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Le Navi

Prima edizione digitale 2017


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ISBN: 9788868266820
Simone Weil

L’AMICIZIA PURA

A cura di Domenico Canciani e Maria Antonietta Vito


Agli amici di Simone Weil
nei quali il seme del suo pensiero
continua a portare frutti
Preludio

Questo libro nasce da una constatazione cui è difficile sottrarsi quando


la lettura di Simone Weil diventa pane quotidiano: non ci si può non
accorgere che in lei pensare e agire sono una sola e unica cosa. Ciò dipende
dalla rigorosa coerenza etica che, nella sua esistenza, ha sempre legato le
conquiste dell’intelletto alle scelte di vita. Ma è possibile anche leggervi il
sigillo della sua fraternità spirituale con i pensatori del mondo classico,
della Grecia soprattutto, per i quali l’ideale della sapienza si traduce in uno
stile di vita ben più che in una ricerca intellettuale e nutre un sapere che è,
anzitutto, sapere per la vita. In questo senso, Simone Weil, nel mondo
moderno, ci appare come la custode fedele di un’armonia perduta, aliena da
ogni appartenenza, estranea ad ogni consorteria, spesso isolata, a tratti
dimenticata, talvolta fraintesa.
Il modo in cui è costruito il libro è coerente con questa nostra
convinzione. Avendo individuato nel tema dell’amicizia una delle chiavi di
lettura più preziose per portare alla luce quel nesso tra pensiero e vita di cui
si è detto, abbiamo tentato di ripercorrerne lo sviluppo attraverso una sorta
di partitura in tre tempi scandita secondo quest’ordine: il primo dispiega, in
tutta la sua ampiezza, il racconto delle grandi amicizie che illuminano di
una luce particolare gli anni di Marsiglia; il secondo seleziona, nel ricco
epistolario di Simone Weil, le lettere scambiate con il poeta Joë Bousquet e
quelle inviate ad Antonio Atarés ed esse entrano nella partitura con le loro
diverse sonorità, una più intensamente patetica, l’altra più lieve; il terzo
tempo, infine, offre al lettore la traduzione commentata di uno straordinario
testo sull’amicizia, vera perla di meditazione, che Simone Weil affidò alle
mani di padre Perrin prima di lasciare per sempre la Francia.
Tra i molteplici e significativi incontri di cui si arricchì il suo soggiorno
a Marsiglia, abbiamo cercato di mettere in luce quelle conoscenze umane
che più di altre, intrecciandosi in modi per certi versi misteriosi al suo
destino, vi hanno impresso un segno indelebile, intervenendo con modalità
diverse ma ugualmente significative nel suo itinerario di chiarificazione
spirituale che, proprio in quegli anni, giunse al culmine dando vita a una
messe di scritti straordinari per il numero e per l’elevata qualità del
pensiero. Avendo avuto queste amicizie una forte connotazione intellettuale,
alimentata da una comune e intensa percezione della grave deriva di civiltà
verso cui la Francia e l’Europa stavano precipitando, abbiamo considerato
utile ricostruire, sia pur sinteticamente, il fervore culturale che animava
l’attività di ricerca culturale che a Marsiglia faceva capo alla rivista
«Cahiers du Sud», di cui Simone Weil divenne presto una preziosa
collaboratrice. Ci è poi parso particolarmente interessante soffermarci sugli
articoli da lei dedicati all’agonia della civiltà occitana, perché ci sembra di
poter individuare una precisa, anche se non immediatamente visibile,
analogia tra la concezione personale dell’amicizia, che in quegli anni viveva
ed elaborava teoricamente, e la sua convinzione che alla radice della
straordinaria fioritura di quella civiltà vi fosse un miracoloso equilibrio tra
giustizia e amore, dovuto a un incontro pienamente realizzato tra pensiero
greco e messaggio evangelico. Del resto, è fondato rintracciare, alla radice
di quest’analogia, la frequentazione quotidiana che da tempo intratteneva
con i dialoghi platonici, soprattutto la Repubblica, dove emerge
chiaramente che «i motivi e i modi che fanno sapiente una Città, fanno
nello stesso tempo sapiente anche il singolo cittadino».
I mesi della pausa forzata a Marsiglia sono stati per lei un tempo di
studio e di operosa dedizione alla scrittura, ma anche una stagione feconda
e tormentata di impegno nella resistenza al nazismo, di progetti generosi,
come la «formazione di un corpo di infermiere di prima linea», e soprattutto
di incontri umani che, ciascuno nella sua specificità, le offrivano
l’occasione di incarnare, nella quotidianità, un ideale di amicizia che si
esprime in un amore che «non fa e non subisce ingiustizia», l’unico al quale
aspirasse, l’unico che le fosse profondamente congeniale. La seconda parte
del testo, come si è detto, mette il lettore a contatto con le lettere scambiate
tra lei e due degli uomini conosciuti durante il periodo del soggiorno
marsigliese. Le abbiamo scelte, fra le molte inviate ad altri amici, tutte
ugualmente preziose, perché ci è sembrato che le relazioni con Atarés e
Bousquet, vissute esclusivamente attraverso la parola, abbiano tra loro
un’analogia profonda che può renderle particolarmente interessanti al
lettore. Anzitutto, le accomuna la distanza: assoluta con l’amico spagnolo,
la cui detenzione in un luogo lontano impediva qualsiasi contatto, e limitata
con il poeta, dopo il breve, folgorante incontro nella casa di Carcassonne.
Entrambi i prigionieri – inchiodato al suo letto il poeta ferito, rinchiuso in
un campo l’anarchico aragonese – non potevano che apparirle come
incarnazione di quella sventura che, negli uomini più illuminati, non
compromette le virtù morali ma tempra in profondità lo spirito. Sia nell’una
che nell’altra amicizia la distanza fisica, da fonte di sofferenza, si converte
per lei in occasione per sviluppare un’intuizione squisitamente femminile
dei tratti psicologici e delle risorse spirituali di entrambi questi uomini, che
si rivela davvero sorprendente.
Convinta, anche filosoficamente, che il distacco sia la condizione ideale
per conoscere in modo più limpido le verità non immediatamente visibili,
Simone Weil trae da questi rapporti non solo un grande nutrimento
spirituale, ma la conferma di una certezza che l’esperienza mistica, vissuta e
custodita in scrupoloso silenzio, aveva fatto maturare in lei: che solo con
Dio è possibile avere un’esperienza di amore pienamente unitiva. Le altre
amicizie, quelle terrene, quando sono autentiche – è raro che lo siano – sono
per noi come l’olio delle vergini del Vangelo: la loro destinazione si rivelerà
soltanto dopo una lunga attesa, quando finalmente giungerà lo sposo.

Domenico Canciani e Maria Antonietta Vito


Padova, 12 ottobre 2013
PARTE PRIMA

Marsiglia, la stagione delle amicizie

L’amicizia è per me un bene incomparabile,


senza misura, una sorgente di vita,
non in senso metaforico ma letterale.
SIMONE WEIL, 1942
Dalla nave che si appresta a fare scalo a Casablanca, prima di
proseguire per l’America, Simone Weil scrive agli amici appena lasciati a
Marsiglia parole colme di sentimenti contrastanti, intrise di nostalgia, di
struggente lacerazione. Sigilla, con lettere destinate a restare memorabili, il
rapporto privilegiato stretto con il padre Joseph-Marie Perrin, con Gustave
Thibon, Joë Bousquet e Antonio Atarés, amici capaci di vera attenzione ai
quali ha fatto le confidenze più segrete e affidato i pensieri venuti, per
grazia, a posarsi in lei.
Di aver trovato nella città mediterranea un rifugio, una patria dello
spirito in tempo di guerra, era già consapevole dopo meno di un anno di
permanenza, quando annotava sul libro d’oro della piccola Françoise, figlia
dei coniugi Ballard, queste parole: «Perché i suoi genitori conservino una
traccia del passaggio di qualcuno che per merito loro si sentiva bene a
Marsiglia, quando tanta gente vi si sentiva esiliata»1.
Senza sottrarsi alla tragedia della guerra, a Marsiglia e nel sud della
Francia ha vissuto un periodo di tregua, di serenità pensosa, di straordinaria
creatività, un arresto del tempo che le ha permesso di fruire dei giorni con
maggior pienezza2, prima di avviarsi a realizzare la vocazione che le
imponeva di assumere su di sé una parte di sventura conforme al dramma
del momento. Lì ha ritrovato vecchi amici e ha stretto nuove amicizie,
decisive per la sua evoluzione spirituale; lì ha realizzato, almeno in parte,
con una radicalità purificata dalle asprezze giovanili, un ideale di amicizia
su cui aveva preso a riflettere già nel primo Quaderno, redatto a Parigi nel
1934:

È una colpa desiderare di essere capiti prima di aver chiarito se stessi ai propri occhi –
significa cercare dei piaceri nell’amicizia, e non meritati – è qualcosa di più corruttore
anche dell’amore. Venderesti la tua anima per l’amicizia3…
Impara a respingere l’amicizia, o piuttosto il sogno dell’amicizia. Desiderare l’amicizia è
una colpa grave. L’amicizia deve essere una gioia gratuita, come quelle che dona l’arte, o la
vita (come le gioie estetiche). Occorre rifiutarla per essere degni di riceverla: essa
appartiene all’ordine della grazia […]. È fra le cose che sono «date in sovrappiù». Ogni
sogno di amicizia merita di essere infranto. [Non è per caso che tu non sei mai stata
amata…]. Desiderare di sfuggire alla solitudine è una debolezza. L’amicizia non deve
guarire le pene della solitudine, ma duplicarne le gioie. L’amicizia non si cerca, non si
sogna, non si desidera; si esercita (è una virtù).
O piuttosto (poiché non bisogna sfrondare in se stessi con troppo rigore) tutto ciò che,
nell’amicizia, non si trasforma in scambi effettivi deve trasformarsi in pensieri riflessi. È
del tutto inutile rinunciare alla virtù ispiratrice dell’amicizia. Ciò che deve essere
severamente interdetto è fantasticare sui piaceri del sentimento. È una corruzione. […]
L’amicizia non ammette di essere disgiunta dalla realtà, non più che il bello. Essa
costituisce un miracolo, come il bello. E il miracolo consiste semplicemente nel fatto che
essa esiste4.

Ci troviamo, come si vede, di fronte a un nucleo di idee di straordinaria


lucidità. Vi è l’intuizione che l’amicizia sia pura gratuità, dono, evento che
irrompe nell’esistenza con la stessa misteriosa forza rigeneratrice della
bellezza. Essa non va vista come antidoto alla solitudine, che deve invece
essere vissuta come sorgente di ricchezza interiore, come apertura alla
contemplazione. Ma l’amicizia andrebbe soprattutto affrancata dal domino
dell’immaginazione, della fantasticheria, del desiderio: disposizioni
d’animo che spingono all’illusione di dominare la realtà soggiogandola ai
propri bisogni, in cui si esprime un sogno di potenza che impedisce di
praticare la virtù purificatrice del distacco.
Vi sono già, in nuce, alcuni dei grandi temi che giungeranno a
maturazione proprio negli anni di Marsiglia, in quella sosta forzata nella
città degli esuli dove era naturale vivere il tempo come attesa, come
sospensione, ma anche come contemplazione compassionevole delle
sofferenze dei propri simili, ancor più visibili in quel «porto di mare» in cui
transitavano e si intrecciavano i destini di tanti sradicati, strappati alle
proprie sicurezze dalla violenza della guerra, delle discriminazioni, degli
odi. Forse non vi era posto migliore per riflettere sull’amicizia, non
astrattamente ma vivendola, spendendovi le proprie energie e scontandone
tutte le contraddizioni, in una vibrante atmosfera di incontri, collaborazioni,
condivisione di difficoltà, di problemi, di idee e di progetti.

I «Cahiers du Sud».
Avamposto mediterraneo in tempo di guerra

Partita precipitosamente in direzione di Nevers, il 13 giugno 1940,


Simone Weil giunge a Marsiglia il 15 settembre dopo aver sostato, per
qualche tempo, a Vichy e a Tolosa. Fino all’ultimo, ha resistito a tutte le
pressioni, incapace di abbandonare Parigi, la città appassionatamente amata,
nel momento in cui andava misurandosi con l’estremo oltraggio
dell’occupazione nemica.
Marsiglia le appare «piuttosto lugubre a causa dei numerosi postulanti o
detentori di visti che vi si trovano bloccati come mosche nel fondo di una
bottiglia»5. Nella città cosmopolita che in apparenza mostra il volto vivace
e chiassoso di sempre, «la tragedia dell’esilio si percepisce ovunque,
annamiti, neri, arabi, stranieri, tutti finiti qui, aspettano…»6. In breve
tempo, infatti, politici e funzionari indesiderati, artisti, scrittori, intellettuali
in disgrazia, rifugiati tedeschi, ebrei in fuga hanno raggiunto Marsiglia,
l’hanno presa d’assalto cercando lì qualche appoggio in vista di
un’eventuale via di fuga, o soggiornandovi in clandestinità, in attesa di
tempi migliori.
Verso la fine di settembre, qualche settimana dopo il suo arrivo nella
città, sale le scale di un vecchio immobile, al numero 10 del Cours du
Vieux-Port, dove, in quattro stanze malandate dell’ultimo piano, adattate a
centro di accoglienza, ha sede la redazione dei «Cahiers du Sud». Qui, dal
1940 al 1942, oltre ai collaboratori fissi della rivista, alcuni dei quali presto
diventeranno suoi amici, passeranno numerosi scrittori, intellettuali e
uomini di cultura: Benjamin Crémieux, Walter Benjamin, André Breton,
André Masson, René e Vera Daumal, Marcel Abraham, Lanza del Vasto7…

Rivista di poesia, di critica e di filosofia, i «Cahiers du Sud» si nutrono


dell’humus meridionale senza mai chiudersi in un gretto regionalismo, ma
riuscendo a interpretare e a tradurre, con sensibilità e rigore, le intuizioni
originarie della civiltà mediterranea e della grande stagione occitana. Nella
rivista, Jean Ballard8 è riuscito a far coabitare due diverse sensibilità
culturali: l’ispirazione propriamente mediterranea del gruppo marsigliese
(Gabriel Bertin, Léon-Gabriel Gros, Henri Fluchère e Jean Tortel) e la
spiritualità di ascendenza catara, propria a quello di Carcassonne (Joë
Bousquet, Claude Estève, René Nelli, Ferdinand Alquié, Henri Féraud,
Pierre e Maria Sire, Franz Molino). A Carcassone, nella camera dalle
imposte sempre chiuse di Joë Bousquet, meta di pellegrinaggi dell’amicizia,
si recherà anche Simone Weil, e lì avrà una straordinaria occasione di
incontro, in un luogo dove «tutto il rumore degli stupidi, tutta l’orgogliosa
bassezza del tempo avevano il loro contrappeso di silenzio e di pensiero, ciò
che rincuorava appieno lo spirito di coloro per i quali il numero non conta
se il valore scompare»9.
I «Cahiers du Sud» potevano nascere solo a Marsiglia, «città abituata a
veder transitare sia le correnti provenienti dalla capitale che i messaggi di
un Mediterraneo sentito come patria spirituale»10. Il Mediterraneo è mare
che unisce: le civiltà fiorite sulle sue rive condividono una stessa sensibilità
e un’analoga visione del mondo, un rapporto particolare con lo spazio, con
abitudini di vita, forme di religiosità e valori di tolleranza mai del tutto
scomparsi.
Col tempo, la rivista era riuscita ad accumulare un ricco patrimonio di
idee inspirate a un umanesimo etico in cui erano confluite la filosofia greca,
le religioni misteriche e la tradizione dei monoteismi. Prendendo le distanze
dal «genio latino», esaltato dal regime di Vichy, i «Cahiers du Sud»
prediligevano la «fonte greca» che, se per un verso aveva eletto l’uomo a
misura e coscienza di tutte le cose, per l’altro, come testimoniano le sue
tragedie e i suoi poemi, ne aveva coraggiosamente smascherato l’hybris, la
dismisura, la cecità di fronte ai propri limiti. Alcuni numeri speciali della
rivista, dedicati proprio a questi temi11, sono certamente arrivati tra le mani
di Simone Weil, attratta dalla saggezza antica e pronta, in questa fase del
suo itinerario intellettuale, ad aderirvi anche spiritualmente. Come nei primi
anni di militanza politica «La Révolution prolétarienne» le aveva fornito le
basi documentarie per una critica tempestiva dello stalinismo, allo stesso
modo ora trova nei «Cahiers du Sud» lo stimolo per approfondire la
riflessione sulle radici greche della cultura occidentale e offrire agli amici
alcuni scritti di prim’ordine, capaci di interpretare, superandolo, l’orizzonte
delle loro stesse ricerche12.

Émile Novis, «la freccia che sale più alta delle nubi…»

Progettato fin dal 1935 e affidato alle cure di Joë Bousquet e René Nelli,
il numero monografico intitolato Le génie d’oc et l’homme méditerranéen,
dedicato alla civiltà occitana, dopo una lunga e difficile gestazione, vedrà la
luce solo nel 1943 con due contributi essenziali di Simone Weil13. Il valore
di questi saggi, firmati con l’anagramma Émile Novis per sfuggire alla
censura, è nella loro capacità di rispondere a una domanda di cambiamento
radicale, fornendo solidi argomenti a chi aveva cominciato a riflettere sulla
disfatta della Francia e dell’Europa in una prospettiva etica, spirituale, e non
soltanto militare. La decisione di Ballard di coinvolgere Simone Weil nella
redazione di un numero speciale sulla civiltà occitana è contestuale alla
pubblicazione, sulla stessa rivista, del saggio L’Iliade, ou le poème de la
force14, scritto a Parigi prima della disfatta e destinato, in un primo
momento, a «La Nouvelle Revue Française» di Jean Paulhan.
Redatti in momenti diversi, il saggio sull’Iliade e i due contributi sulla
civiltà occitana sono il frutto di una stessa preoccupazione: riflettere a
fondo sulla natura della violenza che si abbatte in uguale misura sulle
vittime e sui carnefici, trascinandoli in un destino comune di sventura. Con
lo stesso sguardo di amorosa pietà e di fraterna amicizia nel dolore, è
possibile posarsi sulle vite sradicate di tanti eroi omerici, greci e troiani,
come sulle vittime della furia sterminatrice che aveva portato alla
distruzione della civiltà occitana all’inizio del Tredicesimo secolo, da parte
dei francesi venuti dal Nord: una civiltà fondata su equilibri culturali e
spirituali davvero prodigiosi.
In questa proposta di collaborazione, Simone Weil intravede
l’opportunità di salvare dall’oblio ciò che ancora resta di una civiltà
miracolosa, nella quale i rapporti umani traevano ispirazione dal senso
greco della misura e dall’amore cristiano. Nella biblioteca municipale di
Marsiglia legge, in parallelo, le due parti di cui si compone il poema epico
noto col nome di Chanson de la croisade contre les Albigeois (la Canso de
la crosada), il cui testo, nella prospettiva da lei privilegiata, le consentirà di
ricostruire lo splendore, l’agonia e la morte della civiltà occitana15.
Le considerazioni sviluppate nel saggio L’Iliade, ou le poème de la
force16 rendono plausibile e convincente il parallelo tra Tolosa, assediata
dai crociati, e Troia minacciata di distruzione dagli achei. Il poeta anonimo
della seconda parte della Canso ritrova, in modo spontaneo, gli accenti
struggenti di Omero e la purezza del suo canto17. Il suo poema è vero e,
come ogni vero capolavoro, offre un frammento di quella «grande
rivelazione» che è dato rintracciare nelle esperienze religiose autentiche.
La distruzione della civiltà occitana, di fatto, era stata terribile e totale:
le armi avevano davvero avuto il sopravvento sullo spirito, tanto che «la
concezione della libertà spirituale che allora morì non risuscitò più»18. La
lingua, equivalente della patria per le genti d’Oc, aveva ricevuto un colpo
mortale, trascinando nella rovina anche quei valori di tolleranza, di libertà,
di obbedienza, di amore, che la società occitana aveva saputo tradurre in un
equilibro prodigioso tra l’idea di valore (Prix) e quella di uguaglianza
(Parage)19.
Simone Weil si china su questa civiltà, perché in essa ritrova gli stessi
princìpi che ammira ed esalta nei greci: «Un mondo in cui gli uomini si
sentivano tra loro legati da rapporti di mutuo rispetto, di caritatevole
servizio, di franchezza, di salvaguardia dei diritti di ciascuno»20, un mondo
che, ispirandosi alla morale antica, si era sforzato di arginare l’orgoglio e la
dismisura.
I crociati, col pretesto di contrastare l’eresia catara, avevano colpito a
morte una civiltà nascente in cui circolavano valori profondamente
condivisi. Sterminati gli uomini, i princìpi che essi avevano incarnato si
erano ridotti a pura materia di erudizione. Cionondimeno, la vicenda di
Tolosa, per Simone Weil, non è un mero episodio del passato: è un
avvenimento che ci riguarda ancora, perché la distruzione di quella
particolare concezione del mondo aveva fortemente compromesso i destini
d’Europa. Dopo di allora, infatti, «l’Europa non ha mai più ritrovato allo
stesso livello la libertà spirituale perduta a causa di questa guerra»21;
inevitabilmente, la forza era diventata il marchio del potere, strumento
unico di soluzione dei conflitti tra gli uomini22.
Tuttavia, se è vero che quel che è andato distrutto non può essere
riportato artificiosamente in vita, è pur sempre possibile volgere lo sguardo
al passato, con amore, per trarne ispirazione. Le poche e splendide vestigia
della grandezza raggiunta dalla civiltà occitana nel Dodicesimo secolo – le
sculture della cattedrale di Saint-Sernin a Tolosa, gli scritti catari che
custodiscono frammenti della saggezza platonica e pitagorica, la poesia dei
trovatori con la loro dottrina di amore, la stessa Chanson23 – se contemplate
con desiderio e con attenzione, possono suscitare un’adesione sincera ai
valori in essa contenuti, favorendo, in determinate circostanze, la nascita di
una civiltà affine almeno per ispirazione.

Tra il primo e il secondo saggio trascorre quasi un anno. A fronte dei


molteplici contributi pervenuti, Jean Ballard ha la sensazione che al
Quaderno manchi un centro, un’anima, un testo capace di dare unità e
significato a tutta l’impresa. Non vorrebbe che restasse una semplice opera
di erudizione. Nelle sue intenzioni lo sforzo di riscoprire la ricchezza
culturale della stagione occitana dovrebbe rispondere alla sfida hitleriana di
un’Europa razzista, fondata sull’esaltazione e l’uso sistematico della forza,
contrapponendole un modello di civiltà nutrita di valori completamente
diversi: il rispetto, l’amicizia, l’amore. Sarà Joë Bousquet a esprimere, con
forza, quest’esigenza: il Quaderno non deve essere opera di «professori»,
non deve limitarsi a offrire la ricostruzione letteraria di un’epoca passata,
deve essere opera di poesia, e perciò fare tutt’uno con la vita, avendo come
interlocutori gli uomini viventi del proprio tempo. I tempi bui che la Francia
sta vivendo, a suo giudizio, esigono un’opera di illuminazione, in quanto è
indispensabile «dare una risposta alla verità seppellita nei fatti in vista di un
avvenire che occorre preparare»24, favorendo l’emergere di testi capaci di
mobilitare energie spirituali ancora in gestazione.
La fitta corrispondenza tra Ballard e Bousquet da un lato, e Ballard e
Nelli dall’altro, come pure il testo a più voci che conclude il Quaderno25,
documentano le difficoltà incontrate nel definire che cosa si intenda per
«essenza della civiltà occitana». Il primo scritto di Simone Weil, agile nella
forma e brillante nelle idee, come riconosce Ballard in una lettera a
Bousquet del 18 gennaio 1941, risponde già in parte a quest’esigenza, ma
ancora non è sufficiente26. Il poeta di Carcassonne, libero da altri impegni,
si mette all’opera e redige Conscience et tradition d’Oc. Fragments d’une
cosmogonie, un testo che gli costa gran fatica ed è portato a compimento
attraverso una sorta di lotta con l’angelo27.
Tuttavia, anche questi tentativi di Bousquet lasciano insoddisfatto
Ballard, al punto che tra loro si infittisce una corrispondenza in cui le
esigenze dei lettori, addotte dall’editore, si trovano a cozzare con la
consapevolezza, espressa dal poeta, di una verità che può prender forma
solo se accetta di accompagnarsi a un’inevitabile oscurità28. È questo il
contesto in cui Simone Weil, sollecitata da Ballard, si accinge a redigere il
suo secondo contributo, En quoi consiste l’inspiration occitanienne29,
finalizzato a illustrare la specificità dell’ispirazione occitana. Portato a
compimento in un solo mese, compatto, felice nella forma, denso di
contenuti, suscita l’entusiasmo di Ballard, che lo invia subito a Bousquet,
ricevendone senza indugio questo giudizio ammirato:

[…] [L’] articolo [di Novis] è proprio quello che mancava al fascicolo: la freccia che sale
più alta delle nuvole. Se ognuno saprà attingervi come ho fatto io tutti gli spunti di
meditazione, avremo compiuto un’opera davvero solida. L’idea dell’armonia dei contrari
mi sembra straordinariamente feconda. Penso che non metteremo mai abbastanza in
evidenza il suo testo. Non ve n’è alcuno che possa prendere il suo posto30.
Si tratta di un parere che depone a favore dell’onestà di Bousquet. Ritiratosi
dalla direzione del Quaderno dopo lo scambio epistolare con Ballard,
immune da qualsiasi risentimento, addita nel contributo di una giovane
sconosciuta (che però comincia a desiderare di conoscere) lo scritto che
conferisce una coerenza, un’anima, un’ispirazione unitaria a tutta l’impresa,
augurandosi che anche altri, come lui, ne traggano uno stimolo per pensieri
orientati alla vita. Bisogna tuttavia riconoscere che probabilmente Simone
Weil aveva attinto da Bousquet, chiarificandole, alcune intuizioni: prima tra
tutte, forse, l’idea del primo e vero Rinascimento conosciuto dalla Francia
tra l’Undicesimo e il Dodicesimo secolo. Nei testi del poeta aveva colto,
intuitivamente, alcuni grumi di pensiero non ancora esplicitati, riuscendo a
tradurli in maniera originale e conferendo loro forza e coerenza. È la prova
che entrambi hanno lo sguardo orientato nella stessa direzione, pur
provenendo da orizzonti tanto diversi. Per questo, tra loro nasce subito una
profonda sintonia, si instaura uno scambio felice, quasi perfetto, al punto
che si fatica – ma è poi così importante quando si ha di mira la verità? – a
discernere, tra l’uno e l’altra, chi dà e chi riceve. Il poeta di Carcassonne,
infatti, scrive:

La cultura d’Oc ha la sua filosofia, la sua poesia, il suo modo specifico di sentire, le sue
leggi di amore, la sua religione così differente dalla nostra da apparirci quasi inconcepibile;
conosce un’unica legge, la legge della salvezza, e ogni suo sforzo mira a servirla. Essa non
coltiva l’uomo, bensì la vita, con lo scopo di subordinarla all’esigenza segreta dell’anima,
pensa che la vita sia un tramite per lo spirito. La sua morale avvolge la sua estetica. Arte e
religione nella cultura d’Oc sono una sola cosa. La stessa letteratura popolare è totalmente
impregnata della sconvolgente dottrina in base alla quale il conoscere diventa la genesi del
dovere31.

Nel suo secondo contributo, Simone Weil parte dal presente, dall’Europa
sprofondata nella catastrofe e minacciata di annientamento dal nazismo.
Come sempre accade nei grandi testi, in cui la nitidezza della forma si pone
tutta a servizio del contenuto, esso è semplice, limpido, ma leggibile a più
livelli. Fornisce una descrizione degli elementi essenziali della civiltà d’Oc,
colta nel momento del suo massimo splendore, prima che la forza esercitata
dai francesi, venuti dal Nord, ne decretasse la distruzione. Tuttavia, nella
vicenda occitana e nel suo tragico epilogo, non è difficile scorgere, per
analogia, l’equivalente di ciò che minaccia l’Europa sottoposta alla brutalità
nazista32.
Chinandosi con amore sul passato di quella «patria morta», non si
pretende certo di farla rivivere ma si può, contemplandola a lungo,
attingervi un’ispirazione spirituale per il presente. E questo è possibile
perché il Mediterraneo, in cui è nata la patria occitana, ha conosciuto, in
passato, la saggezza fiorita in Egitto, in Persia, in India e in Cina, ha nutrito
nel proprio seno la «vocazione spirituale» della Grecia antica, nella quale –
come testimoniano la scienza, l’arte, l’architettura, la poesia, la religione – i
rapporti tra gli uomini, almeno idealmente, si fondavano sulla nozione di
armonia, di proporzione, di equilibrio.
Anche la civiltà occitana aveva tentato di realizzare l’equilibrio dei
contrari – sacro e profano, libertà e obbedienza, onore e dedizione –
attraverso il rifiuto della forza e facendo spazio alla legge dell’amore: un
amore puro, soprannaturale, di cui in ambito profano l’amor cortese offriva
un’immagine più o meno fedele. Questo amore, proprio come nella
concezione platonica, era un «ponte» tra la finitezza dell’uomo e la
trascendenza di Dio. La purezza e la verità, che nella società occitana
ispiravano i rapporti tra pari, ma anche quelli tra i sudditi e il signore, e tra
l’uomo e la donna, erano altresì fonte di ispirazione per l’arte, come
testimonia l’equilibrio ineguagliabile tra i diversi elementi architettonici di
una cattedrale romanica. La poesia dei trovatori, proprio come quella dei
greci, era riuscita a esprimere «il dolore con una tale purezza che al fondo
dell’amarezza senza mescolanza risplendeva la serenità perfetta»33.
L’equilibrio dei contrari aveva ispirato sia i legami personali che la vita
collettiva della città: la libertà si era nobilitata nell’obbedienza a un uomo, il
signore, rispettato non in quanto detentore della forza, ma in quanto garante
della sovrana impersonalità della legge.
È evidente che Simone Weil non chiude affatto gli occhi sulla presenza
del male anche nella società occitana del Dodicesimo secolo, e sui conflitti
che l’agitavano, ma individua nei valori su cui essa si fondava una fonte di
ispirazione universalmente condivisa, capace di contrapporsi al predominio
schiacciante della forza. Per questo fa notare:

L’essenza dell’ispirazione occitana è identica a quella dell’ispirazione greca. Essa è


costituita dalla conoscenza della forza. Questa conoscenza appartiene solo al coraggio
soprannaturale. Il coraggio soprannaturale contiene tutto ciò che noi chiamiamo coraggio e,
in più, qualcosa di infinitamente più prezioso. Ma i vili scambiano il coraggio
soprannaturale per debolezza di animo. Conoscere la forza significa riconoscerla come
pressoché assolutamente sovrana in questo mondo, e rifiutarla con disgusto e disprezzo.
Questo disprezzo è l’altra faccia della compassione per tutto ciò che è esposto ai colpi della
forza34.

E nei Quaderni, in cui annota le sue intuizioni e le sue riflessioni in vista di


un superamento della civiltà occidentale, fondata sulla forza, e perciò
inevitabilmente votata alla dominazione e alla guerra, scrive:

Oc, Grecia, civiltà senza adorazione della forza. Perché per esse la temporalità è un ponte.
E inoltre non cercano l’intensità negli stati di animo, ma amano la purezza dei sentimenti.
È puro quel che è sottratto alla forza.
L’amore era per loro puro desiderio, senza spirito di conquista. Tale è l’amore che l’uomo
ha per Dio35.

Alcuni valori della civiltà occitana erano timidamente ricomparsi, molto


tempo dopo la crociata, nel sedicente Rinascimento, ma spogliati di
quell’elemento soprannaturale che ne era stato, al tempo stesso, fonte e
coronamento. L’Umanesimo aveva, infatti, riconosciuto che «la verità, la
bellezza, la libertà, l’uguaglianza hanno un valore infinito, ma [aveva avuto
il torto] di credere che l’uomo possa procurarsele senza la grazia»36.
Come rendere nuovamente attiva, nella moderna civiltà occidentale,
l’ispirazione che era stata «la missione unica dell’uomo d’Oc»37? Come
rendere ancora possibile l’incontro tra il «miracolo greco» e il messaggio
evangelico? Con una sicurezza che può nascere solo dalla fiducia nella
forza dello spirito, Simone Weil risponde:

Nella misura in cui contempleremo la bellezza di quell’epoca con attenzione e amore, nella
stessa misura la sua ispirazione discenderà in noi e a poco a poco renderà impossibile
almeno una parte delle bassezze di cui è satura l’aria che respiriamo38.

I due saggi, in definitiva, contengono un unico e identico monito:


«Rivolgiamo il nostro sguardo verso il passato occitano, in primo luogo
perché solo uno sguardo che sa vedere con attenzione e amore può salvare,
e poi perché l’ispirazione occitana è greca nella sua essenza e quella
occorre salvare se oggi vogliamo salvarci»39.

Assumere su di sé la sventura del proprio tempo


C’è un lato, rimasto a lungo in ombra, dell’impegno di Simone Weil
durante il soggiorno a Marsiglia, sul quale vale la pena di soffermarsi per
misurare a pieno lo stretto legame che sussiste in lei tra pensiero e azione.
Esso riguarda il desiderio – assecondato da Jean Tortel40, uno dei redattori
dei «Cahiers du Sud» che per primo ne intuì la ricchezza interiore e il
tormento, descrivendola, al tempo stesso, «appartata e presente» – di
mettersi in contatto con i primi e ancora incerti tentativi di opposizione a
Hitler e al regime di Vichy.
La scoperta recente, negli Archivi giudiziari di Aix-en-Provence, di un
dossier intitolato a Simone Weil, contenente, in particolare, una Domanda
per essere ammessa in Inghilterra, i verbali degli interrogatori e alcune
lettere a lei indirizzate, testimonia tutta la serietà e la determinazione del
suo precoce coinvolgimento nella Resistenza41.
La volontà di non arrendersi dopo la sconfitta, di continuare a lottare
contro il nazismo, è immediata in lei e costituisce la traduzione pratica delle
idee espresse nel lungo saggio sulle origini dell’hitlerismo, già redatto a
Parigi al momento dello scoppio della guerra42. Un impegno personale nel
movimento di Resistenza corrisponde a quella che sentiva essere la sua
vocazione, che le imponeva di assumere su di sé la sventura della Francia.
Le prime righe della Domanda esprimono, in modo inequivocabile, la
volontà di prender parte a un’azione efficace per la causa, che non esclude,
ma accoglie preventivamente, tutta la parte di sofferenza che potrà
comportare:

Desidero ardentemente andare in Inghilterra perché auspico appassionatamente la vittoria


inglese per il bene della Francia, dell’Europa e dell’intera umanità; ma anche perché voglio
prendere parte ai pericoli e alle sofferenze della gente che lotta per una causa che considero
anche mia. Se, sventuratamente, gli inglesi dovessero essere vinti, non mi auguro di
sopravvivere a una simile disfatta; se conseguono la vittoria, desidero, prima di vedere
questa vittoria, di aver sopportato per essa una quantità di sofferenze e di pericoli uguale a
quella di coloro che ne subiscono in misura maggiore. Questo è il mio più ardente
desiderio43.

A quest’esordio fa seguito l’illustrazione di un progetto relativo ad alcuni


procedimenti, offensivi e difensivi, capaci di tener conto del valore
determinante del «fattore morale» nella conduzione della guerra. A tale
scopo propone di paracadutare «un gruppo di donne, volontarie
naturalmente, con il compito di trovarsi, in ogni momento della lotta, nei
posti più pericolosi»44. Il progetto, accompagnato da referenze relative ad
alcune personalità note al governo inglese, contiene un curriculum vitae che
ha lo scopo di avvalorare la sua candidatura a parteciparvi, qualora venga
accolto. Il testo in questione costituisce la versione abbreviata del Progetto
d’una formazione di infermiere di prima linea che, più volte rimaneggiato,
e sottoposto al vaglio di Joë Bousquet, come si vedrà più avanti, per il
tramite di Maurice Schumann, finirà senza alcun esito nelle mani dei
responsabili della propaganda di France Combattante.
Questo progetto è rivelatore di un atteggiamento costante in Simone
Weil: una volta convinta della necessità di combattere Hitler anche per
mezzo delle armi, diventava obbligatorio per lei prendere parte, non solo
moralmente, ma personalmente e attivamente, alla lotta. I continui
rimaneggiamenti cui sottopone il testo nascono sia dal progredire della
riflessione sulla natura del nazismo, sia dalla necessità di adattarlo agli
sviluppi delle operazioni belliche, evidenziandone sempre più la portata
simbolica45. Al nazismo che, con le SS, può disporre di uomini in grado di
colpire con coraggio brutale qualsiasi bersaglio prescelto – ma anche di
influire simbolicamente sull’immaginazione del nemico e sull’opinione
pubblica – contrappone l’esempio di un coraggio, altrettanto intrepido, ma
di natura radicalmente diversa. Le infermiere di prima linea, presenti nel
punto di massimo pericolo, non per uccidere ma per soccorrere i feriti e i
morenti, avrebbero dovuto offrire un esempio di abnegazione e di amore,
capace di affiancare all’uso inevitabile della forza le armi della
compassione, fino al sacrificio di sé46.
Le considerazioni contenute in questi documenti sono sorrette da una
riflessione rigorosa sulla guerra, sull’uso della violenza, sull’accettazione,
se necessario, della propria morte, di cui recano testimonianza le note
disseminate nei primi Quaderni, redatti quotidianamente a Marsiglia, in
concomitanza con la lettura dei racconti della Passione di Cristo e della
Bhagavadgītā:

Per quanto sia giusta la causa del vincitore, per quanto giusta sia la causa del vinto, il male
prodotto dalla vittoria come dalla sconfitta non è meno inevitabile. Sperare di sfuggirvi è
proibito. Per questo il Cristo non è disceso dalla croce e neppure si è ricordato, nel
momento più doloroso, che sarebbe risuscitato. Per questo l’altro (Arjuna, l’eroe della
Bhagavadgītā) non ha deposto le armi e fermato la battaglia. […]
Prendere le armi; pensare a tutto ciò che si perderà se si è vinti, e che, se si vince, si farà
perdere ad altri che si ama come se stessi. Assumere su di sé questa perdita, lasciare loro
ogni licenza, non può essere permesso. Cristo l’ha fatto, ma nella posizione di un semplice
privato condannato dalle legittime autorità. Ma se si sente il freddo del ferro, ci si limiterà,
anche a prezzo di grandi rischi, lo si deporrà non appena si sia allontanata un po’ la
minaccia47.

Con questi sentimenti intende partecipare alla tragedia contemporanea,


accettando di infliggere la propria parte di male, disposta a esporsi alla
morte per abbreviare o diminuire il peso della sventura collettiva. Non vi è
in lei – e le riflessioni contenute nei Quaderni lo confermano – alcuna
volontà suicida o morbosamente sacrificale. Vi è, questo sì, la precisa
volontà di accettare che la condivisione della sventura comporti un rischio
di morte. In questo senso, e solo in questo, la morte le appare l’unico modo
per realizzare la sua personale vocazione. Perciò, la follia che qualcuno ha
preteso di vedere nel Progetto non è stata giudicata tale da chi veramente la
conosceva, Joë Bousquet e Maurice Schumann, che ebbero modo di
comprendere più a fondo la sua maturazione interiore.
La temporanea impossibilità di realizzare il coinvolgimento totale che
auspica la convince a dare, finché è ancora a Marsiglia, un contributo non
meno importante, anche per lo stretto legame con la sua riflessione, a un
tipo di Resistenza che aveva scelto di adottare «le armi dello spirito»48.
Indirizzata da padre Perrin, già da tempo attivo in quell’ambito, il 21
dicembre 1941 Simone Weil incontra, nel parlatorio dei Domenicani, in via
Edmond Rostand, Marie-Louise David49, responsabile regionale della rete
di distribuzione dei «Cahiers du Témoignage chrétien», impegnandosi a
partecipare all’impresa fino al momento della partenza per l’America, che
sarebbe avvenuta nel maggio dell’anno successivo.
L’opposizione all’invasore nazista e al regime collaborazionista di
Vichy si era venuta organizzando in Francia per gradi. Prima di tradursi, da
parte di una minoranza, in un’azione diretta attraverso sabotaggi e attentati,
la Resistenza aveva assunto la forma della controinformazione. La stampa
clandestina, la «guerra delle parole», era diventata fondamentale
nell’informare e nel formare le coscienze. A questa consapevolezza, dopo
lo stordimento della disfatta, contribuivano gruppi di cattolici, guidati da
alcuni coraggiosi e intelligenti religiosi, gesuiti e domenicani, preoccupati
dell’acquiescenza, e perfino della connivenza con il regime, di parte della
gerarchia50. Tra le iniziative promosse in ambito cristiano, la diffusione
capillare dei «Cahiers du Témoignage chrétien» è stata di certo la più
importante, dal punto di vista culturale e spirituale, e la più efficace sotto il
profilo organizzativo51.
Simone Weil, come Malou Blum testimonia con passione, ha aderito
incondizionatamente all’impresa, accettandone la disciplina, lo spirito e i
contenuti. I tre quaderni che contribuisce a diffondere, in ragione di trecento
esemplari per numero, sono molto interessanti nella misura in cui
affrontano, in modo argomentato e inequivocabile, la questione del
razzismo e dell’antisemitismo52. Questo suo impegno è rilevante in sé,
come contributo alla Resistenza, ma anche perché le ragioni che lo
sostengono aiutano, almeno in parte, a capire come il suo sostanziale
antigiudaismo abbia potuto, paradossalmente, coesistere con una lotta
vigorosa contro ogni forma di discriminazione. Infatti, non vi è dubbio che
fosse al corrente della situazione degli ebrei e della gravità che andava
assumendo la persecuzione nei loro confronti. Con sobrio e pudico
disincanto, ai primi di settembre del 1940, ad un’alunna che le offriva
rifugio nella sua casa di campagna, aveva risposto in termini molto espliciti:

Ciò che mi scrivi, che in caso di bisogno ci sarebbe un posto alle Trouillières per la mia
famiglia e per me, mi suscita nei tuoi confronti e nei confronti dei tuoi genitori – che hai
sicuramente consultato – un sentimento di viva e profonda gratitudine. Nelle circostanze
attuali, nulla è più commovente di una proposta del genere; e il fatto stesso di ricevere tale
proposta, che la si accetti o meno, comporta lo stesso obbligo. Comunque, anche in caso di
bisogno, non credo di dover accettare53.

A sostegno del suo rifiuto, aveva addotto due ragioni: la volontà di patire,
senza privilegio di sorta, i disagi della povertà che le circostanze
imponevano agli altri e la consapevolezza del pericolo che un simile gesto
avrebbe comportato per chiunque volesse proteggere gli ebrei, nel momento
in cui un’ondata di razzismo stava per abbattersi sulla Francia. In rapporto
alla seconda ragione, precisava:

C’è una cosa alla quale, suppongo, non hai pensato. Il contagio, il prestigio della vittoria
che induce a imitare i vincitori, la pressione dei vincitori, l’esasperazione della miseria, e
diversi altri fattori apporteranno quasi sicuramente in Francia, entro breve tempo – durante
l’inverno, suppongo – una forma più o meno accentuata di razzismo. In questo caso, io mi
troverò nel novero dei paria. A conti fatti, me ne dispiace; soffrire per qualcosa che non si è
personalmente scelto e per cui non si nutre alcun attaccamento mi sembra stupido. Ma alla
fine, sta di fatto che io sarò nel novero. Non ho alcuna possibilità di sottrarmi. È in mio
potere, invece, non far subire il contagio di questa sventura a quanti non hanno avuto in
sorte dalla nascita una simile maledizione, anche e soprattutto se sono abbastanza generosi
per non temere questo contagio54.

Le osservazioni contenute in questa lettera confermano ciò che Malou Blum


ha testimoniato con sobrietà, rievocando le conversazioni avute
quotidianamente con Simone Weil nei cinque mesi di attività clandestina
vissuti insieme. Al corrente del reale pericolo in cui si trovavano gli ebrei,
non è stata certo la sua condizione di ebrea, potenzialmente minacciata, a
motivarne la partecipazione all’iniziativa dei «Cahiers du Témoignage
chrétien». D’altra parte, però, l’impegno prodigato non avrebbe potuto
reggere senza che vi fosse, da parte sua, un’accettazione incondizionata dei
contenuti e delle argomentazioni sviluppate nei quaderni da lei distribuiti, in
cui il razzismo dei nazisti era definito «una mostruosa divinizzazione del
sangue e della razza». Cionondimeno, le appariva intollerabile che
qualcuno, soprattutto una giovane come Malou David, potesse rischiare
ogni giorno la sua vita per lei. Per questa ragione, cercava di farle capire
che acconsentiva a lottare non a causa, ma malgrado l’antisemitismo.
Prendere parte a quella forma di resistenza voleva dire opporsi a un sistema
la cui perversità andava oltre il caso specifico della persecuzione degli
ebrei: un sistema che comportava il totale annientamento di quel che
rimaneva ancora della civiltà dell’Occidente e tendeva a instaurare il
governo assoluto della forza e della violenza55.

Solo gli amici sanno ascoltare.


