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IL QUARTO RE MAGIO, una storia di Natale

(liberamente tratto da un racconto, molto integrato e rielaborato da Daniele Signorini )

I Re Magi si misero in viaggio; ognuno partiva dalla propria terra di origine, ma tutti e tre erano diretti verso
la medesima destinazione: la lontana terra della Palestina, dove gli antichi libri, i segni dei tempi e quelli del
cielo indicavano che sarebbe nato il Re dei Re, il bambino prodigioso. Tutti i Re Magi, oltre che veri re,
erano anche dei famosi sapienti e saggi, alchimisti, medici e astrologi. Quelli che oggi chiameremmo
scienziati. Erano degli illuminati che sapevano leggere gli eventi futuri esplorando il corso delle stelle,
osservando le congiunzioni dei pianeti e leggendo i libri di profezie. Uno, di nome Melchiorre, quello dal
viso più chiaro, veniva dalla Persia e portava in dono della mirra. Un altro, di nome Gasparre, quello dal
colorito leggermente olivastro e dai capelli lisci, veniva dal lontano Oriente, dall’India e portava l’incenso
del suo paese. Il terzo, Baldassarre, i cui capelli erano crespi e le labbra spesse era partito dalla leggendaria
terra di Saba, recando con sé un luccicante e prezioso calice, forgiato con l’oro della Nubia. Tramite i loro
messaggeri, dei veloci e affidabili piccioni viaggiatori, avevano concordato di incontrarsi, ad una certa data,
presso i resti della città di Borsippa, sull’Eufrate, distrutta oltre cinque secoli prima da Ciro il Grande, dalla
quale proseguire poi il viaggio in comune. Se qualcuno fosse mancato nel punto di incontro, l’accordo era di
attenderlo al massimo una decina di giorni, per non giungere troppo tardi all’appuntamento finale. Infatti
l’apparizione di una tenue cometa, nel cielo occidentale, indicava, per chi poteva capirlo, non solo che il Re
dei Re era nato, ma anche la strada da seguire per potergli consegnare i loro doni. Questo costituiva, per i re
viaggiatori, un vero problema che rallentava la loro marcia. Infatti la stella cometa era visibile solo nel cielo
buio della notte e quindi i Re Magi dovevano mettersi in marcia ogni calar della sera, fermandosi alle prime
luci dell’alba. Durante le soste forzate, in pieno giorno, si riparavano dal sole ardente sotto le tende. Anche
se disponevano, nelle loro carovane, di guide esperte, viaggiando di notte non potevano neanche essere del
tutto certi sulla strada da seguire. Ciò comportava frequenti deviazioni, aumentando l’insicurezza,
l’inquietudine e la fatica del lungo viaggio. A questo punto però dobbiamo dire che esisteva, oltre ai tre già
detti, un quarto Re Magio, il cui luogo d’origine era un lontano paese bagnato dalle acque del Golfo Persico.
Questo santo uomo venne a conoscenza della nascita del Bambino Re più o meno nello stesso tempo degli
altri tre, ma la posizione in cui si trovava rendeva difficile l’osservazione del cielo e quindi più incerto il suo
cammino. Inoltre la sua piccola carovana era formata, a differenza degli altri che viaggiavano spediti su
veloci dromedari e cavalli, soprattutto da muli e asini, che procedevano, nelle steppe desertiche della Caldea
e della Mesopotamia, con passo lento, ondeggiante e faticoso. Prima di partire, il quarto Re Magio, il cui
nome pare fosse Artabano, aveva pensato di portare, in omaggio al Re, la cui stella aveva visto brillare sopra
il roseto di Shiraz, tre splendide perle del Golfo Persico: una bianca che sembrava splendere di luce propria
sotto i raggi della luna, una blu, che restituiva i colori dell’alba e, ancora più preziosa, una nera, la quale
sprigionava profondi riflessi madreperlacei che incantavano chi la osservava. Erano perle non solo
