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La nave di Teseo
L’editore ringrazia la Do.ssa Giulia Bernardini dell’Università degli
Studi di Milano-Bicocca per la revisione scientifica del testo.
Titolo originale: Le grand roman des maths
© Editions Flammarion, Paris, 2016.
© 2019 La nave di Teseo editore, Milano
ISBN 978-88-9344-827-7
Prima edizione digitale maggio 2019
est’opera è protea dalla Legge sul dirio d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
Sommario
Da YouTube ai libri
Introduzione di Piergiorgio Odifreddi
Epilogo
Per approfondire
Bibliografia
Da YouTube ai libri
Introduzione di Piergiorgio Odifreddi
Si racconta che nei primi decenni dopo l’invenzione della stampa molti
leori comprassero i libri e li facessero ricopiare dagli amanuensi, per
poterli ricondurre alle condizioni di leura dei manoscrii ai quali erano
abituati. L’aneddoto suona strano, o addiriura incredibile, soltanto fino a
quando ci ricordiamo che molti di noi, dopo l’invenzione del personal
computer, hanno continuato a stampare le schermate per lo stesso motivo.
Deo altrimenti, per un utilizzo correo dei nuovi media bisogna in
genere aendere la generazione che è nata dopo di essi, mentre quella che
li ha visti nascere stenta ad adaarvisi.
Pensiamo a YouTube, ad esempio. Molti dei matematici e degli
scienziati agli inizi l’hanno usato soltanto come un mezzo su cui trasferire
le proprie conferenze orali, riuscendo comunque a diffonderle ben oltre il
ristreo ambito degli uditori ai quali esse erano diree in origine. Per
usare questo nuovo medium in una maniera più innovativa e adeguata si è
però dovuto aendere qualche giovane che avesse più dimestichezza con
l’aspeo visivo delle conferenze. Uno dei campioni al riguardo è il
francese Mickaël Launay, nato nel 1984, e dunque solo trentacinquenne.
Nel 2007, da giovane laureato alla prestigiosa École Normale
Supérieure, apre il fortunato sito di matematica ludica Micmaths. Nel 2013
passa su YouTube e nel giro di pochi anni il suo canale raggiunge i 335.000
iscrii e posta più di 150 video di matematica, con ascolti stellari che in
genere sono riservati ai divi della musica o del cinema. Ma a differenza dei
grandi divulgatori di successo, che spesso allargano il volume d’utenza a
scapito della profondità dell’esposizione, Launay è riuscito a trovare la
proporzione aurea tra successo e qualità.
Il suo video La faccia nascosta delle tabelline, ad esempio, traa di
argomenti ben più elevati di quanto lascerebbe pensare il suo modesto
titolo. In particolare, parte in sordina con la tabellina del 2 sui numeri fino
a 10, ma subito la rappresenta con un grafo su un cerchio con 10 punti.
Estende poi la stessa tabellina a numeri sempre più grandi, mostrando
come i grafi tendono quasi miracolosamente alla figura di un petalo a
forma di cuore (una cardioide). Passa poi alle tabelline del 3, del 4, del 5,
eccetera, che producono fiori con due, tre, quaro petali, eccetera. E
mostra infine come le tabelline dei numeri frazionari, invece che interi,
producano figure intermedie che fanno passare gradualmente da un fiore
all’altro. E come i fiori diventino sempre più complessi e affascinanti man
mano che crescono i numeri per cui si moltiplica.
Tuo questo, in una decina di minuti! A quante persone potrebbe
interessare un simile giardino fiorito? Basta guardare le visualizzazioni del
video, per scoprire che in quaro anni sono state più di 3.200.000 (tre
milioni e duecentomila)! A dimostrazione del fao che se si sanno usare i
nuovi media si possono oenere risultati d’ascolto inimmaginabili su
quelli vecchi. Anche perché descrivere a parole ciò che si può mostrare
con figure è molto più complicato, e molto meno interessante.
esto significa che le parole scrie sono destinate a cedere il passo
alle immagini, almeno nella matematica? Niente affao, come ha
dimostrato poco più di un anno fa lo stesso Launay. Conoscendo, da bravo
francese, il moo di Mallarmé tout, au monde, existe pour aboutir à un
livre, “tuo, al mondo, esiste per finire in un libro”, il divo matematico di
YouTube ha pubblicato Il grande romanzo della matematica, che è
immediatamente diventato un best seller in Francia.
Il che dimostra che non c’è contraddizione fra media diversi, ma
complementarità: quelli vecchi non sono destinati a soppiantare i nuovi,
ma ad affiancarsi a loro. Anche perché ci sono cose che si fanno meglio nei
video, e altre che richiedono invece un libro: come raccontare storie,
appunto, persino di matematica. Non a caso il libro di Launay è
programmaticamente un romanzo, perché, come direbbe l’Ecclesiaste: “C’è
un medium per ogni cosa. Un medium per raccontare, e un medium per
mostrare. Un medium per leggere, e un medium per guardare”. E i follower
di Launay su YouTube scopriranno da leori in questo libro una faccia
diversa di questo divulgatore straordinario e unico, che come un re Mida
della matematica trasforma in oro intelleuale tuo ciò che tocca.
“Oh, io sono sempre stata negata in matematica!”
Non faccio una piega. Dev’essere almeno la decima volta che oggi sento
questa frase.
Eppure, la signora è ferma al mio stand da un buon quarto d’ora, in
mezzo a un gruppo di altri passanti, e sta ascoltando con una certa
aenzione il sooscrio che espone alcune curiosità geometriche. E,
puntuale, ecco quella frase.
“A parte questo, lei che cosa fa nella vita?”
“Sono un matematico.”
“Oh, io sono sempre stata negata in matematica!”
“Ah sì? Eppure sembrava interessata a quello che stavo raccontando.”
“Sì… ma qui non si traa davvero di matematica… qui tuo suona più
comprensibile.”
Toh, questa è nuova. La matematica sarebbe allora, per definizione, una
disciplina incomprensibile?
È l’inizio di agosto, in corso Félix Faure, a La Floe-en-Ré. Nel
mercatino estivo, alla mia destra c’è uno stand di tatuaggi all’henné e
treccine africane, alla mia sinistra un venditore di accessori per cellulari e,
di fronte, un bancheo di gioielli e cianfrusaglie di ogni genere. Lì in
mezzo ho piazzato il mio stand di matematica. Nella frescura della sera, i
vacanzieri passeggiano tranquilli. A me piace da mai fare matematica in
posti insoliti. Dove la gente non se l’aspea. Dove ti guardano con
diffidenza…
“ando dirò ai miei genitori che ho fao matematica durante le
vacanze, non ci crederanno di sicuro!” mi apostrofa un liceale che si era
fermato tornando dalla spiaggia.
È vero, io prendo i passanti un po’ al laccio. Ma è così che bisogna fare.
È uno dei miei momenti preferiti. Osservare l’espressione delle persone
che pensavano di provare un invincibile fastidio per la matematica quando
invece sto dimostrando loro che, da un quarto d’ora, stanno giusto facendo
matematica. E il mio stand è ben lungi dallo svuotarsi! Presento origami,
numeri di magia, giochi, enigmi… ce n’è per tui i gusti e per tue le età.
Dovrei essere contento, eppure, dentro di me, provo un certo
rammarico. Come siamo potuti arrivare a questo punto? Nascondere alla
gente che si sta facendo matematica per fare in modo che si diverta? Per
quale motivo questa parola fa tanta paura? È certo che se avessi appeso
sopra il mio tavolo un cartello con la scria “Matematica”, visibile quanto
quelli degli stand aorno al mio, “Gioielli e collane”, “Cellulari” o
“Tatuaggi”, avrei avuto meno della metà del successo. La gente non si
fermerebbe. Anzi, forse si allontanerebbe distogliendo lo sguardo.
E invece c’è curiosità. La tocco con mano ogni giorno. La matematica fa
paura, ma più fa paura e più affascina. Non la amiamo, eppure ci
piacerebbe amarla. O, quantomeno, essere capaci di insinuare uno sguardo
indiscreto in quelle sue tenebre misteriose. La crediamo inaccessibile. Non
è così. Non è forse possibile amare la musica senza essere musicisti, o
gradire la condivisione di un buon pasto senza essere cuochi? E allora
perché si dovrebbe per forza essere dei matematici o possedere
un’intelligenza eccezionale per lasciarsi raccontare la matematica e farsi
solleticare piacevolmente il cervello con l’algebra e con la geometria?
Dopotuo, per comprendere le grandi idee e provarne meraviglia non è
certo obbligatorio entrare nei deagli tecnici.
Fin dalla noe dei tempi, sono stati tantissimi gli artisti, i creatori, gli
inventori, gli artigiani, o semplicemente i sognatori e i curiosi, che hanno
fao matematica senza neanche accorgersene. Matematici loro malgrado.
Sono stati loro i primi a farsi domande, a cercare soluzioni, a spremere le
meningi. Se vogliamo capire il senso della matematica, dobbiamo seguirne
le tracce, perché è con loro che tuo ha avuto inizio.
Dunque è venuto il momento di meersi in viaggio. Se siete d’accordo,
consentitemi di condurvi con me, araverso queste pagine, nei meandri di
una delle discipline più affascinanti e stupefacenti praticate dalla specie
umana. Prepariamoci a incontrare chi ne ha fao la storia, a colpi di
scoperte inaese e di idee fantastiche.
Cominciamo insieme il grande romanzo della matematica.
1. Matematici loro malgrado
Una volta tornato a Parigi, decido di dare inizio alla nostra indagine al
museo del Louvre, nel cuore della capitale. Fare matematica al Louvre?
Può sembrare davvero fuori luogo. L’antica residenza reale convertita in
museo non è forse, oggi, la sede privilegiata per piori, scultori,
archeologi o storici, prima di esserlo per i matematici? Eppure è proprio
qui che ci apprestiamo a ricalcare le loro prime impronte.
Fin dal mio arrivo, la comparsa della grande piramide di vetro al centro
della Cour Napoléon costituisce già un invito alla geometria. Anche se,
oggi, ho appuntamento con un passato molto più antico. Penetro quindi
nel museo, e la macchina del tempo si mee in moto. Passo davanti ai re di
Francia, ripercorro il Rinascimento e il Medioevo e arrivo all’Antichità. Le
sale si susseguono, incrocio alcune statue romane, i vasi greci e i sarcofagi
egiziani. Passo oltre. Ed ecco che entro nella preistoria e che, lasciandomi
alle spalle secoli e secoli, avverto pian piano il bisogno di dimenticare
tuo. Dimenticare i numeri. Dimenticare la geometria. Dimenticare la
scriura. In principio nessuno sapeva niente. Nemmeno che ci fosse
qualcosa da sapere.
Prima fermata in Mesopotamia. Eccoci tornati indietro di diecimila
anni.
