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I CLASSICI DELLA SOCIOLOGIA


Collana diretta da Alessandro Ferrara

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Georg Simmel

Saggi sul paesaggio


a cura di
Monica Sassatelli

ARMANDO
EDITORE

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Indice

Presentazione 0
L’esperienza del paesaggio
(Monica Sassatelli)

Suggi sul paesaggio 00


(Georg Simmel)

Filosofia del paesaggio 00


Le rovine 00
Le Alpi 00
I paesaggi di Böckiln 00

Nota bio-bibliografica 00

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Presentazione

L’esperienza del paesaggio

Mi trovavo sulla riva di un laghetto congelato e


assistevo agli esercizi di un pattinatore. Aveva co-
minciato già da un certo tempo e, con una abne-
gazione come viene messa in pochi sforzi della vi-
ta per amore di obiettivi ideali, si sforzava in mu-
tevoli giravolte e serpentine, circonvoluzioni e cur-
ve all’indietro. Ma non gli riuscivano ancora né fa-
cili né sicure.
Le ginocchia si piegavano e si irrigidivano in
una ingloriosa inclinazione, le braccia si aggrappa-
vano all’aria tutto intorno come a un immaginario
contrappeso […] dopo un certo tempo, tornando
indietro trovai la pista libera e vi scesi anch’io. Vi-
di che le tracce incise da quel pattinatore sul
ghiaccio erano le più incantevoli e aggraziate for-
me, di uno slancio e di una libertà come quella
© ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.

delle linee che traccia un uccello nell’aria. A quel


punto sopraggiunse in me come una felicità per il
fatto che qualcosa del genere fosse possibile: che
noi pur con la goffaggine, l’inettitudine, l’oscilla-
zione del nostro movimento possiamo tuttavia rea-
lizzare con un’estrema propaggine acuminata una
linea la cui traccia sottile e leggera non sa nulla del
nostro aspetto d’insieme.
G. Simmel1

Tra i tanti modi con cui si cerca di cogliere la mo-


dernità vi è anche il descriverla come particolare tipo
di esperienza, o come enfasi sull’esperienza, declina-
ta in riferimento gli attributi più comunemente acco-

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Presentazione

stati al moderno: razionale (ma nel caso dell’espe-


rienza sarebbe meglio dire: intellettualizzata), diffe-
renziato (frammentata), individualizzato (interiore).
Questa visione, che si discosta dalle grandi sistema-
tizzazioni del canone più consolidato, o meglio lo ri-
propone da una prospettiva inusuale, deve molto al
più inusuale, fino a qualche tempo fa, dei fondatori
della sociologia: Georg Simmel.
Oggi Simmel non ha più bisogno di essere risco-
perto2; ma a maggior ragione la sua opera resta una
fonte tutt’altro che esaurita, un’opera da leggere di-
rettamente. In questa piccola raccolta vengono ri-
proposti alcuni saggi dedicati al tema dell’esperienza
del mondo esterno, nella sua forma più propria, e in-
sieme tipicamente umana e moderna: il paesaggio.
Pubblicate tutte attorno al 1911-13, ad eccezione di I
paesaggi di Böcklin (1895), queste riflessioni spazia-
no dal tentativo di definire il paesaggio (Filosofia del
paesaggio, 1913), all’analisi di alcune manifestazioni
specifiche, di visioni artistiche come il saggio sulle
opere del pittore svizzero, o naturali come Le Alpi
(1911), sino ad interrogarsi sul rapporto tra l’attività
creatrice dell’uomo e quella della natura, che nel
paesaggio assume forma visibile e cristallizzata nelle
rovine (Le rovine, 1911)3. Il tema dell’esperienza sot-
tende, in modo più o meno esplicito, tutti e quattro
i saggi, attraverso un trattamento originale di alcuni
temi che Simmel ha contribuito a rendere classici nel
discorso sul paesaggio, come il rapporto tra quello
reale e quello dipinto, e la relazione di questi con la
natura e la modernità. Questi saggi, normalmente
pubblicati in raccolte dedicate all’arte o alla cultura
filosofica e quindi di rado considerati tra le opere

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maggiori, sono tuttavia percorsi dalla stessa tensione


che percorre queste ultime, comprese quelle di ca-
rattere più specificamente sociologico. Ossia la ten-
sione – sempre in bilico tra conflitto e conciliazione
– tra vita e forma; tra totalità o unità ineffabile e pre-
sintetica, e sintesi culturale; tra soggettivazione del-
l’oggettività e oggettivazione della soggettività. Non
a caso, anche in Filosofia del denaro (1900; seconda
edizione accresciuta 1907) il paesaggio ritorna come
una delle analogie cui Simmel fa ricorso per illumi-
nare il particolare modo di stare al mondo dell’uo-
mo4 moderno. Che, per accennare al dibattito, in
gran parte sterile e superato, su Simmel filosofo o so-
ciologo, è chiaramente un problema sia filosofico
che sociologico. Perché se così posta, in termini ge-
nerali, la questione può apparire tipicamente filoso-
fica, essa rimanda anche alla dinamica tra forme so-
ciali e contenuti vitali, a quell’azione reciproca
(Weschselwirkung)5 tra mondo della soggettività e
dell’oggettività, dell’individuo e delle forme sociali
© ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.

nelle quali è solo parzialmente incluso, punto di in-


tersezione di numerosi cerchi mai perfettamente
concentrici, che costituisce il nucleo della sociologia
simmeliana.
A prima vista può apparire strano far parlare Sim-
mel di modernità attraverso il paesaggio. Egli stesso
uomo profondamente metropolitano, Simmel è rico-
nosciuto come l’autore che ha individuato mirabil-
mente la costellazione specifica della vita della gran-
de città e che, nel suo saggio forse più noto, La me-
tropoli e la vita dello spirito (1903) ha istituito una
corrispondenza biunivoca tra esperienza metropoli-
tana e modernità. Ma, appunto, Simmel, si inserisce

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Presentazione

nella tradizione che fa di quella per il paesaggio una


sensibilità tutta moderna: seguendo Jacob Burc-
khardt e la sua osservazione della scoperta moderna,
rinascimentale in particolare, della dimensione este-
tica del paesaggio6, Simmel sviluppa il tema, roman-
tico, del paesaggio come compensazione rispetto a
una natura da cui siamo ormai estraniati. Ma se la vi-
sione passiva della natura, e la relativa scissione dal-
la «cultura» sono tra i tratti giudicati tipici di una (cer-
ta) prospettiva occidentale7, Simmel mostra che que-
sta è una semplificazione, e che percezione del mon-
do esterno e azione su di esso sono insieme e con-
temporaneamente creatori e creature del paesaggio.
È semmai nelle specifiche modalità in cui questa
sensibilità si dispiega che la modernità (occidentale)
mostra se stessa. La natura vissuta come paesaggio,
come «un’immagine lontana, che persino nei mo-
menti di vicinanza fisica sta davanti a noi come qual-
cosa di intimamente irraggiungibile, come una pro-
messa mai completamente mantenuta»8 è frutto della
lacerazione che il vivere moderno porta con sé.

Il fatto che soltanto nell’epoca moderna si sia svi-


luppata la pittura paesaggistica – che, in quanto ar-
te, può sussistere soltanto se c’è distanza dall’ogget-
to e rottura dell’unità naturale con esso – e il fatto
che soltanto l’epoca moderna conosca il sentimento
romantico della natura, è conseguenza dell’esisten-
za astratta a cui ci ha condotto la vita urbana basa-
ta sull’economia monetaria9.

Lo stile di vita moderno impone variazioni nella


«distanza tra l’io e le cose»10 e, con questo, tutta una

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configurazione mentale che permette all’uomo di


adattarsi senza però «venir livellato e dissolto all’in-
terno di un meccanismo tecnico-sociale»11. La metro-
poli è sì, allora, il luogo dove questo nasce e si ma-
nifesta più chiaramente, ma l’esperienza del paesag-
gio è la promessa, per quanto necessariamente mai
mantenuta, di conciliazione e fine della frammenta-
zione. Che la promessa non possa essere mantenuta,
che il senso di totalità debba venire da ciò che è so-
lo un frammento, che questo sentimento profondo
della natura sia già la risposta nostalgica e romantica
alla sua perdita, tutto questo non è che un’ulteriore
conferma del carattere tragico delle forme culturali,
uno dei temi di fondo dell’intera opera simmeliana.
Al di là di qualsiasi nostalgia, assente in Simmel,
la riflessione sul paesaggio va quindi inserita nel-
l’ambito della lucida analisi del rapporto moderno
individuo-società, tema sociologico fondativo e che
in Simmel, come dimostrano anche i saggi qui pro-
posti, viene affrontato in modo ricorrente e da una
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varietà di prospettive. Nelle osservazioni sul paesag-


gio tale analisi è chiamata in causa perché l’espe-
rienza del paesaggio presuppone, oltre alla lacera-
zione della comunione con la natura, un carattere
fondamentale della modernità sociologica, ossia l’in-
dividualizzazione. Fuoriuscito dai legami premoder-
ni che lo avviluppavano, l’uomo moderno è una par-
te che vuole essere un tutto, proprio mentre allo
stesso tempo la differenziazione e il relativo sovrap-
porsi delle cerchie sociali cui appartiene lo rendono
più che mai parte, frammento, di una realtà rispetto
a lui emergente. Così anche il paesaggio, che deve il
suo fascino alla nostra capacità di percepire in que-

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Presentazione

sto frammento un’immagine del tutto naturale, capa-


cità che si genera, per affinità elettiva potremmo di-
re, con la frammentazione moderna. Con una pro-
fonda differenza però, dalla quale il paesaggio trae il
suo senso: ciò che nella vita appare indifferente o
antitetico (come l’anonimato delle distese naturali e
l’inconciliabilità delle aspirazioni concorrenti delle
parti e del tutto), ci appare sotto forma di concilia-
zione nel paesaggio. Guardare all’esperienza moder-
na a partire dal paesaggio non è però una questione
di opposti, di definizione per opposizione e da una
posizione di marginalità. Come spesso in Simmel,
non siamo in presenza di una distinzione
interno/esterno, ma un ben più complesso gioco di
vicino/lontano. Seguire lo sguardo che Simmel fa
scorrere sul paesaggio fa emergere un’esperienza li-
mite, certo, ma proprio per questo tanto più centra-
le in un’epoca che fa del limite, del mutamento, del
superamento, la propria essenza e rappresentazione.
Non a caso parlando di paesaggio entrano nell’oriz-
zonte quelle figure liminali per cui Simmel è famoso,
come l’avventuriero e, soprattutto, lo straniero.
Proprio il celeberrimo Excursus sullo straniero
meglio di qualsiasi altro mostra la capacità di Simmel
di situare in ciò che è marginale e frammentario il
nucleo più profondo, per quanto a volte posto in
superficie, delle cose. La lontananza che lo straniero
porta vicino è quella stessa che presuppone il pae-
saggio. Va forse ricordato che l’excursus citato, as-
sieme ad altri due – sul concetto di limite e sulla so-
ciologia dei sensi – è incluso nel fondamentale capi-
tolo della Sociologia (1908) dedicato allo spazio.
Simmel è considerato tra i pionieri della sociologia

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dello spazio, ossia dello studio dello spazio sociale


come dimensione fondamentale dell’interazione e
delle forme culturali12. Ma lo studioso berlinese fa
dello spazio ancora uno dei temi nel quale dispiega-
re la propria poliedrica capacità di minuziosa anali-
si: lo studio delle relazioni spaziali non è quindi so-
lo materia della sua opera maggiore di sociologia,
ma si ritrova anche, in una varietà di approcci, in
saggi come Ponte e porta (1909), Estetica sociologica
(1896), nello stesso Le metropoli e la vita dello spiri-
to13, e chiaramente, nei saggi qui presentati sul pae-
saggio. Le categorie dello spazio sono per Simmel un
ulteriore strumento per trattare, per via analogica, at-
traverso l’immagine del lontano e del vicino, conte-
nuti che vanno ben al di là di quelli spaziali, poiché,
per dirlo con le sue stesse parole: «Noi dobbiamo re-
legare innumerevoli volte nell’immagine spaziale del
vicino e del lontano la relazione di contenuti spiri-
tuali, la cui essenza interiore è del tutto estranea al-
la esteriore misurabilità di questo simbolo»14.
© ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.

L’analisi del paesaggio per Simmel è allora un


modo per cercare di avvicinarsi a tali contenuti. Il
paesaggio nasce con il limite, laddove «Il limite non
è un fatto spaziale con effetti sociologici, ma un fat-
to sociologico che si forma spazialmente»15. La sua ri-
levanza, come le altre entità spaziali sottoposte allo
sguardo del nostro, va ben al di là di «effetti sociolo-
gici». Il paesaggio è molto di più di una metafora
evocativa per parlare della società – il paesaggio so-
ciale – come suggerisce anche il rinnovato fascino
per questo tema che è oggi, come quasi un secolo fa
quando scriveva Simmel, al centro di una vasta ri-
flessione, non più solo teorica ma spesso mirata al-

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Presentazione

l’intervento. Dal paesaggio si irradia una luce soffu-


sa che illumina – come dall’interno, per riprendere il
giudizio di Kracauer sul maestro16 – molti dei temi
cari a Simmel17.

Dalla natura al paesaggio

È bene partire da dove parte Simmel: il paesaggio


non è qualcosa di già dato nell’immediatezza del
mondo naturale. Un «frammento di natura», un bosco
o un ruscello, un monte o una spiaggia, non sono
ancora «paesaggio». Semplicemente, un paesaggio
non è natura. Perché la natura non è data di fram-
menti, ma della «infinita connessione delle cose, l’i-
ninterrotta nascita e distruzione delle forme, l’unità
fluttuante dell’accadere, che si esprime nella conti-
nuità dell’esistenza temporale e spaziale»18. Solo l’at-
tività spirituale umana, dell’essere che separa e che
collega, e che valuta, poteva fare della natura pae-
saggio. Ma non si pensi di attribuire a Simmel una
vulgata costruttivista che dicotomizza, tanto quanto
approcci «ingenuamente» realisti, natura e cultura,
oggettivo e soggettivo. Perché se non è Natura, il
paesaggio è nondimeno naturale. Tra queste due af-
fermazioni si dispiega la raffinata analisi simmeliana
del paesaggio e, tramite essa, del complesso rappor-
to, assai poco descrivibile in termini dicotomici, tra
gli esseri umani e il mondo che li circonda, esterno
e per questo raggiungibile, ma fino a un certo pun-
to19.
Seguendo Simmel nel suo percorso di scoperta
del paesaggio, occorre iniziare osservando che, per

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diventare paesaggio alcuni frammenti di natura (in


questa prospettiva, una contraddizione in termini)
devono venir percepiti come una totalità, da parziali
che sono. Se per natura si intende il coestendersi
ininterrotto degli elementi, una continuità indivisa e
dinamica le cui «parti» sono vincolate dalla loro con-
nessione reciproca e non possono quindi venir con-
siderate autonomamente, qui ci troviamo di fronte a
un frammento che, divenuto emergente rispetto alla
somma e alla giustapposizione delle parti, forma una
nuova e diversa unità: in quanto tale essa, al di là
della naturalità degli elementi, non ha nulla a che ve-
dere con l’unità della natura. Ecco perché il paesag-
gio non è natura, ed anzi il suo costituirsi segna piut-
tosto un allontanamento dal concetto di natura stes-
so.
È dunque un processo mentale che ritaglia, dallo
sterminato susseguirsi degli elementi naturali, il «pae-
saggio». Nondimeno esso si costituisce a partire da
alcuni elementi naturali – ogni volta specifici e por-
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tatori di una loro alterità rispetto al soggetto – non è


un mero riflesso dello sguardo umano, sebbene solo
per questo abbia senso e valore. Se all’origine del
paesaggio vi è un atto costitutivo che ha sede nel
soggetto, infatti, questo non è creazione arbitraria,
ma bensì il saper riconoscere un’unità, per quanto
essa non si dia al di fuori e prima dell’atto percetti-
vo. Sottrarre alcuni fenomeni al «naturale anonimato»
è atto eminentemente soggettivo, ma questo è solo
un momento della creazione del paesaggio. Perché
se solo per l’essere umano ciò che in natura è fram-
mento può venir individualizzato da un’attribuzione
di senso, questa facoltà del soggetto si esplica grazie

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Presentazione

ad una proprietà insita in ciò che diventa paesaggio


sotto lo sguardo umano, una proprietà inerente al-
l’oggetto percepito che ha bisogno della percezione,
soggettiva, per essere riattivata: la Stimmung.
La Stimmung è appunto ciò che fa il paesaggio,
la sua specifica tonalità spirituale – questa la tradu-
zione italiana più vicina di un termine che non ha
equivalente diretto – l’atmosfera, se vogliamo, che
scaturisce dall’insieme dei suoi elementi, che per
questo vengono recisi dal resto e riallacciati più stret-
tamente al centro. Quindi, la Stimmung è qualità og-
gettiva del paesaggio, laddove questo è prodotto
soggettivo. La Stimmung è ciò che un insieme di og-
getti naturali esprime solo quando una soggettività vi
esplica la sua attività, e solo per questa soggettività,
non prima e al di fuori di essa. Il paesaggio è dun-
que un’unità, non imposta d’impero da un’idea o for-
ma prestabilite ed esterne, ma che pure nasce simul-
taneamente al vissuto stesso. Esso non precede l’e-
sperienza soggettivamente incarnata né può prescin-
dere dall’esteriorità oggettiva. È più semplice, anche
per Simmel, dire cosa la Stimmung non sia piuttosto
che definirla, perché essa è una sorta di idea regola-
trice che ci serve per descrivere qualcosa che con-
tiene elementi inspiegati e ineffabili: così possiamo
dire che la Stimmung non è sentimento soggettivo,
ma nemmeno carattere tipico – Simmel sente la pe-
ricolosa contiguità delle banalità generalizzanti per le
quali parliamo di paesaggi tristi, melanconici, tem-
pestosi, e così via. Il paesaggio vive nello sguardo,
ed insieme dà forma a questo nel momento in cui
poggia su una realtà esterna; esso mostra così come
questa dinamica sempre conflittuale e in bilico tra

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soggetto e oggetto è solo la tribolata analisi di quel-


l’unità preanalitica cui Simmel spesso rimanda, affer-
mando anche però che noi la possiamo solo avvici-
nare come sintesi di opposti e mai veramente co-
gliere in quanto tale.
Per questo non si può descrivere soddisfacente-
mente il paesaggio tramite una distinzione tra sog-
gettivo e oggettivo (o anche interno/esterno; spiri-
tuale/concreto; ecc.). Se è vero che ogni descrizione
del paesaggio è sempre manchevole, Simmel riesce
a fare di questo un argomento a favore della tesi cen-
trale: del paesaggio non può mai darsi una defini-
zione generale astratta adeguata, perché non esiste il
paesaggio, ma solo specifici paesaggi. E se si sarà
tentati di dire che questo è vero quasi per tutto, si
starà andando proprio là dove Simmel ci vuole por-
tare: a mostrare come il paesaggio esemplifichi per-
fettamente, per via sensibile più che concettuale, le
modalità tipiche dell’attività spirituale umana in un
mondo dove tutto è infinita interconnessione
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(Weschselwirkung). Non ci è mai dato conoscere la


«cosa in sé», ma solo ricostruire questi rapporti di re-
lazione reciproca. Tuttavia, per farlo, siamo costretti
a rescindere alcune di queste relazioni, per poterne
osservare altre: come è efficacemente sintetizzato in
Ponte e porta (1909), «in senso immediato, come in
senso simbolico, in senso corporeo, come in senso
spirituale, siamo noi, in ogni momento, coloro i qua-
li separano ciò che è collegato e collegano ciò che è
separato»20. Così il paesaggio: possiamo fissarlo
quanto vogliamo, con gli occhi e con la mente nel
tentativo di definirne l’essenza, ma esso si costituisce
solo come relazioni reciproche dei suoi elementi, da

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Presentazione

esse emerge un’unità significativa che si fa tale nella


delimitazione di un intorno che ha reciso le connes-
sioni con il resto, e che pure deriva il proprio signi-
ficato nel farsi simbolo di quell’unità originaria che
sta negando. È un’unità, che però rimanda sempre al
fatto che il suo centro è fuori di sé, così che anche
la soggettività che vi si esplica non lo fa nei termini
di un arbitrio solipsistico, come invece sostengono le
critiche al paesaggio come mero costrutto soggettivi-
stico21.
L’unità che fa il paesaggio non si trova in nessu-
na delle parti concrete, in nessun albero, ruscello,
prato, ma risiede nella sintesi unitaria che essi, per
l’occhio umano che li incornicia, formano. Senza l’in-
corniciamento non ci sarebbe né Stimmung né pae-
saggio perché non vi sarebbe l’individualizzazione di
una parte che si fa totalità; nondimeno la totalità che
così si ottiene è appunto ritagliata, non arbitraria-
mente creata. Tramite questa delimitazione di confi-
ni – che è già una lacerazione dal sapore moderno –
alcune parti vengono individuate (individualizzate) e
separate dal resto. Alla parte così isolata viene attri-
buito un rilievo che di fatto non ha in natura:

[I]l mare e i fiori, le Alpi e il cielo stellato, pro-


prio questo ha ciò che si può chiamare il suo valo-
re soltanto per i suoi riflessi nelle anime soggettive.
Infatti, se prescindiamo dalle sue antropomorfizza-
zioni mistiche e fantastiche, la natura è una totalità
interdipendente senza soluzione di continuità, le cui
leggi indifferenti non concedono a nessuna parte un
accento fondato sulla sua fattualità, anzi nemmeno
un’esistenza oggettivamente delimitata nei confronti

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delle altre. Soltanto le nostre categorie umane di-


stinguono nella natura singole parti, a cui noi colle-
ghiamo reazioni estetiche, commoventi, simbolica-
mente significative: che il bello naturale sia «felice in
se stesso» è giustificabile soltanto come finzione
poetica […] non vi è in esso alcun’altra felicità se
non quella che provoca in noi22.

