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E.

Lévinas - Dell'evasione
Etica
Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano (UCSC MI)
12 pag.

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DELL’EVASIONE
Il testo De l’évasion è apparso per la prima volta nel tomo V di “Recherches philosophiques” (1935-36)
(traduzione italiana di Donatella Ceccon).
L’io dello spirito borghese e capitalista si pone come autosufficiente > è uno spirito che segue il culto dello
sforzo, che tende sempre alla scoperta, che cerca di assicurarsi qualcosa per il suo futuro che in realtà rimane
ignoto > quindi dentro di lui non troviamo alcun dissidio interiore, anzi, proverebbe vergogna nel constatare
che egli non ha fiducia in lui + agisce sempre per assicurarsi che nulla in futuro e nella realtà possa
distruggere il piccolo equilibrio che si è costruito e che difende. Ha un istinto per il possesso, per
l’integrazione, per l’imperialismo > tutti elementi che rimandano alla ricerca della sicurezza. Il suo è una
“pace interiore” di facciata, perché in realtà è senza scrupoli e addirittura, essendo materialista, preferisce al
godimento del presente la sicurezza del domani. Insomma, ciò che vuole possedere è un capitale che
comporta interessi o un’assicurazione contro i rischi; il suo avvenire è dunque addomesticato e integrato col
passato.
L’io del borghese capitalista vive come un mero esserci (Jaspers); è un essere che semplicemente c’è e non vi
è nulla da aggiungere (essere= la sua esistenza e nulla più, nulla che va oltre, nulla che non faccia riferimento
al suo esser se stesso e alla sua identità). La filosofia occidentale non è mai davvero riuscita ad andare oltre
questo mero esserci > quando la filosofia occidentale cercava di combattere contro l’ontologismo (quando lo
faceva) era per arrivare ad un essere più armonioso e perfetto che unisse l’io al noi/al mondo in un ideale di
pace ed equilibrio. Quindi la sua preoccupazione era assicurare la comunione dell’essere di quest’uomo con
l’essere infinito/trascendentale. Tutto questo si accompagna al fatto che sin dalla filosofia moderna,
l’interesse verso la trascendenza è decaduto, come se si avesse ormai la certezza che l’idea di limite non può
essere applicata all’esistenza di ciò che è, ma unicamente alla sua natura > come se si percepisse che l’essere
è qualcosa di molto più profondo. Questa intuizione la ritroviamo nella letteratura contemporanea, dove
spesso si ritrova il tema dell’evasione > l’evasione è la condanna della filosofia dell’essere ed è il male del
secolo. Non è facile fare l’elenco di tutte le situazioni della vita in cui l’evasione si manifesta > tuttavia, in
quello che noi crediamo sia l’ingranaggio (incomprensibile) dell’ordine universale, l’individuo (in queste
situazioni) comprende di essere sì una persona autonoma, ma in continuo stato di mobilitazione (soprattutto
rispettivamente alla realtà ultima, che richiede all’individuo un sacrificio). Ci accorgiamo dunque che c’è
dell’essere, un essere molto profondo e pesante (e qui le cose si fanno più serie) > ci accorgiamo che siamo
come incatenati ad un fondo di sofferenza che ci minaccia e che è impossibile romperlo/interromperlo.
L’impossibilità di uscire da questo gioco, ci fa uscire dallo stato di meri giocatori > ciò che conta in questa
esperienza dell’essere non è la scoperta di un nuovo carattere della nostra esistenza, ma la scoperta di questa
inamovibilità della nostra esistenza. Attenzione: questa dimensione dell’esistenza che cogliamo nel
sentimento dell’essere incatenati/inamovibili può essere ricondotta al termine tedesco heideggeriano
Geworfenheit (“essere gettato” dell’uomo/esserci nel mondo > facendo riferimento a Lévinas, diventa
“essere-incatenati ad un’esistenza non scelta”)> domanda: ma che origine ha? Forse proviene dall’ebraicità
> il nazismo in quegli anni sta dimostrando l’effettiva irremissibilità degli ebrei (infatti la rivista
dell’Alleanza israelitica universale “Paix et droit” scrive in un articolo del 1935 che l’hitlerismo sembra
proprio confermare il fatto che l’ebraismo dovrà affrontare un destino patetico e sofferente a cui non può
sfuggire > queste parole sembrano proprio rimandare proprio a quello che sta dicendo Lévinas nel modo con
cui descrive il fatto che l’esistente è assoggettato all’esistenza). insomma questo essere-incatenato dell’ebreo
all’ebraismo (un’esistenza non scelta) è uguale al generale essere-incatenato dell’uomo all’essere (essere-
incatenato-all’essere). Da qui emerge il desiderio di evasione.
L’evasione non emerge solo dal sogno del poeta che vorrebbe evadere dalla “bassa realtà”, o solo dalla
preoccupazione di rompere con le convenzioni e costruzioni sociali che annichiliscono la nostra persona
(autori romantici del 18esimo-19esimo secolo), o solo dalla ricerca di un meraviglioso capace di infrangere il
torpore della nostra esistenza borghese > essi sono elementi che ci fanno capire che abbiamo un bisogno di
trascendere oltre i limiti dell’essere finito, ma non mettono ancora in causa l’essere > tuttavia, esprimono

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l’orrore davanti ad una definizione del nostro essere. ora, non si tratta solo di evadere, ma anche di cercare
un posto di rifugio/di andare da qualche parte. Attenzione: il bisogno di evasione è solo il punto iniziale per
uno slancio vitale in cui diveniamo finalmente creatori (quindi evasione e slancio vitale sono due cose
diverse) di un destino che non è già stabilito (come invece quello ebreo). La filosofia dello slancio creatore
rompe con la rigidità dell’esser classico, ma non riesce davvero ad andare oltre/ a fare qualcos’altro (e quindi
dove nasce, si conclude) > e questo perché il divenire non è l’alternativa all’essere. Certamente lo slancio
verso ciò che sta davanti a noi, è creatore e per noi irresistibile, però rimane il fatto che il destino è lo stigma
dell’essere – e anche se il destino non è del tutto tracciato, il suo compimento rimane sempre e comunque
fatale.
Allora, attenzione: nello slancio vitale noi andiamo verso l’ignoto (e compiamo nelle scelte a dei bivi che ci
si presentano davanti), mentre nell’evasione noi aspiriamo solo ad uscire (quindi non c’è ancora slancio).
Quindi dobbiamo capire al meglio questa categoria dell’uscita/dell’evasione, senza trattarla alla luce della
creazione/dello slancio. Questa uscita ovviamente non è la morte, la quale non è una soluzione.
