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Donatella Rizzati

La piccola erboristeria di
Montmartre

Copyright © Donatella Rizzati 2016


© 2016 Mondadori Libri S.p.A., Milano
Il libro
Esiste un rimedio per il mal d’amore?
Viola Consalvi, di professione naturopata, è impaziente di scoprirlo.
Nonostante abbia poco più di trent’anni, la vita ha già colpito duro con
lei, portandole via il marito. Così anche il suo lavoro in uno studio di
medicina olistica ha smesso di interessarla, e quando tutto sembra sul punto
di crollarle addosso capisce che la sola cosa da fare è tornare nella città che
anni prima l’ha resa felice: Parigi, dove ha frequentato la scuola di
naturopatia e dove, nascosto tra i tetti di Montmartre, c’è l’unico luogo in
cui si senta davvero al sicuro, l’erboristeria delle sorelle Fleuret-Bourry.
È in questo spazio magico, in cui il tempo sembra essersi fermato e le
emozioni sono accolte e coccolate, stretta nell’abbraccio della saggia e
materna Gisèle, che Viola comincia la sua nuova vita. In un curioso bistrot
incontra il giovane Romain, un barista sbruffone e misterioso che, tra
continui battibecchi e rappacificazioni, farà di tutto per portare al disgelo il
cuore di Viola.
Quando Gisèle chiede alla sua giovane collaboratrice di aiutarla a
rilanciare il negozio, Viola ha un’intuizione geniale: offrire consulenze di
iridologia, una disciplina antichissima e praticata dal suo ex marito, che,
partendo dallo studio fisiologico degli occhi, indaga a fondo nell’individuo
fino a svelarne la personalità.
Così, sforzandosi di guardare gli altri, la timida e impacciata protagonista
di questo romanzo riuscirà finalmente a far luce dentro se stessa e – tra
tisane, cosmetici naturali, impacchi per massaggi utili a sprigionare
l’energia vitale, rimedi a base di Fiori di Bach e oli essenziali – si
avvicinerà sempre più alle risposte che cercava.
L’amore è ancora possibile? Cosa nasconde Romain? È lui la persona
giusta?
Al suo esordio narrativo, Donatella Rizzati ha scritto una storia calda e
dolce come una tisana, sapiente e rigenerante come un massaggio; una
storia di donne che trovano il coraggio di dare ascolto ai sentimenti più
autentici e di ricominciare da capo, con slancio e fiducia.
L’autrice
Donatella Rizzati è nata a Roma nel 1973. Laureata in lingue e
letterature straniere, è traduttrice di narrativa in lingua inglese e francese.
Questo è il suo primo romanzo.
A Giò
Sempre e per sempre con me
PARTE PRIMA
PROLOGO
Parigi, novembre 2004
La salita di rue Lepic era faticosa. Il cielo plumbeo e gonfio di nuvole
non prometteva niente di buono. La strada, di solito animata e piena di
turisti, macchine e passanti frettolosi, era insolitamente tranquilla. Faceva
molto freddo, lo sentivo penetrare attraverso gli anfibi e la calzamaglia che
portavo sotto i pantaloni. Mi strinsi nella pesante mantella di lana grezza e
mi tirai il cappuccio sul viso, grata per quel tepore. Passai davanti al Café
des Deux Moulins, un bar d’angolo senza pretese d’eleganza (a parte gli
esterni di uno sgargiante rosso cardinale), famoso per essere stato la
location di un film di grande successo, e per questo sempre affollato di
turisti e curiosi. Io preferivo altri locali, meno alla moda ma più abbordabili,
almeno per una studentessa fuori sede come me. Quel giorno ero uscita con
uno scopo preciso, trovare i capolini di fiori di calendula essiccati necessari
per la preparazione dell’oleolito, compito previsto per il laboratorio di
erboristeria della mattina seguente. Avevo iniziato la scuola di naturopatia
da poco, piena di entusiasmo e aspettativa, conscia che ogni progresso mi
avrebbe allontanata sempre di più dal mondo che volevo lasciarmi alle
spalle, quello di mio padre e della sua medicina tradizionale, asettica e
meccanica. Fra tutte, erboristeria era la mia materia preferita. Amavo
studiare le virtù terapeutiche delle piante officinali ed ero sempre
impaziente di mettere in pratica quello che mi veniva insegnato.
Trovare i fiori di calendula non era un’impresa impossibile, ma quel
giorno, preda di un umore cupo e di pensieri poco allegri sulla mia famiglia
e sul mio volontario allontanamento, l’avevo presa come scusa per fare una
passeggiata risalendo la collina di Montmartre. Di solito, vagabondare per
quelle strade strette fiancheggiate da edifici che sembravano una palette di
tutte le tonalità del bianco, con le loro ringhiere liberty, mi dava un senso di
serenità, ma quel pomeriggio non riuscivo a trovare alcun sollievo. In cima
a rue Lepic, girai nella prima traversa che vidi sulla destra e la percorsi
gettando un occhio distratto alle vetrine che mi scorrevano accanto, finché
una di queste non catturò la mia attenzione.
Era una bottega dall’aria antica, stretta fra una moderna boutique tutta
luci al neon e un elegante negozio di tessuti d’arredo. Appariva fuori posto,
come il frammento di un tempo ormai trascorso catapultato suo malgrado su
una strada del ventunesimo secolo e rimasto lì, perplesso. Era diversa dalle
altre erboristerie che avevo visitato fino a quel momento, tutte con le
vetrine traboccanti di confezioni di shampoo, creme, teiere e candele
profumate. Questa no, la sua unica vetrina, ampia, incorniciata di legno
color malva décapé, conteneva un magnifico erbario miniato, probabilmente
medioevale, aperto sopra un leggio e illuminato da una luce morbida,
animata da un delicatissimo pulviscolo dorato. Le pagine erano grinzose,
piene di illustrazioni di piante e fitte di una scrittura appuntita, pressoché
illeggibile. L’insegna del negozio diceva soltanto: FAMILLE FLEURET-
BOURRY. DEPUIS 1895.
A volte mi chiedo se la realtà esista al di fuori di noi, oppure se sia
soltanto un riflesso delle nostre paure e dei nostri desideri inconfessati. Non
ho una risposta, ma so che quella vetrina magica, che forse in un momento
di maggiore serenità non avrei notato, si materializzò al mio fianco e agì su
di me come un richiamo strappandomi alla tetraggine che mi pesava sul
cuore. Non potei fare a meno di entrare. Non appena vi misi piede, la Parigi
da cui provenivo scomparve ed ebbi la sensazione di varcare la soglia di
un’epoca antica. Mi tornò in mente una pagina del Decameron di Boccaccio
letta a scuola pochi giorni prima:
“... le lor celle piene d’alberelli di lattovari e d’unguenti colmi, di scatole
di varii confetti piene, d’ampolle e di guastadette con acque lavorate e con
oli...”
Ecco, più che un’erboristeria era la bottega di uno speziale. Al contrario
di quanto suggeriva l’esterno, il negozio si rivelò sorprendentemente
spazioso. Nell’aria aleggiava, delicato, un sentore che avvolse le mie narici
per poi scomporsi in un caleidoscopio di fragranze in cui riconobbi fiori,
cortecce, scorze, spezie. Effluvi insinuanti che agirono su di me come un
balsamo e mi spogliarono quasi per magia di tutte le preoccupazioni. Le
pareti erano ricoperte fino al soffitto da una sobria scaffalatura di noce
levigato. Il pregiato legno scuro (lo avevo riconosciuto perché mia madre
nutriva una passione smodata per il noce, soprattutto per una certa scrivania
che mi aveva piazzato in camera e che io avevo provveduto a decorare
senza scrupoli con adesivi colorati e collage di fiori essiccati...) era tagliato
in forme squadrate, prive di grazia, ma le eleganti nervature che lo
intarsiavano formavano arabeschi e geometrie che sembravano usciti dallo
scalpello di un ebanista. Su ogni fila di mensole, classificati in ordine
alfabetico, erano allineati vasi, orci, barattoli di vetro e ceramica, sacchetti
di juta contenenti semi, fiori essiccati e foglie di piante che non avevo mai
sentito nominare. Cardamine, cariofillata, carpino, centonchio... ed era solo
l’inizio della fila con la lettera C.
Era stupefacente.
Dopo aver passato in rassegna le pareti, il soffitto con le travi a vista, il
pavimento a piastrelle di calcare bianco e ocra e le svariate ceste traboccanti
di merci sparse un po’ alla rinfusa in tutto il negozio, il mio sguardo si posò,
finalmente, sulla persona che si trovava dietro il bancone e che per tutto il
tempo era rimasta a guardarmi, paziente e cortese, senza distogliermi dalla
mia minuziosa esplorazione.
Incrociai i suoi occhi e per un attimo mi smarrii... Sembravano possedere
una saggezza atavica, una luce d’intelligenza e serenità ravvivata da un
bagliore birichino.
Era una donna non più giovane, certamente aveva passato i sessanta,
almeno a giudicare dai capelli grigi e lisci, tagliati appena sotto i lobi delle
orecchie. Piuttosto snella e di statura media, aveva un viso appuntito, dalla
carnagione chiara e illuminato da quei grandi occhi celesti e
sorprendentemente limpidi su cui continuavo a indugiare.
La signora mi osservò ancora per un istante, poi sorrise. «Buongiorno,
posso aiutarla?»
Per un attimo fui tentata di sfogarmi su di lei. “Oh, sì che può” avrei
voluto urlare, “ce l’ha un rimedio contro i fallimenti? E una tisana che
scacci il dispiacere di un abbandono? O un decotto che guarisca dalla paura
di non essere mai più amati? Esiste al mondo una sola, maledetta erba che
mi faccia sentire giusta, anche solo per cinque minuti?”. Mi morsi la lingua
per evitare di fare una scenata di fronte a quella donna tanto gentile quanto
ignara.
Ma la signora doveva possedere un sesto senso perché mi avvolse con lo
sguardo e disse: «Non ho il dono di cambiare il corso della vita, ma per la
pesantezza dell’anima qualcosa posso trovare. Lei non mi sembra francese.
Mi sbaglio?».
Non risposi subito, meravigliata dalla sua perspicacia. Improvvisamente
mi venne voglia di parlare con quella sconosciuta. Forse perché la
malinconia era durata troppo a lungo, forse perché non avevo nessuno con
cui confidarmi e forse perché quella donna dall’aria così accogliente e
materna mi trasmise un senso di calore che non provavo da moltissimo
tempo.
Scoppiai a piangere.
Un fiume di lacrime, infinito, senza prendere fiato. Piansi per i silenzi
astiosi di mio padre e per la bambina smarrita che era dentro di me, a cui
sarebbe bastato un abbraccio per sentirsi al sicuro.
La signora mi lasciò sfogare senza parlare. Quando mi ripresi, uscì da
dietro il bancone, mi porse un fazzoletto di carta e mi accarezzò una
guancia, sorridendomi dolcemente. «Non può essere niente di così terribile,
ne sono certa. Ti va di parlare un po’?» mi disse con un tono confidenziale
che mi fece sentire subito meglio.
Mi sentii libera. Libera finalmente di essere me stessa, con una perfetta
estranea.
L’estranea si chiamava Gisèle, scoprii, era sposata, aveva due figli e tre
nipoti e due sorelle minori con cui condivideva la gestione del negozio.
Anche se in realtà da molti anni erano soltanto lei e sua sorella Sabine che
se ne occupavano, dato che Yvette, la più piccola, aveva sposato un
ingegnere italiano e lo aveva seguito in giro per il mondo, stabilendosi
infine a Roma. Venni anche a sapere che la famiglia di Gisèle si occupava
di erbe officinali e medicinali da più di cento anni. Non ero andata molto
lontana dalla verità, quando avevo pensato che il negozio mi ricordava la
bottega di uno speziale: il trisavolo di Gisèle esercitava la professione
medica, coltivando uno spiccato interesse per le proprietà curative delle
erbe. Con il passare delle generazioni, anche la passione familiare per
l’erboristeria era cresciuta e si era trasformata in un vero e proprio mestiere
con l’apertura di un primo negozio a Parigi, all’inizio del Novecento, dove
si vendevano rimedi naturali estratti dalle piante. Il negozio era
sopravvissuto persino all’uragano delle due guerre mondiali, e il suo aspetto
era cambiato ben poco, a parte i necessari ammodernamenti.
Gisèle mi raccontò la sua storia dopo avermi offerto una tisana calmante
di tiglio e melissa arricchita da una punta di zenzero, «Per scacciare il gelo»
disse.
«Purtroppo sembra che il negozio finirà con me e le mie sorelle» sospirò,
a un certo punto, avvicinando la tazza alle labbra.
«Perché?» le domandai.
«Perché i miei figli e nipoti non sono interessati a portare avanti la
tradizione di famiglia. Mia figlia Mélusine fa l’avvocato e mio figlio
Florian è andato a lavorare sulle piattaforme petrolifere. I loro figli sono
ancora giovani, ma su un punto hanno già le idee chiare: vogliono fare
soldi, e con l’erboristeria di soldi se ne vedono pochi.»
Quella frase mi rattristò. Non avevo fatto in tempo a scoprire
quell’angolo delizioso che già sentivo incombere la minaccia della sua
scomparsa. Gisèle si accorse della mia espressione delusa perché aggiunse
con un sorriso: «Ma non è un problema che si presenterà nell’immediato, io
e le mie sorelle non abbiamo intenzione di abbandonare l’impresa. Anzi,
Yvette tornerà a casa per Natale, se vorrai unirti a noi te la presenterò, sono
sicura che ti piacerà.»
Per la prima volta dopo tanto tempo mi sentii a casa.
D’un tratto avevo scoperto un luogo dal quale non sarei mai voluta
andare via.
1
Ero tornata a Roma quasi su due piedi, dopo tre anni a Parigi, passati
studiando alla scuola di naturopatia.
Potrei dire di essere rientrata a casa perché ormai avevo preso il diploma
e avrei potuto aprire uno studio tutto mio. Era una decisione già presa. Ma
forse il diploma c’entrava poco o niente. In fondo, chi mi costringeva a
tornare? Non avevo legami, in tre anni la mia famiglia non si era mai fatta
viva, sicuramente non mi aveva perdonata per la fuga e tutto ciò che ne era
seguito, quindi non avevo un vero motivo per tornare. Ma il problema era
proprio questo. Improvvisamente la vita che conducevo a Parigi mi era
parsa un sogno da cui prima o poi mi sarei svegliata. Non sarebbe potuta
continuare così per sempre. Sentivo che le mie radici erano da un’altra
parte.
Non fu facile, il rientro. Faticai a trovare un lavoro, ma alla fine ci riuscii:
entrai in uno studio importante e cominciai a esercitare la professione. Il
rapporto con i pazienti era una continua fonte di soddisfazioni. Indicare le
vie della guarigione agli altri serviva a me per aumentare la mia sicurezza e
lasciarmi alle spalle la persona problematica che ero stata per troppi anni.
Ma soprattutto trovai qualcosa di ancora più importante e più grande,
qualcosa che riempì la mia vita di luce e calore. Michel, mio marito, il mio
primo amore, oltre che maestro e amico. Con lui il mio cuore si è aperto
senza difese, semplicemente. Per sei anni ho vissuto in un guscio dorato di
felicità e appagamento, non mi mancava niente e ogni giorno ringraziavo il
momento in cui avevo deciso di lasciare Parigi. Ma evidentemente la mia
stabilità non era destinata a durare perché all’improvviso, nel giro di pochi
mesi, un destino inesorabile mi ha strappato Michel e insieme a lui tutto il
mio mondo. Mi sono ritrovata sola e vuota, senza più un senso.
D’un tratto il mio isolamento autoindotto mi è comparso davanti agli
occhi in tutta la sua violenta concretezza. Durante l’ultimo anno non ho
fatto altro che erigere muri, figurati e reali. Ripenso alla casa romana che ho
condiviso con Michel, alle porte chiuse e mai riaperte dopo la sua
scomparsa. La camera da letto, lo studio, il ripostiglio che avevamo adibito
a piccola biblioteca. Porte, serrature, pareti che hanno a poco a poco
definito e ridotto ai minimi termini il mio spazio vitale. Ho smistato tutti i
miei oggetti personali fra il salotto e la cucina in una sorta di bivacco in
divenire senza capo né coda. Una lunga scia di cose il cui ruolo principale
era quello di creare ostacoli e volumi che mi impedissero di percepire la
crudeltà dell’assenza e il suo vuoto angoscioso. Ma non si è trattato soltanto
di rintanarsi fisicamente. Ho smesso di rispondere al telefono e, in seguito,
persino al citofono. I primi tempi, subito dopo il fatto di Michel, molte
persone sono venute a trovarmi, i colleghi dello studio che lo piangevano
quasi quanto me, le mie vecchie amiche di scuola pronte a offrirmi
conforto. Ho ricevuto talmente tante manifestazioni di tenerezza che alla
fine non sono più riuscita a tollerarle. Ogni sguardo, ogni parola, ogni
carezza sono diventati soverchianti e chiunque tentasse di distogliermi dalla
disperazione si è trasformato in un nemico. Volevo soffrire, avevo bisogno
di provare dolore per non lasciare spazio al senso di colpa che sarebbe stato
ancora più lacerante. A poco a poco ho ottenuto quello che volevo, e il mio
telefono ha smesso di squillare. Soltanto Yvette, la sorella di Gisèle – la
proprietaria dell’erboristeria che nei tre anni trascorsi a Parigi era diventata
la mia seconda casa –, non si è data per vinta e ha continuato a bussare
senza invito alla mia porta, che spesso è rimasta chiusa mentre io, muta,
ascoltavo i suoi passi sconfitti che si allontanavano.