splendide, ma anche grandi, quasi come uova di piccione. Artabano, che era anche il più anziano dei quattro
Magi, si trovava dunque ancora lontano dalla meta, arrancando sulle terre argillose e aride del deserto, che
gli altri tre, giunti al punto d’incontro e non potendo aspettare oltre, avevano proseguito, sempre seguendo la
stella cometa, giungendo infine, stanchi ed affaticati, un freddo pomeriggio, con loro viva sorpresa, davanti
ad una povera stalla nel villaggio di Betlemme. Rimasero a questo punto molto perplessi sul da farsi,
quando il tremulo uscio si aprì e apparve, agli occhi dei Santi Uomini una piccola famiglia: un uomo stava
in piedi poco oltre la soglia; sulla paglia soffice e pulita, sistemata con amorevole cura sopra una
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mangiatoia, stava disteso un bambino dal colorito roseo mentre la madre lo osservava con attenzione e
dolcezza. Due animali, un bue ed un asinello stavano sdraiati poco distanti dal bambino e sembravano
volerlo riscaldare col loro alito vaporoso e fumigante. Benché il locale fosse una stalla, aveva un aspetto
pulito e nell’aria si sentiva il profumo del fieno tagliato e delle erbe, sistemate a mucchietti ai lati estremi
della mangiatoia. Per primo, esitando, si fece avanti Baldassarre, accennò a qualche parola benaugurale e di
omaggio e, inchinandosi, depose il calice d’oro di fianco al Bambino, che però sembrava addormentato, non
si mosse, non allungò le manine verso il dono che gli era giunto da lontano. Entrò poi chi portava l’incenso,
depose con delicatezza il contenitore alla destra del Bambino addormentato, ne accese una piccola porzione
e a questo punto il Bambino si svegliò, ma non sorrise, anzi cominciò a tossire, a causa del fumo che
penetrava nei suoi minuscoli polmoni. L’ultimo a rendere omaggio al Re neonato fu Melchiorre, che depose
alla sua sinistra il vaso contenente la mirra, da cui sprigionava un intenso odore aromatico, per il quale gli
occhi del piccolo si riempirono di lacrime. A parte l’immediatezza dei gesti, i tre Re Magi poterono
faticosamente comunicare con Giuseppe e Maria, i genitori del Bambino a fatica, e solo tramite interpreti,
perchè essi, nonostante la vastità delle loro conoscenze, non parlavano per nulla la lingua del luogo. Poiché
la strada del ritorno era lunga, essi presero presto congedo dalla famigliola che viveva nella stalla e
ripartirono piuttosto delusi, con l’intima e spiacevole sensazione di non essere stati considerati col giusto
riguardo alle loro persone né tantomeno con la dovuta riconoscenza per la ricchezza dei doni che, varcando
fiumi, montagne e pianure, percorrendo innumerevoli miglia e superando molti pericoli, avevano portato.
Ben presto il tintinnio delle bardature dorate dei loro dromedari e lo scalpitio dei loro cavalli sul terreno
gelato si spense per le vie del villaggio e le loro carovane scomparvero inghiottite dal buio della sera che
calava sopra le montagne. Intanto, a marce forzate, anche Artabano proseguiva il suo lungo viaggio, recando
sempre con sé le tre preziose perle. Una notte si fermò, per non dare nell’occhio, nei pressi di un piccolo
villaggio, quando, nel cuore della notte, le fiamme di un incendio e molte urla cariche di spavento e di
dolore giunsero alle sue orecchie. Svegliatosi di soprassalto a tutto quel clamore, chiese a qualche abitante
del paese che cosa fosse accaduto e si sentì rispondere che in una casa un braciere acceso, rovesciandosi,
aveva appiccato il fuoco alla abitazione distruggendola tra le fiamme, mentre la famiglia che vi abitava era
corsa fuori disperatamente, con gli abiti bruciacchiati e perdendo, con la casa, ogni avere in essa contenuto.
