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ISBN: 9788868266820
Simone Weil
L’AMICIZIA PURA
È una colpa desiderare di essere capiti prima di aver chiarito se stessi ai propri occhi –
significa cercare dei piaceri nell’amicizia, e non meritati – è qualcosa di più corruttore
anche dell’amore. Venderesti la tua anima per l’amicizia3…
Impara a respingere l’amicizia, o piuttosto il sogno dell’amicizia. Desiderare l’amicizia è
una colpa grave. L’amicizia deve essere una gioia gratuita, come quelle che dona l’arte, o la
vita (come le gioie estetiche). Occorre rifiutarla per essere degni di riceverla: essa
appartiene all’ordine della grazia […]. È fra le cose che sono «date in sovrappiù». Ogni
sogno di amicizia merita di essere infranto. [Non è per caso che tu non sei mai stata
amata…]. Desiderare di sfuggire alla solitudine è una debolezza. L’amicizia non deve
guarire le pene della solitudine, ma duplicarne le gioie. L’amicizia non si cerca, non si
sogna, non si desidera; si esercita (è una virtù).
O piuttosto (poiché non bisogna sfrondare in se stessi con troppo rigore) tutto ciò che,
nell’amicizia, non si trasforma in scambi effettivi deve trasformarsi in pensieri riflessi. È
del tutto inutile rinunciare alla virtù ispiratrice dell’amicizia. Ciò che deve essere
severamente interdetto è fantasticare sui piaceri del sentimento. È una corruzione. […]
L’amicizia non ammette di essere disgiunta dalla realtà, non più che il bello. Essa
costituisce un miracolo, come il bello. E il miracolo consiste semplicemente nel fatto che
essa esiste4.
I «Cahiers du Sud».
Avamposto mediterraneo in tempo di guerra
Émile Novis, «la freccia che sale più alta delle nubi…»
Progettato fin dal 1935 e affidato alle cure di Joë Bousquet e René Nelli,
il numero monografico intitolato Le génie d’oc et l’homme méditerranéen,
dedicato alla civiltà occitana, dopo una lunga e difficile gestazione, vedrà la
luce solo nel 1943 con due contributi essenziali di Simone Weil13. Il valore
di questi saggi, firmati con l’anagramma Émile Novis per sfuggire alla
censura, è nella loro capacità di rispondere a una domanda di cambiamento
radicale, fornendo solidi argomenti a chi aveva cominciato a riflettere sulla
disfatta della Francia e dell’Europa in una prospettiva etica, spirituale, e non
soltanto militare. La decisione di Ballard di coinvolgere Simone Weil nella
redazione di un numero speciale sulla civiltà occitana è contestuale alla
pubblicazione, sulla stessa rivista, del saggio L’Iliade, ou le poème de la
force14, scritto a Parigi prima della disfatta e destinato, in un primo
momento, a «La Nouvelle Revue Française» di Jean Paulhan.
Redatti in momenti diversi, il saggio sull’Iliade e i due contributi sulla
civiltà occitana sono il frutto di una stessa preoccupazione: riflettere a
fondo sulla natura della violenza che si abbatte in uguale misura sulle
vittime e sui carnefici, trascinandoli in un destino comune di sventura. Con
lo stesso sguardo di amorosa pietà e di fraterna amicizia nel dolore, è
possibile posarsi sulle vite sradicate di tanti eroi omerici, greci e troiani,
come sulle vittime della furia sterminatrice che aveva portato alla
distruzione della civiltà occitana all’inizio del Tredicesimo secolo, da parte
dei francesi venuti dal Nord: una civiltà fondata su equilibri culturali e
spirituali davvero prodigiosi.
In questa proposta di collaborazione, Simone Weil intravede
l’opportunità di salvare dall’oblio ciò che ancora resta di una civiltà
miracolosa, nella quale i rapporti umani traevano ispirazione dal senso
greco della misura e dall’amore cristiano. Nella biblioteca municipale di
Marsiglia legge, in parallelo, le due parti di cui si compone il poema epico
noto col nome di Chanson de la croisade contre les Albigeois (la Canso de
la crosada), il cui testo, nella prospettiva da lei privilegiata, le consentirà di
ricostruire lo splendore, l’agonia e la morte della civiltà occitana15.
Le considerazioni sviluppate nel saggio L’Iliade, ou le poème de la
force16 rendono plausibile e convincente il parallelo tra Tolosa, assediata
dai crociati, e Troia minacciata di distruzione dagli achei. Il poeta anonimo
della seconda parte della Canso ritrova, in modo spontaneo, gli accenti
struggenti di Omero e la purezza del suo canto17. Il suo poema è vero e,
come ogni vero capolavoro, offre un frammento di quella «grande
rivelazione» che è dato rintracciare nelle esperienze religiose autentiche.
La distruzione della civiltà occitana, di fatto, era stata terribile e totale:
le armi avevano davvero avuto il sopravvento sullo spirito, tanto che «la
concezione della libertà spirituale che allora morì non risuscitò più»18. La
lingua, equivalente della patria per le genti d’Oc, aveva ricevuto un colpo
mortale, trascinando nella rovina anche quei valori di tolleranza, di libertà,
di obbedienza, di amore, che la società occitana aveva saputo tradurre in un
equilibro prodigioso tra l’idea di valore (Prix) e quella di uguaglianza
(Parage)19.
Simone Weil si china su questa civiltà, perché in essa ritrova gli stessi
princìpi che ammira ed esalta nei greci: «Un mondo in cui gli uomini si
sentivano tra loro legati da rapporti di mutuo rispetto, di caritatevole
servizio, di franchezza, di salvaguardia dei diritti di ciascuno»20, un mondo
che, ispirandosi alla morale antica, si era sforzato di arginare l’orgoglio e la
dismisura.
I crociati, col pretesto di contrastare l’eresia catara, avevano colpito a
morte una civiltà nascente in cui circolavano valori profondamente
condivisi. Sterminati gli uomini, i princìpi che essi avevano incarnato si
erano ridotti a pura materia di erudizione. Cionondimeno, la vicenda di
Tolosa, per Simone Weil, non è un mero episodio del passato: è un
avvenimento che ci riguarda ancora, perché la distruzione di quella
particolare concezione del mondo aveva fortemente compromesso i destini
d’Europa. Dopo di allora, infatti, «l’Europa non ha mai più ritrovato allo
stesso livello la libertà spirituale perduta a causa di questa guerra»21;
inevitabilmente, la forza era diventata il marchio del potere, strumento
unico di soluzione dei conflitti tra gli uomini22.
Tuttavia, se è vero che quel che è andato distrutto non può essere
riportato artificiosamente in vita, è pur sempre possibile volgere lo sguardo
al passato, con amore, per trarne ispirazione. Le poche e splendide vestigia
della grandezza raggiunta dalla civiltà occitana nel Dodicesimo secolo – le
sculture della cattedrale di Saint-Sernin a Tolosa, gli scritti catari che
custodiscono frammenti della saggezza platonica e pitagorica, la poesia dei
trovatori con la loro dottrina di amore, la stessa Chanson23 – se contemplate
con desiderio e con attenzione, possono suscitare un’adesione sincera ai
valori in essa contenuti, favorendo, in determinate circostanze, la nascita di
una civiltà affine almeno per ispirazione.
[…] [L’] articolo [di Novis] è proprio quello che mancava al fascicolo: la freccia che sale
più alta delle nuvole. Se ognuno saprà attingervi come ho fatto io tutti gli spunti di
meditazione, avremo compiuto un’opera davvero solida. L’idea dell’armonia dei contrari
mi sembra straordinariamente feconda. Penso che non metteremo mai abbastanza in
evidenza il suo testo. Non ve n’è alcuno che possa prendere il suo posto30.
Si tratta di un parere che depone a favore dell’onestà di Bousquet. Ritiratosi
dalla direzione del Quaderno dopo lo scambio epistolare con Ballard,
immune da qualsiasi risentimento, addita nel contributo di una giovane
sconosciuta (che però comincia a desiderare di conoscere) lo scritto che
conferisce una coerenza, un’anima, un’ispirazione unitaria a tutta l’impresa,
augurandosi che anche altri, come lui, ne traggano uno stimolo per pensieri
orientati alla vita. Bisogna tuttavia riconoscere che probabilmente Simone
Weil aveva attinto da Bousquet, chiarificandole, alcune intuizioni: prima tra
tutte, forse, l’idea del primo e vero Rinascimento conosciuto dalla Francia
tra l’Undicesimo e il Dodicesimo secolo. Nei testi del poeta aveva colto,
intuitivamente, alcuni grumi di pensiero non ancora esplicitati, riuscendo a
tradurli in maniera originale e conferendo loro forza e coerenza. È la prova
che entrambi hanno lo sguardo orientato nella stessa direzione, pur
provenendo da orizzonti tanto diversi. Per questo, tra loro nasce subito una
profonda sintonia, si instaura uno scambio felice, quasi perfetto, al punto
che si fatica – ma è poi così importante quando si ha di mira la verità? – a
discernere, tra l’uno e l’altra, chi dà e chi riceve. Il poeta di Carcassonne,
infatti, scrive:
La cultura d’Oc ha la sua filosofia, la sua poesia, il suo modo specifico di sentire, le sue
leggi di amore, la sua religione così differente dalla nostra da apparirci quasi inconcepibile;
conosce un’unica legge, la legge della salvezza, e ogni suo sforzo mira a servirla. Essa non
coltiva l’uomo, bensì la vita, con lo scopo di subordinarla all’esigenza segreta dell’anima,
pensa che la vita sia un tramite per lo spirito. La sua morale avvolge la sua estetica. Arte e
religione nella cultura d’Oc sono una sola cosa. La stessa letteratura popolare è totalmente
impregnata della sconvolgente dottrina in base alla quale il conoscere diventa la genesi del
dovere31.
Nel suo secondo contributo, Simone Weil parte dal presente, dall’Europa
sprofondata nella catastrofe e minacciata di annientamento dal nazismo.
Come sempre accade nei grandi testi, in cui la nitidezza della forma si pone
tutta a servizio del contenuto, esso è semplice, limpido, ma leggibile a più
livelli. Fornisce una descrizione degli elementi essenziali della civiltà d’Oc,
colta nel momento del suo massimo splendore, prima che la forza esercitata
dai francesi, venuti dal Nord, ne decretasse la distruzione. Tuttavia, nella
vicenda occitana e nel suo tragico epilogo, non è difficile scorgere, per
analogia, l’equivalente di ciò che minaccia l’Europa sottoposta alla brutalità
nazista32.
Chinandosi con amore sul passato di quella «patria morta», non si
pretende certo di farla rivivere ma si può, contemplandola a lungo,
attingervi un’ispirazione spirituale per il presente. E questo è possibile
perché il Mediterraneo, in cui è nata la patria occitana, ha conosciuto, in
passato, la saggezza fiorita in Egitto, in Persia, in India e in Cina, ha nutrito
nel proprio seno la «vocazione spirituale» della Grecia antica, nella quale –
come testimoniano la scienza, l’arte, l’architettura, la poesia, la religione – i
rapporti tra gli uomini, almeno idealmente, si fondavano sulla nozione di
armonia, di proporzione, di equilibrio.
Anche la civiltà occitana aveva tentato di realizzare l’equilibrio dei
contrari – sacro e profano, libertà e obbedienza, onore e dedizione –
attraverso il rifiuto della forza e facendo spazio alla legge dell’amore: un
amore puro, soprannaturale, di cui in ambito profano l’amor cortese offriva
un’immagine più o meno fedele. Questo amore, proprio come nella
concezione platonica, era un «ponte» tra la finitezza dell’uomo e la
trascendenza di Dio. La purezza e la verità, che nella società occitana
ispiravano i rapporti tra pari, ma anche quelli tra i sudditi e il signore, e tra
l’uomo e la donna, erano altresì fonte di ispirazione per l’arte, come
testimonia l’equilibrio ineguagliabile tra i diversi elementi architettonici di
una cattedrale romanica. La poesia dei trovatori, proprio come quella dei
greci, era riuscita a esprimere «il dolore con una tale purezza che al fondo
dell’amarezza senza mescolanza risplendeva la serenità perfetta»33.
L’equilibrio dei contrari aveva ispirato sia i legami personali che la vita
collettiva della città: la libertà si era nobilitata nell’obbedienza a un uomo, il
signore, rispettato non in quanto detentore della forza, ma in quanto garante
della sovrana impersonalità della legge.
È evidente che Simone Weil non chiude affatto gli occhi sulla presenza
del male anche nella società occitana del Dodicesimo secolo, e sui conflitti
che l’agitavano, ma individua nei valori su cui essa si fondava una fonte di
ispirazione universalmente condivisa, capace di contrapporsi al predominio
schiacciante della forza. Per questo fa notare:
Oc, Grecia, civiltà senza adorazione della forza. Perché per esse la temporalità è un ponte.
E inoltre non cercano l’intensità negli stati di animo, ma amano la purezza dei sentimenti.
È puro quel che è sottratto alla forza.
L’amore era per loro puro desiderio, senza spirito di conquista. Tale è l’amore che l’uomo
ha per Dio35.
Nella misura in cui contempleremo la bellezza di quell’epoca con attenzione e amore, nella
stessa misura la sua ispirazione discenderà in noi e a poco a poco renderà impossibile
almeno una parte delle bassezze di cui è satura l’aria che respiriamo38.
Per quanto sia giusta la causa del vincitore, per quanto giusta sia la causa del vinto, il male
prodotto dalla vittoria come dalla sconfitta non è meno inevitabile. Sperare di sfuggirvi è
proibito. Per questo il Cristo non è disceso dalla croce e neppure si è ricordato, nel
momento più doloroso, che sarebbe risuscitato. Per questo l’altro (Arjuna, l’eroe della
Bhagavadgītā) non ha deposto le armi e fermato la battaglia. […]
Prendere le armi; pensare a tutto ciò che si perderà se si è vinti, e che, se si vince, si farà
perdere ad altri che si ama come se stessi. Assumere su di sé questa perdita, lasciare loro
ogni licenza, non può essere permesso. Cristo l’ha fatto, ma nella posizione di un semplice
privato condannato dalle legittime autorità. Ma se si sente il freddo del ferro, ci si limiterà,
anche a prezzo di grandi rischi, lo si deporrà non appena si sia allontanata un po’ la
minaccia47.
Ciò che mi scrivi, che in caso di bisogno ci sarebbe un posto alle Trouillières per la mia
famiglia e per me, mi suscita nei tuoi confronti e nei confronti dei tuoi genitori – che hai
sicuramente consultato – un sentimento di viva e profonda gratitudine. Nelle circostanze
attuali, nulla è più commovente di una proposta del genere; e il fatto stesso di ricevere tale
proposta, che la si accetti o meno, comporta lo stesso obbligo. Comunque, anche in caso di
bisogno, non credo di dover accettare53.
A sostegno del suo rifiuto, aveva addotto due ragioni: la volontà di patire,
senza privilegio di sorta, i disagi della povertà che le circostanze
imponevano agli altri e la consapevolezza del pericolo che un simile gesto
avrebbe comportato per chiunque volesse proteggere gli ebrei, nel momento
in cui un’ondata di razzismo stava per abbattersi sulla Francia. In rapporto
alla seconda ragione, precisava:
C’è una cosa alla quale, suppongo, non hai pensato. Il contagio, il prestigio della vittoria
che induce a imitare i vincitori, la pressione dei vincitori, l’esasperazione della miseria, e
diversi altri fattori apporteranno quasi sicuramente in Francia, entro breve tempo – durante
l’inverno, suppongo – una forma più o meno accentuata di razzismo. In questo caso, io mi
troverò nel novero dei paria. A conti fatti, me ne dispiace; soffrire per qualcosa che non si è
personalmente scelto e per cui non si nutre alcun attaccamento mi sembra stupido. Ma alla
fine, sta di fatto che io sarò nel novero. Non ho alcuna possibilità di sottrarmi. È in mio
potere, invece, non far subire il contagio di questa sventura a quanti non hanno avuto in
sorte dalla nascita una simile maledizione, anche e soprattutto se sono abbastanza generosi
per non temere questo contagio54.
Lei ha conquistato la mia amicizia grazie alla sua carità, di cui non avevo mai visto
l’equivalente, e mi ha fornito così la fonte di ispirazione più potente e più pura che si possa
trovare tra le cose umane. Fra queste nessuna, infatti, più dell’amicizia per gli amici di Dio
permette di tenere lo sguardo fisso su Dio con intensità sempre maggiore64.
Simone Weil «faceva la verità» mediante lo sforzo eroico per amare il prossimo «come se
stessa», il prossimo, chiunque fosse. Se è consentito parlare dei segreti di Dio, è forse per
questo che, senza conoscere Dio, senza pregarlo consapevolmente, senza fede esplicita nel
Cristo, ebbe accesso di colpo alle meraviglie della vita mistica, che Dio comunica ai suoi
amici di elezione. Mi pare che il suo amore appassionato, assoluto per la verità – che era
allora a sua insaputa una forma dell’amore di Dio – e la sua compassione interamente
fraterna nei confronti del prossimo – inconsapevolmente teologale fino alla grande
illuminazione – la hanno innalzata al livello dove la carità si fa «sapore» e luminosa
scoperta di Dio66.
L’amicizia con padre Perrin, inoltre, facilita l’incontro di Simone Weil con
Gustave Thibon, altro interlocutore privilegiato conosciuto durante il
soggiorno marsigliese. Ospite della sua famiglia, in una vecchia casetta
abbandonata, nei pressi di Saint-Marcel-d’Ardèche, ha potuto vivere per
qualche tempo un’esperienza di solitudine e di meditazione, scrivendo
numerose pagine dei Quaderni, scoprendo la forza della preghiera e
leggendo San Giovanni della Croce.
All’inizio non ho provato nessun tipo di amicizia, ho avvertito piuttosto, non direi una
repulsione – la parola sarebbe eccessiva – un’assenza preoccupante di simpatia. L’amicizia
è venuta dalla rivelazione della sua grandezza […]. Sono stato in certo modo vinto, mio
malgrado, dalla purezza della sua anima, dalla qualità del suo spirito68.
Credo di non essere presuntuoso se dico che c’è, in lei e in me, al di là del piano puramente
contingente e relativo in cui spesso siamo molto distanti l’uno dall’altro, una tensione di
fedeltà all’eterno che rende la nostra amicizia profondamente fraterna69.
Col coraggio straordinario di cui solo una vera amicizia è capace, Simone
Weil lo mette in guardia in una delle prime lettere del loro ricco epistolario.
Al pari dell’esperienza mistica, per lei la scrittura autentica comporta
l’attraversamento della notte oscura, quindi una totale spoliazione cui solo i
geni e i santi sanno acconsentire. Tenta di suggerire all’amico questa via,
molto ardua, anche se subito dopo, quasi spaventata, si affretta a precisare
che, probabilmente, la sua vocazione non esige tanto e gli addita nella gioia
una strada, ugualmente valida, per accostarsi alla verità interiore:
Ho letto i suoi testi dattiloscritti – che giudico molto superiori a quelli pubblicati – con gran
piacere e interesse; poi li ho riletti, più di una volta, per soppesarli. Contengono, a mio
avviso, cose di prim’ordine (ciò che vuol dire molto per me); tuttavia non in gran quantità e
in così gran quantità come le prefazioni dei suoi amici lascerebbero supporre. Lei sa,
perché mi conosce abbastanza in proposito, che nessuna considerazione può impedirmi di
essere, per quanto è in mio potere, interamente onesta nei miei giudizi. Questo, è ovvio,
non significa solo che sono sincera, ma che l’amicizia, la gratitudine e gli altri sentimenti
analoghi non possono diminuire, ma solo aumentare il mio scrupolo e la mia attenzione nel
valutare con giustezza.
Volevo dirle, dopo aver letto i suoi libri (ma non ne ho avuto l’occasione) che sicuramente
ha già attraversato la notte oscura, ma che, a mio avviso, le rimane ancora, probabilmente,
molto cammino da fare prima di riuscire a dare la sua vera misura, perché è ancora lontano
dall’aver raggiunto nell’espressione, e quindi nel pensiero, il grado di spoliazione, di
nudità, di forza penetrante, indispensabile per il suo genere. Da questo punto di vista, le
pagine dattiloscritte sono migliori e contengono persino alcune formule soddisfacenti
(malgrado l’apparenza, credo che non ci possa essere elogio più grande). Tuttavia, più o
meno, il mio parere rimane lo stesso71.
Ciò che resta di irrisolto, nella poesia di Simone Weil, si decanta, invece,
nella prosa dei Quaderni «che si vanno riempiendo a un ritmo rapidissimo
in questo periodo»77. In essi, come Thibon ha intuito dopo averne letto solo
alcuni estratti, si dispiega la sua vera poesia, che è conoscenza
soprannaturale. La scrittura dei Quaderni, infatti, diventa per lei uno
strumento essenziale di ricerca della verità e di purificazione quotidiana78.
Essi divengono, in senso etimologico, un esercizio ascetico, che impone un
lavoro su di sé, un controllo dei propri atti e, al tempo stesso, uno sforzo di
precisione, di attenzione, di ordine: «L’espressione corretta di un pensiero
produce sempre un mutamento nell’anima; il pensiero è rafforzato oppure
superato»79. Quel che più li caratterizza non è la novità dei temi, che
riaffiorano con andamento circolare – la sventura attuale e quella
consustanziale all’uomo, il soprannaturale e il modo in cui esso opera nel
mondo, Dio e la bellezza dell’universo che lo manifesta, le vestigia di una
rivelazione primordiale presenti nelle diverse tradizioni religiose e il loro
rapporto con la rivelazione cristiana… – quanto piuttosto la tenacia con cui
li riprende, per chiarificarli o rafforzarli, e le analogie con le quali
instancabilmente li illustra, nello sforzo di diventare un puro strumento di
mediazione di una verità che è al di là della parola.
Fra i temi di riflessione, negli ultimi mesi di permanenza a Marsiglia,
spicca, più che mai, l’amicizia di cui ha potuto beneficiare in maniera
insperata. È del tutto naturale quindi che, nelle ultime lettere inviate
all’amico, mentre attende da un giorno all’altro di partire, senta il bisogno
di manifestargli la gratitudine per l’amicizia di cui lui le ha fatto dono. Si è
trattato di un evento molto significativo, e la prova è nella sofferenza che
entrambi sentono di fronte alla necessità della separazione. Ma è proprio
nella disponibilità ad accettare sia l’incontro che la separazione, con uguale
obbedienza all’ordine del mondo, che un’amicizia si fortifica, diventa
autentica, liberandosi dalle illusioni e dai sentimentalismi in cui si trovava
avviluppata. Colui che ha consentito il loro incontro è lo stesso che ora
lascia avvenire la separazione, perché «l’incontro e la separazione sono due
forme dell’amicizia, contengono lo stesso bene, in un caso sotto forma di
piacere, e nell’altro sotto forma di sofferenza»80.
Alla separazione inevitabile è dunque necessario accordare il proprio
consenso, nella consapevolezza che «la distanza è interamente intessuta di
amicizia, poiché coloro che non si amano non possono essere separati»81.
Questa osservazione, con un possente colpo d’ala, la innalza a quelle
altezze di pensiero che Gustave Thibon avrà modo di conoscere quando, di
lì a poco, avrà tra le mani Le forme dell’amore implicito di Dio di cui
l’Amicizia incarna la forma più elevata:
L’incontro e la separazione sono le figure umane dell’unione assoluta tra il Padre e il Figlio
nella Trinità, e della lacerazione ineffabile tra il Padre e il Figlio nel momento della parola
«Mio Dio, perché mi hai abbandonato?». Perciò, quaggiù, a noi uomini si addice di più la
separazione. Perché abbiamo la felicità di essere stati gettati per nascita ai piedi della
Croce82.
Gli scritti – i grandi testi destinati a padre Perrin e i Quaderni – che redige
tra la fine del 1941 e il maggio del 1942, mentre attende di partire con i
genitori per gli Stati Uniti, sono impressionanti non solo per la mole, ma per
la qualità dell’ispirazione che li pervade. Essi si impongono per la tranquilla
sicurezza che emanano, per lo stile trasparente, cristallino, che sempre più li
caratterizza. Appare plausibile ravvisare in ciò l’indizio di un cambiamento,
di una trasformazione interiore che non può essere ricondotta solo agli
sforzi indubbi dell’intelligenza o alla ricchezza delle letture compiute, ma
rinvia a una forma di illuminazione, un’esperienza eccezionale, uno stato di
«grazia».
Nella lettera inviata da Casablanca, in cui affida undici dei suoi
quaderni a Thibon, riconosce che soltanto gli amici capaci di vera
attenzione possono prendersi cura di questi scritti che, in modo
inspiegabile, sono «discesi in lei»:
Non auguro niente di meglio alle idee che sono venute verso di me di un luogo in cui
stabilirsi, e sarei molto felice che potessero trovare ospitalità sotto la sua penna mutando
forma in modo da riflettere la sua immagine. Ciò attenuerebbe un poco in me il senso di
responsabilità e il peso schiacciante dovuto al pensiero della mia inadeguatezza, e alle mie
diverse tare, a servire la verità come mi si presenta, dal momento che essa acconsente, a
quanto pare, a farsi intravedere da me per un eccesso inconcepibile di misericordia83.
