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La matematica è nata nella preistoria per essere utile all’uomo: i numeri

servivano a contare le pecore di un gregge, la geometria a misurare i


campi e a tracciare le strade. La storia si sarebbe potuta fermare lì, ma col
passare degli anni i nostri antenati scoprirono i sentieri imprevedibili di
questa scienza solo apparentemente astraa.
La storia della matematica è stata scria da uomini e donne geniali, ma le
vere eroine di questo “grande romanzo” sono le idee. Le intuizioni che
nascono improvvisamente e si diffondono araverso i secoli, da continente
a continente, si amplificano, prosperano e ci rivelano la ricchezza di un
mondo che toglie il fiato. Perché la matematica è bella, poetica,
sorprendente e anche gioiosa: l’enigma del pi greco, il fascino della
sequenza di Fibonacci e della sezione aurea, la sfida delle equazioni e
dell’infinitamente piccolo che solletica la nostra mente con i suoi
paradossi.
Se non siete mai andati d’accordo con la matematica, se l’avete odiata, che
ne dite di darle una seconda possibilità? Potreste restarne molto sorpresi.
Mickaël Launay ha studiato all’École Normale Supérieure di Parigi,
discutendo una tesi sulla probabilità nel 2012. È impegnato in numerose
aività per la diffusione della matematica. Nel 2013, crea su YouTube il
canale Micmaths, dedicato alla divulgazione scientifica. Il grande romanzo
della matematica ha avuto un enorme successo in Francia ed è in corso di
traduzione in 15 paesi.
i Fari. 49
Mickaël Launay
Il grande romanzo
della matematica
Dalla preistoria ai giorni nostri
Introduzione di Piergiorgio Odifreddi

Traduzione di Sergio Arecco

La nave di Teseo
L’editore ringrazia la Do.ssa Giulia Bernardini dell’Università degli
Studi di Milano-Bicocca per la revisione scientifica del testo.
 
Titolo originale: Le grand roman des maths
© Editions Flammarion, Paris, 2016.
 
© 2019 La nave di Teseo editore, Milano
 
ISBN 978-88-9344-827-7
 
 
Prima edizione digitale maggio 2019
 
 
est’opera è protea dalla Legge sul dirio d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
Sommario

Da YouTube ai libri
Introduzione di Piergiorgio Odifreddi

1. Matematici loro malgrado


2. E il numero fu
3. Vietato l’ingresso a chi ignora la geometria
4. Il tempo dei teoremi
5. Un po’ di metodo
6. π, un cerchio alla testa
7. Niente e meno di niente
8. La forza dei triangoli
9. Verso l’incognita
10. A seguire
11. I mondi immaginari
12. Un linguaggio per la matematica
13. L’alfabeto del mondo
14. L’infinitamente piccolo
15. Misurare il futuro
16. L’avvento delle macchine
17. Matematica a venire

Epilogo
Per approfondire
Bibliografia
Da YouTube ai libri
Introduzione di Piergiorgio Odifreddi

Si racconta che nei primi decenni dopo l’invenzione della stampa molti
leori comprassero i libri e li facessero ricopiare dagli amanuensi, per
poterli ricondurre alle condizioni di leura dei manoscrii ai quali erano
abituati. L’aneddoto suona strano, o addiriura incredibile, soltanto fino a
quando ci ricordiamo che molti di noi, dopo l’invenzione del personal
computer, hanno continuato a stampare le schermate per lo stesso motivo.
Deo altrimenti, per un utilizzo correo dei nuovi media bisogna in
genere aendere la generazione che è nata dopo di essi, mentre quella che
li ha visti nascere stenta ad adaarvisi.
Pensiamo a YouTube, ad esempio. Molti dei matematici e degli
scienziati agli inizi l’hanno usato soltanto come un mezzo su cui trasferire
le proprie conferenze orali, riuscendo comunque a diffonderle ben oltre il
ristreo ambito degli uditori ai quali esse erano diree in origine. Per
usare questo nuovo medium in una maniera più innovativa e adeguata si è
però dovuto aendere qualche giovane che avesse più dimestichezza con
l’aspeo visivo delle conferenze. Uno dei campioni al riguardo è il
francese Mickaël Launay, nato nel 1984, e dunque solo trentacinquenne.
Nel 2007, da giovane laureato alla prestigiosa École Normale
Supérieure, apre il fortunato sito di matematica ludica Micmaths. Nel 2013
passa su YouTube e nel giro di pochi anni il suo canale raggiunge i 335.000
iscrii e posta più di 150 video di matematica, con ascolti stellari che in
genere sono riservati ai divi della musica o del cinema. Ma a differenza dei
grandi divulgatori di successo, che spesso allargano il volume d’utenza a
scapito della profondità dell’esposizione, Launay è riuscito a trovare la
proporzione aurea tra successo e qualità.
Il suo video La faccia nascosta delle tabelline, ad esempio, traa di
argomenti ben più elevati di quanto lascerebbe pensare il suo modesto
titolo. In particolare, parte in sordina con la tabellina del 2 sui numeri fino
a 10, ma subito la rappresenta con un grafo su un cerchio con 10 punti.
Estende poi la stessa tabellina a numeri sempre più grandi, mostrando
come i grafi tendono quasi miracolosamente alla figura di un petalo a
forma di cuore (una cardioide). Passa poi alle tabelline del 3, del 4, del 5,
eccetera, che producono fiori con due, tre, quaro petali, eccetera. E
mostra infine come le tabelline dei numeri frazionari, invece che interi,
producano figure intermedie che fanno passare gradualmente da un fiore
all’altro. E come i fiori diventino sempre più complessi e affascinanti man
mano che crescono i numeri per cui si moltiplica.
Tuo questo, in una decina di minuti! A quante persone potrebbe
interessare un simile giardino fiorito? Basta guardare le visualizzazioni del
video, per scoprire che in quaro anni sono state più di 3.200.000 (tre
milioni e duecentomila)! A dimostrazione del fao che se si sanno usare i
nuovi media si possono oenere risultati d’ascolto inimmaginabili su
quelli vecchi. Anche perché descrivere a parole ciò che si può mostrare
con figure è molto più complicato, e molto meno interessante.
esto significa che le parole scrie sono destinate a cedere il passo
alle immagini, almeno nella matematica? Niente affao, come ha
dimostrato poco più di un anno fa lo stesso Launay. Conoscendo, da bravo
francese, il moo di Mallarmé tout, au monde, existe pour aboutir à un
livre, “tuo, al mondo, esiste per finire in un libro”, il divo matematico di
YouTube ha pubblicato Il grande romanzo della matematica, che è
immediatamente diventato un best seller in Francia.
Il che dimostra che non c’è contraddizione fra media diversi, ma
complementarità: quelli vecchi non sono destinati a soppiantare i nuovi,
ma ad affiancarsi a loro. Anche perché ci sono cose che si fanno meglio nei
video, e altre che richiedono invece un libro: come raccontare storie,
appunto, persino di matematica. Non a caso il libro di Launay è
programmaticamente un romanzo, perché, come direbbe l’Ecclesiaste: “C’è
un medium per ogni cosa. Un medium per raccontare, e un medium per
mostrare. Un medium per leggere, e un medium per guardare”. E i follower
di Launay su YouTube scopriranno da leori in questo libro una faccia
diversa di questo divulgatore straordinario e unico, che come un re Mida
della matematica trasforma in oro intelleuale tuo ciò che tocca.
“Oh, io sono sempre stata negata in matematica!”
Non faccio una piega. Dev’essere almeno la decima volta che oggi sento
questa frase.
Eppure, la signora è ferma al mio stand da un buon quarto d’ora, in
mezzo a un gruppo di altri passanti, e sta ascoltando con una certa
aenzione il sooscrio che espone alcune curiosità geometriche. E,
puntuale, ecco quella frase.
“A parte questo, lei che cosa fa nella vita?”
“Sono un matematico.”
“Oh, io sono sempre stata negata in matematica!”
“Ah sì? Eppure sembrava interessata a quello che stavo raccontando.”
“Sì… ma qui non si traa davvero di matematica… qui tuo suona più
comprensibile.”
Toh, questa è nuova. La matematica sarebbe allora, per definizione, una
disciplina incomprensibile?
È l’inizio di agosto, in corso Félix Faure, a La Floe-en-Ré. Nel
mercatino estivo, alla mia destra c’è uno stand di tatuaggi all’henné e
treccine africane, alla mia sinistra un venditore di accessori per cellulari e,
di fronte, un bancheo di gioielli e cianfrusaglie di ogni genere. Lì in
mezzo ho piazzato il mio stand di matematica. Nella frescura della sera, i
vacanzieri passeggiano tranquilli. A me piace da mai fare matematica in
posti insoliti. Dove la gente non se l’aspea. Dove ti guardano con
diffidenza…
“ando dirò ai miei genitori che ho fao matematica durante le
vacanze, non ci crederanno di sicuro!” mi apostrofa un liceale che si era
fermato tornando dalla spiaggia.
È vero, io prendo i passanti un po’ al laccio. Ma è così che bisogna fare.
È uno dei miei momenti preferiti. Osservare l’espressione delle persone
che pensavano di provare un invincibile fastidio per la matematica quando
invece sto dimostrando loro che, da un quarto d’ora, stanno giusto facendo
matematica. E il mio stand è ben lungi dallo svuotarsi! Presento origami,
numeri di magia, giochi, enigmi… ce n’è per tui i gusti e per tue le età.
Dovrei essere contento, eppure, dentro di me, provo un certo
rammarico. Come siamo potuti arrivare a questo punto? Nascondere alla
gente che si sta facendo matematica per fare in modo che si diverta? Per
quale motivo questa parola fa tanta paura? È certo che se avessi appeso
sopra il mio tavolo un cartello con la scria “Matematica”, visibile quanto
quelli degli stand aorno al mio, “Gioielli e collane”, “Cellulari” o
“Tatuaggi”, avrei avuto meno della metà del successo. La gente non si
fermerebbe. Anzi, forse si allontanerebbe distogliendo lo sguardo.
E invece c’è curiosità. La tocco con mano ogni giorno. La matematica fa
paura, ma più fa paura e più affascina. Non la amiamo, eppure ci
piacerebbe amarla. O, quantomeno, essere capaci di insinuare uno sguardo
indiscreto in quelle sue tenebre misteriose. La crediamo inaccessibile. Non
è così. Non è forse possibile amare la musica senza essere musicisti, o
gradire la condivisione di un buon pasto senza essere cuochi? E allora
perché si dovrebbe per forza essere dei matematici o possedere
un’intelligenza eccezionale per lasciarsi raccontare la matematica e farsi
solleticare piacevolmente il cervello con l’algebra e con la geometria?
Dopotuo, per comprendere le grandi idee e provarne meraviglia non è
certo obbligatorio entrare nei deagli tecnici.
Fin dalla noe dei tempi, sono stati tantissimi gli artisti, i creatori, gli
inventori, gli artigiani, o semplicemente i sognatori e i curiosi, che hanno
fao matematica senza neanche accorgersene. Matematici loro malgrado.
Sono stati loro i primi a farsi domande, a cercare soluzioni, a spremere le
meningi. Se vogliamo capire il senso della matematica, dobbiamo seguirne
le tracce, perché è con loro che tuo ha avuto inizio.
Dunque è venuto il momento di meersi in viaggio. Se siete d’accordo,
consentitemi di condurvi con me, araverso queste pagine, nei meandri di
una delle discipline più affascinanti e stupefacenti praticate dalla specie
umana. Prepariamoci a incontrare chi ne ha fao la storia, a colpi di
scoperte inaese e di idee fantastiche.
Cominciamo insieme il grande romanzo della matematica.
1. Matematici loro malgrado

Una volta tornato a Parigi, decido di dare inizio alla nostra indagine al
museo del Louvre, nel cuore della capitale. Fare matematica al Louvre?
Può sembrare davvero fuori luogo. L’antica residenza reale convertita in
museo non è forse, oggi, la sede privilegiata per piori, scultori,
archeologi o storici, prima di esserlo per i matematici? Eppure è proprio
qui che ci apprestiamo a ricalcare le loro prime impronte.
Fin dal mio arrivo, la comparsa della grande piramide di vetro al centro
della Cour Napoléon costituisce già un invito alla geometria. Anche se,
oggi, ho appuntamento con un passato molto più antico. Penetro quindi
nel museo, e la macchina del tempo si mee in moto. Passo davanti ai re di
Francia, ripercorro il Rinascimento e il Medioevo e arrivo all’Antichità. Le
sale si susseguono, incrocio alcune statue romane, i vasi greci e i sarcofagi
egiziani. Passo oltre. Ed ecco che entro nella preistoria e che, lasciandomi
alle spalle secoli e secoli, avverto pian piano il bisogno di dimenticare
tuo. Dimenticare i numeri. Dimenticare la geometria. Dimenticare la
scriura. In principio nessuno sapeva niente. Nemmeno che ci fosse
qualcosa da sapere.
Prima fermata in Mesopotamia. Eccoci tornati indietro di diecimila
anni.
A pensarci bene, perché non retrocedere ancora? Perché non regredire
di un altro milione e mezzo di anni per ritrovarsi in pieno Paleolitico? A
quell’epoca, il fuoco non è ancora domato e l’Homo sapiens è soltanto un
progeo remoto. Siamo nel regno dell’Homo erectus in Asia, dell’Homo
ergaster in Africa, e forse di pochi altri cugini ancora da scoprire. È l’età
della pietra tagliata. Il modello è il bifacciale.
In un angolo dell’accampamento, i tagliatori sono al lavoro. Uno di essi
afferra un blocco di selce ancora vergine che ha raccolto poche ore prima.
Si siede per terra – probabilmente a gambe incrociate –, appoggia la
pietra, la blocca con una mano e, con l’altra, ne colpisce il bordo usando
un’altra pietra massiccia. Si stacca una prima scheggia. Osserva il
risultato, fa ruotare la selce e la colpisce una seconda volta, dall’altra parte.
Le due prime schegge così oenute, da entrambi i lati, hanno procurato
una fenditura profonda sul bordo della pietra. Non resta che ripetere
l’operazione sull’intero contorno. In alcuni punti, tuavia, la selce è
troppo compaa o troppo larga, e occorre rimuovere pezzi più grandi per
conferire all’oggeo finale la forma voluta.
La forma del bifacciale, infai, non è lasciata al caso o all’ispirazione
del momento. È qualcosa di ragionato, di elaborato, trasmesso di
generazione in generazione. Se ne trovano modelli diversi, a seconda
dell’epoca e del luogo di fabbricazione. Alcuni prendono la forma di una
goccia d’acqua appuntita, altri, più arrotondati, hanno il profilo di un
uovo, altri ancora somigliano di più a un triangolo isoscele dai lati appena
bombati.

Bifacciale del Paleolitico inferiore

Tui, però, hanno qualcosa in comune: un asse di simmetria. Ci sarà


stata una ragione pratica per questa geometria o sarà stata, più
semplicemente, un’intenzione estetica a spingere i nostri antenati ad
adoare queste forme? Difficile a dirsi. el che è certo è che questa
simmetria non può essere fruo del caso. Il tagliatore doveva premeditare
il colpo. Pensare alla forma, prima ancora di oenerla. Crearsi
un’immagine mentale, astraa, dell’oggeo da produrre. In altri termini,
fare matematica.
Una volta eseguito il lavoro, il tagliatore osserva il nuovo utensile,
tende il braccio verso la luce per coglierne meglio il profilo, lo ritocca
assestandogli ancora due o tre piccoli colpi e, finalmente, è soddisfao.
Che cosa prova in questo momento? Avverte già quella formidabile
esaltazione data dalla creazione scientifica, dall’essere riuscito, muovendo
da un’idea astraa, a caurare e modellare il mondo esterno? Poco
importa. La grande ora dell’astrazione non è ancora scoccata. È ancora
tempo di pragmatismo. Il bifacciale potrà essere utilizzato per tagliare il
legno, fare a pezzei la carne, praticare buchi nelle pelli o scavare la terra.
Ma non spingiamoci troppo lontano. Lasciamo che i tempi antichi
dormano il loro sonno, meiamo da parte queste interpretazioni forse
troppo audaci e torniamo a quello che sarà il vero punto di partenza della
nostra avventura: la regione mesopotamica dell’VIII millennio a.C.
Lungo la Mezzaluna fertile, in una zona che copre
approssimativamente quello che un giorno si chiamerà Iraq, è in pieno
svolgimento la rivoluzione neolitica. Le popolazioni, da un po’ di tempo,
hanno preso a stanziarvisi. Sugli altipiani del Nord il processo di
sedentarizzazione ha successo. La regione si rivela un laboratorio per tue
le ultime innovazioni. Le abitazioni in maoni di terra cruda danno vita ai
primi villaggi, e i costruori più coraggiosi vi aggiungono già un piano.
L’agricoltura è una tecnologia di punta. Il clima mite consente di coltivare
la terra senza irrigazione artificiale. Animali e piante vengono a poco a
poco addomesticati. Sta per fare la sua comparsa la ceramica.
Ebbene, parliamone allora. Parliamo della ceramica! Perché se è vero
che molte testimonianze di quei tempi sono scomparse, irrimediabilmente
perse nei meandri del tempo, è altreanto vero che gli archeologi ne
hanno accumulate a migliaia: tazze, vasi, anfore, piai, ciotole… Aorno a
me, le vetrine del museo ne sono stracolme. Le prime risalgono a novemila
anni fa e, di sala in sala, come i sassolini di Pollicino, ci guidano araverso
i secoli. Ve ne sono di tue le dimensioni, di tue le forme e con varie
decorazioni, scolpite, dipinte o incise. Alcune hanno piedi, altre anse. Ve
ne sono di intae, di scheggiate, di roe, di ricostruite. Di alcune restano
appena pochi frammenti sparsi.
La ceramica è la prima arte del fuoco, ben anteriore rispeo al bronzo,
al ferro o al vetro. Partendo dall’argilla, impasto di terra malleabile e
abbondante nelle zone umide, gli artigiani vasai possono modellare oggei
a piacere. Una volta plasmata la forma voluta, non devono fare altro che
lasciarla seccare per alcuni giorni e poi cuocerla in un grande fuoco per
far solidificare il tuo. È una tecnica nota da tantissimo tempo. Le prime
statuee risalgono addiriura a ventimila anni prima. Ma solo di recente,
grazie alla sedentarizzazione, ha preso corpo l’idea di usarla per farne
oggei d’uso corrente. Il nuovo modello di vita necessita di mezzi di
stoccaggio, per cui si fabbrica vasellame a più non posso!
I recipienti di terracoa s’impongono ben presto come oggei
indispensabili per la vita di tui i giorni, necessari all’organizzazione
colleiva del villaggio. Oltre a produrre vasellame di lunga durata, ci si
preoccupa anche della sua bellezza. Presto le ceramiche vengono decorate,
e nascono numerose scuole. alcuno, prima di farla cuocere, imprime i
suoi motivi sull’argilla ancora fresca aiutandosi con una conchiglia o un
semplice ramoscello. Altri procedono prima alla coura e solo
successivamente incidono le loro decorazioni, utilizzando pietre tagliate.
Altri ancora preferiscono dipingere la superficie con pigmenti naturali.
Percorrendo le sale del seore dedicato alle antichità orientali, rimango
colpito dalla ricchezza dei motivi geometrici immaginati dai
mesopotamici. Come per il bifacciale del nostro antico tagliatore di pietre,
certe simmetrie appaiono troppo ingegnose per non essere state
accuratamente premeditate. Ad airare in modo particolare la mia
aenzione sono i fregi che corrono lungo i bordi dei vasi.
I fregi sono delle fasce decorate che presentano un identico motivo,
ripetuto lungo l’intera circonferenza del vaso. Tra i più frequenti vi sono
quelli segheati, a triangolo. Si trovano anche fregi a due cordoni che si
intrecciano l’uno con l’altro. Infine, fregi a forma di spiga, di merlature
quadrate, di losanghe appuntite, di triangoli traeggiati, di cerchi inseriti
l’uno dentro l’altro…
Passando da una zona o da un’epoca all’altra, emergono dei modelli.
Alcuni motivi risultano molto popolari. Ripresi, trasformati, migliorati in
numerose varianti. Poi, alcuni secoli dopo, sono abbandonati, divenuti
démodé, e sostituiti da altri disegni più in voga.
Io li guardo sfilare, e il mio occhio da matematico s’illumina. Scorgo
simmetrie, rotazioni, traslazioni. Al che, mentalmente, inizio a distinguere,
a classificare. Mi tornano in mente certi teoremi dei miei anni di scuola. La
classificazione delle trasformazioni geometriche, ecco di che cosa ho
bisogno. Tiro fuori un quaderno e una matita e comincio a scarabocchiare.
In primo luogo ci sono le rotazioni. Proprio davanti a me ho un fregio
composto da motivi a forma di “S” incuneati l’uno dentro l’altro. Mi meo
a testa in giù in modo da convincermene. Sì, è proprio così, rimane
identico se ruotato di mezzo giro: se prendessi l’anfora e la rovesciassi per
disporla al contrario, il fregio avrebbe esaamente lo stesso aspeo.

In secondo luogo ci sono le simmetrie. Ne esistono di vari tipi. Poco per


volta completo la mia lista e prende vita un’autentica caccia al tesoro. Per
ogni trasformazione geometrica, cerco il fregio corrispondente. Transito
da una sala all’altra, torno sui miei passi. Alcuni reperti sono rovinati, e
devo strizzare gli occhi per tentare di ricostruire i motivi che ornavano
quest’argilla migliaia di anni fa. ando ne trovo una nuova, la spunto
sulla lista. Osservo le date e cerco di ricostruire la cronologia della loro
comparsa.
ante ne devo trovare, in totale? Pensandoci un po’, riesco finalmente
a richiamare alla memoria il famoso teorema. Esistono, in tuo, see
categorie di fregi. See gruppi di trasformazioni geometriche differenti
che possono definirsi invarianti. Non una di più né una di meno.
Lo so bene, è una cosa che i mesopotamici ignoravano. E per una
ragione semplicissima: la teoria in questione inizierà a trovare una sua
formalizzazione solo a partire dal Rinascimento! Con ciò, senza rendersene
conto, e senza altra pretesa se non quella di decorare le loro ceramiche con
trame armoniose e originali, quei vasai preistorici stavano già sviluppando
i primi ragionamenti di una disciplina straordinaria che, migliaia di anni
dopo, darà vita a un’intera comunità di matematici.
Do un’occhiata alle mie note, ci siamo quasi. asi? Uno dei see fregi
mi sfugge ancora. Un po’ me lo aspeavo, è quello più complicato della
lista. Sto cercando un fregio che, se rovesciato orizzontalmente, conserva il
medesimo aspeo, ma scalato della metà della lunghezza di un motivo. È
la simmetria che oggi denominiamo simmetria traslatoria. Una vera sfida
per i nostri mesopotamici!
Ma sono ancora ben lungi dall’aver percorso tue le sale, quindi non
dispero. La caccia prosegue. Scruto ogni più piccolo deaglio, ogni più
piccolo indizio. Le altre sei categorie, quelle già osservate, si ripetono. E
sul mio quaderno si ingarbugliano date, schemi e altri schizzi. Malgrado
ciò, nessuna avvisaglia del misterioso seimo fregio.
Fino a che, d’un trao, mi sento araversare da una scarica di
adrenalina. Dietro una vetrina ho appena intravisto un reperto dall’aspeo
modesto, un semplice frammento. Eppure, ecco che, osservando dall’alto
in basso, scorgo quaro fregi, certo incompleti, ma ben visibili,
sovrapposti l’uno all’altro. E uno di essi aira immediatamente la mia
aenzione. È il terzo a partire dall’alto. Ed è composto da quelli che
sembrano frammenti di reangoli inclinati, intrecciati tra loro a spiga.
Strizzo gli occhi. Lo osservo bene, copio in frea il motivo sul mio
quaderno come se temessi di vedermelo sparire davanti agli occhi. È la
geometria giusta. Si traa proprio della simmetria traslatoria. Il seimo
fregio è stato smascherato.
Accanto al reperto, il cartellino indica: Frammento di bicchiere a
decorazione orizzontale a fasce e losanghe appuntite – Metà del V millennio
a.C.
Lo trasferisco mentalmente nella mia cronologia. Metà del V millennio
a.C. Siamo ancora nella preistoria. Oltre mille anni prima dell’invenzione
della scriura, i vasai mesopotamici avevano già deagliato, senza saperlo,
l’intero sviluppo di un teorema che sarebbe stato enunciato e dimostrato
solo seimila anni dopo.
In una sala successiva, trovo un’anfora a tre anse che può essere
classificata anch’essa nella seima categoria: anche se il motivo si è
trasformato in una spirale, la struura geometrica rimane identica. Ancora
oltre, eccone un’altra. Vorrei continuare, ma all’improvviso lo scenario
cambia: la visita alle collezioni orientali si conclude qui. Se proseguo, sono
in Grecia. Do un ultimo sguardo alle mie note, i fregi a simmetria
traslatoria si contano sulle dita di una mano. Me la sono vista brua.

COME RICONOSCERE LE 7 CATEGORIE DI FREGI?


La prima categoria è quella dei fregi… che non possiedono alcuna
proprietà geometrica particolare. Soltanto un motivo che si ripete senza
simmetrie né centri di rotazione. È, nello specifico, il caso dei fregi che
non si basano su figure geometriche bensì su disegni figurativi, come
gli animali.

La seconda categoria comprende i fregi nei quali la linea orizzontale


che li taglia in due è un asse di simmetria.
La terza categoria raggruppa i fregi che possiedono un asse di
simmetria verticale. Poiché il fregio consiste in un motivo che si ripete
orizzontalmente, gli assi di simmetria verticali si ripetono allo stesso
modo.

La quarta categoria comprende i fregi che rimangono identici se ruotati


di mezzo giro. Guardando i fregi a testa in su o a testa in giù, si vede
sempre il medesimo motivo.

La quinta categoria riguarda le simmetrie traslatorie. È la famosa


categoria che ho scoperto per ultima nella parte dedicata alla
Mesopotamia. Se si fa ruotare uno di questi fregi rispeo a una
simmetria assiale orizzontale (lo stesso asse di simmetria della seconda
categoria), si oiene un fregio analogo, però traslato della lunghezza di
un mezzo motivo.
La sesta e la seima categoria non trovano corrispondenza in nuove
trasformazioni geometriche. Se mai, combinano numerose proprietà
incontrate nelle categorie precedenti. Per esempio, i fregi della sesta
categoria hanno contemporaneamente una simmetria orizzontale, una
simmetria verticale e un centro di rotazione di mezzo giro.

La seima categoria include fregi a simmetria verticale, con un centro


di rotazione e a simmetria traslatoria.

Da notare che tali categorie interessano unicamente la struura


geometrica dei fregi ed è possibile che al loro interno ci sia qualche
variazione nella forma dei motivi. Per esempio, i fregi che seguono, per
quanto differenti, appartengono tui alla seima categoria.
Tui i fregi che si possono immaginare appartengono dunque a una di
queste see categorie. Ogni altra combinazione è geometricamente
impossibile. Una circostanza curiosa: le due ultime categorie sono le più
frequenti. È istintivamente più facile disegnare figure contenenti più
simmetrie che figure che ne contengono poche.

Inorgoglito dai miei successi mesopotamici, rieccomi pronto, il giorno


dopo, a lanciarmi all’assalto della Grecia antica. Senonché, appena
arrivato, non so già più dove sbaere la testa. i la caccia ai fregi è un
gioco da ragazzi. Mi bastano pochi passi, qualche vetrina, qualche anfora
nera a figure rosse per avere già ritrovato la mia lista dei see fregi.
Di fronte a una tale abbondanza, rinuncio subito a stilare le statistiche,
come ho fao in Mesopotamia. La creatività degli artisti greci mi
sbalordisce. Compaiono nuovi motivi, sempre più complessi e ingegnosi.
Devo fermarmi più volte e concentrarmi, se voglio sciogliere mentalmente
quei lacci che s’intrecciano e mi turbinano aorno.
Svolto in un’altra sala, e una lutrofora a figure rosse mi lascia senza
fiato.
Una lutrofora è un vaso allungato, con due anse, che serviva a
trasportare acqua per i bagni rituali. ello davanti a me misura quasi un
metro di altezza. I fregi vi si accavallano, e io inizio a classificarli per
categorie. Uno. Due. Tre. aro. Cinque. In pochi secondi, identifico
cinque delle see struure geometriche. Il vaso è accostato al muro ma,
chinandomi un poco, posso verificare che sul lato nascosto è riprodoa
una sesta categoria. Ne manca una sola. Sarebbe troppo bello.
Stranamente, l’assente non è la medesima del giorno prima. I tempi sono
cambiati, i modelli anche: a mancare non è più soltanto la simmetria
traslatoria, ma la combinazione composta da simmetria verticale,
rotazione e simmetria traslatoria.
La cerco freneticamente, scannerizzo con lo sguardo tuo l’oggeo.
Non la trovo. Un po’ deluso, sto per rinunciare, quando i miei occhi si
posano su un deaglio. Al centro del vaso è raffigurata una scena con due
personaggi. D’acchito, non sembra esserci un fregio in quel punto. Eppure,
ecco che, in basso a destra, un oggeo aira la mia aenzione: un vaso che
fa da appoggio al personaggio centrale. Un vaso disegnato dentro il vaso!
Già la mise en abîme è sufficiente a farmi esultare. Strizzo gli occhi,
l’immagine è un po’ rovinata, e tuavia non ci sono dubbi: quel vaso
disegnato riporta un fregio e, miracolo!, si traa proprio del fregio che mi
mancava!
Malgrado i miei sforzi ripetuti, non troverò nessun altro reperto che
presenti la stessa peculiarità. esta lutrofora pare proprio un pezzo unico
nel suo genere, nelle collezioni del Louvre: l’unico a riportare tue e see
le categorie di fregi.
Poco oltre, mi aende un’altra sorpresa. Fregi in 3D! E io che credevo
che la prospeiva fosse un’invenzione del Rinascimento! Zone scure e
zone chiare sono abilmente disposte dall’artista in modo tale da creare un
gioco di luci e ombre che conferisce un effeo di volume alle forme
geometriche distribuite lungo la circonferenza del gigantesco recipiente.
Più procedo e più mi pongo nuove domande. Alcuni resti non sono
coperti di fregi bensì di tasselli. In altri termini, i motivi geometrici non si
limitano più a riempire una fascia soile che fa da contorno all’oggeo ma
invadono l’intera superficie, moltiplicando così le possibilità di
combinazioni geometriche.
Dopo i greci, ci sono gli egizi, gli etruschi e i romani. Scorgo
merleature intagliate nella roccia stessa. I fili di pietra s’intrecciano,
s’intessono l’uno con l’altro in un ordito perfeamente regolare. Al che,
come se le opere non bastassero, mi sorprendo ben presto a osservare il
Louvre in sé e per sé. I soffii, le piastrelle, i vani delle porte. E quando
torno in me ho come l’impressione di non potermi più fermare. Per strada
osservo i balconi dei palazzi, i motivi disegnati sui vestiti dei passanti, i
muri decorati dei corridoi della metro…
Basta guardare il mondo con altri occhi per veder comparire la
matematica. Una ricerca affascinante e senza fine.
E l’avventura è appena cominciata.
2. E il numero fu

A quel tempo, in Mesopotamia, le cose procedono veloci. Alla fine del IV


millennio a.C. i piccoli villaggi che ci siamo lasciati alle spalle si sono
trasformati in fiorenti centri urbani. Alcuni ospitano, a questo punto,
decine di migliaia di abitanti! Le tecnologie vi si sviluppano come mai
prima d’ora. Architei, orafi, vasai, tessitori, falegnami o scultori che
siano, gli artigiani, per raccogliere le sfide tecniche che si presentano,
devono dare prova di un’ingegnosità sempre nuova. La metallurgia non è
ancora stata messa a punto, ma ci si sta lavorando.
A poco a poco, nell’intera regione, s’intesse una rete di strade. Si
moltiplicano gli scambi culturali e commerciali. Si struurano gerarchie
sempre più complesse e l’Homo sapiens scopre le gioie
dell’amministrazione. E il tuo esige un’organizzazione con i fiocchi! Per
meere un po’ d’ordine, è venuto il momento, per la nostra specie, di
inventare la scriura e di entrare nella Storia. La rivoluzione in arrivo
vedrà la matematica giocare un ruolo d’avanguardia.
Seguendo il corso dell’Eufrate, lasciamo gli altipiani del Nord che
hanno visto la nascita dei primi villaggi stanziali e prendiamo la direzione
della regione di Sumer, che occupa le pianure della Bassa Mesopotamia. È
qui, in queste steppe del Sud, che ormai si concentra la maggioranza della
popolazione. Lungo il fiume, incontriamo le cià di Kish, Nippur e
Shuruppak. Cià ancora giovani, alle quali, tuavia, i secoli a venire
recano promesse di grandezza e prosperità.
E poi, d’un trao, ecco Uruk stagliarsi all’orizzonte.
La cià di Uruk è un formicaio umano, che illumina del proprio
prestigio e della propria potenza l’intero Vicino Oriente. Costruita in gran
parte con maoni di terracoa, la cià spande le sue sfumature color
arancio su più di cento eari, e il viaggiatore disorientato può camminare
ore per le sue stradine affollate. Nel cuore di Uruk sono stati costruiti
molti templi monumentali. Vi si celebra An, padre di tui gli dei, ma
soprauo Inanna, la Signora del cielo. E per lei è stato ereo il tempio di
Eanna, il cui edificio più ampio misura oanta metri di lunghezza per
trenta di larghezza. Grandezze che impressionano i numerosi viaggiatori
di passaggio.
Si avvicina l’estate e, come tui gli anni in questo periodo, un fervore
particolare si è impadronito della cià. Tra poco greggi di pecore
partiranno per i pascoli del Nord per tornare solo alla fine della stagione
calda. Per parecchi mesi i pastori dovranno occuparsi del bestiame,
provvedere al suo mantenimento e alla sua sicurezza, in modo da
ricondurlo integro ai proprietari. Molte delle greggi appartengono proprio
al tempio di Eanna e le più ricche contano decine di migliaia di capi. Le
carovane sono talmente impressionanti che alcune vengono accompagnate
da soldati che le proteggano dai pericoli della spedizione.
Ciononostante, i proprietari non lasciano certo partire le loro pecore
senza aver preso alcune precauzioni. Il contrao con i pastori è ben chiaro:
devono ritornare tanti capi quanti ne sono partiti. Non è concesso né
lasciar disperdere il gregge né scambiare qualche capo soobanco.
Al che, si pone un problema: come confrontare l’entità numerica del
gregge che è partito con quella del gregge che è tornato?
Per risolvere il problema, già da un po’ di secoli, si è adoato un
sistema basato su geoni di argilla. Esistono vari tipi di geoni, a ciascuno
dei quali corrispondono uno o più oggei o animali, a seconda della forma
e dei motivi che vi sono disegnati. Per una pecora, si traa di un semplice
disco con una croce. Al momento della partenza si deposita dentro un
recipiente una quantità di geoni corrispondente alle pecore che
costituiscono il gregge. Al ritorno, basterà confrontare l’entità numerica
del gregge con quanto è contenuto nel recipiente per accertare che
all’appello non manchi nessun animale. Molto più tardi, ai geoni si
aribuirà il nome latino di calculi, “pietruzze”, e il termine darà origine
alla parola calcolo.
Un metodo del genere è certamente pratico, ma ha un inconveniente.
Chi controlla i geoni? Esiste infai una diffidenza reciproca, e i pastori,
per parte loro, possono temere che proprietari poco scrupolosi
approfiino della loro assenza per aggiungere nell’urna dei geoni in più.
E magari reclamare poi un risarcimento per pecore che non sono mai
esistite!
Per cui si ragiona, ci si scervella, e si finisce per trovare una soluzione. I
geoni verranno posti dentro una boccia di argilla cava, che sarà chiusa
ermeticamente. Ciascuno apporrà dunque la propria firma sulla superficie
della bulla al fine di certificarne l’autenticità. Così facendo è impossibile
modificare il numero dei geoni senza romperla. I pastori possono partire
tranquilli.
Ma ecco che, di nuovo, sono i proprietari a trovare, in questo metodo,
un inconveniente. Per le esigenze dei loro affari, infai, hanno bisogno di
conoscere in tempo reale il numero degli animali che compongono le
greggi. Come fare? Tenere a memoria il numero delle pecore? Impossibile.
La lingua sumerica, infai, non possiede ancora un vocabolario per
indicare numeri tanto grandi. Disporre di doppioni dei geoni per il
conteggio contenuti in tue le bullae? Poco pratico.
Alla fine si trova comunque una soluzione. Con uno stelo di canna
reciso, si disegnano sulla superficie di ciascuna bulla i geoni che si
trovano al suo interno. Per cui diventa possibile verificare a piacere il
contenuto dell’involucro senza doverlo rompere.
Si traa di un metodo che finalmente soddisfa tui e che viene
largamente impiegato non soltanto per il conteggio delle pecore ma anche
per siglare accordi di ogni tipo. Anche per i cereali, come l’orzo e il
frumento, per la lana e i tessuti, per il metallo, i gioielli, le pietre preziose,
l’olio e il vasellame, si adoa il metodo dei geoni. Persino le imposte
vengono controllate usando i geoni. Insomma, alla fine del IV millennio
a.C., a Uruk, ogni contrao in debita forma doveva essere siglato con il
ricorso a una bulla provvista di geoni di argilla.
Tuo funziona a meraviglia. Fino a che, un giorno, a qualcuno non
viene una brillante idea. Un’idea talmente semplice e geniale che ci si
chiede come mai nessuno l’abbia avuta prima. Visto che il numero degli
animali viene trascrio sulla superficie della bulla, che senso ha
continuare a riporvi i geoni dentro? E che senso ha continuare a
fabbricare bullae? Non si potrebbe semplicemente disegnare l’immagine
dei nostri geoni su un qualunque pezzo di argilla? Per esempio su una
tavolea piaa?
Ed ecco a voi la scriura.
Sono tornato al Louvre. Le collezioni del seore delle antichità orientali
testimoniano la storia appena raccontata. La prima cosa che mi colpisce, di
fronte a quelle bullae, è la loro dimensione. este piccole sfere di argilla
che i sumeri modellavano rigirandole semplicemente aorno al pollice
non sono molto più grandi di palline da ping-pong. E i geoni non
superano il centimetro.
Un po’ più avanti, ecco comparire le tavolee, ed eccole moltiplicarsi e
riempire rapidamente vetrine intere. La scriura si va definendo poco alla
volta e assume quel caraere cuneiforme composto da piccole tacche a
forma di chiodo. Dopo l’estinzione delle prime civiltà mesopotamiche,
all’inizio della nostra era, gran parte di questi reperti dormirà per secoli
soo le rovine delle cià abbandonate, fino a che essi non saranno
dissoerrati, a partire dal XVII secolo, dagli archeologi europei per essere
decifrati, progressivamente, solo nel corso del XIX.
Nemmeno le tavolee sono molto grandi. Alcune hanno il formato di
semplici bigliei da visita, ma sono ricoperte da centinaia di minuscoli
segni sovrapposti l’uno all’altro. Agli scribi mesopotamici non passava
certo per la testa di risparmiare, per scrivere, nemmeno la più piccola
porzione di argilla! I cartellini del museo, collocati a fianco di ciascun
reperto, mi aiutano a interpretare i misteriosi simboli. Si traa perlopiù di
bestiame, gioielli o cereali.
Accanto a me, alcuni turisti scaano fotografie… con i loro tablet. Che
strano ammicco della Storia, che ha dato alla scriura tanti supporti
diversi, dall’argilla alla carta, dal marmo alla cera, dal papiro alla
pergamena. Fino a che, con un arguto guizzo finale, restituisce alle
“tavolee” digitali la forma delle loro antenate fae di terra. Il faccia a
faccia tra i due oggei ha in sé qualcosa di particolarmente emozionante.
Chissà che tra cinquemila anni essi non si ritrovino fianco a fianco, dal
medesimo lato della vetrina.
È passato del tempo. Eccoci ormai all’inizio del III millennio a.C. Si è
concretizzato un altro passaggio storico: il numero si è affrancato
dall’oggeo che esso conta! Prima, con le bullae e le primissime tavolee, i
simboli del conteggio dipendevano dagli oggei considerati. Una pecora
non è una vacca, quindi il simbolo con il quale si contava una pecora non
era lo stesso con il quale si contava una vacca. E ogni oggeo passibile di
calcolo possedeva i suoi simboli specifici, come specifici erano stati i
geoni di riferimento.
Ebbene, tuo ciò ha avuto una fine. I numeri hanno acquisito i loro
simboli specifici. In altri termini, per contare oo pecore, non s’impiegano
più oo simboli indicanti la pecora. Si scrive la cifra oo, seguita dal
simbolo della pecora. E per contare oo vacche, basta sostituire il simbolo
della pecora con quello della vacca. Il numero, infai, è il medesimo.
È un passaggio della storia del pensiero di fondamentale importanza.
alora si volesse datare l’ao di nascita della matematica, io sceglierei
senza dubbio questo momento. Il momento in cui il numero comincia a
esistere autonomamente, il momento in cui esso comincia a prescindere
dal reale per visualizzarlo dall’alto. Tuo ciò che è successo prima non è
stato altro che una gestazione. Bifacciali, fregi, geoni, tui preludi alla
nascita programmata del numero.
Il numero appartiene ormai al fronte dell’astrazione, la quale
costituisce appunto il segno identificativo della matematica, scienza
dell’astrazione per eccellenza. Gli oggei studiati dai matematici non
hanno un’esistenza fisica. Non sono materiali, non sono composti di
atomi. Sono soltanto idee. Idee, tuavia, di una formidabile efficacia per
interpretare il mondo!
Non è certo un caso che la necessità di scrivere i numeri abbia
rappresentato un punto di svolta per la comparsa della scriura. Se infai
idee d’altro genere potevano essere trasmesse oralmente con facilità,
risultava molto più difficile stabilire un sistema numerico senza ricorrere a
una cifratura scria.
Ancora oggi, l’idea che ci facciamo dei numeri non è forse inscindibile
dalla scriura? Se io vi chiedo di pensare a una pecora, come la vedete?
Probabilmente vi figurate un animale belante a quaro zampe, ricoperto di
lana. E non vi verrebbe mai in mente di visualizzare le sei leere della
parola “pecora”. Se invece, ora, tiro in ballo il numero centoventoo, che
cosa vedete? Non vedete forse l’1, il 2 e l’8 prendere forma nel vostro
cervello e unirsi insieme come qualcosa di scrio con l’impalpabile
inchiostro dei vostri pensieri? La rappresentazione mentale che ci
facciamo dei grandi numeri sembra insomma legata in maniera
indissolubile alla loro forma scria.
Si traa di un caso senza precedenti. Mentre per tue le altre cose la
scriura non è che un mezzo per ritrascrivere ciò che già preesisteva nel
linguaggio orale, per i numeri, invece, è la scriura a deare la lingua.
Pensate solo al fao che, quando pronunciate “centoventoo”, non fate
altro che leggere 128: 100 + 20 + 8. Superata una certa soglia, diventa
impossibile parlare dei numeri senza il supporto della scriura. Prima di
essere scrii, i grandi numeri non avevano parole.
Ancora oggi, alcuni popoli indigeni possiedono una quantità di parole
molto limitata per designare i numeri. Per esempio i membri della tribù
dei Pirahã, cacciatori-raccoglitori che vivono sulle rive del fiume Maici, in
Amazzonia, contano soltanto fino a due. Al di là del due, esiste un’unica
parola usata per significare “più” o “molti”. Sempre in Amazzonia, i
Munduruku hanno parole per indicare i numeri solamente fino al cinque,
le dita di una mano.
Nelle società auali, i numeri hanno invaso il nostro quotidiano. Sono
diventati talmente onnipresenti e indispensabili da farci spesso
dimenticare quanto l’idea sia geniale e quanti secoli ci siano voluti perché
i nostri antenati ci procurassero quella che oggi consideriamo una cosa
ovvia.
Nel corso della storia, per scrivere i numeri ci si è inventati una
quantità di procedimenti. Il più semplice consiste nel tracciare tanti segni
quante sono le unità del numero voluto. Per esempio, dei piccoli trai,
l’uno accanto all’altro. È il metodo che utilizziamo ancora di frequente, per
calcolare il punteggio di un gioco.

La più antica traccia conosciuta del probabile utilizzo di un tale


procedimento risale a molto prima dell’invenzione della scriura da parte
dei sumeri. Negli anni cinquanta, sulle rive del lago Eduardo, nell’auale
Repubblica Democratica del Congo, sono stati trovati gli ossi d’Ishango,
vecchi di ventimila anni! Lunghi da 10 a 14 centimetri, hanno una
particolarità: sono stati intagliati con un gran numero di tacche, più o
meno regolarmente distanziate. al era la loro funzione? Probabilmente
si traava di un primo sistema di conteggio. Alcuni studiosi vi leggono un
calendario, altri vi deducono conoscenze aritmetiche già molto avanzate.
Difficile saperlo con esaezza. Oggi, i due ossi sono visibili al Museo di
scienze naturali del Belgio, a Bruxelles.

Il metodo di conteggio che utilizza un segno per ogni unità aggiunta


rivela rapidamente i suoi limiti quando diventa necessario maneggiare
numeri relativamente grandi. Dunque, per fare più in frea, si adoano
degli insiemi!
I geoni dei mesopotamici riuscivano già a rappresentare molte unità.
Per rappresentare dieci pecore, per esempio, esisteva un geone
particolare. Nel momento del passaggio alla scriura, il principio viene
mantenuto. Per cui si trovano simboli indicanti insiemi di 10, 60, 600, 3600
e 36.000.

Non è già visibile, nella costruzione dei simboli, la ricerca di una


logica? Per esempio, il 60 e il 3600 risultano moltiplicati per 10 ove si
aggiunga un cerchio al loro interno. Fino a che, con l’avvento della
scriura cuneiforme, questi primi simboli a poco a poco si trasformano.

È così che, proprio in ragione della prossimità con la Mesopotamia,


l’Egio non tarda ad adoare la scriura. E sviluppa, a partire dall’inizio
del III millennio a.C., i suoi specifici simboli di numerazione.

Il sistema può dirsi ormai di ordine decimale: ogni simbolo ha un


valore dieci volte più elevato rispeo al precedente.
Tali sistemi additivi, nei quali è sufficiente aggiungere i valori dei
simboli scrii, conosceranno un ampio successo nel mondo e una quantità
di varianti vedrà la luce nel corso dell’intera Antichità e di buona parte del
Medioevo. Per esempio, verranno impiegati sia dai greci sia dai romani,
che si limiteranno a utilizzare, come simboli numerici, le leere dei loro
rispeivi alfabeti.
In concomitanza con i sistemi additivi emergerà poco per volta un
nuovo modello di annotazione dei numeri: la numerazione per posizione.
In essa, il valore di un simbolo dipenderà dal suo posizionamento
all’interno del numero. E, ancora una volta, saranno i mesopotamici a
precedere tui gli altri.
Nel II millennio a.C. è Babilonia, ormai, la cià che illumina il Vicino
Oriente. La scriura cuneiforme è sempre in vigore, anche se a questo
punto si utilizzano solo due simboli: il chiodo semplice, che vale 1, e il
cuneo, che vale 10.
esti due segni consentono di conteggiare, tramite addizione, tui i
numeri fino al 59. Il numero 32, per esempio, si scrive utilizzando tre cunei
seguiti da due chiodi.

Dopodiché, a partire dal 60, si cominciano a stabilire dei gruppi, e si


impiegheranno sempre gli stessi simboli per annotare i gruppi di 60. Così,
come nel nostro metodo auale le cifre lee da destra a sinistra indicano
le unità, poi le decine, poi le centinaia, nella numerazione babilonese si
leggono prima le unità, poi le sessantine, poi le tremilaseicentine (vale a
dire sessanta sessantine) e così via, ogni insieme vale sessanta volte più
del precedente.
Per esempio, il numero 145 è composto da due sessantine che fanno
centoventi, alle quali vanno aggiunte venticinque unità. I babilonesi lo
avrebbero dunque scrio nel seguente modo:
Grazie a tale sistema, gli studiosi babilonesi svilupperanno conoscenze
fuori dal comune. Sanno naturalmente eseguire le quaro operazioni di
base, addizioni, sorazioni, moltiplicazioni e divisioni, ma conoscono
anche le radici quadrate, le potenze e le operazioni inverse. Producono
tavole aritmetiche estremamente complete e affrontano le equazioni, per le
quali sviluppano oimi metodi di risoluzione.
Ciononostante, tue queste conoscenze saranno ben presto
dimenticate. La civiltà babilonese è in declino e gran parte dei suoi
progressi matematici cadrà nell’oblio. Finita la numerazione per posizione.
Finite le equazioni. Occorrerà aendere secoli perché questioni del genere
tornino in primo piano, e solo nel XIX secolo la decifrazione delle tavolee
cuneiformi ci farà tornare alla mente che i mesopotamici avevano già
risolto quei problemi prima di tui gli altri popoli.
Dopo i babilonesi, anche i maya concepiranno un sistema posizionale,
ma basato sul 20. Saranno poi gli indiani a inventare un sistema in base 10,
che verrà riutilizzato dai matematici arabi per poi passare in Europa alla
fine del Medioevo. A quel punto i simboli si chiameranno numeri arabi, e
si diffonderanno in tuo il mondo.