Va notato che Simmel tiene a precisare che per


paesaggio non si intende solo quello che il pittore
cristallizza in un dipinto, ma anche la forma spiritua-
le che nasce già nella percezione del paesaggio: en-
trambi sono prodotti dell’attività umana; se voglia-
mo, la visione del paesaggio è già un punto inter-
medio tra la natura e l’arte o, più in generale, la cul-
tura. Nei suoi numerosi saggi sull’arte Simmel ha svi-
luppato un’analisi dell’opera d’arte come risultato
particolare della costante mediazione tra la soggetti-
vità creatrice e la sua oggettivazione in una forma. In
L’ansa del vaso (1911) si spiega come questo sia da
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leggersi in relazione all’idea di azione reciproca:


«ogni frammento dello spazio reale viene sentito co-
me parte di un’infinità, mentre lo spazio del quadro
è sentito come un mondo in sé chiuso: l’oggetto rea-
le è in rapporto d’interazione (Weschselwirkung) con
tutto ciò che fluttua o permane intorno a lui, mentre
il contenuto dell’opera d’arte ha reciso questi fili e
fonda soltanto i suoi propri elementi in un’unità au-
tosufficiente»23. Il paesaggio, tuttavia, come forma
spirituale è in una posizione più incerta, poiché qui
da un lato la soggettività non è strettamente creatri-
ce e dall’altro l’oggettivazione vive solo nell’istante
soggettivo della percezione24. I fili, come si è visto,

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Presentazione

non sono affatto del tutto recisi, il mondo in sé chiu-


so è qui assai più fragile, ed infatti non possiamo
esperirlo se non a distanza: dice Simmel, non si può
attraversare, toccare, un paesaggio. Ma proprio que-
sto statuto incerto del paesaggio, né prodotto cultu-
rale, né fenomeno naturale in toto, fa sì che esso ren-
da evidente il processo dell’attività spirituale, mo-
strandocelo nel suo farsi, in statu nascendi. L’ambi-
valenza del paesaggio evidenzia come tale attività
spirituale, sia quella più lucida e unitaria del pittore,
sia quella comune a tutti noi, non sia né mero rifles-
so né creazione dal nulla, ma in parte entrambe. In
altre parole, come l’attività umana si dia tanto nella
forma dell’agire che in quella dell’esperire, e come
queste siano solo in parte separabili. È stato osser-
vato che, tra le peculiarità del Simmel sociologo, vi è
quella di aver considerato non solo l’agire, ma anche
l’esperire o, detto altrimenti, non solo il lato attivo, il
fare, l’esteriorizzazione, ma anche quello passivo, il
patire, l’interiorizzazione. In questo schema l’esperi-
re viene quindi visto come «interiorizzazione di in-
flussi ambientali»25. Eppure proprio il caso del pae-
saggio qui analizzato, mostra come l’attività spiritua-
le che porta a percepirlo è già atto creativo e, vice-
versa, che il paesaggio è già forma spirituale, in bre-
ve, che l’agire non è solo attivo e l’esperire non so-
lo passivo. Questo è il punto; agire ed esperire sono
in interazione reciproca, sono interazione reciproca.
L’esperienza del paesaggio ci mostra un esperire (Er-
leben) che non è passivo ricettacolo di influssi am-
bientali. Capire il paesaggio è allo stesso tempo un
agire (il paesaggio, semplicemente, non c’è, se non
per «l’anima creatrice»), e un patire, il risuonare del-

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Monica Sassatelli

la particolare Stimmung di quel particolare paesag-


gio. Ecco anche la modernità dell’esperienza del
paesaggio o, viceversa, l’esperienza moderna tutta
esemplificata dalla sensibilità per il paesaggio: l’e-
sperire come da lontano. Vibrare in accordo con
un’armonia (ormai) lontana. Il linguaggio è portato a
metafore sonore e musicali perché proprio la musica
è, secondo Simmel, esempio perfetto di superamen-
to del dualismo, essa «non è più qualcosa che espri-
ma e qualcosa che viene espresso, ma completa-
mente e soltanto espressione, soltanto, senso, solo
Stimmung»26. E se il dualismo di attivo e passivo, agi-
re ed esperire è una distinzione analitica di un pro-
cesso in realtà unitario, ma proprio per questo inac-
cessibile direttamente, l’esperienza del paesaggio è
tra quelle che ci avvicinano a questa unità sempre
negataci: ecco perché, conclude Simmel, «di fronte al
paesaggio siamo uomini interi»27.
© ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.

L’albero da frutto e l’albero maestro

Essere uomini interi è anche, per Simmel, ciò che


la cultura dovrebbe rendere possibile, se fedele al
suo concetto28. Nell’analisi di quest’ultimo egli spes-
so ricorre a immagini naturali e al paesaggio stesso,
perché questo, situato al limitare tra cultura e natura,
ci mette di fronte alla questione del loro rapporto.
Come si è visto, infatti, il paesaggio non può essere
né oggettivo né soggettivo, né naturale né culturale,
se ciò significa essere l’uno o l’altro, se cioè ci basia-
mo su una dicotomia che nega la compresenza dei
due termini. Perché, come si diceva, se non è natu-

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Presentazione

ra, il paesaggio è senz’altro naturale, in un modo pe-


rò che già contiene la cultura. C’è un’immagine, che
a Simmel doveva essere molto cara, perché la ri-
prende ogni volta che tenta di definire la cultura, e
che è molto rilevante per comprendere ciò che ren-
de possibile intendere il paesaggio in questo modo.
Ed è significativo che essa ricorra a un elemento che
spesso fa paesaggio, l’albero da frutto.

Diciamo che la frutta, che l’opera del giardiniere


ricava dalla frutta dura e immangiabile di una pian-
ta selvatica è stata coltivata fino a farne un albero da
frutto. Ma se con la stessa pianta si costruisce l’al-
bero di una nave, compiendo un lavoro non meno
finalizzato, non diciamo affatto che il tronco è stato
coltivato per farne un pennone. Questa sfumatura
della lingua indica chiaramente che il frutto, pur non
giungendo a completa maturazione senza l’opera
dell’uomo, in ultima analisi si sviluppa per la forza
che ha l’albero di farlo maturare e realizza soltanto
la possibilità prefigurata nella sua stessa costituzio-
ne iniziale, mentre la forma del pennone viene im-
posta al tronco da un sistema di finalità che gli è
completamente estraneo, senza alcuna preformazio-
ne delle sue tendenze essenziali29.

Si vede bene che la distinzione rilevante non è tra


ciò che è naturale o culturale tout court, che pure
vengono distinti con precisione, come da un lato ciò
che può essere raggiunto attraverso un processo di
causazione interna e senza supporto esterno, e dal-
l’altro ciò che invece ha bisogno dell’intervento
esterno di una nuova energia evolutiva, che chia-

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Monica Sassatelli

miamo cultura. Proprio perché la cultura così defini-


ta si lega ad uno sviluppo «naturale», la distinzione
tra natura e cultura è meno rilevante che non quel-
la, per cui non abbiamo termini specifici, tra ciò che
per via esterna è portato ad un compimento di se
stesso già insito nella propria natura, e ciò che, in-
vece, è fatto uscire da sé in virtù di finalità non solo
esterne ma propriamente aliene, tra albero da frutto
e albero maestro insomma. Natura e cultura, afferma
Simmel, sono solo due modi differenti di guardare
alla stessa cosa. Le difficoltà derivano in parte dal fat-
to che il termine natura viene usato in due sensi di-
versi, da un lato per indicare quella totalità intercon-
nessa e ininterrotta fin qui richiamata, dall’altro nel
più limitato senso ora introdotto di una fase di svi-
luppo raggiunta sulla base delle sole energie inter-
ne30. Far uscire da questa fase, verso uno sviluppo
non più spontaneo ma pur sempre latente e tutt’al-
tro che arbitrario, è cultura, o meglio ancora «natu-
ra “culturalizzata”»31.
© ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.

A Simmel, chiaramente, interessa non tanto l’al-


bero coltivato, quanto l’essere umano colto, di cui il
primo è solo una metafora32. Ma così facendo ci ha
fornito una distinzione che è utile per una lettura del
paesaggio. Alcuni frammenti di natura stanno al pae-
saggio, come l’albero selvatico sta a quello da frutto
coltivato. Questo non tanto perché, il che pure è ve-
ro, di rado i paesaggi sono «selvatici», quasi sempre
mostrando segni fisici della coltura/cultura33, ma an-
che perché, come si è tentato di richiamare sin qui e
come si leggerà in Simmel, il paesaggio non nasce da
un atto arbitrario, ma piuttosto dalla capacità di co-
gliere la forma oggettiva in qualche modo intrinseca

23
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Presentazione

a quel paesaggio (nel dipinto o anche solo nell’atti-


mo della soggettivazione dell’oggettività), esso è
quindi dato da quella sintesi di oggettivo e soggetti-
vo di cui la cultura è la chiave.
Tuttavia, resta presente il pericolo che ciò verso
cui siamo diretti sia diventare legno per un albero
maestro, piuttosto che prepararci a dare i nostri frut-
ti: fuor di metafora, l’oggettivazione in forme cultu-
rali, che dona forma stabile, inserendosi nella vitali-
tà di un’esperienza e rendendola unitaria, conforme,
contiene sempre anche una misura di violenza. Co-
me si diceva, a Simmel la metafora dell’albero serve
soprattutto per definire l’uomo colto. Per dire che
colto è quell’uomo in cui supporti oggettivi esterni
sono mezzi per il suo sviluppo soggettivo, per la sua
«unità personale», piuttosto che per finalità proprie
degli oggetti culturali stessi, come spesso avviene nel
caso degli sviluppi più raffinati dell’arte, orientati a
finalità interne all’arte stessa, ma anche nel caso dei
saperi tecnici o specialistici, che da meri mezzi di-
ventano fini34. Il divario tra cultura oggettiva e cultu-
ra soggettiva non è solo da collegarsi al divenire fini
dei mezzi, qui è in gioco un altro paradosso, che di
quel divenire è l’origine più profonda, ossia la lotta
tra la vita e la forma: la vita crea forme, oggettive,
che sono la via esterna al suo proprio sviluppo ed
espressione, ma che si autonomizzano proprio gra-
zie alla loro oggettività, accumulandosi e inseguendo
uno sviluppo proprio che non ha niente a che vede-
re con, e che anzi per la stessa immane dismisura
tende ad ostacolare quello soggettivo. Il dualismo di
oggettivo e soggettivo, che in linea di principio la
cultura riconcilia sintetizzandoli, non di rado riemer-

24
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Monica Sassatelli

ge come conflitto nei molteplici e specifici contenu-


ti empirici dell’esperienza umana.
Ciò è particolarmente evidente nei prodotti che
nascono dalla divisione del lavoro, per cui a maggior
ragione non sono i singoli soggetti produttori che in
esso esprimono la propria unità, infondendovi finali-
tà e significato. Questi prodotti, dice Simmel, che ab-
biano un’origine unitaria e intenzionale, come nella
catena di montaggio o in un’orchestra, o meno, co-
me la città – il paesaggio urbano – che si sviluppa
senza un piano, esprimono in modo radicale ed evi-
dente una condizione comune: vi è sempre nei no-
stri prodotti culturali qualcosa che non vi abbiamo
messo. «[N]ella maggior parte delle nostre opere che
si presentano in modo oggettivo è contenuto qual-
cosa del significato che può essere tratto da altri sog-
getti e che noi non abbiamo posto in esse. Ciò non
è mai valido in senso assoluto, ma sempre in senso
relativo: nessun tessitore sa che cosa tesse»35. Ma
questo, si badi bene, non viene condannato da Sim-
© ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.

mel, come la contiguità con le teorie dell’alienazione


può far pensare. Non lo è perché così come i pro-
dotti non ci appartengono mai del tutto, possiamo
far nostri quelli che non lo erano affatto, al pari di
quelli naturali. Proprio perché vi sono sempre possi-
bilità non saturate dall’intenzionalità che mettiamo
nei nostri prodotti, nemmeno la teleologia dell’og-
gettività esclude mai del tutto una nuova appropria-
zione soggettiva. Quel qualcosa che non abbiamo o
non sappiamo di aver messo, come nel caso del gof-
fo pattinatore dell’epigrafe o la soluzione non previ-
sta ma giusta di un indovinello36, dispossessa e apre
a nuove riappropriazioni allo stesso tempo: in que-

25
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Presentazione

sto stanno, appunto, concetto e tragedia, insieme,


della cultura. Ma si vede bene, allora, come nel ca-
rattere tragico che Simmel attribuisce alla cultura,
forse sin troppo enfatizzato dai commentatori, vi è
sempre uno spiraglio di riscatto che, come la tragici-
tà stessa, non è accessorio, ma emanazione intrinse-
ca di una stessa origine. Tanto che, come è stato os-
servato, si potrebbe forse parlare di «quasi tragicità»
del giudizio simmeliano sulla condizione umana mo-
derna, dove «il “quasi” non limita il potere del tragi-
co, ma dice che l’esistenza può anche venir spesa al
di fuori della dimensione tragica»37.
Questo spiraglio, così arduo da scorgere in ambi-
to sociale dove dominano conflitto e lacerazione, in
rapporto alla natura rende possibile il paesaggio, do-
ve la lotta può farsi conciliazione e la lacerazione ric-
chezza. Non solo nel paesaggio divenuto arte, ma
già nell’esperienza del paesaggio. Proprio la lacera-
zione moderna ha compensato gli uomini moderni
con la particolare sensibilità per il paesaggio, dove il
conflitto è superato e, seppure sotto forma di un’im-
magine lontana, abbiamo un pegno di quell’equili-
brio di istanze opposte che nella vita risulta sempre,
nel migliore dei casi, oltremodo precario. Proprio lo
statuto precario e instabile del paesaggio rende que-
st’esperienza particolarmente struggente o, per usare
la categoria estetica rilevante, sublime, mettendoci
davanti a una forza più grande di noi, ma da una
prospettiva tale che ci permette di esperirla al di là
dell’atteggiamento pratico, di paura o oppressione,
che un contesto di vita reale renderebbe necessario.
Nel paesaggio ciò che è frammento diventa sì un tut-
to, ma senza sradicarsi, continuando a rimandare al

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Monica Sassatelli

tutto più grande di cui fa parte, e soprattutto senza


imporre un principio teleologico formale avulso dal-
la particolare Stimmung di quel paesaggio38: nel
paesaggio non ci sono alberi maestri, ma alberi da
frutto.
E nel paesaggio vi sono anche, tipicamente, le ro-
vine. È in particolare nel saggio Le rovine infatti che
si articola il tema della pacificazione di forze contra-
stanti, da cui deriva il loro fascino sottile. Un fascino
paradossale, e che si tinge di una tonalità malinconi-
ca, dal momento che sorge con l’immagine di distru-
zione, tragica – ancora una volta – perché inesorabi-
le, cui sono destinate le opere dell’uomo per opera
dell’azione corrosiva della natura. Eppure, questo è
solo il primo sguardo, e Simmel ci invita ad andare
oltre. Se dal punto di vista di una lotta tra forze con-
flittuali, naturale ed umana, le rovine non sono che
ciò che resta dopo la battaglia, è possibile guardare
ad esse anche in termini di complicità. Ecco che al-
lora l’azione naturale non è più solo vista come cor-
© ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.

rosiva, ma si rivela attiva: non tanto distruzione, ma


riappropriarsi attivo della natura, e quindi amalga-
marsi di opera dell’uomo e della natura, soggetto e
oggetto; il divenire naturale, un po’, di un’opera del-
l’uomo. Se la cultura ha soggettivato la natura, qui la
natura oggettiva la cultura, si riprende i suoi diritti e
così facendo, reinnesca il circolo, ci dà una nuova
opportunità. Forse il fascino delle rovine sta allora
anche nel senso di continuità e nuovo inizio insieme
che ne deriva: al di là dell’eccesso di cultura oggetti-
va che ci opprime divenendo quasi una seconda na-
tura irrigidita39, proprio la fragilità delle nostre crea-
zioni ci mostra una via d’uscita dal loro ipertrofico

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Presentazione

sviluppo moderno. Le rovine ci dicono che non tut-


to è perduto, stiamo ancora forgiando la nostra sto-
ria, e la natura è parte di essa, parte attiva. Certo a
discapito delle nostre forme, ma non ci stanno forse
queste un po’ troppo strette, e sempre di più? Come
dalle tracce sul ghiaccio dell’epigrafe, forse proprio
da quel qualcosa che non mettiamo intenzionalmen-
te possiamo aspettarci i risultati migliori. Non si trat-
ta affatto di un inneggiare allo spontaneismo40 – i
frutti spontanei restano selvatici – semmai di saper
vedere nell’estraniazione il riscatto. A questo sembra
alludere Simmel anche nei saggi sui paesaggi urbani
di Roma, Firenze e Venezia. In Roma (1898) in par-
ticolare si sofferma sul risultato unitario e organico
della stratificazione, che nasconde l’intenzionalità
originaria, ma per sovrapposizione ne fa emergere
una nuova con il sorgere, né prima né dopo ma con-
temporaneamente, del risultato stesso. «[A Roma] in-
numerevoli generazioni hanno costruito una accanto
all’altra, una sopra l’altra, e ognuna senza preoccu-
parsi di ciò che le preesisteva, senza neppure com-
prenderlo […] E poiché tuttavia l’insieme si è svilup-
pato in modo talmente unitario, come se una consa-
pevole ricerca della bellezza ne avesse guidato gli
elementi, la forza del fascino di Roma nasce appun-
to da questo ampio e tuttavia conciliato distacco tra
la casualità delle parti e il significato estetico del tut-
to»41. Questa è la Stimmung del paesaggio romano: e
se per descriverla ricorriamo all’idea della concilia-
zione di elementi in contrasto, così come per le ro-
vine più in generale, è solo perché a noi, uomini-pri-
sma, l’unità non si dà che come sintesi di opposti.

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Monica Sassatelli

Uomo-prisma e sentimento della distanza

Il paesaggio è dunque simbolo dell’esterno visto


dall’interno, di una lontananza che si manifesta pro-
prio mentre ci avviciniamo. Nel paesaggio si trova
così dispiegato un elemento chiave del pensiero di
Simmel, per alcuni anzi quello che può unificarlo,
mostrando la continuità tra la sua filosofia della for-
ma e quella della vita: la distanza42. È il destino del-
le forme della cultura che il loro tentativo di ap-
prendere l’esterno provochi anche allontanamento
dall’immediatezza delle cose, che è inavvicinabile.
Tale immediatezza, come l’unità del vissuto che per
esprimersi deve prima scindersi, rimane distante, an-
zi si allontana ancora di più poiché avvicinandoci al-
le cose lo facciamo sempre in mondo mediato. Si
comprende così come per distanza non si intenda
semplicemente il lontano in senso assoluto, ma una
più complessa compresenza di vicino e lontano.
L’immagine più chiara e struggente di questo è
© ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.

forse proprio quella dell’uomo-prisma, contenuta nel


saggio I paesaggi di Böcklin qui pubblicato: noi sia-
mo come prismi, non ci è dato vedere la luce bian-
ca che scomposta, e non possiamo concepirla che
come sintesi dei raggi colorati che comunque vedia-
mo, sebbene sia invece l’unità il dato originario, che
ci è negato e che noi dobbiamo separare per poi ri-
connettere. Se questa è la condizione umana in ge-
nerale, si capisce bene come l’esperienza estetica,
che presuppone distanza, fisica e non solo, abbia co-
stituito per Simmel sempre un terreno fertile per svi-
luppare riflessioni di ampia portata. E si capisce an-
che la centralità del paesaggio. Il paesaggio è di-

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Presentazione

stante per definizione, proprio intendendo per di-


stante la tensione di lontano e vicino: un paesaggio
non comincia mai con elementi dello spazio che oc-
cupiamo; troppo vicini, essi sono sfocati. Solo ciò
che è sufficientemente lontano può diventare pae-
saggio, e per ciò stesso, avvicinarsi. Simmel istituisce
un’analogia tra un fenomeno di superficie come
quello delle modificazioni percettive a seconda della
distanza e quello invece profondo del rapporto tra
oggetto e soggetto.
In questo metodo del far «scendere uno scanda-
glio nelle profondità della psiche a partire da un
punto qualunque della superficie dell’esistenza»43
Simmel è forse insuperato, e non si tratta chiara-
mente di un mero trucco metodologico, ma è un
portato dell’idea centrale che tutto sia in interazione
reciproca e quindi si debba cercare di riallacciare il
più possibile quelle trame di influenza, che pure sia-
mo costretti a recidere per poter analizzare qualco-
sa. Il che significa in particolare cercare di mostrare
sempre come ogni tendenza porti sempre con sé
quella opposta, senza che ve ne sia una più vera o
più «giusta». Risulta quindi evidente che la categoria
della distanza, tensione continua di vicino e lontano
che si respingono e implicano reciprocamente, sia lo
strumento più adatto. Relazionale e dinamica, la di-
stanza, non è analizzata come dato statico e fisso, ma
in termini dei meccanismi di attiva presa di distanza.
Questo sia che si stia parlando della sfera estetica
che di quella sociale: in effetti il rapporto tra figura e
sfondo è uno dei temi preferiti di Simmel, sia nei
suoi saggi sull’arte sia nel descrivere il rapporto tra
individuo e società. Questo mostrano i vari excursus

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Monica Sassatelli

simmeliani sulla distanza fisica, attraverso i quali ar-


riva al tema della distanza sociale, nel cui ambito
possono essere ricondotti molti se non tutti i proces-
si e tipi sociali per cui Simmel è noto, primo fra tut-
ti il già menzionato straniero44.
Il bisogno di distanza nella sfera estetica è infatti
simbolo di più ampie e cariche di conseguenze pre-
se di distanza nella vita sociale, tanto che è possibi-
le riconoscere segni di somiglianza tra il concetto
simmeliano di distanza e quello di alienazione. Sim-
mel rende tuttavia quest’ultima allo stesso tempo me-
no univoca e meno superabile rispetto alle formula-
zioni ereditate dalla generazione precedente. Come
la distanza, l’alienazione (e l’oggettivazione) non è
semplice tappa dialettica; l’oscillazione di vicino e
lontano continuerà, ma proprio nel loro implicarsi vi-
cendevole si rivela che il lontano non è mai assolu-
to né assolutamente negativo, l’uomo non è mai so-
lo passivo e straniato. Qui la distanza non è misura
di ciò che ci separa da una meta, dal superamento
© ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.

del dualismo, ma invece simbolo permanente per


quanto dinamico che anche il dualismo è insupera-
bile45. La specificità della modernità è allora anche
nel fatto che l’uomo-prisma ormai sa di esserlo, for-
se perché la vita moderna lo porta a frammentarsi es-
so stesso come i raggi luminosi che lo attraversano:
la presa di distanza diventa sentimento della distan-
za.
Simmel infatti utilizza il concetto di distanza in
particolare nell’analisi del rapporto individuo-società
che caratterizza l’epoca dell’economia monetaria,
sviluppando questo tema attraverso la discussione
della distanza tra l’io e le cose46. Simmel riconosce

31
simmel.a 6-12-2005 9:37 Pagina 32

Presentazione

come, ricondotta alla categoria della distanza, l’eco-


nomia monetaria appare innanzitutto come aumen-
tata vicinanza: la libera circolazione di merci e dena-
ro, e la struttura di rapporti sociali correlata, scioglie
vincoli personali e particolaristici (legati alla vicinan-
za), permettendo quindi l’avvicinarsi di ciò che è
lontano. Questo spiega, dice Simmel, come ciò che
è lontano attiri sempre i moderni, «l’immenso fascino
che esercitano gli stili artistici più remoti, temporal-
mente e spazialmente […] il fascino del frammento,
oggi così vivamente sentito, della mera allusione,
dell’aforisma, del simbolo, degli stili artistici non svi-
luppati. Tutte queste forme… ci parlano “come da
lontano”»47. Ciò che è remoto infatti ci permette di
esplicare questa nostra nuova capacità di avvicinar-
lo, senza però incombere troppo da vicino sui nostri
sensi resi ipersensibili proprio dal potenziale contat-
to con un numero eccessivo di stimoli. Il fascino del-
la distanza è dunque il portato dell’uomo tipico me-
tropolitano, il blasé, delineato nel saggio Le metro-
poli e la vita dello spirito. Sottoposto a troppi stimo-
li, l’uomo blasé per difesa smette di reagirvi, di ac-
cordare loro importanza, di farsi sorprendere, come
chiudendosi a un’esperienza fattasi troppo incom-
bente e appunto ravvicinata. Corollario di ciò è però
che il blasé ha bisogno di ricevere stimoli sempre più
forti, in un circolo vizioso che Simmel ha ben foto-
grafato nel breve scritto Berliner Gewerbeausstellung
[L’esposizione industriale di Berlino] (1896): «La pros-
simità estrema in cui i prodotti più eterogenei sono
ammassati paralizza i sensi – una vera e propria ip-
nosi in cui un solo messaggio arriva alla coscienza:
qui ci si deve divertire»48.