A pensarci bene, perché non retrocedere ancora? Perché non regredire
di un altro milione e mezzo di anni per ritrovarsi in pieno Paleolitico? A
quell’epoca, il fuoco non è ancora domato e l’Homo sapiens è soltanto un
progeo remoto. Siamo nel regno dell’Homo erectus in Asia, dell’Homo
ergaster in Africa, e forse di pochi altri cugini ancora da scoprire. È l’età
della pietra tagliata. Il modello è il bifacciale.
In un angolo dell’accampamento, i tagliatori sono al lavoro. Uno di essi
afferra un blocco di selce ancora vergine che ha raccolto poche ore prima.
Si siede per terra – probabilmente a gambe incrociate –, appoggia la
pietra, la blocca con una mano e, con l’altra, ne colpisce il bordo usando
un’altra pietra massiccia. Si stacca una prima scheggia. Osserva il
risultato, fa ruotare la selce e la colpisce una seconda volta, dall’altra parte.
Le due prime schegge così oenute, da entrambi i lati, hanno procurato
una fenditura profonda sul bordo della pietra. Non resta che ripetere
l’operazione sull’intero contorno. In alcuni punti, tuavia, la selce è
troppo compaa o troppo larga, e occorre rimuovere pezzi più grandi per
conferire all’oggeo finale la forma voluta.
La forma del bifacciale, infai, non è lasciata al caso o all’ispirazione
del momento. È qualcosa di ragionato, di elaborato, trasmesso di
generazione in generazione. Se ne trovano modelli diversi, a seconda
dell’epoca e del luogo di fabbricazione. Alcuni prendono la forma di una
goccia d’acqua appuntita, altri, più arrotondati, hanno il profilo di un
uovo, altri ancora somigliano di più a un triangolo isoscele dai lati appena
bombati.
0123456789
Una cava. Tanto lunga quanto fonda. 1, la terra, l’ho rimossa. Suolo e
terra li ho ammucchiati, 1’10. Lunghezza e fondo, ’50. Lunghezza, fondo,
quanto fa?1
Anche il khet è un’unità di misura e vale circa 52,5 metri. Per risolvere
il problema, Ahmes afferma che l’area del campo circolare è uguale a
quella di un campo quadrato il cui lato misuri 8 khet. Il confronto è
della massima utilità, poiché è molto più facile calcolare l’area di un
quadrato che quella di un disco. Ahmes trova 8 × 8 = 64. Eppure i
matematici che prenderanno il suo posto scopriranno che il suo
risultato non è esao. Le aree del disco e del quadrato non coincidono
affao. Molti di loro tenteranno poi di rispondere alla domanda: come
costruire un quadrato la cui area sia uguale a quella di un cerchio?
Applicandovisi invano, com’è ovvio. Infai Ahmes, senza saperlo, fu
uno dei primi a fissarsi su quello che diventerà il più grande rompicapo
matematico di tui i tempi: la quadratura del cerchio!
Anche in Cina si cerca di calcolare la superficie dei campi di forma
circolare. Il seguente problema deriva dal primo dei Nove capitoli.
1
1+3=4
1+3+5=9
1 + 3 + 5 + 7 = 16
Vedete la peculiarità dei numeri che compaiono? Nell’ordine: 1, 4, 9,
16… Sono i numeri quadrati!
Potete continuare quanto volete. La regola non verrà mai smentita.
Sommate, se ve la sentite, i primi dieci numeri dispari, da 1 a 19, e
oerrete 100, che è il decimo numero quadrato:
1 + 3 + 5 + 7 + 9 + 11 + 13 + 15 + 17 + 19
= 10 × 10 = 100
Da sinistra a destra:
il tetraedro, l’esaedro, l’oaedro, il dodecaedro e l’icosaedro
6
In Francia, giorno di vacanza per le scuole elementari. (N.d.T.)
5. Un po’ di metodo
L’onere della prova costituirà, per i matematici greci, uno dei problemi
maggiori. Non un solo teorema potrà essere convalidato senza essere
accompagnato da una dimostrazione, vale a dire da un preciso
ragionamento logico che stabilisca in via definitiva la sua veridicità. E va
deo che, senza il vaglio rappresentato dalle dimostrazioni, i risultati
matematici possono sempre riservare delle brue sorprese. Nel senso che
certi metodi, pur legiimati nel tempo e ampiamente utilizzati, a volte non
funzionano come dovrebbero.
Un esempio. Pensate alla costruzione contenuta nel papiro di Rhind per
disegnare un quadrato e un disco di area uguale. Ebbene, è sbagliata. Non
di molto, certo, ma è comunque sbagliata. Basta misurare con precisione le
superfici e si scopre una differenza dello 0,5% circa! Gli agrimensori e altri
geometri dei terreni tenderebbero a sorvolare su un discostamento del
genere, ma i matematici teorici lo giudicherebbero inammissibile.
Lo stesso Pitagora si lasciò ingannare da ipotesi scorree. Il suo errore
più celebre riguarda le lunghezze commensurabili. Egli pensava infai che,
in geometria, due lunghezze siano sempre commensurabili, ovvero che sia
possibile trovare un’unità sufficientemente piccola che permea di
misurarle simultaneamente. Immaginate una linea di 9 centimetri e
un’altra di 13,7 centimetri. I greci non conoscevano i numeri decimali,
misuravano le lunghezze solo con i numeri interi. Per cui, secondo loro, la
seconda linea non si poteva misurare in centimetri. Deo ciò, in questo
caso non restava che considerare un’unità dieci volte più piccola, per poter
dire che le due linee misurano rispeivamente 90 e 137 millimetri. In
sostanza, Pitagora era certo che due linee qualsiasi, indipendentemente
dalla loro lunghezza, fossero sempre commensurabili trovando l’unità di
misura adeguata.
La sua convinzione venne tuavia smentita proprio da un pitagorico,
Ippaso di Metaponto. esti scoprì che, nel quadrato, il lato e la diagonale
sono incommensurabili! alunque sia l’unità di misura prescelta, è
impossibile che sia il lato del quadrato sia la sua diagonale siano misurabili
con numeri interi. Ippaso ne fornì una dimostrazione logica che non
lasciava alcun dubbio in materia. Al che, Pitagora e i suoi discepoli furono
talmente contrariati che Ippaso finì per essere escluso dalla scuola. Non
solo. Si racconta che la scoperta gli costò anche una mortale spedizione,
durante la quale venne geato in mare dai condiscepoli!
Alle orecchie del matematico, aneddoti del genere suonano angoscianti.
Si potrà mai essere sicuri di qualcosa? Si deve vivere nella continua paura
che ogni scoperta matematica finisca, un giorno, per essere demolita? E il
triangolo 3-4-5? Siamo proprio certi che si trai di un triangolo
reangolo? Non corriamo magari il rischio di scoprire, un bel giorno, che
l’angolo che sembrava fino a quel momento perfeamente reo non lo sia,
anche lui, solo approssimativamente?
Ancora adesso, non è raro che i matematici cadano viime di intuizioni
ingannevoli. Ecco perché, perseguendo la ricerca del rigore dei loro
omologhi greci, i nostri matematici oggi come oggi prestano la massima
cura nel differenziare gli enunciati dimostrati, che chiamano “teoremi”, da
quelli che ritengono veri ma per i quali non hanno ancora prove, che
chiamano “congeure”.
Una delle più famose congeure del nostro tempo è l’ipotesi di
Riemann. Non sono pochi i matematici che considerano tale ipotesi, non
dimostrata, abbastanza vera tanto da porla a fondamento delle loro
ricerche. Se la congeura di Riemann diventasse, un giorno, teorema, tui
i loro lavori ne risulterebbero legiimati. Ma se, viceversa, fosse un giorno
smentita, ecco che le opere di intere vite di ricerca sprofonderebbero nel
nulla con essa. I nostri scienziati del XXI secolo sono indubbiamente più
ragionevoli dei loro antenati greci, ma è facile capire che, in una situazione
del genere, un matematico che annunciasse l’erroneità dell’ipotesi di
Riemann susciterebbe in alcuni colleghi l’identica voglia di annegarlo che
costò la vita a Ippaso.
In sostanza, per sorarsi all’angoscia permanente della smentita, i
matematici hanno un assoluto bisogno di dimostrazioni. No, per carità,
non scopriremo mai che il 3-4-5 non è un triangolo reangolo. Lo è di
sicuro. E una tale certezza deriva dal fao che il teorema di Pitagora è
stato dimostrato. Ricordate? Ogni triangolo in cui la somma dei quadrati
costruiti sui due cateti è uguale al quadrato costruito sul terzo lato si dice
triangolo reangolo. Un enunciato che per i mesopotamici era certo solo
una congeura. E che, con i greci, è diventato un teorema. E così sia.
Ma, allora, a che cosa somiglia una dimostrazione? Il teorema di
Pitagora non è soltanto il più celebre dei teoremi, è anche uno di quelli che
contano il maggior numero di dimostrazioni diverse. Parecchie decine.
Alcune di esse sono state scoperte in maniera indipendente da civiltà che
non avevano mai sentito parlare né di Euclide né di Pitagora. È il caso
delle dimostrazioni trovate nei commenti ai Nove capitoli cinesi. Altre sono
opera di matematici che conoscevano il teorema già provato ma che, per
un senso di sfida o per lasciare una propria impronta personale, si sono
divertiti a cercare altre prove. Tra costoro, spiccano nomi celebri, come
quelli del genio italiano Leonardo da Vinci o del ventesimo presidente
degli Stati Uniti, James Abram Garfield.
Uno dei principi ricorrenti in molte di queste dimostrazioni è quello del
puzzle: se due figure geometriche possono costituirsi a partire dagli stessi
elementi, vuol dire che hanno la stessa superficie. Osservate la
composizione immaginata dal matematico cinese del III secolo Liu Hui.
I due quadrati costruiti sui due cateti dell’angolo reo del triangolo
reangolo centrale si compongono rispeivamente di due e cinque pezzi:
esaamente i see pezzi che vanno a comporre il quadrato costruito
sull’ipotenusa. La superficie del quadrato costruito sull’ipotenusa è
dunque uguale alla somma delle superfici dei due quadrati minori. E
poiché la superficie di un quadrato è uguale al numero quadrato associato
alla lunghezza del suo lato, è così dimostrato che il teorema di Pitagora è
vero.
Trascuriamo pure, qui, certi deagli. Basti dire che, perché la
dimostrazione sia completa, bisogna comprovare che tui i pezzi sono
rigorosamente identici e che tale suddivisione vale per tui i triangoli
reangoli.
E ora possiamo riprendere il filo delle nostre deduzioni. Perché 3-4-5 è
un triangolo reangolo? Perché verifica il teorema di Pitagora. E perché il
teorema di Pitagora è vero? Perché la suddivisione di Liu Hui mostra che il
quadrato costruito sull’ipotenusa è formato dai medesimi pezzi dei
quadrati costruiti sui lati dell’angolo reo. Sembra il “gioco dei perché”
che piace tanto ai bambini. Il problema è che quel gioco ha un bruo
difeo: non finisce mai. alunque sia la risposta data a una domanda, si
può sempre meere in discussione la risposta stessa. Perché? Perché sì.