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Con i numeri, l’umanità capisce, sia pure gradualmente, di aver inventato


uno strumento che supera ogni aspeativa, in grado di descrivere,
analizzare e comprendere il mondo circostante.
Ne siamo così soddisfai che a volte ne facciamo un uso esagerato. La
nascita dei numeri segna anche la nascita delle diverse pratiche di
numerologia. Ai numeri si aribuiscono proprietà magiche, li si interpreta
anche in modo irrazionale, vi si leggono i messaggi degli dei e il destino
del mondo.
Nel VI secolo a.C. Pitagora ne farà il conceo fondamentale della sua
filosofia: “Tuo è numero”, dichiara il filosofo greco. Secondo lui, sono i
numeri a creare figure geometriche che, a loro volta, danno luogo ai
quaro elementi della materia – fuoco, acqua, terra, aria – che
compongono tui gli esseri. Pitagora sviluppa così, aorno ai numeri, un
intero sistema. I dispari sono associati al maschile, i pari al femminile. Il
numero 10, raffigurato come un triangolo, viene denominato tetraktys e
diventa simbolo dell’armonia e della perfezione del cosmo. I pitagorici
saranno anche promotori dell’aritmomanzia, la quale si propone di leggere
i caraeri umani associando valori numerici alle leere che compongono i
loro nomi.
E intanto si discute su che cos’è un numero. Alcuni autori sostengono
che l’unità non è un numero, in quanto il numero designa qualcosa di
molteplice e pertanto bisogna partire dal numero 2. Si arriverà persino ad
affermare che, per poter dar vita a tui gli altri numeri, l’1 deve ritenersi
sia pari sia dispari.
Successivamente, saranno lo zero, i numeri negativi o anche i numeri
immaginari a suscitare dispute sempre più animate. Ogni volta, l’affiorare
delle nuove idee nell’ambito dei numeri sarà all’origine di dibaiti, e
obbligherà i matematici ad ampliare le loro concezioni.
In definitiva, il numero non ha smesso di sollevare domande, e chissà
quanto tempo occorrerà agli uomini perché imparino a governare queste
strane creature partorite dai loro stessi cervelli.
3. Vietato l’ingresso a chi ignora la geometria

Una volta inventato il numero, la matematica non tarderà a trasformarsi in


una disciplina plurima. Al suo interno, germineranno a poco a poco
branche come l’aritmetica, la logica o l’algebra, che si svilupperanno fino a
raggiungere una propria maturità e ad affermarsi come discipline
autonome.
Una di esse riuscirà in breve tempo a primeggiare sulle altre e ad
airare i maggiori sapienti dell’Antichità: la geometria. Sarà questa a
procurare il successo alle prime grandi star della matematica, come Talete,
Pitagora o Archimede, i cui nomi riempiono ancora oggi le pagine dei
nostri manuali scolastici.
In ogni caso, prima di diventare una disciplina da grandi pensatori, è
sul campo che la geometria si conquista i galloni di prima classe. Lo
aesta già l’etimologia della parola. È la scienza designata per misurare i
terreni, per cui i primi agrimensori saranno dei matematici “di quartiere”. I
problemi riguardanti la divisione di un territorio diventano insomma un
classico del seore. Come dividere un campo in parti uguali? Come
valutare il prezzo di un terreno a partire dalla sua superficie? ale, tra
due appezzamenti, è il più vicino al fiume? ale tracciato deve seguire il
futuro canale per essere il più corto da costruire?
Sono tue domande di capitale importanza nelle società antiche, la cui
intera economia si articola perlopiù aorno all’agricoltura e quindi alla
ripartizione dei terreni. Tanto che, per rispondervi, si fonda un vero e
proprio sapere geometrico, lo si arricchisce e lo si tramanda di
generazione in generazione. E disporre di un tale sapere significa,
indiscutibilmente, assicurarsi un ruolo centrale e imprescindibile nella
società.
Per i professionisti della misurazione, il primo degli strumenti
geometrici è, il più delle volte, la corda. In Egio, il tenditore di corde è un
mestiere a tui gli effei. ando le piene del Nilo provocano regolari
inondazioni, si fa appello a costoro per ridefinire i limiti degli
appezzamenti che costeggiano il fiume. Grazie alle informazioni raccolte
sui terreni, piantano i loro palei, dispiegano araverso i campi le loro
lunghe corde, e infine effeuano i calcoli che permeono di risalire ai
confini cancellati dalla piena delle acque.
ando si erige un edificio, sono ancora loro i primi a intervenire per
prendere le misure sul terreno e delimitare con precisione, sulla base del
progeo dell’architeo, il luogo esao della costruzione. E quando si traa
di un tempio o di un monumento importante, talvolta è il faraone in
persona a tendere simbolicamente la prima corda.
Va deo che la corda è uno strumento geometrico dalle molte
proprietà. Gli agrimensori la usano sia come righello sia come compasso
sia come squadra.
Per quanto riguarda il righello, è abbastanza elementare: si tende la
corda tra due punti fissi e si oiene una linea rea. Se poi si preferisce un
righello graduato, basta fare dei nodi sulla corda a intervalli regolari. Il
compasso è ugualmente semplice: è sufficiente fissare una delle due
estremità a un paleo e farvi girare aorno l’altra estremità. Si oiene così
un cerchio. E se la corda è graduata, si verifica perfeamente la lunghezza
del suo raggio.
Con la squadra, invece, le cose si complicano un po’. Fermiamoci un
momento sul seguente problema specifico: come fare per tracciare un
angolo reo? Dopo varie ricerche, si può pensare a metodi diversi. Se, per
esempio, si tracciano due cerchi che s’incrociano, la linea rea che ne
unisce i centri risulta perpendicolare alla linea rea che passa araverso i
loro punti d’intersezione. Si oiene così un angolo reo.
Da un punto di vista teorico, si traa di una costruzione che funziona alla
perfezione. Nella pratica, però, è più complicato. Provate a pensare agli
agrimensori, nei campi, intenti a tracciare con precisione due grandi
cerchi ogni volta che hanno bisogno di un angolo reo o, più
semplicemente, per controllare che un angolo già oenuto sia davvero
reo. Non è un metodo né rapido né efficace.
Per cui gli agrimensori adoano un sistema differente, più soile e più
pratico: creano cioè un triangolo con un angolo reo direamente con la
corda. Un triangolo che si chiamerà, appunto, triangolo reangolo. E il più
celebre non è forse il 3-4-5? Si prenda una corda ripartita per mezzo di
tredici nodi in dodici intervalli: si potrà così formare un triangolo i cui lati
misureranno rispeivamente tre, quaro, cinque intervalli. E, come per
magia, l’angolo formato dai lati 3 e 4 risulterà un angolo perfeamente
reo.
Già quaromila anni fa, i babilonesi disponevano di tavolee numeriche
che consentivano loro di costruire triangoli reangoli. La tavolea
Plimpton 322, aualmente inclusa nella collezione della Columbia
University di New York, datata 1800 a.C., presenta una tabella di quindici
terne di tali numeri. Oltre alla terna 3-4-5, vi si trovano altri quaordici
triangoli, e alcune terne sono neamente più complesse, come la 65-72-97
a anche la 1679-2400-2929. Con qualche piccola svista – errori di calcolo o
di ricopiatura – i triangoli della tavolea Plimpton sono assolutamente
esai: possiedono tui un angolo reo!
È difficile sapere con esaezza a partire da quale epoca gli agrimensori
babilonesi abbiano utilizzato i triangoli reangoli per i terreni, ma è certo
che il loro utilizzo è durato ben oltre la scomparsa della loro civiltà. Nel
Medioevo la corda con tredici nodi, dea anche corda dei druidi, è rimasta
uno degli strumenti essenziali dei costruori di caedrali.
ando si viaggia araverso la storia della matematica, non è raro
constatare che certe nozioni tra loro simili sono presenti, in maniera del
tuo indipendente, a migliaia di chilometri di distanza e in contesti
culturali profondamente diversi. Tra queste strane, stupefacenti
coincidenze, emerge il fao che la civiltà cinese abbia sviluppato, nel corso
del I millennio a.C., una pratica matematica che ricalca curiosamente le
scoperte delle civiltà babilonese, egizia o greca della stessa epoca.
Si traa di conoscenze accumulate nel corso dei secoli per poi essere
codificate soo la dinastia Han, circa duemiladuecento anni fa, in una
delle prime grandi opere matematiche del mondo: I nove capitoli sull’arte
matematica.
Il primo dei nove capitoli è interamente dedicato allo studio delle
misure dei campi di varie forme. Reangoli, triangoli, trapezi, dischi,
porzioni di dischi nonché anelli sono altreante figure geometriche per le
quali vengono esposte minuziose procedure di calcolo dell’area. Più avanti
nell’opera si scopre che il nono e ultimo capitolo è riservato proprio allo
studio dei triangoli reangoli. E indovinate di quale figura si parla fin dalla
prima frase del capitolo… del 3-4-5!
Le buone idee sono così. Travalicano le differenze culturali e riescono a
fiorire spontaneamente là dove menti umane sono pronte a raccoglierle.

QUALCHE PROBLEMA D’EPOCA


I problemi in materia di terreni, di architeura o più in generale di
sviluppo del territorio hanno indoo i sapienti dell’Antichità a porsi
differenti e molteplici domande d’ordine geometrico. Eccone alcuni
esempi.
L’enunciato seguente, impresso sulla tavolea babilonese BM 85200,
mostra come i babilonesi non si limitassero allo studio della geometria
piana, ma ragionassero altresì sulla geometria solida.

Una cava. Tanto lunga quanto fonda. 1, la terra, l’ho rimossa. Suolo e
terra li ho ammucchiati, 1’10. Lunghezza e fondo, ’50. Lunghezza, fondo,
quanto fa?1

L’avrete capito. Lo stile dei matematici babilonesi era di tipo


telegrafico. Approfondendo un po’, l’enunciato potrebbe suonare così:

La profondità di una cava è dodici volte superiore2 alla sua lunghezza. Se


scavo la mia cava perché abbia un’unità in più di profondità, il suo
volume sarà uguale a 7/6. Se sommo lunghezza e larghezza oengo 5/6.3
ali sono le dimensioni della cava?

Il problema è seguito dal metodo deagliato per giungere alla


soluzione: la lunghezza misura 1/2, la larghezza 1/3 e la profondità 6.
Facciamo ora un piccolo balzo e raggiungiamo la riva del Nilo. Gli egizi,
naturalmente, non possono non affrontare il problema delle piramidi.
L’enunciato seguente è estrao da un celebre papiro, datato intorno
alla prima metà del XVI secolo a.C. e redao dallo scriba Ahmes.

Una piramide la cui base è di 140 cubiti e la cui pendenza4 è di 5 palmi e 1


dito. al è la sua altezza?

Considerando che il cubito, il palmo e il dito sono unità di misura che


valgono rispeivamente 52,5 centimetri, 7,5 centimetri e 1,88
centimetri, Ahmes dà la seguente soluzione: 93 cubiti e 1/3. Nello stesso
papiro, lo scriba affronta pure la geometria del cerchio.

Esempio di calcolo di un campo rotondo di un diametro di 9 khet. al è


il valore della sua area?

Anche il khet è un’unità di misura e vale circa 52,5 metri. Per risolvere
il problema, Ahmes afferma che l’area del campo circolare è uguale a
quella di un campo quadrato il cui lato misuri 8 khet. Il confronto è
della massima utilità, poiché è molto più facile calcolare l’area di un
quadrato che quella di un disco. Ahmes trova 8 × 8 = 64. Eppure i
matematici che prenderanno il suo posto scopriranno che il suo
risultato non è esao. Le aree del disco e del quadrato non coincidono
affao. Molti di loro tenteranno poi di rispondere alla domanda: come
costruire un quadrato la cui area sia uguale a quella di un cerchio?
Applicandovisi invano, com’è ovvio. Infai Ahmes, senza saperlo, fu
uno dei primi a fissarsi su quello che diventerà il più grande rompicapo
matematico di tui i tempi: la quadratura del cerchio!
Anche in Cina si cerca di calcolare la superficie dei campi di forma
circolare. Il seguente problema deriva dal primo dei Nove capitoli.

Supponiamo di avere un campo circolare di 30 bu di circonferenza e di 10


bu di diametro. Domanda: quanto misura il campo?5

In Cina, un bu equivale a circa 1,4 metri. E, come in Egio, i matematici


cinesi inciampano su questa figura. Oggi ormai sappiamo che
l’enunciato è sbagliato, poiché un disco di diametro 10 possiede una
circonferenza leggermente superiore a 30. Ciò non toglie che gli uomini
di scienza cinesi arrivino a dare un valore approssimativo dell’area (75
bu), e si complichino ancor più la vita con problemi relativi agli anelli!

Supponiamo di avere un campo a forma di anello la cui circonferenza


interna sia di 92 bu, la circonferenza esterna di 122 bu e il diametro
trasverso di 5 bu. Domanda: quanto misura il campo?

Possiamo benissimo sospeare che non sia mai esistito, nell’antica


Cina, un campo a forma di anello, e immaginare pertanto che i sapienti
del Regno di Mezzo, talmente presi dal gioco della geometria, abbiamo
ideato problemi del genere per il semplice gusto della sfida teorica.
Ancora oggi, infai, andare alla ricerca di figure geometriche sempre
più improbabili e bizzarre per studiarle e comprenderle rimane uno dei
passatempi preferiti dai nostri matematici.

Tra i mestieri collegati alla geometria bisogna considerare anche quello


dei bematisti. Se gli agrimensori o i tenditori di corde hanno la missione di
misurare i campi e gli edifici, ai bematisti tocca invece considerare le cose
molto più in grande! In Grecia i bematisti hanno il compito di misurare
lunghe distanze contando i propri passi.
E, a volte, questa mansione può portarli lontano, molto lontano dalla
patria. Per esempio, nel IV secolo a.C., nella sua campagna d’Asia,
Alessandro Magno condusse con sé alcuni bematisti fino al confine con
l’auale India. elli che doveero misurare questi geometri camminatori
sono tragii di parecchie migliaia di chilometri.
Osservate la scena dall’esterno e immaginate per un momento l’insolito
speacolo di questi uomini dal passo cadenzato che araversano gli
immensi paesaggi del Medio Oriente. Osservateli percorrere gli altipiani
dell’Alta Mesopotamia; costeggiare gli aridi, stepposi scenari della penisola
del Sinai, per raggiungere infine i fertili bordi della valle del Nilo; poi
riprendere il cammino, arrivare a sondare i massicci montagnosi
dell’impero persiano e i deserti dell’odierno Afghanistan. Visualizzateli
che marciano e marciano senza sosta, imperturbabili, con ritmo secco e
monotono, fino ai piedi delle montagne gigantesche dell’Hindu Kush; e
infine mentre tornano indietro, percorrendo le rive dell’Oceano Indiano.
Instancabilmente, contando i passi.
È un’immagine che ci fa impressione, e la portata della loro impresa ci
appare insensata. E, tuavia, i loro risultati saranno di una precisione
notevole: in media, meno del 5% di divario tra le loro misure e le distanze
reali che conosciamo oggi! I bematisti di Alessandro hanno insomma
consentito di descrivere la geografia del suo regno come non era mai stato
fao per un territorio tanto vasto.
Due secoli dopo, in Egio, uno scienziato di origine greca, Eratostene,
coltiva un progeo ancor più ambizioso. ello di misurare la
circonferenza della… Terra. Nientemeno! Beninteso, non si traa certo di
spedire dei poveri bematisti a fare il giro del pianeta. Eppure, grazie ad
abili osservazioni sulla diversa inclinazione dei raggi del Sole sulle cià di
Siene, l’auale Assuan, e di Alessandria, Eratostene calcola che la distanza
tra le due cià corrisponde a un cinquantesimo della circonferenza totale
della Terra.
Naturalmente, fa appello a un gruppo di bematisti per effeuare tale
misurazione. Senonché, contrariamente ai bematisti greci, quelli egiziani
non contano direamente i propri passi, bensì quelli del cammello che li
accompagna. L’animale è ben noto per la regolarità della sua marcia. Dopo
lunghe giornate di viaggio sul corso del Nilo, viene emesso il verdeo: le
due cià distano 5000 stadi, dunque la circonferenza del nostro pianeta
misura 250.000 stadi, ovvero 39.375 chilometri. Ancora una volta, il
risultato è di una precisione impressionante. Oggi, infai, sappiamo che la
misura esaa è 40.008 chilometri. Solo il 2% di errore!
Ancor più degli altri popoli antichi, i greci assegneranno alla geometria
un posto preponderante nell’ambito della loro cultura, riconoscendole un
rigore intrinseco e una capacità di formare le menti. Platone la ritiene un
passaggio obbligato per chi vuole diventare filosofo e leggenda vuole che,
sul frontespizio della sua Accademia, fosse inciso il moo: “Vietato
l’ingresso a chi ignora la geometria”.
La geometria è talmente in voga da finire per valicare i propri confini e
invadere il terreno di altre discipline. Per cui anche le proprietà
aritmetiche dei numeri vengono interpretate in linguaggio geometrico. Si
veda per esempio la seguente definizione di Euclide, traa dal seimo
libro dei suoi Elementi di matematica del III secolo a.C.:
ando due numeri si moltiplicano tra loro producono un terzo
numero che si chiama piano e i cui lati sono i numeri che si sono
moltiplicati.

Se eseguo il prodoo 5 × 3, i numeri 5 e 3 si chiamano dunque, secondo


Euclide, “lati” della moltiplicazione. Perché? Semplicemente perché una
moltiplicazione si può raffigurare come la superficie di un reangolo. Se
quest’ultimo ha una larghezza uguale a 3 e una lunghezza uguale a 5, la
sua area varrà 5 × 3. I numeri 3 e 5 sono per l’appunto i lati del reangolo.
E il prodoo della moltiplicazione, 15, viene deo “piano”, poiché
corrisponde, dal punto di vista geometrico, a una superficie.

Costruzioni simili si applicano ad altre figure geometriche. Per


esempio, un numero è chiamato triangolare se può essere raffigurato in
forma di… triangolo. Per cui i primi numeri triangolari sono 1, 3, 6 e 10.
L’ultimo di questi triangoli, formato da dieci punti, non è altro che la
famosa tetraktys, interpretata da Pitagora e dai suoi discepoli come
simbolo dell’armonia del cosmo. Concepiti in base allo stesso principio,
troviamo anche i numeri quadrati, i cui primi rappresentanti sono 1, 4, 9 e
16.

E potremmo continuare a lungo in tal maniera, con ogni tipo di figura.


La rappresentazione geometrica dei numeri serve inoltre a rendere visibili
ed evidenti proprietà che, in sua assenza, sembrerebbero incomprensibili.
Facciamo un esempio. Avete già provato a sommare i numeri dispari
l’uno in successione all’altro: 1 + 3 + 5 + 7 + 9 + 11 + …? No? Ne vien fuori
una cosa a dir poco sorprendente. Guardate:

1
1+3=4
1+3+5=9
1 + 3 + 5 + 7 = 16
Vedete la peculiarità dei numeri che compaiono? Nell’ordine: 1, 4, 9,
16… Sono i numeri quadrati!
Potete continuare quanto volete. La regola non verrà mai smentita.
Sommate, se ve la sentite, i primi dieci numeri dispari, da 1 a 19, e
oerrete 100, che è il decimo numero quadrato:

1 + 3 + 5 + 7 + 9 + 11 + 13 + 15 + 17 + 19
= 10 × 10 = 100

Sorprendente, vero? Ma perché? Per quale miracolo una tale proprietà


è sempre vera? Si potrebbe fornire una prova numerica, ma ve ne è una
più semplice. Grazie alla rappresentazione geometrica, basta scomporre i
numeri quadrati in porzioni diverse e la spiegazione salta subito agli occhi.

Ogni porzione aggiunge un numero dispari di palline, aumentando così


di un’unità il lato del quadrato. Ecco la prova, semplice e chiara.
In definitiva, nel regno della matematica la geometria è regina, e non
una sola affermazione risulterebbe valida senza passare al suo vaglio. La
sua egemonia durerà ben oltre l’Antichità e la civiltà greca. Occorrerà
aendere ancora quasi duemila anni prima che gli scienziati del
Rinascimento promuovano un vasto movimento di modernizzazione della
matematica che spodesterà la geometria in favore di un linguaggio del
tuo nuovo: quello dell’algebra.
1
J. Høyrup, L’algèbre au temps de Babylone, Vuibert, Adapt-SNES, Paris 2010.
2
L’enunciato della tavolea sembra suggerire che la lunghezza e la profondità sono uguali.
Tuavia, nel sistema babilonese, le profondità vengono misurate in base a un’unità di misura dodici
volte superiore a quella delle lunghezze.
3
È inoltre doveroso rilevare che, con il sistema in base 60, l’annotazione 1’10 indica il numero
uguale a “uno più dieci sessantesimi”, cifra che noi, nel nostro auale sistema, esprimiamo con la
frazione 7/6. L’annotazione ’50 indica invece la nostra frazione 5/6 (o cinquanta sessantesimi)
4
La pendenza di una faccia della piramide, dea anche seked in egiziano, corrisponde alla
distanza orizzontale tra due punti la cui altezza differisce di un cubito.
K. Chemla, G. Shuchun, Les neuf chapitres: le classique mathématique de la Chine ancienne et ses
5

commentaires, Dunod, Paris 2004.


4. Il tempo dei teoremi

Siamo ai primi di maggio. È mezzogiorno e il sole brilla sul Parc de la


Villee, nella zona Nord di Parigi. Davanti a me si staglia la Cité des
sciences et de l’industrie, con, in primo piano, La Géode. esta strana
sala cinematografica, costruita verso la metà degli anni oanta, somiglia a
una gigantesca sfera sfacceata, di trentasei metri di diametro.
Il posto è molto frequentato. Ci sono turisti venuti ad ammirare,
macchina fotografica alla mano, questa curiosa costruzione parigina. Ci
sono famiglie che fanno la loro passeggiata del mercoledì.6 Alcune coppie
d’innamorati sono sedute sull’erba o camminano tenendosi per mano. a
e là, qualcuno fa jogging zigzagando tra gli abitanti del quartiere che
transitano indifferenti, lanciando appena uno sguardo alla strana
apparizione della sfera luccicante, abituati come sono a vederla tui i
giorni. Tu’aorno, dei bambini si divertono a osservarvi l’immagine
deformata del mondo che li circonda.
Per quanto mi riguarda, oggi mi trovo qui perché questa geometria
m’interessa in modo particolare. Inizio così ad avvicinarmi esaminandola
con la massima aenzione. La sua superficie è composta da migliaia di
specchi triangolari assemblati gli uni agli altri. A prima vista,
l’assemblaggio può sembrare perfeamente regolare. Tuavia, dopo alcuni
minuti di osservazione, cominciano ad apparirmi diverse irregolarità.
Aorno a determinati punti, ben precisi, i triangoli si deformano e si
allargano, come se patissero una malformazione della struura. Mentre
lungo quasi tua la superficie della sfera essi formano un reticolo
perfeamente regolare, composto da esagoni raggruppati per sei, si
evidenziano una dozzina di punti specifici aorno ai quali i triangoli si
raggruppano solo per cinque.
Raffigurazione della Géode e delle sue migliaia di triangoli.
I punti in cui i triangoli si raggruppano per cinque sono segnalati in grigio
scuro.

Di primo acchito, le irregolarità sono pressoché invisibili. E infai la


maggioranza dei visitatori non vi presta la minima aenzione. Per i miei
occhi di matematico, però, non sono per nulla strane. Anzi, devo dire che
mi aspeavo di trovarle! L’architeo non ha commesso alcun errore. Del
resto, nel mondo, esistono numerosi altri edifici con una geometria simile,
e tui annoverano un’analoga dozzina di punti in cui le forme di base si
raggruppano per cinque e non per sei. E sono punti concomitanti con
inevitabili vincoli geometrici, scoperti più di duemila anni fa dai
matematici greci.
Teeteto di Atene è un matematico del IV secolo a.C. al quale viene in
genere aribuita la descrizione completa dei poliedri regolari. Un poliedro,
in geometria, è semplicemente una figura con un volume delimitato da più
facce piane. Per esempio, i cubi e le piramidi fanno parte della famiglia dei
poliedri, mentre non ne fanno parte le sfere e i cilindri, le cui facce sono
arrotondate. La Géode, con le sue facce triangolari, può dunque essere
considerata un poliedro gigante, anche se, da lontano, quel gran numero di
facce la fa somigliare piuosto a una sfera.
Teeteto s’interessò in modo particolare ai poliedri perfeamente
simmetrici, ossia quelli che hanno facce e angoli tui uguali. E la sua
scoperta, dobbiamo dire, suona perlomeno sconcertante. Infai ne
individuò solo cinque, e dimostrò che non ne esistevano altri. Cinque
solidi, non uno di più!

Da sinistra a destra:
il tetraedro, l’esaedro, l’oaedro, il dodecaedro e l’icosaedro

Ancora oggi, è consuetudine denominare i poliedri secondo il loro


numero di facce, scrio in greco antico, seguito dal suffisso -edro. Per
esempio il cubo, con le sue sei facce quadrate, reca, in geometria, il nome
di esaedro. Così come il tetraedro, l’oaedro, il dodecaedro e l’icosaedro
hanno rispeivamente quaro, oo, dodici e venti facce. In epoca
successiva, i cinque poliedri saranno chiamati i “solidi di Platone”.
Di Platone? E perché non di Teeteto? La storia a volte è ingiusta, e non
è sempre colui che scopre qualcosa a ricevere gli onori dei posteri. Il
filosofo ateniese non ha nulla a che fare con la scoperta dei cinque solidi, e
tuavia li ha resi celebri associandoli agli elementi del cosmo: il fuoco è
associato al tetraedro, la terra all’esaedro, l’aria all’oaedro e l’acqua
all’icosaedro. anto al dodecaedro, con le sue facce pentagonali, Platone
sostiene addiriura che si trai della forma dell’Universo. esta teoria è
stata accantonata dalla scienza da tantissimo tempo, eppure, per
consuetudine, i cinque poliedri regolari continuano a essere associati al
nome di Platone.
D’altronde, se volessimo essere onesti fino in fondo, dovremmo
aggiungere che neppure Teeteto è stato il primo a scoprire i cinque solidi.
Di essi si trovano modelli scolpiti o descrizioni scrie ben più antichi. In
Scozia è venuta alla luce una collezione di palline di pietra scolpite,
assimilabili ai solidi di Platone, che risalirebbe a ben mille anni prima del
matematico greco! I reperti sono oggi conservati presso l’Ashmolean
Museum di Oxford.
Dunque Teeteto non vale tanto più di Platone? È anche lui un
impostore? Nient’affao. Perché se le cinque figure erano già conosciute
prima, è altreanto vero che fu lui il primo a dimostrare chiaramente che
l’elenco era completo. Inutile cercare oltre, ci dice Teeteto. Nessuno ne
troverà altre. E la sua affermazione ha un che di rassicurante. Ci risolve un
dubbio atroce. Bene! Ci sono proprio tue.
Ci troviamo a una tappa importante per quanto riguarda il modo in cui
i matematici greci affronteranno d’ora in poi la loro disciplina. Non si
traa più soltanto di trovare soluzioni che funzionino. Vogliono affrontare
il problema in modo esaustivo. Vogliono essere sicuri che niente possa
sfuggire loro. E proprio per questo eleveranno l’arte dell’esplorazione
matematica ai massimi vertici.
Torniamo ora alla Géode. La dimostrazione di Teeteto è inappellabile:
impossibile, per un poliedro con centinaia di facce, dirsi perfeamente
regolare. Come deve comportarsi, allora, un architeo intenzionato a
costruire un edificio il più possibile somigliante a una sfera regolare?
Tecnicamente, è difficile concepirlo in un unico pezzo. No, non c’è niente
da fare: occorre per forza assemblare un’enorme quantità di piccole facce.
Ma come creare una struura del genere?
Si possono immaginare diverse soluzioni. Una di esse consiste nel
prendere uno dei solidi di Platone e modificarlo. Prendiamo l’icosaedro,
per esempio. Con le sue venti facce triangolari, sembra essere lui il più
rotondo dei cinque poliedri. E, per renderlo ancora più piano, si può
suddividere ciascuna faccia in facce più piccole. Il poliedro oenuto può
insomma essere deformato, come se lo si gonfiasse soffiandovi dentro, in
modo da farlo somigliare il più possibile a una sfera.
Ecco che cosa si vede suddividendo ciascuna faccia dell’icosaedro in
quaro triangoli più piccoli.
L’icosaedro

Icosaedro con facce suddivise in quaro


Icosaedro con facce suddivise e gonfiato

E come si chiama, in geometria, un poliedro del genere? Una geode.


Ossia, etimologicamente, una figura che ha la forma della Terra, in altri
termini assimilabile a una sfera. Niente di tanto complicato, in linea di
principio. È proprio la costruzione concepita per La Géode della Villee!
Dove, però, la suddivisione delle facce è molto più minuziosa: i triangoli di
base dell’icosaedro sono, nel caso specifico, suddivisi in 400 triangoli più
piccoli, per un totale di 8000 piccolissime facce triangolari!
A dire il vero, La Géode ne conta un po’ meno di 8000, vale a dire solo
6433. Perché? Perché non è completa. La base, che poggia al suolo, è
tronca, e alcuni triangoli risultano mancanti. Rimane il fao che questa
struura permee di spiegare la presenza delle dodici irregolarità, le quali,
semplicemente, corrispondono ai dodici vertici dell’icosaedro di base. In
altri termini, si traa dei punti in cui i grandi triangoli di partenza si
raggruppavano per cinque, per formare le punte dell’icosaedro. I vertici,
appuntiti in origine, si sono inevitabilmente smussati per effeo della
moltiplicazione delle facce, tanto da risultare pressoché invisibili. Ma la
loro presenza traspare dalla disposizione dei triangoli, e le dodici famose
irregolarità sono pur sempre lì, in bella vista per i passanti più aenti.
Teeteto era sicuramente ben lontano dal pensare che le sue ricerche
avrebbero permesso, un giorno, la costruzione di edifici come La Géode. E
appunto in questo consiste la grande forza della matematica, come
sapranno svilupparla i sapienti dell’antica Grecia: una formidabile capacità
di produrre idee nuove. I greci inizieranno poco per volta ad astrarre i loro
interrogativi dalle problematiche concrete, riuscendo così a dar vita, in
forza della semplice curiosità intelleuale, a modelli originali e ispiratori.
Modelli che, benché sembrino sprovvisti, al momento della loro
formulazione, di qualsiasi fruibilità pratica, finiranno a volte per rivelarsi,
dopo la scomparsa dei loro inventori, di una sorprendente utilità.
Ai giorni nostri, i cinque solidi di Platone sono riconoscibili in vari
contesti. Per esempio, figurano soo forma di dadi in molti giochi di
società. La loro regolarità assicura che il dado sia equilibrato, ossia che
tue le facce abbiano l’identica possibilità di uscire. Tui hanno presente
il dado a sei facce, ma i giocatori più incalliti sanno che spesso si
impiegano, per aumentare il divertimento e le probabilità, anche le altre
quaro forme.
Mentre mi allontano dalla Géode, incontro poco più in là un gruppo di
bambini che si sono procurati un pallone e danno inizio, sui prati della
Villee, a una partitella di calcio improvvisata. Non lo sanno, ma anche
loro, in questo momento, devono accendere un cero a Teeteto. Si sono
accorti che anche il loro pallone riporta una serie di motivi geometrici? I
palloni da calcio ricalcano perlopiù il medesimo modello: venti forme
esagonali (sei lati) e dodici forme pentagonali (cinque lati). Sui palloni
tradizionali gli esagoni sono bianchi e i pentagoni sono neri. E anche
quando sulla superficie del pallone sono impressi tanti disegni diversi,
basta guardare con aenzione le cuciture che delimitano le varie forme
per veder riaffiorare, inevitabilmente, i venti esagoni e i dodici pentagoni.
Un icosaedro tronco! Ecco come i geometri chiamano il pallone da
calcio. La cui struura comporta gli stessi vincoli della Géode: dev’essere
la più regolare e la più rotonda possibile. Con la differenza che, per
raggiungere un tale risultato, i creatori del modello hanno utilizzato un
metodo alternativo. Invece di suddividere le facce per poter arrotondare
gli angoli, hanno semplicemente optato per il… taglio degli angoli.
Immaginate un icosaedro fao di pongo, munitevi di un coltello e
tranciate semplicemente i vertici. I venti triangoli con le punte tranciate
diventano in questo modo degli esagoni, mentre le dodici punte smussate
evidenziano i dodici pentagoni.
I dodici pentagoni presenti su un pallone da calcio hanno dunque la
stessa origine delle dodici irregolarità presenti sulla superficie della Géode:
la collocazione originale dei dodici vertici dell’icosaedro.
E la ragazza che incontro, con il fazzoleo in mano, mentre sto
lasciando il Parc de la Villee? Non sembra molto in forma. Non sarà per
caso viima di un contagio da proliferazione di micro-icosaedri? Certi
microrganismi come i virus assumono infai, per natura, la forma di
icosaedri o di dodecaedri. Si pensi al rinovirus, responsabile di gran parte
dei raffreddori.
este minuscole creature adoano forme del genere per gli stessi
motivi per cui noi le utilizziamo in architeura o nella fabbricazione dei
palloni. Per questione di simmetria e di economia. Grazie agli icosaedri, i
palloni risultano composti di due soli tipi di forme differenti, così come la
membrana del virus è composta di poche molecole differenti (quaro per il
rinovirus) che si assemblano le une alle altre ripetendo sempre lo stesso
motivo. Il codice genetico necessario alla creazione di un tale involucro è
dunque molto più conciso ed economico rispeo a quello di una struura
priva di simmetria, la cui descrizione sarebbe ben più complessa.
Ancora una volta, Teeteto sarebbe rimasto sorpreso se fosse venuto a
sapere fino a che punto i suoi poliedri avrebbero trovato il modo di
dissimularsi.
Lasciamo sul serio, ora, il Parc de la Villee e riprendiamo il corso
cronologico della nostra storia. Come sono giunti, i matematici antichi
come Teeteto, a porsi domande sempre più teoriche e di caraere
generale? Per rispondere all’interrogativo, dobbiamo tornare indietro di
alcune migliaia di anni, sul litorale orientale del Mediterraneo.
Mentre le culture babilonese ed egiziana si vanno lentamente
spegnendo, l’antica Grecia sta per vivere i suoi secoli d’oro. A partire dal
VI secolo a.C., il mondo greco entra in un periodo di un’effervescenza
culturale e scientifica senza precedenti. La filosofia, la poesia, la scultura,
l’architeura, il teatro, la medicina e la storia sono discipline che stanno
per conoscere una vera e propria rivoluzione. Ancora oggi, l’eccezionale
vitalità del quel periodo nasconde la sua parte di fascino e di mistero.
Ebbene. All’interno di questo vasto movimento intelleuale, la matematica
occuperà un posto di grande rilievo.
ando pensiamo all’antica Grecia, la prima immagine che ci viene in
mente è quella della cià di Atene dominata dalla sua Acropoli. Vi
immaginiamo ciadini in toga bianca che camminano tra i templi di
marmo del Pentelico e gli ulivi, e che hanno appena inventato la prima
democrazia della storia! La visione, tuavia, è ben lontana dal
rappresentare l’interezza del mondo greco, in tua la sua varietà.
Nell’VIII e VII secolo a.C., sul litorale del Mediterraneo è nata una gran
quantità di colonie greche. Colonie che si sono perfeamente amalgamate
con i popoli locali, adoandone in parte i costumi e il modo di vivere. Non
è che tui i greci conducano la medesima esistenza. Tu’altro.
L’alimentazione, i passatempi, le credenze e i sistemi politici differiscono
notevolmente da una regione all’altra.
In altri termini, la matematica greca non fiorisce in un luogo ristreo
dove tui gli eruditi si conoscono e s’incontrano ogni giorno. Avviene
nell’arco di un’ampia zona geografica e culturale. Saranno quindi il
contao con le civiltà più antiche, di cui sarà l’erede, e l’amalgama della
propria diversità, a fare da motore alla rivoluzione matematica. Non
saranno pochi i doi che, nel corso della vita, andranno in pellegrinaggio
in Egio o in Medio Oriente, considerandolo un passaggio obbligato per la
loro formazione. Una buona parte dei matematici babilonesi ed egiziani
finirà così per integrarsi con gli uomini di scienza della Grecia, che ne
proseguiranno l’operato.
Nella cià di Mileto, sulla costa sudoccidentale dell’auale Turchia,
nascerà, alla fine del VII secolo, il primo grande matematico greco: Talete.
Sebbene il suo nome sia menzionato da un gran numero di fonti, è difficile,
oggi, ricavare informazioni affidabili sulla sua vita e aività. Come per
molti uomini di scienza dell’epoca, dopo la sua morte è sorta, per iniziativa
di discepoli un po’ troppo zelanti, una quantità di leggende, al punto che è
difficile distinguere il vero dal falso. Gli scienziati dell’epoca non erano
condizionati da un’etica troppo vincolante, e non era raro vederli
manipolare la verità quando non era di loro gradimento.
Tra le tante storie che circolano su Talete, si dice, per esempio, che
fosse particolarmente distrao. Il sapiente di Mileto sarebbe stato il primo
esponente di una lunga tradizione di sapienti con la testa per aria! Un
aneddoto riporta che una noe fu visto cadere in un pozzo mentre
camminava con il naso per aria osservando le stelle. Si racconta anche che
morì, a quasi oant’anni, mentre stava assistendo a una manifestazione
sportiva: sarebbe stato così rapito dallo speacolo al punto da dimenticarsi
di mangiare e bere.
Anche le sue prodezze scientifiche sono oggeo di curiose narrazioni.
Talete sarebbe stato il primo a predire correamente un’eclisse di sole.
Tale eclisse si verificò nel bel mezzo della baaglia tra Medi e Lidi, sulle
rive del fiume Halys, nell’auale Turchia occidentale. Di fronte
all’irruzione della noe in pieno giorno, i combaenti, credendo a un
messaggio divino, decisero di concludere immediatamente la pace. Oggi,
predire le eclissi o ricostruire quelle del passato è diventato, per i nostri
astronomi, un gioco da ragazzi. E, proprio grazie a loro, sappiamo che
quell’eclisse ebbe luogo il 28 maggio del 584 a.C., data che fa della
baaglia di Halys l’evento storico più antico databile con una tale
precisione!
Proprio nel corso del viaggio in Egio, Talete realizzerà quella che
verrà considerata la sua più grande vioria. Si racconta che il faraone
Amasis in persona gli avesse lanciato la sfida di misurare l’altezza della
grande piramide. Fino ad allora, tui gli eruditi egiziani consultati
avevano fallito. Talete non solo raccolse la sfida, ma lo fece con eleganza,
usando un metodo particolarmente astuto. Lo scienziato di Mileto piantò
un bastone verticalmente al suolo, e aese il momento della giornata in
cui la lunghezza della sua ombra fosse pari alla sua altezza. In quel preciso
momento fece misurare l’ombra della piramide, che doveva essere
anch’essa uguale alla sua altezza. Il gioco era fao!

Il racconto è sicuramente piacevole, ma, ancora una volta, la realtà


storica potrebbe essere stata ben diversa. Stando all’aneddoto, gli uomini
di scienza egiziani del tempo non fanno certo una bella figura, laddove
alcuni papiri, per esempio quello di Ahmes, mostrano come sapessero
perfeamente calcolare l’altezza delle piramidi più di mille anni prima
dell’arrivo di Talete! Dove sta, allora, la verità? Talete misurò davvero
l’altezza della piramide? Fu il primo a utilizzare il metodo dell’ombra? E se
invece si fosse accontentato di misurare l’altezza di un ulivo davanti alla
sua casa di Mileto? Sarebbero stati poi i suoi discepoli a incaricarsi, alla
sua morte, di gonfiare la storia. Sarà meglio arrendersi all’evidenza che,
probabilmente, non ne sapremo mai nulla.
Comunque sia, la geometria di Talete è del tuo reale e, che l’abbia
applicata alla grande piramide oppure a un ulivo, il metodo dell’ombra
non perde nulla della sua genialità. Anzi, costituisce un esempio
particolare di una proprietà alla quale oggi diamo il suo nome: il teorema
di Talete. Molti altri risultati matematici sono aribuiti a Talete: il cerchio
è diviso a metà da ogni diametro (fig. 1); gli angoli alla base del triangolo
isoscele sono uguali (fig. 2); di due ree secanti, gli angoli opposti al
vertice sono uguali (fig. 3); se un triangolo ha i suoi tre vertici posizionati
su un cerchio e un lato che passa araverso il centro del cerchio, allora è
un triangolo reangolo (fig. 4). Anche quest’ultimo enunciato viene a
volte chiamato “teorema di Talete”.

Parliamo dunque di questo termine strano che per un verso affascina e


per l’altro mee paura: che cos’è un teorema? Etimologicamente, la parola
deriva dalle radici greche théa (“contemplazione”) e horáô (“guardare,
vedere”). Per cui un teorema sarebbe una sorta di osservazione matematica
sul mondo, una realtà che sarebbe stata prima constatata, poi analizzata e
infine consegnata dai matematici. I teoremi possono essere trasmessi per
via orale o per iscrio, e somigliano a ricee della nonna o a modi di dire
di caraere meteorologico codificati nel corso di generazioni, nella cui
veridicità tui ripongono fiducia. “Una rondine non fa primavera”,
“l’alloro calma i reumatismi” e “il triangolo 3-4-5 possiede un angolo
reo”. Sono cose che si credono vere, delle quali cerchiamo di ricordarci
per impiegarle al momento opportuno.
Secondo questa definizione, anche i mesopotamici, gli egizi e i cinesi
hanno enunciato teoremi. Tuavia, a partire da Talete, saranno i greci a
conferire loro una dimensione nuova. Per i greci, infai, un teorema non
deve soltanto enunciare una verità matematica. esta deve essere
formulata nella maniera più generale possibile, e accompagnata da una
dimostrazione che la convalidi.
Torniamo ora su una delle proprietà aribuite a Talete: il diametro di
un cerchio divide quest’ultimo in due parti uguali. Un’affermazione del
genere può apparire poca cosa, per un matematico del calibro di Talete,
tanto essa sembra ovvia. Possibile che si sia dovuto aendere il VI secolo
a.C. perché un’affermazione così banale fosse finalmente enunciata? Di
sicuro, i sapienti egiziani e babilonesi dovevano saperlo da chissà quanto
tempo.
Eppure non dobbiamo farci trarre in inganno. A rendere audace la
proprietà dello scienziato di Mileto non è tanto il contenuto quanto la
formulazione. Talete osa parlare di un cerchio senza precisare quale! Per
enunciare la stessa regola, babilonesi, egizi e cinesi avrebbero fao ricorso
a un esempio. Avrebbero deo: si tracci un cerchio di raggio 3 e uno dei
suoi diametri. Il cerchio viene diviso dal diametro in parti uguali. E,
qualora l’esempio non fosse ritenuto sufficiente per comprendere la regola,
ne avrebbero proposto un secondo, un terzo, anche un quarto se
necessario. Tui gli esempi necessari a far capire al leore di poter
ripetere la medesima operazione su qualunque cerchio incontrasse. Ma
l’enunciato generale non è mai stato formulato.
Talete fece un passo avanti. Prendete un cerchio, quello che volete voi,
io non voglio saperlo. Può essere enorme o minuscolo. Tracciatelo in
orizzontale, in verticale o su un piano inclinato, per me è lo stesso. Non
m’importa assolutamente né di quale cerchio si trai né del modo in cui
l’abbiate tracciato. alunque esso sia, io affermo che il suo diametro lo
divide in due parti uguali!
Grazie a tale operazione, Talete assegna definitivamente alle figure
geometriche lo statuto di oggei matematici astrai. È una tappa del
pensiero simile al passaggio epocale che, duemila anni prima, aveva
portato i mesopotamici a considerare i numeri prescindendo dagli oggei
conteggiati. Un cerchio non è più una figura tracciata sul terreno, su una
tavolea o su un papiro. Il cerchio diventa una finzione, un’idea, un ideale
astrao le cui rappresentazioni reali sono, nessuna esclusa, manifestazioni
concrete imperfee.
Da questo momento in avanti, le verità matematiche potranno essere
enunciate in modo conciso e in termini generali, indipendentemente dai
diversi casi particolari che ne possono discendere. Ebbene, a enunciati del
genere i greci daranno il nome di teoremi.
Talete ebbe, a Mileto, molti discepoli. I due più celebri furono
Anassimene e Anassimandro. est’ultimo ebbe a sua volta vari discepoli,
tra i quali un certo Pitagora, destinato a dare il proprio nome al teorema
più celebre di tui i tempi.
Pitagora nasce all’inizio del VI secolo a.C. sull’isola di Samo, situata al
largo dell’auale Turchia, a pochi chilometri dalla cià di Mileto. Dopo
una giovinezza trascorsa viaggiando per il mondo antico, a scopo
formativo, Pitagora elegge a domicilio la cià di Crotone, nel Sud-Est
dell’odierna Italia. i, nel 532 a.C., fonderà una scuola.
Pitagora e i suoi discepoli non sono esclusivamente matematici e
scienziati, ma anche filosofi, uomini religiosi e politici. Va deo che, se la
trasponessimo nella nostra epoca, la sua comunità passerebbe di sicuro
per una sea, tra le più segrete e pericolose. L’esistenza dei pitagorici è
governata da un complesso di regole precise. Chiunque intenda entrare a
far parte della scuola deve, per esempio, trascorrere cinque anni in
silenzio. I pitagorici non possiedono nulla di personale: tui i loro beni
vengono messi in comune. Per riconoscersi tra loro, adoano vari simboli,
come la tetraktys o il pentagramma a forma di stella a cinque punte. Del
resto, i pitagorici si considerano degli illuminati e si ritengono detentori di
dirio del potere politico. Per cui si opporranno con fermezza alla
ribellione delle cià che rifiuteranno la loro autorità. Pitagora, non a caso,
troverà la morte, a 85 anni, nel corso di una di tali rivolte.
La quantità di leggende d’ogni tipo relative alla persona di Pitagora
non è meno impressionante. Ai suoi discepoli non è certo mancata
l’immaginazione. Giudicate voi. Secondo loro, Pitagora sarebbe figlio del
dio Apollo. Il nome Pitagora non significa, forse, alla leera, “colui che è
stato annunciato dalla Pizia”? La Pizia di Delfi era infai l’oracolo del
tempio di Apollo, e sarebbe stata lei ad annunciare ai genitori di Pitagora
la futura nascita del rampollo. Secondo l’oracolo, Pitagora sarebbe
diventato il più bello e il più saggio degli uomini. In virtù di una nascita
del genere, dunque, lo scienziato greco non poteva non essere predestinato
a un grande avvenire. Pitagora, per esempio, era in grado di ricordare tue
le proprie vite anteriori. In una di esse, in particolare, era stato uno degli
eroi della guerra di Troia, Euforbo. In gioventù partecipò ai giochi
olimpici, e vinse tui gli incontri di pugilato (l’antenato della nostra boxe).
Pitagora è l’inventore delle prime scale musicali. Pitagora è in grado di
camminare nell’aria. Pitagora è morto ed è resuscitato. Pitagora possiede
talenti di indovino e di guaritore. Pitagora comanda agli animali. Pitagora
può vantare una coscia d’oro.
Tali leggende sono, in gran parte, troppo assurde perché si presti loro
credito, ma su altre non è facile pronunciarsi. È vero, per esempio, che
Pitagora fu il primo a impiegare la parola “matematica”? Chissà. I fai a
noi noti sono talmente contraddiori che alcuni storici hanno finito per
avanzare l’ipotesi che Pitagora sia stato un personaggio del tuo fiizio,
immaginato dai pitagorici per servirsene come nume tutelare.
Pertanto, non potendo sapere oltre sull’uomo, torniamo a ciò che gli ha
procurato il merito di essere ancora noto, a duemilacinquecento anni dalla
morte, a tui gli studenti del mondo: il teorema di Pitagora! Che cosa
enuncia il famoso teorema? alcosa che può suonare sorprendente,
poiché stabilisce un nesso tra due nozioni matematiche apparentemente
senza alcun rapporto: i triangoli reangoli e i numeri quadrati.
Riprendiamo il nostro triangolo reangolo preferito, il 3-4-5. A partire
dalla lunghezza dei suoi tre lati, è possibile costruire tre numeri quadrati:
9, 16 e 25.
Possiamo notare una strana coincidenza: 9 + 16 = 25. La somma dei
quadrati di lato 3 e 4 è uguale al quadrato di lato 5. Potremmo pensare a
un caso fortuito, eppure, se proviamo a ripetere il calcolo con un altro
triangolo reangolo, oeniamo il medesimo risultato. Prendiamo, per
esempio, il triangolo 65-72-97, presente sulla tavolea babilonese
Plimpton. I tre numeri quadrati corrispondenti sono 4225, 5184 e 9409. E la
somma 4225 + 5184 non può che dare 9409. In presenza di questi grandi
numeri, diventa più difficile credere a una semplice coincidenza.
Potete provare con tui i triangoli reangoli che volete, piccoli o
grandi, strei o larghi che siano: l’esito non cambierà mai! In un triangolo
reangolo, la somma dei quadrati costruiti sui due cateti che formano
l’angolo reo è sempre uguale al quadrato costruito sul terzo lato (che
chiamiamo ipotenusa). E la formula è valida anche in senso inverso: se in
un triangolo la somma dei quadrati costruiti sui due lati minori è uguale al
quadrato costruito sul lato maggiore, allora si traa di un triangolo
reangolo. Ecco il teorema di Pitagora!
Naturalmente non sappiamo se Pitagora o i suoi discepoli abbiano
davvero contribuito al teorema. Benché i babilonesi non l’abbiano mai
formulato nei termini generali appena visti, è molto probabile che
conoscessero già il risultato più di mille anni prima. Altrimenti, come
avrebbero potuto scoprire con la precisione che sappiamo tui i triangoli
reangoli presenti sulla tavolea Plimpton? Anche gli egizi e i cinesi, con
ogni probabilità, conoscevano il teorema. Il quale, non a caso, verrà
chiaramente enunciato nei commenti ai Nove capitoli aggiunti nei secoli
successivi alla loro redazione.
Stando ad alcuni racconti, Pitagora sarebbe stato il primo a dare una
dimostrazione del teorema. Nessuna fonte affidabile consente però di
confermarlo e la più antica e unica dimostrazione a noi pervenuta si trova
negli Elementi di matematica redai da Euclide tre secoli dopo.

