Sei sulla pagina 1di 13

Canova

Il più importante esponente del neoclassicismo è stato Antonio Canova (Possagno, 1757 -
Venezia, 1822), che può anche essere considerato il maggior scultore del suo tempo. Fu un
artista neoclassico piuttosto singolare: al contrario di molti neoclassici francesi, come
Jacques-Louis David, Canova non fu politicamente impegnato ma, al contrario, riteneva che l’arte
dovesse rimanere indipendente dalle pressioni esterne. Ciò nondimeno, Antonio Canova non si
sottrasse alla realizzazione di numerosi ritratti e incarichi per i suoi potenti committenti, nei
confronti dei quali tuttavia non nutriva pregiudizi anche se la sua visione politica era
diametralmente opposta rispetto a quella del suo cliente. Canova è uno dei più originali
interpreti del neoclassicismo teorizzato da Johann Joachim Winckelmann: nello scultore veneto,
l’ideale di “nobile semplicità e quieta grandezza” del teorico tedesco viene trasmesso con opere
lontane dall’algida freddezza dei neoclassici nordici, come Bertel Thorvaldsen, e che sono invece
animate da un sentimento e da un’energia interiore che vengono controllati con l’intelletto e la
razionalità.

Canova è noto anche per meriti che vanno oltre l’arte “prodotta”: dopo la caduta di Napoleone
nel 1815 fu infatti incaricato dallo Stato Pontificio di ricondurre a Roma e nei territori sottoposti
al dominio papale le opere che erano state saccheggiate durante l’occupazione francese. Una
missione diplomatica molto delicata che riuscì, con Canova che riuscì a ricondurre a Roma gran
parte delle opere che avevano preso la via della Francia.
Artista moderato, di carattere schivo, molto religioso, Canova fu visto da molti già al suo tempo
come l’artista che aveva fatto risorgere l’antico in scultura e fu considerato degno d'essere
paragonato ai grandi scultori della Grecia antica: il bello ideale della scultura antica era così
tornato a manifestarsi nelle opere del grande artista veneto.

Le sue opere sono ancor oggi tra le più apprezzate dal grande pubblico per via del loro
equilibrio, della loro levigatezza (una delle caratteristiche principali dello stile di Canova), della
loro bellezza atemporale. Canova durante la sua carriera si cimenta con diversi temi: soggetti
mitologici (sono probabilmente le sue sculture più famose, dall’Amore e Psiche giacenti alle Tre
Grazie), soggetti religiosi, ritratti. L’artista fu anche pittore, e sono numerosi i suoi dipinti che
oggi si conservano. Si può inoltre considerare per certi versi il primo artista “contemporaneo”
per ciò che attiene al metodo di lavoro: sviluppò infatti una tecnica che, attraverso i gessi, oggi
raccolti in diversi musei (spiccano in particolare la Gipsoteca Canoviana di Possagno, i Musei
Civici di Bassano del Grappa e la Gipsoteca dell’Accademia di Belle Arti di Carrara), gli permise
di replicare numerose volte i suoi soggetti, per soddisfare le esigenze e il gusto di una clientela
sempre più ampia e importante. Canova fu in definitiva uno degli artisti più abili, originali,
moderni e innovativi del suo tempo.

Biografia di Antonio Canova


Antonio Canova nasce a Possagno, nel territorio della Repubblica di Venezia, il 1° novembre 1757
da Pietro, definito dalle fonti come “lavoratore in pietra e architetto” (proviene infatti da una
famiglia di scalpellini) e Angela Zardo. Il piccolo Antonio perde il padre a soli quattro anni, nel
1761, e viene affidato alle cure del nonno Pasino Canova, scultore, presso cui Antonio compirà
anche il suo primissimo apprendistato. Nel 1766 diventa allievo di Giuseppe Bernardi Torretti e
due anni più tardi si trasferisce a Venezia assieme al suo maestro. Nel 1773, in seguito alla
morte di Bernardi Ferretti, Antonio diventa studente di Giovanni Ferrari. Nei mesi successivi
esegue i Canestri di frutta conservati al Museo Correr di Venezia che dovrebbero essere le sue
prime opere autonome. Nel 1776 finisce di lavorare alle due statue di Orfeo ed Euridice che gli
erano state commissionate dal senatore veneziano Giovanni Falier mentre nel 1777, a soli
vent’anni, apre la sua bottega diventando così artista indipendente.