In questo deserto affettivo, la partenza improvvisa per la Francia è stato
un atto quasi naturale. È accaduto una mattina come tante, mentre sedevo al
tavolo della cucina, davanti al caffè, pronta ad affrontare l’ennesima
giornata senza scopo. Ho acceso la televisione per non sentire il silenzio e, a
un certo punto, sullo schermo è comparsa una distesa di sabbia bianca,
lambita dalle onde più celesti e indolenti che avessi mai visto. Questione di
un attimo ritornare col pensiero agli occhi di colei che di quel colore e di
quella quiete era portatrice. Dentro di me la nostalgia è salita come la marea
e, insieme alle lacrime, è arrivata anche la risposta, come una mano tesa.
Volevo tornare a immergermi in quelle acque serene.
Volevo tornare da Gisèle.
A casa.
Ecco perché adesso, a trentadue anni, mi ritrovo qui, davanti alla vetrina
incorniciata color malva, indecisa se bussare alla porta oppure tornare in
albergo e provare a telefonare per avvertire Gisèle del mio arrivo. La
lampada a stelo è ancora al suo posto, china sopra l’erbario, in attesa che
qualcuno l’accenda, ma la porta socchiusa mi dice che dentro dev’esserci
qualcuno. Forse Gisèle o Sabine sono nel retro a riordinare il magazzino, o
a farsi una tisana prima di aprire il negozio. È strano essere di nuovo qui, i
ricordi si affollano nella mia mente e non mi danno il tempo di pensare con
lucidità. Alla fine mi decido e spingo la porta per entrare. Il profumo,
quell’aroma dolce e penetrante che non ho mai dimenticato, mi avvolge
quasi con affetto non appena metto piede nel negozio. Resto ferma al mio
posto e mi lascio permeare dagli effluvi. Allungo un braccio e faccio
scorrere lentamente la mano sul legno scuro e liscio dello scaffale più
vicino. Come in un film, mi rivedo appollaiata in cima alla scala intenta a
spolverare con cura barattoli e sacchetti mentre compilo le schede relative a
ogni erba. E penso a quella volta che Sabine arrivò con una scatola enorme
di rose di Damasco e mi incaricò di staccare tutti i petali e metterli a
macerare per preparare l’acqua di bellezza che porta il loro nome. Sotto la
mia pelle fluiscono immagini di un passato molto amato, tanto più caro al
mio cuore adesso che, come una linfa preziosa, spero di trarne la forza che
sto cercando da tempo. Quasi ogni cosa, qui dentro, è legata a me. Faccio
qualche passo cauto nella penombra, accarezzando con lo sguardo lo spazio
familiare che mi circonda, ma prendo male le misure perché urto una
scatola di cartone su una mensola bassa e la faccio cadere. Immediatamente,
dal retro, una voce trafelata: «Arrivo, un momento solo!». E subito dopo,
dai recessi del negozio emerge una figura femminile. I capelli sono ancora
tagliati appena sotto i lobi delle orecchie, forse solo un po’ più grigi, il viso
appuntito rivela l’accenno di un sorriso mentre gli occhi celesti scrutano il
negozio per capire chi sia entrato. Prima di posarsi su di me.
Pochi secondi.
Si ferma di colpo, la bocca semiaperta, gli occhi sgranati. Poi una parola
che è quasi un sussurro: «Chérie...».
E un attimo dopo sono stretta fra le braccia di Gisèle. Rimaniamo così,
avvinte l’una all’altra per un tempo indefinito prima che una di noi due si
decida a staccarsi. Mi ritraggo e con gli occhi velati di lacrime osservo la
mia amica. Sono passati alcuni anni, eppure il suo viso non sembra sentirne
il peso, a differenza del mio, dove il dolore ha scavato dei solchi intorno
agli occhi e alla bocca. Gisèle mi accarezza la fronte scostandomi i capelli e
lasciando indugiare la mano, per un istante, sopra la mia guancia, poi mi
solleva delicatamente il viso e il suo sguardo si incatena al mio. Una
sensazione di pace, a poco a poco, sale dentro di me. È quel colore, quei
due laghi cristallini come il mare dei caraibi, che mi ha riportato qui.
«È bello vederti, petite. Vieni, prepariamo una bella tisana, così mi
racconti tutto.»
Adorabile Gisèle. Sembra che invece di anni siano passati a malapena
pochi giorni. Ma in realtà non c’è bisogno di raccontarle quasi niente,
Yvette l’ha sempre tenuta al corrente di tutto quello che mi accadeva.
Anch’io le avevo sempre scritto, ma dopo il fatto di Michel avevo smesso.
Il dolore mi aveva come paralizzata, aveva prosciugato qualsiasi impulso
vitale trasformandomi in una pianta rinsecchita. Restavo in piedi solo per
inerzia.
La seguo nel retrobottega e mi siedo su uno degli sgabelli. Mi accorgo
che a poco a poco la tensione che mi irrigidiva le spalle sta scomparendo. Il
locale piccolo e tiepido mi accoglie al suo interno come un bozzolo
protettivo e io mi lascio cullare dal suo silenzio, interrotto soltanto dai
movimenti lievi e precisi di Gisèle che mette il bollitore sul fuoco e riempie
i filtri delle due tisaniere di porcellana rosa con una miscela di fiori, semi e
foglie essiccate. Melissa per l’ansia che azzanna lo stomaco, tiglio per
preparare al sonno, biancospino per i dolori del cuore...
Le parole di Gisèle affiorano dagli angoli della memoria. Quante volte mi
ha preparato lo stesso rimedio? Dal primo momento in cui sono entrata nel
negozio e nella vita delle sorelle Fleuret-Bourry ci sono sempre stati per me
una parola giusta, un gesto affettuoso o un incoraggiamento che mi hanno
fatto dimenticare i miei guai restituendomi energia ed entusiasmo.
Gisèle versa l’acqua bollente nelle tazze e le chiude con i coperchi per
preservare l’aroma delle tisane. Fra pochi minuti saranno pronte. Si siede
accanto a me sullo sgabello, di fronte al piccolo tavolo quadrato, mi porge
la tazza e mi guarda negli occhi senza parlare. Chiudo le mani intorno alla
porcellana calda, prendo un respiro e, proprio quando sto per aprire bocca,
lei mi precede.
«Sono felice che tu sia tornata, chérie. Non sentirti in obbligo di darmi
spiegazioni. Non servono. Mi basta che tu sia qui e che abbia deciso di
tornare da noi. So quanto devi sentirti sola, ma sappi che puoi restare per
tutto il tempo che vorrai. E se ti andrà di parlare, io sarò qui per ascoltarti.»
Ma come accidenti fa questa donna a pronunciare sempre le parole giuste
al momento giusto? Mi dice quello che voglio sentire, mi riprende nella sua
vita senza chiedere niente in cambio, a me che un giorno me ne sono andata
quasi senza spiegazioni. Questa donna mi è stata accanto come nemmeno
mia madre è mai riuscita a fare, e lo sta facendo ancora. Mi alzo dallo
sgabello, giro intorno al tavolo e arrivo accanto a lei. L’abbraccio forte,
nascondo il viso nell’incavo della sua spalla.
«Ti voglio bene, Gisèle. Tanto.»
Finalmente sono tornata a casa.
TISANA RILASSANTE
Ingredienti: fiori di tiglio, foglie di melissa, foglie di passiflora, frutto
dell’anice stellato, radice di liquirizia, fiori di biancospino, scorze d’arancio
dolce.
Fai bollire tanta acqua da riempire una tazza piuttosto capiente. Spegni il
fuoco e aggiungi un cucchiaino di ogni pianta essiccata, quindi copri.
Attendi venti minuti, filtra la tisana con un passino a maglie fitte e bevila
preferibilmente al naturale o, se lo preferisci, dolcificata con un po’ di
miele.
La combinazione dei principi attivi delle piante in questa tisana fa sì che
l’infuso abbia un effetto rilassante quasi immediato. In particolare, tiglio e
melissa favoriscono il sonno e combattono gli stati ansiosi, mentre la
passiflora, con la sua azione calmante sulle contrazioni dello stomaco
dovute a nervosismo, distende le tensioni corporee e favorisce, di
conseguenza, un generale stato di serenità.
2
Apro gli occhi di colpo, ma è ancora buio, mi ci vuole qualche secondo
per ricordare che sono a Parigi, in una stanza d’albergo. Istintivamente
guardo il quadrante luminoso della sveglia sul comodino: le tre di notte. Ieri
sera sono crollata abbastanza presto, ho dormito un sonno profondo ma
senza sogni e poi, all’improvviso, mi sono svegliata. Appoggio la testa sul
cuscino, gli occhi rivolti al soffitto su cui comincio a distinguere ombre
confuse. Non voglio alzarmi, ma sento che l’ansia minaccia di prendere il
sopravvento e so perfettamente che non riuscirò più a prendere sonno.
Nell’oscurità di questa piccola stanza un senso di smarrimento
s’impossessa di me. Mi rigiro nel letto cercando di scacciare l’ansia e pulire
la mente ma non basta e, come sempre in questi momenti, l’immagine di
Michel prende forma nei miei pensieri e il dolore che ben conosco comincia
a pungermi il cuore.
Ricordo quella volta in cui discutemmo dell’iridologia. Lui ne era un
convinto sostenitore, mentre io ero scettica, avevo paura che potesse
portarmi troppo lontano. Alla fine mi ero lasciata convincere a farmi
fotografare l’iride.
“Gli occhi sono lo specchio dell’anima: da dove credi che venga questa
massima?”
Seduto alla scrivania del suo piccolo studio, Michel mi parlava
infervorato mettendomi davanti agli occhi lo schermo del pc con la
fotografia ingrandita della mia iride destra. “Lo studio delle iridi risale a
migliaia di anni fa. Hanno cominciato gli Egizi, hai presente il culto
dell’occhio di Horus? E anche la medicina cinese cercava nell’occhio i
sintomi di patologie che colpivano gli altri organi, persino la medicina
moderna lo esamina in funzione diagnostica, questo lo sai bene.”
Guardavo il mio occhio gigante, marrone scuro con una fitta trama
cromatica interrotta qua e là da macchie e venature violette.
Michel non era per niente scoraggiato dal mio silenzio.
“Ascoltami. Io vorrei soltanto che tu facessi un altro passo. L’iride è una
mappa. Contiene informazioni che risalgono persino a prima della nostra
nascita, memorie che condizionano le nostre risposte emotive. I suoi segni,
le macchie, le lacune possono aiutarci a ricostruire un problema irrisolto di
cui a volte nemmeno il paziente è consapevole e...”
“Senti, ho capito” lo interruppi. “So tutto dell’iridologia e della sua utilità
diagnostica per quanto riguarda l’ambito fisiologico, ma tu ti stai spingendo
troppo oltre!” Involontariamente alzai la voce e lui mi guardò stupito.
“Perché.” Non era una domanda, più che altro avvertii la sua incredulità
di fronte alla mia ostinata chiusura.
“Perché considerare l’occhio come una mappa emotiva è un’astrazione.
Dove sono i fondamenti pratici? E la casistica? Come puoi affermare con
sicurezza che il tuo punto di vista è corretto? Stiamo parlando di persone,
non è uno scherzo.”
“Non ti fidi di me” disse lentamente.
“No, non è questo, io...”
“Ascoltami” ripeté, il tono di nuovo appassionato. “Ho impiegato più di
vent’anni di studio per arrivare a questa teoria, ho esaminato migliaia di
casi e tutti hanno rafforzato le mie conclusioni. Ti chiedo soltanto di essere
meno rigida. Dammi una possibilità di dimostrarti che cosa intendo.”
Accennò con la testa alla foto in attesa e mi guardò con tale intensità che
non riuscii a dirgli di no.
“E va bene” cedetti. “Sentiamo.”
Lui mi sorrise, si alzò e mi fece sedere al suo posto. “Bene” mi disse
abbracciandomi da dietro le spalle. “Ora guarda: l’iride destra rappresenta
la linea paterna e il rapporto con il padre...”
A queste parole mi irrigidii. Non è uno dei miei argomenti preferiti.
Michel lo sentì e si strinse ancora di più a me, come per proteggermi,
proseguendo con la sua analisi. “Ecco, vedi, questa macchia...” Si
interruppe e restò a fissare la fotografia. Poi si scostò, io alzai gli occhi e gli
vidi sul viso un’espressione concentrata e perplessa che mi fece sorridere.
“Che cosa c’è?” chiesi.
“No, niente, è che... Accidenti, se non ti conoscessi penserei che mi hai
tenuto nascosto qualche segreto.”
“Ma di che parli?”
“È questa macchia”, indicò un punto nella parte bassa della mia iride, “si
trova in un’area piuttosto insolita, anzi, inverosimile, direi. So che con tuo
padre hai un pessimo rapporto ma questo è qualcosa di così inaspettato...”
“Michel, ti prego” lo fermai prima che andasse oltre, “non costringermi
ad affrontare il discorso. Lo sai che non mi piace parlare di mio padre.”
Lui si inginocchiò accanto a me e i nostri sguardi si incontrarono alla
stessa altezza. “Va bene, amore mio. Lasciamo stare questo argomento.
Ma...”, mi prese il viso fra le mani, “Sono affascinato da questi tuoi
magnifici occhi scuri, sento che potrebbero rivelarmi tanto su di te, se solo
tu mi lasciassi fare. Hai forse paura che possa scoprire qualcosa di
compromettente?”, mi chiese con un sorriso malizioso.
Quando faceva così, qualcosa si scioglieva dentro di me, ogni volta. Non
resistevo alle sue mani calde, a quegli occhi profondi che mi scrutavano
senza inibizioni.
Mi avvicinai sempre di più e lasciai che le palpebre scendessero solo per
un bacio lungo e dolcissimo. “Magari un’altra volta. Ora mi vengono in
mente tante altre cose più divertenti da fare. Che ne dici?”
Lui si alzò e mi strinse a sé. “Uhm, dico che sono curioso di conoscere i
tuoi piani. Per svelare i tuoi segreti avremo tempo” mormorò.
“Oh, sì” sussurrai, mentre mi prendeva fra le braccia con decisione e mi
portava con sé sui grandi cuscini orientali che hanno trasformato il suo
studio in un luogo magico e suggestivo. “Abbiamo tutta la vita davanti...”
Poi ci fu spazio solo per i nostri cuori e il nostro respiro.
Mi fermo, resto immobile sdraiata sulla schiena, mentre a poco a poco
cerco di ritrovare il mio centro. È tanto tempo ormai che non ci provo più,
ma c’è un modo per tentare di riportare serenità nel mio animo: fare appello
all’energia che è dentro di me, quella che è in contatto con il Reiki, la forza
vitale che regge l’universo. Giro le mani con i palmi rivolti in alto, chiudo
gli occhi e mi concentro sul mio respiro, finché l’unico suono percepibile
alle mie orecchie è quello dell’aria che entra ed esce dai miei polmoni.
Dopo pochi istanti, sento un formicolio nel palmo delle mani, i chakra sono
aperti e lascio che il flusso energetico scorra nel mio corpo. Appoggio le
mani esattamente sul cuore in corrispondenza del quarto chakra, quello
dell’amore e della sfera affettiva, e aspetto che l’energia guaritrice riporti
l’equilibrio.
A poco a poco il calore del ricordo mi quieta, sento il battito del cuore
rallentare fino a un ritmo regolare e una sensazione di serenità mi pervade,
irradiandosi dal petto a tutto il corpo. Rimango immobile e assaporo
un’emozione che non provavo da molto tempo. Mi abbandono alla
commozione e, quasi senza accorgermene, scivolo finalmente
nell’incoscienza di un sonno ristoratore.