6
In Francia, giorno di vacanza per le scuole elementari. (N.d.T.)
5. Un po’ di metodo

L’onere della prova costituirà, per i matematici greci, uno dei problemi
maggiori. Non un solo teorema potrà essere convalidato senza essere
accompagnato da una dimostrazione, vale a dire da un preciso
ragionamento logico che stabilisca in via definitiva la sua veridicità. E va
deo che, senza il vaglio rappresentato dalle dimostrazioni, i risultati
matematici possono sempre riservare delle brue sorprese. Nel senso che
certi metodi, pur legiimati nel tempo e ampiamente utilizzati, a volte non
funzionano come dovrebbero.
Un esempio. Pensate alla costruzione contenuta nel papiro di Rhind per
disegnare un quadrato e un disco di area uguale. Ebbene, è sbagliata. Non
di molto, certo, ma è comunque sbagliata. Basta misurare con precisione le
superfici e si scopre una differenza dello 0,5% circa! Gli agrimensori e altri
geometri dei terreni tenderebbero a sorvolare su un discostamento del
genere, ma i matematici teorici lo giudicherebbero inammissibile.
Lo stesso Pitagora si lasciò ingannare da ipotesi scorree. Il suo errore
più celebre riguarda le lunghezze commensurabili. Egli pensava infai che,
in geometria, due lunghezze siano sempre commensurabili, ovvero che sia
possibile trovare un’unità sufficientemente piccola che permea di
misurarle simultaneamente. Immaginate una linea di 9 centimetri e
un’altra di 13,7 centimetri. I greci non conoscevano i numeri decimali,
misuravano le lunghezze solo con i numeri interi. Per cui, secondo loro, la
seconda linea non si poteva misurare in centimetri. Deo ciò, in questo
caso non restava che considerare un’unità dieci volte più piccola, per poter
dire che le due linee misurano rispeivamente 90 e 137 millimetri. In
sostanza, Pitagora era certo che due linee qualsiasi, indipendentemente
dalla loro lunghezza, fossero sempre commensurabili trovando l’unità di
misura adeguata.
La sua convinzione venne tuavia smentita proprio da un pitagorico,
Ippaso di Metaponto. esti scoprì che, nel quadrato, il lato e la diagonale
sono incommensurabili! alunque sia l’unità di misura prescelta, è
impossibile che sia il lato del quadrato sia la sua diagonale siano misurabili
con numeri interi. Ippaso ne fornì una dimostrazione logica che non
lasciava alcun dubbio in materia. Al che, Pitagora e i suoi discepoli furono
talmente contrariati che Ippaso finì per essere escluso dalla scuola. Non
solo. Si racconta che la scoperta gli costò anche una mortale spedizione,
durante la quale venne geato in mare dai condiscepoli!
Alle orecchie del matematico, aneddoti del genere suonano angoscianti.
Si potrà mai essere sicuri di qualcosa? Si deve vivere nella continua paura
che ogni scoperta matematica finisca, un giorno, per essere demolita? E il
triangolo 3-4-5? Siamo proprio certi che si trai di un triangolo
reangolo? Non corriamo magari il rischio di scoprire, un bel giorno, che
l’angolo che sembrava fino a quel momento perfeamente reo non lo sia,
anche lui, solo approssimativamente?
Ancora adesso, non è raro che i matematici cadano viime di intuizioni
ingannevoli. Ecco perché, perseguendo la ricerca del rigore dei loro
omologhi greci, i nostri matematici oggi come oggi prestano la massima
cura nel differenziare gli enunciati dimostrati, che chiamano “teoremi”, da
quelli che ritengono veri ma per i quali non hanno ancora prove, che
chiamano “congeure”.
Una delle più famose congeure del nostro tempo è l’ipotesi di
Riemann. Non sono pochi i matematici che considerano tale ipotesi, non
dimostrata, abbastanza vera tanto da porla a fondamento delle loro
ricerche. Se la congeura di Riemann diventasse, un giorno, teorema, tui
i loro lavori ne risulterebbero legiimati. Ma se, viceversa, fosse un giorno
smentita, ecco che le opere di intere vite di ricerca sprofonderebbero nel
nulla con essa. I nostri scienziati del XXI secolo sono indubbiamente più
ragionevoli dei loro antenati greci, ma è facile capire che, in una situazione
del genere, un matematico che annunciasse l’erroneità dell’ipotesi di
Riemann susciterebbe in alcuni colleghi l’identica voglia di annegarlo che
costò la vita a Ippaso.
In sostanza, per sorarsi all’angoscia permanente della smentita, i
matematici hanno un assoluto bisogno di dimostrazioni. No, per carità,
non scopriremo mai che il 3-4-5 non è un triangolo reangolo. Lo è di
sicuro. E una tale certezza deriva dal fao che il teorema di Pitagora è
stato dimostrato. Ricordate? Ogni triangolo in cui la somma dei quadrati
costruiti sui due cateti è uguale al quadrato costruito sul terzo lato si dice
triangolo reangolo. Un enunciato che per i mesopotamici era certo solo
una congeura. E che, con i greci, è diventato un teorema. E così sia.
Ma, allora, a che cosa somiglia una dimostrazione? Il teorema di
Pitagora non è soltanto il più celebre dei teoremi, è anche uno di quelli che
contano il maggior numero di dimostrazioni diverse. Parecchie decine.
Alcune di esse sono state scoperte in maniera indipendente da civiltà che
non avevano mai sentito parlare né di Euclide né di Pitagora. È il caso
delle dimostrazioni trovate nei commenti ai Nove capitoli cinesi. Altre sono
opera di matematici che conoscevano il teorema già provato ma che, per
un senso di sfida o per lasciare una propria impronta personale, si sono
divertiti a cercare altre prove. Tra costoro, spiccano nomi celebri, come
quelli del genio italiano Leonardo da Vinci o del ventesimo presidente
degli Stati Uniti, James Abram Garfield.
Uno dei principi ricorrenti in molte di queste dimostrazioni è quello del
puzzle: se due figure geometriche possono costituirsi a partire dagli stessi
elementi, vuol dire che hanno la stessa superficie. Osservate la
composizione immaginata dal matematico cinese del III secolo Liu Hui.

I due quadrati costruiti sui due cateti dell’angolo reo del triangolo
reangolo centrale si compongono rispeivamente di due e cinque pezzi:
esaamente i see pezzi che vanno a comporre il quadrato costruito
sull’ipotenusa. La superficie del quadrato costruito sull’ipotenusa è
dunque uguale alla somma delle superfici dei due quadrati minori. E
poiché la superficie di un quadrato è uguale al numero quadrato associato
alla lunghezza del suo lato, è così dimostrato che il teorema di Pitagora è
vero.
Trascuriamo pure, qui, certi deagli. Basti dire che, perché la
dimostrazione sia completa, bisogna comprovare che tui i pezzi sono
rigorosamente identici e che tale suddivisione vale per tui i triangoli
reangoli.
E ora possiamo riprendere il filo delle nostre deduzioni. Perché 3-4-5 è
un triangolo reangolo? Perché verifica il teorema di Pitagora. E perché il
teorema di Pitagora è vero? Perché la suddivisione di Liu Hui mostra che il
quadrato costruito sull’ipotenusa è formato dai medesimi pezzi dei
quadrati costruiti sui lati dell’angolo reo. Sembra il “gioco dei perché”
che piace tanto ai bambini. Il problema è che quel gioco ha un bruo
difeo: non finisce mai. alunque sia la risposta data a una domanda, si
può sempre meere in discussione la risposta stessa. Perché? Perché sì.
Torniamo al nostro puzzle. Abbiamo deo che figure composte a
partire dagli stessi pezzi hanno la stessa superficie. Ma non abbiamo
ancora dimostrato che il principio è sempre vero. Non si potrebbero
trovare dei pezzi del puzzle la cui superficie varia a seconda del modo in
cui li si assembla? Sembra una proposizione assurda, no? Talmente
assurda che sarebbe illogico tentare di dimostrarla… Eppure abbiamo
appena rilevato che, in matematica, è importante dimostrare tuo.
Saremmo disposti, noi, a rinunciare a nostri principi, pochi istanti dopo
averli sposati?
La situazione è grave. Tanto più che, se riusciamo a spiegare perché il
principio del puzzle è vero, dovremo poi giustificare comunque il
ragionamento impiegato per arrivare alla spiegazione data!
I matematici greci hanno ben presente il problema. Per eseguire una
dimostrazione, si deve cominciare da qualche parte. Ebbene, il primo
enunciato di ogni opera di matematica non può essere stato dimostrato,
proprio perché è il primo. Ogni costruzione matematica deve dunque
cominciare con l’ammeere un certo numero di elementi già conosciuti.
Elementi che faranno da fondamento a tue le deduzioni successive, e che
quindi vanno selezionati con la massima cura.
esti elementi di base i matematici li chiamano “assiomi”. Gli assiomi
sono enunciati matematici come possono esserlo i teoremi e le congeure.
A differenza di questi ultimi, però, non sono dimostrabili e non vogliono
esserlo. Sono ammessi come veri.
Gli Elementi di matematica, redai da Euclide nel III secolo a.C.,
costituiscono un insieme di tredici libri che traano principalmente di
geometria e aritmetica.
Di Euclide sappiamo poco, e le fonti che lo riguardano sono molto più
rare rispeo a quelle su Talete o Pitagora. Forse è vissuto dalle parti di
Alessandria. Ma, secondo alcuni, può anche darsi che, come nel caso di
Pitagora, non sia mai esistito realmente, e che Euclide sia il nome di un
colleivo di sapienti. Nulla di meno sicuro.
Malgrado le scarse informazioni che abbiamo sulla sua persona, Euclide
ci ha lasciato, con i suoi Elementi, un’opera monumentale, unanimemente
considerata uno dei più grandi testi della storia della matematica. Proprio
perché è stato il primo ad adoare un approccio assiomatico. La
costruzione degli Elementi è straordinariamente moderna, e la sua
struura è assai vicina a quella ancora utilizzata dai matematici del nostro
tempo. Alla fine del XV secolo, gli Elementi saranno tra le prime opere a
essere stampate dalla neonata tipografia Gutenberg. Di più. Oggi come
oggi, l’opera di Euclide sarebbe il testo con il maggior numero di edizioni
della storia, secondo solo alla Bibbia.
Nel primo libro degli Elementi, che traa la geometria piana, Euclide
enumera i cinque assiomi seguenti.

1. Tra due punti qualsiasi è possibile tracciare una ed una sola rea.
2. Si può prolungare una rea oltre i due punti indefinitamente.
3. Dato un segmento, è possibile descrivere un cerchio il cui raggio è il
segmento stesso e il cui centro è una delle sue estremità.
4. Tui gli angoli rei sono tra loro congruenti.
5. Se una rea taglia altre due ree determinando dallo stesso lato
angoli interni la cui somma è minore di quella di due angoli rei, le due
ree si incontreranno da quello stesso lato.7

Ai cinque assiomi fa seguito un’intera sfilza di teoremi, tui


impeccabilmente dimostrati. Per ognuno di essi, Euclide utilizza sempre e
soltanto i cinque assiomi o i loro risultati stabiliti in precedenza. L’ultimo
teorema del primo libro è una nostra vecchia conoscenza: si traa del
teorema di Pitagora.
Dopo Euclide, numerosi matematici affronteranno a loro volta il
problema della scelta degli assiomi. Molti rimasero intrigati e disorientati
specialmente dal quinto. L’ultimo assioma, infai, è assai meno
elementare dei primi quaro. Tanto che verrà a volte sostituito da un altro
enunciato più semplice, che consente in ogni caso di giungere alle
medesime conclusioni: per un punto, è possibile tracciare una e una sola
rea parallela a una data rea. Le discussioni sulla scelta del quinto
assioma sono durate fino al XIX secolo, finendo per risolversi nella
creazione di nuovi modelli geometrici secondo i quali l’assioma
risulterebbe falso!
L’enunciato degli assiomi pone anche un altro problema: quello delle
definizioni. Tui i termini impiegati – punti, segmenti, angoli o cerchi –
che cosa significano? Come per le dimostrazioni, il problema delle
definizioni è di per sé infinito. La prima definizione data deve infai essere
espressa usando termini che non sono mai stati definiti in precedenza.
Negli Elementi, le definizioni precedono dunque gli assiomi. Esempio:
l’incipit del primo libro riguarda la definizione del punto:

Il punto è ciò che non ha parti.

Dopodiché, sbrigatevela voi! Euclide, con una tale definizione, intende


dire che il punto è la più piccola figura geometrica possibile. Impossibile,
con un punto, comporre dei puzzle. Il punto non si può tagliare. Non ha
parti. Nel 1632, in una delle prime edizioni francesi degli Elementi, il
matematico Denis Henrion amplia un po’ la definizione precisando, nei
suoi commenti, che il punto non ha né lunghezza né larghezza né
profondità.
Le definizioni negative lasciano nondimeno sceici. Dire che cosa il
punto non è non equivale a dire che cos’è! Ciononostante, tanti
complimenti a chi saprebbe proporre qualcosa di meglio. In alcuni manuali
scolastici dell’inizio del XX secolo si trova, a volte, la seguente definizione:
un punto è la traccia lasciata da una matita finemente appuntita e
appoggiata su un foglio di carta. Finemente appuntita! Una volta tanto ci
muoviamo sul piano del concreto. La definizione avrebbe fao balzare
sulla sedia Euclide, Pitagora e Talete, che tanto si erano dannati per
cercare di rendere le figure geometriche oggei astrai e idealizzati.
Nessuna matita, per quanto finemente appuntita, sarebbe in grado di
lasciare una traccia che davvero non abbia né lunghezza né larghezza né
profondità.
In sostanza, nessuno sa dire con certezza che cos’è un punto, anche se
tui sono più o meno convinti che l’idea del punto sia abbastanza
semplice e chiara da non suscitare particolari ambiguità. ando
impieghiamo il termine punto, siamo tui più o meno sicuri di fare
riferimento alla stessa cosa.
Insomma. Tua la geometria si fonderà su un tale ao di fede, nelle
definizioni primarie e negli assiomi. E, in mancanza di meglio, tua la
matematica moderna finirà per costruirsi su questo medesimo modello.
Definizioni – Assiomi – Teoremi – Dimostrazioni: il cammino tracciato
da Euclide determina quella che sarà la routine dei matematici successivi.
Tuavia, man mano che si struurano e si sviluppano le diverse teorie,
sulla strada dei matematici si vanno interponendo nuovi intoppi: i
paradossi.
Un paradosso è un ingranaggio che dovrebbe funzionare ma non
funziona. È una contraddizione apparentemente insolubile. Un
ragionamento che sembra perfeamente correo e che invece dà luogo a
un risultato del tuo assurdo. Come se voi stabiliste una lista di assiomi
che vi paiono incontestabili e ne ricavaste, al contrario, dei teoremi
chiaramente falsi. Un incubo!
Uno dei più celebri paradossi è aribuito a Eubulide di Mileto e
riguarda discorsi tenuti dal poeta Epimenide. Il quale, un giorno, avrebbe
dichiarato che “i cretesi sono dei bugiardi”. Il problema consiste nel fao
che Epimenide era cretese! Di conseguenza, se quanto sta dicendo è vero, è
lui il primo bugiardo… e quel che dice è quindi falso. Se invece la sua frase
fosse falsa, Epimenide mentirebbe e sarebbe la frase stessa a dire il vero!
Dopo di lui, saranno inventate molte varianti del medesimo paradosso, la
più semplice delle quali consiste nella frase di una persona che
semplicemente dichiara: “Io sono un bugiardo.”
Il paradosso del mentitore chiama in causa un’idea precostituita,
secondo la quale ogni frase deve essere o vera o falsa – e non esisterebbe
una terza possibilità. In matematica si chiama principio del terzo escluso.
A prima vista, verrebbe la tentazione di promuovere un tale principio ad
assioma. Ma il paradosso del mentitore ci mee dovutamente in guardia:
la situazione è più complicata di quanto non appaia. Se un enunciato
arriva ad affermare la propria erroneità, la logica ci dice che lo stesso
enunciato non può essere né vero né falso.
Tale paradosso non impedirà a gran parte dei matematici, fino ai giorni
nostri, di considerare vero il suddeo terzo escluso. In fondo, il paradosso
del mentitore non è esaamente un enunciato matematico. Lo si potrebbe
ritenere, più che una contraddizione logica, un’incoerenza linguistica.
Eppure, più di duemila anni dopo Eubulide, alcuni logici scopriranno che
paradossi dello stesso tipo possono anche integrarsi con le teorie più
rigorose. Una scoperta che geerà i matematici nel più profondo
scompiglio.
Il greco Zenone di Elea, vissuto nel V secolo a.C., è divenuto anche lui
maestro nell’arte di creare paradossi. Se ne annoverano circa una decina.
Uno dei più celebri è quello di Achille e la tartaruga.
Immaginate una corsa tra Achille, il “piè veloce”, e una tartaruga. Per
partire alla pari in quanto a possibilità di vincere, alla tartaruga viene
concesso un certo margine di vantaggio: diciamo un centinaio di metri.
Ciononostante, si dà per scontato che Achille, correndo molto più
rapidamente della tartaruga, prima o poi la raggiungerà. Invece no.
Zenone afferma il contrario.
Dividiamo il percorso in più tappe, dice il filosofo. Per poter
raggiungere la tartaruga, Achille deve correre almeno i cento metri che la
separano da lui. Ma, nel tempo che impiegherà per coprire i cento metri, la
tartaruga sarà a sua volta avanzata un po’, per cui Achille, per
raggiungerla, dovrà fare più strada. E nel tempo che gli è stato necessario
per coprire quel tanto di percorso, la tartaruga si sarà allontanata ancora
un po’. Dovrà allora percorrere ancora un pezzeo di tragio, al termine
del quale la tartaruga sarà avanzata di nuovo.
In sostanza, ogni volta che Achille raggiunge il punto precedentemente
occupato dalla tartaruga, questa sarà avanzata un po’ di più, quanto basta
per non essere mai raggiunta. E il tuo resta valido qualunque sia il
numero di tappe considerato! Per cui Achille sembra condannato ad
avvicinarsi sempre più alla tartaruga senza mai poterla superare.
Assurdo, vero? Basta infai fare una prova pratica per verificare che il
corridore supererà la tartaruga senza problemi. Eppure il ragionamento di
Zenone sembra reggere, e non è tanto facile rintracciarvi un errore logico.
I matematici impiegheranno un sacco di tempo per comprendere
questo paradosso, il quale sfida abilmente il conceo di infinito. Se i
corridori procedono in linea rea, la loro traieoria può essere assimilata
a quella che Euclide chiama segmento. Un segmento possiede una
lunghezza finita anche se è composto da un numero infinito di punti che
hanno una lunghezza pari a zero. In qualche modo, esiste dunque, nel
finito, un infinito. Il paradosso di Zenone suddivide l’intervallo di tempo
coperto da Achille per raggiungere la tartaruga in un’infinità di intervalli
sempre più piccoli. Un’infinità di tappe che dura comunque per un tempo
finito, per cui nulla impedisce ad Achille di raggiungere la tartaruga una
volta che esso è trascorso.
La nozione di infinito in matematica diventerà, senza dubbio, la
maggior fonte di paradossi, ma sarà, al tempo stesso, la culla delle teorie
più affascinanti.
Nella storia, i matematici intraerranno, con i paradossi, rapporti
ambigui. Da un lato, essi rappresentano il loro maggior pericolo. È
sufficiente che, un dato giorno, una teoria dia luogo a un paradosso perché
tui i suoi fondamenti, e con essi tui i teoremi che si credevano costruiti
sui suoi assiomi, crollino. Dall’altro, però, che bella sfida! I paradossi sono
una fonte ricchissima ed entusiasmante di rimessa in discussione
dell’esistente. Se insorge un paradosso, vuol dire che ci è sfuggito
qualcosa. Vuol dire che abbiamo interpretato male una nozione, enunciato
male una definizione, scelto male un assioma. Vuol dire che abbiamo
scambiato per indubitabile una cosa che non lo era affao. I paradossi
costituiscono un invito all’avventura. Un invito a ripensare le nostre più
intime certezze. ante nuove idee e quante teorie originali avremmo
sfiorato se non ci fossero stati i paradossi a spingerci verso di loro?
I paradossi di Zenone ispireranno nuove concezioni relative all’infinito
e alla misura. E il paradosso del mentitore coinvolgerà i logici in una
ricerca sempre più minuziosa dei concei di verità e dimostrabilità.
Ancora oggi, molti ricercatori scandagliano nozioni matematiche che si
trovavano già, allo stato embrionale, nei paradossi dei sapienti greci.
Nel 1924 i matematici Stefan Banach e Alfred Tarski svelarono un
paradosso che reca oggi il loro nome e che rimee in discussione il
principio stesso dei puzzle. Per quanto ovvio possa sembrare, questo
principio può essere contraddeo. Banach e Tarski sono stati capaci di
descrivere un puzzle a tre dimensioni il cui volume, a seconda dei modi in
cui si incastrano i pezzi, non è lo stesso! Vi torneremo su. I pezzi da loro
immaginati, tuavia, sono talmente strani e difformi da non avere nulla in
comune con le figure geometriche contemplate dai geometri greci.
Tranquilli, però. Il principio dei puzzle resta comunque valido,
quantomeno con pezzi che ricalcano le forme dei triangoli, del quadrato o
di altre figure geometriche classiche. E la prova di Liu Hui del teorema di
Pitagora regge ancora.
Ma il tuo ci serva da lezione! Diffidiamo delle certezze acquisite e
lasciamoci invece stupire e sorprendere dai misteri di quel mondo
matematico che gli scienziati greci hanno scoperto per noi.

7
L’assioma, molto più complesso degli altri quaro, susciterà tra i matematici non poche
discussioni. Nella figura qui soo, la somma dei due angoli indicati è inferiore a quella di due angoli
rei, per cui le ree 1 e 2 si incontrano dal lato in cui sono posizionati i due angoli.
6. π, un cerchio alla testa

Il 14 marzo 2015 mi reco al Palais de la Découverte. Oggi è un giorno di


festa!
Nei primi anni trenta il fisico e premio Nobel francese Jean Perrin
progea la costruzione di un centro destinato a suscitare l’interesse del
grande pubblico per i progressi della ricerca in tui i campi della scienza.
Il Palais de la Découverte vede la luce nel 1937, a due passi dagli Champs-
Élysées, dove copre, con un’estensione di venticinquemila metri quadrati,
l’intera ala ovest del Grand Palais. Le mostre, che non dovevano durare
più di sei mesi, riscuotono un successo tale che, nel 1938, da provvisorie
diventano permanenti. Oant’anni dopo la sua apertura, l’edificio
continua ad accogliere, ogni anno, molte centinaia di migliaia di visitatori.
All’uscita della metro, risalgo l’Avenue Franklin Roosevelt e mi dirigo
verso l’ingresso del palazzo. E, una volta lì, mi basta raggiungere i gradini
della scalinata perché un deaglio aragga la mia aenzione: 4, 2, 0, 1, 9,
8, 9. Una strana processione di numeri ondeggia al suolo, risale le scale e
pare intrufolarsi dentro il palazzo. Non è certo un fao abituale! L’ultima
volta che sono passato di qui, quei numeri non c’erano. Li seguo: 1, 3, 0, 0,
1, 9. Entro nel palazzo. Sono sempre lì: 1, 7, 1, 2, 2, 6. Araversano la
rotonda centrale e si lanciano verso la grande scalinata: 7, 6, 6, 9, 1, 4.
Salgo gli scalini quaro alla volta, passo davanti all’ingresso del planetario
e giro a sinistra: 5, 0, 2, 4, 4, 5. I numeri mi guidano fino al seore riservato
alla matematica. Li vedo sollevarsi, staccarsi dal suolo e risalire lungo il
muro: 5, 1, 8, 7, 0, 7. E, finalmente, ecco che si ricongiungono alla fonte.
Sono al centro di una grande stanza circolare, i numeri rossi e neri
appaiono ingranditi, e volteggiano, inerpicandosi sempre più in alto. Fino
a che i miei occhi captano il punto d’origine della serie: 3, 1, 4, 1, 5… Mi
trovo nel cuore di uno dei luoghi emblematici del Palais de la Découverte:
la sala π.
Il numero π è sicuramente la più celebre e affascinante delle costanti
matematiche. E la forma circolare della sala mi richiama alla mente che il
suo valore è intimamente legato alla geometria del cerchio: è il numero
per il quale si deve moltiplicare il diametro di un cerchio per trovarne il
perimetro. Del resto la leera π (che si legge “pi”) è la sedicesima leera
dell’alfabeto greco, equivalente alla nostra “p”, iniziale della parola
“perimetro”. Il numero π non è molto grande, di poco superiore a 3, ma il
suo sviluppo decimale è infinito: 3,14159265358979…
Di solito, i visitatori possono vedere avvolgersi sulle pareti arrotondate
della sala π i primi 704 decimali del numero. Ma oggi, le cifre sono uscite!
Invadono tuo il palazzo e si meono in mostra fino alla strada. Al
momento ci sono più di 1000 decimali. Bisogna riconoscere che è una data
storica. Il 14 marzo 2015 è il giorno del π del secolo!
La prima edizione del “π Day” è stata lanciata il 14 marzo 1988
all’Exploratorium, il cugino americano del Palais de la Découverte, situato
nel pieno centro di San Francisco. Si traa della data indicata per celebrare
il π, di cui 3,14 è l’abituale approssimazione a due cifre dopo la virgola: il
quaordicesimo giorno del terzo mese, in cifre 3/14 (nella numerazione
americana il mese precede il giorno). Da allora, l’iniziativa ha registrato
vari emuli, tanto che molti appassionati, in tuo il mondo, si ritrovano
insieme ogni anno per festeggiare la famosa costante e, per il suo tramite,
la matematica tout court. Non solo. La festa ha assunto una tale ampiezza
che, nel 2009, il “π Day” è stato ufficialmente riconosciuto dalla camera dei
rappresentanti degli Stati Uniti.
E ancora non basta. est’anno, gli aficionados del π hanno aeso il
giorno fatidico con ancor maggiore impazienza. Oggi è il 3/14/15, con il 15,
la seconda coppia di cifre dopo la virgola, che si aggiunge al 3/14:
un’ulteriore coincidenza tra la data e la costante. Per cui questa edizione
dev’essere per forza grandiosa. L’intera équipe di matematica del Palais de
la Découverte è lì, in prima fila. E io sono qui per lo stesso motivo. Insieme
ad altri matematici sono venuto a dare una mano, per cercare di
organizzare una giornata ricca di esperienze matematiche.
Il numero π si è rivelato al mondo araverso la geometria, ma si è poi
diffuso nella maggior parte delle branche della matematica. È un numero
dai mille volti. Nell’aritmetica, nell’algebra, nell’analisi, nel calcolo delle
probabilità, sono ben pochi i matematici che, a prescindere dalle rispeive
discipline, non abbiano avuto a che fare con il π. Nel cuore del Palais de la
Découverte, la rotonda ferve di animazioni che ne presentano le molteplici
facce. i i visitatori sono invitati a contare degli aghi lanciati a caso su
un parquet, lì possono osservare la proporzione dei numeri così come
appare sulla tavola pitagorica. Per terra, un gruppo di bambini ricopre la
superficie di un disco con tavolee di legno. Un altro gruppo è intento a
studiare la traieoria di un punto fisso su una ruota che gira su un piano.
E tui finiscono per trovare il medesimo risultato: 3,1415…
Un po’ più in là, un programma propone ai visitatori di cercare, nella
sequenza dei decimali, le prime occorrenze della loro data di nascita. Ecco
un ragazzo che ci sta provando. È nato il 25 seembre 1994. E il risultato
non tarda ad arrivare, la sequenza 25091994 compare puntuale nel numero
π a partire dal 12.785.022esimo decimale. I matematici hanno ipotizzato
che tue le sequenze di cifre, per quanto lunghe esse siano, compaiono a
un dato momento nei decimali di π. Anche le simulazioni informatiche
sembrano confermarlo: finora, tue le sequenze cercate sono state, prima
o poi, trovate. Anche se nessuno ha ancora prodoo la dimostrazione
incontestabile che sarà sempre così.
Ecco che mi si avvicina una ragazzina di circa dodici anni. Sembra
airata dagli strani strumenti che ci circondano e mi lancia uno sguardo
interrogativo.
“Stai per chiedermi che cosa sono, vero? Hai già sentito parlare del
numero π?”
“Oh sì” esclama. “È il 3,14. Cioè… È più o meno il 3,14… Lo abbiamo
studiato a scuola. Serve a calcolare il perimetro di un cerchio. Abbiamo
anche imparato la poesia.”
“La poesia?”
Ed ecco che la ragazzina strizza gli occhi per frugare meglio nella
memoria e poi si mee a recitare:

e j’aime à faire apprendre ce nombre utile aux sages


Immortel Archimède, artiste, ingénieur,
i de ton jugement peut priser la valeur?
Pour moi ton problème eut de pareils avantages.
Ascolto la filastrocca che ho imparato anch’io alla sua età, e sorrido.
L’avevo dimenticata. Si basa su un meccanismo particolarmente
ingegnoso: per ricostituire il numero π, basta contare il numero delle
leere di ciascuna parola: “e” = 3; “j” = 1; “aime” = 4; e così via. La
poesia conta numerose varianti in più lingue.8 Una delle versioni più
celebri, in inglese, è l’adaamento di una poesia di Edgar Poe, e offre la
possibilità di ritrovare ben 740 decimali!9
“Brava!” le ho deo. “Io non credo che sarei stato in grado di ricordarla
così bene. Ma dimmi un po’. Nella tua poesia hai appena parlato di
Archimede. Tu lo sai chi è?”
La mia domanda l’ha messa in crisi. Ha arricciato il naso e ha alzato le
spalle. Si rende perciò indispensabile un corso di recupero. Dispiego un
grande cerchio articolato e suddiviso in un gran numero di triangoli
incastrati. Ci involiamo in direzione della Sicilia. Torniamo indietro di
duemilatrecento anni e planiamo sull’antica cià di Siracusa. È lì che ci
aspea Archimede.
Le cicale cantano soo un sole di piombo. Le strade sono colme dei
profumi provenienti dal Mediterraneo. Sulle bancarelle dei mercati, olive,
pesci, uva. A nord della cià, si staglia all’orizzonte l’imponente profilo
dell’Etna. A ovest, le fertili piantagioni assicurano la prosperità della
colonia. A est, si apre sul mare un porto a doppio ingresso. Siracusa ha
sviluppato la sua fama e la sua potenza affermandosi come uno dei
crocevia mariimi più importanti della regione. Fondata cinque secoli
prima da coloni greci di Corinto, la cià è una delle più fiorenti, sulle coste
del Mediterraneo. È lì che, nel 287 a.C., nasce un uomo il cui genio e la cui
inventiva inaugureranno uno stile nuovo nella ricerca matematica.
Archimede ha la tempra dei grandi inventori, dei risolutori di problemi, di
chi coltiva idee decisamente nuove e rivoluzionarie. Si devono a lui sia il
principio della leva sia quello della vite. È lui che, secondo la leggenda,
esclamò il celebre “Eureka!” mentre faceva il bagno; aveva appena
scoperto il principio fisico che porta oggi il suo nome: ogni corpo immerso
in un liquido subisce una spinta verso l’alto di un’intensità uguale al peso
del liquido spostato. Ecco perché gli oggei più leggeri dell’acqua
galleggiano e quelli più pesanti vanno a fondo. Un altro racconto
tramanda che, un giorno, mentre Siracusa era assediata dalla floa
romana, Archimede inventò un sistema di specchi in grado di convogliare
i raggi provenienti dal Sole e incendiare così le navi nemiche in
avvicinamento.
In matematica, si devono ad Archimede i primi grandi progressi
sull’approssimazione del numero π. Altri, prima di lui, avevano studiato il
cerchio, ma il loro approccio mancava spesso di rigore scientifico.
Ricordate i Nove capitoli cinesi? I campi circolari di 10 bu di diametro per
una circonferenza di 30 bu? Si traa di rilevazioni che affermano che il
numero π è uguale a 3. E, nel papiro di Ahmes, la risoluzione
approssimativa della quadratura del cerchio equivale a considerare un
valore di π di circa 3,16.
Archimede, per parte sua, capisce che è difficile, se non impossibile,
calcolare l’esao valore di π. Per cui anch’egli da un lato dovrà
accontentarsi di approssimazioni, ma dall’altro orienterà la sua ricerca
distinguendosi dai predecessori in merito a due punti fondamentali. In
primo luogo, mentre quelli pensavano di avere forse a disposizione un
metodo esao, Archimede è pienamente conscio di disporre solamente di
valori approssimativi. In secondo luogo, lo scienziato siciliano, dopo aver
valutato la differenza tra le sue approssimazioni e l’esao valore di π,
svilupperà metodi che contribuiranno a ridurre sempre di più il divario.
A forza di calcoli, Archimede finisce per concludere che il valore di cui
va in cerca è compreso tra due numeri, i quali, se scrii secondo il nostro
auale sistema decimale, valgono all’incirca 3,1408 e 3,1428. In altri
termini, Archimede ha scoperto quanto vale π con uno scarto di appena lo
0,03%.

IL METODO DI ARCHIMEDE
Per calcolare il valore approssimato di π, Archimede ha calcolato per
approssimazione il valore del cerchio avvalendosi di poligoni regolari.
Si prenda per esempio un cerchio il cui diametro misuri un’unità e il
cui perimetro misuri dunque π unità, poi lo si inscriva in un quadrato.
Il quadrato ha un lato uguale a 1 (come il diametro del cerchio) e
dunque un perimetro uguale a 4. Poiché il perimetro del cerchio è
minore di quello del quadrato, si deduce che π è minore di 4.
Si inscriva ora, nel cerchio, un esagono:

L’esagono è composto da sei triangoli equilateri i cui lati misurano 0,5


unità (la metà del diametro del cerchio). Il perimetro dell’esagono
misura dunque 6 × 0,5 = 3. Con la conclusione che π è maggiore di 3!
Bene. Fin qui niente di emozionante. Il valore compreso tra 3 e 4 è
ancora molto impreciso. Per chiudere la forbice, è dunque opportuno
aumentare il numero dei lati dei poligoni. Se si divide per 2 ciascun lato
dell’esagono, si oiene adesso una figura con 12 lati, che si avvicina
molto di più a quella del cerchio.

Dopodiché, eseguiti alcuni noiosissimi calcoli (principalmente basati


sul teorema di Pitagora), si arriva alla conclusione che il perimetro del
dodecagono misura circa 3,11. Il numero π è perciò maggiore di 3,11.
Per oenere il valore approssimato con uno scarto di 0,001, Archimede
ha semplicemente ripetuto l’operazione tre volte in più. Dividendo per
2 ciascun lato, si oiene 24, poi 48, e infine si arriva a un poligono di 96
lati!
Non vedete il poligono? È normale, i lati coincidono ora così bene con
il cerchio che risulta quasi impossibile distinguerli a occhio nudo. Ecco
come Archimede arrivò alla conclusione che π è maggiore di 3,1408. E
come, ripetendo il processo con poligoni esterni al cerchio, oenne che
π è minore di 3,1428.
A rappresentare la forza del metodo di Archimede non è solo il suo
risultato, ma anche il fao che il metodo può essere replicato.
Basterebbe continuare a suddividere i nostri poligoni per affinare ancor
più il valore. In teoria, diventa dunque possibile oenere
un’approssimazione del numero π precisa quanto si vorrebbe, ammesso
che si abbia il coraggio di affrontare i calcoli necessari.

Nel 212 a.C. le truppe romane riescono finalmente a entrare a Siracusa.


Il generale Marco Claudio Marcello, che ha condoo l’assedio della cià,
ordina ai suoi soldati di risparmiare Archimede, allora seantacinquenne.
Ma il caso deciderà altrimenti. La cià sta per cadere, ma lo scienziato
greco è talmente concentrato sullo studio di un problema di geometria da
non accorgersi di nulla. ando gli si fa innanzi un soldato romano,
Archimede, che ha tracciato delle figure sul terreno, esclama, con fare
distrao: “Non rovinare i miei cerchi!” Al che, il soldato si sente insultato
e lo trafigge con la spada.
Il generale Marcello innalzerà ad Archimede una tomba grandiosa,
sormontata da una sfera inscria in un cilindro, illustrando così uno dei
suoi teoremi più geniali. Nel corso dei see secoli successivi, l’impero
romano non produrrà mai un matematico della tempra di Archimede.
L’Antichità, infai, in materia di matematica, conoscerà un lento
declino. L’impero romano si estende ben presto sull’intero litorale
mediterraneo e l’identità greca finirà, al contao con la cultura latina, per
stemperarsi. Soltanto una cià continuerà ad alimentare ancora per alcuni
secoli lo spirito dei matematici greci: Alessandria.
Nel corso delle sue conquiste, Alessandro Magno s’impadronisce
dell’Egio alla fine dell’anno 332 a.C. Vi rimarrà solo pochi mesi, giusto il
tempo per farsi proclamare, a Menfi, faraone d’Egio, e per decidere di
fondare una nuova cià sulla costa del Mediterraneo, una cià alla quale
darà il proprio nome ma che non vedrà mai. ando muore, oo anni
dopo, a Babilonia, il suo regno viene suddiviso tra i generali, e l’Egio
torna a Tolomeo I, che farà di Alessandria la propria capitale. Una cià
destinata a diventare, soo il regno tolemaico, una delle più fiorenti del
bacino del Mediterraneo.
Tolomeo dà seguito ai grandi lavori iniziati da Alessandro. Sulla punta
dell’isola di Faro, di fronte alla cià, promuove la costruzione di un faro
monumentale. E non dovrà trascorrere molto tempo perché gli autori greci
riconoscano nel faro di Alessandria un monumento assolutamente
eccezionale e ne facciano la seima e ultima meraviglia del mondo,
completando così una lista alquanto ristrea.
Fermiamoci un momento per godere del panorama fuori dal comune
che si offre agli occhi del viaggiatore che ha avuto il coraggio di salire le
centinaia di scalini della scala a chiocciola che conduce alla sommità.
Guardate verso nord. Il mar Mediterraneo si estende a perdita d’occhio. Da
qui, è possibile scorgere l’arrivo delle navi commerciali a cinquanta
chilometri di distanza. Eccone una che vi passa proprio davanti e penetra
nel porto, con il ventre carico di merci. Forse arriva da Atene, da Siracusa
o anche da Massalia, dinamica cià costiera del Sud della Gallia che un
giorno si chiamerà Marsiglia.10 Se ora volgete lo sguardo verso sud, potete
vedere il delta del Nilo. E, a cinque chilometri da lì, distinguere una distesa
d’acqua salata che araversa il delta: è il lago Mareotide. Tra il lago e il
mare, lungo quell’ampia striscia di terra, si trova Alessandria in tuo il
suo splendore. È una cià nuova e moderna. a e là, potete osservare
alcuni cantieri ancora in corso.
Sull’isola di Faro non c’è soltanto il faro. Vi si erge anche il tempio di
Iside. Per recarvisi, gli alessandrini devono seguire il tracciato
dell’Eptastadio, una diga di 1300 metri di lunghezza che divide il porto in
due bacini indipendenti. Dall’alto del faro, potete individuare le minuscole
figure dei passanti che vi passeggiano. Chi torna verso la terraferma
percorre il quartiere reale, dove si trovano il palazzo di Tolomeo, il teatro e
anche il tempio di Poseidone. Un po’ più a ovest, la vostra aenzione sarà
airata in modo particolare da un edificio prestigioso. Si traa del
Museion. Ed è lì che andiamo, adesso.
Con questo imponente museo, destinato a preservare l’eredità della
cultura greca, Tolomeo vuol fare di Alessandria un grande centro culturale
in grado di rivaleggiare con Atene. E quanti e quali mezzi v’impiega per
realizzarlo! Gli uomini di scienza che soggiornano nel Museion godono di
speciali riguardi. Sono alloggiati, nutriti e pagati per portare avanti il loro
lavoro. Il re mee inoltre a disposizione degli ospiti una biblioteca
gigantesca. La leggendaria biblioteca di Alessandria! Forse ancor più dei
grandi scienziati che vi hanno lavorato, sarà la biblioteca a dare rinomanza
e prestigio al Museion.
Per riempirla, Tolomeo ha fao ricorso a una strategia molto semplice:
tue le navi che fanno scalo ad Alessandria devono scaricare i libri che
trasportano. esti vengono copiati e la copia restituita alla nave, mentre
l’originale entra direamente nelle collezioni della biblioteca. Più tardi,
Tolomeo II, figlio e successore di Tolomeo I, lancerà un appello a tui i re
del mondo perché gli inviino degli esemplari delle opere più famose del
loro territorio. Alla sua apertura, la biblioteca di Alessandria conta già
quasi 400.000 volumi! In seguito, essi ammonteranno a 700.000.
Il piano di Tolomeo funzionerà a meraviglia e, per più di see secoli,
Alessandria ospiterà i maggiori eruditi, creando un ambiente intelleuale
capace di quella speciale vitalità che invece mancherà nel resto del mondo
mediterraneo.
Tra i residenti più celebri del Museion si annoverano Eratostene di
Cirene, colui (ricordate?) che misurò per primo, con estrema precisione, la
circonferenza della Terra, e lo stesso Euclide, il quale avrebbe redao
proprio lì la parte più importante dei suoi Elementi. Un certo Diofanto vi
scrisse una famosa opera sulle equazioni, delle quali oggi gli riconosciamo
la paternità. Nel II secolo d.C. sarà ancora ad Alessandria che Claudio
Tolomeo (che non ha nulla a che fare con Tolomeo) comporrà l’Almagesto,
un’opera che raccoglie un buon numero di nozioni astronomiche e
matematiche del tempo. L’Almagesto, benché Tolomeo vi faccia girare il
Sole aorno alla Terra, rimarrà per secoli un testo di riferimento, fino a
che non ci meerà becco Copernico, nel XVI secolo.
Alessandria non annovera solo uomini di scienza che scrivono o
producono nuove conoscenze. Aorno al Museion si è formato tuo un
ecosistema di copisti, traduori, commentatori di libri ed editori. La cià
abbonda di questo intenso fervore culturale.
Fino a che, nel IV secolo d.C., il clima, purtroppo, si guasta. Il 16 giugno
391 l’imperatore Teodosio I, con l’intento di accelerare la conversione
dell’impero alla religione cristiana, pubblica un edio che vieta tui i culti
pagani. E la decisione riguarda anche il Museion, del quale, pur non
essendo propriamente un tempio, viene decretata l’immediata chiusura.
All’epoca, una delle figure di spicco dell’ambiente culturale di
Alessandria è Ipazia. E il direore del Museion, nel momento in cui viene
chiuso, è suo padre, Teone. I doi alessandrini continueranno ancora la
loro aività per un certo tempo. Socrate lo Scolastico scriverà, poi, che
un’infinità di persone sarebbe accorsa per sentir parlare Ipazia, che
superava per intelligenza tui gli uomini del tempo. Ipazia è insieme
matematica e filosofa. Ed è anche la prima donna a comparire nella nostra
storia.
Davvero la prima? Non proprio. Prima di Ipazia, altre donne, le cui
opere o la cui biografia non ci sono pervenute, si sono dedicate alla
matematica. Fu, in particolare, la scuola di Pitagora ad ammeere le
donne. Ci sono noti alcuni nomi – eano in primis, poi Autocaridas e
Abrotelia –, ma sia ben chiara una cosa: di loro non sappiamo
praticamente nulla.
Nemmeno di Ipazia ci è pervenuto un qualche testo, anche se molte
fonti ne menzionano i lavori. S’interessò soprauo all’aritmetica, alla
geometria e all’astronomia. Nello specifico, portò avanti l’opera condoa
alcuni secoli prima da Diofanto e Tolomeo. Ipazia è inoltre un’inventrice
feconda. A lei, che seppe trarre abilmente vantaggio dal principio di
Archimede, dobbiamo l’invenzione dell’idroscopio, usato per misurare la
densità di un fluido, ma anche quella di un nuovo modello di astrolabio, in
grado di facilitare le misurazioni astronomiche.
Ahimè, quella di Ipazia è però una storia di breve durata. Nel 415 la
donna si aira le ire dei cristiani della cià, che le danno la caccia e poi la
uccidono. Il suo corpo è fao a pezzi, e infine bruciato.
Dopo la chiusura del Museion e la morte di Ipazia, la fiamma della
scienza che ha illuminato Alessandria si spegne rapidamente. E non
vengono risparmiate nemmeno le collezioni della biblioteca. Incendi,
saccheggi, violente mareggiate e terremoti scuotono la cià dalle
fondamenta. La data e la modalità esae della scomparsa della biblioteca
di Alessandria non ci sono note. Resta comunque un fao: nel VII secolo,
ogni sua traccia è sparita.
Si è conclusa un’epoca. Ma la Storia conosce anche vie traverse, e i
matematici greci troveranno presto altri percorsi per arrivare fino a noi.

8
La traduzione leerale, quindi non rispeosa della regola, è la seguente: Mi piace imparare
questo numero utile ai saggi / immortale Archimede, artista, ingegnere, / chi a tuo parere potrebbe
apprezzare il valore? / A me il tuo problema ha recato uguali vantaggi. Una versione italiana,
modesta, che cerca di rispeare il numero delle leere di ciascuna parola, suona così: Ave o Roma o
Madre gagliarda di latine virtù / che tanto luminoso splendore prodiga spargesti / con la tua saggezza.
Che n’ebbe d’utile Archimede / da ustori vetri sua somma scoperta? (N.d.T.)
9
La poesia e Raven (Il corvo), scria da Edgar Poe nel 1845, è stata adaata nel 1995 da
Michael Keith con il titolo Near a Raven, giusto per rispeare la costante matematica. L’incipit è il
seguente: Poe E. / Near a Raven. / Midnights so dreary, tired and weary. Silenty pondering volumes
extolling all by-now obsolete lore. Nel testo originale di Poe l’incipit è il seguente: Once upon a
midnight dreary, while I pondered, weak and weary, Over many a quaint and curious volume of
forgoen lore… (“Una volta, in una tetra mezzanoe, mentre meditavo, fiacco e stanco, sopra tomi
antichi e strani…”). Come si vede, Keith si sforza di rispeare non solo la costante ma anche il senso
(N.d.T.)
10
Dal latino Massilia (Massalia è il nome greco). (N.d.T.)
7. Niente e meno di niente

Dall’alto dei suoi 6714 metri d’altezza, il monte Kailash, in Tibet, fa parte
del cerchio ristreo di cime non ancora scalate dall’Homo sapiens. Il suo
profilo arrotondato, striato di neve sul grigio del granito, si staglia
massiccio sopra il paesaggio smussato dell’Ovest himalayano. Per gli
abitanti della regione, indù o buddisti che siano, la montagna è sacra, e
reca il suo florilegio di miti ancestrali e di storie meravigliose. Si racconta,
tra l’altro, che si trai del leggendario monte Meru, il quale, secondo le
mitologie locali, costituirebbe il centro dell’Universo.
È qui che si nasconde la sorgente di uno dei see fiumi sacri della
regione: l’Indo.
Scaturendo da lassù e scendendo dalle pendici del monte Kailash, l’Indo
volge in direzione est, facendosi strada a gran velocità tra le montagne del
Kashmir, per poi iniziare a scorrere più lentamente verso sud. i
araversa le pianure del Punjab e del Sind dell’auale Pakistan, per poi
diventare delta e gearsi nel mare Arabico. La valle dell’Indo è fertile.
Durante l’Antichità, la regione è coperta di foreste rigogliose e fruscianti.
Gli elefanti d’Asia vi convivono con i rinoceronti, le tigri del Bengala, le
scimmie schiamazzanti e i serpenti, che gli incantatori si apprestano ad
ammaliare con i loro flauti. Sbucando da un sentiero, quasi quasi ci si
aspeerebbe d’incontrare Mowgli, il cucciolo d’uomo del Libro della
giungla, le cui avventure hanno come sfondo scenari del genere. Ed è lì
che nascerà una civiltà originale e appartata, i cui matematici svolgeranno
un ruolo determinante all’inizio del Medioevo.
Nel III millennio a.C., vedono la luce, aorno al fiume, alcune
importanti cià, come Mohenjo-Daro o Harappa. Cià che, viste da
lontano, somigliano un poco, costruite come sono con maoni d’argilla, a
quelle contemporanee della Mesopotamia. Nel II millennio a.C. ha inizio
l’epoca vedica. La regione viene suddivisa in una quantità di piccoli regni,
che si moltiplicano verso est fino alle rive del Gange. L’induismo nasce, si
sviluppa e vengono composti i primi grandi testi in sanscrito. Nel IV
secolo a.C., Alessandro Magno raggiunge le rive dell’Indo e vi fonda due
cià che prendono il nome di Alessandria, senza peraltro conoscere il
prestigioso destino di Alessandria d’Egio. Ma è comunque lì che
trasmigra una parte della cultura greca, integrandosi con le culture locali.
Dopodiché giunge l’epoca dei grandi imperi. I Maurya regnano sulla quasi
totalità del subcontinente indiano per un secolo abbondante. E ai Maurya
succede tua una sfilza di dinastie, coesistenti in termini più o meno
pacifici, fino alla conquista musulmana dell’VIII secolo.
In questo periodo storico, gli indiani fanno matematica, anche se,
purtroppo, non ne sappiamo granché. Per una semplice ragione: i loro
uomini di scienza hanno sviluppato, fin dall’inizio dell’epoca vedica, un
ideale di trasmissione delle conoscenze orale, che bandisce, per principio,
la messa per iscrio. I saperi devono essere trasmessi a voce, di
generazione in generazione, da maestro ad allievo. I testi s’imparano a
memoria, soo forma di poemi o accompagnati da astuzie
mnemotecniche, poi recitati e ripetuti per quante volte sia necessario
affinché siano perfeamente padroneggiati. È vero che, qua e là, affiorano
eccezioni alla regola, frammenti scrii a noi pervenuti, ma si traa di una
quantità esigua.
Con tuo ciò, gli indiani fanno matematica! Come spiegare, altrimenti,
la ricchezza di concei di cui ci renderanno partecipi quando, intorno al V
secolo, decidono finalmente di passare alla traduzione per iscrio dei
saperi accumulati oralmente da secoli? Anzi, l’India, d’ora in avanti, vive
un’età dell’oro della scienza i cui effei s’irradieranno ben presto nel
mondo intero.
Gli scienziati indiani si adoperano a scrivere lunghi traati in cui
riprendono le conoscenze tramandate dalle precedenti generazioni
completandole con gli esiti delle nuove scoperte. Uno dei più famosi è
Aryabhata, che s’interessò all’astronomia e al calcolo, con un notevole
grado di approssimazione, del numero π. Varāhamihira realizzò nuovi
progressi in trigonometria. Bhāskara fu il primo a scrivere lo zero in forma
di circolo e a utilizzare scientificamente il sistema decimale da noi
impiegato ancora oggi. Eh sì, le nostre dieci cifre, 0, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8 e 9,
che abitualmente chiamiamo numeri arabi, sono in realtà indiani!
alora, poi, si volesse ricordare un nome tra tui gli scienziati indiani
del tempo, la scelta della Storia cadrebbe sicuramente su quello di
Brahmagupta, il quale visse nel VII secolo e fu direore dell’osservatorio
di Ujjain. All’epoca, la cià di Ujjain, situata sulla riva destra del fiume
Shipra, al centro dell’odierna India, era uno dei maggiori centri scientifici
del paese. Il suo osservatorio astronomico era celebre, e la cià era già
nota a Claudio Tolomeo al tempo della grande Alessandria.
Nel 628, Brahmagupta pubblica la sua opera più importante, il
Brāhmasphuţasiddhānta, in cui si trova la prima descrizione completa dello
zero e dei numeri negativi, accompagnata dalle loro proprietà aritmetiche.
Oggi, lo zero e i numeri negativi sono divenuti così onnipresenti nella
nostra vita quotidiana – per misurare la temperatura, l’altitudine sul
livello del mare o il saldo del nostro conto in banca – che rischiamo di
dimenticare di quali idee geniali essi siano espressione! La loro invenzione
è stata un esercizio di acrobazia cerebrale poco comune, che gli scienziati
indiani hanno eseguito per primi, alla perfezione.
Comprenderne il processo, in cui tuo appare soile e potente al
tempo stesso, rappresenta una delizia intelleuale su cui sarà bene
soffermarsi un poco, se si vogliono capire più a fondo i rivolgimenti
interni alla matematica che segneranno i secoli successivi.
Una delle domande che mi viene posta con maggior frequenza, quando
parlo in pubblico della mia passione per la matematica, è come sia nata in
me. “Come le è venuto questo pallino a dir poco bizzarro?” mi chiedono
ogni tanto. “È stato un professore speciale a trasmeerle questa passione?”
“La matematica le piaceva già da bambino?” La manifestazione di una
vocazione simile non smee di risvegliare la curiosità di persone per le
quali tale disciplina è sempre rimasta un mistero.
Ebbene, in tua onestà, devo ammeere che non lo so. Più vado
indietro nel tempo con la mente, più mi rendo conto di aver sempre amato
la matematica, senza però riuscire a individuare un evento specifico della
mia vita che abbia fao da incentivo. Anche se, frugando meglio nella
memoria, riaffiorano certi episodi di puro godimento intelleuale, che
perlopiù coincidevano con l’improvvisa comparsa di idee nuove. Un
esempio, in deaglio. La scoperta, da parte mia, di una sorprendente
proprietà della moltiplicazione.
Dovevo avere 9 o 10 anni, quando, digitando un po’ a caso sulla mia
calcolatrice di scolaro, mi sono imbauto in uno strano risultato: 10 × 0,5
= 5. Moltiplica il numero 10 per 0,5 e oerrai 5. esto osava dirmi la mia
calcolatrice, nella quale allora riponevo una fiducia tanto cieca quanto
irragionevole. Com’è possibile che, moltiplicando un numero, si oenga
un numero più piccolo? Moltiplicare non vuol forse dire aumentare una
quantità? Non si traava di una vera e propria contraddizione al
significato stesso del verbo “moltiplicare”? La mia cara calcolatrice non
avrebbe dovuto presentarmi un numero superiore a 10?
Mi ci è voluto del tempo, parecchie seimane spese a ripensarci di
continuo, per riuscire a chiarirmi le idee. Il lampo risolutivo si è
manifestato il giorno in cui ho pensato di raffigurare la moltiplicazione in
maniera geometrica, ripercorrendo senza saperlo i passi degli antichi
pensatori. Si prenda un reangolo la cui lunghezza misuri 10 unità e la
larghezza 0,5. La sua superficie sarà quella di 5 piccoli quadrati di lato 1.