Poter affidare all’amico i suoi scritti, insieme ad alcuni libri che non può
portare con sé in America, l’aiuta a partire con animo sgombro. Le rimane
solamente un cruccio: non potergli confidare tutto ciò che si porta ancora
dentro. Ma perfino quest’impossibilità è di poco conto, visto che ciò che
avverte in sé o è privo di valore, oppure «risiede fuori di lei in una forma
perfetta, in un luogo puro dove non può subire ingiuria alcuna e da dove
può sempre ridiscendere»84.
Da New York, dove vive uno dei periodi più inquieti della sua esistenza
per la difficoltà a realizzare il Progetto, il 10 settembre 1942 invia
un’ultima lettera a Gustave Thibon che è il suggello della loro amicizia:
Se le capita di pregare per me chieda che io possa compiere o il progetto per cui sono
venuta o qualcosa di equivalente; e se non ne sono degna, che mi venga accordato di
diventarlo. Solo allora il dolore della separazione sarà per me puro e libero da rimorsi. In
questo momento il semplice ricordo delle strade di Marsiglia o della mia casetta vicino al
Rodano mi lacera il cuore.
È possibile, come lei dice, che Dio si sia servito di me per attirarla un po’ più vicino. Egli si
serve di qualsiasi cosa. Pratica il recupero degli scarti85.
Essere creati da Dio vuol forse dire incarnare l’essere del suo essere, noi siamo le immagini
del suo potere e probabilmente il suo stesso pensiero, quando ne siamo consapevoli. Questo
deve farci tremare, farci sentire la nostra indegnità, ma non farci dubitare della capacità di
rivelazione che è in ciascuno di noi95.
Dopo questa sorta di professione di fede, dedica tutta la sua attenzione alla
giovane amica, alla quale suggerisce che potrà dare il meglio di sé
trasferendo la poesia che è in lei non solo nella tragedia alla quale sta
lavorando – Venezia salva – ma dando forma scritta alle sue «impressioni
mistiche». Ha compreso, infatti, che la sua onestà intellettuale e la sua
rigorosa ricerca della verità la pongono al riparo da qualsiasi «compiacenza
femminile», consentendole di esprimere l’esperienza dell’amore di Dio in
forme poetiche scevre da ogni eccesso di sentimentalismo96. Tra loro, a
questo punto, il dialogo si è innalzato su un piano dove la confidenza o è
assoluta o deve cessare.
Dopo una lettera dell’amica, che sollecitava una risposta sul Progetto
che gli aveva sottoposto, Joë Bousquet consente a esprimere un giudizio
sulla praticabilità e utilità di una formazione di infermiere di prima linea,
dichiarando la sua gratitudine perché la domanda che gli è stata posta «lo
invita a evocare la sua esperienza di guerra e quella ferita sulla quale va
edificando dolorosamente il suo pensiero, la sua filosofia, tutta la sua opera
letteraria»97. Simone Weil è profondamente commossa dalla rievocazione
che le ha fatto della guerra e del clima che sempre regna al fronte, dove le
infermiere da lei immaginate avrebbero dovuto assolvere il loro compito di
assoluta dedizione. Grata di questo racconto, sente ormai di potersi
esprimere in totale sincerità sia nei confronti dell’amico che di se stessa.
La lettera che gli scrive il 12 maggio 1942, pochi giorni prima
dell’imbarco per gli Stati Uniti, è uno dei testi più alti e ardui del suo
pensiero religioso, un pensiero divenuto ormai una cosa sola con la vita.
Ciò che dice, anche di se stessa, è il dono esigente che il clima di guerra, il
sentimento di precarietà del momento, e soprattutto l’amicizia, le ordinano
di affidare a colui che è diventato veramente un amico.
Intanto, e in primo luogo, la condizione di sventura in cui egli versa è il
pensiero che sovrasta ogni altro. I suoi amici, quelli che si recano da lui, lo
ammirano per la sua creazione artistica, ma non lo vedono veramente: non
scorgono in lui quel grumo irrisolto che attende di essere sciolto, non hanno
percezione del «suo grido silenzioso per essere letto altrimenti»98. Lei,
senza alcun merito, sentendo di essere soltanto un tramite, desidera
assumere nei suoi confronti il compito di levatrice.
Ciò che intende dirgli non è per nulla facile: la sofferenza, che da più di
vent’anni lo tiene inchiodato al letto, è il privilegio che consente a lui, più
che alla maggior parte degli uomini, di guardare in profondità la realtà della
guerra. I suoi commilitoni, vittime della stessa atroce realtà, o non hanno
potuto elaborarne il senso perché stroncati dalla morte, oppure, tornati
incolumi dal fronte «hanno tutti ucciso il passato con l’oblio». È pressoché
impossibile, infatti, quando si è ormai affrancati, riportare volontariamente
il pensiero alla sventura. Lui, invece, tramite una memoria pungolata senza
tregua dal dolore, non ha mai smesso di scrutare il suo destino, anche se
non l’ha ancora accolto, fino in fondo, come la necessità alla quale dare il
proprio assenso.
Ponendosi in sintonia con la sensibilità poetica dell’amico, Simone Weil
ricorre a un’immagine simbolica, di origine orfica, per suggerirgli una via
di uscita dalle tenebre verso la luce della verità: egli è prigioniero nell’uovo
del mondo visibile e non ha ancora rotto il guscio per liberare dentro di sé il
pulcino, che è l’amore di Dio, che è Dio stesso «che abita nel profondo di
ogni uomo, come un germe invisibile». Solo quando sarà uscito da quel
guscio, gli sarà possibile vedere il mondo senza più veli ed elaborare
pienamente la sventura della guerra, riuscendo a pensarla con assoluta
lucidità. Proprio lui, che porta quel ricordo conficcato come una spina nella
carne, è nella condizione privilegiata per accogliere, in senso universale, la
sventura che è la realtà del mondo. Infatti,
per pensare la sventura, bisogna portarla nella carne, conficcata in profondità, come un
chiodo, sopportarla così a lungo che il pensiero abbia tempo di farsi forte quanto serve per
guardarla99.
Non è lontano il momento in cui potrà pronunciare il sì che sancisce la
scelta irreversibile del bene. Ciò che finora gli ha impedito di dare il suo
pieno assenso alla sventura è l’impulso ad abbandonarsi al sogno, al
turbinio dell’immaginazione. E questo perché non ha mai cessato di essere
prigioniero, non ha ancora rotto il guscio. La radice del male, che lui per
primo sente di non saper individuare dentro di sé, affonda in quella trama di
artifici, di consolazioni – piaceri, arte, religione… – in cui si è avvolto per
alleviare il peso della sventura100. Fare la scelta definitiva, abbandonare
ogni conforto illusorio per una lucidità che si apparenta con la follia,
significa accettare pienamente di portare la sua croce, una croce incarnata
nei giorni e nelle notti senza fine della camera buia di Carcassonne. Eppure,
solo allora, solo quando la trasformazione sarà pienamente compiuta, «sarà
perdonato il proiettile che un giorno gli è si è conficcato al centro del corpo
e, per suo tramite, a tutto l’universo che lo aveva guidato»101.
Queste verità così crude, che sente di dovergli dire, non nascono da lei:
le parole si servono, suo malgrado, della sua penna, ma è Dio stesso che
gliele invia. Tanta sicurezza, che può apparire presunzione, si fonda su una
realtà di fatto: da tempo, in modo molto imperfetto, è sorella di sventura del
poeta. Da dodici anni ormai, è «abitata da un dolore, situato in prossimità
del punto centrale del sistema nervoso, alla giunzione dell’anima e del
corpo, che persiste anche durante il sonno»102. Questa sofferenza, che solo
il pensiero di una morte probabile o volontaria finora le ha consentito di
sopportare, si è incontrata fin dall’inizio, durante l’esperienza di lavoro in
fabbrica, con la degradazione fisica della massa umana.
L’esperienza mistica, su cui l’amico le ha rivolto una domanda, e che lei
sommessamente gli confida, si era verificata proprio in un momento di
sofferenza estrema, in modo del tutto gratuito e inaspettato, quando ancora
«Dio non aveva alcun posto nei suoi pensieri»:
Sono convinta che la sventura da un lato, e dall’altro la gioia intesa come adesione totale e
pura alla perfetta bellezza, poiché entrambe comportano la perdita dell’esistenza personale,
siano le due sole chiavi grazie a cui si entra nel paese puro, nel paese respirabile, nel paese
reale104.
Per molto tempo si è creduto che questa fosse la lettera di addio, prima che
il mare interponesse tra loro la distanza propizia a riascoltare, nel silenzio
interiore, l’eco delle parole scambiate. Ma proprio in essa, era contenuta la
promessa di continuare il dialogo sulle molte cose che restavano ancora da
approfondire. Altre due lettere, casualmente ritrovate alcuni anni fa105,
intrise della dolente percezione di una fine imminente, imprimono il sigillo
su una concezione della vita in grado di dare tutto il suo significato alla
morte.
Della morte, del resto, si parla anche nella lettera autobiografica a padre
Perrin, quando si dice che essa costituisce «la norma e la meta della vita,
[…] l’istante in cui, per una frazione infinitesimale di tempo, la verità pura,
nuda, certa, eterna penetra nell’anima»106. Con accenti ancor più intensi,
questa stessa verità è ripetuta a Joë Bousquet, che le aveva confidato di
vivere nell’oblio della morte, in contraddizione con quella volontà di tenerla
in pugno di cui scriveva, nello stesso periodo, a Gabriel Sarraute, il
cappellano militare che doveva tenersi pronto a somministrargli gli ultimi
sacramenti:
Tengo molto a ricevere la morte a occhi aperti, con eleganza, sapendo quello che faccio. Mi
sembrerebbe troppo triste aver sfiorato una bella morte sull’altopiano di Brenelle per poi
entrare venticinque anni dopo nella morte, a occhi bendati107.
Ma non è una morte eroica quella che Simone Weil implora per sé e
suggerisce all’amico: per lei la morte dovrà coincidere con l’assenso
definitivo all’amore di Dio, che è presente nel mondo sotto il velo della
necessità e che, nell’ultimo istante, si svelerà come bellezza assoluta
dell’universo. Ciò che le fa paura non è il trapasso, ma il rischio di trovarsi
impreparata «nell’ultimo istante di vita, [in cui] vedremo con i nostri sensi
la bellezza del mondo assolutamente spoglia e al pari di un intermediario,
consegneremo la bellezza del mondo, nella sua completa nudità, a Dio che
scenderà per unirsi ad essa nei nostri occhi»108.
Le ultime due lettere, una spedita in extremis da Marsiglia e l’altra da
Casablanca, durante il viaggio, oltre a questa stupenda evocazione di una
morte rivelatrice della bellezza dell’universo, e oltre al sentimento di
lacerazione per la partenza, contengono un dono all’amico per colmare il
tempo dell’assenza. Si tratta, come abitualmente faceva con chi amava, di
alcuni frammenti da lei tradotti dall’Iliade e dai tragici greci e di un
racconto del folklore scozzese, tradotto e interpretato in maniera ardita e
allusiva, conforme alla sua esegesi sapienziale.
Nel racconto intitolato Le tre notti del principe di Norvegia, la
protagonista è una fidanzata, vestita di stracci, che va alla ricerca del
principe amato, scomparso e conteso da un’altra donna. Con uno
stratagemma ottiene dalla rivale di trascorrere tre notti con lui. Solo
all’ultimo istante, prima dell’alba del terzo giorno, il principe si sveglia,
riconosce l’amata e scaccia la rivale. Il commento occupa meno di due
righe: «La sposa è il Cristo, la falsa fidanzata è la carne che Dio acquista
mediante la bellezza»109.
Commento che può sembrare un po’ criptico, ma che non era certo
incomprensibile a Joë Bousquet, dopo averla ascoltata: per sfuggire
all’istante limite in cui deve scegliere il bene, l’anima, incapace di reggere
la presenza bruciante di Dio, cerca scampo dietro il velo della carne. Il
desiderio carnale, quindi, rappresenta un male quando è una forma di
corruzione, una degradazione dell’amore di Dio. Affidandosi alla
delicatezza poetica di una fiaba, offre all’amico un’occasione estrema per
riflettere su se stesso, sulle ambiguità, sulle ombre che attendevano di
essere dissipate in lui.
Joë Bousquet, dopo la morte di Simone, ha confidato a Hélène e Pierre
Honnorat di aver sperato invano che la fine della guerra gli restituisse
l’amica che «aveva il dono di pronunciare parole dal significato umano
illimitato»110. Solo col tempo aveva imparato a leggere, nella sua morte
volontaria e prevedibile, «l’ordine di vivere con gli assenti», riandando
spesso con la memoria ai pensieri scambiati con lei e prolungando, nel
silenzio, il loro dialogo. L’eco «dei pensieri in cui lei riposava mentre a lui
toglievano il riposo»111 risuona, con naturalezza, in molte pagine dei Diari
che il poeta ferito ha continuato ad annotare fino al 1950, anno della
morte112. In una delle ultime pagine, ricordando la notte delle confidenze,
scrive: «Ascoltavo la voce pacificata di Émile Novis…»113.
Durante la guerra, Nicolas fu internato nel campo del Vernet, in quanto belga, dunque
straniero, dunque sospetto. Simone rimase in corrispondenza con lui, nella misura in cui le
circostanze anormali lo permettevano, prima di lasciare la Francia. Nicolas l’aveva messa
in rapporto epistolare con un povero spagnolo, abbandonato da tutti, ugualmente internato
al Vernet, e lei si era sforzata di aiutare questo sconosciuto con la sua inesauribile
bontà116.
Nel campo del Vernet, dove Nicolas Lazarévitch aveva conosciuto Antonio
Atarés, era stato recluso per qualche tempo anche Arthur Koestler, autore di
Un testamento spagnolo, un fortunato racconto autobiografico che Simone
Weil andava leggendo e commentando, nei Quaderni, proprio in quel
periodo. Militante politico, combattente a fianco dei repubblicani nella
Guerra Civile spagnola, questo scrittore ebreo, di origine ungherese,
racconta la sua esperienza di prigionia in un altro scritto autobiografico, le
cui pagine consentono di immaginare, con qualche plausibilità, la vita
molto dura che si conduceva nel campo in cui era rinchiuso Antonio Atarés:
Il campo del Vernet aveva una superficie di cinquanta ettari. La prima impressione era
quella di un ammasso di fili spinati che circondavano il campo in tre lunghe file molto
ravvicinate, che partivano in diverse direzioni, con delle trincee parallele.
La terra era arida, sassosa e polverosa quando era secco, fangosa da sprofondare fino alle
caviglie appena pioveva, disseminata di zolle gelate durante i grandi freddi. […]
Le baracche erano di assi ricoperte di carta incatramata. Ogni baracca conteneva duecento
uomini. Lunga trentacinque metri e larga cinque, era costituita da due grandi piattaforme
sovrapposte che correvano lungo i muri lasciando solo uno stretto passaggio nel mezzo.
[…]
Le assi erano ricoperte da un sottile strato di paglia, e la paglia era il solo mobilio
trasportabile della nostra baracca. In effetti, assomigliava ad una stalla. Non c’erano
finestre, ma solo un’ampia apertura ritagliata nella parete di assi che serviva da lucernario.
[…] Il campo non aveva refettorio, non c’era un tavolo né un appoggio nelle baracche; non
c’erano né piatti, né posate per mangiare, né sapone per lavarsi; una parte degli internati
aveva i mezzi per acquistarne, l’altra era ridotta al livello dell’età della pietra120.
L’altro. Percepire ogni essere umano (immagine di se stessi) come una prigione in cui abita
un prigioniero, con tutto l’universo intorno121.
L’altro qui descritto sta certo a indicare una condizione umana universale
ma, in quel preciso momento, non è difficile immaginare che Antonio
Atarés, rinchiuso nel campo del Vernet, fosse per lei l’immagine eloquente
e concreta di una condizione di sradicamento, di privazione, di sventura che
stava diventando dolorosamente reale per milioni di uomini. Nel momento
in cui si china sulla sua sofferenza, facendone oggetto di attenzione e di
compassione, egli incarna pienamente per lei la misura dell’amore con cui
«si vorrebbe poter amare in maniera particolare ciascuno degli esseri che
compongono la specie umana»122. La preferenza verso un essere umano,
che è lo specifico dell’amicizia, è determinata «dall’irrompere casuale della
sventura che suscita lo scambio di compassione e di gratitudine»123.
Sono questi i sentimenti che ispirano lo scambio epistolare, che però poi
procede lungo un sentiero di semplicità, in cui essi sono impliciti e
presupposti. Per creare un clima di connivenza con l’interlocutore lontano,
Simone Weil torna col ricordo alla Spagna, alla sua breve partecipazione
alla guerra al seguito della colonna dell’anarchico Buenaventura Durruti.
Lì, diversamente dai numerosi intellettuali e militanti francesi che neppure
si accorgevano di quei contadini in nome dei quali pretendevano di
combattere, nelle pause dell’azione lei era andata a interrogarli, li aveva
ascoltati nelle piazze, aveva annotato le loro reazioni, i sentimenti. Poi, nel
1938, quando la guerra era ormai degenerata in un regolamento di conti tra
fazioni, aveva scritto con amarezza a Georges Bernanos:
[…] Questi miseri e magnifici contadini, rimasti fieri in mezzo a tutte le umiliazioni, per i
miliziani non costituivano neppure un motivo di curiosità. Senza insolenze, senza ingiurie,
senza brutalità […], un abisso separava gli uomini armati dalla popolazione inerme, un
abisso del tutto simile a quello che separa i poveri dai ricchi. Questo si avvertiva
nell’atteggiamento sempre umile, sottomesso, spaventato degli uni, e nella sicurezza, nella
disinvoltura, nella condiscendenza degli altri124.
Con i volti dei contadini di Aragona ancora impressi nella memoria, dà
inizio alla corrispondenza con l’anarchico dimenticato nel campo del
Vernet:
Sono stata, per qualche tempo, nel suo bel Paese, persino in certi piccoli villaggi dove gli
stranieri non si spingono mai. Credo che sia la sua regione. Non ho mai dimenticato i
contadini che ho visto nelle campagne; mi hanno lasciato un’impressione indimenticabile.
Per questo, quando Nicolas mi ha parlato di lei, m’è parso di conoscerla da tanto tempo125.
I filosofi greci chiamati stoici dicevano che bisogna amare il destino; che bisogna amare
tutto ciò che il destino apporta, anche quando apporta la sventura. Fin dall’infanzia, ho
sempre creduto che questa sia la virtù più bella. È molto difficile nella sventura, soprattutto
se la sventura si prolunga; ma proprio per questo è tanto più bella. Tu la possiedi a un
livello molto raro, e non so dirti quanto ti ammiri per questo127.
Al ritmo di una lettera ogni due o tre settimane, che raggiungono Antonio
prima tra le montagne dei Pirenei, e poi, attraversando il Mediterraneo, fin
sull’altopiano sassoso e desertico di Djelfa, Simone Weil esprime,
sull’amor fati e sulla bellezza dell’universo, gli stessi pensieri che tornano
nei Quaderni e nelle lettere inviate agli altri amici di Marsiglia e di
Carcassonne. Le riflessioni che condivide con l’amico alludono a una
filosofia pratica, una saggezza di vita, un cammino spirituale che ogni uomo
può percorrere. Contemplando l’ordine necessario del mondo, che comporta
inevitabilmente anche la sventura, può scoprire una bellezza di cui nessuno
potrebbe privarlo: può ammirarla nelle vette dei Pirenei e nel cielo di
velluto disseminato di costellazioni delle notti di Djelfa, «al tramonto o al
sorgere del sole, anche se tutt’intorno gli uomini parlano e fanno rumore, si
può sentire il silenzio che discende dall’alto e si dilata in lontananza come il
cielo»128. Obbedendo alle leggi dell’universo, accettando la propria sorte,
con lo spirito degli stoici Antonio può fare della sua vita un’opera d’arte, al
pari di chi «fa una bella poesia, un’opera di filosofia, una scoperta
scientifica, o qualsiasi altra cosa del genere»129.
Come ormai usa fare, acclude alle lettere qualche poesia, traduce per
l’amico i versi di Eschilo che esprimono le invettive scagliate contro gli dèi
da Prometeo inchiodato alla roccia. Trascrive anche la copla de Las aves de
Arabia «che vivono eternamente perché ignorano le sofferenze»130.
Tradurre poesie e farne dono a chi ama, è per lei il segno privilegiato
dell’amicizia.
Quando la corrispondenza si fa più difficile, nell’ultima commovente
lettera, prima di salpare per l’America, affida «alle stelle, alla luna, al sole,
all’azzurro del cielo, al vento, agli uccelli, alla luce, all’immensità dello
spazio, i suoi pensieri per l’amico, perché gli donino ogni giorno la gioia
che desidero per lui e che egli sicuramente merita»131.
Dopo questa lettera, Antonio non scompare dalla vita e dalle
preoccupazioni di Simone: ogni volta che può, chiede notizie dell’amico e
incarica sia i genitori che il fratello André di scrivergli. Col tempo, il suo
nome diventa una sorta di codice di cui i genitori si servono per designare
l’Algeria, il Paese in cui desidererebbero recarsi e dove, forse, potranno
incontrarlo finalmente libero.
Antonio Atarés, nel maggio 1943, otterrà l’autorizzazione a lavorare
fuori del campo e, infine, la libertà132. Nell’unica sua lettera rimasta,
indirizzata all’amica il 18 gennaio 1944, ancora ignaro della sua morte,
ricordando l’amore per la natura che lo aveva sostenuto durante la
prigionia, egli scrive:
Nel marzo del ’43, ho ricevuto una tua lettera a cui ho immediatamente risposto; ma non ho
avuto più tue notizie. Il tuo silenzio prolungato non mi preoccupa molto, in primo luogo
perché sono consapevole del tempo in cui viviamo. E poi, perché penso che, se ti fosse
capitato qualcosa di inatteso, i tuoi genitori, al corrente dell’amicizia che ci lega, me
l’avrebbero subito comunicato. […]
In questa città (Orano), la mia anima è immersa in un’atmosfera molto piacevole. Infatti vi
ho trovato tutti gli elementi che più mi appagano, come il mare, le montagne rivestite di
tanti alberi e abbellite di magnifici paesaggi. E ciò che è più prezioso per l’uomo che pensa,
la libertà133.
Caro amico,
Caro amico,
dalla sua lettera ho appreso con molta pena che, come temevo, è stata la
sofferenza a impedirle di scrivermi.
Le confesso che, dopo la partenza, ogni volta che penserò a lei, mi sarà
assai doloroso dover pensare che forse sta soffrendo e, a causa della
distanza, non poter essere rassicurata da qualche notizia recente.
La mia partenza è stata rinviata di giorno in giorno, sicché mi trovo
ancora qui. Stavolta però penso proprio che sarà per mercoledì o giovedì.
Suppongo che ancora una volta sia stata la sofferenza a impedirle di
scrivere la lettera concordata. L’aspettavo, ad ogni arrivo della posta, prima
di risponderle, e stupidamente non ho pensato che dopo qualche giorno non
avrebbe più potuto spedirmela, nell’incertezza su dove mi trovassi.
Se è già stata scritta e pensa che possa arrivare mercoledì mattina,
potrebbe indirizzarmela qui. Ma credo che sia troppo rischioso e sia meglio
inviarla a Casablanca, presso Mme Bercher, 148, rue Blaise Pascal. Per
maggior sicurezza, la spedisca per posta aerea. Di sicuro, lei si sarà
premurato di scriverla in modo che mi arrivi.
Le scriverò più a lungo prima di partire. Oggi le invio soltanto, ed è
meglio così, qualche puro gioiello19.
Mi auguro che i passi greci, con la traduzione, siano per lei lo stimolo
necessario per immergersi completamente in quella lingua.
Abbia sempre fiducia nella mia amicizia,
Simone Weil
Joë Bousquet a Simone Weil
Caro amico,
anzitutto, grazie ancora per ciò che ha fatto per me. Se, come mi auguro,
si rivelerà efficace, non lo avrà fatto per me ma, attraverso di me, per gli
altri, quei suoi giovani fratelli, presi come lei dentro lo stesso destino, che
devono esserle infinitamente cari. Forse, all’approssimarsi dell’istante
supremo, qualcuno le sarà debitore della dolcezza di uno scambio di
sguardi23.
Tra tutti, lei è privilegiato perché lo stato attuale del mondo è per lei una
realtà. Più ancora, forse, che per coloro che in questo momento uccidono e
muoiono, feriscono e sono feriti, e che, attoniti, non sanno né dove sono né
quel che gli capita, e che, come è avvenuto per lei un tempo, non hanno
coscienza di questa situazione. Per tutti gli altri, per la gente di qui ad
esempio, ciò che succede, è per alcuni ben poca cosa, un incubo confuso,
per la maggior parte un vago fondale, una scena teatrale, in entrambi i casi
qualcosa di irreale24.
