L’insegnamento delle lingue classiche è da tempo argomento molto controverso, tanto da diventare nel corso degli anni un fenomeno che ciclicamente si ripresenta sotto forme e punti di vista differenti. Uno dei dibattiti più accesi riguarda, in particolare, l’insegnamento del latino al liceo scientifico, dove, considerato l’alone di desuetudine che accompagna la lingua e l’ambiguità del nome dell’indirizzo, non sorprende che la polemica abbia trovato terreno fertile. A duello si sfidano solitamente i difensori della greco-romanità, che strenuamente combattono in difesa della cultura classica, ed i tecnocrati, pronti a dare degna sepoltura alla lingua morta in nome del progresso. Gli alfieri dei due schieramenti sono solitamente rappresentati dal classicista sciorinatore di locuzioni latine alternate a clichè quali “il latino apre la mente” da una parte, e dalla figura del crociato delle scienze esatte che, distillando a gocce le contaminazioni umanistiche come scorie radioattive, cerca di preservare l’incorruttibile dicotomia dello scibile dall’altra. Entrambi sono soliti prendere degli abbagli, fondando i propri argomenti su presupposti arbitrari, omissioni o fallacie logiche. Capita frequentemente infatti, che si tenti di difendere l’insegnamento del latino enumerando le competenze trasversali di logica, problem solving, capacità mnemoniche o gestione di informazioni complesse, trascurando tuttavia che lo studio di altre materie risulterebbe più efficace allo stesso scopo. Oppure, si ritiene spesso il latino inopportuno perché estraneo all’area disciplinare di cui si presume il liceo scientifico si debba prendere carico, negando dunque l’enorme contributo formativo dell’interdisciplinarietà, vero valore aggiunto dello stesso indirizzo. O ancora, nel peggiore dei casi, si taccia la lingua di essere poco spendibile, riducendo la conoscenza a mero potenziale economico e la scuola a centro pubblico per l’impiego. Inoltre, il dibattito non viene condotto partendo da un assioma condiviso su aspetti di primaria importanza come gli obiettivi formativi della scuola, quale sia l’approccio didattico con cui dovrebbe essere insegnata la materia o il livello richiesto allo studente, rendendo impossibile ogni tentativo di trarre un bilancio. Trovo dunque che la soluzione migliore sia tirarmi fuori dalla mischia, abbracciando il rischio di adottare un taglio molto personale. Mi sono resa conto, infatti, che i motivi per cui sono favorevole all’insegnamento del latino al liceo scientifico non possono essere universalmente validi e sembrano appesi ad una dimensione di impalpabile soggettività frutto del mio modo di essere e della mia breve esperienza. Per questo motivo sarà prezioso il contributo di qualche citazione, nella speranza di riuscire a rendere disponibili i miei pensieri e considerazioni in tutta la loro limitatezza.
Del latino mi ha subito incuriosito la piacevole sensazione di
partecipazione alla realtà derivata dalla conoscenza di un passato che dà ragione di essere al presente. “Non sei forse L’avvenire di tutti i ricordi che sono in te? L’avvenire di un passato?” Diceva Paul Valery, suggerendo come l’identità si costruisca anche attraverso una consapevolezza del proprio passato, trovando motivo della collocazione nei termini di tempo e spazio. Non essersi mai rapportati con il mondo latino, che coincide in parte con lo studio della lingua, è come essere orfani della propria cultura, rischiando di non sviluppare una sensibilità storica e di vivere in balia di un presente di cui sfugge qualcosa. E’ ancora da una sensazione, che un altro grande perché ha iniziato a farsi strada. Mi capita, molto più frequentemente di quanto vorrei ammettere, di non trovare le parole giuste ed essere pervasa da un senso di inadeguatezza paralizzante. Il mondo in cui vivo si alimenta di immediatezza: la comunicazione non verbale prevale, il linguaggio si svaluta, muta, perde e guadagna rispetto alle esigenze dei tempi che verranno. Non è mia intenzione inquisire il processo tecnologico di portarci alla deriva intellettuale, ma è mia premura riconoscere e minimizzare il rischio che il valore del significato, della profondità e della capacità di sapersi esprimere vengano a meno, riducendoci ad analfabeti relazionali. Le parole ci pervadono, costituiscono i pensieri e liberano emozioni, tanto da portare lo psicologo Joseph Church alla definizione di “organismi verbali”. Il latino rema contro questa corrente, perché fa delle parole, delle sfumature, delle possibilità e della complessità gli strumenti per lavorarvici. E, tra gli strumenti, non posso non accennare sfuggevolmente alla grammatica, che nella mia claudicante esperienza ha recitato da catalizzatore di trasformazione. Da sterile motivo di bagni di sudore e traduzioni deliranti, è diventata un mezzo per misurarmi ed osservarmi in preda alle difficoltà un giorno, e trascinata da un insospettabile curiosità focosa un altro. Ha rappresentato lo sforzo necessario per conoscermi quel tanto in più che basta non solo per capire che a me il latino piace molto, ma anche per scorgere nella libertà di detestarlo una grande opportunità. Una grande opportunità per incontrarsi, per appassionarsi, per conoscere quello che conta davvero nel rispetto della propria diversità. Per questo, concludo invitando chiunque non sia d’accordo con me a farlo con maggior convinzione e a godere della mia stessa passione, anche se accesa da un diverso combustibile.
Frammenti di cultura del Novecento: Nietzsche, Vailati, Simmel, Schlick, Arendt, Zubiri, Bateson, Dell’Oro, Warburg, Dávila, Garin, Melandri raccontati da voci di studiosi contemporanei