspetto da evidenziare è il legame che
lo storico traccia tra India ed Etiopia, un contatto e una vicinanza che vengono ripresi anche dagli
autori successivi (cfέ III 1ί1)έ χi fini di questa panoramica sull’etnografia indiana, è piuttosto
interessante l’ultimo capitolo che Erodoto dedica alla regioneμ in esso, infatti, viene espressa
chiaramente la caratteristica principale dell’India, la sproporzione della sua natura e la sua
abbondanza (cfέ III 1ίθ)ν tale aspetto ha subito, nell’etnografia successiva alle Storie, un’evoluzione
particolare, dovuta all’influenza fondamentale della scienza e della medicina ippocratica, fautrici di
uno stretto legame tra fattori climatici e fattori sociali (cf. Zambrini 1982, 109-115); se in Erodoto
l’abbondanza di beni non è strettamente legata con il clima della regione, né influisce troppo sullo
sviluppo sociale delle popolazioni indiane, nella storiografia successiva questi aspetti si sono fusi
tra di loro, secondo rapporti di causa-effetto che hanno messo gli uni alla base degli altri (cf. F 8).
Nonostante le dichiarazioni contrarie degli etnografi ellenistici (cf. Diod. I 66,10, 69,7 =
FGrHist 264 F 25, Ios. Fl. Contra Ap. I 16), il resoconto indiano di Erodoto ha goduto, nell’età
successiva alle conquiste di Alessandro, di una grande fortuna (cf. Murray 1972, 204-213). Potrebbe
sorprendere, invece, vedere come tale sezione – e, più in generale, l’interesse mostrato dallo storico
per le aree orientali dell’ecumene – fossero messi in secondo piano nell’età immediatamente
successiva alla redazione delle Storie. Come evidenzia Bruno Sunseri, tale cambiamento potrebbe
essere dovuto «alla particolare temperie politica» (2001, 211): il declino di Atene durante la guerra
del Peloponneso e l’intromissione dell’impero Persiano nelle contese intestine tra le città greche
avrebbero tolto ai Greci la possibilità di arrivare ad esplorare zone tanto lontane. A riprova di queste
difficoltà, si puά evidenziare come, dopo Erodoto, la prima opera dedicata all’India fosse scritta da
una personalità illustre dell’Impero Persianoμ Ctesia di Cnido, medico di corte del Gran Re
(FGrHist 688). I suoi Indika, fatti oggetto di numerose critiche già nell’antichità (cf. TT 11-13),
furono comunque utilizzati da molti autori come fonte: tra questi si possono menzionare Aristotele,
Diodoro e Strabone (cf. Cataudella 1998, 613). Come sottolinea Nichols, l’opera in questione «is
filled with descriptions of fantastic beasts and monstrous peoples, causing many to discredit the
work as of little historical value» (2011, 18). Questo carattere mostruoso si manifesta anche sotto un
altro aspetto: l’India ctesiana «se distingue […] par sa démesure générale» (Lenfant 2004, CLIII);
riprendendo la descrizione erodotea, Ctesia descrive una regione dove animali e popoli sono
caratterizzati dalle grandi dimensioniέ Questo aspetto ‘smisurato’ non si inserisce tuttavia in un
quadro organico, all’interno del quale l’elemento mirabile sia inquadrabile sullo sfondo di
particolari caratteristiche geografiche o fisiche: in Ctesia, almeno per quel che si può ricostruire dai
frammenti sopravvissuti, manca tale logica di fondo «per cui […] più che di αυ α si deve
parlare di πα con tutte le conseguenze che ne derivano e, cioè, di assoluta disorganicità e
casualità delle notizie riferite, suscitatrici di un interesse più ‘favolistico’ che non ‘scientifico’,
come sarà definitivamente con l’etnografia post-Alessandro» (Zambrini 1982, 128). Va comunque
evidenziato come, nonostante questi elementi, molti elementi della trattazione ctesiana (soprattutto
in ambito faunistico) hanno fornito il materiale degli etnografi successivi, Megastene incluso.

3. Storia della critica

Il giudizio che gli antichi autori hanno dato dell’opera megastenica è decisamente poco lusinghieroμ
come sintetizza Schwanbeck, essi «Megasthenem sine ulla dubitatione scriptoribus mendacibus et
fide minime dignis solent annumerare» (1846, 59), accostandolo in questo a Ctesia. Tale
considerazione traspare soprattutto dalla testimonianza di Strabone, che probabilmente la riprende
da Eratostene (cf. T 4).