Da vent’anni, lei va ricostruendo col pensiero questo destino che ha
afferrato e poi lasciato tanta gente, che ha afferrato lei per sempre e che
adesso nuovamente afferra milioni di uomini. Lei, ora, è pronto per
pensarlo. O se non lo è ancora del tutto – credo che non lo sia – in ogni caso
ha soltanto un guscio da forare per uscire dalle tenebre dell’uovo nella luce
della verità, e sta già battendo contro il guscio. Si tratta di un’immagine
molto antica25. L’uovo è il mondo visibile. Il pulcino è l’Amore, l’Amore
che è Dio stesso e che abita nel profondo di ogni uomo, da principio come
un germe invisibile. Quando il guscio è forato e l’essere è uscito, l’oggetto
della visione è ancora questo stesso mondo. Ma non sta più dentro. Lo
spazio si è aperto e lacerato. Lo spirito, abbandonato il corpo in un angolo,
è trasportato in un punto fuori dello spazio, che non è un punto di vista, da
cui non si ha una prospettiva, da cui il mondo visibile appare reale, senza
prospettiva. Lo spazio, rispetto a com’era dentro l’uovo, si trasforma in un
infinito alla seconda o meglio alla terza potenza. L’istante è immobile26.
Tutto lo spazio, anche se si odono dei rumori, è riempito da un denso
silenzio, che non è assenza di suoni, ma un oggetto reale di sensazione, più
reale di un suono, che è la parola segreta, la parola dell’Amore che fin
dall’origine ci tiene nelle sue braccia.
Quando sarà uscito dall’uovo, lei conoscerà la realtà della guerra, la
realtà più preziosa da conoscere, perché la guerra è l’irrealtà stessa.
Conoscere la realtà della guerra realizza l’armonia pitagorica, l’unità dei
contrari, la pienezza della conoscenza del reale27. Per questo lei è
infinitamente privilegiato, perché ha la guerra annidata nel corpo, che
attende da anni, fedelmente, che sia maturo per conoscerla. Quelli che sono
caduti accanto a lei, non hanno avuto il tempo di ricondurre sul loro destino
la frivolezza errante dei pensieri. Coloro che sono ritornati incolumi hanno
tutti ucciso il passato con l’oblio, anche quando hanno mostrato di
ricordarsene, perché la guerra è sventura, e volgere volontariamente il
pensiero verso la sventura è facile quanto convincere un cane non
addestrato a passare attraverso un incendio e a lasciarsi carbonizzare. Per
pensare la sventura, bisogna portarla nella carne, conficcata in profondità,
come un chiodo, sopportarla così a lungo che il pensiero abbia tempo di
farsi forte, quanto occorre, per guardarla. Guardarla dal di fuori, dopo
essere giunti a uscire dal corpo e anche, in un certo senso, dall’anima. Il
corpo e l’anima si ritrovano, non solo trafitti, ma inchiodati a un punto
fisso. Che la sventura costringa o meno, in senso letterale, all’immobilità,
c’è sempre un’immobilità forzata, nel senso che una parte dell’anima si
trova sempre, continuamente, inseparabilmente, attaccata al dolore. Grazie
a questa immobilità, il granello infinitesimale di amore divino gettato
nell’anima può crescere e portare frutti nell’attesa, , secondo
l’espressione divinamente bella del Vangelo. Si traduce in patientia, ma
, è tutt’altra cosa. Vuol dire rimanere sul posto, immobile,
nell’attesa, senza lasciarsi scuotere né smuovere da alcuna scossa esterna28.
Felici coloro per i quali la sventura, penetrata nella carne, diventa la
sventura stessa del mondo nella loro epoca. Costoro hanno la possibilità e la
funzione di conoscere nella sua verità, di contemplare nella sua realtà la
sventura del mondo. Questa è la stessa funzione redentrice. Venti secoli fa,
nell’Impero romano, la sventura dell’epoca era la schiavitù, di cui la
crocifissione era l’esito estremo.
Sfortunati invece coloro che, avendo questa funzione, non
l’adempiono29.
Quando dice di non percepire la distinzione tra il bene e il male, presa
alla lettera, l’affermazione non è seria, perché lei parla di un altro uomo che
porta in sé, che, evidentemente, è il male dentro di lei; sa bene – e in caso di
incertezza un attento esame può quasi sempre aiutarla a capire – che cosa,
nei suoi pensieri, nelle sue parole e nei suoi atti, nutre quest’altro a spese
sue, e che cosa nutre lei a spese dell’altro. Questo vuol dire che non ha
ancora acconsentito a riconoscere questa distinzione come la distinzione tra
il bene e il male.
Questo consenso non è facile, perché impegna senza possibilità di
ritorno. Vi è, rispetto al bene, una sorta di verginità dell’anima, che non si
ritrova più una volta che sia stato dato il consenso, proprio come la
verginità di una donna che abbia ceduto a un uomo. Questa donna può
diventare infedele, adultera, ma non sarà mai più vergine. Per questo ha
paura quando sta per dire di sì. L’amore trionfa su questa paura.
Per ogni essere umano, vi è una data ignota a tutti, e a lui stesso in
primo luogo, ma assolutamente certa, oltre la quale l’anima non può più
conservare questa verginità. Se prima di quel preciso istante, fissato
dall’eternità, non ha acconsentito ad essere afferrata dal bene, si troverà
subito dopo afferrata, suo malgrado, dal male.
Un uomo può darsi al male in ogni momento della vita, perché questo
avviene inconsapevolmente e senza sapere che si introduce dentro di sé
un’autorità esterna; l’anima beve un narcotico prima di cederle la sua
verginità. Non è indispensabile aver detto di sì al male per esserne afferrato.
Il bene, invece, afferra l’anima solo se essa dice di sì. Ed è tale la paura
dell’unione nuziale, che nessun’anima ha il potere di dire di sì al bene
finché l’approssimarsi dell’istante limite, in cui il suo destino sarà segnato
in eterno, non la costringa a ciò in modo irreversibile. Per alcuni, l’istante
limite può situarsi all’età di cinque anni, per altri a sessanta. D’altro canto,
non è possibile situarlo né un istante prima né un istante dopo averlo
superato, perché questa scelta istantanea ed eterna si rivela solo quando si
rifrange nella durata. Per coloro che, molto tempo prima di avvicinarvisi, si
sono lasciati afferrare dal male, l’istante limite non ha più alcuna realtà. Il
massimo che un essere umano possa fare, fin tanto che non si sia
avvicinato, è di serbare integra, dentro di sé, la facoltà di dire di sì al
bene30.
Mi pare certo che, per lei, l’istante limite non è giunto. Non ho il potere
di scrutare i cuori, ma mi sembra che vi siano degli indizi che esso non sia
molto lontano. La sua facoltà di consenso è indubbiamente intatta.
Penso che, dopo aver consentito al bene, lei bucherà l’uovo, forse dopo
un certo intervallo, probabilmente breve; nel momento in cui sarà uscito
fuori, sarà perdonato il proiettile che un giorno gli è si è conficcato al centro
del corpo e, per suo tramite, tutto l’universo che lo aveva guidato.
L’intelligenza ha un ruolo nel preparare il consenso nuziale a Dio.
Consiste nel contemplare il male dentro di sé e odiarlo. Non nel tentare di
sbarazzarsene, ma solo nel discernerlo; e anche prima di aver detto di sì al
suo opposto, nel mantenervi fisso lo sguardo, il tempo giusto per provarne
avversione31.
Credo che probabilmente per tutti, e in particolare per quelli che sono
stati colpiti dalla sventura, soprattutto se di ordine fisico, la radice del male
sia il sogno: è la sola consolazione, la sola risorsa dello sventurato, l’unico
soccorso per sopportare la spaventosa pesantezza del tempo; un soccorso
piuttosto innocente; per altro indispensabile. Come si potrebbe farne a
meno? Ha un solo inconveniente: non è reale. Rinunciarvi per amore della
verità equivale davvero ad abbandonare tutti i propri beni per follia di
amore e seguire colui che è la Verità in persona. Vuol dire veramente
portare la croce. Il tempo è la croce.
Non bisogna farlo fino a quando l’istante limite non è vicino, ma è
necessario riconoscere il sogno per ciò che è; e nel momento stesso in cui ci
si appoggia ad esso non si deve dimenticare neanche un istante, che in tutte
le sue forme, da quelle in apparenza più inoffensive per la loro puerilità, a
quelle che sembrano più degne per la serietà e per il legame con l’arte, con
l’amore, o l’amicizia (e per molti la religione), in tutte le sue forme, senza
eccezione, esso è menzogna. Il sogno esclude l’amore. L’amore è reale.
Non oserei mai parlarle in questo modo se la mia mente avesse
elaborato tutti questi pensieri. Ma pur non dando alcun credito a queste
impressioni, ho proprio, mio malgrado, la sensazione che Dio, per amor
suo, li indirizzi verso di lei servendosi di me. Allo stesso modo in cui è
indifferente che l’ostia consacrata sia fatta di una farina della peggior
qualità, anche per tre quarti ammuffita.
Lei sostiene che io pago le mie qualità morali con la sfiducia verso me
stessa. La spiegazione dell’atteggiamento verso di me, che non è sfiducia,
ma piuttosto un misto di disprezzo, di odio e di avversione, si trova più in
basso, a livello dei meccanismi biologici: è il dolore fisico. Da dodici anni
sono abitata da un dolore, situato in prossimità del punto centrale del
sistema nervoso, alla giunzione dell’anima e del corpo, che persiste anche
durante il sonno, e non viene mai meno neanche un istante. Per dieci anni è
stato così intenso, e accompagnato da un tale senso di sfinimento, che
spesso i miei sforzi di attenzione e di lavoro intellettuale erano quasi del
tutto privi di speranza, al pari di quelli di un condannato a morte destinato
ad essere giustiziato l’indomani. E questo, in modo ancor maggiore, quando
apparivano completamente sterili e senza un frutto, anche solo immediato.
Mi sosteneva la fede, acquisita all’età di quattordici anni, che nessuno
sforzo di autentica attenzione va mai perduto, anche se non avrà
direttamente o indirettamente alcun risultato visibile. Eppure è arrivato un
momento in cui mi sono sentita minacciata, per lo sfinimento e per
l’aggravarsi del male, da un orribile decadimento di tutta l’anima, al punto
che per molte settimane mi sono chiesta, angosciata, se per me morire non
fosse il dovere più urgente, benché mi sembrasse spaventoso che la mia vita
potesse concludersi nell’orrore. Come le ho raccontato, solo una decisione
di morte condizionata e a termine mi ha restituito la serenità32.
Poco tempo prima, trovandomi già da molti anni in quello stato fisico,
ero stata operaia in fabbrica, per circa un anno, negli stabilimenti meccanici
della regione parigina. La congiunzione dell’esperienza personale e della
simpatia per la miserabile massa umana che mi circondava e con cui, ai
miei stessi occhi, mi trovavo indistintamente confusa, ha fatto penetrare
così a fondo nel mio cuore la sventura della degradazione sociale che, da
allora in poi, mi sono sempre sentita una schiava, nel senso che questa
parola aveva presso i romani.
Durante tutto quel tempo anche solo il nome di Dio non aveva alcun
posto nei miei pensieri. Ne ha avuto uno solo a partire dal giorno in cui,
circa tre anni e mezzo fa, non mi è più stato possibile rifiutarglielo. In un
momento di intenso dolore fisico, mentre mi sforzavo di amare, ma senza
credere di aver diritto di dare un nome a quell’amore, ho avvertito, senza
esservi minimamente preparata – dal momento che non avevo mai letto i
mistici – una presenza più personale, più certa, più reale di quella di un
essere umano, inaccessibile sia ai sensi che all’immaginazione, simile
all’amore che traspare nel sorriso più tenero di un essere amato. Da quel
momento il nome di Dio e quello del Cristo si sono mescolati in modo
sempre più irresistibile con i miei pensieri.
Fino a quel momento la mia unica fede era stata l’amor fati stoico,
come l’ha inteso Marco Aurelio, e che avevo sempre fedelmente praticato.
L’amore per la città dell’universo, paese natale, patria prediletta da ogni
anima, amata per la sua bellezza, nella pienezza dell’ordine e della necessità
che ne costituiscono l’essenza, insieme a tutti gli eventi che vi accadono.
Ne è risultato che la quantità irriducibile di odio e di avversione, legati
alla sofferenza e alla sventura, si è interamente riversata su di me. Ed è una
quantità considerevole, perché si tratta di una sofferenza presente alla radice
stessa di ogni pensiero, senza eccezione.
Questo ha fatto sì che io non riesca, in alcun modo, a immaginare la
possibilità che un essere umano provi amicizia per me. Se credo alla sua, è
solo perché, avendo fiducia in lei e avendo avuto da lei la rassicurazione di
tale amicizia, la mia ragione mi dice di credervi. Cionondimeno, per la mia
immaginazione, essa è impossibile.
Questa disposizione dell’immaginazione mi induce a provare una
riconoscenza ancor più tenera verso coloro che realizzano questa cosa
impossibile. Infatti l’amicizia è per me un bene incomparabile, senza
misura, una sorgente di vita, non in senso metaforico ma letterale. Dal
momento che non solo il mio corpo, ma la mia stessa anima,
completamente avvelenata dalla sofferenza, è un luogo dove il pensiero non
può abitare, è necessario che esso si sposti altrove. Può abitare solo per
brevi spazi di tempo in Dio. Abita spesso nelle cose. Ma sarebbe contro
natura che un pensiero umano non abitasse mai in qualcosa di umano. Per
questo, alla lettera, l’amicizia offre al mio pensiero tutta la parte di vita che
non le viene da Dio o dalla bellezza del mondo.
Può dunque capire quale favore mi ha fatto accordandomi la sua
amicizia.
Le dico queste cose perché è in grado di comprenderle, dal momento
che nel suo ultimo libro vi è una frase in cui mi sono riconosciuta, a
proposito dell’errore in cui cadono i suoi amici quando credono che lei
esista33. Si tratta di una disposizione della sensibilità che possono
comprendere solo quelli da cui l’esistenza stessa è direttamente e
continuamente percepita come un male. Per questi è fin troppo facile fare
quel che il Cristo chiede, cioè rinnegare se stessi. Forse troppo facile. Forse
senza merito. Tuttavia, ritengo che questa facilità costituisca un favore
immenso.
Sono convinta che la sventura da un lato, e dall’altro la gioia, intesa
come adesione totale e pura alla perfetta bellezza, poiché entrambe
comportano la perdita dell’esistenza personale, siano le due sole chiavi
grazie a cui si entra nel paese puro, nel paese respirabile, nel paese reale.
Occorre però che l’una e l’altra siano pure: la gioia senza ombra di
insoddisfazione, la sventura senza alcuna consolazione.
Lei mi capisce bene. L’amore divino che si tocca al fondo della
sventura, come la risurrezione del Cristo attraverso la crocifissione, e che
costituisce l’essenza non sensibile e il nucleo intimo della gioia, non è una
consolazione. Lascia il dolore perfettamente intatto.
Le dirò qualcosa che è arduo da pensare, ancor più arduo da dire, quasi
insopportabilmente arduo da dire a chi si ama. Per chiunque si trovi nella
sventura, il male probabilmente può essere rappresentato da tutto ciò che
procura una consolazione.
Le gioie pure che, secondo i casi, prendono momentaneamente il posto
o si sovrappongono alla sofferenza, non sono delle consolazioni. Al
contrario, è possibile scorgere una consolazione in una forma di
peggioramento morboso della sofferenza. Tutto questo per me è chiaro,
però non so se lo esprimo nel modo giusto34.
La pigrizia, il lasciarsi andare all’inerzia, una tentazione alla quale cedo
molto spesso, quasi ogni giorno, potrei dire ogni ora, è una forma
particolarmente spregevole di consolazione. Questo mi costringe a
disprezzarmi.
Mi accorgo che non ho risposto alla sua lettera, eppure ho molte cose da
dire in proposito. Sarà per un’altra volta. Oggi mi accontento di
ringraziarla.
Yours most truly,
Simone Weil
LOVE
Love bade me welcome; yet my soul drew back,
Guiltie of dust and sinne.
But quick-ey’d Love, observing me grow slack
From my first entrance in,
Drew nearer to me, sweetly questioning
If I lack’d anything
[maggio 1942]
Caro amico,
S.W.
P.S. A proposito di quel che le ho detto nella mia ultima lettera, circa
l’istante limite al cui approssimarsi quasi immediato, non prima, l’anima ha
il potere di scegliere il bene, conosce il tema del folklore delle tre notti che,
a mio parere, esprime proprio questa verità? Una ragazza è sposata a un
principe che di giorno ha le sembianze di un animale. Una notte, però, se ne
libera. Scompare. Lei cammina, cammina, in cerca di lui. Una donna che
incontra lungo la via le dona tre meravigliose nocciole. Cammina ancora, a
piedi nudi, vestita di stracci, sfinita. Finalmente trova il suo principe in un
palazzo, in procinto di sposarsi, perché ha dimenticato di esserlo già. Lei si
fa assumere come sguattera. Rompe una nocciola, vi trova dentro una veste
meravigliosa, la offre in dono alla promessa sposa in cambio del permesso
di trascorrere una notte col principe. La fidanzata accetta ma somministra al
principe un narcotico. La povera ragazza lo trova addormentato. Si mette a
cantare per svegliarlo:
Ma invano. «Ella cantò finché il suo cuore fu sul punto di spezzarsi, e poi
ancora sul punto di spezzarsi». All’alba deve partire.
Una seconda notte avviene la stessa cosa. Poi una terza, l’ultima, perché
la sventurata non ha più alcuna nocciola, più niente da offrire in dono.
Ma, stavolta, la fidanzata non ha somministrato abbastanza narcotico.
Un istante prima dell’alba il principe apre gli occhi, vede la sposa, la
riconosce e scaccia l’altra.
Penso che la sposa sia il Cristo e la falsa fidanzata sia la carne, che Dio
compra mediante la bellezza.
Questa versione della storia è un racconto scozzese intitolato Le tre notti
del principe di Norvegia44.
Ve ne sono altri nel folklore tedesco, russo, ecc.
Non ricordo se gliela avevo raccontata o meno.
Simone Weil a Joë Bousquet
Caro amico,
avevo sperato di avere sue notizie qui. Ho paura che lei stia ancora
male… O forse mi ha scritto troppo tardi a Marsiglia perché abbia potuto
ricevere la lettera? Insomma, spero che la mancanza di lettere da parte sua,
qui, dipenda da qualsiasi altra causa, ma non dal prolungarsi della sua
sofferenza.
Mi sto allontanando sempre più dalla Francia, in preda ai sentimenti più
diversi, ma in cui domina la lacerazione. Oggi mi rimane solo il tempo di
dirle addio. Avrei potuto scriverle a lungo nei giorni passati, ma speravo in
una sua lettera. Tra l’altro, ho trascorso le giornate a mettere sulla carta dei
pensieri, buono o cattivi, ma che esigevano di essere espressi, tutti più o
meno relativi all’amore di Dio…
C’è una singolare coincidenza che avevo trascurato di riferirle. Nello
stesso momento in cui, nella sua lettera, lei mi consigliava di scrivere su
quell’argomento, ero occupata a raccogliere e tradurre dei testi greci sullo
stesso tema, su richiesta di un domenicano, quello di cui le ho parlato,
credo, in una lettera, al quale mi lega una grande amicizia, e che sta
preparando un libro sull’Amore di Dio45. Oltre a copiarli e tradurli, ho
anche commentato quei testi. E mentre li commentavo, è affiorato anche
qualche mio pensiero personale. Tutto ciò forma un insieme eterogeneo,
scritto in condizioni pessime per la concentrazione mentale, in parte a
Marsiglia e in parte qui, in un campo di emigranti. Sicuramente non ne può
venire niente di buono. Ammesso pure che vi sia, qua e là, qualcosa di
interessante, è solo per puro caso. Fanno eccezione, è ovvio, i frammenti
dei testi greci originali46.
Ho chiesto a padre Perrin di fare in modo, durante un viaggio a
Carcassonne, di lasciare per qualche tempo questi testi nelle sue mani –
sempre che, malgrado tutto, essi non siano del tutto privi di interesse.
(In ogni caso, questo è il suo indirizzo: 45, quai del Verdanson,
Montpellier).
In questo momento, ho altre preoccupazioni, estranee alla prosa e ai
versi. Spero che ciò che lei ha fatto per me abbia piena efficacia47. Anche se
così non fosse, stia pur certo che penserò molto a lei e ai racconti che mi ha
fatto quando ero nella sua camera. Va da sé che penserò a lei in ogni caso.
Ma è in questo modo che desidero poterla pensare.
Con molto affetto,
Simone Weil
Joë Bousquet a Hélène e Pierre Honnorat
26 gennaio 1945
Joë Bousquet
Uno scambio di pensieri in forma di lettere
10.3.1941
Signore,
sarà certamente meravigliato di ricevere una lettera da una sconosciuta;
ma un suo vecchio compagno di prigionia, Nicolas, mi ha parlato di lei in
un modo tale che mi sembra di conoscerla. Si ricorda di lui? Siete stati
assieme a giugno e a luglio53.
Sono stata, per qualche tempo, nel suo bel Paese, anche in alcuni piccoli
villaggi dove gli stranieri non si spingono mai. Credo che sia la sua regione.
Non ho mai dimenticato i contadini che ho visto nelle campagne; mi hanno
lasciato un’impressione indimenticabile. Per questo, quando Nicolas mi ha
parlato di lei, mi è parso di conoscerla da tanto tempo.
Mi ha detto che non può contare su nessuno e che non riceve alcun
aiuto. Per questo vorrei fare qualcosa per aiutarla; purtroppo non posso far
molto. Le invio un pacco. Spero di aver scelto delle cose che possano farle
piacere; è molto difficile, di questi tempi, trovare qualcosa da spedire.
Mi dispiace di non poter scrivere in spagnolo. Se non conosce il
francese tanto da poter leggere questa lettera, mi auguro che possa trovare
qualcuno che gliela traduca. Può rispondermi in spagnolo. Non lo scrivo ma
lo leggo con facilità.
Con i migliori auguri e un cordiale saluto,
Simone Weil
II
Caro signore,
Simone Weil
III
Caro amico,
Simone Weil
IV
5.6.1941
Caro amico,
Simone Weil
[non datata]54
Caro amico,
ti avevo scritto una lettera al Vernet che dovrebbe essere arrivata dopo
la tua partenza, e un’altra lì dove ora ti trovi. Mi meraviglio che tu non
abbia ricevuto né l’una né l’altra.
Non voglio scriverti a lungo oggi, perché mi chiedo se questa lettera ti
arriverà. Se ti arriva e me lo fai sapere, allora ti scriverò più diffusamente.
Mi rincresce molto che lo spettacolo della natura, intorno a te, non ti
procuri le stesse gioie che ti offriva al Vernet. Ma forse, col tempo,
imparerai a riconoscervi altrettanta bellezza, poiché essa ha molti modi
diversi di essere bella. In ogni caso, hai sempre il cielo e la luce in cui ti è
possibile trovare un po’ di gioia, visto che sei uno di quegli esseri tanto rari
che sanno trovare un po’ di gioia nelle cose belle che li circondano.
Scrivimi se nel tuo campo la mensa è fornita e se occorre che ti spedisca
del denaro.
Sono contenta che l’acqua sia buona, lì dove sei; senza di ciò, soffrireste
molto, tu e gli altri. Penso che non sia sgradevole andarla a cercare al
ruscello.
Descrivimi un po’ meglio la tua vita, dimmi come passi il tempo. Pensi
che, se ti spedissi due o tre libri, ti arriverebbero? Purtroppo non vi è quasi
nessun libro spagnolo qui.
Spero tu possa ricevere questa lettera.
Con grande affetto,
Simone Weil
VI
Caro amico,
Simone Weil
VII
6.8.1941
Caro amico,
Simone Weil
VIII
Caro amico,
mi ha fatto piacere ricevere tue notizie. Vorrei tanto che potessi trovarti
in una regione come quella in cui sto io; ne godresti pienamente. È la valle
del Rodano; una lunga, lunga pianura su cui scorre il fiume, e montagne e
colline da un lato e dall’altro. Le albe e i tramonti sono splendidi. Un
giorno, forse, potrai essere di nuovo libero in una natura così bella.
Sono qui, in una casa abbandonata dove vivo da sola. Vado a cercare
l’acqua a una sorgente, la legna in una pineta, mangio dei legumi appena
raccolti da terra e cotti su un fuoco di legna; e vedo continuamente la luce
del sole rischiarare con sfumature diverse la valle e le colline; poi, di notte,
sconfinate distese di cielo stellato. Non si può essere più vicini alla natura e,
come tu dici, essa mi avvolge di bellezza, di luce e di gioia.
Non lavoro molto; sono presso amici e loro non mi lasciano lavorare
molto. Ma resto qui per poco tempo. Tra due settimane andrò in un altro
villaggio, vicino ad Avignone, e sarò alle dipendenze di un vero padrone; lì
penso che sarà duro, perché non sono abituata a quel tipo di lavoro. Spero
però di avere l’energia necessaria per adattarmi. Ti penserò spesso
lavorando.
Cercherò di trovare la forza per scriverti anche se sarò molto stanca.
Tu mi dici di non fare sacrifici per te, perché la vita di un individuo sano
vale più di quella di due anemici. Questo mi ha provocato un po’ di pena.