In altri termini, moltiplicare per 0,5 vuol dire dividere per 2. E il medesimo
principio si applica a tanti altri numeri. Moltiplicare per 0,25 vuol dire
dividere per 4; moltiplicare per 0,1 vuol dire dividere per 10, e così via.
La spiegazione è convincente, la sua conclusione presenta nondimeno
un lato sconcertante: la parola “moltiplicazione” non ha, in matematica,
esaamente lo stesso significato che ha nel linguaggio corrente. Chi, nella
vita di tui i giorni, arriverebbe a credere di aver moltiplicato la superficie
del suo giardino dopo averne venduta la metà? Chi oserebbe pensare che
la sua fortuna si è moltiplicata dopo averne perso il 50%? Con premesse
del genere, la moltiplicazione dei pani diventerebbe un miracolo alla
portata di chiunque: mangiatene la metà e il gioco è fao.
ando le sviluppate per la prima volta, riflessioni del genere vi
solleticano il cervello. Hanno infai qualcosa di deliziosamente fastidioso,
e ci riecheggiano in mente come un gioco di parole particolarmente
riuscito. esto, almeno, è stato l’effeo prodoo da scoperte tanto
curiose sul bambino che ero allora. E la loro stranezza mi è apparsa ancor
più chiaramente quando, molti anni dopo, leggendo un testo del
matematico Henri Poincaré, Scienza e metodo, pubblicato nel 1908, vi ho
trovato la seguente frase: “La matematica è l’arte di dare lo stesso nome a
cose diverse.”
A dire il vero, bisogna ammeere che la frase può, con ogni probabilità,
applicarsi a qualsiasi linguaggio. La parola “fruo”, per esempio, indica
cose differenti come mele, ciliegie o pomodori. E ciascuna di queste parole
raggruppa a sua volta una moltitudine di varietà diverse, le quali
implicheranno delle categorie più piccole, per poco che ci si dedichi a
un’analisi botanica abbastanza meticolosa. Eppure, con ragione, Poincaré
soolinea che nessun linguaggio come quello matematico si spinge tanto
lontano nel processo di raggruppamento. La matematica consente
accostamenti che nessun’altra lingua autorizza. Per i matematici,
moltiplicazione e divisione non sono che un’unica e identica operazione.
Moltiplicare per un numero equivale a dividere per un altro. Tuo dipende
dal punto di vista adoato.
L’invenzione dello zero e dei numeri negativi è ispirata dal medesimo
aeggiamento intelleuale. Per crearli, occorre avere il coraggio di
pensare le cose in contraddizione con la propria stessa lingua. Occorre
raggruppare in una medesima idea concei che il linguaggio traa in
maniera radicalmente diversa. Gli scienziati indiani furono i primi a
imboccare lucidamente una via del genere.
Se vi dico che ho già camminato un certo numero di volte sul pianeta
Marte e che vi ho incontrato un certo numero di volte Brahmagupta in
persona, mi credereste? Probabilmente no. E avreste tue le ragioni,
perché, nella nostra lingua, la frase significa che io ho effeivamente
camminato su Marte e che vi ho incontrato Brahmagupta. Tuavia, in
matematica, basta immaginare che quel numero valga zero per capire che
non ho mentito. La lingua utilizza struure differenti a seconda che una
cosa sia o non sia. Affermazione: “Ho camminato su Marte.” Negazione:
“Non ho camminato su Marte.” La matematica cancella tali differenze e le
raggruppa in un’unica e identica formula. “Ho camminato su Marte un
certo numero di volte.” Laddove il numero può essere zero.
Se pensate che, pochi secoli prima, i greci avevano sì acceato, ma con
fatica, il numero 1, potete immaginare la rivoluzione rappresentata
dall’aribuzione della parola “numero” a qualcosa di assente. Prima degli
indiani, già alcuni popoli avevano coltivato un pensiero del genere, ma
nessuno aveva saputo svilupparlo fino in fondo. I mesopotamici, a partire
dal III secolo a.C., erano stati i primi a inventare lo 0. Fino a quel
momento, il loro sistema di numerazione scriveva allo stesso modo numeri
come 25 e 250. Grazie allo 0, chiamato a indicare un posto vuoto, non era
più possibile alcuna confusione. Tuavia i babilonesi non diedero mai allo
0 lo statuto di numero vero e proprio, e lo scrivevano solo per indicare una
completa mancanza di oggei.
All’altro capo del mondo, anche i maya avevano inventato lo 0. Anzi,
ne inventarono addiriura due! Il primo serviva, come quello dei
babilonesi, solo per indicare con una cifra, nel loro sistema posizionale
basato sul 20, un posto vuoto. Il secondo, invece, era considerato un
numero a tui gli effei, anche se impiegato solo nell’ambito del
calendario. Ogni mese del calendario maya contava venti giorni, numerati
da 0 a 19. Lo 0 è impiegato da solo ma svolge una funzione che non si può
chiamare matematica. I maya, in altri termini, non se ne servirono mai per
effeuare operazioni aritmetiche.
In definitiva, è proprio Brahmagupta il primo ad aver descrio lo zero
in quanto numero, accompagnandolo con una descrizione delle sue
proprietà: togliendo a un qualunque numero lo stesso numero si oiene
zero; addizionando o soraendo zero a un numero, il numero resta
invariato. Si traa di proprietà aritmetiche per noi evidenti, ma il fao che
esse siano anche state chiaramente enunciate da Brahmagupta ci dimostra
come lo zero sia stato definitivamente integrato come numero, con uno
statuto analogo a quello degli altri.
Lo zero apre così la porta ai numeri negativi. Anche se ai matematici
occorrerà molto tempo perché li adoino in via definitiva.
I matematici cinesi furono i primi a descrivere quantità riconducibili a
numeri negativi. Nei commenti ai Nove capitoli, Liu Hui descrive un
sistema di bacchee colorate con le quali si rappresentano quantità
positive o negative. Una bacchea rossa simboleggia un numero positivo,
una bacchea nera simboleggia un numero negativo. E Liu Hui spiega, in
deaglio, come le due specie di numeri interagiscano l’una con l’altra, in
particolare come si addizionino o si soraggano.
La sua descrizione è già molto completa. Gli resta solo da compiere
l’ultimo passo: considerare i positivi e i negativi non come due gruppi
distinti capaci di interagire, bensì come un unico e identico insieme. È
vero che i numeri positivi e negativi non hanno sempre, quando si traa di
fare dei calcoli, le stesse proprietà, ma è altreanto vero che hanno in
primo luogo molti punti in comune che consentono di avvicinarli. È una
situazione paragonabile a quella dei numeri pari e dei numeri dispari, i
quali formano due gruppi distinti con proprietà aritmetiche diverse ma
appartengono in ogni caso alla medesima grande famiglia dei numeri.
Ebbene, una riunificazione del genere, come quella relativa allo zero,
saranno gli scienziati indiani a realizzarla per primi. E sarà sempre
Brahmagupta a offrirne la disamina completa nel suo
Brāhmasphuţasiddhānta. Sulle tracce di Liu Hui, Brahmagupta stabilisce
una lista completa delle regole alle quali sono subordinate le operazioni
con questi nuovi numeri. Tra l’altro, ci familiarizza con alcuni concei
base. La somma di due numeri negativi è negativa. Esempio: (–3) + (–5) =
–8. Il prodoo di un numero positivo e di un numero negativo è negativo.
Esempio: (–3) × 8 = –24. Il prodoo di due numeri negativi è positivo.
Esempio: (–3) × (–8) = 24. Un conceo, quest’ultimo, che può sembrare
controintuitivo e che infai risulterà uno dei più difficili da acceare.
Ancora oggi, esso rappresenta una trappola ben nota, un’insidia temuta
dagli studenti del mondo intero.

PERCHÉ MENO PER MENO DÀ PIÙ


Nei secoli che seguiranno l’enunciato di Brahmagupta, le regole di
moltiplicazione dei segni, in particolare il “meno × meno = più”,
continueranno a suscitare diffidenza e interrogativi.
Interrogativi che trascendono completamente il mondo della
matematica e suscitano un notevole livello d’incomprensione quando
tali regole vengono insegnate nelle scuole. Nel XIX secolo, persino lo
scriore francese Stendhal esprime la sua incomprensione nel romanzo
autobiografico Vita di Henry Brulard. L’autore del Rosso e il Nero e della
Certosa di Parma scrive, nel suo romanzo, quanto segue:

“Secondo me, l’ipocrisia era impossibile nella matematica e, nella mia


giovanile ingenuità, pensavo che lo stesso avvenisse per tue le scienze
alle quali avevo sentito dire che la matematica si applicava. Rimasi ben
male, quando mi accorsi che nessuno poteva spiegarmi perché: meno per
meno dà più (– × – = +)! Una delle basi fondamentali della scienza dea
algebra.
C’era molto di peggio del non spiegarmi quella difficoltà (senza dubbio
spiegabile perché conduce alla verità); mi si davano ragioni evidentemente
confuse per coloro che me le esponevano. […] Mi ridussi a quel che mi
dicono ancora oggi: – × – = + deve per forza essere vero, dato che
adoperando continuamente questa regola nel calcolo, oeniamo risultati
‘veri e indubitabili’.”11

La regola della moltiplicazione dei segni, certo piuosto strana al primo


approccio, assume tuavia il suo pieno significato se si ripensa al
sistema delle bacchee ideato dagli scienziati cinesi. Proviamo a
utilizzare quel sistema per raffigurare guadagni e perdite monetarie.
Immaginiamo che una bacchea nera rappresenti 5 €, e che una
bacchea grigia rappresenti un debito di 5 €, vale a dire: –5 €. Per cui,
se possedete 10 bacchee nere e 5 bacchee grigie il vostro saldo
equivale a 25 €.
Analizziamo ora i diversi casi di configurazione che possono
presentarsi quando il vostro conto subisce una variazione. Immaginate
che vi si diano 4 bacchee nere supplementari, nel qual caso il vostro
saldo aumenterebbe di 20 €. Deo altrimenti: 4 × 5 = 20. Il prodoo dei
due numeri positivi è positivo. E fin qui tuo bene.
Immaginate ora che vi si diano 4 bacchee grigie, vale a dire quaro
unità di debito. Nel qual caso il vostro saldo diminuirebbe di 20 €. Deo
altrimenti: 4 × (–5) = –20. Un positivo moltiplicato per un negativo dà
un negativo. Per cui, se vi si soraggono 4 bacchee nere, la vostra
perdita sarà, in pari misura: –20 €. Il che conferma che (–4) × 5 = – 20.
Dove le due ultime situazioni mostrano che il fao di assegnare delle
unità di debito a qualcuno corrisponde a togliergli del denaro.
Aggiungere del negativo equivale a sorarre del positivo.
Ed eccoci al punto cruciale. A quanto ammonta il vostro saldo nel caso
vi si soraessero 4 bacchee grigie? In altri termini, che cosa
succederebbe se vi togliessero delle unità di debito? La risposta è
chiara: il vostro saldo aumenta, guadagnate denaro. Il che ci porta di
nuovo a dire: (– 4) × (– 5) = 20. Togliere del negativo equivale ad
aggiungere del positivo! Meno per meno uguale più.

L’avvento dei numeri negativi investirà anche il significato dell’addizione


e della sorazione. Il problema è in tuo e per tuo simile a quello della
moltiplicazione per 0,5, vale a dire di una divisione per 2. Se sommare un
numero negativo equivale a sorarre un numero positivo, vuol dire che le
due operazioni perdono il significato che hanno nel linguaggio corrente.
Sommare è normalmente sinonimo di aumentare. Tuavia, se sommo il
numero –3, non faccio altro che togliere il 3: per esempio, 20 + (–3) = 17. E
se, allo stesso modo, soraggo (–3) non faccio altro che aggiungere il 3: 20
– (–3) = 23. Ancora una volta stiamo semplicemente dando il medesimo
nome a cose diverse. Grazie ai numeri negativi, l’addizione e la sorazione
diventano i due volti di un’unica e identica operazione.
La confusione dei termini e la somiglianza con i paradossi, come il
“meno × meno = più”, rallenteranno non poco l’adozione dei numeri
negativi. Anche molto dopo Brahmagupta, parecchi matematici
continueranno a storcere la bocca in presenza di questi numeri
terribilmente pratici ma tanto difficili da afferrare. Alcuni li chiameranno
“numeri assurdi” e si rassegneranno a utilizzarli nei loro calcoli intermedi
a condizione che non compaiano più nel risultato finale. Occorrerà
aendere il XIX secolo, o anche il XX, perché la loro legiimità venga
pienamente acceata e il loro uso definitivamente adoato.
Nel 711, duemila cavalieri e cammellieri provenienti da Ovest
raggiungono la valle dell’Indo. Sono le truppe di Muh.ammad ibn al-
Qāsim, giovane condoiero arabo appena ventenne. Meglio equipaggiati e
preparati, i suoi soldati annienteranno l’esercito di cinquantamila uomini
del ragià Dahir e s’impadroniranno della regione del Sind e del delta del
fiume. Per le popolazioni locali si traa di un evento tragico: migliaia di
soldati sono decapitati e la regione è ampiamente saccheggiata.
Il formarsi di un giovanissimo impero arabo-musulmano alle porte
dell’India sarà, nonostante tuo, una fortuna per la diffusione della
matematica indiana. Immediatamente, i sapienti arabi integreranno le
proprie scoperte con quelle degli scienziati indiani e daranno loro una
risonanza mondiale, la cui eco si spande ancora sulla matematica del XXI
secolo.

11
Stendhal, Vita di Henry Brulard, trad. it. di M. Zini, Einaudi, Torino 1976, p. 281. (N.d.T.)
8. La forza dei triangoli

Nel 762, eccoci di ritorno in Mesopotamia, là dove tuo ebbe inizio.


Mentre Babilonia è ormai un campo di rovine, a un centinaio di chilometri
più a nord si sono aperti cantieri a dir poco grandiosi. È qui, sulla riva
destra del Tigri, che il califfo abbaside al-Mansur ha deciso di costruire la
sua nuova capitale.
L’impero arabo-musulmano ha appena conosciuto un secolo di
espansione folgorante. Centotrenta anni prima, nel 632, mentre
Brahmagupta, trentaquarenne, ha da poco terminato la redazione del
Brāhmasphuţasiddhānta, Maomeo muore a Medina. E i califfi che gli
succederanno daranno inizio alle grandi conquiste e alla diffusione
dell’islam dal Sud della Spagna alle rive dell’Indo, passando per l’Africa del
Nord, la Persia e la Mesopotamia.
Al-Mansur regna su un califfato di più di dieci milioni di chilometri
quadrati. Rapportato ai giorni nostri, il territorio sarebbe il secondo più
grande paese del mondo dopo la Russia, ma prima del Canada, degli Stati
Uniti o della Cina. Al-Mansur è un califfo illuminato. Per costruire la
propria capitale fa venire i migliori architei, artigiani e artisti del mondo
arabo. E affida la scelta del sito e la data d’inizio dei lavori ai suoi geografi
e astrologi.
Occorreranno quaro anni e più di centomila operai per edificare la
cià sognata da al-Mansur. Una cià che ha la peculiarità di essere
perfeamente rotonda. La sua doppia cerchia di mura circolari, per una
circonferenza lunga oo chilometri, viene fortificata con centododici torri
e conta quaro aperture, quaro porte orientate a seconda delle diagonali
e dei quaro punti cardinali. Al centro si trovano le caserme, la moschea e
il palazzo del califfo, la cui cupola verde, che s’innalza per una cinquantina
di metri, è visibile da quasi venti chilometri di distanza.
Al momento della fondazione, la cià viene chiamata Madīnat as-
Salām, la Cià della Pace. Ma verrà chiamata anche Madīnat al-Anwār, la
Cià delle Luci, oppure ‘Āsimat ad-Dunyā, la Capitale del Mondo. Anche
se passerà alla storia con un altro nome: Baghdad.
La popolazione di Baghdad raggiunge in frea la quota di centinaia di
migliaia di abitanti. La cià si trova all’incrocio delle grandi vie
commerciali e le strade brulicano di mercanti venuti da ogni angolo del
mondo. I banchi si coprono di seta, d’oro e d’avorio. L’aria si riempie di
profumi e di spezie. La cià pullula di storie lontane. È l’epoca delle Mille e
una noe e delle leggende: quella dei sultani, dei visir e delle principesse; e
anche quella dei tappeti volanti, dei djinn e delle lampade magiche.
Al-Mansur e i califfi che gli succedono vogliono fare di Baghdad una
cià di prim’ordine sul piano culturale e scientifico. Per cui, per airare i
maggiori uomini di scienza, useranno un’esca che ha dato esiti eccellenti
mille anni prima, ad Alessandria: una biblioteca. Alla fine dell’VIII secolo il
califfo Hārūn al-Rashīd inizia a comporre una collezione di libri con
l’intenzione di preservare e far vivere le conoscenze accumulate dai greci,
dai mesopotamici, dagli egizi e dagli indiani.
Molte opere vengono così copiate e tradoe in arabo. elle greche,
ancora presenti in gran numero nei circoli intelleuali, sono le prime a
essere acquisite dai sapienti di Baghdad. Nel giro di pochi anni, vedono la
luce numerose edizioni arabe degli Elementi di Euclide. E sono anche
tradoi parecchi traati di Archimede, tra cui quello sulla misura del
cerchio, come pure l’Almagesto di Tolomeo o l’Aritmetica di Diofanto.
Nei primi anni del IX secolo, il matematico Muh.ammad al-Khwārizmī
pubblica un’opera importante, il Libro sul calcolo indiano, nel quale espone
il sistema di numerazione decimale originario dell’India. Grazie a lui, le
dieci cifre, compreso lo zero, si diffonderanno nel mondo arabo e, da lì,
s’imporranno definitivamente nel mondo intero. In arabo, lo zero è deo
zifr, che significa “vuoto”. Giungendo in Europa, la parola avrà più
versioni: da una parte, passando per l’italiano “zefiro”, darà il nome al
nostro “zero”; dall’altra, trasformandosi nello spagnolo cifra, darà il nome
appunto all’italiano “cifra” o al francese chiffre. Tanto che, gli europei,
dimenticando le radici indiane dei dieci simboli, li chiameranno numeri
arabi.
Hārūn al-Rashīd muore nell’809 ed è sostituito dal figlio al-Amin, il
quale, tuavia, non regnerà a lungo, essendo ben presto detronizzato,
nell’813, dal fratello al-Ma’mūn.
Leggenda vuole che, una noe, al-Ma’mūn riceva in sogno la visita di
Aristotele, un incontro che segna profondamente il giovane califfo. Il quale
decide di dare un nuovo impulso alle ricerche scientifiche e di accogliere
in cià sempre nuovi uomini di scienza. Nell’832 la biblioteca di Baghdad
inaugura così un’istituzione destinata a favorire la conservazione e lo
sviluppo dei saperi scientifici. L’edificio prende il nome di Bayt al-Ḥikma,
la Casa della Sapienza, il cui funzionamento richiama stranamente quello
del Museion di Alessandria.
Il califfo contribuisce in misura notevole al suo sviluppo. Interviene
direamente presso le potenze straniere, come l’impero bizantino, per
trasferire temporaneamente a Baghdad opere rare che potranno essere
copiate e tradoe. Commissiona agli uomini di scienza la stesura di opere
destinate a essere diffuse nel califfato. Assiste anche di persona ai dibaiti
scientifici o filosofici organizzati almeno una volta la seimana all’interno
del Bayt al-Ḥikma.
Nel corso dei secoli la Casa della Sapienza di Baghdad si riprodurrà in
tuo il mondo arabo. Molte altre cià si doteranno a loro volta di
biblioteche e istituzioni destinate ad accogliere gli uomini di scienza. Tra
le più influenti e aive, quella di Cordova in Andalusia, fondata nel X
secolo, quella del Cairo, in Egio, fondata nell’XI secolo, e quella di Fès,
nell’auale Marocco, fondata nel XIV secolo.
Va comunque aggiunto che un tale decentramento scientifico viene
ampiamente facilitato dall’arrivo di un’invenzione venuta dalla Cina e
recuperata, quasi per caso, nel 751, in occasione della baaglia del Talas,
nell’auale Kazakistan: la carta. La carta agevola la copiatura e il trasporto
dei libri. D’ora in poi, non è più necessario recarsi a Baghdad per essere al
corrente delle ultime scoperte in materia di matematica, astronomia o
geografia. Grandi scienziati potranno lavorare e produrre opere innovative
ai quaro angoli dell’impero arabo-musulmano.

I MOSAICI DELL’ALHAMBRA
Mentre all’interno del Bayt al-Ḥikma le grandi menti scrivono la storia
della matematica, nelle strade di Baghdad e delle cià arabe continua
un’altra storia. L’islam bandisce per principio la rappresentazione di
esseri umani o di animali nelle moschee e in altri luoghi religiosi. Così,
per ovviare al divieto, gli artisti musulmani daranno prova di una
creatività stupefacente nell’elaborazione di motivi geometrici
decorativi.
Ricordate i primi artigiani sedentari della Mesopotamia che creavano
motivi grafici per decorare il loro vasellame? E che scoprirono, senza
saperlo, le see possibili categorie dei fregi? Ora, se il fregio è una
figura che si ripete secondo una direzione, è anche pensabile che si
ripeta secondo due direzioni, per ricoprire superfici intere. È quello che
si chiama mosaico. Le strade di Baghdad e delle cià musulmane si
adorneranno poco per volta di questa geometria sfavillante, la quale
diventerà uno dei marchi di fabbrica dell’arte islamica.
Alcune decorazioni sono abbastanza semplici.
Altre sono più complesse.

In seguito, i matematici arriveranno a dimostrare che esistono in tuo


diciassee categorie geometriche di mosaici, classificate a seconda delle
trasformazioni geometriche che ne fanno diciassee invarianti.
Dopodiché, ciascuna categoria può dar luogo a un’infinità di ulteriori
varianti diverse. Gli artisti arabi, senza conoscere il relativo teorema,
scoprirono le diciassee categorie e le declinarono in maniera
magistrale nella loro architeura come nella decorazione di oggei
d’arte o della vita quotidiana.
A Granada, in Andalusia, il palazzo dell’Alhambra è una delle
testimonianze più notevoli della presenza islamica in Spagna durante il
Medioevo. Ogni anno lo visitano più di due milioni di turisti. Tra i
quali, ben pochi sanno che il palazzo gode di una reputazione tua
speciale presso i matematici. È noto, infai, che l’Alhambra presenta al
proprio interno l’intero complesso delle diciassee categorie di mosaici
esistenti, disseminate (e talvolta ben nascoste) lungo il percorso delle
sale e dei giardini.
Dunque, se mai passate un giorno da Granada, sapete che cosa dovete
andare a vedere.

Rimaniamo ancora un po’ di tempo a Baghdad e prendiamo coraggio:


spingiamo in avanti i portali del Bayt al-Ḥikma per osservare quanto vi
accade all’interno. ale nuova matematica gli arabi ci stanno
preparando? Di che cosa traano i libri appena scrii che si vanno
impilando sugli scaffali della biblioteca?
Una delle discipline che si sta sviluppando alla grande in questo
periodo è la trigonometria, vale a dire lo studio delle misure dei trigoni,
altrimenti dei triangoli. A prima vista, il tuo può sembrare deludente: i
popoli antichi studiavano già i triangoli, e lo testimonia il teorema di
Pitagora. Tuavia gli arabi stanno prolungando le ricerche sui trigoni al
punto da farne una disciplina di notevole precisione, i cui risultati
comportano ancora oggi molteplici applicazioni.
Contrariamente a quanto si potrebbe credere, i triangoli non sono
sempre così facili da comprendere, e alla fine dell’Antichità molti punti
restavano ancora da chiarire. Per conoscere bene un triangolo, ci servono
sei informazioni specifiche: la lunghezza dei tre lati e la misura dei tre
angoli.
Ed ecco la novità. Per utilizzare la trigonometria sul campo, è spesso
assai più semplice misurare l’angolo tra due direzioni anziché la distanza
tra due punti. L’astronomia ce ne offre un esempio significativo.
Conoscere, per dire, la distanza che separa le stelle che osserviamo nel
cielo nourno costituisce un problema molto difficile, per risolvere il quale
dovranno trascorrere ancora molti secoli. Invece, misurare l’angolo
disegnato da stelle vicine tra loro o al di sopra dell’orizzonte è neamente
più semplice. Basta un semplice oante, antenato del sestante. Allo stesso
modo, un geografo che desideri disegnare la carta di un territorio potrà
facilmente misurare gli angoli del triangolo formato da tre montagne. E,
per farlo, gli è sufficiente un’alidada, che non è altro che un goniometro
munito di un sistema di osservazione. Per orientare la carta nello spazio,
una semplice bussola gli consentirà di misurare l’angolo compreso tra il
nord e una data direzione. Laddove misurare la distanza tra tre montagne
richiede l’impiego assai più impegnativo di una spedizione e calcoli ben
più complessi. Un punto sul quale Alessandro e i suoi bematisti non ci
contraddiranno di sicuro!
L’obieivo è dunque il seguente: come fare per conoscere tue le
informazioni relative a un triangolo misurando meno distanze possibili?
Una domanda di fronte alla quale gli studiosi di trigonometria si sentono
come si è sentito Archimede, un millennio prima, di fronte al problema del
cerchio. In primo luogo, se si conoscono tui gli angoli di un triangolo, ma
nessuno dei suoi lati, se ne può dedurre la forma, ma non la grandezza.
Esempio. I seguenti triangoli hanno tui gli stessi angoli, ma hanno lati di
diversa lunghezza.

Ciononostante, hanno le medesime proporzioni. Se, per esempio, si


chiede per quale numero occorre moltiplicare la lunghezza del lato
maggiore per oenere quella del lato minore, si troverà, per ciascuno dei
tre triangoli, lo stesso risultato: 0,64! Un po’ come per misurare il
perimetro di un cerchio, che si oiene sempre moltiplicando il diametro
per π, qualunque sia la sua grandezza.
In verità… quasi 0,64. Il numero, infai, è un’approssimazione. Come
per π, la proporzione non può essere calcolata con esaezza, e dobbiamo
accontentarci di valori approssimativi. Una maggiore precisione ci
verrebbe da 0,642 o anche da 0,64278, ma anche in questo modo non
oerremo mai il numero perfeo. La scriura decimale del numero conta
infai un’infinità di cifre dopo la virgola. Ed è così anche per gli altri
rapporti calcolabili all’interno dei triangoli. Per esempio, si passa dal lato
maggiore al lato medio moltiplicando per circa 0,766 e dal lato minore al
medio moltiplicando per circa 1,192.

Essendo quindi impossibile aribuire ai tre rapporti i rispeivi valori


esai, i matematici hanno dato loro, per studiarli meglio, dei nomi. A
seconda dei paesi e delle epoche, sono stati molti i nomi impiegati, ma
oggi tui li chiamano, rispeivamente, “coseno”, “seno” e “tangente”. E
prima che i vecchi nomi cadessero nell’oblio, ne sono state inventate e
applicate numerose varianti. Un esempio è il seked, di cui si servivano gli
egizi per valutare la pendenza delle piramidi. Un altro è la corda,
introdoa dai greci e corrispondente al rapporto interno a un triangolo
isoscele.
I rapporti trigonometrici comporteranno comunque un nuovo
problema. I loro valori variano da un triangolo all’altro. Per esempio, i
suddei rapporti 0,642, 0,766 e 1,192 valgono solo per i triangoli che
abbiano angoli di 40°, 50° e 90°. Se si considera invece un triangolo
reangolo con angoli di 20°, 70° e 90°, il coseno, il seno e la tangente
varranno invece 0,342, 0,940 e 2,747! In sostanza, il compito dei matematici
specializzati in trigonometria si presenta ben più ampio del previsto. Non
si traa solamente di trovare un numero, e nemmeno di trovarne tre. A
variare, a seconda di tui gli angoli possibili da calcolare, sono intere
tavole di numeri!
i soo presentiamo una tavola trigonometrica per triangoli
reangoli, in cui uno degli angoli varia da 10° a 80°. Si noterà che, per
ciascun triangolo, si dà un solo angolo. E infai non è necessario indicare
gli altri due, che si possono trovare senza difficoltà: da una parte, l’angolo
reo misura sempre 90°, dall’altra, un teorema afferma che la somma dei
tre angoli di un triangolo vale sempre 180°, il che consente di calcolare il
terzo. A dire il vero, non sarebbe nemmeno necessario disegnare i
triangoli: il semplice dato dell’angolo sarebbe sufficiente per ricostituirli.
Ecco perché la prima colonna delle tavole trigonometriche indica in
genere soltanto l’angolo. Per cui si dirà che il coseno di 10° è uguale a
0,9848 o che la tangente di 50° è uguale a 1,1918.
Intendiamoci. Una tavola trigonometrica non è mai completa. È sempre
possibile perfezionarla, sia trovando approssimazioni migliori dei rapporti
in essa contenuti, sia affinando il ventaglio dei triangoli rappresentati. Per
esempio, nella tavola, i triangoli hanno angoli che variano di 10° in 10°,
anche se sarebbe preferibile avere una precisione al grado, o addiriura al
decimo di grado. Insomma, calcolare tavole trigonometriche sempre più
rigorose è un compito senza fine, al quale si applicheranno, di volta in
volta, generazioni di matematici. Si dovrà aendere l’avvento, nel corso
del XX secolo, delle calcolatrici eleroniche per liberarli finalmente da
quella grave incombenza.
I greci sono stati senza dubbio i primi a stabilire tavole
trigonometriche. Le più antiche a noi pervenute si trovano nell’Almagesto
di Tolomeo, e sarebbero opera di Ipparco di Nicea, un matematico del II
secolo a.C. Alla fine del V secolo, anche lo scienziato indiano Āryabhaṭa
pubblica tavole trigonometriche. Nel Medioevo, saranno i persiani Omar
Khayyam nell’XI secolo e al-Kashi nel XIV a stabilire le tavole più celebri.
Gli uomini di scienza del mondo arabo svolgeranno infai un ruolo
essenziale, non solo per il contributo alla stesura di tavole più precise ma
anche e soprauo per ciò che vorranno farne. Essi esalteranno al più alto
grado l’arte della manipolazione dei dati in esse contenuti e del loro uso
più efficace.
Per esempio, al-Kashi, nel 1427, pubblica un’opera intitolata Miāḥ al-
ḥisāb, ovvero La chiave dell’aritmetica, nella quale enuncia un risultato che
generalizza il teorema di Pitagora. Grazie a un abile impiego dei coseni, al-
Kashi arriva a formulare un teorema applicabile in senso assoluto a tui i
triangoli, e non più soltanto ai triangoli reangoli. Il teorema di al-Kashi
fa da teorema correivo a quello di Pitagora. ando il triangolo non è
reangolo, la somma dei quadrati costruiti sui due primi lati non è uguale
alla misura del quadrato del terzo: l’uguaglianza si oiene a condizione di
aggiungere un termine correivo, calcolabile direamente a partire dal
coseno dell’angolo compreso tra i due primi lati.
ando al-Kashi pubblica questo primo risultato, non è già più uno
sconosciuto nel mondo della matematica. Infai si è reso noto tre anni
prima calcolando un’approssimazione del numero π fino al sedicesimo
decimale. Un record, per l’epoca! Ma se i record sono fai per essere
bauti,12 i teoremi invece restano. E il teorema di al-Kashi è ancora oggi
uno dei risultati trigonometrici più utilizzati.
Rive gauche di Parigi. È giugno, ed eccomi trasformato in una guida
turistica un po’ particolare. Oggi, con un gruppo di una ventina di
persone, percorriamo le strade del quartiere latino sulle orme dei
matematici e della loro storia. La prossima fermata è prevista al Jardin des
Grands Explorateurs. A nord, si scorgono i viali simmetrici del Jardin du
Luxembourg, che puntano in ranghi compai in direzione del palazzo del
senato. A sud, la cupola dell’Observatoire de Paris spicca con il suo profilo
arrotondato sopra i tei della capitale.
Seguendo l’asse del giardino, camminiamo come funamboli in bilico
sulla linea precisa del meridiano di Parigi. Basta scartare di un passo sulla
sinistra per ritrovarsi nell’emisfero Est del mondo. Due passi verso destra
per cadere nell’emisfero Ovest. Cinquecento metri più avanti, il meridiano
passa esaamente per il centro dell’Observatoire, taglia a metà il XIV
Arrondissement, esce da Parigi araversando il Parc Montsouris e
prosegue la sua corsa per le campagne francesi, affea un pezzo di Spagna
e si lancia per il continente africano e l’Oceano Antartico, per poi finire la
corsa al Polo Sud. Dietro di noi, invece, risale le stradine di Montmartre,
sfiora le isole britanniche e la Norvegia, e raggiunge il Polo Nord.
Stabilire il tracciato preciso del meridiano non fu cosa facile, richiese
l’effeuazione di rilievi di enorme precisione su vaste distese di territorio.
Come si fa, per esempio, a misurare la distanza tra due punti situati da una
parte e dall’altra di una montagna senza poterla araversare? Per
rispondere alla domanda, gli scienziati dell’inizio del XVIII secolo
svilupparono il meridiano tramite una successione di triangoli virtuali che
correvano dal Nord al Sud della Francia.
I punti di ancoraggio della triangolazione furono scelti in quanto luoghi
elevati, come colline, montagne o campanili, da cui era possibile
visualizzare gli altri punti, e misurare così ciascun angolo. Una volta presi
i rilievi sul terreno, non restava che impiegare su vasta scala, per
determinare l’esaa posizione di ciascuno dei punti della triangolazione e
per il loro tramite la posizione del meridiano, i procedimenti
trigonometrici messi a punto dagli arabi.
I Cassini saranno tra i primi a dedicarsi a un tale compito. La famiglia
Cassini costituisce una vera dinastia scientifica, tanto che si usa
enumerarli come i re! Giovanni Domenico, deo Cassini I, appena
emigrato dall’Italia, fu il primo direore dell’Observatoire de Paris,
fondato nel 1671. Il figlio Jacques, o Cassini II, gli successe al momento
della morte, avvenuta nel 1712. Furono Cassini I e Cassini II a stabilire la
prima triangolazione del meridiano, portata a termine nel 1718. In seguito,
Cassini III – César-François, figlio di Cassini II – fece della loro
triangolazione la colonna portante della prima triangolazione completa del
territorio francese. Da qui, la pubblicazione, nel 1744, della primissima
carta geografica della Francia, stabilita sulla base di un rigoroso
procedimento scientifico. E il figlio di Cassini III – Cassini IV, Jean-
Dominique – proseguì il lavoro del padre perfezionando ancora la
triangolazione, regione per regione.
Carta della Francia del 1744, sulla quale è raffigurato il meridiano di Parigi,
insieme ai principali triangoli di Cassini.

Camminando lungo il meridiano, ricalchiamo indireamente i passi


degli scienziati arabi che hanno fissato le basi teoriche delle triangolazioni.
Ogni triangolo sulla carta necessita dell’uso di coseni, seni o tangenti.
Ogni triangolo reca nella sua forma l’eredità di al-Kashi e dei primi esperti
di trigonometria di Baghdad. E tui i calcoli fai a mano hanno richiesto
agli astronomi dell’osservatorio innumerevoli ore di lavoro, in compagnia
delle tavole trigonometriche.
Le triangolazioni continuarono a essere in uso fino alla fine del XX
secolo, e all’avvento dei satelliti. I reticoli più precisi contavano allora fino
a 80.000 punti. E i limiti che segnavano quei punti sono oggi ancora
visibili, disseminati un po’ ovunque nel territorio francese. A Parigi è
sempre possibile vedere le due mire che determinarono l’asse del
meridiano: una si trova a sud, nel Parc Montsouris, l’altra a nord, a
Montmartre. Nel 1994 sono stati disposti, lungo il percorso del meridiano
araverso la capitale, trentacinque medaglioni intitolati all’astronomo
François Arago. Uno di essi si trova all’interno del museo del Louvre. La
prossima volta che passeggerete per le strade di Parigi, aprite gli occhi,
potreste “inciampare” in alcuni di essi!
ando, al tempo della Rivoluzione francese, vide la luce il sistema
metrico, la lunghezza del metro venne rapportata, con una pretesa di
universalità, a quella del meridiano. Un metro fu esaamente definito
come la diecimilionesima parte del quarto del meridiano. Nel 1796, sedici
metri campione, incisi sul marmo, vennero installati ai quaro angoli di
Parigi, in modo che tui potessero prenderli come riferimento. Oggi, due
di essi sono ancora visibili, uno in Rue de Vaugirard, di fronte al Jardin du
Luxembourg, l’altro in Place Vendôme, all’ingresso del ministero della
giustizia.
Il meridiano di Parigi rimase un punto di riferimento fino alla
conferenza internazionale di Washington, tenutasi nel 1884, allorché
venne rimpiazzato dal meridiano di Greenwich, che passa per
l’osservatorio reale di Greenwich. In cambio del meridiano, i britannici
s’impegnarono ad adoare il sistema metrico. Stiamo ancora aspeando
che lo facciano.
Con l’avvento dell’informatica e dei satelliti, le tavole trigonometriche
e le triangolazioni al suolo sono diventate inutili. Tuavia, la
trigonometria non è affao scomparsa. Ha finito per trovare posto nel
cuore dei processori. I triangoli si sono nascosti, ma sono sempre lì.
Aenzione. Osservate le auto che sfilano su Avenue de l’Observatoire.
Molte di esse sono ormai equipaggiate con il sistema di localizzazione GPS.
In ogni momento, le loro traieorie sono determinate dal posizionamento
rilevato da quaro satelliti che le seguono dallo spazio. E la soluzione delle
equazioni che ne risultano fa ancora appello alla trigonometria. Sanno, gli
automobilisti, che la voce che ordina loro, con la massima tranquillità, di
svoltare a sinistra ha appena utilizzato alcuni seni e coseni?
Non solo. Non avete mai sentito dire, a uno degli ispeori della vostra
serie poliziesca preferita, che il telefono della persona sospea è stato
localizzato tramite triangolazione? È un tipo di localizzazione che consiste
nel determinare la posizione di un cellulare a seconda della sua distanza
rispeo ai tre ripetitori più vicini. Ed è un problema geometrico facilmente
risolvibile grazie ad alcune formule di trigonometria che i nostri computer
effeuano ormai in un lampo.
Non contenta di misurare il reale, la trigonometria s’intromee anche
nella creazione dei mondi virtuali. I film di animazione in 3D e i
videogiochi ne fanno un uso abbondante. Soo la texture predisposta dai
grafici, le forme in 3D vanno a comporsi in una serie di reticoli geometrici
che ricordano curiosamente le triangolazioni dei Cassini. Sono tali reticoli
ad animare, deformandosi, oggei e personaggi. Il calcolo della più piccola
immagine di sintesi, tipo quella della teiera dello Utah – uno dei primi
oggei modellizzati su computer, nel 1975 – richiede l’applicazione di un
gran numero di formule trigonometriche.
12
Il matematico olandese Ludolph Van Ceulen calcolerà, centoseant’anni dopo, 35 decimali.
9. Verso l’incognita

Ritorniamo a Baghdad. Uno degli uomini di scienza che frequentano il


Bayt al-Ḥikma è destinato più di tui a segnare profondamente la sua
epoca: Muḥammad al-Khwārizmī.
Al-Khwārizmī è un matematico persiano nato negli anni oanta
dell’VIII secolo. La sua famiglia è originaria della regione del Khwārezm,
che si estende sugli auali territori dell’Iran, dell’Uzbekistan e del
Turkmenistan. Non è dato sapere se davvero al-Khwārizmī sia nato lì o se
i genitori siano emigrati a Baghdad prima della sua nascita. Fao sta che è
nella cià rotonda che il giovane matematico viene a trovarsi, all’inizio del
IX secolo. Ed è tra i primi uomini di scienza a frequentare il Bayt al-Ḥikma
e a conquistare una notevole reputazione.
A Baghdad, al-Khwārizmī è soprauo popolare come astronomo.
Redige sia numerosi traati teorici che riprendono le conoscenze greche o
indiane, sia opere pratiche sull’utilizzo di una meridiana o la fabbricazione
di un astrolabio. Inoltre mee a fruo le proprie conoscenze per stabilire
tavole geografiche che raggruppano le latitudini e le longitudini dei luoghi
più importanti del mondo. Il suo meridiano di riferimento, ispirato a
Tolomeo, resta comunque approssimativo: si ritiene che passi per le Isole
Fortunate, la cui posizione, definita più dalla mitologia che da una realtà
geografica, sarebbe all’estremità Ovest del mondo e potrebbe coincidere
con quella delle auali Canarie.
Nell’ambito della matematica, al-Khwārizmī scrive il famoso Libro sul
calcolo indiano, il quale rivela al mondo il sistema decimale posizionale,
un’opera fondamentale che da solo basterebbe a farlo entrare nel pantheon
della matematica. Ma è un altro libro, dal contenuto rivoluzionario, che gli
assicurerà per sempre un posto tra i maggiori matematici della storia,
accanto ad Archimede e a Brahmagupta.
Il libro gli è commissionato da al-Ma’mūn in persona. Il califfo desidera
meere a disposizione del suo popolo un manuale di matematica che
possa essere utile a chiunque voglia risolvere i problemi che gli si
presentano nella vita di tui i giorni. Ad al-Khwārizmī tocca dunque il
compito di elaborarlo, e lo scienziato inizia a compilare una lista di
problemi classici accompagnati dal metodo per risolverli. Vi si trovano
questioni pratiche, tra cui la misurazione dei terreni, le transazioni
commerciali o le ripartizioni di un’eredità tra i diversi membri di una
famiglia.
Tui questi problemi, per quanto rilevanti, non hanno nulla di
innovativo e, se al-Khwārizmī si fosse streamente aenuto alla
commissione del califfo, il libro non sarebbe certo arrivato ai posteri. Il
matematico persiano, invece, non si limita a quanto gli è stato
commissionato, e decide di aggiungere, come introduzione all’opera, una
prima parte puramente teorica, dove espone in maniera struurata e
astraa i differenti metodi di risoluzione che vengono messi in pratica di
fronte a problemi concreti.
Terminato il libro, al-Khwārizmī lo intitola Kitāb al-mukhtaşar ī ḥistāb
al-jabr wa-l-muqtābala, ovvero Compendio sul calcolo per completamento e
bilanciamento. ando, molto più tardi, il testo fu tradoo in latino, le
ultime parole del titolo arabo vennero riprese foneticamente, e il libro si
chiamò Liber Algebræ et Almucabola. Termine, quest’ultimo, che fu ben
presto abbandonato, per lasciare il posto al primo, il solo che da allora
avrebbe definito la disciplina inaugurata da al-Khwārizmī: al-jabr, algebræ,
algebra.
Più del contenuto matematico, appare rivoluzionaria la formulazione
data da al-Khwārizmī alla propria metodologia, che comporta una
procedura di risoluzione dei problemi sviluppata in modo del tuo
autonomo rispeo ai problemi stessi. Per capire bene il metodo applicato
da al-Khwārizmī, prendiamo in esame i tre problemi seguenti:

1. Un campo reangolare conta 5 unità di larghezza e una superficie di


30. anto misura la sua lunghezza?
2. Un uomo di 30 anni ha 5 volte l’età di suo figlio. anti anni ha il
figlio?
3. Un mercante ha comprato 30 chilogrammi di tessuti in 5 rotoli
identici. anto pesa ciascun rotolo?

In tui e tre i casi, la risposta è 6. E si comprende, risolvendo i tre


problemi, che, sebbene traino temi radicalmente diversi, la matematica in
essi latente è la medesima. In tui e tre i casi, il risultato si oiene tramite
una divisione: 30 ÷ 5 = 6. Il primo metodo di al-Khwārizmī consiste
dunque nell’astrarre le domande dal contesto per ricavarne un problema
puramente matematico:

Si cerchi un numero che, moltiplicato per 5, dia 30.

Nella formulazione ignoriamo che cosa stiano a rappresentare i numeri


5 e 30. Può traarsi di dimensioni geometriche, età, o rotoli di tessuto
come di qualsiasi altra cosa, poco importa! Perché la modalità con la quale
cercheremo di rispondere alle domande non cambia per nulla. L’obieivo
dell’algebra è proprio quello di proporre metodi che consentano di
risolvere indovinelli del genere, di natura essenzialmente matematica.
Indovinelli che, alcuni secoli dopo, in Europa, assumeranno il nome di
equazioni.
E al-Khwārizmī va ancora più lontano nel suo studio delle equazioni.
Affermando che il metodo non dipende nemmeno dai dati numerici del
problema. Si prendano in esame le tre equazioni seguenti.

1. Si cerchi un numero che, moltiplicato per 5, dia 30.


2. Si cerchi un numero che, moltiplicato per 2, dia 16.
3. Si cerchi un numero che, moltiplicato per 3, dia 60.

Ciascuna delle tre equazioni raggruppa già, nella sua formulazione, una
quantità di problemi concreti diversi l’uno dall’altro. Ma, ancora una volta,
si comprende che la loro soluzione deriverà dall’impiego dell’identico
metodo. In tui e tre i casi, si trova cioè la soluzione dividendo il secondo
numero per il primo: per la prima, 30 ÷ 5 = 6; per la seconda, 16 ÷ 2 = 8;
per la terza, 60 ÷ 3 = 20. Il metodo di risoluzione è dunque indipendente
non soltanto dal problema concreto ma anche dai numeri che
intervengono nel problema stesso.
Tanto che diventa possibile formulare le tre equazioni in maniera
ancora più astraa:

Si cerchi un numero che, moltiplicato per una data quantità 1, dia una
quantità 2.

Tui i problemi di questo tipo potranno risolversi nell’identico modo:


basta dividere la quantità 2 per la quantità 1.
Si traa naturalmente, qui, di un esempio molto semplice. In cui
interviene una sola moltiplicazione, con una soluzione che prevede una
sola divisione. Tuavia, è possibile immaginare altri tipi di equazioni in
cui l’incognita si determina a partire da un maggior numero di operazioni
diverse tra loro. Al-Khwārizmī si occuperà perlopiù delle equazioni la cui
incognita può determinarsi a partire sia da tue e quaro le operazioni di
base (addizione, sorazione, moltiplicazione, divisione) sia dai quadrati.
Eccone un esempio:

Si cerchi un numero il cui quadrato sia uguale a 3 volte il suo valore


aumentato di 10.

In tal caso la soluzione è 5. Il quadrato di 5 è infai 25. Da qui: 25 = 3 ×


5 + 10. Per questa volta abbiamo avuto fortuna, perché la soluzione è un
numero intero, che si sarebbe potuto indovinare eseguendo varie prove.
Ma, quando le soluzioni sono numeri molto grandi o numeri con la
virgola, si rende necessario disporre di un metodo preciso, che consenta di
trovare i valori in maniera sistematica. Ed è proprio quanto elabora al-
Khwārizmī nell’introduzione al suo libro. Dove descrive, fase per fase, i
calcoli che occorre effeuare a partire dai dati del problema, quali che
siano i dati stessi. Dopodiché, in un secondo tempo, redige anche
dimostrazioni che provano la correezza dei suoi metodi.
Il modo di procedere di al-Khwārizmī s’inscrive dunque alla perfezione
nella dinamica globale della matematica, la quale tende all’astrazione e alla
generalizzazione. Gli oggei matematici sono stati resi indipendenti dagli
oggei reali ormai da tempo. Con al-Khwārizmī, sono i ragionamenti
stessi sugli oggei a rendersi autonomi dai problemi che si suppone
debbano risolvere.
LA CLASSIFICAZIONE DELLE EQUAZIONI
Non tue le equazioni sono così facili da risolvere. Ve ne sono certe
sulle quali i nostri auali matematici si stanno ancora scervellando. La
difficoltà di un’equazione dipende essenzialmente dalle operazioni che
la compongono.
Per cui, se l’incognita si determina a partire da addizioni, sorazioni,
moltiplicazioni e divisioni, si parla di equazioni di primo grado. Eccone
alcuni esempi:

ale numero dà 10 se gli si aggiunge 3?


ale numero dà 15 se lo si divide per 2?
ale numero dà 0 se lo si moltiplica per 2 e poi gli si sorae 10?

Le equazioni di primo grado sono le più semplici da risolvere. Un


minimo di riflessione permee di trovare le soluzioni delle tre
equazioni indicate: 7 perché 7 + 3 = 10; 30 perché 30 ÷ 2 = 15; 5 perché
5 × 2 – 10 = 0.
Se però alle quaro operazioni si aggiungono i quadrati, ossia
l’operazione che consiste nel moltiplicare l’incognita per se stessa, si
passa alle equazioni di secondo grado, e la difficoltà diventa ben
maggiore. E sono proprio queste equazioni di secondo grado che al-
Khwārizmī risolve nella sua opera. Ecco due esempi forniti dal
matematico persiano:

Il quadrato di un numero a cui si aggiunge 21 è uguale a 10 volte il


numero stesso.
Il quadrato di un numero a cui si aggiunge il numero stesso moltiplicato
per 10 dà 39.

Una delle peculiarità delle equazioni di secondo grado è che possono


avere due soluzioni. Un esempio: i numeri 3 e 7 rispondono alla prima
domanda in quanto 3 × 3 + 21 = 3 × 10; e 7 × 7 + 21 = 7 × 10. Anche la
seconda equazione ha due soluzioni: 3 e –13.
Nel IX secolo, la geometria continua a essere, nella sfera della
matematica, la disciplina di riferimento, e le dimostrazioni di al-
Khwārizmī sono sistematicamente formulate in termini geometrici.
Secondo l’interpretazione introdoa dai matematici antichi, il quadrato
di un numero e la moltiplicazione di due numeri possono considerarsi
delle superfici. Un’equazione di secondo grado può dunque essere
traata come un problema di geometria piana. Ecco, per esempio, la
versione geometrica delle due equazioni precedenti. I punti
interrogativi esprimono le lunghezze corrispondenti al numero
sconosciuto.

Il quadrato di un numero a cui si aggiunge 21 è uguale a 10 volte il numero


stesso.