Nel 1779 viene eletto membro dell’Accademia veneziana e nello stesso anno esegue Dedalo e
Icaro. Nel mese di novembre inizia un soggiorno a Roma che durerà fino al giugno dell’anno
seguente. L’anno successivo, durante il suo soggiorno romano, compie una breve visita a Napoli e
sul finire dell’anno torna di nuovo a Roma ed entra in contatto con l’ambasciatore veneziano
Girolamo Zulian. Nel 1781 conosce Antoine Chrysostome Quatremère de Quincy ed segue il Teseo
per Zulian. Nel 1783, ormai artista già affermato nonostante la giovane età, ottiene la
commissione per il monumento funebre di Clemente XIV che sarà terminato nel 1787. Dopo
averlo terminato, torna per qualche tempo a Napoli dove conosce l’inglese John Campbell che gli
commissiona il suo più celebre capolavoro, Amore e Psiche giacenti: l’opera oggi al Louvre verrà
terminata nel 1793. Nello stesso anno inizia a lavorare al monumento funebre di Clemente XIII
che sarà inaugurato nel 1792, anno in cui l’artista compie un viaggio tra il Veneto e l’Emilia. Nel
1794 esegue la sua famosa opera Venere e Adone e l’anno dopo il principe Onorato Gaetani gli
commissiona l’Ercole e Lica.

Nel 1798, in seguito all’occupazione di Roma da parte di Louis Alexandre Berthier e


all’instaurazione della Repubblica giacobina, i francesi gli chiedono di giurare odio ai precedenti
sovrani. Si dice che Antonio si sia rifiutato, pronunciando la frase in dialetto veneto “mi no odio
nissun”: l’artista così lascia la città e fa ritorno nella terra natale. A Possagno lavora per la
Parrocchiale e riceve da parte del duca Alberto di Sassonia l’incarico di realizzare il mausoleo
per Maria Cristina d’Austria da destinarsi alla chiesa degli Agostiniani di Vienna. L’opera sarà
terminata nel 1805.

Canova torna a Roma nel 1799 e nel 1800 divenne membro dell’Accademia di San Luca. Nel 1801
compie un viaggio a Parigi dove ottiene alcuni incarichi direttamente da Napoleone Bonaparte:
in particolare viene incaricato di realizzare diversi ritratti, incluso il busto-ritratto di Napoleone.
Torna a Roma sul finire dell’anno. Nel 1802 il nuovo papa Pio VII lo nominò Ispettore Generale
delle Belle Arti per lo Stato Pontificio, mentre nel 1804 ottenne un altra nomina dal pontefice,
diventando Direttore perpetuo dell’Accademia del Nudo. Nel 1805 compie un viaggio a Vienna
per l’inaugurazione del monumento a Maria Cristina d’Austria, e probabilmente sempre
quest’anno finisce la statua di Paolina Borghese Bonaparte come Venere Vincitrice. Nel 1807
conosce Leopoldo Cicognara del quale diventa buon amico, e nel 1809 si trasferisce per qualche
tempo a Firenze dove realizza il monumento a Vittorio Alfieri nella basilica di Santa Croce. Nel
1810 è di nuovo invitato a Parigi per diventare scultore di corte, ma Antonio rifiuta. Si reca
tuttavia in Francia per eseguire la statua dell’imperatrice Maria Luisa. Nello stesso anno diventa
presidente dell’Accademia di San Luca.