Dunque: nell’identità dell’io, l’identità dell’essere rivela la sua natura di incatenamento (perché appare sotto
forma di sofferenza), ma anche la sua natura all’evasione. Allora, evasione= bisogno di uscire da se stessi,
cioè di spezzare l’incatenamento (ovvero il fatto che l’io è se stesso). Quindi l’evasione di cui stiamo
parlando ha poco a che fare con il sogno di “vite innumerevoli” della letteratura > ciò che spinge all’evasione
non è il fatto che la vita sia scelta e di conseguenza sacrificio di numerose possibilità che non si
realizzeranno mai > il bisogno di un’esistenza infinita suppone al fondo dell’io la pace realizzata, ovvero
l’accettazione dell’essere. al contrario, l’evasione mette in questione proprio questa pace con sé, poiché c’è
un’aspirazione a rompere l’incatenamento dell’io a sé > è dall’essere stesso/dal se-stesso, con i suoi limiti, a
cui l’evasione cerca di fuggire. Nell’evasione l’io cerca di fuggire da se stesso non in opposizione all’infinito
di ciò che esso non è e che non diventerà mai, ma in opposizione al fatto stesso di essere o di divenire. le sue
preoccupazioni vanno al di là del finito/infinito.
Insomma, l’io non vedo altro che la brutalità delle sua esistenza > perciò il bisogno d’evasione ci conduce al
cuore della filosofia > infatti ci permette di rinnovare l’antico problema dell’essere in quanto essere > qual è
la struttura di questo essere puro? Ha l’universalità che gli aveva conferito Aristotele= è il fondamento e il
limite delle nostre cure, come dicono molti filosofi moderni? È possibile un’eccedenza? Qual è l’ideale di
felicità e di dignità umana che essa promette?
Osservazione: Lévinas parla poco di felicità, ma è molto kantiano > la felicità è felicità dell’altro per il quale
io sono (quindi la mia felicità si ricava da quella di altri). Per quanto riguarda la dignità umana, quest’ultima
sta nel soggetto responsabile indifferente alle ricompense. Lévinas scrive: l’obbedienza alla prescrizione non
implica altra ricompensa che questa stessa elevazione della dignità dell’anima – e la disobbedienza, nessun
castigo se non quello della rottura con il Bene.
II Cap. il fatto di esistere si riferisce a sé – è ciò grazie a cui si pongono tutti i poteri e tutte le proprietà >
l’evasione che stiamo esaminando ci deve apparire come la struttura interna di questo fatto di porsi.
L’evasione di cui trattiamo non è una fuga verso la morte e non è nemmeno un’uscita al di fuori del tempo.
prima di tutto partiamo descrivendo la struttura del bisogno > se il fondamento del bisogno è una mancanza,
questa mancanza non sarebbe in grado di coinvolgere l’esistenza dell’esistente, poiché a quest’ultima non si
può né aggiungere né sottrarre nulla. Il bisogno è strettamente legato all’essere, ma non in qualità di
privazione > scopriremo che l’essere è puro è già evasione e non un essere limitato che cerca di superare i
propri limiti per arricchirsi e completarsi.
III cap. a prima vista, il bisogno sembra aspirare alla propria soddisfazione > e quindi si dovrebbe cercare un
oggetto in grado di procurare soddisfazione, quindi il bisogno ci rivolge verso qualcos’altro da noi > allora
sembra che il nostro essere sia insufficiente, infatti cerchiamo rifugio in altro da noi stessi > questa
insufficienze viene spesso interpretata come mancanza e indica dunque una debolezza della costituzione
umana/un limite della costituzione umana. La soddisfazione di questo bisogno dovrebbe cercare di colmare
questa mancanza e restituire pienezza naturale a quest’essere.
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Lévinas: questa psicologia del bisogno è sbrigativa, perché interpreta troppo in fretta l’insufficienza del
bisogno come un’insufficienza dell’essere > sembra allora che il bisogno sia un vuoto e il mondo sia il pieno
> questa identificazione minaccia qualsiasi pensiero che non riesce a distinguere esistenza ed esistente, e che
applica all’uno ciò che potrebbe avere senso per l’altro.
Il bisogno, quando diventa imperioso, può diventare sofferenza/malessere. Il malessere non è uno stato
puramente passivo, anzi, il fatto di non sentirsi a proprio agio è dinamico: appare come un rifiuto di abitare e
comincia uno sforzo per uscire da una situazione insostenibile. Tuttavia, lo sbocco che questa via propone, è
ancora indeterminato > quindi si cerca di uscire da questa situazione, ma non si sa dove si va > e tale
ignoranza qualifica l’essenza di questo tentativo. Quindi ci sono bisogni che non hanno la coscienza
dell’oggetto determinato che potrebbe soddisfarli. Di solito invece, per educazione o esperienza, siamo
portati a pensare che il bisogno si riferisce sempre ad un oggetto che sta al di fuori di noi.
Attenzione: la sofferenza del bisogno non indica una mancanza da soddisfare > non ci denuncia come essere
finiti. la constatazione secondo cui l’essere che non soddisfa i propri bisogni, muore, è incontestabile, però
ha origine estrinseca: in se stesso il bisogno non annuncia la fine/la morte, ma si attacca all’attuale che sta
sulla soglia di un avvenire possibile. Attenzione: la soddisfazione del bisogno, non distrugge il bisogno.
Domanda: l’ideale di pace è tra le esigenze iniziali del bisogno? Anche se soddisfiamo un bisogno, resta
comunque sul fondo l’esigenza per una soddisfazione che dovrebbe liberarci e che però non arriva. Ecco il
punto: l’inadeguatezza della soddisfazione al bisogno. Ed ecco qui che emergono le tendenze dell’ascetismo
> il quale è ancora ricollegato al bisogno di evasione. Insomma, il bisogno porta con sé un tipo di
insufficienza che non può essere placata con una soddisfazione.
IV cap. per giustificare la nostra tesi secondo cui il bisogno esprime la presenza del nostro essere e non la
sua mancanza, dobbiamo esaminare il fenomeno primordiale della soddisfazione del bisogno: il piacere. La
soddisfazione si compie in un’atmosfera di febbre ed esaltazione che ci permette di dire che il bisogno è
ricerca di piacere > ma che cosa significa questo piacere? Innanzitutto il piacere si sviluppa, non è tutto
compiuto e tutto immediato > anzi, non sarà mai compiuto. Il piacere è un movimento che non tende ad uno
sbocco, poiché non ha fine > è come una voragine in cui precipita il nostro essere, che non oppone più
resistenza. c’è qualcosa di vertiginoso nel divenire del piacere. Facilità o debolezza. L’essere si sente
svuotato della sua sostanza e alleggerito come in un’ebrezza e disperdere. Il piacere poi non si concentra in
un istante – è l’istante a prendere consistenza grazie al piacere. Dunque il piacere è esteso, ha un’ampiezza.
Invece il dolore è più concentrazione.