ωon il passaggio dall’antichità al diciannovesimo secolo, si assiste ad un deciso cambio di
giudizio; il primo editore moderno di Megastene, E.A. Schwanbeck – colui che lega Megastene ai
patti di pace tra Seleuco e Candragupta e data la sua presenza in India tra il 306 e il 304 (cf. 1846,
11-23) – si fa portavoce di tale cambiamento: «quod quum ita sint, Megasthenis fides, ut hoc verbo
utar, relativa in dubitationem vocari non potest; etenim et quod ipse vidit et quod ab aliis audivit,
narravit ad veritatem» (1κ4θ, ι4)έ δa credibilità dell’etnografo, messa in dubbio dalla tradizione
antica, viene riabilitata attraverso un esame delle sue fonti. Oltre alle notizie esplicitamente
riconducibili a lui – che ha avuto il merito di fare una panoramica generale della realtà indiana,
differenziandosi in questo dagli storici di Alessandro, attenti unicamente agli aspetti più bizzarri e
insoliti (cf. 1846, 41) – gli Indika contengono infatti elementi riferibili a testimonianze locali o a
opere etnografiche precedenti: se queste componenti di origine diversa presentano una scarsa
verosimiglianza, la colpa non è di Megastene, ma delle sue fonti; un esempio di tale approccio è
visibile nell’analisi che Schwanbeck compie dei frammenti su Dioniso ed Eracle, accostati e riferiti
alla propaganda di χlessandro (cfέ 1κ4θ, 4γ)έ σell’interpretazione dello studioso, la parte più
interessante dell’opera è quella sulla società indiana (cfέ ό 1λ)μ riferendosi ad essa, Schwanbeck
scrive che «eam huius rei scientiam, cuius Megasthenes fuit auctor, ullus postea Graecus scriptor
vel aequavit vel auxit» (1846, 41). Come sottolinea giustamente Zambrini, lo studioso «sottolinea
con eccessivo entusiasmo la prima descrizione delle caste fatta da un ύreco e, nell’intenzione di far
risaltare l’originalità megastenica rispetto al passato, non coglie le difficoltà che emergono dalla
descrizione» (1982, ιη)έ Un altro aspetto interessante dell’analisi riguarda i frammenti della flora e
fauna indiane (cf. FF 21-30): lo stretto legame tra India e mirabilia, visibile anche nella tradizione
etnografica precedente, sarebbe causato da un’originaria matrice indiana delle leggende greche. Le
caratteristiche attribuite dagli invasori Arii alle popolazioni autoctone, sottomesse e relegate
nell’ambito di una mostruosa diversità, sarebbero arrivate – «quomodo hoc factum sit, non
sentiamus» (1846, 63) – in Occidente, dove avrebbero improntato qualunque tentativo di
descrizione indiana (cfέ 1κ4θ θβsέ)έ χffermazioni come queste permettono di inquadrare l’analisi di
Schwanbeck nel suo giusto contesto culturale, ovvero in quella mentalità ‘orientalista’ che vedeva le
culture mediterranee dipendenti da quelle orientali (cf. Daniélou 2002, 9-14).
δa prospettiva generale da cui si muove l’analisi di Schwanbeck – ripresa senza sostanziali
divergenze dalla raccolta di frammenti di K.O. Müller (1848, 397-439) – è stata criticata e messa in
discussione da W. Reese (1914, 50s.), attraverso un ridimensionamento della dipendenza culturale
greca da quella indiana e una maggior considerazione per l’originalità della primaμ per quanto gli
interessi dello studioso arrivino fino alla spedizione di Alessandro, le sue osservazioni rimangono
valide anche per l’ambito etnografico successivo (cfέ Zambrini 1λκβ, κίsέ)έ
La volontà di cogliere in Megastene notizie utili alla ricostruzione della società indiana del
IV secolo è alla base dell’opera di B.C.J. Timmer, Megasthenes en de indische maatschappij: a
questo fine, la studiosa analizza i frammenti megastenici dedicati alla società indiana e ai suoi
costumiν come sottolinea Zambrini, l’esame di questi passi, l’indagine sulla loro origine e sulla
qualità delle loro riprese e la definizione di alcuni paralleli indiani indeboliscono notevolmente
l’attendibilità dell’etnografo, dando «un senso di impotenza al lettore, che si trova davanti un
materiale, di cui non può usufruire a scopi ricostruttivi, perché in gran parte storicamente dubbio o
generico, o travisato, o superficiale, e di cui non capisce il senso specifico nell’ambito del genere
letterario e storico, cui appartiene, perché mai analizzato in quest’ottica» (1982, 83s.). Secondo la
studiosa, «wo Megasthenes sich auf eigne Beobachtung stüzt, ist er gänzlich zuverlässig.
Mitteilungen indischer Gewährsleute (offenbar oft Brahmanen) hat er nicht immer nach ihrem
richtigen Wert geschätzt» (1930, 313): in altre parole, sarebbe mancata a Megastene la capacità di
vagliare storicamente le informazioni che aveva a disposizione; per questo, la sua opera non può
essere utilizzata per una ricostruzione storica efficace.
χ metà strada tra l’ottimismo di Schwanbeck e le perplessità di Timmer si posiziona B.
Breloer, autore di alcuni interventi dedicati all’opera megastenicaέ σell’ottica dello studioso, gli
Indika non sarebbero altro che un testo informativo, redatto da un diplomatico per i suoi superiori
(cf. 1934, 131), per cui «Verdächtigungen der ύlaubwürdigkeit εegasthenes’s ruhen, wenn man die
Hypothesen wegstreicht, auf schwacher Grundlage» (1934, 131s. n. 2). Se da una parte lo studioso
riprende il giudizio positivo espresso da Schwanbeck, dall’altra egli abbandona la visione d’insieme
che aveva caratterizzato l’edizione di quest’ultimoν gli aspetti più insoliti e fantasiosi degli Indika
vengono infatti messi da parte, nell’ottica di un’analisi che comprende unicamente i frammenti
storicamente contestualizzabili. Come riassume Zambrini, «i risultati degli studi accurati di Breloer
[…] vanno, quindi, nel senso di una valutazione di quanto εegastene ci dice e non di quanto
vorremmo che ci dicesse» (1982, 89).
Osservando queste prime fasi degli studi megastenici, è possibile rinvenire in esse lo
sviluppo di tendenze ben preciseμ l’approccio ‘orientalistico’ ai frammenti di εegastene – ovvero la
tendenza a studiare quanto è stato tramandato, al fine di recuperare particolari utili alla ricostruzione
della realtà storica indiana – si è scontrato, sempre più coscienziosamente, con le difficoltà sollevate
dall’inadeguatezza delle informazioni megastenicheέ Dopo i primi entusiasmi di Schwanbeck e
Müller, gli indologi hanno dovuto ammettere che quanto si legge nel corpus megastenico fornisce
meno notizie di quelle che ci si aspetterebbe. In questo senso, è esemplare la conclusione raggiunta
da Timmer: per evitare di incappare nello stesso scetticismo, Breloer ha dovuto restringere
notevolmente il campo d’analisi, salvando una parte assai ridotta dei frammenti. In altre parole, si è
passati dall’ambizione di integrare tutto il corpus all’interno della cultura indiana del IV secolo
(senza considerare adeguatamente i fattori che rendono quasi impossibile tale meccanismo: non
ultime, le difficoltà di datazione dei testi indiani) alla volontà di raccogliere, senza troppe
aspettative, le poche informazioni effettivamente utili e documentabili. Tale impasse era ben
presente a O. Stein, autore della voce Megasthenes nella Pauly – Wissowa e di un altro trattato
dedicato all’etnografo, Megasthenes und Kauṭilya. In questi due testi, oltre alla solita analisi delle
informazioni basata sulle testimonianze orientali, si assiste per la prima volta ad una loro
contestualizzazione nel mondo greco. Ciò che si legge nei frammenti di Megastene, viene inserito
nel dibattito storico, politico e filosofico del mondo ellenistico, con l’apertura di prospettive che
sono state adeguatamente esplorate unicamente nella seconda metà del secolo.