Il buon Re Magio si commosse di fronte al disastro che aveva colpito questa famiglia, in cui erano presenti
anche bambini molto piccoli; tirò allora fuori la perla meno pregiata, quella bianca e la consegnò al
capofamiglia, giudicandone il valore sufficiente sia per ricostruire la casa che per rivestire la famigliola e
dotarla anche di un minimo di denaro. Il padre e gli altri componenti della famiglia, smarriti e increduli di
fronte a tanta generosità, non sapevano come fare per ringraziare il loro provvido e caritatevole benefattore
e non cessavano di colmarlo delle loro benedizioni. Ripreso il lungo cammino, Artabano si trovava ormai ai
confini della Palestina, quando gli si parò di fronte uno spettacolo inconsueto: alcuni individui, che
sembravano far parte dell’autorità del luogo, stavano trascinando via un uomo incatenato, tra le urla
disperate della moglie e dei figli. Si trattava – gli dissero – di un povero contadino al quale la prolungata
siccità dell’estate e il maltempo dell’autunno avevamo rovinato il raccolto per cui egli era stato costretto a
indebitarsi per poter sfamare la sua famiglia, i suoi figli. Veniva quindi tratto in schiavitù affinché col suo
lavoro forzato potesse risarcire i suoi numerosi creditori. Il Re Magio stette appena a pensare, ma la sua
risoluzione fu rapida: consegnò prontamente agli uomini che scortavano lo schiavo la perla blu, affinché col
ricavato della sua vendita fossero pagati tutti i debiti del pover’uomo, restandogli anche del denaro
sufficiente perchè questi potesse riprendersi dal suo stato di indigenza.
Rimaneva al buon Artabano una sola perla, la più pregiata, quella nera. Ma il destino gli si parò incontro,
quasi giunto alla fine del suo interminabile viaggio. Ormai in vista del paesello di Betlemme, udì,
percorrendo una deserta strada ai cui lati enormi rocce si ergevano, separate da siepi di secco fogliame
spinoso e da ruvide piante di ginestre, urla disperate che provenivano da una piccola conca. Qui lo
spettacolo che si presentò ai suoi occhi appariva agghiacciante: alcuni soldati, per ordine del re Erode, come
scoprì in seguito, avevano ricevuto l’ordine tassativo di uccidere tutti i bambini più piccoli dei due anni. In
ottemperanza a questo scellerato comando alcuni di essi, dopo aver bruciato una casetta posta nei dintorni,
stavano per decapitare, tenendolo per un piedino, un bambino, la cui madre piangeva e supplicava
inutilmente la sghignazzante ed oscena soldataglia. Non c’era tempo da perdere e d’altronde il Re Magio, a
parte la veneranda età, non era un uomo d’azione e non poteva sicuramente aver ragione con la forza di
questi feroci e ruvidi soldati. Gli era però rimasta la perla nera, che tolse senza esitare dalla cintura e
consegnò subitamente ai soldati, a patto che riconsegnassero sano e salvo il bambino alla madre. A quei

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rozzi individui l’offerta non parve vera: c’era veramente da diventare ricchi col ricavato di un oggetto così
prezioso! La madre, riavuto il figlioletto, si gettò ai piedi di Artabano per ringraziarlo, farfugliò
sconnessamente qualcosa tra le lacrime, poi fuggì scomparendo nella notte.
Le luci del crepuscolo di quel freddo giorno invernale stavano sfumando nelle prime ombre della sera,
quando Artabano, il quarto Re Magio, giunto dopo un interminabile viaggio dal lontano Golfo Persico, si
trovò davanti la porta socchiusa della stalla, dove i segni celesti indicavano senza porre dubbio alcuno la
presenza del Re Bambino. Il santo uomo non fece neanche in tempo a chiedersi che cosa doveva dire o fare,
non conoscendo per di più la lingua del luogo, che la porta si aprì completamente e la figura di Giuseppe si
stagliò nel vano, un sorriso accogliente delineato nei tratti del suo viso. Anche se fuori le strade erano
vagamente illuminate da qualche isolata torcia di legno resinoso e fumigante, l’interno della stalla era
pervaso da una sottile luminosità che faceva risaltare rendendolo ben visibile ogni oggetto, ogni essere
inanimato o vivente. Accanto alla parete di fondo della piccola stanza, in una mangiatoia piena di paglia che
luccicava come filigrana dorata, era sdraiato un bambino dal colorito roseo, dalle labbra sottili atteggiate al