Sei forse malato? Io, anche senza esser malata, ho poca forza e vitalità; mi
auguro che tu ne abbia assai più di me.
Oppure ciò che dici dipende dalla tua situazione? Ho la ferma speranza
che andrà migliorando. Ad ogni modo, non preoccuparti; non mi privo del
necessario. Ti mando ancora un vaglia, perché in questo momento ho un po’
di denaro.
Sono contenta che accetti con tanta semplicità quel che posso inviarti, te
ne sono molto grata.
Su tutto ciò che dici, in merito all’atteggiamento che l’uomo deve avere
di fronte alla felicità e alla sventura, sono pienamente d’accordo con te. Ma
penso che tu lo metta in pratica meglio di me. Ti ammiro molto per questo.
Con grande amicizia,
Simone Weil
IX
2 ot[tobre] 1941
Caro amico,
Simone Weil
X
15 novembre 1941
Caro amico,
Simone Weil
XI
2 febbraio 1942
Caro amico,
Simone
XII
[non datata]
Caro amico,
Simone Weil
XIII
[non datata]
Caro amico,
solo una parola, oggi, per dirti che ho fatto un altro tentativo per te.
Conosco qui un religioso domenicano che è un uomo ammirevole, un
cristiano nel vero senso del termine. Vale a dire che il suo modo di
concepire la vita non è tanto diverso né dal tuo né dal mio. È molto legato a
una comunità religiosa che si trova in Algeria (la Fraternità di El Abiodh) e
che, a quanto pare, gode di una certa influenza presso il governo algerino.
Ho scritto al Superiore di quella comunità, da parte di questo domenicano, a
riguardo della tua situazione.
Ho detto loro che, per quel che ne so, tu non hai una fede religiosa, ma
che secondo me vi è una grande affinità tra il tuo stoicismo e la loro fede, e
che essi devono fare qualcosa per te.
Per quel che ti riguarda, penso, anzi sono certa che tu possa accettare il
loro aiuto, perché ciò che faranno per te sarà fatto in uno spirito di pura
fraternità.
Spero solo che siano in condizione di fare qualcosa. Tanto per
cominciare, la cosa migliore sarebbe che ti procurassero un lavoro ad Algeri
e, con questo, la liberazione. Probabilmente ti troveresti bene in Algeria se
potessi viverci da libero.
Credi alla mia totale amicizia,
Simone Weil
XIV
[non datata]
Caro amico,
grazie della tua lettera e delle poesie, che mi sono molto piaciute.
Mandamene ancora, se ti ricordi. Ti accludo qui alcuni miei versi, gli ultimi
che ho scritto58.
Ho fatto ancora dei tentativi per te; non so se andranno a buon fine.
Ti ho spedito un vaglia. Te ne avevo già spedito uno qualche settimana
fa; spero che tu l’abbia ricevuto.
Sono contenta che il mio amico si sia ricordato di te. Saresti felice di
conoscerlo; e anche lui sarebbe certamente molto contento di conoscerti.
Potreste intendervi bene.
Se hai ancora bisogno di qualcosa, abiti, denaro, o qualsiasi altra cosa,
dimmelo, te ne prego. Farò quel che potrò.
Mi sono trovata in pieno accordo con le tue riflessioni sul pessimismo. I
filosofi greci chiamati stoici dicevano che bisogna amare il destino; che
bisogna amare tutto ciò che il destino apporta, anche quando apporta la
sventura. Fin dall’infanzia, ho sempre creduto che questa sia la virtù più
bella. Difficile da praticare nella sventura, soprattutto quando si protrae, ma
proprio perciò ancor più bella.
Tu la possiedi a un livello molto raro, e non so dirti quanto ti ammiri per
questo. Ma vorrei che tu potessi finalmente smettere di soffrire. Vorrei
essere io al tuo posto, e che tu fossi al mio; questo sarebbe molto
preferibile. Probabilmente sopporterei la sofferenza meno bene di te, perché
ho minore fermezza d’animo; ma penso che tu meriti più di me lo
spettacolo del mare, la libertà e tutto quel che il destino mi accorda in
questo momento. Mi rincresce che non sia veramente in mio potere
prendere il tuo posto.
Vorrei proprio che, malgrado tutto, nella vita che conduci in questo
momento, tu potessi assaporare qualche volta delle vere gioie.
Con amicizia,
Simone Weil
XV
[non datata]
Caro amico,
ora la primavera sta arrivando. Spero che, là dove sei, non sia ancora
opprimente il clima in questa stagione. È il momento del lavoro nei campi;
forse si approderà a qualche risultato per te. Se non vi è modo di farti venire
in Francia, è il caso di fare dei tentativi per farti lasciare l’Europa?
Scrivimelo.
Qualunque cosa tu mi dica delle fonti di consolazione di cui disponi, so
bene che la tua gioia è soltanto una vittoria sul dolore. È la più bella.
Scoprendo questa gioia, raggiungi il luogo in cui dimorano i veri saggi
vissuti prima dell’era cristiana e quelli vissuti dopo. Essi hanno saputo
elevare la propria anima fino a un luogo, sconosciuto alla maggior parte
degli uomini, dove il dolore è gioia e la gioia è dolore. È lo stesso luogo al
quale si sono innalzati i veri poeti. La poesia vera discende da lì. Tu sei il
fratello di tutti costoro.
Tuttavia, vorrei proprio che tu conoscessi anche un po’ di gioia pura, di
gioia che sia realmente gioia. Credo che, per questo, ti basterebbe essere
libero in mezzo a una bella campagna. È tanto semplice: perché deve essere
così difficile da ottenere?
Nicolas ora è con sua moglie e il suo bambino in un villaggio del
dipartimento del Var. Penso che siano felici di stare insieme. Hanno sofferto
per tanto tempo.
C’è molta sofferenza in questo momento, ma molto poca è quella
sopportata bene. Sopportare bene la sofferenza, scoprendo la gioia
attraverso di essa, è certamente prezioso quanto fare una bella poesia,
un’opera di filosofia, una scoperta scientifica, o qualsiasi altra cosa del
genere.
Credi alla mia fraterna amicizia,
Simone Weil
XVI
Caro amico,
oggi sono costretta a scriverti qualcosa che, temo, ti causerà molta pena.
Mi si spezza il cuore a pensarci. Ti parlavo, nella mia ultima lettera, dei
tentativi fatti dai miei genitori per andare in America, e ti dicevo che non
posso rifiutarmi di accompagnarli. Ma non credevo che quei tentativi
sortissero un risultato. Hanno avuto buon esito ed è stato possibile ottenere
molto rapidamente, in modo del tutto casuale, un posto su una nave.
Ho appena compiuto quella traversata che tu hai trovato tanto bella.
Mentre la presenza incantevole del mare, tutt’attorno, riempiva
completamente la mia anima, pensavo a te.
Ciò che mi preoccupa, è che le lettere impieghino molto più tempo
dall’America che da Marsiglia. La nostra corrispondenza diventerà difficile.
Le lettere per posta aerea sono troppo costose perché possa spedirtene
spesso. Le altre viaggiano lentamente.
Noi però continueremo in ogni caso a scriverci. Soprattutto, resteremo
uniti col pensiero. Ti penserò tutti i giorni. Ogni giorno ripeti a te stesso:
«Oggi la mia amica ha pensato a me e vuole che io abbia la pienezza della
gioia».
Hai scritto al console del Messico? Altrimenti, fallo presto. Ho fatto
parlare di te a qualcuno che ricopre una funzione importante al consolato.
Se la cosa va in porto, ci ritroveremo probabilmente sul (continente)
d’America.
Alle stelle, alla luna, al sole, all’azzurro del cielo, al vento, agli uccelli,
alla luce, all’immensità dello spazio, a tutte queste cose che ti sono sempre
accanto, affido i miei pensieri per te, perché ti donino ogni giorno la gioia
che desidero per te e che tu sicuramente meriti.
Perdonami di non aver potuto fare nulla per te e adesso di andarmene
lontano.
Se puoi, scrivimi al più presto a quest’indirizzo: Mlle Simone Weil,
presso Mme Bercher, 148, rue Blaise-Pascal, Casablanca. Credi alla mia
profonda amicizia,
Simone Weil
P.S. Lascio a Mme Bercher59 del denaro per te, e spero di potergliene
far arrivare ancora in futuro. Così, quando lei ti spedirà dei vaglia, saprai
che provengono da me; potrai accettarli.
PARTE TERZA
L’amicizia
Il testo che segue fa parte di uno scritto più ampio, Formes de l’amour
implicite de Dieu, che Simone Weil volle consegnare al padre Perrin nel
maggio 1942, al momento di partire per gli Stati Uniti con i genitori1. In
esso è svolta un’approfondita riflessione sulle esperienze di amore che
precedono e preparano l’incontro mistico, «quando Dio viene
personalmente a prendere la mano della sua futura sposa»2. Queste
esperienze sono l’amore per il prossimo, la bellezza del mondo e le
cerimonie religiose, cui va aggiunta l’amicizia che, rispetto alla più
universale carità, ha caratteri specifici che vanno analizzati. Questa
premessa è necessaria per affrontare correttamente la lettura del testo:
l’argomentazione che esso sviluppa presuppone, come quadro di
riferimento, la possibilità di un contatto col soprannaturale capace di
modificare, in modo radicale, l’insieme dei rapporti umani. Se questo non è
tenuto presente, se si pensa che l’autrice abbia inteso svolgere una
riflessione di natura solo psicologica sull’affettività, le conclusioni alle
quali il testo giunge possono lasciare perplesso il lettore di oggi, avvezzo a
un’analisi intimistica dei sentimenti e a una lettura delle difficoltà
relazionali in chiave esclusivamente psicologica. Le parole con le quali si
confronterà in questo scritto, di primo acchito, potrebbero apparirgli
inattuali proprio perché in esse prende corpo un linguaggio molto diverso
da quello che oggi domina il senso comune.
Il testo si apre con la definizione di che cos’è, nella sua verità profonda,
un’amicizia pura: «Un presentimento e un riflesso dell’amore di Dio». In
quanto tale, essa partecipa della medesima essenza della bellezza: entrambe
rivelano l’universale nel particolare, offrendo all’uomo un’esperienza in cui
possono essere rinvenute le tracce di una realtà spirituale altrimenti
invisibile. La concezione dell’amicizia che il testo propone è certamente
frutto di una lunga gestazione di pensiero, oltre che dei rapporti che Simone
Weil ha potuto concretamente vivere, soprattutto negli anni di Marsiglia, e
di cui si è parlato con ampiezza nella prima parte del libro.
Non dimentichiamo poi che quello fu il tempo in cui maturò in lei la
riflessione sulla confluenza degli elementi più vitali del pensiero greco nel
Cristianesimo delle origini. Proprio in quei mesi dedicò una lettura molto
attenta ai Dialoghi di Platone e ai tragici, Eschilo e Sofocle in particolare,
ma anche a Eraclito, ai pitagorici e agli stoici. Come per la bellezza, così
per l’amicizia e, in senso più generale, per l’amore, la fonte principale di
ispirazione del suo pensiero va ricercata entro questo orizzonte culturale: in
particolare nei due dialoghi platonici, Simposio e Fedro, la cui lettura la
impegna con fervore proprio nel periodo in cui va scrivendo questo testo3.
Le annotazioni e i commenti con cui accompagna la traduzione di entrambi
i dialoghi mettono in risalto non solo la lucidità intellettuale, ma l’intensità
del suo coinvolgimento emotivo nel lavoro ermeneutico: coglie a pieno la
dimensione mistica dell’eros platonico, l’insaziabile sete di conoscenza di
un amore che, sollecitato dalla bellezza dei corpi, si protende verso un
Sommo Bene avvertito come inattingibile e, tuttavia, fonte di un desiderio
che mai può esaurirsi.
In quegli stessi mesi, proprio a lei la vita aveva fatto dono di
un’esperienza completamente diversa: l’amore soprannaturale, non cercato,
le era stato offerto in modo inatteso e gratuito. Aveva potuto vivere,
nell’incontro mistico col Cristo, la trasformazione indotta da uno stato di
grazia al quale l’anima non giunge per effetto di uno sforzo di volontà, ma
attraverso un abbandono, uno svuotamento di sé, che si dà solo se prima vi
è stato un faticoso cammino di rinuncia al proprio io e a molti falsi beni
terreni4. Se la lettura attenta di Platone l’aveva posta di fronte alla via
dell’eros, l’esperienza mistica, intimamente e segretamente vissuta, l’aveva
illuminata su un altro versante, quello dell’agape cristiana.
Non le sfuggiva però che anche quest’esperienza, se dall’eccezionalità
della dimensione mistica, come una sorta di modello ideale, è trasposta sul
piano ben più fragile del rapporto tra gli uomini, proprio a causa della
finitezza di tutto ciò che è umano e delle ambiguità psicologiche che
rendono spuria ogni relazione, rischia fatalmente di cadere nella trappola
dell’attaccamento, della dipendenza, del desiderio di dominare o di essere
dominati e perfino di una rassegnata inerzia di fronte all’azione
disgregatrice che il tempo opera su qualsiasi legame affettivo. La
comprensione non solo intellettuale, ma sperimentale, di tutto questo le
permette di cogliere in modo assolutamente nitido quella tensione tragica
che, in ogni rapporto amoroso, è sottesa alle due esigenze opposte che
vanno faticosamente bilanciate: il bene proprio e il bene dell’altro, la libertà
interiore, con la sua imprescindibile esigenza di solitudine, e l’apertura
all’amato come totale ascolto e donazione di sé. Si tratta di una tensione
tragica proprio perché fondata sulla necessità che i due estremi sussistano e
coesistano in un’armonia dinamica che si dà solo laddove esiste un punto
centrale di mediazione. Questa funzione mediatrice, però, non può essere
esercitata da una virtù naturale, una risorsa interiore dell’uomo alla quale
attingere nei momenti di crisi, né tanto meno dall’ambito sociale, malato
degli stessi mali dell’individuo e, molto spesso, afflitto da un’insufficienza
ancor più grave. La mediazione può essere compiuta solo dal
soprannaturale, che agisce come un incessante flusso di luce che, con una
sorta di moto circolare, transita fra Dio e le creature. Vi è un’immagine
molto viva dei Quaderni che cerca di dar corpo a quest’indicibile
esperienza:
L’amore puro delle creature; non amore in Dio, ma amore che è passato attraverso Dio
come attraverso il fuoco. Amore che si distacca completamente dalle creature per
ascendere a Dio, e ne ridiscende associato all’amore creatore di Dio. Così si uniscono i due
contrari che lacerano l’amore umano: amare l’essere umano così com’è e volerlo ricreare5.
Quel che rende il legame di amicizia tra gli uomini libero da qualsiasi
condizionamento sociale o psicologico, sollevandolo da una dimensione
esclusivamente orizzontale, consiste nel pensarlo e viverlo come icona della
relazione di amore fra il Padre e il Figlio e di quella che, tramite la
mediazione del Cristo, Dio Padre propone come dono gratuito a qualsiasi
essere umano. L’assolutezza con cui Egli si svuota del suo potere e,
mediante la passione del Figlio, accetta di farsi materia inerte, vittima di un
sacrificio folle, diventa per ogni creatura il modello della relazione con i
propri simili. Concepita in questi termini, essa va necessariamente ancorata
alla scelta di decrearsi, ossia di staccarsi dal proprio io, dal suo naturale
egoismo, e da tutti quei beni ingannevoli che, solo quando la rinuncia è
ormai compiuta, senza più mistificazioni, rivelano la loro autentica natura
di idoli.
Ma la decreazione agisce anche come un esercizio preparatorio all’unica
forma possibile di amore unitivo, quella mistica. Non stupisce perciò che, in
un’amicizia fondata sulla capacità di decrearsi, ossia di porre un limite al
proprio io a favore di un tu, si incarni, sul piano degli affetti, una di quelle
forme implicite dell’amore di Dio, di cui Simone Weil non esita a dire che,
nell’esperienza quotidiana, lavorano in noi con la stessa misteriosa energia
dei sacramenti:
L’insieme di questi amori costituisce l’amore di Dio nella forma che si conviene al periodo
preparatorio, ovvero la forma nascosta. Essi non si dissolvono quando nell’anima si desta
l’amore di Dio propriamente detto; diventano anzi infinitamente più forti, e nel loro
insieme confluiscono in un unico amore.
Ma la forma nascosta dell’amore viene necessariamente per prima e spesso per molto
tempo regna da sola nell’anima; in molti forse fino alla morte. Questo amore nascosto può
raggiungere livelli molto elevati di purezza e di forza.
Ciascuna delle forme in cui esso si esprime, nel momento in cui entra in contatto con
l’anima, ha l’efficacia di un sacramento14.
Edizioni francesi
AD: Attente de Dieu, La Colombe, Éditions du Vieux Colombier, Parigi,
1950.
CO: La condition ouvrière, Gallimard, Parigi, 2002.
E: L’enracinement, Gallimard, Parigi, 1990.
EHP: Écrits historiques et politiques, Gallimard, Parigi, 1960.
EL: Écrits de Londres et dernières lettres, Gallimard, Parigi, 1957.
IPC: Intuitions préchrétiennes, La Colombe, Éditions du Vieux
Colombier, Parigi, 1951.
LP: Leçons de philosophie (Roanne 1933-1934), Plon, Parigi, 1989.
LR: Lettre à un religieux, Gallimard, Parigi, 1951.
OL: Oppression et liberté, Gallimard, Parigi, 1955.
P: Poèmes, suivi de Venise sauvée, Gallimard, Parigi, 1968.
R: Réflexions sur les causes de la liberté et de l’oppression sociale,
Gallimard, 1980.
PSO: Pensées sans ordre concernant l’amour de Dieu, Gallimard,
Parigi, 1962.
S: Sur la science, Gallimard, Parigi, 1966.
SG: La source grecque, Gallimard, Parigi, 1953.
Œ: Œuvres, Gallimard, Parigi, 1999.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Biografie
Canciani, Domenico, Simone Weil. Il coraggio di pensare. Impegno e
riflessione politica tra le due guerre, Edizioni Lavoro, Roma, 1996.
Canciani, Domenico, Le courage de penser, Beauchesne, Parigi, 2011.
Fiori, Gabriella, Simone Weil. Biografia di un pensiero, Garzanti,
Milano, 1981, 2006.
Fiori, Gabriella, Simone Weil. Una donna assoluta, La Tartaruga,
Milano, 1991.
Nevin, Thomas R., Simone Weil. Ritratto di un’ebrea che si volle
esiliare, Bollati Boringhieri, Torino, 1997.
Pétrement, Simone, La vita di Simone Weil, Adelphi, Milano, 1994.
PARTE PRIMA
Marsiglia, la stagione delle amicizie
1. 5 agosto 1941, Le journal de bord des Cahiers du Sud, «Dossier Cahiers du Sud», a cura di
Alain Paire, in «La Revue des Revues», n. 16, 1993, p. 87.
2. Esprime questi sentimenti in una lettera, del luglio 1940, inviata a Huguette Baur, sua alunna,
durante una sosta a Vichy, prima di raggiungere Marsiglia: «Nel giardino, non si ha forse il cielo, il
sole che si alza, sale e discende, e le stelle, in una parola, tutto l’universo? Le nazioni hanno bisogno
di anni per i loro sussulti, i loro declini, i loro risvegli, mentre un essere umano può trasferire una
sorta di eternità in una sola bella giornata vissuta bene. Coltivare legumi e comporre versi […] è la
cosa migliore, serbandosi liberi dall’odio, dalla disperazione e da ogni sentimento di agitazione. In
questi momenti, anche l’incertezza in cui viviamo può produrre un arresto del tempo che consente di
godere dei giorni con maggior pienezza; questa tregua probabilmente non sarà lunga. Molti non
vedranno la prossima estate. Ma non posso considerare la morte come una sventura» («CSW», n. 3,
settembre 1991, p. 199).
3. Q I, p. 148.
4. Ivi, pp. 156-157, passim.
5. Lettera da Marsiglia a Boris Souvarine, ottobre 1940, in «CSW», n. 1, marzo 1992, p. 15.
6. Ibidem.
7. Su Marsiglia durante la guerra e sul suo ruolo di capitale della cultura e di avamposto della
resistenza morale e intellettuale, cfr. Daniel Bénédite, La filière marseillaise, Clancier Guénau,
Parigi, 1984; Jean-Michel Guiraud, La vie intellectuelle et artistique à Marseille à l’époque de Vichy
et sous l’occupation (1940-1944), Cdrp, Marsiglia, 1987; Jean-Michel Guiraud, Marseille, cité-
refuge des écrivains et des artistes, in Jean-Pierre Rioux, La vie culturelle sous Vichy, Éditions
Complexe, Bruxelles, 1990, pp. 377-400; Robert Mencherini, Artistes et intellectuels réfugiés dans la
région marseillaise en 1940-1942: un jeu d’ombres entre survie et engagement, Atti del Colloquio
Déplacements, dérangements, bouleversement: Artistes et intellectuels déplacés en zone sud (1940-
1944), Bibliothèque de l’Alcazar, Marsiglia, 3-4 giugno 2005. Testi riuniti da Pascal Mercier et
Claude Pérez, <http://revues.univ-provence.fr/lodel/ddb/document.php?id=91>.
8. Dal momento in cui, nel 1925, ne diventa il responsabile, i «Cahiers du Sud» (1914-1966) si
identificano con Jean Ballard (1893-1973), come la rivista «Esprit» si è identificata, fino al 1950, con
Emmanuel Mounier.
9. Joë Bousquet n’est plus, articolo di Jean Ballard, citato da Alain Paire, Chronique des «Cahiers
du Sud» 1914-1966, Imec, Parigi, 1993, p. 189.
10. Jean Ballard, Propos de nos 25 ans, citato da Alain Paire, Chronique des «Cahiers du Sud»…,
cit., p. 236.
11. I «Cahiers du Sud» pubblicano, nel 1935, un quaderno monografico, I’Islam et l’Occident,
singolarmente anticipatore e, nel 1939, Retour aux mythes grecs, dedicato alle religioni misteriche,
per le quali da qualche tempo Simone Weil nutre grande interesse. In proposito, cfr. Michèle Coulet,
À la recherche de l’humanisme méditerranéen de Jean Ballard, in [Jean Ballard] & les Cahiers du
Sud, Ville de Marseille, Marsiglia, ottobre 1993, pp. 231-247. Sulla specificità culturale dei «Cahiers
du Sud», che ha favorevolmente impressionato Simone Weil, cfr. Jean Ballard, Coups d’œil sur notre
demisiècle, [Jean Ballard] & les Cahiers du Sud, cit., pp. 255-267.
12. Per ciò che concerne l’impegno sociale, politico e sindacale, che si dà per conosciuto, almeno
in parte, cfr. Domenico Canciani, Simone Weil. Il coraggio di pensare. Impegno e riflessione politica
tra le due guerre, Edizioni Lavoro, Roma, 1996, e ora, nella versione francese aggiornata e ampliata,
Simone Weil. Le courage de penser, Beauchesne, Parigi, 2011.
13. Per una ricostruzione accurata della collaborazione di Simone Weil ai «Cahiers du Sud», cfr.
Alain Freixe, Simone Weil et les «Cahiers du Sud», in «CSW», n. 2, giugno 1998, prima parte, pp.
165-177; seconda parte, n. 3, settembre 1998, pp. 241-254. Cfr. anche il quaderno dedicato a Simone
Weil et l’héritage de la civilisation méditerranéenne, in «CSW», n. 2, giugno 1983. Nuovi e ricchi
contributi alla conoscenza dell’ambiente dei «Cahiers du Sud» sono venuti dalle giornate Rencontre
Simone Weil/Joë Bousquet, Carcassonne, 28-31 ottobre 2000, alle quali il curatore, Domenico
Canciani, ha partecipato con la relazione «Des textes dont le feu brûle encore…». Simone Weil, les
Cahiers du Sud et la civilisation occitanienne, ora in «CSW», n. 2, giugno 2002, pp. 89-103. In
seguito, è ritornato sull’argomento in occasione del colloquio annuale dell’Associazione Simone
Weil «Les civilisations inspiratrices» (Parigi, 3-4 novembre 2012) con la relazione Bâtir une
civilisation nouvelle. Simone Weil et l’inspiration occitane, in corso di pubblicazione nei «CSW».
14. «Cahiers du Sud», nn. 230-231, dicembre 1940 e gennaio 1941, ora in OC II 3, pp. 227-253.
15. I’agonie d’une civilisation vue à travers un poème épique, scritto tra l’ottobre 1940 e il
gennaio 1941, pubblicato nei «Cahiers du Sud», n. 249, agosto-settembre-ottobre 1942, pp. 99-107 e,
in seguito, nel numero speciale Le génie d’oc et l’homme méditerranéen, febbraio 1943, ripreso in
Écrits de Marseille, OC IV 2, pp. 405-413. Il saggio, tradotto in italiano con il titolo L’agonia di una
civiltà nelle immagini di un poema epico, si trova in Simone Weil, I catari e la civiltà mediterranea,
a cura di Giancarlo Gaeta e con una Nota di Gian Luca Potestà, Marietti, Genova, 1996, pp. 17-37, da
cui sono tratte le citazioni. Sugli aspetti letterari e culturali de La Chanson de la croisade contre les
Albigeois, cfr. Robert Lafont e Christian Anatole, Nouvelle Histoire de la Littérature occitane, tome
I, Presses Universitaires de France, Parigi, 1970, pp. 156-173.