Il quadrato di un numero a cui si aggiunge il numero stesso moltiplicato per


10 dà 39.

Al-Khwārizmī risolse quindi i due problemi con i metodi del puzzle,


perfezionati. Taglia pezzi, aggiunge o toglie pezzi a seconda della
necessità e oiene una figura che lascia trasparire la soluzione.
Se, per esempio, prendiamo in esame la seconda delle precedenti
equazioni, notiamo che il suo metodo consiste, in primo luogo, nel
tagliare il reangolo che vale 10 volte l’incognita in due reangoli che
valgono ciascuno 5 volte l’incognita.
In secondo luogo, ridispone i pezzi nel seguente modo.

Infine, aggiunge dai due lati dell’uguaglianza un pezzo che abbia una
superficie di 25, così da ricostituire un quadrato da entrambi i lati.

Il quadrato di sinistra ha perciò un lato uguale all’incognita aumentata


di 5, mentre quello di destra ha un lato uguale a 8. Ne consegue che
l’incognita vale 3.
Avrete notato che la figura qui sopra non è proporzionata come
dovrebbe. Non era possibile sapere, prima della soluzione, che
l’incognita valesse 3, per cui le lunghezze raffigurate non sono corree.
Il che non ha poi tanta importanza, perché qui non sono i valori
numerici a contare, ma il fao che la composizione stessa funzioni
qualunque siano i numeri specifici che compaiono nelle equazioni. Un
vecchio adagio dice che la geometria è l’arte di ragionare giusto su
figure sbagliate. Eccone qui un’esemplificazione perfea!
Occorre in ogni caso notare che, per il metodo di al-Khwārizmī,
l’incognita è una lunghezza, ovvero un numero positivo: le soluzioni
negative sono insomma passate in cavalleria. Che la nostra equazione
abbia anche una soluzione uguale a –13 è un fao che il matematico
persiano elude accuratamente.
Dopo le equazioni di secondo grado, ecco quelle di terzo grado. E
stavolta, nell’incognita, è possibile fare intervenire il cubo. Per al-
Khwārizmī si traa però di equazioni ancora troppo complesse, che
non a caso verranno risolte solo nel Rinascimento. Se le interpretiamo
in termini geometrici, ci imbaiamo infai in un problema di volumi a
tre dimensioni.
Alla fine arrivano le equazioni di quarto grado. Da un punto di vista
numerico, si traa di equazioni prive di difficoltà. Invece, dal punto di
vista della loro rappresentazione geometrica, si traa di equazioni
davvero problematiche, perché dovremmo immaginarci delle figure a
quaro dimensioni, il che non è alla nostra portata, in un mondo
limitato alle tre dimensioni. La capacità dell’algebra di generare
problemi a priori inaccessibili alla geometria sarà in gran parte
responsabile dell’inversione di ruoli che si produrrà nel Rinascimento e
che vedrà la prima togliere alla seconda il titolo di disciplina regina
della matematica.

Al termine del IX secolo, il matematico egiziano Abū Kāmil si mee in


luce come uno dei principali successori di al-Khwārizmī. Ne generalizza i
metodi e s’interessa, nello specifico, ai sistemi di equazioni. Sistemi che
consistono nel trovare simultaneamente più incognite a partire da più
equazioni. Eccone un esempio classico.
Il gregge di un allevatore è costituito da dromedari che hanno una
gobba e da cammelli che ne hanno due. Per un totale di 100 capi e 130
gobbe. anti sono i dromedari e quanti i cammelli?

i le incognite da cercare sono appunto due, il numero dei dromedari


e quello dei cammelli, e le informazioni di cui disponiamo sono
rimescolate. I capi e le gobbe ci danno due equazioni, ma non è possibile
risolverle separatamente: bisogna considerare il problema nel suo insieme.
E per affrontarlo esistono metodi diversi. Un modo di ragionare è il
seguente. Se ci sono 100 capi, ci saranno 100 animali. Ora, se gli animali
fossero tui dromedari, avremmo 100 gobbe e ne mancherebbero 30. Ci
sono quindi 30 cammelli e gli altri 70 sono dromedari. In questo caso la
soluzione sarebbe una sola, ma altri sistemi più complessi possono averne
molte di più. Per esempio, Abū Kāmil afferma, in una delle sue opere, di
aver risolto determinate equazioni per le quali avrebbe trovato 2676
soluzioni diverse!
Nel X secolo, al-Karaji è il primo a scrivere che si possono immaginare
equazioni di qualsiasi grado, anche se le figure in base alle quali riesce a
risolverle sono relativamente poche. Nell’XI e nel XII secolo sono Omar
Khayyam e Sharaf al-Dīn al-Ṭūsī a lanciarsi all’assalto del terzo grado. E
riescono anche a risolvere certi casi particolari e a sviluppare progressi
significativi nel loro studio, senza però arrivare a produrre un metodo
sistematico di soluzione. Numerosi altri tentativi falliscono, e alcuni
matematici cominciano a pensare che le equazioni di terzo grado non
siano risolvibili.
Non saranno alla fine gli scienziati arabi a sciogliere il nodo. Nel XIII
secolo, l’età dell’oro islamica ha già vissuto gli anni più belli e sta
avviandosi verso un lento declino. Le ragioni sono molteplici: il dominio
dell’impero arabo-musulmano è oggeo di invidie e costanti tentativi di
aacco, sia sul piano commerciale sia sul piano militare.
Nel 1219 le orde mongole di Gengis Khan si abbaono sul Khwārezm,
patria di al-Khwārizmī. Nel 1258 giungono alle porte di Baghdad agli
ordini di Hulagu Khan, nipote di Gengis Khan. Il califfo al-Musta’sim deve
capitolare. Baghdad viene saccheggiata e incendiata, i suoi abitanti
massacrati. Contemporaneamente, si accelera la Reconquista, a opera delle
popolazioni cristiane, dei territori meridionali della Spagna. Cordova,
capitale della regione, cade nel 1236. E nel 1492 la Spagna è
completamente riconquistata con la presa di Granada e dell’Alhambra.
La comunità scientifica del mondo arabo è abbastanza decentrata per
riuscire a resistere alle disfae ancora per qualche tempo. Fino al XVI
secolo si continueranno a portare avanti ricerche di notevole importanza,
ma il vento della storia sta cambiando, e l’Europa è ormai pronta a
riprendere in pugno il vessillo della matematica.
10. A seguire

Bisogna ammeere che, durante il periodo medievale, la matematica non


procede, in Europa, con il vento in poppa. Salvo alcune eccezioni. Il più
grande matematico europeo del Medioevo è sicuramente l’italiano
Leonardo Fibonacci, nato a Pisa nel 1175 e morto nella stessa cià nel
1250.
Come si diventa all’epoca, in Europa, un matematico di grande rilievo?
Non rimanendo in Europa. Il padre di Fibonacci è il delegato dei mercanti
della Repubblica marinara di Pisa a Béjaïa, nell’auale Algeria. Ed è lì che
Leonardo compie i suoi studi e scopre i lavori dei matematici arabi, specie
quelli di al-Khwārizmī e di Abū Kāmil. Tornato a Pisa, pubblica nel 1202 il
Liber Abaci, Libro del calcolo, nel quale presenta l’intera gamma delle
nozioni matematiche del tempo, dai numeri arabi alla geometria di
Euclide, passando per i risultati dell’aritmetica di Diofanto o i calcoli delle
successioni numeriche. E sarà proprio una di tali successioni a procurargli
una grande popolarità nei secoli a venire.
Una successione numerica è una sequenza di numeri prolungabile
all’infinito. Ne conosciamo già alcune. La successione dei numeri dispari
(1, 3, 5, 7, 9…) o quella dei numeri quadrati (1, 4, 9, 16, 25…) sono gli
esempi più semplici. In uno dei problemi del Liber Abaci, Fibonacci cerca
di fornire un modello matematico della crescita di un allevamento di
conigli. Considerando, all’uopo, le ipotesi qui esposte in forma
semplificata:

1. una coppia di conigli non ha l’età per riprodursi nei suoi primi due
mesi;
2. a partire dal suo terzo mese, una coppia dà alla luce una nuova
coppia ogni mese.
Sulla base delle due ipotesi, è possibile prefigurare l’albero genealogico
di una giovane coppia di conigli.
Possiamo ora esaminare la successione formata dal numero di coppie
nel corso del tempo. Osservando colonna per colonna, l’albero sopra
raffigurato ci dà i valori dei sei primi mesi: 1, 1, 2, 3, 5, 8…
Fibonacci rilevò che ogni mese la popolazione dei conigli era uguale
alla somma dei due mesi precedenti: 1 + 1 = 2; 1 + 2 = 3; 2 + 3 = 5; 3 + 5 =
8… e via di seguito. La regola si spiega così. Ogni mese, il numero di
coppie che nascono, e dunque si aggiungono ai conigli già presenti, è
uguale al numero di coppie in età di procreare del mese precedente, ossia
al numero di coppie che erano già nate due mesi prima. Per cui è ora
possibile calcolare i termini della sequenza senza dover deagliare in
maniera precisa la genealogia dei conigli:

Ciascuna linea raffigura l’evoluzione di una coppia di conigli nel corso del
tempo. Le frecce indicano le nascite.

1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, 55, 89, 144…


Per Fibonacci, il problema è in primo luogo un enigma, inteso come un
passatempo. Eppure la successione demografica dei conigli troverà nei
secoli seguenti numerose applicazioni, sia pratiche sia teoriche.
Uno degli esempi più notevoli è sicuramente la sua comparsa nel
campo della botanica. La fillotassi è la disciplina che studia il modo in cui
le foglie o i vari elementi costitutivi di un vegetale si distribuiscono
aorno al suo asse. Se osservate una pigna, constaterete che la sua
superficie si compone di scaglie che si avvolgono a spirale. Più
esaamente, è possibile contare il numero delle spirali che ruotano in
senso orario e il numero delle spirali che ruotano in senso antiorario.

Per quanto sorprendente possa sembrare, i due numeri sono sempre


due termini consecutivi della successione di Fibonacci! Passeggiando in un
bosco, per esempio, potrete trovare pigne del tipo 5-8, 8-13 o 13-21, ma
mai pigne del tipo 6-9 o 8-11. Non solo. Le spirali di Fibonacci compaiono,
in maniera più o meno evidente, su molti altri vegetali. Sono ben visibili
sugli ananas o nelle infiorescenze dei girasoli, ma molto meno nella forma
rigonfia di un cavolfiore. Anche se si notano di meno, ci sono anche lì!

IL NUMERO AUREO
Tra le altre curiosità, la successione di Fibonacci rivelerà altresì un
legame molto profondo con un numero noto fin dall’Antichità: il
numero aureo. Il suo valore è approssimativamente uguale a 1,618, e i
greci lo consideravano una proporzione perfea. Come il numero π,
anche il numero aureo ha una scriura decimale infinita. Ecco perché
gli si dà un nome, φ, leera greca da leggersi, in italiano, “fi”.
Il numero aureo si declina in molte varianti geometriche. Un reangolo
aureo è un reangolo la cui lunghezza è φ volte maggiore della
larghezza. Le proprietà del numero aureo fanno sì che, lungo la
larghezza del reangolo aureo, si possa ritagliare un quadrato, e che il
piccolo reangolo restante continui a essere un reangolo aureo.

I greci lo utilizzarono in modo particolare nell’architeura. La facciata


anteriore del Partenone, ad Atene, ha proporzioni molto vicine a quelle
del reangolo aureo. E, anche se è difficile contare su fonti affidabili in
merito alla volontà degli architei, è possibilissimo che ciò non sia
avvenuto per caso. Il primo testo pervenutoci che definisce
chiaramente il numero aureo è il libro VI degli Elementi di Euclide.
Lo si vede comparire anche nei pentagoni regolari: le loro diagonali e i
loro lati rispecchiano esaamente il rapporto aureo. In altri termini, la
lunghezza di una delle cinque diagonali è uguale alla lunghezza di un
lato moltiplicato per φ.
Il numero aureo si ritrova così in tue le struure geometriche in cui
compaiono i pentagoni. È il caso della geode o dei palloni da calcio,
modelli che abbiamo già incontrato.
ando si cerca di calcolarne il valore esao con metodi algebrici, si
ritrova la seguente equazione di secondo grado.

Il quadrato del numero aureo è uguale al numero aureo aumentato di


uno.

Al che, il metodo di al-Khwārizmī permee di oenere la formula


esaa: φ = (1 + √5) ÷ 2 = 1,618034.13 Ed è possibile verificare come il
valore rispecchi l’equazione: 1,618034 × 1,618034 ≈ 2,618034.
Ma che cosa c’entra Fibonacci in tua questa faccenda?
Ebbene, se si osserva abbastanza a fondo la moltiplicazione dei conigli,
si può constatare che, ogni mese, il numero di coppie risulta
approssimativamente moltiplicato per φ! Osserviamo, per esempio, il
quinto e il sesto mese. La popolazione passa da 8 a 13 coppie di conigli.
Dunque si è moltiplicata per 13 ÷ 8 = 1,625. È vero. Non siamo
lontanissimi dal numero aureo, ma comunque non lo è. Se osserviamo
ora il passaggio dall’undicesimo al dodicesimo mese, la popolazione vi
appare moltiplicata per 144 ÷ 89 = 1,61797… Insomma, ci siamo vicini.
E si potrebbe continuare. Più passa il tempo, più il faore moltiplicativo
da un mese all’altro si avvicina al numero aureo!
Una volta accertato il fao, arriva però il momento delle domande.
Perché? Com’è possibile che questo numero apparentemente
insignificante sia presente in tre campi distinti della matematica: la
geometria, l’algebra e le successioni? Di primo acchito, si potrebbe
pensare che si trai solo di tre numeri vicini ma diversi. Invece no: più
esaamente si misura la diagonale di un pentagono, più
puntigliosamente si calcola (1 + √5) ÷ 2, più lontano ci si spinge nella
sequenza di Fibonacci e più ci si deve arrendere all’evidenza che ogni
volta abbiamo a che fare con lo stesso numero.
Per rispondere alla domanda, i matematici dovranno ricorrere a
dimostrazioni miste, che geeranno dei ponti tra branche diverse della
matematica. Il fenomeno, che già esisteva tra geometria e algebra
grazie alla raffigurazione figurata dei numeri nell’Antichità, investirà
così anche altre matematiche. Alcune discipline che sembravano fino a
quel momento lontane le une dalle altre prenderanno a dialogare tra
loro. I numeri come φ, al di là del loro interesse specifico, si riveleranno
da allora dei formidabili mediatori. Al tempo di Fibonacci, il numero π
limita il suo campo d’azione alla geometria. Ma nei secoli successivi
diventerà, proprio lui, il campione di tue le categorie di numeri in
sequenza.

Lo studio delle successioni permee anche di considerare in un’oica


nuova i paradossi di Zenone di Elea, in particolare quello di Achille e la
tartaruga. Ricordate la corsa immaginata dal filosofo greco? La tartaruga
inizia la corsa con cento metri di vantaggio su Achille, ma questi corre due
volte più veloce. Date queste premesse, il paradosso mostrava come, a
dispeo della sua lentezza, la tartaruga non potesse mai essere superata.
La conclusione derivava dal fao di suddividere la corsa in un’infinità
di tappe. Nel momento in cui Achille raggiungerà il punto di partenza
della tartaruga, questa lo precederà di 50 metri. Nel tempo necessario ad
Achille per percorrere i 50 metri, la tartaruga si sarà allontanata di 25
metri e così via. Le distanze tra i due calcolate a ogni tappa danno luogo a
una successione in cui ogni termine vale la metà del precedente.

100 50 25 12,5 6,25 3,125 1,5625…


La successione è infinita. Ed è la ragione per la quale ne potrà
conseguire, certo erroneamente, che Achille non raggiungerà mai la
tartaruga. Eppure, sommando questa infinità di numeri, si trova un
risultato che non è assolutamente infinito.

100 + 50 + 25 + 12,5 + 6,25 + 3,125 + 1,5625 + … = 200

È una delle grandi curiosità delle successioni: l’addizione di un’infinità


di numeri può essere finita! La somma precedente ci mostra che Achille
supererà la tartaruga dopo 200 metri di corsa.14
Le addizioni infinite si riveleranno inoltre di grande utilità nel calcolo
dei numeri creati dalla geometria come π o i rapporti trigonometrici.
alora essi non si possano esprimere con le operazioni elementari
classiche, sarà possibile oenerli con somme di sequenze. Uno dei primi ad
aver esplorato una tale possibilità fu il matematico indiano Madhava di
Sangamagrama, il quale, intorno al 1500, scoprì una formula per il numero
π:

I termini della serie di Madhava sono alternativamente positivi e


negativi, e si oengono dividendo il 4 per i numeri dispari successivi. Con
ciò, non bisogna pensare che questa somma risolva definitivamente il
problema del π. Una volta formulata l’addizione, occorre ancora trovarne
il risultato. Ora, è vero che alcune somme di serie, come quella di Achille e
la tartaruga, possono essere calcolate facilmente, ma è anche vero che altre
oppongono una speciale resistenza, come nel caso della serie di Madhava.
In sostanza, la somma infinita dei termini non consente davvero di
oenere una scriura decimale esaa di π. Però apre nuove porte per
oenere migliori approssimazioni. Non si potranno sommare in un sol
colpo un’infinità di termini, ma ci si può sempre accontentare di
prenderne un numero finito. Per esempio, considerando solo i primi
cinque termini, si trova 3,34.
Non è un’approssimazione eccezionale, ma poco importa, andiamo
avanti. Se si considerano i primi cento termini si arriva a 3,13 e, dopo un
milione di termini, si arriva a 3,141592.
È comunque vero che sommare un milione di termini per conseguirne
un’approssimazione a sei decimali non è molto pratico. La serie di
Madhava, infai, ha il difeo di convergere troppo lentamente. In seguito
altri matematici, come lo svizzero Leonhard Euler nel XVIII secolo o
l’indiano Srinivasa Ramanujan nel XX, scopriranno una quantità di altre
sequenze la cui somma è uguale a π, e che raggiungono il risultato molto
più rapidamente. Tali metodi sostituiranno a poco a poco il metodo di
Archimede, e consentiranno di calcolare un numero sempre maggiore di
decimali.
Anche i rapporti trigonometrici hanno le loro sequenze. Ecco, per
esempio, la somma per il coseno di un angolo dato.

Per trovare il valore del coseno, basta sostituire “angolo” con la misura
dell’angolo in questione.15 Formule analoghe esistono anche per i seni, le
tangenti e per tua una serie di altri numeri particolari, che sono comparsi
in differenti contesti.
Oggi, le sequenze continuano ad avere un gran numero di applicazioni.
Sulle orme di Fibonacci, esse vengono regolarmente impiegate, in materia
di dinamica delle popolazioni, per studiare l’evoluzione delle specie
animali nel corso del tempo. E gli auali modelli sono molto più precisi,
poiché tengono conto di una quantità di parametri, come la mortalità, i
predatori, il clima o, più in generale, la variabilità degli ecosistemi nei
quali gli animali vivono. Ancora più in generale, le sequenze intervengono
nella modellizzazione di qualunque processo evolva tappa per tappa nel
corso del tempo. Informatica, statistica, economia o anche meteorologia
sono tue discipline che fanno appello al sistema sequenziale.
Nella formula, √5 indica la radice quadrata del numero 5, vale a dire il numero positivo il cui
13

quadrato è uguale a 5. Il numero vale approssimativamente 2,236.


14
Il calcolo della somma di un’infinità di numeri si fa utilizzando la nozione di limite. Il metodo
consiste prima nel troncare la somma per tener conto solo di un numero finito di termini, poi
nell’aggiungerne sempre più per vedere a quale numero limite le somme tronche si avvicinano. Nel
caso di Achille e della tartaruga, se si tiene conto solamente dei primi see termini, si trova: 100 +
50 + 25 + 12,5 + 6,25 + 3,125 + 1,5625 = 198,4375. Se si prolunga la somma fino al ventesimo
termine, si trova all’incirca 199,9998. Ed è possibile dimostrare che, aggiungendo ulteriori termini,
ci si avvicina a 200. La somma infinita vale dunque 200.
15
Aenzione, però. Affinché la formula funzioni, l’angolo non dev’essere misurato in gradi,
bensì in radianti. Con questa nuova unità, una rotazione completa non equivale più a 360° ma a 2π
radianti. La cosa può sembrare strana, eppure, con il radiante, le formule trigonometriche e le
sequenze a esse associate funzionano correamente.
11. I mondi immaginari

All’inizio del XVI secolo, il seme geato da Fibonacci comincia a dare i


suoi frui. Sorge cioè una nuova generazione di matematici che si faranno
carico delle ricerche algebriche inaugurate dagli scienziati arabi. Saranno
loro a venire finalmente a capo delle equazioni di terzo grado, dopo una
vicenda a dir poco rocambolesca.
La storia ha inizio agli albori del XVI secolo, con un uomo d’affari e
professore di aritmetica dell’università di Bologna: Scipione Del Ferro. Del
Ferro s’interessa di algebra, ed è stato il primo a scoprire le formule per
risolvere le equazioni di terzo grado. Al tempo, però, lo spirito di
divulgazione delle conoscenze caraeristico del mondo arabo non era
altreanto diffuso in Europa. L’università di Bologna rimeeva
regolarmente in palio i vari posti da professore. Per rimanere il migliore e
mantenere il proprio, Del Ferro aveva tuo l’interesse che i colleghi non
conoscessero il suo segreto. Per cui trascrisse i termini della scoperta che
aveva fao ma non la pubblicò. Rivelandola solo a una manciata di
discepoli, che la considerarono un’informazione streamente riservata e si
comportarono come il maestro.
Per cui, quando il matematico bolognese morì nel 1526, la comunità
matematica italiana ancora non sapeva che le equazioni di terzo grado
erano state risolte. Anzi, molti di loro continuavano semplicemente a
pensare che non fossero risolvibili. A questo punto, uno dei discepoli di
Del Ferro a cui il maestro aveva rivelato il segreto, Antonio Maria Del
Fiore, non può traenersi dal meere a segno una furbata. Si mee a
lanciare al resto dei matematici italiani una serie di sfide, che consistono di
fao nella risoluzione di equazioni di terzo grado. E, naturalmente, vince a
mani basse. Al che, prende a circolare la voce dell’esistenza di una
soluzione delle equazioni di terzo grado.
Nel 1535, a raccogliere la sfida di Del Fiore è un uomo di scienza
veneziano, Niccolò Fontana Tartaglia, un trentacinquenne che non ha
ancora pubblicato opere scientifiche importanti. Del Fiore non sa che sta
sfidando colui che diventerà uno dei più eminenti matematici della sua
generazione. I due si scambiano una lista di trenta problemi. In palio,
trenta pranzi o cene offerti dal vinto al vincitore. Per parecchie seimane,
Tartaglia si scervella sulle equazioni di terzo grado che gli ha trasmesso
Del Fiore, senza oenere alcun risultato. Ma, alcuni giorni prima della
scadenza, riesce a trovare le formule! Risolve i trenta problemi in poche
ore e vince la scommessa.
Dopodiché la storia potrebbe concludersi qui. Perché Tartaglia, a sua
volta, si rifiuta di rendere pubblico il proprio metodo. Tanto che la
situazione di stallo si prolunga per altri quaro anni.
Fino a quando l’eco dell’episodio arriva alle orecchie di un matematico
e ingegnere milanese, Girolamo Cardano. Il suo nome non suonerà certo
nuovo agli appassionati di meccanica: è infai l’inventore del cosiddeo
“giunto di Cardano”, il meccanismo che, nelle nostre auto, trasmee alle
ruote la rotazione del motore. Finora Cardano è sempre stato uno di quelli
che ritenevano impossibile la soluzione delle equazioni di terzo grado.
Intrigato, però, dalla notizia della sfida vinta da Tartaglia, contaa
quest’ultimo. E, all’inizio del 1539, gli fa avere oo problemi da risolvere
chiedendogli di rendergli noto il suo metodo. Tartaglia rifiuta
categoricamente. Al ché, il matematico milanese si arrabbia e tenta una
manovra d’intimidazione appellandosi, per denunciare l’arroganza del
collega, a tui gli algebristi del paese. Tartaglia, insomma, non cede di un
millimetro.
Alla fine, Cardano raggiunge il suo scopo con l’astuzia. Fa sapere a
Tartaglia che il marchese d’Avalos, governatore di Milano, desidererebbe
incontrarlo. A Venezia, Tartaglia sta vivendo una situazione precaria, e ha
bisogno di un proteore. Accea quindi di recarsi a Milano, dove
l’incontro è previsto per il 15 marzo 1539, nell’abitazione stessa di
Cardano. Tartaglia aende invano il governatore per tre giorni. Il tempo
sufficiente a Cardano per venire a capo della sua diffidenza. Al termine di
negoziati logoranti, Tartaglia finisce per cedere, a pao che Cardano giuri
di non pubblicare mai il metodo. Cardano giura e Tartaglia gli rivela le
formule.
Tornato a Milano, Cardano si dispone ad analizzarle. Il metodo
funziona a meraviglia, ma gli manca una cosa: una dimostrazione. Finora,
nessuno dei matematici interessati è riuscito a provare in modo rigoroso
che le formule funzionano in ogni circostanza data. Per cui Cardano, negli
anni che seguono, si dedica a questo compito, che alla fine riesce a portare
a termine. Uno dei suoi allievi, Ludovico Ferrari, riuscirà addiriura a
generalizzare il metodo per risolvere le equazioni di quarto grado!
Vincolati tuavia al giuramento di Milano, i due matematici non possono
pubblicare i risultati.
Cardano, in ogni caso, non molla. Nel 1542 si reca a Bologna insieme a
Ferrari per incontrarvi Annibale Della Nave, un ex allievo di Scipione Del
Ferro. I tre, rimeendo mano alla vecchia documentazione di Del Ferro,
scoprono che è stato proprio lui il primo a trovare le formule. Al che,
Cardano si ritiene prosciolto dal giuramento. E nel 1547 pubblica l’Ars
Magna, un’opera che rivela finalmente al mondo il metodo per risolvere le
equazioni di terzo grado. Tartaglia, furioso, insulta violentemente Cardano
e pubblica la propria versione della vicenda. Troppo tardi. Cardano è
diventato, agli occhi di tui, colui che ha vinto la baaglia delle equazioni
di terzo grado. Tanto che, ancora oggi, il metodo e le formule per risolverle
portano il suo nome.
Con ciò, alcuni deagli dell’Ars Magna continueranno, presso gli
algebristi dell’epoca, a suscitare un certo sceicismo. In vari casi, le
formule di Cardano sembrano necessitare del calcolo di radici quadrate dei
numeri negativi. Per esempio, a un determinato passaggio di
un’equazione, è possibile vedersi comparire davanti la radice di –15, la
quale, per definizione, è ritenuta un numero il cui quadrato vale –15. Il che
è assolutamente impossibile, stando alle regole dei segni formulate da
Brahmagupta. Il quadrato di un numero positivo è positivo, ma anche il
quadrato di un numero negativo è positivo! Per esempio (– 2)2 è uguale a
(–2) × (–2), ovvero 4. Nessun numero moltiplicato per se stesso può dare –
5. In sostanza, le radici quadrate che si evidenziano nel calcolo delle
soluzioni di Cardano semplicemente non esistono. Senonché, proprio
utilizzando questi numeri inesistenti come tappe intermedie, il metodo di
Cardano arriva a produrre un risultato valido! Bizzarro e intrigante.
Sarà un altro matematico di Bologna, Rafael Bombelli, ad affrontare a
sua volta il problema e a suggerire che le radici delle quantità negative
potrebbero costituire una nuova tipologia di numeri. Numeri né positivi
né negativi! Numeri di una strana e inedita natura, dei quali nulla, fino ad
allora, aveva lasciato supporre l’esistenza. Dopo l’avvento dello zero e dei
numeri negativi, la grande famiglia dei numeri sta di nuovo per arricchirsi.
Negli ultimi anni di vita, Bombelli scrive la sua opera più importante,
l’Algebra, che pubblica l’anno stesso della morte, nel 1572. Vi riprende le
scoperte dell’Ars Magna e introduce nuove creature che chiama “numeri
sofisticati”, a proposito dei quali Bombelli fa la stessa cosa che ha fao a
suo tempo Brahmagupta con i numeri negativi. Elenca l’insieme delle
norme di calcolo che regolano i numeri sofisticati e fanno sì che il loro
quadrato sia negativo.
I numeri sofisticati di Bombelli hanno un destino abbastanza simile a
quello dei negativi. Susciteranno anch’essi sceicismo e incredulità, ma
finiranno per imporsi con tua la loro forza e per rivoluzionare il mondo
della matematica. Tra gli sceici convertiti spicca, all’inizio del XVII
secolo, il matematico e filosofo francese René Descartes (Cartesio). Sarà lui
a dare ai nuovi venuti il nome con il quale li conosciamo ancora oggi:
numeri immaginari.
Occorrerà aspeare ancora due secoli per vedere i numeri immaginari
pienamente acceati dall’intera comunità dei matematici. Dopodiché
diventeranno imprescindibili, nella scienza moderna. A parte le equazioni,
gli immaginari troveranno ampia applicazione in fisica, specie nello studio
di tui i fenomeni ondulatori visibili per esempio in eleronica o in fisica
quantistica. E, senza gli immaginari, tante moderne innovazioni
tecnologiche non sarebbero state possibili.
Eppure, contrariamente ai negativi, i numeri immaginari rimangono
largamente sconosciuti al di fuori dei circoli scientifici. Contraddicono i
dati intuitivi, sono difficili da concepire e non rappresentano fenomeni
fisici semplici. Se i negativi erano ancora comprensibili come misura di un
debito o di un deficit, con gli immaginari occorre rinunciare a pensare, in
via definitiva, ai numeri come quantità. Impossibile assegnare loro un
senso applicabile alla vita di tui i giorni, impossibile, con loro, contare
mele e pecore.
I numeri immaginari contribuiranno, poco per volta, a liberare i
matematici dei loro ultimi complessi. Non solo. Se è sufficiente acceare
l’esistenza di radici quadrate negative per creare una nuova tipologia di
numeri, perché non si potrebbe andare ancora più lontano? Perché non si
potrebbe, a questo punto, aggiungere, a piacere, nuovi numeri, a
condizione di precisarne le proprietà aritmetiche? Non si potrebbero
anche inventare nuove struure algebriche totalmente indipendenti dai
numeri classici?
Nel XIX secolo, gli ultimi preconcei ancora sussistenti su quel che i
numeri devono essere vengono aboliti. Da allora una struura algebrica
diviene semplicemente una costruzione matematica composta da elementi
(che, in determinati contesti, si possono anche chiamare numeri, ma non
sempre) e da operazioni eseguibili sulla base di tali elementi (operazioni
che, in determinati contesti, si possono chiamare addizioni, moltiplicazioni
ecc., ma non sempre).
La nuova libertà in fao di numeri darà luogo a una formidabile
esplosione creativa. Vengono scoperte, studiate, classificate nuove
struure algebriche più o meno astrae. Davanti all’ampiezza del compito,
i matematici, prima a livello europeo poi a livello mondiale, si
organizzano, si scambiano le idee, collaborano tra loro. Ancora oggi si
conducono colleivamente, in tuo il globo, molte ricerche algebriche, e
molte congeure restano ancora da dimostrare.

INVENTATE LA VOSTRA TEORIA MATEMATICA

Magari sognate un teorema che porti il vostro nome, come quello di


Pitagora, di Brahmagupta o di al-Kashi? Con uno come me, cascate
bene. Non esito a proporvi di creare e studiare una vostra personale
struura algebrica. Per realizzare la quale, avete bisogno di due
ingredienti: una lista di elementi e un’operazione che vi aiuti a
comporli.
Prendiamo per esempio oo elementi, che indicheremo con i seguenti
simboli: ♥, ♦, ♣, ♠, ♪, ♫, ▲ e . Indichiamo anche un simbolo per la
nostra operazione, prendiamo per esempio , che, in omaggio allo
scienziato italiano, chiameremo bombellizzazione. Onde determinare il
risultato della bombellizzazione di due elementi, ci occorre prima
stabilire la tabella dell’operazione. Tracciamo quindi una tabella di oo
righe e oo colonne, corrispondente ai nostri oo elementi, e poi
riempiamola come ci pare meglio, collocando in ciascuna casella uno
degli elementi.

Ecco! La vostra teoria è pronta, ora non resta che studiarla. Osservando
la seconda riga e la quarta colonna, potete per esempio vedere che,
bombellizzando ♦ per ♠, si oiene . Deo altrimenti, ♦ ♠ = . E, in
base alla teoria che avere or ora istituito, potete anche risolvere
equazioni. Eccone una:

Trovare un numero che dia ♫ se lo si bombellizza con ♣.

Per trovare possibili soluzioni, basta dare un’occhiata alla nostra


tabella. E ci si rende conto che ne esistono due: ♦ e ♪, perché ♦ ♣ =
♫, e ♪ ♣ = ♫.
Dobbiamo però fare aenzione. Nella nostra nuova teoria, infai,
alcune proprietà alle quali siamo abituati possono risultare errate. Per
esempio, il risultato può non essere lo stesso a seconda dell’ordine con
il quale si bombellizzano due elementi: ♥ ♦ = ♪, mentre ♦ ♥ = ♦.
Nel qual caso si dice che l’operazione non è commutativa.
Se osservate un po’ meglio, potrete comunque scoprire alcune proprietà
un po’ più generali. Per esempio, bombellizzando un elemento con se
stesso, lo si ritrova sempre tale e quale: ♥ ♥ = ♥, ♦ ♦ = ♦, ♣ ♣ =
♣ , e così via. Non è forse un risultato meritevole del titolo di primo
teorema della nostra teoria?
Insomma, avete capito il principio. Se volete i vostri teoremi personali,
tocca a voi inventarli. E potete naturalmente prendere il numero di
elementi che desiderate. Persino un numero infinito, se la cosa vi tenta.
Potete definire numerazioni sempre più complesse, come accade per i
numeri interi, ciascuno dei quali non ha il proprio simbolo e si scrive a
partire dalle dieci cifre indiane. Potrete poi aggiungere regole di calcolo
che serviranno da assiomi alla teoria di vostra invenzione. Per esempio,
è possibile affermare, nella definizione della struura algebrica
prescelta, che l’operazione è commutativa.
Per carità, non fatevi illusioni. Applicando un simile procedimento,
esistono ben poche speranze che la vostra teoria si tramandi ai posteri.
Non tui i modelli matematici si equivalgono! Certi sono più utili e più
importanti di altri. Creando la vostra tabella di operazioni in maniera
casuale, è molto probabile che il vostro risulti privo d’interesse. E se
mai fosse interessante, c’è da scommeere che un altro matematico
l’abbia già studiata prima di voi.
Infai, a conti fai, non bisogna esagerare. Fare il matematico è
dopotuo un mestiere!

Come riconoscere una teoria interessante? Nel corso della storia, i


matematici, nelle loro esplorazioni, si sono fai guidare da due criteri. Il
primo è l’utilità. Il secondo è la bellezza.
L’utilità è sicuramente il criterio più evidente. Servire a qualcosa è
sempre stata la prima ragione della matematica. I numeri sono utili perché
consentono di contare e commerciare. La geometria permee di misurare
il mondo. L’algebra aiuta a risolvere vari problemi della vita quotidiana.
La bellezza può invece sembrare un criterio più evanescente e meno
oggeivo. Come può una teoria matematica essere bella? La bellezza si
potrebbe magari capire nella sfera della geometria, in cui è possibile
apprezzare visivamente certe figure come se fossero opere d’arte. Si pensi
ai fregi dei mesopotamici, ai solidi di Platone o ai mosaici dell’Alhambra.
Ma in algebra? Una struura algebrica può mostrarsi davvero bella?
Ho creduto a lungo che il privilegio di essere toccati dall’eleganza o
dalla poesia degli oggei matematici fosse una faccenda da specialisti, da
privilegiati, che solo gli appassionati dichiarati, coloro che hanno trascorso
abbastanza tempo a studiare, analizzare, assimilare le teorie nelle loro
pieghe più soili, coloro che hanno sviluppato un’intimità matura e
profonda con i concei astrai, potessero cogliere. Ebbene, avevo torto. E
in non poche occasioni mi è stato possibile constatare che quel senso di
eleganza può essere anche afferrato dai perfei neofiti e persino dai
bambini.
Uno degli esempi più eclatanti mi si è manifestato un giorno in cui
animavo un laboratorio di ricerca con una classe di seconda elementare.
Erano tui bambini di see anni circa. Avevo assegnato agli alunni il
compito di prendere confidenza con triangoli, quadrati, reangoli,
pentagoni, esagoni e altre forme geometriche perché poi le selezionassero
secondo criteri di loro scelta.
È apparso chiaro il fao che era possibile, per ciascuna figura, contare
sia un numero di lati sia un numero di vertici. I triangoli hanno 3 lati e 3
vertici, i quadrati e i reangoli hanno 4 lati e 4 vertici, e così via.
Tracciando l’elenco, i bambini hanno evidenziato subito un teorema: un
poligono possiede sempre lo stesso numero di lati e di vertici.
La seimana successiva, ecco che, per meerli alla prova, ho sooposto
loro le figure più strambe. Una di esse aveva la seguente forma.
Esaminandola, si pone la seguente domanda: quanti sono i lati, quanti i
vertici? Ed ecco che la maggioranza della classe risponde 4 lati e 3 vertici.
L’angolo inferiore della figura, rovesciato, non ha un vertice. Non è
appuntito. Non si può farvi ruotare sopra la figura. È cavo anziché
gobbuto. In sostanza, l’angolo rientrante non rientrava nell’idea di un
vertice che i bambini si erano fai in precedenza. Chiedere loro di
chiamare quel punto vertice era come chiedere loro di dare lo stesso nome
a cose diverse. Che idea! Nascono discussioni. Non tui i bambini sono
d’accordo sullo statuto del nuovo punto. Bisogna dargli un altro nome?
Bisogna ignorarlo completamente? Ci sono argomenti a favore e
argomenti contrari, ma, nell’insieme, nessuno di essi pare convincente per
la maggioranza.
Poi, d’un trao, un bambino ricorda il teorema. Se non è un vertice,
non possiamo più dire che ogni poligono ha il medesimo numero di lati e
di vertici. Con mio sommo stupore, l’argomento ha messo in subbuglio la
classe e, dopo pochi secondi, tui sono d’accordo: anche quel punto deve
chiamarsi vertice. Bisogna rispeare il teorema, anche a scapito dei nostri
preconcei. Sarebbe un peccato se quell’enunciato, così semplice e chiaro,
dovesse subire delle eccezioni. Ecco la manifestazione più precoce, di cui
io sia stato testimone, di un senso dell’eleganza matematica presente in un
gruppo di bambini.
Le “eccezioni, i “salvo che”, non sono belli. Fanno male al cuore. Più un
enunciato è semplice e di ampia portata, più ci dà l’impressione di toccare
con mano qualcosa di profondo. La bellezza, nella matematica, può
assumere varie forme, che si manifestano tue araverso il rapporto
perturbante tra la complessità degli oggei studiati e la semplicità della
loro formulazione. Una bella teoria è una teoria parsimoniosa, senza scarti,
senza eccezioni arbitrarie, senza inutili distinzioni. È una teoria che dice
molto con poco, che fissa l’essenziale in poche parole, che punta drio
all’impeccabile.
L’esempio dei poligoni rimane comunque elementare. L’impressione di
eleganza non fa che aumentare con teorie che, pur facendosi via via più
complesse, mantengono in sé un ordine struurale che si riduce a poche
semplici regole. Ed è ancora più suggestivo il fao che una nuova teoria
ritenuta più complessa della precedente si riveli in realtà ancor più
compiuta e armoniosa. I numeri immaginari ne offrono
un’esemplificazione perfea.
Ricordate le equazioni di secondo grado? Secondo il metodo di al-
Khwārizmī, potevano avere due soluzioni, ma potevano anche averne una
sola, o non averne alcuna. Ebbene. Il conceo resta valido solo se si
considerano soluzioni che non fanno intervenire i numeri immaginari.
Infai, se si tiene conto degli immaginari, la regola si semplifica assai, e in
misura considerevole: tue le equazioni di secondo grado hanno due
soluzioni! ando al-Khwārizmī sosteneva che un’equazione non aveva
soluzione, era semplicemente perché era condizionato da un insieme di
numeri ancora troppo esiguo. Le sue due soluzioni erano semplicemente
soluzioni immaginarie.
Ma c’è di meglio. Grazie ai numeri immaginari, tue le equazioni di
terzo grado hanno tre soluzioni, tue le equazioni di quarto grado hanno
quaro soluzioni, e così via. Insomma, la regola è: un’equazione ha tante
soluzioni quanti sono i suoi gradi. Tale risultato è stato oggeo di
congeura nel XVIII secolo e poi oggeo di dimostrazione all’inizio del
XIX, a opera del matematico tedesco Carl Friedrich Gauss. Oggi il teorema
di Gauss è il teorema fondamentale dell’algebra.
Più di mille anni dopo il traato di al-Khwārizmī, dopo gli insuccessi
sulle equazioni di terzo grado, dopo le difficoltà di concepire equazioni al
di là del quarto grado senza una raffigurazione geometrica, chi avrebbe
creduto che tuo si sarebbe risolto con una semplice regola di dieci
parole? Un’equazione ha tante soluzioni quanti sono i suoi gradi.
Ecco il prodigio degli immaginari! E le equazioni non sono le sole ad
approfiarne. Nel mondo immaginario, molti teoremi si enunciano
d’acchito con una concisione e un’eleganza da togliere il fiato. Tui i pezzi
del puzzle matematico sembrano incastrarsi a meraviglia. Bombelli,
probabilmente, non sospeava che, legiimando i numeri “sofisticati”,
avrebbe aperto timidamente, per intere generazioni di matematici, la porta
di un autentico paradiso.
Nelle nuove struure algebriche che vedranno la luce nel corso del XIX
secolo, i matematici cercano questo medesimo genere di proprietà. Regole
generali, simmetrie, analogie, risultati che si conneono e si completano
alla perfezione. La piccola teoria che ci siamo inventati poco sopra è
troppo lontana dal soddisfare tali criteri per poter diventare interessante. È
una teoria tua affidata al caso, nella quale quasi ogni deaglio è un caso
particolare. Senza grandi regole generali sulle equazioni, né sulle proprietà
del suo funzionamento. Pazienza.
Tra i grandi nomi dell’algebra moderna spicca quello del francese
Évariste Galois, genio precoce che morì a 21 anni, nel 1832, dopo un
duello. E che pure, nella sua breve esistenza, trovò ugualmente il tempo di
recare un importante contributo alla storia delle equazioni. Galois riuscì a
provare che, a partire dal quinto grado, le soluzioni di determinate
equazioni non si potevano più calcolare con formule simili a quelle di al-
Khwārizmī o di Cardano – formule che utilizzavano solo le quaro
operazioni, le potenze e le radici. Con la sua dimostrazione
straordinariamente brillante, Galois creò su misura nuove struure
algebriche che continuano a essere studiate ancora oggi soo la
denominazione di “gruppi di Galois”.
Ma la persona che si dimostrò più prolifica nell’arte di conseguire
grandi risultati algebrici partendo da un numero ristreo di assiomi
elementari fu la matematica tedesca Emmy Noether. Dal 1907 all’anno
della morte, avvenuta nel 1935, Noether pubblicò quasi una cinquantina di
articoli di algebra, alcuni dei quali rivoluzionarono la disciplina, con la
selezione delle struure algebriche e le teorie che l’autrice ne ricavava. In
particolare, Noether studiò quelli che oggi chiamiamo anelli, corpi e
algebre,16 vale a dire struure che possiedono rispeivamente tre, quaro
e cinque operazioni connesse tra loro da proprietà scelte con la massima
cura.
Dopodiché, da questo momento in poi, l’algebra entra a pieno titolo
nella sfera dell’astrazione, di fronte alla quale il nostro modesto libro deve
cedere il passo ai corsi universitari e alle opere accademiche.

16
Il termine “algebra” indica sia l’intera disciplina sia un tipo particolare di struura algebrica.
12. Un linguaggio per la matematica

L’Europa del XVI secolo è in pieno tumulto. Il Rinascimento ha valicato i


confini dell’Italia e ha investito l’intero continente. Le innovazioni si
accavallano e le scoperte si moltiplicano. A occidente, al di là
dell’Atlantico, le navi spagnole hanno scoperto un nuovo mondo. E mentre
gli esploratori, sempre più numerosi, si lanciano alla ricerca di terre
lontane, gli intelleuali umanisti, nelle loro biblioteche, tornano indietro
nel tempo e riscoprono i grandi testi dell’Antichità. Anche sul piano
religioso, le tradizioni subiscono un notevole rivolgimento. La riforma
protestante introdoa da Martin Lutero e Giovanni Calvino conosce un
crescente consenso e, nella seconda metà del secolo, infuriano le guerre di
religione.
La diffusione delle nuove idee è largamente supportata dall’arrivo di
una nuova invenzione, messa a punto negli anni cinquanta del XV secolo
dal tedesco Johann Gutenberg: la stampa a caraeri mobili. La procedura
permee di stampare con grande rapidità più copie di un libro e
diffonderle su vasta scala. Nel 1482 gli Elementi di Euclide sono la prima
opera matematica a passare soo i torchi, a Venezia. E la nuova tecnica
registra un successo folgorante! All’inizio del XVI secolo, diverse centinaia
di cià possiedono la loro tipografia, e sono già state stampate decine di
migliaia di opere.
Le scienze partecipano aivamente alla rivoluzione in ao. Nel 1543
l’astronomo polacco Niccolò Copernico pubblica De Revolutionibus Orbium
Cælestium, “Sulle rivoluzioni delle sfere celesti”. Che boo! Spazzando via
d’un sol colpo il sistema tolemaico, Copernico afferma che è la Terra a
girare aorno al Sole e non il contrario! E, negli anni che seguono,
Giordano Bruno, Giovanni Keplero e Galileo Galilei avvalorano la teoria
copernicana, imponendo l’eliocentrismo come nuovo modello cosmologico
di riferimento. La rivoluzione non manca certo di airare sugli scienziati
innovatori i fulmini della chiesa caolica, la quale, mentre un tempo
incoraggiava lo sviluppo delle scienze, ora si trova in grave difficoltà di
fronte alla clamorosa smentita dei suoi dogmi. Se infai Copernico ha
l’avvedutezza di pubblicare i suoi lavori poco tempo prima di morire,
Giordano Bruno finisce bruciato sulla pubblica piazza, a Roma, e Galileo
Galilei viene costreo ad abiurare davanti al tribunale dell’Inquisizione.
Leggenda vuole che, uscendo dalla sala del processo, lo scienziato italiano
abbia mormorato a fior di labbra queste quaro parole, divenute celebri:
“E pur si muove!”
La matematica non può che assecondare il processo in corso e sbarca a
poco a poco nei grandi regni dell’Occidente europeo. In particolare in
Francia.
È vero che la disciplina vi è praticata da tempo. Già i galli avevano un
loro sistema di numerazione in base 20, di cui il modo francese di
esprimere l’80, quatre-vingt, è un importante vestigio. I romani che
occuparono la Gallia, benché non fossero dei grandi matematici, erano
comunque in grado di padroneggiare le cifre indispensabili alla buona
amministrazione del loro gigantesco impero. E lo stesso discorso vale per
franchi, merovingi, carolingi, capetingi, ovvero le grandi dinastie che si
sono succedute nel corso del Medioevo. Fino ad allora la Francia non
aveva mai annoverato matematici di primo piano. Non vi erano mai stati
scoperti teoremi o risultati di rilievo che non fossero già stati individuati
da qualche altra parte nel mondo.
Ora che la matematica sta finalmente sbarcando in Francia, io non
perdo l’occasione per meermi in viaggio. Direzione, la Vandea. È
nell’ovest del paese che oggi ho appuntamento con il primo grande
matematico francese del Rinascimento: François Viète.
Il villaggio di Foussais-Payré, a dodici chilometri da Fontenay-le-
Comte, è carico di storia. Le prime tracce di occupazione del sito risalgono
all’epoca gallo-romana, ma è con il Rinascimento che conoscerà un
periodo di grande splendore. Gli artigiani e i mercanti vi si sono insediati
in gran numero, e i loro traffici sono floridi. Il commercio della lana, del
lino e del cuoio acquista fama e rinomanza ai quaro angoli del regno.
Ancora oggi, sono visibili molte costruzioni dell’epoca, in oimo stato di
conservazione. Con il suo misero migliaio di abitanti, il villaggio conta
oggi ben quaro edifici classificati come monumenti storici e molte altre
dimore di antico prestigio.
A nord del villaggio, s’incontra La Bigotière, una vecchia faoria che
François Viète ereditò dal padre e che gli valse il titolo di “sieur de La
Bigotière”. Lungo la via centrale si trova l’Auberge Sainte-Catherine,
antica proprietà della famiglia, dove Viète amava passare del tempo
durante l’adolescenza. E, per me, è molto emozionante penetrare
all’interno di queste mura, che videro crescere il primo grande matematico
francese. Di sicuro, il giovane François passò molte serate d’inverno
accanto al gigantesco camino che troneggia nel bel mezzo della stanza
principale, oggi trasformata in sala da pranzo. Chissà. Forse al calore di
quel fuoco si accesero i suoi primi pensieri matematici.
Viète non rimase a Foussais-Payré per tua la vita. Dopo gli studi di
dirio a Poitiers, prima andò a Lione, dove fu presentato al re Carlo IX,
poi trascorse qualche tempo a La Rochelle, e infine si trasferì a Parigi.
È il momento in cui le guerre di religione raggiungono l’apice. La stessa
famiglia di François sta vivendo gravi divisioni al proprio interno. Il padre,
Étienne Viète, si è convertito al protestantesimo, mentre i due zii sono
rimasti caolici. François rimane indifferente ai conflii in corso e non
rivelerà mai le proprie intime convinzioni. È stato, volta per volta,
avvocato di grandi famiglie protestanti e alto dignitario del regno. Una tale
contraddizione gli procura non poche antipatie, e vari periodi di disgrazia.
Nella noe di San Bartolomeo del 1572, François si trova a Parigi, ma
riesce a sfuggire al massacro. Non tui hanno una tale fortuna. Per
esempio, Pierre de La Ramée, lo studioso che per primo introdusse la
matematica nell’università di Parigi – e i cui lavori hanno esercitato una
profonda influenza su Viète –, viene assassinato il 26 agosto.
In parallelo con le cariche ufficiali, Viète pratica la matematica da
dileante. Conosce naturalmente Euclide, Archimede e gli scienziati
dell’Antichità, di cui il Rinascimento ha riscoperto i testi. Prova anche
interesse per gli uomini di scienza italiani, ed è uno dei primi a leggere
l’Algebra di Bombelli, la cui pubblicazione allora era passata piuosto
inosservata. In merito all’introduzione dei numeri sofisticati, il matematico
francese resterà però alquanto dubbioso. Per tua la vita Viète pubblicherà
opere di matematica a proprie spese, per regalarle a chi gli sembra degno
di leggerle. E i suoi maggiori interessi vanno all’astronomia, alla
trigonometria e anche alla criografia.
Nel 1591 Viète pubblica quella che diventerà la sua opera principale: In
artem analyticem isagoge, ovvero Introduzione all’arte analitica, spesso
semplicemente dea Isagoge. E, stranamente, Viète vi si mee in luce non
tanto per i teoremi o le dimostrazioni matematiche che sviluppa, quanto
per il modo in cui formula i risultati. In tal senso, egli sarà il massimo
ispiratore della nuova algebra, quell’algebra che, nel giro di pochi decenni,
inaugurerà un linguaggio matematico del tuo nuovo.
Se vogliamo comprendere appieno l’aeggiamento di Viète, dobbiamo
nuovamente calarci nelle opere matematiche dei tempi antichi. Infai, se i
teoremi geometrici di Euclide o i metodi algebrici di al-Khwārizmī sono
ancora utili al giorno d’oggi, si è però radicalmente trasformato il modo di
esprimerli. Gli scienziati antichi non disponevano, per trascrivere la
matematica, di un linguaggio specifico. Tui i simboli a noi familiari
utilizzati per le quaro operazioni elementari, +, –, ×, ÷, sono stati
inventati solo nel Rinascimento. Per quasi cinque millenni, dai
mesopotamici agli arabi, dai greci ai cinesi agli indiani, le formule
matematiche sfruarono il vocabolario corrente delle lingue nelle quali
venivano scrie.
I libri di al-Khwārizmī e degli algebristi di Baghdad sono perciò
interamente scrii in lingua araba e senza alcuna simbologia. Nelle loro
opere certi ragionamenti possono occupare varie pagine, quando oggi
basterebbero poche righe. Ricordate l’equazione di secondo grado
presentata da al-Khwārizmī nel suo al-jabr? Noi l’abbiamo trascria nel
seguente modo:

Il quadrato di un numero a cui si aggiunge 21 è uguale a 10 volte il


numero stesso.