Dunque, nel piacere constatiamo una perdita di sé/un abbandono/un’uscita fuori di sé/un’estasi: questi
caratteri sembrano proprio esser quelli dell’evasione. Insomma, il piacere non appare come uno stato
passivo, anzi, esso apre nella soddisfazione del bisogno una dimensione in cui il malessere può avviarsi
all’evasione. Il movimento del piacere è il denudamento del malessere. Il fatto stesso che la soddisfazione
del bisogno si accompagni ad un evento affettivo, rivela il vero significato del bisogno. Non si tratta si un
semplice atto che viene a colmare la mancanza annunciata nel bisogno. L’atto puro e semplice presuppone
l’esser costituito, non è l’affermazione stessa dell’essere. l’affettività è estranea alle nozioni che si applicano
a ciò che è, e non ha mai potuto essere ridotta alle categorie del pensiero e dell’attività. Aristotele si era
accorto dell’estraneità del piacere rispetto all’attività > ma non è vero che il piacere si aggiunge all’atto
“come alla giovinezza il fiore”, perché questa immagine abbassa il piacere al rango di stato, eliminandone il
movimento in cui invece si compiono la soddisfazione e la promessa d’evasione che esso arreca al malessere
del bisogno. È giusto dire che il piacere non è lo sbocco del bisogno, poiché non a termine > è un processo
– e processo d’uscita dall’essere. la sua natura affettiva non è solo l’espressione o il segno di questa uscita,
è questa uscita stessa. Il piacere è affettività perché non adotta le forme dell’essere, ma tenta di spezzarle.
Tuttavia si tratta di un’evasione ingannatrice. È un’evasione che naufraga. Come un processo che, lungi dal
chiudersi su se stesso, appare in un costante superamento di se stesso, anche il piacere si spezza nell’istane in
cui sembra uscire completamente. Si sviluppa in un crescendo di promesse che diventano più ricche secondo
che si avvicina al parossismo, ma queste promesse non vengono mai mantenute.

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Non è il fatto d’essere condizionato dal bisogno e mescolato al dolore che si compromette la purezza del
piacere. In se stesso, sul piano strettamente affettivo, il piacere è delusione e inganno. È delusione non per il
ruolo che gioca nella vita, né per i suoi effetti distruttivi, né per la sua indegnità morale, ma per il suo interno
divenire. esso si conforma alle esigenze del bisogno ma è incapace di eguagliarne la misura. E nel momento
della sua delusione, che doveva essere quello del suo trionfo, il senso del suo scacco è sottolineato dalla
vergogna.
V cap. a prima analisi sembra che la vergogna sia riservata ai fenomeni d’ordine sociale: si prova vergogna
per aver agito male, per aver deviato dalla norma/ si tratta della rappresentazione che noi facciamo di noi
stessi come di un essere diminuito, con il quale ci è penoso identificarci. Ma tutta la durezza della vergogna
e ciò che di bruciante essa comporta, consiste nella nostra impossibilità di identificarci con l’essere che ci è
già estraneo e i cui motivi d’azione non possiamo comprendere. Quindi la vergogna è connessa all’essere del
nostro io > noi siamo portati a pensare che la vergogna derivi dalla limitatezza del nostro essere (in quanto
suscettibile di peccato) e invece essa deriva proprio dal nostro essere e dalla sua incapacità di rompere con se
stesso. la vergogna si fonda sul nostro essere, il quale ci obbliga ad essere responsabili di noi stessi. Tuttavia,
questa analisi della vergogna è ancora insufficiente, perché la stiamo presentando in funzione di un atto
determinato (e, in particolare, moralmente malvagio) > ora dobbiamo cercare di liberarla da questa
condizione.
La vergogna è connessa a tutto ciò che di noi vorrebbe rimaner nascosto e che invece diventa nudo (e che
non siamo più in grado di ricoprire). La nostra povertà sta nella nudità di un’esistenza incapace di
nascondersi > questa preoccupazione di nasconderci riguarda tutte le manifestazioni della nostra vita, i nostri
atti e pensieri. Accediamo al mondo attraverso le parole e vogliamo che queste parole siano nobili. Diciamo
che proviamo vergogna soprattutto davanti agli altri, quindi sembra che essa abbia a che fare più col sociale,
quando in realtà riguarda prima di tutto l’ambito personale > la necessità di fuggire per nascondersi è messa
in scacco dall’impossibilità di fuggire da noi stessi (ecco perché, anche se cerchiamo di nascondere qualcosa,
in realtà questo continua ad esser manifesto). Quindi la vergogna è incatenata al sé - è impossibile fuggire
da se stessi per nascondersi a sé. tutto questo discorso sulla nudità (che provoca vergogna), riguarda anche la
nudità del corpo > la nudità del nostro corpo non è la nudità di una cosa materiale antitetica allo spirito, ma
del nostro essere totale in tutta la sua pienezza e solidità. Attenzione: quando il corpo perde il carattere di
intimità, questo carattere dell’esistenza di un se stesso cessa di divenire vergognoso (come il corpo nudo del
pugile o di una ballerina). Insomma, è la nostra intimità, cioè la nostra presenza a noi stessi, che è
vergognosa. Tutto quello che è senza vestito non è necessariamente nudo. La nudità è il bisogno di scusare
la propria esistenza. ciò che la vergogna svela è l’essere che si svela. A questo punto, il pudore entra nel
bisogno (il quale ci è già apparso come il malessere dell’essere e come categoria fondamentale
dell’esistenza). l’essere che riesce a colmarsi, ricade comunque nella lacerante delusione della sua intimità
vergognosa, perché si ritrova dopo la vanità del suo piacere. Però, per sostenere la tesi secondo cui l’essere è,
nel suo fondo, un peso per sé, dobbiamo avviarci meglio al fenomeno del malessere.
VI cap. un caso in cui la natura del malessere appare in tutta la sua purezza è la nausea. Lo stato di nausea
che precede il vomito, e di cui il vomito ci libera, ci assilla dappertutto. Ma non giunge ad assillarci dal di
fuori > è l’interno che ci fa rivoltare, c’è una rivolante presenta di noi a noi stessi. La nausea aderisce a noi
stessi, non è qualcosa che proviene dall’esterno. Tuttavia, la nausea è un ostacolo che si può evitare > nella
nausea c’è uno sforzo per cercare di uscirne (e quindi rifiuto a permanervi) > tuttavia, tale sforzo è disperato
> la disperazione sta nel fatto che si vorrebbe essere diversi da ciò che si è, ma non si riesce, poiché siamo
incatenati a noi stessi (come imprigionati da un cerchio stretto che ci soffoca) > in tal situazione, sembra che
non ci sia più niente da fare > ma il “non c’è più niente da fare” è il carattere della situazione-limite in ci
l’inutilità di qualsiasi azione è precisamente l’indicazione dell’istante supremo in cui non resta che uscire.
L’esperienza dell’essere puro è, nello stesso tempo, l’esperienza del suo antagonista interiore, ovvero
l’evasione (che si impone) > ma attenzione, l’evasione/l’uscita verso cui l’esperienza attinge non è la morte
> la morte le appare solo quando essa riflette su se stessa. La nausea svela la nudità dell’essere nella sua
pienezza e nella sua irremissibile presenza > la nausea è vergognosa secondo un significato preciso: la
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nausea è vergognosa in quanto minaccia di offendere le convenzioni sociali > ma attenzione: le
manifestazioni vergognose del nostro corpo compromettono in un modo diverso rispetto alla menzogna o
alla disonestà > l’errore non consiste nell’aver mancato alle convenienze, ma nel fatto stesso di avere un
corpo/ di essere là. Per questo motivo la nausea vergognosa continua a permanere anche quando non stiamo
manifestando alcun nostro atto nel sociale (quindi quando rimaniamo in solitudine, dove continuiamo a
scandalizzarci di noi stessi > in queste occasioni quasi cominciamo a desiderare la presenza degli altri,
perché permette di ridurre lo scandalo della nausea al rango di “malattia”/ di un fatto socialmente normale
che si può trattare e rispetto al quale si può assumere anche un atteggiamento obiettivo).