Torniamo al nostro puzzle. Abbiamo deo che figure composte a
partire dagli stessi pezzi hanno la stessa superficie. Ma non abbiamo
ancora dimostrato che il principio è sempre vero. Non si potrebbero
trovare dei pezzi del puzzle la cui superficie varia a seconda del modo in
cui li si assembla? Sembra una proposizione assurda, no? Talmente
assurda che sarebbe illogico tentare di dimostrarla… Eppure abbiamo
appena rilevato che, in matematica, è importante dimostrare tuo.
Saremmo disposti, noi, a rinunciare a nostri principi, pochi istanti dopo
averli sposati?
La situazione è grave. Tanto più che, se riusciamo a spiegare perché il
principio del puzzle è vero, dovremo poi giustificare comunque il
ragionamento impiegato per arrivare alla spiegazione data!
I matematici greci hanno ben presente il problema. Per eseguire una
dimostrazione, si deve cominciare da qualche parte. Ebbene, il primo
enunciato di ogni opera di matematica non può essere stato dimostrato,
proprio perché è il primo. Ogni costruzione matematica deve dunque
cominciare con l’ammeere un certo numero di elementi già conosciuti.
Elementi che faranno da fondamento a tue le deduzioni successive, e che
quindi vanno selezionati con la massima cura.
esti elementi di base i matematici li chiamano “assiomi”. Gli assiomi
sono enunciati matematici come possono esserlo i teoremi e le congeure.
A differenza di questi ultimi, però, non sono dimostrabili e non vogliono
esserlo. Sono ammessi come veri.
Gli Elementi di matematica, redai da Euclide nel III secolo a.C.,
costituiscono un insieme di tredici libri che traano principalmente di
geometria e aritmetica.
Di Euclide sappiamo poco, e le fonti che lo riguardano sono molto più
rare rispeo a quelle su Talete o Pitagora. Forse è vissuto dalle parti di
Alessandria. Ma, secondo alcuni, può anche darsi che, come nel caso di
Pitagora, non sia mai esistito realmente, e che Euclide sia il nome di un
colleivo di sapienti. Nulla di meno sicuro.
Malgrado le scarse informazioni che abbiamo sulla sua persona, Euclide
ci ha lasciato, con i suoi Elementi, un’opera monumentale, unanimemente
considerata uno dei più grandi testi della storia della matematica. Proprio
perché è stato il primo ad adoare un approccio assiomatico. La
costruzione degli Elementi è straordinariamente moderna, e la sua
struura è assai vicina a quella ancora utilizzata dai matematici del nostro
tempo. Alla fine del XV secolo, gli Elementi saranno tra le prime opere a
essere stampate dalla neonata tipografia Gutenberg. Di più. Oggi come
oggi, l’opera di Euclide sarebbe il testo con il maggior numero di edizioni
della storia, secondo solo alla Bibbia.
Nel primo libro degli Elementi, che traa la geometria piana, Euclide
enumera i cinque assiomi seguenti.
1. Tra due punti qualsiasi è possibile tracciare una ed una sola rea.
2. Si può prolungare una rea oltre i due punti indefinitamente.
3. Dato un segmento, è possibile descrivere un cerchio il cui raggio è il
segmento stesso e il cui centro è una delle sue estremità.
4. Tui gli angoli rei sono tra loro congruenti.
5. Se una rea taglia altre due ree determinando dallo stesso lato
angoli interni la cui somma è minore di quella di due angoli rei, le due
ree si incontreranno da quello stesso lato.7
7
L’assioma, molto più complesso degli altri quaro, susciterà tra i matematici non poche
discussioni. Nella figura qui soo, la somma dei due angoli indicati è inferiore a quella di due angoli
rei, per cui le ree 1 e 2 si incontrano dal lato in cui sono posizionati i due angoli.
6. π, un cerchio alla testa
IL METODO DI ARCHIMEDE
Per calcolare il valore approssimato di π, Archimede ha calcolato per
approssimazione il valore del cerchio avvalendosi di poligoni regolari.
Si prenda per esempio un cerchio il cui diametro misuri un’unità e il
cui perimetro misuri dunque π unità, poi lo si inscriva in un quadrato.
Il quadrato ha un lato uguale a 1 (come il diametro del cerchio) e
dunque un perimetro uguale a 4. Poiché il perimetro del cerchio è
minore di quello del quadrato, si deduce che π è minore di 4.
Si inscriva ora, nel cerchio, un esagono:
8
La traduzione leerale, quindi non rispeosa della regola, è la seguente: Mi piace imparare
questo numero utile ai saggi / immortale Archimede, artista, ingegnere, / chi a tuo parere potrebbe
apprezzare il valore? / A me il tuo problema ha recato uguali vantaggi. Una versione italiana,
modesta, che cerca di rispeare il numero delle leere di ciascuna parola, suona così: Ave o Roma o
Madre gagliarda di latine virtù / che tanto luminoso splendore prodiga spargesti / con la tua saggezza.
Che n’ebbe d’utile Archimede / da ustori vetri sua somma scoperta? (N.d.T.)
9
La poesia e Raven (Il corvo), scria da Edgar Poe nel 1845, è stata adaata nel 1995 da
Michael Keith con il titolo Near a Raven, giusto per rispeare la costante matematica. L’incipit è il
seguente: Poe E. / Near a Raven. / Midnights so dreary, tired and weary. Silenty pondering volumes
extolling all by-now obsolete lore. Nel testo originale di Poe l’incipit è il seguente: Once upon a
midnight dreary, while I pondered, weak and weary, Over many a quaint and curious volume of
forgoen lore… (“Una volta, in una tetra mezzanoe, mentre meditavo, fiacco e stanco, sopra tomi
antichi e strani…”). Come si vede, Keith si sforza di rispeare non solo la costante ma anche il senso
(N.d.T.)
10
Dal latino Massilia (Massalia è il nome greco). (N.d.T.)
7. Niente e meno di niente
Dall’alto dei suoi 6714 metri d’altezza, il monte Kailash, in Tibet, fa parte
del cerchio ristreo di cime non ancora scalate dall’Homo sapiens. Il suo
profilo arrotondato, striato di neve sul grigio del granito, si staglia
massiccio sopra il paesaggio smussato dell’Ovest himalayano. Per gli
abitanti della regione, indù o buddisti che siano, la montagna è sacra, e
reca il suo florilegio di miti ancestrali e di storie meravigliose. Si racconta,
tra l’altro, che si trai del leggendario monte Meru, il quale, secondo le
mitologie locali, costituirebbe il centro dell’Universo.
È qui che si nasconde la sorgente di uno dei see fiumi sacri della
regione: l’Indo.
Scaturendo da lassù e scendendo dalle pendici del monte Kailash, l’Indo
volge in direzione est, facendosi strada a gran velocità tra le montagne del
Kashmir, per poi iniziare a scorrere più lentamente verso sud. i
araversa le pianure del Punjab e del Sind dell’auale Pakistan, per poi
diventare delta e gearsi nel mare Arabico. La valle dell’Indo è fertile.
Durante l’Antichità, la regione è coperta di foreste rigogliose e fruscianti.
Gli elefanti d’Asia vi convivono con i rinoceronti, le tigri del Bengala, le
scimmie schiamazzanti e i serpenti, che gli incantatori si apprestano ad
ammaliare con i loro flauti. Sbucando da un sentiero, quasi quasi ci si
aspeerebbe d’incontrare Mowgli, il cucciolo d’uomo del Libro della
giungla, le cui avventure hanno come sfondo scenari del genere. Ed è lì
che nascerà una civiltà originale e appartata, i cui matematici svolgeranno
un ruolo determinante all’inizio del Medioevo.
Nel III millennio a.C., vedono la luce, aorno al fiume, alcune
importanti cià, come Mohenjo-Daro o Harappa. Cià che, viste da
lontano, somigliano un poco, costruite come sono con maoni d’argilla, a
quelle contemporanee della Mesopotamia. Nel II millennio a.C. ha inizio
l’epoca vedica. La regione viene suddivisa in una quantità di piccoli regni,
che si moltiplicano verso est fino alle rive del Gange. L’induismo nasce, si
sviluppa e vengono composti i primi grandi testi in sanscrito. Nel IV
secolo a.C., Alessandro Magno raggiunge le rive dell’Indo e vi fonda due
cià che prendono il nome di Alessandria, senza peraltro conoscere il
prestigioso destino di Alessandria d’Egio. Ma è comunque lì che
trasmigra una parte della cultura greca, integrandosi con le culture locali.
Dopodiché giunge l’epoca dei grandi imperi. I Maurya regnano sulla quasi
totalità del subcontinente indiano per un secolo abbondante. E ai Maurya
succede tua una sfilza di dinastie, coesistenti in termini più o meno
pacifici, fino alla conquista musulmana dell’VIII secolo.
In questo periodo storico, gli indiani fanno matematica, anche se,
purtroppo, non ne sappiamo granché. Per una semplice ragione: i loro
uomini di scienza hanno sviluppato, fin dall’inizio dell’epoca vedica, un
ideale di trasmissione delle conoscenze orale, che bandisce, per principio,
la messa per iscrio. I saperi devono essere trasmessi a voce, di
generazione in generazione, da maestro ad allievo. I testi s’imparano a
memoria, soo forma di poemi o accompagnati da astuzie
mnemotecniche, poi recitati e ripetuti per quante volte sia necessario
affinché siano perfeamente padroneggiati. È vero che, qua e là, affiorano
eccezioni alla regola, frammenti scrii a noi pervenuti, ma si traa di una
quantità esigua.
Con tuo ciò, gli indiani fanno matematica! Come spiegare, altrimenti,
la ricchezza di concei di cui ci renderanno partecipi quando, intorno al V
secolo, decidono finalmente di passare alla traduzione per iscrio dei
saperi accumulati oralmente da secoli? Anzi, l’India, d’ora in avanti, vive
un’età dell’oro della scienza i cui effei s’irradieranno ben presto nel
mondo intero.
Gli scienziati indiani si adoperano a scrivere lunghi traati in cui
riprendono le conoscenze tramandate dalle precedenti generazioni
completandole con gli esiti delle nuove scoperte. Uno dei più famosi è
Aryabhata, che s’interessò all’astronomia e al calcolo, con un notevole
grado di approssimazione, del numero π. Varāhamihira realizzò nuovi
progressi in trigonometria. Bhāskara fu il primo a scrivere lo zero in forma
di circolo e a utilizzare scientificamente il sistema decimale da noi
impiegato ancora oggi. Eh sì, le nostre dieci cifre, 0, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8 e 9,
che abitualmente chiamiamo numeri arabi, sono in realtà indiani!
alora, poi, si volesse ricordare un nome tra tui gli scienziati indiani
del tempo, la scelta della Storia cadrebbe sicuramente su quello di
Brahmagupta, il quale visse nel VII secolo e fu direore dell’osservatorio
di Ujjain. All’epoca, la cià di Ujjain, situata sulla riva destra del fiume
Shipra, al centro dell’odierna India, era uno dei maggiori centri scientifici
del paese. Il suo osservatorio astronomico era celebre, e la cià era già
nota a Claudio Tolomeo al tempo della grande Alessandria.