Tre ore dopo sono in piedi, faccio una doccia veloce ed esco dalla stanza
evitando ancora una volta di guardarmi negli specchi di questo piccolo
albergo. Attraverso la reception e mi affaccio rapidamente alla sala da
pranzo apparecchiata per la colazione, ma la vista del buffet carico di
brioche, succhi, marmellate e ogni altro ben di Dio, non riesce a fare breccia
nel mio stomaco chiuso. È presto, sono soltanto le sette: l’appuntamento è
alle nove e mezzo, in negozio. Potrei sedermi e prendere almeno un caffè in
santa pace, ma non riesco a stare ferma troppo a lungo, ho una smania
addosso, quasi una febbre che mi costringe a uscire e camminare. L’aria del
mattino è dolce e tiepida, la città si sta svegliando velocemente, fra poco le
strade si riempiranno di fiumi di impiegati, studenti, turisti.
Mentre da rue Malher, nel Marais, mi dirigo verso Montmartre, non
posso fare a meno di provare un fremito d’eccitazione nel ripercorrere
queste strade. Ci vorrà almeno un’ora per arrivare, ma la distanza non mi
spaventa, anzi, mi darà modo di pensare.
Passo accanto a quell’aggressivo e scintillante parallelepipedo di vetro
intrappolato in un’armatura di tubi e scale che è il Centre Pompidou, con la
sua piazza che di sera è affollata da artisti di strada, turisti e ragazzi in libera
uscita. Ricordo la spensieratezza e l’allegria folle di quel periodo, ricordo le
canzoni di artisti francesi mai sentiti prima che diventarono subito la musica
del cuore, ricordo l’umidità tiepida delle sere estive sul lungosenna e i miei
amici chiassosi...
Strano.
L’unico ricordo che manca al mio collage è quello di un amore.
Finora non ci avevo mai riflettuto più di tanto. In effetti non è che abbia
alle spalle grandi avventure romantiche, né passioni travolgenti e disperate,
nessun colpo di testa. Insomma, la mia non aveva niente a che vedere con le
giovinezze inquiete, impudenti e rischiose di cui parlavano i tanti film e
libri che mi appassionavano da ragazzina. Avevo la sensazione di essere
stata assente il giorno in cui spiegavano “gestione delle emozioni e capacità
di godere del rapporto di coppia”. Niente da fare, le mie radici di ragazza
alto-borghese cozzavano irrimediabilmente con l’ostentazione libertaria di
tante mie amiche, e io invidiavo moltissimo Marie-Thérèse, la prima
ragazza con cui avevo condiviso l’appartamento e colei che mi aveva
iniziata al Reiki diventando la mia prima maestra: una campagnola
normanna, robusta e simpaticissima, che beveva impressionanti quantità di
vino e mi teneva sveglia fino a notte fonda con i racconti delle sue prodezze
erotiche in cui spesso oltre al protagonista maschile entrava in scena un
antagonista dello stesso sesso. Maïté, questo era il suo diminutivo, riusciva
a raccontare episodi che detti da un’altra persona sarebbero risultati turpi
con un’innocenza e un’allegria tali da far svanire qualsiasi pregiudizio. Era
una creatura solare e innamorata del sesso e, nonostante la stazza fuori del
comune, quando un uomo entrava nel suo campo visivo pareva assumere
movenze leggiadre di farfalla... Per non sembrare un’imbranata e intonarmi
al contesto, fingevo di volermi “divertire” anch’io, con risultati però un po’
scarsi.
Forse perché vengo da una famiglia in cui l’emotività e lo slancio
affettivo sono sempre stati repressi in nome di una compassata, elegante
moderazione.
Con Michel, però, era stata tutta un’altra storia.
D’un tratto mi torna in mente quel viaggio in macchina che facemmo per
andare a una fiera del benessere organizzata in un microscopico paesino
dell’Umbria. Ci conoscevamo da poco, all’epoca, io avevo appena
cominciato il tirocinio presso lo studio e Michel, ancora soltanto il mio
tutor, mi aveva proposto di accompagnarlo assicurandomi che sarebbe stata
una manifestazione interessantissima a cui non si poteva rinunciare per
niente al mondo. Io non ne avevo mai sentito parlare ma, visto il suo
entusiasmo, avevo accettato. Eravamo partiti piuttosto presto per essere
certi di arrivare al momento dell’apertura, Michel non voleva perdersi
nemmeno un istante della giornata. Al volante della sua vecchia Clio,
concentratissimo sulla dubbia cartina che aveva disegnato da solo, aveva
percorso la strada deserta che si snodava in mezzo ai campi coltivati senza
dire una parola. Faceva freddo e pioveva, l’acqua cadeva talmente fitta da
ridurre la visibilità a non più di un metro davanti a noi, ma lui procedeva
senza esitazioni, con mia grande meraviglia visto che io avevo perso
l’orientamento già da un paio d’ore. A un certo punto aveva imboccato con
decisione una mulattiera che si inerpicava su per una collina e che, secondo
le indicazioni che avevamo, avrebbe dovuto portarci direttamente alle porte
del paese.
“Ah! Finalmente!” aveva esclamato tutto soddisfatto, a metà della salita,
tirando il freno a mano e spegnendo il motore.
Io avevo abbracciato con un’occhiata perplessa il nulla in mezzo al quale
ci eravamo fermati.
“Vuoi dire che siamo arrivati?”
“No, voglio dire che finalmente ci siamo persi, è inutile fingere, se
continuo a girare rimarremo senza benzina.”
Io avevo sgranato gli occhi, ammutolita, ma Michel mi aveva guardato
con un’espressione contrita, così palesemente falsa e talmente buffa che ero
scoppiata a ridere e lui insieme a me.
“E ti dirò un’altra cosa” aveva aggiunto, riprendendo fiato fra le risate,
“non ho la più pallida idea di cosa sia questa fiera del benessere, né
tantomeno dove si trovi questo maledetto paese”. Serio, adesso,
all’improvviso. “È solo che volevo passare un po’ di tempo da solo con te,
fuori dallo studio, e quando ho visto il volantino della fiera mi è sembrata
l’occasione perfetta... Ti sei offesa?”
Sulle mie labbra la risata era svanita, ma non ero offesa, neanche un po’.
Non gli dissi, in quel momento, che il suo invito mi aveva riempita di
piacere. Mi limitai ad accarezzargli una guancia, rimanendo con il palmo
appoggiato sulla sua pelle finché lui non mi prese la mano e la baciò.
Ricordo il brivido che mi aveva percorso tutto il braccio, il calore delle
sue labbra prima sul palmo, poi sulla mia bocca. Ricordo la sua mano fra i
miei capelli, le carezze un po’ esitanti sul mio corpo e quel primo bacio
tenero, profondo, finché non mi ero smarrita completamente dentro di lui...
Riecco la fitta allo stomaco. I ricordi mi investono come onde di un mare
gelato. Ogni immagine, ogni gesto, ogni parola è un ago di ghiaccio che mi
buca la pelle e il cuore. La nostalgia, un coltello che affonda nelle viscere,
un dolore fisico che attanaglia la pancia e sale fino al petto, alla gola.
Ma non è questo il momento di pensarci, non posso permettermi di
andare in pezzi.
Mi accorgo che ho camminato a passo di carica, immersa nelle mie
fantasie, e sono quasi arrivata a destinazione. Fa caldo adesso, comincio a
risentire della mancata colazione e mi gira un po’ la testa. Intorno a me le
insegne dei locali sono cambiate, dopo cinque anni è il minimo, mi toccherà
andare alla cieca e fidarmi della prima impressione.
La colazione in un bar parigino è un piacere a cui mi sono sempre
abbandonata senza ritegno. D’inverno, quando la città è offuscata da una
cortina uggiosa, fredda e spesso piovosa, entrare nel tepore di un bistrot,
lasciarsi avvolgere dall’aroma forte del caffè e da quello delle viennoiseries,
tenue e zuccheroso, è un’esperienza meravigliosa. Un trionfo di golosità e
opulenza. I croissant poco dolci, gonfi e profumati di burro e vaniglia che si
sciolgono in bocca, la sfoglia di una leggerezza quasi fiabesca, il pain au
chocolat con la sua pioggia di cioccolato racchiusa in un fragile guscio di
pasta glassata... E poi la baguette: quella lingua di pane croccante calda,
tagliata a metà e spalmata di burro e marmellata, da tuffare senza inibizioni
nella tazza piena di café au lait. E per finire la spremuta d’arancia, il futile
gesto salutista diretto esclusivamente ad attenuare i sensi di colpa per il
privatissimo baccanale che si è appena festeggiato.
Un’altra fitta allo stomaco. Stavolta i ricordi c’entrano poco. Ho una
fame nera.
La fame ha sempre agito su di me come una coperta bagnata. La
sensazione sgradevole, opprimente e irritante che dà un pezzo di stoffa
pesante e umida intorno al corpo, a me lo dava il calo di zuccheri, quello
vero, quello che si fa sentire all’inizio quasi timidamente, con una leggera
fiacca che ti impigrisce, poi, se non corri ai ripari almeno con un pezzo di
pane, diventa depressione e infine, se perseveri nel rimanere a digiuno
incurante dei segnali del tuo corpo, arrivi al punto in cui il malumore si
trasforma in una rabbia cieca e assassina che ti farebbe azzannare la prima
cosa, commestibile o no, che ti ritrovi a portata di bocca.
Io sono entrata nella fase due e ormai mangiare è un’esigenza
imprescindibile. Giro gli occhi su rue des Abbesses, di locali ce ne sono
tanti, ma il loro aspetto da trappole per turisti mi respinge. Voglio trovare il
mio posto. Mi inoltro nelle stradine più interne, meno frequentate. Oddio, se
sono meno frequentate un motivo c’è: le mura dei palazzi sono mute,
nemmeno un’insegna, solo portoni. Ma non dispero, i residenti dovranno
pur prendere un caffè senza fare dei chilometri. Mi concentro un attimo e
mi lascio guidare dal mio naso: non per vantarmi ma potrei gareggiare con
un cane da tartufo. La traversa alla mia sinistra è stretta e in penombra,
promette una frescura che mi attrae, vado.
Rue Tholozé.
La strada scende giù per la collina di Montmartre, e dopo pochi metri
faccio un applauso mentale al mio olfatto: intravedo una porta a vetri e un
cartello che sporge dal muro con un’enorme tazzina gialla piena di caffè
fumante dipinta in bella mostra. Mi avvicino e faccio per entrare quando lo
sguardo mi cade sull’insegna del locale.
The Arizona Hairy Biker’s Bar.
Hairy Biker?
Il bar del motociclista capellone? Dell’Arizona?
Sta’ a vedere che ho trovato l’unico localaccio di Parigi aperto da un
harleysta americano in pensione con tanto di barbona incolta e camicia di
flanella a quadri. E io che pregustavo già l’idea del bistrot che tanto mi
piace. Inutile piagnucolare, ormai la fame ha preso il sopravvento e devo
entrare.
Dling. Una campanella suona dolcemente mentre apro la porta. Noto con
sollievo che alle pareti del locale non sono appese marmitte o manubri né
alcun orribile trofeo motociclistico. A ben guardare non c’è nemmeno il
motociclista capellone che preannunciava l’insegna. Dietro un bancone di
legno con il ripiano rivestito di zinco che sembra originale anni Venti, c’è
un tizio girato di schiena e intento a impilare meticolosamente una serie di
eleganti scatole di tè in metallo in cima a uno scaffale.
Ha i capelli corti.
A quanto pare la campanella non è stata sufficiente ad annunciarmi. Sto
per dire buongiorno e palesare la mia presenza, quando i miei occhi
vengono attratti dalla vetrina dei dolci. Accidenti, per essere belli lo sono
davvero, fanno gola solo a guardarli e l’aroma che sprigionano è molto
promettente. Se il moto-barista è anche capace di preparare un café-crème
come si deve, mi rimangio tutto quello che ho pensato.
«Buongiorno» mormoro educatamente.
«Siamo ancora chiusi, ripassi alle 9.30.»
La risposta sgarbata arriva dalla nuca dell’impilatore di scatole che non si
è preso neanche il disturbo di girarsi.
«Mi scusi, ma la porta è aperta...»
«È aperta per i fornitori. Se avesse guardato il cartello si sarebbe accorta
che l’ingresso per i clienti comincia alle 9.30.»
Rimango esterrefatta, sia per il tono supponente, sia perché un’occhiata
all’orologio appeso alla parete mi dice che sono le 9.20. Okay, mi è sfuggito
il cartello, ma dieci minuti di elasticità non sono concessi? Accidenti alla
pignoleria francese!
Inalbero il mio tono più dottorale e replico: «Non vorrei sembrarle
insistente, signore, ma le chiederei un minimo di elasticità. Mancano meno
di dieci minuti alle 9.30. Se nel frattempo prendo un croissant e vado a
sedermi ne passeranno almeno tre e per quando avrò finito di mangiarlo ne
saranno passati altri sei. Non potrebbe farmi la gentilezza di prendere
almeno la mia ordinazione in modo che alle 9.30 io possa bere il mio café-
crème e togliere il disturbo?»
Devo averlo colpito perché di botto smette di trafficare con le sue scatole
e si volta verso di me. Mi squadra, poi incrocia le braccia.
Non ha nemmeno il barbone d’ordinanza.
«Lei non sembra insistente, signora, lei lo è. E malgrado sfoggi un
accento perfetto, il suo atteggiamento arrogante la bolla immediatamente
come straniera, anzi data la sua inclinazione all’elasticità non mi stupirei
affatto se fosse italiana. Comunque, glielo ripeto, il servizio comincia alle
9.30 precise, se non le va di aspettare altri dieci minuti può accomodarsi
fuori e cercare un altro posto.»
Il mio atteggiamento arrogante? Brutto motociclista ignorante, figlio di
un bovaro americano trapiantato con le mani ancora sporche di letame. Il
suo discorsetto perfettino e puntuto mi fa ribollire di rabbia. Come si
permette di apostrofarmi in questo modo? E a cosa voleva alludere con
quell’analogia fra elasticità e italianità? Sono talmente infuriata che non
riesco a ribattere e rimango a fissarlo, fortunatamente a bocca chiusa.
Per un istante dimentico lo stomaco che brontola e con un’impennata
d’orgoglio gli rendo pan per focaccia: «Mi pare evidente di non essere
l’unica ospite in questo paese, caro signor Arizona Biker. Con la differenza
che io, vivendo qui per diversi anni, ho imparato se non altro a comportarmi
in maniera civile, cosa che non si può dire di lei, date le sue maniere rozze e
scostanti. E comunque non resterò qui dentro un minuto di più, meglio
morire di fame piuttosto che avere a che fare con un maleducato, zotico,
villano, cafone come lei!».
Giro i tacchi e in due falcate raggiungo la porta, la spalanco ed esco con
tutto il sussiego che la mia dignità oltraggiata riesce a ergere, lottando
contro i morsi della fame che ormai mi stanno dilaniando lo stomaco.
Okay, la colazione è andata in fumo, sono in ritardo per l’appuntamento
con Gisèle, a forza di girare per strade e stradine mi sono persa e il caldo
opprimente mi sta facendo sudare come un cavallo da tiro. Cerco di
calmarmi, ma l’ansia di non arrivare in tempo mi spezza il respiro. E se
Gisèle pensasse che mi sono tirata indietro? Se non mi aspettasse più e io
perdessi l’occasione di ricominciare da qui? Devo avvertirla, spiegarle.
Afferro la borsa per cercare il cellulare, ma l’ansia e il caldo cospirano
contro di me. Mi gira la testa.
Il mio orizzonte si riempie di una nebbia rossastra punteggiata di nero.
Vuoto nella mente.
Silenzio.
Buio.
SCHEDA IRIDOLOGICA
Tipo Kinestetico, detto anche Flusso.
Iride: apparentemente priva di segni (lacune, pigmenti) e con una
colorazione compatta. Osservandola da vicino, vediamo che invece l’iride è
composta da miriadi di sottilissime fibre che si irradiano dalla pupilla verso
l’esterno. Una concentrazione di colore tra le fibre, o una mancanza anche
minima di tessuto fibroso, sono assimilabili rispettivamente a pigmenti e
lacune e quindi a un eccesso o carenza d’energia e quindi a una prevalenza
dell’aspetto mentale o emotivo.
Personalità: il movimento è il loro marchio di fabbrica, il che giustifica
l’appellativo Flussi. Sono intuitivi, amabili e amichevoli. Portati verso gli
altri ed equilibrati. Apprendono attraverso l’esperienza e il tatto.
Carattere: sono tranquilli e pacati, posseggono il dono della mediazione e
infondono serenità in chi li circonda. Amano vivere e lavorare in gruppo,
non vogliono dominare, stimolano la coesione e desiderano sentirsi parte
integrante del tessuto sociale.
Paure: il Flusso teme di commettere errori, teme il cambiamento nella
misura in cui possa provocare dolore agli altri o far male a lui stesso.
Attrazione: tipo Estremo.