Dopo l’apertura di Stein, il primo a collocare con decisione l’attività megastenica
nell’ambito dell’etnografia greca è stato T.S. Brown. Il suo atteggiamento nei confronti degli studi
precedenti è visibile dalla polemica che egli rivolge a Timmer: «she has practically turned her back
on the Greek background of Megasthenes preferring to explain such idealizing tendencies as he
shows by alluding to Brahmanic precepts rather than to Greek literary influences» (1955, 21).
δ’allontanamento dalla prospettiva orientalistica precedente porta lo studioso a cercare in
εegastene riprese degli autori che prima di lui si sono occupati dell’India, evidenziando così quei
dati che sono genuinamente riconducibili all’etnografoέ χ partire da questo esame, ψrown sottolinea
come le osservazioni dirette di Megastene (ad esempio, la descrizione di Patna: cf. F 18) godano di
un buon livello di credibilità; un discorso che non si può fare per le informazioni riprese dalla
tradizione precedente: «Megasthenes was not the man to sift earlier accounts and reach a carefully
thought out opinion about them» (1ληη, γβ)έ δ’assenza di spirito critico – quindi di capacità di
vagliare il materiale precedente, escludendo i dati più irreali o fiabeschi – porta lo studioso a
definire l’etnografo «a journalist» (1955, 30). Come si può vedere da questa breve panoramica, lo
spirito di indagine è cambiato, ma i mezzi – e i limiti – della ricerca son rimasti gli stessi:
l’approccio ‘antiorientalista’ di ψrown «pare sostanzialmente incapace di dare nuove prospettive
alle ricerche su Megastene» (cf. Zambrini 1982, 95s.).
Un approccio diverso viene proposto da O. Murray nel suo articolo Hacataeus of Abdera
and Pharaonic Kingship, che – seppur dedicato ad Ecateo di Abdera (FGrHist 264) e ai suoi
rapporti con il potere tolemaide – fornisce spunti di riflessione interessanti per inquadrare
criticamente l’opera megastenicaέ δo studioso evidenzia infatti come l’autore degli Aigyptiaká abbia
inaugurato un nuovo modo di scrivere etnografia, basato sulla costruzione coerente e coesa di opere
volte alla glorificazione delle case regnanti e dei loro regni (cfέ 1λιβ, βίι)έ σell’opera ecataica,
l’Egitto si configura come uno stato filosoficamente ideale, all’origine della civilizzazione
dell’intero ecumeneμ tutta la costruzione dell’opera, dall’ambito geografico a quello storico e
sociale, si forma a partire da questa concezione di fondo (cf. 1972, l.c.). Secondo Murray, la
redazione degli Aigyptiaká «provole immediate competition from the other successor Kingdoms»
(cf. 1972, l.c.) e gli Indika megastenici «are modelled closely on Hecataeus, and are indeed a reply
to Hecataeus’ claims about the cultural supremacy of Egypt» (1970, 166). La costruzione ideologica
megastenica vorrebbe dimostrare come all’origine della civilizzazione mondiale non ci fosse
l’Egitto, ma l’India, società perfetta governata da una classe di filosofi analoga a quella auspicata da
Platone (cf. 1972, 208). Per quanto gli studi di Murray possano essere interessanti da un punto di
vista storico – essi infatti cercano, per la prima volta, di giustificare quegli aspetti dell’opera
megastenica che avevano maggiormente interferito con coloro che volevano utilizzarli
esclusivamente come fonti di informazione – non si può fare a meno di appoggiare le due obiezioni
che ad essi sono rivolte da Zambriniμ in nessun frammento, l’India viene presentata come fonte
della civiltà (anzi, la popolazione locale si evolve ad uno stile di vita civile grazie all’invasione di
un dio estero come Dioniso: cf. F 12); inoltre, essa non era – come l’Egitto per i tolemaidi – una
regione appartenente alla dinastia regnante di riferimentoμ si trattava invece di un’area che non solo
era al di fuori dell’influenza seleucide, ma che si era appena scontrata con Seleuco senza risultarne
sconfitta (cf. 1982, 99-101). Di fronte ad aspetti come questi, la tesi di Murray va ridimensionata.