Nel 628, Brahmagupta pubblica la sua opera più importante, il
Brāhmasphuţasiddhānta, in cui si trova la prima descrizione completa dello
zero e dei numeri negativi, accompagnata dalle loro proprietà aritmetiche.
Oggi, lo zero e i numeri negativi sono divenuti così onnipresenti nella
nostra vita quotidiana – per misurare la temperatura, l’altitudine sul
livello del mare o il saldo del nostro conto in banca – che rischiamo di
dimenticare di quali idee geniali essi siano espressione! La loro invenzione
è stata un esercizio di acrobazia cerebrale poco comune, che gli scienziati
indiani hanno eseguito per primi, alla perfezione.
Comprenderne il processo, in cui tuo appare soile e potente al
tempo stesso, rappresenta una delizia intelleuale su cui sarà bene
soffermarsi un poco, se si vogliono capire più a fondo i rivolgimenti
interni alla matematica che segneranno i secoli successivi.
Una delle domande che mi viene posta con maggior frequenza, quando
parlo in pubblico della mia passione per la matematica, è come sia nata in
me. “Come le è venuto questo pallino a dir poco bizzarro?” mi chiedono
ogni tanto. “È stato un professore speciale a trasmeerle questa passione?”
“La matematica le piaceva già da bambino?” La manifestazione di una
vocazione simile non smee di risvegliare la curiosità di persone per le
quali tale disciplina è sempre rimasta un mistero.
Ebbene, in tua onestà, devo ammeere che non lo so. Più vado
indietro nel tempo con la mente, più mi rendo conto di aver sempre amato
la matematica, senza però riuscire a individuare un evento specifico della
mia vita che abbia fao da incentivo. Anche se, frugando meglio nella
memoria, riaffiorano certi episodi di puro godimento intelleuale, che
perlopiù coincidevano con l’improvvisa comparsa di idee nuove. Un
esempio, in deaglio. La scoperta, da parte mia, di una sorprendente
proprietà della moltiplicazione.
Dovevo avere 9 o 10 anni, quando, digitando un po’ a caso sulla mia
calcolatrice di scolaro, mi sono imbauto in uno strano risultato: 10 × 0,5
= 5. Moltiplica il numero 10 per 0,5 e oerrai 5. esto osava dirmi la mia
calcolatrice, nella quale allora riponevo una fiducia tanto cieca quanto
irragionevole. Com’è possibile che, moltiplicando un numero, si oenga
un numero più piccolo? Moltiplicare non vuol forse dire aumentare una
quantità? Non si traava di una vera e propria contraddizione al
significato stesso del verbo “moltiplicare”? La mia cara calcolatrice non
avrebbe dovuto presentarmi un numero superiore a 10?
Mi ci è voluto del tempo, parecchie seimane spese a ripensarci di
continuo, per riuscire a chiarirmi le idee. Il lampo risolutivo si è
manifestato il giorno in cui ho pensato di raffigurare la moltiplicazione in
maniera geometrica, ripercorrendo senza saperlo i passi degli antichi
pensatori. Si prenda un reangolo la cui lunghezza misuri 10 unità e la
larghezza 0,5. La sua superficie sarà quella di 5 piccoli quadrati di lato 1.
In altri termini, moltiplicare per 0,5 vuol dire dividere per 2. E il medesimo
principio si applica a tanti altri numeri. Moltiplicare per 0,25 vuol dire
dividere per 4; moltiplicare per 0,1 vuol dire dividere per 10, e così via.
La spiegazione è convincente, la sua conclusione presenta nondimeno
un lato sconcertante: la parola “moltiplicazione” non ha, in matematica,
esaamente lo stesso significato che ha nel linguaggio corrente. Chi, nella
vita di tui i giorni, arriverebbe a credere di aver moltiplicato la superficie
del suo giardino dopo averne venduta la metà? Chi oserebbe pensare che
la sua fortuna si è moltiplicata dopo averne perso il 50%? Con premesse
del genere, la moltiplicazione dei pani diventerebbe un miracolo alla
portata di chiunque: mangiatene la metà e il gioco è fao.
ando le sviluppate per la prima volta, riflessioni del genere vi
solleticano il cervello. Hanno infai qualcosa di deliziosamente fastidioso,
e ci riecheggiano in mente come un gioco di parole particolarmente
riuscito. esto, almeno, è stato l’effeo prodoo da scoperte tanto
curiose sul bambino che ero allora. E la loro stranezza mi è apparsa ancor
più chiaramente quando, molti anni dopo, leggendo un testo del
matematico Henri Poincaré, Scienza e metodo, pubblicato nel 1908, vi ho
trovato la seguente frase: “La matematica è l’arte di dare lo stesso nome a
cose diverse.”
A dire il vero, bisogna ammeere che la frase può, con ogni probabilità,
applicarsi a qualsiasi linguaggio. La parola “fruo”, per esempio, indica
cose differenti come mele, ciliegie o pomodori. E ciascuna di queste parole
raggruppa a sua volta una moltitudine di varietà diverse, le quali
implicheranno delle categorie più piccole, per poco che ci si dedichi a
un’analisi botanica abbastanza meticolosa. Eppure, con ragione, Poincaré
soolinea che nessun linguaggio come quello matematico si spinge tanto
lontano nel processo di raggruppamento. La matematica consente
accostamenti che nessun’altra lingua autorizza. Per i matematici,
moltiplicazione e divisione non sono che un’unica e identica operazione.
Moltiplicare per un numero equivale a dividere per un altro. Tuo dipende
dal punto di vista adoato.
L’invenzione dello zero e dei numeri negativi è ispirata dal medesimo
aeggiamento intelleuale. Per crearli, occorre avere il coraggio di
pensare le cose in contraddizione con la propria stessa lingua. Occorre
raggruppare in una medesima idea concei che il linguaggio traa in
maniera radicalmente diversa. Gli scienziati indiani furono i primi a
imboccare lucidamente una via del genere.
Se vi dico che ho già camminato un certo numero di volte sul pianeta
Marte e che vi ho incontrato un certo numero di volte Brahmagupta in
persona, mi credereste? Probabilmente no. E avreste tue le ragioni,
perché, nella nostra lingua, la frase significa che io ho effeivamente
camminato su Marte e che vi ho incontrato Brahmagupta. Tuavia, in
matematica, basta immaginare che quel numero valga zero per capire che
non ho mentito. La lingua utilizza struure differenti a seconda che una
cosa sia o non sia. Affermazione: “Ho camminato su Marte.” Negazione:
“Non ho camminato su Marte.” La matematica cancella tali differenze e le
raggruppa in un’unica e identica formula. “Ho camminato su Marte un
certo numero di volte.” Laddove il numero può essere zero.
Se pensate che, pochi secoli prima, i greci avevano sì acceato, ma con
fatica, il numero 1, potete immaginare la rivoluzione rappresentata
dall’aribuzione della parola “numero” a qualcosa di assente. Prima degli
indiani, già alcuni popoli avevano coltivato un pensiero del genere, ma
nessuno aveva saputo svilupparlo fino in fondo. I mesopotamici, a partire
dal III secolo a.C., erano stati i primi a inventare lo 0. Fino a quel
momento, il loro sistema di numerazione scriveva allo stesso modo numeri
come 25 e 250. Grazie allo 0, chiamato a indicare un posto vuoto, non era
più possibile alcuna confusione. Tuavia i babilonesi non diedero mai allo
0 lo statuto di numero vero e proprio, e lo scrivevano solo per indicare una
completa mancanza di oggei.
All’altro capo del mondo, anche i maya avevano inventato lo 0. Anzi,
ne inventarono addiriura due! Il primo serviva, come quello dei
babilonesi, solo per indicare con una cifra, nel loro sistema posizionale
basato sul 20, un posto vuoto. Il secondo, invece, era considerato un
numero a tui gli effei, anche se impiegato solo nell’ambito del
calendario. Ogni mese del calendario maya contava venti giorni, numerati
da 0 a 19. Lo 0 è impiegato da solo ma svolge una funzione che non si può
chiamare matematica. I maya, in altri termini, non se ne servirono mai per
effeuare operazioni aritmetiche.
In definitiva, è proprio Brahmagupta il primo ad aver descrio lo zero
in quanto numero, accompagnandolo con una descrizione delle sue
proprietà: togliendo a un qualunque numero lo stesso numero si oiene
zero; addizionando o soraendo zero a un numero, il numero resta
invariato. Si traa di proprietà aritmetiche per noi evidenti, ma il fao che
esse siano anche state chiaramente enunciate da Brahmagupta ci dimostra
come lo zero sia stato definitivamente integrato come numero, con uno
statuto analogo a quello degli altri.
Lo zero apre così la porta ai numeri negativi. Anche se ai matematici
occorrerà molto tempo perché li adoino in via definitiva.
I matematici cinesi furono i primi a descrivere quantità riconducibili a
numeri negativi. Nei commenti ai Nove capitoli, Liu Hui descrive un
sistema di bacchee colorate con le quali si rappresentano quantità
positive o negative. Una bacchea rossa simboleggia un numero positivo,
una bacchea nera simboleggia un numero negativo. E Liu Hui spiega, in
deaglio, come le due specie di numeri interagiscano l’una con l’altra, in
particolare come si addizionino o si soraggano.
La sua descrizione è già molto completa. Gli resta solo da compiere
l’ultimo passo: considerare i positivi e i negativi non come due gruppi
distinti capaci di interagire, bensì come un unico e identico insieme. È
vero che i numeri positivi e negativi non hanno sempre, quando si traa di
fare dei calcoli, le stesse proprietà, ma è altreanto vero che hanno in
primo luogo molti punti in comune che consentono di avvicinarli. È una
situazione paragonabile a quella dei numeri pari e dei numeri dispari, i
quali formano due gruppi distinti con proprietà aritmetiche diverse ma
appartengono in ogni caso alla medesima grande famiglia dei numeri.
Ebbene, una riunificazione del genere, come quella relativa allo zero,
saranno gli scienziati indiani a realizzarla per primi. E sarà sempre
Brahmagupta a offrirne la disamina completa nel suo
Brāhmasphuţasiddhānta. Sulle tracce di Liu Hui, Brahmagupta stabilisce
una lista completa delle regole alle quali sono subordinate le operazioni
con questi nuovi numeri. Tra l’altro, ci familiarizza con alcuni concei
base. La somma di due numeri negativi è negativa. Esempio: (–3) + (–5) =
–8. Il prodoo di un numero positivo e di un numero negativo è negativo.
Esempio: (–3) × 8 = –24. Il prodoo di due numeri negativi è positivo.
Esempio: (–3) × (–8) = 24. Un conceo, quest’ultimo, che può sembrare
controintuitivo e che infai risulterà uno dei più difficili da acceare.