Il dialogo esigente con Joseph-Marie Perrin e Gustave Thibon

Le attività a favore di prigionieri e internati, la collaborazione alle


riviste, gli impegni concreti per sollecitare la coscienza dei connazionali
durante l’occupazione descrivono la trama esteriore, visibile, della vita di
Simone Weil a Marsiglia56. La parte più segreta, nascosta tra le pieghe
dell’anima, solo gli amici possono, almeno parzialmente, dischiuderla. A
tempo debito, lo hanno fatto con pudore, onestà e rispetto della verità. Le
loro testimonianze, suffragate da una ricca corrispondenza, ci permettono di
misurare a pieno l’importanza che Simone Weil riconosceva all’amicizia, al
punto da sentirla come «la sorgente più possente e più pura di ispirazione».
Le lettere non possono certo restituire l’immediatezza e l’intensità delle
conversazioni tra lei e gli amici, in particolare il domenicano padre Joseph-
Marie Perrin e il filosofo contadino Gustave Thibon, ma ne custodiscono
indubbiamente la parte più pura, più cristallina. Solo la lontananza che
scava la distanza indispensabile a una comunicazione schietta, libera,
impersonale, rende possibile non soltanto lo scambio di confidenze, ma la
condivisione di pensieri nati dal «soggiorno nel fuoco dell’amore di Dio».
Dal distacco nasce il confronto sincero nella ricerca del bene che porta, se
necessario, a esprimere i giudizi severi e i consigli esigenti che solo i veri
amici, obbedendo a un’ispirazione interiore, riescono a scambiarsi.
L’incontro con il giovane domenicano Joseph-Marie Perrin57 si è
rivelato subito carico di avvenire e le ha fornito l’occasione, imprevedibile,
per la sua evoluzione spirituale. Il primo dialogo tra loro si è svolto a
Marsiglia, nel disadorno parlatorio del convento dei Domenicani, in rue
Edmond Rostand, il 7 giugno 194158. Il profondo legame sorto tra loro va
senz’altro annoverato in quella singolare sequela di amicizie che hanno
arricchito la storia spirituale dell’umanità. Nel 1941, a trentasei anni, padre
Perrin era già una figura autorevole, impegnato in ambito sociale e nel
ministero giovanile, animatore di circoli ecumenici e di gruppi di amicizia
giudeo-cristiana, in prima linea nel sostegno a iniziative volte a scuotere i
cristiani dal torpore e a restituire loro dignità e coraggio di fronte al
nazismo e alla tragedia della guerra. Quando incontra Simone Weil, ha già
dato vita, stimolato da Juliette Molland e coadiuvato da Charlotte Rivet e
Solange Baumier, a un’istituzione laica, posta sotto l’egida di Santa
Caterina da Siena, che prefigura il modello degli istituti secolari e delle
fraternità. Le sue molteplici iniziative apostoliche nascono da una sorta di
sovrabbondanza, perché il giovane domenicano è un vero uomo spirituale,
una guida, un maestro, non soltanto un uomo di Chiesa. Dentro la Chiesa si
muove a suo agio, con sovrana libertà. Questo, invece, a Simone Weil non
sarà mai possibile.
La cecità, che ha saputo trasformare in una vocazione, in un suo modo
specifico di stare nel mondo e nella Chiesa, ha favorito in lui una diuturna
familiarità con i testi sacri, in gran parte appresi a memoria e perciò
immediatamente presenti allo spirito nelle conversazioni e negli scritti
spirituali. I suoi libri, quelli già pubblicati quando incontra Simone Weil e i
successivi, non si presentano come l’opera di un erudito, ma di un uomo
spirituale, di un mistico che annuncia l’amore di Dio. Lei ha intuito
immediatamente la profondità della sua vita spirituale e, per questo, il loro
rapporto è cresciuto in fedeltà e amicizia. La stessa cosa non è avvenuta con
altri uomini di Chiesa, monaci e sacerdoti, con i quali è entrata in contatto.
Tra loro l’amicizia è fiorita entro uno spazio condiviso di amore per Dio, un
amore da cui ha tratto nutrimento il dialogo che li ha profondamente
impegnati.
Non è un caso che prima di affidare alle mani del giovane domenicano
gli scritti più belli su L’Amore di Dio e la sventura e sulle Forme
dell’amore implicito di Dio, sintesi del suo pensiero religioso, lei abbia
accolto, nelle sue, le pagine ancora dattiloscritte del Mistero della carità, il
libro nel quale egli andava trasferendo il succo dei suoi studi e delle sue
meditazioni59. Entrambi – con parole purificate, cristalline, intrise di
sventura, la giovane filosofa; con parole calde, sovrabbondanti, intrise di
gioia, il giovane religioso – parlano di quell’amore di Dio che, con modalità
diverse ma in maniera inequivocabile, li aveva ugualmente catturati.
Se il rapporto tra loro, non privo di sofferenza per entrambi, non è mai
venuto meno, è stato perché non ha assunto la forma del legame tra maestro
e discepolo, ma quella dell’amicizia autentica. Anche in seguito ai contrasti
con la famiglia Weil, emersi al momento della pubblicazione delle lettere,
padre Perrin non ha mai guardato al rapporto con lei in maniera diversa. In
una lettera scritta qualche anno prima di morire, torna col ricordo
all’incontro che ha segnato la sua vita, parlandone sempre in termini di
amicizia, un’amicizia che la morte prematura dell’amica ha reso solo più
salda e intima:

La specificità dell’amicizia è la perfetta trasparenza, la comunione totale che esclude ogni


segreto, ogni atteggiamento chiuso. Per tutti, si è un personaggio, un’immagine,
un’espressione, per l’amico si è se stessi; per questo niente è così importante, così
illuminante per conoscere qualcuno quanto le lettere all’amico. È con questo intendimento
che bisogna avvicinarsi alle lettere che Simone Weil mi ha scritto, specialmente le ultime
tre, la quarta, la quinta e la sesta, raccolte in Attente de Dieu. Il fatto che siano indirizzate a
un sacerdote non diminuisce la loro importanza poiché si tratta di vera amicizia. Le si
scoprirà dopo la mia morte.
Oggi, mi accontento di ricordare che esse sono le lettere a un amico, a qualcuno a cui si
augura tutto il bene possibile e con il quale si desidera avere la più perfetta trasparenza.
Quel che dice del contatto reale con il Cristo, della seduzione per l’Eucaristia, della sua
esperienza della Misericordia divina, sono da considerare confidenze di amici, che
esprimono realtà vissute60.

Con una sorta di ideale simmetria, queste affermazioni di padre Perrin


trovano conferma nella Lettera d’addio, inviata poco prima di salpare per
l’America, in cui Simone Weil, come in un testamento, si interroga sulla
natura del loro rapporto e sulle divergenze che ancora lo attraversano,
mantenendolo però intatto, anzi ancor più puro. Cosa ha rappresentato per
lei il religioso con il quale ha trascorso tante ore nel parlatorio del convento,
con cui ha lavorato, gomito a gomito, sui testi più belli del passato che
parlano dell’amore di Dio? Egli non le ha di certo dato il Cristo, se è vero
che, quando si sono conosciuti, il Cristo «l’aveva già presa»61, l’aveva già
trascinata con forza nella «camera nuziale» fornendole la prova
sperimentale dell’amore di Dio. Non ha favorito la sua conversione
attraverso la direzione spirituale dell’anima, perché la parola conversione le
era del tutto estranea, visto che l’amore di Dio, nella forma implicita, non
era mai stato assente dalla sua vita, fin dall’adolescenza, come si legge in
un frammento di lettera: «Sebbene mi sia accaduto tante volte di varcare
una soglia non ricordo un solo istante in cui io abbia mutato direzione»62.
Ma una cosa, certamente, ha fatto per lei padre Perrin: l’ha costretta «a
guardare in faccia – a lungo, da vicino, e con piena attenzione – la fede, i
dogmi e i sacramenti come cose verso le quali aveva obblighi che occorreva
discernere e adempiere»63. Egli non le ha amministrato il battesimo, non le
ha aperto la porta della Chiesa con l’accesso ai sacramenti, dal momento
che la sua vocazione era di restare sulla soglia, ma attraverso l’amicizia ha
indirizzato il suo sguardo verso Dio in modo permanente:

Lei ha conquistato la mia amicizia grazie alla sua carità, di cui non avevo mai visto
l’equivalente, e mi ha fornito così la fonte di ispirazione più potente e più pura che si possa
trovare tra le cose umane. Fra queste nessuna, infatti, più dell’amicizia per gli amici di Dio
permette di tenere lo sguardo fisso su Dio con intensità sempre maggiore64.

Nello scambio spirituale con lui, la sua visione religiosa si è arricchita,


arrivando a quella completezza che, a causa dell’insistenza sull’esperienza
personale della sventura, avrebbe potuto mancarle: infatti il contatto con
Dio, come ha testimoniato in ogni suo atto la vita del domenicano, può
realizzarsi anche attraverso la dimensione della gioia pura. Diverse possono
essere le strade che conducono all’esperienza del divino e quando Simone
Weil, contestualmente alle ultime lettere, redige L’amore di Dio e la
sventura, ha ormai compreso che «gioia e dolore sono doni ugualmente
preziosi, che bisogna assaporare a fondo, ciascuno nella sua purezza, senza
cercare di volerli mescolare»65.
Riconosciuto questo debito nei confronti del religioso, nell’ultima
lettera, spedita il 26 maggio 1942 da Casablanca, il tono si fa, se possibile,
ancor più intransigente. Sicura ormai che non avranno più occasione di
rivedersi, ritiene necessario porre nella luce della verità la loro amicizia,
fugando ogni residua ambiguità. Resteranno certamente uniti, ma nella
diversità delle rispettive vocazioni: lui dentro la Chiesa visibile, alla quale
la pesantezza sociale impedisce di assolvere pienamente la funzione
ecumenica di ricettacolo di tutte le ricchezze spirituali presenti nel mondo;
lei trattenuta all’esterno, perché convinta che tali ricchezze siano una parte
irrinunciabile di quella Chiesa invisibile i cui confini coincidono con quelli
del mondo.
Di certo, il contenzioso sul battesimo e su alcune questioni inerenti al
dogma cattolico non ha impedito a padre Perrin, ispirato dall’amore, di
individuare più di ogni altro il «deposito d’oro puro» che c’era in lei e di
renderne testimonianza, già nel primo scritto che le dedica nel 1950,
quando, dopo aver finalmente recuperato le lettere sequestrate dalla
Gestapo, nell’Introduction di Attente de Dieu scrive:

Simone Weil «faceva la verità» mediante lo sforzo eroico per amare il prossimo «come se
stessa», il prossimo, chiunque fosse. Se è consentito parlare dei segreti di Dio, è forse per
questo che, senza conoscere Dio, senza pregarlo consapevolmente, senza fede esplicita nel
Cristo, ebbe accesso di colpo alle meraviglie della vita mistica, che Dio comunica ai suoi
amici di elezione. Mi pare che il suo amore appassionato, assoluto per la verità – che era
allora a sua insaputa una forma dell’amore di Dio – e la sua compassione interamente
fraterna nei confronti del prossimo – inconsapevolmente teologale fino alla grande
illuminazione – la hanno innalzata al livello dove la carità si fa «sapore» e luminosa
scoperta di Dio66.

L’amicizia con padre Perrin, inoltre, facilita l’incontro di Simone Weil con
Gustave Thibon, altro interlocutore privilegiato conosciuto durante il
soggiorno marsigliese. Ospite della sua famiglia, in una vecchia casetta
abbandonata, nei pressi di Saint-Marcel-d’Ardèche, ha potuto vivere per
qualche tempo un’esperienza di solitudine e di meditazione, scrivendo
numerose pagine dei Quaderni, scoprendo la forza della preghiera e
leggendo San Giovanni della Croce.

Se padre Perrin, al momento del loro incontro, è attivamente impegnato


a favore degli ebrei e nella diffusione clandestina dei «Cahiers du
Témoignage chrétien», Gustave Thibon67 non solo non è sconosciuto al
regime di Vichy, ma di tanto in tanto è sollecitato a fornire il suo apporto
alla formazione dei giovani. Eppure, un così diverso orientamento politico,
apertamente riconosciuto, non ha ostacolato minimamente il dispiegarsi del
dialogo e dell’amicizia tra il filosofo, cattolico e tradizionalista, e la giovane
insegnante, sospesa dall’insegnamento dal regime di Vichy.
Si è voluto talvolta rintracciare, nel rapporto con Gustave Thibon, un
influsso sull’evoluzione intellettuale di Simone Weil: sembra più conforme
al vero riconoscere che il rapporto tra loro, più che a livello intellettuale, ha
dato i suoi frutti nell’amicizia spirituale che ne è scaturita, un’amicizia
basata su una profonda affinità etica, sostenuta dall’onestà reciproca e da
uno spirito evangelico di correzione fraterna. In un suo libro autobiografico,
Gustave Thibon si lascerà andare a una confidenza sull’amica da tempo
ormai scomparsa:

All’inizio non ho provato nessun tipo di amicizia, ho avvertito piuttosto, non direi una
repulsione – la parola sarebbe eccessiva – un’assenza preoccupante di simpatia. L’amicizia
è venuta dalla rivelazione della sua grandezza […]. Sono stato in certo modo vinto, mio
malgrado, dalla purezza della sua anima, dalla qualità del suo spirito68.

Questo giudizio, espresso a distanza di anni, sulla scia di un ricordo


trasformatosi in sostanza di vita, affiora già in una lettera del gennaio 1942,
quando, dopo qualche mese di frequentazione, la loro amicizia aveva avuto
modo di consolidarsi:

Credo di non essere presuntuoso se dico che c’è, in lei e in me, al di là del piano puramente
contingente e relativo in cui spesso siamo molto distanti l’uno dall’altro, una tensione di
fedeltà all’eterno che rende la nostra amicizia profondamente fraterna69.

Molto apprezzato negli ambienti cattolici per la sua origine contadina,


Gustave Thibon aveva scelto l’aforisma come forma di scrittura. Le raccolte
che lo avevano reso popolare, vivaci e fortemente impregnate del sapore
della terra, rischiavano tuttavia di essere un ostacolo al raggiungimento di
una scrittura essenziale, nuda, esclusivamente orientata alla verità.
In una lettera dell’agosto 1941, indirizzata ai genitori da Saint-Marcel-
d’Ardéche, durante il mese in cui è ospite dei coniugi Thibon, Simone Weil
non manca di rilevare, anche con una certa durezza, il pericolo che insidia
colui che è destinato a divenirle amico:
[In] Thibon, la deformazione dell’autodidatta, che in un primo momento non avevo notato,
mi si è manifestata in seguito; è stato un vero contadino fino a ventidue anni, ha studiato e
lavorato contemporaneamente fino a venticinque anni, poi Maritain ne ha fatto un mezzo
intellettuale, vale a dire che vive in parte della collaborazione a riviste, libri, conferenze,
ecc. La cultura (in senso proprio) è passata in secondo piano. Questo naturalmente ha
creato, come capita sempre in simili casi, una situazione falsa nei confronti dei due
ambienti, dei contadini e degli intellettuali70.

Col coraggio straordinario di cui solo una vera amicizia è capace, Simone
Weil lo mette in guardia in una delle prime lettere del loro ricco epistolario.
Al pari dell’esperienza mistica, per lei la scrittura autentica comporta
l’attraversamento della notte oscura, quindi una totale spoliazione cui solo i
geni e i santi sanno acconsentire. Tenta di suggerire all’amico questa via,
molto ardua, anche se subito dopo, quasi spaventata, si affretta a precisare
che, probabilmente, la sua vocazione non esige tanto e gli addita nella gioia
una strada, ugualmente valida, per accostarsi alla verità interiore:

Ho letto i suoi testi dattiloscritti – che giudico molto superiori a quelli pubblicati – con gran
piacere e interesse; poi li ho riletti, più di una volta, per soppesarli. Contengono, a mio
avviso, cose di prim’ordine (ciò che vuol dire molto per me); tuttavia non in gran quantità e
in così gran quantità come le prefazioni dei suoi amici lascerebbero supporre. Lei sa,
perché mi conosce abbastanza in proposito, che nessuna considerazione può impedirmi di
essere, per quanto è in mio potere, interamente onesta nei miei giudizi. Questo, è ovvio,
non significa solo che sono sincera, ma che l’amicizia, la gratitudine e gli altri sentimenti
analoghi non possono diminuire, ma solo aumentare il mio scrupolo e la mia attenzione nel
valutare con giustezza.
Volevo dirle, dopo aver letto i suoi libri (ma non ne ho avuto l’occasione) che sicuramente
ha già attraversato la notte oscura, ma che, a mio avviso, le rimane ancora, probabilmente,
molto cammino da fare prima di riuscire a dare la sua vera misura, perché è ancora lontano
dall’aver raggiunto nell’espressione, e quindi nel pensiero, il grado di spoliazione, di
nudità, di forza penetrante, indispensabile per il suo genere. Da questo punto di vista, le
pagine dattiloscritte sono migliori e contengono persino alcune formule soddisfacenti
(malgrado l’apparenza, credo che non ci possa essere elogio più grande). Tuttavia, più o
meno, il mio parere rimane lo stesso71.

La ricerca di effetto che traspare dalla scrittura di Thibon è forse il segno


che non ha ancora purificato il suo strumento espressivo, trasformandolo in
puro tramite della verità depositata in lui. L’amica è convinta invece che la
perfezione, che investe sia il pensiero che la forma, possa essere perseguita
solo attraverso la sofferenza. Se, nella ricerca della verità, si soffre poco
oppure molto, ma non abbastanza, si finisce per restare a un livello
mediocre, anche se questo non impedisce certo di acquisire celebrità e
gloria.
A mio avviso la vera maniera di scrivere è scrivere come se si stesse traducendo. Quando si
traduce uno scritto in una lingua straniera, si cerca di non aggiungere nulla, al contrario, ci
si fa uno scrupolo religioso di non aggiungere nulla. È in questo modo che ci si deve
sforzare di tradurre un testo non-scritto72.

Quel che suggerisce all’amico è un comportamento volto a tradurre la sua


vocazione di scrittore in una forma specifica di santità: l’ascesi nelle scelte
di vita dovrebbe ispirare e reggere un’analoga ascesi nella scrittura,
accettando in anticipo che essa possa recare gioia, come è possibile, o,
come è più probabile, un dolore puro e fecondo. In questo secondo caso:

Se la sua vocazione la dovesse obbligare un giorno, nel pensiero e nell’arte di scrivere, a


raggiungere la nudità, la spoliazione, la purezza, la vera grandezza, allora dovrà soffrire
ancora molto e non sarà felice. Posso solo augurarle di portare a compimento la sua
vocazione autentica, qualunque essa sia73.

Sono parole dure da accogliere e contengono un giudizio sulla creazione


artistica che non fa appello ad alcuna teoria letteraria, ma addita una zona
profonda dell’anima da cui la parola, filosofica o poetica, prima ancora di
essere formulata, attinge la propria sostanza, la propria ragion d’essere. Per
questo il giudizio sui suoi scritti, indubbiamente severo, capace di
determinare, in contesti ordinari, una rottura o almeno un allentamento del
rapporto, non provoca in Gustave Thibon alcuna reazione negativa. Al
contrario, le considerazioni dell’amica, custodite e meditate a fondo,
generano quella reciprocità che è il segno dell’amicizia vera. Infatti, dopo
alcuni mesi, quando tra loro il dialogo si è dispiegato su numerosi altri
argomenti – il Cristianesimo, il ruolo della Chiesa, la filosofia di Platone…
– giunge il momento in cui è lui a doversi esprimere con sincerità sulla
scrittura dell’amica, sul valore della sua poesia che, in quel momento,
rappresenta per lei un vero cruccio74. Riesce a farlo con una capacità di
intuizione straordinaria, sapendo leggere in quella poesia, che per molti
versi ammira, la traduzione di uno stato interiore che non ha ancora
raggiunto un punto ideale di equilibrio. Nei suoi versi, scrive all’amica:
«Scorgo una mancanza di connessione, di scioltezza verbale, un che di
rigido e di discontinuo. Lei possiede, indubbiamente, la profondità e la
purezza, ma le manca ancora quella lievità nella profondità e nella purezza
che accompagna sempre le opere veramente grandi»75. E subito dopo
precisa:
Noto ancora nella sua espressione poetica, un’ombra di quella rigidità, di quel modo di
essere impacciato di cui le avevo parlato a Saint-Julien, quel giorno in cui stava asciugando
i piatti… Ciò dipende probabilmente da una mancanza di unità tra la terra e il cielo, di cui
avevamo parlato. Solo la santità, credo, le apporterà la lievità suprema76 .

Ciò che resta di irrisolto, nella poesia di Simone Weil, si decanta, invece,
nella prosa dei Quaderni «che si vanno riempiendo a un ritmo rapidissimo
in questo periodo»77. In essi, come Thibon ha intuito dopo averne letto solo
alcuni estratti, si dispiega la sua vera poesia, che è conoscenza
soprannaturale. La scrittura dei Quaderni, infatti, diventa per lei uno
strumento essenziale di ricerca della verità e di purificazione quotidiana78.
Essi divengono, in senso etimologico, un esercizio ascetico, che impone un
lavoro su di sé, un controllo dei propri atti e, al tempo stesso, uno sforzo di
precisione, di attenzione, di ordine: «L’espressione corretta di un pensiero
produce sempre un mutamento nell’anima; il pensiero è rafforzato oppure
superato»79. Quel che più li caratterizza non è la novità dei temi, che
riaffiorano con andamento circolare – la sventura attuale e quella
consustanziale all’uomo, il soprannaturale e il modo in cui esso opera nel
mondo, Dio e la bellezza dell’universo che lo manifesta, le vestigia di una
rivelazione primordiale presenti nelle diverse tradizioni religiose e il loro
rapporto con la rivelazione cristiana… – quanto piuttosto la tenacia con cui
li riprende, per chiarificarli o rafforzarli, e le analogie con le quali
instancabilmente li illustra, nello sforzo di diventare un puro strumento di
mediazione di una verità che è al di là della parola.
Fra i temi di riflessione, negli ultimi mesi di permanenza a Marsiglia,
spicca, più che mai, l’amicizia di cui ha potuto beneficiare in maniera
insperata. È del tutto naturale quindi che, nelle ultime lettere inviate
all’amico, mentre attende da un giorno all’altro di partire, senta il bisogno
di manifestargli la gratitudine per l’amicizia di cui lui le ha fatto dono. Si è
trattato di un evento molto significativo, e la prova è nella sofferenza che
entrambi sentono di fronte alla necessità della separazione. Ma è proprio
nella disponibilità ad accettare sia l’incontro che la separazione, con uguale
obbedienza all’ordine del mondo, che un’amicizia si fortifica, diventa
autentica, liberandosi dalle illusioni e dai sentimentalismi in cui si trovava
avviluppata. Colui che ha consentito il loro incontro è lo stesso che ora
lascia avvenire la separazione, perché «l’incontro e la separazione sono due
forme dell’amicizia, contengono lo stesso bene, in un caso sotto forma di
piacere, e nell’altro sotto forma di sofferenza»80.
Alla separazione inevitabile è dunque necessario accordare il proprio
consenso, nella consapevolezza che «la distanza è interamente intessuta di
amicizia, poiché coloro che non si amano non possono essere separati»81.
Questa osservazione, con un possente colpo d’ala, la innalza a quelle
altezze di pensiero che Gustave Thibon avrà modo di conoscere quando, di
lì a poco, avrà tra le mani Le forme dell’amore implicito di Dio di cui
l’Amicizia incarna la forma più elevata:

L’incontro e la separazione sono le figure umane dell’unione assoluta tra il Padre e il Figlio
nella Trinità, e della lacerazione ineffabile tra il Padre e il Figlio nel momento della parola
«Mio Dio, perché mi hai abbandonato?». Perciò, quaggiù, a noi uomini si addice di più la
separazione. Perché abbiamo la felicità di essere stati gettati per nascita ai piedi della
Croce82.

Gli scritti – i grandi testi destinati a padre Perrin e i Quaderni – che redige
tra la fine del 1941 e il maggio del 1942, mentre attende di partire con i
genitori per gli Stati Uniti, sono impressionanti non solo per la mole, ma per
la qualità dell’ispirazione che li pervade. Essi si impongono per la tranquilla
sicurezza che emanano, per lo stile trasparente, cristallino, che sempre più li
caratterizza. Appare plausibile ravvisare in ciò l’indizio di un cambiamento,
di una trasformazione interiore che non può essere ricondotta solo agli
sforzi indubbi dell’intelligenza o alla ricchezza delle letture compiute, ma
rinvia a una forma di illuminazione, un’esperienza eccezionale, uno stato di
«grazia».
Nella lettera inviata da Casablanca, in cui affida undici dei suoi
quaderni a Thibon, riconosce che soltanto gli amici capaci di vera
attenzione possono prendersi cura di questi scritti che, in modo
inspiegabile, sono «discesi in lei»:

Non auguro niente di meglio alle idee che sono venute verso di me di un luogo in cui
stabilirsi, e sarei molto felice che potessero trovare ospitalità sotto la sua penna mutando
forma in modo da riflettere la sua immagine. Ciò attenuerebbe un poco in me il senso di
responsabilità e il peso schiacciante dovuto al pensiero della mia inadeguatezza, e alle mie
diverse tare, a servire la verità come mi si presenta, dal momento che essa acconsente, a
quanto pare, a farsi intravedere da me per un eccesso inconcepibile di misericordia83.
Poter affidare all’amico i suoi scritti, insieme ad alcuni libri che non può
portare con sé in America, l’aiuta a partire con animo sgombro. Le rimane
solamente un cruccio: non potergli confidare tutto ciò che si porta ancora
dentro. Ma perfino quest’impossibilità è di poco conto, visto che ciò che
avverte in sé o è privo di valore, oppure «risiede fuori di lei in una forma
perfetta, in un luogo puro dove non può subire ingiuria alcuna e da dove
può sempre ridiscendere»84.
Da New York, dove vive uno dei periodi più inquieti della sua esistenza
per la difficoltà a realizzare il Progetto, il 10 settembre 1942 invia
un’ultima lettera a Gustave Thibon che è il suggello della loro amicizia:

Se le capita di pregare per me chieda che io possa compiere o il progetto per cui sono
venuta o qualcosa di equivalente; e se non ne sono degna, che mi venga accordato di
diventarlo. Solo allora il dolore della separazione sarà per me puro e libero da rimorsi. In
questo momento il semplice ricordo delle strade di Marsiglia o della mia casetta vicino al
Rodano mi lacera il cuore.
È possibile, come lei dice, che Dio si sia servito di me per attirarla un po’ più vicino. Egli si
serve di qualsiasi cosa. Pratica il recupero degli scarti85.

Vivendo queste amicizie, e riflettendo sul loro significato, Simone Weil ha


potuto intravedere, nell’amore per il prossimo e per gli amici, una delle
forme dell’amore implicito di Dio, una sorta di sacramento preparatorio
all’incontro con Lui, un amore che conserva intatto tutto il suo valore anche
dopo che il contatto si è realizzato. Convinta che «i due amici accettano
pienamente di essere due e non uno, [che essi] rispettano la distanza
imposta dal fatto di essere due creature distinte»86, non si è ritratta di fronte
al rischio di farli soffrire o di ferirli, additando a Thibon il pericolo insito
nella sua vocazione di scrittore non pienamente disposto a passare
attraverso la notte oscura della spoliazione, e ripetendo a padre Perrin il suo
sofferto rifiuto del battesimo, per obbedire all’impulso interiore che le
imponeva di persistere in attesa, sulla soglia della Chiesa.

Entrare nel paese puro: l’amicizia folgorante con Joë Bousquet

Un’amicizia non si misura sulla durata ma sull’intensità. L’amicizia tra


Joë Bousquet87 e Émile Novis ha avuto appena il tempo di sbocciare: il loro
dialogo, a Carcassonne, nella stanza dalle imposte sempre chiuse, non è
andato oltre una tarda serata, sconfinata nella notte tra la domenica 29 e il
lunedì 30 marzo 194288. Eppure lo scambio di lettere seguito all’incontro,
per i temi affrontati, per la ricchezza di contenuti spirituali, si può accostare
alla corrispondenza indirizzata, durante lo stesso periodo, a padre Perrin89.
Occasione dell’incontro è il desiderio di sottoporre al giudizio del ferito
della Grande Guerra il Progetto d’una formazione di infermiere di prima
linea. In realtà, il colloquio notturno le conferma quello che aveva già
intuito dalla scarna lettura dei suoi scritti90: la certezza di aver incontrato un
uomo eccezionale, che la sventura non era riuscita a piegare. Essere
costretto a tornare col ricordo sull’evento che aveva cambiato tutta la sua
vita – la pallottola che il 27 maggio 1918, colpendolo alla spina dorsale, lo
aveva immobilizzato per sempre poteva diventare per lui l’occasione di
assumere consapevolmente la sventura, trasformandola nello strumento per
realizzare la propria specifica vocazione.
Durante l’incontro, vissuto da entrambi come «evento prezioso»,
Simone Weil scopre un uomo capace di autentica attenzione, per il quale «le
cose e gli esseri esistono realmente». L’ammirazione nei suoi confronti è
immediata, dal momento che considera l’attenzione «la forma più rara e più
pura di generosità». Anche lei, del resto, ha sempre ricercato questa
perfezione e, benché ne sia ancora lontana, non ha mai cessato di implorare
questo dono che la sventura, quando è accettata, dispone ad accogliere
pienamente. Pur tanto diversi tra loro, l’uno e l’altra sentono che la tensione
che li abita, in quelle ore febbrili, costituisce il terreno sul quale può nascere
un’amicizia pura.
Nella risposta alla prima lettera alla quale sono affidati questi pensieri,
Joë Bousquet chiama la sua interlocutrice «mia cara amica», si dice «assai
felice di conoscerla» e sicuro della «comune amicizia». Ciò che l’amica gli
ha scritto è arrivato dritto al suo cuore e perciò, senza indugi, riconosce in
lei la persona che «più di qualsiasi altro, sarebbe in grado di aiutarlo ad
annientare tutto quel che resta in lui di non evoluto, di ereditato»91. Non
esita a tracciare di se stesso un ritratto in cui il pericolo che ne insidia
l’esistenza è portato alla luce senza remore: sente di vivere in sé un perenne
dissidio, come se «un altro io lo inseguisse ovunque, sempre pronto a
riafferrarlo, come se, per effetto del suo dispotismo, non avesse
l’opportunità di crescere se non negli altri»92, ovvero al di fuori di sé e della
propria coscienza. La divaricazione tra sogno e realtà lo sollecita, di
continuo, a «non cercare altro che la felicità e l’oblio della morte»93,
rendendolo incapace di intuire il bene e di avvertire il senso del male.
L’altro che si porta dentro, in certi momenti, gli fa talmente paura che non
esita a chiamarlo il suo morto, «un essere da cui solo la fine lo libererà»94.
Ciò a cui aspira, per rendersi finalmente padrone del suo destino, è
nobile e contiene qualcosa di titanico, che descrive all’amica come un
progetto romantico che dovrebbe valere per tutti gli uomini, ma vale
soprattutto per chi ha deciso di vivere poeticamente:

Essere creati da Dio vuol forse dire incarnare l’essere del suo essere, noi siamo le immagini
del suo potere e probabilmente il suo stesso pensiero, quando ne siamo consapevoli. Questo
deve farci tremare, farci sentire la nostra indegnità, ma non farci dubitare della capacità di
rivelazione che è in ciascuno di noi95.

Dopo questa sorta di professione di fede, dedica tutta la sua attenzione alla
giovane amica, alla quale suggerisce che potrà dare il meglio di sé
trasferendo la poesia che è in lei non solo nella tragedia alla quale sta
lavorando – Venezia salva – ma dando forma scritta alle sue «impressioni
mistiche». Ha compreso, infatti, che la sua onestà intellettuale e la sua
rigorosa ricerca della verità la pongono al riparo da qualsiasi «compiacenza
femminile», consentendole di esprimere l’esperienza dell’amore di Dio in
forme poetiche scevre da ogni eccesso di sentimentalismo96. Tra loro, a
questo punto, il dialogo si è innalzato su un piano dove la confidenza o è
assoluta o deve cessare.
Dopo una lettera dell’amica, che sollecitava una risposta sul Progetto
che gli aveva sottoposto, Joë Bousquet consente a esprimere un giudizio
sulla praticabilità e utilità di una formazione di infermiere di prima linea,
dichiarando la sua gratitudine perché la domanda che gli è stata posta «lo
invita a evocare la sua esperienza di guerra e quella ferita sulla quale va
edificando dolorosamente il suo pensiero, la sua filosofia, tutta la sua opera
letteraria»97. Simone Weil è profondamente commossa dalla rievocazione
che le ha fatto della guerra e del clima che sempre regna al fronte, dove le
infermiere da lei immaginate avrebbero dovuto assolvere il loro compito di
assoluta dedizione. Grata di questo racconto, sente ormai di potersi
esprimere in totale sincerità sia nei confronti dell’amico che di se stessa.
La lettera che gli scrive il 12 maggio 1942, pochi giorni prima
dell’imbarco per gli Stati Uniti, è uno dei testi più alti e ardui del suo
pensiero religioso, un pensiero divenuto ormai una cosa sola con la vita.
Ciò che dice, anche di se stessa, è il dono esigente che il clima di guerra, il
sentimento di precarietà del momento, e soprattutto l’amicizia, le ordinano
di affidare a colui che è diventato veramente un amico.
Intanto, e in primo luogo, la condizione di sventura in cui egli versa è il
pensiero che sovrasta ogni altro. I suoi amici, quelli che si recano da lui, lo
ammirano per la sua creazione artistica, ma non lo vedono veramente: non
scorgono in lui quel grumo irrisolto che attende di essere sciolto, non hanno
percezione del «suo grido silenzioso per essere letto altrimenti»98. Lei,
senza alcun merito, sentendo di essere soltanto un tramite, desidera
assumere nei suoi confronti il compito di levatrice.
Ciò che intende dirgli non è per nulla facile: la sofferenza, che da più di
vent’anni lo tiene inchiodato al letto, è il privilegio che consente a lui, più
che alla maggior parte degli uomini, di guardare in profondità la realtà della
guerra. I suoi commilitoni, vittime della stessa atroce realtà, o non hanno
potuto elaborarne il senso perché stroncati dalla morte, oppure, tornati
incolumi dal fronte «hanno tutti ucciso il passato con l’oblio». È pressoché
impossibile, infatti, quando si è ormai affrancati, riportare volontariamente
il pensiero alla sventura. Lui, invece, tramite una memoria pungolata senza
tregua dal dolore, non ha mai smesso di scrutare il suo destino, anche se
non l’ha ancora accolto, fino in fondo, come la necessità alla quale dare il
proprio assenso.
Ponendosi in sintonia con la sensibilità poetica dell’amico, Simone Weil
ricorre a un’immagine simbolica, di origine orfica, per suggerirgli una via
di uscita dalle tenebre verso la luce della verità: egli è prigioniero nell’uovo
del mondo visibile e non ha ancora rotto il guscio per liberare dentro di sé il
pulcino, che è l’amore di Dio, che è Dio stesso «che abita nel profondo di
ogni uomo, come un germe invisibile». Solo quando sarà uscito da quel
guscio, gli sarà possibile vedere il mondo senza più veli ed elaborare
pienamente la sventura della guerra, riuscendo a pensarla con assoluta
lucidità. Proprio lui, che porta quel ricordo conficcato come una spina nella
carne, è nella condizione privilegiata per accogliere, in senso universale, la
sventura che è la realtà del mondo. Infatti,

per pensare la sventura, bisogna portarla nella carne, conficcata in profondità, come un
chiodo, sopportarla così a lungo che il pensiero abbia tempo di farsi forte quanto serve per
guardarla99.
Non è lontano il momento in cui potrà pronunciare il sì che sancisce la
scelta irreversibile del bene. Ciò che finora gli ha impedito di dare il suo
pieno assenso alla sventura è l’impulso ad abbandonarsi al sogno, al
turbinio dell’immaginazione. E questo perché non ha mai cessato di essere
prigioniero, non ha ancora rotto il guscio. La radice del male, che lui per
primo sente di non saper individuare dentro di sé, affonda in quella trama di
artifici, di consolazioni – piaceri, arte, religione… – in cui si è avvolto per
alleviare il peso della sventura100. Fare la scelta definitiva, abbandonare
ogni conforto illusorio per una lucidità che si apparenta con la follia,
significa accettare pienamente di portare la sua croce, una croce incarnata
nei giorni e nelle notti senza fine della camera buia di Carcassonne. Eppure,
solo allora, solo quando la trasformazione sarà pienamente compiuta, «sarà
perdonato il proiettile che un giorno gli è si è conficcato al centro del corpo
e, per suo tramite, a tutto l’universo che lo aveva guidato»101.
Queste verità così crude, che sente di dovergli dire, non nascono da lei:
le parole si servono, suo malgrado, della sua penna, ma è Dio stesso che
gliele invia. Tanta sicurezza, che può apparire presunzione, si fonda su una
realtà di fatto: da tempo, in modo molto imperfetto, è sorella di sventura del
poeta. Da dodici anni ormai, è «abitata da un dolore, situato in prossimità
del punto centrale del sistema nervoso, alla giunzione dell’anima e del
corpo, che persiste anche durante il sonno»102. Questa sofferenza, che solo
il pensiero di una morte probabile o volontaria finora le ha consentito di
sopportare, si è incontrata fin dall’inizio, durante l’esperienza di lavoro in
fabbrica, con la degradazione fisica della massa umana.
L’esperienza mistica, su cui l’amico le ha rivolto una domanda, e che lei
sommessamente gli confida, si era verificata proprio in un momento di
sofferenza estrema, in modo del tutto gratuito e inaspettato, quando ancora
«Dio non aveva alcun posto nei suoi pensieri»:

In un momento di intenso dolore fisico, mentre mi sforzavo di amare, ma senza credere di


aver diritto di dare un nome a quell’amore, ho avvertito, senza esservi minimamente
preparata – dal momento che non avevo mai letto i mistici – una presenza più personale,
più certa, più reale di quella di un essere umano, inaccessibile sia ai sensi che
all’immaginazione, simile all’amore che traspare nel sorriso più tenero di un essere
amato103.

Questa confidenza, facilitata forse dalla particolare condizione in cui si


trova Joë Bousquet, precede, sia pur di poco, quella fatta a padre Perrin:
anche in questo caso, per una ragione che va oltre la sua persona e riguarda
l’assoluta libertà di Dio di scendere in ogni uomo, dentro o fuori dei confini
della Chiesa. La scelta di due confidenti tanto diversi può certo stupire,
perché effettivamente tutto sembra opporre il poeta al religioso: la loro
formazione, il loro passato, il loro atteggiamento rispetto alla vita. Tuttavia,
senza la pretesa di venire a capo di un’esperienza misteriosa – in cui può
aver avuto un certo peso la tendenza di Simone Weil a proiettare sull’altro,
sulla scorta di indizi, la sua personale concezione della purezza – è forse
possibile trovare una certa congruenza in questa scelta. Padre Perrin e Joë
Bousquet incarnano due diverse modalità dello stesso sacramento che rende
possibile il contatto personale con Dio: quello che ha luogo attraverso la
gioia pura, in un caso, e quello che sta al fondo di un percorso di sventura,
nell’altro. Questo, almeno, è quanto è suggerito dalla chiusa della lettera,
nella quale, componendo in un mosaico le tessere della propria esperienza e
di quella che ha intravisto nei suoi amici, offre una sintesi potente delle vie
possibili per accostarsi all’amore di Dio:

Sono convinta che la sventura da un lato, e dall’altro la gioia intesa come adesione totale e
pura alla perfetta bellezza, poiché entrambe comportano la perdita dell’esistenza personale,
siano le due sole chiavi grazie a cui si entra nel paese puro, nel paese respirabile, nel paese
reale104.

Per molto tempo si è creduto che questa fosse la lettera di addio, prima che
il mare interponesse tra loro la distanza propizia a riascoltare, nel silenzio
interiore, l’eco delle parole scambiate. Ma proprio in essa, era contenuta la
promessa di continuare il dialogo sulle molte cose che restavano ancora da
approfondire. Altre due lettere, casualmente ritrovate alcuni anni fa105,
intrise della dolente percezione di una fine imminente, imprimono il sigillo
su una concezione della vita in grado di dare tutto il suo significato alla
morte.
Della morte, del resto, si parla anche nella lettera autobiografica a padre
Perrin, quando si dice che essa costituisce «la norma e la meta della vita,
[…] l’istante in cui, per una frazione infinitesimale di tempo, la verità pura,
nuda, certa, eterna penetra nell’anima»106. Con accenti ancor più intensi,
questa stessa verità è ripetuta a Joë Bousquet, che le aveva confidato di
vivere nell’oblio della morte, in contraddizione con quella volontà di tenerla
in pugno di cui scriveva, nello stesso periodo, a Gabriel Sarraute, il
cappellano militare che doveva tenersi pronto a somministrargli gli ultimi
sacramenti:

Tengo molto a ricevere la morte a occhi aperti, con eleganza, sapendo quello che faccio. Mi
sembrerebbe troppo triste aver sfiorato una bella morte sull’altopiano di Brenelle per poi
entrare venticinque anni dopo nella morte, a occhi bendati107.

Ma non è una morte eroica quella che Simone Weil implora per sé e
suggerisce all’amico: per lei la morte dovrà coincidere con l’assenso
definitivo all’amore di Dio, che è presente nel mondo sotto il velo della
necessità e che, nell’ultimo istante, si svelerà come bellezza assoluta
dell’universo. Ciò che le fa paura non è il trapasso, ma il rischio di trovarsi
impreparata «nell’ultimo istante di vita, [in cui] vedremo con i nostri sensi
la bellezza del mondo assolutamente spoglia e al pari di un intermediario,
consegneremo la bellezza del mondo, nella sua completa nudità, a Dio che
scenderà per unirsi ad essa nei nostri occhi»108.
Le ultime due lettere, una spedita in extremis da Marsiglia e l’altra da
Casablanca, durante il viaggio, oltre a questa stupenda evocazione di una
morte rivelatrice della bellezza dell’universo, e oltre al sentimento di
lacerazione per la partenza, contengono un dono all’amico per colmare il
tempo dell’assenza. Si tratta, come abitualmente faceva con chi amava, di
alcuni frammenti da lei tradotti dall’Iliade e dai tragici greci e di un
racconto del folklore scozzese, tradotto e interpretato in maniera ardita e
allusiva, conforme alla sua esegesi sapienziale.
Nel racconto intitolato Le tre notti del principe di Norvegia, la
protagonista è una fidanzata, vestita di stracci, che va alla ricerca del
principe amato, scomparso e conteso da un’altra donna. Con uno
stratagemma ottiene dalla rivale di trascorrere tre notti con lui. Solo
all’ultimo istante, prima dell’alba del terzo giorno, il principe si sveglia,
riconosce l’amata e scaccia la rivale. Il commento occupa meno di due
righe: «La sposa è il Cristo, la falsa fidanzata è la carne che Dio acquista
mediante la bellezza»109.
Commento che può sembrare un po’ criptico, ma che non era certo
incomprensibile a Joë Bousquet, dopo averla ascoltata: per sfuggire
all’istante limite in cui deve scegliere il bene, l’anima, incapace di reggere
la presenza bruciante di Dio, cerca scampo dietro il velo della carne. Il
desiderio carnale, quindi, rappresenta un male quando è una forma di
corruzione, una degradazione dell’amore di Dio. Affidandosi alla
delicatezza poetica di una fiaba, offre all’amico un’occasione estrema per
riflettere su se stesso, sulle ambiguità, sulle ombre che attendevano di
essere dissipate in lui.
Joë Bousquet, dopo la morte di Simone, ha confidato a Hélène e Pierre
Honnorat di aver sperato invano che la fine della guerra gli restituisse
l’amica che «aveva il dono di pronunciare parole dal significato umano
illimitato»110. Solo col tempo aveva imparato a leggere, nella sua morte
volontaria e prevedibile, «l’ordine di vivere con gli assenti», riandando
spesso con la memoria ai pensieri scambiati con lei e prolungando, nel
silenzio, il loro dialogo. L’eco «dei pensieri in cui lei riposava mentre a lui
toglievano il riposo»111 risuona, con naturalezza, in molte pagine dei Diari
che il poeta ferito ha continuato ad annotare fino al 1950, anno della
morte112. In una delle ultime pagine, ricordando la notte delle confidenze,
scrive: «Ascoltavo la voce pacificata di Émile Novis…»113.

L’amicizia a distanza con Antonio Atarés

L’amicizia tra padre Perrin e Simone Weil ha potuto fruire di un tempo


disteso per il dialogo faccia a faccia e per il lavoro comune sui testi
dell’amore di Dio. Gustave Thibon ha condiviso con lei un momento sereno
della sua esistenza, a Saint-Marcel-d’Ardèche: hanno mangiato insieme,
hanno letto e commentato Platone, hanno dialogato e talvolta si sono
scontrati. L’intimità di cui entrambi gli amici hanno potuto godere ha reso
preziosa la loro testimonianza che, giunta assai per tempo, prima che il
personaggio si imponesse, ha restituito almeno in parte le fattezze e le
movenze di una persona concreta114. L’amicizia con Joë Bousquet,
sbocciata in un incontro fugace ma intenso, ha portato i suoi frutti nel
silenzio interiore e ha pervaso, a livelli profondi, la poesia e la riflessione
degli ultimi anni del poeta.
Al contrario, l’amicizia con Antonio Atarés, il contadino aragonese
rinchiuso in un campo di internamento, si è interamente costruita
nell’assenza, nella lontananza, ha lasciato traccia solo su pochi fragili fogli
che un tempo terribile di distruzioni e di morti ha miracolosamente
risparmiato. Da quelle pagine esce quel poco che si sa della sua vita
quotidiana, delle sofferenze, del lavoro al quale era costretto, visto che non
disponiamo delle lettere del prigioniero. Per ricostruirne la figura, fino a
qualche tempo fa, oltre alle lettere a lui indirizzate, ci si doveva
accontentare di qualche allusione, sparsa qua e là nella corrispondenza tra
Simone Weil e i familiari, e del brano di una lettera, scritta da Casablanca a
padre Perrin, in cui Antonio incarna un esempio di «fede implicita»,
possibile anche fuori dei confini della Chiesa:

Teoricamente lei ammette pienamente la nozione di fede implicita. E in pratica la sua


larghezza di vedute e la sua probità intellettuale sono eccezionali. Ma secondo me sono
ancora alquanto insufficienti. Solo la perfezione è sufficiente.
Spesso, a torto o a ragione, mi è parso di riconoscere nel suo atteggiamento una qualche
parzialità. Segnatamente una certa riluttanza ad ammettere di fatto la possibilità della fede
implicita in alcuni casi particolari. Questa è stata perlomeno la mia impressione quando le
ho parlato di Joë Bousquet e soprattutto di un contadino spagnolo che io considero non
molto lontano dalla santità115.