Osservazione (punti 6 e 7): questo passaggio trova un collegamento con “La mauvaise conscience et
l’inexorable pag 110-112) in cui dice, cit: “Dover rispondere del proprio diritto a essere, non in riferimento al
carattere astratto di qualche legge anonima, di qualche entità giuridica, ma nella paura per altri (io: cioè nella
paura per la morte di altri). Il mio ‘essere al mondo’ o il mio ‘posto al sole’, il mio ‘presso di me’ non hanno
forse costituito l’usurpazione dei luoghi che appartengono all’altro uomo, il quale già per causa mia è
oppresso e affamato? Paura per tutto ciò che, nonostante la mia innocenza intenzionale e cosciente, il mio
esistere può compiere in termini di violenza e delitto. Paura che risale dietro alla mia ‘coscienza di sé’, quali
che siano i ritorni della pura perseveranza nell’essere verso la buona coscienza. Paura che giunge a me dal
volto d’altri. Estrema rettitudine del volto del prossimo, che lacera le forme plastiche del fenomeno.
Rettitudine di una esposizione alla morte, senza difesa; e, prima di ogni linguaggio, e di ogni mimica, una
domanda indirizzata o un ordine significato, messa in questione della mia presenza e della mia
responsabilità”. Fine osservazione
Ma la nausea è l’esistenza stessa o soltanto un esistente? porre una domanda così significa dimenticare
l’implicazione sui generis che la costituisce e permette di vedere in essa il compimento dell’essere stesso
dell’essente che noi siamo > perché ciò che costituisce il rapporto fra la nausea e noi è proprio la nausea > la
sua irremissibilità ne rappresenta il fondamento stesso. la nausea di pone come qualcosa di assoluto e come
l’atto stesso di porsi: è l’affermazione stessa dell’essere. essa si riferisce solo a se stessa, è chiusa rispetto a
tutto il resto, priva di spiragli su ogni altra cosa. Il suo fondamento consiste nell’impotenza davanti alla
propria realtà, che costituisce la realtà medesima. Possiamo dire che la nausea ci rivela la presenza
dell’essere totalmente impotente che la costituisce in quanto tale > è l’impotenza dell’esser puro in tutta la
sua nudità. Infine la nausea appare anche come un fatto di coscienza fuori posto. Se in ogni fatto psicologico
l’essere del fatto di coscienza si confonde con la sua conoscenza e il fatto cosciente è conosciuto attraverso
la sua stessa esistenza, la sua natura non si confonde con la sua presenza. La natura della nausea, al contrario,
non è se non la sua presenza, l’impotenza di uscire da questa presenza.
VII cap. sembra che alla base del bisogno non ci sia una mancanza d’essere, ma, al contrario, una pienezza
dell’essere > il bisogno quindi non è diretto al totale compimento dell’essere limitato/verso la sua
soddisfazione, ma verso la liberazione e l’evasione. Supporre dunque un essere infinito che non ha bisogno
è una contradictio in adjecto (una contraddizione nell’attributo). Quindi la fonte del bisogno è l’essere stesso
> ma non perché l’essere è imperfetto o finito. La constatazione che l’uomo fin dalla nascita è coinvolto in
un’esistenza che non ha voluto e non ha scelto, non dev’essere limitata al caso dell’uomo (essere finito). Il
bisogno è dunque come una parte della struttura dell’essere stesso (cioè il bisogno non nasce dal fatto che
l’essere è finito e imperfetto, ma è proprio costituente dell’essere). poi attenzione: entrare nell’esistenza
senza sceglierlo non significa ledere alla volontà, altrimenti ciò significherebbe che la volontà sia presente
ben prima dell’esistenza dell’essere finito. Il sentimento di brutalità dell’esistenza non è la semplice illusione
di un essere finito che, facendo ritorno su se stesso, misura la sua esistenza rispetto alle facoltà e poteri che
possiede in quanto esistente > se questi poteri/facoltà gli appaiono limitati, la loro limitatezza è di un genere
diverso rispetto alla brutalità dell’esistenza stessa. Insomma, l’essere è schiacciato da un peso > e questo
peso è se stesso/ è l’essere stesso e noi siamo condannati ad esser noi stessi. Ora, dentro questo essere, è per
noi impossibile distinguere ciò che accetta il peso da questo stesso peso. Domanda: l’essere basta a se
stesso? questa domanda fa sì che al posto di porre la nostra attenzione sul ritrovare un’origine al nostro

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essere (e che finisce sul discorso riguardante il nulla), ci concentriamo sulla sufficienza/insufficienza di
questo essere.
Osservazione: Lévinas dice che il problema dell’origine dell’essere non è il problema del suo procedere dal
nulla, ma quello della sua sufficienza/insufficienza > cioè: il problema dell’origine dell’essere che, pensato
come essAnza (cioè essere diverso dall’essente), svela sua intima affinità con il “c’è” orribile e terrificante,
e svela ciò che in anni lontani si indicava come la sua insufficienza/impotenza/imperfezione/finitezza, è il
problema della sua giustificazione grazie a ciò che è migliore dell’essere – cioè il Bene.
VIII cap. il progresso non ha condotto la filosofia occidentale a superare completamente l’essere. la filosofia
occidentale ha scoperto i domini dell’ideale, della coscienza, del divenire, ma è sempre restata nel dogma
dell’ontologismo. L’ontologismo, anche se col tempo si è affinato, rimane prigioniero di un principio
elementare e semplice secondo il quale non si può né pensare né sperimentare se non ciò che esiste o che si
ritiene esista. È un principio ancora più imperativo rispetto a quello di non-contraddizione, poiché il nulla
stesso, nella misura in cui il pensiero lo incontra, è rivestito di un’esistenza e certo senza restrizione si è
obbligati a enunciare contro Parmenide che il non-essere è.
Forse una distinzione fra la forma e la materia del pensiero ci consente si sfuggire ad un’accusa che opprime
il pensiero sotto il peso di un’assurdità. La posizione contenuto in ogni pensiero teorico non è distinta
dall’affermazione dell’essere? la pura forma d’oggetto, che deve rivestire tutto ciò che il pensiero pensa, non
trasforma questa materia in essere?