Ancora oggi, esso rappresenta una trappola ben nota, un’insidia temuta
dagli studenti del mondo intero.
11
Stendhal, Vita di Henry Brulard, trad. it. di M. Zini, Einaudi, Torino 1976, p. 281. (N.d.T.)
8. La forza dei triangoli
I MOSAICI DELL’ALHAMBRA
Mentre all’interno del Bayt al-Ḥikma le grandi menti scrivono la storia
della matematica, nelle strade di Baghdad e delle cià arabe continua
un’altra storia. L’islam bandisce per principio la rappresentazione di
esseri umani o di animali nelle moschee e in altri luoghi religiosi. Così,
per ovviare al divieto, gli artisti musulmani daranno prova di una
creatività stupefacente nell’elaborazione di motivi geometrici
decorativi.
Ricordate i primi artigiani sedentari della Mesopotamia che creavano
motivi grafici per decorare il loro vasellame? E che scoprirono, senza
saperlo, le see possibili categorie dei fregi? Ora, se il fregio è una
figura che si ripete secondo una direzione, è anche pensabile che si
ripeta secondo due direzioni, per ricoprire superfici intere. È quello che
si chiama mosaico. Le strade di Baghdad e delle cià musulmane si
adorneranno poco per volta di questa geometria sfavillante, la quale
diventerà uno dei marchi di fabbrica dell’arte islamica.
Alcune decorazioni sono abbastanza semplici.
Altre sono più complesse.
Ciascuna delle tre equazioni raggruppa già, nella sua formulazione, una
quantità di problemi concreti diversi l’uno dall’altro. Ma, ancora una volta,
si comprende che la loro soluzione deriverà dall’impiego dell’identico
metodo. In tui e tre i casi, si trova cioè la soluzione dividendo il secondo
numero per il primo: per la prima, 30 ÷ 5 = 6; per la seconda, 16 ÷ 2 = 8;
per la terza, 60 ÷ 3 = 20. Il metodo di risoluzione è dunque indipendente
non soltanto dal problema concreto ma anche dai numeri che
intervengono nel problema stesso.
Tanto che diventa possibile formulare le tre equazioni in maniera
ancora più astraa:
Si cerchi un numero che, moltiplicato per una data quantità 1, dia una
quantità 2.
Infine, aggiunge dai due lati dell’uguaglianza un pezzo che abbia una
superficie di 25, così da ricostituire un quadrato da entrambi i lati.
1. una coppia di conigli non ha l’età per riprodursi nei suoi primi due
mesi;
2. a partire dal suo terzo mese, una coppia dà alla luce una nuova
coppia ogni mese.
Sulla base delle due ipotesi, è possibile prefigurare l’albero genealogico
di una giovane coppia di conigli.
Possiamo ora esaminare la successione formata dal numero di coppie
nel corso del tempo. Osservando colonna per colonna, l’albero sopra
raffigurato ci dà i valori dei sei primi mesi: 1, 1, 2, 3, 5, 8…
Fibonacci rilevò che ogni mese la popolazione dei conigli era uguale
alla somma dei due mesi precedenti: 1 + 1 = 2; 1 + 2 = 3; 2 + 3 = 5; 3 + 5 =
8… e via di seguito. La regola si spiega così. Ogni mese, il numero di
coppie che nascono, e dunque si aggiungono ai conigli già presenti, è
uguale al numero di coppie in età di procreare del mese precedente, ossia
al numero di coppie che erano già nate due mesi prima. Per cui è ora
possibile calcolare i termini della sequenza senza dover deagliare in
maniera precisa la genealogia dei conigli:
Ciascuna linea raffigura l’evoluzione di una coppia di conigli nel corso del
tempo. Le frecce indicano le nascite.
IL NUMERO AUREO
Tra le altre curiosità, la successione di Fibonacci rivelerà altresì un
legame molto profondo con un numero noto fin dall’Antichità: il
numero aureo. Il suo valore è approssimativamente uguale a 1,618, e i
greci lo consideravano una proporzione perfea. Come il numero π,
anche il numero aureo ha una scriura decimale infinita. Ecco perché
gli si dà un nome, φ, leera greca da leggersi, in italiano, “fi”.
Il numero aureo si declina in molte varianti geometriche. Un reangolo
aureo è un reangolo la cui lunghezza è φ volte maggiore della
larghezza. Le proprietà del numero aureo fanno sì che, lungo la
larghezza del reangolo aureo, si possa ritagliare un quadrato, e che il
piccolo reangolo restante continui a essere un reangolo aureo.
Per trovare il valore del coseno, basta sostituire “angolo” con la misura
dell’angolo in questione.15 Formule analoghe esistono anche per i seni, le
tangenti e per tua una serie di altri numeri particolari, che sono comparsi
in differenti contesti.
Oggi, le sequenze continuano ad avere un gran numero di applicazioni.
Sulle orme di Fibonacci, esse vengono regolarmente impiegate, in materia
di dinamica delle popolazioni, per studiare l’evoluzione delle specie
animali nel corso del tempo. E gli auali modelli sono molto più precisi,
poiché tengono conto di una quantità di parametri, come la mortalità, i
predatori, il clima o, più in generale, la variabilità degli ecosistemi nei
quali gli animali vivono. Ancora più in generale, le sequenze intervengono
nella modellizzazione di qualunque processo evolva tappa per tappa nel
corso del tempo. Informatica, statistica, economia o anche meteorologia
sono tue discipline che fanno appello al sistema sequenziale.
Nella formula, √5 indica la radice quadrata del numero 5, vale a dire il numero positivo il cui
13
Ecco! La vostra teoria è pronta, ora non resta che studiarla. Osservando
la seconda riga e la quarta colonna, potete per esempio vedere che,
bombellizzando ♦ per ♠, si oiene . Deo altrimenti, ♦ ♠ = . E, in
base alla teoria che avere or ora istituito, potete anche risolvere
equazioni. Eccone una:
16
Il termine “algebra” indica sia l’intera disciplina sia un tipo particolare di struura algebrica.
12. Un linguaggio per la matematica
Un testo del genere è oggi molto fastidioso da leggere, anche per gli
studenti che padroneggiano perfeamente il metodo in questione. La sua
soluzione prevede due soluzioni: 9 e 49.
L’algebra retorica, come verrà chiamata più tardi, è non solo molto
lunga da trascrivere, ma anche soggea ad alcune ambiguità connaturate
alla lingua, le quali possono offrire, dell’identica frase, più interpretazioni.
Con il progressivo complicarsi dei ragionamenti e delle dimostrazioni, un
tale metodo di scriura si rivelerà, a mano a mano, terribile da
maneggiare.
E a simili difficoltà si aggiungono talvolta quelle che i matematici si
procurano da soli. Per esempio, esistono matematiche scrie in versi. Si
traa certo di un fenomeno residuo di una tradizione orale nella quale
l’apprendimento a memoria risultava agevolato dalla forma poetica. In
ogni caso, quando Tartaglia trasmee il suo metodo di risoluzione delle
equazioni di terzo grado a Cardano, lo scrive in italiano e in alessandrini!
Per cui la dimostrazione perde, in chiarezza, quel che guadagna in poesia.
Al punto da far legiimamente sospeare che Tartaglia, del quale abbiamo
conosciuto le resistenze alla divulgazione della prova, abbia voluto
confonderne i termini di proposito. Eccone un estrao.
Piuosto oscuro, vero? ella che Tartaglia chiama “la cosa” è proprio
il numero cercato, l’incognita. E la presenza dei cubi nel testo segnala che
abbiamo a che fare con un’equazione di terzo grado. Lo stesso Cardano,
una volta in possesso della poesia, incontrerà enormi difficoltà a decifrarla.
Per fronteggiare la crescente complessità, i matematici si disporranno,
un po’ alla volta, a semplificare il linguaggio algebrico. Il processo ha
inizio nell’Occidente musulmano, negli ultimi secoli del Medioevo, ma è
soprauo in Europa, tra i secoli XV e XVI, che il movimento dispiegherà
tua la sua ampiezza.
In un primo tempo, fanno la loro comparsa nuovi termini specifici della
matematica. Per esempio, il matematico gallese Robert Recorde propone, a
metà del XVI secolo, una nomenclatura relativa a determinate potenze
dell’incognita basata su un sistema di prefissi, in modo da moltiplicare le
potenze per il numero desiderato. Il quadrato dell’incognita viene così
chiamato zenzike, la sua sesta potenza zenzicubike e la sua oava potenza
zenzizenzizenzike.
In un secondo tempo fioriscono uno dopo l’altro, un po’ ovunque e in
ordine sparso, simboli completamente nuovi, che oggi ci sembrano
peraltro familiari.
Verso il 1460 il tedesco Johannes Widmann è il primo a usare i segni +
e – per indicare l’addizione e la sorazione. All’inizio del XVI secolo,
Tartaglia, che ben conosciamo, introduce nei calcoli le parentesi ( ). Nel
1557 ancora Robert Recorde impiega per primo il segno = per indicare
l’uguaglianza. Nel 1608 l’olandese Rudolph Snellius usa la virgola per
separare la parte intera dalla parte decimale di un numero. Nel 1621
l’inglese omas Harriot introduce i segni < e > per indicare l’inferiorità o
la superiorità di un numero rispeo ad un altro.
Nel 1631 l’inglese William Oughtred usa la croce × per indicare la
moltiplicazione e, nel 1647, è il primo ad adoperare la leera greca π per
indicare il famoso rapporto di Archimede. Nel 1659 il tedesco Johann Rahn
introduce l’obelo ÷ per indicare la divisione. Nel 1525 il tedesco Christoph
Rudolff indica la radice quadrata con il segno √, al quale il francese
Cartesio, nel 1647, aggiunge una barra orizzontale: √.
Il tuo non avviene certo in maniera lineare e ordinata. In questo
periodo, nascono e muoiono moltissimi altri simboli. Alcuni di essi
vengono utilizzati una sola volta. Altri si sviluppano in parallelo e si fanno
concorrenza. Tra il primo impiego di un segno e la sua adozione definitiva
da parte dell’insieme della comunità matematica trascorrono, a volte,
parecchie decine di anni. Per esempio, un secolo dopo la loro introduzione,
i segni + e – non erano sempre pienamente adoati, e molti matematici
utilizzavano ancora, per indicare l’addizione e la sorazione, le leere P e
M, cioè le iniziali delle parole latine plus e minus.
E il nostro Viète, in tuo questo? Il matematico francese sarà uno dei
catalizzatori dell’ampio movimento in ao. Nell’Isagoge lancia un vasto
programma di modernizzazione dell’algebra e ne offre addiriura la chiave
di volta, introducendo il calcolo leerale, ossia il calcolo condoo con le
leere dell’alfabeto. La sua proposta è semplice quanto scioccante:
chiamare le incognite delle equazioni con le vocali e i numeri noti con le
consonanti.