Queste parole contengono un giudizio positivo sul suo corrispondente, ma è


anche possibile scorgervi l’indizio di un legame tra Simone Weil e Antonio
Atarés che merita a pieno il nome di amicizia: un’amicizia vissuta in
condizioni eccezionali, non un semplice episodio, certamente nobile, di
compassione verso un uomo privato della libertà, ingiustamente incarcerato.
Rievocando la figura di Nicolas Lazarévitch, anarchico e precoce
antistalinista, Boris Souvarine porrà in evidenza la dimensione della
compassione:

Durante la guerra, Nicolas fu internato nel campo del Vernet, in quanto belga, dunque
straniero, dunque sospetto. Simone rimase in corrispondenza con lui, nella misura in cui le
circostanze anormali lo permettevano, prima di lasciare la Francia. Nicolas l’aveva messa
in rapporto epistolare con un povero spagnolo, abbandonato da tutti, ugualmente internato
al Vernet, e lei si era sforzata di aiutare questo sconosciuto con la sua inesauribile
bontà116.

Il campo del Vernet, nell’Ariège, a trenta chilometri dalla frontiera


pirenaica, era stato allestito nel 1939, al momento della disfatta della
Repubblica spagnola, per ammassarvi migliaia di combattenti della Colonna
Durruti. Dallo scoppio della guerra fino al 1942, vi furono imprigionati
stranieri indesiderati, intellettuali antifascisti, superstiti delle Brigate
internazionali e altri esuli spagnoli. Nicolas Lazarévitch, di origine ebraica,
amico di Simone Weil fin dagli anni della comune collaborazione a «La
Révolution prolétarienne» e suo interlocutore sui temi della condizione
operaia e dell’organizzazione del lavoro, durante i mesi di giugno e luglio
1940 aveva anche lui conosciuto i rigori del campo del Vernet. Liberato
grazie all’intervento di un comitato americano, aveva ritrovato l’amica,
sfollata a Marsiglia, impegnata con qualche successo ad alleviare i disagi
degli immigrati annamiti, vergognosamente segregati in abitazioni
fatiscenti. Grazie a lui, Simone Weil aveva potuto conoscere le condizioni
di vita in cui versavano i prigionieri nei campi, in particolare coloro che, a
differenza degli intellettuali, scrittori e artisti, non ricevevano aiuti e non
beneficiavano di alcun appoggio117. Tra questi dimenticati si trovava
Antonio Atarés, contadino e militante anarchico, che vi rimase prigioniero,
anche dopo che il campo del Vernet era divenuto un luogo di transito per gli
ebrei arrestati nella regione, fino alla fine del 1941, quando fu trasferito a
Djelfa, città coloniale sull’altopiano dell’Atlante sahariano, in Algeria.
Chi era Antonio Atarés? Fino a non molto tempo fa, dietro a questo
nome si celava il ritratto un po’ stereotipato di un anarchico e di uno stoico,
assai coraggioso nel sopportare la dura condizione di prigioniero. Grazie ad
alcuni documenti rinvenuti negli archivi dei campi del Vernet e di Djelfa, la
sua immagine si è venuta, in parte, arricchendo118. Le schede, compilate
con approssimazione dai sorveglianti dei campi, se opportunamente
interpretate, forniscono dei dettagli sulle vicende di questo militante
anarchico, combattente nella Guerra Civile spagnola.
Antonio Atarés Oliván, agricoltore spagnolo, nasce il 9 ottobre 1909 – è
dunque coetaneo di Simone Weil – ad Almudévar, un villaggio
dell’Aragona. Frequenta, in modo molto irregolare, la scuola elementare del
villaggio e, con i fratelli, conosce assai presto il pesante lavoro dei campi.
Costretto a un lungo servizio militare, nel 1930, si trova coinvolto nel
sollevamento dei capitani Galán e Garcia Hernández. Al ritorno in paese, a
causa della militanza nel sindacato anarchico della Cnt, viene, per ben due
volte, incarcerato. Nel 1936 partecipa alla resistenza antifranchista,
particolarmente eroica nella regione aragonese e, in particolare, attorno al
suo villaggio. Sfugge alla cattura, mentre tre dei suoi fratelli sono catturati e
uccisi. La madre rimarrà, fino alla morte, rinchiusa in un manicomio. Ferito
in uno scontro, Antonio è trasferito in ospedale a Barcellona. Nel febbraio
1939 partecipa al grande esodo (la retirada) verso la Francia e verso la
libertà, ma il volgere degli eventi gli farà ben presto conoscere i rigori del
campo di internamento.
Il ritratto che dà di lui Simone Weil in una lettera di raccomandazione,
recentemente ritrovata, depurato dai tratti agiografici, propri del genere
letterario, non contrasta, nelle linee generali, con le notizie fornite dalla
documentazione storica:

Antonio è un contadino aragonese: contadino per condizione ma poeta per temperamento,


caso non raro tra i suoi compatrioti. Le sue lettere sono perlopiù delle effusioni liriche, che,
se fossero scritte in versi e non fossero farcite di forme dialettali, potrebbero pari pari
uscire da una pièce di Calderon o di Lope de Vega. Non conosco qualcuno come lui capace
di godere in modo così intenso e puro delle bellezze della natura. Se potesse trovarsi come
bracciante, con un padrone un po’ umano, in un bell’ambiente naturale, conoscerebbe la
pienezza della gioia. Al contrario, è dietro il filo spinato da un anno e mezzo. Eppure, nella
nostra corrispondenza, non mi ha mai chiesto niente, e non si è mai lamentato, salvo nelle
ultime due o tre lettere, perché il suo stoicismo comincia a indebolirsi.
Ha una trentina d’anni. Aveva delle simpatie per il sindacalismo e per la causa
repubblicana. I nemici, durante la guerra civile, gli hanno massacrato la madre e tre fratelli,
per questa ragione non vuole più tornare nel suo Paese. È venuto in Francia con l’ondata
dei vinti, dove ha lavorato. Arrestato, per decreto di Mandel, nel giugno 1940 con una folla
di sventurati come lui, è stato spedito senza alcuna ragione in un campo di indiziati, il
campo del Vernet. Nella primavera scorsa, tutti gli spagnoli presenti nel campo del Vernet
sono stati spediti in Africa; lo hanno rinchiuso nel campo di Djelfa, un campo di
rappresaglia. Bisognerebbe farlo ritornare in Francia, dove la mano d’opera agricola
scarseggia, e sistemarlo presso un agricoltore119.

Nel campo del Vernet, dove Nicolas Lazarévitch aveva conosciuto Antonio
Atarés, era stato recluso per qualche tempo anche Arthur Koestler, autore di
Un testamento spagnolo, un fortunato racconto autobiografico che Simone
Weil andava leggendo e commentando, nei Quaderni, proprio in quel
periodo. Militante politico, combattente a fianco dei repubblicani nella
Guerra Civile spagnola, questo scrittore ebreo, di origine ungherese,
racconta la sua esperienza di prigionia in un altro scritto autobiografico, le
cui pagine consentono di immaginare, con qualche plausibilità, la vita
molto dura che si conduceva nel campo in cui era rinchiuso Antonio Atarés:

Il campo del Vernet aveva una superficie di cinquanta ettari. La prima impressione era
quella di un ammasso di fili spinati che circondavano il campo in tre lunghe file molto
ravvicinate, che partivano in diverse direzioni, con delle trincee parallele.
La terra era arida, sassosa e polverosa quando era secco, fangosa da sprofondare fino alle
caviglie appena pioveva, disseminata di zolle gelate durante i grandi freddi. […]
Le baracche erano di assi ricoperte di carta incatramata. Ogni baracca conteneva duecento
uomini. Lunga trentacinque metri e larga cinque, era costituita da due grandi piattaforme
sovrapposte che correvano lungo i muri lasciando solo uno stretto passaggio nel mezzo.
[…]
Le assi erano ricoperte da un sottile strato di paglia, e la paglia era il solo mobilio
trasportabile della nostra baracca. In effetti, assomigliava ad una stalla. Non c’erano
finestre, ma solo un’ampia apertura ritagliata nella parete di assi che serviva da lucernario.
[…] Il campo non aveva refettorio, non c’era un tavolo né un appoggio nelle baracche; non
c’erano né piatti, né posate per mangiare, né sapone per lavarsi; una parte degli internati
aveva i mezzi per acquistarne, l’altra era ridotta al livello dell’età della pietra120.

La testimonianza prosegue fornendo notizie sul cibo, che consisteva in una


razione quotidiana di cento grammi di pane, una tazza di caffé nero non
zuccherato al mattino e una scodella di brodaglia ogni sera. Per sei ore al
giorno – un tempo ridotto per mancanza di luce e per la debilitazione
dovuta alla scarsità di cibo – si lavorava alla costruzione di strade e alla
sistemazione del campo, in condizioni pietose, rivestiti di stracci e senza
scarpe.
A simili condizioni di disagio Simone Weil allude più di una volta nelle
lettere, ma si ha l’impressione che nelle sue risposte, che possiamo solo
immaginare, Antonio Atarés non si attardasse più di tanto sugli aspetti
dolorosi della vita nel campo. I soprusi e le sofferenze sono il punto di
partenza, il contesto concreto della corrispondenza, ma questa poi si staglia,
presto, a un livello alto di riflessione, da cui diventa possibile dominare le
contingenze materiali. Anche la questione del denaro e degli aiuti concreti è
subito archiviata, non interferisce con il loro rapporto, che vuole essere uno
«scambio di pensieri in forma di parole». Ben poco traspare dell’agitazione
del campo in cui, per la prevalente presenza di politici, intellettuali e
scrittori, vi erano spesso moti di protesta e mobilitazioni. Il dialogo tra i due
amici sembra collocarsi in spazi isolati, separati dal tumulto circostante.
Private delle risposte di Atarés, le sedici lettere scritte da Simone Weil
provocano in noi una sensazione di disagio, quasi ci trovassimo di fronte a
un’amputazione. Possiamo solo sforzarci di immaginare che, dopo lo
stupore provocato dalle prime lettere, Antonio si sia sentito spinto a elevarsi
o, perlomeno, a stare al passo con la sua interlocutrice che, senza
minimamente sottovalutare la dura condizione in cui l’amico si trova, lo
invita a farvi fronte cercando in se stesso e attorno a sé, soprattutto nella
natura, un ausilio essenziale per non lasciarsi travolgere. Il tumulto del
campo, anche se entra affievolito nel dialogo, ne costituisce in ogni caso il
presupposto, ed è perciò che le riflessioni sulla sventura non sono mai un
mero esercizio retorico. Se a qualcuno può sembrare poco credibile che un
contadino avesse i pensieri che l’amica filosofa gli attribuisce, bisogna
ricordare che la militanza nell’anarchia l’aveva, in qualche modo,
predisposto a delle riflessioni non banali sul senso del vivere e del patire.
Più o meno nel momento in cui prende avvio la loro corrispondenza,
Simone Weil annota questo pensiero nei Quaderni che va riempiendo a
Marsiglia:

L’altro. Percepire ogni essere umano (immagine di se stessi) come una prigione in cui abita
un prigioniero, con tutto l’universo intorno121.

L’altro qui descritto sta certo a indicare una condizione umana universale
ma, in quel preciso momento, non è difficile immaginare che Antonio
Atarés, rinchiuso nel campo del Vernet, fosse per lei l’immagine eloquente
e concreta di una condizione di sradicamento, di privazione, di sventura che
stava diventando dolorosamente reale per milioni di uomini. Nel momento
in cui si china sulla sua sofferenza, facendone oggetto di attenzione e di
compassione, egli incarna pienamente per lei la misura dell’amore con cui
«si vorrebbe poter amare in maniera particolare ciascuno degli esseri che
compongono la specie umana»122. La preferenza verso un essere umano,
che è lo specifico dell’amicizia, è determinata «dall’irrompere casuale della
sventura che suscita lo scambio di compassione e di gratitudine»123.
Sono questi i sentimenti che ispirano lo scambio epistolare, che però poi
procede lungo un sentiero di semplicità, in cui essi sono impliciti e
presupposti. Per creare un clima di connivenza con l’interlocutore lontano,
Simone Weil torna col ricordo alla Spagna, alla sua breve partecipazione
alla guerra al seguito della colonna dell’anarchico Buenaventura Durruti.
Lì, diversamente dai numerosi intellettuali e militanti francesi che neppure
si accorgevano di quei contadini in nome dei quali pretendevano di
combattere, nelle pause dell’azione lei era andata a interrogarli, li aveva
ascoltati nelle piazze, aveva annotato le loro reazioni, i sentimenti. Poi, nel
1938, quando la guerra era ormai degenerata in un regolamento di conti tra
fazioni, aveva scritto con amarezza a Georges Bernanos:

[…] Questi miseri e magnifici contadini, rimasti fieri in mezzo a tutte le umiliazioni, per i
miliziani non costituivano neppure un motivo di curiosità. Senza insolenze, senza ingiurie,
senza brutalità […], un abisso separava gli uomini armati dalla popolazione inerme, un
abisso del tutto simile a quello che separa i poveri dai ricchi. Questo si avvertiva
nell’atteggiamento sempre umile, sottomesso, spaventato degli uni, e nella sicurezza, nella
disinvoltura, nella condiscendenza degli altri124.
Con i volti dei contadini di Aragona ancora impressi nella memoria, dà
inizio alla corrispondenza con l’anarchico dimenticato nel campo del
Vernet:

Sono stata, per qualche tempo, nel suo bel Paese, persino in certi piccoli villaggi dove gli
stranieri non si spingono mai. Credo che sia la sua regione. Non ho mai dimenticato i
contadini che ho visto nelle campagne; mi hanno lasciato un’impressione indimenticabile.
Per questo, quando Nicolas mi ha parlato di lei, m’è parso di conoscerla da tanto tempo125.

La guerra di Spagna l’aveva segnata in modo indelebile: nel dilagare della


barbarie, nel trionfo della forza aveva letto la manifestazione, più violenta,
di quel male che da tempo ormai contaminava tutta la storia dell’Occidente.
Quella violenza si era abbattuta su Antonio, facendo di lui uno sventurato.
Ma la sventura non lo aveva annientato, perché, istintivamente, egli era
entrato nella schiera di quei rari individui che sanno trasformare la
sofferenza in gioia. Al contadino che i detentori della forza potevano far
soffrire, senza fargli veramente del male, lei addita «i veri saggi vissuti
prima dell’era cristiana e quelli vissuti dopo [che] hanno saputo elevare la
propria anima fino a un luogo, sconosciuto alla maggior parte degli uomini,
dove il dolore è gioia e la gioia è dolore»126. Con mirabile semplicità di
linguaggio gli mostra la verità nella luce della Grecia e il vertice della
perfezione nel comportamento di quegli stoici di cui è inconsapevolmente
diventato fratello:

I filosofi greci chiamati stoici dicevano che bisogna amare il destino; che bisogna amare
tutto ciò che il destino apporta, anche quando apporta la sventura. Fin dall’infanzia, ho
sempre creduto che questa sia la virtù più bella. È molto difficile nella sventura, soprattutto
se la sventura si prolunga; ma proprio per questo è tanto più bella. Tu la possiedi a un
livello molto raro, e non so dirti quanto ti ammiri per questo127.

Al ritmo di una lettera ogni due o tre settimane, che raggiungono Antonio
prima tra le montagne dei Pirenei, e poi, attraversando il Mediterraneo, fin
sull’altopiano sassoso e desertico di Djelfa, Simone Weil esprime,
sull’amor fati e sulla bellezza dell’universo, gli stessi pensieri che tornano
nei Quaderni e nelle lettere inviate agli altri amici di Marsiglia e di
Carcassonne. Le riflessioni che condivide con l’amico alludono a una
filosofia pratica, una saggezza di vita, un cammino spirituale che ogni uomo
può percorrere. Contemplando l’ordine necessario del mondo, che comporta
inevitabilmente anche la sventura, può scoprire una bellezza di cui nessuno
potrebbe privarlo: può ammirarla nelle vette dei Pirenei e nel cielo di
velluto disseminato di costellazioni delle notti di Djelfa, «al tramonto o al
sorgere del sole, anche se tutt’intorno gli uomini parlano e fanno rumore, si
può sentire il silenzio che discende dall’alto e si dilata in lontananza come il
cielo»128. Obbedendo alle leggi dell’universo, accettando la propria sorte,
con lo spirito degli stoici Antonio può fare della sua vita un’opera d’arte, al
pari di chi «fa una bella poesia, un’opera di filosofia, una scoperta
scientifica, o qualsiasi altra cosa del genere»129.
Come ormai usa fare, acclude alle lettere qualche poesia, traduce per
l’amico i versi di Eschilo che esprimono le invettive scagliate contro gli dèi
da Prometeo inchiodato alla roccia. Trascrive anche la copla de Las aves de
Arabia «che vivono eternamente perché ignorano le sofferenze»130.
Tradurre poesie e farne dono a chi ama, è per lei il segno privilegiato
dell’amicizia.
Quando la corrispondenza si fa più difficile, nell’ultima commovente
lettera, prima di salpare per l’America, affida «alle stelle, alla luna, al sole,
all’azzurro del cielo, al vento, agli uccelli, alla luce, all’immensità dello
spazio, i suoi pensieri per l’amico, perché gli donino ogni giorno la gioia
che desidero per lui e che egli sicuramente merita»131.
Dopo questa lettera, Antonio non scompare dalla vita e dalle
preoccupazioni di Simone: ogni volta che può, chiede notizie dell’amico e
incarica sia i genitori che il fratello André di scrivergli. Col tempo, il suo
nome diventa una sorta di codice di cui i genitori si servono per designare
l’Algeria, il Paese in cui desidererebbero recarsi e dove, forse, potranno
incontrarlo finalmente libero.
Antonio Atarés, nel maggio 1943, otterrà l’autorizzazione a lavorare
fuori del campo e, infine, la libertà132. Nell’unica sua lettera rimasta,
indirizzata all’amica il 18 gennaio 1944, ancora ignaro della sua morte,
ricordando l’amore per la natura che lo aveva sostenuto durante la
prigionia, egli scrive:

Nel marzo del ’43, ho ricevuto una tua lettera a cui ho immediatamente risposto; ma non ho
avuto più tue notizie. Il tuo silenzio prolungato non mi preoccupa molto, in primo luogo
perché sono consapevole del tempo in cui viviamo. E poi, perché penso che, se ti fosse
capitato qualcosa di inatteso, i tuoi genitori, al corrente dell’amicizia che ci lega, me
l’avrebbero subito comunicato. […]
In questa città (Orano), la mia anima è immersa in un’atmosfera molto piacevole. Infatti vi
ho trovato tutti gli elementi che più mi appagano, come il mare, le montagne rivestite di
tanti alberi e abbellite di magnifici paesaggi. E ciò che è più prezioso per l’uomo che pensa,
la libertà133.

Nelle Forme dell’amore implicito di Dio Simone Weil ha distillato, con


cristallina purezza, le esperienze di amicizia di cui si è nutrito il suo
soggiorno a Marsiglia. Come un canto gregoriano, lento e struggente,
questo scritto ci ha accompagnato in tutta la nostra ricostruzione. Le
espressioni purificate, impersonali, ardue che lo compongono, restituiscono
l’eco di situazioni vissute, di parole effettivamente scambiate tra amici. È
possibile persino rintracciarvi delle pudiche allusioni, degli affettuosi
messaggi indirizzati a ciascuno di loro. È infatti difficile non pensare a
padre Perrin, quando confessa, in un sussulto di tenerezza, che «trattare con
amore il prossimo che giace nella sventura è un po’ come battezzarlo…»134;
o a Gustave Thibon quando ricorda che, se la scelta di una parola risponde
«alla ricerca dell’effetto nella composizione di una poesia, non c’è vera
ispirazione»135; o a Joë Bousquet laddove ricorda «che tutte le bellezze
secondarie possiedono un valore immenso in quanto squarci sulla bellezza
universale, ma se ci si limita ad esse sussistono come veli e dunque tendono
a corrompere»136.
L’amicizia pura, che il testo esalta, è sentita come un dono
soprannaturale che può essere solo implorato, una virtù capace di ispirare il
comportamento, un crogiuolo in cui bruciare e purificare le scorie dei nostri
fragili amori: un’impresa impossibile, una follia, la follia di amore. D’altra
parte, solo quelli che si lasciano contagiare da simile follia sono i veri saggi.
Come recita una copla, trascritta per Antonio e offerta anche a Joë
Bousquet: «Gli amori possibili sono per i deboli, i saggi scelgono gli amori
impossibili»137.
Solo attraverso l’impossibile si dà il passaggio al trascendente.
PARTE SECONDA

Le lettere agli amici prigionieri

L’altro. Percepire un essere umano


(immagine di se stessi)
come una prigione
in cui abita un prigioniero,
con tutto l’universo intorno.
SIMONE WEIL, 1941
Come lampi di luce purissima

Il carteggio tra Simone Weil e Joë Bousquet

Quantitativamente limitato ma di grande intensità si rivela fin dalle


prime battute questo scambio epistolare nato, come si è detto, da un breve e
folgorante incontro. L’autenticità della relazione tra un uomo e una donna,
che si sono appena incontrati ma pare si conoscano da sempre, si sprigiona
attraverso un inatteso cortocircuito di sguardi, di gesti, di parole. Parole
essenziali, irrinunciabili, anche se appena bisbigliate, nella penombra della
stanza, in un buio necessario a rendere visibile ciò che le apparenze
abitualmente nascondono.
Un contatto così profondo e immediato, quasi miracoloso, può trovare
una sua ragione, almeno parziale, nell’onestà profonda, nel coinvolgimento
pieno, fisico e spirituale, con cui entrambi si rivelano impegnati nella
ricerca della verità: non una verità di ordine teoretico, ma una verità vitale,
capace di illuminarli sul senso nascosto dell’irrompere del dolore nelle
rispettive esistenze.
Ma questo comune orientamento dello sguardo non toglie nulla alle
radicali, profonde differenze di temperamento e di vita tra loro due, in
rapporto non solo alle vicende esteriori dell’esistenza, ma alla relazione di
ciascuno con se stesso. Il poeta conosce, e non nega, quella scissione
interiore che gli impedisce di essere libero fino in fondo e, soprattutto, lo
ostacola nel compiere in modo limpido e puro la distinzione tra il bene e il
male, l’opzione etica ed esistenziale che l’amica gli suggerisce come
indispensabile per una più solida costruzione interiore. In questo senso, tra
loro si consuma davvero l’incontro dell’ombra con la grazia: incontro
misterioso tra un eterno viandante dello spirito, continuamente esposto al
rischio di smarrire la rotta, e l’umile e saggia messaggera di un bene a fatica
intravisto e subito generosamente condiviso.
Il fondale su cui si staglia questa conoscenza straordinaria è costituito
dall’esperienza di guerra, da entrambi sofferta nella carne prima ancora che
nell’anima. Del poeta si può dire che ne porti le stimmate, inchiodato non
solo a una memoria dolorosa, ma a un letto che non gli dà pace. Di Simone
Weil sappiamo che, dopo il bruciante contatto con la follia della guerra, in
Spagna, aveva cominciato a coltivare, dentro di sé, la convinzione che solo
il consenso al soprannaturale possa fare da argine al dominio schiacciante
della forza nelle vicende umane.
È dunque giusto, per l’uno come per l’altra, parlare di una sofferenza
pienamente incarnata, di una sventura che duole come una piaga sempre
aperta. Ci sembra, infatti, che proprio il corpo abbia un ruolo decisivo nel
rapporto tra i due amici e nella riflessione che ne scaturisce e trova spazio
in queste lettere. Lo dimostra la concretezza delle immagini che ricorrono:
il corpo del poeta prigioniero di un letto, la sua pesantezza opposta alla
leggerezza, alla trasparenza quasi, della sua giovane amica1. Lo attesta quel
«chiodo» della sofferenza e della sventura conficcato in profondità nella
carne di entrambi.
Anche nei simboli ai quali, nelle sue lettere, Simone Weil ricorre per
dire l’indicibile all’amico lontano, il richiamo alla corporeità esercita un
ruolo conoscitivo essenziale. Si pensi a quell’uovo dal quale il pulcino
fatica tanto a uscire che, se è vero che è un’immagine di matrice orfica,
tuttavia, per certi versi, richiama le doglie, il travaglio del parto che
coinvolge tutta la natura e ha in sé un afflato cosmico di dolorosa ma
possibile rinascita. Ma vi è un’altra immagine, di straordinaria efficacia
espressiva, che ricorre in queste lettere: quella della «verginità violata» che,
paradossalmente, si offre come metafora di un atto profondamente positivo,
il consenso nuziale al Bene, presentato come scelta irreversibile. Ha una
corposità e una forte pregnanza visionaria anche la fiaba norvegese, che
Simone Weil narra all’amico malato, in cui la dimensione erotica e quella
mistica si compenetrano in modo del tutto naturale.
Proprio per la forma incarnata in cui la verità si fa strada in queste
lettere la mitica ricerca del Graal, alla quale Simone Weil fa riferimento, si
traduce per entrambi in un cammino verso una comunicazione intellettuale
e affettiva libera da qualsiasi impaccio. Ed è lungo questo percorso, in cui
entrambe le sensibilità si mettono a nudo e si lasciano sondare, che con
assoluta spontaneità il viandante che va a passo più sicuro pone al
compagno affaticato l’unica domanda che veramente conti nei rapporti
umani: «Qual è dunque il tuo tormento?». Solo a partire da questo
interrogativo, la relazione può dispiegarsi in tutta la sua ricchezza e
diventare l’unico farmaco che, anche se non risana, reca perlomeno sollievo
alle piaghe più dolorose, nel corpo e nell’anima della persona amata.
Il male da cui è costantemente tormentato il poeta, oltre alla ferita di
guerra, è un’insidia nascosta di cui solo uno sguardo addestrato
all’attenzione può rendersi conto: è la tendenza a rifugiarsi in una realtà
fittizia, abbandonandosi all’immaginazione per paura di confrontarsi
veramente sia col ricordo che con la realtà tangibile, insopportabile, del
presente. Eppure, non vi è traccia di masochismo nelle parole con cui
l’amica lo invita a non distogliere l’attenzione dalla ferita che gli strazia il
corpo e dal dolore costante che essa provoca, neanche quando ha l’audacia
di definire quella ferita come il «privilegio» che la vita gli accorda. La
prova che in queste parole – estreme fino all’oltranza – non vi è né
sottovalutazione della sofferenza fisica, né incapacità di compatire
fraternamente l’angoscia dell’amico, è data dal fatto che Simone si dice, o
meglio si lascia intendere, disposta a procurargli una «medicina» in grado,
se non altro, di attenuarne lo strazio fisico.
Del resto, nell’estrema diversità di esperienze di vita tra loro due, molte
cose li rendevano affini sia culturalmente che spiritualmente: in primo
luogo, la predilezione per la cultura greca, per Platone in particolare, e poi il
piacere condiviso della dialettica delle idee e del ricorso alla parola poetica
portata al massimo delle sue potenzialità simboliche. Ma forse, ancor più,
quel che segretamente li avvicina è una comunanza spirituale profonda tra
lei, radicalmente cristiana, ma mai passata oltre la soglia della Chiesa, e lui
agnostico, eppure intimamente bisognoso di inoltrarsi fino alle radici della
fede, convinto che Dio vada trovato dentro di sé, oppure lasciato dov’è.
Non appena si rende conto che l’amico è oppresso da una lacerazione
interiore che rischia di togliere autenticità alla sua vita, e anche alla sua
scrittura, Simone Weil non prova ripulsa per lui, non emette giudizi di
condanna ma, con dolcezza tutta femminile, ricorre al lessico lieve della
fiaba e della poesia, congeniale all’amico. Così facendo, lo avvia sulla
strada di una necessaria chiarificazione interiore, compiendo l’umile e
prezioso gesto di una moderna Antigone che si sporge, oltre il visibile, sul
male estremo di un cuore malato, e ne ispeziona le ferite, con sguardo
vigile, nel generoso sforzo di curarle.
L’ultima lettera di questo breve e intenso carteggio, quella scritta da Joë
Bousquet ad Hélène e Pierre Honnorat, che lo avevano informato della
morte della comune amica, in modo lucido e commosso, esprime la
consapevolezza, ormai pienamente acquisita, del valore morale
incommensurabile di Simone Weil, non solo come donna e come pensatrice,
ma come messaggera di eternità.
Simone Weil a Joë Bousquet

8, rue des Catalans


13 aprile 1942

Caro amico,

solo quindici giorni fa non la conoscevo ancora, eppure mi è proprio


impossibile chiamarla diversamente – la prima cosa che voglio dirle è che
incontrarla è stato per me qualcosa di più che prezioso. Avevo un vago
presentimento che sarebbe stato così, ma non fino a questo punto.
Devo poi chiederle di non tardare troppo a spedirmi la lettera di cui
abbiamo parlato; potrebbe darsi che io parta tra qualche giorno2.
A questa lettera accludo quel che già c’è del mio lavoro teatrale: quasi
tutto il terzo atto e lo schema del resto3. Anzitutto, perché possa leggerlo e
darmi un suo parere, ma anche perché lo conservi (insieme a qualche
poesia) qualora io dovessi partire e, soprattutto, se mi capitasse di morire.
Non so se c’è qualche interesse che queste cose rimangano. Non vorrei
lasciarmi andare a crederlo. Ad ogni modo, voglio aver fatto tutto il
necessario perché non scompaiano automaticamente. Riguardo a queste
cose, beninteso, le chiedo solo di custodirle presso di sé.
Mi ha molto commosso constatare che ha prestato una vera attenzione
alle pagine che le ho mostrato. Questo non mi autorizza a pensare che siano
meritevoli di attenzione. Considero la sua attenzione un dono gratuito e
generoso. L’attenzione è la forma più rara e più pura di generosità.
A ben pochi spiriti è dato in sorte di scoprire che le cose e gli esseri
esistono davvero4. Fin da bambina, il mio unico desiderio è averne la
rivelazione completa prima della morte. Mi sembra che lei stia procedendo
in questa ricerca. In effetti, da quando sono arrivata in questa regione, credo
di aver incontrato solo uomini che hanno un destino molto inferiore al suo,
con un’unica eccezione.
(L’eccezione, per inciso, è un domenicano di Marsiglia, quasi
completamente cieco, chiamato padre Perrin. Credo che sia da poco
diventato priore del convento di Montpellier; se dovesse passare per
Carcassonne, penso che varrebbe la pena organizzare un incontro fra voi
due)5.
Questa scoperta costituisce, in fondo, l’argomento della storia del
Graal6. Solo un essere predestinato possiede la capacità di chiedere a un
altro: «Qual è dunque il tuo tormento?». E non la possiede nel momento in
cui viene al mondo. Deve passare attraverso anni di notte oscura, in cui
dovrà vagare nella sventura, lontano da tutto ciò che ama e con il
sentimento di essere maledetto7. Ma, alla fine di tutto ciò, ottiene in dono la
capacità di porre una simile domanda, e nello stesso momento entra in
possesso della pietra della vita. E guarisce la sofferenza degli altri.
Qui sta, ai miei occhi, il solo fondamento legittimo di ogni morale; le
cattive azioni sono quelle che violano la realtà delle cose e degli esseri, o
ciò che sarebbe assolutamente impossibile compiere se davvero si sapesse
che le cose e gli esseri esistono.
Allo stesso modo, la conoscenza piena che le cose e gli esseri sono reali
implica la perfezione.
Ma anche quando si è ancora molto lontani dalla perfezione, se si è
orientati verso di essa, è possibile avere un presentimento di tale
conoscenza; e questo è estremamente raro. Non vi è altra autentica
grandezza.
Parlo di tutto ciò non proprio come un cieco, ma come un quasi cieco
può parlare della luce.
Insomma, ne so abbastanza da essere riuscita a riconoscere in lei questo
orientamento.
Si tratta di un ambito in cui opera il semplice desiderio, se è veritiero,
non la volontà; in cui il semplice orientamento consente di avanzare, ma a
condizione di restare costantemente rivolti verso lo stesso obiettivo8. Chi si
è posto una volta nella direzione giusta, è tre volte felice. Gli altri, invece, si
agitano dentro un sogno. Chi è nella direzione giusta, non può incorrere in
alcun male. Benché sia più sensibile degli altri alla sventura, benché la
sventura susciti in lui soprattutto un sentimento di colpa e di maledizione,
tuttavia, per lui, la sventura non rappresenta un male. A meno che non
tradisca o cambi direzione, ne è preservato per sempre.
Perfino nel momento in cui si sente completamente abbandonato da Dio
e dagli uomini, anche allora è preservato da ogni male.
Per aver parte a questo privilegio, basta desiderarlo. Ma questo
desiderio è cosa assai difficile e rara. La maggior parte di quelli che credono
di averlo, ne sono privi. Tutta la parte mediocre dell’anima si ribella e vuole
soffocare il desiderio che la minaccia di morte, e riesce spesso a trovare
qualche menzogna che l’aiuta a raggiungere lo scopo. In quel momento si
sente al sicuro. Gli sforzi, la tensione della volontà, non l’assillano più. A
minacciarla è solo la presenza nell’anima di un punto di desiderio puro9.
Nei prossimi giorni le invierò la copia di alcuni versi di Eschilo e di
Sofocle che ho tentato di tradurre. E un Nuovo Testamento in greco.
C’è una cosa che mi rammarica di non averle detto a Carcassonne. Si
tratta di questo. Poiché ha bisogno di farsi arrivare una medicina da
Marsiglia, se posso in questo esserle utile, disponga pure di me10. In caso di
necessità, non abbia alcun timore di infastidirmi.
Abbia fiducia nella mia amicizia,
Simone Weil
Joë Bousquet a Simone Weil

Carcassonne, lunedì [aprile 1942]

Mia cara amica,

un inconveniente di poco conto mi ha impedito di scriverle prima d’ora:


un terza piaga mi si è aperta nella pelle, costringendomi a stare su un
triangolo doloroso che il continuo contatto col cuscino scava giorno dopo
giorno. Ho potuto cambiare posizione solo restando sempre disteso e, visto
che il minimo spostamento comprime l’una o l’altra di queste piaghe, mi
trovo obbligato a rimanere con gli occhi rivolti al soffitto e il portapenne in
un canto, dal momento che l’inchiostro si accumula al fondo della
stilografica. Stasera, sentendomi un po’ meno inchiodato al mio treppiede,
mi sono sforzato di rimanere seduto per un po’ e mi affretto a inviarle
qualche parola.
Non mi capita poi così spesso come crede l’occasione di essere preso da
esperienze attraenti dal principio alla fine. Tutto ciò che mi ha detto ha
suscitato in me delle riflessioni appassionanti. E sono assai felice di
conoscerla. Credo nella nostra amicizia. Più di qualsiasi altro, lei sarebbe in
grado di aiutarmi ad annientare tutto quel che resta in me di non evoluto, di
ereditato. L’ardore con cui espongo le mie idee può ingannare sullo stato
reale dei miei progressi. Se avessi un po’ di pace, se mi potessi ritrovare
solo con le mie convinzioni, le esprimerei con minor irruenza e avrei
perfino timore di strapparmele dal cuore. Un altro io mi ha seguito
ovunque, sempre pronto a riafferrarmi, come se, per effetto del suo
dispotismo, non avessi l’opportunità di crescere se non negli altri. L’ho
invidiata perché lei possiede l’intuizione del bene e il senso del male. Io
non ho potuto mai elevarmi fino a quel punto. Mi sembra che il mondo
fisico tenda ad affrancarci dalle nostre impressioni e sia sempre in procinto
di introdurci in un cerchio dell’esistenza in cui, per così dire, esso si
lascerebbe avviluppare dai nostri sensi, permettendo al nostro essere ormai
libero di avere finalmente accesso alla vita dell’anima.
È strano, ma penso che vi sia un oggetto che può essere offerto al
pensiero affinché l’anima, in questo mondo, abbia un suo centro di gravità
in rapporto al quale i fatti e gli esseri tornino ad essere immagini della vita
profonda11. Forse non cerco altro che la felicità e l’oblio della morte.
Questa cosa lei saprebbe dirla meglio di me. Ogni pensiero umano è
pensiero solo in seconda istanza: in primo luogo è l’invenzione di un
mondo in cui la morte non si lascia presagire12. Penso che la mia coscienza
dovrebbe essere intessuta solo di eventi ritmati in vista di una fine
inevitabile. Per questo, pur sapendo quanto poco si possa ricavare dalla
sensazione, cerco la mia vita al di fuori della coscienza, come se tutto ciò
che ci ha formato dovesse cadere sotto i nostri sensi e condividere in modo
visibile la nostra sorte, come se la nostra coscienza dovesse diventare la
carne stessa dei nostri giorni13. Tra tutti i nostri ricordi, dovrebbe veramente
determinarci quello che si fa oggettivo senza cessare di essere un ricordo.
Grande è la tentazione, quando per tante volte abbiamo visto che i fatti si
ispirano ai nostri pensieri, e vi concidono a pieno, tanto da indurci a
dimorare in loro, grande è la tentazione di prevedere questa operazione e di
sottomettere, a priori, tutto ciò che ci accada a quel punto indivisibile
rispetto al quale il nostro io è in una posizione del tutto marginale. Sognare
la propria vita – direbbe un poeta autentico. Meglio: tendere con tutte le
forze verso una felicità che riuscisse a offrirci, di tutto quel che siamo stati,
una visione inesauribile. Morire solo nel momento in cui sapremo essere,
per sempre, la felicità e la gloria della vita che abbiamo vissuto14. Si è se
stessi solo nel proprio cuore; si ama soltanto ciò che fa di lui un asilo per
noi. Si è felici solo grazie al modo che si ha di essere l’ospite di se stessi.
Ma perché queste evidenze non sono nel mio silenzio quel che sono nelle
mie parole? Lei è più avanti di me. Ma paga duramente il prezzo delle sue
qualità morali: non ha abbastanza fiducia in se stessa. Essere creati da Dio
vuol forse dire incarnare l’essere del suo essere, noi siamo le immagini del
suo potere e probabilmente il suo stesso pensiero, quando ne siamo
consapevoli. Questo deve farci tremare, farci sentire la nostra indegnità, ma
non farci dubitare della capacità di rivelazione che è in ciascuno di noi.
Le ho parlato, poco fa, delle mie debolezze. So di che cosa mi lamento.
Porto in me un imbecille e lo nutro con la mia sostanza. In certi momenti mi
fa così paura che lo chiamo il mio «morto», a tal punto che pretendo di
vedere in lui un essere da cui solo la fine mi libererà.
Non oso esprimerle tutto il bene che penso del suo work in progress15.
Lei potrebbe credere che questi elogi siano dettati dall’amicizia che provo
nei suoi confronti. Eppure, non può certo ignorare con quale sicurezza è
andata all’essenza drammatica della sua opera. Lei mi ha suggerito che non
può esservi autentica tragedia se non si risale fino alla sorgente del sangue e
della forza. Sono molto felice di avere tra le mani questo testo. La prima
lettura mi ha fatto sperare che la parte poetica guadagni più spazio rispetto
alle pagine in prosa. C’è più chiaroveggenza nei versi che nella prosa. Si
direbbe che il ritmo dei versi coincida per lei con il ritmo della coscienza.
Uno dei suoi personaggi, che invoca delle ragioni per non uccidere il
traditore, le troverebbe in sé – conferendo loro un’identità morale – se
adottasse il linguaggio del suo interlocutore16.
Vorrei, soprattutto, parlarle della sua lettera. La verità è incomunicabile.
Ma è possibile ispirarsi ad essa e lasciarsene conquistare quando si vede
«che cosa ha fatto di una sensibilità». Vi sono alcune parole, in ciò che mi
scrive, che hanno una straordinaria forza comunicativa: «Se si sapesse
davvero che le cose e gli esseri esistono». Vorrei poter leggere qualcuna
delle sue impressioni mistiche, e sapere in che modo analizza ciò che prova,
ad esempio, in base alle sue convinzioni, qual è in lei la poesia della fede.
Attenzione! So fin troppo bene quanto è necessario difendersi
dall’apparenza delle impressioni religiose. Ma non temo affatto, per lei,
quella compiacenza femminile che tutte le sue aspirazioni smentiscono.
Proprio perché non saprebbe essere debole senza far violenza a se stessa, mi
attendo molto da un abbandono mistico al quale difficilmente sarebbe
disposta ad accordare il suo consenso. Ci pensi: gli argomenti più abusati, i
più screditati hanno bisogno di un essere votato, senza saperlo, a portare
alla luce la loro vera grandezza. Lei potrebbe scrivere cose molto belle
sull’amore divino. Il loro fascino è come se si lasciasse già presagire nella
sua opera sulla violenza, e sarebbe per lei un’esplorazione davvero
sconvolgente, se riuscisse a completare la sua opera drammatica avendo
preso piena coscienza di che cosa sarebbe in grado di scrivere sotto un altro
segno17.
Grazie, carissima amica, della disponibilità che mi ha manifestato per le
medicine. Mi rincuora pensare che mi abbia proposto qualcosa che degli
uomini non hanno osato offrirmi. Si dà il caso che la sua generosa iniziativa
sia inutile poiché, in questo momento, le cose vanno per il meglio. Grazie di
tutto cuore18.
Chiudo questa lettera per potermi di nuovo distendere. Domani le
invierò la lettera promessa. Le sono, mia cara amica, molto affettuosamente
vicino.
Joë Bousquet
Simone Weil a Joë Bousquet

[non datata, fine aprile o inizio maggio]

Caro amico,

dalla sua lettera ho appreso con molta pena che, come temevo, è stata la
sofferenza a impedirle di scrivermi.
Le confesso che, dopo la partenza, ogni volta che penserò a lei, mi sarà
assai doloroso dover pensare che forse sta soffrendo e, a causa della
distanza, non poter essere rassicurata da qualche notizia recente.
La mia partenza è stata rinviata di giorno in giorno, sicché mi trovo
ancora qui. Stavolta però penso proprio che sarà per mercoledì o giovedì.
Suppongo che ancora una volta sia stata la sofferenza a impedirle di
scrivere la lettera concordata. L’aspettavo, ad ogni arrivo della posta, prima
di risponderle, e stupidamente non ho pensato che dopo qualche giorno non
avrebbe più potuto spedirmela, nell’incertezza su dove mi trovassi.
Se è già stata scritta e pensa che possa arrivare mercoledì mattina,
potrebbe indirizzarmela qui. Ma credo che sia troppo rischioso e sia meglio
inviarla a Casablanca, presso Mme Bercher, 148, rue Blaise Pascal. Per
maggior sicurezza, la spedisca per posta aerea. Di sicuro, lei si sarà
premurato di scriverla in modo che mi arrivi.
Le scriverò più a lungo prima di partire. Oggi le invio soltanto, ed è
meglio così, qualche puro gioiello19.
Mi auguro che i passi greci, con la traduzione, siano per lei lo stimolo
necessario per immergersi completamente in quella lingua.
Abbia sempre fiducia nella mia amicizia,
Simone Weil
Joë Bousquet a Simone Weil