Successivamente, la maggiore trattazione megastenica si deve ad A. Zambrini: nella sua
analisi dell’opera di εegastene, lo studioso parte dagli spunti di εurray, portandoli avanti e
confermando la matrice seleucide del progetto megastenicoέ δ’idealità che pervade la struttura e le
istituzioni dell’India megastenica, ripresa dalla tradizione etnografica precedente e dal modo con
cui essa aveva affrontato la descrizione dei confini dell’ecumene, si inserisce senza forzature
all’interno di un progetto simile (ma non identico) a quello di Ecateoμ «la finalità degli Indika
consiste nel delineare l’idealità globale e logicamente concatenata dell’India allo scopo di suggerire
un modello politico-sociale ideale, quale utopistica suggestione letteraria nell’ambito dei tipici
problemi del regno seleucidico al suo primo sorgere e consolidarsi» (1λκη, ικι)έ In quest’ottica, «la
società maurya, che sta sullo sfondo di questa descrizione quale elemento di ‘realtà oggettiva’
suggestionante, viene trasfigurata ed abbondantemente ‘travestita’ di forme greche, perché possa
essere un modello ideale per l’ambiente greco-macedone» (1λκη, κηί)έ σon a caso, l’isolamento
geografico e culturale dell’India viene spezzato unicamente da divinità e condottieri greci (un dato
che va contro la realtà storica: cf. F 11): ciò infatti permette a Megastene di mettere in evidenza la
matrice esclusivamente greca della cultura che descrive, una società i cui aspetti più marcatamente
insoliti o esotici vengono presentati come manifestazioni dionisiache. A questa concezione di fondo
si devono le inesattezze della trattazione megastenica e quei particolari che ben difficilmente
sarebbero integrabili nel contesto indiano dell’età dei εaurya (cfέ 1λκη, κη1)μ per tali fattori l’opera
di Megastene non può essere considerata una fonte del tutto attendibile per una ricostruzione
dell’India dell’epoca, anche se non mancano in essa osservazioni corrette e informazioni
interessantiέ δa scelta dell’India come modello per lo stato seleucide si baserebbe sull’analogia
strutturale dei due regni; nella regione descritta da Megastene, il regno di Seleuco trovava «una
propria immagine ideale e perfezionata attraverso l’esaltazione di una realtà politico-sociale
estranea, ma analoga per complessi problemi storici a quella seleucidica» (1λκγ, 11ίλ)έ δ’impero di
Candragupta costituiva infatti «una compagine politica nuova rispetto al tradizionale particolarismo
politico indiano, caratterizzata da una forte spinta all’espansionismo ed ad un controllo centralizzato
di tutta la vita economica e sociale del paese» (1983, l.c.). Come la ricostruzione di Murray, alla
quale si ispira, anche l’interpretazione di Zambrini puά vedersi rivolta un’obiezioneμ che l’India di
Megastene sia sottoposta ad un forte processo di idealizzazione è un dato di fatto; non lo è invece la
finalità politica di questo approccio. Se, per giustificare tale aspetto, si pensasse ad una derivazione
ecataica bisognerebbe tenere in considerazioni quelle differenze che sono già state evidenziate tra i
due etnografi e che rendono la dipendenza di uno dall’altro meno ovvia di quel che è stato dettoέ
Oltre a questo, va ricordato come una forte trasfigurazione sia sempre stata riferita, dal mondo
greco, alle aree più lontane dell’ecumene, dagli Iperborei del nord agli Etiopi dell’estremo
meridione: questo elemento costituisce una costante del genere etnografico e ciò spiega
perfettamente la sua presenza nell’opera megastenica, senza bisogno di ricorrere a particolari forme
politico-filosofiche.
Una scossa agli studi megastenici è stata data, nel 1996, da un articolo di A.B. Bosworth,
The historical setting of Megasthenes’ Indicaμ ribaltando la tradizionale cronologia dell’ambasciata
dell’etnografo, lo studioso ha proposto di anticipare il viaggio in India dal γίθ-305 al 320-318; tale
tesi si appoggia principalmente su un passo, tradizionalmente emendato secondo una correzione di
Schwanbeck, in cui si attribuisce a Megastene una visita a Poro (cf. F 5). Perché tale incontro fosse
possibile, il viaggio dell’ambasciatore avrebbe dovuto svolgersi prima dell’anno di morte del
sovrano, il 317 (cf. Schaefer 1958, 1228). Sulla base di questo, Bosworth anticipa anche la visita a
Candragupta, avvenuta quando il sovrano Maurya non aveva ancora esteso in Occidente i propri
domini (cf. 1996a, 1βί)έ δa nuova cronologia fa saltare il tradizionale movente dell’ambasciata, la
ratifica dei patti tra Seleuco e Candragupta: a fronte di questo, Bosworth evidenzia come tale
motivazione non abbia comunque basi testuali sicure, ma si basi principalmente sul fatto che
«εegasthenes was the only ύreek envoy attested at ωhandragupta’s court, and the only known
negotiations between the Mauryan and Seleucid regimes were those of 303/4» (1996a, 114)έ δ’unica
testimonianza che avvicina l’ambasciatore a Seleuco non nomina il viaggio in India (cfέ T1) e quella
che lo fa, lo lega al satrapo dell’χracosia Sibirzio (cfέ Tβa)έ δa nuova contestualizzazione che
Bosworth propone per giustificare il viaggio di Megastene in India coinvolge la guerra che i satrapi
τrientali dell’impero macedone hanno mosso contro Pitone di εedia e le sue ambizioni
imperialistiche (cf. Diod. XIX 14). I preparativi diplomatici anteriori al conflitto, trattative che
coinvolsero anche Sibirzio, dovrebbero aver portato Megastene in India, per chiedere aiuto a Poro e
ωandragupta (cfέ 1λλθ, 11λsέ)έ δ’anticipazione dell’ambasciata porta importanti conseguenze,
poiché la regione visitata dall’ambasciatore non è più l’area unificata sotto il regime εaurya, ma
l’insieme di piccoli regni trovato dai εacedoni al loro arrivoέ
δ’articolo di ψosworth ha un merito fondamentaleμ esso evidenzia infatti come buona parte
delle informazioni tradizionalmente accettate su Megastene non siano altro che supposizioni,
costruite sull’assenza di elementi più precisiέ Data l’energia, con cui lo studioso attacca i sistemi
ricostruttivi della scuola ottocentesca, ci si aspetterebbe da parte sua una certa prudenza nel
procedere ad una nuova ricostruzioneμ ma così non èέ δ’ipotesi di ψosworth – brillante, per certi
versi, e suggestiva – ha la stessa legittimità di quelle di Schwanbeck o Stein, ovvero di quelle
costruzioni ‘totalitarie’ che lo studioso vorrebbe mettere da parteέ χllo stesso modo, infatti, egli
sfrutta la scarsità di informazioni per delineare il quadro di eventi che ha in mente, lasciandosi
guidare, nella sua interpretazione, da una certa carica di estremismo. Il fatto che Arriano menzioni
una visita di Megastene a Poro e che tale porzione testuale non sia riconducibile ad una qualche
forma di corruzione del passo, non implica necessariamente – come Bosworth vorrebbe – che tale