Lo slancio verso il creatore esprime un’uscita al di fuori dell’essere > ma la filosofia applicava a dio la
categoria dell’essere, oppure lo indicava come creatore; come se si potesse oltrepassare l’essere
avvicinandosi ad un’attività o imitando un’opera che consiste precisamente nel trovarvi sbocco. Il
romanticismo dell’attività creatrice è animato da un profondo bisogno di uscire dall’essere; ma manifesta,
nonostante tutto, un attaccamento alla sua essenza creata e i suoi occhi sono fissi sull’essere. il problema di
dio è rimasto il problema della sua esistenza. in questa universalità dell’essere per il pensiero e per l’azione
risiede l’impotenza dell’idealismo tradizionale davanti al continuo ritorno di una dottrina che ricorda
l’attaccamento all’essere di un pensiero che si fa carico di oltrepassarlo. Nella sua opposizione al realismo,
l’idealismo modifica la struttura dell’esistenza – ma non affronta la sua esistenza. esso non sa dirne nulla e
lascia la cura di interpretarla a tutti coloro che non domandano di andare al di là dell’essere. la liberazione
dell’idealismo nei confronti dell’essere è basata sulla sua sottovalutazone > nel momento in cui l’idealismo
immagina di averlo superato, in realtà ne è evaso da ogni parte le relazioni intellettuali in cui ha dissolto
l’universo restano comunque delle esistenze, né inerti né opache, ma che non sfuggono alle leggi dell’essere.
Osservazioni: le qualificazioni negative (come impotenza, imperfezione, finitezza) non riguardano il quid
dell’essere, ma il suo quomodo, cioè il modo in cui si dà nel rapporto che l’esser-ci intrattiene con esso. Qui
la finitezza non va pensata come la intendeva Heidegger (secondo il quale l’essere è finito perché è tempo),
poiché in Lévinas finitezza diventa sinonimo di impotenza o imperfezione > entrambi indicano il modo con
cui l’essere si pone, cioè si pone fino alla nausea/fino a soffocare sotto se stesso. Finitezza-impotenza-
imperfezione sono l’altro aspetto dell’infinitezza-onnipotenza-perfezione > l’essere è essenzialmente finito
perché l’essere si pone infinitamente/perché nulla può dar da ostacolo alla sua onnipotenza, perché nella sua
dimensione verbale “il fatto d’essere è fin d’ora perfetto” > perché nel suo quid esso è questa potenza, così
come nel suo quomodo è questa impotenza. In altri termini, è l’orrore dato dall’inevitabile insistenza del”
c’è” senza tregua > ed è in questa situazione pressante che avanza l’evasione.
Lévinas poi, in diversi scritti (pubblicati sempre in Recherches philosophiques, fra il 1934-35) cerca di
riabilitare il presente (servendosi del pensiero di Lavelle, che apprezza molto) contro i filosofi tedeschi,
secondo i quali lo trascorrere del tempo rivela l’opaco spessore dell’essere > secondo i filosofi tedeschi,
difronte ad un passato persistente ed incancellabile ed un futuro incerto e minaccioso, il presente diventa
fuggevole e non concede di prendere un attimo fiato per affermarsi e appartenersi. Lévinas si pone contro ciò
e dice: Lavelle ha il merito di aver capito che la riabilitazione del presente è un modo per spezzare il tragico
gioco del tempo > però Lavelle pensa che per vincere il tempo, bisogna uscire da esso, quindi bisogna
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affermare un essere intemporale > ma secondo Lévinas questo discorso è troppo freddo, infatti dice: la
promessa di felicità è una freccia diretta verso l’eternità – la riabilitazione del presente (apogeo del tempo e
condizione di libertà) ci deve condurre all’incontro con un’eternità che porta con sé una verità che non è la
fredda verità matematica > e allora si pone una domanda: non c’è nel tempo stesso una perfezione che è
altro rispetto al privilegio di essere una mobile imitazione dell’immobile eternità?
Perfezione del tempo al di fuori di qualsiasi rapporto con l’eternità, di cui d’altra parte “Dell’evasione” ha
sottolineato il carattere ontologico (perfezione del tempo in se stesso contro l’essenziale imperfezione
dell’essere). Tutto questo ci conduce ai testi più recenti di Lévinas in cui il tempo trova quella perfezione
dell’altro dall’essere, che è descritto come un pulsare dell’Altro nel Medesimo e come a-Dio.
J. ROLLAND – USCIRE DALL’ESSERE PER UNA NUOVA VIA
Ciò che emerge sono i seguenti passaggi: dal bisogno al piacere > dal piacere alla vergogna > dalla vergogna
alla nausea > dalla nausea all’evasione. Un’altra cosa è chiara: il bisogno di evasione ci conduce al cuore
della filosofia, perché questo tema ci permette di rinnovare l’antico problema dell’essere in quanto essere. in
particolare, 2 compiti distinti (uno prima dell’altro):
1. Inquadrare il significato della parola essere
2. Spiegare l’esigenza di evasione, che nasce proprio da un certo modo di intendere il verbo essere
Dall’essere al “c’è” (il y a). è ovvio che Dell’evasione fa molto riferimento ad un testo uscito quasi 10 anni
prima, ovvero Essere e tempo di Heidegger (su cui Lévinas ci concentrò molto con i suoi primi studi). Di
Heidegger (non solo in Lévinas, ma sono elementi che cominciano ad entrare e ad affermarsi nella filosofia
occidentale di inizio secolo) viene ripreso:
1. Una determinata concezione della filosofia, secondo cui un problema è da considerarsi filosofico se
si pone in rapporto/in confronto con l’antico problema dell’essere in quanto essere. quindi il
problema della filosofia coincide con quello dell’essere e del suo senso (quindi l’ontologia è la
filosofia stessa)
2. questo significa anche non tener conto/prendere le distanze, nelle riflessione filosofiche da qui in
poi, da tutti quei pensieri che non hanno saputo distinguere l’esistenza dall’esistente , cioè che non
hanno saputo operare la distinzione fra “ciò che è” e “l’essere di ciò che è”, inteso come “ciò grazie
a cui si pongono tutti i poteri e tutte le proprietà”, o come “il fatto stesso di essere di tutti gli
essenti”.
3. L’idea che l’essere che si rivela al dasein (esserci) non si rivela sotto forma di un nozione teorica da
contemplarsi > il suo concetto infatti può essere elaborato solo sulla base di un’esplicitazione
dell’esistenza del dasein
Da qui, secondo Lévinas non è possibile tornare a fare una filosofia pre-heideggeriana > c’è in questo
periodo proprio un bisogno profondo di “uscire dall’essere”, che porta a riproporre il problema sull’essere in
quanto essere. Lévinas, detto ciò, si concentrerà sempre sulla pura esistenza.
Nella prima parte (tipo dove parla dell’io borghese) dice che il fatto di essere è già perfetto > ma questa
perfezione ha una natura particolare, infatti dobbiamo aggiungere che il fatto dell’essere si colloca al di là
della distinzione fra perfetto ed imperfetto e che l’essere è imperfetto in quanto essere e non in quanto finito.