sorriso, i cui occhi cilestrini si spalancarono restando intensamente fissi in quelli di Artabano, appena
entrato, che fissava la scena con imbarazzo, timore e sconcerto. Una giovanissima donna molto bella stava
vicina al bimbo, seduta su un ceppo di legno e un tenue sorriso aleggiava sul suo volto e sulla bocca appena
socchiusa, che lasciava intravedere i denti, bianchissimi e perfetti. Due bestie, un bue e un asino trovavano
anch’esse posto in quello strano ambiente, ma sembravano voler svanire nella penombra ai lati del piccolo
ambiente, quasi a lasciare maggiore spazio al nuovo arrivato. Alle orecchie di Artabano giungevano
distintamente le lontane note di una arcana e suggestiva melodia che rendeva la scena ancora più magica ed
irreale. Quanto tempo passò, immobile, il buon Re Magio non avrebbe saputo dire, forse parecchi minuti,
più probabilmente solo qualche istante. Alla fine si fece coraggio, varcò la soglia della piccola stalla,
allargando le braccia in un gesto che sembrava ieratico, ma che in realtà esprimeva tutto il suo disappunto,
mutato quasi in disperazione: dopo aver marciato attraverso lande pericolose e desolate, nelle notti gelide e
nei giorni arroventati dal sole, era giunto al cospetto del Re Bambino a mani vuote, lui grande Re, rispettato
per la sua potenza, onorato per la sua conoscenza, stimato per la sua saggezza, famoso per la sua ricchezza,
si presentava alla stregua di un pezzente, con le mani assolutamente, desolatamente vuote. Come per
salvarsi, fece il gesto automatico di cercare una perla nella sua cintura ma non trovò nulla: gli rispose solo il
contatto col ruvido cuoio. A questo punto pensò che una spiegazione, se non una giustificazione, fosse
necessaria e aprì le labbra per iniziare il racconto delle sue peripezie. Ma non fece in tempo: Maria si alzò in
piedi presentandogli le palme aperte delle mani, come per calmarlo e quasi a ingiungergli, dolcemente, il
silenzio. Giuseppe prese a rassettare la paglia per la notte, poi la voce della donna risuonò chiara e
squillante, mentre la luce nella stanza si faceva più vivida e la musica nelle orecchie dello stupito Re lasciò
il posto alle parole di Maria, che vi fecero eco, nitide e gradevoli: “Sappiamo già tutto! Un azzurro
messaggero alato ti ha preceduto, all’alba, davanti a questa porta, portandoci un racconto: la Verità dei tuoi
Gesti, la Generosità delle tue Scelte, il Coraggio delle tue Decisioni, soprattutto la Carità delle tue Azioni.
Sono proprio questi i Doni che ci attendevamo da te!”. Rimase qualche momento in silenzio, davanti allo
sbigottito Artabano, che realizzò appena come la donna gli stesse parlando direttamente nella sua lingua. Poi
ella, alzando la mano destra e indicandolo con l’indice teso concluse, senza enfasi ma con inaspettato calore:
“Veramente non sarebbe stato possibile chiederti di più!”. La giovanissima donna fece qualche passo
indietro, volse lo sguardo in quello del Figlio che la ricambiò col suo sorriso, poi sollevandolo delicatamente
dalla paglia della mangiatoia, andò a deporlo con deliberata decisione sulle braccia dello sconcertato Re
Magio. Egli capì, non sapeva come, che non c’era bisogno di spiegazioni: in verità non c’era mai stato.
Minuscole bollicine di saliva scoppiettarono allegramente ai lati della boccuccia aperta e scrissero la felicità
sulle gote rosate del Re Bambino che, tendendo verso l’Uomo le piccole braccia con le manine aperte,
sembrava voler toccare il suo viso, sussurrargli qualcosa all’orecchio.
Lacrime di commozione colmarono di soppiatto le rughe scavate dal tempo nel volto marmoreo del Vecchio
Re e giunsero ad ammorbidire le sue labbra screpolate dal sole del deserto, dal vento delle pianure, dal gelo
delle montagne. Si sentì distintamente, negli attimi di un silenzio assoluto che improvvisamente abbracciò il
mondo intero, il battito delle loro ciglia, così diverse, così uguali.
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I due Re si scambiarono, sorridendosi reciprocamente, un profondo sguardo di intesa, in cui Tutto era
Compreso.
(Finito di scrivere alle 3 del mattino del giorno di Natale 2010)
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