Una tale ripartizione tra vocali e consonanti verrà rapidamente
abbandonata in favore di un diverso suggerimento di Cartesio, ma la parte
alfabetica resta invariata: le prime leere dell’alfabeto (a, b, c…)
indicheranno le quantità note, e le ultime leere (x, y, z) indicheranno le
incognite. È una convenzione ancora oggi usata dalla maggior parte dei
matematici, e la leera x è diventata simbolo non solo di incognita ma di
mistero in senso generale anche nel linguaggio corrente.
Per comprendere a fondo come l’algebra esca trasformata dal nuovo
linguaggio, si faccia di nuovo riferimento alla seguente equazione:
Si cerchi un numero che, moltiplicato per una data quantità 1, dia una
quantità 2.
Ebbene. L’equazione, a questo punto, avrà la seguente grafica: a × x = b.
Essendo i numeri a e b desunti dall’inizio dell’alfabeto, sappiamo che si
traa di quantità note, da cui partire per cercare di calcolare x. E, come s’è
visto, le equazioni di questo tipo si risolvono dividendo la seconda
quantità nota per la prima. In altri termini: x = b ÷ a.
Al che, i matematici si meono a compilare elenchi di casi e a stabilire
le norme di manipolazione delle equazioni leerali. L’algebra si trasforma
a poco a poco in una forma di gioco, in cui le mosse sono autorizzate in
base alle suddee regole di calcolo. Esempio. Riprendiamo la soluzione
della nostra equazione. Passando da a × x = b a x = b ÷ a, la leera a è
passata da sinistra a destra del segno =, e la sua operazione si è
trasformata da moltiplicazione in divisione. Siamo dunque in presenza di
una norma legiima: ogni quantità moltiplicata può passare dall’altro lato
dell’uguaglianza diventando oggeo di divisione. Regole analoghe
permeono di traare le addizioni e le sorazioni o di trasformare le
potenze. L’obieivo del gioco rimane il medesimo: portare alla luce il
valore dell’incognita x.
Il gioco dei simboli si mostra talmente efficace da emancipare ben
presto l’algebra dal rapporto con la geometria. Non occorre più
interpretare le moltiplicazioni come reangoli, né eseguire dimostrazioni
in forma di puzzle. Le sostituiscono le x, le y e le z! Non solo. La fulminea
efficacia del calcolo leerale finirà per rovesciare il precedente rapporto di
forza e, a breve, per rendere la geometria subalterna alle dimostrazioni
algebriche.
Del rovesciamento il primo responsabile è Cartesio, il quale introduce
un modo semplice ed efficace per algebrizzare i problemi di geometria
usando un sistema di assi e di coordinate.
COORDINATE CARTESIANE
L’idea di Cartesio è elementare quanto geniale: fissare nel piano due
ree graduate, una orizzontale e l’altra verticale, al fine di reperire ogni
punto geometrico tramite le sue coordinate seguendo i due assi.
Osserviamo per esempio, nella figura che segue, il punto A.
Il punto A si trova al livello della graduazione 2 dell’asse orizzontale e
della graduazione 4 dell’asse verticale. Le sue coordinate sono dunque 2
e 4. Procedendo in questo modo, diventa possibile rappresentare ogni
punto geometrico con due numeri e, inversamente, associare un punto
a ciascuna coppia di numeri.
Il passo, tra i più famosi della storia della scienza, è stato scrio nel
1623 da Galileo Galilei in persona, nell’opera intitolata Il Saggiatore.
Galileo è incontestabilmente uno degli scienziati più prolifici e
innovatori di tui i tempi, in genere considerato il fondatore delle scienze
fisiche moderne. E va subito deo che il suo CV è a dir poco
impressionante. Inventore del cannocchiale astronomico. Scopritore degli
anelli di Saturno, delle macchie solari, delle fasi di Venere e dei quaro
principali satelliti di Giove. È stato uno dei difensori più influenti
dell’eliocentrismo di Copernico. Ha enunciato il principio di relatività del
movimento che porta oggi il suo nome. Ed è stato il primo a studiare,
sperimentalmente, la caduta dei corpi.
Il Saggiatore reca la testimonianza del legame molto forte intessuto,
all’epoca, tra matematica e scienze fisiche. Galileo è uno dei primi
scienziati ad avvalorare questo vincolo. E va deo che ha avuto, in tal
senso, validi maestri – a soli 19 anni, infai, è stato iniziato alla
matematica da Ostilio Ricci, uno degli allievi di Tartaglia – e validi
successori, generazioni di scienziati per i quali l’algebra e la geometria
diverranno ineluabilmente la lingua nella quale si esprime il mondo.
Sulla natura del nascente rapporto tra matematica e fisica è bene essere
molto chiari. È vero, infai, che ne abbiamo avuto molte volte
testimonianza fin dall’inizio della nostra storia, prove inconfutabili che la
matematica è stata sempre utilizzata per studiare e comprendere il mondo,
ma quanto si va producendo nel XVII secolo comporta qualcosa di
radicalmente nuovo. Fin qui le modellizzazioni matematiche si erano
mantenute sul piano delle costruzioni umane, ricavate ma non create dal
reale. ando gli agrimensori mesopotamici impiegavano la geometria per
misurare un campo reangolare, il rilevamento era comunque effeuato
da esseri umani. Il reangolo, prima che l’agricoltore ne faccia oggeo di
misura, non appartiene alla natura. In ugual modo, quando i geografi
triangolano una regione per ricavarne una carta topografica, i triangoli da
essi considerati sono meramente artificiali.
Voler matematizzare il mondo preesistente all’uomo rappresenta
tu’altra sfida! Sì, nell’Antichità, alcuni sapienti si erano fai carico di un
tale progeo. Per esempio Platone. Il quale, come ricorderete, aveva
associato i cinque poliedri regolari ai quaro elementi e al Cosmo. E gli
stessi pitagorici non disdegnavano affao questo genere d’interpretazione.
Ma non possiamo non ammeere che le loro teorie, nella maggior parte
dei casi, non avevano nulla di rigoroso. Costruite su considerazioni
puramente metafisiche, prive di qualsiasi sperimentazione pratica, la quasi
totalità di esse si è rivelata infine falsa.
Gli scienziati del XVII secolo verificheranno invece che la natura in sé,
nel suo più intimo funzionamento, è regolata da leggi matematiche
precise, che è possibile meere in luce grazie a una quantità di esperienze.
Una delle scoperte più straordinarie del tempo è sicuramente quella della
legge della gravitazione universale, a opera di Isaac Newton.
In Philosophiae naturalis principia mathematica, “Principi matematici
della filosofia naturale”, lo scienziato inglese è il primo a comprendere che
la caduta dei corpi sulla Terra e la rotazione degli astri nel cielo sono
spiegabili in base a un unico e identico fenomeno. Tui gli oggei
dell’Universo si araggono gli uni con gli altri. La forza di arazione è
quasi irrisoria per i piccoli oggei, ma diventa significativa quando si
traa di pianeti o di stelle. La Terra arae gli oggei, ed è la ragione per la
quale gli oggei cadono. La Terra arae, in ugual modo, la Luna, per cui si
può dire, in un certo senso, che la Luna cada a sua volta. Ma, poiché la
Terra è rotonda e la Luna è lanciata alla massima velocità, quest’ultima
cade permanendo a fianco della Terra, il che la fa girare in tondo! È lo
stesso principio per il quale i pianeti orbitano aorno al Sole.
Newton non si limita a enunciare la legge dell’arazione universale.
Precisa altresì l’intensità della forza con la quale gli oggei si araggono.
E lo fa con una formula matematica. Due corpi qualsiasi si araggono con
una forza proporzionale al prodoo delle loro masse diviso per il quadrato
della loro distanza. Il che, in virtù del calcolo leerale di Viète, si trascrive
nel seguente modo:
CRISTALLOGRAFIA
La matematizzazione del mondo incide anche sulla chimica, una
disciplina che sta per farci incontrare alcune vecchie conoscenze.
All’inizio del XIX secolo, il mineralogista francese René-Just Haüy,
facendo cadere un blocco di calcite, constata che esso si spacca in una
quantità di frammenti che hanno tui la medesima struura
geometrica. I pezzi non hanno nulla di casuale, hanno facce piane che
formano angoli ben precisi gli uni con gli altri. Haüy ne ricava il
paradigma seguente: perché si verifichi un fenomeno del genere, il
blocco di calcite deve essere costituito da una quantità di elementi
simili, i quali si assemblano gli uni con gli altri in modo perfeamente
regolare. Un solido che possiede una tale proprietà si chiama cristallo.
In altri termini, un cristallo osservato su scala microscopica consiste in
una struura ricorrente: un motivo composto da più atomi o molecole
che si ripetono in maniera identica in tue le direzioni.
Un motivo che si ripete? Non vi ricorda niente? Il principio somiglia
incredibilmente a quello dei fregi mesopotamici e dei mosaici arabi. Un
fregio presenta un motivo che si ripete secondo una direzione, e un
mosaico secondo due direzioni. Per studiare un cristallo occorre
dunque riprendere i medesimi principi. Stavolta, però, nello spazio a tre
dimensioni. Gli artigiani mesopotamici avevano scoperto le see
categorie di fregi e gli artisti arabi le diciassee categorie di mosaici.
Ora, grazie alle struure algebriche, è possibile dimostrare che i numeri
sono oimali: non ne manca nessuno. Le stesse struure algebriche
hanno consentito di stabilire che esistono 230 categorie di mosaici in
3D. Tra le più semplici, i mosaici con cubi, prismi esagonali o oaedri
tronchi,18 come quelli raffigurati qui soo.
17
G. Galilei, Il Saggiatore, a cura di L. Sosio, Feltrinelli, Milano 1992, p. 38.
18
L’oaedro è uno dei cinque solidi di Platone già incontrati. L’oaedro tronco si oiene
tagliando le punte dell’oaedro come si fa con quelle dell’icosaedro per oenere l’icosaedro tronco
(vedi il pallone da calcio).
14. L’infinitamente piccolo
Oggi, al CMI, è il mio ultimo giorno. esto pomeriggio, alle 14, sosterrò
la mia tesi di doorato.
Gli anni dedicati alla tesi costituiscono un periodo atipico nella vita di
un doore in matematica. Sempre concentrato sul suo lavoro, il doorando
non deve più seguire lezioni né dare esami trimestrali. E le sue giornate
somigliano molto di più a quelle dei ricercatori a tempo pieno. Leggere gli
ultimi articoli pubblicati, discutere con altri matematici, partecipare a
seminari, adoperarsi a sviluppare il proprio seore d’indagine, a formulare
congeure, a modellare nuovi teoremi, a dimostrarli e a trascriverli. Il tuo
soo il tutoraggio di un matematico esperto incaricato di guidare i suoi
primi passi nel mondo della ricerca e di insegnargli a usare i ferri del
mestiere. Per quanto mi riguarda, la direrice di tesi è la matematica
franco-croata Vlada Limic, specialista dell’argomento su cui ho condoo le
ricerche nel corso dei quaro anni. I suoi lavori e i miei si inseriscono in un
ramo della matematica che ha visto la luce alla metà del XVII secolo: il
calcolo delle probabilità.