Ecco come al-Khwārizmī deagliava la sua soluzione:

I adrati e i Numeri sono uguali alle Radici; per esempio, “un


quadrato e ventuno in numero sono uguali a dieci radici dello stesso
quadrato”. Vale a dire: quale dev’essere la quantità di un quadrato che,
se sommato a ventuno dirham, diventa uguale all’equivalente di dieci
radici del quadrato stesso? Soluzione: prendete la metà del numero di
radici; la metà è cinque. Moltiplicatela per se stessa; il prodoo è
venticinque. Toglietegli il ventuno che è associato al quadrato; il resto è
quaro. Estraetene la radice: è due. Soraetele la metà delle radici, che
è cinque; resta tre. E tre è la radice del quadrato che cercate, mentre il
quadrato è nove. Potreste anche aggiungere la radice alla metà delle
radici; la somma è see; ed è la radice del quadrato che cercate, il cui
valore è quindi quarantanove.

Un testo del genere è oggi molto fastidioso da leggere, anche per gli
studenti che padroneggiano perfeamente il metodo in questione. La sua
soluzione prevede due soluzioni: 9 e 49.
L’algebra retorica, come verrà chiamata più tardi, è non solo molto
lunga da trascrivere, ma anche soggea ad alcune ambiguità connaturate
alla lingua, le quali possono offrire, dell’identica frase, più interpretazioni.
Con il progressivo complicarsi dei ragionamenti e delle dimostrazioni, un
tale metodo di scriura si rivelerà, a mano a mano, terribile da
maneggiare.
E a simili difficoltà si aggiungono talvolta quelle che i matematici si
procurano da soli. Per esempio, esistono matematiche scrie in versi. Si
traa certo di un fenomeno residuo di una tradizione orale nella quale
l’apprendimento a memoria risultava agevolato dalla forma poetica. In
ogni caso, quando Tartaglia trasmee il suo metodo di risoluzione delle
equazioni di terzo grado a Cardano, lo scrive in italiano e in alessandrini!
Per cui la dimostrazione perde, in chiarezza, quel che guadagna in poesia.
Al punto da far legiimamente sospeare che Tartaglia, del quale abbiamo
conosciuto le resistenze alla divulgazione della prova, abbia voluto
confonderne i termini di proposito. Eccone un estrao.

ando chel cubo con le cose appresso


Se egguaglia à qualche numero discreto
Trouan dui altri differenti in esso.
Dapoi terrai questo per consueto
Che ’llor produo sempre sia eguale
Al terzo cubo delle cose neto.
El residuo poi suo generale
Delli lor lati cubi ben sorai
Varra la tua cosa principale.

Piuosto oscuro, vero? ella che Tartaglia chiama “la cosa” è proprio
il numero cercato, l’incognita. E la presenza dei cubi nel testo segnala che
abbiamo a che fare con un’equazione di terzo grado. Lo stesso Cardano,
una volta in possesso della poesia, incontrerà enormi difficoltà a decifrarla.
Per fronteggiare la crescente complessità, i matematici si disporranno,
un po’ alla volta, a semplificare il linguaggio algebrico. Il processo ha
inizio nell’Occidente musulmano, negli ultimi secoli del Medioevo, ma è
soprauo in Europa, tra i secoli XV e XVI, che il movimento dispiegherà
tua la sua ampiezza.
In un primo tempo, fanno la loro comparsa nuovi termini specifici della
matematica. Per esempio, il matematico gallese Robert Recorde propone, a
metà del XVI secolo, una nomenclatura relativa a determinate potenze
dell’incognita basata su un sistema di prefissi, in modo da moltiplicare le
potenze per il numero desiderato. Il quadrato dell’incognita viene così
chiamato zenzike, la sua sesta potenza zenzicubike e la sua oava potenza
zenzizenzizenzike.
In un secondo tempo fioriscono uno dopo l’altro, un po’ ovunque e in
ordine sparso, simboli completamente nuovi, che oggi ci sembrano
peraltro familiari.
Verso il 1460 il tedesco Johannes Widmann è il primo a usare i segni +
e – per indicare l’addizione e la sorazione. All’inizio del XVI secolo,
Tartaglia, che ben conosciamo, introduce nei calcoli le parentesi ( ). Nel
1557 ancora Robert Recorde impiega per primo il segno = per indicare
l’uguaglianza. Nel 1608 l’olandese Rudolph Snellius usa la virgola per
separare la parte intera dalla parte decimale di un numero. Nel 1621
l’inglese omas Harriot introduce i segni < e > per indicare l’inferiorità o
la superiorità di un numero rispeo ad un altro.
Nel 1631 l’inglese William Oughtred usa la croce × per indicare la
moltiplicazione e, nel 1647, è il primo ad adoperare la leera greca π per
indicare il famoso rapporto di Archimede. Nel 1659 il tedesco Johann Rahn
introduce l’obelo ÷ per indicare la divisione. Nel 1525 il tedesco Christoph
Rudolff indica la radice quadrata con il segno √, al quale il francese
Cartesio, nel 1647, aggiunge una barra orizzontale: √.
Il tuo non avviene certo in maniera lineare e ordinata. In questo
periodo, nascono e muoiono moltissimi altri simboli. Alcuni di essi
vengono utilizzati una sola volta. Altri si sviluppano in parallelo e si fanno
concorrenza. Tra il primo impiego di un segno e la sua adozione definitiva
da parte dell’insieme della comunità matematica trascorrono, a volte,
parecchie decine di anni. Per esempio, un secolo dopo la loro introduzione,
i segni + e – non erano sempre pienamente adoati, e molti matematici
utilizzavano ancora, per indicare l’addizione e la sorazione, le leere P e
M, cioè le iniziali delle parole latine plus e minus.
E il nostro Viète, in tuo questo? Il matematico francese sarà uno dei
catalizzatori dell’ampio movimento in ao. Nell’Isagoge lancia un vasto
programma di modernizzazione dell’algebra e ne offre addiriura la chiave
di volta, introducendo il calcolo leerale, ossia il calcolo condoo con le
leere dell’alfabeto. La sua proposta è semplice quanto scioccante:
chiamare le incognite delle equazioni con le vocali e i numeri noti con le
consonanti.
Una tale ripartizione tra vocali e consonanti verrà rapidamente
abbandonata in favore di un diverso suggerimento di Cartesio, ma la parte
alfabetica resta invariata: le prime leere dell’alfabeto (a, b, c…)
indicheranno le quantità note, e le ultime leere (x, y, z) indicheranno le
incognite. È una convenzione ancora oggi usata dalla maggior parte dei
matematici, e la leera x è diventata simbolo non solo di incognita ma di
mistero in senso generale anche nel linguaggio corrente.
Per comprendere a fondo come l’algebra esca trasformata dal nuovo
linguaggio, si faccia di nuovo riferimento alla seguente equazione:

Si cerchi un numero che, moltiplicato per 5, dia 30.

Grazie alla nuova simbologia, la grafica dell’equazione si riduce a una


piccola manciata di segni: 5 × x = 30.
Ammeetelo. È una scriura neamente più concisa! Ricorderete
anche che l’equazione costituiva soltanto un caso particolare di una classe
ben più ampia:

Si cerchi un numero che, moltiplicato per una data quantità 1, dia una
quantità 2.
Ebbene. L’equazione, a questo punto, avrà la seguente grafica: a × x = b.
Essendo i numeri a e b desunti dall’inizio dell’alfabeto, sappiamo che si
traa di quantità note, da cui partire per cercare di calcolare x. E, come s’è
visto, le equazioni di questo tipo si risolvono dividendo la seconda
quantità nota per la prima. In altri termini: x = b ÷ a.
Al che, i matematici si meono a compilare elenchi di casi e a stabilire
le norme di manipolazione delle equazioni leerali. L’algebra si trasforma
a poco a poco in una forma di gioco, in cui le mosse sono autorizzate in
base alle suddee regole di calcolo. Esempio. Riprendiamo la soluzione
della nostra equazione. Passando da a × x = b a x = b ÷ a, la leera a è
passata da sinistra a destra del segno =, e la sua operazione si è
trasformata da moltiplicazione in divisione. Siamo dunque in presenza di
una norma legiima: ogni quantità moltiplicata può passare dall’altro lato
dell’uguaglianza diventando oggeo di divisione. Regole analoghe
permeono di traare le addizioni e le sorazioni o di trasformare le
potenze. L’obieivo del gioco rimane il medesimo: portare alla luce il
valore dell’incognita x.
Il gioco dei simboli si mostra talmente efficace da emancipare ben
presto l’algebra dal rapporto con la geometria. Non occorre più
interpretare le moltiplicazioni come reangoli, né eseguire dimostrazioni
in forma di puzzle. Le sostituiscono le x, le y e le z! Non solo. La fulminea
efficacia del calcolo leerale finirà per rovesciare il precedente rapporto di
forza e, a breve, per rendere la geometria subalterna alle dimostrazioni
algebriche.
Del rovesciamento il primo responsabile è Cartesio, il quale introduce
un modo semplice ed efficace per algebrizzare i problemi di geometria
usando un sistema di assi e di coordinate.

COORDINATE CARTESIANE
L’idea di Cartesio è elementare quanto geniale: fissare nel piano due
ree graduate, una orizzontale e l’altra verticale, al fine di reperire ogni
punto geometrico tramite le sue coordinate seguendo i due assi.
Osserviamo per esempio, nella figura che segue, il punto A.
Il punto A si trova al livello della graduazione 2 dell’asse orizzontale e
della graduazione 4 dell’asse verticale. Le sue coordinate sono dunque 2
e 4. Procedendo in questo modo, diventa possibile rappresentare ogni
punto geometrico con due numeri e, inversamente, associare un punto
a ciascuna coppia di numeri.

Fin dalle origini, la geometria e i numeri hanno sempre intraenuto


strei rapporti ma, con le coordinate cartesiane, le due discipline
finiscono per fondersi l’una con l’altra. È ormai possibile interpretare
ogni problema di geometria in forma algebrica, ed è possibile
rappresentare ogni problema di algebra in forma geometrica.
Osserviamo per esempio la seguente equazione di primo grado: x + 2 =
y. È un’equazione a due incognite: nel senso che cerchiamo x e y. Per
esempio, si può vedere come x = 2 e y = 4 costituiscano una soluzione,
dal momento che 2 + 2 fa 4. Inoltre, si può notare che i numeri 2 e 4
sono precisamente le coordinate del punto A. Mediante il quale è
quindi possibile raffigurare la soluzione in forma geometrica.
In realtà, l’equazione x + 2 = y possiede un numero infinito di soluzioni.
Per esempio: x = 0 e y = 2 o anche x = 1 e y = 3. Per ciascun valore
possibile di x, è possibile trovare l’y corrispondente aggiungendo 2. Al
che, si possono fissare sul nostro piano tui i punti corrispondenti alle
soluzioni trovate. E si oiene:

Una linea rea! Tue le soluzioni si allineano perfeamente per


formare una linea rea. Non una che sfugga alla regola. Nel mondo di
Cartesio, la rea è dunque la rappresentazione geometrica
dell’equazione, così come l’equazione è la rappresentazione algebrica
della rea. I due oggei si confondono e non è raro, oggi, sentire dei
matematici parlare della rea “x + 2 = y”. Stiamo insomma dando lo
stesso nome a cose diverse, l’algebra e la geometria stanno
praticamente diventando un’unica e identica disciplina.
La corrispondenza dà luogo a tuo un vocabolario che consente di
tradurre gli oggei del linguaggio geometrico in linguaggio algebrico, e
viceversa. Per esempio, quello che in geometria si chiama “punto
medio”, in algebra si chiama “media aritmetica”. Riprendiamo ora il
nostro punto A con coordinate 2 e 4 e aggiungiamo un punto B con
coordinate 4 e – 6. Per trovare il punto medio del segmento che unisce
A a B, basta allora fare la media delle coordinate. La prima coordinata
di A è 2, la prima coordinata di B è 4. Se ne può quindi dedurre che la
prima coordinata del punto medio è uguale alla media dei due numeri:
(2 + 4) / 2 = 3. Operando allo stesso modo sull’asse verticale, si trova (4
+ (– 6)) / 2 = – 1. Le coordinate del punto medio sono dunque 3 e – 1. E
si può verificare l’esaezza del nostro calcolo disegnando la figura:

Nel vocabolario algebra-geometria, un cerchio diventa un’equazione di


secondo grado; il punto d’intersezione di due curve è dato da un
sistema di equazioni; e il teorema di Pitagora, le costruzioni
trigonometriche o le composizioni a puzzle si trasformano in varie
formule leerali.
In sostanza, non occorre più disegnare le figure per fare geometria. I
calcoli algebrici ne hanno preso il posto, e sono molto più rapidi e
pratici!

Nei secoli successivi, le coordinate cartesiane registrarono numerosi


successi. Uno dei maggiori fu senza dubbio la risposta a una congeura
che resisteva agli sforzi dei matematici fin dall’Antichità: la quadratura del
cerchio.
È possibile tracciare con il righello e il compasso un quadrato che abbia
la medesima superficie di un cerchio dato? Ricorderete che lo scriba
Ahmes si era già scervellato tremila anni fa per rispondere alla domanda.
E, dopo di lui, i cinesi e i greci vi avevano profuso ogni energia
intelleuale senza centrare l’obieivo. Tanto che il problema, nel corso dei
secoli, ha finito per rappresentare una delle massime congeure della
matematica.
Ora, grazie alle coordinate cartesiane, le linee ree tracciate con il
righello si trasformano in equazioni di primo grado, mentre i cerchi
tracciati con il compasso si trasformano in equazioni di secondo grado. Da
un punto di vista algebrico, il problema della quadratura del cerchio si
pone dunque nel seguente modo: sarebbe possibile trovare una
successione di equazioni di primo o di secondo grado la cui soluzione sia il
numero π? La nuova formulazione rilancia il fervore delle ricerche ma,
anche posta in questi termini, la domanda mantiene tua la sua
complessità.
A sciogliere finalmente la suspense è, nel 1882, il matematico tedesco
Ferdinand von Lindemann. No, il numero π non rappresenta una soluzione
delle equazioni di primo e secondo grado, per cui la quadratura del cerchio
resta impossibile. Viene così a cadere il problema che fino a quel giorno
aveva conservato il titolo di congeura più resistente nel tempo agli
assalti dei matematici.
Le coordinate cartesiane si possono facilmente estendere alla geometria
nello spazio. In tre dimensioni, ciascun punto viene designato con tre
coordinate, e allo stesso modo vi si possono applicare i procedimenti
algebrici.
Le cose diventano meno semplici quando si passa alla quarta
dimensione. In geometria, è impossibile rappresentare una figura in 4D,
per il semplice fao che l’intero nostro mondo fisico è in 3D. In algebra,
invece, un ostacolo del genere non esiste: un punto della quarta
dimensione è semplicemente una sequenza di quaro numeri. E vi si
applicano, con la massima naturalezza, tui i metodi algebrici. Se per
esempio si considerano i punti A e B le cui coordinate sono, da una parte,
1, 2, 3, 4 e, dall’altra, 5, 6, 7, 8, si può tranquillamente utilizzare la media di
questi numeri e affermare che il loro punto medio è il punto delle
coordinate 3, 4, 5, 6. La geometria a quaro dimensioni verrà sfruata, in
particolare, nel XX secolo dalla teoria della relatività di Albert Einstein, il
quale impiegherà la quarta coordinata per stabilire un modello del tempo.
Di più. È possibile continuare quanto si vuole lungo un percorso del
genere. Una sequenza di cinque numeri è un punto a dimensione 5.
Aggiungete un sesto numero ed ecco una dimensione 6. Non esiste limite
al processo intrapreso. Una sequenza di mille numeri è un punto di uno
spazio a dimensione 1000.
A questo livello, l’analogia può sembrare un semplice gioco linguistico,
buono per far sorridere ma privo di utilità effeiva. Ricredetevi. La
corrispondenza trova non poche applicazioni, soprauo in statistica, la
cui finalità è appunto quella di studiare lunghe sequenze di dati numerici.
Se, per esempio, si studia una serie di dati demografici relativi a una
popolazione, si può voler quantificare fino a che punto determinate
caraeristiche, come la grandezza, il peso o le abitudini alimentari di un
gruppo d’individui si avvicinano o si allontanano dalla media.
Interpretando il problema geometricamente, si traa di calcolare la
distanza tra due punti, il primo dei quali rappresenta la sequenza dei dati
riguardanti ciascun individuo, mentre il secondo rappresenta la sequenza
media. Il numero delle coordinate sarà dunque pari al numero d’individui
compresi nel gruppo. E il calcolo si esegue con l’aiuto di triangoli
reangoli, ai quali è possibile applicare il teorema di Pitagora. Uno
statistico che calcoli lo scarto quadratico medio di un gruppo di mille
individui impiega dunque, spesso senza saperlo, il teorema di Pitagora
proieato in uno spazio a dimensione 1000! Il metodo si applica anche in
biologia dell’evoluzione, per calcolare la differenza genetica tra due
popolazioni animali. Misurando con formule di origine geometrica la
distanza tra i loro genomi, codificati soo forma di sequenze numeriche,
diventa possibile stabilire la prossimità relativa di specie diverse e dedurre
a poco a poco l’albero genealogico del vivente.
È possibile spingere l’esplorazione fino a sequenze infinite di numeri,
vale a dire fino a punti proieati in uno spazio a dimensione infinita! Ma
pensateci bene. Si traa di sequenze che già conosciamo: sono le
successioni numeriche come quella di Fibonacci! Studiando i conigli, il
matematico italiano ha fao, senz’accorgersene, della geometria a
dimensione infinita! Non solo. Sarà una tale interpretazione geometrica a
consentire, in particolare ai matematici del XVIII secolo, di stabilire nel
modo più chiaro possibile il nesso soile che lega la successione di
Fibonacci al numero aureo.
13. L’alfabeto del mondo

La filosofia è scria in questo grandissimo libro che continuamente ci


sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo), ma non si può
intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i
caraeri, ne’ quali è scrio. Egli è scrio in lingua matematica, e i
caraeri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali
mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un
aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto.17

Il passo, tra i più famosi della storia della scienza, è stato scrio nel
1623 da Galileo Galilei in persona, nell’opera intitolata Il Saggiatore.
Galileo è incontestabilmente uno degli scienziati più prolifici e
innovatori di tui i tempi, in genere considerato il fondatore delle scienze
fisiche moderne. E va subito deo che il suo CV è a dir poco
impressionante. Inventore del cannocchiale astronomico. Scopritore degli
anelli di Saturno, delle macchie solari, delle fasi di Venere e dei quaro
principali satelliti di Giove. È stato uno dei difensori più influenti
dell’eliocentrismo di Copernico. Ha enunciato il principio di relatività del
movimento che porta oggi il suo nome. Ed è stato il primo a studiare,
sperimentalmente, la caduta dei corpi.
Il Saggiatore reca la testimonianza del legame molto forte intessuto,
all’epoca, tra matematica e scienze fisiche. Galileo è uno dei primi
scienziati ad avvalorare questo vincolo. E va deo che ha avuto, in tal
senso, validi maestri – a soli 19 anni, infai, è stato iniziato alla
matematica da Ostilio Ricci, uno degli allievi di Tartaglia – e validi
successori, generazioni di scienziati per i quali l’algebra e la geometria
diverranno ineluabilmente la lingua nella quale si esprime il mondo.
Sulla natura del nascente rapporto tra matematica e fisica è bene essere
molto chiari. È vero, infai, che ne abbiamo avuto molte volte
testimonianza fin dall’inizio della nostra storia, prove inconfutabili che la
matematica è stata sempre utilizzata per studiare e comprendere il mondo,
ma quanto si va producendo nel XVII secolo comporta qualcosa di
radicalmente nuovo. Fin qui le modellizzazioni matematiche si erano
mantenute sul piano delle costruzioni umane, ricavate ma non create dal
reale. ando gli agrimensori mesopotamici impiegavano la geometria per
misurare un campo reangolare, il rilevamento era comunque effeuato
da esseri umani. Il reangolo, prima che l’agricoltore ne faccia oggeo di
misura, non appartiene alla natura. In ugual modo, quando i geografi
triangolano una regione per ricavarne una carta topografica, i triangoli da
essi considerati sono meramente artificiali.
Voler matematizzare il mondo preesistente all’uomo rappresenta
tu’altra sfida! Sì, nell’Antichità, alcuni sapienti si erano fai carico di un
tale progeo. Per esempio Platone. Il quale, come ricorderete, aveva
associato i cinque poliedri regolari ai quaro elementi e al Cosmo. E gli
stessi pitagorici non disdegnavano affao questo genere d’interpretazione.
Ma non possiamo non ammeere che le loro teorie, nella maggior parte
dei casi, non avevano nulla di rigoroso. Costruite su considerazioni
puramente metafisiche, prive di qualsiasi sperimentazione pratica, la quasi
totalità di esse si è rivelata infine falsa.
Gli scienziati del XVII secolo verificheranno invece che la natura in sé,
nel suo più intimo funzionamento, è regolata da leggi matematiche
precise, che è possibile meere in luce grazie a una quantità di esperienze.
Una delle scoperte più straordinarie del tempo è sicuramente quella della
legge della gravitazione universale, a opera di Isaac Newton.
In Philosophiae naturalis principia mathematica, “Principi matematici
della filosofia naturale”, lo scienziato inglese è il primo a comprendere che
la caduta dei corpi sulla Terra e la rotazione degli astri nel cielo sono
spiegabili in base a un unico e identico fenomeno. Tui gli oggei
dell’Universo si araggono gli uni con gli altri. La forza di arazione è
quasi irrisoria per i piccoli oggei, ma diventa significativa quando si
traa di pianeti o di stelle. La Terra arae gli oggei, ed è la ragione per la
quale gli oggei cadono. La Terra arae, in ugual modo, la Luna, per cui si
può dire, in un certo senso, che la Luna cada a sua volta. Ma, poiché la
Terra è rotonda e la Luna è lanciata alla massima velocità, quest’ultima
cade permanendo a fianco della Terra, il che la fa girare in tondo! È lo
stesso principio per il quale i pianeti orbitano aorno al Sole.
Newton non si limita a enunciare la legge dell’arazione universale.
Precisa altresì l’intensità della forza con la quale gli oggei si araggono.
E lo fa con una formula matematica. Due corpi qualsiasi si araggono con
una forza proporzionale al prodoo delle loro masse diviso per il quadrato
della loro distanza. Il che, in virtù del calcolo leerale di Viète, si trascrive
nel seguente modo:

Nella formula esposta, la leera F indica l’intensità della forza, m1 e m2


indicano le masse rispeive dei due oggei di cui studiamo l’arazione e d
indica la distanza che li separa. Il numero G è a sua volta una costante
fissa che vale 0,0000000000667. Il suo valore infinitesimo spiega come la
forza sia insensibile per i piccoli oggei e come debbano intervenire le
masse gigantesche dei pianeti e delle stelle perché la forza gravitazionale
si faccia sentire. Del resto, pensate a tue le volte che sollevate un oggeo.
Ebbene, eseguendo il gesto, non fate altro che dimostrare che la vostra
forza muscolare è superiore alla forza di arazione della Terra!
Una volta stabilita la formula, i problemi fisici si trasformano in
problemi matematici. E diventa così possibile calcolare le traieorie degli
oggei celesti. In particolare diventa possibile prevedere la loro futura
evoluzione! Trovare la data della prossima eclisse, per esempio, equivale a
trovare il valore dell’incognita di un’equazione algebrica.
Nei decenni successivi, la formula di Newton registrerà non pochi
successi. La gravitazione universale consentì per esempio di affermare che
la Terra doveva essere leggermente appiaita ai poli. Il che fu pienamente
confermato dai geometri che misurarono il meridiano mediante
triangolazione. Uno dei successi più speacolari della teoria newtoniana
resta comunque il calcolo della periodicità della cometa di Halley.
I sapienti hanno osservato e tramandato fin dall’Antichità il fenomeno
della comparsa, per loro non prevedibile, delle comete nel cielo. Per
spiegarlo sorsero due scuole di opposta tendenza. Gli aristotelici
consideravano le comete fenomeni atmosferici, quindi relativamente
prossimi alla Terra. I pitagorici, invece, le vedevano come specie di pianeti,
cioè oggei ben più lontani. ando Newton pubblicò i suoi Principia
Mathematica, la polemica non era ancora sopita e, sull’argomento, gli
esponenti delle due scuole continuavano ad accapigliarsi.
Uno dei modi per provare che le comete sono astri lontani che orbitano
aorno al Sole sarebbe quello di aribuire loro una certa periodicità: un
oggeo orbitante deve ripassare quantomeno a intervalli regolari.
Senonché, fino all’inizio del XVIII secolo, non era mai stata individuata
alcuna regolarità del genere. Poi, nel 1707, Edmund Halley, un astronomo
britannico amico di Newton, annunciò di aver forse individuato qualcosa.
Nel 1682 Halley aveva osservato una cometa la cui comparsa, in un
primo tempo, non gli era sembrata un fao straordinario. L’astronomo era
tuavia reduce da un viaggio in Francia, dove l’anno precedente aveva
incontrato, all’Observatoire de Paris, Cassini I, il quale gli aveva parlato
dell’ipotesi di un ritorno periodico delle comete. Al che, Halley s’immerse
nella consultazione degli archivi astronomici, fino a che la sua aenzione
non venne araa da altri due passaggi di comete. Uno nel 1531, l’altro
nel 1607. E da una costante. Le comete del 1531, del 1607 e, per l’appunto,
del 1682, presentavano due intervalli identici di 76 anni. E se si fosse
traato della medesima cometa? Halley scommise di sì e annunciò che la
cometa sarebbe stata di ritorno nel 1758!
Cinquantun anni di suspense! Un’aesa trepidante e insostenibile, della
quale altri astronomi approfiarono per affinare la profezia di Halley,
suggerendo in particolare che l’arazione gravitazionale di quei due
pianeti giganti che si chiamano Giove e Saturno avrebbe potuto
modificare, sia pure di poco, la traieoria della cometa. Nel 1757 due
francesi, l’astronomo Jérôme Lalande e la matematica Nicole-Reine
Lepaute, si lanciano in una serie di calcoli, basati su un modello sviluppato
da Alexis Clairaut a partire dalle equazioni di Newton. I calcoli sono
lunghi e faticosi, e ai tre occorreranno parecchi mesi per poter finalmente
prevedere il passaggio della cometa, nel punto più vicino al Sole,
nell’aprile 1759, con un eventuale margine d’errore di non oltre un mese.
Dopodiché si verificò l’incredibile. La cometa si presentò puntuale
all’appuntamento, e il mondo intero la vide percorrere trionfalmente il
cielo nel segno di Newton e Halley. E il 13 marzo passò a fianco al Sole,
all’esaa distanza calcolata da Clairaut, Lalande e Lepaute. Purtroppo
Halley non visse abbastanza a lungo per assistere al ritorno della cometa,
alla quale fu dato comunque il suo nome. Ma la teoria della gravitazione e,
per il suo tramite, la matematizzazione della fisica avevano dato una prova
eclatante del loro incredibile potere.
Ironia della storia. Galileo, a parte il discorso sulla matematizzazione
del mondo, sosteneva, sempre nel Saggiatore, la tesi aristotelica delle
comete come fenomeni atmosferici! Il libro, infai, costituiva una risposta
al matematico Orazio Grassi che, alcuni anni prima, aveva difeso il punto
di vista opposto. La fama di Galileo e il tono fortemente polemico del libro
ne fecero un best seller per l’epoca, ma né la celebrità né il successo sono
garanzia di verità. “E pur si muove…” avrebbe potuto rispondere Grassi a
Galileo.
Al di là dell’errore di Galileo, l’aneddoto illustra superbamente la
robustezza del processo scientifico in ao all’epoca. Le conclusioni del
metodo scientifico non dipendono più dall’opinione precostituita dello
scienziato che la professa, sia pure uno scienziato come Galileo Galilei.
Contano i fai. E la natura effeiva delle comete, come in altri casi quella
dell’insieme degli oggei del mondo fisico, non dipende dall’idea che gli
uomini se ne fanno. Nell’Antichità, il fao che uno scienziato di fama si
sbagliasse non impediva a schiere di discepoli di seguirlo nell’errore senza
baere ciglio, valendo allora più l’auctoritas della sostanza dei fai. E non
sono bastati secoli e secoli a far sì che un pregiudizio fosse smentito grazie
a una semplice esperienza. La denuncia, nel giro di pochi anni, dell’errore
di Galileo è invece il sintomo di un ambiente scientifico in piena salute!
Prevedere la traieoria di una cometa già vista è una cosa, calcolare
quella di un astro di cui non si sa nulla è un’altra. Per cui, nel novero dei
grandi successi della matematica nel campo dell’astronomia va anche
inclusa la scoperta, nel XIX secolo, di Neuno. L’oavo e ultimo pianeta
del sistema solare è l’unico a non essere stato scoperto tramite le
osservazioni ma tramite il calcolo! Ed è all’astronomo e matematico
francese Urbain Le Verrier che dobbiamo la prodezza.
Fin dalla fine del XVIII secolo, molti astronomi avevano notato
irregolarità nella traieoria di Urano, allora ultimo pianeta conosciuto.
Essa, infai, non coincideva esaamente con la traieoria prevista dalla
legge di gravitazione universale. Le spiegazioni si riducevano a due: o la
teoria di Newton era errata, o il responsabile delle perturbazioni era un
altro pianeta ancora sconosciuto. Partendo dalla traieoria di Urano, Le
Verrier si cimentò nel calcolo della posizione dell’ipotetico nuovo pianeta.
Gli furono necessari due anni di assiduo lavoro per oenere un risultato.
Anche per Le Verrier arrivò, così, il momento della verità. Nella noe
tra il 23 e il 24 seembre 1846 l’astronomo tedesco Johann Gofried Galle
punta il cannocchiale nella direzione che è stata comunicata
dall’astronomo francese, preme l’occhio sull’oculare e… lo vede. Una
piccola macchia bluastra perduta nelle profondità insospeate del cielo
nourno, a più di quaro miliardi di chilometri di distanza dalla Terra. Il
pianeta era proprio lì!
Che sensazione fantastica e inebriante. Che impressione di forza
universale, che emozione insondabile dovee invadere, quel giorno, la
mente di Urbain Le Verrier, il quale, con la punta della penna e l’efficacia
delle sue equazioni, seppe abbracciare, caurare, quasi controllare la danza
titanica dei pianeti aorno al Sole! Grazie ai matematici, i mostri celesti,
un tempo ritenuti divinità, all’improvviso apparivano domati,
ammaestrati, resi docili e inoffensivi dalle carezze dell’algebra. È facile
immaginare lo stato d’intensa esaltazione vissuto dalla comunità mondiale
degli astronomi nei giorni successivi alla scoperta: il medesimo stato
febbrile percepito ancora oggi da qualsiasi astronomo dileante quando
punta il cannocchiale verso Neuno.
La vita di una teoria scientifica araversa varie fasi. In principio è il
tempo delle ipotesi, delle esitazioni, degli errori, della costruzione
progressiva ma ancora confusa delle idee. In seguito è il tempo della
conferma, delle esperienze che convalidano o meno le equazioni e che, da
giudici implacabili, le ribadiscono o le smentiscono definitivamente. Infine
è il tempo del lancio, dell’affermazione di autonomia. Il momento in cui la
teoria ha sufficiente fiducia in se stessa per osar parlare del mondo senza
doverlo più guardare negli occhi. Il momento in cui le equazioni possono
anticipare l’esperienza e prefigurare un fenomeno ancora non osservato,
inaeso o insperato. Il momento in cui la teoria si trasforma da scoperta in
scopritrice, in cui diviene l’alleata, quasi la collega, degli studiosi che
l’hanno creata. È il momento in cui la teoria è matura, è il momento delle
comete di Halley e del pianeta Neuno. Ed è anche il tempo delle eclissi di
Einstein, come quella che, il 29 maggio 1919, vedrà il trionfo della
relatività, e il tempo del bosone di Higgs scoperto nel 2012 in perfea
coerenza con le previsioni del modello standard della fisica delle particelle.
O il tempo delle onde gravitazionali individuate per la prima volta il 14
seembre 2015.
Per diventare adulte e meritare la loro legiimazione, tue le grandi
scoperte scientifiche hanno un bisogno vitale di matematica, di equazioni
algebriche e di figure geometriche. La matematica ha saputo provare la
loro inverosimile forza e, oggi, nessuna teoria fisica seria oserebbe più
esprimersi araverso un altro linguaggio.

CRISTALLOGRAFIA
La matematizzazione del mondo incide anche sulla chimica, una
disciplina che sta per farci incontrare alcune vecchie conoscenze.
All’inizio del XIX secolo, il mineralogista francese René-Just Haüy,
facendo cadere un blocco di calcite, constata che esso si spacca in una
quantità di frammenti che hanno tui la medesima struura
geometrica. I pezzi non hanno nulla di casuale, hanno facce piane che
formano angoli ben precisi gli uni con gli altri. Haüy ne ricava il
paradigma seguente: perché si verifichi un fenomeno del genere, il
blocco di calcite deve essere costituito da una quantità di elementi
simili, i quali si assemblano gli uni con gli altri in modo perfeamente
regolare. Un solido che possiede una tale proprietà si chiama cristallo.
In altri termini, un cristallo osservato su scala microscopica consiste in
una struura ricorrente: un motivo composto da più atomi o molecole
che si ripetono in maniera identica in tue le direzioni.
Un motivo che si ripete? Non vi ricorda niente? Il principio somiglia
incredibilmente a quello dei fregi mesopotamici e dei mosaici arabi. Un
fregio presenta un motivo che si ripete secondo una direzione, e un
mosaico secondo due direzioni. Per studiare un cristallo occorre
dunque riprendere i medesimi principi. Stavolta, però, nello spazio a tre
dimensioni. Gli artigiani mesopotamici avevano scoperto le see
categorie di fregi e gli artisti arabi le diciassee categorie di mosaici.
Ora, grazie alle struure algebriche, è possibile dimostrare che i numeri
sono oimali: non ne manca nessuno. Le stesse struure algebriche
hanno consentito di stabilire che esistono 230 categorie di mosaici in
3D. Tra le più semplici, i mosaici con cubi, prismi esagonali o oaedri
tronchi,18 come quelli raffigurati qui soo.

Da sinistra a destra: pila di cubi, prismi esagonali e oaedri tronchi.


Le pile, nello spazio, possono prolungarsi all’infinito.

Nei tre casi, queste figure s’impilano e s’incastrano perfeamente senza


lasciare fessure, formando così una struura che può prolungarsi
all’infinito in tue le direzioni. Chi avrebbe creduto che le riflessioni
geometriche degli artigiani mesopotamici recassero in germe le basi di
quella che sarebbe diventata una delle componenti essenziali dello
studio delle proprietà della materia?
I cristalli si trovano un po’ ovunque, nella nostra vita quotidiana.
alche esempio? Il nostro sale da tavola, composto da una quantità di
piccoli cristalli di cloruro di sodio, o anche il quarzo. Di più. Le
oscillazioni del quarzo, molto regolari quando vi si applica una corrente
elerica, ne fanno un elemento indispensabile dei nostri orologi.
Aenzione, però, la parola cristallo viene a volte utilizzata in maniera
abusiva, nel linguaggio corrente. Per esempio, i bicchieri di cristallo
non sono, in realtà, di cristallo, almeno nel senso scientifico del
termine.
Se volete ammirare dei campioni più speacolari, potete sempre
visitare una collezione di mineralogia. ella dell’Université Pierre et
Marie Curie, a Parigi, è una delle più belle al mondo.

L’efficacia immediata della matematizzazione del mondo non risponde


comunque a una domanda inquietante. Com’è possibile che il linguaggio
della matematica sia così perfeamente adao a descrivere il mondo? Per
capire perché ciò ha dell’incredibile, torniamo alla formula di Newton.

L’intensità della forza gravitazionale si manifesta con una formula che


fa intervenire due moltiplicazioni, una divisione e un quadrato. La
semplicità di tale espressione sembra un colpo di fortuna inverosimile!
Sappiamo infai che non tui i numeri possono essere indicati da formule
matematiche semplici. Come accade con il numero π e molti altri. Da un
punto di vista statistico, i numeri complicati sono molto più numerosi dei
numeri semplici. Se prendete un numero a caso, è più probabile che si
trai di un numero con la virgola piuosto che di un numero intero. È più
probabile che sia un numero con sviluppo decimale infinito piuosto che
un numero decimale finito. E, ancora, è più probabile che sia un numero
che non si può esprimere con nessuna formula piuosto che un numero
calcolabile a partire dalle operazioni elementari.
Ebbene, la formula di Newton è ancora più sorprendente rispeo ai casi
descrii, perché ci dice che la forza varia a seconda delle masse e della
distanza tra gli oggei. Non siamo in presenza di una semplice costante
come π. Eppure, qualunque siano le masse dei due corpi e la loro distanza,
l’arazione reciproca si misura sempre con l’identica formula! Prima che
Newton stabilisse la propria legge, sarebbe stato ragionevole pensare che
l’intensità della forza non fosse assolutamente esprimibile con una
formula matematica. E, quand’anche lo fosse stata, avrebbe comportato
una formula complessa comprendente operazioni ben più mostruose delle
semplici moltiplicazioni e divisioni, o dei quadrati.
ale fortuna che la formula di Newton sia quella che è! E quale
mistero, che la natura parli tanto elegantemente la lingua della
matematica! Accade spesso che modelli sviluppati da matematici
unicamente per la loro bellezza trovino, secoli dopo la loro elaborazione,
applicazioni nelle scienze fisiche. E questo mistero non si ferma alla
gravitazione. I fenomeni eleromagnetici, il funzionamento quantistico
delle particelle elementari, la deformazione relativistica dello spazio-
tempo sono tui fenomeni che si esprimono in una lingua matematica di
stupefacente concisione.
Considerate la più celebre di tue le formule: E = mc2. L’uguaglianza,
stabilita da Albert Einstein, fornisce un’equivalenza tra la massa e
l’energia relative a oggei fisici. Non spiegheremo la formula. Non è il
nostro intento. Ma pensate solo a questo: il principio, ritenuto in genere
uno dei più affascinanti e dei più profondi per capire il funzionamento del
nostro universo, trova espressione in una formula algebrica di soli cinque
simboli! Per effeo di quale prodigio? Si aribuisce perlopiù a Einstein la
frase che riassume l’intera meraviglia della situazione: “La cosa più
incomprensibile dell’Universo è che esso sia comprensibile.”
Comprensibile, s’intende, dalla matematica. Nel 1960 il fisico Eugene
Wigner parlerà, dal canto suo, della “irragionevole efficacia della
matematica”.
È venuto il momento di chiedersi se, a questo punto, conosciamo
davvero bene gli oggei astrai, i numeri, le figure, le sequenze o le
formule che pensavamo di aver creato. Infai, se la matematica è davvero
un prodoo del nostro cervello, perché la ritroviamo come uno spero
errante all’esterno, fuori delle nostre scatole craniche? Che cosa ci fa nel
mondo fisico? Siamo sicuri che ci sia? Non sarà il caso di vedere, in questi
fantasmi del reale, una gigantesca illusione oica? Il fao di considerare
che gli oggei matematici abbiano una forma d’esistenza al di fuori della
mente umana si risolverebbe nel fao di dar loro una realtà, laddove essi
non sono che pura astrazione. Che significato ha allora il verbo “esistere”
se dobbiamo applicarlo a oggei che non hanno nulla di materiale?
Per abbozzare anche un minimo accenno di risposta, non contate su di
me.

17
G. Galilei, Il Saggiatore, a cura di L. Sosio, Feltrinelli, Milano 1992, p. 38.
18
L’oaedro è uno dei cinque solidi di Platone già incontrati. L’oaedro tronco si oiene
tagliando le punte dell’oaedro come si fa con quelle dell’icosaedro per oenere l’icosaedro tronco
(vedi il pallone da calcio).
14. L’infinitamente piccolo

La strea collaborazione tra matematica e scienze fisiche non resterà a


lungo a senso unico. A partire dal XVII secolo, le due discipline non
smeeranno di scambiarsi idee e di nutrirsi vicendevolmente. E poiché la
fisica è golosa di formule, ogni nuova scoperta riproporrà il problema della
matematica in essa latente. È una matematica che già esiste o che
dev’essere ancora inventata? Nella seconda eventualità, i matematici
sarebbero investiti dell’incombenza, non semplice, di modellare su misura
nuove teorie. Trovando così, nelle scienze fisiche, una delle ispirazioni più
belle.
Lo sviluppo della gravitazione newtoniana è una delle prime a esigere
una matematica innovativa. Per capirlo, ripartiamo dalla cometa di Halley.
Conoscere la forza che l’aira verso il Sole è una cosa, ma come dedurne,
una volta acquisito il fao, la traieoria e le informazioni utili – come la
sua posizione a una determinata data o il periodo preciso di rivoluzione –
è un’altra.
Una delle domande classiche alla quale va data risposta è in particolare
quella relativa alla distanza percorsa in funzione della velocità. Se vi dico
che la cometa si muove nello spazio alla velocità di 2000 metri al secondo,
e vi chiedo quale distanza avrà percorso in un minuto, la risposta è
relativamente semplice. In un minuto, la cometa avrà percorso 60 volte
2000 metri, vale a dire 120.000 metri, ossia 120 chilometri. Il problema è
che la realtà è molto più complicata. La velocità della cometa non è stabile,
varia nel corso del tempo. Al suo afelio, ovvero il punto più lontano dal
Sole, la velocità è di 800 metri al secondo, mentre al suo perielio, ovvero il
punto più vicino al Sole, è di 50.000 metri al secondo. Una bella differenza!
Il problema deriva dal fao che, tra i due estremi, la cometa accelera
progressivamente, senza mai mantenere una velocità fissa. C’è un
momento, per esempio, in cui la cometa avanza a 2000 metri al secondo,
ma è di breve durata. Una frazione di secondo prima, la velocità è stata un
pochino superiore, diciamo 2000,001, e una frazione di secondo dopo è già
scesa a 1999,999. Impossibile caurare il minimo intervallo di tempo,
anche minuscolo, nel corso del quale la cometa mantiene una velocità
costante! Come calcolare con esaezza, in queste condizioni, la distanza
che percorre?
Per rispondere alla domanda, i matematici elaboreranno un metodo
curiosamente simile a quello impiegato duemila anni prima da Archimede
per calcolare il numero π. Come lo scienziato di Siracusa aveva calcolato
per approssimazione la misura del cerchio facendo intervenire poligoni
aventi un numero sempre maggiore di lati, è oggi possibile approssimare
la traieoria considerando le variazioni di velocità della cometa a
intervalli sempre più brevi. È possibile per esempio immaginare che la
cometa mantenga per un certo tempo una velocità fissa di 800 metri al
secondo per poi passare bruscamente a 900 metri al secondo, e così via. La
traieoria così calcolata non sarà esaa, ma può comunque essere
considerata un’approssimazione. E, per accrescere la precisione, basta
restringere gli intervalli. Anziché considerare trai di 100 metri al
secondo, è possibile scendere per fasce di 10, di 1 metro o anche 0,1 metri
al secondo. Più la suddivisione in fasce sarà deagliata, più il risultato si
avvicinerà alla traieoria reale della cometa!
Le successive approssimazioni oenute per la distanza percorsa tra
l’afelio e il perielio formeranno così una sequenza che potrebbe somigliare
alla seguente:

47 42 40 39 38,6 38,52 38,46 38,453…


I numeri sono dati in unità astronomiche.19 Deo altrimenti, se si
considera che la velocità della cometa rimane fissa per trai di 100 metri al
secondo, si trova che la distanza tra l’afelio e il perielio è uguale a 47 unità
astronomiche. Ma si traa ancora di un’approssimazione grossolana. Se la
si affina considerando trai di 10 metri al secondo, si trova che la
medesima distanza è di 42 unità astronomiche. Affinando sempre di più la
suddivisione delle velocità, si constata chiaramente che le lunghezze si
avvicinano sempre più a un valore limite calcolabile intorno a 38,45 unità
astronomiche. Il quale valore corrisponde perciò alla distanza reale
percorsa dalla cometa tra i due punti estremi della sua traieoria, afelio e
perielio.
In una qualche misura, ci si può arrischiare a dire che tale risultato
limite corrisponde a quello oenuto tagliando la traieoria della cometa in
una serie infinita d’intervalli infinitamente brevi. Proprio come il metodo
di Archimede per calcolare π arrivava a sostenere che un cerchio è un
poligono con un’infinità di lati infinitamente piccoli! Il problema legato a
entrambe le affermazioni consiste nella nozione di infinito. Lo abbiamo
imparato da Zenone. L’infinito è una nozione ambigua e sovversiva, per
governare la quale ci si spinge verso un equilibrio instabile, sull’orlo
dell’abisso rappresentato dai paradossi.
Al che, si presentano due opzioni: o rifiutare categoricamente ogni
intervento dell’infinito e ridursi a studiare faticosamente i problemi della
fisica newtoniana meendo in conto i limiti legati alle sequenze di
approssimazione, o prendere il coraggio a due mani e impelagarsi, sia pure
con prudenza, nella palude delle suddivisioni infinitamente soili. È la
strada, quest’ultima, che deciderà di percorrere Newton nei suoi Principia
Mathematica. Seguito poco dopo dal matematico tedesco Gofried
Wilhelm Leibniz, il quale scoprì gli stessi concei e sviluppò con un
maggior grado di precisione alcune nozioni rimaste, in Newton, velate da
una qualche incertezza. Le esplorazioni di Leibniz daranno luogo a una
nuova branca della matematica, che prenderà il nome di calcolo
infinitesimale.
La questione della paternità del calcolo infinitesimale fu a lungo
dibauta negli anni che seguirono. Newton, nel 1669, fu certamente il
primo a lanciarsi in quella direzione, ma tardò non poco a pubblicare i
risultati acquisiti, per cui Leibniz lo baé sul tempo e pubblicò i suoi lavori
nel 1684, tre anni prima dei Principia Mathematica. Un sovrapporsi di date
che non mancò di suscitare una vivace controversia tra l’inglese e il
tedesco, ciascuno dei quali si aribuì l’invenzione della teoria, arrivando
fino alla reciproca accusa di plagio. Oggi pare comunque accertato che i
due contendenti abbiano sviluppato le loro ricerche l’uno all’insaputa
dell’altro, e abbiano pertanto inventato il calcolo infinitesimale in maniera
del tuo autonoma.
Come spesso accade, all’annuncio di una teoria i conti non tornano del
tuo. Nei lavori di Newton e di Leibniz molti punti mancano ancora del
dovuto rigore e delle dovute giustificazioni. Un po’ com’è successo con i
numeri immaginari, alcuni metodi sembrano funzionare e alcuni no. Senza
che si sappia bene il perché.
L’obieivo del calcolo infinitesimale diventa così quello di mappare il
territorio ancora sconosciuto definendo con chiarezza i passaggi
autorizzati e quelli che, al contrario, sono ancora in bilico, sospesi tra passi
falsi e paradossi. Nel 1748 la matematica italiana Maria Gaetana Agnesi
pubblica le Instituzioni analitiche, prima opera che fa il punto completo
sulla giovane disciplina. Un secolo dopo, sarà il tedesco Bernhard Riemann
a portare a termine ulteriori ricerche in grado di rendere il terreno
praticabile senza più correre rischi.
Dalla metà del XVIII secolo i matematici potranno così dedicarsi a
tempo pieno al calcolo infinitesimale e cominciare a porsi una quantità di
domande lontane mille miglia dalle applicazioni fisiche che lo hanno
originato. La teoria, infai, si rivela ben più di un semplice strumento di
lavoro, qualcosa di molto appassionante da sviscerare, qualcosa di
meravigliosamente bello. Siccome la scienza non è altro che
un’interminabile partita di ping-pong, i nuovi sviluppi del calcolo
infinitesimale arricchiranno a poco a poco di nuove applicazioni campi
differenti da quello dell’astronomia.
Gli infinitesimi saranno chiamati a dare il loro contributo alla soluzione
di tui quei problemi che, come la traieoria della cometa, fanno
intervenire grandezze che variano di continuo. In meteorologia, per
formulare modelli e prevedere l’evoluzione della temperatura o della
pressione atmosferica. In oceanografia, per analizzare le correnti marine.
In aerodinamica, per verificare la penetrazione nell’aria di un’ala d’aereo o
di diversi veicoli spaziali. In geologia, per seguire lo sviluppo del manto
terrestre e studiare i vulcani, i sismi o, a più lungo termine, la deriva dei
continenti.
Nel corso delle esplorazioni, i matematici scopriranno nel mondo
infinitesimale una quantità di strani risultati, alcuni dei quali li faranno
annaspare in un’intensa perplessità.
Una delle prime idee che vengono in mente quando si cerca di definire
un intervallo infinitamente piccolo è quella di considerare dei punti. Lo
precisò lo stesso Euclide: un punto è il più piccolo elemento geometrico.
Essendo di lunghezza uguale a 0, è infinitamente piccolo. Senonché l’idea è
troppo semplice per funzionare e, purtroppo, fa un buco nell’acqua. Per
capire perché, osservate questo segmento di rea che misura un’unità di
lunghezza.