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Monica Sassatelli

Ma l’analisi di Simmel non ha nessuna coloritura


moralistica o nostalgica, anche perché questa non è
che una faccia della sua analisi: sappiamo ormai che
ce ne sarà un’altra. Il superamento della distanza è in
un certo senso solo un effetto ottico, il denaro è al-
trettanto, e forse a un livello più profondo, veicolo
della tendenza opposta. La lontananza aumenta, per-
ché tutto è mediato dal denaro, che riesce a farci av-
vicinare cose prima lontane, allontanando quelle vi-
cine. Ogni tentativo di ridurre una lontananza, og-
gettiva la distanza, come nel caso del ponte che cer-
to ci fa superare un ostacolo, ma lo rende tanto più
visibile e persistente. Avvicinarci alle cose ci mette di
fronte al fatto che sono, e in ultima analisi restano,
lontane. Ecco che il blasé è riuscito nel suo intento,
è riuscito a prendere distanza da ciò che è vicino e
troppo incombente, permettendosi invece di essere
sensibile solo verso ciò che è lontano: «Il quadro
complessivo di tutto questo significa tuttavia prende-
re le distanze nei rapporti propriamente intimi, e di-
© ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.

minuirle in quelli più esterni. […] ciò che è più re-


moto diventa più vicino, al prezzo di aumentare la
distanza verso ciò che è già vicino»49.
La sensibilità per il paesaggio è tra quanto abbia-
mo acquisito pagando questo «prezzo». Non sorpren-
de che Simmel chiuda la sua analisi della distanza e
del ruolo del denaro nel doppio processo di allonta-
namento e avvicinamento, tornando alla natura e al
paesaggio.

Tutta la nostra vita è caratterizzata dall’allontana-


mento dalla natura a cui ci costringe la vita econo-
mica e la vita cittadina che ne dipende. Però, forse,

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Presentazione

solo mediante questo allontanamento è possibile


che emerga il vero e proprio sentimento estetico e
romantico della natura. Chi è abituato a vivere a
contatto immediato con la natura può certo goder-
ne soggettivamente le virtù, ma gli manca quella di-
stanza da essa a partire dalla quale soltanto è possi-
bile una visione estetica50.

Nella distanza si genera la Sehnsucht romantica:


la nostalgia, il volgersi malinconicamente alla natura
come a un paradiso ormai perduto. Per questo par-
ticolare fascino hanno proprio quei luoghi dove que-
sta lontananza è resa ancor più evidente dal dispie-
garsi delle forze naturali che ci respingono, in parti-
colare quando ormai cristallizzate nella forma stessa
del territorio, come nei picchi alpini. L’attrazione per
questi luoghi del sublime non si deve solo, ricorda
Simmel, al fatto che l’uomo moderno ha bisogno di
stimoli forti per i suoi nervi logorati, ma perché que-
sto è il carattere proprio del nostro modo di vivere
la natura, come qualcosa di irreparabilmente lonta-
no, ma che grazie a questo riusciamo a collocare al
di là dei nostri interessi e conflitti immediati, trovan-
dovi un’istanza pacificata degli opposti altrimenti de-
stinati a contrastarsi. Non si tratta di fuga o rifugio
nell’interiorità che nella natura riflette solo se stessa,
come l’affinità, almeno di linguaggio, tra Simmel e i
romantici, ha spesso fatto credere. Uscito dalla me-
tropoli, il blasé sembra recuperare parte di quella ca-
pacità di aprirsi all’incontro con un esterno, o meglio
di meravigliarsi – qui come nell’avventura, altro tema
simmeliano, conquista e arresa, massima attività e
massima passività si fondono, mostrando l’arbitrarie-

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Monica Sassatelli

tà della loro separazione – che in città ha dovuto so-


spendere per non disintegrarsi.

Paesaggio, esperienza, modernità

Eccoci quindi tornati al punto di partenza: l’espe-


rienza moderna illustrata attraverso il paesaggio, che
appunto è esperienza, con il carico di ambivalenza
che questo concetto porta con sé. Ma l’ambivalenza
non è inane oscillazione o indecisione, è invece una
qualità che il pensiero simmeliano colloca nel pro-
fondo dei fenomeni, tracciandone a ritroso il moto a
partire dalla superficie visibile. Descrivendo con pre-
cisione i poli dell’oscillazione, Simmel ci fornisce gli
strumenti per analizzare non solo tali estremi ma tut-
ti i possibili punti intermedi che li collegano, e che
altrimenti potrebbero sembrare, in effetti, strani com-
posti di elementi contraddittori. Che la distanza mo-
derna dalla natura si redima, per così dire, nell’espe-
© ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.

rienza del paesaggio, è allora ciò che mostra come


facilmente le analisi e i giudizi sull’esperire moderno
siano invece semplificatori. Grazie alla distinzione
natura/paesaggio si può parlare della modernità del
secondo come venir meno della prima, concessa, si
ritiene, solo all’esperire più diretto e ingenuo degli
antichi. Ma è chiaro quindi che si tratta di una mo-
dernità relativa, come solo relativo può essere qual-
siasi discorso sulla spontaneità degli antichi. La dif-
ferenza è una differenza di percezione, di distanze,
non di essenze o di esclusioni. Se i concetti correnti
di paesaggio, e di esperienza, mostrano quindi la lo-
ro derivazione romantica51, Simmel, toglie ad essi la

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simmel.a 6-12-2005 9:37 Pagina 36

Presentazione

carica di nostalgia e li trasforma in contrappesi che


sono parte integrante della modernità stessa. Non vi
sono qui i catastrofismi in cui è facile cadere, come
quelli della «fine dell’esperienza», o, che è in parte lo
stesso, fine dell’esperienza autentica. Se una lettura
(semplificata) delle analisi di Simmel sull’esperienza
metropolitana, può sembrare sostenere questa tesi, i
saggi sul paesaggio, completando l’analisi del mo-
derno da un lato spesso ignorato, mostrano proprio
come egli abbia sempre evitato questo pericolo.
In essi ritroviamo le principali caratteristiche del-
l’esperienza moderna, da Simmel stesso delineate
nelle sue opere maggiori – frammentata, intellettua-
lizzata e interiore – come estremi che richiedono e
generano compensazioni specifiche. È a entrambi i
lati che si deve guardare per ottenere una visione più
completa del moderno come tipo di esperire, e di
agire. Così la frammentarietà riscontrata nel turbinio
della metropoli con le sue esposizioni industriali e
divisione del lavoro esasperata, trova nel paesaggio
non tanto un’altra faccia, un opposto, ma la conci-
liazione che la sfera estetica consente. Come ha scrit-
to a proposito de L’avventura (1911), Simmel non
considera queste esperienze, perché isolate da una
«vita vera», inautentiche o superficiali, eccezioni che
confermerebbero la «regola» moderna della fram-
mentazione. Le avventure sono sì rese possibili dalla
frammentazione, ma, proprio come il paesaggio, so-
no frammenti in cui brilla la totalità, la loro stessa se-
paratezza dà loro il valore, come suggeriscono le
espressioni di senso comune per parlarne, di una vi-
ta intera, perché possono raggiungere la coerenza in-
terna che raramente la vita, moderna in particolare,

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simmel.a 6-12-2005 9:37 Pagina 37

Monica Sassatelli

concede. La liminalità temporale dell’avventura – co-


me quella sociale dello straniero, e quella spaziale
del paesaggio – è come se costituisse, per utilizzare
una metafora percettiva, un punto di vista che deve
alla distanza la chiarezza e ampiezza di visione. Ec-
co che il frammentarsi è il presupposto di una ritro-
vata, certo diversa, unità: «L’avventura è …diversa da
tutto quel che si può dare di semplicemente casuale
o di estraneo, da ciò che sfiora la superficie della no-
stra vita. Ponendosi al di fuori di questo insieme con-
catenato, essa vi rientra, per così dire, proprio con
questo movimento»52.
Non vi è quindi fine dell’esperienza a causa della
frammentazione, la totale trasformazione dell’espe-
rienza che si ha nell’esperienza che si fa. Si ricono-
sce piuttosto che esse si presuppongono a vicenda e
che le trasformazioni, che certo vi sono, vanno ri-
cercate nella loro articolazione specifica. Questo va-
le anche per il carattere intellettualizzato come tratto
tipico moderno. Se la descrizione corrente del mo-
© ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.

derno come razionalizzazione prevede la frammen-


tazione non solo delle tradizioni consolidate, ma la
estende anche ai luoghi più profondi della riprodu-
zione della soggettività, Simmel dice invece qualco-
s’altro. Il denaro, causa, effetto e simbolo contempo-
raneamente del vivere moderno, protegge questo
nucleo più intimo: «In quanto il denaro è tanto sim-
bolo quanto causa del livellamento e della esterio-
rizzazione di tutto ciò che si fa livellare ed esterio-
rizzare, diventa anche il custode del massimo livello
di interiorità che può svilupparsi solo all’interno dei
confini più personali»53. E questo nucleo più intimo
è quello che si esprime e insieme si ritrova davanti

37
simmel.a 6-12-2005 9:37 Pagina 38

Presentazione

al paesaggio (e non solo), che ci fa essere uomini


interi. Si capisce quindi che per Simmel l’altro del-
l’intelletto non è il sentimento o peggio ancora il
sentimentalismo, ma è l’unità di sentimento e intel-
letto, che il paesaggio richiede. Perciò le infinite an-
titesi della vita moderna, che solo l’intelletto può af-
frontare senza disgregarsi, possono trovare qui
un’immagine di totalità e pacificazione. Non a caso
una delle esposizioni più chiare del carattere intel-
lettualistico moderno si trova proprio in chiusura al
saggio I paesaggi di Böcklin: essi funzionano su tut-
t’altri registri, sono al di là del tempo e dello spazio
e quindi di ogni calcolo comparativo, collocandosi
così nello spazio vuoto che si crea al di là dell’atteg-
giamento intellettualistico – il calcolo continuo e l’in-
differenza per ciò che, come questi paesaggi, è pro-
priamente individuale – con il sorgere di tale atteg-
giamento stesso54.
Si potrebbe obiettare, come è stato fatto, che in
fondo quella nel paesaggio è una sorta di fuga, este-
tizzante o meno. E che, quindi, il carattere frammen-
tato e intellettualizzato viene sì superato in una nuo-
va sintesi ma solo a prezzo di rendere totalmente in-
teriore l’esperienza. L’enfasi su alcune forme di espe-
rienza interiore individuale sarebbe quindi la via cer-
cata da Simmel per preservare o persino ricostituire
l’individualità schiacciata dalla crescente espansione
della cultura oggettiva55. Ma proprio l’analisi del
complesso statuto del paesaggio mostra che esso
non può essere ridotto a proiezione di un vissuto to-
talmente interiore, che l’esperienza non può essere
solo interiore. L’uomo blasé è lo stesso che di fronte
al paesaggio «ritorna» intero, non più solo intelletto,

38
simmel.a 6-12-2005 9:37 Pagina 39

Monica Sassatelli

frammento e nemmeno puro riflesso dell’interiorità.


Simmel è tra i pochi a non scivolare nella critica neo-
romantica alla società moderna e nella denigrazione
dell’esperienza moderna definita come un «non più»
(autentica, profonda, ecc.)56. Non per questo la sua
posizione è neutra, egli anzi cerca di indagare la spe-
cificità del moderno, tracciandone il preciso campo
e poli di forze in conflitto. Ricordando anche, però,
che vi è una dimensione di continuità e che conflit-
to e contraddizioni moderne sono appunto specifi-
che, ma non uniche; anzi, forse la modernità ren-
dendo molto più esplicito ciò che è sempre stato ri-
condotto a forme di contenimento è un’epoca più
tragica certo, ma più sincera. Del resto «è un pregiu-
dizio da pedanti ritenere che tutti i conflitti e i pro-
blemi siano là, a bella posta per venire risolti […] il
futuro non dissolve il conflitto appianandolo, ma so-
lo dissolve le sue forme e i suoi contenuti mediante
altri…»57.
Allora, semmai, la questione è come far in modo
© ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.

che all’uomo contemporaneo non venga a mancare


la possibilità dell’esperienza di paesaggio così intesa,
tema che non a caso sta sollevando negli ultimi an-
ni sempre maggior interesse accademico e istituzio-
nale58. Quando scriveva Simmel la modernità aveva
già assunto i principali caratteri che tuttora mantiene,
e che proprio Simmel ha saputo cogliere nelle sue
sfumature culturali e individuali. Essa non mostrava
ancora, forse, un carattere: il suo essere diffusa, la
sua penetrazione capillare che si rivela non solo nel
concentrato di modernità che la metropoli rappre-
senta, rendendo per questo utili oggi le descrizioni
ormai centenarie di Simmel, ma anche nello spazio

39
simmel.a 6-12-2005 9:37 Pagina 40

Presentazione

fisico al di fuori di essa. Il corrispettivo a corto rag-


gio, se vogliamo, della globalizzazione. Di questa ve-
deva Simmel tuttavia i primi rampanti segni, come
mostra il breve scritto Alpenreisen [Viaggio alpino]
(1895), stimolato dalla inaugurazione di una linea
ferroviaria che per prima si inoltrava su vette delle
Alpi svizzere sino ad allora accessibili solo con lun-
ghe escursioni a piedi. Ma proprio laddove molti
hanno trovato i primi appigli per la critica dell’espe-
rienza moderna come inautentica59, Simmel, dispie-
gando ancora una volta la sua capacità di creare pro-
spettive insolite, saluta come positivo l’estendersi
dell’accesso alla natura, smascherando piuttosto l’i-
deologia romantica dell’esperienza solitaria ed edifi-
cante: «Non sono d’accordo con lo sciocco romanti-
cismo che riteneva le vie difficili, il cibo preistorico
e i letti scomodi come una parte essenziale dello sti-
molo dei bei tempi andati del viaggio alpino»60. L’e-
sperienza del paesaggio non è fuga dalla modernità,
se vi è redenzione non è dalla modernità ma della
modernità (che quasi nessuno concede). Ma a mag-
gior ragione la modernità può misurarsi anche, quin-
di, dalla capacità di diffondere e proteggere la sensi-
bilità per il paesaggio, come parte integrante di essa
stessa, e non nei termini di accessoria compensazio-
ne, mera riduzione d’impatto o recupero di un idillio
premoderno che è, questo sì, solo una proiezione
tutta moderna.

40
simmel.a 6-12-2005 9:37 Pagina 41

Monica Sassatelli

NOTE
1 G. Simmel Tracce nel ghiaccio (1900), trad. it. in «Aut

Aut», Vol. 257, 1993, pp.15-6. Questo testo fa parte delle


«Istantanee sub specie aeternitatis», che Simmel ha pubblicato
come brevi contributi, spesso anonimi o semplicemente si-
glati G. S., sulla rivista di Monaco «Jugend». Cfr. O. Rammstedt,
On Simmel’s Aesthetics: Argumentation in the Journal Jugend.
1897-1906, in «Theory, Culture & Society», vol. 8, 1991, pp.
125-144.
2 Questa collana di Classici di Sociologia ne è buona te-

stimonianza. Per questa ragione non si è voluto riproporre


qui un’introduzione generale, e per forza riduttiva, del pen-
siero di Simmel, preferendo rimandare a quelle ottime già esi-
stenti. Si vedano ad esempio in questa collana P. Jedlowski,
Introduzione, in G. Simmel, Le metropoli e la vita dello spiri-
to (1903), trad. it. Roma, Armando, 1995 e V. Cotesta, Intro-
duzione, in G. Simmel, Sull’intimità, Roma, Armando, 1996.
Pietre miliari nell’interpretazione italiana di Simmel restano,
tra gli altri, V. D’Anna, Georg Simmel. Dalla filosofia del de-
naro alla filosofia della vita, Bari, Laterza, 1982; A. Cavalli e
L. Perucchi, Introduzione, in G. Simmel, Filosofia del denaro
© ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.

(19072), trad. it. Torino, Utet, 1984; A. Dal Lago, Il conflitto


della modernità, Bologna, Il Mulino, 1995. Per notizie sulla
vita e le opere di Simmel, e sulle traduzioni italiane si veda la
Nota bio-bibliografica in appendice a questo volume.
3 Böcklins Landschaften e Philosophie der Landschaft so-

no stati pubblicati dapprima in rivista, e poi inseriti in raccol-


te postume, rispettivamente Philosophie der Kunst (1922) e
Brücke und Tür (1957). Le traduzioni italiane, I paesaggi di
Böcklin e Filosofia del paesaggio sono state precedentemente
pubblicate nella raccolta Il volto e il ritratto (Bologna, Il Muli-
no, 1983; trad. di Lucio Perucchi). Die Ruine e Die Alpen fan-
no parte del volume Philosophische Kultur. Gesammelte Es-
says del 1911, tradotto in italiano come La moda e altri saggi
di cultura filosofica, Milano, Longanesi, 1985, trad. it. di Mar-
cello Monaldi. Versioni precedenti leggermente diverse erano

41
simmel.a 6-12-2005 9:37 Pagina 42

Presentazione

state pubblicate da Simmel in rivista rispettivamente con il ti-


tolo Die Ruine. Ein ästhetischer Versuch (1907) e Zur Ästhe-
tik der Alpen (1911).
4 Scrivendo qui dell’autore di Cultura femminile (1911;

trad. it. in La moda e altri saggi di cultura filosofica, Milano,


Longanesi, 1985) sembra doveroso accennare al fatto che non
c’è modo di sfuggire, linguisticamente, al vizio androcentrico,
alla riduzione di ciò che è generalmente «umano» a ciò che è
«maschile». Usare termini più politicamente corretti, ma solo
apparentemente più neutrali, come essere umano o umanità –
le uniche alternative, ma poco più che goffe perifrasi attorno
ad una stessa etimologia – è assai meno utile del riconoscere
questo, come Simmel ha fatto nel saggio appena ricordato.
5 Per l’analisi di questo concetto chiave in Simmel, e dif-

ficilmente traducibile in Italiano, si veda A. Cavalli, Introdu-


zione, in G. Simmel, Sociologia (1908), trad. it. Milano, Co-
munità, 1989.
6 J. Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia

(1860), trad. it. Milano, Newton Compton, 1994. Il tema della


sensibilità moderna per il paesaggio è successivamente stato
sviluppato anche da A. Riegl, Il culto moderno dei monu-
menti (1903), trad. it. Bologna, Nuova Alfa, 1990, e più diret-
tamente, dopo Simmel, da J. Ritter, Paesaggio. Uomo e natu-
ra nell’età moderna (1963), trad. it. Milano, Guerini, 1994. Per
un’analisi critica di questa tradizione si vedano M. Venturi Fer-
riolo, Etiche del paesaggio. Il progetto del mondo umano, Ro-
ma, Editori Riuniti, 2002; R. Milani, L’arte del paesaggio, Bolo-
gna, Il Mulino, 2001. Per una storia sociale del paesaggio nel-
l’arte si veda anche A. Cauquelin, L’invention du paysage, Pa-
ris, Plon, 1989. La letteratura sul paesaggio è piuttosto vasta e
soprattutto multidisciplinare; in particolare abbondano studi
filosofico-estetici da un lato e di impianto urbanistico o geo-
grafico più mirati all’intervento, dall’altro, con integrazione
molto scarsa. Tuttavia le scienze sociali, che potrebbero con-
tribuire a colmare lo scarto, solo molto di recente, e tenden-
zialmente non nella tradizione italiana, hanno cominciato a ri-
flettere sul paesaggio, in particolare in termini di relazioni so-

42
simmel.a 6-12-2005 9:37 Pagina 43

Monica Sassatelli

ciali e per il suo ruolo nella costruzione delle identità (cfr. ad


esempio D. Gregory e J. Urry (a cura di), Social Relations and
Spatial Structures, London, Macmillan, 1985 e, per un’analisi
più generale sulla costruzione sociale della natura, pervasiva
ma contestata, P. Macnaghten e J. Urry (a cura di), Contested
Natures, London, Sage, 1998). In italiano si veda anche F. Lai,
Antropologia del paesaggio, Roma, Carocci, 2000.
7 Cfr. B. Bender (a cura di), Landscape: Politics and Per-

spectives, Oxford, Berg, 1993. Sul modo di abitare e percepi-


re il paesaggio che caratterizza culture non occidentali si ve-
da anche E. Hirsch e M. O’Hanlon (a cura di), The Anthropo-
logy of Landscape, Oxford, Oxford University Press, 1995.
8 G. Simmel, Filosofia del denaro, cit., p. 673. Si noti qui

quanto sia debitrice da Simmel la nota definizione di aura di


Walter Benjamin, «apparizioni uniche di una lontananza, per
quanto questa possa essere vicina» (W. Benjamin, L’opera
d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica [1936], trad.
it. Torino, Einaudi, 1991, p. 25), esemplificata proprio dalla vi-
sione di oggetti naturali: «Seguire, in un pomeriggio d’estate,
una catena di monti all’orizzonte oppure un ramo che getta
la sua ombra sopra colui che si riposa…» (Ibid.).
9 G. Simmel, Filosofia del denaro, cit., pp. 673-4.
© ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.

10 Ibid., pp. 663-82.


11 G. Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, cit. p. 35.
12 Cfr. D. Frisby, Introduction to the texts, in D. Frisby e

M. Featherstone (a cura di) Simmel on Culture, London, Sage,


1997.
13 Un accostamento messo in evidenza da David Frisby

che, sottolineando come il saggio sulle metropoli sia stato


scritto lo stesso anno di quello sulla sociologia dello spazio
(prima della versione rielaborata per la Sociologia), suggeri-
sce una lettura del primo non solo alla luce della Filosofia del
denaro come è comunemente accettato (e come lo stesso
Simmel ha indicato in una nota finale al testo), ma anche nel
quadro dell’analisi simmeliana dello spazio sociale e del suo
impatto sull’individuo e la sua vita psicologica e sociale (Cfr.
D. Frisby, Ibid., p.11).

43
simmel.a 6-12-2005 9:37 Pagina 44

Presentazione

14 G. Simmel Il cristianesimo e l’arte (1907), trad. it. in


Saggi di estetica, Padova, Liviana, 1970, p. 43
15 G. Simmel, Sociologia, cit. p. 531.
16 S. Kracauer, Georg Simmel (1920), trad. it. in La massa

come ornamento, Napoli, Guida, 1982, p. 63.


17 Come ha sottolineato L. Boella nella sua monografia su

Simmel, che fa del paesaggio il filo rosso per un percorso di


lettura dell’intera opera simmeliana, anche in relazione alla
sua influenza sulla generazione dei suoi allievi – Benjamin
Bloch e Lukács in particolare – per l’interpretazione dell’e-
sperienza moderna (L. Boella, Dietro il paesaggio. Saggio su
Simmel, Milano, Unicopli, 1988).
18 G. Simmel, Filosofia del paesaggio, cit, infra, p. 54.
19 Sulla concezione di Simmel del mondo naturale, nel

tentativo anche di ricollegarlo alle teorie e pratiche ecologi-


che moderne, si veda M. Gross, Unexpected Interactions.
Georg Simmel and the Observation of Nature, in «Journal of
Classical Sociology», Vol. 1, 3, 2001, pp. 395-414.
20 G. Simmel, Ponte e porta (1903), trad. it. in Saggi di este-

tica, cit., p. 3.
21 L’analisi di Simmel dell’esperienza di paesaggio deve

molto alla sua interpretazione dell’esperienza estetica in Kant


(cfr. G. Simmel, Kant. Sedici lezioni berlinesi (1904), trad. it.
Milano, Unicopli, 1986). Anche questo dovrebbe mostrare che
non si può certo relegare Simmel in una visione meramente
soggettivistica del paesaggio, come alcuni sostengono pur
continuando a utilizzare espressioni coniate dallo stesso Sim-
mel per esprimere il precario equilibrio di oggettivo e sog-
gettivo che il paesaggio rende visibile (Cfr. ad esempio P.
D’Angelo, Estetica della natura. Bellezza naturale, paesaggio,
arte ambientale, Roma-Bari, Laterza, 2001).
22 G. Simmel, Concetto e tragedia della cultura (1911-12),

trad. it. in Arte e civiltà, Milano, Isedi, 1976, p. 90.