Insomma la perfezione dell’essere non è commensurabile a quella degli essenti, per questo si pone oltre la
distinzione fra perfetto/imperfetto così come si pone al di là quella fra finito/infinito. La perfezione
dell’essere è la verità elementare che c’è dell’essere – quando questa si rivela con una profondità che dà la
misura della sua brutalità e della sua serietà. La perfezione dell’essere è la sua brutalità – la brutalità del suo
“c’è” > la sua perfezione di verbo è brutale > l’essere è: la proposizione non esce dalla tautologia, ma in essa
stessa significa che l’essere si afferma e si pone > e questa posizione/affermazione è assolutamente perfetta,
essa comprende tutto e nulla sfugge/esce da essa. Da qui, il compito di questo studio diventa proprio

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dimostrare che questa affermazione/posizione è imperfetta perché orribile nel mondo, perché si impone.
Quindi perfezione/imperfezione > e questo lo capiamo solo dalla relazione che l’uomo/l’essente intrattiene
con l’essere > infatti in questa operetta, Lévinas dice che noi capiamo questa relazione attraverso un
sentimento, ovvero il sentimento di essere incatenati (tramite questo sentimento capiamo che relazione
l’uomo ha con questo essere perfetto). A questo si aggiunge l’impossibilità di uscire dal gioco > ciò che
conta in tutta questa esperienza dell’essere non è la scoperta di un nuovo carattere della nostra esistenza, ma
del suo fatto stesso/della sua inamovibilità della nostra presenza. Si tratta esattamente dell’esser gettato di
Heidegger (geworfeinheit). Il dasein è indissolubilmente legato alle sue possibilità, il suo “qui” gli si impone.
Esistendo, il dasein è gettato nel mezzo delle sue possibilità (che fino adesso, alcune le ha afferrate, altre
mancate), e non situato davanti ad esse. Heidegger definisce questo essere gettato nel mezzo delle proprie
possibilità e di esservi abbandonato con il termine Geworfeinheit, che noi traduciamo come con la parola
“derelizione” (=l'abbandono della cosa, fatto con l'animo di rinunziare alla proprietà su di essa)> e la
derelizione è il fondamento necessario dell’affettività > l’affettività è un fenomeno comprensibile là dove
l’esistenza presenta la struttura di essere abbandonata al suo proprio destino. La derelizione (= abbandono
alle possibilità imposte) dà all’esistenza il carattere di fatto nel senso più forte e drammatico del termine – e
al suo confronto i fatti empirici non sono altro che dei derivati. La descrizione ontologica del fatto è questa:
essere stati gettati nel mondo, abbandonati e lasciati a se stessi. Anzi, Heidegger e i suoi discepoli pensano
che l’ontologia sia un’ermeneutica dell’effettività (= l’esistenza umana e le caratteristiche positive delle
finitezza e del nulla umani).
Dell’evasione è anch’essa una sorta di interpretazione/ermeneutica della nostra fatticità, però differisce ad un
certo punto da Heidegger: Heidegger dice che il dasein ha aperte delle possibilità, quindi ha un’inclinazione
che va al di là della situazione imposta (quindi può andare oltre se stesso) – questo modo di proiettarsi in
avanti verso le sue proprie possibilità e di abbozzarle in nome dell’esistenza stessa, è un momento
fondamentale della comprensione (Heidegger indica tutto ciò col termine Entwurf, cioè “progetto-abbozzo”)
> invece Lévinas si sofferma sul termine Geworfenheit (che è la condizione fondamentale dell’essere
umano) e descrive la situazione dell’esistenza dicendo che essa non trova in essa una propensione ad andare
oltre la situazione imposta, quindi l’esser-gettato è una condizione paralizzante, che non permette la
possibilità di progettarsi (questa è l’ermeneutica della fatticità di Lévinas).
Inoltre attenzione: Lévinas parla di nausea= disposizione fondamentale che manifesta l’essere come essere
che si annuncia nel sentimento di essere indissolubilmente legati > invece Heidegger parlò più di paura e di
angoscia. Attenzione: in Dell’evasione la nausea non può essere compresa partendo dalla sua pura e semplice
realtà psicologica > nel modo di intendere la nausea, Lévinas si avvicina a Sartre, secondo il quale il
sentimento della nausea ha la sua origine nel fatto che ci accorgiamo all’improvviso che le cose esistono (un
bicchiere di birra su un tavolino, le bretelle del padrone di quel bar, le radici di un albero che affondano in un
giardino pubblico, ecc) > ed esistono in un modo che sprofondano, in qualche modo, in questa esistenza o in
questo essere che resta, mentre svanisce ciò che le formava come cose manipolabili o conoscibili, utilizzabili
e ammirabili – cioè la forma che riuniva le loro “qualità” e le presentava in un volto (eidos). In altre parole,
dobbiamo intendere la nausea nella sua portata ontologica, o come stimmung nel senso heideggeriano.
Differenza:
• Angoscia= vertigine davanti all’indeterminazione
• Nausea= nasce davanti a qualcosa di determinato (es. la vista di uno spettacolo particolarmente
ripugnante, annusare un odore disgustoso o assorbire una sostanza tossica) > quindi è riconducibile
ad una causa, a qualcosa di determinato.
Come dice Rimbaud (in Les Assis), chi ha la nausea si sente preso da un’atroce strozzatura. Lévinas
letteralmente chiama la nausea mal au coeur (male al cuore – e non mal de coeur, che quello è un
dolore cardiaco) > perché è il cuore/il fondo di noi stessi che viene raggiunto e che poi intacca la
totalità del nostro essere nel suo modo di esistere o di riferirsi alla sua propria esistenza). tuttavia,
quando cerchiamo di dare una causa alla nostra nausea, è facile se adottiamo un punto di vista
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esterno, altrimenti se ci riflettiamo, sembra che tale determinatezza sia improvvisamente scomparsa
(o addirittura che non sia mai stata presente). Quindi, alla fine, anche la nausea è essenzialmente
impossibilità di determinazione.
Un esempio di nausea può essere il mal di mare che possiamo vedere come quel momento in cui siamo
lontani dal posto su cui poggiavamo saldamento i nostri piedi (abbiamo perduto tutto ciò che è), quando ci
troviamo veramente soli (appunto, soli in mezzo al mare) > e poi cominciamo a diventare un tutt’uno con
l’imbarcazione, quindi oscilliamo come essa ed infine facciamo un tutt’uno anche con il mare – ci
immergiamo in questa situazione di perdizione con tutto noi stessi. La nausea svanisce, quasi come se non ci
fosse mai stata, quando ritroviamo il mondo – cioè quando le vele della barca si dispiegano, noi siamo ina
armonia con ciò che c’è attorno, sentiamo il vento sulle guance e fra i capelli, ecc. tuttavia, a questo
momento non ci siamo ancora arrivati > siamo nel momento della nausea, dove ci sentiamo disancorati,
slegati, senza riva > ma semplicemente, perché la totalità di ciò che è, è essa stessa slegata. È come se ad un
certo punto scomparisse tutto (il mare, l’imbarcazione, il vento, ecc..) e noi rimanessimo soli a navigare nel
puro elemento > è in questo istante che ci sentiamo oppressi/un malessere ci coglie/ ci si sente disorientati.