Il segmento è costituito da un’infinità di punti, ciascuno dei quali ha


una lunghezza uguale a 0. Per cui sembrerebbe possibile dire che la
lunghezza dell’intervallo è uguale a un’infinità di volte 0! Il che, in
linguaggio algebrico, è rappresentato dalla seguente formula: ∞ × 0 = 1,
dove ∞ è il simbolo dell’infinito. Il problema di un simile risultato è che, se
adesso consideriamo un intervallo di lunghezza 2, appare anch’esso
composto da un’infinità di punti, dal che consegue la seguente formula: ∞
× 0 = 2. Com’è possibile che il medesimo calcolo dia luogo a risultati
diversi? E facendo variare la lunghezza dell’intervallo si potrà ugualmente
oenere: ∞ × 0 = 3, 1000 o anche π!
Conclusione del ragionamento: i concei di zero e di infinito utilizzati
in questo contesto non sono definiti in modo abbastanza preciso per l’uso
che vogliamo farne. Un calcolo come ∞ × 0, il cui risultato varia a seconda
dell’interpretazione, ha un nome, si chiama forma indeterminata.
Impossibile impiegare queste forme nei calcoli algebrici senza vedere
subito profilarsi a migliaia i paradossi! Se si legiimasse la moltiplicazione
∞ × 0, bisognerebbe considerare legiimo che 1 sia uguale a 2 e altre
aberrazioni del genere. In sostanza, occorre procedere altrimenti.
Secondo tentativo. Poiché un intervallo infinitesimale non può essere
un unico punto, ammeiamo che possa essere un segmento delimitato da
due punti distinti ma infinitamente vicini. L’idea è seducente ma, ancora
una volta, porta fuori bersaglio, poiché punti del genere non esistono. La
distanza tra due punti può anche essere minima quanto si vuole, ma
equivarrà sempre a una lunghezza positiva. Un centimetro, un millimetro,
un miliardesimo di millimetro o ancora meno, se volete: tue lunghezze
più che minime, ma in nessun caso infinitesimali. In altri termini, due
punti tra loro distinti non si toccano mai.
L’enunciato ha in sé qualcosa di molto sconcertante. ando tracciate
una linea continua, tipo un segmento, in essa non ci sono interruzioni,
eppure i punti che la compongono non si toccano! Nessun punto è in
contao direo con un altro. L’assenza di vuoti lungo la linea è dovuta
unicamente all’accumulo infinito dei punti infinitamente piccoli. E se
poniamo sulla rea un sistema di riferimento, il fenomeno può tradursi
nei seguenti termini algebrici: due numeri diversi non sono mai
direamente consecutivi, esiste sempre un’infinità d’altri numeri che
s’insinua tra loro. Tra i numeri 1 e 2 c’è 1,5. Tra 1 e 1,1 c’è 1,05. Tra i
numeri 1 e 1,0001 c’è 1,00005. E si potrebbe continuare a lungo su questa
strada. Il numero 1, come tui gli altri, non ha un successore immediato.
Eppure i numeri gli si aggregano intorno all’infinito, assicurando così la
perfea continuità della loro lunghissima successione.
Dopo i due tentativi infruuosi, dobbiamo risolverci ad ammeere che
i numeri classici, come li abbiamo definiti finora, non sono abbastanza
potenti per produrre quantità infinitamente piccole. Tali creature
inafferrabili che, pur senza valere zero, sono comunque più piccole di
qualsiasi altro numero positivo, dovranno dunque essere create dal nulla!
Ed è quanto fecero Leibniz e i suoi seguaci nella costruzione del calcolo
infinitesimale. E impiegarono tre secoli a farlo, cioè a definire le regole di
calcolo che si applicano alle nuove quantità e delimitano il loro campo
d’azione. Fino a produrre, tra il XVII e il XX secolo, un intero arsenale di
teoremi in grado di rispondere con estrema efficacia ai problemi posti
dagli infinitesimi.
Numeri che non sono propriamente numeri, ma che tuavia
utilizziamo come intermediari di calcolo? Non vi sembra una condizione
in qualche modo ormai familiare? È così infai. L’abbiamo già
sperimentata con i negativi e gli immaginari. Senonché, come tue le
volte, il processo di assimilazione è lungo, ed è difficile prevederne l’esito.
Negli anni sessanta del XX secolo il matematico americano Abraham
Robinson diede vita a un nuovo modello, baezzato analisi non standard,
che integrava gli infinitesimi come numeri a tui gli effei. Con la
differenza, rispeo agli immaginari, che le quantità infinitesimali non
hanno ancora acquisito, fin qui, il titolo di veri numeri. Il modello non
standard di Robinson resterà marginale e poco utilizzato.
Ci vorranno forse altre scoperte, altri progressi, altri teoremi decisivi
perché la teoria non standard s’imponga come qualcosa d’insostituibile.
Oppure, al contrario, essa non disporrà forse mai del potenziale necessario
per diventare il modello dominante. Con la conseguenza che gli
infinitesimali non godranno mai di uno status uguale ai loro predecessori:
i negativi e gli immaginari. L’analisi non standard è certamente bella, ma
forse non è bella abbastanza, o forse comporta troppo pochi vantaggi per
suscitare un entusiasmo generale. Dopo appena poche decine d’anni di
esistenza, il modello di Robinson rimane ancora molto giovane, e spea ai
matematici del futuro deciderne la sorte.
Tra gli sviluppi più fecondi del calcolo infinitesimale, la teoria della
misura elaborata all’inizio del XX secolo dal francese Henri-Léon
Lebesgue è una delle manifestazioni più curiose. Il problema posto è il
seguente: si possono, grazie agli infinitesimi, immaginare e misurare
nuove figure geometriche, rimaste finora inaccessibili al righello e al
compasso? La risposta è sì, e queste figure inedite sovvertiranno, nel giro
di pochi anni, persino le leggi più intuitive della geometria classica.
Si prenda, per esempio, un segmento graduato da 0 a 10.

Che cosa ci ha insegnato Cartesio? La graduazione permee di


associare ogni punto del segmento a un numero compreso tra 0 e 10.
Dopodiché, sul segmento, è possibile distinguere i punti corrispondenti a
numeri che hanno una scriura decimale finita (per esempio 0,1 o 7,28) e
quelli che hanno un’infinità di cifre dopo la virgola (come π o il numero
aureo ϕ). Che cosa succede se tagliamo il segmento in base al suddeo
criterio? In altri termini, se coloriamo di scuro i punti della prima
categoria e di chiaro gli altri, a che cosa somiglieranno le due figure
geometriche, una scura e una chiara, così rappresentate?
Non è facile rispondere a una domanda del genere, perché le due
categorie di numeri sono intrecciate tra loro all’infinito. Se si considera un
intervallo di numeri, per quanto piccolo esso sia, comprenderà sempre un
misto di punti scuri e punti chiari. Tra due punti chiari, c’è sempre almeno
un punto scuro, e tra due punti scuri c’è sempre almeno un punto chiaro.
Le due figure somigliano dunque a linee fae di polvere, così soili da
incastrarsi perfeamente l’una con l’altra.
La rappresentazione data è naturalmente erronea. Si traa unicamente
di una visualizzazione sommaria, poiché i deagli in essa visibili sono
disegnati sì molto piccoli ma non sono infinitesimali. È impossibile
disegnare concretamente figure simili, concepibili solo con l’algebra e il
ragionamento.

Il segmento [0,10] è diviso in due parti:


a sinistra i numeri con lo sviluppo decimale finito,
a destra i numeri con sviluppo decimale infinito.

Sorge allora la domanda: quanto misurano queste figure? Poiché il


segmento di partenza ha una lunghezza uguale a 10, le due figure
dovrebbero mantenere la medesima lunghezza, valida per entrambe, ma
come si fa a separarle? Misurano tue e due 5 o una è più lunga dell’altra?
La risposta che scopriranno i matematici incaricati della soluzione del
problema è sorprendente. L’intera lunghezza è appannaggio della figura
composta dai numeri con infinite cifre decimali. La figura chiara misura 10
e la figura scura 0. Anche se i due insiemi, nel loro accorparsi, sembrano
uguali, il numero di punti chiari è infinitamente maggiore del numero di
punti scuri!
In base alle coordinate cartesiane, questo tipo di figure “pulviscolari”
può estendersi alle superfici e ai volumi. Per esempio, è possibile
considerare l’insieme dei punti di un quadrato le cui due coordinate
abbiano infinite cifre dopo la virgola.

Ancora una volta, la rappresentazione è sommaria, in grado di dare


soltanto una vaga idea dell’infinita precisione dei deagli.
La misura di tali figure pulviscolari genererà uno degli esiti più
stupefacenti della matematica. Infai, malgrado tui gli sforzi dei
matematici intenti a risolvere il problema, alcune di esse restano
impossibili da misurare. Una tale impossibilità è stata evidenziata nel 1924
da Stefan Banach e Alfred Tarski, i quali hanno scoperto un contro-
esempio al principio del puzzle.
Hanno trovato il modo di dividere una sfera solida in cinque pezzi in
modo tale che i pezzi poi riassemblati diano luogo a due sfere
rigorosamente identiche alla prima e senza il minimo spazio vuoto!
Le cinque figure intermedie che Banach e Tarski utilizzano sono, per
l’appunto, figure pulviscolari dai tagli infinitesimali. Nel caso in cui i pezzi
del loro puzzle fossero misurabili, la somma dei loro volumi sarebbe
dunque uguale sia al volume della sfera d’origine sia al volume delle due
sfere che i pezzi riformano. Esito chiaramente fuori dalla realtà. Per cui
s’impone un’unica soluzione: per figure di questo genere la nozione di
volume non ha alcun senso.
E infai l’esito di Banach e Tarski è ben più sostanzioso, dal momento
che dichiara quanto segue: se si considerano due figure geometriche
classiche a tre dimensioni, è sempre possibile dividere la prima in un
numero di pezzi pulviscolari tale da permeere di raddoppiarla, cioè di
ricostituire la seconda. Per esempio, sarebbe possibile tagliare una sfera
solida della misura di un pisello in più pezzei e ricostruire con i pezzei
una sfera della grandezza del Sole senza alcuno spazio vuoto all’interno! Il
raddoppiamento viene spesso erroneamente chiamato paradosso di
Banach-Tarski, per il modo del tuo contro-intuitivo in cui si presenta. Il
fao è che non si traa di un paradosso, bensì di un vero e proprio
teorema, reso possibile dal comportamento delle figure pulviscolari, senza
che, nel ragionamento, si debba registrare la benché minima falla!
È vero che la natura infinitesimale dei tagli li rende assolutamente
irrealizzabili in concreto. Tuavia le figure pulviscolari continuano a
rimanere bene in vista sullo scaffale delle curiosità matematiche prive di
una possibile applicazione fisica. Chissà se un giorno ne usciranno per
trovare un utilizzo inaspeato?
19
L’unità astronomica corrisponde alla distanza Terra-Sole e misura approssimativamente 150
milioni di chilometri.
15. Misurare il futuro

Marsiglia, 8 giugno 2012.


Oggi mi sono alzato all’alba. Un po’ nervoso, impaziente all’eccesso, ho
inghioito in frea la colazione, ho indossato la mia camicia più bella20 e
sono uscito. Fuori, nel cielo della Provenza, traspare il sole, e la frescura
della noe evapora velocemente. Si profila una giornata calda. Sul Vieux-
Port si sta allestendo il mercato del pesce, e alcuni turisti mainieri stanno
già passeggiando lungo la Canebière.
Per il sooscrio, però, non è il momento di andare a zonzo. Prendo la
metro in direzione del quartiere di Château-Gombert, nella zona Nord della
cià. È lì che si trova il CMI, il Centre de mathématique et d’informatique,
dove lavoro ormai da quaro anni. E dove lavora, ogni giorno, un centinaio
di matematici. Arrivando in ufficio, verifico un’ultima volta il materiale. Tre
ampi recipienti semisferici pieni di sfere multicolori e, a lato, una pila di
ciclostilati sulla cui copertina si può leggere:

Urne che interagiscono tra loro


TESI DI DOTTORATO
Specializzazione in matematica
di Mickaël Launay
soo la direzione di Vlada Limic

Oggi, al CMI, è il mio ultimo giorno. esto pomeriggio, alle 14, sosterrò
la mia tesi di doorato.
Gli anni dedicati alla tesi costituiscono un periodo atipico nella vita di
un doore in matematica. Sempre concentrato sul suo lavoro, il doorando
non deve più seguire lezioni né dare esami trimestrali. E le sue giornate
somigliano molto di più a quelle dei ricercatori a tempo pieno. Leggere gli
ultimi articoli pubblicati, discutere con altri matematici, partecipare a
seminari, adoperarsi a sviluppare il proprio seore d’indagine, a formulare
congeure, a modellare nuovi teoremi, a dimostrarli e a trascriverli. Il tuo
soo il tutoraggio di un matematico esperto incaricato di guidare i suoi
primi passi nel mondo della ricerca e di insegnargli a usare i ferri del
mestiere. Per quanto mi riguarda, la direrice di tesi è la matematica
franco-croata Vlada Limic, specialista dell’argomento su cui ho condoo le
ricerche nel corso dei quaro anni. I suoi lavori e i miei si inseriscono in un
ramo della matematica che ha visto la luce alla metà del XVII secolo: il
calcolo delle probabilità.
Per comprendere gli obieivi della disciplina, è indispensabile calarsi
un’altra volta nelle profondità della Storia. Per cui, in aesa delle 14, uscite
insieme a me dal CMI per qualche ora e lasciatevi guidare lungo i sentieri
avventurosi dell’aleatorio.
Il caso affascina gli uomini da moltissimi secoli. Fin dalla preistoria, essi
hanno osservato la quantità di fenomeni inspiegabili, irregolari, privi di
cause apparenti, che la natura offriva loro. In un primo tempo, in assenza di
altre spiegazioni, tuo venne aribuito agli dei. Eclissi, arcobaleni,
terremoti, epidemie, esondazioni dei fiumi o comete: tue manifestazioni
interpretate come messaggi indirizzati dalle divinità a chi sarebbe stato in
grado di decifrarli. Un compito che venne affidato a stregoni, oracoli,
sacerdoti o sciamani, i quali, dal momento che bisognava pur guadagnarsi
da vivere, svilupparono in frea e furia un’intera panoplia di liturgie
destinate a interpellare un pantheon di divinità che, con tua evidenza,
disdegnavano di manifestarsi direamente. In altri termini, gli uomini si
misero a studiare certe modalità per creare l’aleatorio su richiesta.
La belomanzia, o arte della divinazione mediante frecce, è, in tal senso,
una delle testimonianze più antiche. Scrivete su alcune frecce le varie
opzioni del questionario a scelta multipla da indirizzare alla vostra divinità,
introducetele nella faretra, scuotete il tuo e lanciatene una a caso: ecco la
risposta. Esempio. Seguendo questa linea di pensiero, Nabucodonosor II, re
di Babilonia, nel VI secolo a.C. sceglieva i nemici ai quali dichiarare guerra.
Oltre alle frecce, gli oggei lanciati potevano assumere varie forme:
ciooli, tavolee, bacchee o sfere colorate. I romani diedero loro il nome
di sors. Da cui l’espressione “tirare a sorte”, ma anche la parola “sortilegio”,
che indica sia il divinatore che interroga gli dei sia il verdeo del dio
medesimo.
A poco a poco, le dinamiche del tiro casuale cresceranno di numero e
troveranno svariate applicazioni. Le adoarono, per esempio, vari sistemi
politici. Ad Atene, per designare i cinquecento ciadini chiamati a
comporre la bulè. A Venezia, molti secoli dopo, per procedere alla
designazione del doge. Il caso si rivelerà inoltre una grande fonte
d’ispirazione per i creatori di giochi. Vedi l’invenzione del “testa o croce”,
dei dadi numerati – desunti dai solidi di Platone – o dei giochi con le carte.
E fu proprio l’interpretazione delle decisioni divine tramite modelli
ispirati alla sorte ad airare l’aenzione di certi matematici. Ai quali verrà
la strana idea di imitare i divinatori studiando, nel loro caso tramite la
logica e il calcolo, le proprietà del futuro prima che si manifesti.
Tuo ha inizio a metà del XVII secolo, durante una riunione
dell’Académie parisienne, antesignana dell’Académie des sciences, fondata
nel 1635 dal matematico e filosofo Marin Mersenne. Nel corso di una
discussione tra doi di diverso orientamento, lo scriore Antoine
Gombaud, nel tempo libero cultore dileante di matematica,21 soopone
all’assemblea un problema che gli si è presentato. Immaginate, annuncia,
che due giocatori abbiano impegnato una certa somma di denaro in una
partita di un gioco d’azzardo in più manches: vincerà chi ne avrà vinte tre.
La partita però s’interrompe nel momento in cui uno dei due giocatori,
dopo essersi portato in vantaggio di due a uno, lascia il tavolo da gioco.
Come dovranno dividersi i due il denaro della vincita?
Tra gli uomini di scienza presenti quel giorno presso l’Académie
parisienne, il problema aira, in modo particolare, l’aenzione di due
matematici francesi: Pierre de Fermat e Blaise Pascal. Dopo vari scambi
epistolari, i due finiscono per concludere, in pieno accordo, che i tre quarti
della posta in gioco speano al primo giocatore e il quarto restante al
secondo.
Per maturare una tale risposta, Fermat e Pascal compilarono la lista
completa degli scenari prevedibili qualora la partita non fosse stata
interroa, valutando così le possibilità di ciascuno di verificarsi. Per
esempio, nell’ipotetica manche successiva, il primo giocatore avrebbe avuto
il 50% delle possibilità di vioria, mentre il secondo avrebbe avuto il 50%
delle possibilità di pareggiare le sorti della partita. Nella quale eventualità
si sarebbe giocata una nuova manche con pari opportunità di vioria per
ciascuno dei due. Il che dava luogo a due scenari aventi ciascuno il 25% di
opportunità di concretizzarsi. Il ragionamento può tradursi con il seguente
grafico, il quale riassume i differenti possibili esiti della partita.

In sostanza, si constata che il 75% delle possibilità future premierà il primo


giocatore e solo il 25% premierà il secondo. La conclusione di Pascal e
Fermat divide dunque la somma di denaro in palio a seconda di queste
stesse proporzioni: e cioè, il primo giocatore vince il 75% e il secondo il 25%
della posta.
Il ragionamento dei due matematici francesi si rivelerà particolarmente
fecondo. Del loro tipo d’analisi, infai, finirà per valersi la maggior parte
dei giochi d’azzardo. Il matematico svizzero Jacob Bernoulli fu uno dei
primi a seguire i loro passi, redigendo, alla fine del XVII secolo, un’opera
intitolata Ars Conjectandi, “L’arte di congeurare” – anche se l’opera verrà
pubblicata solo all’inizio del XVIII, nel 1713, dopo la morte dell’autore. In
essa Bernoulli riprende l’analisi dei giochi di sorte classici ed enuncia per la
prima volta uno dei principi fondamentali della teoria della probabilità: la
legge dei grandi numeri.
La legge afferma che più si ripete un’esperienza casuale per un gran
numero di volte, più la media dei risultati diviene prevedibile e si avvicina a
un valore limite. In altri termini, anche il caso più completo finisce, nel
lungo termine, per dar luogo a comportamenti medi che non hanno più
nulla di aleatorio.
Per comprendere il fenomeno, non occorre andare tanto lontano. Ci
basta il semplice studio del “testa o croce”, per familiarizzare con la legge
dei grandi numeri. Se lanciamo una moneta, ciascun lato ha il 50% di
probabilità di uscire, eventualità che possiamo raffigurare con il seguente
istogramma:

Immaginate ora di lanciare una moneta due volte di seguito e di contare


il numero totale di teste e di croci. Esistono tre possibilità: o due volte testa,
o due volte croce, oppure una volta testa e una volta croce. Si sarebbe
tentati di pensare che le tre eventualità si verifichino in proporzioni uguali,
ma non è così. In realtà, esiste il 50% di possibilità di oenere una volta
testa e una volta croce, mentre le possibilità di oenere due volte testa o
due volte croce sono del 25% ciascuna.
Lo squilibrio è determinato dal fao che due lanci diversi possono dare lo
stesso risultato finale. Se lanciate due volte la moneta, esistono quaro
scenari possibili: testa-testa, testa-croce, croce-testa, croce-croce. Gli
scenari testa-croce e croce-testa danno lo stesso risultato finale di una testa
e una croce, il che spiega il fao che tale eventualità sia due volte più
probabile. In ugual modo, i giocatori di dadi sanno bene che, se si lanciano
due dadi, la loro somma ha più probabilità di essere uguale a 7 che a 12,
perché esistono più modi di oenere 7 (1 + 6; 2+ 5; 3 + 4; 4 + 3; 5 + 2; 6 + 1)
e uno solo di oenere 12 (6 + 6).
Più si aumenta il numero dei lanci, più il fenomeno si accentua. Gli
scenari che si discostano dalla media diventano sempre più minoritari
rispeo agli scenari medi. Se lanciate una moneta dieci volte di seguito,
esiste il 66% di probabilità che oeniate testa tra le 4 e le 6 volte. Se la
lanciate cento volte di seguito, esiste la probabilità che oeniate testa entro
una forbice compresa 40 e 60. E se la lanciate mille volte di seguito, esiste il
99,99999998% di probabilità che oeniate testa tra le 400 e le 600 volte.
Se si tracciano gli istogrammi corrispondenti a 10, 100 e 1000 lanci, si
può constatare che, poco per volta, la grande maggioranza dei futuri
possibili si restringe aorno all’asse centrale, al punto che i reangoli
corrispondenti alle situazioni estreme diventano invisibili a occhio nudo.

Istogramma di probabilità dei possibili scenari


nel caso di un lancio di 10 monete
Istogramma di probabilità dei possibili scenari
nel caso di un lancio di 100 monete

Istogramma di probabilità dei possibili scenari


nel caso di un lancio di 1000 monete

In sostanza, ecco quanto afferma la legge dei grandi numeri: ripetendo


indefinitamente un’esperienza casuale, la media dei risultati oenuti si
avvicinerà ineluabilmente a un valore limite che non ha più nulla di
aleatorio.
È il principio base del funzionamento dei sondaggi e di altre statistiche.
Prendete una popolazione qualsiasi, scegliete un gruppo di 1000 persone e
chiedete loro se preferiscono il cioccolato fondente o il cioccolato al lae.
Se 600 di esse vi rispondono fondente e 400 lae, esistono forti probabilità
che, a livello dell’intera popolazione, quand’anche composta di milioni di
persone, la proporzione sia vicina, in pari misura, al 60% che preferisce il
fondente e al 40% che preferisce il lae. Il fao d’interpellare una persona
scelta a caso in merito ai suoi gusti può essere considerato un’esperienza
casuale, come quella di lanciare in aria una moneta. Le opzioni testa o croce
vi risultano semplicemente sostituite da fondente e lae.
È vero che si potrebbe essere sfortunati e pescare 1000 persone che
amano tue il cioccolato fondente o 1000 persone che amano tue il
cioccolato al lae. Ma si traa di scenari estremi, che hanno una possibilità
del tuo minima di verificarsi. E la legge dei grandi numeri ci garantisce
che, se s’interpella un campione sufficientemente grande di persone, la
media che si oiene ha moltissime probabilità di coincidere quasi con la
media dell’intera popolazione.
Spingendoci ancora oltre la definizione degli scenari e della loro
probabilità di realizzarsi, è anche possibile stabilire un intervallo di
confidenza e stimare i margini di errore. Per esempio, si potrà dire che
esiste il 95% di probabilità che la percentuale della popolazione che
preferisce il cioccolato fondente risulti compresa tra il 57% e il 63%. Del
resto, ogni sondaggio condoo correamente dovrebbe sempre essere
accompagnato da dati che ne indichino il grado di precisione e di
affidabilità.

IL TRIANGOLO DI PASCAL
Nel 1654 Blaise Pascal pubblica un’opera intitolata Traité du triangle
arithmétique (“Traato sul triangolo aritmetico”) dove viene descrio un
triangolo composto da caselle all’interno delle quali sono inscrii dei
numeri.
Di esso sono qui raffigurate solo le prime see righe, traandosi di un
triangolo che può prolungarsi all’infinito. I numeri che si trovano nelle
caselle sono determinati da due regole. La prima. Le caselle che si
trovano sui bordi contengono esclusivamente 1. La seconda. Le caselle
interne contengono la somma dei numeri contenuti nelle due caselle che
si trovano sulla riga immediatamente superiore. Per esempio, il numero
6, che si trova sulla quinta riga, è pari alla somma dei due numeri 3 che
si trovano immediatamente sopra di esso.
A dire il vero, il triangolo era già noto molto prima che Pascal lo
disegnasse. I matematici persiani al-Karaji e Omar Khayyam ne
parlavano già nell’XI secolo. Nello stesso periodo fu studiato in Cina da
Jia Xian, i cui lavori sarebbero stati proseguiti da Yang Hui nel XIII
secolo. E, in Europa, ne ebbero conoscenza anche Tartaglia e Viète.
Tuavia, Pascal è il primo a dedicarvi un traato tanto deagliato e
completo e a scoprire l’esistenza di un nesso tra il triangolo e il calcolo
delle possibilità future in probabilità.
Ogni riga del triangolo di Pascal consente infai di elencare il numero di
scenari possibili di una sequenza di eventi con un doppio esito, come a
testa o croce. Se lanciate una moneta tre volte di seguito, esistono oo
futuri possibili: testa-testa-testa, testa-testa-croce, testa-croce-testa,
testa-croce-croce, croce-testa-testa, croce-testa-croce, croce-croce-testa,
croce-croce-croce. Fao il conto, ne discendono oo futuri:
• 1 scenario dà tre teste;
• 3 scenari danno due teste e una croce;
• 3 scenari danno una testa e due croci;
• 1 scenario dà tre croci.
Ora, questa sequenza di numeri, 1-3-3-1, corrisponde esaamente alla
quarta riga del triangolo. E non si traa di un caso. In ciò consiste, per
l’appunto, la dimostrazione di Pascal.
Osservando la sesta riga, è possibile per esempio vedere che, lanciando
cinque volte una moneta, esistono 10 scenari che danno 2 teste e 3 croci.
Procedendo nell’esame del triangolo, diventa possibile enumerare
facilmente gli scenari risultanti da dieci lanci di una moneta: sono
inscrii sull’undicesima riga. Il risultato di cento lanci sarà dato dalla
centunesima riga, e così via. È stato possibile disegnare gli istogrammi
di cui sopra proprio in virtù del triangolo di Pascal. Diversamente, il
numero degli esiti futuri si fa così incredibilmente grande che diventa
ben presto impossibile elencarli tui uno per uno.
A parte il calcolo delle probabilità, il triangolo di Pascal rivelerà molti
legami con altri campi della matematica. I numeri in esso inscrii sono
per esempio di grande utilità nelle manipolazioni algebriche che
permeono di risolvere determinate equazioni. Ed è anche possibile
trovare nelle sue caselle numerose sequenze di numeri a noi note come i
numeri triangolari (1, 3, 6, 10…), su una delle diagonali, o la successione
di Fibonacci (1, 1, 2, 3, 5, 8…), sommando i termini disposti lungo le ree
parallele inclinate.
La sequenza dei numeri triangolari nel triangolo di Pascal

La successione di Fibonacci nel triangolo di Pascal


Nei secoli successivi, la teoria della probabilità sviluppò, per analizzare
l’insieme delle possibilità future, mezzi sempre più raffinati ed efficaci. E
ben presto si stabilirà una strea e feconda collaborazione con il calcolo
infinitesimale. Molti fenomeni fortuiti producono infai sviluppi futuri che
possono subire variazioni infinitamente piccole. In un modello
meteorologico, per esempio, la temperatura varia di continuo. Proprio
come un segmento ha una lunghezza mentre i punti che lo compongono
non ne hanno, un dato evento può succedere, mentre ciascuno dei futuri
che lo compongono non ha alcuna possibilità di verificarsi singolarmente.
La probabilità che, in una seimana, si registrino esaamente 23,41° di
temperatura, o si registri qualunque altra temperatura precisa, è pari a 0.
Invece la probabilità globale che la temperatura sia compresa tra 0° e 40° è
assolutamente certa!
Un’altra scommessa della teoria della probabilità è stata comprendere il
comportamento dei sistemi aleatori capaci di modificare se stessi. Una
moneta rimane la stessa, la si lanci una o mille volte, ma tantissime
situazioni reali non sono così semplici. Nel 1930 il matematico ungherese
György Pólya pubblica un articolo nel quale cerca di capire la diffusione di
un’epidemia in seno a una popolazione. La soigliezza del suo modello
deriva dal fao che un’epidemia si propaga più in frea quando ne è stato
già contagiato un gran numero di persone.
Se aorno a voi ci sono molti malati, avrete più possibilità di ammalarvi
anche voi. E se vi ammalate, accrescerete a vostra volta il rischio di
contagio tra le persone che vi stanno vicino. Insomma, il processo si
autoalimenta, e le probabilità sono in continua evoluzione. È quello che si
chiama processo incrementale.
I processi incrementali conobbero in seguito numerose varianti e
molteplici applicazioni. Una delle più feconde fu il loro impiego in
dinamica delle popolazioni. Prendete una popolazione animale di cui
vogliate seguire l’evoluzione dei caraeri biologici o genetici nel corso delle
generazioni. Immaginate, per esempio, che il 60% dei soggei abbia gli
occhi neri e il 40% azzurri. Ne conseguirebbe che, per eredità, i nuovi
soggei che nascono hanno il 60% di probabilità di avere gli occhi neri e il
40% di avere gli occhi azzurri. L’evoluzione del colore degli occhi,
all’interno della popolazione, ha dunque una dinamica simile a quella della
diffusione di un’epidemia: più sussiste un certo colore, più questo colore ha
possibilità di comparire di nuovo, quindi di aumentare la proporzione. Il
processo si autoalimenta.
Lo studio del modello di Pólya consente perciò di valutare le probabilità
di evoluzione dei differenti caraeri biologici delle specie. Alcuni caraeri
possono finire per scomparire. Altri, invece, possono imporsi nel complesso
della popolazione. Altri ancora possono collocarsi lungo una linea media,
senza subire nel tempo grossi squilibri e forti variazioni. Non è possibile
prevedere quale scenario si produrrà. Nondimeno, come per il gioco di testa
o croce, la teoria della probabilità ci aiuta a intravedere i futuri più
prevedibili e a prefigurare le evoluzioni più probabili a lungo termine.
ando György Pólya morì nel 1985, io avevo appena un anno. Per cui
posso dire che, nell’arco di quei pochi mesi, fui contemporaneo di colui che
inaugurò la teoria sulla quale avrei lavorato io stesso, scoprendo vari
teoremi.
Senza entrare troppo nei deagli, dico solo che i miei risultati
interessano l’evoluzione di più processi incrementali che interagiscono tra
loro in misura occasionale. Immaginate per esempio più greggi di una
medesima specie che vivono separatamente in un medesimo territorio,
nelle quali sia consentita, di tanto in tanto, la migrazione di alcuni capi da
un gruppo all’altro. ali futuri sono possibili? E come calcolare le loro
probabilità? Ecco alcune domande alle quali le mie ricerche hanno recato
elementi di risposta.
Intendiamoci, i miei teoremi sono di modesto valore e sarebbe audace
osare ricordarli nel corso di questa grande storia costellata di grandi nomi.
È vero che, durante i miei quaro anni di doorato, sono stato un
ricercatore correo che ha fao onestamente il suo lavoro, ma le mie
scoperte rimangono del tuo irrisorie se paragonate a quelle di tanti altri
matematici ben più brillanti di me. In ogni caso, esse sono bastate a
convincere la commissione alla quale le ho esposte, per un’ora, quel famoso
8 giugno 2012, a conferirmi il titolo di doore.
E in ogni caso è piuosto commovente entrare, tramite la cerimonia del
conferimento, nel flusso di una storia così prestigiosa. Il termine “doore”
deriva dal latino docere, che significa “insegnare”. Il doore è dunque colui
che ha acquisito una padronanza sufficiente della propria materia per
essere in grado di trasmeerla a sua volta. Dalla fine del Medioevo in poi,
le università, moderne eredi del Museion di Alessandria, o del Bayt al-
Ḥikma di Baghdad, laureano dei doori e offrono alla ricerca e
all’insegnamento scientifico un quadro istituzionale stabile e duraturo.
Le scienze hanno così promosso un movimento che vede, secolo dopo
secolo, succedersi ricercatori, insegnanti e studenti, nel perenne alternarsi
delle generazioni. Per cui propongo una cosa divertente. Con una dinamica
del genere, è possibile risalire il corso del tempo, scoprire l’ascendenza
accademica degli scienziati. Il mio supervisore di tesi è la matematica Vlada
Limic, la quale pochi anni fa ha avuto a sua volta, quale supervisore di tesi,
il probabilista britannico David Aldous. E si potrebbe continuare a lungo su
questa linea. Andando indietro, da allievo a maestro, è possibile rintracciare
la “genealogia” completa di un matematico. Osservate, qui soo, l’albero
genealogico che mi riguarda, risalente, nell’arco di venti generazioni, fino
al XVI secolo!
Il mio più lontano antenato è dunque il matematico Niccolò Tartaglia,
personaggio che abbiamo già incontrato. Impossibile risalire più lontano: lo
scienziato italiano è un autodidaa. Nato in una famiglia povera, leggenda
vuole che il giovane Tartaglia sia stato costreo a rubare, a scuola, i libri
dai quali ha appreso la matematica.
Nell’albero genealogico sono pure presenti Galileo e Newton, che non
hanno certo bisogno di presentazioni. In un angolo, vedete anche Marin
Mersenne, il fondatore dell’Académie parisienne dov’è nata la teoria della
probabilità. Il suo allievo Gilles Personne de Roberval è l’inventore della
bilancia a bilico che porta il suo nome. Un po’ più lontano, George Darwin
è il figlio di Charles Darwin, padre della teoria dell’evoluzione.
Non c’è niente di particolarmente eccezionale nell’incontrare
personaggi di tale levatura nel mio albero genealogico; la maggior parte dei
matematici la cui genealogia risale abbastanza indietro vi ritrova grandi
nomi. Non solo. Va anche precisato che il disegno raffigura solo i miei
antenati direi e ignora i miei numerosi “cugini”. Oggi, Tartaglia annovera
più di tredicimila discendenti, e il numero continua ad aumentare ogni
anno.

20
L’unica che ho, in realtà.
21
Nonché giocatore d’azzardo. (N.d.T.)
16. L’avvento delle macchine

La stazione della metro Arts et Métiers è una delle più strane di Parigi. Il
viaggiatore che vi scende si trova come inghioito all’improvviso nel
ventre di rame di un gigantesco soomarino. Dal soffio pendono grandi
ingranaggi rossastri e sui lati sono disposti una decina di oblò. Guardateci
dentro e scoprirete curiose rappresentazioni di varie invenzioni, antiche o
insolite. Ingranaggi elliici, un astrolabio sferico e ruote idrauliche
affiancano un dirigibile o un convertitore siderurgico. Se non
imperversasse il flusso perpetuo dei parigini freolosi, che s’infilano ed
emergono di continuo dai corridoi soerranei, quasi non ci si stupirebbe di
vedersi comparire davanti la figura imponente del capitano Nemo, uscito
drio drio dal romanzo di Jules Verne.
Ma la scenografia della metro non è che un assaggio di quanto ci
aende in superficie. Oggi mi sto recando al CNAM, il Conservatoire
national des arts et métiers, il cui museo espone una delle più importanti
collezioni di macchine antiche di tui i generi. Dalle prime veure a
motore ai telegrafi a quadrante, dai manometri a pistone agli orologi
olandesi automatici, dalle pile a colonna ai telai a schede perforate, dai
torchi tipografici a vite ai barometri a sifone, tue queste invenzioni
riesumate dal passato mi fanno in qualche modo presagire il turbinoso
arsenale tecnologico degli ultimi quaro secoli. Mi vedo così venire
incontro, sospeso in alto al centro della grande scalinata, un aeroplano del
XIX secolo somigliante a un gigantesco pipistrello. Oppure svicolo da un
corridoio e mi trovo faccia a faccia con il Lama, il primo robot ideato dagli
scienziati russi del XX secolo per rotolare sulla superficie del pianeta
Marte.
Passo rapidamente davanti a tui questi oggei favolosi e salgo
direamente al secondo piano. È lì che si trova la galleria degli strumenti
scientifici. Ecco i cannocchiali astronomici, le clessidre, le bussole, le
bilance di Roberval, termometri giganteschi e sublimi globi astronomici
rotanti sul loro asse! Poi, d’un trao, nell’angolo di una vetrina, scorgo la
macchina che bramavo vedere: la pascalina. Una macchina curiosa che si
presenta come un cofaneo d’oone lungo 40 centimetri e largo 20, sulla
cui superficie sono fissate sei ruote numerate. È il meccanismo ideato nel
1642 da un Blaise Pascal appena diciannovenne: ho davanti a me la prima
macchina calcolatrice della storia.
La prima? A dire il vero, ben prima del XVII secolo, esistevano già
dispositivi che consentivano di fare calcoli. In un certo senso, la prima
calcolatrice di tui tempi sono state le dita stesse, e l’Homo sapiens ha ben
presto utilizzato, per contare, diversi accessori. L’osso d’Ishango con i suoi
tagli, i geoni di argilla di Uruk, i bastoncini degli antichi cinesi, o anche i
palloolieri, in auge fin dall’Antichità: tui strumenti che sono serviti da
supporto alla numerazione e al calcolo. Anche se nessuno di essi rientra
nella definizione che in genere si dà di macchina calcolatrice.
Per capirlo, prendiamoci un momento per deagliare il funzionamento
di un pallooliere classico. L’oggeo si compone di più aste, sulle quali
scorrono delle palline forate. La prima asta corrisponde alle unità, la
seconda alle decine, la terza alle centinaia, e così via. Per cui, se si vuole
riprodurre il numero 23, si spingono due palline verso l’alto lungo la
colonna delle decine e tre lungo la colonna delle unità. E se si vuole
aggiungere 45, si spingono quaro decine e cinque unità supplementari, il
che dà come risultato 68.
Se invece l’addizione ha un riporto, occorre procedere a una piccola
manipolazione supplementare. Se si vuole aggiungere 5 a 68, resta, lungo
l’asta delle unità, solo una pallina disponibile. Nel qual caso, una volta
arrivati a 9, si devono far ridiscendere tue le palline per proseguire il
conto delle unità a partire da 0, aggiungendo una pallina di riporto lungo
la colonna delle decine. In questo modo si oiene 73.
La manipolazione non è molto complicata, ma è proprio il tipo
d’intervento che impedisce al pallooliere, e a tui i meccanismi che
precedono la pascalina, di chiamarsi macchine calcolatrici. Per effeuare
un’identica operazione, non si compie lo stesso gesto se bisogna tenere
conto di un riporto oppure no. Cosicché lo strumento è, in realtà, solo un
promemoria che ricorda a chi la usa a che punto è, ma che gli lascia
sempre il compito di eseguire a mano le varie operazioni di calcolo.
ando invece si fa un’addizione su una moderna calcolatrice, non ci si
preoccupa assolutamente del modo in cui la macchina oiene il risultato.
Possono esserci o non esserci dei riporti, non è affar vostro! Non c’è più
bisogno di rifleere o di adeguarsi alla situazione, è l’apparecchio che si
occupa di tuo.
Secondo un criterio del genere, la pascalina è dunque la prima
calcolatrice della storia. E il suo principio di funzionamento, sebbene il
meccanismo sia estremamente preciso e richieda al costruore una grande
abilità, resta piuosto semplice. In cima alla macchina si trovano sei ruote
con dieci tacche numerate.

La prima ruota a destra rappresenta la cifra delle unità, la seconda la


cifra delle decine, e così via. Al di sopra delle ruote si trova la zona di
fissaggio composta di sei caselle, una per ruota, indicanti ciascuna una
cifra. Per riprodurre il numero 28, si fa semplicemente girare la ruota delle
decine di due tacche, in senso orario, e quella delle unità di oo tacche.
Grazie a un sistema interno di ingranaggi, si vedranno allora comparire,
nelle caselle corrispondenti, le cifre 2 e 8. E se si vuole aggiungere 5 al
numero 28, non sta a voi fare il riporto: si fa ruotare semplicemente la
ruota delle unità di cinque tacche e, nel momento in cui passerà da 9 a 0, la
cifra delle decine passerà automaticamente da 2 a 3. La macchina presenta
così il numero 33.
E il procedimento funziona con tui i riporti che si vogliono. Si
visualizzi 99.999 sulla pascalina, poi si giri la ruota delle unità di una tacca,
e si vedranno tui i riporti ruotare a cascata verso sinistra fino a far
comparire il numero 100.000, senza che si sia dovuto compiere nessun
altro gesto!
Dopo Pascal, molti inventori perfezionarono la macchina per poter
eseguire un numero sempre maggiore di operazioni in maniera sempre più
rapida ed efficace. Alla fine del XVII secolo, Leibniz è uno dei primi a
seguire i suoi passi, ideando un meccanismo che consente di eseguire in
modo più semplice le moltiplicazioni e le divisioni. Il suo sistema rimane
però ancora incompleto, e le macchine che Leibniz fabbrica, in alcuni casi
particolari, fanno ancora errori di riporto. Si dovrà aspeare il XVIII
secolo perché le sue idee siano concretizzate del tuo. Vedono così la luce,
grazie all’impulso di inventori sempre più geniali e fantasiosi, parecchi
prototipi sempre più affidabili e performanti. Della necessità di rendere più
complessi i meccanismi finisce però per fare le spese il volume delle
macchine. Le quali, da oggei di modeste dimensioni quali sono state
finora, si trasformano in veri e propri armadi.
Nel XIX secolo, le macchine calcolatrici divengono accessibili a tui e
registrano una diffusione pari a quella delle loro cugine, le macchine da
scrivere. Molti studi contabili, uomini d’affari o semplici commercianti si
dotano di queste calcolatrici, che si confondono con l’arredamento e
riescono in frea a rendersi indispensabili. Anzi, ci si chiede come sia
stato possibile farne a meno fino a questo momento.
Proseguendo la visita al museo, incontro numerosi discendenti della
pascalina. Ci sono, qui, l’aritmometro di omas de Colmar, la macchina
per moltiplicare di Léon Bollée, l’aritmografo policromo di Dubois, il
contometro di Felt e Tarrant. Uno dei meccanismi che ha registrato più
successo è stato l’aritmometro messo a punto in Russia dall’ingegnere
svedese Willgodt eophil Odhner. La macchina si compone di tre
elementi principali: la parte alta, sulla quale si indica, con l’aiuto di piccole
leve, il numero che si vuole immeere; la parte bassa, costituita da un
carrello che può spostarsi orizzontalmente, sul quale si visualizza il
risultato dell’operazione; sulla destra, si trova infine una manovella che
consente di effeuare l’operazione.
A ogni giro di manovella, il numero indicato sulla parte alta si somma
al numero già visualizzato sul carrello in basso. Per eseguire una
sorazione, si gira semplicemente la manovella nell’altro senso.
Immaginate ora di voler effeuare la moltiplicazione 374 × 523.
Immeete il numero 374 nella parte alta e date tre giri di manovella. La
parte bassa evidenzia il numero 1122, risultato dell’operazione 374 × 3.
Muovete allora di una tacca, in direzione delle decine, il carrello di
visualizzazione e date due nuovi colpi di manovella. Il numero che
compare è 8602, corrispondente al prodoo 374 × 23. Muovete ancora il
carrello di una tacca per passare alle centinaia, date cinque colpi di
manovella, ed ecco il risultato: 195.602. Con un po’ d’abitudine e di
allenamento, vi occorreranno solo pochi secondi per effeuare la
moltiplicazione.
Nel 1834 la mente del matematico britannico Charles Babbage è
folgorata da un’idea quantomeno balzana. ella d’incrociare una
calcolatrice con un telaio. Da alcuni anni il funzionamento dei telai
meccanici ha registrato non pochi miglioramenti. Uno dei quali è stato
l’introduzione di schede perforate tali da consentire a una stessa macchina
di produrre motivi di grande varietà senza dover cambiare gli schemi di
regolazione. A seconda che vi sia o meno un foro in un punto della scheda,
un uncino la araversa oppure no, e il filo di trama passa o al di sopra o al
di soo del filo di ordito. In sostanza, basta riportare il motivo voluto sulla
scheda perforata e la macchina vi si adegua da sé, automaticamente.
Prendendo spunto da un modello del genere, Babbage immagina una
calcolatrice meccanica che non sarebbe di per sé concepita per eseguire
certi calcoli precisi, come addizioni o moltiplicazioni, ma in grado di
adeguare il proprio comportamento e di realizzare milioni di operazioni
diverse a seconda della scheda perforata che vi s’introduce. Più in
deaglio, la macchina può realizzare tue le operazioni relative ai
polinomi, ossia tui i calcoli che combinano, in qualsiasi ordine, le quaro
operazioni di base e le potenze. Come la pascalina consentiva all’operatore
di eseguire il medesimo movimento indipendentemente dai numeri
impiegati, così la macchina di Babbage consente di eseguire i medesimi
movimenti qualunque siano le operazioni realizzate. Non c’è più bisogno,
come con la calcolatrice di Odhner, di girare la manovella nel senso
opposto a seconda che si faccia un’addizione o una sorazione. Basta
scrivere il calcolo sulla scheda perforata e la macchina si occupa di tuo.
Un funzionamento talmente rivoluzionario da fare della macchina di
Babbage il primo computer in assoluto della storia.
Il suo funzionamento comporta però un’ulteriore incognita. Per
effeuare un calcolo bisogna essere in grado di fornire alla macchina la
scheda perforata adeguata. Essa si compone di una successione di vuoti e
di pieni che il meccanismo individuerà e che gli segnaleranno tappa dopo
tappa quali operazioni devono essere effeuate. L’operatore della
macchina deve dunque, ancor prima della sua aivazione, tradurre il
calcolo che desidera eseguire in una successione di pieni e di vuoti
leggibili dalla macchina.
Un tale lavoro di traduzione troverà la sua prosecuzione e il suo
sviluppo grazie alla matematica britannica Ada Lovelace, la quale si
occuperà del funzionamento della macchina e ne comprenderà l’intero
potenziale – superiore forse a quanto Babbage stesso aveva immaginato.
La donna formalizzerà, in particolare, un codice complesso in grado di
calcolare la sequenza di Bernoulli, estremamente utile nel calcolo
infinitesimale, scoperta più di un secolo prima, come sappiamo, dallo
svizzero Jacob Bernoulli. Il codice messo a punto da Ada Lovelace viene in
genere considerato il primo programma informatico e fa di lei la prima
programmatrice della storia.
Ada Lovelace morì nel 1852 a trentasei anni. Charles Babbage cercò per
tua la vita di costruire la propria macchina, ma morì nel 1871, prima di
portarne a termine il prototipo. Si dovrà aendere il XX secolo per vedere
finalmente in funzione la macchina di Babbage. Osservare una di queste
calcolatrici in movimento ha qualcosa di stupefacente e di magico insieme.
Le sue dimensioni imponenti (all’incirca due metri di altezza per tre di
larghezza) e il balleo coordinato delle centinaia di ingranaggi che si
agitano e turbinano al suo interno trasmeono una sensazione stordente e
meravigliosa al tempo stesso.
Il prototipo incompiuto dello scienziato britannico ha oggi trovato
posto presso il Science Museum di Londra, dove è ancora possibile
ammirarlo. Una copia funzionante, ricostruita all’inizio del XXI secolo, è
esposta al Computer History Museum di Mountain View, in California.
Il XX secolo vedrà il trionfo dei computer in proporzioni impensabili
per Babbage e Lovelace. E le macchine calcolatrici beneficeranno della
convergenza tra la matematica più antica e quella più recente.
Da un lato, il calcolo infinitesimale e i numeri immaginari aiutano a
meere in equazione fenomeni eleromagnetici che concorreranno ben
presto alla nascita degli apparecchi eleronici. Dall’altro, il XIX secolo ha
visto riaffiorare domande che toccano le fondamenta della matematica, gli
assiomi e i ragionamenti elementari che stanno a monte delle
dimostrazioni. Il primo punto contribuirà ad assicurare alle macchine
un’infrastruura materiale dotata di una rapidità fuori dal comune. Il
secondo contribuirà all’organizzazione efficace dei calcoli elementari per
produrre risultati più complessi.
Uno dei maggiori artefici di tale rivoluzione è stato il matematico
britannico Alan Turing, il quale, nel 1936, pubblica un articolo dove
stabilisce un parallelo tra la possibilità, in matematica, di dimostrare un
teorema e quella, in informatica, di far calcolare a una macchina un
risultato. Nell’articolo, Turing descrive per la prima volta il funzionamento
di una macchina astraa, che prenderà il suo nome e che ancora oggi è
largamente utilizzata in informatica teorica. La macchina di Turing è
puramente immaginaria. Il matematico britannico non si preoccupa dei
meccanismi concreti con i quali essa potrebbe essere costruita. Espone
semplicemente le operazioni elementari che la macchina può realizzare,
poi si domanda che cosa, la stessa, è in grado di oenere combinando le
operazioni tra loro. Un metodo analogo a quello del matematico che
espone i suoi assiomi e poi tenta di dedurne dei teoremi combinandoli tra
loro.
Ebbene. La sequenza delle istruzioni che si danno a una macchina per
raggiungere un risultato si chiama algoritmo, deformazione latina del
nome di al-Khwārizmī. E occorre dire che gli algoritmi informatici
s’ispireranno in larga misura a procedure di risoluzione dei problemi già
note agli antichi. Ricordate? Lo stesso al-Khwārizmī, nel suo al-jabr,
considerava oggei matematici astrai, ma forniva anche metodi pratici
che permeevano ai ciadini di Baghdad di risolvere i loro problemi senza
dover far propria, per forza, l’intera teoria che li regge. Allo stesso modo,
un computer non ha bisogno che gli si spieghi la teoria, che sarebbe
comunque incapace di comprendere. Ha solo bisogno che gli siano indicati
quali calcoli devono essere fai e in quale ordine.
Ecco un esempio di algoritmo che può essere trasmesso a una
macchina che possieda tre caselle di memoria nelle quali si possano
inscrivere i numeri. Sapreste indovinare che cosa l’algoritmo sarà in grado
di calcolare?