Carcassonne, 2 maggio 1942

Mia cara amica,

ho rimuginato a lungo, dentro di me, tutti i punti della nostra


conversazione. Mi ha riempito di ricordi e di idee. Le sono riconoscente di
avermi offerto squarci di luce per tornare col pensiero al mio passato di
soldato, dove tanti eventi sono rimasti in sospeso, gravati da un’esperienza
che si aspettava tutto dalla vita. Voglio farle un solo esempio.
Prima dell’attacco del 16 aprile 1917, al quale mi accingevo a
partecipare in qualità di aspirante ufficiale di fanteria, fui lungamente
redarguito dal mio comandante di compagnia. Andavo convincendomi che
quel tenente gesuita (Louis Houdard) fosse l’ufficiale più coraggioso e più
santo della divisione d’attacco alla quale appartenevo (39a D.I., 156°
reggimento di fanteria, 20° corpo). Mi aveva appena impartito ordini molto
precisi per compiere un colpo di mano che dovevo tentare alla fine
dell’attacco: ordini duri, saggi, in cui tutto doveva essere previsto. Gli
uomini che dovevano prendervi parte insieme a me non erano affatto
esonerati dall’attacco e dovevano essere prescelti dalla loro stessa sorte, dal
momento che erano preventivamente conteggiati tra i superstiti del plotone
che avrebbe scavalcato il parapetto con me. Houdard, all’improvviso, si
rende conto che sono al mio primo attacco e, con tono piuttosto vivace,
dice: «Una raccomandazione! Divieto categorico ai combattenti di fermarsi
accanto ai feriti. Nulla autorizza un soldato in combattimento a raccogliere i
pianti e le suppliche di un soldato morente».
Il contatto con la legge della guerra mi apparve più tremendo della
battaglia stessa. Il fatto è che una battaglia non si manifesta mai in tutta la
sua ampiezza, mentre la regola che essa ha reso indispensabile, tutto a un
tratto, ne mette completamente a nudo l’orrore. Interrogai il tenente
Houdard. L’eccellente gesuita aveva la preoccupazione di formare in me un
uomo e, contemporaneamente, di tirarne fuori l’ufficiale: «Il soldato che
attacca», mi disse, «appartiene alla sua missione, al suo dovere, appartiene
alla grande battaglia che vede dispiegarsi con stupore, è preda della sua
immaginazione e del suo senso del dovere, non appartiene a sé. Conversare
con un morente lo restituisce a se stesso e altera la volontà prodotta in lui
dall’evento. La pietà, la paura sollecitano in lui una coscienza, e questa
coscienza è solo dolore. All’uomo che ha timore unicamente della morte,
non bisogna mai imporre la visione di un’agonia»20.
L’attacco ebbe luogo, e fu tremendo. È in quell’occasione che mi è stata
assegnata la medaglia al valor militare e il tenente Houdard è diventato
capitano. Avevo eseguito i suoi ordini, senza difficoltà. I soldati,
probabilmente preoccupati di conservare intatte le proprie forze, evitavano
il contatto con i feriti.
In seguito, in più di un’occasione, in Belgio, in Lorena, a Verdun, ho
potuto osservare lo stesso fenomeno.
Ma, lei mi ha detto, se le cose vanno così, i feriti, a volte, rimangono per
molto tempo sul campo di battaglia, in attesa dei barellieri. È vero, per
quanto i barellieri facciano del loro meglio, i soldati caduti in battaglia
devono attendere nel punto in cui sono stati colpiti.
Che possa esservi spazio, sul campo di battaglia, per un corpo di
infermiere spirituali, io lo credo. Certamente non vi è nulla che si opponga
alla creazione di un simile corpo. Mi è perfino capitato di vedere,
casualmente, organizzarsi in tutta fretta sul campo di battaglia, con rara
efficacia, soccorsi di questo tipo21.
Il 25 aprile 1918, i tedeschi avevano appena conquistato il Monte
Kemmel al 416° R.I. e, sopraffatti da un combattimento sfibrante e
sanguinoso, si arrestavano davanti allo Scherpenberg e al Mont des Cats,
senza difensori. Si raccoglievano in tal modo davanti all’ultima duna che li
separava da Dunkerque, mentre la 39a D.I. in cui ero ufficiale si era
acquartierata a diciotto chilometri, ignara del compito da svolgere. Il giorno
26, alle undici del mattino, vengono allertati i fanti della 39a D.I. e spediti,
fatto assai raro, in pieno giorno, verso il luogo del combattimento.
Il 156° reggimento, al quale appartenevo, marciava verso lo
Scherpenberg seguendo la strada. I campi tutt’intorno si riempivano di
artiglieri che puntavano le armi attenendosi alle indicazioni degli ufficiali
appollaiati sui cassoni (erano le classiche manovre del 1913-1914).
Ridiscendendo le linee dove si era ripreso a combattere – dal momento che
alcuni elementi sparsi del 416° si erano raggruppati in vista di un
contrattacco – degli automezzi procedevano, pieni di feriti e guidati da
donne, molto giovani, americane, inglesi, anche francesi, credo. Occupando
i nostri posti di combattimento, ci rendevamo conto che proprio quelle
ragazze raccoglievano i feriti, li prendevano sul campo di battaglia che
aveva ormai inglobato sia l’ambulatorio che le strutture sanitarie. Rinuncio
a descriverle il comportamento, la calma di quelle ragazze, preferisco
sottolineare lo slancio che queste presenze femminili avevano comunicato
ai nostri combattenti22.
Penso davvero che questo avverrà sempre. La carità che conforta il
soldato ferito fortifica quello incolume al quale resta promessa. Alcuni –
maniaci incorreggibili – si appelleranno al rischio morale che
probabilmente si corre, consentendo a delle donne di aggirarsi tra i soldati
in azione. Questi non hanno mai visto un campo di battaglia, perché non vi
è posto al mondo in cui un soldato è più vincolato, più controllato, e meno
libero di affrancarsi. Bisogna anche dire che il rischio di morte conferisce
una gran forza morale a chiunque vi si trovi incessantemente esposto. Le
mie parole non sarebbero veritiere se non nascessero da un’osservazione
diretta. Non sto dicendo che il pericolo di morire è salutare per l’anima.
Voglio dire che anche il soldato più incline al furto è improvvisamente colto
da esitazione prima di derubare – perfino un cadavere – quando si ritrova
esposto alla minaccia dei proiettili e delle granate. Tutto, a un tratto, si fa
più grave, più pesante. Ognuno è preso dal timore di agire in modo non
conforme al dovere e all’ordine.
Sono, mia cara amica, assolutamente pronto a fornirle nuove
precisazioni su questo argomento. Mi ponga delle domande, è il miglior
modo per sviscerarlo. Ancora una riflessione. Lei sembrava aspettarsi che le
donne destinate al conforto morale dei feriti dovessero rimanere
costantemente sul campo di battaglia, senza mai essere sostituite. Si tratta di
un’idea romantica e impraticabile. Bisognerebbe trattare questi angeli
guardiani come si tratta qualsiasi altro corpo, per il quale è previsto un
cambio, non solo per un’idea di giustizia, ma per ragioni di tipo, in qualche
modo, amministrativo, dal momento che ogni formazione deve appartenere
a un organismo coerente, e seguirlo nei suoi spostamenti. La sua idea
andrebbe riformulata in questi termini: le infermiere dovrebbero
appartenere alla divisione, sempre mobile, al corpo d’armata che è la base e
il perno delle divisioni che si avvicendano, o all’esercito che, rimanendo
stabile nel mutamento dei corpi d’armata, è più strettamente incorporato nel
settore…
A presto, mia cara amica.
Molto affettuosamente suo,
Joë Bousquet
Simone Weil a Joë Bousquet

Marsiglia 12 maggio 1942

Caro amico,

anzitutto, grazie ancora per ciò che ha fatto per me. Se, come mi auguro,
si rivelerà efficace, non lo avrà fatto per me ma, attraverso di me, per gli
altri, quei suoi giovani fratelli, presi come lei dentro lo stesso destino, che
devono esserle infinitamente cari. Forse, all’approssimarsi dell’istante
supremo, qualcuno le sarà debitore della dolcezza di uno scambio di
sguardi23.
Tra tutti, lei è privilegiato perché lo stato attuale del mondo è per lei una
realtà. Più ancora, forse, che per coloro che in questo momento uccidono e
muoiono, feriscono e sono feriti, e che, attoniti, non sanno né dove sono né
quel che gli capita, e che, come è avvenuto per lei un tempo, non hanno
coscienza di questa situazione. Per tutti gli altri, per la gente di qui ad
esempio, ciò che succede, è per alcuni ben poca cosa, un incubo confuso,
per la maggior parte un vago fondale, una scena teatrale, in entrambi i casi
qualcosa di irreale24.
Da vent’anni, lei va ricostruendo col pensiero questo destino che ha
afferrato e poi lasciato tanta gente, che ha afferrato lei per sempre e che
adesso nuovamente afferra milioni di uomini. Lei, ora, è pronto per
pensarlo. O se non lo è ancora del tutto – credo che non lo sia – in ogni caso
ha soltanto un guscio da forare per uscire dalle tenebre dell’uovo nella luce
della verità, e sta già battendo contro il guscio. Si tratta di un’immagine
molto antica25. L’uovo è il mondo visibile. Il pulcino è l’Amore, l’Amore
che è Dio stesso e che abita nel profondo di ogni uomo, da principio come
un germe invisibile. Quando il guscio è forato e l’essere è uscito, l’oggetto
della visione è ancora questo stesso mondo. Ma non sta più dentro. Lo
spazio si è aperto e lacerato. Lo spirito, abbandonato il corpo in un angolo,
è trasportato in un punto fuori dello spazio, che non è un punto di vista, da
cui non si ha una prospettiva, da cui il mondo visibile appare reale, senza
prospettiva. Lo spazio, rispetto a com’era dentro l’uovo, si trasforma in un
infinito alla seconda o meglio alla terza potenza. L’istante è immobile26.
Tutto lo spazio, anche se si odono dei rumori, è riempito da un denso
silenzio, che non è assenza di suoni, ma un oggetto reale di sensazione, più
reale di un suono, che è la parola segreta, la parola dell’Amore che fin
dall’origine ci tiene nelle sue braccia.
Quando sarà uscito dall’uovo, lei conoscerà la realtà della guerra, la
realtà più preziosa da conoscere, perché la guerra è l’irrealtà stessa.
Conoscere la realtà della guerra realizza l’armonia pitagorica, l’unità dei
contrari, la pienezza della conoscenza del reale27. Per questo lei è
infinitamente privilegiato, perché ha la guerra annidata nel corpo, che
attende da anni, fedelmente, che sia maturo per conoscerla. Quelli che sono
caduti accanto a lei, non hanno avuto il tempo di ricondurre sul loro destino
la frivolezza errante dei pensieri. Coloro che sono ritornati incolumi hanno
tutti ucciso il passato con l’oblio, anche quando hanno mostrato di
ricordarsene, perché la guerra è sventura, e volgere volontariamente il
pensiero verso la sventura è facile quanto convincere un cane non
addestrato a passare attraverso un incendio e a lasciarsi carbonizzare. Per
pensare la sventura, bisogna portarla nella carne, conficcata in profondità,
come un chiodo, sopportarla così a lungo che il pensiero abbia tempo di
farsi forte, quanto occorre, per guardarla. Guardarla dal di fuori, dopo
essere giunti a uscire dal corpo e anche, in un certo senso, dall’anima. Il
corpo e l’anima si ritrovano, non solo trafitti, ma inchiodati a un punto
fisso. Che la sventura costringa o meno, in senso letterale, all’immobilità,
c’è sempre un’immobilità forzata, nel senso che una parte dell’anima si
trova sempre, continuamente, inseparabilmente, attaccata al dolore. Grazie
a questa immobilità, il granello infinitesimale di amore divino gettato
nell’anima può crescere e portare frutti nell’attesa, , secondo
l’espressione divinamente bella del Vangelo. Si traduce in patientia, ma
, è tutt’altra cosa. Vuol dire rimanere sul posto, immobile,
nell’attesa, senza lasciarsi scuotere né smuovere da alcuna scossa esterna28.
Felici coloro per i quali la sventura, penetrata nella carne, diventa la
sventura stessa del mondo nella loro epoca. Costoro hanno la possibilità e la
funzione di conoscere nella sua verità, di contemplare nella sua realtà la
sventura del mondo. Questa è la stessa funzione redentrice. Venti secoli fa,
nell’Impero romano, la sventura dell’epoca era la schiavitù, di cui la
crocifissione era l’esito estremo.
Sfortunati invece coloro che, avendo questa funzione, non
l’adempiono29.
Quando dice di non percepire la distinzione tra il bene e il male, presa
alla lettera, l’affermazione non è seria, perché lei parla di un altro uomo che
porta in sé, che, evidentemente, è il male dentro di lei; sa bene – e in caso di
incertezza un attento esame può quasi sempre aiutarla a capire – che cosa,
nei suoi pensieri, nelle sue parole e nei suoi atti, nutre quest’altro a spese
sue, e che cosa nutre lei a spese dell’altro. Questo vuol dire che non ha
ancora acconsentito a riconoscere questa distinzione come la distinzione tra
il bene e il male.
Questo consenso non è facile, perché impegna senza possibilità di
ritorno. Vi è, rispetto al bene, una sorta di verginità dell’anima, che non si
ritrova più una volta che sia stato dato il consenso, proprio come la
verginità di una donna che abbia ceduto a un uomo. Questa donna può
diventare infedele, adultera, ma non sarà mai più vergine. Per questo ha
paura quando sta per dire di sì. L’amore trionfa su questa paura.
Per ogni essere umano, vi è una data ignota a tutti, e a lui stesso in
primo luogo, ma assolutamente certa, oltre la quale l’anima non può più
conservare questa verginità. Se prima di quel preciso istante, fissato
dall’eternità, non ha acconsentito ad essere afferrata dal bene, si troverà
subito dopo afferrata, suo malgrado, dal male.
Un uomo può darsi al male in ogni momento della vita, perché questo
avviene inconsapevolmente e senza sapere che si introduce dentro di sé
un’autorità esterna; l’anima beve un narcotico prima di cederle la sua
verginità. Non è indispensabile aver detto di sì al male per esserne afferrato.
Il bene, invece, afferra l’anima solo se essa dice di sì. Ed è tale la paura
dell’unione nuziale, che nessun’anima ha il potere di dire di sì al bene
finché l’approssimarsi dell’istante limite, in cui il suo destino sarà segnato
in eterno, non la costringa a ciò in modo irreversibile. Per alcuni, l’istante
limite può situarsi all’età di cinque anni, per altri a sessanta. D’altro canto,
non è possibile situarlo né un istante prima né un istante dopo averlo
superato, perché questa scelta istantanea ed eterna si rivela solo quando si
rifrange nella durata. Per coloro che, molto tempo prima di avvicinarvisi, si
sono lasciati afferrare dal male, l’istante limite non ha più alcuna realtà. Il
massimo che un essere umano possa fare, fin tanto che non si sia
avvicinato, è di serbare integra, dentro di sé, la facoltà di dire di sì al
bene30.
Mi pare certo che, per lei, l’istante limite non è giunto. Non ho il potere
di scrutare i cuori, ma mi sembra che vi siano degli indizi che esso non sia
molto lontano. La sua facoltà di consenso è indubbiamente intatta.
Penso che, dopo aver consentito al bene, lei bucherà l’uovo, forse dopo
un certo intervallo, probabilmente breve; nel momento in cui sarà uscito
fuori, sarà perdonato il proiettile che un giorno gli è si è conficcato al centro
del corpo e, per suo tramite, tutto l’universo che lo aveva guidato.
L’intelligenza ha un ruolo nel preparare il consenso nuziale a Dio.
Consiste nel contemplare il male dentro di sé e odiarlo. Non nel tentare di
sbarazzarsene, ma solo nel discernerlo; e anche prima di aver detto di sì al
suo opposto, nel mantenervi fisso lo sguardo, il tempo giusto per provarne
avversione31.
Credo che probabilmente per tutti, e in particolare per quelli che sono
stati colpiti dalla sventura, soprattutto se di ordine fisico, la radice del male
sia il sogno: è la sola consolazione, la sola risorsa dello sventurato, l’unico
soccorso per sopportare la spaventosa pesantezza del tempo; un soccorso
piuttosto innocente; per altro indispensabile. Come si potrebbe farne a
meno? Ha un solo inconveniente: non è reale. Rinunciarvi per amore della
verità equivale davvero ad abbandonare tutti i propri beni per follia di
amore e seguire colui che è la Verità in persona. Vuol dire veramente
portare la croce. Il tempo è la croce.
Non bisogna farlo fino a quando l’istante limite non è vicino, ma è
necessario riconoscere il sogno per ciò che è; e nel momento stesso in cui ci
si appoggia ad esso non si deve dimenticare neanche un istante, che in tutte
le sue forme, da quelle in apparenza più inoffensive per la loro puerilità, a
quelle che sembrano più degne per la serietà e per il legame con l’arte, con
l’amore, o l’amicizia (e per molti la religione), in tutte le sue forme, senza
eccezione, esso è menzogna. Il sogno esclude l’amore. L’amore è reale.
Non oserei mai parlarle in questo modo se la mia mente avesse
elaborato tutti questi pensieri. Ma pur non dando alcun credito a queste
impressioni, ho proprio, mio malgrado, la sensazione che Dio, per amor
suo, li indirizzi verso di lei servendosi di me. Allo stesso modo in cui è
indifferente che l’ostia consacrata sia fatta di una farina della peggior
qualità, anche per tre quarti ammuffita.
Lei sostiene che io pago le mie qualità morali con la sfiducia verso me
stessa. La spiegazione dell’atteggiamento verso di me, che non è sfiducia,
ma piuttosto un misto di disprezzo, di odio e di avversione, si trova più in
basso, a livello dei meccanismi biologici: è il dolore fisico. Da dodici anni
sono abitata da un dolore, situato in prossimità del punto centrale del
sistema nervoso, alla giunzione dell’anima e del corpo, che persiste anche
durante il sonno, e non viene mai meno neanche un istante. Per dieci anni è
stato così intenso, e accompagnato da un tale senso di sfinimento, che
spesso i miei sforzi di attenzione e di lavoro intellettuale erano quasi del
tutto privi di speranza, al pari di quelli di un condannato a morte destinato
ad essere giustiziato l’indomani. E questo, in modo ancor maggiore, quando
apparivano completamente sterili e senza un frutto, anche solo immediato.
Mi sosteneva la fede, acquisita all’età di quattordici anni, che nessuno
sforzo di autentica attenzione va mai perduto, anche se non avrà
direttamente o indirettamente alcun risultato visibile. Eppure è arrivato un
momento in cui mi sono sentita minacciata, per lo sfinimento e per
l’aggravarsi del male, da un orribile decadimento di tutta l’anima, al punto
che per molte settimane mi sono chiesta, angosciata, se per me morire non
fosse il dovere più urgente, benché mi sembrasse spaventoso che la mia vita
potesse concludersi nell’orrore. Come le ho raccontato, solo una decisione
di morte condizionata e a termine mi ha restituito la serenità32.
Poco tempo prima, trovandomi già da molti anni in quello stato fisico,
ero stata operaia in fabbrica, per circa un anno, negli stabilimenti meccanici
della regione parigina. La congiunzione dell’esperienza personale e della
simpatia per la miserabile massa umana che mi circondava e con cui, ai
miei stessi occhi, mi trovavo indistintamente confusa, ha fatto penetrare
così a fondo nel mio cuore la sventura della degradazione sociale che, da
allora in poi, mi sono sempre sentita una schiava, nel senso che questa
parola aveva presso i romani.
Durante tutto quel tempo anche solo il nome di Dio non aveva alcun
posto nei miei pensieri. Ne ha avuto uno solo a partire dal giorno in cui,
circa tre anni e mezzo fa, non mi è più stato possibile rifiutarglielo. In un
momento di intenso dolore fisico, mentre mi sforzavo di amare, ma senza
credere di aver diritto di dare un nome a quell’amore, ho avvertito, senza
esservi minimamente preparata – dal momento che non avevo mai letto i
mistici – una presenza più personale, più certa, più reale di quella di un
essere umano, inaccessibile sia ai sensi che all’immaginazione, simile
all’amore che traspare nel sorriso più tenero di un essere amato. Da quel
momento il nome di Dio e quello del Cristo si sono mescolati in modo
sempre più irresistibile con i miei pensieri.
Fino a quel momento la mia unica fede era stata l’amor fati stoico,
come l’ha inteso Marco Aurelio, e che avevo sempre fedelmente praticato.
L’amore per la città dell’universo, paese natale, patria prediletta da ogni
anima, amata per la sua bellezza, nella pienezza dell’ordine e della necessità
che ne costituiscono l’essenza, insieme a tutti gli eventi che vi accadono.
Ne è risultato che la quantità irriducibile di odio e di avversione, legati
alla sofferenza e alla sventura, si è interamente riversata su di me. Ed è una
quantità considerevole, perché si tratta di una sofferenza presente alla radice
stessa di ogni pensiero, senza eccezione.
Questo ha fatto sì che io non riesca, in alcun modo, a immaginare la
possibilità che un essere umano provi amicizia per me. Se credo alla sua, è
solo perché, avendo fiducia in lei e avendo avuto da lei la rassicurazione di
tale amicizia, la mia ragione mi dice di credervi. Cionondimeno, per la mia
immaginazione, essa è impossibile.
Questa disposizione dell’immaginazione mi induce a provare una
riconoscenza ancor più tenera verso coloro che realizzano questa cosa
impossibile. Infatti l’amicizia è per me un bene incomparabile, senza
misura, una sorgente di vita, non in senso metaforico ma letterale. Dal
momento che non solo il mio corpo, ma la mia stessa anima,
completamente avvelenata dalla sofferenza, è un luogo dove il pensiero non
può abitare, è necessario che esso si sposti altrove. Può abitare solo per
brevi spazi di tempo in Dio. Abita spesso nelle cose. Ma sarebbe contro
natura che un pensiero umano non abitasse mai in qualcosa di umano. Per
questo, alla lettera, l’amicizia offre al mio pensiero tutta la parte di vita che
non le viene da Dio o dalla bellezza del mondo.
Può dunque capire quale favore mi ha fatto accordandomi la sua
amicizia.
Le dico queste cose perché è in grado di comprenderle, dal momento
che nel suo ultimo libro vi è una frase in cui mi sono riconosciuta, a
proposito dell’errore in cui cadono i suoi amici quando credono che lei
esista33. Si tratta di una disposizione della sensibilità che possono
comprendere solo quelli da cui l’esistenza stessa è direttamente e
continuamente percepita come un male. Per questi è fin troppo facile fare
quel che il Cristo chiede, cioè rinnegare se stessi. Forse troppo facile. Forse
senza merito. Tuttavia, ritengo che questa facilità costituisca un favore
immenso.
Sono convinta che la sventura da un lato, e dall’altro la gioia, intesa
come adesione totale e pura alla perfetta bellezza, poiché entrambe
comportano la perdita dell’esistenza personale, siano le due sole chiavi
grazie a cui si entra nel paese puro, nel paese respirabile, nel paese reale.
Occorre però che l’una e l’altra siano pure: la gioia senza ombra di
insoddisfazione, la sventura senza alcuna consolazione.
Lei mi capisce bene. L’amore divino che si tocca al fondo della
sventura, come la risurrezione del Cristo attraverso la crocifissione, e che
costituisce l’essenza non sensibile e il nucleo intimo della gioia, non è una
consolazione. Lascia il dolore perfettamente intatto.
Le dirò qualcosa che è arduo da pensare, ancor più arduo da dire, quasi
insopportabilmente arduo da dire a chi si ama. Per chiunque si trovi nella
sventura, il male probabilmente può essere rappresentato da tutto ciò che
procura una consolazione.
Le gioie pure che, secondo i casi, prendono momentaneamente il posto
o si sovrappongono alla sofferenza, non sono delle consolazioni. Al
contrario, è possibile scorgere una consolazione in una forma di
peggioramento morboso della sofferenza. Tutto questo per me è chiaro,
però non so se lo esprimo nel modo giusto34.
La pigrizia, il lasciarsi andare all’inerzia, una tentazione alla quale cedo
molto spesso, quasi ogni giorno, potrei dire ogni ora, è una forma
particolarmente spregevole di consolazione. Questo mi costringe a
disprezzarmi.
Mi accorgo che non ho risposto alla sua lettera, eppure ho molte cose da
dire in proposito. Sarà per un’altra volta. Oggi mi accontento di
ringraziarla.
Yours most truly,

Simone Weil

Accludo la poesia inglese, che le avevo recitato, Love: ha avuto grande


importanza nella mia vita; infatti ero intenta a recitarmela nel momento in
cui, per la prima volta, il Cristo è venuto a prendermi. Pensavo di ripetere
solo una bella poesia ma, senza che me ne rendessi conto, era una
preghiera.
P.S. Poiché posso portare con me solo pochissimi libri, le invio, tra
quanto lascio, quelli che penso possano interessarla. T.E. Lawrence, che è
diventato per me, dal momento in cui ho aperto il libro, un amico
teneramente, appassionatamente amato, e che, penso, lo diventerà ancor di
più per lei. Il Vangelo in greco, che è il gioiello per eccellenza, il Graal.
Swinburne. Le manderei G. Hebert se fosse mio, ma l’ho avuto in prestito
da Gros. Può farselo spedire da lui.

LOVE
Love bade me welcome; yet my soul drew back,
Guiltie of dust and sinne.
But quick-ey’d Love, observing me grow slack
From my first entrance in,
Drew nearer to me, sweetly questioning
If I lack’d anything

A guest, I answer’d, worthy to be here:


Love said, You shall be he.
In the unkinde, ungratefull? Ah my deare,
I cannot look on thee.
Love took my hand, and smiling did reply,
Who made the eyes but I?

Truth Lord, bur I have marr’d them: let my shame


Go where it doth deserve.
And know you not, sayes Love, who bore the blame?
My deare, then I wil serve.
You must sit down, sayes Love, and taste my Meat:
So I did sit and eat35.
Simone Weil a Joël Bousquet36

[maggio 1942]

Caro amico,

Marcelle Ballard mi ha detto che lei sta attraversando un periodo di


sofferenze. Questo pensiero mi è insopportabile. Eppure bisogna accettare
tutto ciò che esiste, comprese le sofferenze degli amici. Se così non fosse,
forse sarebbe troppo facile amare il mondo. Dio ha creato le cose del
mondo in un modo tale che l’amore per la sua creazione sia impossibile,
perché è solo mediante l’impossibile che si passa al trascendente. Una copla
spagnola dice: «Gli amori possibili sono per gli imbecilli, i saggi scelgono
gli amori impossibili»37. Dio ha fatto in modo che fosse impossibile amarlo
quaggiù. Questo è il segno che ci ha lasciato della sua infinita misericordia.
Quando lo si è capito, si è felici. Ma si tratta di una felicità alla quale si
arriva solo dopo che lo sfinimento ha quasi ucciso gran parte dell’anima.
Com’è possibile avere degli amici che soffrono e non sentirsi un criminale
nel non saper trovare una parola capace di guarire ogni sofferenza?
Quanto deve aver amato gli uomini, il Cristo, per aver avuto, a quanto è
dato sapere dalle scritture, la forza di non chiedere mai a suo Padre di
liberarli dalla sventura! Eppure la loro sventura gli strappava le lacrime38.
Io non so amare in questo modo. Dunque non so amare, e tutti gli slanci
che ho verso gli altri sono inutili, perché solo l’amore del Cristo è amore.
Non posso dire che non mi sia mai capitato di chiedere a Dio di
alleviare qualche sofferenza. Me lo rimprovererei. Ma nel caso della
sventura altrui, in particolare della sventura di quelli che amo, questo mi
costa una terribile violenza.
Trovo conforto solo nel ricordo dei piaceri spirituali e fisici che
affiorano nel mezzo della sofferenza fisica. Sono molto brevi, ma così
intensi che possono essere equiparati a un prolungato benessere39.
So questo per esperienza, e suppongo che sia così per tutti.
Ma soprattutto so per esperienza, e grazie alle testimonianze di Giobbe
e Prometeo, che è impossibile passare attraverso la sofferenza fisica
sopportandola adeguatamente – di primo acchito si ha sempre l’impressione
di sopportarla molto male, ma ciò non ha alcuna importanza – senza che si
laceri uno dei veli che ci occultano la nuda bellezza del mondo.
Non ho alcun dubbio che, se viviamo bene, nell’istante della morte, o
meglio nell’ultimo istante di vita, vedremo con i nostri sensi la bellezza del
mondo assolutamente spoglia. Al pari di un intermediario, consegneremo la
bellezza del mondo, nella sua completa nudità, a Dio che scenderà per
unirsi ad essa nei nostri occhi, e che dipende da noi per questa unione40.
Mille anni di dolore acuto e ininterrotto sarebbero poca cosa per
acquistare un tale istante.
Far intravedere a dei lettori umani, in poesie imperfette, una vaga
immagine della bellezza del mondo, come la si intuisce attraverso dei veli,
che cos’è mai a fronte del compito di consegnare a Dio, nella morte, la nuda
bellezza del mondo?

E la morte togliendo ai miei occhi la chiarità


Restituisce alla luce che essi lordavano tutta la sua purità41.

Ma se, anziché accogliere pensieri criminali, come Fedra, ci conserviamo


innocenti, è nei nostri occhi che la luce, insozzata per tutta la vita da quei
pensieri, nell’istante della morte troverà la sua assoluta purezza.
È per questo che la morte mi incute timore, come quando a un concerto
mi accorgo che un grande violinista è in procinto di dare il primo colpo
d’archetto nel momento in cui non sono ancora perfettamente pronta ad
ascoltare. È una gioia così grande che non deve arrivare prima del tempo42.
[In margine] Parto giovedì. Stia certo che lascio una parte del mio
pensiero dietro di me, a Carcassonne, nella sua camera. E nel fare quel che
desidero fare, a patto che mi si autorizzi, lei sarà per me una preziosa
ispirazione43.

S.W.

P.S. A proposito di quel che le ho detto nella mia ultima lettera, circa
l’istante limite al cui approssimarsi quasi immediato, non prima, l’anima ha
il potere di scegliere il bene, conosce il tema del folklore delle tre notti che,
a mio parere, esprime proprio questa verità? Una ragazza è sposata a un
principe che di giorno ha le sembianze di un animale. Una notte, però, se ne
libera. Scompare. Lei cammina, cammina, in cerca di lui. Una donna che
incontra lungo la via le dona tre meravigliose nocciole. Cammina ancora, a
piedi nudi, vestita di stracci, sfinita. Finalmente trova il suo principe in un
palazzo, in procinto di sposarsi, perché ha dimenticato di esserlo già. Lei si
fa assumere come sguattera. Rompe una nocciola, vi trova dentro una veste
meravigliosa, la offre in dono alla promessa sposa in cambio del permesso
di trascorrere una notte col principe. La fidanzata accetta ma somministra al
principe un narcotico. La povera ragazza lo trova addormentato. Si mette a
cantare per svegliarlo:

Lontano t’ho cercato, eccomi qui accanto a te


Caro principe di Norvegia, ti volgerai a me per parlarmi?

Ma invano. «Ella cantò finché il suo cuore fu sul punto di spezzarsi, e poi
ancora sul punto di spezzarsi». All’alba deve partire.
Una seconda notte avviene la stessa cosa. Poi una terza, l’ultima, perché
la sventurata non ha più alcuna nocciola, più niente da offrire in dono.
Ma, stavolta, la fidanzata non ha somministrato abbastanza narcotico.
Un istante prima dell’alba il principe apre gli occhi, vede la sposa, la
riconosce e scaccia l’altra.
Penso che la sposa sia il Cristo e la falsa fidanzata sia la carne, che Dio
compra mediante la bellezza.
Questa versione della storia è un racconto scozzese intitolato Le tre notti
del principe di Norvegia44.
Ve ne sono altri nel folklore tedesco, russo, ecc.
Non ricordo se gliela avevo raccontata o meno.
Simone Weil a Joë Bousquet

[Casablanca, maggio 1942]

Caro amico,

avevo sperato di avere sue notizie qui. Ho paura che lei stia ancora
male… O forse mi ha scritto troppo tardi a Marsiglia perché abbia potuto
ricevere la lettera? Insomma, spero che la mancanza di lettere da parte sua,
qui, dipenda da qualsiasi altra causa, ma non dal prolungarsi della sua
sofferenza.
Mi sto allontanando sempre più dalla Francia, in preda ai sentimenti più
diversi, ma in cui domina la lacerazione. Oggi mi rimane solo il tempo di
dirle addio. Avrei potuto scriverle a lungo nei giorni passati, ma speravo in
una sua lettera. Tra l’altro, ho trascorso le giornate a mettere sulla carta dei
pensieri, buono o cattivi, ma che esigevano di essere espressi, tutti più o
meno relativi all’amore di Dio…
C’è una singolare coincidenza che avevo trascurato di riferirle. Nello
stesso momento in cui, nella sua lettera, lei mi consigliava di scrivere su
quell’argomento, ero occupata a raccogliere e tradurre dei testi greci sullo
stesso tema, su richiesta di un domenicano, quello di cui le ho parlato,
credo, in una lettera, al quale mi lega una grande amicizia, e che sta
preparando un libro sull’Amore di Dio45. Oltre a copiarli e tradurli, ho
anche commentato quei testi. E mentre li commentavo, è affiorato anche
qualche mio pensiero personale. Tutto ciò forma un insieme eterogeneo,
scritto in condizioni pessime per la concentrazione mentale, in parte a
Marsiglia e in parte qui, in un campo di emigranti. Sicuramente non ne può
venire niente di buono. Ammesso pure che vi sia, qua e là, qualcosa di
interessante, è solo per puro caso. Fanno eccezione, è ovvio, i frammenti
dei testi greci originali46.
Ho chiesto a padre Perrin di fare in modo, durante un viaggio a
Carcassonne, di lasciare per qualche tempo questi testi nelle sue mani –
sempre che, malgrado tutto, essi non siano del tutto privi di interesse.
(In ogni caso, questo è il suo indirizzo: 45, quai del Verdanson,
Montpellier).
In questo momento, ho altre preoccupazioni, estranee alla prosa e ai
versi. Spero che ciò che lei ha fatto per me abbia piena efficacia47. Anche se
così non fosse, stia pur certo che penserò molto a lei e ai racconti che mi ha
fatto quando ero nella sua camera. Va da sé che penserò a lei in ogni caso.
Ma è in questo modo che desidero poterla pensare.
Con molto affetto,
Simone Weil
Joë Bousquet a Hélène e Pierre Honnorat

26 gennaio 1945

Cari amici sconosciuti,

dopo le vostre desolanti lettere del 3 novembre, non ho trascorso un sol


giorno senza pensare alla nostra amica scomparsa, senza parlare di lei48. La
speranza di ritrovarla prometteva un clima rassicurante a questo dopoguerra
che sempre più sembra preannunciare l’avvento di tempi mirabili e terribili.
Accanto a lei era possibile concedersi una tregua rispetto all’esistenza
moderna, riposare gli occhi dalle brucianti prospettive verso cui tutto ciò
che pensiamo, viviamo, nostro malgrado, ci sta trascinando. Lei aveva il
dono di pronunciare parole dal significato umano illimitato. Per grandi che
siano oggi le nostre speranze, quali che siano i destini lontani che esse
racchiudono, noi conserviamo la nostalgia di un tempo in cui l’immensità si
rifletteva in una parola, in una frase, in un gioiello. L’immensità, purtroppo,
oggi bisogna percorrerla: si calcola in chilometri, si pesa. Non è più la
misura dell’elevatezza.
Occorre accettare questa situazione, la abbiamo auspicata. Occorre
accettare, allo stesso modo, queste sparizioni volontarie, prevedibili. Forse
esse contengono l’ordine di vivere con gli assenti.
Grazie, amici cari, di avermi scritto queste lettere. Ho qualche libro di
Simone. Uno Swinburne49, un Vangelo in greco. Me li aveva spediti prima
di andarsene.
Non dimenticherò mai la nostra amica. I suoi pensieri erano i miei, ma
lei riposava in pensieri che mi toglievano il riposo. La morte non ha potuto
coglierla di sorpresa.

Joë Bousquet
Uno scambio di pensieri in forma di lettere

Simone Weil ad Antonio Atarés

Forse la prima sensazione che avverte chi legge queste lettere50 è lo


stupore di fronte alla serenità che vi traspare e alla sobria essenzialità dello
stile che trapassa con lievità dalla concretezza delle domande sui bisogni
materiali dell’amico alla vertiginosa profondità delle brevi ma dense
meditazioni sulla bellezza, sul dolore, sul destino. Un dato che affiora fin
dalle prime lettere è l’estrema attenzione, spiccatamente femminile, con cui
Simone si pone in ascolto dei bisogni immediati e, subito dopo, dei pensieri
e delle emozioni di Antonio, anche prima che la comunicazione tra loro
passi dal lei al tu. Esordisce, infatti, dicendo: «Non può contare su nessuno
[…] è per questo che io vorrei fare qualcosa per lei», e aggiunge: «Quel
poco che faccio per lei non merita ringraziamenti. Se io stessi in un campo e
lei in libertà…».
Mano a mano che la conoscenza epistolare procede, di tanto in tanto,
forse sollecitata dall’amico, Simone racconta qualcosa di sé e dei suoi
interessi filosofici, ma nelle parole con cui ne parla non traspare mai il
desiderio di servirsi di questo patrimonio di conoscenze per esibirlo come
oggetto di ammirazione ai suoi occhi. I riferimenti a Platone e allo
stoicismo greco entrano in modo del tutto spontaneo nel dialogo a distanza
tra due sconosciuti in cui la comunicazione oscilla, con estrema naturalezza,
tra le sofferenze quotidiane del prigioniero e i grandi temi di riflessione cari
alla pensatrice – la necessità, la sventura, la bellezza – che creano subito tra
loro un clima di intesa e di condivisione non ostacolato ma, anzi, in un certo
senso favorito dalla distanza. La guerra e l’orrore del nazismo, mai
esplicitamente evocati, costituiscono in ogni caso lo sfondo doloroso su cui
si staglia il dramma esistenziale di entrambi.
Un aspetto sul quale è utile soffermarsi è il modo in cui è rivissuto
spiritualmente il dato oggettivo della lontananza che segna il rapporto,
esclusivamente epistolare, di Simone con Antonio. Certo, è pur sempre una
distanza dolorosa, come in tutte le amicizie autentiche, è una deprivazione
del volto dell’altro, una rinuncia forzata alla naturalità dei gesti, della voce,
del contatto sensibile. Eppure, sentiamo che proprio la sofferenza del
distacco crea lo spazio necessario alla ricerca di parole depurate di ogni
accidentalità e, al tempo stesso, libere dal rischio di cedere alla
fantasticheria, al sogno, a quella idealizzazione in cui spesso cadono gli
scambi epistolari tra individui che ignorano l’uno il volto dell’altro e,
proprio per questo, cedono facilmente all’insidia dell’immaginazione e
dell’estetismo.
Non va dimenticato che Simone, proprio durante il soggiorno a
Marsiglia, tra le tante esperienze culturali vissute, aveva avviato con
passione lo studio del sanscrito e dei classici della filosofia e della
letteratura indiana. Si era fortemente persuasa, attraverso quelle letture,
della necessità di praticare il distacco dai desideri sensibili e dalle illusioni
del cuore: unica via per avviarsi a una forma vera di conoscenza. Del resto,
che anche nei rapporti affettivi la distanza sia una condizione necessaria di
autenticità, lo dirà esplicitamente nel testo di riflessione sull’amicizia che è
presentato nella terza parte di questo libro, dove spicca una folgorante
definizione: «L’amicizia è il miracolo grazie al quale un essere umano
accetta di guardare a distanza e senza avvicinarsi quello stesso essere che
gli è necessario come il nutrimento»51. Sono parole, queste, che esprimono
una miracolosa tensione fra due opposte polarità: da un lato, l’estremo
rispetto per la diversità della persona amata; dall’altro, la dolorosa
percezione del suo esserci necessaria come un nutrimento. In un certo
senso, è come se la lontananza fisica, da elemento coercitivo imposto dalla
realtà, venisse liberamente e creativamente trasfigurata nell’occasione di un
incontro a un livello di comunicazione più alto.
Ma il tratto essenziale che caratterizza il modo in cui Simone si rivolge
all’amico lontano è la gratuità assoluta con la quale è sempre pronta a
donare ciò di cui dispone: può essere un po’ di denaro o l’impegno a
cercare i modi concreti per liberarlo dalla detenzione, oppure la trascrizione
di qualche brano di poesia attraverso cui offre qualcosa di sé, qualcosa di
molto profondo e altrimenti indicibile. Veniamo così a contatto, come
lettori, con un valore centrale nella concezione dell’amicizia che, in quegli
stessi anni, sperimenta e argomenta anche in altri scritti: la gratuità è per lei
il presupposto necessario di un’uguaglianza che non sacrifichi la diversità
dell’altro, non cerchi di assorbirla per dominarla, ma la faccia sussistere
accanto a sé, come fonte preziosa di arricchimento. Non ci troviamo, si
badi, di fronte a una visione ingenuamente utopica dei rapporti umani. Al
contrario, Simone Weil aveva una spietata consapevolezza del rischio al
quale essi sono esposti quando vengono vissuti nell’illusione, tutta
psicologica, di un’intimità simbiotica, di tipo romantico, che prima o poi
trasforma la passione in bisogno, il bisogno in dipendenza e questa,
inevitabilmente, in un gioco perverso di manipolazione dell’altro e di
inganno di sé52.
Ma ciò che più incanta nella nuda semplicità di queste lettere è l’invito
costante alla contemplazione della bellezza come esperienza conoscitiva
alta, la più alta possibile, da condividere tra amici. Possiamo anzi dire che
la meditazione sul bello è il tema musicale dominante di questo breve e
intenso epistolario. Leggendolo lentamente, se ne potrà gustare a pieno lo
sviluppo armonico che si snoda in molteplici e delicate variazioni, per
culminare in un crescendo finale, nell’ultima lettera, segnata dalla tristezza
per la partenza verso gli Stati Uniti, che Simone vive come uno strappo
doloroso, e per certi versi crudele, al quale la vita la costringe.

10.3.1941

Signore,
sarà certamente meravigliato di ricevere una lettera da una sconosciuta;
ma un suo vecchio compagno di prigionia, Nicolas, mi ha parlato di lei in
un modo tale che mi sembra di conoscerla. Si ricorda di lui? Siete stati
assieme a giugno e a luglio53.
Sono stata, per qualche tempo, nel suo bel Paese, anche in alcuni piccoli
villaggi dove gli stranieri non si spingono mai. Credo che sia la sua regione.
Non ho mai dimenticato i contadini che ho visto nelle campagne; mi hanno
lasciato un’impressione indimenticabile. Per questo, quando Nicolas mi ha
parlato di lei, mi è parso di conoscerla da tanto tempo.
Mi ha detto che non può contare su nessuno e che non riceve alcun
aiuto. Per questo vorrei fare qualcosa per aiutarla; purtroppo non posso far
molto. Le invio un pacco. Spero di aver scelto delle cose che possano farle
piacere; è molto difficile, di questi tempi, trovare qualcosa da spedire.
Mi dispiace di non poter scrivere in spagnolo. Se non conosce il
francese tanto da poter leggere questa lettera, mi auguro che possa trovare
qualcuno che gliela traduca. Può rispondermi in spagnolo. Non lo scrivo ma
lo leggo con facilità.
Con i migliori auguri e un cordiale saluto,

Simone Weil

II

Mlle Simone Weil


8, rue des Catalans
Marsiglia 27.3.1941

Caro signore,

la sua lettera mi ha fatto molto piacere, perché leggendola mi sono


sentita trasportare di nuovo in Spagna; e le ho già detto quanto io ami la
Spagna, la sua lingua, il modo di pensare e di esprimersi che si ha in quel
Paese e in nessun altro luogo in Europa.
Un amico, qualche mese fa, mi ha prestato una raccolta di coplas
spagnole; ne ho trascritto alcune, tanto le ho trovate belle. Non c’è nessun
altro Paese in cui nel popolo ci sia una simile poesia. Di sicuro lei ne
conosce ben più di me; ma le farebbe piacere se di tanto in tanto ne copiassi
una o due per lei? Lo farei volentieri. Da parte sua, potrebbe trascriverne
qualcuna per me, a memoria, ogni volta che mi scrive.
Sarei felice di poterle spedire dei libri; ma non si trovano libri spagnoli
a Marsiglia. Lo so, perché li ho cercati per me. Ma, se per caso ne trovassi
qualcuno, le farebbe piacere?
Le ho inviato un pacchetto. Spero che le arrivi senza difficoltà e che ciò
che ho scelto le sia gradito.
Non abbia timore che mi privi per lei. Mi fa piacere mandarle qualcosa
di tanto in tanto e ciò che fa piacere non è una privazione.
Quel poco che faccio per lei non merita ringraziamenti. Se mi trovassi
io in un campo e lei in libertà, e se avesse sentito parlare di me da un amico
comune, lei si comporterebbe allo stesso modo verso di me. Ne sono
convinta, mio caro, perché se lei non fosse così, il nostro amico non me ne
avrebbe parlato come ha fatto. Non mi deve nulla dunque.
Un giorno forse ci conosceremo in modo diverso da come ci si conosce
per lettera. Sarebbe una gran gioia per me.
Molto cordialmente sua,

Simone Weil

III

Mlle Simone Weil


8, rue des Catalans
Marsiglia 22.4.1941

Caro amico,

scusami se non ti ho scritto prima. Sono stata molto occupata. Nelle


ultime due lettere mostri di aver capito bene il mio pensiero, o perlomeno
l’essenziale del mio pensiero. Ci sarebbero molte cose da dire in proposito,
ma non è il momento.
Qui il tempo è meraviglioso; ci sono fiotti di luce sul mare e gli alberi si
rivestono di foglie. Sono contenta di sapere che provi gioia nel contemplare
le montagne. Fin tanto che si hanno cose come il mare, le montagne, il
vento, il sole, le stelle, la luna, il cielo, non si può essere completamente
sventurati. E anche se si fosse privati di tutto questo e rinchiusi in una
prigione, sapere che tutte queste cose esistono, che sono belle, che altri ne
godono liberamente, deve sempre essere una consolazione.
Il fatto che tu, lì dove ti trovi, sei capace di provare un po’ di gioia,
dimostra che hai saputo conservare ciò che di meglio c’è in te. Hanno
potuto farti soffrire, ma non hanno potuto farti veramente del male. È per
me una gran gioia, e sono felice di essere entrata in rapporto con te.
Ho avuto buone notizie sul nostro amico. Sta bene. Credo che sua
moglie verrà presto a Marsiglia.
Scusami se non ho ancora avuto il tempo di inviarti dei libri. Ti ho
spedito un pacco, forse lo hai già ricevuto. Presto te ne manderò un altro.
Ti copio alcune coplas.
Con amicizia,

Simone Weil

IV

5.6.1941

Caro amico,

probabilmente hai ricevuto la lettera che ti avevo scritto al campo del


Vernet; suppongo che te l’abbiano inoltrata. Scusami se sono rimasta per
tanto tempo senza scriverti; ero molto occupata; ho scritto tanto (su
argomenti filosofici; sto componendo anche un testo teatrale); ho avuto
anche qualche preoccupazione, ma adesso è tutto passato. Ti ho pensato
spesso, ma non avevo la mente sgombra per scriverti. Non avrai creduto,
spero, che ti abbia dimenticato. Dopo le lettere che ci siamo scambiati, non
potrei dimenticarti.
Ti dicevo, nella lettera arrivata al Vernet dopo la tua partenza, che non ti
ingannavi sul mio conto. Hai indovinato i miei sentimenti. Sono molto
rattristata per il fatto che ti hanno trasferito lì dove sei, se il clima ti è
nocivo. Dimmi se si può fare qualcosa per te. Hai bisogno di indumenti
caldi per la notte, se le notti sono fredde? Se sì, indicami
approssimativamente le misure. Non è possibile procurarsi quasi più niente
come vestiario, ma potrei forse riuscirci ugualmente. Le coperte che hai ti
bastano? Il cibo è sufficiente? Si possono inviare dei pacchi dalla Francia?
Temo che la natura che ti circonda non sia bella come sui Pirenei.
Mentre ti scrivo, il sole sta tramontando sotto i miei occhi nel Mediterraneo.
Vorrei che tu vedessi ogni giorno delle cose così belle, tu e tutti quelli che
sanno gioire di ciò che è bello. Per fortuna, il cielo è bello ovunque, in ogni
ora del giorno e della notte, perfino quando se ne vede solo un po’
attraverso le nuvole.
Sono così rari gli esseri umani che sanno com’è bella la natura; almeno
costoro dovrebbero poterne gioire.
Scusami se non ti ho ancora spedito i libri; me ne occuperò se mi scrivi
che il tuo indirizzo è stabile, che rimani in quel campo.
Avete, di tanto in tanto, qualche contatto con gli arabi, lì dove ti trovi?
Credo che ci siano molte cose comuni tra gli spagnoli e gli arabi e che
alcune di quelle cose che mi fanno tanto amare la Spagna si ritrovino anche
negli arabi, almeno nei migliori di loro. Mi piacerebbe tanto conoscere
l’Algeria; avevo fatto domanda di un salvacondotto, ma non me l’hanno
concesso.
Il nostro amico sta bene, ma è un po’ stanco perché il lavoro dei campi è
troppo duro per lui. Sua moglie si trova a Marsiglia, la vedo spesso.
Con grande amicizia,

Simone Weil

P.S. Ti sarebbe utile se ti inviassi ogni tanto un po’ di denaro? Ci


conosciamo abbastanza bene, adesso, spero, perché ti possa rivolgere questa
domanda senza offenderti. Per nulla al mondo ti vorrei offendere. Ma, tra
persone che la pensano come noi, questa dovrebbe essere una cosa del tutto
naturale.
V

[non datata]54

Caro amico,

ti avevo scritto una lettera al Vernet che dovrebbe essere arrivata dopo
la tua partenza, e un’altra lì dove ora ti trovi. Mi meraviglio che tu non
abbia ricevuto né l’una né l’altra.
Non voglio scriverti a lungo oggi, perché mi chiedo se questa lettera ti
arriverà. Se ti arriva e me lo fai sapere, allora ti scriverò più diffusamente.
Mi rincresce molto che lo spettacolo della natura, intorno a te, non ti
procuri le stesse gioie che ti offriva al Vernet. Ma forse, col tempo,
imparerai a riconoscervi altrettanta bellezza, poiché essa ha molti modi
diversi di essere bella. In ogni caso, hai sempre il cielo e la luce in cui ti è
possibile trovare un po’ di gioia, visto che sei uno di quegli esseri tanto rari
che sanno trovare un po’ di gioia nelle cose belle che li circondano.
Scrivimi se nel tuo campo la mensa è fornita e se occorre che ti spedisca
del denaro.
Sono contenta che l’acqua sia buona, lì dove sei; senza di ciò, soffrireste
molto, tu e gli altri. Penso che non sia sgradevole andarla a cercare al
ruscello.
Descrivimi un po’ meglio la tua vita, dimmi come passi il tempo. Pensi
che, se ti spedissi due o tre libri, ti arriverebbero? Purtroppo non vi è quasi
nessun libro spagnolo qui.
Spero tu possa ricevere questa lettera.
Con grande affetto,

Simone Weil

VI

Mlle Simone Weil


8, rue des Catalans
Marsiglia 21.7.1941

Caro amico,

finalmente ho ricevuto la tua lettera. Ho cercato un dizionario e una


grammatica francese in lingua spagnola; non se ne trovano nelle librerie,
ma credo di potermeli procurare. Ma libri di filosofia o di buona letteratura
purtroppo non ne trovo in spagnolo. Leggi abbastanza bene il francese
perché possa inviartene in questa lingua?
Ti ho spedito un vaglia; te ne invierò di tanto in tanto, in base ai tuoi
bisogni e alle mie possibilità. Non credo che tu debba avere scrupoli o
esitazioni in proposito. Quando ho tra le mani del denaro, non ho mai la
sensazione che questo denaro mi appartenga. Esso è lì, semplicemente. Se
te lo spedisco, non ho l’impressione di donarlo. Passa solo dalle mie mani a
quelle di qualcun altro che ne ha bisogno, e sento che io non c’entro niente.
Vorrei proprio che il denaro fosse come l’acqua e scorresse spontaneamente
là dove ce n’è troppo poca. Così, quando ti arriva un vaglia, non pensare
che stai ricevendo qualcosa da me ma, semplicemente, che un po’ di denaro
ti cade tra le mani. Questo non ha niente a che fare con noi. Fra te e me, ciò
che ci doniamo l’un l’altro, e riceviamo l’uno dall’altro, sono pensieri e
sentimenti in forma di lettere. Questo scambio avviene tra noi perché, su
tante cose, sentiamo e pensiamo allo stesso modo. Per il resto, dimmi
sempre di che cosa hai bisogno, e io farò quel che mi sarà possibile; ma al
di fuori di questo, non pensiamoci mai, né l’uno né l’altro, perché questo
genere di cose non rientra minimamente nei rapporti personali che ci
legano. Penso che tu mi capisca e che su questa questione la pensi come
me.
Mi è molto piaciuta la poesia che mi hai mandato e l’emozione che
esprime.
Ti ringrazio per avermi raccontato la tua vita quotidiana. Rimpiangi
ancora gli uccelli dei Pirenei? Non so se il silenzio non sia il più bello di
tutti i canti. In un vasto paesaggio, al tramonto o al sorgere del sole, non vi
è armonia più perfetta del silenzio. Anche se, tutt’attorno, gli uomini
parlano e fanno rumore, si può sentire il silenzio che discende dall’alto e si
dilata in lontananza come il cielo. Sono contenta che tu abbia dell’acqua
pura: l’acqua pura è una cosa bella. Le notti devono essere molto luminose
e piene di stelle in Africa. Le guardi a lungo? Le conosci? Platone diceva
che la vista è veramente preziosa solo perché ci permette di conoscere le
stelle, i pianeti, la luna, il sole. Quanto a me, mi vergogno a dire che quasi
non conosco le costellazioni e i loro nomi. Qualche mese fa, mi sono
procurata una mappa del cielo per porre fine alla mia ignoranza. Ma non
l’ho studiata, perché poi ho capito che non ho bisogno di libri per
contemplare il cielo e posso, osservandolo spesso e a lungo, arrivare senza
nessun aiuto a identificare le costellazioni e i movimenti del cielo, come i
pastori che hanno inventato l’astronomia migliaia di anni fa. Non c’è per
me una gioia più grande che guardare il cielo in una notte chiara, con
un’attenzione così intensa da dissipare qualsiasi altro pensiero; allora si
potrebbe pensare che le stelle entrino nell’anima55.
Tu almeno hai il sole e le stelle. Certo, vorrei che avessi anche molte
altre cose belle che ti mancano, ma come fare? Conosco un po’ – non tanto,
purtroppo – una persona che occupa un posto molto importante ad Algeri.
Dimmi se credi che questo possa esserti utile.
Probabilmente lascerò molto presto Marsiglia per andare a lavorare in
campagna. In questo caso forse non potrò più scriverti spesso, a causa della
fatica. Ma penserò ancor di più a te.
Con amicizia,

Simone Weil

VII

6.8.1941

Caro amico,

spero che tu abbia ricevuto il vaglia, i libri e la lettera che ti ho spedito.


