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Dunque, pare che alle anime viventi possano toccare due sorti: c’è chi nasce ape e chi

nasce
rosa. Che fa lo sciame delle api con la sua regina? Va, e ruba a tutte le rose un poco di miele, per
portarselo nell’arnia, nelle sue stanzette. E la rosa? La rosa l’ha in se stessa; non le serve cercarla
altrove. Ma qualche volta sospirano di solitudine, le rose, questi esseri divini! Le rose ignoranti non
capiscono i propri misteri.
La prima di tutte le rose è Dio.
Fra le due: la rosa e l’ape, secondo me, la più fortunata è l’ape. E l’Ape Regina, poi, ha una
fortuna sovrana! Io, per esempio, sono nato Ape Regina. E tu, Wilhelm? Secondo me, tu, Wilhelm
mio, sei nato col destino più dolce e col destino più amaro: tu sei l’ape e sei la rosa.
(Elsa Morante, L'isola di Arturo)

Vi sono identità racchiuse in se stesse: esse trovano al loro interno tutto ciò di cui hanno
bisogno per vivere. Una sola lingua, la religione professata dai loro padri, appresa nella cerchia
familiare, costumi ereditati dal passato, ancora mantenuti - le rose vivono ben piantate in terra,
crescono e muoiono nel luogo in cui fu posto il seme da cui ebbero origine. Ma il loro destino è
misero e triste: esse non conoscono la gioia del mettersi in cammino alla ricerca del nuovo, gli
spazi aperti in cui si muovono altre creature, l’allegria di vincere il greve e inerte in un libero
movimento.
Anche quando sono nella loro fioritura, esse si lasciano solo contemplare dagli altri come alcunché
di bello e interessante, ma di particolare; non comunicano ciò che potrebbe essere significativo
anche per altri; la tradizione domina l’esperienza di ogni generazione, e non sempre vi sono eredi
che riproducano tale esperienza, in balia delle intemperie.
Vi sono identità che, al contrario, amano volare di fiore in fiore cogliendo da ognuno il succo che
poi elaborano in un processo rapido per produrre ciò che reca la stessa impronta e profumo
dell'elemento originario: le api offrono al mondo, di volta in volta solo fuggevolmente trasformato,
ciò che traggono dal mondo nella loro danza. Esse non hanno nulla da dare di proprio, nulla che
venga alla luce a partire dalla loro propria interna struttura organica. Queste identità vivono, senza
alcun legame che le appesantisca, nell’aria e nella luce. Esse non conoscono il dolore del lavoro in
cui si è profondamente coinvolti, cui si partecipa impegnando le proprie più intime forze. Identità
che non possiedono infine alcuna identità e perciò disorientante: prive infine di una lingua che sia
espressione della loro propria interiorità, di una loro cultura, divenuta veramente parte del loro
essere, di una loro religione, vissuta con convinzione, perché esposte a una esteriorità cui non
contrappongono alcun raccoglimento in sé, alcuno sforzo di riflessione.
Ma vi sono anche identità più complesse: la loro natura doppia di rosa e di ape le rende nello
stesso tempo amanti dell’uno e del molteplice, stabili e cangianti, aventi una loro propria fisionomia
e aperte al diverso. Un “io” che prova la sicurezza del poggiare su un terreno saldo e il senso di
avventura nell’inoltrarsi verso l’inesplorato, la felicità-infelicità sia dell’aver radici sia del vivere con
altri, condividendone esperienze. Un’identità, quest’ultima, che è inquieta, ma non debole.
(Irene Kajon, Identità di confine)

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