3
Il sole filtra attraverso una nebbia opalescente, illumina con la sua luce
pallida le foglie intorno a me. I cespugli spinosi e le macchie di gigli
selvatici punteggiano le dune di sabbia e l’aria fresca del mare mi
scompiglia leggermente i capelli.
È mattina presto, sto facendo una passeggiata prima di tornare a casa e
preparare la colazione, per me e per Michel. Mi piace camminare da sola
sulla spiaggia, mi piace starmene a guardare le onde mentre il vento mi
accarezza il viso e io penso a quanto è diventata meravigliosa la mia vita
negli ultimi anni. Mi avvicino alla riva, e da lontano vedo una figura di
spalle, un uomo rivolto verso le onde. Mi avvicino ancora, l’uomo sembra
avvertire la mia presenza e si gira. Con un tuffo al cuore riconosco Michel.
Mi guarda, mi sorride e io, come sempre, sento le gambe che mi tremano.
Mi fa cenno di avvicinarmi, io sorrido e affretto il passo per raggiungerlo.
Michel continua a guardarmi, i capelli arruffati dal vento, gli occhi dorati
che brillano, il suo sorriso come una carezza su di me, che mi scalda più del
sole. Quando finalmente lo raggiungo, tendo le braccia e lo stringo a me,
ma lui resta immobile, le mani lungo i fianchi. Mi discosto un poco e lo
guardo negli occhi, i nostri volti vicinissimi, separati da un respiro. Nelle
sue iridi scure scopro un calore rassicurante, una luce serena che mi arriva
dritta al cuore e lui continua a guardarmi, sempre più intensamente.
Scandaglia i miei occhi fino ai loro recessi più oscuri, li mette a nudo, ne
legge ogni segreto e a poco a poco li spoglia delle loro ombre e io sento
l’anima farsi più leggera. È allora che solleva una mano e me l’appoggia sul
cuore, come a volerlo calmare infondendomi coraggio e forza. Mi avvicino
ancora per baciarlo, sento il suo respiro tiepido sulla pelle, le labbra che mi
sfiorano e articolano il mio nome:
«Viola.»
«Michel...» sussurro.
«Viola, svegliati» dice una voce maschile.
Una pacca leggera sul viso.
Lentamente dischiudo le palpebre e i miei occhi si aprono su due iridi
verdi che mi fissano. Non appartengono a Michel, così come il fiato caldo
non è il suo.
«Come ti senti?» La voce preoccupata dev’essere quella del barista.
Reprimo un singhiozzo di delusione, mentre osservo quegli occhi verdi
che mi scrutano senza pudore. Un velluto compatto appena venato da
un’ombra di preoccupazione. Occhi freddi, estranei, che mi guardano senza
realmente leggermi dentro. Ben altra cosa, rispetto all’oro scuro degli occhi
di mio marito, eppure non riesco a staccarmi da loro.
«Cos’è successo?» chiedo, battendo le palpebre per interrompere il
contatto visivo e dissimulare il mio turbamento.
«Non lo so, sei uscita, sei rimasta un attimo davanti alla porta e poi ti ho
vista cadere per terra, forse è stato il caldo. Mi hai spaventato a morte.»
Mi sta rimproverando? Prima mi butta fuori, digiuna, e poi ha il coraggio
di farmi sentire in colpa?
«Non ho mangiato» rispondo secca, tanto per riequilibrare la bilancia
delle responsabilità.
«Mi dispiace, ma non potevo saperlo. Forza, manda giù questo.» Mi
appoggia alle labbra un bicchiere e io cerco di inghiottire un sorso. Succo
d’arancia. Il liquido fresco mi ristora mentre lo sento scendere giù per la
gola. Bevo ancora un po’, poi distolgo il viso. Sono distesa su qualcosa di
duro, un tavolo, forse. Cerco di sollevarmi, puntellandomi su un gomito, ma
mi mancano le forze e ricado giù. Lui mi afferra di scatto e mi sostiene la
testa. Chiudo gli occhi, ho le vertigini e mi sento travolgere da un’ondata di
nausea che mi provoca dei conati.
«Aspetta, resta sdraiata e non ti muovere. Respira profondamente.»
Il barista impartisce ordini e nel frattempo sento che mi solleva le gambe
in alto. I pantaloni larghi mi scivolano sulle cosce e mi ricordo con orrore di
non essermi depilata questa mattina. Mi tiro su di scatto per coprirmi, ma un
violento capogiro mi costringe ad appoggiarmi su un gomito.
«Ehi, ehi, ferma!» esclama lui, mentre con un braccio mi aiuta a
sdraiarmi. «E stai tranquilla, ho visto parecchie gambe femminili in vita
mia. Certo, non così ispide» mormora con una risatina.
Adesso lo odio, è sicuro.
Richiudo gli occhi, anche per nascondere l’imbarazzo. A poco a poco la
circolazione riprende il suo corso normale e quel gelo che sembra
avvolgermi il cervello si scioglie.
«Resta giù ancora un po’. Se ti alzi troppo in fretta rischi di svenire di
nuovo e va a finire che ci passiamo tutta la giornata.»
Non riesco a crederci. Anche mentre si sta prodigando nel dispensarmi
delle cure, non può proprio fare a meno di farmi pesare il fatto che gli sto
facendo perdere tempo. È evidente che l’idea di essere in parte responsabile
del mio stato non lo sfiora nemmeno da lontano. Se non fossi una ragazza
beneducata direi che, oltre a essere insopportabile, quest’uomo è un
grandissimo str...
«Allora? Come va, meglio?» mi chiede mentre mi rimette giù le gambe e
poi si gira per appoggiare il bicchiere su un tavolo vicino.
«Sì» gli rispondo, «malgrado te.»
Lui interrompe la rotazione a metà con il bicchiere ancora in mano, volta
appena la testa e mi lancia uno sguardo sbigottito in cui leggo un’aperta
domanda. Mi appoggio a fatica su un gomito e continuo, senza dargli modo
di parlare: «Se invece di aggredirmi con tutti quei “Non si può” e “Solo i
fornitori” e “Va’ da un’altra parte” mi avessi servito una semplice colazione
non sarebbe successo niente! Io sarei stata bene, me ne sarei andata e non
avrei fatto tardi all’appuntamento che avevo» do un’occhiata all’orologio
sulla parete... «mezz’ora fa! Putain!» esclamo.
Lotto contro la nausea che mi provoca ogni movimento e cerco di
scendere dal tavolo-barella per rimettermi in piedi.
«Stai cercando di farmi sentire in colpa, Viola?»
Non so se mi colpisce di più la domanda o udire il mio nome uscire dalle
labbra di uno sconosciuto. Il barista è addossato a un tavolo in una posa
indolente, con i palmi appoggiati sulla superficie lucida per sostenersi, e mi
guarda con la bocca atteggiata a un sorrisetto beffardo. Mi viene voglia di
cancellarglielo dalla faccia a forza di schiaffi.
«Non sto cercando di fare un accidente, è ovvio che sia colpa tua, ma se
non lo capisci da solo non sprecherò certo il fiato per spiegartelo.»
Sciocca. Manca solo una linguaccia finale e la risposta da bambina offesa
è completa. Basta, prima esco da quest’incubo meglio è, e al diavolo le mie
pretese da signora oltraggiata. Rischiando di franare per terra scendo
maldestramente dal tavolo e cerco la borsa, quando di colpo mi viene in
mente l’altra cosa.
«Come fai a sapere il mio nome?»
Lui non fa una piega e con voce annoiata confessa candidamente: «L’ho
letto sulla carta d’identità nel tuo portafoglio». Il suo sorriso si allarga.
«Non mi ero sbagliato. Sei italiana» aggiunge.
Uno sguardo al bancone mi rivela la mia borsa aperta e il suo contenuto
rovesciato alla rinfusa sul ripiano: portafoglio, cellulare, fazzoletti, libro,
trucchi e altre cianfrusaglie. Razza di barista screanzato e impiccione. Lo
fulmino con un’occhiataccia.
«E non guardarmi come se avessi profanato un santuario, stavo soltanto
cercando un modo per non essere costretto a chiamare un’ambulanza, sono
sempre seccature.»
«Benissimo. Allora tolgo subito il disturbo. Non sia mai che dovessi farti
tardare ad allineare scatole...»
«Aspetta un momento...»
«No che non aspetto, non ho intenzione di restare un minuto di più in
questo postaccio a farmi insultare da te, brutto maleducato, zotico...»
«Villano e cafone, sì, questo l’hai già detto» aggiunge con calma serafica,
«ma se mi ascoltassi per un secondo senza fare scene da delirio isterico,
io...»
Isterica? Ormai sono fuori di me dalla rabbia. «Insisti? Maledico il
momento in cui ho pensato di entrare qua dentro! Per colpa tua ho fatto
tardi a un appuntamento molto importante, la persona che mi aspetta sarà
preoccupata a morte e...»
Dling. D’improvviso il suono della campanella sulla porta che si apre
interrompe la mia filippica e mi giro di scatto, rossa di collera e con i pugni
stretti, pronta a continuare l’invettiva.
Ma le parole mi muoiono in gola perché la persona che entra è l’ultima al
mondo che avrei mai pensato di vedere qui.
«Viola! Come ti senti? Va tutto bene? Chérie, mi hai fatto prendere uno di
quegli spaventi... oh, ciao Romain, grazie mille per esserti preso cura di
lei.»
Gisèle.
Come diavolo ha fatto a trovarmi?
E soprattutto, chi diavolo è questo Romain?
«Ciao Gisèle» risponde il barista. «Finalmente, non sapevo più come
trattenerla» le dice indicandomi con un cenno della testa.
Vista da fuori è una scena di una comicità surreale. Non faccio che
spostare lo sguardo alternatamente dall’uno all’altra, senza venire a capo
del guazzabuglio che ho in testa. Mi sento come l’unica ignara di una sorta
di scherzo condiviso per il quale tutti ridono tranne me. Ed è una sensazione
piuttosto irritante.
Si conoscono? E come? Da quanto tempo?
«Sei stato un amore, Romain, non finirò mai di ringraziarti. E che fortuna
che Viola sia entrata qui da te. Pensa se fosse svenuta fra le braccia di uno
sconosciuto.»
Ecco, è questa frase che mi fa salire il sangue alla testa. Oltretutto non gli
sono affatto svenuta fra le braccia, sono crollata sul marciapiede come un
sacco di patate e la prova sono i lividi bluastri che cominciano a fiorirmi su
ginocchia, gomiti e mento.
Insomma, da qualsiasi lato la si osservi, tutta questa stupida storia ha un
unico e solo colpevole.
«Non ringraziarmi, Gisèle. Chiunque avrebbe fatto lo stesso.»
Fa la ruota come un pavone, l’impostore.
A questo punto non resisto più. «Potrei sapere come accidenti fate a
conoscervi voi due, e come sei arrivata fin qui? Perché ormai è chiaro
perfino a me che le due cose sono collegate» sbotto in faccia a Gisèle.
«Ma, tesoro...» comincia la mia amica, mentre mi guarda un po’
perplessa.
«Lascia stare, Gisèle, glielo spiego io» la interrompe Romain. «Mentre
eri svenuta il tuo telefono ha squillato. Io non avevo idea di chi fossi, da
dove venissi, potevi anche essere una pazza rilasciata da un manicomio...
così ho risposto. Mi è bastato dire dove ti trovavi che Gisèle mi ha
riconosciuto, mi ha detto chi eri e di aspettare che lei venisse a prenderti.
Poi ti sei svegliata e mi hai aggredito senza nemmeno darmi il tempo di
spiegare...»
A queste parole mi sento arrossire, mio malgrado. Perché se è vero che è
stato lui a comportarsi male per primo, è innegabile che poi si sia dato da
fare per aiutarmi mentre io... be’, diciamo che sono stata un po’ impetuosa.
«Comunque l’importante è che tutto sia finito bene» interviene Gisèle,
che deve aver intuito che il nostro non è stato un incontro del tutto pacifico.
«Adesso, chérie, se ti sei ripresa possiamo tornare al negozio. Ho messo un
cartello per avvertire che sarei tornata subito.»
Mentre sto per uscire il barista mi richiama.
«Ehi, Viola! Non vorrai mica cadere di nuovo per strada?»
Mi giro e lui, senza sorridere, mi porge una scatola di cartone. «Prendi
questo. Offre la casa.»
Soltanto una volta fuori la apro e sgrano gli occhi: dentro c’è un grosso
bicchiere di plastica pieno di caffellatte caldo, un croissant e un pain au
chocolat.
Alla fine, sorrido.
MISCELA DI FIORI DI BACH PER RINASCERE DOPO LA FINE DI
UN AMORE
Ingredienti:
3 gocce di Star of Bethlehem, il fiore dell’abbandono
2 gocce di Gentian, per combattere la depressione
2 gocce di Walnut, per l’adattamento alle novità
3 gocce di Larch, per staccarsi dai ricordi del passato
10 ml di brandy
20 ml di acqua oligominerale
Crea una soluzione idroalcolica mescolando l’acqua e il brandy in una
fiala da 30 ml. Aggiungi i Fiori di Bach quindi agita la fiala per miscelare.
Assumine quattro gocce sublinguali, quattro volte al giorno ma, se ne
senti la necessità, anche più spesso.
Dopo la fine di una relazione è importante lasciarsi il passato alle spalle.
Può essere molto difficile: prima si era abituati a fare tutto insieme e ci si
aiutava, ora, invece, bisogna gestire tutto da soli. I Fiori di Bach aiutano a
rimettersi in piedi e, passo dopo passo, a riprendere in mano le redini della
propria vita.
4
L’erboristeria è in piena attività, Gisèle sta servendo due clienti che le
chiedono una delle sue famose tisane e i fiori di Bach che avevano ordinato
in precedenza. Una ragazza bionda e minuta, con un paio di occhiali da
miope dalle lenti spesse, sta curiosando fra i volumi in vendita esposti nella
piccola libreria sulla parete di sinistra e una signora avanti negli anni, ma
elegantissima e splendidamente truccata, si serve a colpo sicuro dallo
scaffale che ospita oli spremuti a freddo, preparazioni cosmetiche in crema
e macerati glicerici. Ormai è quasi mezzogiorno e la giornata pare aver
ripreso il normale ritmo di un mercoledì lavorativo.
Io me ne sto in disparte a godermi la compagnia del mio umore
pensieroso, seduta su uno sgabello alto, accanto alle ceste di vimini piene di
saponi artigianali. Il viso assorto è nascosto dietro un giornale che non sto
leggendo, mentre sono intenta a rimuginare sulla sequenza di avvenimenti
di questa disgraziata mattina.
Mi agito sullo sgabello cercando una posizione più comoda e alzo appena
lo sguardo dal giornale. Le due clienti di Gisèle sono uscite e lei sta
ascoltando la signora anziana. La ragazza bionda è in attesa, con due libri in
mano, e nel frattempo sono entrate altre persone. Incrocio gli occhi della
mia amica che mi lancia una muta richiesta di soccorso. Istintivamente
distolgo lo sguardo, sono ancora troppo disorientata per avere a che fare con
degli estranei, temo persino di non essere in grado di capire le loro richieste
e propinargli il prodotto sbagliato. Ecco, è la paura dell’errore che mi fa
sudare freddo. Dopo quello che era successo in studio, poi...
Un discreto colpetto di tosse richiama la mia attenzione: con la coda
dell’occhio scorgo Gisèle che continua a fissarmi con un’espressione a metà
fra il supplice e l’incoraggiante. Non posso più ignorare il suo appello, così
mi do una scrollata e scendo dal mio trespolo per andare ad aiutarla.
Quando vivevo a Parigi ed ero entrata ormai da un po’ nella vita di
Gisèle, avevo cominciato a lavorare insieme a lei e Sabine in negozio. Era
accaduto molto naturalmente, senza parole né tantomeno contratti di
collaborazione: io studiavo e nel pomeriggio mettevo in pratica le nozioni
apprese a scuola. Era stato un periodo molto denso e al contempo pieno di
soddisfazioni, e per un po’ avevo addirittura pensato che potesse essere la
mia scelta di vita definitiva. Poi però il senso di vuoto e la certezza di dover
tornare in Italia per cercare di ricostruirmi un’identità che sembrava
sfuggirmi dalle mani mi avevano fatto cambiare rotta all’improvviso.
Rompo gli indugi e mi avvicino al bancone a testa bassa. Respiro,
raddrizzo le spalle e poso lo sguardo sulle clienti in fila. La ragazza bionda
mi sorride e mi porge timidamente i suoi libri.
«Quindici euro, grazie. Vuole una bustina o le serve un pacchetto?»
Sorrido mio malgrado. Sono di nuovo al lavoro.