23 G. Simmel, L’ansa del vaso (1911), trad. it. in La moda,

cit., p.101. Per una famosa critica a questo saggio si veda T.


Adorno, Manico, brocca e prima esperienza (1965), trad. it. in
Note per la letteratura 1961-1968, Torino, Einaudi, 1979.

44
simmel.a 6-12-2005 9:37 Pagina 45

Monica Sassatelli

24 Ecco perché «L’alba e il dipinto sono entrambi presenti


come realtà, ma mentre la prima trova il proprio valore sol-
tanto nel continuare a vivere in soggetti psichici, in ques’ulti-
mo, che ha già assorbito in sé una tale vita e le ha dato for-
ma in un oggetto, la nostra sensibilità per il valore si ferma
come in qualcosa di definitivo, che non ha bisogno di sog-
gettivazione.» (G. Simmel, Concetto e tragedia della cultura,
cit., p. 91).
25 B. Nedelmann, Erleben ed Erlebnis in Georg Simmel, in

V.E. Russo (a cura di), La questione dell’esperienza, Firenze,


Ponte alle Grazie, 1991, p.104. Nedelmann propone questa vi-
sione del pensiero di Simmel in particolare in riferimento a
Forme e giochi di società (1917), trad. it. Milano, Feltrinelli,
1983. Questa schematizzazione, che pure l’autrice si premura
di definire analitica, sembra pericolosa e potenzialmente sem-
plificatrice. Ad esempio, essa sembra fondamentale per le
conclusioni che Nedelmann e altri traggono a proposito del-
l’artificiosità e inautenticità delle esperienze contemporanee,
costruite appositamente, dalle industrie culturali e turistiche in
particolare, in cui il soggetto che esperisce viene sempre de-
scritto come totalmente passivo, mero imbuto interiorizzante;
conclusioni che non tengono conto della posizione assai me-
© ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.

no deterministica e univoca di Simmel, come mostra anche il


breve saggio Alpenreisen (vedi ultima sezione di questa in-
troduzione).
26 G. Simmel, I Paesaggi di Böcklin, cit., infra, p. XX (93)
27 Ibid.
28 E nonostante la sua tragedia, cfr. Concetto e tragedia

della cultura, cit.


29 Ibid., p. 85. Passaggi simili si ritrovano anche in Il con-

cetto di cultura (sezione di Filosofia del denaro, cit., pp. 630-


33); dove l’immagine è quella dell’albero selvatico e poi col-
tivato, paragonato al blocco di marmo grezzo da cui si ricava
la statua, senza che si possa dire che è stato coltivato, non es-
sendovi nel blocco nessuna tendenza intrinseca a divenire
statua. Nel saggio Vom Wesen der Kultur (1908, contenuto in
Brücke und Tür, Stuttgart, 1957) la metafora si specifica, arri-

45
simmel.a 6-12-2005 9:37 Pagina 46

Presentazione

vando a una formulazione assai simile a quella di Concetto e


tragedia della cultura: si parla già di un pero selvatico colti-
vato ad albero da frutto e di come questo non sia paragona-
bile al ricavare dal legno un albero maestro.
30 Cfr. G. Simmel, Vom Wesen del Kultur, cit.
31 G. Simmel, Filosofia del denaro, cit., p. 630.
32 In tedesco, come in molte altre lingue, non esiste una

distinzione tra coltura e cultura (entrambe Kultur), e quindi


nemmeno tra i loro derivati, come invece coltivato e colto in
italiano. È alla luce di questo che si comprende in che senso
Simmel afferma che «solo metaforicamente le cose imperso-
nali si possono definire coltivate» (Filosofia del denaro, cit., p.
631) e che parlandoci dell’albero innestato ha sempre conti-
nuato a pensare a questo come immagine dell’essere umano.
33 Sul significato che quindi assume il paesaggio come

«stratificazione della memoria», ossia dell’interazione tra natu-


ra e cultura, mostrandone la profonda commistione, e come
ciò non costituisca uno snaturamento o svilimento, ma anzi la
sua ragion d’essere si veda S. Schama, Paesaggio e memoria
(1995), trad. it. Milano, Arnoldo Mondadori, 1997.
34 Su questo tema fondamentale per l’analisi della società

dell’economia monetaria in Simmel si veda N. Squicciarino,


Introduzione: il fine non esclude i mezzi, in G. Simmel, Il de-
naro nella cultura moderna, Roma, Armando, 1998.
35 G. Simmel, Concetto e tragedia della cultura, cit., p. 101.
36 Ibid.
37 R. Bodei, Tempi e mondi possibili: arte, avventura, stra-

niero in Georg Simmel, in «Aut Aut», 1993, p. 65.


38 Si veda in particolare il saggio su Böcklin, infra. Chia-

ramente il punto non è questionare sul fatto che questi pae-


saggi raggiungano davvero questo ideale – e che il giudizio
in proposito sarà sempre un giudizio soggettivo, o meglio, in-
ter-soggettivo – ma aver individuato questa costellazione.
39 Si tratta di un tema baudelariano, ampiamente ripreso

in particolare da W. Benjamin (Di alcuni motivi in Baudelai-


re, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, Torino, Einaudi,
1984). Simmel si distacca tuttavia dalla condanna categorica

46
simmel.a 6-12-2005 9:37 Pagina 47

Monica Sassatelli

che in genere segue queste osservazioni: «per Simmel, nel


mondo della reificazione le cose non sono ridotte a pure ma-
schere […] È qui che si gioca l’attualità dell’idea simmeliana
della cultura moderna come fortemente produttiva, capace di
liberare nella tensione che la caratterizza figure dell’ombra,
immagini, forme della sensibilità non certo ridotte a intimi-
smo, ma frutto dell’elaborazione attiva di una realtà fram-
mentaria» (L. Boella, Dietro il paesaggio, cit., p. 20.). Sulla
questione del carattere intimistico, o meno, dell’esperienza
moderna, si veda anche l’ultima sezione di questa introduzio-
ne.
40 Simmel era piuttosto scettico riguardo ai risultati di mo-

vimenti artistici miranti all’espressione «spontanea» e imme-


diata, come l’espressionismo, senza però negare che questi
fossero mossi «da un impulso vitale assolutamente positivo»
(G. Simmel, Il conflitto della cultura moderna (1918), in Il
conflitto della cultura moderna e altri saggi, Roma, Bulzoni,
1976, p.108).
41 G. Simmel, Roma (1898), trad. it. (parziale) in M. Cac-

ciari (a cura di), Metropolis. Saggi sulla grande città di Som-


bart, Endell, Scheffler e Simmel, Roma, Officina, 1973, p. 189.
Questo testo contiene anche traduzioni dei saggi Firenze
© ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.

(1906) e Venezia (1907), anch’esse parziali.


42 Si veda a questo proposito in particolare D. Solies, Na-

tur in der Distanz. Zur Bedeutung von Georg Simmels Kul-


turphilosophie für die Landschaftsästhetik, St. Augustin, Gar-
dez Verlag, 1998.
43 G. Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, cit., p. 41.
44 Sia lungo la direttrice dentro-fuori (come appunto lo

straniero, ma anche il povero, e la società segreta) che quel-


la sopra-sotto (dominazione e subordinazione, l’aristocratico
e il borghese). Cfr. D. Levine, The Structure of Simmel’s Social
Social Thought, in K. Wolff (a cura di), Georg Simmel 1858-
1918, Columbus, Ohio State University Press, 1958; M.S. Da-
vis, Georg Simmel and the Aesthetics of Social reality, in «So-
cial forces», Vol. 53, 1973, pp. 320-29.
45 L’elevazione della distanza a fine in sé è tema che Sim-

47
simmel.a 6-12-2005 9:37 Pagina 48

Presentazione

mel sviluppa a partire da Nietzsche. Sulla relazione tra il pen-


siero dei due autori, in particolare riguardo al «pathos della di-
stanza», si veda K. Lichtblau, Das «Pathos der Distanz». Präli-
minarien zur Nietzsche-rezeption bei Georg Simmel, in H.J.
Dahme e O. Rammstedt (a cura di), Georg Simmel und die
Moderne, Frankfurt, Suhrkamp,1984.
46 A. Dal Lago ha scritto che «Se il mondo sociale si pre-

senta come un paesaggio, in cui profondità, prospettive, to-


nalità di luce, singole figure e contorni mutano relativamente
alla posizione dell’osservatore, anche la figura principale in
campo, l’attore, è esposta alla mutevolezza delle immagini»
(A. Dal Lago, Introduzione, in G. Simmel Forme e giochi di
società, cit., p.23). Dal Lago sottolinea come non si tratti solo
di una questione di metodo appunto (relativa all’unità di ana-
lisi che la distanza dell’osservatore consente di cogliere), ma
riflette una visione in cui l’individuo «è divenuto un oggetto
divisibile […] è il prodotto passivo dell’intersezione delle cer-
chie sociali» (Ibid.). Eppure, sviluppando la metafora del pae-
saggio – che è assai più di questo – si può notare che l’indi-
viduo non è affatto al suo interno, anzi suo è lo sguardo che
fa nascere il paesaggio, rendendo molto meno perentoria e
definitiva la sua passività.
47 G. Simmel, Filosofia del denaro, cit., p. 668.
48 G. Simmel, Berliner Gewerbeausstellung, in «Die Zeit» 7,

1896, p. 204; trad. mia.


49 G. Simmel, Filosofia del denaro, cit., pp. 670-71.
50 Ibid., p. 673.
51 Sulla storia del concetto di esperienza, in particolare per

il rapporto tra le due accezioni di Erfahrung, l’esperienza ac-


cumulata della tradizione (l’esperienza che si ha) ed Erlebnis,
l’esperienza vissuta (quella che si fa), e sul progressivo pre-
valere della seconda sulla prima in molte analisi della moder-
nità, si veda P. Jedlowski, Il sapere dell’esperienza, Milano, Il
Saggiatore, 1994.
52 G. Simmel, L’avventura, cit., p. 15.
53 G. Simmel, Filosofia del denaro, cit., p. 662.
54 Vedi G. Simmel, I paesaggi di Böcklin, cit., infra p. 98-99.

48
simmel.a 6-12-2005 9:37 Pagina 49

Monica Sassatelli

55 Il tema dell’esperienza moderna come interiorizzata e


quindi del moderno in generale come psicologismo come
chiave di lettura del pensiero simmeliano si deve in gran par-
te all’interpretazione di David Frisby, uno dei protagonisti del
revival simmeliano inglese. Frisby si sofferma in particolare su
un passaggio del saggio Rodin (1911), poi ripetutamente ci-
tato, spesso decontestualizzato, nella letteratura secondaria:
«L’antica plastica cercava, per così dire, la logica del corpo,
Rodin ne cerca la psicologia. Perché l’essenza del moderno è
lo psicologismo, il vivere e lo spiegare il mondo in base alle
reazioni della nostra interiorità, intendendolo propriamente
come un mondo interiore, la dissoluzione dei contenuti saldi
nell’elemento fluido dell’anima, che viene depurata da ogni
istanza e le cui forme sono soltanto forme di movimenti» (G.
Simmel, Rodin, trad, it. in Il volto e il ritratto, cit. p. 213). Col-
locato nell’ambito dell’intera riflessione simmeliana in mate-
ria, ed in particolare quanto contenuto nella parte finale di Fi-
losofia del denaro, il senso di quel passaggio appare tuttavia
assai poco univoco. Lo stesso saggio su Rodin, che contiene
anche un accenno al paesaggio come propriamente moderno
in quanto espressione di un état d’âme in cui la varietà dei
frammenti prevale sulla struttura formale totalizzante, si chiu-
© ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.

de affermando che l’opera di Rodin «Facendoci vivere ancora


una volta la nostra vita più profonda nella sfera dell’arte ci li-
bera proprio dal modo in cui la viviamo nella sfera della real-
tà» (Ibid., p. 215).
56 Cfr. P. Jedlowski, Il sapere dell’esperienza, cit., e M. Ber-

man, L’esperienza della modernità (1982), Bologna, Il Mulino,


1985.
57 G. Simmel, Il conflitto della cultura moderna, cit., p.

134.
58 Basti pensare alla recente Convenzione Europea del

Paesaggio ad opera del Consiglio d’Europa (entrata in vigore


a marzo 2004), sintomo e a sua volta fattore di un’accresciu-
ta attenzione non solo accademica. Da notare che la Conven-
zione si basa su una concezione piuttosto articolata di pae-
saggio come realtà che necessita di una percezione consape-

49
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Presentazione

vole e che a sua volta può giocare un ruolo importante nella


costruzione delle identità, rendendo evidente quanto sia ne-
cessaria una più marcata presenza dell’approccio delle scien-
ze sociali negli studi sul paesaggio, anche a partire da una ri-
scoperta dei saggi di Simmel.
59 Il riferimento è agli studi sulla cultura di massa e più re-

centemente sulle pratiche turistiche e del tempo libero in ge-


nerale, solitamente descritte nei termini di esperienze super-
ficiali e manipolate dall’«economia dell’esperienza» (J. Rifkin,
L’era dell’accesso, Milano, Mondadori, 2000). La questione,
chiaramente, non è quella di un aut aut, ma piuttosto la ca-
pacità, come quella dispiegata dall’impostazione simmeliana,
di cogliere tendenze e significati opposti all’interno di uno
stesso fenomeno.
60 G. Simmel, Alpenreisen, in «Die Zeit», 4, 1895, pp. 22-

24; trad. mia.

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GEORG SIMMEL

Saggi sul paesaggio

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Filosofia del paesaggio

Infinite volte il cammino ci porta attraverso la li-


bera natura e percepiamo, con i più diversi gradi
d’attenzione, alberi e acque, prati e campi di grano,
colline e case, e tutti i mille cambiamenti della luce
e delle nuvole – ma, per il fatto che osserviamo que-
sti singoli particolari o anche vediamo insieme que-
sto e quello di loro, non siamo ancora convinti di ve-
dere un «paesaggio». Anzi, un tale singolo contenuto
del campo visivo non può continuare ad avvincere i
nostri sensi. La nostra coscienza ha bisogno di una
nuova totalità, unitaria, che superi gli elementi, sen-
© ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.

za essere legata ai loro significati particolari ed esse-


re meccanicamente composta da essi – questo sol-
tanto è il paesaggio. Se non mi inganno, raramente
si è capito che il paesaggio non è ancora dato quan-
do cose di ogni specie si estendono, una accanto al-
l’altra, su un pezzo di terra e vengono viste imme-
diatamente insieme. Cercherò di spiegare qui, a par-
tire da alcune delle sue premesse e delle sue forme,
il vero e proprio processo spirituale che solo trasfor-
ma tutto questo e produce il paesaggio.
Innanzitutto: il fatto che le cose visibili su un pez-
zo di terra siano «natura» – certo insieme alle opere
dell’uomo, che tuttavia si inquadrano nella natura – e

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Saggi sul paesaggio

non tratti di strada con grandi magazzini e automobi-


li, non fa ancora di questo pezzo di terra un paesag-
gio. Per natura intendiamo l’infinita connessione delle
cose, l’ininterrotta nascita e distruzione delle forme,
l’unità fluttuante dell’accadere, che si esprime nella
continuità dell’esistenza temporale e spaziale. Se defi-
niamo natura un elemento della realtà, intendiamo ri-
ferirci ad una sua qualità interna, alla sua differenza ri-
spetto all’arte e ai prodotti artificiali, all’ideale e alla
storia; oppure al fatto che la sua funzione è di rap-
presentare e simboleggiare quella totalità dell’essere,
la cui corrente sentiamo rumoreggiare nell’elemento.
«Un pezzo di natura» è, propriamente, una contraddi-
zione interna; la natura non ha parti, è l’unità di una
totalità e nell’attimo in cui ne viene separato qualco-
sa, non è più in assoluto natura, proprio perché può
essere «natura» solo all’interno di quell’unità priva di
contorni, come onda di quella corrente totale.
Per il paesaggio, invece, è assolutamente essen-
ziale la delimitazione, l’essere compreso in un oriz-
zonte momentaneo o durevole; la sua base materia-
le o le sue singole parti possono avere semplice-
mente il valore di natura, ma, rappresentate come
«paesaggio», richiedono un essere-per-sé che può es-
sere ottico, estetico, legato a uno stato d’animo, re-
clamano un rilievo individuale e caratteristico, ri-
spetto a quell’unità indissolubile della natura, nella
quale ogni pezzo può essere soltanto il punto di pas-
saggio delle forze universali dell’esistenza. Vedere un
pezzo di terra con quel che ci sta sopra come un
paesaggio, significherebbe considerare una sezione
della natura come unità specifica – il che si allonta-
na completamente dal concetto di natura.

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Georg Simmel

L’atto spirituale, con il quale l’uomo forma una


cerchia di fenomeni nella categoria «paesaggio», mi
sembra il seguente: una visione in sé compiuta, sen-
tita come unità autosufficiente, ma intrecciata tuttavia
con qualcosa di infinitamente più esteso, fluttuante,
compreso in limiti che non esistono per il sentimen-
to – proprio di uno strato più profondo – dell’unità
divina, della totalità naturale. Da questo sentimento i
confini autonomi di ogni paesaggio vengono conti-
nuamente sfiorati e allentati, e il paesaggio, benché
separato e indipendente, viene continuamente spiri-
tualizzato dall’oscura coscienza di questa connessio-
ne infinita. Anche l’opera dell’uomo esiste come
struttura obiettiva, autonoma e tuttavia resta intrec-
ciata, in modo difficilmente esprimibile con tutta l’a-
nima, con tutta la vitalità del suo autore, vi ha la pro-
pria sorgente e ne è sensibilmente pervasa. La natu-
ra, che nel proprio essere e nel proprio senso pro-
fondo, ignora l’individualità, viene trasformata nella
individualità del «paesaggio» dallo sguardo dell’uo-
© ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.

mo, che divide e configura in forma di unità distinte


ciò che ha diviso.
Si è spesso sostenuto che l’autentico «sentimento
della natura» è nato solo nell’epoca moderna, deri-
vandolo dal suo lirismo, dal romanticismo, ecc.; non
senza superficialità, mi sembra. Proprio le religioni
più primitive mi sembrano infatti rivelare un senti-
mento particolarmente profondo della «natura». È so-
lo la sensibilità per la particolare forma «paesaggio»
che si è sviluppata tardi, e proprio perché la crea-
zione del paesaggio richiedeva una lacerazione ri-
spetto al sentimento unitario della natura universale.
L’individualizzazione delle forme interiori ed esterio-

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Saggi sul paesaggio

ri dell’esistenza, la dissoluzione dei legami originari


e delle unioni in entità particolari differenziate, que-
sta grande formula del mondo successivo al Medioe-
vo ci ha anche fatto vedere per la prima volta il pae-
saggio nella natura. Nessuna meraviglia che l’antichi-
tà e il Medioevo non avessero il senso del paesaggio;
l’oggetto stesso non aveva ancora quel netto caratte-
re spirituale e quell’indipendente struttura formale, il
cui guadagno finale in seguito fu rafforzato e, per co-
sì dire, capitalizzato dalla nascita della pittura di pae-
saggio.
Che la parte divenga un tutto indipendente, di-
ventando troppo grande per l’intero cui apparteneva
e pretendendo particolari diritti rispetto ad esso, è
forse la più radicale tragedia dello spirito, che nell’e-
poca moderna ha raggiunto il massimo effetto, arro-
gandosi la direzione del processo culturale. Dalla
molteplicità delle relazioni nella cui trama son com-
presi gli uomini, i gruppi, le strutture, si leva contro
di noi quel dualismo provocato dal fatto che il sin-
golo desidera essere una totalità, mentre la sua ap-
partenenza ad una totalità più grande gli concede
soltanto un ruolo secondario. Noi sperimentiamo il
nostro centro contemporaneamente fuori di noi e in
noi, perché noi stessi, e la nostra opera, siamo meri
elementi di totalità che richiedono una specializza-
zione unilaterale in conformità alla divisione del la-
voro, mentre noi vogliamo essere e creare qualcosa
di compiuto e indipendente.
Mentre sulla base di questo motivo si profilano
infinite lotte e lacerazioni nell’ambito della società e
della tecnica, dello spirito e della morale, la stessa
forma produce in rapporto alla natura la ricchezza e

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Georg Simmel

la conciliazione espresse dal paesaggio, che pur es-


sendo qualcosa di individuale, di chiuso, di pago, re-
sta legato senza contraddizioni alla natura e alla sua
unità. Anche se è innegabile che il «paesaggio» sorge
solo quando la vita pulsante nella visione e nel sen-
timento si strappa dall’unità della natura, e la struttu-
ra particolare così creata si apre nuovamente, per co-
sì dire da se stessa, a quella della vita totale, acco-
gliendo nei propri confini inviolati l’illimitato.
Quale legge, continuiamo tuttavia a chiederci, de-
termina questa scelta e questa composizione? Perché
ciò che abbracciamo con uno sguardo o all’interno
del nostro orizzonte momentaneo non è ancora pae-
saggio, ma tutt’al più materiale per esso – come una
quantità di libri accatastati non è «una biblioteca», ma
lo diventa piuttosto, senza che se ne aggiunga o se
ne tolga alcuno, solo quando un concetto unificante
li ordina secondo il proprio criterio formale. Tuttavia,
la formula inconscia, ma efficace, che produce il
paesaggio come tale, non si può dimostrare altret-
© ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.

tanto semplicemente, anzi, in linea di principio, non


si può dimostrare affatto. Il materiale del paesaggio,
quale è fornito dalla mera natura, è così infinitamen-
te molteplice e variabile volta per volta, che anche i
punti di vista e le forme, che nel singolo caso pro-
ducono con questi elementi l’unità dell’impressione,
saranno molto vari.
Mi sembra che la via per giungere perlomeno a
dei valori approssimativi, conduca al di là del pae-
saggio come opera d’arte della pittura. Infatti la com-
prensione del nostro problema si collega allo svilup-
po del seguente motivo: il paesaggio come opera
d’arte sorge come continuazione, intensificazione e

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Saggi sul paesaggio

purificazione del processo in cui il paesaggio, nel


senso linguistico abituale, sorge in tutti noi dalla me-
ra impressione di singole cose della natura. Quel che
fa l’artista: delimitare nella corrente caotica e nell’in-
finità del mondo immediatamente dato una parte,
concepirla e formarla come un’unità, che ora trova il
proprio senso in se stessa, tagliando i fili che la col-
legano al mondo e riallacciandoli nel proprio punto
centrale – proprio questo facciamo anche noi, in mi-
sura minore e con meno coerenza, in modo fram-
mentario e con limiti incerti, non appena invece di
un prato, di una casa, di un ruscello, di un movi-
mento delle nuvole, vediamo un «paesaggio».
Si manifesta qui una delle più profonde determi-
nazioni di tutta la vita spirituale e della sua produtti-
vità. Tutto ciò che chiamiamo cultura contiene una
serie di strutture dotate di legge propria, che con au-
tosufficiente purezza si sono poste al di là della vita
quotidiana, della trama complessa della vita pratica e
soggettiva; intendo dire la scienza, la religione, l’arte.
Certo, esse possono pretendere di venir coltivate e
comprese in base alle proprie idee e alle proprie
norme, esistenti di per sé, separate dalla torbidezza
della vita accidentale. Nondimeno c’è anche un’altra
via per la loro comprensione, o meglio, una via per
una loro diversa comprensione. Vale a dire che la vi-
ta empirica, e quindi non quella, per così dire, in li-
nea di principio, contiene continui accenni ed ele-
menti di quelle strutture, che dalla vita si staccano per
tendere verso quel loro sviluppo autonomo, che si
cristallizza soltanto intorno alla propria idea. Non,
dunque, come se tutte queste sfere creatrici dello spi-
rito esistessero separatamente, e la nostra vita, che

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Georg Simmel

scorre guidata da determinati istinti e da determinate


mete, si impadronisse di alcune loro sezioni e le adat-
tasse a sé. Non è questo, che pure accade di conti-
nuo, che si intende qui, ma il fenomeno inverso.
Si può dire che la vita produca nel suo corso con-
tinuo sentimenti e i tipi di comportamento, che de-
vono essere chiamati religiosi, benché non vengano
assolutamente vissuti in base al concetto della reli-
gione e non gli appartengano: l’amore e le impres-
sioni della natura, gli slanci ideali e l’abnegazione
verso le più ampie e le più ristrette comunità dell’u-
manità, hanno abbastanza spesso questa coloritura,
che tuttavia non viene irradiata da una «religione» de-
finita in modo autonomo e compiuto. La religione, in-
vece, sorge in quanto questo elemento particolare,
concresciuto con tutti i vissuti e codeterminante il
modo del loro venir vissuti si pone in rilievo fino a
giungere ad esistenza indipendente, abbandona il lo-
ro contenuto, si condensa con un autonomo atto di
creazione nelle pure strutture che ne sono espressio-
© ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.

ne: nelle divinità. Ed è del tutto indipendente da ciò


quale verità e significato possiedano ora queste strut-
ture nella loro vita particolare, separate da tutte quel-
le forme preliminari. La religiosità, nella cui tonalità
particolare viviamo infiniti sentimenti e destini, non
deriva – o deriva, per così dire solo successivamente
– dalla religione come particolare ambito della tra-
scendenza; al contrario, è la religione che si sviluppa
da quella religiosità, nella misura in cui la religiosità
si crea da sé dei contenuti, invece di limitarsi a for-
mare o a caratterizzare quelli che le vengono asse-
gnati dalla vita o che sono ulteriormente intrecciati
nella vita.