incontro sia avvenuto nello stesso viaggio che ha portato l’ambasciatore greco da ωandraguptaέ
Sostenere un’idea del genere significa caricare il dettato greco di un significato che non gli
appartiene necessariamente. Come evidenziato dallo stesso studioso (cf. 1996a, 115), il testo in
questione corrisponde ad una citazione di εegastene, non all’originaleμ perciά non si puά stabilire
con sicurezza quanto Arriano abbia compresso (o tralasciato) del dettato megastenico. Gli incontri
con i due sovrani potevano essere menzionati in punti diversi dell’opera, nell’ambito di incarichi
differentiμ in quest’ottica, si potrebbe spiegare il motivo per cui le altre testimonianze non riportano
nulla sulla visita a Poro, ma si limitano a menzionare Candragupta (cf. T 2); se infatti i due sovrani
fossero stati inseriti da εegastene all’interno di un’unica menzione (relativa ad un’unica
occasione), ci si sarebbe potuti aspettare qualche citazione in più per il primo sovrano. La scarsità di
riferimenti sembrerebbe invece indicare una sua menzione sfuggevole, magari inserita nell’ambito
di un proemio: ad apertura della sua opera, Megastene potrebbe avere indicato da dove traeva le
competenze per la redazione di un’opera sull’India, ovvero le sue precedenti esperienze indiane.
Tale richiamo non compromette tuttavia un dato fondamentale, che cioè l’India descritta da
εegastene è quella dei εaurya, non dell’età di χlessandroμ gli elementi che ψosworth riporta per
sostenere il contrario (cf. 1996a, 125-127) non hanno una carica costrittiva notevole, a meno che
non si vogliano attribuire all’impero di ωandragupta le caratteristiche della όrancia di δuigi XIVέ δo
studioso chiama in causa due passi di Arriano e Diodoro dai quali si può dedurre l’esistenza di più
sovrani e di città autonome (cf. Arr. Ind. 11,9, 12,5s., Diod. II 41,3) e sostiene che tale presenza
«reflects […] the state of western India at the time of χlexander’s conquests» (1996, 125). Di fronte
a testimonianze come quelle citate, bisogna sottolineare che la presenza, all’interno di un impero
dell’antichità, di comunità più o meno autonome non costituisce una rarità, né influisce sulla
stabilità del potere sovranoμ come esistevano comunità autonome all’interno del regno seleucide o
dell’impero romano, così potevano esserci nel regno di ωandraguptaέ χll’interno della compagine
statale dei εaurya, le fonti indiane inseriscono infatti delle ‘comunità di villaggi’ (gr ma), dotate di
una certa autonomia (cf. Bongard-Levin 1985, 154-16β)έ δ’amministrazione di tali comunità –
inizialmente affidata ad un consiglio incaricato di dirimere le controversie interne e di dettare le
linee guida della gestione del potere (cf. Bongard-Levin 1985, 159) – ha subito, nel corso del
tempo, un’evoluzione autocratica: «the weakening of the democratic traditions is also reflected in
the fact that the role of the village headman was strengthened» (Bongard-Levin 1985, 160). Con
l’inserimento di queste comunità nella più vasta gestione imperiale dei εaurya, la funzione
principale di questo governatore è divenuta l’esazione delle imposteέ χ fronte di tutto questo, è
lecito ipotizzare un’identità tra questi gr ma e le città, cui fanno riferimento Arriano e Diodoro: le
due alternative presentate dalle fonti, la reggenza di un sovrano o l’autonomia, possono
corrispondere alle due fasi dell’evoluzione politica che hanno coinvolto queste comunitàέ χ questo
proposito, si può fare riferimento a quanto scritto da Zambrini: egli sostiene che queste città siano
una proiezione della struttura statale seleucide sulla compagine amministrativa indiana (cf. 1985,
824). Prendendo in considerazione quanto si è visto, tale interpretazione può essere accettata solo
parzialmente: le città autonome – governate da un regime democratico o da forme di potere diverse
– erano effettivamente presenti nel regno di Seleuco; tuttavia, non si dovrà dire che Megastene ha
impiantato tali strutture nella società indiana; piuttosto, che la loro presenza in ambito greco gli ha
reso più immediato il riconoscimento della loro presenza e delle loro competenze amministrative: si
puά parlare dunque di un osservatore che, influenzato dall’ambiente cui appartiene, descrive
secondo i propri parametri una società effettivamente esistente. Tornando a Bosworth, si possono
fare altre osservazioni. Nel menzionare i passi di Arriano e Diodoro che ricordano forme autonome
di potere nell’India megastenica, lo studioso aggiungeμ «Strabo has simplified and adapted the
exposition, as he does elsewhere, and he has excised the references to autonomous communities as
superflous» (1996a, l.c.). Che Strabone riporti le proprie fonti in modo più superficiale rispetto ad
Arriano, è un fenomeno effettivamente riscontrabile (cf. FF 19s.); bisogna tuttavia sottolineare che i
dettagli omessi dal geografo sono normalmente aspetti di bassa rilevanza: anche in questo caso, tale
omissione può essere ricondotta alla scarsa importanza che queste città avevano all’interno della
vita sociale indiana. Se queste fossero state da identificare con l’insieme composito di stati e di
regni dell’età di χlessandro, la fonte che riporta la struttura amministrativa del regno indiano (cfέ ό
31) avrebbe potuto evitare di farne menzione? Un altro passo preso in esame da Bosworth è la
sezione straboniana dedicata al Grande Concilio (cf. F 19b): come ammesso dallo stesso studioso, la
prima porzione del passo ( ὺ α α α ὴ ) «probably
denotes the historical totality of Indian kings» (1996a, l.c.); per quanto riguarda il prosieguo del
testo, dove si descrivono i filosofi α ῖ υ , egli propone – oltre alla più immediata
interpretazione, che vede, in quell’unico re, il sovrano dei Prasi – una visione diversa, secondo la
quale «the Synod attracted a number of dynasts, and in each Kingdom the philosophers congregated
around their king» (1996, 125 n. 59). Una proposta del genere non è facilmente sostenibile: se
infatti i filosofi si radunano unicamente al loro sovrano particolare, che senso dare al che apre
il discorso? A fronte dei pochi passi del corpus che sembrano indicare un panorama politico
variegato e composito, molti di più sono quelli che denotano la presenza di un unico potere,
funzionale e forte: la terra indiana è tutta di proprietà del re, così come lo sono le armi dell’esercito
e gli elefanti (cf. FF 20, 31); le forze militari che vengono nominate in relazione all’assenza di furti,
si aggirano su cifre molto superiori a quelle di cui potevano disporre i dinasti dell’età di χlessandro,
ma non troppo lontane da quelle di un ωandragupta all’apogeo delle proprie forze (cfέ γβμ
α α υ π υ ἱ υ υ). Di un unico re si parla, nel momento in cui vengono
presentate la vita di corte (cfέ ό γβ) o l’attività dei consiglieri reali (cf. F 19).