Ti scrivo una parola in fretta per dirti che cambio indirizzo. Il nuovo
sarà: Mlle Simone Weil, presso M. Thibon, Saint-Marcel-d’Ardèche
(Ardèche).
È un villaggio in cui vado per lavorare nei campi. Spero di sopportare
questo lavoro meglio del nostro amico Nicolas; credo che lui sia
fisicamente spossato e molto infelice. Ma alcuni amici se ne prendono cura
e penso che le sue condizioni miglioreranno.
Ho proprio paura che la fatica fisica mi impedisca di scrivere spesso
delle lettere. Perciò non preoccuparti. In ogni caso, penserò a te.
Parto domani.
Con amicizia,

Simone Weil

VIII

Mlle Simone Weil


Presso M G. Thibon
Saint-Marcel-d’Ardèche
(Ardèche) 23 agosto
1941

Caro amico,

mi ha fatto piacere ricevere tue notizie. Vorrei tanto che potessi trovarti
in una regione come quella in cui sto io; ne godresti pienamente. È la valle
del Rodano; una lunga, lunga pianura su cui scorre il fiume, e montagne e
colline da un lato e dall’altro. Le albe e i tramonti sono splendidi. Un
giorno, forse, potrai essere di nuovo libero in una natura così bella.
Sono qui, in una casa abbandonata dove vivo da sola. Vado a cercare
l’acqua a una sorgente, la legna in una pineta, mangio dei legumi appena
raccolti da terra e cotti su un fuoco di legna; e vedo continuamente la luce
del sole rischiarare con sfumature diverse la valle e le colline; poi, di notte,
sconfinate distese di cielo stellato. Non si può essere più vicini alla natura e,
come tu dici, essa mi avvolge di bellezza, di luce e di gioia.
Non lavoro molto; sono presso amici e loro non mi lasciano lavorare
molto. Ma resto qui per poco tempo. Tra due settimane andrò in un altro
villaggio, vicino ad Avignone, e sarò alle dipendenze di un vero padrone; lì
penso che sarà duro, perché non sono abituata a quel tipo di lavoro. Spero
però di avere l’energia necessaria per adattarmi. Ti penserò spesso
lavorando.
Cercherò di trovare la forza per scriverti anche se sarò molto stanca.
Tu mi dici di non fare sacrifici per te, perché la vita di un individuo sano
vale più di quella di due anemici. Questo mi ha provocato un po’ di pena.
Sei forse malato? Io, anche senza esser malata, ho poca forza e vitalità; mi
auguro che tu ne abbia assai più di me.
Oppure ciò che dici dipende dalla tua situazione? Ho la ferma speranza
che andrà migliorando. Ad ogni modo, non preoccuparti; non mi privo del
necessario. Ti mando ancora un vaglia, perché in questo momento ho un po’
di denaro.
Sono contenta che accetti con tanta semplicità quel che posso inviarti, te
ne sono molto grata.
Su tutto ciò che dici, in merito all’atteggiamento che l’uomo deve avere
di fronte alla felicità e alla sventura, sono pienamente d’accordo con te. Ma
penso che tu lo metta in pratica meglio di me. Ti ammiro molto per questo.
Con grande amicizia,

Simone Weil

IX

2 ot[tobre] 1941

Caro amico,

approfitto di un giorno di pioggia per scriverti due parole. In questo


momento sto facendo la vendemmia da un contadino che ha tutta la terra
coltivata a vigneto; vi lavoro da una settimana e mezza e ne avrò ancora per
almeno altre tre. Abito presso questo contadino, con la sua famiglia, e,
salvo i giorni di pioggia, lavoro otto ore al giorno. Il lavoro mi sembra
piuttosto duro, ma quelli con cui mi trovo sono delle bravissime persone; la
natura intorno a me è molto bella, con un orizzonte delimitato da colline e
montagne; la fatica è una fatica sana per l’anima, che mette in un contatto
più completo con la natura, e in fondo alla quale si trovano delle gioie
profonde. Amo questa vita.
Dopo la vendemmia, ho intenzione di recarmi da un orticoltore nei
pressi di Avignone come operaia agricola.
La tua lettera mi ha fatto ricordare che non ti ho mai detto niente della
mia famiglia. Ho i genitori, mio padre e mia madre; quando sono andata a
trascorrere un mese in quella casa abbandonata di cui ti ho parlato, li ho
lasciati per la prima volta dopo tre anni. Non sto con loro in questo
momento, ma se non riuscirò a farmi assumere presso un orticoltore tornerò
da loro.
Mi piace molto vivere da sola; sono stata veramente felice, per un mese,
di rimanere completamente sola in una casetta tutta per me, e sarei rimasta
volentieri in quella situazione per molto tempo ancora. Sarei anche molto
felice di vivere così, per qualche tempo, con un amico o un’amica; ma non
ho mai avuto occasione di farlo. Forse un giorno potrò farlo con te? Si può
pur sempre sognarlo, non fa male. Ma ciò che desidero per te, è che tu sia
libero e felice, ovunque possa trovarti.
Ho fatto dei tentativi perché tu sia fatto rientrare in Francia e liberato o
almeno assegnato in un primo tempo a una squadra di lavoratori. Questo
tentativo potrebbe anche andare a vuoto; non bisogna sperare troppo. Non
volevo neppure parlartene, ma penso sia meglio che tu lo sappia, a causa di
quel che mi scrivi a proposito della partenza di trecento spagnoli per la
Spagna. Se mai il mio tentativo dovesse giungere in porto – ma non bisogna
contarci – sarebbe opportuno che nel frattempo tu non prenda un’altra
decisione. Per questo penso che tu abbia ragione di sperare in giorni
migliori.
Il mio indirizzo, per tutto il mese di ottobre, sarà:
Mlle Simone Weil,
presso M. Rieu, viticoltore, La Plaine,
Saint-Julien-de-Peyrolas (Gard).
Apprezzo molto quel che mi scrivi sull’ottimismo. Soprattutto ti
ammiro perché lo metti in pratica. Tu vali sicuramente più di me.
Con tutta la mia amicizia,

Simone Weil
X

15 novembre 1941

Caro amico,

prima di scriverti ho voluto aspettare di avere notizie sui tentativi fatti


per te. Ho atteso queste notizie di giorno in giorno, e così è passato più
tempo di quel che avrei voluto. Finalmente ho ricevuto una lettera, ma mi
viene detto solo che non vi è ancora nessun risultato, che bisogna attendere,
che queste cose in questo momento sono molto difficili, ma che si farà tutto
il possibile.
Vorrei proprio avere qualcosa di meglio da comunicarti. Ma è così.
Sono di nuovo a Marsiglia, come puoi vedere dalla lettera, sto con i
miei genitori. Ho fatto poco più di un mese di vendemmia, e ho provato
gioia in questo lavoro, nonostante la fatica. Ma la persona presso cui
dovevo andare a lavorare successivamente, e che in linea di massima mi
aveva accettata, mi ha scritto di aver cambiato parere, di non voler dare da
mangiare a dei dipendenti e di assumere solo gente del posto. Questo
atteggiamento è una conseguenza delle restrizioni; perfino in campagna
ormai la gente non ha più granché da mangiare.
Così mi trovo di nuovo davanti al mare. Ne godo perché amo
appassionatamente il mare.
Ho comprato per te alcuni libretti scolastici spagnoli; una cosa modesta,
ma non ho trovato nient’altro in spagnolo in tutta Marsiglia, e ho pensato
che questo possa farti piacere.
Mi hai parlato una volta di Platone; conosci abbastanza il francese per
leggere Platone tradotto in questa lingua? Purtroppo non riesco a trovare
suoi testi tradotti in spagnolo.
Nulla è bello come Platone; una simile lettura, per quelli che sanno
comprenderla, può dare serenità anche nelle circostanze più sventurate.
Mentre vivevo nella casa abbandonata che ti ho descritto, ho letto in
spagnolo San Giovanni della Croce (San Juan de la Cruz). Il proprietario
della casa possedeva il libro e me l’ha prestato. È una miscellanea di poesie
e prose, entrambe straordinariamente belle. Con parole diverse, il pensiero è
spesso molto vicino a quello di Platone. È un peccato che non ti sia
possibile leggerlo. Ma forse l’hai letto?
Ti trascrivo una copla che trovo bella:

Las aves de Arabia


Viven eternas;
Viven porque no saben
Lo que son penas.
Que si penaran
En el mundo no hubiera
Aves de Arabia56.

Arrivederci. Dammi presto tue notizie.


Con grande amicizia,

Simone Weil

P.S. Ti mando un po’ di denaro. Se hai bisogno di qualche altra cosa,


scrivimelo, te ne prego, non farti scrupolo.

XI

2 febbraio 1942

Caro amico,

mi hanno parlato qualche giorno fa di un’organizzazione a Marsiglia


che gestisce aziende agricole modello nel sud della Francia. L’altro ieri
sono andata a parlare con loro di te57. Il personale di queste aziende è al
completo. Ma, se a primavera avranno un posto libero e tu potrai occuparlo,
ti faranno volentieri un contratto di lavoro. Forse allora sarà possibile farti
trasferire qui?
Vuoi scrivermi una lettera in modo che io possa tradurla per loro?
Vorrebbero conoscere la tua biografia, la tua età, quali coltivazioni hai
praticato, dove e in quali condizioni hai lavorato la terra, insomma
conoscere la tua storia per capire cosa possono fare. Dal momento che non
conoscono lo spagnolo, è meglio che tu scriva a me.
Sai quanto mi piacerebbe che questo tentativo andasse in porto. Se
questo però non fosse possibile, bisognerà pensare ad altro.
Credo che adesso la situazione di Nicolas sia molto migliore e sia
riuscito a raggiungere sua moglie e suo figlio.
Credi alla mia grande amicizia.
La tua amica,

Simone

XII

[non datata]

Caro amico,

scusami se non ti ho spedito subito ciò che mi avevi chiesto. Qui è


difficile trovare qualsiasi cosa. Così non ti ho potuto mandare tutto, ma uno
dei miei amici, che abita in Marocco, ti invierà il resto. Ti ho anche spedito
un vaglia.
Spero sempre di avere notizie sui tentativi fatti per te, ma finora non ci
sono novità. Devo darmi da fare per trovare un’altra strada.
Hai proprio ragione ad amare Platone, non vi è nulla di più bello, a mio
avviso. Purtroppo, non mi è possibile trovarti una traduzione spagnola qui.
Sto sempre a Marsiglia. Le condizioni di vita sono molto migliori di
quanto si sarebbe potuto temere; anche se è più o meno difficile procurarsi
ogni cosa, in fin dei conti c’è quel che serve per vivere, e non vi è alcun
motivo di desiderare di più.
Vorrei proprio che finalmente riuscissi ad avere anche tu delle
condizioni di vita soddisfacenti. La sventura ti offre l’occasione di
dimostrare il tuo coraggio, ma ne hai già dimostrato tanto, e ora sarebbe
auspicabile che la sorte ti portasse un po’ di gioia.
Qui non fa più freddo. Mi auguro che nemmeno tu abbia più freddo
ormai. Hai bisogno di indumenti di lana? Ti ho spedito una coperta. Temo
che intorno a te non possa trovare nutrimento per il tuo bisogno di bellezza.
Ma il cielo e la luce sono belli ovunque.
Spero, con tutto il cuore, che a primavera ti ritroverai fra gli alberi e i
fiori.

Simone Weil

XIII

[non datata]

Caro amico,

solo una parola, oggi, per dirti che ho fatto un altro tentativo per te.
Conosco qui un religioso domenicano che è un uomo ammirevole, un
cristiano nel vero senso del termine. Vale a dire che il suo modo di
concepire la vita non è tanto diverso né dal tuo né dal mio. È molto legato a
una comunità religiosa che si trova in Algeria (la Fraternità di El Abiodh) e
che, a quanto pare, gode di una certa influenza presso il governo algerino.
Ho scritto al Superiore di quella comunità, da parte di questo domenicano, a
riguardo della tua situazione.
Ho detto loro che, per quel che ne so, tu non hai una fede religiosa, ma
che secondo me vi è una grande affinità tra il tuo stoicismo e la loro fede, e
che essi devono fare qualcosa per te.
Per quel che ti riguarda, penso, anzi sono certa che tu possa accettare il
loro aiuto, perché ciò che faranno per te sarà fatto in uno spirito di pura
fraternità.
Spero solo che siano in condizione di fare qualcosa. Tanto per
cominciare, la cosa migliore sarebbe che ti procurassero un lavoro ad Algeri
e, con questo, la liberazione. Probabilmente ti troveresti bene in Algeria se
potessi viverci da libero.
Credi alla mia totale amicizia,
Simone Weil

XIV

[non datata]

Caro amico,

grazie della tua lettera e delle poesie, che mi sono molto piaciute.
Mandamene ancora, se ti ricordi. Ti accludo qui alcuni miei versi, gli ultimi
che ho scritto58.
Ho fatto ancora dei tentativi per te; non so se andranno a buon fine.
Ti ho spedito un vaglia. Te ne avevo già spedito uno qualche settimana
fa; spero che tu l’abbia ricevuto.
Sono contenta che il mio amico si sia ricordato di te. Saresti felice di
conoscerlo; e anche lui sarebbe certamente molto contento di conoscerti.
Potreste intendervi bene.
Se hai ancora bisogno di qualcosa, abiti, denaro, o qualsiasi altra cosa,
dimmelo, te ne prego. Farò quel che potrò.
Mi sono trovata in pieno accordo con le tue riflessioni sul pessimismo. I
filosofi greci chiamati stoici dicevano che bisogna amare il destino; che
bisogna amare tutto ciò che il destino apporta, anche quando apporta la
sventura. Fin dall’infanzia, ho sempre creduto che questa sia la virtù più
bella. Difficile da praticare nella sventura, soprattutto quando si protrae, ma
proprio perciò ancor più bella.
Tu la possiedi a un livello molto raro, e non so dirti quanto ti ammiri per
questo. Ma vorrei che tu potessi finalmente smettere di soffrire. Vorrei
essere io al tuo posto, e che tu fossi al mio; questo sarebbe molto
preferibile. Probabilmente sopporterei la sofferenza meno bene di te, perché
ho minore fermezza d’animo; ma penso che tu meriti più di me lo
spettacolo del mare, la libertà e tutto quel che il destino mi accorda in
questo momento. Mi rincresce che non sia veramente in mio potere
prendere il tuo posto.
Vorrei proprio che, malgrado tutto, nella vita che conduci in questo
momento, tu potessi assaporare qualche volta delle vere gioie.
Con amicizia,

Simone Weil

XV

[non datata]

Caro amico,

ora la primavera sta arrivando. Spero che, là dove sei, non sia ancora
opprimente il clima in questa stagione. È il momento del lavoro nei campi;
forse si approderà a qualche risultato per te. Se non vi è modo di farti venire
in Francia, è il caso di fare dei tentativi per farti lasciare l’Europa?
Scrivimelo.
Qualunque cosa tu mi dica delle fonti di consolazione di cui disponi, so
bene che la tua gioia è soltanto una vittoria sul dolore. È la più bella.
Scoprendo questa gioia, raggiungi il luogo in cui dimorano i veri saggi
vissuti prima dell’era cristiana e quelli vissuti dopo. Essi hanno saputo
elevare la propria anima fino a un luogo, sconosciuto alla maggior parte
degli uomini, dove il dolore è gioia e la gioia è dolore. È lo stesso luogo al
quale si sono innalzati i veri poeti. La poesia vera discende da lì. Tu sei il
fratello di tutti costoro.
Tuttavia, vorrei proprio che tu conoscessi anche un po’ di gioia pura, di
gioia che sia realmente gioia. Credo che, per questo, ti basterebbe essere
libero in mezzo a una bella campagna. È tanto semplice: perché deve essere
così difficile da ottenere?
Nicolas ora è con sua moglie e il suo bambino in un villaggio del
dipartimento del Var. Penso che siano felici di stare insieme. Hanno sofferto
per tanto tempo.
C’è molta sofferenza in questo momento, ma molto poca è quella
sopportata bene. Sopportare bene la sofferenza, scoprendo la gioia
attraverso di essa, è certamente prezioso quanto fare una bella poesia,
un’opera di filosofia, una scoperta scientifica, o qualsiasi altra cosa del
genere.
Credi alla mia fraterna amicizia,

Simone Weil

P.S. Ecco la traduzione di alcuni versi greci di Eschilo. Sono pronunciati


da Prometeo, il dio che, secondo le credenze dei Greci, aveva salvato gli
uomini dalla distruzione, aveva rubato il fuoco per donarlo ad essi, aveva
insegnato loro il linguaggio, i nomi, l’astronomia, i mestieri e le arti. Perciò
fu punito e inchiodato a una roccia. La tragedia di Eschilo inizia con la
scena in cui viene inchiodato; in quel momento egli tace, poi, quando i suoi
carnefici si sono allontanati, dice:

Cielo divino, veloci ali del vento,


Fiumi e sorgenti, del mare e dei flutti
Sorriso infinito, e tu, madre di tutto, terra,
E colui che tutto vede, il cerchio del sole, Voi io invoco;
Guardate un po’ quel che gli dèi infliggono a un dio.
Vedete quali umiliazioni
Mi strazieranno per i mille e mille anni
Del tempo contro cui io lotto.
Ecco ciò che il nuovo sovrano degli dèi
Ha inventato per me, questa catena che mi oltraggia.

XVI

Orano [non datata]

Caro amico,

oggi sono costretta a scriverti qualcosa che, temo, ti causerà molta pena.
Mi si spezza il cuore a pensarci. Ti parlavo, nella mia ultima lettera, dei
tentativi fatti dai miei genitori per andare in America, e ti dicevo che non
posso rifiutarmi di accompagnarli. Ma non credevo che quei tentativi
sortissero un risultato. Hanno avuto buon esito ed è stato possibile ottenere
molto rapidamente, in modo del tutto casuale, un posto su una nave.
Ho appena compiuto quella traversata che tu hai trovato tanto bella.
Mentre la presenza incantevole del mare, tutt’attorno, riempiva
completamente la mia anima, pensavo a te.
Ciò che mi preoccupa, è che le lettere impieghino molto più tempo
dall’America che da Marsiglia. La nostra corrispondenza diventerà difficile.
Le lettere per posta aerea sono troppo costose perché possa spedirtene
spesso. Le altre viaggiano lentamente.
Noi però continueremo in ogni caso a scriverci. Soprattutto, resteremo
uniti col pensiero. Ti penserò tutti i giorni. Ogni giorno ripeti a te stesso:
«Oggi la mia amica ha pensato a me e vuole che io abbia la pienezza della
gioia».
Hai scritto al console del Messico? Altrimenti, fallo presto. Ho fatto
parlare di te a qualcuno che ricopre una funzione importante al consolato.
Se la cosa va in porto, ci ritroveremo probabilmente sul (continente)
d’America.
Alle stelle, alla luna, al sole, all’azzurro del cielo, al vento, agli uccelli,
alla luce, all’immensità dello spazio, a tutte queste cose che ti sono sempre
accanto, affido i miei pensieri per te, perché ti donino ogni giorno la gioia
che desidero per te e che tu sicuramente meriti.
Perdonami di non aver potuto fare nulla per te e adesso di andarmene
lontano.
Se puoi, scrivimi al più presto a quest’indirizzo: Mlle Simone Weil,
presso Mme Bercher, 148, rue Blaise-Pascal, Casablanca. Credi alla mia
profonda amicizia,

Simone Weil

P.S. Lascio a Mme Bercher59 del denaro per te, e spero di potergliene
far arrivare ancora in futuro. Così, quando lei ti spedirà dei vaglia, saprai
che provengono da me; potrai accettarli.
PARTE TERZA

L’amicizia

L’amicizia è il miracolo grazie al quale


un essere umano accetta di guardare
a distanza e senza avvicinarsi
quello stesso essere che gli è necessario
come un nutrimento.
SIMONE WEIL, 1942
L’amicizia: una delle forme dell’amore implicito di
Dio

Il testo che segue fa parte di uno scritto più ampio, Formes de l’amour
implicite de Dieu, che Simone Weil volle consegnare al padre Perrin nel
maggio 1942, al momento di partire per gli Stati Uniti con i genitori1. In
esso è svolta un’approfondita riflessione sulle esperienze di amore che
precedono e preparano l’incontro mistico, «quando Dio viene
personalmente a prendere la mano della sua futura sposa»2. Queste
esperienze sono l’amore per il prossimo, la bellezza del mondo e le
cerimonie religiose, cui va aggiunta l’amicizia che, rispetto alla più
universale carità, ha caratteri specifici che vanno analizzati. Questa
premessa è necessaria per affrontare correttamente la lettura del testo:
l’argomentazione che esso sviluppa presuppone, come quadro di
riferimento, la possibilità di un contatto col soprannaturale capace di
modificare, in modo radicale, l’insieme dei rapporti umani. Se questo non è
tenuto presente, se si pensa che l’autrice abbia inteso svolgere una
riflessione di natura solo psicologica sull’affettività, le conclusioni alle
quali il testo giunge possono lasciare perplesso il lettore di oggi, avvezzo a
un’analisi intimistica dei sentimenti e a una lettura delle difficoltà
relazionali in chiave esclusivamente psicologica. Le parole con le quali si
confronterà in questo scritto, di primo acchito, potrebbero apparirgli
inattuali proprio perché in esse prende corpo un linguaggio molto diverso
da quello che oggi domina il senso comune.
Il testo si apre con la definizione di che cos’è, nella sua verità profonda,
un’amicizia pura: «Un presentimento e un riflesso dell’amore di Dio». In
quanto tale, essa partecipa della medesima essenza della bellezza: entrambe
rivelano l’universale nel particolare, offrendo all’uomo un’esperienza in cui
possono essere rinvenute le tracce di una realtà spirituale altrimenti
invisibile. La concezione dell’amicizia che il testo propone è certamente
frutto di una lunga gestazione di pensiero, oltre che dei rapporti che Simone
Weil ha potuto concretamente vivere, soprattutto negli anni di Marsiglia, e
di cui si è parlato con ampiezza nella prima parte del libro.
Non dimentichiamo poi che quello fu il tempo in cui maturò in lei la
riflessione sulla confluenza degli elementi più vitali del pensiero greco nel
Cristianesimo delle origini. Proprio in quei mesi dedicò una lettura molto
attenta ai Dialoghi di Platone e ai tragici, Eschilo e Sofocle in particolare,
ma anche a Eraclito, ai pitagorici e agli stoici. Come per la bellezza, così
per l’amicizia e, in senso più generale, per l’amore, la fonte principale di
ispirazione del suo pensiero va ricercata entro questo orizzonte culturale: in
particolare nei due dialoghi platonici, Simposio e Fedro, la cui lettura la
impegna con fervore proprio nel periodo in cui va scrivendo questo testo3.
Le annotazioni e i commenti con cui accompagna la traduzione di entrambi
i dialoghi mettono in risalto non solo la lucidità intellettuale, ma l’intensità
del suo coinvolgimento emotivo nel lavoro ermeneutico: coglie a pieno la
dimensione mistica dell’eros platonico, l’insaziabile sete di conoscenza di
un amore che, sollecitato dalla bellezza dei corpi, si protende verso un
Sommo Bene avvertito come inattingibile e, tuttavia, fonte di un desiderio
che mai può esaurirsi.
In quegli stessi mesi, proprio a lei la vita aveva fatto dono di
un’esperienza completamente diversa: l’amore soprannaturale, non cercato,
le era stato offerto in modo inatteso e gratuito. Aveva potuto vivere,
nell’incontro mistico col Cristo, la trasformazione indotta da uno stato di
grazia al quale l’anima non giunge per effetto di uno sforzo di volontà, ma
attraverso un abbandono, uno svuotamento di sé, che si dà solo se prima vi
è stato un faticoso cammino di rinuncia al proprio io e a molti falsi beni
terreni4. Se la lettura attenta di Platone l’aveva posta di fronte alla via
dell’eros, l’esperienza mistica, intimamente e segretamente vissuta, l’aveva
illuminata su un altro versante, quello dell’agape cristiana.
Non le sfuggiva però che anche quest’esperienza, se dall’eccezionalità
della dimensione mistica, come una sorta di modello ideale, è trasposta sul
piano ben più fragile del rapporto tra gli uomini, proprio a causa della
finitezza di tutto ciò che è umano e delle ambiguità psicologiche che
rendono spuria ogni relazione, rischia fatalmente di cadere nella trappola
dell’attaccamento, della dipendenza, del desiderio di dominare o di essere
dominati e perfino di una rassegnata inerzia di fronte all’azione
disgregatrice che il tempo opera su qualsiasi legame affettivo. La
comprensione non solo intellettuale, ma sperimentale, di tutto questo le
permette di cogliere in modo assolutamente nitido quella tensione tragica
che, in ogni rapporto amoroso, è sottesa alle due esigenze opposte che
vanno faticosamente bilanciate: il bene proprio e il bene dell’altro, la libertà
interiore, con la sua imprescindibile esigenza di solitudine, e l’apertura
all’amato come totale ascolto e donazione di sé. Si tratta di una tensione
tragica proprio perché fondata sulla necessità che i due estremi sussistano e
coesistano in un’armonia dinamica che si dà solo laddove esiste un punto
centrale di mediazione. Questa funzione mediatrice, però, non può essere
esercitata da una virtù naturale, una risorsa interiore dell’uomo alla quale
attingere nei momenti di crisi, né tanto meno dall’ambito sociale, malato
degli stessi mali dell’individuo e, molto spesso, afflitto da un’insufficienza
ancor più grave. La mediazione può essere compiuta solo dal
soprannaturale, che agisce come un incessante flusso di luce che, con una
sorta di moto circolare, transita fra Dio e le creature. Vi è un’immagine
molto viva dei Quaderni che cerca di dar corpo a quest’indicibile
esperienza:

L’amore puro delle creature; non amore in Dio, ma amore che è passato attraverso Dio
come attraverso il fuoco. Amore che si distacca completamente dalle creature per
ascendere a Dio, e ne ridiscende associato all’amore creatore di Dio. Così si uniscono i due
contrari che lacerano l’amore umano: amare l’essere umano così com’è e volerlo ricreare5.

Questa figura dell’armonia dei contrari veniva a Simone Weil da un’altra


fonte greca alla quale, nelle sue letture, attingeva avidamente in quegli
stessi anni: il pensiero pitagorico. Nei frammenti ai quali aveva potuto
accostarsi, aveva trovato l’espressione pienamente compiuta di questa idea,
tipicamente greca, di un’armonia che non azzera le differenze, ma crea tra
gli uomini un equilibrio dinamico che è l’immagine pura della giustizia,
intesa come uguaglianza capace di rispettare le diversità6. Figura per nulla
statica, per nulla pacificata, ma anzi esposta continuamente al rischio di
soccombere al peso della forza, che è l’esatto opposto dell’amore, ma ha
radici profonde nell’uomo e perciò, ad ogni istante, può sbilanciare i pesi e
mettere a repentaglio ogni equilibrio parziale che sia stato raggiunto. Non è
casuale il fatto che, in questo stesso arco di tempo, negli scritti di Simone
Weil torni più volte a presentarsi l’immagine della bilancia come simbolo
dell’inadeguatezza di una giustizia in cui il bilanciamento delle forze, se
affidato soltanto alla saggezza umana, è costantemente in pericolo7.
Vi è poi un altro aspetto sul quale occorre soffermarsi. In realtà, al di
fuori della corrente di pensiero mistico – in cui, come si vede, Simone Weil
si muove sia sul versante dell’eros platonico che su quello dell’agape
cristiana – la concezione di amicizia che dal mondo greco è giunta fino a
noi, attraverso tutto l’arco del pensiero occidentale, al punto da permeare di
sé il comune sentire di chi torna a interrogarsi su questi temi, è piuttosto
quella ampiamente tematizzata nell’Etica Nicomachea di Aristotele8.
Questo tipo di amicizia, che i greci chiamavano philia, ha il suo
fondamento in una condizione di uguaglianza già acquisita, in quanto tale
giusta, tra gli individui che intrecciano la relazione; un’uguaglianza che,
nelle forme più nobili e durature, culmina in quella affinità spirituale che è
il terreno fecondo per la crescita virtuosa di un legame. «Perfetta è
l’amicizia tra i buoni e coloro che sono simili per virtù», è quanto sostiene,
senza possibilità di equivoci, Aristotele che, tuttavia, è pienamente
consapevole dell’eccezionalità di un incontro di questo tipo, se avverte
l’esigenza di aggiungere: «È ragionevole che tali amicizie siano rare:
uomini di tal sorta non sono frequenti […]»9.
Si tratta quindi di una relazione eccezionale per la qualità del rapporto,
che tuttavia si esplica in un orizzonte radicalmente umanistico, in cui
l’esercizio della virtù è sostenuto da attitudini etiche che, per svilupparsi,
hanno bisogno di un’adeguata paideia, di un processo di formazione
elitario, di alto profilo culturale e spirituale. Inoltre, nello sviluppo del
rapporto, l’esistenza di un equilibrio è un presupposto già dato poiché, fin
dal principio, vi è uguaglianza tra i soggetti, che manifestano entrambi il
possesso della virtù, già prima che la relazione amorosa o amichevole li
coinvolga. Ma un equilibrio del genere, proprio in quanto si basa su un
fondamento esclusivamente umano, finisce col trovarsi costantemente
esposto alla precarietà. Qualsiasi mutamento di sorte, del tutto imprevisto,
può mettere a repentaglio l’armonia: «Quando si determina una gran
differenza di virtù o di vizio, di ricchezza o di qualche altra cosa, […] in tal
caso gli amici non rimangono più tali, e nemmeno lo pretendono»10. Si può
individuare, per Aristotele, un limite oltre il quale la distanza, divenuta
eccessiva tra le persone che si amano, rende assolutamente impossibile il
persistere della relazione. Significativo che, per esemplificare questo limite
estremo, egli dica: «[…] Ma se la distanza è grandissima, come quella che
ci separa da un dio, l’amicizia non permane più»11. Immagine di
straordinaria evidenza e coerenza, dal momento che neppure per ipotesi è
pensabile che un Dio, perfettamente autosufficiente come quello di
Aristotele, possa entrare in amicizia con l’uomo.
Ebbene, è proprio questo il punto di massima divaricazione tra la
concezione aristotelica dell’amicizia e quella, che potremmo definire
pitagorico-cristiana, di Simone Weil, per la quale non un Dio di assoluta e
imperturbabile trascendenza, ma un Dio «che si è fatto carne» ha potuto
stringere con la creatura un patto completamente nuovo di amicizia, che
passa attraverso la mediazione di amore di Cristo12. Riflettendo su questo
tema, in un altro scritto degli stessi anni, azzarda un’ardita analogia tra
l’immagine pitagorica dell’armonia dei contrari e il mistero della relazione
intra-divina così come si cristallizza nel dogma trinitario:

Se si interpreta la definizione di amicizia come un’eguaglianza perfetta di armonia secondo


la definizione di armonia come il pensiero comune dei pensanti separati, è la Trinità stessa
che è l’amicizia per eccellenza […] se si pensa che la sola mediazione tra Dio e l’uomo è
un essere che è contemporaneamente Dio e uomo, si passa direttamente da questa formula
pitagorica a quelle meravigliose formulazioni del Vangelo di san Giovanni13.

Quel che rende il legame di amicizia tra gli uomini libero da qualsiasi
condizionamento sociale o psicologico, sollevandolo da una dimensione
esclusivamente orizzontale, consiste nel pensarlo e viverlo come icona della
relazione di amore fra il Padre e il Figlio e di quella che, tramite la
mediazione del Cristo, Dio Padre propone come dono gratuito a qualsiasi
essere umano. L’assolutezza con cui Egli si svuota del suo potere e,
mediante la passione del Figlio, accetta di farsi materia inerte, vittima di un
sacrificio folle, diventa per ogni creatura il modello della relazione con i
propri simili. Concepita in questi termini, essa va necessariamente ancorata
alla scelta di decrearsi, ossia di staccarsi dal proprio io, dal suo naturale
egoismo, e da tutti quei beni ingannevoli che, solo quando la rinuncia è
ormai compiuta, senza più mistificazioni, rivelano la loro autentica natura
di idoli.
Ma la decreazione agisce anche come un esercizio preparatorio all’unica
forma possibile di amore unitivo, quella mistica. Non stupisce perciò che, in
un’amicizia fondata sulla capacità di decrearsi, ossia di porre un limite al
proprio io a favore di un tu, si incarni, sul piano degli affetti, una di quelle
forme implicite dell’amore di Dio, di cui Simone Weil non esita a dire che,
nell’esperienza quotidiana, lavorano in noi con la stessa misteriosa energia
dei sacramenti:

L’insieme di questi amori costituisce l’amore di Dio nella forma che si conviene al periodo
preparatorio, ovvero la forma nascosta. Essi non si dissolvono quando nell’anima si desta
l’amore di Dio propriamente detto; diventano anzi infinitamente più forti, e nel loro
insieme confluiscono in un unico amore.
Ma la forma nascosta dell’amore viene necessariamente per prima e spesso per molto
tempo regna da sola nell’anima; in molti forse fino alla morte. Questo amore nascosto può
raggiungere livelli molto elevati di purezza e di forza.
Ciascuna delle forme in cui esso si esprime, nel momento in cui entra in contatto con
l’anima, ha l’efficacia di un sacramento14.

Che un amore umano possa fiorire con la forza rigeneratrice di un


sacramento anche nelle esistenze di chi, «fino alla morte», vive in un
orizzonte di affetti che esclude l’adesione a qualsiasi credo religioso, è
davvero un’ipotesi vertiginosa, che mostra quanto la spiritualità di Simone
Weil fosse profondamente abitata dalla fede e tuttavia laica fino in fondo, se
giunge a concepire una virtù sacramentale in grado di operare nell’uomo
senza mediazione sacerdotale, al di fuori di un determinato ambito
ecclesiale e perfino in assenza di un’esplicita adesione religiosa.
Certamente, oggi, un livello così elevato «di purezza e di forza» attribuito
all’amicizia, o ad altri nostri poveri amori terreni, può apparire una proposta
troppo ardua, audace fino all’azzardo, talmente al di fuori della nostra
portata che, di primo acchito, saremmo tentati di escluderla o rifiutarla.
Eppure, vale forse la pena di prenderla in considerazione e, se non altro, di
vederla come uno di quei modelli ideali di perfezione in assenza dei quali
diventa insopportabile lo smarrimento di fronte alla follia di un mondo che
non sa più amare. L’insicurezza, la precarietà di molte scelte affettive, che
maturano in ambiti nei quali è difficile porsi domande sul significato delle
proprie relazioni, dovrebbe spingerci non a cercare nuove risposte
accomodanti, ma a tentare di riformulare a un livello più alto quella
«domanda di bene» che, per Simone Weil, è la voce segreta e impersonale
che in ciascuno di noi grida e implora, spesso invano, di essere ascoltata.
Questa nota introduttiva si apre con un accenno all’inattualità del testo
che proponiamo. Ora però, da ciò che è stato detto, emerge l’inconsistenza
di un simile sospetto. In realtà, quel che ci sostiene è proprio la speranza di
un’utilità effettiva che il lettore di oggi potrà trarre da questo scritto,
accogliendolo come un invito a riflettere sui propri amori, guardandoli da
una prospettiva che si discosta e diverge nettamente dal modo abituale di
leggere la condizione umana. Certo, quello che Simone Weil ci lascia
intravedere può apparirci un cammino troppo scosceso, la sua asprezza può
spaventarci, forse perfino infastidirci, come tutte le esperienze che
reclamano un distacco radicale dal proprio modo di essere, una metanoia
dolorosa, che non ha nessun approdo garantito. Non è né consueto né facile
guardare a noi stessi come ai prigionieri della caverna platonica costretti,
nostro malgrado, con uno sforzo immane, a risalire verso la luce per poi di
nuovo, un istante dopo, ridiscendere nelle tenebre. Del resto, sulla difficoltà
non solo di accogliere quest’immagine dell’amore ma di lasciarsela
penetrare nella mente e nel cuore, Simone Weil stessa non aveva dubbi, dal
momento che la sua conoscenza dei limiti e della fragilità dell’essere umano
non lasciava spazio alle illusioni. Ne abbiamo una conferma da un altro
testo, contemporaneo, nel quale con grande forza di immagini, riconosce
l’estrema rarità di un amore che ha l’audacia di sfiorare i confini di ciò che
è folle e impensabile:

L’amore è sovrannaturale quando è incondizionato. Un amore incondizionato è una follia.


L’amore di una madre ne è l’immagine migliore quaggiù. Ma non è che un’immagine.
Perfino l’amore di una madre si esaurisce se non sussiste nessuna delle condizioni del suo
rinnovarsi. Solo l’amore per Dio e l’amore anonimo per il prossimo sono incondizionati.
Vi si può aggiungere l’amore (l’amicizia) tra due amici di Dio, giunti sulla via della santità
oltre quel punto in cui la santità è qualcosa di definitivo. Infatti, la sola condizione di
questa amicizia è la perseveranza nella santità dell’uno e dell’altra; ma solo quando il loro
persistere nella santità è una cosa definitiva e il suo perdurare non è sottoposto ad alcuna
condizione, si può pensare a questa amicizia come incondizionata. Ma un simile livello di
santità è molto raro, e di conseguenza anche una simile amicizia. È quello dell’amicizia che
Cristo ha aggiunto come un terzo comandamento, ovvero come una terza forma di amore
perfettamente santo, ai due amori di Dio e del prossimo.
Tutti gli altri amori sono condizionati, malgrado i giuramenti, e si esauriscono
gradualmente quando le condizioni mancano.
Per quanto riguarda l’amore coniugale, se i due sposi sono dei santi, c’è l’amicizia tra santi;
se uno solo lo è, l’amore anonimo del prossimo, applicato da lui verso l’altro, costituisce
l’unico valore stabile della loro relazione. Se non lo è nessuno dei due, mancano le
condizioni, l’amore coniugale si esaurisce e scompare, malgrado il sacramento. L’odio non
è mai incondizionato15.

Dire che «l’odio non è mai incondizionato» significa riconoscere il limite,


la finitezza del male, anche nelle sue forme più brutali, anche quando va ad
annidarsi nelle profondità del cuore umano, indossando le vesti dell’odio. Il
suo potere è enorme e tuttavia non è assoluto, perché «il male in noi è
finito, bisogna solo tagliare il canale per il quale giunge a noi, e a poco a
poco morrà»16.
In questa prospettiva, diventare «santi» può voler dire imparare
quotidianamente, con piccoli gesti, a «tagliare il canale». La santità, vista
così, non è una condizione eccezionale, ma un permanente orientamento al
bene, uno sguardo che non si stanca mai di restare fisso in direzione della
luce. Solo il mettere radici in questa forma di santità può favorire la
graduale distruzione del male. Questo e non altro è il contenuto essenziale
della speranza:

La speranza è la conoscenza che il male che si porta in sé è finito, e che il minimo


orientamento dell’anima verso il bene, fosse pure di un istante, ne abolisce un poco; che
nell’ambito spirituale ogni bene, infallibilmente, produce il bene17.