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Saggi sul paesaggio

Con la scienza non è diverso. I suoi metodi e le


sue norme, nonostante tutta la loro imperturbata al-
tezza e la loro intatta sovranità, sono pur sempre le
forme del conoscere quotidiano divenute autonome e
giunte a un potere assoluto. Certo, queste prime for-
me sono semplici mezzi della prassi, elementi utili, ma
in qualche modo accidentali, intrecciati con tanti e
tanti altri alla totalità empirica della vita; nella scienza,
invece, il conoscere è diventato fine a se stesso, è un
regno dello spirito amministrato secondo una propria
legislatura – ma, nonostante lo straordinario sposta-
mento di centro e di senso, si tratta soltanto del sape-
re disperso nella vita e nel mondo quotidiano che ha
acquisito purezza e carattere di principio.
Invece di basarsi sulla banalità illuministica che
vuole assemblare le province ideali del valore rica-
vandole dalle bassure della vita: la religione dalla
paura, dalla speranza e dall’ignoranza, la conoscen-
za dalle accidentalità sensibili e utili soltanto nel-
l’ambito del sensibile – varrebbe piuttosto la pena di
considerare che delle energie determinanti della vita
fanno parte a priori quelle ideali; e solo nella misu-
ra in cui, invece di adeguarsi al materiale estraneo,
diventano legislatrici dei propri regni, creatrici di
contenuti propri, i nostri ambiti di valore si svilup-
pano intorno alla purezza della loro rispettiva idea.
Questa è, del pari, la formula essenziale dell’arte.
È completamente assurdo farla derivare dall’istinto di
imitazione, dall’impulso al gioco o da altre fonti psi-
cologiche estranee, che possono certo mescolarsi alla
sua pura fonte e codeterminarne l’espressione: in
quanto arte, l’arte può derivare soltanto dalla dinami-
ca artistica. Non come se avesse inizio con il prodot-

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Georg Simmel

to artistico finito. L’arte deriva dalla vita – ma solo per-


ché e in quanto la vita, nel modo in cui viene vissuta
quotidianamente e dovunque, contiene quelle forze
formatrici il cui puro sviluppo, divenuto indipendente
e in grado di determinare di per sé il proprio oggetto,
si chiamerà poi arte. Certamente non interviene alcun
concetto di «arte» nei discorsi quotidiani dell’uomo o
nei gesti con cui si esprime, o quando la nostra visio-
ne dà forma ai suoi elementi secondo un proprio sen-
so ed una propria unità. Ma in questi fenomeni sono
presenti e attivi dei modi di dar forma che, in un cer-
to senso successivamente, dobbiamo chiamare artisti-
ci; se infatti, nella legalità che è loro propria, separati
dall’intreccio delle loro funzioni nella vita, formano un
oggetto per sé, che è soltanto il loro prodotto, allora
questo è, appunto, un’«opera d’arte».
Solo per quest’ampia via si giustifica la nostra in-
terpretazione del passaggio a partire dai fondamenti
ultimi della nostra formazione dell’immagine del
mondo. Dove effettivamente vediamo un paesaggio
© ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.

e non più una somma di singoli oggetti naturali, ab-


biamo un’opera d’arte nel momento del suo nascere.
Se capita tanto spesso, proprio nei confronti di im-
pressioni di paesaggio, di sentir dire che si vorrebbe
essere pittori per fissarne l’immagine, quest’esclama-
zione non esprime certo soltanto il desiderio di fis-
sare un ricordo, desiderio che potrebbe verosimil-
mente indirizzarsi a tante altre impressioni di tipo di-
verso. Con quella visione la forma artistica, pur vi-
vendo in noi in modo embrionale, ha acquistato for-
za, ma, incapace di giungere ad una creazione pro-
pria, vibra perlomeno nel desiderio, nel preludio in-
teriore di un tale atteggiamento creativo.

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Saggi sul paesaggio

Che in generale le nostre possibilità figurative sia-


no stimolate a giungere alla loro realizzazione dal
paesaggio piuttosto che dalla visione di individui
umani, ha delle motivazioni. Innanzitutto il paesag-
gio ci sta di fronte ad una distanza che è fonte di
obiettività, e giova all’atteggiamento artistico – una
distanza non così facilmente e immediatamente rag-
giungibile nella visione dell’uomo. Qui ci sono d’im-
paccio le inclinazioni soggettive determinate dalla
simpatia o dall’antipatia, gli intrecci pratici e soprat-
tutto quei presentimenti a cui spesso non si fa gran
caso e che riguardano il possibile significato di un
uomo se divenisse un fattore della nostra vita – sen-
sazioni evidentemente molto oscure e complesse,
che tuttavia mi sembrano decidere del nostro modo
di considerare anche l’individuo più estraneo.
Alla difficoltà di prendere tranquillamente le di-
stanze dall’immagine dell’uomo, difficoltà palese se
la si paragona alla situazione che si verifica nei con-
fronti dell’immagine del paesaggio, si aggiunge quel
che si potrebbe chiamare la resistenza che l’immagi-
ne umana oppone al processo di configurazione ar-
tistica. Elementi di paesaggio il nostro sguardo può
coglierli ora in questo, ora in quel raggruppamento,
può spostare spesso gli accenti tra loro, far variare
centro e confini. Ma la struttura umana è determi-
nante di per se stessa, ha realizzato con le proprie
forze la sintesi intorno al proprio centro, e in questo
modo si delimita con assoluta chiarezza. Pertanto,
già nella sua forma naturale, si avvicina in qualche
modo all’opera d’arte, e questa può essere la causa
per cui, da uno sguardo poco esercitato, la fotogra-
fia di una persona può essere confusa con quella del

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Georg Simmel

suo ritratto più facilmente di quanto la foto di un


paesaggio possa essere confusa con la riproduzione
del dipinto di un paesaggio. La nuova formazione
della figura umana nell’opera d’arte è certo indiscu-
tibile; ma essa deriva, per così dire immediatamente,
dalla datità di questa figura, mentre prima del dipin-
to di un paesaggio c’è ancora uno stadio intermedio:
la formazione degli elementi di natura in «paesaggio»
nel senso usuale del termine, formazione in cui do-
vettero già cooperare categorie artistiche, e che dun-
que, in questa misura, si trova già sulla via dell’ope-
ra d’arte, ne rappresenta la prefigurazione. Le norme
della sua realizzazione possono perciò venir com-
prese sulla base dell’opera d’arte, che è la conse-
guenza pura, divenuta autonoma di queste norme.
Certo, lo stato attuale della nostra estetica a stento
consentirà di far qualcosa di più che stabilire questi
elementi di principio. Poiché le regole che la pittura
di paesaggio ha stabilito per la scelta dell’oggetto e
del punto di vista, per la luce e l’illusione spaziale,
© ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.

per la composizione e l’armonia dei colori, si potreb-


bero senz’altro indicare, ma esse riguardano, per co-
sì dire, quel tratto dello sviluppo svolgentesi dalla pri-
ma singolare impressione della cosa fino al quadro
del paesaggio, tratto che si trova al di là dello stadio
della visione generale del paesaggio. Ciò che condu-
ce fino a questo stadio, da quelle regole è accettato e
dato per scontato, e perciò, benché si trovi nella stes-
sa direzione del processo di configurazione artistica,
non può essere dedotto da esse, che costituiscono le
norme del fatto artistico in senso stretto.
Certo, uno di questi motivi di formazione impone
la profondità della sua problematica in un modo che

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Saggi sul paesaggio

non è affatto trascurabile. Il paesaggio, diciamo noi,


sorge in quanto alcuni fenomeni naturali, che si
estendono l’uno accanto all’altro, vengono raccolti in
un particolare tipo di unità, un’unità diversa da quel-
la in cui questo campo visivo si costituisce per il dot-
to che pensa secondo il principio di causalità, l’ado-
ratore della natura dotato di sensibilità religiosa, l’a-
gricoltore o lo stratega che perseguono i loro fini. Il
più rilevante fondamento di questa unità è certo ciò
che chiamiamo «Stimmung»1 del paesaggio. Infatti,
come intendiamo per Stimmung di un uomo il quid
unitario, che continuamente o provvisoriamente tin-
ge la totalità dei suoi singoli contenuti spirituali, sen-
za essere in se stesso qualcosa di singolo, quel quid
che, pur non essendo collegato in modo preciso al
particolare, è tuttavia l’universale in cui tutti i parti-
colari si incontrano – così la Stimmung del paesag-
gio pervade tutti i suoi singoli elementi, spesso sen-
za che si possa stabilire quali di essi ne sia la causa;
in un modo difficilmente definibile ciascuno ne fa
parte – ma essa non esiste al di fuori di questi ap-
porti, né è composta da essi.
Questa particolare difficoltà nel localizzare la to-
nalità spirituale di un paesaggio continua, in uno
strato più profondo, con la domanda: in quale misu-
1Stimmung è parola «intraducibile», per l’ampiezza e le
sfumature del suo campo semantico. Simmel cerca di preci-
sarne il senso in rapporto al paesaggio. È stata resa perciò in
modi lievemente diversi (tonalità spirituale, stato d’animo,
sentimento, atmosfera) a seconda del contesto, ma non è sta-
ta tradotta quando il contesto aveva la funzione diretta di
spiegarla, o quando tradurla significava distruggerne comple-
tamente il fascino e il valore evocativo.

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Georg Simmel

ra la tonalità spirituale del paesaggio ha il proprio


fondamento oggettivo in se stessa, dato che è pur
sempre una condizione spirituale, e può quindi tro-
varsi solo nel sentimento riflesso dell’osservatore, e
non nelle cose esterne, prive di coscienza? Questi
problemi si incrociano con l’oggetto specifico del
nostro interesse: se la tonalità spirituale è un mo-
mento essenziale, o forse il momento essenziale che
traduce la frammentarietà degli elementi del paesag-
gio in un sentimento di unità – ci si chiede come
questo sia possibile dal momento che il paesaggio
possiede una «tonalità spirituale» solo quando viene
visto come un’unità, e non prima, nella mera somma
di elementi disparati.
Queste difficoltà non sono inventate, ma inevita-
bili, sono difficoltà che si presentano, come in mol-
tissimi altri casi dello stesso tipo, non appena il sem-
plice vissuto, in se stesso indiviso, viene scisso in
elementi dal pensiero e deve venir compreso solo at-
traverso i rapporti e le connesioni di questi elemen-
© ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.

ti. Ma forse proprio questa considerazione può aiu-


tarci a proseguire. Infatti, non potrebbero in realtà la
tonalità spirituale del paesaggio e la sua unità visi-
va esser una sola cosa, soltanto vista da due lati? Es-
sere cioè entrambe lo stesso mezzo (solo esprimibi-
le in due modi) mediante il quale di un accostamen-
to di parti la visione dell’anima fa appunto il pae-
saggio, creando di volta in volta questo passaggio
determinato? Questo atteggiamento non sarebbe del
tutto privo di analogie. Quando amiamo qualcuno,
crediamo di possedere già la sua immagine compiu-
ta, a cui poi si indirizza il sentimento. In realtà, la
persona amata non viene mai vista obiettivamente; la

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Saggi sul paesaggio

sua immagine nasce insieme all’amore, e proprio chi


ama non saprebbe dire se il trasformarsi dell’imma-
gine abbia provocato l’amore, o l’amore abbia pro-
vocato questa trasformazione. È come quando ri-
creiamo in noi il sentimento che si trova in una poe-
sia lirica. Se questa sensazione non fosse immediata-
mente presente nelle parole che recepiamo, esse
non rappresenterebbero una poesia, ma una banale
comunicazione – e, d’altra parte, se non le recepissi-
mo interiormente come una poesia, non potremmo
far vivere quel sentimento dentro di noi.
Detto questo, la domanda se venga prima la no-
stra rappresentazione unitaria della cosa o il senti-
mento che l’accompagna, è evidentemente mal po-
sta. Non esiste, tra loro, un rapporto di causa ed ef-
fetto; entrambi, invece, potrebbero valere sia come
causa che come effetto. Così, l’unità che il paesaggio
realizza come tale, e lo stato d’animo che si origina
dal paesaggio e con il quale lo percepiamo, sono so-
lo la scomposizione successiva di un solo atto spiri-
tuale.
In questo modo si apre uno spiraglio di luce nel-
l’oscurità del problema precedentemente accennato:
con quale diritto la Stimmung, che è esclusivamente
un processo psichico umano, è una proprietà del
paesaggio, cioè di un complesso di cose facenti par-
te della natura inanimata? Questo diritto sarebbe il-
lusorio se davvero il paesaggio consistesse soltanto
in un accostamento di alberi e colline, corsi d’acqua
e pietre. Ma il paesaggio è già una forma spirituale,
non si può toccarlo all’esterno o camminarci attra-
verso, vive solo in grazia della forza unificatrice del-
l’anima, come intreccio del dato con la nostra creati-

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Georg Simmel

vità, una trama che non è esprimibile con un para-


gone meccanico. In quanto il paesaggio possiede tut-
ta la sua oggettività di paesaggio all’interno della sfe-
ra d’azione della nostra attività formatrice, lo stato
d’animo, che è una particolare espressione o una
particolare dinamica di questa attività, ha la propria
piena oggettività in esso.
Forse che nella poesia lirica il sentimento non è
una realtà indubbia, indipendente da ogni arbitrio e
umore soggettivo come il ritmo e la rima stessa, an-
che se nessuna traccia di questo sentimento è repe-
ribile nelle singole parole, che il processo naturale di
formazione linguistica ha prodotto per così dire sen-
za rendersene conto e nella cui sequenza la poesia
consiste esteriormente? Ma è proprio perché la poe-
sia, essendo appunto questa formazione obiettiva, è
già un prodotto dello spirito, che il sentimento è una
formazione obiettiva è tanto poco separabile da
quella realtà, quando il tono con il quale le oscilla-
zioni delle particelle d’aria divengono realtà effettiva
© ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.

in noi, è separabile da esse una volta che abbiano


raggiunto il nostro orecchio.
Come Stimmung non può venir inteso nessuno
dei concetti astratti, a cui per amor di definizione ri-
portiamo il carattere generale di disposizioni d’animo
e atmosfere molto varie: diciamo che il paesaggio è
sereno o triste, eroico o monotono, tempestoso o
melanconico, lasciando in questo modo che il fluire
della tonalità spirituale, che gli è immediatamente
propria, si dislochi in uno altro strato, che è anche
spiritualmente secondario, e che della vita originaria
conserva soltanto gli echi aspecifici. Invece ciò che
qui si intende per tonalità spirituale di un paesaggio

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Saggi sul paesaggio

è assolutamente e soltanto la tonalità di questo pae-


saggio, e non può mai essere quella di un altro, an-
che se forse si possono raggruppare entrambe sotto
un concetto generale, per esempio sotto quello del-
la malinconia. Tali tonalità spirituali tipiche nella lo-
ro delimitazione concettuale si possono certo attri-
buire al paesaggio una volta che sia stato già defini-
to; ma la Stimmung che gli è immediatamente pro-
pria e che con il mutamento di qualsiasi linea diven-
terebbe diversa, gli è connaturata, è indissolubil-
mente legata al sorgere della sua unità formale.
Fa parte dei comuni errori che ostacolano la com-
prensione delle arti figurative, anzi della visibilità in
generale, il fatto che si cerchi la tonalità spirituale del
paesaggio soltanto in quei concetti generali di senti-
menti letterari e lirici.
La tonalità spirituale realmente e individualmente
propria di un paesaggio non si può definire con tali
astrazioni, come non può essere descritta con con-
cetti la sua visibilità stessa. Seppure la tonalità spiri-
tuale non fosse altro che il sentimento suscitato dal
paesaggio nell’osservatore, anche questo sentimento
nella sua reale determinatezza sarebbe legato esclu-
sivamente a questo preciso paesaggio, senza possi-
bilità di sostituzioni, e solo cancellando l’immedia-
tezza e la realtà del suo carattere, potrei riportarlo al
concetto universale del malinconico o del lieto, del
triste o del tempestoso.
In quanto dunque la tonalità spirituale significa il
carattere generale di questo paesaggio, quel caratte-
re, cioè, che non è fissato in nessun singolo elemen-
to di questo paesaggio, ma non l’elemento generale
di molti paesaggi, la tonalità spirituale e il farsi di

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Georg Simmel

questo paesaggio, cioè la formazione unitaria di tut-


ti i suoi singoli elementi, possono definirsi come un
solo e medesimo atto, come se le molteplici facoltà
della nostra anima, quelle visive e quelle del senti-
mento, esprimessero ciascuna nel suo tono, all’uni-
sono, la medesima parola. Quando, come nei con-
fronti del paesaggio, l’unità dell’essere naturale cerca
di inserirci nella sua trama, la scissione in un Io che
vede e in un Io che «sente» si dimostra doppiamente
sbagliata. Di fronte al paesaggio siamo uomini interi,
sia di fronte al paesaggio naturale che a quello che
è divenuto artistico, e l’atto che lo crea per noi è, im-
mediatamente, un atto della visione e un atto del
sentimento, scisso in queste due parti separate solo
dalla riflessione successiva. L’artista è solo colui che
compie quest’atto di formazione del vedere e del
sentire con tale purezza e forza da assorbire com-
pletamente in sé la materia data dalla natura, ri-
creandola in se stesso. Mentre noi restiamo più lega-
ti a questa materia e siamo soliti percepire ancora
© ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.

questo e quell’elemento particolare, l’artista vede e


forma solo «paesaggio».