16. Questo straordinario saggio, già tradotto da Cristina Campo, è ora riproposto da Asterios,
Trieste, 2012, con la traduzione di Francesca Rubini, a cura di Alessandrino Di Grazia.
17. Il poema si compone di due parti: la prima, di Guilhèm de Tudèla, descrive gli avvenimenti
della Crociata, dal 1209-1210 al 1213-1214, secondo la prospettiva del partito francese; l’autore della
seconda parte, un chierico rimasto anonimo, privilegiato dalla lettura di Simone Weil, sposa invece il
punto di vista del campo avverso e sostiene la causa occitana, esaltando in modo mitico la figura di
Raimondo VII di Tolosa.
18. L’agonia di una civiltà nelle immagini di un poema epico, cit., p. 19.
19. Introducendo il racconto della battaglia di Muret che, nel settembre 1213, vide la morte del
Re di Aragona e la sconfitta della coalizione occitana, l’anonimo poeta ammonisce i suoi ascoltatori
con queste parole desolate: «In verità, sappiatelo, ogni umanità è venuta meno, Parage è morto ed
esiliato, tutta la cristianità è prostrata e coperta di obbrobrio. Ascoltate come questo è potuto
avvenire…». Citato da Josiane Ubaud, in un articolo pubblicato sul suo sito, con il titolo: La
Chanson de la croisade albigeoise, p. 4.
20. Robert Lafont et Christian Anatole, Nouvelle histoire de la littérature occitane, cit., p. 170.
21. L’agonia di una civiltà nelle immagini di un poema epico, cit., p. 19.
22. La centralità che Simone Weil attribuisce alla distruzione della civiltà occitana, nell’ambito
della storia d’Europa, non ha alcuna pretesa di proporsi come interpretazione storiografica, ma è da
considerare un modello ideale al quale la breve durata dell’esperienza non toglie alcun valore: in
proposito, cfr. la nota di Gian Luca Potestà in I catari e la civiltà mediterranea, pp. 73-94.
23. Il quaderno monografico dei «Cahiers du Sud» contiene anche una ricca scelta di testi
manichei e catari (pp. 112-149) e un saggio, intitolato Les Cathares et l’amour spirituel (pp. 112-
140), scritto dello storico Déodat Roché, al quale Simone Weil deve la sua iniziazione al catarismo.
Delle influenze catare sul suo pensiero ha scritto, in modo egregio, Francesca Veltri in La città
perduta. Simone Weil e l’universo della Linguadoca, 2a edizione, Rubettino, Soveria Mannelli, 2006.
Sugli influssi del catarismo nella formazione della società occitana, cfr. Jean-Louis Biget, Hérésie,
politique et société en Languedoc vers 1120-vers 1320, in Jacques Berlioz (a cura di), Le pays
cathare. Les religions médiévales et leurs expressions méridionales, Seuil, Parigi, 2000, pp. 17-79.
24. Lettera di Joë Bousquet a Jean Ballard, del 21 novembre 1939, citata e analizzata da Alain
Freixe, Le génie d’oc et l’homme méditerranéen, du côté de Joë Bousquet, in «CSW», n. 2, giugno
2002, pp. 121-131, cit. p. 125.
25. Si tratta di Soirée languedocienne. Entretiens dans la cité, in Le génie d’oc…, cit., pp. 390-
405.
26. Giudizio positivo espresso a Simone Weil nella lettera del 18 gennaio 1941: «Ho appena letto,
con gran piacere, il suo bell’articolo. È il contributo che attendevo da lei, un testo notevole, pensato
con vigore» (Fondo Jean Ballard, Corrispondenza Ballard-Weil/Novis, manoscritto n.106, Biblioteca-
Alcazar, Marsiglia).
27. Dopo molte discussioni tra Ballard e Bousquet, l’articolo sarà pubblicato, con la data marzo
1941, alla fine del fascicolo, pp. 374-389.
28. L’articolo di Alain Freixe, citato alla nota 13, sulla base della corrispondenza tra Bousquet e
Ballard, ha apportato nuova luce su tutta la vicenda.
29. Redatto tra il 18 e il 23 febbraio 1942, pubblicato con le stesse modalità del precedente nel
numero speciale dei «Cahier du Sud» nel 1943, pp. 150-158, ripreso in OC IV 2, pp. 415-424. Il
saggio è ugualmente tradotto con il titolo L’ispirazione occitana, in I catari e la civiltà mediterranea,
cit., pp. 17-26, da cui sono tratte le citazioni.
30. Lettera non datata, scritta probabilmente tra il 9 e il 16 marzo 1942, Fondo Jean Ballard,
Corrispondenza Ballard-Bousquet, manoscritto 360, Biblioteca-Alcazar, Marsiglia.
31. Joë Bousquet, Présentation de l’homme d’oc, pp. 9-13, cit. p. 11. La sottolineatura è nostra.
Questo richiamo alla letteratura popolare non sarà certamente sfuggito a Simone Weil che aveva
cominciato a interessarsi intensamente di folklore, di miti, di favole, che considerava scrigni di una
saggezza primordiale.
32. Robert Mencherini, il primo a rilevare il tempestivo impegno di Simone Weil nella neonata
resistenza, come ricordiamo più avanti, in un articolo recente ha sottolineato la posta in gioco politica
e non soltanto culturale dell’intera operazione intrapresa dai «Cahiers du Sud», e in particolare dei
due contributi della filosofa: cfr. Soixante et dix ans après: La «Demande pour être admise en
Angleterre» et le «Génie d’oc», in «CSW», n. 4, dicembre 2012, pp. 451-465.
33. L’ispirazione occitana, cit., p. 34.
34. Ivi, pp. 31-32.
35. Q III, p. 142.
36. L’ispirazione occitana, cit., p. 37. Il corsivo è nostro.
37. Nella Présentation de l’homme d’oc, Bousquet aveva scritto: «L’uomo d’oc ha ereditato una
missione unica e dovrà riprendere in altra forma il tentativo disperato dei suoi padri per strapparsi dal
discontinuo. Sarà capace di generare la coscienza dell’uomo moderno e di sostituire un umanesimo
integrale all’umanesimo convenzionale?» (cit., p. 12).
38. L’ispirazione occitana, cit., p. 37.
39. Alain Freixe, Simone Weil et les «Cahiers du Sud», seconda parte, cit., p. 245.
40. Cfr. Jean Tortel, Simone Weil à Marseille, in «Sud», nn. 87-88, 1990, pp. 25-28.
41. Su questa vicenda, cfr. Simone Weil dans les Archives judiciaire d’Aix-en-Provence,
documenti presentati da Robert Mencherini in «CSW», n. 4, dicembre 1994, pp. 327-340. Dello
stesso autore è l’articolo che li commenta: Simone Weil et la «Demande pour être admise en
Angleterre», ivi, pp. 341-362.
I documenti trovati da Mencherini sono ora raccolti negli Écrits de Marseille, in OC IV 1, pp. 395-
400, mentre i verbali degli interrogatori si trovano negli Annexes dello stesso volume, pp. 446-448.
Mencherini è tornato sull’argomento con Simone Weil à Marseille et la Résistance intérieure. Un
rendez-vous manqué?, in «CSW», n. 2, giugno 2011, pp. 149-166, e nell’articolo citato nella nota 32.
Le sue accurate ricerche hanno fugato ogni dubbio sull’importanza del tempestivo coinvolgimento di
Simone Weil nella Resistenza. I contatti con Robert Burgass, responsabile di una filiera per il
passaggio in Inghilterra, arrestato e morto in carcere nel dicembre del 1943, e i verbali degli
interrogatori subiti da Simone Weil, consentono di valutare appieno la sua volontà di partecipazione
diretta alla lotta e le argomentazioni sviluppate nelle lettere indirizzate a Maurice Schumann da New
York e da Londra.
42. Cfr. Quelques réflexions sur les origines de l’hitlérisme, 1939, saggio solo parzialmente
pubblicato nei «Nouveaux Cahiers» (n. 53, 1 gennaio 1940) a causa della censura, ora integralmente
ripreso in OC II 3, pp. 168-219.
43. Demande pour être admise en Angleterre, in OC IV 1, p. 395.
44. Ivi, p. 397.
45. La versione definitiva del Projet d’une formation d’infirmières de première ligne, portata a
termine negli Stati Uniti, sulla scorta delle osservazioni fattele pervenire da Joë Bousquet, si trova
ora in EL, pp. 187-195.
46. Su questo argomento, cfr. Michel Narcy, Simone Weil dans la guerre ou la guerre pensée, in
«CSW», n. 4, dicembre 1990, pp. 413-423.
47. QI, pp. 233-234, passim. L’interesse per il pensiero indiano, e in particolare per la
Bhagavadgītā, considerata un complemento del Vangelo, la spingono a studiare il sanscrito per poter
accostare i testi originali, aiutata da René Daumal, amico fin dagli anni della École Normale, esule
come lei a Marsiglia.
48. Su questo importante aspetto della Resistenza in Francia, cfr. Renée Bédarida, Les armes de
l’esprit. Témoignage chrétien (1941-1944), Éditions Ouvrières, Parigi, 1977.
49. Marie-Louise (Malou), divenuta poi Mme Blum, per una sorta di pudore, solo dopo molto
tempo ha acconsentito a portare la sua testimonianza su questo capitolo poco noto, e in parte
sottovalutato, della vita di Simone Weil. I «CSW» hanno pubblicato un breve dialogo con Wladimir
Rabi su questo tema: cfr. Simone Weil, la Résistance et la question juive, n. 2, giugno 1981, pp. 76-
84. Il curatore di queste note, nel maggio 1990 e 1991, ha registrato due lunghe e ricche interviste a
Malou e Pierre Blum nella loro casa parigina, qui parzialmente utilizzate. La testimonianza di Malou
Blum è ora definitivamente consegnata a un libro di memorie: Le choix de la Résistance, Les
Éditions du Cerf, Parigi, 1998; cfr. in particolare Ma rencontre avec Simone Weil, pp. 104-115. Anche
il rapporto con Malou Blum merita di essere annoverato tra le amicizie della stagione di Marsiglia,
ma la loro relazione, intensa e quotidiana, per la natura del lavoro svolto assieme, esigeva molta
riservatezza e non ha, quindi, lasciato delle tracce nella corrispondenza. Vale la pena, tuttavia,
riportare la conclusione della testimonianza in cui Malou Blum racconta il congedo da Simone Weil:
«L’immagine che mi piace conservare di lei è quella di un’amica sorridente e dolce, allorché apparve
nella stanza da cui si era eclissata un istante prima, portando un vassoio su cui c’erano tartine
imburrate, zucchero, un bicchiere e vino bianco. Tutto era così rigorosamente razionato a Marsiglia
che non potei fare a meno di dirle con orrore: “Ma, Simone, non vorrà pensare che io accetti tutto
ciò?”. “Oh, Malou”, mi disse lei con un dolce rimprovero, “non vorrà farmi credere che lei pensa che
le restrizioni alimentari possano avere una qualche influenza sui doveri dell’amicizia”» (cit. p. 115).
50. Sul ruolo dei cristiani durante il periodo di Vichy, cfr. Gaston Fessard, Au temps du prince
esclave. Écrits clandestins 1940-1945, Critérion, Argé, 1989, dove si trova il saggio dottrinale
France, prends garde de perdre ton âme – «documento esplosivo, smontaggio sistematico della
dottrina e dei metodi della propaganda nazista, della loro pericolosa perversione e degli strumenti
approntati per soffocare progressivamente le anime e cancellare perfino la traccia dell’idea di una
vocazione storica della Francia» (Jacques Prévotat, Introduction, ivi, p. 65) – che è il testo fondatore
dell’impresa dei «Cahiers du Témoignage chrétien». Cfr. anche Henri de Lubac, Resistenza cristiana
all’antisemitismo. Ricordi 1940-1944, Jaca Book, Milano, 1990, in particolare il capitolo 10, Lo
spirito dei «Cahiers du Témoignage chrétien», pp. 119-130.
51. Nel luglio del 1942, in una lettera scritta da New York a Maurice Schumann, Simone Weil
ricorda con simpatia la partecipazione a quell’impresa: «Sono molto felice di sapere che le persone
dei “Cahiers du Témoignage chrétien” sono vostri amici. Ero legata a questi ambienti da una viva e
profonda amicizia. Credo che sia di gran lunga ciò che di meglio esiste in Francia in questo
momento. Mi auguro che non capiti loro nessuna sventura» (EL, p. 198).
52. Si tratta di Notre combat (dicembre 1941-gennaio 1942), Les racistes peints par eux-mêmes
(febbraio-marzo-aprile 1942), e probabilmente anche del quaderno intitolato Antisémites (aprile-
maggio 1942).
53. Lettera a Huguette Baur, inizio di settembre 1940, in «CSW», n. 3, settembre 1991, p. 201.
54. Ivi, pp. 201-202.
55. Dell’antigiudaismo di Simone Weil abbiamo trattato, distesamente e criticamente,
nell’Introduzione a Simone Weil, Una costituente per l’Europa. Scritti londinesi, Castelvecchi,
Roma, 2013, La resistenza in una stanza, pp. 30 e sgg.
56. Ne parliamo più avanti, a proposito di Antonio Atarés, ma è il caso di segnalare qui la
documentazione riunita su questo argomento, in OC IV 1, Sur les camps d’internement et la politique
pénale, pp. 449-472.
57. Secondogenito di quattro tra fratelli e sorelle, Michel (mutato in Joseph-Marie al momento
della professione religiosa) Perrin nasce il 30 luglio 1905, a Troyes. Il padre, capitano, è ucciso in
guerra il 2 ottobre 1915. L’anno successivo, quando ha solo undici anni, gli viene diagnosticata una
retinite pigmentaria che lo porterà inesorabilmente alla cecità. La forza d’animo della madre, che
l’avvia tempestivamente alla conoscenza dell’alfabeto braille, gli permetterà di portare a termine, in
modo brillante, gli studi secondari. Maturata la vocazione religiosa, dopo un anno di filosofia, entra
nel noviziato di Saint-Maximin nella provincia domenicana di Tolosa, dove, completati gli studi
teologici, grazie a una dispensa speciale, è ordinato sacerdote durante la festa di Pasqua del 1929.
Assegnato al convento di Marsiglia, è attivo nella predicazione e nell’assistenza ai giovani
universitari. È morto a Marsiglia il 13 aprile 2002. Qualche anno prima della morte, ha rievocato la
sua lunga vita in un libro autobiografico: Comme un veilleur attend l’aurore, Les Éditions du Cerf,
Parigi, 1998.
58. Simone Weil incontra, per la prima volta, padre Perrin nel giugno 1941, al rientro di lui dal
Sahara dove aveva predicato gli esercizi spirituali ai Piccoli fratelli di padre Charles de Foucauld.
Sulla scorta di una breve lettera, ritrovata tra le carte di Simone Weil, padre Perrin ha potuto precisare
che si trattava proprio del sabato 7 giugno alle ore 10. Per questa e altre informazioni, cfr. il suo libro
Mon dialogue avec Simone Weil, Nouvelle Cité, Parigi, 1984. La ragione immediata e pratica
dell’incontro è l’aiuto che il domenicano potrebbe offrirle nella realizzazione del suo desiderio di fare
un’esperienza di lavoro agricolo. Hélène Honnorat, come Simone Weil alunna presso il Lycée Victor
Duruy di Parigi, è l’amica che ha fatto da tramite fra loro due. Collaboratrice del religioso
nell’assistenza spirituale agli universitari, in realtà era già da qualche tempo a conoscenza della
ricerca spirituale dell’amica e si era convinta che padre Perrin fosse la persona più idonea ad aiutarla.
59. Simone Weil, con probabilità, ha letto il primo dei tre volumi progettati di Le mystère de la
charité, quello che è stato poi pubblicato, nel 1945, (S.L.M., Aix-en-Provence) con il titolo Le trop
grand amour. Echi di questa lettura si possono avvertire nelle riflessioni sulla Trinità annotate nei
Quaderni e, in particolare, nella sua concezione dell’amicizia.
60. Questa lettera, datata 14 settembre 1997, è stata personalmente recapitata al curatore mentre
ultimava la redazione di Tra sventura e bellezza. Riflessione religiosa e esperienza mistica in Simone
Weil, Editrice Esperienze-Edizioni Lavoro, Fossano-Roma, 1998, il libro che raccoglie e riordina le
conversazioni avute con padre Perrin durante un soggiorno al Pradier, una località della Provenza
francese, nell’estate del 1996. Nel libro autobiografico ricordato, conferma questa convinzione nella
pagine dedicate all’incontro più importante della sua vita: cfr. Mon amitié avec Simone Weil, pp. 136-
153.
61. L’intenso e tormentato rapporto tra padre Perrin e Simone Weil occupa la parte centrale del
libro sopra ricordato: in essa tutti gli aspetti, spirituali e teologici, del loro dialogo, sono distesamente
commentati. Qui importa soprattutto precisare la natura di tale rapporto, in relazione al tema
dell’amicizia. Il loro dialogo ha riguardato la preghiera, il battesimo, argomento molto sofferto, le
critiche alla Chiesa e la decisione di rimanerne fuori, sulla soglia, per fedeltà a tutte le forme di
«amore implicito di Dio», presenti nel mondo. A padre Perrin, per testimoniare la possibilità di
un’esperienza mistica anche fuori della Chiesa, ha affidato, nell’ultima lettera, la confidenza del suo
contatto mistico con Dio. Ma contemporaneamente, o forse poco prima, come più avanti diremo,
aveva fatto la stessa confidenza anche a Joë Bousquet.
62. Questa espressione, che padre Perrin amava ripetere come una confidenza orale di Simone
Weil, si trova in realtà in un frammento preparatorio alla Lettera VI, conservato nel Fondo Simone
Weil della Biblioteca nazionale di Parigi. Il merito di averlo rilevato va a Emmanuel Gabellieri, il
quale ha attirato l’attenzione sull’importanza dell’abbozzo in questione nella genesi dell’ultima
lettera a padre Perrin del 26 maggio 1942: cfr. Être et don. Simone Weil et la philosophie, Éditions
Peeters, Louvain-Parigi, 2003, pp. 532-542. L’edizione di Attesa di Dio, curata da Maria Concetta
Sala, riporta le minute di questa lettera in cui è contenuta tale affermazione, pp. 76-78.
63. Lettera nota come Autobiografia spirituale, senza data, probabilmente inviata il 14 maggio
1942 da Marsiglia, in AD*, p. 34.
64. Ibidem.
65. Ivi, p. 185.
66. Introduction alla prima edizione francese di AD, pp. 7-45, cit. 39-40. Scomparsa dalle
successive edizioni, a causa di un contenzioso con la famiglia Weil, essa, al di là delle riserve che si
possono sollevare in merito ad alcune puntualizzazioni teologiche, costituisce, assieme al libro scritto
con l’amico Gustave Thibon, Simone Weil telle que nous l’avons connue (La Colombe, Parigi, 1952),
una testimonianza preziosa, da tenere sempre presente. Non sono nel giusto, quindi, coloro che
tendono a sottovalutare o a minimizzare il ruolo di padre Perrin nell’evoluzione spirituale di Simone
Weil, che non andava in cerca di un grande teologo ma di un uomo di Dio. A integrazione di quanto
abbiamo detto sull’amicizia tra padre Perrin e Simone Weil, cfr. Domenico Canciani, Marseille, la
saison des amitiés. Le père Perrin et Simone Weil, amis dans la véritè de Dieu, «CSW», n. 1, marzo
2008, pp. 11-26. I «CSW», come segnaliamo nella Bibliografia, hanno dedicato ben 4 fascicoli nel
2007-2008 a Amitiés et inimitiés de Simone Weil.
67. Gustave Thibon, nato il 2 novembre 1903 a Saint-Marcel-d’Ardèche, dopo aver lavorato
come agricoltore nella proprietà del padre, è diventato, studiando come autodidatta, scrittore, filosofo
e conferenziere molto popolare e apprezzato negli ambienti cattolici. Dei suoi libri Simone Weil ha
certamente potuto leggere Poèmes, Édition Universelle, Bruxelles, 1940; Diagnostics. Essai de
physiologie sociale, Librairie de Médicis, Parigi, 1940; Destin de l’homme, Desclée de Brouwer,
Bruges-Parigi, 1941. I testi dattiloscritti ai quali allude nelle lettere indirizzate all’amico sono
probabilmente quelli pubblicati successivamente in L’échelle de Jacob, Lardanchet, Lione, 1942 e
forse anche in Retour au réel. Nouveaux diagnostics, Lardanchet, Lione, 1943. È morto il 19 gennaio
2001. Cfr. l’omaggio che gli ha dedicato André-A. Devaux, Gustave Thibon et Simone Weil. Une
amitié sans complaisance et sans faille, in «CSW», n. 3, settembre 2002, pp. 236-254.
68. Gustave Thibon, Entretiens avec Christian Chabanis, Fayard, Parigi, 1975, p. 113.
69. Lettera a Simone Weil, 22 gennaio 1942, Lettres de Simone Weil à Gustave Thibon et de
Gustave Thibon à Simone Weil, in «CSW», n. 3, settembre 1981, p. 135.
70. Lettera del 10 agosto 1941, Saint-Marcel-d’Ardèche, in Correspondance familiale, OC VII 1,
p. 229.
71. Lettera a Gustave Thibon, 15 settembre 1941, inviata da Le Poët, Lettres de Simone Weil…, in
«CSW», n. 2, giugno 1981, pp. 68-69.
72. Ivi, p. 70.
73. Ivi, p. 71.
74. Annota, ad esempio, in Q II, p. 254: «Volgere ogni disgusto in disgusto di sé (Come io per i
miei versi)».
75. Lettera a Simone Weil, 2 gennaio 1942, Lettres de Simone Weil…, in «CSW», n. 3, settembre
1981, pp. 131-132.
76. Ivi, p. 132. Il corsivo è nostro.
77. Lettera a Gustave Thibon, febbraio 1942, Lettres de Simone Weil…, in «CSW», n. 3,
settembre 1981, p. 136.
78. In questo periodo annota: «Costringermi ogni giorno a scrivere in questo quaderno anche di
aver mancato al mio dovere; è quel che è successo oggi» (Q II, p. 257).
79. Q II, p. 258.
80. Lettera a Gustave Thibon, aprile o maggio 1942, in «CSW», n. 4, dicembre 1981, p. 194.
81. Ivi, p. 195.
82. Ibidem.
83. Lettera a Gustave Thibon, seconda metà di maggio 1942, Lettres de Simone Weil…, in
«CSW», n. 4, dicembre 1981, p. 196.
84. Ibidem.
85. Ivi, p. 199.
86. Amicizia, infra, p. 136.
87. Joë Bousquet era nato a Narbonne, il 19 marzo 1897. Costretto all’immobilità da una
pallottola che lo aveva colpito al midollo spinale, durante la Grande Guerra, dai ventun anni alla
morte, sopravvenuta il 28 settembre 1950, è vissuto a Carcassonne nella «camera dalle imposte
chiuse», realizzando una delle più straordinarie e originali opere poetiche e filosofiche del secolo
scorso.
88. Simone Weil parte da Marsiglia assieme a Jean Ballard, in una sera di luna piena. Arriva a
Carcassonne verso mezzanotte ma non ha difficoltà a recarsi subito in casa di Joë Bousquet,
rimanendovi fino all’indomani mattina. Probabilmente torna a fargli visita, brevemente, una o due
volte nei giorni successivi. Per una minuziosa ricostruzione di questo incontro, cfr. Alain Freixe, À
propos de la rencontre Simone Weil Joë Bousquet et de la correspondance qui en suivit, in «CSW»,
n. 4, dicembre 1987, pp. 395-405.
89. Cfr. Correspondance entre Simone Weil e Joë Bousquet, in «Cahiers du Sud», n. 304,
dicembre 1950, pp. 420-438.
90. Simone Weil, prima dell’incontro, aveva probabilmente letto Traduit du silence, pubblicato in
una prima versione a Bruxelles, nel 1936, e in seguito, nel 1941, da Gallimard e gli articoli e le
cronache poetiche apparse nei «Cahiers du Sud».
91. Lettera di Joë Bousquet a Simone Weil, lunedì (aprile) 1942, infra, p. 68, con gli opportuni
adattamenti.
92. Ibidem.
93. Ivi, p. 69.
94. Ibidem.
95. Ibidem.
96. Nella prima delle due lettere a Joë Bousquet, ritrovate qualche anno fa, di cui parliamo più
avanti, Simone Weil scrive: «Nello stesso momento in cui, nella sua lettera, lei mi consigliava di
scrivere su quell’argomento, ero occupata a raccogliere e tradurre dei testi greci sullo stesso tema, su
richiesta di un domenicano, quello di cui le ho parlato, credo, in una lettera, al quale mi lega una
grande amicizia, e che sta preparando un libro sull’Amore di Dio», infra, p. 89.