Questo «orientamento al bene» diventa una virtù dell’anima solo attraverso


un esercizio metodico e perseverante. Il cammino, tuttavia, è lungo e
faticoso, gli ostacoli non si contano, le cadute sono eventi ordinari. Ma se la
direzione dei passi è giusta, ogni metro guadagnato è una conquista e
l’incertezza della meta si rivela un’inquietudine con cui il tempo ci abitua a
convivere. Non si tratta, del resto, di un percorso al buio: la luce c’è, anche
se proviene da una fonte lontana ed è frammista a molte ombre, a volte
angoscianti. Chi cammina ha il compito di liberare la strada dalle erbacce,
dissodando il terreno perché sia pronto a ricevere qualche granello di
senape, se mai il vento lo porterà.
Ci piace chiudere questa nota con un altro pensiero, scritto anch’esso
negli anni di Marsiglia, che ricorre a un’immagine di straordinaria forza
poetica per evocare l’incontro misterioso, dall’esito assolutamente incerto,
tra la potenza salvifica della grazia e la libera accettazione da parte
dell’uomo:
Noi siamo come naufraghi in mare aggrappati a tavole e sballottati in
modo del tutto passivo dal moto dei flutti. Dall’alto del cielo Dio lancia a
ciascuno una corda. Chi afferra la corda e non la lascia malgrado il dolore e
la paura, resta come gli altri esposto agli urti delle onde; solo che questi urti
si combinano con la tensione della corda per formare un insieme meccanico
diverso18.
Amicizia

Vi è un amore personale e umano che è puro e racchiude in sé un


presentimento e un riflesso dell’amore divino. È l’amicizia, purché si usi
questa parola rigorosamente nel significato che le è proprio19.
La preferenza nei confronti di un essere umano è necessariamente
qualcosa di diverso dalla carità. La carità è indiscriminata. Se si posa in
modo più particolare su qualcuno, la sola ragione è l’irrompere casuale
della sventura, che suscita lo scambio di compassione e di gratitudine. Essa
è ugualmente a disposizione di tutti gli esseri umani, in quanto la sventura
può venire a proporre a ognuno un simile scambio20.
La preferenza personale verso un determinato essere umano può essere
di due tipi. O si cerca nell’altro un certo bene, oppure si ha bisogno di lui.
In linea generale, tutti i legami possibili si suddividono tra queste due
specie. Ci si dirige verso qualcosa, o perché si cerca in essa un bene, o
perché non se ne può fare a meno. Talvolta i due moventi coincidono.
Spesso no. Di per se stessi, sono distinti e completamente indipendenti. Si
mangia del cibo ripugnante se non ce n’è altro, perché non si può fare
altrimenti. Un uomo un po’ goloso ricerca i cibi gustosi, ma può facilmente
farne a meno. Se viene a mancare l’aria, si soffoca; ci si agita per
procurarsela, non perché si speri di ricavarne un bene, ma perché se ne ha
bisogno. Si va a respirare aria di mare, senza essere spinti da nessuna
necessità, solo perché è piacevole. Spesso il passare del tempo porta
automaticamente a sostituire il secondo movente al primo. È una delle
grandi sofferenze umane21. Un uomo fuma l’oppio per accedere a una
condizione speciale che crede superiore; spesso, dopo un po’, l’oppio lo
getta in uno stato doloroso che egli avverte come degradante e tuttavia non
riesce più a farne a meno22.
Arnolfo ha comprato Agnese dalla madre adottiva perché gli era
sembrato che fosse un bene per lui avere presso di sé una bambina che
avrebbe trasformato, poco a poco, in una buona sposa. In seguito lei finisce
col procurargli solo un dolore straziante e avvilente. Ma col tempo
l’attaccamento nei suoi confronti è divenuto un legame vitale che lo spinge
a pronunciare il terribile verso:

Mais je sens là-dedans qu’il faudra que je crève23…

Arpagone dapprima guardava all’oro come a un bene24. In seguito è


solo l’oggetto di un’assillante ossessione, ma un oggetto la cui privazione
potrebbe condurlo alla morte. Come dice Platone, c’è una gran differenza
tra l’essenza del necessario e quella del bene25.
Non vi è alcuna contraddizione fra cercare un bene in un essere umano e
volergli bene. Per la stessa ragione, quando il movente che spinge verso un
essere umano è solo la ricerca di un bene, non esistono i presupposti per
un’amicizia. L’amicizia è un’armonia soprannaturale, un’unione dei
contrari.
Quando un essere umano è in qualche modo necessario, non si può
volere il suo bene, a meno di non desistere dal volere il proprio. Dove vi è
necessità, là vi è costrizione e dominio26. Si è alla mercé di ciò di cui si ha
bisogno, a meno di non esserne il proprietario. Il bene centrale per ciascun
uomo è la libera disposizione di sé27. O vi si rinuncia, e questo è un crimine
di idolatria, poiché non si ha il diritto di rinunciarvi se non in favore di Dio;
oppure si desidera che l’altro, di cui si ha bisogno, ne sia privato.
Sono molteplici i meccanismi in grado di far nascere tra gli esseri umani
dei legami di affetto che possono avere la durezza ferrea della necessità.
L’amore materno spesso è di questa natura; talvolta lo è quello paterno,
come in Papà Goriot di Balzac; l’amore fisico nella sua forma più intensa,
come ne La scuola delle donne e in Fedra; l’amore coniugale molto spesso,
soprattutto in conseguenza dell’abitudine; più di rado l’amore filiale o
fraterno28.
D’altra parte vi sono delle gradazioni nella necessità. È necessario, a un
certo livello, tutto ciò la cui perdita determina realmente una diminuzione di
energia vitale nel senso preciso, rigoroso che questa parola avrebbe se lo
studio dei fenomeni vitali fosse avanzato come quello della caduta dei
gravi. Al livello estremo della necessità, la privazione comporta la morte. È
il caso in cui tutta l’energia vitale di un essere è vincolata a un altro da un
attaccamento. Ai livelli inferiori, la privazione comporta un indebolimento
più o meno accentuato. Accade così che la privazione totale di nutrimento
provochi la morte, mentre al contrario la privazione parziale determina
soltanto una debilitazione. Ciononostante, si considera necessaria tutta la
quantità di nutrimento al di sotto della quale un essere umano è indebolito.
La causa più frequente della necessità, nei legami affettivi, è una certa
combinazione di simpatia e di abitudine29. Come nel caso dell’avarizia o
dell’intossicazione, quel che inizialmente costituiva la ricerca di un bene si
trasforma in bisogno per il semplice trascorrere del tempo30. Ma la
differenza rispetto all’avarizia, all’intossicazione e ad ogni altro vizio, è che
nei legami affettivi i due moventi, la ricerca di un bene e il bisogno,
possono coesistere molto bene. Possono anche essere separati. Allorché
l’attaccamento di un essere umano a un altro è determinato soltanto dal
bisogno, vi è qualcosa di atroce. Poche cose al mondo possono toccare tale
livello di bassezza e di orrore31. Vi è sempre qualcosa di orribile in tutte le
situazioni in cui un essere umano ricerca il bene e trova solamente la
necessità.
I racconti nei quali un essere amato, all’improvviso, appare con una
testa da morto ne sono l’immagine migliore. L’anima umana, è vero,
dispone di un arsenale completo di menzogne per proteggersi contro questa
bassezza e fabbricarsi nell’immaginazione dei falsi beni là dove vi è
soltanto necessità. È proprio per questo che la bassezza è un male, perché
costringe alla menzogna32.
In senso molto generale, vi è sventura ogni volta che la necessità, sotto
qualsiasi forma, si fa sentire in modo così duro che la durezza supera la
capacità di menzogna di chi subisce lo choc. È la ragione per cui gli esseri
più puri sono maggiormente esposti alla sventura. Per chi è capace di
arrestare la reazione automatica di protezione di sé, che tende ad accrescere
nell’anima la capacità di menzogna, la sventura non è un male, benché sia
pur sempre una ferita e, in un certo senso, una degradazione33.
Quando un essere umano è vincolato a un altro da un legame affettivo
che, a qualsiasi livello, racchiude in sé la necessità è impossibile che egli
possa desiderare il mantenimento dell’autonomia, contemporaneamente, in
se stesso e nell’altro. Impossibile attraverso un meccanismo della natura.
Ma possibile grazie a un intervento miracoloso del soprannaturale. Questo
miracolo, è l’amicizia.
«L’amicizia è un’uguaglianza fatta di armonia», sostenevano i
pitagorici. Vi è armonia perché vi è unità soprannaturale tra due contrari,
che sono la necessità e la libertà, i due contrari che Dio ha combinato
creando il mondo e gli uomini. Vi è uguaglianza perché si desidera
mantenere la facoltà di libero consenso per se stesso e per l’altro.
Quando qualcuno desidera sottomettere a sé un essere umano, o accetta
di sottomettersi a lui, non vi è traccia di amicizia. Il Pilade di Racine non è
l’amico di Oreste34. Non v’è amicizia nella disuguaglianza.
Un certo livello di reciprocità è essenziale all’amicizia. Se da una delle
due parti ogni forma di benevolenza è completamente assente, l’altra deve
reprimere l’affetto dentro di sé, per rispetto verso il libero consenso al quale
non deve mai desiderare di recare oltraggio. Se una delle due parti non ha
rispetto per l’autonomia dell’altra, quest’ultima deve rompere il legame per
rispetto di se stessa. Allo stesso modo, chi è disposto ad asservirsi non può
ottenere amicizia.
Ma la necessità implicata nel legame affettivo può anche esistere solo
per una parte, in tal caso vi è amicizia da una parte sola se si assume questo
termine in un senso assolutamente preciso e rigoroso.
Un’amicizia è infangata non appena la necessità ha il sopravvento,
anche solo per un istante, sul desiderio di conservare per l’uno e per l’altro
la facoltà di libero consenso. In tutte le situazioni umane la necessità è il
principio dell’impurità. Ogni amicizia è impura se vi affiora, anche solo
come traccia, il desiderio di piacere o il desiderio opposto35. In un’amicizia
perfetta questi due desideri sono completamente assenti. I due amici
accettano pienamente di essere due e non uno, rispettano la distanza
imposta dal fatto di essere due creature distinte. È con Dio soltanto che
l’uomo ha il diritto di desiderare di essere direttamente unito36.
L’amicizia è il miracolo grazie al quale un essere umano accetta di
guardare a distanza e senza avvicinarsi quello stesso essere che gli è
necessario come il nutrimento. È la forza d’animo che Eva non ha avuto,
eppure non aveva necessità del frutto. Se avesse avuto fame nel momento in
cui contemplava il frutto e se, ciononostante, fosse rimasta per un tempo
infinito a contemplarlo senza fare un passo verso di esso, avrebbe compiuto
un miracolo analogo a quello della perfetta amicizia.
Grazie alla virtù sovrannaturale del rispetto dell’autonomia umana,
l’amicizia è molto simile alle forme pure della compassione e della
gratitudine suscitate dalla sventura. In entrambi i casi, i contrari, che
costituiscono i termini dell’armonia, sono la necessità e la libertà o, ancora,
la subordinazione e l’uguaglianza. Queste due coppie di contrari sono
equivalenti.
Per il fatto che il desiderio di piacere e il desiderio opposto sono assenti
nell’amicizia pura, vi è in essa, assieme al legame affettivo, qualcosa che
somiglia a una completa indifferenza. Benché sia un rapporto fra due
persone, ha qualcosa di impersonale. Non intacca l’imparzialità. Non
impedisce per nulla di imitare la perfezione del Padre celeste che
distribuisce ovunque la luce del sole e la pioggia. Viceversa, l’amicizia e
questa imitazione sono, reciprocamente, l’una condizione dell’altra. Poiché,
infatti, tutti o quasi tutti gli esseri umani sono legati ad altri da vincoli
affettivi che implicano un certo grado di necessità, essi possono avvicinarsi
alla perfezione solo trasformando quel legame affettivo in amicizia37.
L’amicizia ha qualcosa di universale. Consiste nell’amare un essere umano
come si vorrebbe poter amare in maniera particolare ciascuno degli esseri
che compongono la specie umana38. Come un geometra osserva una figura
particolare per dedurne le proprietà universali del triangolo, allo stesso
modo chi sa amare dirige su un essere umano particolare un amore
universale. Il consenso a conservare l’autonomia in se stessi e nell’altro è
per sua essenza qualcosa di universale. Non appena si desidera preservare
questa autonomia per più di un singolo essere, la si desidera per tutti gli
esseri; infatti si cessa di disporre l’ordine del mondo in cerchio attorno a un
centro posto quaggiù. Si trasporta il centro al di sopra dei cieli39.
L’amicizia non ha questa virtù se i due esseri che si amano, per un uso
illegittimo dell’affetto, credono di poter essere una cosa sola40. Ma, in
questo caso, non vi è amicizia nel significato autentico del termine. Si tratta,
per così dire, di un’unione adultera, persino se ciò avviene tra sposi. Non vi
è amicizia se non laddove la distanza è conservata e rispettata.
Il semplice fatto di provare piacere a pensare su un argomento allo
stesso modo dell’essere amato, o in ogni caso il fatto di desiderare questa
coincidenza di opinioni, è un’offesa alla purezza dell’amicizia e, al tempo
stesso, alla probità intellettuale. Capita assai di frequente. Ma anche
un’amicizia pura è rara41.
Quando i rapporti di affetto e di necessità fra esseri umani non vengono
trasformati in amicizia in modo soprannaturale, non solo il legame affettivo
è basso e impuro ma si mescola anche con l’odio e con la repulsione.
Questo è molto evidente ne La scuola delle donne e in Fedra42.
Il meccanismo è lo stesso anche in legami diversi dall’amore fisico. È
una cosa facile da capire. Noi odiamo ciò da cui dipendiamo. Finiamo per
provare disgusto verso quel che dipende da noi. Talvolta l’amore non si
limita solo a mescolarsi, ma si trasforma totalmente in odio e disgusto.
Talvolta la trasformazione è pressoché immediata, al punto che quasi
nessun sentimento ha avuto il tempo necessario per manifestarsi; questo
avviene quando la necessità viene quasi subito messa a nudo. Quando la
necessità che lega gli esseri umani non è di natura affettiva, quando dipende
soltanto dalle circostanze, spesso l’ostilità nasce fin dal primo momento.
Quando Cristo diceva ai suoi discepoli: «Amatevi l’un l’altro», non era
certo l’attaccamento ciò che prescriveva. Poiché effettivamente vi erano tra
loro dei legami determinati dalla condivisione dei pensieri, dalla vita in
comune, dalle abitudini, egli comandava loro di trasformare questi legami
in amicizia per non lasciarli degenerare in attaccamento impuro o in odio43.
Poiché Cristo, poco prima di morire, ha aggiunto questa parola come un
nuovo comandamento a quelli dell’amore verso il prossimo e dell’amore
verso Dio, si può pensare che l’amicizia pura, come la carità verso il
prossimo, racchiuda in sé qualcosa di simile a un sacramento. Cristo ha
voluto forse riferirsi all’amicizia cristiana quando ha detto: «Quando due o
tre di voi saranno riuniti nel mio nome, io sarò in mezzo a loro»44.
L’amicizia pura è un’immagine dell’amicizia originaria e perfetta che è
quella della Trinità e che è l’essenza stessa di Dio45. È impossibile che due
esseri umani siano una cosa sola e, nonostante questo, rispettino
scrupolosamente la distanza che li separa, se Dio non è presente in ciascuno
di loro. Il punto di incontro delle parallele è all’infinito46.
Abbreviazioni e bibliografia

Nella bibliografia sono riportati i volumi delle Œuvres Complètes finora


pubblicati da Gallimard, le edizioni italiane eventualmente citate in questo
volume e anche altre edizioni ancora reperibili. I volumi delle edizioni
francesi e italiane sono preceduti dalle sigle con cui vengono citati. Le sigle
italiane, quando necessario, sono identificate da un asterisco. Di norma, le
citazioni sono tradotte direttamente dall’edizione critica francese delle
Œuvres Complètes; quando si utilizzano le versioni italiane, se ne controlla
ogni volta l’esattezza sull’edizione francese.
Non abbiamo ritenuto necessario, per l’indole di questo volume, fornire
ai lettori una bibliografia generale dei lavori riguardanti Simone Weil.
Riportiamo solo alcune tra le più autorevoli biografie in cui vita e pensiero
di Simone Weil si integrano tra loro. Alcune di esse contengono dei
repertori bibliografici sufficientemente ricchi.
Per un approfondimento dei temi trattati nel volume, ci limitiamo a
segnalare alcune pubblicazioni nelle quali il tema dell’amicizia è
esplicitamente analizzato. Del resto, i riferimenti bibliografici riportati nelle
note consentono al lettore interessato di riprendere e approfondire la
riflessione personale.

SCRITTI DI SIMONE WEIL

Edizioni francesi
AD: Attente de Dieu, La Colombe, Éditions du Vieux Colombier, Parigi,
1950.
CO: La condition ouvrière, Gallimard, Parigi, 2002.
E: L’enracinement, Gallimard, Parigi, 1990.
EHP: Écrits historiques et politiques, Gallimard, Parigi, 1960.
EL: Écrits de Londres et dernières lettres, Gallimard, Parigi, 1957.
IPC: Intuitions préchrétiennes, La Colombe, Éditions du Vieux
Colombier, Parigi, 1951.
LP: Leçons de philosophie (Roanne 1933-1934), Plon, Parigi, 1989.
LR: Lettre à un religieux, Gallimard, Parigi, 1951.
OL: Oppression et liberté, Gallimard, Parigi, 1955.
P: Poèmes, suivi de Venise sauvée, Gallimard, Parigi, 1968.
R: Réflexions sur les causes de la liberté et de l’oppression sociale,
Gallimard, 1980.
PSO: Pensées sans ordre concernant l’amour de Dieu, Gallimard,
Parigi, 1962.
S: Sur la science, Gallimard, Parigi, 1966.
SG: La source grecque, Gallimard, Parigi, 1953.
Œ: Œuvres, Gallimard, Parigi, 1999.

Presso Gallimard è in corso la pubblicazione delle Œuvres Complètes.


Qui di seguito sono elencate le sigle e i titoli dei volumi editi finora:

OC: Œuvres complètes, Gallimard.


OCI: Premiers écrits philosophiques, 1988.
OCII 1: Écrits historiques et politiques. L’engagement syndical (1927 -
juillet 1934), 1988.
OCII 2: Écrits historiques et politiques. L’expérience ouvrière et l’adieu
à la révolution (juillet 1934 – juin 1937), 1991.
OCII 3: Écrits historiques et politiques. Vers la Guerre (1937-1940),
1989.
OCIV 1: Écrits de Marseille (1940-1942), 2008.
OCIV 2: Écrits de Marseille (1941-1942), 2009.
OCVI 1: Cahiers (1933 – septembre 1941), 1994.
OCVI 2: Cahiers (septembre 1941 – février 1942), 1997.
OCVI 3: Cahiers (février 1942 – juin 1942), 2002.
OCVI 4: Cahiers (juillet 1942 – juillet 1943), 2006.
OCVII 1: Correspondance familiale, 2012.
Edizioni italiane
AD*: Attesa di Dio, a cura di Maria Concetta Sala, Adelphi, Milano,
2008.
CO*: La condizione operaia, trad. it. di Franco Fortini, SE, Milano,
1990.
GT: Sulla Germania totalitaria, a cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi,
Milano, 1990.
LF: Lezioni di filosofia, a cura di Maria Concetta Sala, Adelphi, Milano,
1999.
LR*: Lettera a un religioso, a cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi,
Milano, 1996.
PR: La prima radice. Preludio a una dichiarazione dei doveri verso
l’essere umano, trad. it. di Franco Fortini, SE, Milano, 1990.
R*: Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, a
cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi, Milano, 1983.
Q I-II-III-IV: Quaderni, 4 volumi, a cura e con un saggio di Giancarlo
Gaeta, Adelphi, Milano 1982, 1985, 1988, 1993.
SL: Una costituente per l’Europa. Scritti londinesi, a cura di Domenico
Canciani e Maria Antonietta Vito, Castelvecchi, Roma, 2013.
VS: Venezia salva, a cura di Cristiana Campo, Adelphi, Milano, 1994.

Altre edizioni italiane


Oppressione e libertà, trad. it. di Carlo Falconi, Edizioni di Comunità,
Milano, 1956.
La Grecia e le intuizioni cristiane, trad. it. di Margherita Pieracci-
Hawell e Cristina Campo, Borla, Torino, 1967.
Sulla scienza, trad. it. di Marisa Cristadoro, Borla, Torino, 1971.

Esistono anche numerose antologie degli scritti di Simone Weil.

I «Cahiers Simone Weil», rivista dell’Associazione per lo studio del


pensiero di Simone Weil, costituiscono una straordinaria biblioteca sulla
vita e l’opera della pensatrice, che si arricchisce di anno in anno, a partire
dal 1978. Sono citati con la sigla «CSW».
Le citazioni da Platone sono tratte da Tutti gli scritti, a cura di Giovanni
Reale, Rusconi, Milano, 1991.
Le citazioni bibliche, dall’Antico e dal Nuovo Testamento, quando
necessario, sono tratte da La Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane,
Bologna, 1996.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Biografie
Canciani, Domenico, Simone Weil. Il coraggio di pensare. Impegno e
riflessione politica tra le due guerre, Edizioni Lavoro, Roma, 1996.
Canciani, Domenico, Le courage de penser, Beauchesne, Parigi, 2011.
Fiori, Gabriella, Simone Weil. Biografia di un pensiero, Garzanti,
Milano, 1981, 2006.
Fiori, Gabriella, Simone Weil. Una donna assoluta, La Tartaruga,
Milano, 1991.
Nevin, Thomas R., Simone Weil. Ritratto di un’ebrea che si volle
esiliare, Bollati Boringhieri, Torino, 1997.
Pétrement, Simone, La vita di Simone Weil, Adelphi, Milano, 1994.

L’amicizia nella vita e nella riflessione di Simone Weil


AA.VV., Amitiés et inimitiés de Simone Weil, «Cahiers Simone Weil», n.
2, giugno 2007; n. 4, dicembre 2007; n. 1, marzo 2008; n. 3, settembre
2008.
AA.VV., Legami. I volti dell’amicizia, «Esodo», n.3, luglio 2012.
AA.VV., Legami. Le radici dell’amicizia, «Esodo», n. 4 ottobre 2012.
Farinelli, Giovanna, Simone Weil e la paideia greca, Morlacchi,
Perugia, 2008.
Guadagnin, Laura – Sterlocchi, Grazia (a cura di), Simone Weil e
l’amore della città. Venezia terrena e celeste. Parte seconda Amitié:
Tommasi, Wanda, Un punto di estraneità nelle relazioni. Amicizia,
attenzione all’altro e alla realtà, pp. 85-100; Canciani, Domenico,
L’amicizia pura. Un itinerario spirituale, pp. 109-120; Vito, Maria
Antonietta, L’amicizia in Simone Weil, pp. 101-107.
Marchetti, Adriano, Nella verità del proprio essere, postfazione a
Simone Weil – Joë Bousquet, Corrispondenza, SE, Milano, 1994, pp. 63-
76.
Tommasi, Wanda, Amicizia, comunità, differenza femminile, in Simone
Weil. Esperienza religiosa esperienza femminile, Liguori Editore, Napoli,
1997, pp. 77-91.
Note

PARTE PRIMA
Marsiglia, la stagione delle amicizie

1. 5 agosto 1941, Le journal de bord des Cahiers du Sud, «Dossier Cahiers du Sud», a cura di
Alain Paire, in «La Revue des Revues», n. 16, 1993, p. 87.
2. Esprime questi sentimenti in una lettera, del luglio 1940, inviata a Huguette Baur, sua alunna,
durante una sosta a Vichy, prima di raggiungere Marsiglia: «Nel giardino, non si ha forse il cielo, il
sole che si alza, sale e discende, e le stelle, in una parola, tutto l’universo? Le nazioni hanno bisogno
di anni per i loro sussulti, i loro declini, i loro risvegli, mentre un essere umano può trasferire una
sorta di eternità in una sola bella giornata vissuta bene. Coltivare legumi e comporre versi […] è la
cosa migliore, serbandosi liberi dall’odio, dalla disperazione e da ogni sentimento di agitazione. In
questi momenti, anche l’incertezza in cui viviamo può produrre un arresto del tempo che consente di
godere dei giorni con maggior pienezza; questa tregua probabilmente non sarà lunga. Molti non
vedranno la prossima estate. Ma non posso considerare la morte come una sventura» («CSW», n. 3,
settembre 1991, p. 199).
3. Q I, p. 148.
4. Ivi, pp. 156-157, passim.
5. Lettera da Marsiglia a Boris Souvarine, ottobre 1940, in «CSW», n. 1, marzo 1992, p. 15.
6. Ibidem.
7. Su Marsiglia durante la guerra e sul suo ruolo di capitale della cultura e di avamposto della
resistenza morale e intellettuale, cfr. Daniel Bénédite, La filière marseillaise, Clancier Guénau,
Parigi, 1984; Jean-Michel Guiraud, La vie intellectuelle et artistique à Marseille à l’époque de Vichy
et sous l’occupation (1940-1944), Cdrp, Marsiglia, 1987; Jean-Michel Guiraud, Marseille, cité-
refuge des écrivains et des artistes, in Jean-Pierre Rioux, La vie culturelle sous Vichy, Éditions
Complexe, Bruxelles, 1990, pp. 377-400; Robert Mencherini, Artistes et intellectuels réfugiés dans la
région marseillaise en 1940-1942: un jeu d’ombres entre survie et engagement, Atti del Colloquio
Déplacements, dérangements, bouleversement: Artistes et intellectuels déplacés en zone sud (1940-
1944), Bibliothèque de l’Alcazar, Marsiglia, 3-4 giugno 2005. Testi riuniti da Pascal Mercier et
Claude Pérez, <http://revues.univ-provence.fr/lodel/ddb/document.php?id=91>.
8. Dal momento in cui, nel 1925, ne diventa il responsabile, i «Cahiers du Sud» (1914-1966) si
identificano con Jean Ballard (1893-1973), come la rivista «Esprit» si è identificata, fino al 1950, con
Emmanuel Mounier.
9. Joë Bousquet n’est plus, articolo di Jean Ballard, citato da Alain Paire, Chronique des «Cahiers
du Sud» 1914-1966, Imec, Parigi, 1993, p. 189.
10. Jean Ballard, Propos de nos 25 ans, citato da Alain Paire, Chronique des «Cahiers du Sud»…,
cit., p. 236.
11. I «Cahiers du Sud» pubblicano, nel 1935, un quaderno monografico, I’Islam et l’Occident,
singolarmente anticipatore e, nel 1939, Retour aux mythes grecs, dedicato alle religioni misteriche,
per le quali da qualche tempo Simone Weil nutre grande interesse. In proposito, cfr. Michèle Coulet,
À la recherche de l’humanisme méditerranéen de Jean Ballard, in [Jean Ballard] & les Cahiers du
Sud, Ville de Marseille, Marsiglia, ottobre 1993, pp. 231-247. Sulla specificità culturale dei «Cahiers
du Sud», che ha favorevolmente impressionato Simone Weil, cfr. Jean Ballard, Coups d’œil sur notre
demisiècle, [Jean Ballard] & les Cahiers du Sud, cit., pp. 255-267.
12. Per ciò che concerne l’impegno sociale, politico e sindacale, che si dà per conosciuto, almeno
in parte, cfr. Domenico Canciani, Simone Weil. Il coraggio di pensare. Impegno e riflessione politica
tra le due guerre, Edizioni Lavoro, Roma, 1996, e ora, nella versione francese aggiornata e ampliata,
Simone Weil. Le courage de penser, Beauchesne, Parigi, 2011.
13. Per una ricostruzione accurata della collaborazione di Simone Weil ai «Cahiers du Sud», cfr.
Alain Freixe, Simone Weil et les «Cahiers du Sud», in «CSW», n. 2, giugno 1998, prima parte, pp.
165-177; seconda parte, n. 3, settembre 1998, pp. 241-254. Cfr. anche il quaderno dedicato a Simone
Weil et l’héritage de la civilisation méditerranéenne, in «CSW», n. 2, giugno 1983. Nuovi e ricchi
contributi alla conoscenza dell’ambiente dei «Cahiers du Sud» sono venuti dalle giornate Rencontre
Simone Weil/Joë Bousquet, Carcassonne, 28-31 ottobre 2000, alle quali il curatore, Domenico
Canciani, ha partecipato con la relazione «Des textes dont le feu brûle encore…». Simone Weil, les
Cahiers du Sud et la civilisation occitanienne, ora in «CSW», n. 2, giugno 2002, pp. 89-103. In
seguito, è ritornato sull’argomento in occasione del colloquio annuale dell’Associazione Simone
Weil «Les civilisations inspiratrices» (Parigi, 3-4 novembre 2012) con la relazione Bâtir une
civilisation nouvelle. Simone Weil et l’inspiration occitane, in corso di pubblicazione nei «CSW».
14. «Cahiers du Sud», nn. 230-231, dicembre 1940 e gennaio 1941, ora in OC II 3, pp. 227-253.
15. I’agonie d’une civilisation vue à travers un poème épique, scritto tra l’ottobre 1940 e il
gennaio 1941, pubblicato nei «Cahiers du Sud», n. 249, agosto-settembre-ottobre 1942, pp. 99-107 e,
in seguito, nel numero speciale Le génie d’oc et l’homme méditerranéen, febbraio 1943, ripreso in
Écrits de Marseille, OC IV 2, pp. 405-413. Il saggio, tradotto in italiano con il titolo L’agonia di una
civiltà nelle immagini di un poema epico, si trova in Simone Weil, I catari e la civiltà mediterranea,
a cura di Giancarlo Gaeta e con una Nota di Gian Luca Potestà, Marietti, Genova, 1996, pp. 17-37, da
cui sono tratte le citazioni. Sugli aspetti letterari e culturali de La Chanson de la croisade contre les
Albigeois, cfr. Robert Lafont e Christian Anatole, Nouvelle Histoire de la Littérature occitane, tome
I, Presses Universitaires de France, Parigi, 1970, pp. 156-173.
16. Questo straordinario saggio, già tradotto da Cristina Campo, è ora riproposto da Asterios,
Trieste, 2012, con la traduzione di Francesca Rubini, a cura di Alessandrino Di Grazia.
17. Il poema si compone di due parti: la prima, di Guilhèm de Tudèla, descrive gli avvenimenti
della Crociata, dal 1209-1210 al 1213-1214, secondo la prospettiva del partito francese; l’autore della
seconda parte, un chierico rimasto anonimo, privilegiato dalla lettura di Simone Weil, sposa invece il
punto di vista del campo avverso e sostiene la causa occitana, esaltando in modo mitico la figura di
Raimondo VII di Tolosa.
18. L’agonia di una civiltà nelle immagini di un poema epico, cit., p. 19.
19. Introducendo il racconto della battaglia di Muret che, nel settembre 1213, vide la morte del
Re di Aragona e la sconfitta della coalizione occitana, l’anonimo poeta ammonisce i suoi ascoltatori
con queste parole desolate: «In verità, sappiatelo, ogni umanità è venuta meno, Parage è morto ed
esiliato, tutta la cristianità è prostrata e coperta di obbrobrio. Ascoltate come questo è potuto
avvenire…». Citato da Josiane Ubaud, in un articolo pubblicato sul suo sito, con il titolo: La
Chanson de la croisade albigeoise, p. 4.
20. Robert Lafont et Christian Anatole, Nouvelle histoire de la littérature occitane, cit., p. 170.
21. L’agonia di una civiltà nelle immagini di un poema epico, cit., p. 19.
22. La centralità che Simone Weil attribuisce alla distruzione della civiltà occitana, nell’ambito
della storia d’Europa, non ha alcuna pretesa di proporsi come interpretazione storiografica, ma è da
considerare un modello ideale al quale la breve durata dell’esperienza non toglie alcun valore: in
proposito, cfr. la nota di Gian Luca Potestà in I catari e la civiltà mediterranea, pp. 73-94.
23. Il quaderno monografico dei «Cahiers du Sud» contiene anche una ricca scelta di testi
manichei e catari (pp. 112-149) e un saggio, intitolato Les Cathares et l’amour spirituel (pp. 112-
140), scritto dello storico Déodat Roché, al quale Simone Weil deve la sua iniziazione al catarismo.
Delle influenze catare sul suo pensiero ha scritto, in modo egregio, Francesca Veltri in La città
perduta. Simone Weil e l’universo della Linguadoca, 2a edizione, Rubettino, Soveria Mannelli, 2006.
Sugli influssi del catarismo nella formazione della società occitana, cfr. Jean-Louis Biget, Hérésie,
politique et société en Languedoc vers 1120-vers 1320, in Jacques Berlioz (a cura di), Le pays
cathare. Les religions médiévales et leurs expressions méridionales, Seuil, Parigi, 2000, pp. 17-79.
24. Lettera di Joë Bousquet a Jean Ballard, del 21 novembre 1939, citata e analizzata da Alain
Freixe, Le génie d’oc et l’homme méditerranéen, du côté de Joë Bousquet, in «CSW», n. 2, giugno
2002, pp. 121-131, cit. p. 125.
25. Si tratta di Soirée languedocienne. Entretiens dans la cité, in Le génie d’oc…, cit., pp. 390-
405.
26. Giudizio positivo espresso a Simone Weil nella lettera del 18 gennaio 1941: «Ho appena letto,
con gran piacere, il suo bell’articolo. È il contributo che attendevo da lei, un testo notevole, pensato
con vigore» (Fondo Jean Ballard, Corrispondenza Ballard-Weil/Novis, manoscritto n.106, Biblioteca-
Alcazar, Marsiglia).
27. Dopo molte discussioni tra Ballard e Bousquet, l’articolo sarà pubblicato, con la data marzo
1941, alla fine del fascicolo, pp. 374-389.
28. L’articolo di Alain Freixe, citato alla nota 13, sulla base della corrispondenza tra Bousquet e
Ballard, ha apportato nuova luce su tutta la vicenda.
29. Redatto tra il 18 e il 23 febbraio 1942, pubblicato con le stesse modalità del precedente nel
numero speciale dei «Cahier du Sud» nel 1943, pp. 150-158, ripreso in OC IV 2, pp. 415-424. Il
saggio è ugualmente tradotto con il titolo L’ispirazione occitana, in I catari e la civiltà mediterranea,
cit., pp. 17-26, da cui sono tratte le citazioni.
30. Lettera non datata, scritta probabilmente tra il 9 e il 16 marzo 1942, Fondo Jean Ballard,
Corrispondenza Ballard-Bousquet, manoscritto 360, Biblioteca-Alcazar, Marsiglia.
31. Joë Bousquet, Présentation de l’homme d’oc, pp. 9-13, cit. p. 11. La sottolineatura è nostra.
Questo richiamo alla letteratura popolare non sarà certamente sfuggito a Simone Weil che aveva
cominciato a interessarsi intensamente di folklore, di miti, di favole, che considerava scrigni di una
saggezza primordiale.
32. Robert Mencherini, il primo a rilevare il tempestivo impegno di Simone Weil nella neonata
resistenza, come ricordiamo più avanti, in un articolo recente ha sottolineato la posta in gioco politica
e non soltanto culturale dell’intera operazione intrapresa dai «Cahiers du Sud», e in particolare dei
due contributi della filosofa: cfr. Soixante et dix ans après: La «Demande pour être admise en
Angleterre» et le «Génie d’oc», in «CSW», n. 4, dicembre 2012, pp. 451-465.
33. L’ispirazione occitana, cit., p. 34.
34. Ivi, pp. 31-32.
35. Q III, p. 142.
36. L’ispirazione occitana, cit., p. 37. Il corsivo è nostro.
37. Nella Présentation de l’homme d’oc, Bousquet aveva scritto: «L’uomo d’oc ha ereditato una
missione unica e dovrà riprendere in altra forma il tentativo disperato dei suoi padri per strapparsi dal
discontinuo. Sarà capace di generare la coscienza dell’uomo moderno e di sostituire un umanesimo
integrale all’umanesimo convenzionale?» (cit., p. 12).
38. L’ispirazione occitana, cit., p. 37.
39. Alain Freixe, Simone Weil et les «Cahiers du Sud», seconda parte, cit., p. 245.
40. Cfr. Jean Tortel, Simone Weil à Marseille, in «Sud», nn. 87-88, 1990, pp. 25-28.
41. Su questa vicenda, cfr. Simone Weil dans les Archives judiciaire d’Aix-en-Provence,
documenti presentati da Robert Mencherini in «CSW», n. 4, dicembre 1994, pp. 327-340. Dello
stesso autore è l’articolo che li commenta: Simone Weil et la «Demande pour être admise en
Angleterre», ivi, pp. 341-362.
I documenti trovati da Mencherini sono ora raccolti negli Écrits de Marseille, in OC IV 1, pp. 395-
400, mentre i verbali degli interrogatori si trovano negli Annexes dello stesso volume, pp. 446-448.
Mencherini è tornato sull’argomento con Simone Weil à Marseille et la Résistance intérieure. Un
rendez-vous manqué?, in «CSW», n. 2, giugno 2011, pp. 149-166, e nell’articolo citato nella nota 32.
Le sue accurate ricerche hanno fugato ogni dubbio sull’importanza del tempestivo coinvolgimento di
Simone Weil nella Resistenza. I contatti con Robert Burgass, responsabile di una filiera per il
passaggio in Inghilterra, arrestato e morto in carcere nel dicembre del 1943, e i verbali degli
interrogatori subiti da Simone Weil, consentono di valutare appieno la sua volontà di partecipazione
diretta alla lotta e le argomentazioni sviluppate nelle lettere indirizzate a Maurice Schumann da New
York e da Londra.
42. Cfr. Quelques réflexions sur les origines de l’hitlérisme, 1939, saggio solo parzialmente
pubblicato nei «Nouveaux Cahiers» (n. 53, 1 gennaio 1940) a causa della censura, ora integralmente
ripreso in OC II 3, pp. 168-219.
43. Demande pour être admise en Angleterre, in OC IV 1, p. 395.
44. Ivi, p. 397.
45. La versione definitiva del Projet d’une formation d’infirmières de première ligne, portata a
termine negli Stati Uniti, sulla scorta delle osservazioni fattele pervenire da Joë Bousquet, si trova
ora in EL, pp. 187-195.
46. Su questo argomento, cfr. Michel Narcy, Simone Weil dans la guerre ou la guerre pensée, in
«CSW», n. 4, dicembre 1990, pp. 413-423.
47. QI, pp. 233-234, passim. L’interesse per il pensiero indiano, e in particolare per la
Bhagavadgītā, considerata un complemento del Vangelo, la spingono a studiare il sanscrito per poter
accostare i testi originali, aiutata da René Daumal, amico fin dagli anni della École Normale, esule
come lei a Marsiglia.
48. Su questo importante aspetto della Resistenza in Francia, cfr. Renée Bédarida, Les armes de
l’esprit. Témoignage chrétien (1941-1944), Éditions Ouvrières, Parigi, 1977.
49. Marie-Louise (Malou), divenuta poi Mme Blum, per una sorta di pudore, solo dopo molto
tempo ha acconsentito a portare la sua testimonianza su questo capitolo poco noto, e in parte
sottovalutato, della vita di Simone Weil. I «CSW» hanno pubblicato un breve dialogo con Wladimir
Rabi su questo tema: cfr. Simone Weil, la Résistance et la question juive, n. 2, giugno 1981, pp. 76-
84. Il curatore di queste note, nel maggio 1990 e 1991, ha registrato due lunghe e ricche interviste a
Malou e Pierre Blum nella loro casa parigina, qui parzialmente utilizzate. La testimonianza di Malou
Blum è ora definitivamente consegnata a un libro di memorie: Le choix de la Résistance, Les
Éditions du Cerf, Parigi, 1998; cfr. in particolare Ma rencontre avec Simone Weil, pp. 104-115. Anche
il rapporto con Malou Blum merita di essere annoverato tra le amicizie della stagione di Marsiglia,
ma la loro relazione, intensa e quotidiana, per la natura del lavoro svolto assieme, esigeva molta
riservatezza e non ha, quindi, lasciato delle tracce nella corrispondenza. Vale la pena, tuttavia,
riportare la conclusione della testimonianza in cui Malou Blum racconta il congedo da Simone Weil:
«L’immagine che mi piace conservare di lei è quella di un’amica sorridente e dolce, allorché apparve
nella stanza da cui si era eclissata un istante prima, portando un vassoio su cui c’erano tartine
imburrate, zucchero, un bicchiere e vino bianco. Tutto era così rigorosamente razionato a Marsiglia
che non potei fare a meno di dirle con orrore: “Ma, Simone, non vorrà pensare che io accetti tutto
ciò?”. “Oh, Malou”, mi disse lei con un dolce rimprovero, “non vorrà farmi credere che lei pensa che
le restrizioni alimentari possano avere una qualche influenza sui doveri dell’amicizia”» (cit. p. 115).
50. Sul ruolo dei cristiani durante il periodo di Vichy, cfr. Gaston Fessard, Au temps du prince
esclave. Écrits clandestins 1940-1945, Critérion, Argé, 1989, dove si trova il saggio dottrinale
France, prends garde de perdre ton âme – «documento esplosivo, smontaggio sistematico della
dottrina e dei metodi della propaganda nazista, della loro pericolosa perversione e degli strumenti
approntati per soffocare progressivamente le anime e cancellare perfino la traccia dell’idea di una
vocazione storica della Francia» (Jacques Prévotat, Introduction, ivi, p. 65) – che è il testo fondatore
dell’impresa dei «Cahiers du Témoignage chrétien». Cfr. anche Henri de Lubac, Resistenza cristiana
all’antisemitismo. Ricordi 1940-1944, Jaca Book, Milano, 1990, in particolare il capitolo 10, Lo
spirito dei «Cahiers du Témoignage chrétien», pp. 119-130.
51. Nel luglio del 1942, in una lettera scritta da New York a Maurice Schumann, Simone Weil
ricorda con simpatia la partecipazione a quell’impresa: «Sono molto felice di sapere che le persone
dei “Cahiers du Témoignage chrétien” sono vostri amici. Ero legata a questi ambienti da una viva e
profonda amicizia. Credo che sia di gran lunga ciò che di meglio esiste in Francia in questo
momento. Mi auguro che non capiti loro nessuna sventura» (EL, p. 198).
52. Si tratta di Notre combat (dicembre 1941-gennaio 1942), Les racistes peints par eux-mêmes
(febbraio-marzo-aprile 1942), e probabilmente anche del quaderno intitolato Antisémites (aprile-
maggio 1942).
53. Lettera a Huguette Baur, inizio di settembre 1940, in «CSW», n. 3, settembre 1991, p. 201.
54. Ivi, pp. 201-202.
55. Dell’antigiudaismo di Simone Weil abbiamo trattato, distesamente e criticamente,
nell’Introduzione a Simone Weil, Una costituente per l’Europa. Scritti londinesi, Castelvecchi,
Roma, 2013, La resistenza in una stanza, pp. 30 e sgg.
56. Ne parliamo più avanti, a proposito di Antonio Atarés, ma è il caso di segnalare qui la
documentazione riunita su questo argomento, in OC IV 1, Sur les camps d’internement et la politique
pénale, pp. 449-472.
57. Secondogenito di quattro tra fratelli e sorelle, Michel (mutato in Joseph-Marie al momento
della professione religiosa) Perrin nasce il 30 luglio 1905, a Troyes. Il padre, capitano, è ucciso in
guerra il 2 ottobre 1915. L’anno successivo, quando ha solo undici anni, gli viene diagnosticata una
retinite pigmentaria che lo porterà inesorabilmente alla cecità. La forza d’animo della madre, che
l’avvia tempestivamente alla conoscenza dell’alfabeto braille, gli permetterà di portare a termine, in
modo brillante, gli studi secondari. Maturata la vocazione religiosa, dopo un anno di filosofia, entra
nel noviziato di Saint-Maximin nella provincia domenicana di Tolosa, dove, completati gli studi
teologici, grazie a una dispensa speciale, è ordinato sacerdote durante la festa di Pasqua del 1929.
Assegnato al convento di Marsiglia, è attivo nella predicazione e nell’assistenza ai giovani
universitari. È morto a Marsiglia il 13 aprile 2002. Qualche anno prima della morte, ha rievocato la
sua lunga vita in un libro autobiografico: Comme un veilleur attend l’aurore, Les Éditions du Cerf,
Parigi, 1998.
58. Simone Weil incontra, per la prima volta, padre Perrin nel giugno 1941, al rientro di lui dal
Sahara dove aveva predicato gli esercizi spirituali ai Piccoli fratelli di padre Charles de Foucauld.
Sulla scorta di una breve lettera, ritrovata tra le carte di Simone Weil, padre Perrin ha potuto precisare
che si trattava proprio del sabato 7 giugno alle ore 10. Per questa e altre informazioni, cfr. il suo libro
Mon dialogue avec Simone Weil, Nouvelle Cité, Parigi, 1984. La ragione immediata e pratica
dell’incontro è l’aiuto che il domenicano potrebbe offrirle nella realizzazione del suo desiderio di fare
un’esperienza di lavoro agricolo. Hélène Honnorat, come Simone Weil alunna presso il Lycée Victor
Duruy di Parigi, è l’amica che ha fatto da tramite fra loro due. Collaboratrice del religioso
nell’assistenza spirituale agli universitari, in realtà era già da qualche tempo a conoscenza della
ricerca spirituale dell’amica e si era convinta che padre Perrin fosse la persona più idonea ad aiutarla.
59. Simone Weil, con probabilità, ha letto il primo dei tre volumi progettati di Le mystère de la
charité, quello che è stato poi pubblicato, nel 1945, (S.L.M., Aix-en-Provence) con il titolo Le trop
grand amour. Echi di questa lettura si possono avvertire nelle riflessioni sulla Trinità annotate nei
Quaderni e, in particolare, nella sua concezione dell’amicizia.
60. Questa lettera, datata 14 settembre 1997, è stata personalmente recapitata al curatore mentre
ultimava la redazione di Tra sventura e bellezza. Riflessione religiosa e esperienza mistica in Simone
Weil, Editrice Esperienze-Edizioni Lavoro, Fossano-Roma, 1998, il libro che raccoglie e riordina le
conversazioni avute con padre Perrin durante un soggiorno al Pradier, una località della Provenza
francese, nell’estate del 1996. Nel libro autobiografico ricordato, conferma questa convinzione nella
pagine dedicate all’incontro più importante della sua vita: cfr. Mon amitié avec Simone Weil, pp. 136-
153.
61. L’intenso e tormentato rapporto tra padre Perrin e Simone Weil occupa la parte centrale del
libro sopra ricordato: in essa tutti gli aspetti, spirituali e teologici, del loro dialogo, sono distesamente
commentati. Qui importa soprattutto precisare la natura di tale rapporto, in relazione al tema
dell’amicizia. Il loro dialogo ha riguardato la preghiera, il battesimo, argomento molto sofferto, le
critiche alla Chiesa e la decisione di rimanerne fuori, sulla soglia, per fedeltà a tutte le forme di
«amore implicito di Dio», presenti nel mondo. A padre Perrin, per testimoniare la possibilità di
un’esperienza mistica anche fuori della Chiesa, ha affidato, nell’ultima lettera, la confidenza del suo
contatto mistico con Dio. Ma contemporaneamente, o forse poco prima, come più avanti diremo,
aveva fatto la stessa confidenza anche a Joë Bousquet.
62. Questa espressione, che padre Perrin amava ripetere come una confidenza orale di Simone
Weil, si trova in realtà in un frammento preparatorio alla Lettera VI, conservato nel Fondo Simone
Weil della Biblioteca nazionale di Parigi. Il merito di averlo rilevato va a Emmanuel Gabellieri, il
quale ha attirato l’attenzione sull’importanza dell’abbozzo in questione nella genesi dell’ultima
lettera a padre Perrin del 26 maggio 1942: cfr. Être et don. Simone Weil et la philosophie, Éditions
Peeters, Louvain-Parigi, 2003, pp. 532-542. L’edizione di Attesa di Dio, curata da Maria Concetta
Sala, riporta le minute di questa lettera in cui è contenuta tale affermazione, pp. 76-78.
63. Lettera nota come Autobiografia spirituale, senza data, probabilmente inviata il 14 maggio
1942 da Marsiglia, in AD*, p. 34.
64. Ibidem.
65. Ivi, p. 185.
66. Introduction alla prima edizione francese di AD, pp. 7-45, cit. 39-40. Scomparsa dalle
successive edizioni, a causa di un contenzioso con la famiglia Weil, essa, al di là delle riserve che si
possono sollevare in merito ad alcune puntualizzazioni teologiche, costituisce, assieme al libro scritto
con l’amico Gustave Thibon, Simone Weil telle que nous l’avons connue (La Colombe, Parigi, 1952),
una testimonianza preziosa, da tenere sempre presente. Non sono nel giusto, quindi, coloro che
tendono a sottovalutare o a minimizzare il ruolo di padre Perrin nell’evoluzione spirituale di Simone
Weil, che non andava in cerca di un grande teologo ma di un uomo di Dio. A integrazione di quanto
abbiamo detto sull’amicizia tra padre Perrin e Simone Weil, cfr. Domenico Canciani, Marseille, la
saison des amitiés. Le père Perrin et Simone Weil, amis dans la véritè de Dieu, «CSW», n. 1, marzo
2008, pp. 11-26. I «CSW», come segnaliamo nella Bibliografia, hanno dedicato ben 4 fascicoli nel
2007-2008 a Amitiés et inimitiés de Simone Weil.
67. Gustave Thibon, nato il 2 novembre 1903 a Saint-Marcel-d’Ardèche, dopo aver lavorato
come agricoltore nella proprietà del padre, è diventato, studiando come autodidatta, scrittore, filosofo
e conferenziere molto popolare e apprezzato negli ambienti cattolici. Dei suoi libri Simone Weil ha
certamente potuto leggere Poèmes, Édition Universelle, Bruxelles, 1940; Diagnostics. Essai de
physiologie sociale, Librairie de Médicis, Parigi, 1940; Destin de l’homme, Desclée de Brouwer,
Bruges-Parigi, 1941. I testi dattiloscritti ai quali allude nelle lettere indirizzate all’amico sono
probabilmente quelli pubblicati successivamente in L’échelle de Jacob, Lardanchet, Lione, 1942 e
forse anche in Retour au réel. Nouveaux diagnostics, Lardanchet, Lione, 1943. È morto il 19 gennaio
2001. Cfr. l’omaggio che gli ha dedicato André-A. Devaux, Gustave Thibon et Simone Weil. Une
amitié sans complaisance et sans faille, in «CSW», n. 3, settembre 2002, pp. 236-254.
68. Gustave Thibon, Entretiens avec Christian Chabanis, Fayard, Parigi, 1975, p. 113.
69. Lettera a Simone Weil, 22 gennaio 1942, Lettres de Simone Weil à Gustave Thibon et de
Gustave Thibon à Simone Weil, in «CSW», n. 3, settembre 1981, p. 135.
70. Lettera del 10 agosto 1941, Saint-Marcel-d’Ardèche, in Correspondance familiale, OC VII 1,
p. 229.
71. Lettera a Gustave Thibon, 15 settembre 1941, inviata da Le Poët, Lettres de Simone Weil…, in
«CSW», n. 2, giugno 1981, pp. 68-69.
72. Ivi, p. 70.
73. Ivi, p. 71.
74. Annota, ad esempio, in Q II, p. 254: «Volgere ogni disgusto in disgusto di sé (Come io per i
miei versi)».
75. Lettera a Simone Weil, 2 gennaio 1942, Lettres de Simone Weil…, in «CSW», n. 3, settembre
1981, pp. 131-132.
76. Ivi, p. 132. Il corsivo è nostro.
77. Lettera a Gustave Thibon, febbraio 1942, Lettres de Simone Weil…, in «CSW», n. 3,
settembre 1981, p. 136.
78. In questo periodo annota: «Costringermi ogni giorno a scrivere in questo quaderno anche di
aver mancato al mio dovere; è quel che è successo oggi» (Q II, p. 257).
79. Q II, p. 258.
80. Lettera a Gustave Thibon, aprile o maggio 1942, in «CSW», n. 4, dicembre 1981, p. 194.
81. Ivi, p. 195.
82. Ibidem.
83. Lettera a Gustave Thibon, seconda metà di maggio 1942, Lettres de Simone Weil…, in
«CSW», n. 4, dicembre 1981, p. 196.
84. Ibidem.
85. Ivi, p. 199.
86. Amicizia, infra, p. 136.
87. Joë Bousquet era nato a Narbonne, il 19 marzo 1897. Costretto all’immobilità da una
pallottola che lo aveva colpito al midollo spinale, durante la Grande Guerra, dai ventun anni alla
morte, sopravvenuta il 28 settembre 1950, è vissuto a Carcassonne nella «camera dalle imposte
chiuse», realizzando una delle più straordinarie e originali opere poetiche e filosofiche del secolo
scorso.
88. Simone Weil parte da Marsiglia assieme a Jean Ballard, in una sera di luna piena. Arriva a
Carcassonne verso mezzanotte ma non ha difficoltà a recarsi subito in casa di Joë Bousquet,
rimanendovi fino all’indomani mattina. Probabilmente torna a fargli visita, brevemente, una o due
volte nei giorni successivi. Per una minuziosa ricostruzione di questo incontro, cfr. Alain Freixe, À
propos de la rencontre Simone Weil Joë Bousquet et de la correspondance qui en suivit, in «CSW»,
n. 4, dicembre 1987, pp. 395-405.
89. Cfr. Correspondance entre Simone Weil e Joë Bousquet, in «Cahiers du Sud», n. 304,
dicembre 1950, pp. 420-438.
90. Simone Weil, prima dell’incontro, aveva probabilmente letto Traduit du silence, pubblicato in
una prima versione a Bruxelles, nel 1936, e in seguito, nel 1941, da Gallimard e gli articoli e le
cronache poetiche apparse nei «Cahiers du Sud».
91. Lettera di Joë Bousquet a Simone Weil, lunedì (aprile) 1942, infra, p. 68, con gli opportuni
adattamenti.
92. Ibidem.
93. Ivi, p. 69.
94. Ibidem.
95. Ibidem.
96. Nella prima delle due lettere a Joë Bousquet, ritrovate qualche anno fa, di cui parliamo più
avanti, Simone Weil scrive: «Nello stesso momento in cui, nella sua lettera, lei mi consigliava di
scrivere su quell’argomento, ero occupata a raccogliere e tradurre dei testi greci sullo stesso tema, su
richiesta di un domenicano, quello di cui le ho parlato, credo, in una lettera, al quale mi lega una
grande amicizia, e che sta preparando un libro sull’Amore di Dio», infra, p. 89.
97. Monique Broc-Lapeyre, «Ce bonheur si effrayant qui nous est fait» et «le malheur sans
aucune consolation», Joë Bousquet et Simone Weil, in «CSW», n. 1, gennaio 2002, p. 36. Con
ammirevole finezza, l’autrice di quest’articolo entra nelle pieghe più intime dell’amicizia fra questi
due esseri eccezionali, individuando la capacità di Simone Weil di praticare, con sobrietà e pudore, la
correzione fraterna.
98. Questa domanda di essere letti altrimenti, di cui Simone Weil parla nei Quaderni (cfr. Q I, p.
258), trova conferma in un passo di Traduit du silence (Gallimard, Parigi, 1995), dove Joë Bousquet
annota: «Non devo rinchiudermi nella vita che mi sono fatta. Devo diffidare di ciò che gli altri amano
in me. L’indulgenza dei miei amici mi ha reso prigioniero di ciò che vi è di meno reale in me » (p.
236). Simone Weil ha letto di lui molto meno dei suoi amici, eppure, forse, più di loro ha saputo
intercettare la sua richiesta, il suo grido silenzioso.
99. Lettera del 12 maggio 1942 a Joë Bousquet, infra, p. 78.
100. Certamente tra gli artifici ai quali Joë Bousquet faceva ricorso vi era anche l’oppio. Simone
Weil ne accenna nei Quaderni, pensando a lui e a René Daumal. Se vi allude indirettamente, senza
falsi moralismi, è perché aveva avuto modo di leggere, in Traduit du silence, questa osservazione:
«L’effetto più disastroso dell’oppio è che, essendo solo un alimento materiale, usurpa il posto più
elevato che lo spirito possa assegnare a un’ambizione morale; tutti i momenti della giornata, svuotati
del pensiero che li dirigono, hanno valore solo in funzione del minuto privilegiato in cui il fumo apre
allo spirito un riposo nella carne. Questo godimento non apporta null’altro che la cessazione di un
bisogno che si è creato; ed è avvilente per l’uomo che un bisogno che si può facilmente soddisfare
possa assorbire il suo pensiero, accecando con fini immediati la consapevolezza che ha della propria
imperfezione. L’oppiomane ricostituisce nella propria carne la prigione che il tempo rappresenta per
ogni cosa materiale» (p. 190).
101. Infra, p. 80.
102. Infra, p. 81.
103. Infra, p. 82. Simone Weil, anche nella confidenza fatta a padre Perrin, sottolinea la totale
gratuità del suo primo contatto mistico con il divino, avvenuto durante il soggiorno a Solesmes, nella
la settimana santa del 1938, in un periodo in cui soffriva di forti emicranie. Al pari degli altri contatti
con il divino, anche questo avviene in un contesto di cerimonie religiose, ma al di fuori di
un’esplicita esperienza di preghiera personale. Questa modalità di contatto mistico con il divino o
con il Cristo Uomo-Dio, ha luogo in una situazione che si potrebbe definire di tipo estetico, mentre
ripete la poesia Amore del poeta metafisico inglese George Herbert (1593-1633), conosciuto, proprio
a Solesmes, grazie a un giovane inglese: «Spesso, nei momenti culminanti delle violente crisi di mal
di testa, mi sono esercitata a recitarla (la poesia Amore) applicandovi tutta la mia attenzione e
aderendo con tutta l’anima alla tenerezza in essa racchiusa. Credevo di recitarla solo come una bella
poesia, ma a mia insaputa quell’esercizio aveva la virtù di una preghiera. Durante una di quelle
recitazioni, come le ho scritto, Cristo stesso è disceso e mi ha presa» (Lettera IV, in AD*, p. 29). Su
questo aspetto molto delicato dell’esperienza mistica di Simone Weil, cfr. la testimonianza di padre
Perrin in Tra sventura e bellezza, pp. 117 e sgg.
104. Infra, p. 83.
105. Ritrovate grazie a Florence de Lussy, conservatrice della Biblioteca Nazionale di Parigi,
nella Biblioteca universitaria di Austin in Texas, sono state pubblicate col titolo Deux lettres inédites
de Simone Weil à Joë Bousquet, in «CSW», n. 2, giugno 1996, pp. 137-153, con appendice di testi
greci, tradotti per l’amico.
106. Lettera a padre Perrin del 15 maggio, AD*, p. 24.
107. Lettera del 1942 a Gabriel Sarraute, citata in Henry Bonnier, Préface a Joë Bousquet, Le
cahier noir, Albin Michel, Parigi, 1989, p. 13.
108. Lettera a Joë Bousquet, maggio 1942, qualche giorno prima di partire, infra, p. 87, con
adattamenti.
109. Post-scriptum, infra, p. 88.
110. Lettera a Hélène e Pierre Honnorat, 26 gennaio 1945, infra, p. 91. Nella conclusione del
Témoignage, pubblicato sui «Cahiers du Sud», n. 284, settembre 1947, Joë Bousquet scrive: «La
nostra amica Simone ha avuto la morte che desiderava. Se, spesso, ho atteso il suo ritorno, è perché
l’ho fraintesa. Non potremmo essere migliori dei suoi insensati nemici se ignorassimo la parte che
anime come la sua hanno nell’immensa felicità che ci è stata data» (p. 570).
111. Lettera di Joë Bousquet a Hélène e Pierre Honnorat, 26 gennaio 1945, citata da Michel
Narcy nel Post-scriptum a Visite à Joë Bousquet, in «CSW», n. 2, giugno 1983, p. 129, infra, p. 91.
112. Cfr. in particolare Papillon de neige. Journal 1936-1942, Verdier, Parigi, 1980 e Meneur de
lune, J.-B. Janin, Parigi, 1946.
113. Joë Bousquet, Le livre heureux, in Œuvres romanesques complètes, Albin Michel, Parigi,
1984, p. 128.
114. I testi nei quali si può cogliere la freschezza della loro testimonianza sono, per Gustave
Thibon, l’Introduction a La pesenteur et la grâce, Plon, Parigi, 1947, pp. I-XXXIII; per padre Perrin,
l’Introduction ad Attente de Dieu, già citata; successivamente, il volume a quattro mani Simone Weil
telle que nous l’avons connue, ugualmente citato.
115. AD*, pp. 54-55. Il corsivo è nostro.
116. Boris Souvarine, Nicolas Lazarévitch, in «Est & Ouest», n. 584, dicembre 1976, p. 18.
117. Degli interventi, non occasionali, di Simone Weil a favore di prigionieri e internati, abbiamo
già parlato, segnalando la cospicua documentazione riunita in OC IV 1, pp. 449-472. Più in generale,
sulla vergogna dei campi in Francia, in particolare di quelli affrettatamente allestiti per rinchiudervi
militanti, stranieri, intellettuali indesiderati, dove le condizioni di vita erano persino peggiori che a
Dachau, con la sola differenza che nei campi di sterminio la morte era programmata mentre in quelli
di internamento sopravveniva spesso a causa di malnutrizione, malattie e maltrattamenti, cfr. Denis
Peschanski, La France des camps. L’internement 1938-1946, Gallimard, Parigi, 2002. Più
specificamente, sull’interessamento dimostrato da Simone Weil, cfr. Charles Jacquier, Simone Weil,
les réfugiés et les camps du sud de la France, in «CSW», n. 4, dicembre 2012, pp. 467-485.
118. Il merito va a Bernard Sicot, un ispanista che ha riassunto l’essenziale delle sue ricerche nel
saggio L’anarchiste et la philosophe: Antonio Atarés et Simone Weil (1941-1951), in «Cahiers de
civilisation espagnole contemporaine», n. 1, 2012, (consultabile in internet
<http://ccec.revues.Org/3928>); e a Charles Jacquier, che, oltre all’articolo appena citato, ha
pubblicato e commentato, in apertura del numero dei «CSW» citato nella nota precedente, la lettera
di Simone Weil all’amica di una cugina della madre, destinata a segnalare il caso di Antonio Atarés
ai responsabili della Cimade (Comité Inter-Mouvements Auprès des Evacués), un’organizzazione
protestante di soccorso ai prigionieri.
119. Lettera all’amica di Selma Weil, probabilmente del 1941, in «CSW», cit., pp. 429-431, cit. p.
430.
120. La lie de la terre, in Arthur Koestler, Œuvres autobiographiques, Robert Laffont, Parigi,
1994, pp. 1034-1035, passim. Altri scrittori sono stati rinchiusi nel campo del Vernet. Tra questi Max
Aub, di padre tedesco e madre francese, scrittore di lingua spagnola per adozione. Sulla sua
detenzione al Vernet ha scritto, in particolare, un racconto volterriano, Manuscrit Corbeau (Mare
Nostrum, Perpignan, 1994). Trasferito a Djelfa, evade dopo sei mesi e si rifugia in Messico, dove, nel
1942, pubblica Diario de Djelfa/Journal de Djelfa (Mare Nostrun, Perpignan, 2009), una raccolta di
poesie che denunciano i soprusi, le esecuzioni sommarie, le sevizie e le privazioni che avevano luogo
nel campo algerino.
121. Q I, p. 239.
122. Amicizia, infra, p. 137.
123. Ivi, p. 133.
124. Lettera a Georges Bernanos, primavera 1938, in EHP, p. 243.
125. Infra, p. 97.
126. Infra, p. 116.
127. Infra, p. 115.
128. Infra, p. 104. Max Aub, in un poesia dedicata alla figlia, parla della bellezza del cielo
notturno di Djelfa.
129. Infra, p. 116.
130. La copla, Las aves de Arabia, è riportata nella lettera del 15 novembre, infra, p. 111. Anche
Max Aub, di sera, leggeva delle poesie ai compagni di reclusione.
131. Infra, p. 118, con i necessari adattamenti.
132. Il nome di Atarés Olivar Antonio figura in un documento ufficiale della direzione del
campo, datato 26 maggio 1943, che lo autorizza a lavorare a Orano. A Londra, dall’ospedale, il 25
giugno 1943, Simone Weil scrive ai genitori: «Gli spagnoli sono finalmente liberati, si dice. Ma chi
sa se Antonio è ancora in vita» (Corrispondenza familiare, in OC VII 1, p. 290). Dopo la guerra,
avendo saputo della morte di lei, Antonio Atarés scriverà una commovente lettera ai genitori.
133. La lettera, citata nell’articolo di Bernard Sicot, si trova ora nel Fondo Simone Weil della
BnF.
134. AD*, p. 107.
135. Ivi, p. 134.
136. Ivi, p. 124. Con evidente allusione a Bousquet, a p. 132 scrive: «Le diverse specie di vizi,
l’uso degli stupefacenti in senso letterale o metaforico, tutto questo costituisce la ricerca di uno stato
che rende sensibile la bellezza. L’errore consiste precisamente nel ricercare uno stato speciale. Anche
la falsa mistica rientra in questo genere di errore. Se l’errore si infigge abbastanza a fondo
nell’anima, l’uomo non può non soccombere».
137. Simone Weil ha ricopiato molte coplas, per farne dono ad Antonio Atarés, e gli ha chiesto di
trascrivere per lei quelle che riusciva a ricordare. La poesia, la propria e quella dei grandi poeti,
occupa un posto importante nella corrispondenza: è il dono che ci si scambia reciprocamente. La
copla citata a memoria nella lettera di addio a Joë Bousquet (infra, p. 86) in spagnolo suona così:
«Un imposible adoro, / Que es de discretos; / Las posibilidades / Las ama un necio», in OC VI 1,
Annexes, pp. 437-445, cit p. 439.