Il flusso della clientela si stabilizza su un ritmo lento e continuo, con due
persone a servire. Mi guardo intorno e capisco bene qual è il segreto del
successo di questo piccolo negozio. Nonostante il passare degli anni non ha
mai perso quella sua aria da vecchia bottega d’altri tempi, perché Gisèle
non ha mai ceduto alle strategie di marketing. I suoi fornitori sono
personaggi singolari, quasi tutti viaggiatori e cercatori che arrivano in
luoghi lontani per riportarne indietro preziosi gioielli erboristici sfidando i
colossi della distribuzione che ormai dominano il mercato mondiale. È triste
pensare che un giorno, dopo Gisèle, non ci sarà più nessuno a portare avanti
la sua missione. Persino nell’offerta dei prodotti la mia amica è rimasta
fedele a se stessa. A parte una piccola apertura alla cosmetica, questo è il
regno delle erbe: sono le loro virtù terapeutiche che creano la magia del
benessere. Spesso chi entra qui non sa nemmeno cosa chiedere a Gisèle, ma
lei con la sua sensibilità riesce a dedicare a ognuno il giusto spazio e
l’attenzione di cui ha bisogno per cercare insieme il rimedio più adatto.
Ecco perché amo così tanto questo luogo e lo sento così mio. Il mio
sguardo si posa brevemente sull’erbario esposto in vetrina che non ha mai
cambiato posizione. Non mi sono mai avvicinata a quel prezioso cimelio,
un po’ per rispetto, un po’ perché mi piaceva immaginare che racchiudesse
un segreto speciale per cui non ero ancora pronta.
Chissà che non sia arrivato per me il momento di cercarvi delle risposte...
Quando l’ultima cliente esce soddisfatta con le mani piene di buste sono
ormai le cinque del pomeriggio. Io e Gisèle abbiamo lavorato senza sosta
per quasi cinque ore e siamo esauste. Ormai il più è fatto, da quello che mi
ricordo di solito il tardo pomeriggio è piuttosto tranquillo, pochi clienti che
arrivano alla spicciolata mentre si comincia la trafila che precede la
chiusura.
Scarico del magazzino, controllo fatture, merce da ordinare, scatoloni da
svuotare con cui riempire via via gli spazi vuoti negli scaffali. Quasi
automaticamente vado nel retro a prendere il registro, quando Gisèle mi
ferma mettendomi una mano sul braccio.
«Abbiamo faticato abbastanza, che ne dici se ci prendiamo una pausa?»
La guardo, temendo che sia arrivato il momento in cui mi farà delle
domande a cui non so se sarò in grado di rispondere. Ma la mia amica è
paziente, ignora la mia reticenza e mi guida verso la sedia che è dietro il
bancone, tenendomi per mano anche dopo che mi sono seduta.
«Non voglio pressarti in alcun modo, Viola, ma non ho potuto fare a
meno di osservarti durante queste ore e quello che ho visto non mi è
piaciuto.» Fa una pausa, come se cercasse le parole giuste. «Hai lavorato
bene, sei stata attenta e capace, ma io penso di capire quello che provi
profondamente. Vedo il tuo smarrimento, la tua ansia, ma soprattutto vedo i
tuoi occhi spenti, i gesti meccanici, vedo una donna impaurita che sembra
perennemente sul punto di scappare...»
Il calore protettivo della sua mano sembra volermi incoraggiare e io mi
aggrappo a lei, ma le parole faticano a uscire. La guardo negli occhi e vorrei
chiederle aiuto, vorrei appoggiare la testa sulla sua spalla e affidare alle sue
mani dolori, paure, tristezze perché lei sappia come liberarmene. Con
rabbia, sento le lacrime pronte a scendere e distolgo lo sguardo chinando la
testa. Ma Gisèle deve essere riuscita a leggere i miei occhi. Mi sfiora
leggermente una guancia.
«Va tutto bene, piccola, non insisterò. Vorrei dirti soltanto una cosa. Non
puoi sfuggire al dolore, tesoro, puoi arrivare in capo al mondo, ma se non
uccidi i tuoi fantasmi, quelli continueranno a perseguitarti ovunque tu vada.
Fermati, Viola. È il momento di farlo.»
Sento il suo sguardo fisso su di me, ma non alzo gli occhi. E se mi stesse
offrendo la possibilità che inseguo da tanto tempo?
Poi all’improvviso me lo chiede.
«Perché non rimani qui a lavorare insieme a me? Potresti aiutarmi e nello
stesso tempo riprendere in mano la tua vita. La naturopatia è sempre stata la
tua grande passione e la tua forza, non gettarla via, fanne uno strumento per
superare le tue paure.»
Si interrompe di nuovo e mi stringe la mano ancora più forte. «Non esiste
una cura per la perdita di un grande amore, piccola mia. Il vuoto che lascia
l’assenza è incolmabile, e tale resterà per sempre. Possiamo soltanto tentare
di superarlo e lasciare che a poco a poco il vuoto faccia parte di noi come
una nuova presenza, diversa certo, dolorosa, ma pur sempre una presenza.»
Mi mette una mano sotto il mento e mi costringe a guardarla attraverso
un velo di lacrime. Michel diceva sempre che gli occhi raccontano molto
più di quanto noi stessi vorremmo rivelare. E in questo momento ho il
sospetto che Gisèle legga in loro quello che le parole non riescono a
spiegare.
«Pensaci, non devi rispondermi adesso.»
Poi mi accarezza il viso e scompare nel retro lasciandomi con i miei
fantasmi e un nuovo interrogativo.
RIMEDIO PER RISTABILIRE L’EQUILIBRIO DEL I CHAKRA
L’energia che viene dalle piante può aiutarci a riaprire i canali dei chakra
e a favorire, di conseguenza, il passaggio dell’energia universale,
rimettendoli così in connessione con l’universo e migliorando la nostra
aura. Esistono, in particolare, alcune erbe propizie alla riattivazione di uno
specifico chakra.
Il primo chakra, muladhara, detto anche “chakra della radice” è situato
all’altezza del bacino, fra il coccige e il pube. È il fulcro da cui si irradia
l’energia fisica, quella che ci tiene ancorati alla Terra e ci consente di
raggiungere quell’equilibrio interiore capace di farci affrontare i
cambiamenti che arrivano dall’esterno e di farci tenere sotto controllo gli
istinti negativi.
Il tarassaco, in radice polverizzata, facilita la connessione consapevole
con il nostro corpo fisico. Procedi in questo modo: lascia un cucchiaio di
polvere in infusione in una tazza d’acqua calda per almeno cinque minuti,
bevi l’infuso e concentrati sul tuo respiro. Puoi utilizzare anche le foglie
della pianta fresca, da aggiungere alle tue insalate.
Un massaggio leggero, con un movimento circolare direttamente sul
chakra, con gli oli essenziali di cannella, patchouli, sandalo e vetiver (5-6
gocce per ogni olio in 100 ml di olio di mandorle dolci) è un altro modo
utile per riattivare muladhara.
5
... Quand on n’a que l’amour
Mon amour toi et moi
Pour qu’éclatent de joie
Chaque heure et chaque jour...
La melodia si insinua di soppiatto dalla finestra accostata e penetra
indesiderata nelle nebbie del mio dormiveglia. Le parole struggenti di
Jacques Brel non sono l’ideale come sveglia mattutina. Oltretutto stanotte
ho dormito malissimo e non ho alcuna voglia di alzarmi dal letto soltanto
perché qualcuno non può fare a meno di ascoltarlo.
Apro gli occhi. Ormai sono sveglia, inutile indugiare ancora a letto, tanto
devo lasciare la stanza entro mezzogiorno. Mi alzo e mentre mi infilo la
vestaglia osservo le valigie pronte che mi aspettano sulla rastrelliera
dell’ingresso.
«Pensaci» mi ha detto Gisèle, e io l’ho fatto. Per tre giorni mi sono
rintanata nella mia stanza d’albergo senza mettere il naso fuori nemmeno
per mangiare. Sono sopravvissuta a forza di colazioni e snack ordinati al
ristorante, ho spento il cellulare e mi sono lobotomizzata davanti alla
televisione per quasi tutto il tempo, in pigiama e vestaglia.
Trovo che nell’abbrutimento fisico e psicologico ci sia un che di nobile,
anzi, sublime. Non si può pensare di rinascere se non si è prima raschiato il
fondo della propria degradazione. Per questo, mentre mi crogiolavo nel mio
pigiama di tre giorni e nei capelli arruffati, a poco a poco la risposta
all’interrogativo che mi aveva posto la mia amica quel giorno, in negozio,
mi appariva sempre più chiara davanti agli occhi.
Se mi guardo indietro mi accorgo che l’unico atto degno di nota che io
abbia mai compiuto è stato ribellarmi alla mia famiglia e decidere di deviare
irrevocabilmente dalla direzione che mi avevano imposto. Sarei dovuta
diventare una cardiologa come mio padre e, al momento giusto, affiancarlo
nel suo studio. Era un futuro roseo e privo di spine quello che mi si
spianava davanti, perciò quando di punto in bianco annunciai ai miei
genitori che non avrei seguito le orme paterne e che ero decisa a lasciare la
facoltà di medicina per dedicarmi agli studi di naturopatia, scatenai
qualcosa di simile a un terremoto. Non mi capivano. Perché volevo
rinunciare agli agi e alle soddisfazioni di una brillante carriera per andare a
“Vivere come una barbona in mezzo a gente che perdeva il suo tempo con
le teorie new age” (parole di mia madre queste, che non ha mai capito la
differenza fra correnti new age, medicina alternativa, pratiche olistiche,
sciamanesimo e riti vudù: tutte pericolose assurdità lontane da lei quanto la
terra dalla luna). Mio padre si era limitato a farmi pesare la sua incredulità
con un silenzio che si era protratto fin quasi al giorno della partenza. Poi
aveva decretato che, non appena mi fossi resa conto delle difficoltà a cui
sarei andata incontro, sarei tornata sui miei passi, pentita e riconoscente, e
avrei bussato di nuovo alla sua porta.
A una reazione negativa ero preparata. Ma la cosa che mi ferì
profondamente e che, forse, mi diede un’ulteriore spinta verso il distacco fu
l’assoluta mancanza di fiducia che i miei genitori sembravano nutrire nelle
mie capacità di discernimento. La frase ricorrente ormai era diventata:
“Vorrei sapere chi ti ha messo in testa queste sciocchezze”, come se fossi
una canna al vento pronta a piegarsi al primo soffio più forte degli altri. In
parte, forse, era stata colpa mia, ero stata troppo accondiscendente, mi ero
lasciata guidare docilmente sulla strada che loro avevano tracciato per me,
finché non ero arrivata al limite della sopportazione.
Risalendo indietro nei miei ricordi, posso dire di aver sempre provato una
sorta di disagio, un senso di profonda estraneità rispetto al ruolo che i miei
genitori avrebbero desiderato per me. La professione di mio padre non mi
attirava e lui stesso era una figura distante e severa che non aveva certo
contribuito a far nascere in me l’amore per il suo mondo.
Una volta, avrò avuto forse sei anni, entrai per gioco nella piccola
anticamera in cui aspettavano i pazienti e vidi una signora. All’epoca mi
parve vecchia, ma credo che non avesse nemmeno quarant’anni. Era seduta
su una poltroncina, appoggiata allo schienale, gli occhi chiusi e le mani
abbandonate in grembo, e tutta la figura ispirava un senso di profonda
spossatezza. Quando entrai lei aprì gli occhi e per qualche istante scorsi nel
suo sguardo una tristezza infinita, poi li richiuse come se tutte le brutture
del mondo le fossero passate davanti e lei non avesse più la forza di starle a
guardare.
Istintivamente mi avvicinai e le appoggiai la mano sul braccio. Lei riaprì
gli occhi e mi guardò stupita. Avevo in mano la mia bambola preferita e
gliela porsi. «Mi chiamo Viola, vuoi giocare con me?»
Forse fu la sorpresa di trovarsi davanti una bambinetta nello studio di un
cardiologo, o forse fu la mia bambola spelacchiata, ma la signora triste
parve rianimarsi e scoppiò a ridere e d’un tratto i suoi occhi si fecero più
limpidi e io risi insieme a lei senza sapere perché. Fu questione di attimi,
poi mio padre con il suo camice bianco uscì dallo studio e tutto tornò come
prima. Mi rivolse uno sguardo severo. «Viola, non è un posto in cui giocare
questo, torna in camera tua. Prego, si accomodi» aggiunse rivolto alla
donna. Lei si alzò, di nuovo seria, ed entrò nello studio. Mio padre non la
sfiorò né le sorrise.
Quell’episodio fu determinante, si sedimentò dentro di me e credo che, in
un certo senso, negli anni abbia contribuito a fare chiarezza sulla persona
che avrei voluto diventare. Non volevo barriere fra me e gli altri, non
volevo severe scrivanie scure o agende rigidamente organizzate. Desideravo
conoscere cose nuove, ambienti meno asettici e quando conobbi la
naturopatia mi parve di aver trovato la chiave per riuscire. L’idea che
esistesse una disciplina che aveva lo scopo di guarire il corpo e la psiche
stabilendo un equilibrio con l’ambiente naturale e stimolando
l’autoguarigione mi affascinava moltissimo.
Un giorno avevo persino tentato di parlarne con mia madre.
«Mamma, ho saputo che questo fine settimana c’è un seminario di
naturopatia presso un centro di riabilitazione fuori Roma. Parteciperanno
molti medici omeopati, terranno conferenze e laboratori pratici e...»
«Naturopatia?»
«Sì...»
Mi aveva squadrata dallo specchio di fronte al quale si stava depilando le
sopracciglia. Aveva sollevato per un attimo la pinzetta e, per una frazione di
secondo, mi era parso di vedere i suoi occhi scuri illuminarsi di una dolente
tenerezza. Questione di un attimo, poi la luce si era spenta per lasciare il
posto a una severità venata di stanchezza. «Viola, quando la smetterai di
provocarmi?»
Provocarla?
«Tesoro, è da un pezzo ormai che le tue piccole ribellioni non passano
inosservate. Finora io e tuo padre abbiamo cercato di passarci sopra,
sperando che prima o poi avresti smesso di comportarti come una bambina
capricciosa, ma mi accorgo che non è così, e adesso sono veramente stufa.
Hai lasciato il pianoforte per le lezioni di yoga, il corso di tedesco per
seguire quelle idiozie sui colori» – erano seminari di cromoterapia – «e
adesso arriva la naturistica...»
«Naturopatia, mamma. È una disciplina...»
«Non mi interessa che cos’è! Non ho alcuna intenzione di mandarti in
mezzo a un gruppo di esaltati per farti riempire la testa di sciocchezze new
age! Sei all’ultimo anno di liceo, adesso, tu devi semplicemente studiare e
prepararti per l’università.»
«Ma...»
«Niente ma, sono stata fin troppo paziente. Fine del discorso.»
E aveva ripreso a massacrarsi le sopracciglia.
Questo era stato l’unico scambio di idee avuto con mia madre
sull’argomento. Il discorso era finito davvero perché non ero andata al
seminario e dopo pochi mesi avevo sostenuto gli esami di maturità per poi
iscrivermi, come da programma, a medicina.
Ma quel lampo negli occhi di mia madre aveva continuato a turbarmi per
molto tempo. Era come se per un attimo il tempo si fosse fermato,
spaccandosi a metà come il guscio di un uovo e rivelando al suo interno una
donna completamente diversa da quella che mi stava di fronte. Avrei dovuto
approfittare di quell’attimo e chiedere a mia madre cosa diavolo le passasse
nel cervello? Perché si ostinava a tenermi a distanza con un atteggiamento
tanto ostile? Perché faceva di tutto per intrappolarmi in una vita
preconfezionata, che non sentivo mia?
Forse. Ma avevo perso la mia occasione e tutto era tornato alla normalità.
Almeno finché non mi ero imbattuta in quel benedetto bando d’ammissione
all’École de Naturopathie di Parigi trovato per caso fra le pagine di una
rivista. Allora avevo deciso di interpretarlo come un segno del destino.
Chissà che adesso non possa fare altrettanto con la proposta di Gisèle.
FIORI DI BACH PER RECUPERARE L’AUTOSTIMA
Ci sono momenti, periodi più o meno lunghi nella vita, in cui ci sentiamo
inadeguati, magari non ci fidiamo più del nostro istinto e le nostre capacità
di giudizio e azione ci appaiono fallaci. Questo stato determina una visione
piuttosto limitata di noi stessi e del nostro orizzonte. Alcuni Fiori di Bach
possono aiutarci a recuperare l’autostima e una diversa valutazione di noi
stessi e del nostro operato.
LARCH: è uno dei fiori cosiddetti “assistenti”, cioè un fiore che non
agisce su un tratto fondante della personalità, ma “assiste” la persona in
momenti particolari. È un rimedio indicato per chi ha bassa stima di sé e
quindi paura di fallire in determinate circostanze.