Per quanto riguarda il nuovo contesto storico proposto da Bosworth, incentrato sulla figura
di Sibirzio, esso va analizzato all’interno di una panoramica più estesa della situazione politica
dell’India settentrionale nel IV secoloέ

4. Per una proposta di analisi

Una volta presi in considerazione i precedenti etnografici dell’opera megastenica, le


interpretazioni che gli studiosi hanno dato di essa e la confusione del quadro storico di riferimento,
si possono trarre alcune conclusioni. Quando afferma che il legame tra l’attività diplomatica
megastenica e i patti di pace tra Seleuco e Candragupta sono il frutto di pura supposizione, il
prodotto di un approccio interpretativo che vuole ricostruire ad ogni costo, legando insieme eventi e
persone che potrebbero afferire ad ambiti e vicende diversi, Bosworth ha ragione. Il problema è che
un atteggiamento tanto critico mina alla base anche la sua interpretazione. Dal punto di vista delle
prove o delle testimonianze, essa presenta infatti la stessa legittimità di quella di Schwanbeck: come
la ricostruzione tradizionale, anche la sua si appoggia al «gaping void of ignorance» (Bosworth
1996a, 115) che caratterizza la conoscenza del primo Ellenismo in Oriente e riempie, sulla base di
intuizioni non dimostrabili, i vuoti che emergono dalle scarse fonti rimaste. A questi aspetti – già
messi in evidenza – bisogna aggiungere che, se il quadro sistematico e compiuto di Schwanbeck,
Timmer o Stein si puά spiegare con la temperie culturale tedesca di fine ‘κ00 – inizio ‘λίί, tale
attenuante non può essere considerata per Bosworth, da cui ci si aspetterebbe un approccio più
lucido e consapevoleέ ωome si vedrà in seguito, da un’analisi più dettagliata delle testimonianze
raccolte da Jacoby (cf. TT 1-7), ciò che è lecito affermare sull’etnografo si riduce davvero a pocoέ
Egli era un ambasciatore, o almeno fu chiamato a svolgere tale incarico in alcune occasioni: α
π α fu inviato – almeno due volte17 – in India, prima da Poro, poi da Candragupta. Nulla
vieta che egli abbia partecipato all’organizzazione di una guerra contro Pitone o alla ratifica dei
patti tra Seleuco e Candragupta: ma queste proposte vanno prese per ciò che sono, semplici ipotesi.
Del resto, sarebbe piuttosto errato limitare l’attività di Megastene a queste particolari circostanze; è
possibile che i contatti tra Greci e Indiani siano stati così esigui, in un periodo tanto ricco di eventi
come gli anni successivi alle conquiste di Alessandro? Per Megastene si potrebbe anche immaginare
un ruolo stabile, prima alle dipendenze di Sibirzio, poi a quelle di Seleuco.
Se le notizie su Megastene forniscono pochi appigli per caratterizzare ed interpretare la sua
opera, a quest’ultima è necessario rivolgersi, per scoprire quali prospettive possono essere tratte dal

17
Sulla base della ricostruzione storica più accreditata, quella che è stata presentata in questa sede, un unico viaggio che
coinvolgesse contemporaneamente Poro e Candragupta non sarebbe stato possibile per motivi cronologici.
corpus dei frammenti18. Esso consta – nell’edizione di Jacoby (1ληκ, 603-639) – di trentaquattro
frammenti, ripresi prevalentemente da χrriano e Straboneμ l’edizione in questione – la cui
disposizione si è mantenuta anche nel commento che segue – ha avuto il merito fondamentale di
eliminare dal corpus dell’etnografo quei frammenti che gli editori precedenti avevano legato ad
esso unicamente per il loro riferimento all’India (si vedano ad esempio Schwanbeck 1846, 113,
Müller 1848, 411). Tuttavia, anch’essa non risulta esente da riserve: come si vedrà in seguito,
Jacoby ha tolto dalla sua raccolta un passo di Clemente Alessandrino (Str. I 71) riconducibile con
ottime probabilità all’opera di εegastene (cf. F 3), mantenendo invece un frammento arrianeo, la
cui origine potrebbe ricondursi a Nearco o a Daimaco di Platea (cf. F 17). A fronte di questo
l’attendibilità delle scelte di Jacoby sarà verificata e messa in discussione nel commento di ogni
frammento.