Il grande scultore finisce nel 1811 di lavorare a una delle sue opere più famose, la Venere italica,
e l’anno seguente inizia a scolpire il gruppo delle Tre Grazie che sarà terminato nel 1816. Nel
1815, in seguito alla caduta di Napoleone, lo Stato Pontificio lo incarica di recarsi a Parigi per
reclamare le opere d’arte sottratte durante gli anni delle occupazioni francesi. Seppur con
diverse difficoltà, l’artista riesce a recuperare molte opere. Nello stesso anno compie una breve
visita a Londra. Nel 1816 rientra a Roma e inizia a lavorare al monumento equestre a Carlo III di
Spagna che sarà terminato nel 1820 (lo si può ammirare in piazza del Plebiscito a Napoli). Nel
1818 è a Possagno dove inizia a lavorare al Tempio di Possagno, noto anche come Tempio
canoviano, che sarà inaugurato però solo nel 1830, dopo la sua scomparsa.

Rientra a Roma l’anno seguente e nel 1820 soggiorna per un’ultima volta a Napoli dove gli viene
commissionato il monumento equestre a Ferdinando I. Non riuscirà però a terminare l’opera. Nel
1822, dopo un soggiorno a Possagno, inizia il cammino per tornare a Roma ma scompare
durante il tragitto a Venezia, in data 13 ottobre. Le sue spoglie riposano nel Tempio di Possagno,
mentre il suo cuore si trova nel Monumento funebre ad Antonio Canova conservato nella Basilica
dei Frari di Venezia.

I capolavori e lo stile di Antonio Canova


Dopo l’esordio giovanile a Venezia, periodo durante il quale Canova, grande ammiratore di Gian
Lorenzo Bernini, aveva prodotto opere ancora venate di gusto tardo barocco (come Dedalo e
Icaro, opera del 1778-1779 conservata al Museo Correr di Venezia), il trasferimento a Roma
segnò per l’artista un deciso cambio di orientamento, e la prima opera Teseo e il Minotauro può
essere considerata il primo lavoro neoclassico dell’artista, con Teseo, l’eroe greco che sconfigge
il mostruoso essere metà uomo e metà toro, che non viene rappresentato nel momento dello
scontro, ma alla fine, mentre medita sull’avversario sconfitto a simboleggiare la vittoria
dell’intelligenza sulla forza bruta. È opera compiutamente neoclassica perché Teseo è
rappresentato non soltanto come eroe bello e dalle proporzioni armoniose e ideali, ma anche
come uomo che non si lascia prendere dalle pulsioni. Lo stesso Minotauro, peraltro, viene
rappresentato da Canova con un corpo ben equilibrato, che non disturba l’osservatore. Si tratta
dunque della prima opera dalla quale filtra la lezione della statuaria classica che era divenuta il
principale punto di riferimento dell’artista.

Il Teseo e il Minotauro garantì un grande successo al giovane Canova, tanto che è di poco
successivo l’incarico per il monumento funebre di Clemente XIV, la prima delle opere del genere
funerario che garantirono grande fortuna all’artista veneto: conservata nella basilica dei Santi
Apostoli di Roma, l’opera, seppur ancora debitrice nei confronti della statuaria berniniana (lo
schema compositivo è infatti quello dei monumenti funebri di Gian Lorenzo Bernini) se ne
discosta per la maggiore compostezza e per l’ormai totale assenza del dinamismo della scultura
barocca. Il genere sarebbe stato poi ulteriormente rinnovato in seguito, per esempio con il
Monumento funerario di Maria Cristina d’Austria, dove Canova riflette sul cammino dell’umanità
verso la morte, simboleggiato dall’incedere dei personaggi verso la tomba, con l’originale utilizzo
di una piramide dove viene collocato il sepolcro verso il quale si recano le figure, disposte
secondo una rigorosa scansione.

Risale al 1787 (anche se l’opera verrà terminata nel 1793) l’ideazione del più famoso capolavoro
di Canova, Amore e Psiche giacenti, rilettura del mito narrato da Apuleio e particolarmente in
auge nell’arte del Settecento: l’artista raffigura il momento in cui Amore, l’amante di Psiche,
risveglia con un bacio la giovane ninfa, caduta in un sonno profondo per effetto di un castigo
comminate da Venere (i due personaggi sono rappresentati nel momento in cui le loro labbra si
sfiorano). È una delle sculture più ammirate della storia dell’arte per l’originalità della
composizione, per l’intensità del momento che comunque viene controllata in modo sobrio, per
gli effetti luminosi, per la morbidezza con cui Canova scolpisce il marmo.