Per comprendere gli obieivi della disciplina, è indispensabile calarsi
un’altra volta nelle profondità della Storia. Per cui, in aesa delle 14, uscite
insieme a me dal CMI per qualche ora e lasciatevi guidare lungo i sentieri
avventurosi dell’aleatorio.
Il caso affascina gli uomini da moltissimi secoli. Fin dalla preistoria, essi
hanno osservato la quantità di fenomeni inspiegabili, irregolari, privi di
cause apparenti, che la natura offriva loro. In un primo tempo, in assenza di
altre spiegazioni, tuo venne aribuito agli dei. Eclissi, arcobaleni,
terremoti, epidemie, esondazioni dei fiumi o comete: tue manifestazioni
interpretate come messaggi indirizzati dalle divinità a chi sarebbe stato in
grado di decifrarli. Un compito che venne affidato a stregoni, oracoli,
sacerdoti o sciamani, i quali, dal momento che bisognava pur guadagnarsi
da vivere, svilupparono in frea e furia un’intera panoplia di liturgie
destinate a interpellare un pantheon di divinità che, con tua evidenza,
disdegnavano di manifestarsi direamente. In altri termini, gli uomini si
misero a studiare certe modalità per creare l’aleatorio su richiesta.
La belomanzia, o arte della divinazione mediante frecce, è, in tal senso,
una delle testimonianze più antiche. Scrivete su alcune frecce le varie
opzioni del questionario a scelta multipla da indirizzare alla vostra divinità,
introducetele nella faretra, scuotete il tuo e lanciatene una a caso: ecco la
risposta. Esempio. Seguendo questa linea di pensiero, Nabucodonosor II, re
di Babilonia, nel VI secolo a.C. sceglieva i nemici ai quali dichiarare guerra.
Oltre alle frecce, gli oggei lanciati potevano assumere varie forme:
ciooli, tavolee, bacchee o sfere colorate. I romani diedero loro il nome
di sors. Da cui l’espressione “tirare a sorte”, ma anche la parola “sortilegio”,
che indica sia il divinatore che interroga gli dei sia il verdeo del dio
medesimo.
A poco a poco, le dinamiche del tiro casuale cresceranno di numero e
troveranno svariate applicazioni. Le adoarono, per esempio, vari sistemi
politici. Ad Atene, per designare i cinquecento ciadini chiamati a
comporre la bulè. A Venezia, molti secoli dopo, per procedere alla
designazione del doge. Il caso si rivelerà inoltre una grande fonte
d’ispirazione per i creatori di giochi. Vedi l’invenzione del “testa o croce”,
dei dadi numerati – desunti dai solidi di Platone – o dei giochi con le carte.
E fu proprio l’interpretazione delle decisioni divine tramite modelli
ispirati alla sorte ad airare l’aenzione di certi matematici. Ai quali verrà
la strana idea di imitare i divinatori studiando, nel loro caso tramite la
logica e il calcolo, le proprietà del futuro prima che si manifesti.
Tuo ha inizio a metà del XVII secolo, durante una riunione
dell’Académie parisienne, antesignana dell’Académie des sciences, fondata
nel 1635 dal matematico e filosofo Marin Mersenne. Nel corso di una
discussione tra doi di diverso orientamento, lo scriore Antoine
Gombaud, nel tempo libero cultore dileante di matematica,21 soopone
all’assemblea un problema che gli si è presentato. Immaginate, annuncia,
che due giocatori abbiano impegnato una certa somma di denaro in una
partita di un gioco d’azzardo in più manches: vincerà chi ne avrà vinte tre.
La partita però s’interrompe nel momento in cui uno dei due giocatori,
dopo essersi portato in vantaggio di due a uno, lascia il tavolo da gioco.
Come dovranno dividersi i due il denaro della vincita?
Tra gli uomini di scienza presenti quel giorno presso l’Académie
parisienne, il problema aira, in modo particolare, l’aenzione di due
matematici francesi: Pierre de Fermat e Blaise Pascal. Dopo vari scambi
epistolari, i due finiscono per concludere, in pieno accordo, che i tre quarti
della posta in gioco speano al primo giocatore e il quarto restante al
secondo.
Per maturare una tale risposta, Fermat e Pascal compilarono la lista
completa degli scenari prevedibili qualora la partita non fosse stata
interroa, valutando così le possibilità di ciascuno di verificarsi. Per
esempio, nell’ipotetica manche successiva, il primo giocatore avrebbe avuto
il 50% delle possibilità di vioria, mentre il secondo avrebbe avuto il 50%
delle possibilità di pareggiare le sorti della partita. Nella quale eventualità
si sarebbe giocata una nuova manche con pari opportunità di vioria per
ciascuno dei due. Il che dava luogo a due scenari aventi ciascuno il 25% di
opportunità di concretizzarsi. Il ragionamento può tradursi con il seguente
grafico, il quale riassume i differenti possibili esiti della partita.
IL TRIANGOLO DI PASCAL
Nel 1654 Blaise Pascal pubblica un’opera intitolata Traité du triangle
arithmétique (“Traato sul triangolo aritmetico”) dove viene descrio un
triangolo composto da caselle all’interno delle quali sono inscrii dei
numeri.
Di esso sono qui raffigurate solo le prime see righe, traandosi di un
triangolo che può prolungarsi all’infinito. I numeri che si trovano nelle
caselle sono determinati da due regole. La prima. Le caselle che si
trovano sui bordi contengono esclusivamente 1. La seconda. Le caselle
interne contengono la somma dei numeri contenuti nelle due caselle che
si trovano sulla riga immediatamente superiore. Per esempio, il numero
6, che si trova sulla quinta riga, è pari alla somma dei due numeri 3 che
si trovano immediatamente sopra di esso.
A dire il vero, il triangolo era già noto molto prima che Pascal lo
disegnasse. I matematici persiani al-Karaji e Omar Khayyam ne
parlavano già nell’XI secolo. Nello stesso periodo fu studiato in Cina da
Jia Xian, i cui lavori sarebbero stati proseguiti da Yang Hui nel XIII
secolo. E, in Europa, ne ebbero conoscenza anche Tartaglia e Viète.
Tuavia, Pascal è il primo a dedicarvi un traato tanto deagliato e
completo e a scoprire l’esistenza di un nesso tra il triangolo e il calcolo
delle possibilità future in probabilità.
Ogni riga del triangolo di Pascal consente infai di elencare il numero di
scenari possibili di una sequenza di eventi con un doppio esito, come a
testa o croce. Se lanciate una moneta tre volte di seguito, esistono oo
futuri possibili: testa-testa-testa, testa-testa-croce, testa-croce-testa,
testa-croce-croce, croce-testa-testa, croce-testa-croce, croce-croce-testa,
croce-croce-croce. Fao il conto, ne discendono oo futuri:
• 1 scenario dà tre teste;
• 3 scenari danno due teste e una croce;
• 3 scenari danno una testa e due croci;
• 1 scenario dà tre croci.
Ora, questa sequenza di numeri, 1-3-3-1, corrisponde esaamente alla
quarta riga del triangolo. E non si traa di un caso. In ciò consiste, per
l’appunto, la dimostrazione di Pascal.
Osservando la sesta riga, è possibile per esempio vedere che, lanciando
cinque volte una moneta, esistono 10 scenari che danno 2 teste e 3 croci.
Procedendo nell’esame del triangolo, diventa possibile enumerare
facilmente gli scenari risultanti da dieci lanci di una moneta: sono
inscrii sull’undicesima riga. Il risultato di cento lanci sarà dato dalla
centunesima riga, e così via. È stato possibile disegnare gli istogrammi
di cui sopra proprio in virtù del triangolo di Pascal. Diversamente, il
numero degli esiti futuri si fa così incredibilmente grande che diventa
ben presto impossibile elencarli tui uno per uno.
A parte il calcolo delle probabilità, il triangolo di Pascal rivelerà molti
legami con altri campi della matematica. I numeri in esso inscrii sono
per esempio di grande utilità nelle manipolazioni algebriche che
permeono di risolvere determinate equazioni. Ed è anche possibile
trovare nelle sue caselle numerose sequenze di numeri a noi note come i
numeri triangolari (1, 3, 6, 10…), su una delle diagonali, o la successione
di Fibonacci (1, 1, 2, 3, 5, 8…), sommando i termini disposti lungo le ree
parallele inclinate.
La sequenza dei numeri triangolari nel triangolo di Pascal
20
L’unica che ho, in realtà.
21
Nonché giocatore d’azzardo. (N.d.T.)
16. L’avvento delle macchine
La stazione della metro Arts et Métiers è una delle più strane di Parigi. Il
viaggiatore che vi scende si trova come inghioito all’improvviso nel
ventre di rame di un gigantesco soomarino. Dal soffio pendono grandi
ingranaggi rossastri e sui lati sono disposti una decina di oblò. Guardateci
dentro e scoprirete curiose rappresentazioni di varie invenzioni, antiche o
insolite. Ingranaggi elliici, un astrolabio sferico e ruote idrauliche
affiancano un dirigibile o un convertitore siderurgico. Se non
imperversasse il flusso perpetuo dei parigini freolosi, che s’infilano ed
emergono di continuo dai corridoi soerranei, quasi non ci si stupirebbe di
vedersi comparire davanti la figura imponente del capitano Nemo, uscito
drio drio dal romanzo di Jules Verne.
Ma la scenografia della metro non è che un assaggio di quanto ci
aende in superficie. Oggi mi sto recando al CNAM, il Conservatoire
national des arts et métiers, il cui museo espone una delle più importanti
collezioni di macchine antiche di tui i generi. Dalle prime veure a
motore ai telegrafi a quadrante, dai manometri a pistone agli orologi
olandesi automatici, dalle pile a colonna ai telai a schede perforate, dai
torchi tipografici a vite ai barometri a sifone, tue queste invenzioni
riesumate dal passato mi fanno in qualche modo presagire il turbinoso
arsenale tecnologico degli ultimi quaro secoli. Mi vedo così venire
incontro, sospeso in alto al centro della grande scalinata, un aeroplano del
XIX secolo somigliante a un gigantesco pipistrello. Oppure svicolo da un
corridoio e mi trovo faccia a faccia con il Lama, il primo robot ideato dagli
scienziati russi del XX secolo per rotolare sulla superficie del pianeta
Marte.
Passo rapidamente davanti a tui questi oggei favolosi e salgo
direamente al secondo piano. È lì che si trova la galleria degli strumenti
scientifici. Ecco i cannocchiali astronomici, le clessidre, le bussole, le
bilance di Roberval, termometri giganteschi e sublimi globi astronomici
rotanti sul loro asse! Poi, d’un trao, nell’angolo di una vetrina, scorgo la
macchina che bramavo vedere: la pascalina. Una macchina curiosa che si
presenta come un cofaneo d’oone lungo 40 centimetri e largo 20, sulla
cui superficie sono fissate sei ruote numerate. È il meccanismo ideato nel
1642 da un Blaise Pascal appena diciannovenne: ho davanti a me la prima
macchina calcolatrice della storia.