97. Monique Broc-Lapeyre, «Ce bonheur si effrayant qui nous est fait» et «le malheur sans
aucune consolation», Joë Bousquet et Simone Weil, in «CSW», n. 1, gennaio 2002, p. 36. Con
ammirevole finezza, l’autrice di quest’articolo entra nelle pieghe più intime dell’amicizia fra questi
due esseri eccezionali, individuando la capacità di Simone Weil di praticare, con sobrietà e pudore, la
correzione fraterna.
98. Questa domanda di essere letti altrimenti, di cui Simone Weil parla nei Quaderni (cfr. Q I, p.
258), trova conferma in un passo di Traduit du silence (Gallimard, Parigi, 1995), dove Joë Bousquet
annota: «Non devo rinchiudermi nella vita che mi sono fatta. Devo diffidare di ciò che gli altri amano
in me. L’indulgenza dei miei amici mi ha reso prigioniero di ciò che vi è di meno reale in me » (p.
236). Simone Weil ha letto di lui molto meno dei suoi amici, eppure, forse, più di loro ha saputo
intercettare la sua richiesta, il suo grido silenzioso.
99. Lettera del 12 maggio 1942 a Joë Bousquet, infra, p. 78.
100. Certamente tra gli artifici ai quali Joë Bousquet faceva ricorso vi era anche l’oppio. Simone
Weil ne accenna nei Quaderni, pensando a lui e a René Daumal. Se vi allude indirettamente, senza
falsi moralismi, è perché aveva avuto modo di leggere, in Traduit du silence, questa osservazione:
«L’effetto più disastroso dell’oppio è che, essendo solo un alimento materiale, usurpa il posto più
elevato che lo spirito possa assegnare a un’ambizione morale; tutti i momenti della giornata, svuotati
del pensiero che li dirigono, hanno valore solo in funzione del minuto privilegiato in cui il fumo apre
allo spirito un riposo nella carne. Questo godimento non apporta null’altro che la cessazione di un
bisogno che si è creato; ed è avvilente per l’uomo che un bisogno che si può facilmente soddisfare
possa assorbire il suo pensiero, accecando con fini immediati la consapevolezza che ha della propria
imperfezione. L’oppiomane ricostituisce nella propria carne la prigione che il tempo rappresenta per
ogni cosa materiale» (p. 190).
101. Infra, p. 80.
102. Infra, p. 81.
103. Infra, p. 82. Simone Weil, anche nella confidenza fatta a padre Perrin, sottolinea la totale
gratuità del suo primo contatto mistico con il divino, avvenuto durante il soggiorno a Solesmes, nella
la settimana santa del 1938, in un periodo in cui soffriva di forti emicranie. Al pari degli altri contatti
con il divino, anche questo avviene in un contesto di cerimonie religiose, ma al di fuori di
un’esplicita esperienza di preghiera personale. Questa modalità di contatto mistico con il divino o
con il Cristo Uomo-Dio, ha luogo in una situazione che si potrebbe definire di tipo estetico, mentre
ripete la poesia Amore del poeta metafisico inglese George Herbert (1593-1633), conosciuto, proprio
a Solesmes, grazie a un giovane inglese: «Spesso, nei momenti culminanti delle violente crisi di mal
di testa, mi sono esercitata a recitarla (la poesia Amore) applicandovi tutta la mia attenzione e
aderendo con tutta l’anima alla tenerezza in essa racchiusa. Credevo di recitarla solo come una bella
poesia, ma a mia insaputa quell’esercizio aveva la virtù di una preghiera. Durante una di quelle
recitazioni, come le ho scritto, Cristo stesso è disceso e mi ha presa» (Lettera IV, in AD*, p. 29). Su
questo aspetto molto delicato dell’esperienza mistica di Simone Weil, cfr. la testimonianza di padre
Perrin in Tra sventura e bellezza, pp. 117 e sgg.
104. Infra, p. 83.
105. Ritrovate grazie a Florence de Lussy, conservatrice della Biblioteca Nazionale di Parigi,
nella Biblioteca universitaria di Austin in Texas, sono state pubblicate col titolo Deux lettres inédites
de Simone Weil à Joë Bousquet, in «CSW», n. 2, giugno 1996, pp. 137-153, con appendice di testi
greci, tradotti per l’amico.
106. Lettera a padre Perrin del 15 maggio, AD*, p. 24.
107. Lettera del 1942 a Gabriel Sarraute, citata in Henry Bonnier, Préface a Joë Bousquet, Le
cahier noir, Albin Michel, Parigi, 1989, p. 13.
108. Lettera a Joë Bousquet, maggio 1942, qualche giorno prima di partire, infra, p. 87, con
adattamenti.
109. Post-scriptum, infra, p. 88.
110. Lettera a Hélène e Pierre Honnorat, 26 gennaio 1945, infra, p. 91. Nella conclusione del
Témoignage, pubblicato sui «Cahiers du Sud», n. 284, settembre 1947, Joë Bousquet scrive: «La
nostra amica Simone ha avuto la morte che desiderava. Se, spesso, ho atteso il suo ritorno, è perché
l’ho fraintesa. Non potremmo essere migliori dei suoi insensati nemici se ignorassimo la parte che
anime come la sua hanno nell’immensa felicità che ci è stata data» (p. 570).
111. Lettera di Joë Bousquet a Hélène e Pierre Honnorat, 26 gennaio 1945, citata da Michel
Narcy nel Post-scriptum a Visite à Joë Bousquet, in «CSW», n. 2, giugno 1983, p. 129, infra, p. 91.
112. Cfr. in particolare Papillon de neige. Journal 1936-1942, Verdier, Parigi, 1980 e Meneur de
lune, J.-B. Janin, Parigi, 1946.
113. Joë Bousquet, Le livre heureux, in Œuvres romanesques complètes, Albin Michel, Parigi,
1984, p. 128.
114. I testi nei quali si può cogliere la freschezza della loro testimonianza sono, per Gustave
Thibon, l’Introduction a La pesenteur et la grâce, Plon, Parigi, 1947, pp. I-XXXIII; per padre Perrin,
l’Introduction ad Attente de Dieu, già citata; successivamente, il volume a quattro mani Simone Weil
telle que nous l’avons connue, ugualmente citato.
115. AD*, pp. 54-55. Il corsivo è nostro.
116. Boris Souvarine, Nicolas Lazarévitch, in «Est & Ouest», n. 584, dicembre 1976, p. 18.
117. Degli interventi, non occasionali, di Simone Weil a favore di prigionieri e internati, abbiamo
già parlato, segnalando la cospicua documentazione riunita in OC IV 1, pp. 449-472. Più in generale,
sulla vergogna dei campi in Francia, in particolare di quelli affrettatamente allestiti per rinchiudervi
militanti, stranieri, intellettuali indesiderati, dove le condizioni di vita erano persino peggiori che a
Dachau, con la sola differenza che nei campi di sterminio la morte era programmata mentre in quelli
di internamento sopravveniva spesso a causa di malnutrizione, malattie e maltrattamenti, cfr. Denis
Peschanski, La France des camps. L’internement 1938-1946, Gallimard, Parigi, 2002. Più
specificamente, sull’interessamento dimostrato da Simone Weil, cfr. Charles Jacquier, Simone Weil,
les réfugiés et les camps du sud de la France, in «CSW», n. 4, dicembre 2012, pp. 467-485.
118. Il merito va a Bernard Sicot, un ispanista che ha riassunto l’essenziale delle sue ricerche nel
saggio L’anarchiste et la philosophe: Antonio Atarés et Simone Weil (1941-1951), in «Cahiers de
civilisation espagnole contemporaine», n. 1, 2012, (consultabile in internet
<http://ccec.revues.Org/3928>); e a Charles Jacquier, che, oltre all’articolo appena citato, ha
pubblicato e commentato, in apertura del numero dei «CSW» citato nella nota precedente, la lettera
di Simone Weil all’amica di una cugina della madre, destinata a segnalare il caso di Antonio Atarés
ai responsabili della Cimade (Comité Inter-Mouvements Auprès des Evacués), un’organizzazione
protestante di soccorso ai prigionieri.
119. Lettera all’amica di Selma Weil, probabilmente del 1941, in «CSW», cit., pp. 429-431, cit. p.
430.
120. La lie de la terre, in Arthur Koestler, Œuvres autobiographiques, Robert Laffont, Parigi,
1994, pp. 1034-1035, passim. Altri scrittori sono stati rinchiusi nel campo del Vernet. Tra questi Max
Aub, di padre tedesco e madre francese, scrittore di lingua spagnola per adozione. Sulla sua
detenzione al Vernet ha scritto, in particolare, un racconto volterriano, Manuscrit Corbeau (Mare
Nostrum, Perpignan, 1994). Trasferito a Djelfa, evade dopo sei mesi e si rifugia in Messico, dove, nel
1942, pubblica Diario de Djelfa/Journal de Djelfa (Mare Nostrun, Perpignan, 2009), una raccolta di
poesie che denunciano i soprusi, le esecuzioni sommarie, le sevizie e le privazioni che avevano luogo
nel campo algerino.
121. Q I, p. 239.
122. Amicizia, infra, p. 137.
123. Ivi, p. 133.
124. Lettera a Georges Bernanos, primavera 1938, in EHP, p. 243.
125. Infra, p. 97.
126. Infra, p. 116.
127. Infra, p. 115.
128. Infra, p. 104. Max Aub, in un poesia dedicata alla figlia, parla della bellezza del cielo
notturno di Djelfa.
129. Infra, p. 116.
130. La copla, Las aves de Arabia, è riportata nella lettera del 15 novembre, infra, p. 111. Anche
Max Aub, di sera, leggeva delle poesie ai compagni di reclusione.
131. Infra, p. 118, con i necessari adattamenti.
132. Il nome di Atarés Olivar Antonio figura in un documento ufficiale della direzione del
campo, datato 26 maggio 1943, che lo autorizza a lavorare a Orano. A Londra, dall’ospedale, il 25
giugno 1943, Simone Weil scrive ai genitori: «Gli spagnoli sono finalmente liberati, si dice. Ma chi
sa se Antonio è ancora in vita» (Corrispondenza familiare, in OC VII 1, p. 290). Dopo la guerra,
avendo saputo della morte di lei, Antonio Atarés scriverà una commovente lettera ai genitori.
133. La lettera, citata nell’articolo di Bernard Sicot, si trova ora nel Fondo Simone Weil della
BnF.
134. AD*, p. 107.
135. Ivi, p. 134.
136. Ivi, p. 124. Con evidente allusione a Bousquet, a p. 132 scrive: «Le diverse specie di vizi,
l’uso degli stupefacenti in senso letterale o metaforico, tutto questo costituisce la ricerca di uno stato
che rende sensibile la bellezza. L’errore consiste precisamente nel ricercare uno stato speciale. Anche
la falsa mistica rientra in questo genere di errore. Se l’errore si infigge abbastanza a fondo
nell’anima, l’uomo non può non soccombere».
137. Simone Weil ha ricopiato molte coplas, per farne dono ad Antonio Atarés, e gli ha chiesto di
trascrivere per lei quelle che riusciva a ricordare. La poesia, la propria e quella dei grandi poeti,
occupa un posto importante nella corrispondenza: è il dono che ci si scambia reciprocamente. La
copla citata a memoria nella lettera di addio a Joë Bousquet (infra, p. 86) in spagnolo suona così:
«Un imposible adoro, / Que es de discretos; / Las posibilidades / Las ama un necio», in OC VI 1,
Annexes, pp. 437-445, cit p. 439.
PARTE SECONDA
Le lettere agli amici prigionieri
1. Scrive Anne-Marie Gualino: «La pesantezza del corpo ferito di Bousquet e la grazia spirituale
di Simone Weil paiono riunite sui piatti di una strana bilancia» (Correspondance Simone Weil – Joë
Bousquet. Croisements de destins, in «CSW», n. 1, marzo 2002, p. 5).
2. Con i genitori, dal porto di Marsiglia, salperà per gli Stati Uniti imbarcandosi, il 14 maggio, sul
transatlantico Maréchal Lyautey.
3. Il lavoro teatrale al quale fa riferimento è la tragedia, rimasta incompiuta, intitolata Venezia
Salva. Ad essa, come ad altri suoi componimenti poetici, era molto legata e di ciò danno
testimonianza anche alcune delle lettere, scritte alla famiglia negli ultimi mesi di vita, in cui è
espresso il desiderio che quegli scritti non vadano perduti. La versione italiana della Venezia salva è
stata curata da Cristina Campo.
4. La percezione dell’esistenza degli altri esseri, per Simone Weil, non è affatto un
comportamento spontaneo, come il senso comune tenderebbe a credere. Ciascuno di noi, nei propri
simili, legge ciò che presume che essi siano, non quello che veramente sono; proietta su di loro
desideri, pregiudizi, attese spesso inconsapevoli. Molte delusioni e incomprensioni nei rapporti
umani sono l’effetto di questo lavoro a vuoto dell’immaginazione. Solo uno sguardo attento e
perseverante scopre l’altro nella sua realtà: si accorge che esiste.
5. Durante le conversazioni avute, nell’agosto 1996, con Domenico Canciani (parzialmente
confluite in Tra sventura e bellezza) padre Perrin ha fatto questa confidenza: «Non sapevo quale
fosse la dimensione spirituale di Joë Bousquet. Sono andato a incontrarlo molto presto,
probabilmente qualche mese dopo la partenza di Simone. Confesso di non aver avuto un vero
contatto con lui. Mi è apparso molto libresco… Certamente Simone ha intuito il pericolo a cui poteva
andare incontro, vale a dire il pericolo insito nella sua tendenza al sogno, alla fantasticheria».
6. Simone Weil aveva conoscenza del Parzival di Wolfram von Eschenbach, in cui il mitico Graal
è identificato con la «pietra celeste» che ha il potere di liberare la potenza dello spirito in un’anima
prigioniera della materia. Riferimenti all’eroe puro, immagine del Cristo, si trovano anche in altri
scritti ai quali si dedica negli ultimi mesi di soggiorno a Marsiglia. Nel quaderno undicesimo, viene
evocata la guarigione di Anfortas, il re guardiano del Graal, dovuta alla domanda postagli da
Parzival: «Qual è il tuo tormento?». Non stupisce che questo sia lo stesso interrogativo che, in molti
modi, rivolge all’amico poeta che, come Anfortas, è «per tre quarti paralizzato dalla più dolorosa
delle ferite» (Q III, p. 368). Anche nelle Riflessioni sul buon uso degli studi scolastici in vista
dell’amore di Dio, testo recapitato il il 20 maggio 1942 al padre Perrin, riecheggia la mitica domanda
alla quale è riconosciuto lo stesso potere dell’ostia consacrata, in quanto capace di esprimere la
pienezza dell’amore per il prossimo (AD*, p. 200). Per una comprensione più approfondita di come
la simbologia del Graal abbia influenzato la spiritualità di Simone Weil, cfr. Fausto Gianfreda, Il
Graal di Simone Weil, Pazzini Editore, Verucchio, 2012.
7. La metafora della notte oscura è ricorrente negli scritti di Simone Weil successivi
all’esperienza mistica. Torna spesso nei Quaderni. Si tratta di un’immagine attinta al Cántico
Espiritual di San Giovanni della Croce, grande mistico spagnolo del Cinquecento che, con questa
figura, simboleggia le tenebre interiori, la perdita di ogni sicurezza, di ogni aggancio spazio-
temporale, perfino del contatto col proprio io, che ogni vero mistico sperimenta prima di accedere a
un livello superiore, soprannaturale, di conoscenza.
8. Il primato della volontà nell’agire, inizialmente assimilato attraverso le lezioni del maestro
Alain, in seguito cede sempre più spazio al desiderio, inteso come desiderio puro, semplice, vuoto,
privo di qualsiasi contenuto di cui impossessarsi: un desiderio che si traduce in continua tensione
verso l’inconoscibile. Il legame tra attenzione e desiderio, in tal modo, si fa sempre più chiaro e
questo comporta una totale revisione del rapporto di ciascun uomo con la realtà: «Si tratta di ordinare
i beni in rapporto al nostro desiderio, e per questo bisogna aver agganciato la pienezza dell’attenzione
al nostro desiderio puro, vuoto. Così come per scegliere tra vari pezzi di metallo, più o meno ben
levigati, quello che è meglio levigato, è necessario orientare l’attenzione verso il piano perfetto. […]
Parimenti non possiamo fare altro che distaccare il nostro desiderio da tutti i beni e attendere.
L’esperienza mostra che questa attesa è colmata» (Q III, pp. 263-264).
9. Il «desiderio puro», che è apertura al Bene, implica il distacco da tutto ciò che la parte
mediocre dell’anima continua a bramare. Questo distacco, però, è possibile solo grazie a un’energia
soprannaturale che contrasta la tendenza, presente in ogni uomo, a vivere nel sogno, fabbricandosi
sempre nuovi idoli: «Gli uomini lavorano di immaginazione per tappare i buchi per i quali
passerebbe la grazia, a tal fine si fanno – a prezzo di una menzogna – degli idoli, cioè beni relativi
intesi come beni al di fuori di ogni relazione» (Q I, p. 397).
10. La medicina alla quale allude potrebbe essere una sostanza oppiacea di cui, come si dice nella
Parte Prima, Bousquet faceva uso, di tanto in tanto, per attenuare i dolori che lo tormentavano, ma
forse anche per stimolare al massimo la propria sensibilità. A questo riguardo, nella sua biografia,
Simone Pétrement avanza invece un’ipotesi diversa, alla quale ci sembra giusto dare spazio: «La
lettera termina con l’offerta di procurargli una medicina di cui poteva aver bisogno. Questa cosa non
meriterebbe certo di essere ricordata se la risposta di Bousquet (“mi infonde coraggio pensare che mi
abbia proposto ciò che degli uomini non hanno osato offrirmi”) non permettesse di supporre che si
trattava forse di una medicina destinata a porre fine alle sue sofferenze nel caso in cui esse fossero
diventate intollerabili. Non bisogna credere che Simone approvasse il suicidio. Al contrario, in
diversi passi dei Quaderni lo condanna. Ma forse pensava che uccidersi per sfuggire a dolori fisici
intensi e senza rimedio non è un vero suicidio e sia permesso» (Simone Pétrement, La vita di Simone
Weil, cit., pp. 587-588).
11. Qui il poeta tenta di esprimere intuizioni difficili da tradurre in parole: solo la faticosa
conquista di un «centro di gravità» interiore consente di armonizzare il rapporto tra le sensazioni che
affluiscono dal mondo esterno, spesso ingannevoli, e la «vita profonda» dell’anima, accessibile alla
coscienza in momenti molto rari. Evidentemente egli avverte che la scissione che si porta dentro e
l’incapacità di distinguere il bene dal male hanno una stretta connessione con questa mancanza di un
centro di gravità interiore. Un pensiero come questo doveva essere intuitivamente accessibile a
Simone Weil, se si pensa alla convinzione, da lei più volte espressa, che all’uomo sia indispensabile
costruirsi una «architettura dell’anima» (cfr. Q IV, pp. 101, 104, 108, 150).
12. Il sospetto che tutta la costruzione del pensiero umano, nella sua motivazione più profonda e
nascosta, sia un tentativo di sfuggire all’incombere della morte, e che la filosofia nel suo insieme, in
un certo senso, abbia sempre corrisposto a questo scopo, richiama alla mente il pensiero, inquietante
nella sua radicalità, che introduce il capolavoro di Franz Rosenzweig: «Dalla morte, dal timore della
morte prende inizio e si eleva ogni conoscenza circa il Tutto. Rigettare la paura che attanaglia ciò che
è terrestre, strappare alla morte il suo aculeo velenoso, togliere all’Ade il suo miasma pestilente, di
questo si pretende capace la filosofia» (Franz Rosenzweig, La stella della redenzione, a cura di
Giovanni Bonola, Vita e Pensiero, Milano, 2005, p. 3).
13. Qui emerge la fatica nell’analizzare le proprie contraddizioni da parte del poeta: per un verso,
egli sa che il mondo delle sensazioni in cui si rifugia è sostanzialmente illusorio, e quindi non
costituisce per lui un bene autentico, ma per l’altro ha sperimentato l’impossibilità di convivere
quotidianamente, senza vie di fuga, con la percezione chiara di una fine incombente. Il rapporto
ambiguo con la realtà, la convivenza spesso angosciante col «morto» che si porta dentro, trae
alimento da questa contraddizione.
14. Se l’ultimo istante di vita potesse ricomporre, in una visione di insieme pienamente
armoniosa, tutti i frammenti di un’esistenza, le sue luci e le sue ombre, questa per il poeta sarebbe la
felicità: un sì senza riserve al vivere come al morire. La funzione salvifica dell’attimo che fa da
spartiacque tra la vita e la morte, senza che il pensiero si proietti su una possibile beatitudine
ultraterrena, è riconosciuta anche in un vertiginoso pensiero di Simone Weil: «L’istante della morte,
intersezione del tempo e dell’eternità, punto d’incontro dei bracci della croce. Istante che sta agli altri
istanti del tempo come Cristo agli uomini. Bisogna avere lo sguardo del pensiero fisso su
quell’istante, e non sulla vita mortale, neppure sull’eternità, perché la nostra ignoranza attorno
all’eternità fa sì che pensando ad essa l’immaginazione proceda senza nessun freno» (Q IV, p. 57).
15. Si riferisce ai frammenti della tragedia Venezia salva che Simone Weil aveva voluto
sottoporre alla sua lettura e al suo giudizio critico.
16. Qui Joë Bousquet, che deve aver letto con vera attenzione il canovaccio della Venezia salva,
con molta probabilità si riferisce al Segretario dei Dieci, nel momento in cui dialoga con il
protagonista, Jaffier, il traditore, e illustra le ragioni per cui l’istituzione da lui presieduta ha
deliberato di risparmiargli la vita. Mentre Jaffier si esprime in versi, il Segretario parla in prosa.
Evidentemente questo espediente espressivo, ancora provvisorio, appare poco convincente a
Bousquet, che ritiene più conforme al contesto del dialogo un uso esclusivo della poesia. Per una
ricostruzione precisa della trama, si rimanda alla scena quarta dell’atto terzo della tragedia (VS, pp.
82-90).
17. Il poeta ha pienamente compreso quanto Simone Weil, per temperamento e per formazione
culturale, sia lontana da un tipo di misticismo languido e sentimentale, di impronta manieristica,
alquanto diffuso nella tradizione della mistica femminile. Interessante il nesso che intuisce tra la sua
capacità di mettere a nudo, in Venezia salva, i meccanismi spietati della violenza e l’analoga capacità
che potrebbe rivelare esprimendo, eventualmente in forma poetica, i risvolti più segreti del dialogo
con Dio.
18. Sull’incertezza se la medicina in questione fosse l’oppio o una qualche altra sostanza, tra
quelle reperibili all’epoca, in grado non solo di alleviare i dolori ma, in caso estremo, di «facilitare»
la morte liberando l’ammalato da un livello intollerabile di sofferenza, si rimanda a quanto detto nella
nota 10. Occorre però un’ulteriore precisazione. Se per un verso è vero che le parole con le quali
Bousquet chiude questa lettera ringraziando l’amica per il coraggio con cui gli ha promesso ciò che i
suoi amici uomini non avevano mai osato proporgli sembrano avvalorare la seconda ipotesi, che è
quella avanzata da Simone Pétrement, è tuttavia doveroso precisare che lei stessa ebbe poi un
ripensamento e manifestò rammarico per non aver potuto apportare una necessaria correzione alla
sua biografia di Simone Weil, ripubblicata nel 1978. Questo cambiamento di opinione avvenne in
conseguenza della possibilità offertale dalla redazione dei «CSW» di prendere preventivamente
visione di un testo, apparso poi sul n. 3, settembre 1982 (Simone Weil à Carcassonne, pp. 229-231),
scritto dal canonico Gabriel Sarraute, nel quale motiva, in un modo che la Pétrement giudica
convincente, l’ipotesi che la «medicina» fosse l’oppio, non in pillole, ma acquistato allo stato puro da
spacciatori cinesi: abitudine che lo stesso Bousquet, parlando di sé, aveva confessato di praticare (cfr.
«Cahiers du Sud», nn. 362-363, 1955, p. 117). La versione dei fatti fornita da Sarraute convinse
talmente la Pétrement da spingerla a scrivere con dispiacere: «[…] Non ho potuto fare questa
correzione che avevo promesso e che, tra quelle che desideravo fare, era quella che mi stava più a
cuore» (p. 231, nota 7).
19. Il dono agli amici delle sue personali traduzioni, soprattutto dei tragici greci, è un «gioiello
prezioso» con cui spesso Simone Weil sigilla le lettere alle persone che maggiormente stima e più le
stanno a cuore. Avremo modo di constatarlo anche leggendo quelle inviate ad Antonio Atarés.
20. Vi è una straordinaria sapienza psicologica in queste parole del gesuita-ufficiale di cui
Bousquet, non a caso, conserva un ricordo tanto vivo. La rinuncia al soccorso del commilitone
morente, gesto opposto a quello del buon samaritano, è presentata come una dolorosa necessità non
solo strategica, ma di tutela del proprio equilibrio emotivo, nel contesto di una battaglia dove le
uniche regole accettabili sono quelle della conservazione e ottimizzazione di tutte le forze, fisiche e
mentali, in vista dell’attacco al nemico.