PARTE SECONDA
Le lettere agli amici prigionieri
1. Scrive Anne-Marie Gualino: «La pesantezza del corpo ferito di Bousquet e la grazia spirituale
di Simone Weil paiono riunite sui piatti di una strana bilancia» (Correspondance Simone Weil – Joë
Bousquet. Croisements de destins, in «CSW», n. 1, marzo 2002, p. 5).
2. Con i genitori, dal porto di Marsiglia, salperà per gli Stati Uniti imbarcandosi, il 14 maggio, sul
transatlantico Maréchal Lyautey.
3. Il lavoro teatrale al quale fa riferimento è la tragedia, rimasta incompiuta, intitolata Venezia
Salva. Ad essa, come ad altri suoi componimenti poetici, era molto legata e di ciò danno
testimonianza anche alcune delle lettere, scritte alla famiglia negli ultimi mesi di vita, in cui è
espresso il desiderio che quegli scritti non vadano perduti. La versione italiana della Venezia salva è
stata curata da Cristina Campo.
4. La percezione dell’esistenza degli altri esseri, per Simone Weil, non è affatto un
comportamento spontaneo, come il senso comune tenderebbe a credere. Ciascuno di noi, nei propri
simili, legge ciò che presume che essi siano, non quello che veramente sono; proietta su di loro
desideri, pregiudizi, attese spesso inconsapevoli. Molte delusioni e incomprensioni nei rapporti
umani sono l’effetto di questo lavoro a vuoto dell’immaginazione. Solo uno sguardo attento e
perseverante scopre l’altro nella sua realtà: si accorge che esiste.
5. Durante le conversazioni avute, nell’agosto 1996, con Domenico Canciani (parzialmente
confluite in Tra sventura e bellezza) padre Perrin ha fatto questa confidenza: «Non sapevo quale
fosse la dimensione spirituale di Joë Bousquet. Sono andato a incontrarlo molto presto,
probabilmente qualche mese dopo la partenza di Simone. Confesso di non aver avuto un vero
contatto con lui. Mi è apparso molto libresco… Certamente Simone ha intuito il pericolo a cui poteva
andare incontro, vale a dire il pericolo insito nella sua tendenza al sogno, alla fantasticheria».
6. Simone Weil aveva conoscenza del Parzival di Wolfram von Eschenbach, in cui il mitico Graal
è identificato con la «pietra celeste» che ha il potere di liberare la potenza dello spirito in un’anima
prigioniera della materia. Riferimenti all’eroe puro, immagine del Cristo, si trovano anche in altri
scritti ai quali si dedica negli ultimi mesi di soggiorno a Marsiglia. Nel quaderno undicesimo, viene
evocata la guarigione di Anfortas, il re guardiano del Graal, dovuta alla domanda postagli da
Parzival: «Qual è il tuo tormento?». Non stupisce che questo sia lo stesso interrogativo che, in molti
modi, rivolge all’amico poeta che, come Anfortas, è «per tre quarti paralizzato dalla più dolorosa
delle ferite» (Q III, p. 368). Anche nelle Riflessioni sul buon uso degli studi scolastici in vista
dell’amore di Dio, testo recapitato il il 20 maggio 1942 al padre Perrin, riecheggia la mitica domanda
alla quale è riconosciuto lo stesso potere dell’ostia consacrata, in quanto capace di esprimere la
pienezza dell’amore per il prossimo (AD*, p. 200). Per una comprensione più approfondita di come
la simbologia del Graal abbia influenzato la spiritualità di Simone Weil, cfr. Fausto Gianfreda, Il
Graal di Simone Weil, Pazzini Editore, Verucchio, 2012.
7. La metafora della notte oscura è ricorrente negli scritti di Simone Weil successivi
all’esperienza mistica. Torna spesso nei Quaderni. Si tratta di un’immagine attinta al Cántico
Espiritual di San Giovanni della Croce, grande mistico spagnolo del Cinquecento che, con questa
figura, simboleggia le tenebre interiori, la perdita di ogni sicurezza, di ogni aggancio spazio-
temporale, perfino del contatto col proprio io, che ogni vero mistico sperimenta prima di accedere a
un livello superiore, soprannaturale, di conoscenza.
8. Il primato della volontà nell’agire, inizialmente assimilato attraverso le lezioni del maestro
Alain, in seguito cede sempre più spazio al desiderio, inteso come desiderio puro, semplice, vuoto,
privo di qualsiasi contenuto di cui impossessarsi: un desiderio che si traduce in continua tensione
verso l’inconoscibile. Il legame tra attenzione e desiderio, in tal modo, si fa sempre più chiaro e
questo comporta una totale revisione del rapporto di ciascun uomo con la realtà: «Si tratta di ordinare
i beni in rapporto al nostro desiderio, e per questo bisogna aver agganciato la pienezza dell’attenzione
al nostro desiderio puro, vuoto. Così come per scegliere tra vari pezzi di metallo, più o meno ben
levigati, quello che è meglio levigato, è necessario orientare l’attenzione verso il piano perfetto. […]
Parimenti non possiamo fare altro che distaccare il nostro desiderio da tutti i beni e attendere.
L’esperienza mostra che questa attesa è colmata» (Q III, pp. 263-264).
9. Il «desiderio puro», che è apertura al Bene, implica il distacco da tutto ciò che la parte
mediocre dell’anima continua a bramare. Questo distacco, però, è possibile solo grazie a un’energia
soprannaturale che contrasta la tendenza, presente in ogni uomo, a vivere nel sogno, fabbricandosi
sempre nuovi idoli: «Gli uomini lavorano di immaginazione per tappare i buchi per i quali
passerebbe la grazia, a tal fine si fanno – a prezzo di una menzogna – degli idoli, cioè beni relativi
intesi come beni al di fuori di ogni relazione» (Q I, p. 397).
10. La medicina alla quale allude potrebbe essere una sostanza oppiacea di cui, come si dice nella
Parte Prima, Bousquet faceva uso, di tanto in tanto, per attenuare i dolori che lo tormentavano, ma
forse anche per stimolare al massimo la propria sensibilità. A questo riguardo, nella sua biografia,
Simone Pétrement avanza invece un’ipotesi diversa, alla quale ci sembra giusto dare spazio: «La
lettera termina con l’offerta di procurargli una medicina di cui poteva aver bisogno. Questa cosa non
meriterebbe certo di essere ricordata se la risposta di Bousquet (“mi infonde coraggio pensare che mi
abbia proposto ciò che degli uomini non hanno osato offrirmi”) non permettesse di supporre che si
trattava forse di una medicina destinata a porre fine alle sue sofferenze nel caso in cui esse fossero
diventate intollerabili. Non bisogna credere che Simone approvasse il suicidio. Al contrario, in
diversi passi dei Quaderni lo condanna. Ma forse pensava che uccidersi per sfuggire a dolori fisici
intensi e senza rimedio non è un vero suicidio e sia permesso» (Simone Pétrement, La vita di Simone
Weil, cit., pp. 587-588).
11. Qui il poeta tenta di esprimere intuizioni difficili da tradurre in parole: solo la faticosa
conquista di un «centro di gravità» interiore consente di armonizzare il rapporto tra le sensazioni che
affluiscono dal mondo esterno, spesso ingannevoli, e la «vita profonda» dell’anima, accessibile alla
coscienza in momenti molto rari. Evidentemente egli avverte che la scissione che si porta dentro e
l’incapacità di distinguere il bene dal male hanno una stretta connessione con questa mancanza di un
centro di gravità interiore. Un pensiero come questo doveva essere intuitivamente accessibile a
Simone Weil, se si pensa alla convinzione, da lei più volte espressa, che all’uomo sia indispensabile
costruirsi una «architettura dell’anima» (cfr. Q IV, pp. 101, 104, 108, 150).
12. Il sospetto che tutta la costruzione del pensiero umano, nella sua motivazione più profonda e
nascosta, sia un tentativo di sfuggire all’incombere della morte, e che la filosofia nel suo insieme, in
un certo senso, abbia sempre corrisposto a questo scopo, richiama alla mente il pensiero, inquietante
nella sua radicalità, che introduce il capolavoro di Franz Rosenzweig: «Dalla morte, dal timore della
morte prende inizio e si eleva ogni conoscenza circa il Tutto. Rigettare la paura che attanaglia ciò che
è terrestre, strappare alla morte il suo aculeo velenoso, togliere all’Ade il suo miasma pestilente, di
questo si pretende capace la filosofia» (Franz Rosenzweig, La stella della redenzione, a cura di
Giovanni Bonola, Vita e Pensiero, Milano, 2005, p. 3).
13. Qui emerge la fatica nell’analizzare le proprie contraddizioni da parte del poeta: per un verso,
egli sa che il mondo delle sensazioni in cui si rifugia è sostanzialmente illusorio, e quindi non
costituisce per lui un bene autentico, ma per l’altro ha sperimentato l’impossibilità di convivere
quotidianamente, senza vie di fuga, con la percezione chiara di una fine incombente. Il rapporto
ambiguo con la realtà, la convivenza spesso angosciante col «morto» che si porta dentro, trae
alimento da questa contraddizione.
14. Se l’ultimo istante di vita potesse ricomporre, in una visione di insieme pienamente
armoniosa, tutti i frammenti di un’esistenza, le sue luci e le sue ombre, questa per il poeta sarebbe la
felicità: un sì senza riserve al vivere come al morire. La funzione salvifica dell’attimo che fa da
spartiacque tra la vita e la morte, senza che il pensiero si proietti su una possibile beatitudine
ultraterrena, è riconosciuta anche in un vertiginoso pensiero di Simone Weil: «L’istante della morte,
intersezione del tempo e dell’eternità, punto d’incontro dei bracci della croce. Istante che sta agli altri
istanti del tempo come Cristo agli uomini. Bisogna avere lo sguardo del pensiero fisso su
quell’istante, e non sulla vita mortale, neppure sull’eternità, perché la nostra ignoranza attorno
all’eternità fa sì che pensando ad essa l’immaginazione proceda senza nessun freno» (Q IV, p. 57).
15. Si riferisce ai frammenti della tragedia Venezia salva che Simone Weil aveva voluto
sottoporre alla sua lettura e al suo giudizio critico.
16. Qui Joë Bousquet, che deve aver letto con vera attenzione il canovaccio della Venezia salva,
con molta probabilità si riferisce al Segretario dei Dieci, nel momento in cui dialoga con il
protagonista, Jaffier, il traditore, e illustra le ragioni per cui l’istituzione da lui presieduta ha
deliberato di risparmiargli la vita. Mentre Jaffier si esprime in versi, il Segretario parla in prosa.
Evidentemente questo espediente espressivo, ancora provvisorio, appare poco convincente a
Bousquet, che ritiene più conforme al contesto del dialogo un uso esclusivo della poesia. Per una
ricostruzione precisa della trama, si rimanda alla scena quarta dell’atto terzo della tragedia (VS, pp.
82-90).
17. Il poeta ha pienamente compreso quanto Simone Weil, per temperamento e per formazione
culturale, sia lontana da un tipo di misticismo languido e sentimentale, di impronta manieristica,
alquanto diffuso nella tradizione della mistica femminile. Interessante il nesso che intuisce tra la sua
capacità di mettere a nudo, in Venezia salva, i meccanismi spietati della violenza e l’analoga capacità
che potrebbe rivelare esprimendo, eventualmente in forma poetica, i risvolti più segreti del dialogo
con Dio.
18. Sull’incertezza se la medicina in questione fosse l’oppio o una qualche altra sostanza, tra
quelle reperibili all’epoca, in grado non solo di alleviare i dolori ma, in caso estremo, di «facilitare»
la morte liberando l’ammalato da un livello intollerabile di sofferenza, si rimanda a quanto detto nella
nota 10. Occorre però un’ulteriore precisazione. Se per un verso è vero che le parole con le quali
Bousquet chiude questa lettera ringraziando l’amica per il coraggio con cui gli ha promesso ciò che i
suoi amici uomini non avevano mai osato proporgli sembrano avvalorare la seconda ipotesi, che è
quella avanzata da Simone Pétrement, è tuttavia doveroso precisare che lei stessa ebbe poi un
ripensamento e manifestò rammarico per non aver potuto apportare una necessaria correzione alla
sua biografia di Simone Weil, ripubblicata nel 1978. Questo cambiamento di opinione avvenne in
conseguenza della possibilità offertale dalla redazione dei «CSW» di prendere preventivamente
visione di un testo, apparso poi sul n. 3, settembre 1982 (Simone Weil à Carcassonne, pp. 229-231),
scritto dal canonico Gabriel Sarraute, nel quale motiva, in un modo che la Pétrement giudica
convincente, l’ipotesi che la «medicina» fosse l’oppio, non in pillole, ma acquistato allo stato puro da
spacciatori cinesi: abitudine che lo stesso Bousquet, parlando di sé, aveva confessato di praticare (cfr.
«Cahiers du Sud», nn. 362-363, 1955, p. 117). La versione dei fatti fornita da Sarraute convinse
talmente la Pétrement da spingerla a scrivere con dispiacere: «[…] Non ho potuto fare questa
correzione che avevo promesso e che, tra quelle che desideravo fare, era quella che mi stava più a
cuore» (p. 231, nota 7).
19. Il dono agli amici delle sue personali traduzioni, soprattutto dei tragici greci, è un «gioiello
prezioso» con cui spesso Simone Weil sigilla le lettere alle persone che maggiormente stima e più le
stanno a cuore. Avremo modo di constatarlo anche leggendo quelle inviate ad Antonio Atarés.
20. Vi è una straordinaria sapienza psicologica in queste parole del gesuita-ufficiale di cui
Bousquet, non a caso, conserva un ricordo tanto vivo. La rinuncia al soccorso del commilitone
morente, gesto opposto a quello del buon samaritano, è presentata come una dolorosa necessità non
solo strategica, ma di tutela del proprio equilibrio emotivo, nel contesto di una battaglia dove le
uniche regole accettabili sono quelle della conservazione e ottimizzazione di tutte le forze, fisiche e
mentali, in vista dell’attacco al nemico.
21. Il crudo realismo con cui sono evocate, all’inizio della lettera, le regole che impediscono ai
soldati di prestarsi soccorso vicendevolmente durante la battaglia, contrasta solo in apparenza con la
convinzione che Bousquet esprime, in questo passaggio, sull’opportunità della presenza in campo di
quel corpo di infermiere al quale Simone Weil teneva tanto. Interessante notare che esse sono da lui
definite «infermiere spirituali» in quanto aveva pienamente compreso la funzione non soltanto di
pronto soccorso, ma di sostegno psicologico e morale che avrebbero potuto esercitare verso i feriti.
22. Molto concreta ed efficace questa evocazione di un’esperienza, realmente vissuta, in cui una
presenza femminile sul campo di battaglia, per assistere e rincuorare, non per combattere, aveva dato
ottima prova di sé. Questo ricordo dell’amico poeta non può che rincuorare Simone Weil riguardo
alla fattibilità, oltre che al valore etico, del suo Progetto.
23. L’istante supremo al quale si allude è quello in cui, sul nuovo fronte di battaglia, quello della
Seconda Guerra Mondiale, altri giovani soldati potranno essere colpiti, come Joë Bousquet, da una
pallottola fatale. La «dolcezza di sguardi» sarà quella delle infermiere di prima linea, paracadutate in
loro soccorso, in base al Progetto che Simone Weil ha sottoposto all’attenzione dell’amico.
24. Sia l’orrore della guerra che l’incubo dei regimi totalitari possono generare un profondo senso
di irrealtà in chi vi è immerso. Ne deriva una percezione distorta dei fatti e delle parole, un’incapacità
di discernimento, come se ci si muovesse in un mondo fittizio che purtroppo, invece, è
drammaticamente reale. Di questa atmosfera onirica, che impedisce di ribellarsi, portano la
responsabilità i capi politici e militari che hanno prodotto quel determinato stato di cose. Essi stessi,
però, si trovano in balia di un sogno: «Un uomo che è nell’irrealtà e maneggia una spada può
sprofondare tutta una popolazione nell’irrealtà. Non così per un terremoto. Si sa perché si è
sottomessi al potere manifesto della natura. Ma l’obbedienza a uomini la cui autorità non è illuminata
dalla legittimità, è un incubo. I cartaginesi e Roma» (Q III, pp. 269-270).
25. Questa figura dell’uovo cosmico, di origine orfica, presente nel Fedro platonico e diffusa
presso diverse culture dell’antichità, torna più volte nelle pagine dei Quaderni, per simboleggiare il
processo di trasformazione che il germe dell’amore divino opera nell’anima: «La nostra anima è un
uovo in cui il germe divino diventa uccello. L’embrione dell’uccello si nutre dell’uovo; diventato
uccello, infrange il guscio, esce, e becca dei chicchi. La nostra anima è separata da ogni realtà da una
pellicola di egoismo, di soggettività, di illusione; il germe del Cristo deposto da Dio nella nostra
anima si nutre di essa; quando è abbastanza sviluppato, infrange l’anima, la fa esplodere, ed entra in
contatto con la realtà. È l’Amore nel microcosmo. Quello del macrocosmo, una volta che le sue ali
dorate sono spuntate, infrange l’uovo del mondo e passa dall’altra parte del cielo» (Q IV, p. 338).
26. La dilatazione dello spazio e la liberazione dalla prigionia del tempo sono gli effetti indotti
dalla fuoriuscita dello «spirito» dal guscio dell’uovo cosmico. Qualcosa di simile, con altrettanta
forza poetica, Simone Weil la dice in rapporto allo svuotamento di sé di un’anima che, mossa da
Amore, giunge alla contemplazione dell’ordine e della bellezza dell’universo: «Svuotarsi della
propria falsa divinità, negare se stessi, rinunciare ad essere con l’immaginazione il centro del mondo,
riconoscere che tutti i punti del mondo sono centro a pari titolo, e che il centro vero è collocato al di
fuori del mondo, significa acconsentire al regno della necessità meccanica nella materia e al regno
della libera scelta all’interno di ciascuna anima. Un simile consenso è amore. La faccia di questo
amore rivolta alle persone pensanti è carità verso il prossimo; quella rivolta alla materia è amore per
l’ordine del mondo, ovvero – che è poi la stessa cosa – amore per la bellezza del mondo» (Forme
dell’amore implicito di Dio, AD*, pp. 119-120).
27. Vivere fino in fondo l’amicizia e conoscere la realtà opposta, quella del conflitto, sono due
modalità uguali e contrarie per accostarsi all’intuizione dell’unità del reale. La lettura dei frammenti
pitagorici che andava compiendo proprio nei mesi trascorsi a Marsiglia l’aiuta a passare dal solo
orrore per la guerra, già fortemente sentito durante l’esperienza di Spagna, a una contemplazione
distaccata dell’insieme della realtà, in cui il bene e il male, la bellezza e la miseria, costituiscono due
polarità ugualmente necessarie.
28. Nell’accezione greca del sostantivo Simone Weil legge l’espressione di una libera volontà, di
un desiderio di persistere nell’immobilità, senza cedere alla stanchezza o al compromesso. Nel
termine latino patientia è invece più marcata l’accezione del subire, dell’essere passivi.
29. Come il Cristo sulla croce non patisce solo la sua privata sventura di ebreo, perseguitato da un
regime ostile, ma prende su di sé tutto il male del mondo, così «coloro per i quali la sventura entrata
nella carne diventa la sventura stessa del mondo nella loro epoca» in un certo senso sono dei
privilegiati, in quanto la sorte li obbliga, loro malgrado, a non distogliere mai lo sguardo dall’orrore
di cui sono stati testimoni: essi sono gli unici in grado di leggerlo in profondità e di condividere con
altri uomini i frutti della loro chiaroveggenza. In ogni tempo, del resto, il vero profeta è colui che
offre ai suoi simili una comprensione quanto più possibile limpida e completa del dolore da cui è
afflitto il tempo in cui vivono.
30. Lo sguardo attento di Simone Weil le permette di cogliere, nell’interiorità dell’amico,
l’approssimarsi dell’istante in cui il consenso al bene si presenterà alla sua anima come una scelta
necessaria, non più dilazionabile. Quest’unità di tempo minima, per analogia, è paragonata a ciò che
è la perdita della verginità per una donna: un evento rispetto al quale non si dà alcun possibile
ripristino dello stato precedente. La differenza tra il cedere al male e l’affidarsi fiduciosi al bene è
data dal livello di consapevolezza che si possiede, condizione indispensabile per scegliere il bene.
Questo, infatti, «afferra l’anima solo se dice di sì», mentre il male la narcotizza, la trascina nel sogno
e, così facendo, la violenta. Il consenso nuziale al bene – o la libertà di rifiutarlo – non contrasta col
fatto che l’istante-limite in cui la decisione si impone è un evento inscritto, ab aeterno, nel destino di
ciascun uomo.
31. Queste parole rivelano una notevole finezza nella lettura dell’anima: il compito
dell’intelligenza non è di distrarsi dal male per volgersi tutta, immediatamente, al bene, ma di
contemplare il male, nella sua nuda verità, e farlo per il tempo necessario a rigettarlo con orrore, non
un istante in più. Qualsiasi indulgenza, qualsiasi compiacimento, sarebbe devastante tanto quanto la
paura di misurarsi col ricordo delle esperienze negative.
32. Questo riferimento alla morte come «dovere più urgente» e ad una decisione «condizionata e
a termine» lascia intendere, in modo sfumato, che l’ipotesi del suicidio non solo è stata presente in
lei, almeno nei momenti di più acuta sofferenza fisica, ma che la convinzione di potervi ricorrere le
fu di notevole conforto. Per quest’aspetto della sua esperienza, che riguarda la dolce morte, si
rimanda alle parole di Simone Pétrement, citate nella nota 10. Un pensiero simile, del resto, Simone
Weil l’aveva espresso in una lettera del 1936 all’amico Boris Souvarine, in un momento in cui le
incessanti emicranie minacciavano di annientarne il pensiero: «[…] Mi sono chiesta più di una volta
fino a che punto devo ostinarmi a vivere. Non rimpiango di aver vissuto fino ad ora perché malgrado
tutto ciò che la ostacola, la mia vita è lungi dall’essere stata vuota; ma non posso nascondermi che i
momenti in cui le mie facoltà riescono a operare sono sempre più distanziati e brevi. […] Sono
ancora in condizione di superare in qualche sorta i limiti delle mie possibilità a forza di irrigidirmi.
Ma questo non potrebbe durare all’infinito. Se le cose continuano ancora ad andar male, il momento
in cui la vita mi apparirà indegna di essere vissuta non tarderà a venire» (Lettera da Bourges,
probabilmente del marzo 1936, in «CSW», n. 1, marzo 1992, p. 13).
33. È impossibile appurare con certezza che cosa avesse letto degli scritti di Joë Bousquet al
momento del loro incontro. Per quest’esplicito riferimento a una frase contenuta nel «suo ultimo
libro» ci atteniamo a quanto, con molto acume, è stato ipotizzato da Michel Narcy: «Questo “ultimo
libro”, nel 1942, non poteva essere che Traduit du silence. Niente consente di dire che Simone Weil
l’avesse letto prima di incontrare Joë Bousquet: al contrario, avrebbe potuto anche leggerlo nel mese
successivo all’incontro con l’autore. Ciò che è importante, in ogni caso, è che in tal modo si può
affermare che la sua corrispondenza con Bousquet non costituisce solo un prolungamento della loro
conversazione, ma fa eco, in modo amplificato, a quegli aspetti della sua meditazione che Bousquet
aveva già da tempo affidato alla scrittura» (Visite à Joë Bousquet, in «CSW», n. 2, dicembre 1987, p.
120). La frase, a cui allude è da noi citata nella Parte Prima, alla nota 98.
34. Qui Simone Weil avverte l’insufficienza delle parole a spiegare uno stato d’animo che, come
ha detto poco prima, lei stessa aveva vissuto dopo l’esperienza mistica: la gioia pura, lungi
dall’essere fonte di consolazione, lungi dall’acquietare la coscienza, può al contrario indurre, in chi la
sperimenta, «un peggioramento morboso della sofferenza». Un’anima illuminata dal contatto col
bene non solo non è immunizzata da nuove possibili sofferenze, ma tende ad essere più sensibile, più
vulnerabile, più esposta all’aggressione del male: il Giusto sofferente e il Cristo risorto non
costituiscono due realtà distinte, ma due figure dello stesso mistero, che non si sovrappongono, ma
sono compresenti.
35. Di questa poesia ci piace offrire al lettore la versione di Cristina Campo, una «lettrice
amorosa» di Simone Weil: «Amore mi diede il benvenuto: ma l’anima mia si ritrasse, / Di polvere
macchiata e di peccato. / Ma Amore dal rapido sguardo, vedendomi esitante / Sin dal mio primo
entrare, / Mi si fece vicino, dolcemente chiedendo / Se di nulla mancassi. // Di un ospite, io dissi,
degno di essere qui. / Amore disse: Quello sarai tu. / Io, lo scortese e ingrato? O, amico mio, / Non
posso alzare lo sguardo su di Te. / Amore mi prese la mano e sorridendo rispose: / E chi fece gli
occhi se non io? // È vero Signore, ma li macchiai: se ne vada la mia vergogna / Là dove merita
andare. / E non sai tu, disse Amore, chi portò questa colpa? / Se è così, servirò, mio caro. / Tu
siederai, disse Amore, per gustare della mia carne. / Così io sedetti e mangiai» (La tigre assenza,
Adelphi, Milano, 1991, p. 173). La poesia, tradotta da Simone Weil, si trova anche nella quarta lettera
inviata a padre Perrin, nota come Autobiografia spirituale (AD*, pp. 29-30). Il ruolo di «mediazione
spirituale» esercitato da questa lirica è confermato proprio dal fatto che viene offerta in dono alle due
persone alle quali sceglie di confidare la sua esperienza mistica. Di George Herbert si può vedere
l’antologia Corona di lode, a cura di Maura del Serra, Le Lettere, Firenze, 1993, dove Love è
riportata.
36. Si tratta della prima delle due lettere ritrovate, nel 1989, da Florence de Lussy, di cui si è
detto nella Parte Prima.
37. Significativa la coincidenza di questo richiamo a una copla spagnola in questa lettera come in
alcune di quelle inviate ad Antonio Atarés: segno, ci sembra, del profondo valore di verità che
Simone Weil attribuiva alla saggezza popolare che in ogni tempo si è espressa in forme poetiche.
Quanto al fatto che l’accesso alla verità passi attraverso l’impossibile, in un testo di tutt’altra natura,
scritto negli ultimi mesi di vita, parlerà di una presenza di Dio nel mondo che, paradossalmente, si
lascia cogliere proprio attraverso le assurdità, le contraddizioni insanabili nelle quali l’essere umano
quotidianamente si imbatte: cfr. Professione di fede, in Dichiarazione degli obblighi verso l’essere
umano, a cura di Domenico Canciani e Maria Antonietta Vito, Castelvecchi, Roma, 2013, p. 19.
38. In realtà, nei Vangeli, in più occasioni, Gesù prega perché gli uomini siano liberati dal pesante
fardello dei dolori, sia fisici che morali, che gravano su di loro. Per Lazzaro, implora e ottiene la
resurrezione; nella sua passione, chiede che sia allontanato da sé l’amaro calice, anche se subito dopo
si rimette alla volontà del Padre, accettandola senza riserve. Qui si può pensare che Simone Weil
alluda al fatto che il Cristo, benché straziato dalla sofferenza dei suoi simili, non cede mai alla
tentazione di chiedere a Dio che, attraverso la sua mediazione, in quel preciso momento della Storia,
il male possa essere sconfitto una volta per sempre, in modo definitivo. Egli è venuto a testimoniare
la possibilità di una liberazione, è venuto ad annunciare il Regno, ma non ha avuto la pretesa si
portarlo a compimento. Al contrario, la croce è il segno di una sconfitta accolta e patita fino in fondo.
39. Potrebbe sembrare masochistica quest’affermazione sui «piaceri fisici e spirituali che
scaturiscono dalla sofferenza fisica». Per comprendere in che senso ciò sia vero è utile riandare a un
passo dei Quaderni: «Avere l’anima vulnerabile alle ferite di ogni carne, senza eccezione, come a
quelle della propria carne, né più né meno. Ad ogni morte come alla propria morte. Significa
trasformare ogni dolore, ogni sventura subita (– e che si vede subire – e che si infligge) in sentimento
della miseria umana. […] La contemplazione della miseria umana strappa verso Dio» (QII, pp. 224-
225). Il «piacere» di cui si parla in questa lettera non può che essere di ordine mistico: nasce dalla
capacità di sentire ogni dolore, il proprio e quello altrui, come segno di una più universale «miseria
umana» la cui contemplazione, anziché annichilire l’anima, la «strappa verso Dio».
40. Il linguaggio che tenta di approssimarsi al mistero della morte assume un’intonazione quasi
liturgica: richiama il rito dell’offertorio questo gesto finale con cui l’essere umano, da intermediario,
riconsegna nuda tutta la bellezza del mondo a Dio che discende per ricongiungersi ad essa. Il contato
tra il Creatore e la sua creazione, nell’istante limite, è affidato all’uomo, allo sguardo di amore con
cui lui solo, tra le creature, è in grado di abbracciare, di comprendere la bellezza di tutte le cose. Alla
capacità umana di farsi custode del bello, e di esserne responsabile verso Dio, è qui riconosciuto un
valore altissimo.
41. Racine, Fedra, atto V, scena 7, vv. 1643-1644,
42. Non è la morte in se stessa a incuterle timore, ma il rischio di arrivare impreparata al dono
misterioso di cui essa è portatrice. In un concerto, tra l’attesa cosciente del primo tocco di violino e il
suono che effettivamente si leva dallo strumento, intercorre una frazione infinitesimale di tempo,
quasi impossibile da percepire. Eppure, è lì che si gioca la possibilità di una piena concentrazione
nell’ascolto. Ancor più, rispetto alla morte, vi è una tremenda responsabilità dell’uomo nel giungervi
distratto o impreparato.
43. Ciò che desidera portare a compimento è sempre il suo Progetto.
44. Simone Weil è particolarmente legata a questo racconto e infatti ne offre una versione breve
nei Quaderni (Q III, pp. 21-22) e una più lunga, in cui è evocata la ricerca dell’uomo da parte di Dio
e la Passione, ben espressa nel «quaerens me sedisti lassus», nelle Intuitions préchrétiennes (OC IV
2, pp. 153-155). Due aspetti, nell’interpretazione della fiaba, appaiono di notevole rilevanza
teologica: la sposa, che incarna la presenza divina, deve indossare le vesti di una sguattera, ossia deve
farsi povera se vuole accostarsi al principe, che simboleggia l’anima in cerca di amore. A sua volta il
principe è «narcotizzato» dai doni, cioè dall’offerta di amore che proviene dalla carne (la falsa
fidanzata): un’offerta non negativa in sé, ma inadeguata a rispondere a una domanda di amore
assolutamente pura. Significativo anche il fatto che, alle prime luci dell’alba, un attimo prima che la
possibilità dell’incontro svanisca, il riconoscimento avvenga mediante uno scambio di sguardi,
figurazione dell’incontro mistico attraverso la bellezza.
45. La persona alla quale si riferisce, naturalmente, è padre Perrin. I «testi greci» sono quelli da
lei tradotti nell’ambito della ricerca avviata, insieme al domenicano, su alcuni classici – in prevalenza
brani di tragedie greche, frammenti pitagorici e dialoghi di Platone – in cui maggiormente emergono
quegli elementi di spiritualità che hanno sorretto la costruzione filosofica del Cristianesimo delle
origini. Questo materiale le era servito per alcune conversazioni tenute nella Cripta dei Domenicani. I
testi in questione sono ora raccolti in OC IV 2, pp. 361-380.
46. Di questo «insieme eterogeneo» di testi (gli originali in lingua greca, le traduzioni, le note di
commento), prima della partenza da Marsiglia, Simone Weil aveva affidato una gran parte a padre
Perrin. Da una lettera all’amica Solange Baumier apprendiamo che, durante la sosta a Casablanca,
completò lo scritto intitolato A proposito della dottrina pitagorica. L’insieme di questo paziente
lavoro di raccolta, traduzione ed esegesi di testi greci, dapprima confluito nel volume Intuitions
préchrétiennes – titolo giudicato infelice dallo stesso padre Perrin che lo aveva scelto – è ora raccolto
negli Écrits de Marseille, Le domaine grec, in OCIV 2, pp. 147-293. Gilbert Kahn è stato depositario
di un duplice foglio, di gran formato, su cui erano trascritti alcuni di questi testi il cui destinatario,
secondo il desiderio espresso da Simone Weil proprio in questa lettera, probabilmente era Joë
Bousquet. Gli originali greci, con le traduzioni e i commenti di Simone Weil, sono parzialmente
riuniti in OC IV 2, pp. 312-322.
47. Si riferisce al Progetto. Dalle parole traspare una certa ansia sull’esito della sua proposta:
ansia che andrà facendosi sempre più febbrile, quando si troverà a New York e si renderà conto
dell’estrema difficoltà di farlo prendere in considerazione da chi, se avesse voluto, avrebbe potuto
sostenerlo.
48. Comunicata da Florence de Lussy, conservatrice della Biblioteca Nazionale di Parigi, a
Michel Narcy, la lettera è pubblicata come Postscriptum al suo articolo Visite à Joë Bousquet, in
«CSW», n. 2, giugno 1983, p. 129. Gli amici sconosciuti, in realtà, sono Hélène Honnorat, amica di
Simone, di cui si è detto nella Parte Prima, e Pierre, suo fratello, compagno di corso di André Weil
alla École Normale.
49. Algernon Charles Swinburne (Londra, 1837 – Putney, 1909) poeta inglese dell’età vittoriana,
ebbe un’esistenza spregiudicata, di cui dà testimonianza la sua poesia, visionaria e ricca di
suggestioni simboliche. Non meraviglia che Simone Weil abbia sottoposto alcuni suoi scritti alla
lettura di un poeta come Bousquet, non meno estroso e visionario. Proporre all’amico,
contemporaneamente, la lettura del Vangelo in lingua greca e quella delle poesie di Swinburne è un
ulteriore segnale della sua libertà e originalità di pensiero.
50. Le lettere ad Antonio Atarés, qui tradotte, sono state pubblicate per la prima volta in «CSW»,
n. 2, giugno 1996, pp. 201-217. In conformità al loro tono colloquiale, in questo caso, talvolta, ci
riferiamo ai due interlocutori col solo nome proprio, Simone e Antonio.
51. Infra, p. 137.
52. Simone Weil, come vedremo meglio anche attraverso la lettura di Amicizia, in varie
circostanze ha lasciato intendere la sua distanza rispetto alla concezione romantica dell’amore-
passione, ne ha individuati i limiti e le insidie, facendo un’opzione di principio molto ferma nei
confronti dell’amicizia. È infatti persuasa che l’esperienza di unione piena sia attingibile solo nel
mistero dell’incontro mistico con Dio, mistero da consegnare al silenzio e non dissipare nella retorica
delle parole.
53. Di Nicolas Lazarévitch si è parlato nella Parte Prima.
54. Secondo un calcolo di Simone Pétrement, la lettera potrebbe essere stata scritta tra fine
giugno e inizio luglio 1941.
55. Questo pensiero ha ispirato il titolo di una plaquette in cui sono pubblicate tre delle lettere qui
presentate: cfr. Le stelle nell’anima. Lettere a Antonio Atarés 1941-1942, a cura e con una nota
introduttiva di Domenico Canciani, Edizioni Lavoro, Roma, 1993.
56. Gli uccelli d’Arabia / Vivono in eterno. / Vivono perché non sanno / Che cosa sono le pene /
Se dovessero penare / Nel mondo non ci sarebbero / Uccelli d’Arabia. Nell’Appendice IX del primo
volume dei Cahiers si trova una raccolta di coplas trascritte da Simone Weil (OC VI 1, pp. 437-451).
57. Quel che dice in questa lettera si riferisce, probabilmente, ai tentativi da lei fatti, presso i
responsabili dell’organizzazione internazionale Cimade, di cui parliamo nella Parte Prima, volti a far
liberare Antonio, procurandogli un lavoro come operaio agricolo.
58. Simone Pétrement ricostruisce la probabile datazione delle poesie scritte da Simone Weil
proprio nel periodo del soggiorno marsigliese: Nécessité risale alla fine di luglio del 1941, La porte
probabilmente fu scritta durante i giorni della vendemmia, La mer tra novembre e dicembre dello
stesso anno e, sempre a dicembre, dovrebbe risalire anche la composizione Les astres, un testo che,
nel gennaio successivo, Simone Weil avrebbe inviato sia all’amica Pétrement che ad Antonio. (Cfr.
La vita di Simone Weil, cit., p. 573). Le poesie di Simone Weil sono state pubblicate in volume con la
Venezia salva, nel 1968: cfr. Bibliografia. In italiano sono disponibili alcune buone traduzioni:
segnaliamo quella di Adriano Marchetti (Poesie e altri scritti, In forma di parole, Bologna,1989) e di
Roberto Carifi (Poesie, Le Lettere, Firenze, 1993). Qui di seguito, offriamo la versione italiana di
Astres di Adriano Marchetti: «Astri di fuoco che abitate la notte e i cieli lontani, / Sfere mute che
ruotate ciecamente sempre gelate, / Voi strappate i giorni di ieri al nostro cuore, / Ci gettate nel
domani senza il nostro consenso. / Piangiamo e i nostri lamenti a voi sono vani. / Poiché dobbiamo,
vi seguiremo, le braccia legate, /Gli occhi rivolti al vostro scintillio puro e amato. / Al vostro cospetto
poco importa ogni tormento. / Noi taciamo, vacilliamo sul nostro cammino. / D’improvviso è nel
cuore il loro fuoco divino». (pp. 72-73). Nell’Introduzione, Marchetti non si limita a offrire un
giudizio estetico sui componimenti poetici di Simone Weil, ma li interpreta alla luce degli altri suoi
scritti (pp. 7-22).
59. Si tratta della moglie del dottor Louis Bercher, amico di Simone Weil fin dai tempi de «La
Révolution Prolétarienne», alla quale anch’egli collaborava con lo pseudonimo di Péra. Bercher ha
scritto, per padre Perrin, un’ampia testimonianza, frutto di alcune conversazioni avute con Simone
Weil durante il soggiorno marsigliese.