Canova non è però artista che rappresenta solo amori languidi e corpi morbidi. Nel Creugante e
nel Damosseno, statue di due pugili antichi, l’artista offre infatti all’osservatore un’idea della
forza, della potenza e della virilità di questi due personaggi che vengono rappresentati da
Canova nel momento culminante del loro combattimento, pur comunque sempre controllato.
Una delle poche opere in cui l’artista trascende il suo intento di controllare pienamente le
passioni è l’Ercole e Lica: qui, il semidio si appresta a scagliare con forza bruta il giovane Lica,
responsabile di avergli portato, per ordine di Deianira (moglie gelosa di Ercole), una veste
bagnata nel sangue del centauro Nesso, che dava a chi la indossava fortissimi dolori.
Ercole, per vendicarsi, si accanisce dunque su Lica: è una delle rarissime opere dove il
sentimento prevale sulla ragione, ma nonostante questo la composizione è attentamente
bilanciata, con i corpi dei due personaggi che descrivono due archi perfetti, contrapposti. Opere
come queste attirarono critiche ad Antonio Canova specialmente da parte dei neoclassici
dell’Europa del nord, che non ammettevano opere così lontane dagli ideali di “nobile semplicità e
quieta grandezza”. Canova eccelse poi nel genere del ritratto, restituendo immagini idealizzate
dei soggetti che posavano per lui.

Il più noto dei ritratti di Canova è quello di Napoleone Bonaparte, prodotto in numerose repliche,
mentre un caso a sé stante è quello della Paolina Borghese come venere vincitrice, oggi
conservata alla Galleria Borghese. L’incarico nacque nel 1802, quando l’artista venne incaricato
di eseguire il ritratto di Napoleone e alcuni ritratti idealizzati dei membri della famiglia, inclusa
Paolina Bonaparte, sorella di Napoleone e moglie di Camillo Borghese. Paolina viene
rappresentata da Canova nuda e sdraiata su una chaise-longue: è un’opera che rimanda alla
tradizione veneta delle Veneri sdraiate, aggiornata sul repertorio della statuaria classica
(Canova probabilmente guardava addirittura alle urne etrusche), dove la bellezza del soggetto
viene celebrata attraverso una rappresentazione idealizzata come dea dell’amore. L’artista
raggiunge qui uno straordinario equilibrio tra naturalezza e bello ideale, oltre che tra azione e
controllo, producendo uno dei capolavori più emozionanti della storia dell’arte. La stessa
emozione è quella che anima il capolavoro della maturità di Canova, le Tre Grazie,
commissionate da un facoltoso cliente inglese, John Russell, sesto duca di Bedford, che aveva
visitato nel 1814 lo studio romano di Canova ed era rimasto impressionato.

L’opera, eseguita da un singolo blocco di marmo di Carrara e anticipata in certo modo dalla
Venere italica (la meravigliosa scultura realizzata come compensazione dopo il trasferimento in
Francia della Venere dei Medici durante le spoliazioni napoleoniche: è una scultura in cui Canova
rivisita l’iconografia classica della Venus pudica), rappresenta la danza delle Grazie che vengono
rappresentate da Antonio Canova come tre donne nude che si abbracciano languide e si sfiorano
in un’azione che è stata vista da molti come caricata di un evidente erotismo (caratteristica che
i critici più intransigenti non ammettono). L’eleganza della scultura, la finezza della lavorazione
del marmo, la delicata bellezza delle tre donne hanno reso questa scultura una delle più
apprezzate della produzione canoviana.