Questo disorientamento è dato quando l’essente regredisce in tutti i suoi aspetti (in questa immagine, si ritira
tutto – il mare, la barca, ecc..) e noi ci sentiamo soli e senza alcun appoggio > la nausea che rivela il nulla.
3 caratteri della nausea:
1. Come fenomeno, la nausea è riducibile alla determinatezza dell’oggetto che ne è la causa, la quale
mette a nudo la solitudine essenziale dell’esserci che essa raggiunge, e manifesta il nulla. questi sono
i tratti distintivi dell’angoscia (diversa dalla paura). Però nausea e angoscia sono diverse fra loro
perché nell’uno e nell’altro caso noi ci riferiamo in modo fondamentalmente differente a quel niente
che l’una e l’altra manifestano > nell’angoscia il niente si scopre come appartenente all’essere
dell’essente, in maniera tale che esso appare come la condizione che fa possibile la rivelazione
dell’essente come tale per l’essere esistenziale dell’uomo. quindi, nell’angoscia ci viene rivelato
l’essente come tale (il quale non è un niente). Quindi l’angoscia manifesta il nulla come essere, in
modo da portarci davanti all’essente come tale e da trasportarci nel cuore del nodo essenziale
dell’essere e dell’essente, nel cuore della differenza ontologica.
La nausea invece rimane indietro rispetto alla differenza ontologica, perché indugia in sospeso lì
dove diventa fenomeno > la nausea compie questo passaggio: dall’essente si arriva a comprendere la
totalità per manifestare il nulla. e questo allontanarsi dell’essente nella sua totalità, lo opprime/ci
opprime – perché rimane senza alcun sostegno. Inoltre, un’altra differenza della nausea rispetto
all’angoscia è che la nausea diventa passione del ritorno, sotto la forma del “nessun cosa” (kein) di
questo nulla che ha manifestato.
Quindi la nausea fa arretrare l’essente per lasciarci soli nel niente, essa è la passione del ritorno al niente >
ma non si tratta di 2 momenti: appena c’è nausea, si rivela il nulla e il suo ritorno (di niente). Quando
l’essente si sente senza appoggio, nauseato, perso nella totalità e impossibilitato ad uscirne, ecco che emerge
positivamente il suo rifiuto a permanervi – quindi comincia il suo sforzo per uscirne. È uno sforzo che per
Lévinas è disperato.
Ma come questo ritorno di niente nell’essere va descritto (il riferimento è alla frase che contiene “queste
esperienza dell’essere puro”? domande che pone Lévinas: la nausea non è un fatto di coscienza che l’io
conosce come uno dei suoi stati? È l’esistenza stesa o solo un esistente? porsi una simile domanda significa
dimenticarsi ecc.. fino a è l’affermazione stessa dell’essere > abbiamo detto che nausea e angoscia sono
diverse per il modo con cui fanno apparire il nulla > l’angoscia svela il nulla come ciò che ha rapporto con
l’essere dell’essente e ci porta davanti all’essente in quanto tale; invece la nausea manifesta il niente come
l’essere stesso e questo come l’atto stesso di porsi, il mero atto di affermarsi.
Ma che cos’è questo niente? Il niente è l’essere stesso – e più precisamente, l’energia stessa dell’essere, il
suo verbo/verbalità, il suo esse. Essere che si impone al di là di ogni negazione e anche nella negazione

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suprema, cioè nella scomparsa di ogni essente posto > il niente si impone fino alla nausea + esso manifesta
l’essere come il “c’è” (il c’è dell’essere) quando ancora non c’è o quando non c’è più niente, perché nausea
e angoscia hanno lasciato andare alla deriva tutto ciò che è. Ciò che manifesta è insomma il “c’è” che
mormora al fondo del niente stesso. quindi quando avviene questo ritorno del nulla, in cui scopriamo di
essere immersi in una totalità (in cui spariscono gli essenti) – questa dovrebbe essere la totalità del c’è
impersonale, anonimo e indifferente (inumana neutralità). Ma attenzione: questo niente non si identifica col
nulla – cioè questo niente è comunque una presenza (es. come il mormorio indistinto nel silenzio, come una
pienezza del vuoto). In Dell’evasione, quando Lévinas parla di un puro essere, si sta riferendo proprio a
questo c’è. In opere più mature, l’essanza coinciderà con il c’è o con l’inghiottimento nel puro fatto d’essere
(di cui parla il dell’evasione) > il c’è (o essenza) è imperturbabile, sempre uguale, indifferente,
irresponsabile, che ingloba tutto e risolve tutto nella neutralità, nella monotonia, nell’anonimato,
nell’insignificanza, nel ronzio incessante. È il c’è terrificante che sta dietro ogni finalità di un io che vuole
tematizzare.
Tutto questo ha a che fare con il termine Gestell (piedistallo, porsi) > per Lévinas è terribile. Rileggendo le
prime pagine di Dell’evasione, notiamo come per Lévinas il senso dell’essere sia mutato dopo la famosa
Grande Guerra > da queste pagine emerge che nella tecnica moderna (quella usata durante la guerra) il suo
essere si annuncia come gestell e l’essente viene ridotto a qualcosa che si può mobilitare/ a cui si può
commissionare un compito secondo usi e manipolazioni sempre nuovi. Quindi, ultima differenza-vicinanza:
• Heidegger: in lui il gestell viene riconosciuto come la pre-apparizione velata dell’Ereignis
(dell’essere-in-proprio) e dev’essere compreso con il suo “negativo fotografico” > in effetti, nel
gestell all’uomo viene intimato di corrispondere all’opera di sfruttamento-consumazione – quindi
sembra che l’uomo venga utilizzato dall’essere > ma proprio per questo motivo, l’uomo allora si
apre all’essere (l’essere per aprirsi ha bisogno dell’uomo in quanto –ci della sua manifestazione).
Quindi anche se il gestell (la manifestazione dell’essere) potrebbe essere un pericolo per l’uomo, allo
stesso tempo è accesso all’Ereignis, all’apertura verso l’essere e verso la verità.
• Lévinas: anche in Lévinas scoprire l’orrore dell’essere significa aprirsi verso la verità (cioè all’essere
come c’è) – però, ecco la differenza, quando ci è chiaro l’orrore dell’essere inteso come c’è, nasce in
noi il bisogno di evasione
Dall’evasione all’altrimenti che essere. quindi l’essere viene pensato come c’è. Riprendendo pag 5 (quando
parla del non-c’è-più-niente-da-fare), l’esperienza dell’evasione fa un tutt’uno con l’esperienza dell’essere
puro nella misura in cui essa è imperiosamente necessità e impossibilità di uscire > imperiosa necessità
perché l’esperienza dell’essere puro si vi mostra come l’esperienza dell’orrore dell’essere come tale – e
rigorosa impossibilità se la nausea è colta nell’istante in cui viene vissuto e nell’atmosfera che la circonda.