PARTE TERZA
L’amicizia

1. Redatto nella prima metà di maggio, prima di partire per l’America, questo scritto fu affidato
ad Hélène Honnorat perché lo consegnasse a padre Perrin, che lo ha pubblicato, con la
corrispondenza, in Attente de Dieu. Ora ha trovato la sua naturale collocazione negli Écrits de
Londres, OC IV 1, pp. 285-336. Questo è il testo adottato per la nostra traduzione.
2. Formes de l’amour implicite de Dieu, OC IV 1, p. 284.
3. Gli scritti, in parte frammentari, come già ricordato, pubblicati in Intuitions préchrétiennes e
La source greque, sono ora raccolti negli Écrits de Marseille, OC IV 2.
4. Non con oscuro simbolismo, ma con vivace concretezza di immagini, Simone Weil riferisce la
sua esperienza mistica in un testo, il Prologo, per il quale espresse il desiderio che, in un’eventuale
pubblicazione dei suoi scritti, potesse fare da introduzione all’intera raccolta. Oggi, infatti, può essere
letto all’inizio di Q I, pp. 103-105.
5. Q III, p. 350. Questa bella immagine, alla quale Simone Weil ricorre per descrivere l’azione
mediatrice del soprannaturale, involontariamente rimanda all’ordo amoris agostiniano e alla sua
matrice neoplatonica. Interessante, in questo senso, quel che dice Remo Bodei: «Lordo amoris […]
ricostruisce infaticabilmente il ponte, spesso interrotto o crollato, che unisce ciascuno alla parte più
intima di se stesso, a Dio, interior intimo meo, e la parte più alta delle sue facoltà alla sommità del
Creatore. [.] Sotto questo profilo, l’amor di Agostino ha alcuni tratti comuni con l’aspirazione
plotiniana della congiunzione dell’anima con l’Uno. (Ordo amoris, Il Mulino, Bologna, 1991, p. 92).
6. Simone Weil ricorre più volte, anche in altri scritti, al linguaggio dei pitagorici per esprimere
l’idea di amicizia come armonia tra i contrari e trova particolarmente efficaci due formule di
Filolao: «L’amicizia è un’uguaglianza fatta di armonia» e
«Il pensiero comune dei pensanti separati» : cfr. OC IV 2,
pp. 244-248 e 255-293.
7. Su questo tema scrive: «La nostra anima è una bilancia. La direzione dell’energia negli atti è
l’ago della bilancia che segna questa o quella cifra. Ma la bilancia non è esatta. Quando Dio, il vero
Dio, occupa in un’anima tutto il posto che gli è dovuto, la bilancia è diventata giusta. Dio non dice
quale cifra deve indicare l’ago, ma per il fatto che Egli è là l’ago segna giusto» (Q IV, p. 190).
8. Cfr. Etica Nicomachea, Libri VIII e IX, a cura di Carlo Natali, Laterza, Bari, 2003. Più in
generale, per una ricognizione del significato dell’amicizia nel mondo antico, cfr. Luigi Pizzolato,
L’idea di amicizia nel mondo antico, classico e cristiano, Einaudi, Torino, 1993. Recentemente la
rivista «Esodo» ha dedicato due interi fascicoli al tema dell’amicizia: Legami. I volti dell’amicizia, n.
3, luglio-settembre 2012 e Legami. Le radici dell’amicizia, n. 4, ottobre-dicembre 2012. In questo
secondo fascicolo, i curatori di questo libro, Domenico Canciani e Maria Antonietta Vito, hanno
sintetizzato il pensiero di Simone Weil sull’argomento. Cfr. L’amicizia in Simone Weil, cit., pp. 10-
17.
9. Etica Nicomachea, cap. VIII, 1156 b, p. 319.
10. Ivi, 1159 a, p. 331.
11. Ibidem.
12. Simone Weil ha compiuto una lettura degli scritti aristotelici più limitata e meno approfondita
rispetto ad altri testi della filosofia greca, soprattutto quelli platonici: ne è prova il numero esiguo di
citazioni aristoteliche presenti nei Quaderni. In particolare, non risulta una lettura diretta dell’Etica
Nicomachea. Ciononostante, nei Quaderni troviamo un giudizio molto duro sulla concezione
dell’amicizia sviluppata in quel testo, al quale allude in modo indiretto, con una citazione che si
potrebbe definire di terza mano, perché presa in prestito da uno scritto di Jacques Maritain in cui
riporta un brano tratto dai Commentari di san Tommaso al Libro VIII dell’Etica Nicomachea. La
citazione è accompagnata da una breve annotazione nella quale si dice che un simile modo di
intendere l’amicizia è agli antipodi rispetto al pensiero cristiano. Bersaglio di questa stroncatura non
è dunque solo Aristotele, ma lo sono ancor più Tommaso e Maritain, per aver commesso l’errore di
tentare una conciliazione tra modelli di pensiero antitetici. Vale la pena di rileggere parte del brano in
questione: «È assolutamente il contrario del Cristianesimo. Come fanno costoro a credersi cristiani?
Si potrebbe chiedere loro se la giustizia ha reso uguali l’uomo e Dio prima che potesse esserci unione
di amore. Se il samaritano non ha avuto un moto di amicizia verso l’uomo caduto in mano ai ladri.
Aristotele è l’albero cattivo che dà solo frutti marci. Perché non lo si vede?» (Q IV, pp. 388-389).
Conveniamo con Michel Narcy che, dietro questa critica alla fonte aristotelica, emerge
l’atteggiamento severo con cui Simone Weil guardava a una certa idea di umanesimo cristiano, di cui
Maritain era il rappresentante più convinto nella Francia di quegli anni. Vi leggeva una pericolosa
illusione: il rischio di perdere di vista la straordinaria capacità di conversione espressa dal messaggio
evangelico, trasformandolo in un vago umanitarismo che finisce per smorzarne la forza liberatrice e
profetica, riducendolo a supporto di un’etica dei diritti che non ha bisogno di un fondamento
religioso e, ancor meno, della fede cristiana. La novità sconvolgente del Cristo, insomma, è di averci
insegnato ad amare il nemico, non ad amare il nostro simile: per questo, sarebbe stata sufficiente
l’etica di Aristotele (cfr. Michel Narcy, La parole pacifiée d’Émile Novìs, in «Sud», nn. 87-88, 1990,
pp. 127-136). In più occasioni, animata da una febbrile ricerca della verità, Simone Weil è incorsa in
omissioni o in oltranze di giudizio sugli autori con cui andava confrontandosi. Questo limite le fu
fatto notare da padre Perrin, proprio in rapporto al pensiero di san Tommaso che, a suo giudizio, le
era meno estraneo di quanto lei pensasse, soprattutto sul tema che era oggetto della sua meditazione
in quel momento: le forme dell’amore implicito di Dio. Su questo singolo punto, cfr. Introduzione a
AD, pp. 35-37). Sull’argomento in generale, cfr. Emmanuel Gabellieri, Être et don. Simone Weil et la
philosophie, cit., pp. 453-462.
13. OC IV 2, pp. 263 e 266, passim.
14. Formes de l’amour implicite de Dieu, OC IV 1, p. 286.
15. Q IV, p. 160
16. Q III, p. 192.
17. Q II, p. 256
18. Intuitions préchrétiennes, OC IV 2, p. 287.
19. Questa sezione del testo, dedicata all’Amicizia, si apre con una congiunzione avversativa, qui
omessa, perché nella parte conclusiva delle pagine precedenti, dedicate all’amore per le pratiche
religiose, si parla del duplice aspetto, personale e impersonale, dell’amore dell’uomo per Dio.
L’amicizia, invece, si configura come amore personale e umano.
20. Nel primo capitolo, in cui si tratta dell’amore del prossimo, viene sottolineata la piena
coincidenza evangelica tra giustizia e carità, purché si comprenda che la giustizia racchiusa nelle
parole di Gesù, «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare», è cosa radicalmente diversa dalla
semplice giustizia naturale, di cui si dà un esempio citando il racconto che, ne La guerra del
Peloponneso, Tucidide fa del rifiuto opposto dagli ateniesi all’invocazione di pietà da parte dei meli.
La giustizia naturale è quella che, non per ragioni contingenti, ma per un suo limite costitutivo, resta
sottomessa alla legge del più forte e, perciò, non è in grado di suscitare compassione in chi è
vincitore né gratitudine in chi è sconfitto. Solo il comandamento nuovo di Cristo, l’amore verso tutti,
anche verso i nemici, ha in sé la forza soprannaturale che elimina la distanza tra giustizia e carità:
«Solo l’identificazione assoluta della giustizia e dell’amore rende possibile al tempo stesso da una
parte la compassione e la gratitudine, d’altra parte il rispetto della dignità della sventura negli
sventurati, per se stesso e per gli altri» (Formes de l’amour implicite de Dieu, cit., p. 287).
21. Sull’ineluttabile azione disgregatrice delle illusioni che il tempo compie nelle nostre vite,
Simone Weil riflette anche in altri testi, con un amaro disincanto che richiama alla mente accenti
leopardiani: «L’avvenire è fatto della stessa sostanza del presente. […] Se si soffre per la malattia, per
la miseria, per la sventura, si crede che, il giorno in cui questa sofferenza avrà fine, si sarà felici. Ma,
anche in questo caso, si sa che ciò è falso; perché nel momento in cui ci si è abituati alla cessazione
del dolore si comincia a desiderare un’altra cosa. […] Non bisogna mai confondere il bisogno con il
bene. Ci sono moltissime cose di cui si crede di aver bisogno per vivere. Spesso è falso, perché si
potrebbe sopravvivere alla loro perdita. Ma anche se è vero, se la loro perdita può far morire o
almeno distruggere l’energia vitale, non per questo esse sono dei beni. Infatti nessuno è soddisfatto a
lungo di vivere puramente e semplicemente. Si desidera sempre qualcosa d’altro. Si vuole vivere in
funzione di qualche altra cosa. Basta non ingannare se stessi per sapere che non vi è nulla quaggiù
per cui si possa vivere. Basta rappresentarsi tutti quei desideri soddisfatti. Dopo qualche tempo, si
sarebbe di nuovo scontenti. Si desidererebbe dell’altro, e si sarebbe infelici di non sapere ciò che si
vuole» (Pensées sans ordre concernant l’amour de Dieu, fine aprile 1942, ora in OC IV 1, pp. 280-
284).
22. Questa osservazione allude, chiaramente, a Joë Bousquet che faceva uso di stupefacenti,
come diciamo sia nella Parte Prima che nelle note di commento alle lettere.
23. «Ma sento che in tutto questo dovrò morire». Nel lamento di Arnolfo si esprime quella
gelosia possessiva che finisce per consumare le energie vitali di un individuo esponendolo al rischio
della morte. Cfr. Molière, La scuola delle donne, atto IV, scena I.
24. Si tratta del protagonista de L’avaro di Molière.
25. Sulla distanza tra il Bene e la necessità, cfr. Platone, Repubblica VI, p. 493 C. Questa
citazione ricorre più volte anche nei Quaderni, segno dell’importanza attribuitale da Simone Weil.
26. Qui il termine necessità che, nell’accezione greca di ananke, è assolutamente centrale nel suo
pensiero, assume il significato più specificamente psicologico di dipendenza. Allude, infatti, a una
condizione psichica di progressivo logoramento della libertà interiore, con il conseguente rischio di
soggiacere alla volontà dell’altro sentita come un assoluto, e perciò concepita in forma idolatrica:
condizione da cui l’uomo esce impoverito spiritualmente e deprivato della propria dignità. Lo stesso
processo può avvenire in senso contrario, quando l’io impone se stesso al tu, alimentando in lui una
forma altrettanto idolatrica di attaccamento. L’esito è sempre e comunque non solo il fallimento della
relazione tra i due, ma la perdita dell’armonia interiore in ciascuno di loro.
27. Simone Weil esprime più volte la convinzione che la dimensione oblativa dell’amore non
debba mai compromettere il valore irrinunciabile della «libera disposizione di sé». Può essere però
utile precisare che la sua concezione della libertà si colloca a una distanza siderale dall’esaltazione
esasperata del principio di autoaffermazione dell’io che la cultura occidentale rivendica come diritto
inalienabile. Ciò a cui si riferisce è l’autonomia dell’intelligenza, fondamento irrinunciabile nella
ricerca della verità. Del resto, che questa convinzione non sia frutto di rigore ideologico né di
orgoglio, ma di un dilemma vissuto in prima persona, è dimostrato dalla dolorosa scelta di «restare
sulla soglia» della Chiesa cattolica. Pur desiderando più di ogni altra cosa il contatto sacramentale col
Cristo, se ne priva rinunciando al battesimo e decidendo di mantenersi al di fuori dell’istituzione
ecclesiale, proprio per non abdicare alla «libera disposizione di sé». Cfr. la Lettera V, indirizzata a
Solange, in AD*, pp. 40-47.
28. Per un processo naturale i figli tendono a staccarsi dai genitori, a uscire dalla dipendenza, a
rivendicare la libera disposizione di sé. Perciò rifuggono da quella cristallizzazione del legame
affettivo alla quale i genitori spesso si abbarbicano, timorosi di vedere esaurita la funzione protettiva
verso la prole e, quindi, messo in crisi il proprio ruolo. Nei legami fraterni, generalmente,
l’evoluzione delle personalità porta a una differenziazione delle esperienze e, quindi, a una graduale
trasformazione del rapporto che, nei casi migliori, esce dalla dimensione infantile, incentrata sul
nesso rivalità/attaccamento, e tende a stabilizzarsi in forme adulte di sostegno e di condivisione di
ricordi.
29. Qui simpatia è proprio da intendersi nel significato etimologico del sun-pathein, del sentire
insieme, del condividere valori, gusti, prospettive, progetti, insomma tutto ciò che rientra, in modo
naturale, nello spazio dell’affinità.
30. Nella relazione che ciascuno di noi ha con il tempo particolare della propria esistenza si gioca
il nostro destino di creature. Il tempo è la grande occasione che ci è offerta: possiamo permettere che
la distrazione e l’impazienza lo brucino, divorati come siamo dall’ansia di consumarlo o dalla pretesa
di tenerlo sotto controllo, e possiamo invece viverlo veramente, trasformando ogni attimo in uno
spiraglio sull’infinito. Molto spesso la nostra miseria spirituale ci preclude questa possibilità. In tal
caso, viene meno qualsiasi possibilità d’incontro con Dio: «Dio e l’umanità sono come un amante e
una amante che si sono sbagliati circa il luogo dell’appuntamento. Ciascuno è lì prima dell’ora, ma
sono in due posti diversi, e aspettano, aspettano, aspettano. Lui è in piedi, immobile, inchiodato al
posto per la perennità dei tempi. Lei è distratta e impaziente. Sventurata se ne ha abbastanza e se ne
va! Perché i due punti in cui si trovano sono lo stesso punto nella quarta dimensione…» (Q IV, p.
178).
31. Basti pensare alla pratica, in passato molto diffusa anche nella società occidentale, dei
«matrimoni combinati», frutto di mera convenienza economica tra famiglie. Ma si pensi anche a tutte
le circostanze, frequenti ai nostri giorni, in cui i legami di ogni tipo tra individui sono determinati o
dal bisogno di riconoscimento del prestigio personale o dalla disponibilità ad asservirsi a un altro
uomo, per ricavarne dei benefici.
32. Per Simone Weil l’immaginazione è una conoscenza ingannevole, da cui è sedotta la parte
inferiore dell’anima, che si nutre di idoli da essa stessa fabbricati. Quando ciò accade, l’uomo non
vive ma sogna e, da questo letargo dell’intelletto, può liberarsi solo grazie a uno sforzo eroico
dell’attenzione, che è la risorsa spirituale che apre l’intelligenza al soprannaturale. Se però si cade
nella sventura, diventa quasi sempre impossibile rinunciare alla menzogna come antidoto contro
l’angoscia: «Il pensiero posto dalla costrizione delle circostanze al cospetto della sventura fugge nella
menzogna con la prontezza dell’animale minacciato di morte e davanti al quale si apre un rifugio.
Talvolta, nel suo terrore, sprofonda sempre più nella menzogna; perciò capita spesso che quelli che
sono o sono stati in una condizione di sventura, abbiano contratto la menzogna come un vizio, al
punto talvolta da aver smarrito in tutte le cose il senso stesso della verità» (L’amour de Dieu et le
malheur, in OC IV 1, p. 364). Questo saggio sull’amore di Dio, parzialmente pubblicato in Attente de
Dieu, ristabilito nella sua integralità, è ora ripreso nel volume da cui citiamo. Il lettore, comunque,
può leggerlo anche nella nuova traduzione italiana che, nell’appendice agli scritti, riporta la prima
versione della parte mancante: cfr. L’amore di Dio e la sventura, in AD*, pp. 171-189 e pp. 234-257.
33. Che la sventura si possa convertire in esperienza purificatrice è convinzione più volte
espressa da Simone Weil, la cui fonte va ricercata nei tragici e, in particolare, nel
(la conoscenza attraverso il dolore) di Eschilo. Questo processo di
purificazione, che non solo rende l’uomo consapevole della sua finitezza, ma crea in lui un’apertura
al soprannaturale, richiede però un prezzo di dolore che solo pochi esseri umani sono pronti a pagare:
«Non è facile come si crede, perché la crescita del seme dentro di noi è dolorosa. Inoltre, proprio
perché accettiamo questa crescita, non possiamo fare a meno di distruggere ciò che l’ha generata, di
strappare le erbe cattive, di tagliare la gramigna; e purtroppo questa gramigna fa parte della nostra
stessa carne e perciò le cure del giardiniere sono un’operazione violenta» (L’amour de Dieu et le
malheur, cit., p. 358).
34. Il riferimento è alla tragedia Andromaca, dove Pilade e Oreste sono complici più che amici.
35. Sull’attaccamento che si crea tra la parte mediocre dell’anima e i desideri e i piaceri, Simone
Weil riflette anche in altri scritti dello stesso periodo, convinta che sia proprio la nostra mediocrità
spirituale a impedirci di compiere quella rinuncia alla centralità dell’io che apre all’esperienza del
Bene. Per l’uomo, è molto più facile aggrapparsi agli idoli, che possono essere di natura sociale,
come il benessere, il prestigio e l’esercizio del potere, o legati alla sensibilità soggettiva, come il
piacere e il dolore: «Falsi dèi che chiamiamo Dio», di cui crediamo erroneamente di non saper fare a
meno e dei quali, proprio per questo, diventiamo volontariamente schiavi. (cfr. Réflexions sans ordre
sur l’amour de Dieu, fine aprile 1942, ora in OC IV 1, pp. 272-279).
36. Riemerge, in queste parole, la memoria di un amore unitivo possibile solo nella visitazione
del tutto inattesa da parte del Cristo, esperienza da lei vissuta e tenuta pudicamente sotto silenzio
quasi con tutti. Va però sottolineata anche l’ispirazione platonica di questi pensieri, ancor più
esplicita in un altro scritto dello stesso periodo, in cui vi è un’accurata analisi del discorso di
Aristofane, nel Simposio, sul mito dell’androgino originario. Simone Weil commenta: «La nostra
vocazione è l’unità. La nostra sventura è di essere in una condizione di dualità, sventura dovuta a una
macchia originaria di orgoglio e di ingiustizia. La divisione dei sessi non è che un’immagine
sensibile di questo stato di dualità che è la nostra tara essenziale, e l’unione carnale è una falsa
apparenza di rimedio. […] L’unità è lo stato in cui il soggetto e l’oggetto sono una sola e medesima
cosa, lo stato di colui che conosce se stesso e ama se stesso. Ma Dio solo è così e noi possiamo
divenire così solo grazie all’assimilazione a Dio operata dall’amore di Dio» (Intuitions
préchétiennes, in OC IV 2, p. 185).
37. Qui è evidente che l’analisi dell’affettività che Simone Weil sta compiendo non è né astratta
né ingenuamente idealistica. Sa bene che qualunque legame, per la finitezza costitutiva della
condizione umana, è gravato da una parte inevitabile di pesantezza. Per liberarsene, dovrebbe
affrancarsi dalla sua peculiarità di esperienza finita e diventare una realtà soprannaturale. Ma questo è
umanamente impossibile, per cui la scelta di trasformare un rapporto di amore in amicizia non
esprime una fuga da emozioni sentite come portatrici di errore e di pericolo, ma costituisce una tappa
essenziale in un cammino di purificazione che, passando attraverso la forza dell’eros, risale per gradi
verso forme di maggior spiritualità che dovranno poi incarnarsi in nuove esperienze di vita, in un
ritmo circolare potenzialmente infinito.
38. Si tratta di una forma di universalismo incarnato che, assumendo come centrale la
dimensione dell’amore, supera l’astrattezza priva di pathos del filantropismo di matrice illuministica,
e quindi anche la dimensione esclusivamente morale dell’imperativo categorico kantiano. Solo un
atto di amore autentico consente, almeno in potenza, il pieno calarsi dell’universale nel particolare.
39. In Forme dell’amore implicito di Dio, nelle pagine dedicate all’amore per l’ordine del mondo,
la salvezza è additata nella capacità, da parte dell’uomo, di decentrarsi, ovvero di rinunciare al
proprio punto di vista parziale sulla realtà. Si rimanda alla suggestiva immagine citata nella nota 26.
40. Si tenga presente che, in questo ambito di discorso, l’uso del termine illegittimo per
qualificare un certo tipo di amore non ha alcuna connotazione moralistica, ma sta a indicare un
orientamento spirituale distorto che impedisce di trasformare il sentimento amoroso in esperienza di
liberazione interiore. Del resto, già in Platone vi è un’accezione simile dello stesso termine: «E per
l’ordine e l’armonia dell’anima la parola giusta è “legittimità” e “legge”: di qui derivano gli uomini
osservanti della legge e dei costumi ordinati. E in questo consiste la giustizia e la temperanza”»
(Platone, Gorgia, 504 d, cit., p. 912).
41. Simone Weil, sapendo che il suo ideale di amicizia è tanto vicino alla perfezione da rasentare
l’impossibile, ricorre a un linguaggio estremo, venato di manicheismo, che le consente di disegnare
una sorta di idealtipo dell’amore: un principio regolativo che ha il compito di illuminare un percorso
di ricerca, senza alcuna illusione che sia facile raggiungere la meta.
42. La scuola delle donne di Molière e Fedra di Racine sono ripetutamente evocate non perché
contengano l’ideale dell’amore puro, che Simone Weil tenta di descrivere, ma perché in esse, come
dice altrove, la miseria umana è messa a nudo proprio in relazione all’amore.
43. Qui è posto in evidenza, con la forza del riferimento agli apostoli, il rischio insito nel vivere
l’amicizia come esperienza esclusivamente sentimentale. Alla radice, vi è la pretesa di possedere già,
a un livello solo emozionale, ciò che dovrebbe essere frutto di un lungo percorso di conoscenza e di
trasformazione. Il brusco risveglio da quest’illusione produce la metamorfosi immediata dell’amore
nel suo esatto contrario, l’odio. La modalità violenta che ai nostri giorni caratterizza molte rotture di
legami potrebbe trovare una chiave di lettura convincente in queste riflessioni sulle quali, peraltro,
tornano anche altri scritti: «Bisogna solo sapere che l’amore è un orientamento non uno stato
d’animo. Se lo si ignora, si cade nella disperazione al primo colpo di sventura» (L’amour de Dieu et
le malheur, in OC IV 2, p. 359).
44. Come spesso le avviene, Simone Weil cita a memoria, e adatta, il testo evangelico: in questo
caso si tratta di Matteo 18,15.
45. Sul mistero trinitario come immagine pura dell’amicizia torna, significativamente, anche in
un altro testo: «Se si interpreta la definizione dell’amicizia come un’uguaglianza perfetta di armonia
secondo la definizione dell’armonia come il pensiero comune dei pensanti separati, è la Trinità stessa
l’amicizia per eccellenza.[…] La formula: “L’amicizia è un’uguaglianza fatta di armonia” racchiude
in sé, d’altra parte, le due relazioni nella Trinità indicate da sant’Agostino, uguaglianza e
connessione. La Trinità è la suprema armonia e la suprema amicizia» (Intuitions préchrétiennes, in
OC IV 2, pp. 263-264). Va precisato che la concezione trinitaria dell’amicizia sviluppata da Simone
Weil appare fortemente debitrice sia nei confronti del pensiero di sant’Ambrogio che di
sant’Agostino, benché le citazioni agostiniane, nei Quaderni, siano piuttosto esigue e denotino una
ridotta frequentazione dei suoi testi, dovuta a una scarsa consonanza spirituale che, talvolta, è
sfociata in critiche severe su alcuni punti specifici. Tuttavia, anche attraverso la lettura degli scritti di
padre Perrin sull’amore trinitario, si era quasi inconsapevolmente impregnata di immagini e di
concetti teologici agostiniani, che sono poi confluiti in testi come quello che stiamo leggendo, senza
che la fonte effettiva di molte sue idee venisse esplicitamente riconosciuta. Per un’informazione
sintetica, ma molto precisa e accurata sulla riflessione patristica, e in particolare agostiniana, sul tema
dell’amicizia, si rimanda di nuovo a Luigi Pizzolato, cit., pp. 216-338.
46. È di rara forza espressiva questa metafora euclidea delle rette parallele destinate a persistere
all’infinito in un’armonia a cui è indispensabile la separazione, che consente la contemplazione a
distanza. Il punto d’incontro, dunque, si sposta all’infinito: una visione nella quale la consapevolezza
tragica dei limiti dell’umano fa tutt’uno con l’apertura al soprannaturale come possibilità
escatologica che solo la fede lascia intravedere.
Simone Weil (1909-1943)

Simone Weil nasce a Parigi, il 3 febbraio 1909, in una famiglia ebrea


non praticante, molto colta e laica. Allieva, presso il liceo Henri IV, del
filosofo Émile Chartier, detto Alain, entra poi all’École Normale
Supérieure, dove consegue la laurea in Filosofia, materia che insegnerà per
qualche anno in alcuni licei di provincia. Nello stesso periodo si impegna
attivamente nel sindacato e nei gruppi politici della sinistra, tenendo corsi
agli operai e pubblicando articoli di analisi politica su alcune riviste
(«L’Effort», «La Révolution prolétarienne», «L’École émancipée», «La
Critique sociale», «Syndicats», «Nouveaux Cahiers», ecc.). Nel 1934-35
compie un’esperienza di lavoro in alcune fabbriche parigine per vivere, in
prima persona, i disagi della condizione operaia, sperimentando nella realtà
la riflessione che andava elaborando sul mondo del lavoro. Per poco tempo,
prende parte alla Guerra Civile spagnola ma esce profondamente segnata
dal contatto con la forza e la barbarie. Sollecitata sia dall’esperienza in
fabbrica che dalla guerra, si avvicina al Cristianesimo e, senza mai
trascurare l’impegno e l’analisi politica, concentra sempre più la sua
riflessione sulla problematica religiosa, in una prospettiva universalistica.
Sfollata a Marsiglia durante l’occupazione nazista, prende parte alle prime
iniziative di resistenza collaborando alla distribuzione della stampa
clandestina («Cahiers du témoignage chrétien»). Conosce il domenicano
padre Joseph-Marie Perrin, con il quale nasce un intenso dialogo spirituale
e una profonda amicizia. In quegli stessi mesi, collabora con i «Cahiers du
Sud», redige la maggior parte dei suoi Cahiers e scrive i grandi testi
sull’amore di Dio, sulla sventura, sull’esperienza mistica. Dopo un breve
soggiorno negli Stati Uniti, dove si reca per porre in salvo i genitori dal
rischio della persecuzione nazista, torna in Europa, a Londra, per offrire la
sua collaborazione ai servizi di France Libre e di France Combattante del
Generale De Gaulle. La sua speranza, presto delusa, è di essere inviata in
Francia per partecipare attivamente al movimento di Resistenza. Le viene
invece affidato il compito di revisionare i documenti politici e le proposte
costituzionali che, dalla clandestinità, arrivano al Commissariato per gli
Interni, alle dipendenze di André Philip e Francis-Louis Closon. Deve
compiere perciò, con gran dolore, la sua personale resistenza, tra le quattro
pareti di un ufficio. Ma, da questa ferita, nascerà una messe di scritti
d’altissimo livello in cui il pensiero politico e la riflessione religiosa
confluiscono in un punto di sintesi davvero straordinario. In questo senso
gli Scritti di Londra possono essere letti come il suo testamento spirituale.
Ammalata di tubercolosi e debilitata da un regime alimentare
volontariamente insufficiente, il suo stato di salute va rapidamente
aggravandosi. Ricoverata presso l’ospedale di Middlesex e successivamente
trasferita al Grosvenor Sanatorium di Ashford, nel Kent, muore, nel sonno,
il 24 agosto 1943.
I suoi scritti saranno pubblicati postumi da padre Perrin e da Gustave
Thibon e poi, soprattutto, da Albert Camus. L’amica e futura biografa
Simone Pétrement curerà l’edizione dei Cahiers, nei quali confluiscono le
sue straordinarie riflessioni filosofiche e spirituali.
Dal 1988 Gallimard ha avviato la pubblicazione delle Œuvres
Complètes: i volumi finora apparsi sono riportati nella Bibliografia. Presso
lo stesso editore è disponibile la più vasta antologia, in un unico volume,
Œuvres, curata da Florence de Lussy, con la collaborazione di Domenico
Canciani (Gallimard, Parigi 1999).
In Italia le Edizioni Comunità hanno curato, per molto tempo, la
traduzione di buona parte degli scritti di carattere sociale e politico:
L’ombra e la grazia, Oppressione e libertà, La condizione operaia, La
prima radice; Rusconi e Borla hanno pubblicato soprattutto gli scritti
filosofici e religiosi: Attesa di Dio, L’amore di Dio, La Grecia e le intuizioni
precristiane. In seguito, Adelphi ha progressivamente tradotto e pubblicato:
Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, Sulla
Germania totalitaria, Venezia salva, Quaderni, Lettera a un religioso,
Lezioni di filosofia, Attesa di Dio, La persona e il sacro.
Castelvecchi ha in corso un articolato programma di traduzione degli
scritti di Simone Weil, accompagnati da introduzioni storiche, commento e
apparato critico. Sono già usciti a cura di Domenico Canciani e Maria
Antonietta Vito: Una Costituente per l’Europa. Scritti londinesi, 2013 e
Dichiarazione degli obblighi verso l’essere umano, 2013.
I curatori

Maria Antonietta Vito vive e lavora a Padova. Ha pubblicato due


raccolte di poesie, La casa dei silenzi e Le stagioni del desiderio. Per la sua
produzione lirica ancora inedita è stata segnalata al Premio Internazionale
Eugenio Montale. Ha esordito nella narrativa con un’opera intitolata Il
viaggio e ha poi pubblicato, presso Tullio Pironti, il romanzo Il disincanto.
Si è cimentata con la scrittura teatrale in un dramma allegorico sulla figura
poetica del Tasso.
Ha dedicato a Simone Weil un oratorio, Il silenzio di Jaffier,
rappresentato da due diverse compagnie. Ha in cantiere un’altra opera
teatrale, sempre ispirata alla figura di Simone Weil.
Con Domenico Canciani ha realizzato i volumi: Marguerite Yourcenar –
Simone Weil, Elettre. Lettura di un mito greco, Medusa edizioni, Milano,
2004; L’amicizia pura. Un itinerario spirituale, Città Aperta, Traina, 2005;
Simone Weil, Dichiarazione degli obblighi verso l’essere umano,
Castelvecchi, Roma, 2013; e Simone Weil, Una Costituente per l’Europa.
Scritti londinesi, Castelvecchi, Roma, 2013.
Altri suoi contributi su Simone Weil sono in Simone Weil e l’amore per
la città (Il Poligrafo, Padova, 2010) e in Simone Weil. Dentro e fuori la
Chiesa (Editrice Rotas, Barletta, 2011), volumi nei quali si trovano anche i
contributi di Domenico Canciani.
Domenico Canciani ha insegnato Lingua e civilizzazione francese
presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Padova. Le sue
ricerche hanno riguardato le minoranze, i conflitti linguistici e culturali, la
storia intellettuale nella Francia del ventesimo secolo e nel Maghreb. Su
questi temi si possono citare: Les paroles niées des fils d’Amazigh. Poésie
berbère traditionnelle et contemporaine, in collaborazione con Mouloud
Mammeri e Tassadit Yacine, 1992; Le ragioni di Babele. Le etnie tra vecchi
nazionalismi e nuove identità, in collaborazione con Sergio De La Pierre, Il
Poligrafo, Padova, 1993; L’Esprit et ses devoirs. Écrits de Claude Aveline
1933-1956, 1993.
Ha lavorato anche sugli orientalisti francesi e sui temi del dialogo
interreligioso, curando e introducendo i volumi Louis Massignon,
L’ospitalità di Abramo. All’origine di ebraismo, cristianesimo e islam,
Medusa edizioni, Milano, 2002; Louis Massignon, La suprema guerra
santa dell’islam, Città Aperta, Traina, 2003.
Da anni si dedica con assiduità allo studio della vita e del pensiero di
Simone Weil, pubblicando saggi e monografie. Tra i suoi volumi: Simone
Weil prima di Simone Weil, Cleup, Padova, 1983; Simone Weil. Il coraggio
di pensare. Impegno e riflessione politica tra le due guerre, Edizioni lavoro,
Roma, 1996; Tra sventura e bellezza. Riflessione religiosa ed esperienza
mistica in Simone Weil, Edizioni lavoro, Roma, 1998.
Ha collaborato con Florence de Lussy alla realizzazione del volume
Simone Weil, Œuvres, IV, Gallimard, Parigi, 1999; ha pubblicato, presso
Beauchesne, Lintelligence et l’amour. Réflexion religieuse et expérience
mystique chez Simone Weil, 2000.
Ha curato, tradotto e introdotto Simone Weil, Sul colonialismo. Verso un
incontro tra Occidente e oriente, Medusa edizioni, Milano, 2003. In
collaborazione con Maria Antonietta Vito, ha curato Elettre. Lettura di un
mito greco, L’amicizia pura. Un itinerario spirituale, Dichiarazione degli
obblighi verso l’essere umano, Una Costituente per l’Europa. Scritti di
Londra.
Alla fine del 2011 ha pubblicato, presso l’editore Beauchesne di Parigi,
Simone Weil. Le courage de penser, che è la sintesi di gran parte delle
ricerche condotte fino ad oggi su Simone Weil. Nel 2012, questo volume ha
ricevuto il Prix Biguet de l’Académie Française. Pubblica perlopiù in
francese e in italiano. Acuni suoi lavori sono stati tradotti in tedesco,
spagnolo e polacco.
Nell’aprile 2013 ha altresì curato, con un’ampia introduzione (La
memoria tenera, folle, crudele di Rabah Belamri), la versione italiana del
romanzo di Rabah Belamri, Uno sguardo ferito, Edizioni Mesogea, Catania.
INDICE

Preludio

PARTE PRIMA
Marsiglia. La stagione delle amicizie

PARTE SECONDA
Le lettere agli amici prigionieri

Come lampi di luce purissima


Il carteggio tra Simone Weil e Joë Bousquet

Uno scambio di pensieri in foma di lettere


Simone Weil ad Antonio Atarés

PARTE TERZA
L’amicizia

L’amicizia: una delle forme dell’amore implicito di Dio

Amicizia

Abbreviazioni e bibliografia
Note
Simone Weil (1909-1943)
I curatori

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