La tecnica e il laboratorio di Canova


“Il Canova”, ebbe a scrivere Francesco Hayez nelle sue memorie, “faceva in creta il suo modello;
poi gettato in gesso, affida il blocco a’ suoi giovani studenti perché lo spezzassero e allora
cominciava l’opera del gran maestro. [...] Essi portavano le opere del maestro a tal grado di
finitezza che sì sarebbero dette terminate: ma dovevano lasciarvi ancora una piccola grossezza
di marmo, la quale era poi lavorata da Canova più o meno secondo quello che questo illustre
artista credeva dover fare. Lo studio si componeva di molti locali, tutti pieni di modelli e di
statue, e qui era permessa a tutti l’entrata. Il Canova aveva una camera appartata, chiusa ai
visitatori, nella quale non entravano che coloro che avessero ottenuto uno speciale permesso.
Egli indossava una specie di veste da camera, portava sulla testa un berretto di carta: teneva
sempre in mano il martello e lo scalpello anche quando riceveva le visite; parlava lavorando, e di
tratto interrompeva il lavoro, rivolgendosi alle persone con cui discorreva”.

Antonio Canova è noto per la tecnica attraverso la quale era in grado di produrre numerose
repliche dei suoi capolavori. La prima fase era la realizzazione del modello in gesso, lo strumento
che gli consentiva di riprodurre le opere in più esemplari, ma ancor prima del gesso c’era il
disegno (Canova è noto anche per essere stato un prolifico disegnatore), dal quale veniva poi
realizzato un bozzetto in terracotta, che veniva poi tradotto in gesso. Nei gessi venivano fissati
dei piccoli chiodi, detti “repere”, che servivano ai collaboratori di Canova per prendere le misure
e le proporzioni, attraverso l’utilizzo di un pantografo (tali misure venivano poi riportate sul
marmo). È per questo motivo che molti gessi canoviani appaiono colmi di fori: erano quelli in cui
Canova inseriva le repère al fine di trasferire sul marmo le misure e riprodurre le opere in più
esemplari. Si trattava di un lavoro che veniva svolto dai collaboratori dell’atelier: Canova, come
gli artisti odierni, forniva disegni e modelli e, terminata la fase esecutiva, terminava l’opera
levigando o definendola con i dettagli.
Amore e Psiche.
Una vena di sentimentale delicatezza connota il capolavoro di Antonio Canova (Possagno, 1757 –
Venezia, 1822) fin dal titolo con cui il Louvre ha deciso di presentarlo al suo pubblico: Psyché
ranimée par le baiser de l’Amour, ovvero “Psiche risvegliata dal bacio di Amore”. Non “Amore e
Psiche giacenti”, come l’opera è nota in Italia, oppure “Amore e Psiche che si abbracciano”,
denominazione con cui Canova, in una lettera del 12 dicembre 1801 ad Antoine Chrysostome
Quatremère de Quincy, si era riferito al gruppo scultoreo.

Più che alle pulsioni sensuali, che comunque in Canova non sono sopite, il titolo in francese
preferisce dar rilievo alla dolcezza del gesto, e contemporaneamente intende connotare con
precisione il momento della favola al quale stiamo assistendo, benché l’interpretazione dello
scultore veneto sia leggermente diversa rispetto al testo letterario a cui si rifà. Val dunque la
pena raccontare la bella storia di Amore e Psiche che il poeta Apuleio narra nella sua celebre
opera, L’asino d’oro, unico romanzo dell’antichità romana che conosciamo per intero: la favola è
una lunga digressione che il lettore incontra durante lo svolgimento della trama.

Psiche è una bellissima ragazza, la cui avvenenza suscita la curiosità e, allo stesso tempo, la
gelosia di Venere: i tanti uomini innamorati di Psiche, infatti, hanno preso a paragonare la
giovane alla dea della bellezza. Quest’ultima, per punirla, decide di inviare contro di lei suo figlio,
Amore: le frecce del dio hanno infatti il potere di far innamorare le persone, e l’idea è quella di
far innamorare Psiche dell’uomo più brutto sulla faccia della terra. Amore sbaglia però a
scoccare la freccia, e finisce col colpirsi da solo: è dunque lui a innamorarsi perdutamente di
Psiche. Ma il giovane dio non può mettere la madre a conoscenza della situazione: la reazione di
Venere avrebbe infatti risvolti molto pericolosi. Così, Amore fa in modo che Psiche giunga al suo
palazzo: il dio, celandosi di continuo per non rivelare la propria identità, riesce a conquistarla, e i
due passano insieme accesi incontri di passione, che nessuna donna mortale aveva mai
sperimentato. Tuttavia una notte Psiche, su consiglio delle sorelle invidiose, decide di spiare
l’amante mentre dorme, per conoscerne l’identità. Non fa però i conti con la sua lampada a olio:
una goccia scivola dalla lampada e termina sulla pelle di Amore, che si risveglia e, deluso e
adirato, abbandona la ragazza.