Sotto questo aspetto, la nausea dev’essere pensata nella sua divergente prossimità rispetto all’angoscia che ci
toglie la parola e nella quale ogni tentativi di dire è tace. Nell’istante in cui è vissuto, la nausea, privata della
parola, pura passione del ritorno di niente che la stringe, non ha la possibilità né di pensare né di pensarsi né
quindi di indicare uno sbocco > quindi è sentita come il puro bisogno di una pura evasione, cioè di
un’evasione che è caratterizzata prima di tutto dalla sua essenziale indeterminazione. La nausea non si
immagina uno sbocco – perché è rivata della parole, defraudata di ogni uso della “parolina è”, è nel tempo
che essa viene privata, di un tempo che le permetterebbe di darsi un avvenire ed esercitare a sua riflessione
> è per questo che, come dice Blanchot, la nausea è sofferenza. Ciò che l’evasione, se le fosse possibile,
avrebbe il compito di sciogliere è venuto alla luce nell’analisi della vergogna (la quale fa un tutt’uno con la
nausea). Lévinas nella parte sulla vergogna cerca di liberare il verbo uscire/la categoria dell’uscita che
rischia spesso di essere assimilata al rinnovamento o alla creazione (quindi cerca di considerare l’uscita nella
sua purezza). Tuttavia Lévinas non ci dice come può essere effettuato questo disimpegno/questa uscita (è
proprio quello che manca in quest’opera del 36). Il solo modo che Lévinas vede per allentare la morsa è il
piacere, il quale però si dimostra essere incapace di compiere ciò che sembrava invece promettere. Cioè il
piacere portava con sé una promessa di evasione che non si è avverata > dobbiamo capire perché e perché

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alla fine questa promessa si rivela fallace. Per capirlo dobbiamo descrivere il modo del piacere (e qui la parte
in cui dice che il piacere non è immediato e compiuto). Con il piacere, l’uomo si sente di potersi svuotare/ di
poter realizzare l’abbandono/ l’uscita e la perdita di sé e da sè tramite l’ebbrezza (cioè la realizzazione del
piacere) > ma si tratta di un’evasione fallace, ingannatrice. Quando non siamo più al culmine di questo
piacere ed esso comincia a svanire, ci rendiamo conto che ci siamo solo illusi di esserci liberati (e che
dunque ritorniamo vergognosamente esistenti). Quindi il piacere è solo un’evasione che naufraga. Da qui
dice (più o meno): Come un processo che lungi dal chiudersi su se stesso, ecc… anche il piacere si spezza
nell’sitante in cui sembra uscire completamente. Si sviluppa in un crescendo di promesse che non vengono
mantenute, ecc. essa è in divenire e quando ci rendiamo conto che al posto del trionfo subentra una
delusione, ecco che compare la vergogna. Dunque, compagna della nausea è la vergogna > quindi il piacere,
che ci aveva promesso libertà assoluta, si rivela il contrario, cioè terrore, vergogna. E dunque?
Diciamo che questo saggio del 1936 non va al di là delle posizioni del puro bisogno di uscita (che si sforza di
presentare nella sua purezza). Verso la fine di quest’operetta, Lévinas dice “si tratta di uscire all’essere per
una nuova via, a rischio di rovesciare certe nozioni che al senso comune e alla saggezza delle nazioni
appaiono come le più evidenti” > però non dice in cosa consiste questa “nuova via” > questo diventa
l’impegno di tutta l’opera successiva. Andando avanti, Lévinas lascerà cadere la feconda idea di evasione e si
concentrerà sul concetto di c’è. Noi ora possiamo abbozzare i tratti essenziali di tale evoluzione (del pensiero
levinassiano) senza discuterli troppo:
• L’evasione trova la sua prima metamorfosi in De l’existence à l’existant e nelle conferenze
contemporanee su Le Temps et l’Autre > avviene un’ipostasi in cui l’essere si sottomette agli esseri
e l’esistenza all’esistente. quindi avviene un’inversione nel rapporto fra esistenza ed esistente.
mentre nella situazione “immaginaria” del c’è (o nella nausea) l’esistente è interamente sottomesso
all’esistenza che lo assorbe da ogni parte, lo chiude dappertutto e lo fa rivoltare dall’interno (tanto
che diventa l’oggetto piuttosto che il soggetto di un pensiero anonimo), nell’ipostasi l’esistente porta
l’esistere come un attributo, è padrone di questo esistere, come il soggetto è padrone dell’attributo.
L’ipostasi, la cui condizione primaria si trova nella possibilità di dormire (e quindi liberarsi grazie al
sonno dall’opprimente presenza del niente – il quale però diventa insonnia), dev’essere pensata come
metamorfosi dell’evasione ed è interessante notare che è definita d’altra parte come “una evasione in
sé” > l’evasione in sé/la costituzione di un soggetto o di un Io capace di evadere dentro di sé, sarà la
problematica di Totalità e Infinito (in questo libro si dice che l’uscita dall’orrore del c’è si annuncia
nella soddisfazione del godimento > cioè di diventa soggetti dell’essere non assumendo l’essere, ma
godendo della felicità, con l’interiorizzazione del godimento che è anche un’esaltazione, un fatto che
sta “al di sopra” dell’essere. essere un io significa essere in un modo tale da essere già al i là
dell’essere nella felicità).
• Lévinas in opere successive ha l’intendo di lasciar manifestare significati dell’al di là della
differenza ontologica > questa intenzione rimette in gioco il problema della soggettività verso cui
conducevano le precedenti metamorfosi dell’evasione, ma intenzione a cui non potevano convenire
né bastare, nella misura in cui, ponendo il soggetto umano come l’essente per eccellenza e
sembrando privilegiare quest’ultimo in rapporto all’essere, a detrimento dell’essere, lo pensavano
come Io che ha l’identità come contenuto, o come l’essere il cui esistere consiste nell’identificarsi
con tutto ciò che gli succedere > in breve, nell’essere il Medesimo non relativamente ma
assolutamente. L’Io si pone come Medesimo nell’ipostasi, oppure si fa tale attraverso la dialettica
propria del godimento e assicura così la sua uscita dall’orrore del c’è dominando la sua esistenza.
Bisogna pensare il soggetto in se stesso/nella sua soggettività come evaso, perché già espulso. Non
basta più porre il soggetto come Medesimo e come Costruttore del Medesimo – ma bisognerà
pensarlo come l’Altro-nel-Medesimo e come il nodo di un’inquietudine che non lo lascia ritornare a
sé per porsi in un’identità stabile. Bisognerà pensarlo come il luogo di una espulsione: espulsione da

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parte dell’Altro che si installa nel Medesimo per pulsare nel suo cuore, ed espulsione per l’Altro che
esige al di là del possibile e segna l’identità in maniera indelebile.
L’identità del medesimo nell’io gli viene, malgrado se stesso, dal di fuori come una elezione o come
l’ispirazione, come ciò che gli assegna la sua unicità. Il soggetto è per l’altro; il suo essere se ne va
per l’altro; il suo essere muore in significazione. Soggettività strutturata come evasione, cioè
inversione in altro che essere dell’Io che si identifica perseverando nel suo essere, esistendo al ritmo
dell’essanza.

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