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Le rovine

La grande lotta tra la volontà dello spirito e la ne-


cessità della natura è pervenuta ad una pace effetti-
va, in cui la tensione tra l’anima che tende verso l’al-
to e la gravità che tende verso il basso è arrivata ad
un preciso equilibrio, in un’unica arte: l’architettura.
Nella poesia, nella pittura, nella musica, la materia,
con le sue leggi proprie, deve servire muta l’ispirazio-
ne artistica; questa ha assorbito in sé nell’opera com-
piuta la materia, rendendola come invisibile. Perfino
nella scultura il tangibile blocco di marmo non è l’o-
pera d’arte: ciò che la pietra o il bronzo aggiungono
di proprio a quest’ultima agisce solo come un mez-
zo espressivo dell’intuizione creatrice dell’anima.
L’architettura invece utilizza e ripartisce precisamen-
te il peso e la resistenza della materia in base ad un
piano possibile solo nell’anima, facendo sì che sep-
pur all’interno di questo piano la materia operi con
la sua essenza immediata, in certo modo portandolo
a termine con le sue proprie forze. Questa è la più
sublime vittoria dello spirito sulla natura: come
quando si è in grado di far sì che una persona che
stiamo guidando realizzi la nostra volontà non attra-
verso una violenza esercitata sulla sua propria vo-
lontà, ma grazie a quest’ultima, in modo che la dire-

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Georg Simmel

zione verso cui questa esercita la sua autonomia sor-


regga il nostro piano. Questo equilibrio unico fra la
materia meccanica, inerte, che resiste passivamente
alla pressione, e la spiritualità formatrice che tende
verso l’alto si spezza però nel momento stesso in cui
la costruzione va in rovina. Infatti ciò non significa
altro se non che le forze meramente naturali comin-
ciano a sopraffare l’opera umana: l’equilibrio fra na-
tura e spirito, che l’edificio rappresenta, si sposta a
vantaggio della natura. Questo spostamento si risol-
ve in una tragicità di dimensioni cosmiche che al no-
stro sentire ammanta le rovine di un’ombra di malin-
conia. Ora infatti la decadenza appare come la ven-
detta della natura per la violenza che lo spirito le ha
fatto subire formandola a propria immagine. Tutto il
processo storico dell’umanità costituisce una pro-
gressiva affermazione del dominio dello spirito sulla
natura, che esso incontra al di fuori di sé ma in cer-
to senso anche dentro di sé. Se nelle altre arti lo spi-
rito piega le forme e gli eventi di questa natura al
© ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.

suo comando, l’architettura dà forma invece alle


masse e alle forze inerenti alla natura fino al punto
in cui esse esprimono visibilmente l’idea come se es-
sa forse emersa da loro stesse. Ma solo fino a quan-
do l’opera sussiste nella sua compiutezza le necessi-
tà della materia si adattano alla libertà dello spirito,
e la vitalità dello spirito si esprime integralmente at-
traverso il peso e la resistenza di tale materia. Nell’i-
stante, però, in cui la decadenza della costruzione di-
strugge l’armonia dell’insieme, le parti si separano di
nuovo e rivelano la loro originaria inimicizia univer-
sale, come se la formazione artistica non fosse stata
altro che un atto di violenza dello spirito cui la pie-

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Saggi sul paesaggio

tra si è sottomessa con riluttanza ed ora questa si


sbarazzasse poco a poco di tale giogo e ritornasse al-
la autonoma legalità delle proprie forze.
Ma in questo modo le rovine risultano un feno-
meno più significativo e importante che non i fram-
menti di altre opere d’arte distrutte. Un quadro da
cui si sono staccate particelle di colore, una statua
con membra mutilate, un antico testo poetico di cui
si sono perse parole e versi interi, tutte queste ope-
re hanno un effetto solo in rapporto a quanto anco-
ra sussiste in loro della forma artistica, o a quanto di
essa l’immaginazione può ricostruire in base ai resti.
Esse non offrono immediatamente l’aspetto di una
unità artistica, ma quello di un’opera d’arte privata di
alcuni elementi decisivi. Le rovine di un edificio, in-
vece, mostrano che altre forze e altre forme, quelle
della natura, sono cresciute nelle parti scomparse o
distrutte dell’opera d’arte; e così, da ciò che dell’arte
in esse vive ancora e da quella parte di natura che
già vive in esse è scaturita una nuova totalità, un’u-
nità caratteristica. Certamente, dal punto di vista del
fine che lo spirito ha incorporato nel palazzo e nel-
la chiesa, nel castello e nel portico, nell’acquedotto e
nella colonna commemorativa, l’andare in rovina
della loro forma è un fatto accidentale privo di sen-
so. Ma questo accidente è investito di un nuovo sen-
so che comprende in uno esso e l’attività creatrice
dello spirito, un senso fondato non più nella finalità
umana, bensì in quella profondità dove tale finalità e
l’intreccio delle forze inconsapevoli della natura sca-
turiscono dalla loro comune radice. Per questo a cer-
te rovine romane, per quanto interessanti, manca lo
specifico fascino delle rovine, nella misura in cui in

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Georg Simmel

loro si percepisce la distruzione ad opera dell’uomo,


e questo contraddice infatti l’antitesi fra opera del-
l’uomo e azione della natura, sulla quale riposa il si-
gnificato delle rovine in quanto tali.
Tale contraddizione è prodotta non soltanto dal-
l’agire positivo dell’uomo, ma anche dalla sua passi-
vità, se e perché l’uomo opera come mera natura. È
questa una caratteristica di quelle rovine urbane che
ancora sono abitate, come non di rado accade di ve-
dere in Italia fuori dalle strade principali. Qui l’im-
pressione specifica non è tanto che gli uomini di-
struggano l’opera umana – è piuttosto la natura a rea-
lizzare ciò – ma che la lascino andare in rovina. Tut-
tavia considerato a partire dall’idea di uomo, questo
lasciar accadere è per così dire una passività positiva:
in questo modo l’uomo si rende complice della natu-
ra, di una sua direzione d’azione che è volta in sen-
so opposto a quella dell’essenza propria dell’uomo.
Questa contraddizione fa vacillare nelle rovine abita-
te l’equilibrio fra sensibile e sovrasensibile, quale ri-
© ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.

sulta invece dalle tendenze conflittuali dell’esistenza


nelle rovine abbandonate, e conferisce loro un carat-
tere problematico, inquietante e spesso insopportabi-
le: questi luoghi che la vita ha abbandonato tuttavia
si mostrano come la cornice di una vita.
In altri termini, il fascino delle rovine è che un’o-
pera dell’uomo viene percepita alla fine come un
prodotto della natura. Le stesse forze che danno alla
montagna il suo aspetto – le intemperie, l’erosione,
le frane, l’azione della vegetazione – qui hanno agi-
to sui ruderi. Già il fascino delle forme alpine, che
pure sono perlopiù pesanti, casuali, insulse dal pun-
to di vista artistico, riposa sulla rivalità percepibile fra

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Saggi sul paesaggio

due tendenze cosmiche: un sollevamento vulcanico


o una stratificazione graduale hanno innalzato la
montagna verso l’alto, pioggia e neve, erosioni e ca-
dute, decomposizione chimica e imporsi della vege-
tazione, hanno frastagliato e svuotato l’estremità su-
periore, fatto precipitare in basso parti di ciò che era
stato sollevato, e dato così la sua forma attuale al
profilo della montagna. In questa noi avvertiamo
perciò la vitalità di energie che spingono in direzio-
ni opposte e, sentendo risonare istintivamente in noi
stessi questi contrasti, riusciamo a cogliere, al di là di
ogni dimensione formale ed estetica, l’importanza
della conformazione nella cui quieta unità essi si so-
no raccolti. Ora, nel caso delle rovine si fronteggia-
no due parti dell’esistenza ancor più distanti fra loro.
Ciò che ha diretto la costruzione verso l’alto è la vo-
lontà umana, mentre ciò che le dà il suo aspetto at-
tuale è la forza meccanica della natura, che trascina
verso il basso, corrode e distrugge. Tuttavia essa non
fa crollare l’opera nell’assenza totale di forma della
pura materia, almeno finché si parla di rovine e non
di un mucchio di sassi; nasce una nuova forma che,
dal punto di vista della natura, è totalmente signifi-
cativa, comprensibile, differenziata. La natura ha fat-
to dell’opera d’arte il materiale della sua creazione,
proprio come in precedenza l’arte si era servita del-
la natura come materia prima.
Tuttavia, seguendo l’ordinamento cosmico, vi è
una gerarchia di natura e spirito che solitamente pre-
senta la natura come la sottostruttura, la materia o il
prodotto incompiuto, e lo spirito invece come l’ele-
mento che rifinisce e dà una forma definitiva. Le ro-
vine capovolgono quest’ordine, poiché quanto lo

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Georg Simmel

spirito aveva innalzato diviene oggetto di quelle stes-


se forze che hanno formato il profilo della montagna
e la riva del fiume. Quando per tale via nasce un si-
gnificato estetico, esso si dirama in un significato me-
tafisico accostabile a quello rivelatoci dalla patina sul
metallo e sul legno, sull’avorio e sul marmo. Anche
qui un processo puramente naturale ha aggredito la
superficie dell’opera umana, facendovi crescere so-
pra una pelle che copre completamente quella origi-
naria. La misteriosa armonia, per la quale l’opera
umana diviene più bella grazie ad un’azione chimi-
co-meccanica e il prodotto di una volontà grazie ad
un processo libero e involontario si trasforma in
qualcosa di nuovo, spesso più bello e con una sua
unità: ecco il fascino fantastico e impalpabile della
patina. Conservando questo fascino, le rovine ne
conseguono però anche un secondo dello stesso ge-
nere: la distruzione della forma spirituale ad opera
delle forze naturali, quel rovesciamento dell’ordine
usuale, viene percepito quale un ritorno alla «buona
© ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.

madre», come Goethe definisce la natura. Il fatto che


tutto ciò che è umano «viene dalla terra e alla terra
deve tornare» si eleva qui oltre il suo triste nichili-
smo. Fra il non ancora ed il non più vi è un mo-
mento positivo dello spirito, la cui strada ora certo
non porta più alla sua vetta ma, sazia della ricchez-
za di essa, ridiscende alla sua patria, facendo in cer-
to modo da pendant al «momento fecondo», il mo-
mento in cui quella ricchezza, che le rovine hanno
ormai alle spalle, è davanti agli occhi. Che la violen-
za inflitta dalla forza della natura a un’opera della vo-
lontà umana possa avere un effetto estetico si deve
al fatto che in quest’opera, per quanto essa sia stata

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Saggi sul paesaggio

formata dallo spirito, la natura non abbia mai del tut-


to perso i suoi diritti. Nella sua materia, nei suoi ca-
ratteri effettivi, l’opera è sempre rimasta natura;
quando quest’ultima se ne riappropria non fa che ri-
attivare in tal modo un diritto, sospeso fino ad allo-
ra, al quale però, per così dire, essa non ha mai ri-
nunciato. Per questo le rovine fanno così spesso un
effetto tragico – ma non triste –, poiché la distruzio-
ne in esse non è qualcosa di assurdo che proviene
dall’esterno, ma è la realizzazione di una tendenza
collocata nello strato d’esistenza più profondo di ciò
che viene distrutto. Perciò, quando definiamo un es-
sere umano come una «rovina», manca così spesso
l’impressione esteticamente soddisfacente che si con-
nette alla tragicità, o alla segreta giustizia della di-
struzione. In questo caso, infatti, se anche s’intende
che quelle dimensioni psichiche più strettamente na-
turali, come le pulsioni o le inibizioni legate al cor-
po, le inerzie, gli accidenti, ciò che rinvia alla morte,
s’impadroniscono degli strati specificamente umani e
razionalmente pregevoli, non per questo sentiamo
che queste inclinazioni stiano realizzando un diritto
latente. Anzi, un diritto di questo genere non esiste
neppure. Noi riteniamo – a torto o a ragione – che
tali svilimenti di natura contraria allo spirito non sia-
no inerenti alla natura umana nel suo senso più pro-
fondo; essi posseggono un diritto su ciò che è este-
riore e che è nato con essa, ma sull’uomo no. Perciò,
a prescindere da considerazioni in altri contesti, la
rovina dell’uomo è spesso più triste che tragica e
priva di quella metafisica compostezza che deriva al-
la decadenza dell’opera materiale da un profondo a
priori.

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Georg Simmel

Il carattere di ritorno a casa è solo uno dei modi


per esprimere quell’atmosfera di pace che è il tono
spirituale (Stimmung) che circonda le rovine. Ad es-
so se ne accosta un altro, secondo cui le due poten-
ze universali, l’aspirazione verso l’alto e lo sprofon-
dare verso il basso, concorrono nelle rovine a forma-
re l’immagine rasserenante di un’esistenza puramen-
te naturale. Esprimendo questa pace, le rovine s’iscri-
vono nel paesaggio circostante formando con esso
un’unità, divenendo una cosa sola con esso come l’al-
bero e il sasso, mentre il palazzo, la villa e persino la
casa colonica, anche dove meglio si adeguino alla
Stimmung del paesaggio, discendono sempre da un
altro ordine di cose e soltanto a posteriori si accor-
dano con quello della natura. Spesso negli edifici
molto vecchi in aperta campagna, ma ancor più nel-
le rovine, si nota una caratteristica uguaglianza di co-
lore con le tonalità del terreno circostante. La causa
deve essere in qualche modo analoga a quella che
dona fascino ai tessuti antichi: per quanto eterogenei
© ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.

fossero i loro colori appena nuovi, le lunghe vicende


comuni, secchezza e umidità, caldo e freddo, logorio
esterno e disfacimento interno, li hanno colpiti tutti
insieme nel corso dei secoli e hanno generato una to-
nalità uniforme, una riduzione allo stesso denomina-
tore comune cromatico che nessun tessuto nuovo
può imitare. All’incirca nello stesso modo gli influssi
della pioggia e dei raggi solari, della vegetazione, del
caldo e del freddo devono aver fatto somigliare la co-
struzione in loro balia al colore della terra abbando-
nata ai medesimi destini. Questi influssi hanno ricon-
dotto il primitivo risalto dei contrasti alla pacifica uni-
tà della mutua appartenenza.

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Saggi sul paesaggio

Ancora sotto un altro aspetto le rovine emanano


l’impressione della pace. Da un lato di quel conflitto
tipico si situava la forma e la simbolica puramente
esteriore della pace: il profilo della montagna creato
da sollevamenti e frane. Ma se si guarda all’altro po-
lo dell’esistenza, tale conflitto vive completamente
all’interno dell’anima umana, questo campo di batta-
glia fra la natura, che è essa stessa anima, e lo spiri-
to, che pure è anima. Alla costruzione della nostra
anima lavorano di continuo forze, che si possono de-
signare solo con la metafora spaziale dell’aspirazio-
ne verso l’alto, forze di continuo interrotte, deviate,
sopraffatte da altre che operano in noi come il no-
stro elemento oscuro e ordinario, «soltanto naturale»
nel senso deteriore del termine. La forma della no-
stra anima è data ad ogni istante dalla proporzione e
dal modo in cui queste due forze si mescolano tra lo-
ro. Ma tale forma non perviene mai ad uno stato de-
finitivo, che sia la vittoria decisiva di una delle parti
o un compromesso fra di esse. Infatti, non è soltan-
to il ritmo inquieto dell’anima a impedirlo, ma so-
prattutto questo: dietro ogni singolo evento, dietro
ogni singolo impulso dell’una o dell’altra direzione,
c’è qualcosa che continua a vivere, ci sono pretese
che la decisione attuale non mette a tacere. Per que-
sto l’antagonismo dei due principi assume un aspet-
to informe, che non può trovare conclusione e che
fuoriesce da qualunque inquadramento. In questa in-
terminabilità del processo morale imposta all’anima
dalle esigenze infinite delle due parti, in questa man-
canza profonda di una configurazione compiuta,
pervenuta a quiete plastica, risiede forse la ragione
formale ultima dell’ostilità che oppone le nature este-

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Georg Simmel

tiche a quelle etiche. Dove intendiamo le cose da un


punto di vista estetico, noi esigiamo che le forze con-
trastanti dell’esistenza siano giunte a un qualche
equilibrio, che la lotta fra l’alto e il basso sia cessata;
ma il processo spirituale etico con la sua incessante
fluttuazione, con i suoi continui spostamenti di con-
fine, con l’inesauribilità delle forze che si fronteggia-
no in esso, si oppone a questa forma che non con-
cede che una visione. Ma la pace profonda che, co-
me un cerchio sacro incantato, circonda le rovine, è
sostenuta da questa costellazione: l’oscuro antagoni-
smo che condiziona la forma di ogni esistenza –
agendo una volta nell’ambito delle mere forze natu-
rali, un’altra nell’ambito della vita spirituale, una ter-
za volta, come nel nostro caso, dispiegandosi fra la
natura e la materia –, un tale antagonismo nemmeno
qui si risolve in un equilibrio, bensì esso lascia pre-
dominare una parte ed annientare l’altra, offrendo
tuttavia un’immagine sicura nella forma e che per-
dura quietamente. Il valore estetico delle rovine uni-
© ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.

sce la disarmonia, l’eterno divenire dell’anima in lot-


ta con se stessa e l’appagamento formale, il saldo
contorno dell’opera d’arte. Perciò dove delle rovine
non rimanga abbastanza da rendere percepibile la
tendenza che punta verso l’alto, viene a cadere la lo-
ro attrattiva metafisico-estetica. I frammenti di colon-
na del Foro romano sono semplicemente brutti,
mentre una colonna sgretolata fino a metà può ave-
re un massimo di fascino.
Certo, l’impressione di pace che emana dalle ro-
vine si potrà attribuire ad un altro motivo: al loro ca-
rattere di passato. Esse sono un luogo fatto per la vi-
ta da cui la vita si è allontanata – ma ciò non è nul-

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Saggi sul paesaggio

la di semplicemente negativo o di costruito dal pen-


siero, come per le innumerevoli cose che un tempo
nuotavano nel fiume della vita, per caso vengono
gettate sulla sua riva, ma per loro natura possono
sempre venire riafferrate dalla sua corrente. Piutto-
sto, il fatto che la vita con la sua ricchezza e le sue
vicissitudini un tempo abbia abitato qui, costituisce
una presenza immediatamente percepibile. Le rovine
creano la forma presente di una vita passata, non re-
stituendo i suoi contenuti o i suoi resti, bensì il suo
passato in quanto tale. Questo è anche il fascino del-
le antichità, delle quali solo una logica ottusa può af-
fermare che una imitazione assolutamente esatta da
un punto di vista estetico avrebbe lo stesso valore.
Non importa se siamo ingannati in un caso specifico
– col frammento che reggiamo in mano noi domi-
niamo spiritualmente tutto il lasso di tempo a partire
dalla sua creazione, il passato con i suoi destini e le
sue vicissitudini è raccolto in questo punto di pre-
sente intuibile esteticamente. Qui, come di fronte al-
le rovine, nelle quali s’intensifica al massimo e si
compie la forma presente del passato, entrano in
gioco energie così profonde e globali della nostra
anima che la separazione netta fra percezione e pen-
siero diviene completamente insufficiente. Qui è al-
l’opera una totalità spirituale che, così come il suo
oggetto fonde insieme i contrari, presente e passato,
in una forma unificata, comprende tutta l’estensione
della visione fisica e di quella spirituale nell’unità del
godimento estetico, godimento per altro sempre ra-
dicato in un’unità più profonda di quella estetica.
Così intenzione e caso, natura e spirito, passato e
presente risolvono in questo punto la tensione delle

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Georg Simmel

loro opposizioni o meglio, pur mantenendo questa


tensione, la conducono all’unità dell’immagine ester-
na e dell’effetto interiore. È come se una parte del-
l’esistenza dovesse prima andare in rovina per dive-
nire così priva di resistenza nei confronti di tutte le
correnti e le forze che provengono da ogni angolo
della realtà. Forse è questo il fascino del declino, del-
la decadenza in generale, che va oltre il suo mo-
mento meramente negativo e degradante. La cultura
ricca e molteplice, l’illimitata impressionabilità e l’in-
telligenza aperta a tutto, tipiche delle epoche deca-
denti, significano proprio tale incontrarsi di tutte le
tendenze antagonistiche. Una giustizia distributiva
connette l’insieme di tutto ciò che cresce senza freni
e in direzioni divergenti con il declino di quegli uo-
mini e di quelle opere umane che ormai possono so-
lo cedere, ma non più creare e conservare le proprie
forme con le proprie forze.
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Le Alpi

Il generale predominio dell’idea secondo cui l’im-


pressione estetica del visibile dipende dalla sua forma,
troppo spesso ci nasconde un altro fattore che deter-
mina quest’impressione: la grandezza in cui essa si of-
fre. Noi non siamo assolutamente in grado di godere
di una forma pura, ossia del mero rapporto di linee,
superfici e colori; per la nostra natura intellettuale e
sensibile, questo piacere è legato piuttosto a una
quantità data di tali forme. Questa quantità ha un cer-
to margine di gioco, ma è sempre ricompresa tra una
grandezza spesso determinabile con esattezza, in cui
la forma, di per sé totalmente invariata, perde il suo
valore estetico, e una piccolezza che ha il medesimo
risultato. Molto di più e molto più nel profondo di
quanto ci rendiamo conto, le forme e la grandezza
creano un’unità inseparabile dell’impressione estetica;
e una forma rivela la sua intima essenza estetica per il
modo in cui il suo significato cambia in rapporto al
variare della misura. Poiché è soprattutto nella traspo-
sizione delle forme naturali in opere d’arte che ciò di-
venta visibile, ecco che viene a crearsi una scala di
forme, a partire da quelle che hanno valore estetico
nelle dimensioni più varie, fino a quelle in cui tale va-
lore è legato ad una precisa grandezza. In cima alla
scala sta la figura umana. Quando, per il fatto di es-

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Georg Simmel

sere partecipe della sua esistenza, l’artista comprende


il significato di una figura dall’interno, egli sa intuire
meglio quali spostamenti, accenti, riduzioni siano ne-
cessari perché il giusto significato e l’unità della forma
possano fare effetto anche con misure diverse: l’uomo
– e solo lui, dal momento che non conosciamo nes-
sun altro essere nel profondo quanto lui – è sicura-
mente rappresentabile nell’arte sia come figura colos-
sale che in miniatura. All’estremo opposto della scala
ci sono le Alpi. Anche se l’opera d’arte non deve ri-
produrre naturalisticamente l’impressione dell’oggetto
reale, è tuttavia necessario che l’essenza dell’oggetto,
per quanto trasformato, viva in essa, in modo che es-
sa sia associata proprio a quell’oggetto e non a un al-
tro qualsiasi. Ma le Alpi sembrano negare questo: nes-
sun quadro che le ritrae riesce a evocare l’impressio-
ne della loro massa schiacciante, e i più grandi pitto-
ri delle Alpi, Segantini e Hodler, con le loro stilizza-
zioni raffinate, gli spostamenti d’accento e gli effetti
coloristici, cercano di sottrarsi a questo compito piut-
© ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.

tosto che risolverlo. Qui diventa evidente che le for-


me non hanno quel valore estetico autonomo che so-
pravvive all’alterazione del loro quantum, e sono in-
vece legate alla grandezza naturale di quest’ultimo.
Anche in altri oggetti l’effetto della forma non è mai
indifferente alle dimensioni, ma è solo quando esso
viene meno del tutto per l’assenza di una determina-
ta misura che ci rendiamo conto che questi due fatto-
ri costituiscono una immediata unità di impressione;
solo l’analisi posteriore divide l’unità in una dualità.
Lo speciale significato del momento della massa è
basato sulla peculiarità della conformazione alpina.
In generale, questa è come inquieta, casuale, priva di

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Saggi sul paesaggio

un’unità formale vera e propria, il che spiega perché


per tanti pittori, che guardano alla natura solo dal
punto di vista della qualità della forma, le Alpi risul-
tano difficili da sopportare. Questa irritazione provo-
cata dalla forma è però dominata e resa piacevole dal
carattere massiccio, dall’enorme pesantezza della
quantità materiale. Quando le forme sono connesse
da un significato si sostengono a vicenda, ciascuna
trova nell’altra una risposta, un preludio, un dimi-
nuendo, e così forma un’unità stabile in sé, che non
ha bisogno di sostegni esterni ai suoi elementi costi-
tutivi. Quando però le forme vengono messe insieme
del tutto casualmente, senza che una linea globale le
ricomprenda, come nel caso delle Alpi, allora anche
la singola linea non troverebbe la sua collocazione
nel complesso e rimarrebbe perciò isolata, se non
fosse avvertibile la massa della materia, che si stende
uniformemente sotto le vette e trasforma il loro isola-
mento senza senso in un corpo unitario. La materia-
lità informe deve qui dominare l’impressione in mo-
do schiacciante, per far sì che il caos dei profili roc-
ciosi che si guardano indifferenti trovi un centro e un
punto d’unione. L’inquietudine lacerante delle forme
e la pesante materialità della mole creano, con la lo-
ro tensione e il loro equilibrio, un’impressione satura
di agitazione e di pace allo stesso tempo.
La questione della forma pone l’impressione pro-
curata dalle Alpi tra le categorie psicologiche ultime.
Vi sono elementi di questa impressione sia al di qua
sia al di là della forma estetica. Da una parte, le Alpi
danno l’impressione del caos, di una massa informe
che solo accidentalmente ha acquisito un profilo an-
che se privo di un proprio senso formale. Le Alpi rac-

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Georg Simmel

chiudono quel mistero del creato che la configurazio-


ne delle montagne mostra assai più intensamente di
ogni altro paesaggio. Qui le cose terrene, le cui forme
sono ancora lontane dall’avere un significato e una vi-
ta autonomi, si percepiscono con forte intensità. D’al-
tra parte, però, ci sono le immense rocce, i ghiacciai
trasparenti e luccicanti, le cime innevate, così distanti
dalle bassezze della terra: tutti questi sono simboli del
Trascendente e fanno alzare lo sguardo dell’anima
verso regioni in cui risiede ciò che non si può più rag-
giungere con la sola forza di volontà. Perciò, quando
il cielo sulle vette si copre, insieme all’impressione
estetica scompare anche l’impressione mistica che ne
è parte indissociabile; con il cielo coperto le cime so-
no imprigionate nelle nuvole, schiacciate a terra e ri-
unite alle cose terrene. Solo quando non vi è nient’al-
tro che cielo sopra loro, esse rinviano all’ultraterreno
senza soluzione di continuità e possono rientrare a far
parte di un ordine di cose diverso da quello terreno.
Se si può definire trascendente un paesaggio, questo
© ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.