FASE A. Inscrivere il numero 1 nella casella di memoria n. 1, poi


passare alla fase B.
FASE B. Inscrivere il numero 1 nella casella di memoria n. 2, poi
passare alla fase C.
FASE C. Inscrivere la somma della casella di memoria n. 1 e della
casella di memoria n. 2 nella casella di memoria n. 3, poi passare alla
fase D.
FASE D. Inscrivere il numero della casella di memoria n. 2 nella casella
di memoria n. 1, poi passare alla fase E.
FASE E. Inscrivere il numero della casella di memoria n. 3 nella casella
di memoria n. 2, poi passare alla fase C.
Avete notato? La macchina segue un ciclo, in quanto la fase E rimanda
alla fase C. Per cui le fasi C, D ed E si ripeteranno all’infinito.
Dunque? Che cosa combina questa macchina? Per poter decifrare la
sequenza d’istruzioni data meccanicamente e senza spiegazioni, occorre
rifleere un aimo. Si potrà così capire che l’algoritmo calcola numeri che
conosciamo già: sono i termini della successione di Fibonacci!22 Le fasi A e
B inizializzano i due primi termini della successione: 1 e 1. La fase C
calcola la somma dei due termini precedenti. Le fasi D ed E trasferiscono
poi i risultati oenuti nella memoria in modo da poter ricominciare. Se si
osservano i dati visualizzati in successione nelle caselle di memoria
durante il funzionamento della macchina, si vedranno sfilare i numeri 1, 1,
2, 3, 5, 8, 13, 21, e così via.
Il presente algoritmo è relativamente semplice, eppure non lo è ancora
abbastanza per poter essere leo dalle macchine di Turing. Le quali, per
come sono state programmate dal loro costruore, non sono in grado di
eseguire un’addizione, come appunto prevede la fase C. Le loro uniche
facoltà consistono nello scrivere, nel leggere e nel muoversi nella memoria
seguendo le istruzioni impartite in ciascuna fase. Tuavia, è possibile
insegnare loro l’addizione fornendo l’algoritmo mediante il quale le cifre si
sommano fila per fila, tenendo anche conto dei riporti, come per il
pallooliere. In altri termini, l’addizione non fa parte degli assiomi della
macchina, eppure costituisce già uno dei teoremi di cui occorre fornire
l’algoritmo per poterla utilizzare. Una volta scrio l’algoritmo, basta
sostituirlo alla fase C perché una macchina di Turing possa calcolare i
numeri di Fibonacci.
A un maggior grado di complessità, è poi possibile insegnare a una
macchina di Turing a eseguire moltiplicazioni, divisioni, quadrati, radici
quadrate, a risolvere equazioni, a calcolare approssimazioni di π o rapporti
trigonometrici, a determinare le coordinate cartesiane di figure
geometriche o anche a eseguire del calcolo infinitesimale. In sostanza, a
condizione che le si forniscano gli algoritmi giusti, una macchina di
Turing può fare tua la matematica di cui abbiamo parlato fin qui, e
andando ben oltre in fao di precisione.

IL TEOREMA DEI QUATTRO COLORI


Si prenda la carta geografica di un territorio composto da più stati
delimitati dai loro confini. anti colori, come minimo, occorreranno
per poter colorare la carta, in modo che due stati limitrofi non siano
mai dello stesso colore?

Nel 1852 il matematico sudafricano Francis Guthrie si occupò del


problema e ipotizzò che, qualunque sia la carta, è sempre possibile
utilizzare solamente quaro colori. Dopo di lui, molti studiosi
tentarono di dimostrare l’enunciato, ma nessuno, per più di un secolo,
ci riuscì.
Si registrarono comunque progressi e, per esempio, fu stabilito che
tue le carte possibili potevano ridursi a 1478 casi particolari, per
ciascuno dei quali erano però necessarie infinite verifiche: impossibile
per un essere umano, e anche per un’intera équipe di esseri umani,
condurle da soli. Non sarebbe bastata una vita intera. Immaginate, a
questo punto, la frustrazione di quei matematici: avere soo mano il
metodo capace di comprovare o invalidare la congeura, e non poterlo
utilizzare per una questione di tempo!
Negli anni sessanta del XX secolo, nella mente di alcuni ricercatori
comincia ad affiorare l’idea di ricorrere a un computer. E nel 1976,
finalmente, due americani, Kenneth Appel e Wolfgang Haken,
annunciano di aver provato il teorema. Sono però servite più di 1200
ore di calcoli e 10 miliardi di operazioni elementari al computer per
venire a capo delle 1478 carte geografiche!
L’annuncio, nel mondo matematico, ha l’effeo di una bomba. Come
dev’essere accolta una “dimostrazione” del questo tipo, assolutamente
nuova? Si può acceare la validità di una dimostrazione talmente lunga
da risultare illeggibile per intero a qualsiasi essere umano? Fino a che
punto si può confidare nelle macchine?
Le domande suscitarono una quantità di dibaiti. Alcuni sostennero
che non si poteva essere sicuri al 100% che la macchina non avesse
commesso un errore. Altri replicarono che altreanto si poteva dire
degli esseri umani. Un meccanismo eleronico vale meno di quel
meccanismo biologico che è l’Homo sapiens? Una prova fornita da una
macchina metallica è meno affidabile di una prova fornita da una
macchina organica? Non si sono forse visti spesso matematici, anche
tra i più grandi, commeere errori individuati solo in seguito? La
circostanza non ci deve forse far dubitare della fondatezza dell’intero
edificio matematico? Una macchina, può, senza dubbio, avere dei bug e
commeere a volte degli errori, ma, se la sua affidabilità è almeno pari
a quella di un essere umano (e sovente lo è in misura maggiore), non
c’è motivo di rifiutarne i risultati.
Oggi, i matematici hanno imparato a fidarsi dei computer, e la maggior
parte di essi considerano ormai valida la dimostrazione del teorema dei
quaro colori. Non solo. Con l’aiuto dell’informatica, sono stati provati
molti altri risultati. Eppure, questo tipo di metodo non è sempre il più
apprezzato. Una prova concisa modellata dalla mano dell’uomo
continua ancora a essere giudicata più elegante. È vero che l’obieivo
dei matematici è quello di comprendere gli oggei astrai di cui ci si
serve, ma non è meno vero che le prove umane sono molto più
istruive e, in genere, aiutano ad afferrarne meglio il significato
profondo.

Il 10 marzo 2016 tuo il mondo ha gli occhi puntati su Seoul. È lì che si


tiene il match tanto aeso del gioco del go, che vede sfidarsi il miglior
giocatore del mondo, il coreano Lee Sedol, e il computer AlphaGo. La
partita, trasmessa in direa su Internet e da numerose reti televisive, è
seguita da centinaia di milioni di persone. L’atmosfera è tesa. Un computer
non ha mai bauto, finora, un essere umano di quel livello.
Il go è ritenuto uno dei giochi più difficili da insegnare a un computer.
La sua strategia chiede ai giocatori un’importante dose d’intuizione e di
creatività. Le macchine saranno pure fortissime nel calcolo, ma fornire
loro algoritmi in grado di simulare comportamenti istintivi è ben più
difficile. Altri celebri giochi, come gli scacchi, risultano molto più legati al
calcolo. Per cui, nel 1997, il computer Deep Blue è arrivato a sconfiggere il
campione russo Garri Kasparov, nel corso di un match del quale si è
parlato molto. E per altri giochi, come la dama, i computer sono riusciti a
meere a punto una strategia infallibile. Tanto che sarebbe una follia,
oggi, per un essere umano, sperare di baere a dama un computer. Tu’al
più, giocando alla perfezione, può tentare di strappare un partita paa.
Nella famiglia dei grandi giochi di strategia, il go, nel 2016, era rimasto
l’ultimo a resistere ancora e sempre all’assalto delle macchine.
Dopo un’ora di gioco, siamo alla trentaseesima mossa e la partita
sembra serrata. Ed è qui che AlphaGo stupisce tui gli specialisti che la
stanno seguendo. Il computer decide di giocare la sua pedina nera in
posizione O10. Su Internet, il commentatore che interpreta e analizza le
mosse in direa sgrana gli occhi, depone la pedina sul suo dispositivo di
dimostrazione, poi la riprende esitando. Riverifica sullo schermo e alla fine
la depone di nuovo. “È un colpo stupefacente!” esclama con un sorriso
perplesso. “Dev’essere un errore,” aggiunge il secondo commentatore. Ai
quaro angoli del mondo, i maggiori specialisti del gioco esprimono un
analogo stupore. Il computer ha appena commesso un errore enorme,
oppure ha appena messo a segno un colpo geniale? Tre ore e mezza e
centoseantaquaro mosse dopo, arriva la risposta inappellabile: il
campione coreano abbandona. Ha vinto la macchina.
Dopo la partita, non sono mancati gli aggeivi per qualificare il famoso
colpo 37. Creativo. Unico. Affascinante. Nessun essere umano avrebbe
giocato un colpo simile, che le strategie tradizionali giudicano sbagliato, e
che pure ha consentito al computer di vincere! Al che sorge la domanda:
come fa un computer, che comunque segue unicamente un algoritmo
scrio da esseri umani, a dar prova di creatività?
La risposta alla domanda si trova nei nuovi tipi di algoritmi di
apprendimento. In realtà, i programmatori non hanno insegnato a giocare
al computer! Gli hanno insegnato a imparare a giocare! Durante le sedute
di allenamento, AlphaGo ha passato migliaia di ore a giocare contro se
stesso e a individuare da solo i colpi vincenti. Un’altra caraeristica di
AlphaGo è l’introduzione, nel suo algoritmo, del faore casuale. Le
combinazioni possibili, al gioco del go, sono troppo numerose per poter
essere calcolate, anche da un computer. Così, per rimediarvi, AlphaGo tira
a sorte i percorsi da esplorare e impiega la teoria della probabilità. Il
computer testa soltanto un piccolo campione di tue le combinazioni
possibili. E, come un sondaggio stima le caraeristiche di un’intera
popolazione a partire da un piccolo gruppo, il computer determina i colpi
che hanno più possibilità di portarlo alla vioria. Ecco, in parte, il segreto
dell’intuizione e dell’originalità di AlphaGo: non rifleere in modo
sistematico, bensì valutare i possibili esiti futuri a seconda della loro
probabilità.
A parte i giochi di strategia, i computer, muniti di algoritmi sempre più
complessi e performanti, sembrano oggi in grado di superare gli esseri
umani nella maggior parte delle loro competenze. Guidano automobili,
partecipano a operazioni chirurgiche, possono creare musica o dipingere
quadri originali. Difficile immaginare un’aività umana che, da un punto
di vista tecnico, non possa essere realizzata da una macchina pilotata da
un algoritmo adeguato.
A fronte dei progressi folgoranti compiuti nell’arco di pochissimi
decenni, chissà di che cosa saranno capaci i computer del futuro? E chissà
se, un giorno, non saranno in grado di inventare da soli nuove
matematiche? Per il momento, il gioco matematico resta troppo complesso
perché i computer possano dar libero corso alla propria creatività. Il loro
impiego rimane essenzialmente di caraere tecnico e calcolatorio. Ma è
sempre possibile che, un giorno, un discendente di AlphaGo produca un
teorema inedito che, come il colpo 37 dell’antenato, lasci a bocca aperta
tui i più grandi matematici del pianeta. Difficile, oggi, pronosticare di
quali prodezze saranno artefici le macchine di domani. Sarebbe solo
sorprendente il fao che non ci sorprendano.
22
Ricordate? I primi due termini della successione di Fibonacci sono 1 e 1, dopodiché ogni
termine è la somma dei due precedenti. La successione inizia così: 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21…
17. Matematica a venire

Il cielo è grigio e sui tei di Zurigo risuona il rumore della pioggia. Che
tempo triste in piena estate! Il treno non dovrebbe tardare.
È l’8 agosto 1897 e, al binario della stazione, un uomo pensieroso
aende l’arrivo dei suoi invitati. Adolf Hurwitz è un matematico. Tedesco
di origine, si è trasferito da cinque anni a Zurigo, dove occupa la caedra
di matematica del Politecnico federale. E, da accademico, ha svolto un
ruolo importante nell’organizzazione dell’evento che si terrà nei prossimi
tre giorni. Dal treno in arrivo scenderà una rappresentanza dei maggiori
scienziati del mondo, provenienti da sedici paesi diversi. Domani si aprirà
il primo Congresso internazionale dei matematici.
I due promotori del congresso sono i tedeschi Georg Cantor e Felix
Klein. Il primo è divenuto celebre scoprendo che esistono degli infiniti più
grandi di altri e creando la teoria degli insiemi per manipolarli senza
correre il rischio di cadere nei paradossi. Il secondo è uno specialista delle
struure algebriche. Anche se, per ragioni diplomatiche, come paese di
accoglienza per questo primo congresso è stata scelta la Svizzera, non deve
sorprendere che l’iniziativa sia partita dalla Germania. Nel corso del XIX
secolo, il paese ha saputo imporsi come il nuovo Eldorado della
matematica. Göingen e la sua prestigiosa università ne sono il centro
nevralgico, il punto d’incontro delle menti più brillanti della disciplina.
Tra i duecento partecipanti al congresso, sono presenti anche alcuni
italiani, come Giuseppe Peano, noto per aver definito i moderni assiomi
dell’aritmetica, alcuni russi, come Andrej Markov, i cui lavori hanno
rivoluzionato lo studio della probabilità, e alcuni francesi, come Henri
Poincaré,23 scopritore, tra l’altro, della teoria del caos e di quello che verrà
chiamato in seguito “effeo farfalla”. Nell’arco dei tre giorni del congresso,
tuo questo bel mondo potrà discutere e scambiarsi idee, nonché creare
contai tra le rispeive sfere di ricerca.
In questa fine di XIX secolo il mondo matematico è in piena
metamorfosi. L’espansione, sia geografica sia intelleuale, della disciplina
crea inevitabili distanze tra gli scienziati. E la matematica sta diventando
troppo vasta perché un solo individuo possa abbracciarne l’intera
estensione. Henri Poincaré, relatore del discorso d’apertura del congresso,
viene a volte considerato l’ultimo grande scienziato universale, in grado di
padroneggiare tue le matematiche dell’epoca e artefice di progressi
importanti in gran parte di esse. È proprio con Poincaré, infai, che
tramonta la categoria dei matematici “generalisti”, per lasciare il posto a
quella degli specialisti.
Con ciò, come per reagire a una tale inesorabile deriva dei continenti
matematici, i ricercatori si adopereranno sempre di più per aumentare le
occasioni d’incontro, per lavorare insieme e fare della disciplina un blocco
unico e indivisibile. È sul filo tra questi due impulsi contraddiori che la
matematica entra nel XX secolo.
Il secondo Congresso internazionale dei matematici si svolgerà a Parigi
nell’agosto del 1900. E, successivamente, l’evento avrà una cadenza
quadriennale, eccezion faa per alcune edizioni annullate a causa delle
guerre mondiali. Il penultimo si è tenuto a Seoul dal 13 al 21 agosto 2014.
Con più di cinquemila partecipanti venuti da centoventi paesi diversi, il
congresso è stato il più grande raduno di matematici mai organizzato.
L’ultimo ha avuto luogo a Rio de Janeiro dall’1 al 9 agosto 2018, e ha
uguagliato il record dei cinquemila partecipanti di Seoul.
Nel quadro del congresso si sono imposte, nel corso degli anni,
determinate tradizioni. Per esempio, nel 1936, è stata istituita
l’assegnazione della prestigiosa medaglia Fields, il più alto riconoscimento
della disciplina, definito spesso il premio Nobel della matematica. La
medaglia raffigura un ritrao di Archimede, accompagnato da una
citazione a dir poco enfatica del matematico greco: Transire suum pectus
mundoque potiri (“Trascendere i propri limiti e dominare l’universo”).
Profilo di Archimede sulla medaglia Fields

Altro effeo dell’auale mondializzazione della matematica: l’inglese si


è imposto a poco a poco come la lingua internazionale della disciplina. E
bisogna dire che, già durante il congresso di Parigi, alcuni partecipanti si
erano lamentati del fao che l’uso esclusivo del francese nelle conferenze
e nella documentazione ostacolasse la comprensione dei congressisti
stranieri. La seconda guerra mondiale e l’esodo di gran parte dei cervelli
europei verso gli Stati Uniti e le loro grandi università hanno largamente
assecondato il processo aualmente in corso. Tanto che oggi, la stragrande
maggioranza degli articoli di ricerca matematica è scria e pubblicata in
inglese.24
Nell’arco di un secolo è anche considerevolmente aumentato il numero
di matematici. Nel 1900 erano solo alcune centinaia, con sede
principalmente in Europa. Oggi, sono decine di migliaia, dislocati ai
quaro angoli del mondo. Ogni giorno vengono pubblicate diverse decine
di nuovi articoli. Secondo alcune stime, la comunità matematica mondiale
produce, ogni quaro anni, circa un milione di nuove teorie!
L’unione delle matematiche comporta anche una profonda
riorganizzazione della disciplina stessa. Uno degli artefici più aivi del
processo in ao tra XIX e XX secolo è stato il tedesco David Hilbert.
Professore all’università di Göingen, Hilbert è, con Poincaré, uno dei più
brillanti e influenti matematici dell’inizio del XX secolo.
Nel 1900 Hilbert partecipò al congresso di Parigi e vi tenne – mercoledì
8 agosto alla Sorbona – una conferenza divenuta celebre. Il matematico
tedesco presentò una lista di grandi problemi non risolti, i quali, a suo
avviso, avrebbero dovuto orientare i matematici del secolo che stava per
iniziare. I matematici amano le sfide, e l’iniziativa fece centro. I ventitré
problemi di Hilbert suscitarono e stimolarono l’interesse dei ricercatori, e
non tardarono a coinvolgere anche gli specialisti assenti al congresso.
Nel 2016 restano irrisolti ancora quaro problemi. Tra essi, l’oavo
della lista di Hilbert: la cosiddea “ipotesi Riemann”, considerata in genere
la maggiore delle congeure matematiche del nostro tempo. Si traa di
trovare le soluzioni immaginarie di un’equazione proposta, a metà del XIX
secolo, dal tedesco Bernhard Riemann. E l’equazione risulta
particolarmente interessante perché contiene la chiave di un mistero
molto più antico: quello della sequenza dei numeri primi, oggeo
d’interesse fin dall’Antichità.25 Eratostene fu uno dei primi a studiare la
sequenza dei numeri primi nel III secolo a.C. Trovate le soluzioni
dell’equazione di Riemann e troverete anche, grazie a loro, una quantità
d’informazioni su numeri che occupano un posto fondamentale in
aritmetica.
Mentre i ventitré problemi da lui segnalati vivono la loro vita, Hilbert
prosegue il proprio lavoro. Negli anni successivi il matematico tedesco
inizia a varare un vasto programma per disporre tue le matematiche su
un’identica base, solida, affidabile e definitiva. L’obieivo era creare una
teoria unica che consentisse d’inglobare in sé tue le branche della
matematica! Ricordate? Dopo Cartesio e le sue coordinate, i problemi di
geometria poterono esprimersi nel linguaggio algebrico. E, in qualche
modo, la geometria era diventata una soodisciplina dell’algebra.
Domanda. Sarebbe stato possibile riprodurre la fusione delle discipline a
livello di tua la matematica? In altri termini, sarebbe stato possibile
trovare una superteoria della quale le varie branche della matematica,
dalla geometria alla probabilità, dall’algebra al calcolo infinitesimale,
sarebbero solo casi particolari?
E la superteoria vedrà effeivamente la luce sulla scia della teoria degli
insiemi avanzata alla fine del XIX secolo da Georg Cantor. All’inizio del
XX secolo, presero corpo, infai, varie proposte di assiomatizzazione della
teoria del matematico tedesco. Tra il 1910 e il 1913 i britannici Alfred
North Whitehead e Bertrand Russell pubblicarono un’opera in tre volumi
intitolata Principia Mathematica, nella quale esposero gli assiomi e le
regole logiche in base alle quali ricomporre, partendo da zero, l’intero
complesso della matematica. Uno dei passaggi più celebri del libro si trova
a pagina 362 del volume I. Whitehead e Russell, dopo aver ricomposto
l’edificio dell’aritmetica, arrivavano infine a traare il teorema: 1 + 1 = 2!
E i commentatori si divertirono molto constatando quante pagine e
sviluppi incomprensibili ai neofiti si erano resi necessari per approdare a
un’uguaglianza tanto elementare. Per il piacere degli occhi, ecco che
aspeo ha, nel linguaggio simbolico di Whitehead e Russell, la
dimostrazione di 1 + 1 = 2.

Non provateci! Non cercate di capirci qualcosa, in questa accozzaglia di


simboli. Sarebbe un’impresa impossibile. A meno che non abbiate leo le
361 pagine precedenti!26
Dopo Whitehead e Russell, furono avanzate altre proposte di
miglioramento degli assiomi e, oggi, gran parte della matematica moderna
trova il proprio fondamento nei pochi assiomi di base della teoria degli
insiemi.27
Malgrado lo straordinario successo della teoria degli insiemi, Hilbert
continuava a essere insoddisfao, a causa del persistere di alcuni dubbi
circa l’affidabilità degli assiomi dei Principia Mathematica. Perché una
teoria possa dirsi perfea deve soddisfare due criteri: essere coerente e
completa.
In primo luogo, la coerenza significa che la teoria non ammee
paradossi. Non si può provare una cosa e il suo contrario. Se, per esempio,
uno degli assiomi concorre a dimostrare che 1 + 1 = 2 e un altro conclude
che 1 + 1 = 3, la teoria risulta incoerente, poiché contraddice se stessa. In
secondo luogo, la completezza afferma che gli assiomi della teoria bastano
a dimostrare tuo ciò che è vero al suo interno. Se, per esempio, una teoria
aritmetica non dispone di un numero sufficiente di assiomi per poter
dimostrare che 2 + 2 = 4, vuol dire che è incompleta.
È possibile accertare che i Principia Mathematica rispeino entrambi i
criteri? Possiamo essere sicuri non vi si trovino mai paradossi e che gli
assiomi siano sufficientemente precisi ed efficaci per poterne dedurre tui
i teoremi possibili e immaginabili?
Il programma di Hilbert subì una bauta d’arresto, brutale quanto
inaesa, quando, nel 1931, un giovane matematico austro-ungherese, Kurt
Gödel, pubblicò un articolo intitolato Über formal unentscheidbare Sätze
der Principia mathematica und verwandter Systeme, “Sulle proposizioni
formalmente indecidibili dei Principia Mathematica e di sistemi affini”.
L’articolo dimostrava un teorema inusuale, secondo il quale non poteva
esistere alcuna superteoria coerente e completa al tempo stesso! Se i
Principia Mathematica sono coerenti, vuol dire che esistono per forza di
cose affermazioni, dee “indecidibili”, che non possono essere né
dimostrate né rifiutate. Per cui è impossibile dimostrare se sono vere o
false!

LA RAFFINATA CATASTROFE DI GÖDEL


Il teorema d’incompletezza di Gödel è un monumento del pensiero
matematico. Per cercare d’intenderne il principio generale, occorre
considerare più in deaglio il modo in cui traduciamo in scriura la
matematica. Ecco due affermazioni elementari di aritmetica.

A. La somma di due numeri pari dà sempre un numero pari.


B. La somma di due numeri dispari dà sempre un numero dispari.

I due enunciati sono abbastanza chiari, e potrebbero inscriversi senza


problemi nel linguaggio algebrico di Viète. Rifleendoci un po’, potrete
però constatare che la prima delle affermazioni (A) è vera, mentre la
seconda (B) è falsa, dal momento che la somma di due numeri dispari è
sempre pari. Il che ci porta ai due enunciati seguenti:

C. L’affermazione A è vera.
D. L’affermazione B è falsa.

esti sono un po’ particolari. Non sono, propriamente, enunciati


matematici, se mai enunciati che parlano di enunciati matematici! Le
frasi C e D, contrariamente ad A e B, non si possono scrivere a priori
nel linguaggio simbolico di Viète. I loro soggei non sono né numeri né
figure geometriche né alcun altro oggeo dell’aritmetica, della
probabilità o del calcolo infinitesimale. Si traa di enunciati dei
“metamatematici”, ossia enunciati che non parlano degli oggei
matematici ma della matematica stessa! Un teorema è un enunciato
matematico. L’affermazione che il teorema è vero è un enunciato
metamatematico.
La distinzione può sembrare soile e insignificante, ma è proprio
araverso una formalizzazione incredibilmente ingegnosa della
metamatematica che Gödel oerrà il suo teorema. L’impresa dello
scienziato austriaco è stata quella di trovare il modo di trascrivere gli
enunciati metamatematici nello stesso linguaggio della matematica. In
virtù di un procedimento geniale che consente d’interpretare gli
enunciati come numeri, la matematica, oltre a parlare di numeri, di
geometria o di probabilità, è diventata, di colpo, in grado di parlare di
se stessa!
Una cosa che parla di se stessa. Non vi dice niente? Non vi ricorda il
famoso paradosso di Epimenide? Il poeta greco un giorno affermò che
tui i cretesi erano bugiardi. Ma Epimenide stesso era cretese, per cui
era impossibile determinare se la sua dichiarazione fosse vera o falsa
senza cadere in contraddizione. Un cane che si morde la coda. Fino a
quel momento gli enunciati matematici avevano evitato questo tipo di
affermazioni autoreferenziali. Tuavia, grazie al suo procedimento,
Gödel è riuscito a riprodurre un fenomeno dello stesso tipo proprio
all’interno della matematica. Considerate il seguente enunciato:
G. L’affermazione G non è dimostrabile a partire dagli assiomi della
teoria.

Si traa di un enunciato manifestamente metamatematico ma, in forza


dell’astuzia di Gödel, può esprimersi malgrado tuo in linguaggio
matematico. Diventa così possibile tentare di dimostrare G a partire
dagli assiomi della teoria. A questo punto, si presentano due possibilità.
O è possibile dimostrare G, nel qual caso, poiché G afferma di non
essere dimostrabile, vuol dire che l’affermazione G è falsa. E, se è
possibile dimostrare qualcosa di falso, significa che la teoria nel suo
complesso non sta in piedi! Non è, insomma, coerente.
Oppure non è possibile dimostrare G, nel qual caso, ciò che dice G è
vero, il che vuol dire che i nostri assiomi non sono in grado di provare
un’affermazione che è comunque vera! La teoria è dunque incompleta,
poiché esistono verità che le sono inaccessibili.
In definitiva, in tui e due i casi siamo con le spalle al muro. La teoria è
o incoerente o incompleta. Il teorema d’incompletezza di Gödel ha
vanificato del tuo i bei sogni di Hilbert. Inutile cercare di aggirare
l’ostacolo cambiando teoria. Il suo risultato non si applica soltanto ai
Principia Mathematica, ma anche a ogni altra teoria che presuma di
poterlo sostituire. Una teoria unica e perfea in grado di dimostrare
tui i suoi teoremi non può esistere.
Restava però una speranza. L’enunciato G è certo indecidibile, ma,
confessiamocelo, non è molto interessante da un punto di vista
matematico. È una curiosità, plasmata di sana pianta da Gödel, per
poter sfruare il paradosso di Epimenide. Per cui era sempre possibile
sperare che i grandi problemi della matematica, quelli davvero
interessanti, non cadessero nella trappola dell’autoreferenza.
Purtroppo, i matematici doveero ancora una volta farsene una
ragione. Nel 1963 lo statunitense Paul Cohen dimostrò che il primo dei
ventitré problemi di Hilbert apparteneva anch’esso alla strana categoria
degli enunciati indecidibili. Non era possibile, partendo dagli assiomi
dei Principia Mathematica, né dimostrarlo né rifiutarlo. Se il problema
dovesse un giorno essere risolto, lo sarebbe, inevitabilmente, nel quadro
di un’altra teoria. Una teoria che contemplerà però, a sua volta, altre
lacune e altri enunciati indecidibili.
Nel corso del XX secolo gli studi sui fondamenti della matematica
hanno occupato un posto rilevante, il che non ha comunque impedito ad
altre branche della disciplina di proseguire il loro cammino. È difficile
descrivere la notevole varietà delle matematiche che si sono sviluppate
negli ultimi decenni. Consideriamo solo per qualche secondo una delle
perle più brillanti del secolo scorso: l’insieme di Mandelbrot.
La stupefacente creatura nasce dall’analisi delle proprietà di certe
sequenze numeriche. Si scelga un numero, uno qualsiasi, poi si costruisca
una sequenza in cui il primo termine sia 0 e ciascun termine successivo sia
uguale al quadrato del termine precedente sommato con il numero scelto
all’inizio. Se per esempio si sceglie il numero 2, la sequenza si svilupperà
nel seguente modo: 0, 2, 6, 38, 1446… Da cui: 2 = 02 + 2, poi 6 = 22 + 2, poi
38 = 62 + 2, poi 1446 = 382 + 2, e così via. Se al posto di 2 si sceglie il
numero –1, si oiene la sequenza 0, –1, 0, –1, 0… una sequenza che alterna
semplicemente 0 e –1 poiché –1 = 02 – 1 e 0 = (–1)2 – 1.
I due esempi mostrano come, a seconda del numero scelto, la sequenza
oenuta adoi due comportamenti molto diversi. È possibile che la
sequenza si proiei all’infinito dando valori sempre più grandi, come
accade scegliendo il numero 2. Oppure è possibile che la sequenza resti
circoscria, nel senso che i suoi valori non si allontanano molto e si
muovono entro uno spazio limitato, come accade scegliendo il numero –1.
Tui i numeri, siano essi interi, con la virgola o anche immaginari,
possono dunque trovare posto nella prima o nella seconda categoria.
Nel caso in cui una tale classificazione dei numeri sembri un po’ troppo
astraa, sarebbe comunque possibile, per meglio visualizzare le cose,
rappresentarla geometricamente grazie alle coordinate cartesiane. Nel
piano, poniamo tui i numeri reali su un asse orizzontale, come abbiamo
già fao in precedenza,28 poi poniamo i numeri immaginari su un asse
verticale, dopodiché possiamo colorare i punti appartenenti alle due
categorie con colori diversi. Alla fine compare una figura meravigliosa.
Nella figura, i numeri colorati in nero sono quelli che danno luogo a
sequenze finite mentre i numeri in grigio sono quelli che generano
sequenze infinite. Dietro la figura nera si è traeggiata un’“ombra” bianca,
per meglio individuare certi deagli quasi imperceibili, a volte invisibili a
occhio nudo.
Dal momento che ogni punto dell’immagine corrisponde al calcolo e
all’analisi di una sequenza, per disegnare la figura servono moltissimi
calcoli. Ecco perché si è dovuto pazientare fino ai primi anni oanta del
XX secolo per oenere dai computer delle raffigurazioni precise. Il
matematico francese Benoît Mandelbrot è stato uno dei primi a studiare in
deaglio la geometria della figura, alla quale i colleghi hanno poi finito per
dare il suo nome.
L’insieme di Mandelbrot è affascinante! Il suo contorno è come un
merleo geometrico d’inverosimile armonia e precisione. Se zoomate sul
bordo, vedrete apparire sempre più motivi minuscoli, infinitamente soili
e incredibilmente cesellati. Tanto che, osservando una sola immagine, è
quasi impossibile cogliere tua la ricchezza delle forme racchiuse
nell’insieme di Mandelbrot. A meno che non lo si scomponga nei minimi
deagli. Un piccolo campione di questi deagli è visibile nella figura della
pagina a fianco.
Ma ciò che lo rende ancor più notevole è la disarmante semplicità della
sua definizione. Se per disegnare la figura fosse stato necessario ricorrere a
equazioni mostruose, a calcoli lambiccati e confusi o a costruzioni
pazzesche, si sarebbe potuto dire: “Certo, la figura è bella, ma è del tuo
artificiale e di scarso interesse.” Invece no. La figura è semplicemente la
rappresentazione geometrica delle proprietà elementari di sequenze
numeriche definibili in poche parole. La meravigliosa figura geometrica
che abbiamo davanti è nata insomma da una regola estremamente
semplice.
Una scoperta del genere rilancia inevitabilmente il dibaito sulla
natura della matematica: è un’invenzione umana o vanta un’esistenza
indipendente? I matematici sono degli scopritori o dei creatori? A prima
vista, l’insieme di Mandelbrot sembra deporre a favore della prima ipotesi.
Se la figura assume quella forma straordinaria non è perché Mandelbrot ha
deciso di costruirla così. Il matematico francese non ha inteso inventare
una figura del genere. È stata la figura a imporsi a lui. E non avrebbe
potuto essere diversa da quella che è.
Con ciò, suona abbastanza strano il fao di considerare l’esistenza di
un oggeo che non solo è meramente astrao ma che, malgrado
l’interesse che suscita, non travalica il quadro immateriale della
matematica. Se i numeri, i triangoli o le equazioni sono astrai, possono in
ogni caso essere utili per concepire il mondo reale. L’astrazione sembrava,
fin qui, aver mantenuto un contao, seppur remoto, con il mondo
materiale. Laddove l’insieme di Mandelbrot sembra invece aver sciolto
qualsiasi legame direo con esso. Nessun fenomeno fisico di nostra
conoscenza adoa una struura che gli somiglia, né da vicino né da
lontano. Perché allora interessarsene? È possibile giudicare la sua scoperta
alla stregua della scoperta, in astronomia, di un nuovo pianeta o, in
biologia, di una nuova specie animale? È un oggeo che merita di essere
studiato in sé e per sé? In altri termini, la matematica è assimilabile alle
altre scienze?
Alla domanda, molti matematici risponderanno sicuramente “sì”. Va
tuavia soolineato che la disciplina occupa un posto assolutamente
speciale nel campo delle conoscenze umane. E che una delle ragioni della
sua peculiarità consiste nell’ambiguo rapporto che intraiene con la
bellezza dei suoi oggei.
È vero che la scoperta di cose particolarmente belle è più o meno
ravvisabile in tue le scienze. Le immagini dei corpi celesti che ci offrono
gli astronomi ne sono un esempio. Non ci meravigliamo forse della forma
delle galassie, delle code scintillanti delle comete o dei colori cangianti
delle nebulose? L’Universo è bello. Come no? È un’opportunità. Ma va pur
deo che, se non fosse stato così, l’uomo non avrebbe potuto farci niente.
Gli astronomi non hanno scelta. Gli astri sono quelli che sono. E si
sarebbero dovuti studiare anche se fossero stati brui. È pur vero che la
definizione di bello e bruo è del tuo soggeiva, ma non è questo il
punto. Non qui, almeno.
Il matematico, invece, sembra un po’ più libero. Come s’è già visto,
esiste un’infinità di modi per definire le struure algebriche. Ed entro
ciascuno di essi, un’infinità di modi per definire sequenze di cui è possibile
studiare le proprietà. La maggioranza di tali piste non condurrà a insiemi
così belli come quello di Mandelbrot. Ma, in matematica, la libertà di scelta
dell’oggeo del proprio studio è molto più accentuata che in altre
discipline. E, tra l’infinità di teorie degne di esplorazione, scegliamo spesso
quelle che ci sembrano più eleganti.
Non è forse un modello di approccio simile a quello artistico? Se le
sinfonie di Mozart sono così belle, non lo sono per un caso fortunato. È
perché il compositore austriaco ha fao in modo che lo fossero. Se si
pensa all’infinità di brani musicali che si potrebbero comporre, ci si rende
conto che la stragrande maggioranza di essi sarebbe irrimediabilmente
brua. Baete a caso sui tasti di un pianoforte e ve ne convincerete. Il
talento dell’artista consiste nel trovare, in quell’infinità priva d’interesse,
le poche perle che ci ammalieranno.
E così è per il talento di un matematico: saper trovare nell’infinito del
mondo matematico gli oggei maggiormente degni d’interesse. Se la
figura di Mandelbrot non fosse stata così bella, è chiaro che i matematici
avrebbero manifestato un interesse assai minore. Sarebbe rimasta
nell’anonimato delle figure neglee, come tue le brue sinfonie che
nessuno eseguirà mai.
I matematici sarebbero dunque più artisti che scienziati? Be’, si traa
forse di un’affermazione un po’ azzardata. La domanda non è a senso
unico. Lo scienziato cerca la verità e, a volte, vi trova per caso la bellezza.
L’artista cerca la bellezza e, a volte, vi trova per caso la verità. E il
matematico, per parte sua, sembra talvolta dimenticare che esiste, tra
bellezza e verità, una differenza. Cerca simultaneamente l’una e l’altra.
Trova indifferentemente l’una e l’altra. Mescola il vero e il bello, l’utile e il
superfluo, l’ordinario e l’inverosimile, come altreanti colori che vanno a
mescolarsi sulla sua tela infinita.
Egli stesso non sempre comprende appieno ciò che fa. Tant’è che la
matematica rivela i suoi segreti e la sua vera natura solo molto tempo
dopo la scomparsa di chi l’ha creata. Pitagora, Brahmagupta, al-
Khwārizmī, Tartaglia, Viète e tui gli altri hanno inventato delle
matematiche senza lontanamente immaginare quali prospeive avrebbero
aperto nei secoli successivi, fino a oggi. E forse noi, oggi, non ci rendiamo
per nulla conto di ciò che permeeranno ancora di fare in futuro. Soltanto
il tempo assicura il distacco necessario per rendere giustizia al valore
dell’opera matematica.

23
Abbiamo già incontrato Poincaré. A lui dobbiamo la frase: “La matematica è l’arte di dare lo
stesso nome a cose diverse.”
24
Dal 1991, gli articoli provenienti dal mondo intero vengono liberamente diffusi su Internet
tramite la piaaforma arXiv.org messa a punto dalla Cornell University, negli Stati Uniti. Se volete
vedere che aspeo ha un articolo di matematica, fateci un giro.
25
I numeri primi sono i numeri che non si possono oenere moltiplicando due numeri più
piccoli di essi. Per esempio, il 5 è un numero primo, ma il 6 non lo è, perché 2 × 3 = 6. La
successione dei numeri primi comincia così: 2, 3, 5, 7, 11, 13, 17, 19…
26
E, anche dopo averle lee, non è affao semplice…
27
Il paragrafo successivo del libro suona così. “L’unificazione suscitò anche una disputa
linguistica. Vari matematici del tempo presero a rivendicare, per la loro disciplina, l’uso del
singolare. Non dite più ‘le matematiche’, dite ‘la matematica’! E sono molti, ancora oggi, i
ricercatori favorevoli all’uso del singolare. Tuavia le abitudini sono dure a morire, e la lingua
d’uso, non sembra, per il momento, propensa all’abbandono del plurale”. Tuo deriva dal fao che,
in francese, il nostro “la matematica” ha il suo equivalente in un pluralia tantum, “les
mathématiques” (o “les maths”, come nel titolo originale del libro), sulla scia della convenzione qui
enunciata dall’autore (“mathématique” è solo aggeivo). Nel corso del testo si è tradoo il termine
con il plurale “le matematiche” solo quando il riferimento interessava matematiche particolari,
specifiche di una singola soocategoria. (N.d.T.)
28
Lo zero al centro, i numeri negativi sulla sinistra e i positivi sulla destra.
Epilogo

Eccoci alla fine della nostra storia.


antomeno alla fine della porzione di storia che mi è consentito
traare scrivendo questo libro all’inizio del XXI secolo. E poi? È chiaro che
non è finita qui.
È una condizione che dobbiamo acceare, quando facciamo della
scienza: più sappiamo su un argomento, più misuriamo l’ampiezza della
nostra ignoranza. Ogni risposta trovata solleva dieci nuove domande. Una
partita senza fine, sfiancante ed esaltante al tempo stesso. Va deo che, se
si riuscisse a sapere tuo, la gioia che ne deriverebbe sarebbe
immediatamente oscurata dalla disperazione ben maggiore di non aver più
nulla da scoprire. Ma evitiamo di meerci paura. Per fortuna, la
matematica che ci resta ancora da conoscere è ben più sostanziosa di
quella a noi nota.
Come sarà la matematica del futuro? È un interrogativo che dà le
vertigini. Spingersi fino al confine delle nostre conoscenze e geare lo
sguardo sulla distesa di ciò che non conosciamo ci sgomenta! Per chi ha
gustato una volta il sapore inebriante delle nuove scoperte, il richiamo
delle terre sconosciute è sicuramente più forte del benessere dei territori
conquistati. La matematica è affascinante proprio quando non è ancora
alla nostra portata! E che ebbrezza osservare, in una sfocata lontananza, le
idee selvagge correre libere nell’infinita savana della nostra ignoranza.
elle che intuiamo sublimi, e il cui mistero solletica deliziosamente la
nostra immaginazione. Alcune sembrano talmente vicine da illuderci che
basti tendere la mano per poterle sfiorare. Altre appaiono così remote che
occorreranno generazioni per avvicinarle. Nessuno sa che cosa
scopriranno i matematici e le matematiche dei secoli a venire, ma c’è da
scommeere che non mancheranno le sorprese.
Maggio 2016. Sto passeggiando tra gli stand del Salon Culture & Jeux
Mathématiques, che si tiene ogni anno in Place Saint-Sulpice, nel VI
Arrondissement di Parigi. È un posto che mi piace in modo particolare. Ci
sono dei maghi che, manipolando le carte, ci fanno intuire che il trucco
discende da una proprietà aritmetica. Ci sono scultori che modellano nella
pietra struure geometriche ispirate ai solidi di Platone. Ci sono anche
inventori i cui meccanismi in legno danno vita a strane macchine
calcolatrici. Un po’ più in là, incontro persone intente a calcolare il raggio
della Terra riproducendo l’esperienza di Eratostene. Alla fine intravedo lo
stand degli origami, quello degli appassionati di rompicapi e quello dei
calligrafi. Soo un tendone sta andando in scena una pièce teatrale che
mescola matematica e astronomia. Accompagnata da grandi scoppi
d’ilarità.
Tue queste persone fanno matematica. Tue queste persone
inventano matematica, ciascuna a suo modo! Il giocoliere utilizza, per il
suo numero, figure geometriche che nessun altro grande scienziato
giudicherebbe degne d’interesse. E che invece, per lui, sono belle. E non
solo per lui. Perché le palle che fa volteggiare nell’aria fanno brillare gli
occhi dei passanti.
Credo che il tuo trasmea una gioia ancora superiore a quella delle
grandi scoperte dei maggiori sapienti. Nella matematica, anche la più
semplice, sussiste infai una fonte inesauribile di stupore e di meraviglia.
Tra i visitatori del salone, ci sono molti genitori che vengono qui
soprauo per i loro bambini e che, a poco a poco, si lasciano coinvolgere
anch’essi nella dinamica del gioco. Non è mai troppo tardi. La matematica
dispone di un potenziale formidabile per diventare una disciplina festosa,
popolare. Non bisogna essere un geniale matematico per appassionarsi e
assaporare l’ebbrezza dell’esplorazione e delle scoperte.
Insomma, non occorre gran cosa per fare matematica. E se vi viene la
voglia di continuare quando avrete girato quest’ultima pagina, scoprirete
ben più di quanto vi ho raccontato io. Potrete tracciare personalmente il
vostro itinerario, sviluppare i vostri gusti e assecondare i vostri interessi.
Per farlo, basta un pizzico di coraggio, una buona dose di curiosità e un
po’ d’immaginazione.
Per approfondire

Per continuare nella vostra esplorazione della matematica, ecco alcuni


consigli che potrebbero esservi utili.

Musei ed eventi

Il dipartimento di matematica del Palais de la Découverte a Parigi


(hp://www.palais-decouverte.fr) propone animazioni, mostre e laboratori
per il grande pubblico. Se ci passate, non mancate di fare un giro nella
famosa sala π! Sempre a Parigi, la Cité des sciences et de l’industrie
(hp://www.cite-sciences.fr) comprende anche uno spazio dedicato alla
matematica.
Di portata più modesta, troviamo: la Maison des mathématiques et de
l’informatique (hp://www.mmi-lyon.fr) a Lione; l’associazione Fermat
Science (hp://www.fermat-science.com) a Beaumont-de-Lomagne, il
villaggio natale di Pierre de Fermat, vicino a Tolosa, che propone
animazioni; l’Exploradôme (hp://www.exploradome.fr) a Vitry-sur-Seine;
la Maison des maths (hp://www.2mn.be) a aregnon, in Belgio.
E se viaggiate, ci sono due musei dedicati esclusivamente alla
matematica: il Mathematikum (hp://www.mathematikum.de) a Gießen,
in Germania, e il MoMath (htps://momath.org) negli Stati Uniti, a New
York.
Si traa di musei molto interaivi, che privilegiano le aività manuali
ed esperienze di tui i tipi!
Alle struure permanenti vanno aggiunti eventi periodici, come il
Salon Culture & Jeux Mathématiques (www.cijm.org), organizzato ogni
anno a fine maggio a Parigi. La Fête de la Science
(hp://www.fetedelascience.fr), che si tiene in oobre, e la Semaine des
mathématiques, a marzo, patrocinano ogni anno, un po’ ovunque in
Francia, numerose iniziative. Nella Semaine des mathématiques cade
peraltro il 14 marzo, il “π Day”, la grande festa mondiale della matematica!

Libri

Esistono moltissime opere che traano la matematica a livelli diversi di


divulgazione e di specializzazione. E le poche consigliate qui di seguito
non sono certo esaustive.
Martin Gardner, titolare della rubrica matematica di Scientific American
dal 1956 al 1981, è un personaggio imprescindibile della matematica
ricreativa. Le sue raccolte di cronache e i suoi numerosi libri di magia o di
enigmistica matematica sono opere di riferimento del seore. Tra i
classici, si possono citare Yakov Perelman e il suo famoso Matematica
ricreativa o Raymond Smullyan con i suoi libri di logica, tipo Donna o
tigre? E altri indovinelli logici o al è il titolo di questo libro?
Tra gli autori più recenti, consigliamo i libri di Ian Stewart, come La
piccola boega delle curiosità matematiche del professor Stewart, Marcus du
Sautoy, come Il disordine perfeo. L’avventura di un matematico nei segreti
della simmetria, o Simon Singh, come Codici & segreti o La formula segreta
dei Simpson. Clifford A. Pickover, nel Libro della matematica: da Pitagora
alla 57esima dimensione, offre a sua volta un panorama cronologico e
illustrato delle gemme più favolose della storia della matematica.
Tra i francesi, citiamo in particolare Denis Guedj, autore di molti libri,
tra cui il famoso giallo storico-matematico Il teorema del pappagallo. Jean-
Paul Delahaye è un altro autore interessante: sono notevoli L’affascinante
numero pi greco e Stupefacenti numeri primi.
Di altro genere, Il teorema vivente di Cédric Villani offre, araverso il
racconto della nascita di un teorema, un serio approfondimento in merito
alla ricerca matematica di oggi.

Su Internet
Il sito “Image des mathématiques” (hps://images.math.cnrs.fr) propone
regolarmente articoli di divulgazione della ricerca auale redai da
matematici.
Da non perdere il blog “Choux romanesco, Vache qui rit et Intégrale
curviligne” (eljjdx.canalblog.com) di El Jj, i cui interventi sono
particolarmente gustosi.
I film Dimensions (hp://www.dimensions-math.org) e Chaos
(hp://www.chaos-math.org), prodoi da Jos Leys, Aurélien Alvarez e
Étienne Ghys, vi aiutano a entrare, grazie a magnifiche animazioni, nel
mondo della quarta dimensione e della teoria del caos.
Da alcuni anni, poi, si vanno moltiplicando le reti di divulgazione
scientifica, in particolare su YouTube. Per quanto riguarda la matematica,
si possono citare i video di El Jj, complementari al blog sopra citato,
nonché i canali “Science4All”, “La statistique expliquée à mon chat” o
“Passe-Science”.
Per scoprire di più, si tenga presente che la piaaforma Vidéosciences
(hp://videosciences.cafe-sciences.org) raccoglie più di un centinaio di
canali e copre così tui i campi scientifici.
In inglese, citiamo tra gli altri la rete “Numberphile” o i video di Vihart.
Potrete inoltre cercare videoconferenze aperte al grande pubblico
condoe da ricercatori in matematica. Tra i più brillanti in questo genere
di esercizio vi sono Étienne Ghys, Tadashi Tokieda o ancora Cédric
Villani.
Bibliografia

Ecco una bibliografia dei principali documenti che mi hanno


accompagnato durante la stesura del libro. Aenzione: alcuni possono
anche risultare molto tecnici. La lista segue l’ordine alfabetico degli
autori.29

Legenda
Epoca
A: Antichità
M: Medioevo
R: Rinascimento
E: Epoche moderna e contemporanea

Tema
G: Geometria
N: Numeri/Algebra
P: Analisi/Probabilità
L: Logica
S: Altre scienze

[EP] M.G. AGNESI, Traités élémentaires de calcul différentiel et de calcul


intégral, Il giardino di Archimede, Firenze 2001 (riproduzione
dell’edizione Jombert, Paris 1775).
D.J. ALBERS, G.L. ALEXANDERSON, C. REID, International Mathematical
Congresses: an illustrated history: 1893-1986, Springer-Verlag, New York
1987.
[AG] ARCHIMEDE, Metodo: nel laboratorio del genio, a cura di F. Acerbi, C.
Fontanari e M. Guardini, Bollati Boringhieri, Torino 2013.
[AL] ARISTOTELE, La fisica, a cura di R. Radice, Bompiani, Milano 2011
(testo greco a fronte).
[EP] S. BANACH, A. TARSKI, Sur la décomposition des ensembles de points en
parties respectivement congruentes, Fundamenta Mathematicae, 1924.
[E] B. BELHOSTE, Paris savant, Armand Colin, Paris 2011.
[EP] J. BERNOULLI, L’art de conjecturer, Imprimerie G. Le Roy, Caen 1801.
[G] J.-L. BRAHEM, Histoires de géomètres et de géométrie, Le Pommier, Paris
2011.
[MN] H. BRAVO-ALFARO, “Le Mayas: un lien entre Mathématiques et
astronomie”, in Maths express au carrefour des cultures, éd. par M.
Moyon, M.-J. Pestel et M. Janvier, CIJM, Paris 2014.
[N] F. CAJORI, A History of mathematical notations, La Salle: e open court
publishing company, Chicago 1928.
[RN] G. CARDANO, e great art or the rules of algebra, e Mit press,
Cambridge (MA) and London 1968.
[RN] L. CHARBONNEAU, Il y a 400 ans mourait sieur François Viète, seigneur
de la Bigotière, in “Bulletin AMQ”, 2003.
[AG] K. CHEMLA, G. SHUCHUN, Les neuf chapitres: le classique mathématique
de la Chine ancienne et ses commentaires, Dunod, Paris 2004.
[AG] K. CHEMLA, “Matematica e cultura nella Cina antica”, in La
matematica, vol. 1, a cura di C. Bartocci e P. Odifreddi, Einaudi, Torino
2007.
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Philosophical Society, Philadelphia, 1989.
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UNIVERSITY, Mathematics Genealogy Project, 2014.
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Congress of Mathematicians-A Human Endeavor, CRC Press, 2009.
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2004.
A. DELEDICQ et al., La longue histoire des nombres, ACL – Les éd. du
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[AG] A. DELEDICQ, F. CASIRO, Pythagore & alès, ACL – Les éd. du
Kangourou, Paris 2009.
A. DELEDICQ, J.-C. DELEDICQ, F. CASIRO, Le maths & la plume, ACL – Les éd.
du Kangourou, Paris 1996.
[M] A. DJEBBAR, “Bagdad, un foyer scientifique au carrefour des cultures”,
in Maths express au carrefour des cultures, cit.
[M] A. DJEBBAR, Les Mathématiques arabes. L’âge d’or des sciences arabes,
Actes Sud – Institut du Monde arabe, Paris 2005.
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Ancora,
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1991 (testo greco a fronte).
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Paris 1996.
B. HAUCHECORNE, Les mots et les maths, Ellipses, Paris 2003.
[E] D. HILBERT, Sur les problèmes futurs des mathématiques – Les 23
problèmes, Jacques Gabay, Paris 1990.
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[AN] J. HØYRUP, L’algèbre au temps de Babylone, Vuibert, ADAPT-SNES, Paris
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Sono stati aggiunti un paio di titoli italiani di autori citati e streamente ainenti. (N.d.T.)

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