Questo fiore insegna a non scoraggiarsi, a considerare lucidamente le
situazioni, interne ed esterne a noi, e a non aver paura di osare, a
prescindere dal giudizio degli altri.
CERATO: questo è invece uno dei dodici fiori cosiddetti “guaritori”,
quelli che agiscono sulla personalità dell’individuo portandolo, nel tempo, a
cambiare radicalmente la propria essenza interiore. È il fiore adatto a chi
sente sempre la necessità di chiedere consiglio agli altri, a chi manca del
tutto di fiducia in se stesso, tanto da seguire le indicazioni altrui anche
quando rischiano di portare all’insuccesso.
Questo fiore insegna a prendere le decisioni autonomamente e a esporle
agli altri con sicurezza, perché ci mette in contatto con il nostro io profondo
e con il nostro intuito.
6
Il conto dell’albergo è di quattrocentocinquanta euro, e in banca me ne
restano poco più di mille. Se non voglio ridurmi a elemosinare del cibo sarà
meglio che accetti l’offerta di Gisèle di trasferirmi a casa sua, almeno per
un po’ di tempo. Mi vesto e mi preparo ad arrivare a rue Ordener.
Una volta chiesi a Gisèle come mai avesse deciso di tornare a vivere nella
sua vecchia casa, relativamente lontana dal negozio, piuttosto che rimanere
nel piccolo appartamento di rue des Abbesses, a un passo dall’erboristeria,
dove si era trasferita appena sposata.
«Perché quelle pareti non mi parlavano più» mi aveva risposto. «A un
certo punto, dopo che i ragazzi erano già andati a vivere per conto loro, mi
sono accorta che in quelle stanze vuote il mio Laurent aveva smesso di
parlarmi, e così ho capito che non aveva più senso rimanere là.» Quando
l’avevo conosciuta, Gisèle aveva perso suo marito Laurent già da parecchi
anni, in seguito a un banale incidente sul lavoro. Una mattina come tante
aveva preso il caffè, baciato sua moglie, salutato i bambini ed era uscito.
Dal fondo della strada si era voltato e aveva mandato un altro bacio alla sua
donna che lo guardava dalla finestra, come sempre. Era primavera. Solo che
quando Gisèle alle quattro del pomeriggio, sentendo il campanello, era
andata ad aprire la porta, invece del marito si era trovata davanti due
poliziotti, giovani, con il cappello in mano e l’aria triste. Poche parole
studiate a memoria, le loro, ma lei non le aveva nemmeno sentite. Tutto
quello che ricordava era una fitta al petto e l’eco di un gemito basso,
prolungato, da bestia ferita che nemmeno riconobbe come suo.
Il resto, poi, lo aveva ricostruito con il tempo, dai racconti dei parenti. Il
riconoscimento. Il funerale. La sepoltura. Lei ricordava soltanto il sole, il
bacio che le aveva scaldato la pelle quella mattina. E l’incredulità per un
destino così amaro. Gisèle aveva passato mesi a chiedersi perché e a
combattere la collera che aveva provato nei confronti del marito, della vita,
dello stesso Dio che aveva stabilito che quello fosse l’ultimo giorno della
vita di Laurent, senza nemmeno dargli il tempo di rendersene conto. Ma alla
fine, giovane vedova con due figli e un’attività da mandare comunque
avanti per sopravvivere, era stata costretta a riprendersi, rifugiandosi per
non impazzire di dolore in un dialogo quotidiano e ininterrotto con l’uomo
che aveva amato.
All’epoca del suo racconto ricordo di aver pensato quanto mi
meravigliasse l’incredibile forza delle donne, e tuttora mi sorprende sempre.
Sembra attingere a un pozzo inesauribile nascosto nelle pieghe più profonde
di anime forgiate nell’acciaio. Lutti, privazioni, dolore, nessuna disgrazia
sembra in grado di piegarle. Risorgono, raccolgono i brandelli di un’intera
esistenza e se li cuciono addosso come un vestito nuovo di zecca. Alcuni
dicono che siano le madri le donne più coraggiose. Dicono che per amore
dei figli siano in grado di dimenticarsi di se stesse e di consumare fino
all’ultima goccia del proprio sangue per preservare la loro felicità. A me,
ragazza che non aveva mai vissuto sulla propria pelle lo strazio della
perdita, era parsa un’impresa sovrumana, aveva spostato la dimensione
dell’esistenza su un piano eroico che prima di allora non credevo esistesse.
Ma la cosa che mi stupiva di più era la serenità con cui la mia amica
riusciva a raccontare quel pezzo di storia tragica della sua vita. Soltanto il
balenare di un’ombra nel celeste assoluto dei suoi occhi rivelava la
sofferenza che ancora, a distanza di tanti anni, le stringeva il cuore.
Tu ci sei riuscita, Gisèle.
Come hai fatto?Me lo puoi rivelare il tuo segreto?
Il taxi sembra volare sulla strada. Da dietro il finestrino osservo una
lunga fila di negozi che offrono chiamate all’estero a prezzi vantaggiosi e
che mi raccontano la storia evidente di un’immigrazione massiccia che,
negli ultimi anni, ha interessato la zona in cui si trova l’appartamento della
mia amica. Rue Ordener è un grande viale alberato, immaginaria linea di
confine fra la butte di Montmartre, sovrastata dal massiccio candore della
basilica del Sacré-Coeur, e i quartieri che si sviluppano lungo i binari della
Gare du Nord, come la Goutte d’Or, esotica e popolosa congerie di etnie
diverse e spesso in contrasto. Residenza di artisti, che ne popolano i
numerosi caffè, e comunità di immigrati, rue Ordener non è una delle zone
più tranquille della città, ma possiede comunque un suo innegabile fascino.
In passato è stata teatro di scontri violenti fra polizia e manifestanti,
momenti di tensione in cui i negozianti calavano le serrande e si
trinceravano all’interno in attesa che passasse la bufera.
Gisèle vive in questa strada praticamente da sempre, è qui che è nata e
cresciuta e qui è tornata dopo che, in seguito alla morte dei genitori e ai
matrimoni delle sorelle minori, l’appartamento era rimasto vuoto. La sua
casa si trova all’ultimo piano di uno dei palazzi più vicini a place Jules
Joffrin.
Il taxi si ferma davanti al portone verde. Sul marciapiede, con due valigie
ai piedi, mi guardo intorno, come per cercare di farmi coraggio prima di
suonare il citofono. Non l’ho avvertita del mio arrivo, né della decisione che
ho preso, quindi non so esattamente cosa le dirò.
Un foulard rosa shocking mi passa accanto svolazzando appeso al collo
di una ragazza bruna. Intravedo un sorriso e due occhi scuri e vivaci che per
un attimo mi sfiorano, prima di passare oltre. Un barboncino nero
dall’espressione birichina mi mostra la linguetta rosea mentre la mano
grinzosa del suo anziano padrone cerca di trattenere la sua esuberanza
tirando a fatica un guinzaglio rosso.
Mi attardo ancora sul marciapiede finché il sole cocente di mezzogiorno
non mi esorta ad agire. Mi avvicino al portone e premo il pulsante del
citofono.
«Oui?»
«Ciao, sono Viola.»
Soltanto una frazione di secondo, poi: «Oh, chérie! Vieni su!».
Gisèle mi accoglie davanti alla porta dell’ascensore con un sorriso e le
mani infilate in un paio di vecchi guanti da giardinaggio. «Stavo rinvasando
le mie aromatiche. È già tardi, avrei dovuto cominciare un mese fa, ma
meglio tardi che mai, no?» Prende una delle mie valigie e mi precede dentro
casa, senza aggiungere altro.
Il giorno in cui troverò il modo di sorprendere questa donna ballerò nuda
per la strada, lo giuro.
«Scusami se non ti ho avvertita, ma in realtà fino a stamattina non sapevo
nemmeno io che cosa avrei fatto...» le dico entrando in casa e cercando nel
frattempo le parole per introdurre il discorso.
Gisèle deposita la valigia nell’ingresso, aspetta che lo faccia anch’io e
poi, con un’alzata di spalle, mi guarda con un lampo beffardo negli occhi.
«Ti aspettavo.»
Tutto qua. Lei mi aspettava, ovvio, no?
Qualcosa di simile all’irritazione si fa strada dentro di me. Intendiamoci,
non pretendo di essere una persona imprevedibile, pronta a seguire un
impulso momentaneo influenzata dalle fasi lunari, proprio no. Ma nemmeno
mi piace che gli altri leggano dentro di me come se fossi un libro di cui si
conosce già la fine.
«Non sapevo che ti fossi comprata la sfera di cristallo» mi sfugge,
incontrollato.
Per tutta risposta la mia amica esplode in una risata fragorosa che sembra
non finire più. Io aspetto che dia fondo a tutta la sua ilarità, mentre la mia
irritazione si stempera un po’ di fronte alla sua reazione divertita.
«Oh, andiamo Viola, piantala di fare la sostenuta. Quando ho detto che ti
aspettavo non intendevo darti della persona banale e prevedibile» ribatte la
mia amica. «Non ti sento da tre giorni, ho provato a chiamarti sul cellulare
ed eri irraggiungibile, era chiaro che prima o poi ti saresti fatta viva tu. E
visto che oggi è domenica e sapevi che sarei stata a casa, ho pensato che
saresti venuta a trovarmi. Niente di più e niente di meno.» Fa una pausa. «E
poi, scusa, ma da quando sei diventata così permalosa?» aggiunge mentre
mi volta le spalle e si dirige verso il salotto.
Da quando non ho più niente da ridere, vorrei ribattere, ma la sua è una
domanda retorica e la mia un’altra risposta sgradevole, per cui mi mordo la
lingua e mi limito a seguirla.
Il salotto è grande, arioso e inondato di sole. Per quanto la casa sia
vecchia non ha affatto quell’aria stantia e soffocante che appesantisce molti
appartamenti antichi. Forse perché predominano le tinte chiare, sia sul
pavimento di marmo che sulle pareti ricoperte di una tappezzeria color
zafferano, o forse perché i pochi mobili, tutti pezzi di pregio, occupano la
stanza senza affollarla. Tutta la sala ispira un senso di pulizia e leggerezza
cui fa da perfetto complemento la grande vetrata che dà sul terrazzo,
affacciato sul cortile interno del condominio, da dove la luce entra con
prepotenza. Gisèle si accomoda sul divano color cipria e batte il palmo della
mano sul cuscino per farmi sedere accanto a lei. Sarà merito della luce, dei
colori, del sorriso della mia amica, ma a poco a poco sento svanire la
collera, sostituita da un riposante senso di serenità.
«Allora» comincia lei, «se sei disposta ad ascoltarmi vorrei che
parlassimo della proposta che ti ho fatto l’altra volta. Immagino che questi
tre giorni ti siano serviti per riflettere e arrivare a una decisione...»
Annuisco e apro la bocca per rispondere, ma lei mi precede.
«Aspetta, fammi finire. Ci tengo a dirti che la mia non è stata un’offerta
dettata dalla compassione. Tu sai che ti voglio bene come se fossi mia figlia
e che quello che ti è accaduto è stato molto doloroso anche per me, ma non
è per questo che vorrei che rimanessi qui.» Prende un respiro e continua,
come se dovesse affrontare un argomento difficile. «Non ti ho ancora detto
che Sabine ha smesso da un po’ di tempo di venire al negozio. Come avrai
saputo, circa sei mesi fa le hanno impiantato una protesi all’anca; sai, lei ha
sempre sofferto di artrosi, e nonostante l’operazione sia riuscita non si è
ancora ripresa e il lavoro la stanca moltissimo. So che non è niente di grave,
ma preferisco che rimanga a casa a riposare proprio perché si rimetta
completamente in forze. Il problema è che ormai non riesco più a gestire
l’erboristeria da sola, ci sono troppe cose a cui pensare, oltre al negozio in
sé. Fornitori, fatture, registri... insomma, cose che conosci bene anche tu.»
Fa una pausa, ma non la interrompo. «La scorsa settimana sono venuti a
trovarmi Mélusine e Florian...» I nomi dei due figli di Gisèle, frutto della
passione di Laurent per la storia medioevale, mi evocano come sempre
immagini di cavalieri e principesse prigioniere in un castello. «... E mi
hanno detto chiaro e tondo: “Mamma, i conti dell’erboristeria non reggono.
Hai un mare di clienti, ma riesci a malapena a stare a galla. Se non fai
qualcosa, da qui a sei mesi sarai fallita”. Loro insistono a dirmi che ormai è
arrivato il momento di vendere e andare in pensione, ma...» Mi guarda dritta
negli occhi, intensa e dolente. «Io non me la sento, Viola. Non ce la faccio a
rinunciare. Quel negozio è stato la mia salvezza dopo il fatto di Laurent e
abbandonarlo adesso per me significherebbe cominciare a morire.»
Si alza dal divano e va alla finestra. Intuisco l’ombra che in questo
momento le sta offuscando gli occhi, perduti verso l’orizzonte.
«È per questo che quando quattro giorni fa ti sei materializzata davanti
alla mia porta, mi è sembrato di vedere realizzarsi un desiderio» continua a
parlare voltandomi le spalle. «Ho pensato che fosse un segno del destino,
che mi diceva che per me non era ancora arrivata l’ora di rinunciare.»
Di colpo si gira e torna a sedersi accanto a me. Ha gli occhi lucidi.
«Per il momento non posso offrirti uno stipendio molto alto, ma penso
che con il tuo aiuto potrei rimettere il negozio in carreggiata» aggiunge
frettolosamente. «A meno che quelle» indica con un gesto le valigie rimaste
nell’ingresso, «non significhino che stai per ripartire...»
Leggo nei suoi occhi chiari un’ansia divorante e una preghiera inespressa.
Mi sta chiedendo aiuto, per la prima volta da quando la conosco. Lei, che
mi ha accolta e coccolata come una figlia, che non ha fatto domande quando
sono partita, né quando sono tornata, sta appendendo il suo futuro alla mia
risposta.
E in fondo, chi sono io per oppormi ai segni del destino?
«Veramente, ero venuta a chiederti un po’ di spazio nel tuo armadio. I
vestiti in valigia dopo un po’ si rovinano» le dico, mentre vedo i suoi occhi
illuminarsi.
Questa volta la sua risata somiglia più a un singhiozzo, ma il sollievo è
evidente. In preda all’euforia si alza in piedi e mi trascina per un braccio
mentre continua a parlare a raffica: «Oh, tesoro, non sai quanto mi fai
felice! Forza, alzati, andiamo a preparare la tua stanza, potrai prendere la
vecchia camera di Yvette, la sua era quella più grande, sai, mia sorella è
sempre stata la viziata di famiglia... da piccola aveva persino il letto a
baldacchino e la specchiera... Oh, e non sai la cosa più importante! C’è un
armadio fa-vo-lo-so!».
RIMEDIO PER RIATTIVARE IL III CHAKRA
Il terzo chakra, manipura, o “chakra del plesso solare”, si trova, come
dice il nome, all’altezza del diaframma. È un chakra molto importante,
regola la capacità di agire, l’autostima e la volontà. Quando è squilibrato e
il canale energetico è bloccato, cadiamo preda di dubbi, incertezze e
diffidenza verso gli altri.
Una pianta ideale per sbloccare l’energia trattenuta e aprire il canale è
l’ALTEA. Puoi utilizzare un cucchiaino di foglie e fiori essiccati, messo in
infusione in una tazza d’acqua calda per almeno cinque minuti. Dopo aver
bevuto la tisana, respira e sentirai allentare la tensione che contrae il
diaframma per un eccesso di controllo.
Un altro apporto benefico è garantito da semplici piante da giardino: la
LAVANDA, il ROSMARINO, la MELISSA e la CURCUMA, per esempio.
Puoi assumerle sia sotto forma di tinture madri sia come ingredienti nella
normale alimentazione.
7
Nel silenzio assoluto della casa di Gisèle, la sveglia strilla impietosa alle
sette del mattino facendomi spalancare gli occhi con un sussulto. Oggi
comincia la prima giornata della mia nuova vita, mi sento carica d’energia,
anche se un fondo strisciante d’ansia minaccia di vanificare tutto. Ma le
resisto, la schiaffeggio mentalmente e mi strappo di dosso le lenzuola. Mi
dirigo direttamente in cucina attirata da un allettante profumo di caffè
appena fatto. Gisèle è già pronta, abitino longuette di lino blu che sottolinea
il fisico da ballerina classica, trucco leggero e occhi scintillanti. Una delizia
su cui posare lo sguardo ancora assonnato.
«Bonjour, ma petite, hai dormito bene?» mi dice mentre riempie una
tazza di caffè.