è il paesaggio di nevai, in cui esiste soltanto ghiaccio


e neve, niente verde, niente valli, nessuna pulsazione
di vita. E poiché il Trascendente, l’Assoluto, a cui in-
nalza la tonalità spirituale (Stimmung) di questo pae-
saggio, è al di là delle parole, per non umanizzarlo in
modo infantile dobbiamo anche dire che esso è al di
là di ogni forma. Tutto ciò che ha una forma è, per ciò
stesso, qualcosa di limitato – sia quando una pressio-
ne e una materia meccanicamente formative tracciano
il confine di una parte nel punto in cui ne comincia
un’altra; sia quando l’essenza organica, pur determi-
nando positivamente la propria configurazione con le
proprie forze interiori, non può che raggiungere una

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Saggi sul paesaggio

forma delimitata proprio per la limitatezza di queste


stesse forze. Per questo il Trascendente è senza forma:
forma significa limite, e quindi l’Assoluto, essendo
senza limiti, non può essere formato. Esiste pertanto
un non-formato al di sotto di tutte le forme e uno al
di sopra di tutte le forme. L’alta montagna, con la cu-
pa violenza della sua massa puramente materiale e il
suo anelito ultraterreno, con le sue regioni nevose tra-
sfigurate al di là delle tensioni della vita, unisce tutte
e due in un unico accordo. La sua forma priva di un
significato vero e proprio fa sì che il sentimento e il
simbolo delle due grandi potenze dell’esistenza, ciò
che è meno di ogni forma e ciò che è più di ogni for-
ma, trovino un luogo comune.
In questo distacco dalla vita risiede forse il segre-
to ultimo dell’impressione procurata dalle cime alpi-
ne. È il contrasto con il mare a rendere questo evi-
dente. Comunemente il mare è ritenuto il simbolo
della vita: il suo continuo movimento trasformatore,
l’inscrutabilità delle sue profondità, l’alternarsi di cal-
ma e agitazione, il suo perdersi nell’orizzonte e il gio-
co senza meta del suo ritmo – tutto questo fa sì che
l’anima possa trasporre nel mare il proprio sentimen-
to della vita. Poiché tuttavia ciò è possibile solo gra-
zie a una certa uguaglianza simbolica di forme, e poi-
ché il mare rispecchia la forma della vita in uno sche-
matismo stilizzato, sovraindividuale, la sua vista dona
quella liberazione, che la realtà riesce a darci con la
forma visiva del suo senso più puro, più profondo,
per così dire più reale. Il mare ci libera dalla condi-
zione immediata e dalla mera quantità relativa della
vita grazie alla sua dinamica travolgente che trascen-
de la vita con le sue stesse forme. In alta montagna,

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Georg Simmel

la liberazione dalla vita intesa come casualità, op-


pressione, isolamento e meschinità, ci perviene dalla
direzione opposta: non dalla pienezza stilizzata della
passione della vita, ma dal distacco da quest’ultima;
qui la vita è come intessuta e presa in qualcosa che è
più silenzioso e più immoto, più puro e più alto di
quel che potrebbe essere essa stessa. Per utilizzare le
espressioni che Worringer ha coniato per definire la
contrapposizione tra i principi degli effetti artistici,
potremmo dire: il mare fa effetto per l’empatia della
vita, le Alpi per l’astrazione dalla vita. E questo effet-
to aumenta progressivamente passando dal paesaggio
roccioso a quello nevoso. Nelle rocce avvertiamo an-
cora la presenza di forze opposte: le forze costruttive
che tutto hanno ingrandito, e quelle corrosive, detriti-
che che tutto disperdono; nella forma momentanea,
questa compenetrazione e opposizione di forze è co-
me bloccata e si rianima nella ricostruzione spirituale
intuitiva dello spettatore. Il paesaggio nevoso però
non ci fa più sentire il gioco di fattori dinamici. Ciò
© ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.

che sta alla base è tutto ricoperto di neve e ghiaccio.


Il lungo processo di costruzione della forma attraver-
so le nevicate, i disgeli e la formazione dei ghiacciai
non si riconosce più. Poiché qui gli effetti della forza
non si possono rivivere interiormente, perché nessun
moto latente rifiorisce nell’anima, per quanto debole,
queste forme acquistano il loro essere atemporale,
sottratto al flusso delle cose. Oltre a simbolizzare
quella duplice mancanza di forma di cui ho detto so-
pra, le Alpi sono, per così dire, prive di forma anche
rispetto al tempo; esse non sono l’immagine della ne-
gazione della vita – perché una tale negazione è sul-
lo stesso piano della vita, dovendo ancora presup-

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Saggi sul paesaggio

porla – ma del suo vero e proprio «Altro», del rimane-


re inalterati dal passare del tempo, che è invece la
forma della vita. Le zone nevose sono per così dire il
paesaggio assolutamente «astorico»; qui, dove nem-
meno con l’estate o l’inverno l’immagine cambia, le
associazioni con il divenire e lo svanire del destino
umano, che accompagnano in varia misura tutti gli al-
tri paesaggi, vengono sospese. L’immagine spirituale
del nostro ambiente prende sempre la forma della no-
stra esistenza spirituale; solamente nell’atemporalità
del paesaggio nevoso questo prolungamento della vi-
ta non trova un appiglio. E così il contrasto assoluto
con il mare, simbolo della continua agitazione del de-
stino umano, trova anche un’espressione storica. Il
mare è intimamente legato alla sorte e alle evoluzio-
ni della nostra specie; esso ha dimostrato infinite vol-
te di essere non una frontiera, ma una via di comuni-
cazione fra i paesi. Le montagne invece, a seconda
della loro altezza, hanno avuto nella storia umana un
effetto essenzialmente negativo, isolando la vita dalla
vita e ostacolando gli impulsi reciproci, allo stesso
modo in cui il mare li ha favoriti. E ancora una volta
l’impressione delle Alpi nega quel principio della vita
che è fondato sulla diversità dei suoi elementi. Noi
siamo esseri della misura; ogni fenomeno che passa
per la nostra coscienza ha una qualità, ha un più o un
meno di qualità. D’altra parte però tutte le quantità si
determinano solo reciprocamente; c’è il grande solo
perché c’è il piccolo e viceversa, c’è l’alto grazie al
basso, c’è il frequente perché c’è anche il raro, e co-
sì via. Ogni cosa si misura con l’altra, ognuna è polo
per un polo contrario, e quindi ogni realtà può pro-
vocare in noi un’impressione in quanto è un’impres-

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Georg Simmel

sione relativa, cioè solo in quanto si differenzia da


qualcosa che le è contrapposto sullo stesso ordine
dell’essere. Sono ovvie le ragioni per cui proprio il
paesaggio montano è decisamente caratterizzato in
questo senso e deve la sua unità a quell’impressione.
La cima è possibile solo grazie al fondo, e questo –
come tale – solo grazie alla cima, e così le sue parti si
condizionano molto di più degli elementi caratteristi-
ci della pianura, che continuerebbero a esistere auto-
nomi e inalterati anche se isolati uno dall’altro. È tra-
mite la loro relatività che gli elementi del paesaggio
montano giungono all’unità dell’immagine estetica
che è simile alla forma organica, data dall’interazione
(Wechselwirkung) vitale delle sue parti. Ma la cosa
più meravigliosa è che la grandezza e la sublimità del-
le Alpi si fa sentire quando nel paesaggio nevoso non
esistono più né valli né vegetazione né abitazioni
umane, quando non si vede più niente di basso, an-
che se proprio da quest’ultimo derivava l’impressione
dell’alto. Tutte queste altre forme tendono di per sé al
© ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.

basso, in particolare la vegetazione, in cui sempre av-


vertiamo la presenza delle radici che tendono a scen-
dere; in altri paesaggi sentiamo ovunque le profondi-
tà che stanno alla base di tutto. Qui invece il paesag-
gio è perfettamente «concluso»: poiché essendo privo
di rapporti, per così dire, per la mancanza di qualsia-
si elemento correlativo, non chiede di essere perfe-
zionato o liberato dallo sguardo o dalla forma dell’ar-
te; a ciò contrappone piuttosto l’insormontabile forza
della sua mera esistenza. Può esser questa, insieme a
quanto detto prima, la ragione profonda per cui le Al-
pi non sono diventate soggetto di rappresentazione
artistica al pari degli altri paesaggi. Ma sembra certo

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Saggi sul paesaggio

che solamente nel puro paesaggio nevoso il basso ab-


bia perso i suoi diritti sulle cose. Una volta scompar-
sa la valle, si crea un rapporto esclusivo verso l’alto,
cioè siamo «in alto» non più relativamente ma assolu-
tamente, non più a una determinata altezza sopra il
basso. La mistica sublimità di quest’impressione non
è paragonabile con quello che solitamente s’intende
per «bel» paesaggio alpino: in questo le montagne ne-
vose non sono che il coronamento di un paesaggio
più piano e più agevole che coinvolge nella sua se-
renità prati e foreste, valli e baite. Solo quando si è
abbandonato tutto ciò, si può acquisire qualcosa di
concettualmente, metafisicamente nuovo: un’altezza
assoluta, senza una profondità corrispondente; un la-
to di una correlazione che di solito non può esistere
senza l’altro trova qui un’espressione visivamente au-
tonoma. È questo il paradosso dell’alta montagna: l’al-
tezza si basa sulla relatività di cima e fondovalle, si
determina con la profondità – ma qui sembra come
l’assoluto, che non ha bisogno della profondità e che
anzi solo quando quest’ultima è scomparsa si dispie-
ga nella sua piena altezza. Qui si fonda la sensazione
di salvezza, che il paesaggio nevoso ci trasmette in al-
cuni momenti solenni, del sentirsi con la massima
energia di-fronte-alla-vita. Perché la vita è la relatività
continua degli opposti, la determinazione dell’uno at-
traverso l’altro e dell’altro attraverso l’uno, il moto
fluttuante, in cui ogni cosa può esistere soltanto in di-
pendenza di un’altra. L’impressione che ci fa l’alta
montagna è per noi presentimento e simbolo del fat-
to che la vita si innalza e potenzia al massimo in ciò
che non entra più nella sua forma, ma che piuttosto
la sovrasta e le sta di fronte.

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I paesaggi di Böcklin

Non luogo intorno ad esse e meno ancora tempo1.

Il fascino del meriggio estivo sta nel sentirsi cul-


lare e calmare dal sonno e dall’immobilità intorno a
noi; è la natura in noi che in quest’ora vive il desti-
no di tutto ciò che è naturale, condividendone il ri-
poso. E, contemporaneamente, la sensazione di es-
sere vivi, del cuore che batte, sente, del suo ritmo su
tutta questa pace della natura. Dorme il grande Pan,
e dormiamo anche noi, con lui e in lui, – eppure sia-
© ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.

mo qualcosa che gode, un soggetto nei confronti di


tutta questa oggettività. Questo è lo stato d’animo, la
tonalità spirituale che attingiamo dai paesaggi di
Böcklin. Pur intrecciando intimamente l’anima nella
trama di questo essere naturale, con le piante e gli
1 È la citazione del verso 6214 del Faust, parte II, atto I

(qui nella traduzione di Franco Fortini, Milano, Mondadori,


1970), che allude ad un antichissimo mito mediterraneo, già
presente in Plutarco. «Sono le Madri!» – come esclama Mefi-
stofele nei versi seguenti – il loro regno non ha luogo né tem-
po, è quello delle «forme possibili», del «formarsi, trasformar-
si, eterno gioco dell’eterno senso»; Faust deve penetrarvi per
evocare Elena.

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Saggi sul paesaggio

animali, con la terra e la luce, i paesaggi la svincola-


no da esso, trasformandola in un sentimento della
personalità con tutta la sua anima e la sua libertà,
che quel mondo meramente contemplato ignora, fa-
cendone un Io vivente, pulsante, che assorbe nella
sua unità tutto ciò che la natura presenta in un me-
ro rapporto d’accostamento, trovando così la propria
segreta antitesi nella natura con la quale un momen-
to prima sembrava fondersi. Ma nemmeno questo in-
tervallo esiste; le due dimensioni sono contempora-
nee, e in questa tensione, in questa oscillazione, in
questa compresenza di legame e separazione nei
confronti della natura spaziale nasce la tonalità sen-
timentale dei suoi paesaggi. È come se con essi aves-
se trovato riparo nel fenomeno un momento di quel-
la unità originarie delle cose, a partire dalla quale
soltanto si sono sviluppati soltanto lo spirito conscio
e la natura inconscia su versanti opposti; come se l’a-
nima, oscillando tra i due poli, si sforzasse di reinte-
grarli nella perduta unità.
Spinoza pretende dal filosofo che consideri le co-
se sub specie aeternitatis, cioè puramente in base al-
la loro interna necessità e significatività, separate dal-
l’accidentalità del loro essere qui ed ora. Se si può
interpretare un’opera del sentimento con le stesse
parole con cui si interpreta l’opera dell’intelletto, i
quadri di Böcklin agiscono come se ne vedessimo il
contenuto tradotto nella sfera di quest’atemporalità;
come se davanti a noi stesse il contenuto puramente
ideale delle cose, separato da ogni momentaneità
storica, da ogni rapporto con un prima e con un poi.
Tutto è come negli istanti del meriggio estivo, quan-
do la natura trattiene il respiro, quando il corso del

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Georg Simmel

tempo si coagula. La sfera nella quale ora ci sentia-


mo non è l’eternità in senso religioso; ma è sempli-
cemente il cessare delle relazioni temporali. Allo
stesso modo diciamo eterna una legge di natura, non
perché esista già da gran tempo, ma perché la sua
validità non ha assolutamente nulla a che fare con il
problema del prima e del poi; l’atemporalità nella
quale Böcklin ci trasporta è il non essere toccati dal
passato e dal futuro, – la stessa atemporalità che può
spiegare l’impressione ridestata dai paesaggi dell’Ita-
lia meridionale e che in quel caso sorge dall’assenza
di rilevanti differenze di temperatura e vegetazione.
Nel paesaggio tedesco aleggia come elemento di fa-
scino, come esigenza o ricordo, l’immagine opposta,
dell’estate in rapporto all’inverno, dell’autunno spe-
culare alla primavera, il paesaggio viene sentito co-
me un momento di una serie di cambiamenti obbli-
gati. Guardando gli alberi di Böcklin, non si pensa
che in un’altra stagione saranno più o meno folti, che
inverdiranno o perderanno le foglie; il momento del-
© ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.

la loro rappresentazione può essere quello del loro


primo coprirsi di gemme, del loro pieno fulgore o
del loro declino autunnale, è la loro eternità. Le ro-
vine, che Böcklin dipinge, non ricordano ciò che
erano prima del crollo e del disfacimento. Sint ut
sunt aut non sint. Nell’irrealtà delle sue creature fa-
volose questa sovratemporalità delle sue visioni,
questo contrasto con tutto ciò che nel senso più am-
pio si potrebbe chiamare storico, giunge soltanto al-
l’espressione più rapida.
Ma se, tuttavia, una determinazione di tipo tem-
porale dev’essere indicata, è quella della gioventù.
Fra tutte le età della vita la gioventù è quella che per

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Saggi sul paesaggio

il suo modo di sentire più si avvicina all’atemporali-


tà, dato che non conosce ancora l’importanza del
tempo, non considera ancora il tempo come una po-
tenza e un limite con cui fare i conti. Perciò la gio-
ventù è così eminentemente astorica, commisura le
cose all’infinito, è così libera dal condizionamento
dei limiti dell’effettiva realtà temporale; solo la gio-
ventù conosce quei giorni turgidi, traboccanti, nei
quali si crede di sperare ancora ogni passato, di ri-
cordare già ogni gioia futura: questa è la Stimmung2
del paesaggio di Böcklin.

Come si parla di intemporalità, si potrebbe parlare


perfino di una aspazialità del suo paesaggio. In altri
paesaggi lo spazio appare come la forma che tiene
unito il tutto, schema che costringe in sé ogni conte-
nuto, e lo determina in base a se stesso; lo spazio net-
tamente articolato, la forma spaziale, permarrebbe an-
che se tutto il contenuto materiale, colorato, svanisse;
e grandi paesaggisti hanno portato proprio questa co-
strizione logica dello spazio, questa autonomia della
sua configurazione ad un’espressione accentuata, e
sulla base di essa, concepita come centro di interesse
da mantenere saldamente, hanno costruito l’insieme
del paesaggio. Questa violenza della forma spaziale
sul contenuto dell’immagine del paesaggio è comple-
tamente scomparsa in Böcklin. Nel complesso di sen-

2 Stimmung, come si è già visto e si vedrà più avanti, è

un termine essenziale del lessico simmeliano. Può significare:


stato d’animo, tonalità spirituale, atmosfera, ecc. Qui è sem-
brato opportuno non tradurlo per mantenerne il particolare
alone semantico.

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Georg Simmel

sazioni che i suoi paesaggi suscitano, lo schema spa-


ziale non gioca un ruolo dinamico. Kant disse che lo
spazio non sarebbe che la possibilità delle cose di sta-
re una accanto all’altra. Analogamente in Böcklin, in
contrasto con i paesaggi «classici», appare come il mo-
do puramente esteriore della coesistenza delle cose, il
medium nullo in se stesso, e la mera «possibilità» di far
pervenire ad espressione visibile le loro relazioni in-
terne essenziali. Come i nostri sentimenti, amore e
odio, gioia e dolore, si svologono certo nello spazio,
ma in quanto processi psichici, intensivi, non hanno
per nulla a che fare con lo spazio, al quale, in un cer-
to senso, solo successivamente vengono riferiti, così i
paesaggi di Böcklin, quanto all’effetto prodotto dalla
loro atmosfera, dalla loro essenza, sono al di là delle
tre dimensioni dello spazio, come sono al di là dell’u-
nica dimensione del tempo.
Questo sottrarsi a tutte le mere relazioni, ad ogni
condizionamento, ad ogni legame e ad ogni confine
con l’esterno, produce il sentimento di libertà che
© ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.

proviamo di fronte ai suoi quadri, quell’emergere, re-


spirare, scuotersi di dosso il giogo che i condiziona-
menti e i riguardi, gli affetti prossimi e lontani della
vita ci impongono. Certo, questa azione liberatrice,
questo senso di redenzione non è solo di Böcklin,
ma di ogni elevata opera d’arte. Ma non credo che la
si sperimenti con la stessa forza in un altro paesag-
gista. Chi plasma un’opera d’arte prendendo le mos-
se dal mondo degli uomini, si allontana, più o meno
consapevolmente, dall’immediatezza, dal mutamen-
to, dalla casualità del singolo momento dato; anche
nell’ambito del cosiddetto realismo sentiamo che ci
si allontana dalla comune realtà dell’uomo – altri-

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Saggi sul paesaggio

menti non si capirebbe il perché della duplicazione


della realtà sulla tela, dato che una sola realtà è già
più che sufficiente. Il processo della sublimazione,
della catarsi, dell’astrazione, agisce nella raffigurazio-
ne dell’uomo con grande sicurezza e chiarezza per-
ché in questo caso conosciamo già bene la base su
cui si eleva e da cui ci libera. Conosciamo troppo be-
ne l’esteriorità, la caducità, il carattere involuto della
realtà umana, per non sentire la sua idealizzazione –
se per brevità posso usare una parola così proble-
matica – come liberazione e come slancio che riscat-
ta. Questo bisogno che spinge verso la rappresenta-
zione artistica dell’umano, non si avverte, in genera-
le, in rapporto alla natura non umana. Da essa pre-
tendiamo meno che dall’uomo, perciò può deluder-
ci meno; poiché non parliamo la sua lingua e non
sappiamo interpretarla come l’uomo, non ci appare
meno passibile della stessa idealizzazione, altrettan-
to bisognosa di redenzione attraverso l’arte. Il pae-
saggio contiene, piuttosto, già nella sua realtà imme-
diata, un elemento affine all’arte, un tratto di auto-
sufficienza e di intangibilità, con il quale ci libera in-
teriormente, scioglie le nostre tensioni, ci trasporta
oltre i limiti di un destino momentaneo, – come del
resto l’essere naturale è in misura molto superiore al-
l’uomo, già in sé e per sé, un tipo della propria spe-
cie. Così, di fronte al paesaggio, sentiamo in misura
minore l’esigenza della rappresentazione artistica e la
sua attuazione non ci eleva e non ci libera, come fa
la rappresentazione dell’uomo grazie all’enorme di-
stanza tra il suo livello e la realtà della vita. Poiché
tuttavia questo a Böcklin riesce, noi respiriamo con
lui un’aria libera e liberatrice, entriamo in una cella

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Georg Simmel

purissima, ci sentiamo sollevati con slancio sicuro ol-


tre la cupa realtà. Egli ha ottenuto con il paesaggio
l’effetto psicologico che altrimenti spettava soltanto
all’immagine dell’uomo. Certo, anche Poussin e
Claude Lorrain si sono proposti nel paesaggio il pro-
cesso d’astrazione e di idealizzazione, che, per così
dire, ne esprime puramente il contenuto di idee e si
allontana consapevolmente dalla singolarità e dalla
tangibilità del reale. Ma hanno pagato l’acquisto con
la perdita di ogni intimità dei loro paesaggi. Ci solle-
vano in ogni modo al di sopra della realtà, ma in uno
spazio senz’aria, mentre Böklin ci conduce nel pro-
fondo del nostro cuore. Il riscatto e la liberazione
dall’angustia e dal grigiore della realtà ha ottenuto un
vero valore sentimentale solo nei suoi paesaggi.