La prima? A dire il vero, ben prima del XVII secolo, esistevano già
dispositivi che consentivano di fare calcoli. In un certo senso, la prima
calcolatrice di tui tempi sono state le dita stesse, e l’Homo sapiens ha ben
presto utilizzato, per contare, diversi accessori. L’osso d’Ishango con i suoi
tagli, i geoni di argilla di Uruk, i bastoncini degli antichi cinesi, o anche i
palloolieri, in auge fin dall’Antichità: tui strumenti che sono serviti da
supporto alla numerazione e al calcolo. Anche se nessuno di essi rientra
nella definizione che in genere si dà di macchina calcolatrice.
Per capirlo, prendiamoci un momento per deagliare il funzionamento
di un pallooliere classico. L’oggeo si compone di più aste, sulle quali
scorrono delle palline forate. La prima asta corrisponde alle unità, la
seconda alle decine, la terza alle centinaia, e così via. Per cui, se si vuole
riprodurre il numero 23, si spingono due palline verso l’alto lungo la
colonna delle decine e tre lungo la colonna delle unità. E se si vuole
aggiungere 45, si spingono quaro decine e cinque unità supplementari, il
che dà come risultato 68.
Se invece l’addizione ha un riporto, occorre procedere a una piccola
manipolazione supplementare. Se si vuole aggiungere 5 a 68, resta, lungo
l’asta delle unità, solo una pallina disponibile. Nel qual caso, una volta
arrivati a 9, si devono far ridiscendere tue le palline per proseguire il
conto delle unità a partire da 0, aggiungendo una pallina di riporto lungo
la colonna delle decine. In questo modo si oiene 73.
La manipolazione non è molto complicata, ma è proprio il tipo
d’intervento che impedisce al pallooliere, e a tui i meccanismi che
precedono la pascalina, di chiamarsi macchine calcolatrici. Per effeuare
un’identica operazione, non si compie lo stesso gesto se bisogna tenere
conto di un riporto oppure no. Cosicché lo strumento è, in realtà, solo un
promemoria che ricorda a chi la usa a che punto è, ma che gli lascia
sempre il compito di eseguire a mano le varie operazioni di calcolo.
ando invece si fa un’addizione su una moderna calcolatrice, non ci si
preoccupa assolutamente del modo in cui la macchina oiene il risultato.
Possono esserci o non esserci dei riporti, non è affar vostro! Non c’è più
bisogno di rifleere o di adeguarsi alla situazione, è l’apparecchio che si
occupa di tuo.
Secondo un criterio del genere, la pascalina è dunque la prima
calcolatrice della storia. E il suo principio di funzionamento, sebbene il
meccanismo sia estremamente preciso e richieda al costruore una grande
abilità, resta piuosto semplice. In cima alla macchina si trovano sei ruote
con dieci tacche numerate.
Il cielo è grigio e sui tei di Zurigo risuona il rumore della pioggia. Che
tempo triste in piena estate! Il treno non dovrebbe tardare.
È l’8 agosto 1897 e, al binario della stazione, un uomo pensieroso
aende l’arrivo dei suoi invitati. Adolf Hurwitz è un matematico. Tedesco
di origine, si è trasferito da cinque anni a Zurigo, dove occupa la caedra
di matematica del Politecnico federale. E, da accademico, ha svolto un
ruolo importante nell’organizzazione dell’evento che si terrà nei prossimi
tre giorni. Dal treno in arrivo scenderà una rappresentanza dei maggiori
scienziati del mondo, provenienti da sedici paesi diversi. Domani si aprirà
il primo Congresso internazionale dei matematici.
I due promotori del congresso sono i tedeschi Georg Cantor e Felix
Klein. Il primo è divenuto celebre scoprendo che esistono degli infiniti più
grandi di altri e creando la teoria degli insiemi per manipolarli senza
correre il rischio di cadere nei paradossi. Il secondo è uno specialista delle
struure algebriche. Anche se, per ragioni diplomatiche, come paese di
accoglienza per questo primo congresso è stata scelta la Svizzera, non deve
sorprendere che l’iniziativa sia partita dalla Germania. Nel corso del XIX
secolo, il paese ha saputo imporsi come il nuovo Eldorado della
matematica. Göingen e la sua prestigiosa università ne sono il centro
nevralgico, il punto d’incontro delle menti più brillanti della disciplina.
Tra i duecento partecipanti al congresso, sono presenti anche alcuni
italiani, come Giuseppe Peano, noto per aver definito i moderni assiomi
dell’aritmetica, alcuni russi, come Andrej Markov, i cui lavori hanno
rivoluzionato lo studio della probabilità, e alcuni francesi, come Henri
Poincaré,23 scopritore, tra l’altro, della teoria del caos e di quello che verrà
chiamato in seguito “effeo farfalla”. Nell’arco dei tre giorni del congresso,
tuo questo bel mondo potrà discutere e scambiarsi idee, nonché creare
contai tra le rispeive sfere di ricerca.
In questa fine di XIX secolo il mondo matematico è in piena
metamorfosi. L’espansione, sia geografica sia intelleuale, della disciplina
crea inevitabili distanze tra gli scienziati. E la matematica sta diventando
troppo vasta perché un solo individuo possa abbracciarne l’intera
estensione. Henri Poincaré, relatore del discorso d’apertura del congresso,
viene a volte considerato l’ultimo grande scienziato universale, in grado di
padroneggiare tue le matematiche dell’epoca e artefice di progressi
importanti in gran parte di esse. È proprio con Poincaré, infai, che
tramonta la categoria dei matematici “generalisti”, per lasciare il posto a
quella degli specialisti.
Con ciò, come per reagire a una tale inesorabile deriva dei continenti
matematici, i ricercatori si adopereranno sempre di più per aumentare le
occasioni d’incontro, per lavorare insieme e fare della disciplina un blocco
unico e indivisibile. È sul filo tra questi due impulsi contraddiori che la
matematica entra nel XX secolo.
Il secondo Congresso internazionale dei matematici si svolgerà a Parigi
nell’agosto del 1900. E, successivamente, l’evento avrà una cadenza
quadriennale, eccezion faa per alcune edizioni annullate a causa delle
guerre mondiali. Il penultimo si è tenuto a Seoul dal 13 al 21 agosto 2014.
Con più di cinquemila partecipanti venuti da centoventi paesi diversi, il
congresso è stato il più grande raduno di matematici mai organizzato.
L’ultimo ha avuto luogo a Rio de Janeiro dall’1 al 9 agosto 2018, e ha
uguagliato il record dei cinquemila partecipanti di Seoul.
Nel quadro del congresso si sono imposte, nel corso degli anni,
determinate tradizioni. Per esempio, nel 1936, è stata istituita
l’assegnazione della prestigiosa medaglia Fields, il più alto riconoscimento
della disciplina, definito spesso il premio Nobel della matematica. La
medaglia raffigura un ritrao di Archimede, accompagnato da una
citazione a dir poco enfatica del matematico greco: Transire suum pectus
mundoque potiri (“Trascendere i propri limiti e dominare l’universo”).
Profilo di Archimede sulla medaglia Fields
C. L’affermazione A è vera.
D. L’affermazione B è falsa.
23
Abbiamo già incontrato Poincaré. A lui dobbiamo la frase: “La matematica è l’arte di dare lo
stesso nome a cose diverse.”
24
Dal 1991, gli articoli provenienti dal mondo intero vengono liberamente diffusi su Internet
tramite la piaaforma arXiv.org messa a punto dalla Cornell University, negli Stati Uniti. Se volete
vedere che aspeo ha un articolo di matematica, fateci un giro.
25
I numeri primi sono i numeri che non si possono oenere moltiplicando due numeri più
piccoli di essi. Per esempio, il 5 è un numero primo, ma il 6 non lo è, perché 2 × 3 = 6. La
successione dei numeri primi comincia così: 2, 3, 5, 7, 11, 13, 17, 19…
26
E, anche dopo averle lee, non è affao semplice…
27
Il paragrafo successivo del libro suona così. “L’unificazione suscitò anche una disputa
linguistica. Vari matematici del tempo presero a rivendicare, per la loro disciplina, l’uso del
singolare. Non dite più ‘le matematiche’, dite ‘la matematica’! E sono molti, ancora oggi, i
ricercatori favorevoli all’uso del singolare. Tuavia le abitudini sono dure a morire, e la lingua
d’uso, non sembra, per il momento, propensa all’abbandono del plurale”. Tuo deriva dal fao che,
in francese, il nostro “la matematica” ha il suo equivalente in un pluralia tantum, “les
mathématiques” (o “les maths”, come nel titolo originale del libro), sulla scia della convenzione qui
enunciata dall’autore (“mathématique” è solo aggeivo). Nel corso del testo si è tradoo il termine
con il plurale “le matematiche” solo quando il riferimento interessava matematiche particolari,
specifiche di una singola soocategoria. (N.d.T.)
28
Lo zero al centro, i numeri negativi sulla sinistra e i positivi sulla destra.
Epilogo
Musei ed eventi
Libri
Su Internet
Il sito “Image des mathématiques” (hps://images.math.cnrs.fr) propone
regolarmente articoli di divulgazione della ricerca auale redai da
matematici.
Da non perdere il blog “Choux romanesco, Vache qui rit et Intégrale
curviligne” (eljjdx.canalblog.com) di El Jj, i cui interventi sono
particolarmente gustosi.
I film Dimensions (hp://www.dimensions-math.org) e Chaos
(hp://www.chaos-math.org), prodoi da Jos Leys, Aurélien Alvarez e
Étienne Ghys, vi aiutano a entrare, grazie a magnifiche animazioni, nel
mondo della quarta dimensione e della teoria del caos.
Da alcuni anni, poi, si vanno moltiplicando le reti di divulgazione
scientifica, in particolare su YouTube. Per quanto riguarda la matematica,
si possono citare i video di El Jj, complementari al blog sopra citato,
nonché i canali “Science4All”, “La statistique expliquée à mon chat” o
“Passe-Science”.
Per scoprire di più, si tenga presente che la piaaforma Vidéosciences
(hp://videosciences.cafe-sciences.org) raccoglie più di un centinaio di
canali e copre così tui i campi scientifici.
In inglese, citiamo tra gli altri la rete “Numberphile” o i video di Vihart.
Potrete inoltre cercare videoconferenze aperte al grande pubblico
condoe da ricercatori in matematica. Tra i più brillanti in questo genere
di esercizio vi sono Étienne Ghys, Tadashi Tokieda o ancora Cédric
Villani.
Bibliografia
Legenda
Epoca
A: Antichità
M: Medioevo
R: Rinascimento
E: Epoche moderna e contemporanea
Tema
G: Geometria
N: Numeri/Algebra
P: Analisi/Probabilità
L: Logica
S: Altre scienze
29
Sono stati aggiunti un paio di titoli italiani di autori citati e streamente ainenti. (N.d.T.)