Annuisco, ancora intorpidita, e mi siedo al tavolo apparecchiato dove mi
aspettano pane tostato, burro e marmellata. Sento l’appetito pungermi lo
stomaco e mi servo generosamente, mentre il mio umore comincia già a
migliorare.
«Che eleganza stamattina» dico con la bocca piena, osservando la tenuta
accurata della mia amica. «È un modo per festeggiare il mio primo giorno
di lavoro?»
Lei esita. «In realtà no. Sai, cara, pensavo che oggi potresti aprire tu il
negozio. Io devo andare dal commercialista per fargli preparare il tuo
contratto d’assunzione. Così ufficializziamo il tuo ritorno.» Mi sorride. «E
stasera festeggeremo a ostriche e champagne.»
Il boccone mi rimane in gola. Accidenti, non pensavo che succedesse
tutto così in fretta. E poi, come faccio senza di lei? Bevo un sorso di
caffellatte mentre cerco di elaborare una risposta.
«Non mi piacciono le ostriche.»
Gisèle mi guarda, giustamente, come se fossi una mentecatta.
Correggo il tiro. «No, be’, in realtà non mi convince molto l’idea di
aprire da sola. Non mi ricordo nemmeno dove sono i prodotti. E poi i
prezzi, come faccio con gli scontrini? E se mi chiedono qualcosa che non
so? Non potresti venire con me e andare dal commercialista nel
pomeriggio? Magari chiudiamo un po’ prima» le dico tutto d’un fiato.
Sembra che in un attimo i buoni propositi della sera precedente siano
scomparsi.
Gisèle resta silenziosa, in piedi sulla soglia mi osserva con la testa
leggermente inclinata. Sospira, poi torna a sedersi vicino a me. «Tesoro, le
chiavi del negozio sono sulla consolle dell’ingresso. La porta si apre nello
stesso modo da quarant’anni e gli interruttori delle luci sono sulle stesse
pareti forse anche da prima. Tutti i prodotti sono esposti con tanto di
cartellino del prezzo e gli scaffali delle erbe seguono l’ordine alfabetico,
come sai perfettamente.» Mi lancia un’occhiata divertita. «La mia nipotina
dodicenne sarebbe in grado di tenere il negozio aperto per una mattina» dice
sorridendo. «Quindi immagino che il vero problema non sia questo, mi
sbaglio?»
No, non sbaglia. Cincischio un po’ con il pane tostato, cercando le parole.
Sento che vogliono uscire e forse parlarne mi aiuterebbe a scacciare la
paura. Prendo un respiro profondo. «Credo... credo di non essere più in
grado di lavorare come prima» dico lentamente.
Gisèle mi guarda un po’ sorpresa. «E perché mai?»
«Io credo di aver perso il mio tocco, se vogliamo chiamarlo così. O forse
il mio intuito, non so. Quello che so è che non mi fido più di me stessa, ho
paura che se ricominciassi a lavorare potrei... fare del male a qualcuno.»
Non oso guardare Gisèle negli occhi.
Lei ci pensa su, si prende del tempo per elaborare quello che le ho detto
prima di darmi una risposta. «Tesoro, quello che ti è successo avrebbe
messo a dura prova chiunque. La perdita di Michel, la sua malattia e tutto
quel che ne è seguito...» Mi prende la mano e la stringe. «Credo sia normale
che adesso tu ti senta così spaventata e...»
«No, no» non la lascio finire. «Non hai capito, non è solo questo. C’è una
cosa che non ti ho detto.» Faccio un respiro profondo. «Sai, non mi sono
presa una vacanza dallo studio per venire qui, come ho raccontato a Yvette,
forse te l’ha anche detto. In realtà... mi hanno cacciata...»
«Cosa???»
«Sì, è successa una cosa brutta... e con una bambina, purtroppo.»
Gisèle non parla, mi stringe la mano e mi guarda e aspetta che sia io a
continuare.
«Non so come sia accaduto, ma le ho prescritto la cura sbagliata e lei ha
avuto una reazione allergica violentissima, è finita al pronto soccorso. La
madre voleva denunciarmi» dico con una smorfia. «Il dottor Ferri lì per lì
mi ha difesa, ma poi mi ha consigliato caldamente di prendermi un lungo
periodo di riposo e poi, forse, avremmo potuto valutare un mio ritorno. Che
non è mai avvenuto.»
Guardo Gisèle, ha gli occhi sgranati per lo stupore. «Tesoro, mi dispiace,
non ne avevo idea, ma una diagnosi sbagliata, purtroppo, può capitare a
chiunque. Certo, nel tuo caso le conseguenze sono state gravi, ma questo
non significa che tu...»
«Aspetta» le dico, interrompendola ancora. Ormai ho rotto gli argini e le
parole mi affiorano impazienti alle labbra. «Non si tratta di una diagnosi
sbagliata. Io quella bambina non l’ho vista. La guardavo senza vederla,
senza percepirla. Era come se tra me e lei ci fosse un vetro. Mi sono fatta
prendere dal panico e non le ho nemmeno fatto compilare il questionario
anamnestico, ecco perché non sapevo della sua allergia. Ma il peggio è
venuto dopo, quando l’ho rivista in studio. Aveva ancora il viso gonfio e
coperto di bolle, ma il suo sguardo è stato la cosa peggiore. Era incredula e
piena di rimprovero. Si era fidata di me e io l’avevo tradita.»
Trattengo il pianto e mi sforzo di continuare. «Ho perso le mie capacità,
Gisèle, e se a un naturopata togli l’intuito, che cosa resta? Un sacco di belle
teorie e niente più» dico con una risatina triste. «E forse non è nemmeno il
caso che vada a cercare colle miracolose per riparare qualcosa che si è rotto
irrimediabilmente.»
Per un attimo scende il silenzio, le mie parole si depositano piano piano.
Gisèle non ha mai smesso di guardarmi e tenermi la mano, avverto il suo
turbamento, ma poi si riscuote. «È una storia brutta quella che mi hai
raccontato, è vero. Ma io non credo che sia tutto perduto. Hai subito un
lutto terribile e il dolore ha fatto calare una nebbia su di te e ti ha impedito
di rimanere in contatto con te stessa, ma le tue qualità sono ancora lì,
addormentate, forse, ma ci sono.» La guardo e vedo nei suoi occhi una
fermezza che mi rincuora un poco. «Non essere così rinunciataria, Viola. Se
un vaso si rompe, se ne può sempre creare uno nuovo, da zero. Non fuggire
dalla vita, accetta quello che ti è accaduto, ogni cosa. Fermati, rientra in te
stessa e ricomincia da capo. Puoi farcela, ne sono sicura.»
Fermati, Viola. È il momento di farlo. E le sue non sono soltanto parole,
chi meglio di lei può sapere che cosa significa?
Mi sorride dolcemente, poi lascia la mia mano e si alza per uscire. «Si è
fatto tardi, io devo andare. Tu preparati con calma e poi ci vediamo dopo, al
negozio.» Mi stampa un bacio sulla guancia e se ne va, con un ultimo
sguardo d’incoraggiamento.
Sono ancora un po’ turbata, ma aver raccontato il fattaccio mi fa sentire
anche più leggera. Uno sguardo all’orologio mi dice che ho poco tempo per
prepararmi, quindi filo in bagno a farmi una doccia. L’acqua calda scivola
sulla mia pelle che l’accoglie con gratitudine. Appena finito mi avvolgo
nell’asciugamano e mi avvicino al lavandino per lavarmi i denti. Alzo gli
occhi allo specchio velato dal vapore e vi colgo il mio riflesso. L’alone
sfumato mi regala un’immagine delicata, quasi fiabesca che mi fa apparire
molto più bella di quanto non sia in realtà. Mi avvicino e mi scruto.
Somiglio a mia madre, non c’è che dire. Gli occhi grandi e neri e i capelli
scuri, ondulati, lunghi fino a metà schiena sono stati un suo regalo. Per il
naso dritto e sottile e la bocca piccola e piena non so chi ringraziare, non
sono tratti di mio padre, chissà, forse risalgono a un antenato che non ho
conosciuto. Mi avvicino ancora e mi fisso dritta negli occhi. Le iridi nere
sono difficili da leggere senza lo strumento adeguato, pigmenti e lacune
passano quasi inosservati.
... I tuoi occhi sono un mistero per me, se non ti conoscessi bene penserei
che mi hai tenuto nascosto qualche segreto sulla tua vita...
Mi tornano in mente le parole di Michel. Avrebbe tanto voluto studiare a
fondo i miei occhi, ma non gliel’ho mai permesso. E adesso che non potrà
più farlo, mi pento. Dio se mi pento...
Alle otto meno un quarto sono fuori dal portone, dieci minuti di
metropolitana e pochi altri a piedi e sarò al negozio in perfetto orario per
l’apertura. È una bella giornata, calda e serena, e sento che i raggi del sole
cominciano ad agire piacevolmente sul mio umore. Mentre cammino, a
poco a poco un senso di euforia si impadronisce di me. Puoi farcela ne sono
sicura! Sì, Gisèle, adesso lo so.
La serranda del negozio è pesante, mi chiedo perché la mia amica si
ostini a non metterne una elettrica, ma credo che anche questo rientri nel
suo attaccamento alle tradizioni e al rifiuto della modernità, persino quando
potrebbe facilitarle la vita. A volte è un po’ eccessiva. Mi accomodo dietro
il bancone. Per un po’ mi abbandono alla quiete che mi circonda, è ancora
presto e di solito i primi clienti cominciano ad arrivare a mattino inoltrato.
Durante il periodo in cui avevo lavorato qui, avevo cominciato per gioco
a fare uno studio sulla clientela che frequentava l’erboristeria. Donne, per lo
più, e diversissime fra loro per ceto, cultura e carattere, ma mi sembrava che
avessero tutte un denominatore comune: la voglia di sentirsi persone
migliori e di compiere un gesto d’amore verso se stesse. Mentre sono
immersa nelle mie riflessioni socio-antropologiche sulle possibili
acquirenti, vengo distratta dal rumore della porta che si apre. Al posto della
prima cliente che ero pronta ad accogliere, mi ritrovo davanti un uomo, un
signore anziano, sulla settantina, aspetto distinto e viso cordiale, che si
ferma esitante sulla porta. Mi ricompongo e lo guardo incuriosita,
aspettando la sua richiesta. Mi accorgo che il sorriso che aveva stampato in
faccia un attimo prima sta svanendo mentre mi fissa, sostituito da
un’espressione quasi spaventata. L’uomo non parla, sembra quasi
pietrificato e ho la netta sensazione che se non dico in fretta qualcosa lo
vedrò fare precipitosamente dietro-front e uscire a tutta velocità.
«Buongiorno, posso esserle utile?» gli chiedo, per invitarlo a entrare.
«Buongiorno... non so... ecco, io non pensavo... credevo... Ma non c’è la
signora...?» balbetta in modo incoerente. Il suo disagio è talmente forte che
potrei toccarlo.
«Oh, lei pensava di trovare Gisèle, è un suo amico?» gli chiedo. Magari è
un cliente abituale, oppure il marito di un’amica di Gisèle spedito qui a fare
una commissione e vuole rivolgersi soltanto a lei per evitare di commettere
sbagli.
«No, non esattamente...» continua lui, indeciso se restare o andarsene.
«Guardi, Gisèle dovrebbe arrivare fra poco, se preferisce parlare con
lei...»
«No, no, no!» mi interrompe precipitosamente. Si guarda intorno
nervoso, fa qualche passo nel negozio, giocherella con un cestino di saponi
a forma di cuore, continuando a lanciare occhiate furtive in giro, poi, dopo
una breve esitazione esclama: «Ah!» e si dirige a passo di carica verso il
settore dei preparati cosmetici, afferra senza guardare una scatola da uno
degli scaffali e viene con decisione verso di me, mettendomi davanti il
pacchetto.
«Quanto le devo?» mi chiede, senza guardarmi in faccia.
Do un’occhiata all’oggetto e involontariamente inarco un sopracciglio.
Guardo il signore e mi verrebbe spontaneo chiedergli se è sicuro di aver
preso proprio quello che cercava, ma lui tiene gli occhi ostinatamente fissi
sul suo portafoglio mentre armeggia per tirare fuori le banconote.
Ingoio la domanda. «Dodici euro e cinquanta. Vuole una bustina?»
L’uomo mette i soldi sul bancone, afferra la sua scatola e se la infila in
tasca, sempre senza guardarmi. Mi sembra di scorgere un leggero rossore
sulle sue guance. «No, grazie, va bene così» mi dice mentre mi volta le
spalle. «Arrivederci.» La porta si richiude dietro di lui.
Non so se stupirmi di più per tutta la scena che si è appena svolta davanti
ai miei occhi o per la stranezza dell’articolo acquistato.
Una vezzosa confezione di cipria profumata alla vaniglia con tanto di
piumino rosa.
Farà contenta sua moglie, immagino.
Scuoto la testa sorridendo, e in quel momento sento di nuovo il rumore
della porta che si apre.
«Buongiorno, la signora Fleuret-Bourry?» chiede un’altra voce maschile,
piuttosto seria.
Quasi quasi comincio a ricredermi sulle statistiche di genere.
Il tizio che è entrato è un giovane sulla trentina, anonimo nella perfezione
dei capelli e della barba tagliati con il goniometro. Mi guarda con aria
distaccata. Ha una cartellina di pelle sotto il braccio. Non è di certo uno dei
fornitori di Gisèle. Il suo completo grigio, impeccabile e molto faticoso in
questa giornata così calda, mi fa pensare a un venditore o a un impiegato di
banca.
«La signora Fleuret-Bourry è fuori, al momento. Se vuole può parlare con
me, sono la sua assistente.» Adotto lo stesso tono professionale. Lui mi
squadra da capo a piedi e la mia casacca di lino grezzo accoppiata a un paio
di pantaloni neri, larghi e un po’ sformati, non sembrano ispirargli molta
fiducia.
«Ho bisogno di parlare urgentemente con la signora. Si tratta di una
questione delicata.»
Il suo tono saccente e pomposo mi urta i nervi. «Come le ho detto, la
signora non c’è. Le ripeto che può comunque lasciare un messaggio,
signor...?»
Lui sbuffa, palesemente infastidito. È evidente che non vuole concedersi
a quella che ritiene una semplice commessa.
«Philippe Leblanc» mi dice mentre contemporaneamente sfodera un
biglietto da visita che mi punta contro come un coltello. Do un’occhiata
veloce e leggo:
BANCA PALATINE – SERVIZI E PRODOTTI FINANZIARI
Accidenti, il mio intuito aveva visto giusto.
«Riferisca alla signora Fleuret-Bourry che deve venire al più presto in
filiale. Ci sono gravi problemi con il suo prestito. Le auguro buona
giornata.» Senza nemmeno darmi il tempo di aprire bocca, gira i tacchi ed
esce dal negozio.
Io resto con il biglietto in mano e,
addosso, un vago senso di
inquietudine.
8
«Allora, è stato tanto terribile?»
Un’ora dopo la voce allegra di Gisèle irrompe nel negozio. Sono felice di
vederla.
«Devi mettere una serranda elettrica, mi sono quasi spezzata la schiena
per tirarla su» rispondo in tono di finto rimprovero.
Lei alza gli occhi al cielo e sospira. «Va bene, ci penserò. Ma adesso ho
una sorpresa per te. Ecco qua» mentre parla tira fuori un foglio dalla borsa e
me lo porge con un’espressione radiosa. Lo prendo e gli do un’occhiata:
Contrat de travail. E così è fatta. Basterà una firma per iniziare a scrivere un
nuovo capitolo della mia vita. Sono spaventata, è vero, ma se adesso scelgo
di rimanere qui potrò davvero cominciare a ricostruire.
Gisèle mi aspetta, trepidante e fiduciosa. Appoggio il contratto sul
bancone e cerco una penna, ma in quel momento si apre la porta del
negozio. La mia firma è rimandata. Comincia il flusso della clientela. In
pochi minuti il negozio sembra pieno. Una signora con lunghi capelli scuri
raccolti in una coda di cavallo, accompagnata da un’adolescente filiforme in
jeans e ballerine rosa che sembra la sua fotocopia senza rughe. Poi una
ragazza, forse una studentessa universitaria, aria svagata e una borsa
enorme da cui spuntano libri di diritto. Poco dopo, infine, una giovane
donna sulla trentina. Gisèle si occupa della coppia madre-figlia mentre io
mi concentro sulla studentessa. Con la coda dell’occhio però, osservo
incuriosita la terza cliente. Ha un aspetto originale, direi quasi stravagante:
una testa piena di treccine bionde fermate con delle perline, un paio di
orecchini artigianali d’argento a forma di pesce e, addosso, la più sfrenata
fantasia cromatica che abbia mai visto: una lunga sciarpa fucsia ornata di
monetine argentate, top verde prato con disegni tribali arancioni e pantaloni
ampi di lino giallo sole sostenuti da un’alta cintura di canapa grezza.