δ’analisi del corpus megastenico richiede alcune basilari considerazioni metodologiche. Per
quanto il loro status di opere frammentarie lo renda quasi inevitabile, bisogna astenersi
dall’affrontare lavori come quello di εegastene con criteri e giudizi troppo diversi da quelli delle
opere tramandate integralmente o quasi. Troppo spesso, testi frammentari vengono compressi
intorno ad un’unica prospettiva, come se il loro autore non avesse altre aspirazioni al di fuori di
quella: un ragionamento del genere non può non risultare fallimentare. Se, ad esempio, le Storie di
Polibio fossero pervenute unicamente in frammenti e alcune testimonianze avessero parlato della
vicinanza dell’autore al circolo degli Scipioni, è lecito presumere che almeno uno studioso (se non
più di uno) avrebbe ipotizzato per l’opera polibiana una finalità politica, magari la volontà di
istruire i dedicatari dell’opera con considerazioni filosofico-storiche riprese dagli eventi descritti.
Eppure una semplice lettura delle Storie, giunte alla modernità quasi integralmente, mostra
chiaramente che Polibio aveva molto di più in mente ed evidenzia come la sua opera non possa
essere stretta ad uno scopo preciso o ad un’unica funzioneέ Se per le opere intere – anche quelle di
livello qualitativo inferiore a quello delle Storie – un approccio del genere evidenzia tutte le sue
mancanze, perché mantenerlo per quelle frammentarieς Perché ridurre l’opera di εegastene ad una
risposta all’etnografia di Ecateo di χbdera o alla costruzione di un modello politico ideale per il
regno di Seleuco?
Naturalmente, affermare di voler leggere dei testi antichi con la mente del tutto scevra da
giudizi critici è pura utopia: tanto più, che certe interpretazioni possono risultare decisamente utili
per integrare il testo nella sua dimensione originaria, per cogliere quanto esso veicola, al di là di un

18
Oltre che sulla scarsità di informazioni, tale bisogno si genera da un importante aspetto della letteratura antica, ovvero
dalla necessità di separare la vita di un autore da quanto è racchiuso nel suo lavoro. Soprattutto per certi ambiti letterari,
le convenzioni di genere possono assumere un’importanza notevole, anche a discapito dell’esperienza particolare dello
scrittore
livello letterale che, eliminando il contesto storico, culturale e sociale dell’autore, rischia di essere
eccessivamente influenzato da quello del lettore. Come si è detto, uno studio del corpus
megastenico che ignori deliberatamente il suo retroscena greco, rischia di rivelarsi fallace e
riduttivo, perché ricerca nei frammenti dell’etnografo informazioni che egli non aveva interesse a
esporre: in ultima analisi, tale scuola esige da Megastene quanto si aspetterebbe da un autore
moderno, lo stesso disincanto e le stesse curiosità. Di qui quel giudizio negativo che gli studiosi
successivi a Schwanbeck hanno espresso in misura più o meno calzata. Un discorso del genere vale
naturalmente per tutti i testi antichi: caduta la vecchia idea di testi universalmente validi per la
formazione dell’individuo e adatti a qualsiasi contingenza storica o sociale, ci si è resi conto del
carattere fondamentale che una debita contestualizzazione assume nella loro lettura. Bisogna
tuttavia fare attenzione, nel momento in cui si evita questa ‘idolatria della lettera’, a non precipitare
nell’estremo opposto, ovvero in un’analisi testuale che dia troppo peso alla sovrastruttura
interpretativa, sovrapponendola al testo, anche quando questo non si accorderebbe con essa. Per
evitare tali eccessi, nell’analisi dei frammenti di εegastene, si è scelto un approccio ‘dialettico’, un
avvicinamento al testo che creasse continuamente legami tra la lettera e l’interpretazione, tenendo
conto di quest’ultima nella lettura, ma mettendola continuamente alla prova sulla base della primaέ
La conseguenza più evidente di questa disposizione metodologica è stata la messa in discussione
delle teorie formulate dai vari studiosi (cui si è già dato spazio al § 3): ma una trattazione che si
limiti alla pars destruens, per quanto più agevole da maneggiare e sicuramente più comoda, non
può dirsi autosufficiente. Perciò risulta necessario, a questo punto del discorso, presentare gli
‘elementi costruttivi’ che emergono da una lettura dell’opera megastenicaέ ωome si puά vedere, essi
sono facilmente ricollegabili a delle ‘costanti di genere’, delle convenzioni letterarie che sono
inscindibili dalla produzione di certi elaborati.