Psiche è affranta per il dolore, tenta invano di suicidarsi, non riesce a trovare pace, comincia a
vagare per la terra alla ricerca di Amore: la soluzione, pensa la ragazza, è rivolgersi a Venere, pur
sapendo che la scelta potrà costarle molto cara. Venere, infatti, sottopone Psiche ad alcune
durissime prove: l’ultima di queste consiste nel recarsi agli inferi per chiedere alla dea
Proserpina un’ampolla contenente un po’ della sua bellezza. Psiche supera tutte le prove, si reca
nell’oltretomba, riesce a ottenere il vasetto, ma la sua curiosità la porta ad aprirlo: si rivela una
trappola di Venere, perché il contenuto del vaso è un’aria soporifera che la getta in un
profondissimo sonno. Amore, che nel frattempo ha cominciato ad avvertire la mancanza di
Psiche ed è arrivato a ritenere insopportabile la sua assenza, corre in soccorso dell’amata e,
pungolando con una freccia, la risveglia, rimproverando perché già per la seconda volta la sua
curiosità ha rischiato di esserle fatale. Amore vola quindi da Giove per chiedergli aiuto: il padre
degli dèi acconsente all’unione dei due, e il racconto termina con il matrimonio, che permette a
Psiche di diventare una dea.

Il momento della favola descritto da Canova è quello del risveglio di Psiche dopo il sonno
infernale: ad aiutarmi nell'identificazione del preciso istante è il vasetto che la ragazza ha
riportato con sé dagli inferi, e che notiamo dietro la sua schiena. Tuttavia, come anticipato, in
quest’opera canoviana Amore non risveglia Psiche “innoxio punctulo sagittae suae” (ovvero “con
un’innocua puntura della sua freccia”), bensì con un languido bacio. A ricordare le motivazioni
che spinsero Canova a dare una propria interpretazione della favola raccontata da Apuleio è
Leopoldo Cicognara (Ferrara, 1767 – Venezia, 1834), storico dell’arte amico dello scultore
veneto, che nella sua Storia della scultura, pubblicata tra il 1813 e il 1818, scrive che il modo
“non così semplice e innocente” con cui Canova trattò il soggetto “non ebbe altra origine che da
un’osservazione fatta all’artefice da milord Bristol, cui parve freddo il Teseo sedente; onde egli si
propose di fare un lavoro di carattere assai caldo e appassionato". Il personaggio citato da
Cicognara, Frederick Augustus Hervey, quarto conte di Bristol, era stato cliente di Canova, e
secondo la ricostruzione di cui sopra ebbe il merito di aver stimolato nell’artista la volontà di
trattare con maggior passione i suoi soggetti: ecco dunque spiegato il perché di quel caldo bacio
che Amore dona a Psiche per risvegliarla dal proprio sonno.

Ci sarebbe un preciso precedente iconografico a cui Canova si sarebbe ispirato per realizzare il
gruppo. In particolare, il critico Karl Ludwig Fernow (che fu sempre particolarmente duro nei
confronti dell’artista veneto) aveva notato come Canova avesse tratto ispirazione da un dipinto
con Fauno e Baccante proveniente da Ercolano (che a sua volta aveva ispirato un’incisione di
Filippo Morghen che costituirebbe un altro precedente importante): è del resto noto che Canova,
in occasione del suo soggiorno napoletano del 1780 (soggiorno poi ripetuto nel 1787, lo stesso
anno in cui ricevette l’incarico per Amore e Psiche giacenti), ebbe modo di visitare le rovine di
Ercolano, oltre a quelle di Pompei e Paestum, ma è parimenti probabile che fosse stato proprio
Morghen il suo “tramite” un dipinto antico. L’ispirazione potrebbe però essere giunta anche da
altre fonti: per esempio un dipinto di Jacopo Amigoni, artista veneto come Canova, che raffigura
Flora e Zefiro in un atteggiamento che vagamente può richiamare quello assunto da Amore e
Psiche nel gruppo dello scultore di Possagno. O ancora, una possibile fonte, individuata da Gian
Lorenzo Mellini, potrebbe essere una porcellana della manifattura di Ludwigsburg, modellata da
Christian Wilhelm Beyer e riprodotta in diversi esemplari, che raffigura una ninfa con un fauno
che si abbracciano.