21. Il crudo realismo con cui sono evocate, all’inizio della lettera, le regole che impediscono ai
soldati di prestarsi soccorso vicendevolmente durante la battaglia, contrasta solo in apparenza con la
convinzione che Bousquet esprime, in questo passaggio, sull’opportunità della presenza in campo di
quel corpo di infermiere al quale Simone Weil teneva tanto. Interessante notare che esse sono da lui
definite «infermiere spirituali» in quanto aveva pienamente compreso la funzione non soltanto di
pronto soccorso, ma di sostegno psicologico e morale che avrebbero potuto esercitare verso i feriti.
22. Molto concreta ed efficace questa evocazione di un’esperienza, realmente vissuta, in cui una
presenza femminile sul campo di battaglia, per assistere e rincuorare, non per combattere, aveva dato
ottima prova di sé. Questo ricordo dell’amico poeta non può che rincuorare Simone Weil riguardo
alla fattibilità, oltre che al valore etico, del suo Progetto.
23. L’istante supremo al quale si allude è quello in cui, sul nuovo fronte di battaglia, quello della
Seconda Guerra Mondiale, altri giovani soldati potranno essere colpiti, come Joë Bousquet, da una
pallottola fatale. La «dolcezza di sguardi» sarà quella delle infermiere di prima linea, paracadutate in
loro soccorso, in base al Progetto che Simone Weil ha sottoposto all’attenzione dell’amico.
24. Sia l’orrore della guerra che l’incubo dei regimi totalitari possono generare un profondo senso
di irrealtà in chi vi è immerso. Ne deriva una percezione distorta dei fatti e delle parole, un’incapacità
di discernimento, come se ci si muovesse in un mondo fittizio che purtroppo, invece, è
drammaticamente reale. Di questa atmosfera onirica, che impedisce di ribellarsi, portano la
responsabilità i capi politici e militari che hanno prodotto quel determinato stato di cose. Essi stessi,
però, si trovano in balia di un sogno: «Un uomo che è nell’irrealtà e maneggia una spada può
sprofondare tutta una popolazione nell’irrealtà. Non così per un terremoto. Si sa perché si è
sottomessi al potere manifesto della natura. Ma l’obbedienza a uomini la cui autorità non è illuminata
dalla legittimità, è un incubo. I cartaginesi e Roma» (Q III, pp. 269-270).
25. Questa figura dell’uovo cosmico, di origine orfica, presente nel Fedro platonico e diffusa
presso diverse culture dell’antichità, torna più volte nelle pagine dei Quaderni, per simboleggiare il
processo di trasformazione che il germe dell’amore divino opera nell’anima: «La nostra anima è un
uovo in cui il germe divino diventa uccello. L’embrione dell’uccello si nutre dell’uovo; diventato
uccello, infrange il guscio, esce, e becca dei chicchi. La nostra anima è separata da ogni realtà da una
pellicola di egoismo, di soggettività, di illusione; il germe del Cristo deposto da Dio nella nostra
anima si nutre di essa; quando è abbastanza sviluppato, infrange l’anima, la fa esplodere, ed entra in
contatto con la realtà. È l’Amore nel microcosmo. Quello del macrocosmo, una volta che le sue ali
dorate sono spuntate, infrange l’uovo del mondo e passa dall’altra parte del cielo» (Q IV, p. 338).
26. La dilatazione dello spazio e la liberazione dalla prigionia del tempo sono gli effetti indotti
dalla fuoriuscita dello «spirito» dal guscio dell’uovo cosmico. Qualcosa di simile, con altrettanta
forza poetica, Simone Weil la dice in rapporto allo svuotamento di sé di un’anima che, mossa da
Amore, giunge alla contemplazione dell’ordine e della bellezza dell’universo: «Svuotarsi della
propria falsa divinità, negare se stessi, rinunciare ad essere con l’immaginazione il centro del mondo,
riconoscere che tutti i punti del mondo sono centro a pari titolo, e che il centro vero è collocato al di
fuori del mondo, significa acconsentire al regno della necessità meccanica nella materia e al regno
della libera scelta all’interno di ciascuna anima. Un simile consenso è amore. La faccia di questo
amore rivolta alle persone pensanti è carità verso il prossimo; quella rivolta alla materia è amore per
l’ordine del mondo, ovvero – che è poi la stessa cosa – amore per la bellezza del mondo» (Forme
dell’amore implicito di Dio, AD*, pp. 119-120).
27. Vivere fino in fondo l’amicizia e conoscere la realtà opposta, quella del conflitto, sono due
modalità uguali e contrarie per accostarsi all’intuizione dell’unità del reale. La lettura dei frammenti
pitagorici che andava compiendo proprio nei mesi trascorsi a Marsiglia l’aiuta a passare dal solo
orrore per la guerra, già fortemente sentito durante l’esperienza di Spagna, a una contemplazione
distaccata dell’insieme della realtà, in cui il bene e il male, la bellezza e la miseria, costituiscono due
polarità ugualmente necessarie.
28. Nell’accezione greca del sostantivo Simone Weil legge l’espressione di una libera volontà, di
un desiderio di persistere nell’immobilità, senza cedere alla stanchezza o al compromesso. Nel
termine latino patientia è invece più marcata l’accezione del subire, dell’essere passivi.
29. Come il Cristo sulla croce non patisce solo la sua privata sventura di ebreo, perseguitato da un
regime ostile, ma prende su di sé tutto il male del mondo, così «coloro per i quali la sventura entrata
nella carne diventa la sventura stessa del mondo nella loro epoca» in un certo senso sono dei
privilegiati, in quanto la sorte li obbliga, loro malgrado, a non distogliere mai lo sguardo dall’orrore
di cui sono stati testimoni: essi sono gli unici in grado di leggerlo in profondità e di condividere con
altri uomini i frutti della loro chiaroveggenza. In ogni tempo, del resto, il vero profeta è colui che
offre ai suoi simili una comprensione quanto più possibile limpida e completa del dolore da cui è
afflitto il tempo in cui vivono.
30. Lo sguardo attento di Simone Weil le permette di cogliere, nell’interiorità dell’amico,
l’approssimarsi dell’istante in cui il consenso al bene si presenterà alla sua anima come una scelta
necessaria, non più dilazionabile. Quest’unità di tempo minima, per analogia, è paragonata a ciò che
è la perdita della verginità per una donna: un evento rispetto al quale non si dà alcun possibile
ripristino dello stato precedente. La differenza tra il cedere al male e l’affidarsi fiduciosi al bene è
data dal livello di consapevolezza che si possiede, condizione indispensabile per scegliere il bene.
Questo, infatti, «afferra l’anima solo se dice di sì», mentre il male la narcotizza, la trascina nel sogno
e, così facendo, la violenta. Il consenso nuziale al bene – o la libertà di rifiutarlo – non contrasta col
fatto che l’istante-limite in cui la decisione si impone è un evento inscritto, ab aeterno, nel destino di
ciascun uomo.
31. Queste parole rivelano una notevole finezza nella lettura dell’anima: il compito
dell’intelligenza non è di distrarsi dal male per volgersi tutta, immediatamente, al bene, ma di
contemplare il male, nella sua nuda verità, e farlo per il tempo necessario a rigettarlo con orrore, non
un istante in più. Qualsiasi indulgenza, qualsiasi compiacimento, sarebbe devastante tanto quanto la
paura di misurarsi col ricordo delle esperienze negative.
32. Questo riferimento alla morte come «dovere più urgente» e ad una decisione «condizionata e
a termine» lascia intendere, in modo sfumato, che l’ipotesi del suicidio non solo è stata presente in
lei, almeno nei momenti di più acuta sofferenza fisica, ma che la convinzione di potervi ricorrere le
fu di notevole conforto. Per quest’aspetto della sua esperienza, che riguarda la dolce morte, si
rimanda alle parole di Simone Pétrement, citate nella nota 10. Un pensiero simile, del resto, Simone
Weil l’aveva espresso in una lettera del 1936 all’amico Boris Souvarine, in un momento in cui le
incessanti emicranie minacciavano di annientarne il pensiero: «[…] Mi sono chiesta più di una volta
fino a che punto devo ostinarmi a vivere. Non rimpiango di aver vissuto fino ad ora perché malgrado
tutto ciò che la ostacola, la mia vita è lungi dall’essere stata vuota; ma non posso nascondermi che i
momenti in cui le mie facoltà riescono a operare sono sempre più distanziati e brevi. […] Sono
ancora in condizione di superare in qualche sorta i limiti delle mie possibilità a forza di irrigidirmi.
Ma questo non potrebbe durare all’infinito. Se le cose continuano ancora ad andar male, il momento
in cui la vita mi apparirà indegna di essere vissuta non tarderà a venire» (Lettera da Bourges,
probabilmente del marzo 1936, in «CSW», n. 1, marzo 1992, p. 13).
33. È impossibile appurare con certezza che cosa avesse letto degli scritti di Joë Bousquet al
momento del loro incontro. Per quest’esplicito riferimento a una frase contenuta nel «suo ultimo
libro» ci atteniamo a quanto, con molto acume, è stato ipotizzato da Michel Narcy: «Questo “ultimo
libro”, nel 1942, non poteva essere che Traduit du silence. Niente consente di dire che Simone Weil
l’avesse letto prima di incontrare Joë Bousquet: al contrario, avrebbe potuto anche leggerlo nel mese
successivo all’incontro con l’autore. Ciò che è importante, in ogni caso, è che in tal modo si può
affermare che la sua corrispondenza con Bousquet non costituisce solo un prolungamento della loro
conversazione, ma fa eco, in modo amplificato, a quegli aspetti della sua meditazione che Bousquet
aveva già da tempo affidato alla scrittura» (Visite à Joë Bousquet, in «CSW», n. 2, dicembre 1987, p.
120). La frase, a cui allude è da noi citata nella Parte Prima, alla nota 98.
34. Qui Simone Weil avverte l’insufficienza delle parole a spiegare uno stato d’animo che, come
ha detto poco prima, lei stessa aveva vissuto dopo l’esperienza mistica: la gioia pura, lungi
dall’essere fonte di consolazione, lungi dall’acquietare la coscienza, può al contrario indurre, in chi la
sperimenta, «un peggioramento morboso della sofferenza». Un’anima illuminata dal contatto col
bene non solo non è immunizzata da nuove possibili sofferenze, ma tende ad essere più sensibile, più
vulnerabile, più esposta all’aggressione del male: il Giusto sofferente e il Cristo risorto non
costituiscono due realtà distinte, ma due figure dello stesso mistero, che non si sovrappongono, ma
sono compresenti.
35. Di questa poesia ci piace offrire al lettore la versione di Cristina Campo, una «lettrice
amorosa» di Simone Weil: «Amore mi diede il benvenuto: ma l’anima mia si ritrasse, / Di polvere
macchiata e di peccato. / Ma Amore dal rapido sguardo, vedendomi esitante / Sin dal mio primo
entrare, / Mi si fece vicino, dolcemente chiedendo / Se di nulla mancassi. // Di un ospite, io dissi,
degno di essere qui. / Amore disse: Quello sarai tu. / Io, lo scortese e ingrato? O, amico mio, / Non
posso alzare lo sguardo su di Te. / Amore mi prese la mano e sorridendo rispose: / E chi fece gli
occhi se non io? // È vero Signore, ma li macchiai: se ne vada la mia vergogna / Là dove merita
andare. / E non sai tu, disse Amore, chi portò questa colpa? / Se è così, servirò, mio caro. / Tu
siederai, disse Amore, per gustare della mia carne. / Così io sedetti e mangiai» (La tigre assenza,
Adelphi, Milano, 1991, p. 173). La poesia, tradotta da Simone Weil, si trova anche nella quarta lettera
inviata a padre Perrin, nota come Autobiografia spirituale (AD*, pp. 29-30). Il ruolo di «mediazione
spirituale» esercitato da questa lirica è confermato proprio dal fatto che viene offerta in dono alle due
persone alle quali sceglie di confidare la sua esperienza mistica. Di George Herbert si può vedere
l’antologia Corona di lode, a cura di Maura del Serra, Le Lettere, Firenze, 1993, dove Love è
riportata.
36. Si tratta della prima delle due lettere ritrovate, nel 1989, da Florence de Lussy, di cui si è
detto nella Parte Prima.
37. Significativa la coincidenza di questo richiamo a una copla spagnola in questa lettera come in
alcune di quelle inviate ad Antonio Atarés: segno, ci sembra, del profondo valore di verità che
Simone Weil attribuiva alla saggezza popolare che in ogni tempo si è espressa in forme poetiche.
Quanto al fatto che l’accesso alla verità passi attraverso l’impossibile, in un testo di tutt’altra natura,
scritto negli ultimi mesi di vita, parlerà di una presenza di Dio nel mondo che, paradossalmente, si
lascia cogliere proprio attraverso le assurdità, le contraddizioni insanabili nelle quali l’essere umano
quotidianamente si imbatte: cfr. Professione di fede, in Dichiarazione degli obblighi verso l’essere
umano, a cura di Domenico Canciani e Maria Antonietta Vito, Castelvecchi, Roma, 2013, p. 19.
38. In realtà, nei Vangeli, in più occasioni, Gesù prega perché gli uomini siano liberati dal pesante
fardello dei dolori, sia fisici che morali, che gravano su di loro. Per Lazzaro, implora e ottiene la
resurrezione; nella sua passione, chiede che sia allontanato da sé l’amaro calice, anche se subito dopo
si rimette alla volontà del Padre, accettandola senza riserve. Qui si può pensare che Simone Weil
alluda al fatto che il Cristo, benché straziato dalla sofferenza dei suoi simili, non cede mai alla
tentazione di chiedere a Dio che, attraverso la sua mediazione, in quel preciso momento della Storia,
il male possa essere sconfitto una volta per sempre, in modo definitivo. Egli è venuto a testimoniare
la possibilità di una liberazione, è venuto ad annunciare il Regno, ma non ha avuto la pretesa si
portarlo a compimento. Al contrario, la croce è il segno di una sconfitta accolta e patita fino in fondo.
39. Potrebbe sembrare masochistica quest’affermazione sui «piaceri fisici e spirituali che
scaturiscono dalla sofferenza fisica». Per comprendere in che senso ciò sia vero è utile riandare a un
passo dei Quaderni: «Avere l’anima vulnerabile alle ferite di ogni carne, senza eccezione, come a
quelle della propria carne, né più né meno. Ad ogni morte come alla propria morte. Significa
trasformare ogni dolore, ogni sventura subita (– e che si vede subire – e che si infligge) in sentimento
della miseria umana. […] La contemplazione della miseria umana strappa verso Dio» (QII, pp. 224-
225). Il «piacere» di cui si parla in questa lettera non può che essere di ordine mistico: nasce dalla
capacità di sentire ogni dolore, il proprio e quello altrui, come segno di una più universale «miseria
umana» la cui contemplazione, anziché annichilire l’anima, la «strappa verso Dio».
40. Il linguaggio che tenta di approssimarsi al mistero della morte assume un’intonazione quasi
liturgica: richiama il rito dell’offertorio questo gesto finale con cui l’essere umano, da intermediario,
riconsegna nuda tutta la bellezza del mondo a Dio che discende per ricongiungersi ad essa. Il contato
tra il Creatore e la sua creazione, nell’istante limite, è affidato all’uomo, allo sguardo di amore con
cui lui solo, tra le creature, è in grado di abbracciare, di comprendere la bellezza di tutte le cose. Alla
capacità umana di farsi custode del bello, e di esserne responsabile verso Dio, è qui riconosciuto un
valore altissimo.
41. Racine, Fedra, atto V, scena 7, vv. 1643-1644,
42. Non è la morte in se stessa a incuterle timore, ma il rischio di arrivare impreparata al dono
misterioso di cui essa è portatrice. In un concerto, tra l’attesa cosciente del primo tocco di violino e il
suono che effettivamente si leva dallo strumento, intercorre una frazione infinitesimale di tempo,
quasi impossibile da percepire. Eppure, è lì che si gioca la possibilità di una piena concentrazione
nell’ascolto. Ancor più, rispetto alla morte, vi è una tremenda responsabilità dell’uomo nel giungervi
distratto o impreparato.
43. Ciò che desidera portare a compimento è sempre il suo Progetto.
44. Simone Weil è particolarmente legata a questo racconto e infatti ne offre una versione breve
nei Quaderni (Q III, pp. 21-22) e una più lunga, in cui è evocata la ricerca dell’uomo da parte di Dio
e la Passione, ben espressa nel «quaerens me sedisti lassus», nelle Intuitions préchrétiennes (OC IV
2, pp. 153-155). Due aspetti, nell’interpretazione della fiaba, appaiono di notevole rilevanza
teologica: la sposa, che incarna la presenza divina, deve indossare le vesti di una sguattera, ossia deve
farsi povera se vuole accostarsi al principe, che simboleggia l’anima in cerca di amore. A sua volta il
principe è «narcotizzato» dai doni, cioè dall’offerta di amore che proviene dalla carne (la falsa
fidanzata): un’offerta non negativa in sé, ma inadeguata a rispondere a una domanda di amore
assolutamente pura. Significativo anche il fatto che, alle prime luci dell’alba, un attimo prima che la
possibilità dell’incontro svanisca, il riconoscimento avvenga mediante uno scambio di sguardi,
figurazione dell’incontro mistico attraverso la bellezza.
45. La persona alla quale si riferisce, naturalmente, è padre Perrin. I «testi greci» sono quelli da
lei tradotti nell’ambito della ricerca avviata, insieme al domenicano, su alcuni classici – in prevalenza
brani di tragedie greche, frammenti pitagorici e dialoghi di Platone – in cui maggiormente emergono
quegli elementi di spiritualità che hanno sorretto la costruzione filosofica del Cristianesimo delle
origini. Questo materiale le era servito per alcune conversazioni tenute nella Cripta dei Domenicani. I
testi in questione sono ora raccolti in OC IV 2, pp. 361-380.
46. Di questo «insieme eterogeneo» di testi (gli originali in lingua greca, le traduzioni, le note di
commento), prima della partenza da Marsiglia, Simone Weil aveva affidato una gran parte a padre
Perrin. Da una lettera all’amica Solange Baumier apprendiamo che, durante la sosta a Casablanca,
completò lo scritto intitolato A proposito della dottrina pitagorica. L’insieme di questo paziente
lavoro di raccolta, traduzione ed esegesi di testi greci, dapprima confluito nel volume Intuitions
préchrétiennes – titolo giudicato infelice dallo stesso padre Perrin che lo aveva scelto – è ora raccolto
negli Écrits de Marseille, Le domaine grec, in OCIV 2, pp. 147-293. Gilbert Kahn è stato depositario
di un duplice foglio, di gran formato, su cui erano trascritti alcuni di questi testi il cui destinatario,
secondo il desiderio espresso da Simone Weil proprio in questa lettera, probabilmente era Joë
Bousquet. Gli originali greci, con le traduzioni e i commenti di Simone Weil, sono parzialmente
riuniti in OC IV 2, pp. 312-322.
47. Si riferisce al Progetto. Dalle parole traspare una certa ansia sull’esito della sua proposta:
ansia che andrà facendosi sempre più febbrile, quando si troverà a New York e si renderà conto
dell’estrema difficoltà di farlo prendere in considerazione da chi, se avesse voluto, avrebbe potuto
sostenerlo.
48. Comunicata da Florence de Lussy, conservatrice della Biblioteca Nazionale di Parigi, a
Michel Narcy, la lettera è pubblicata come Postscriptum al suo articolo Visite à Joë Bousquet, in
«CSW», n. 2, giugno 1983, p. 129. Gli amici sconosciuti, in realtà, sono Hélène Honnorat, amica di
Simone, di cui si è detto nella Parte Prima, e Pierre, suo fratello, compagno di corso di André Weil
alla École Normale.
49. Algernon Charles Swinburne (Londra, 1837 – Putney, 1909) poeta inglese dell’età vittoriana,
ebbe un’esistenza spregiudicata, di cui dà testimonianza la sua poesia, visionaria e ricca di
suggestioni simboliche. Non meraviglia che Simone Weil abbia sottoposto alcuni suoi scritti alla
lettura di un poeta come Bousquet, non meno estroso e visionario. Proporre all’amico,
contemporaneamente, la lettura del Vangelo in lingua greca e quella delle poesie di Swinburne è un
ulteriore segnale della sua libertà e originalità di pensiero.
50. Le lettere ad Antonio Atarés, qui tradotte, sono state pubblicate per la prima volta in «CSW»,
n. 2, giugno 1996, pp. 201-217. In conformità al loro tono colloquiale, in questo caso, talvolta, ci
riferiamo ai due interlocutori col solo nome proprio, Simone e Antonio.
51. Infra, p. 137.
52. Simone Weil, come vedremo meglio anche attraverso la lettura di Amicizia, in varie
circostanze ha lasciato intendere la sua distanza rispetto alla concezione romantica dell’amore-
passione, ne ha individuati i limiti e le insidie, facendo un’opzione di principio molto ferma nei
confronti dell’amicizia. È infatti persuasa che l’esperienza di unione piena sia attingibile solo nel
mistero dell’incontro mistico con Dio, mistero da consegnare al silenzio e non dissipare nella retorica
delle parole.
53. Di Nicolas Lazarévitch si è parlato nella Parte Prima.
54. Secondo un calcolo di Simone Pétrement, la lettera potrebbe essere stata scritta tra fine
giugno e inizio luglio 1941.
55. Questo pensiero ha ispirato il titolo di una plaquette in cui sono pubblicate tre delle lettere qui
presentate: cfr. Le stelle nell’anima. Lettere a Antonio Atarés 1941-1942, a cura e con una nota
introduttiva di Domenico Canciani, Edizioni Lavoro, Roma, 1993.
56. Gli uccelli d’Arabia / Vivono in eterno. / Vivono perché non sanno / Che cosa sono le pene /
Se dovessero penare / Nel mondo non ci sarebbero / Uccelli d’Arabia. Nell’Appendice IX del primo
volume dei Cahiers si trova una raccolta di coplas trascritte da Simone Weil (OC VI 1, pp. 437-451).
57. Quel che dice in questa lettera si riferisce, probabilmente, ai tentativi da lei fatti, presso i
responsabili dell’organizzazione internazionale Cimade, di cui parliamo nella Parte Prima, volti a far
liberare Antonio, procurandogli un lavoro come operaio agricolo.
58. Simone Pétrement ricostruisce la probabile datazione delle poesie scritte da Simone Weil
proprio nel periodo del soggiorno marsigliese: Nécessité risale alla fine di luglio del 1941, La porte
probabilmente fu scritta durante i giorni della vendemmia, La mer tra novembre e dicembre dello
stesso anno e, sempre a dicembre, dovrebbe risalire anche la composizione Les astres, un testo che,
nel gennaio successivo, Simone Weil avrebbe inviato sia all’amica Pétrement che ad Antonio. (Cfr.
La vita di Simone Weil, cit., p. 573). Le poesie di Simone Weil sono state pubblicate in volume con la
Venezia salva, nel 1968: cfr. Bibliografia. In italiano sono disponibili alcune buone traduzioni:
segnaliamo quella di Adriano Marchetti (Poesie e altri scritti, In forma di parole, Bologna,1989) e di
Roberto Carifi (Poesie, Le Lettere, Firenze, 1993). Qui di seguito, offriamo la versione italiana di
Astres di Adriano Marchetti: «Astri di fuoco che abitate la notte e i cieli lontani, / Sfere mute che
ruotate ciecamente sempre gelate, / Voi strappate i giorni di ieri al nostro cuore, / Ci gettate nel
domani senza il nostro consenso. / Piangiamo e i nostri lamenti a voi sono vani. / Poiché dobbiamo,
vi seguiremo, le braccia legate, /Gli occhi rivolti al vostro scintillio puro e amato. / Al vostro cospetto
poco importa ogni tormento. / Noi taciamo, vacilliamo sul nostro cammino. / D’improvviso è nel
cuore il loro fuoco divino». (pp. 72-73). Nell’Introduzione, Marchetti non si limita a offrire un
giudizio estetico sui componimenti poetici di Simone Weil, ma li interpreta alla luce degli altri suoi
scritti (pp. 7-22).
59. Si tratta della moglie del dottor Louis Bercher, amico di Simone Weil fin dai tempi de «La
Révolution Prolétarienne», alla quale anch’egli collaborava con lo pseudonimo di Péra. Bercher ha
scritto, per padre Perrin, un’ampia testimonianza, frutto di alcune conversazioni avute con Simone
Weil durante il soggiorno marsigliese.
PARTE TERZA
L’amicizia
1. Redatto nella prima metà di maggio, prima di partire per l’America, questo scritto fu affidato
ad Hélène Honnorat perché lo consegnasse a padre Perrin, che lo ha pubblicato, con la
corrispondenza, in Attente de Dieu. Ora ha trovato la sua naturale collocazione negli Écrits de
Londres, OC IV 1, pp. 285-336. Questo è il testo adottato per la nostra traduzione.
2. Formes de l’amour implicite de Dieu, OC IV 1, p. 284.
3. Gli scritti, in parte frammentari, come già ricordato, pubblicati in Intuitions préchrétiennes e
La source greque, sono ora raccolti negli Écrits de Marseille, OC IV 2.