Un primo aspetto che si lega strettamente all’attività dell’entografo antico è l’orgoglio di
aver presentato, per la prima volta o in misura più completa, zone sconosciute dell’ecumene, uno
spatium historicum che la lontananza eliminava dall’orizzonte comune dell’uomo grecoέ Tale exegi
monumentum si manifesta nella posizione preminente che spesso il nome dell’autore occupa nel
proemio della sua opera (cf. FGrHist 1 F 1, Hd I 1), una φ α che orgogliosamente riconduce a
lui quanto segue nella narrazione. In quest’ottica, proprio la perdita del proemio – la sezione
dell’opera in cui le considerazioni dell’autore trovano massima espressione – assume una grande
rilevanza. Ciononostante, tale consapevolezza è ancora riconoscibile in alcuni punti dell’operaμ ad
esempio, all’inizio del ό 11, dove si trova un invito di εegastene a non credere αῖ ἀ α α π ὶ
Ἰ ἱ α . Questa distinzione dalla tradizione precedente equivale alla ricerca di un proprio
spazio e alla volontà di affermare la propria autonomia, sintomi dell’alta considerazione che
l’etnografo aveva del proprio lavoro. Che tale dichiarazione di principio non venga seguita nella
realtà (i debiti che Megastene contrae con la tradizione precedente sono molti), è cosa che non deve
meravigliare; come si è già visto per i rapporti tra Erodoto e l’etnografia ellenistica, desiderio di
autonomia e necessità di appoggiarsi a precedenti ‘scomodi’ vanno spesso di pari passo. Un’altra
conferma di quanto si è detto, viene dalle dichiarazioni di autopsia: come si legge nel F 5,
l’etnografo π ἀφ α πα Σα ὸ Ἰ α α. Come si deduce
dal π , l’evidenziazione del carattere autoptico della narrazione doveva trovare posto in
parecchi punti degli Indika. Traccia di tale componente è riscontrabile nel F 32, dove Megastene
afferma di essere stato di persona nell’accampamento di ωandragupta ( ῦ ἐ
Σα υ α π ῳφ ὶ ὁΜ α , έ)έ
Nonostante le ripetute dichiarazioni di autonomia, si è visto come i richiami alla tradizione
precedente siano nell’opera megastenica tutt’altro che assentiέ Tali elementi possono essere riassunti
in due punti fondamentali: da una parte l’idealizzazione generale dell’ambiente indiano, dall’altra la
presenza diffusa di mirabilia. Il frammento che più di ogni altro evidenzia la prima componente è
l’ottavoμ in esso, viene riproposta una presentazione della natura indiana che sembra ammiccare alla
breve digressione erodoteaέ εa ridurre questa carica ideale all’ambito naturale rischia di essere
limitanteν essa pervade infatti anche altri aspetti dell’India megastenicaμ si manifesta nell’assenza di
schiavi, potenziale fonte di disordini sociali (cf. F 16); nella lieve entità dei furti, sintomo di una
società in cui le leggi vengono rispettate pur non essendo scritte (cf. F 32); nella sobrietà
dell’apparato funerario, indice di un ricordo sociale basato sulla condotta di vita e non sui possessi
materiali (cf. F 15). Per quanto riguarda invece la presenza dei mirabilia – componenti strettamente
legate al carattere ideale della narrazione – essi possono essere divisi in tre ambiti: ambientale,
faunistico e umano. Il primo è esemplarmente rappresentato dalla descrizione del fiume Sila, la cui
acqua non permette il galleggiamento di nulla (cf. F 10); oltre ad esso, si possono menzionare gli
alberi del ό βη, che crescono in mare, o l’abbondanza di perle dell’τceano meridionale (cf. F 13).
δ’ambito faunistico si declina, all’interno del corpus megastenico, in una casistica varia e
abbondante, che va dalla presentazione dell’elefante (e della sua intelligenza) a quella dei serpenti
volanti (cf. FF 20-24). Quello umano conta invece i numerosi popoli straordinari dei FF 27-30:
Astomi, Pigmei, Sciriti, Selvaggi, Iperborei ecc. Quando si ha a che fare con opere etnografiche, è
necessario adoperare cautela nel definire quale importanza avessero in esse informazioni come
queste: il fatto che la maggior parte delle notizie che sono state tramandate riguardino tale ambito,
non implica necessariamente che esso fosse la componente principale; tale abbondanza di citazioni
indica semmai che la tradizione successiva si è concentrata prevalentemente su questi aspetti, che
potevano avere – nell’economia dell’opera intera – una posizione paritaria a quella di altri
argomenti, come la geografia o la storia. Da quanto si puά ricostruire, ciά valeva anche per l’opera
megastenica: data la presenza, nel secondo libro, di informazioni relative alla società (cf. F 2), nel
terzo, di elementi culturali e filosofici (cf. F 3) e nel quarto, di questioni storiche (cf. F 1), è lecito
ipotizzare per questa sezione ‘naturale’ una collocazione nel primo libro, che verosimilmente avrà
compreso anche gli aspetti più tecnicamente geografici.
La massiccia presenza di componenti della tradizione precedente potrebbe denotare anche
una certa attenzione dell’autore per le aspettative del suo pubblico, la consapevolezza dei limiti e
delle possibilità del suo orizzonte culturale: la ripresa di topoi che, in passato, erano state legati in
maniera decisa all’ambiente indiano potrebbe rispondere alla necessità di non disorientare i lettori
con coordinate e notizie troppo diverse da quelle cui erano abituati. La ripresa della leggenda delle
formiche cercatrici d’oro, resa celebre da Erodoto, puά legarsi a questa tendenzaέ σella stessa ottica
può essere inserita la descrizione della società indiana in forma grecizzata (cf. FF 19, γ1)μ l’uso di
nomi e cariche tipicamente ellenistici possono derivare dalla necessità di essere immediatamente
colti nelle loro caratteristiche e prerogative. A fronte di questo, la ricerca di precedenti indiani a tali
elementi può essere utile, ma non è sufficiente, nel caso in cui tale indagine prescinda da questa
humus occidentale. Un discorso simile a questo va fatto per i frammenti relativi alla filosofia
indiana (cf. FF 32s.), testi più utili ad una panoramica delle correnti filosofiche greche, piuttosto che
alla scoperta di dottrine religiose o mistiche indiane.
In conclusione, un’interpretazione che riprenda esclusivamente una finalità politica – che si
tratti di una polemica con la propaganda tolemaide o di un ‘suggerimento’ alla politica di Seleuco –
e che riconduca il tutto all’iniziativa particolare di εegastene, rischia di mettere in secondo piano o
di non considerare comunque in maniera adeguata questi elementiέ δa miscela di dati ‘reali’ (se così
possono essere definiti elementi che risultano comunque filtrati e descritti attraverso l’occhio greco
dell’ambasciatore) e fantastici, fusione che rende l’opera dell’etnografo inadeguata per le esigenze
informative dei moderni, non va ricondotta unicamente all’etnografo e alla sua volontàμ piuttosto, è
necessario fare riferimento a quelle convenzioni letterarie, che hanno determinato e plasmato la
nascita e l’evoluzione del genere etnograficoέ

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