Certo è che lo studio del gruppo fu particolarmente laborioso, come attestano i disegni e i
bozzetti in terracotta che si sono conservati: prove che, peraltro, ci aiutano anche
nell’operazione di discernimento delle fonti iconografiche. C’è in particolare un foglio,
conservato al Museo Civico di Bassano del Grappa, dove, nell’angolo in alto a destra, compare
uno schizzo con due figure giacenti che paiono ricalcare l’incisione di Morghen tratta dal libro Le
pitture antiche d’Ercolano: il braccio sollevato della donna, motivo che ritorna in tutti gli studî
per Amore e Psiche giacenti, è quello che poi ritroveremo anche nella scultura finita. C’è poi un
bozzetto in terracotta, conservato al Museo Correr di Venezia, che rappresenta un momento
successivo dell’elaborazione del gruppo, benché risulti ancora evidente la dipendenza dal
modello antico: è comunque chiaro come Canova abbia già in mente che la scena dovrà avere
una certa connotazione erotica, quale quella che traspare da questo bozzetto, che sembra
rappresentare più l’inizio d’un amplesso che un bacio tra due personaggi mitologici. L’idea
sembra essere ormai quasi del tutto fissata in un ulteriore disegno, sempre conservato a
Bassano, in cui si delinea una posa quasi del tutto identica a quella del gruppo finito: Psiche è
sdraiata, con la schiena leggermente alzata, e tende le braccia verso il collo di Amore. Il suo
amante sopraggiunge da dietro, con le ali spiegate, una gamba piegata a poggiare sul ginocchio
e l’altra distesa, mentre si protende verso l’amata per darle un bacio.

Il processo creativo era già terminato nel 1788, anno in cui Canova aveva preparato due gessi da
cui avrebbe ricavato l’opera finita in marmo di Carrara. Il committente era un nobile inglese,
John Campbell (diventato, nel 1796, primo barone di Cawdor), che però non sarebbe mai entrato
in possesso del marmo: Canova terminò l’opera nel 1793, e all’epoca Campbell, per ragioni non
ancora del tutto chiarite, non poté finire di pagarla. Il gruppo rimase dunque nello studio dello
scultore fino al 1798, quando un certo “Enrico Hoppe olandese” (Hugh Honour, grande studioso
di Canova, lo identifica con Henry Philip Hope, membro di una famiglia di banchieri
anglo-olandesi) offrì per l’opera la cifra di duemila zecchini: la stessa con cui a brevissima
distanza, ovvero nel 1800, la scultura fu ceduta a Gioacchino Murat, che la installò nella sua
residenza, il castello di Villiers-la-Garenne, dove anche Napoleone ebbe modo di ammirarla.
L’opera fu quindi spostata al Palazzo di Compiègne e, dopo che Murat divenne re di Napoli, fu
infine trasferita al Louvre, dove la si può tuttora osservare.