4. Non con oscuro simbolismo, ma con vivace concretezza di immagini, Simone Weil riferisce la
sua esperienza mistica in un testo, il Prologo, per il quale espresse il desiderio che, in un’eventuale
pubblicazione dei suoi scritti, potesse fare da introduzione all’intera raccolta. Oggi, infatti, può essere
letto all’inizio di Q I, pp. 103-105.
5. Q III, p. 350. Questa bella immagine, alla quale Simone Weil ricorre per descrivere l’azione
mediatrice del soprannaturale, involontariamente rimanda all’ordo amoris agostiniano e alla sua
matrice neoplatonica. Interessante, in questo senso, quel che dice Remo Bodei: «Lordo amoris […]
ricostruisce infaticabilmente il ponte, spesso interrotto o crollato, che unisce ciascuno alla parte più
intima di se stesso, a Dio, interior intimo meo, e la parte più alta delle sue facoltà alla sommità del
Creatore. [.] Sotto questo profilo, l’amor di Agostino ha alcuni tratti comuni con l’aspirazione
plotiniana della congiunzione dell’anima con l’Uno. (Ordo amoris, Il Mulino, Bologna, 1991, p. 92).
6. Simone Weil ricorre più volte, anche in altri scritti, al linguaggio dei pitagorici per esprimere
l’idea di amicizia come armonia tra i contrari e trova particolarmente efficaci due formule di
Filolao: «L’amicizia è un’uguaglianza fatta di armonia» e
«Il pensiero comune dei pensanti separati» : cfr. OC IV 2,
pp. 244-248 e 255-293.
7. Su questo tema scrive: «La nostra anima è una bilancia. La direzione dell’energia negli atti è
l’ago della bilancia che segna questa o quella cifra. Ma la bilancia non è esatta. Quando Dio, il vero
Dio, occupa in un’anima tutto il posto che gli è dovuto, la bilancia è diventata giusta. Dio non dice
quale cifra deve indicare l’ago, ma per il fatto che Egli è là l’ago segna giusto» (Q IV, p. 190).
8. Cfr. Etica Nicomachea, Libri VIII e IX, a cura di Carlo Natali, Laterza, Bari, 2003. Più in
generale, per una ricognizione del significato dell’amicizia nel mondo antico, cfr. Luigi Pizzolato,
L’idea di amicizia nel mondo antico, classico e cristiano, Einaudi, Torino, 1993. Recentemente la
rivista «Esodo» ha dedicato due interi fascicoli al tema dell’amicizia: Legami. I volti dell’amicizia, n.
3, luglio-settembre 2012 e Legami. Le radici dell’amicizia, n. 4, ottobre-dicembre 2012. In questo
secondo fascicolo, i curatori di questo libro, Domenico Canciani e Maria Antonietta Vito, hanno
sintetizzato il pensiero di Simone Weil sull’argomento. Cfr. L’amicizia in Simone Weil, cit., pp. 10-
17.
9. Etica Nicomachea, cap. VIII, 1156 b, p. 319.
10. Ivi, 1159 a, p. 331.
11. Ibidem.
12. Simone Weil ha compiuto una lettura degli scritti aristotelici più limitata e meno approfondita
rispetto ad altri testi della filosofia greca, soprattutto quelli platonici: ne è prova il numero esiguo di
citazioni aristoteliche presenti nei Quaderni. In particolare, non risulta una lettura diretta dell’Etica
Nicomachea. Ciononostante, nei Quaderni troviamo un giudizio molto duro sulla concezione
dell’amicizia sviluppata in quel testo, al quale allude in modo indiretto, con una citazione che si
potrebbe definire di terza mano, perché presa in prestito da uno scritto di Jacques Maritain in cui
riporta un brano tratto dai Commentari di san Tommaso al Libro VIII dell’Etica Nicomachea. La
citazione è accompagnata da una breve annotazione nella quale si dice che un simile modo di
intendere l’amicizia è agli antipodi rispetto al pensiero cristiano. Bersaglio di questa stroncatura non
è dunque solo Aristotele, ma lo sono ancor più Tommaso e Maritain, per aver commesso l’errore di
tentare una conciliazione tra modelli di pensiero antitetici. Vale la pena di rileggere parte del brano in
questione: «È assolutamente il contrario del Cristianesimo. Come fanno costoro a credersi cristiani?
Si potrebbe chiedere loro se la giustizia ha reso uguali l’uomo e Dio prima che potesse esserci unione
di amore. Se il samaritano non ha avuto un moto di amicizia verso l’uomo caduto in mano ai ladri.
Aristotele è l’albero cattivo che dà solo frutti marci. Perché non lo si vede?» (Q IV, pp. 388-389).
Conveniamo con Michel Narcy che, dietro questa critica alla fonte aristotelica, emerge
l’atteggiamento severo con cui Simone Weil guardava a una certa idea di umanesimo cristiano, di cui
Maritain era il rappresentante più convinto nella Francia di quegli anni. Vi leggeva una pericolosa
illusione: il rischio di perdere di vista la straordinaria capacità di conversione espressa dal messaggio
evangelico, trasformandolo in un vago umanitarismo che finisce per smorzarne la forza liberatrice e
profetica, riducendolo a supporto di un’etica dei diritti che non ha bisogno di un fondamento
religioso e, ancor meno, della fede cristiana. La novità sconvolgente del Cristo, insomma, è di averci
insegnato ad amare il nemico, non ad amare il nostro simile: per questo, sarebbe stata sufficiente
l’etica di Aristotele (cfr. Michel Narcy, La parole pacifiée d’Émile Novìs, in «Sud», nn. 87-88, 1990,
pp. 127-136). In più occasioni, animata da una febbrile ricerca della verità, Simone Weil è incorsa in
omissioni o in oltranze di giudizio sugli autori con cui andava confrontandosi. Questo limite le fu
fatto notare da padre Perrin, proprio in rapporto al pensiero di san Tommaso che, a suo giudizio, le
era meno estraneo di quanto lei pensasse, soprattutto sul tema che era oggetto della sua meditazione
in quel momento: le forme dell’amore implicito di Dio. Su questo singolo punto, cfr. Introduzione a
AD, pp. 35-37). Sull’argomento in generale, cfr. Emmanuel Gabellieri, Être et don. Simone Weil et la
philosophie, cit., pp. 453-462.
13. OC IV 2, pp. 263 e 266, passim.
14. Formes de l’amour implicite de Dieu, OC IV 1, p. 286.
15. Q IV, p. 160
16. Q III, p. 192.
17. Q II, p. 256
18. Intuitions préchrétiennes, OC IV 2, p. 287.
19. Questa sezione del testo, dedicata all’Amicizia, si apre con una congiunzione avversativa, qui
omessa, perché nella parte conclusiva delle pagine precedenti, dedicate all’amore per le pratiche
religiose, si parla del duplice aspetto, personale e impersonale, dell’amore dell’uomo per Dio.
L’amicizia, invece, si configura come amore personale e umano.
20. Nel primo capitolo, in cui si tratta dell’amore del prossimo, viene sottolineata la piena
coincidenza evangelica tra giustizia e carità, purché si comprenda che la giustizia racchiusa nelle
parole di Gesù, «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare», è cosa radicalmente diversa dalla
semplice giustizia naturale, di cui si dà un esempio citando il racconto che, ne La guerra del
Peloponneso, Tucidide fa del rifiuto opposto dagli ateniesi all’invocazione di pietà da parte dei meli.
La giustizia naturale è quella che, non per ragioni contingenti, ma per un suo limite costitutivo, resta
sottomessa alla legge del più forte e, perciò, non è in grado di suscitare compassione in chi è
vincitore né gratitudine in chi è sconfitto. Solo il comandamento nuovo di Cristo, l’amore verso tutti,
anche verso i nemici, ha in sé la forza soprannaturale che elimina la distanza tra giustizia e carità:
«Solo l’identificazione assoluta della giustizia e dell’amore rende possibile al tempo stesso da una
parte la compassione e la gratitudine, d’altra parte il rispetto della dignità della sventura negli
sventurati, per se stesso e per gli altri» (Formes de l’amour implicite de Dieu, cit., p. 287).
21. Sull’ineluttabile azione disgregatrice delle illusioni che il tempo compie nelle nostre vite,
Simone Weil riflette anche in altri testi, con un amaro disincanto che richiama alla mente accenti
leopardiani: «L’avvenire è fatto della stessa sostanza del presente. […] Se si soffre per la malattia, per
la miseria, per la sventura, si crede che, il giorno in cui questa sofferenza avrà fine, si sarà felici. Ma,
anche in questo caso, si sa che ciò è falso; perché nel momento in cui ci si è abituati alla cessazione
del dolore si comincia a desiderare un’altra cosa. […] Non bisogna mai confondere il bisogno con il
bene. Ci sono moltissime cose di cui si crede di aver bisogno per vivere. Spesso è falso, perché si
potrebbe sopravvivere alla loro perdita. Ma anche se è vero, se la loro perdita può far morire o
almeno distruggere l’energia vitale, non per questo esse sono dei beni. Infatti nessuno è soddisfatto a
lungo di vivere puramente e semplicemente. Si desidera sempre qualcosa d’altro. Si vuole vivere in
funzione di qualche altra cosa. Basta non ingannare se stessi per sapere che non vi è nulla quaggiù
per cui si possa vivere. Basta rappresentarsi tutti quei desideri soddisfatti. Dopo qualche tempo, si
sarebbe di nuovo scontenti. Si desidererebbe dell’altro, e si sarebbe infelici di non sapere ciò che si
vuole» (Pensées sans ordre concernant l’amour de Dieu, fine aprile 1942, ora in OC IV 1, pp. 280-
284).
22. Questa osservazione allude, chiaramente, a Joë Bousquet che faceva uso di stupefacenti,
come diciamo sia nella Parte Prima che nelle note di commento alle lettere.
23. «Ma sento che in tutto questo dovrò morire». Nel lamento di Arnolfo si esprime quella
gelosia possessiva che finisce per consumare le energie vitali di un individuo esponendolo al rischio
della morte. Cfr. Molière, La scuola delle donne, atto IV, scena I.
24. Si tratta del protagonista de L’avaro di Molière.
25. Sulla distanza tra il Bene e la necessità, cfr. Platone, Repubblica VI, p. 493 C. Questa
citazione ricorre più volte anche nei Quaderni, segno dell’importanza attribuitale da Simone Weil.
26. Qui il termine necessità che, nell’accezione greca di ananke, è assolutamente centrale nel suo
pensiero, assume il significato più specificamente psicologico di dipendenza. Allude, infatti, a una
condizione psichica di progressivo logoramento della libertà interiore, con il conseguente rischio di
soggiacere alla volontà dell’altro sentita come un assoluto, e perciò concepita in forma idolatrica:
condizione da cui l’uomo esce impoverito spiritualmente e deprivato della propria dignità. Lo stesso
processo può avvenire in senso contrario, quando l’io impone se stesso al tu, alimentando in lui una
forma altrettanto idolatrica di attaccamento. L’esito è sempre e comunque non solo il fallimento della
relazione tra i due, ma la perdita dell’armonia interiore in ciascuno di loro.
27. Simone Weil esprime più volte la convinzione che la dimensione oblativa dell’amore non
debba mai compromettere il valore irrinunciabile della «libera disposizione di sé». Può essere però
utile precisare che la sua concezione della libertà si colloca a una distanza siderale dall’esaltazione
esasperata del principio di autoaffermazione dell’io che la cultura occidentale rivendica come diritto
inalienabile. Ciò a cui si riferisce è l’autonomia dell’intelligenza, fondamento irrinunciabile nella
ricerca della verità. Del resto, che questa convinzione non sia frutto di rigore ideologico né di
orgoglio, ma di un dilemma vissuto in prima persona, è dimostrato dalla dolorosa scelta di «restare
sulla soglia» della Chiesa cattolica. Pur desiderando più di ogni altra cosa il contatto sacramentale col
Cristo, se ne priva rinunciando al battesimo e decidendo di mantenersi al di fuori dell’istituzione
ecclesiale, proprio per non abdicare alla «libera disposizione di sé». Cfr. la Lettera V, indirizzata a
Solange, in AD*, pp. 40-47.
28. Per un processo naturale i figli tendono a staccarsi dai genitori, a uscire dalla dipendenza, a
rivendicare la libera disposizione di sé. Perciò rifuggono da quella cristallizzazione del legame
affettivo alla quale i genitori spesso si abbarbicano, timorosi di vedere esaurita la funzione protettiva
verso la prole e, quindi, messo in crisi il proprio ruolo. Nei legami fraterni, generalmente,
l’evoluzione delle personalità porta a una differenziazione delle esperienze e, quindi, a una graduale
trasformazione del rapporto che, nei casi migliori, esce dalla dimensione infantile, incentrata sul
nesso rivalità/attaccamento, e tende a stabilizzarsi in forme adulte di sostegno e di condivisione di
ricordi.
29. Qui simpatia è proprio da intendersi nel significato etimologico del sun-pathein, del sentire
insieme, del condividere valori, gusti, prospettive, progetti, insomma tutto ciò che rientra, in modo
naturale, nello spazio dell’affinità.
30. Nella relazione che ciascuno di noi ha con il tempo particolare della propria esistenza si gioca
il nostro destino di creature. Il tempo è la grande occasione che ci è offerta: possiamo permettere che
la distrazione e l’impazienza lo brucino, divorati come siamo dall’ansia di consumarlo o dalla pretesa
di tenerlo sotto controllo, e possiamo invece viverlo veramente, trasformando ogni attimo in uno
spiraglio sull’infinito. Molto spesso la nostra miseria spirituale ci preclude questa possibilità. In tal
caso, viene meno qualsiasi possibilità d’incontro con Dio: «Dio e l’umanità sono come un amante e
una amante che si sono sbagliati circa il luogo dell’appuntamento. Ciascuno è lì prima dell’ora, ma
sono in due posti diversi, e aspettano, aspettano, aspettano. Lui è in piedi, immobile, inchiodato al
posto per la perennità dei tempi. Lei è distratta e impaziente. Sventurata se ne ha abbastanza e se ne
va! Perché i due punti in cui si trovano sono lo stesso punto nella quarta dimensione…» (Q IV, p.
178).
31. Basti pensare alla pratica, in passato molto diffusa anche nella società occidentale, dei
«matrimoni combinati», frutto di mera convenienza economica tra famiglie. Ma si pensi anche a tutte
le circostanze, frequenti ai nostri giorni, in cui i legami di ogni tipo tra individui sono determinati o
dal bisogno di riconoscimento del prestigio personale o dalla disponibilità ad asservirsi a un altro
uomo, per ricavarne dei benefici.
32. Per Simone Weil l’immaginazione è una conoscenza ingannevole, da cui è sedotta la parte
inferiore dell’anima, che si nutre di idoli da essa stessa fabbricati. Quando ciò accade, l’uomo non
vive ma sogna e, da questo letargo dell’intelletto, può liberarsi solo grazie a uno sforzo eroico
dell’attenzione, che è la risorsa spirituale che apre l’intelligenza al soprannaturale. Se però si cade
nella sventura, diventa quasi sempre impossibile rinunciare alla menzogna come antidoto contro
l’angoscia: «Il pensiero posto dalla costrizione delle circostanze al cospetto della sventura fugge nella
menzogna con la prontezza dell’animale minacciato di morte e davanti al quale si apre un rifugio.
Talvolta, nel suo terrore, sprofonda sempre più nella menzogna; perciò capita spesso che quelli che
sono o sono stati in una condizione di sventura, abbiano contratto la menzogna come un vizio, al
punto talvolta da aver smarrito in tutte le cose il senso stesso della verità» (L’amour de Dieu et le
malheur, in OC IV 1, p. 364). Questo saggio sull’amore di Dio, parzialmente pubblicato in Attente de
Dieu, ristabilito nella sua integralità, è ora ripreso nel volume da cui citiamo. Il lettore, comunque,
può leggerlo anche nella nuova traduzione italiana che, nell’appendice agli scritti, riporta la prima
versione della parte mancante: cfr. L’amore di Dio e la sventura, in AD*, pp. 171-189 e pp. 234-257.
33. Che la sventura si possa convertire in esperienza purificatrice è convinzione più volte
espressa da Simone Weil, la cui fonte va ricercata nei tragici e, in particolare, nel
(la conoscenza attraverso il dolore) di Eschilo. Questo processo di
purificazione, che non solo rende l’uomo consapevole della sua finitezza, ma crea in lui un’apertura
al soprannaturale, richiede però un prezzo di dolore che solo pochi esseri umani sono pronti a pagare:
«Non è facile come si crede, perché la crescita del seme dentro di noi è dolorosa. Inoltre, proprio
perché accettiamo questa crescita, non possiamo fare a meno di distruggere ciò che l’ha generata, di
strappare le erbe cattive, di tagliare la gramigna; e purtroppo questa gramigna fa parte della nostra
stessa carne e perciò le cure del giardiniere sono un’operazione violenta» (L’amour de Dieu et le
malheur, cit., p. 358).
34. Il riferimento è alla tragedia Andromaca, dove Pilade e Oreste sono complici più che amici.
35. Sull’attaccamento che si crea tra la parte mediocre dell’anima e i desideri e i piaceri, Simone
Weil riflette anche in altri scritti dello stesso periodo, convinta che sia proprio la nostra mediocrità
spirituale a impedirci di compiere quella rinuncia alla centralità dell’io che apre all’esperienza del
Bene. Per l’uomo, è molto più facile aggrapparsi agli idoli, che possono essere di natura sociale,
come il benessere, il prestigio e l’esercizio del potere, o legati alla sensibilità soggettiva, come il
piacere e il dolore: «Falsi dèi che chiamiamo Dio», di cui crediamo erroneamente di non saper fare a
meno e dei quali, proprio per questo, diventiamo volontariamente schiavi. (cfr. Réflexions sans ordre
sur l’amour de Dieu, fine aprile 1942, ora in OC IV 1, pp. 272-279).
36. Riemerge, in queste parole, la memoria di un amore unitivo possibile solo nella visitazione
del tutto inattesa da parte del Cristo, esperienza da lei vissuta e tenuta pudicamente sotto silenzio
quasi con tutti. Va però sottolineata anche l’ispirazione platonica di questi pensieri, ancor più
esplicita in un altro scritto dello stesso periodo, in cui vi è un’accurata analisi del discorso di
Aristofane, nel Simposio, sul mito dell’androgino originario. Simone Weil commenta: «La nostra
vocazione è l’unità. La nostra sventura è di essere in una condizione di dualità, sventura dovuta a una
macchia originaria di orgoglio e di ingiustizia. La divisione dei sessi non è che un’immagine
sensibile di questo stato di dualità che è la nostra tara essenziale, e l’unione carnale è una falsa
apparenza di rimedio. […] L’unità è lo stato in cui il soggetto e l’oggetto sono una sola e medesima
cosa, lo stato di colui che conosce se stesso e ama se stesso. Ma Dio solo è così e noi possiamo
divenire così solo grazie all’assimilazione a Dio operata dall’amore di Dio» (Intuitions
préchétiennes, in OC IV 2, p. 185).
37. Qui è evidente che l’analisi dell’affettività che Simone Weil sta compiendo non è né astratta
né ingenuamente idealistica. Sa bene che qualunque legame, per la finitezza costitutiva della
condizione umana, è gravato da una parte inevitabile di pesantezza. Per liberarsene, dovrebbe
affrancarsi dalla sua peculiarità di esperienza finita e diventare una realtà soprannaturale. Ma questo è
umanamente impossibile, per cui la scelta di trasformare un rapporto di amore in amicizia non
esprime una fuga da emozioni sentite come portatrici di errore e di pericolo, ma costituisce una tappa
essenziale in un cammino di purificazione che, passando attraverso la forza dell’eros, risale per gradi
verso forme di maggior spiritualità che dovranno poi incarnarsi in nuove esperienze di vita, in un
ritmo circolare potenzialmente infinito.
38. Si tratta di una forma di universalismo incarnato che, assumendo come centrale la
dimensione dell’amore, supera l’astrattezza priva di pathos del filantropismo di matrice illuministica,
e quindi anche la dimensione esclusivamente morale dell’imperativo categorico kantiano. Solo un
atto di amore autentico consente, almeno in potenza, il pieno calarsi dell’universale nel particolare.
39. In Forme dell’amore implicito di Dio, nelle pagine dedicate all’amore per l’ordine del mondo,
la salvezza è additata nella capacità, da parte dell’uomo, di decentrarsi, ovvero di rinunciare al
proprio punto di vista parziale sulla realtà. Si rimanda alla suggestiva immagine citata nella nota 26.
40. Si tenga presente che, in questo ambito di discorso, l’uso del termine illegittimo per
qualificare un certo tipo di amore non ha alcuna connotazione moralistica, ma sta a indicare un
orientamento spirituale distorto che impedisce di trasformare il sentimento amoroso in esperienza di
liberazione interiore. Del resto, già in Platone vi è un’accezione simile dello stesso termine: «E per
l’ordine e l’armonia dell’anima la parola giusta è “legittimità” e “legge”: di qui derivano gli uomini
osservanti della legge e dei costumi ordinati. E in questo consiste la giustizia e la temperanza”»
(Platone, Gorgia, 504 d, cit., p. 912).
41. Simone Weil, sapendo che il suo ideale di amicizia è tanto vicino alla perfezione da rasentare
l’impossibile, ricorre a un linguaggio estremo, venato di manicheismo, che le consente di disegnare
una sorta di idealtipo dell’amore: un principio regolativo che ha il compito di illuminare un percorso
di ricerca, senza alcuna illusione che sia facile raggiungere la meta.
42. La scuola delle donne di Molière e Fedra di Racine sono ripetutamente evocate non perché
contengano l’ideale dell’amore puro, che Simone Weil tenta di descrivere, ma perché in esse, come
dice altrove, la miseria umana è messa a nudo proprio in relazione all’amore.
43. Qui è posto in evidenza, con la forza del riferimento agli apostoli, il rischio insito nel vivere
l’amicizia come esperienza esclusivamente sentimentale. Alla radice, vi è la pretesa di possedere già,
a un livello solo emozionale, ciò che dovrebbe essere frutto di un lungo percorso di conoscenza e di
trasformazione. Il brusco risveglio da quest’illusione produce la metamorfosi immediata dell’amore
nel suo esatto contrario, l’odio. La modalità violenta che ai nostri giorni caratterizza molte rotture di
legami potrebbe trovare una chiave di lettura convincente in queste riflessioni sulle quali, peraltro,
tornano anche altri scritti: «Bisogna solo sapere che l’amore è un orientamento non uno stato
d’animo. Se lo si ignora, si cade nella disperazione al primo colpo di sventura» (L’amour de Dieu et
le malheur, in OC IV 2, p. 359).
44. Come spesso le avviene, Simone Weil cita a memoria, e adatta, il testo evangelico: in questo
caso si tratta di Matteo 18,15.
45. Sul mistero trinitario come immagine pura dell’amicizia torna, significativamente, anche in
un altro testo: «Se si interpreta la definizione dell’amicizia come un’uguaglianza perfetta di armonia
secondo la definizione dell’armonia come il pensiero comune dei pensanti separati, è la Trinità stessa
l’amicizia per eccellenza.[…] La formula: “L’amicizia è un’uguaglianza fatta di armonia” racchiude
in sé, d’altra parte, le due relazioni nella Trinità indicate da sant’Agostino, uguaglianza e
connessione. La Trinità è la suprema armonia e la suprema amicizia» (Intuitions préchrétiennes, in
OC IV 2, pp. 263-264). Va precisato che la concezione trinitaria dell’amicizia sviluppata da Simone
Weil appare fortemente debitrice sia nei confronti del pensiero di sant’Ambrogio che di
sant’Agostino, benché le citazioni agostiniane, nei Quaderni, siano piuttosto esigue e denotino una
ridotta frequentazione dei suoi testi, dovuta a una scarsa consonanza spirituale che, talvolta, è
sfociata in critiche severe su alcuni punti specifici. Tuttavia, anche attraverso la lettura degli scritti di
padre Perrin sull’amore trinitario, si era quasi inconsapevolmente impregnata di immagini e di
concetti teologici agostiniani, che sono poi confluiti in testi come quello che stiamo leggendo, senza
che la fonte effettiva di molte sue idee venisse esplicitamente riconosciuta. Per un’informazione
sintetica, ma molto precisa e accurata sulla riflessione patristica, e in particolare agostiniana, sul tema
dell’amicizia, si rimanda di nuovo a Luigi Pizzolato, cit., pp. 216-338.
46. È di rara forza espressiva questa metafora euclidea delle rette parallele destinate a persistere
all’infinito in un’armonia a cui è indispensabile la separazione, che consente la contemplazione a
distanza. Il punto d’incontro, dunque, si sposta all’infinito: una visione nella quale la consapevolezza
tragica dei limiti dell’umano fa tutt’uno con l’apertura al soprannaturale come possibilità
escatologica che solo la fede lascia intravedere.
Simone Weil (1909-1943)
Preludio
PARTE PRIMA
Marsiglia. La stagione delle amicizie
PARTE SECONDA
Le lettere agli amici prigionieri
PARTE TERZA
L’amicizia
Amicizia
Abbreviazioni e bibliografia
Note
Simone Weil (1909-1943)
I curatori