Se il prisma potesse vedere, gli sarebbe stata ne-


gata la luce bianca che potrebbe piuttosto ricevere
soltanto nelle sue componenti distinte; l’unità inter-
na, nella quale esistono per un altro modo di vede-
© ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.

re, potrebbe solo supporla, ma per la conoscenza sa-


rebbe continuamente rimandato alla successiva com-
binazione degli elementi nei quali, in base alla pro-
pria costituzione, ha già scomposto quell’unità. Que-
sta è la sorte del nostro occhio spirituale; mai nel-
l’affissarsi al fare umano e al proprio sentimento, al-
le impressioni e alle sensazioni, gli è concesso di
comprenderli, se non afferrandoli nella loro mesco-
lanza con molti elementi del sentimento, mentre noi
siamo compenetrati dalla loro unitarietà. Con le pro-
prietà più contraddittorie, che propriamente si esclu-
derebbero a vicenda, descriviamo ciò che sentiamo
immediatamente come uno, come compenetrazione

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Saggi sul paesaggio

reciproca di quegli elementi, e se il profondo filoso-


fo medievale definiva la più alta unità divina come
coincidentia oppositorum3, come ciò in cui si incon-
trano e si unificano tutti gli opposti delle cose, spes-
so non si potrà definire l’unità dell’opera umana e
del suo risultato, se non dicendo che in essa si pro-
voca l’incontro di elementi contraddittori. Non saprei
definire l’atmosfera assolutamente unitaria dei mag-
giori paesaggi di Böcklin, se non come una malin-
conia felice di vivere – al modo stesso in cui, vice-
versa, si potrebbe caratterizzare il sentimento di Cho-
pin come una gioia di vivere malinconica.
Per noi uomini moderni la vita, la sensibilità, le
valutazioni, la volontà, si sono scisse in infinite anti-
tesi; siamo sempre divisi tra il sì e il no, e afferriamo
la nostra vita interiore come il mondo esterno me-
diante categorie nettamente differenziate: ci sembra
quindi essenziale che ogni grande arte unifichi i con-
trari, senza essere toccata dalla necessità di un aut
aut. Anche nella prassi immediata il nostro criterio di
valutazione di ogni uomo è se sia intelligente o
sciocco. L’intelletto è la categoria in base alla quale
giudichiamo ciascuno, e anche nell’impressione che
la rappresentazione artistica di un uomo desta in noi,
interviene in modo determinante il manifestarsi del-
le sue caratteristiche intellettuali. Al contrario, le fi-
gure della scultura greca sono al di là di questa op-
posizione: non capiamo se sono intelligenti o scioc-
che, le troviamo simmetriche rispetto al sì e al no,
oserei dire indifferenti. Così molti nudi femminili del-
l’antichità non rientrano nella categoria della fanciul-

3 Il filosofo è Nicola Cusano (1401-1464).

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Georg Simmel

la o in quella della donna, non sono toccati da que-


sta distinzione che la sensibilità moderna opera, in-
nanzitutto, nei confronti di ogni figura femminile.
Anche le figure femminili di Michelangelo sono in
una certa misura al di là dell’appartenenza al genere
maschile o femminile, rappresentano semplicemente
l’umanità, che non conosce ancora la differenziazio-
ne dei sessi, o che si è innalzata al di sopra di essa.
L’arte di Böcklin mostra un nuovo al di là, l’al di là
del vero e del falso. La domanda con la quale ci ac-
costiamo ad ogni rappresentazione dell’oggettività –
coincide con la realtà o no? – vien taciuta. Non c’è in
Böcklin un consapevole allontanamento dalla verità,
nessuna fuga dalla comune realtà delle cose; il fasci-
no di un tale atteggiamento, dell’opposizione al rea-
le, è innegabile, e Schiller, con la sua esaltazione di
ciò che non è mai accaduto, ha costruito il suo mo-
numento a questo timido idealismo che vuole sol-
tanto volgere gli occhi dalla realtà e che, cosciente-
mente, non vuol sapere nulla. Ma questa negazione
© ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.

del reale è pur sempre un positivo rapporto con il


reale stesso, come quello che intrattiene il realismo –
solo di segno opposto. Tuttavia, nei confronti di
Böcklin, l’alternativa: è realistico, o non è realistico?
– è falsa. Alla domanda se le sue opere vivano sol-
tanto in uno spirito, oppure abbiano un riscontro
nella realtà, esse rispondono come farebbe il tono,
qualora gli si volesse chiedere se è nero o bianco. In-
finiti colori, forme, essenze che Böcklin ci mostra,
non sono certo mai esistiti, e nessuna rinascita inte-
riore di esperienze visive è la fonte del loro signifi-
cato per la nostra sensibilità.

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Saggi sul paesaggio

Appartiene alla loro interna perfezione, alla com-


pleta rinuncia del sentimento ad ogni ulteriore rinvio
a qualcosa sopra di sé, che i suoi paesaggi, più di
tutti gli altri che io conosco, siano delle solitudini.
Anche in questo caso non si tratta del consapevole,
intenzionale rifiuto della realtà esterna, che è pur
sempre un tenerne conto, anche se nel senso di una
negazione. Che questi prati e questi precipizi, questi
boschi e queste rive siano stati animati da uomini di-
versi da quelli che egli eventualmente vi introduce,
non è affatto in questione; ognuno sta in una di-
mensione a sé, alla quale non si può giungere da al-
tre dimensioni, per quanto ampiamente ci si muova
in esse. La loro solitudine non è, come in altri pae-
saggi, un casuale essere-così, che potrebbe anche es-
sere diversamente, ma una proprietà interna, essen-
ziale, inseparabilmente connessa ad essi. Sono come
quegli uomini il cui destino immutabile, impresso
nella loro natura, è di essere «soli». La solitudine per-
de il suo carattere meramente negativo, di esclusio-
ne; è una tonalità di questi paesaggi, riconoscibile in
se stessa, alla quale ora, in mancanza di un’espres-
sione specifica immediatamente comprensibile, pos-
siamo accennare con la parola negativa solitudine.
In questa autosufficienza della sua arte sta forse il
motivo per cui giudichiamo le stranezze e le imper-
fezioni, possibili sul piano del disegno, delle sue fi-
gure meno severamente di quanto faremmo nei con-
fronti di qualcun altro. Esse sono «legge a se stesse».
Il suo mondo tiene tutto ciò che si trova fuori della
cornice ad una tale distanza che non li si può affer-
rare insieme con un solo sguardo. Perciò il loro con-
trollo reciproco è meno ovvio che in altri quadri.

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Georg Simmel

Con questa eliminazione di ogni riferimento a tutto


ciò che è esterno – un’eliminazione completa alme-
no per il sentimento immediato – l’arte di Böcklin in-
contra la musica. Anch’essa, certo, come quella, ha
le radici della propria forza in realtà tangibili e nelle
sensazioni immediate che vi si collegano; ma, come
quella, anch’essa ha eliminato ogni riferimento e
aleggia ad un’altezza del sentimento non più colle-
gata da una mediazione afferrabile ai dati della per-
cezione e della sensazione, di cui ora si limita a rap-
presentare la più fine sublimazione. Nessuno può
più seguire le vie, attraverso le quali la facoltà del
sentimento, dalla sensibilità primitiva e dalla bassez-
za dei suoi stimoli, è salita al godimento della musi-
ca più evoluta, troncando ogni filo di collegamento
con la realtà sensibile della vita. Questa separatezza
dell’essere-per-sé della musica è un segreto così
grande che si capisce come Schopenhauer potesse
toglierla dall’ordine di ciò che è indagabile e spiega-
bile, anzi delle arti in generale, e farne il simbolo
© ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.

immediato e l’espressione dell’essenza metafisica del


mondo. Forse mai, prima di Böcklin, un’altra arte è
penetrata a tal punto in questa enigmatica essenza
della musica, che, come dice Schopenhauer, la fa
scorrere davanti a noi come un paradiso completa-
mente familiare e tuttavia eternamente lontano. For-
se mai, se non nella musica, lo stato d’animo ha con-
sumato a tal punto la sua materia. Dove un senti-
mento poggia su strutture visibili, dato che sono pur
sempre qualcosa per sé, esse hanno ancora un’esi-
stenza percepibile e un senso al di là dell’atmosfera
che da loro promana e ci viene incontro. Solo nella
musica è scomparsa quest’indipendenza del materia-

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Saggi sul paesaggio

le; qui esso non esprime più qualcosa che possa an-
cora essere separato, accanto a cui condurre un’esi-
stenza, anche se solo come spoglia terrena. Il duali-
smo è stato superato dalla musica, che non è più
qualcosa che esprime e qualcosa che viene espresso,
ma completamente e soltanto espressione, soltanto
senso, solo Stimmung. E come non si può cercare la
sua verità nel senso proprio alle altre arti, così que-
sta ricerca non riguarda i paesaggi di Böcklin. Perché
queste fonti e queste rocce, questi boschetti e questi
prati, persino questi animali, questi centauri e questi
uomini, non hanno alcun essere, alcuna realtà affet-
tiva oltre a quella di essere il veicolo di una Stim-
mung, in cui sono trapassati completamente come il
combustibile nella fiamma; accanto ad essa non han-
no nulla che sia commensurabile ad una realtà ester-
na. Perciò vivono in noi come l’immagine di una
persona amata, che ci ha lasciato da molto tempo, da
molto tempo ha perso ogni ombra di realtà e si è tra-
sformata completamente nel sentimento di cui ci ri-
empe.

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Nota bio-bibliografica

Il testo di riferimento per una nota bio-bibliografica


esauriente su Simmel in italiano si trova in G. Simmel, Fi-
losofia del denaro, a cura di A. Cavalli e L. Perucchi (To-
rino, Utet, 1984, pp. 51-81). Utili anche le note contenu-
te nel libro di A. Dal Lago, Il conflitto della modernità. Il
pensiero di Georg Simmel, Bologna, Il Mulino, 1994. Si
vedano inoltre, in tedesco, M. Landmann, Bausteine zur
Biographie, e K. Gassen, Georg Simmel-Bibliographie, in
K. Gassen e M. Landmann (a cura di), Buch des Dankes
an Georg Simmel. Briefe, Erinnerungen, Bibliographie,
Berlin, Dunker & Humblot, 1958, pp.11-33 e pp. 309-366.
© ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.

A partire dal 1991, l’Università di Bielefeld pubblica la


Simmel Newsletter, dal 2000 divenuta Simmel’s Studies,
contenente, oltre a saggi originali, recensioni e aggiorna-
menti bibliografici relativi a nuove traduzioni di opere di
Simmel e alla critica contemporanea internazionale.

Vita e opere

1858 Georg Simmel nasce il primo marzo a Berlino,


settimo figlio di genitori di origine ebraica
convertiti (il padre al cattolicesimo e la madre
al culto evangelico). Nel 1874, alla morte del
padre, Georg viene adottato dall’editore musi-

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Saggi sul paesaggio

cale Julius Friedländer. L’eredità lasciatagli da


quest’ultimo (morto nel 1889) costituisce per
un certo tempo la principale fonte di reddito
di Simmel.

1876 Si iscrive all’Università Humboldt di Berlino.


Segue i corsi di storia di Theodor Mommsen,
studia psicologia con Moritz Lazarus e Hey-
mann Steinthal, fondatori della Völkerpsycho-
logie, filosofia con Friedrich Harms ed Eduard
Zeller, storico del pensiero greco. Studia inol-
tre storia dell’arte con Hermann Grimm e l’ita-
liano del Trecento. Nel 1881 si laurea in filo-
sofia, summa cum laude, con una tesi dal ti-
tolo Das Wesen der Materie nach Kant’s Physi-
scher Monadologie (L’essenza della materia se-
condo la monadologia fisica di Kant). L’anno
precedente la facoltà aveva respinto un suo
primo lavoro presentato come tesi di laurea,
Psychologisch-ethnographische Studien über
die Anfänge der Musik (Studi psicologici ed
etnografici sugli inizi della musica).

1885 Consegue l’abilitazione come Privatdozent (li-


bero docente) presso l’Università di Berlino,
ed inizia l’attività d’insegnamento. I suoi corsi,
innovativi, attirano molti più studenti dei corsi
dei docenti ufficiali.

1890 Pubblica il suo primo libro, Über soziale Diffe-


renziarung. Soziologische und psychologische
Untersuchungen (La differenziazione sociale.
Ricerche sociologiche e psicologiche). Lo stes-
so anno sposa Gertrud Kinel, autrice di saggi

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Georg Simmel

filosofici con lo pseudonimo di Marie Luise


Enckendorff. Dal matrimonio nasce un figlio,
Hans. Simmel avrà anche una figlia, Angi, da
Gertrud Kantorowicz. Quest’ultima ed entram-
bi i figli di Simmel subiranno persecuzioni na-
ziste.

1891 Pubblica Die Probleme der Geschichtsphiloso-


phie. Eine erkenntnistheoretische Studie (I pro-
blemi della filosofia della storia. Uno studio di
teoria della conoscenza), e Einleitung in die
Morlawissenschaft. Eine Kritik der ethischen
Grundbegriffe (Introduzione alla scienza della
morale. Una critica dei concetti fornamentali
dell’etica).

1894 Pubblica il saggio Das Probleme der Soziologie


(Il problema della sociologia), presto tradotto
in francese, inglese, russo, polacco e, nel 1899,
in italiano.
© ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.

1898 La proposta di promozione di Simmel a pro-


fessore straordinario avanzata da alcuni pro-
fessori della Facoltà di filosofia di Berlino, tra
cui Wilhelm Dilthey e Gustav Schmoller, è re-
spinta dal Ministero. La diffidenza nei con-
fronti della nuova disciplina della sociologia,
ma anche il diffuso antisemitismo, ostacolano
la carriera accademica di Simmel. In questo
periodo si avvicina al circolo del poeta Stefan
George e conosce Rainer Maria Rilke.

1900 Pubblica l’opera fondamentale Philosophie des


Geldes (Filosofia del denaro), che verrà poi ri-

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Saggi sul paesaggio

pubblicata in edizione riveduta ed ampliata


nel 1907.

1901 Viene nominato professore straordinario di fi-


losofia all’Università di Berlino. I suoi corsi so-
no molto frequentati, anche da studenti pro-
venienti dall’est e da donne (è tra i primi ad
ammetterle alle lezioni come uditrici), fatti non
graditi negli ambienti accademici conservatori
berlinesi. La sua popolarità è alimentata anche
dall’assidua collaborazione con i principali
quotidiani tedeschi.

1904 Pubblica Kant. 16 Vorlesungen gehalten an der


Berliner Universität (Kant. 16 lezioni berlinesi).

1907 Pubblica Schopenhauer und Nietzsche.

1908 Pubblica Soziologie. Untersuchungen über die


Formen der Vergesellschaftung (Sociologia. Ri-
cerche sulle forme dell’associazione), una del-
le sue opere principali. Viene chiamato a inse-
gnare negli Stati Uniti, ma rifiuta l’invito. In pa-
tria invece, nonostante l’aiuto di Alfred e Max
Weber, non riesce ad ottenere la cattedra di fi-
losofia resasi disponibile a Heidelberg. Tra le
motivazioni, il relativismo religioso e il carat-
tere ritenuto «distruttivo» del suo pensiero, ol-
tre al costante antisemitismo.

1909 Con Weber, Tönnies e Sombart fonda la Deut-


sche Gesellschaft für Soziologie (Società tede-
sca di sociologia); è membro del comitato di-
rettivo.

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Georg Simmel

1910 Tiene il discorso di apertura al primo congres-


so della Società tedesca di sociologia, a Fran-
coforte, con un intervento sulla Soziologie der
Geselligkeit (Sociologia della socievolezza).
Pubblica Hauptprobleme der Philosophie (I
problemi della filosofia), primo libro poi tra-
dotto in italiano, da Antonio Banfi suo allievo
a Berlino.

1911 Pubblica la raccolta di saggi Philosophische


Kultur (tradotta in italiano con il titolo La mo-
da e altri saggi di cultura filosofica). Riceve la
laurea honoris causa in scienze politiche dal-
l’Università di Friburgo.

1913 Si dimette dalla Società tedesca di sociologia,


con la motivazione di avere ormai interessi
prettamente filosofici. Pubblica la monografia
Goethe e il saggio Das individuelle Gesetz. Ein
Versuch über das Prinzip der Ethik (La legge
individuale. Saggio sui principi dell’etica).
© ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.

1914 Viene chiamato come professore ordinario di


filosofia all’Università di Strarburgo. Lascia
Berlino malvolentieri, ma anche Berlino risen-
te della sua partenza, tanto che un giornale
pubblica un articolo dal titolo «Berlino senza
Simmel». All’inizio della guerra abbraccia posi-
zioni nazionalistiche e si impegna sul «fronte
interno», tenendo conferenze ai soldati. Que-
st’atteggiamento, poi abbandonato, porta alla
rottura definitiva con i suoi allievi prediletti G.
Lukàcs ed E. Bloch.

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Saggi sul paesaggio

1916 Pubblica la conferenza Das Problem der histo-


rischen Zeit (Il problema del tempo storico) e
Rembrandt. Ein kunstphilosophischer Versuch
(Rembrandt. Un saggio di filosofia dell’arte).

1917 Pubblica Grundfragen del Soziologie (Indivi-


duum und Gesellschaft) (tradotto in italiano
con il titolo Forme e giochi di società), sintesi
del suo pensiero sociologico.

1918 Pubblica il testo della conferenza Der Konflikt


der modernen Kultur (Il conflitto della cultura
moderna) e Lebensanschauung. Vier me-
taphysische Kapitel (Intuizione della vita.
Quattro capitoli metafisici). Il 28 settembre
muore a Strasburgo per una malattia al fegato.

Traduzioni italiane in volume


(In ordine cronologico, sono escluse le traduzioni in ri-
viste e in antologie di autori vari)

I problemi fondamentali della filosofia, (Hauptprobleme


der Philosophie, 1910), trad. e intr. di A. Banfi, Val-
lecchi, Firenze, 1922. Ristampa a cura di F. Papi, Mi-
lano, Isedi, 1972 e a cura di F. Andolfi, Roma-Bari, La-
terza, 1996

Il relativismo, (saggi vari), a cura di G. Perticone, Lan-


ciano, Carabba, 1922

Schopenhauer e Nietzsche, (Schopenhauer und Nietzsche.


Ein Vortragszyklus, 1907), trad. e intr. di G. Perticone,
Torino, Paravia, 1923. Nuova traduzione integrale a
cura di A. Olivieri, Firenze, Ponte alle Grazie, 1995

108
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Georg Simmel

Il conflitto della civiltà moderna, (Der Konflikt der mo-


dernen Kultur. Ein Vortrag, 1918), trad. e pref. di G.
Rensi, Torino, Bocca, 1925. Ripubblicato in Il conflit-
to della cultura moderna e altri saggi, a cura di C.
Mongardini, Roma, Bulzoni, 1976, e con il titolo Il
conflitto della civiltà moderna, a cura di G. Rensi, Mi-
lano, Se, 1999

Frammento sull’amore, (Fragment über die Liebe, 1921-


22), a cura di E. Sola, Milano, Athena, s.d. (1927). Nuo-
va traduzione di S. Belluzzo, Milano, Anabasi, 1995

Rembrandt. L’arte religioso-creatrice, (Rembrandt. Ein


kunstphilosophischer Versuch, 1916), trad. parziale di
E. Goldstein, intr. di A. Banfi, Roma, Doxa, 1931.
Nuova traduzione integrale di G. Gabetta, con il tito-
lo Georg Rembrandt. Un saggio di filosofia dell’arte,
Milano, SE, 1991

Intuizione della vita. Quattro capitoli metafisici, (Leben-


sanschauung. Vier metaphysische Kapitel, 1918),
© ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.

trad. it. F. Sternheim, intr. di A. Banfi, Milano, Bom-


piani, 1938. Nuova traduzione a cura di G. Antinolfi,
Napoli, ESI, 1997

Kant. Sedici lezioni tenute all’Università di Berlino,


(Kant. Sexhzehn Vorlesungen gehalten an der Berli-
ner Universität, 1904), a cura di G. Nirchio, Padova,
Cedam, 1953. Nuova traduzione di A. Marini e A. Vi-
gorelli con il titolo Kant. Sedici lezioni berlinesi, Mi-
lano, Unicopli, 19992

L’etica e i problemi della cultura moderna, (Georg Sim-


mels Vorlesung «Ethik und Probleme der modernen

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Saggi sul paesaggio

Kultur», [1913] 1949), trad. it. P. Pozzan, intr. di G. Ca-


labrò, Napoli, Guida, 1968.

Saggi di estetica, (saggi vari), a cura di M. Cacciari, Pa-


dova, Liviana, 1970

Arte e civiltà, (saggi vari), a cura di D. Formaggio e L. Pe-


rucchi, Milano, Isedi, 1976

Il dominio, (Soziologie der Über- und Unterordnung,


1907), a cura di C. Mongardini, Roma, Bulzoni, 1978

La differenziazione sociale, (Über soziale Differenzie-


rung. Soziologische und psychologische Untersuchun-
gen, 1890), a cura di B. Accarino, pref. di F. Ferrarot-
ti, Bari, Laterza, 1982

I problemi della filosofia della storia, (Die Probleme der


Geschichtsphilosophie. Eine erkenntnistheoretische
Studie, 1907), trad. it. G. Cunico, intr. di V. D’Anna,
Casale Monferrato, Marietti, 1982

Forme e giochi di società. Problemi fondamentali della


sociologia, (Grundfragen del Soziologie. Individuum
und Gesellschaft, 1917), trad. di C. Tommasi, intr. di
A. Dal Lago, Milano, Feltrinelli, 1983

Filosofia del denaro, (Philosophie des Geldes, 1900;


19072), a cura di A. Cavalli e L. Perucchi, Torino,
UTET, 1984

Il volto e il ritratto. Saggi sull’arte, (saggi vari), a cura di


L. Perucchi, Bologna, Il Mulino, 1985

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Georg Simmel

La moda, (Zur Psychologie der Mode. Soziologische Stu-


die, 1895), a cura di D. Formaggio e L. Perucchi, Ro-
ma, Editori Riuniti, 1985. Altra traduzione di M. Mo-
naldi, in La moda e altri saggi di cultura filosofica,
(Philosophische Kultur. Gesammelte Essays, 1911), Mi-
lano, Longanesi, 1985, scritti ristampati con il titolo
Saggi di cultura filosofica, Parma, Guanda, 1993;
nuova traduzione del saggio La moda, a cura di L.
Perucchi, Milano, Mondadori, 1998

La forma della storia, (Das Problem der historische Zeit,


1916, Die historische Formung, 1917-18), a cura di F.
Desideri, Salerno, Edizioni 10/17, 1987

Sociologia (Soziologie. Untersuchungen über die Formen


der Vergesellschaftung, 1908), trad. di. G. Giordano,
intr. di A. Cavalli, Milano, Comunità, 1989

Il segreto e la società segreta, (Das Geheimnis und die ge-


heime Gesellschaft, 1908), trad. di G. Quattrocchi,
intr. di A. Zhok, Milano, Sugarco, 1992
© ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.

Saggi di sociologia della religione, (saggi vari), trad. di M.


Marroni, intr. di R. Cipriano, Roma, Borla, 1993

La religione, (Die Religion, 1906), trad. e intr. di C. Mon-


gardini, Roma, Bulzoni, 1994

La legge individuale altri saggi, (saggi vari) trad. di G.


Barbolini, intr. di F. Andolfi, Pratiche, Parma, 1995. Il
saggio La legge individuale (Das individuelle Gesetz.
Ein Versuch über das Prinzip der Ethik) è stato ri-
pubblicato, a cura di F. Andolfi, Roma, Armando,
2001

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Saggi sul paesaggio

La metropoli e la vita dello spirito, (Die Grosstädte und


das Geistesleben, 1903), trad. e intr. di P. Jedlowski,
Roma, Armando, 1995

L’educazione in quanto vita, (Schulpädagogik. Vorle-


sungen, 1922), trad. it. di F. Coppellotti, intr. di A. Er-
betta, Torino, Il Segnalibro, 1995

Kant e Goethe, (Kant und Goethe, 1906), trad. di A. Iadi-


cicco, Como, Ibis, 1995

Sull’intimità, (saggi vari), trad. di M. Sordini, intr. di V.


Cotesta, Roma, Armando, 1996

La socievolezza, (Die Geselligkeit, 1917), trad. di E. Do-


naggio, intr. di G. Turnaturi, Roma, Armando, 1997

Il denaro nella cultura moderna, (Psychologie des Gel-


des, 1889, Das Geld in der modernen Kultur, 1896),
trad. it. di P. Gheri, intr. di N. Squicciarino, Roma, Ar-
mando, 1998

Tecnica e modernità nella Germania di fine Ottocento, a


cura di N. Squicciarino, Roma, Armando, 2000

Forme dell’individualismo, a cura di A. Andolfi, Roma,


Armando, 2001

Il povero (Der Arme, 1908), a cura di G. Iorio, Roma, Ar-


mando, 2001

Sulla guerra (Der Krieg und die geistingen Entscheidun-


gen, 1917), trad. e intr. di S. Giacometti, Roma, Ar-
mando, 2003

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