L’opera destò ammirazione da parte di molti, anche in virtù della composizione che, pur gettando
le proprie solide basi su esempî più antichi, giungeva a una propria peculiare originalità (anche
perché mai nel marmo s’era vista una composizione così speciale), frutto di una fantasia
inventiva che in Canova fu sempre molto fervida. Anche il già citato Cicognara notava la novità
dell’atteggiamento, e di certo la scultura di Canova è anche un mirabile esempio di sapienza
compositiva, con i corpi che s’incrociano su due morbide diagonali che donano equilibrio al tutto
e s’intersecano in uno dei punti più ammirati della scultura, ovvero il braccio di Amore che copre
il seno di Psiche. E ancora, impossibile non lodare le braccia della giovane, sollevate a formare
un cerchio che incornicia il volto di Amore, o il cerchio che a sua volta Amore crea cingono il
corpo dell’amata, e che va a intrecciarsi con quello creato dalle braccia di lei: una complessità
tale da offrire molteplici punti di vista all’osservatore, e che consentono a Canova di
oltrepassare, come ebbe a scrivere un insigne storico dell’arte come Giuliano Briganti, “quella
fissità iconica”, “quella rigidità statutaria chiusa nelle due visioni, frontale e di profilo” e "quello
assoluto tipologico cui tendeva Thorvaldsen”.
Basti solo pensare che, al fine di individuare il vaso di Psiche e le frecce di Amore, è necessario
girare attorno alla statua e vederla da dietro: altrimenti è impossibile scorgere i due elementi.
Uno scultore allievo di Canova, Antonio D’Este, nelle sue Memorie così ricordava il gruppo:
“Amore poi la punta del piede destro sull’orlo estremo appoggiando, e reggendosi sul sinistro
ginocchio che riposa verso l’estremità del sasso, cinge con i suoi amplessi la tenera amica, e col
braccio sinistro ne preme il non ancora maturo petto, diviso in guisa che con quello posa in
passando sulla parte inferiore della sinistra mammella di lei, e ne raccoglie, e ne sostiene
leggermente con la mano la destra. In simile atto china egli alquanto la fronte, e con un mezzo
sorriso dell'inferiore labbro, che sporge parte in fuori, sembra vicino a deporre un bacio
sull’amato sembiante, mentre egli colla destra mano sostiene il capo di Psiche, da cui sparsi ed
erranti gli scomposti crini discendono”.

Tuttavia, Antonio D’Este non poteva far a meno di notare che “l’autore rese questo gruppo
onesto” (laddove per “onesto” dobbiamo intendere “casto”), “perché l’abbracciamento di Amore
colla sua amata donzella è sì innocente e casto, che non lascia formare pensiero men che
onesto”. In realtà s’è visto come già Cicognara ritenesse non così “innocente” il modo in cui
Canova raffigurò i due personaggi, e si è visto anche come alcuni spunti gli fossero giunti da
antiche scene d’erotismo. Proprio su questa sensualità che traspare dall’opera (così come da
altre realizzazioni canoviane) s’è voluta soffermare la critica più recente. L’abbraccio tra Amore e
Psiche sottende un erotismo sì raffinato e accennato, che comunica più un’idea di tenero
sentimento che di desiderio impulsivo, e che viene mitigato anche dai tratti adolescenziali dei
due protagonisti, ma rimanda comunque a una dimensione sensuale attraverso cui, con eleganza,
s’esprime tutto l’amore tra il dio e la sua amata. È quella “sensualità raffinata e senza foga” di
cui parlava Mario Praz in un suo saggio e che rappresenta uno dei tratti caratteristici della
scultura di Canova: un erotismo che, pur se controllato, differenzia lo scultore veneto da tanti
suoi colleghi (come Bertel Thorvaldsen) che cercavano di reprimere totalmente ogni moto
sensuale.
Innumerevole lo stuolo di ammiratori che la scultura ebbe fin dal momento in cui fu terminata.
Uno dei tanti, il principe Nikolaj Jusupov, fu catturato dall’opera al punto da ordinarne a Canova
una replica: è quella che oggi si può osservare all’Ermitage di San Pietroburgo. Ma tanti furono
gli artisti, i letterati e i poeti che tessevano le lodi di Amore e Psiche giacenti, o composero
liriche che alla scultura si ispirano, o che intendevano celebrare. Valga su tutti quello che è
forse l’esempio più appassionato di ammirazione per l’opera di Canova, ovvero quello di Gustave
Flaubert. Il celebre scrittore si trovava a Villa Carlotta a Tremezzo: il proprietario, il nobile e
collezionista d’arte Giovanni Battista Sommariva, aveva chiesto a uno dei migliori seguaci di
Canova, Adamo Tadolini, una copia del gruppo canoviano, e una volta ricevuta la sistemò nella
propria dimora.

Potrebbero piacerti anche