Sembra una farfalla. Mi ispira simpatia e un pizzico d’invidia. Vorrei avere
la sua leggerezza. In pochi minuti soddisfo le richieste della studentessa
distratta: una fiala di fiore assoluto di clematis e un flacone di estratto
concentrato di ginseng. Probabilmente si sta preparando per un esame e
invece di intossicarsi con caffè e sigarette vuole provare qualcosa di meno
dannoso. La cliente esce soddisfatta e io posso finalmente dedicarmi alla
ragazza che mi attira così tanto. Mi avvicino per chiederle cosa desidera.
Lei mi sorride timidamente poi si guarda intorno.
«È molto carino questo posto» dice un po’ incerta. «È da un po’ che ci
passo davanti e stavolta mi sono decisa a entrare. Non ce ne sono tante di
erboristerie così, sembra una bottega d’altri tempi.»
Lo stesso pensiero che avevo avuto io entrando qui per la prima volta.
Questa ragazza mi piace ancora di più. La osservo da vicino. È molto
graziosa, lineamenti delicati, occhi dorati come topazi e naso sottile con la
punta all’insù. Un viso aristocratico. Mani lunghe e affusolate con le dita
ricoperte di anelli. Intravedo l’orlo frastagliato di un tatuaggio blu che
spunta da sotto il top, verso la clavicola. Una principessa ribelle? Eppure in
lei c’è qualcosa che mi turba, nei suoi gesti intuisco un’incertezza, forse una
fragilità che non riesco a definire. Un’ombra negli occhi, un fare
leggermente nervoso, affannato. Vorrei parlarle, ma lei si tiene lontana così
le sorrido e le dico: «Puoi guardare tutto quello che vuoi, è vero, questo
posto è fuori del comune» e lascio che si muova liberamente. La sbircio a
distanza mentre si aggira fra gli scaffali poi, vedendo che non si avvicina, le
lascio il suo tempo e vado ad aiutare Gisèle.
Accade all’improvviso.
Uno schianto.
Immagini rapide incalzanti.
Barattoli e scatole che si riversano sul pavimento cadendo dallo scaffale
su cui erano appoggiati fino a un attimo prima.
La ragazza-farfalla che si aggrappa alle mensole come se stesse per
annegare, rischiando di tirarsi addosso tutto il mobile. Un respiro affannoso
il suo, quasi un rantolo.
Questione di secondi, la signora e la ragazza sono paralizzate dallo
spavento, Gisèle è rimasta con una busta in mano, il braccio a mezz’aria e
mi guarda sbalordita, senza sapere che pesci prendere.
Chiamate un’ambulanza! Oddio, ma è ubriaca? Forse ha preso qualcosa...
Sento le voci, ma i miei occhi sono fissi sulla ragazza, avevo ragione a
pensare che avesse qualcosa che non andava. È raggomitolata sul
pavimento, il respiro sempre più corto e frenetico, un gemito terrorizzato
che le esce dal petto. Corro accanto a lei, mi inginocchio e le appoggio
delicatamente una mano sulla spalla. All’improvviso si volta, mi afferra la
mano e mi guarda, il viso sudato e congestionato, gli occhi enormi e
smarriti.
«Aiutami... ti prego...» Un filo di voce.
Non c’è tempo per le mie paure, questa donna ha bisogno di me, ha un
attacco di panico in piena regola e io devo aiutarla. Posso farlo.
«Non ti preoccupare, andrà tutto bene» le dico con una tranquillità che
sono ben lontana dal provare. «Cerca di respirare e conta: uno, due, tre...»
Mi resiste, non segue le mie istruzioni, continua a rantolare ridotta a un
ammasso tremante sul pavimento di piastrelle.
Non mi crede.
«Ascoltami, andrà tutto bene» le ripeto, «non devi preoccuparti, sono qui
con te e non ti lascio. Ma adesso devi respirare, fallo insieme a me. Uno,
due, tre...»
Le metto una mano sul petto e appoggio la sua sul mio, per farle sentire il
ritmo del mio respiro. Il mio tono pacato sembra penetrare la nebbia del suo
spavento e a poco a poco la sento rilassarsi sotto la mia mano. Mi
asseconda, fa un respiro profondo che sembra squassarle il petto e butta
fuori l’aria. Una volta. Due. Tre, in sincrono con me. Chiude gli occhi.
«Bravissima, adesso cerca di alzarti. Con calma, non c’è fretta. Io sono
qui con te, non ti lascio.»
La ragazza riapre gli occhi e li fissa nei miei. Sono vellutati come quelli
di un cerbiatto. Belli, ma la loro bellezza potrebbe dirmi ben altro...
... L’iride ematogena può comprendere un sottotipo ansioso-tetanico,
caratteristico degli individui iperattivi, ansiosi, inquieti...
Rarefatte come echi lontani, le parole di Michel riemergono dalla
superficie dei ricordi, come se mi parlasse all’orecchio. E come sempre,
quando penso a lui, mi sento mancare e alla pena dell’assenza si aggiunge,
questa volta, l’amarezza del rimpianto.
Se solo lo avessi ascoltato...
Ma non è questo il momento per rammaricarsi. Con delicatezza, aiuto la
ragazza ad alzarsi, è malferma e si abbandona completamente al mio
sostegno.
Si fida.
Mi sfugge un sorriso.
«Adesso andiamo nel retro, ti farò sedere per un po’, finché non ti
riprendi. Tu concentrati soltanto sul tuo respiro.»
Lei annuisce e si lascia guidare verso la stanza dove anch’io, in passato,
ho trascorso tanti momenti difficili alleviati da tisane, oli aromatici e
discorsi rassicuranti di Gisèle.
Mentre le passo accanto, la mia amica mi osserva intensamente. Li sento
i suoi pensieri, mi sta dicendo “brava” e poi anche “te l’avevo detto, no?”.
Sì, Gisèle, me lo avevi detto.
Mi chiudo la porta alle spalle, nel negozio è tornata la calma. Si è trattato
di pochi attimi concitati, ma a me sono parsi un’eternità.
La ragazza sembra leggermente più tranquilla, ma il suo respiro è sempre
affannoso.
«Ecco, siediti qui. Come ti chiami?»
«Camille» mi risponde con un filo di voce.
«Bene, Camille. Adesso ti porterò dell’acqua. Tu dovrai berla a piccoli
sorsi e molto lentamente. Aspettami qui, chiudi gli occhi e respira.»
Con una rapida incursione nel negozio, mi approprio di una fiala di
Rescue Remedy e di un flaconcino di olio essenziale di lavanda, poi torno
nel retro e vado a prendere l’acqua nel cucinino. Senza che Camille se ne
accorga, vi aggiungo quattro gocce del mix floreale del signor Bach, che si
è sempre rivelato vincente in queste situazioni.
Mentre Camille sorseggia l’acqua corretta, stappo il flaconcino di olio
essenziale e lascio che l’aroma delicato si sprigioni nella stanza.
«Ti piace?» le chiedo.
Lei esita per un attimo, il bicchiere a mezz’aria, poi annuisce
timidamente. Il suo volto è già più disteso. Le prendo una mano e applico
due gocce di olio essenziale sull’incavo del polso, dove il sangue scorre
appena sotto pelle. La lavanda ha un profumo consolatorio, è un aroma che
risveglia ricordi d’infanzia, atmosfere familiari. Spero che su di lei abbia un
effetto rilassante.
«Ti fa venire in mente qualcosa? Un’immagine, un ricordo...»
Camille ci pensa un po’ su, poi dice: «Sì... mi ricorda le estati in
Provenza, a casa di mia zia, la sorella di mia madre... è stato un bel periodo
quello, c’era tanto calore... Solo che è durato poco... peccato» conclude con
un lieve sospiro.
Mi guarda con quei suoi occhi profondi e un po’ smarriti.
«Come ti senti?» le chiedo d’impulso.
«Meglio» risponde.
«Ti era mai successa una cosa del genere?» le chiedo.
Lei mi osserva, inclinando un po’ la testa. «Be’... proprio così forte, no.
Però... è da un po’ che mi sento strana, agitata. Certe volte mi sembra che
mi manchi l’aria e sento il cuore che batte a mille...»
Ma questi sono veri attacchi di panico, il sintomo di un profondo disagio
interiore. E in effetti, nonostante tutti i colori che si è messa addosso, ora
che le sono tanto vicina, avverto le ombre che si porta dentro.
«Senti» mi chiede. «Quella cosa che mi hai fatto bere... non era solo
acqua, vero?»
Sorrido, il suo tono turbato sembra nascondere il sospetto che l’abbia
drogata. «No, non era solo acqua. Dentro c’erano alcune gocce di Rescue
Remedy.»
«Ah. E che cosa sarebbe?»
«Fiori di Bach. Ne hai mai sentito parlare?» Il suo sguardo interrogativo
mi dice chiaramente di no. «Te li racconto con la descrizione più poetica
che conosco: sono rimedi ricavati dalla macerazione dei fiori in acqua
sorgiva, scaldata dal sole.»
Mi guarda incredula. «Detta così sembra la pozione di una strega. E a che
cosa servono?»
«Be’, secondo Bach servono a riportare la personalità sul cammino
tracciato dall’anima... Okay, cerco di semplificare la questione» dico di
fronte all’espressione perplessa di Camille. «La floriterapia si basa su una
teoria filosofica secondo la quale l’uomo viene al mondo allo scopo di
imparare una lezione e, quando nasce, assume una personalità tipo che
contiene in sé due principi: un difetto da superare e una virtù da rafforzare.
E sotto la guida dell’anima dovremmo essere in grado di raggiungere
entrambi gli obiettivi. Se però la personalità si distacca dall’influenza
dell’anima a quel punto nasce una disarmonia, un conflitto insomma, che
provoca lo stato di malessere, e il fiore adeguato può ristabilire l’equilibrio
perduto... Ti è più chiaro adesso?»
Lei scuote la testa, ma sorride. «Per niente. Comunque, anche se non li ho
capiti, i tuoi fiori mi sono piaciuti. Sempre meglio che stordirsi con le
benzodiazepine come faccio io» conclude con una smorfia.
«Be’, si può sempre tentare un’altra strada, non credi?» Prendo la fialetta
e gliela metto in mano. «Prova a prenderne quattro gocce quando ne senti il
bisogno. Sotto la lingua.»
Camille osserva la fialetta sulla sua mano, poi mi rivolge un sorriso in cui
si mescolano scetticismo, curiosità e forse un barlume di fiducia.
«Bene» le dico, cercando di non spezzare quel tenue contatto che pare
essersi stabilito fra di noi. «Allora, se ti va puoi rimanere ancora un po’ qui
a riposarti, io devo tornare di là, Gisèle avrà bisogno di me.»
«No, no, adesso vado, mi sento bene. Ti ringrazio tanto e scusami per il
disturbo» aggiunge con un sorriso incerto.
«Nessun disturbo» le dico. «Ti accompagno.»
La scorto fino all’uscita e lei mi saluta, poi, sulla porta si gira e mi dice:
«A presto».
Le sorrido senza risponderle.
«Tutto risolto?» mi chiede Gisèle mentre mi avvicino al bancone.
Finalmente nel negozio ci siamo soltanto noi due. Mi appoggio con i
gomiti sul ripiano, il palmo della mano che mi sostiene il mento.
«Sì, è stato soltanto un attacco di panico, niente di grave. Almeno...» Mi
interrompo, incerta se continuare o meno. Non ho elementi sufficienti per
una diagnosi, ci vorrebbe una visita approfondita, ma non credo che il
problema di Camille si sia risolto con quattro gocce di Rescue Remedy. La
sua iride suggeriva qualcosa di più viscerale, forse un trauma antico.
«Almeno cosa?» insiste Gisèle. «Mi sembra che tu te la sia cavata
egregiamente.»
Il suo sguardo è così incoraggiante che mi commuove. Ma quello che ho
fatto con Camille è stato facile, questione di tecnica. Le emozioni che mi
porto dietro sono ben altre. E mi fanno paura.
Gisèle mi si avvicina e mi scosta un ciuffo di capelli dal viso. «A che
cosa stai pensando?»
La guardo e sento una fitta al cuore.
«Michel è morto per colpa mia, Gisèle.»
9
Lo spazio sembra cristallizzarsi e le mie parole restano, palpabili, fra di
noi.
Lei sgrana gli occhi. «Ma che diavolo stai dicendo?»
«Sì, è stata colpa mia» ripeto, stavolta scoppiando a piangere. «Non sono
stata capace di salvarlo, non mi sono accorta di niente finché non è stato
troppo tardi. E tutto perché non l’ho guardato, perché mi sono sempre
rifiutata di seguire i suoi insegnamenti e...»
L’abbraccio di Gisèle soffoca le mie parole e i miei singhiozzi. Mi
accarezza i capelli e mi tiene stretta, cullandomi come una bambina,
incurante delle lacrime che le inzuppano la spalla. Aspetta un tempo
infinito, finché non sente che il mio respiro si fa più calmo e le lacrime
smettono di scendere. Solo allora si discosta un po’ e mi fa sedere sullo
sgabello.
«Piccola, non puoi fartene una colpa» mi dice con voce sommessa. «La
malattia di Michel era insidiosa, si è manifestata quando ormai era arrivato
al limite, come avresti potuto accorgertene? Soprattutto quando lui stesso
aveva deciso di tenertela nascosta per non farti soffrire.»
«Ma io ero sua moglie, Gisèle» le rispondo con un filo di voce. «Come
ho potuto ignorare tutto? Vivevo con lui, lavoravo con lui, dormivo e
mangiavo insieme a lui, tutti i giorni! E come se non bastasse, io dovrei
essere una persona capace di rilevare i sintomi meno appariscenti, è per
questo che ho studiato, era la mia vocazione! E invece sono stata cieca, la
malattia lo consumava e io non lo capivo. Lui ha vissuto per mesi senza
fiatare, magari soffriva, ma non ha mai emesso un lamento, anzi...» Al
ricordo degli ultimi tempi mi manca il fiato, il dolore mi spezza la voce. «...
è stato forse uno dei periodi più intensi che abbiamo passato insieme, lui era
così... proteso verso di me, anche se lavorava sempre fino a tardi, lo vedevo
dai suoi gesti, da come mi guardava, sembrava accarezzarmi... è stato come
se con la sua presenza volesse lasciarmi qualcosa di prezioso da conservare
per sempre nel cuore.»
Le lacrime ricominciano a scendere e io non faccio niente per fermarle.
«E adesso... adesso che lui non è più con me... io ho paura di andare avanti
perché non so come andare avanti.»
D’un tratto mi sento addosso una stanchezza profonda e mi abbandono al
pianto. Ma la mia amica non ha intenzione di lasciarmi smarrire nei miei
timori. Mi mette una mano sotto il mento e mi costringe a guardarla.
«Viola, è proprio pensando a Michel che lo farai.»
Il lampo d’incredulità nei miei occhi la fa sorridere.
«Pensa che lui ti ha lasciato un’eredità molto importante. Tutti i suoi
studi, la sua passione per l’iridologia, le sue conoscenze. Avete condiviso
un mondo meraviglioso insieme e tu dovrai portarlo avanti anche per lui.
Glielo devi. Non sentirti in colpa, agisci. Solo così dimostrerai che Michel
non è vissuto invano e che ti ha fatta crescere.»
Le sue parole mi colpiscono. Forse ha ragione.
«Ho ancora tanto da imparare» le dico con fare incerto.
Lei ride e i suoi occhi si illuminano. Mi dà un buffetto sul mento.
«Piccola mia, non basta una vita intera per imparare tutto. Chi smette di
cercare si condanna a morte.» Prende le mie mani e le apre come se
sostenessero una coppa. «Questo adesso è il vaso che devi costruire. E lo
farai, più bello e prezioso di prima.»
SCHEDA IRIDOLOGICA
Tipo Mentale, detto anche Gioiello.
Iride: solitamente a trama fitta in cui sono evidenti delle macchie di
colore scuro rispetto al fondo. Queste macchie, o pigmenti, possono essere
più o meno grandi e vengono chiamate gioielli. Proprio per questo il
Mentale è detto Gioiello.
Personalità: natura analitica orientata al pensiero. Ogni emozione,
percezione, sensazione, viene passata al setaccio della riflessione. Grande
capacità di osservazione, apprende al meglio tramite la vista.
Carattere: riflessivo, controllato, regale. Gestualità molto limitata e
trattenuta. Grande capacità di esprimersi a parole, vocazione alla leadership.
Possiede una notevole sensibilità che però reprime in favore dell’analisi
razionale.
Paure: ha paura di lasciarsi andare e dell’intimità. Per difendersi critica
ciò che non conosce. È solitamente vicino alla madre mentre tende al
conflitto con il padre.
Attrazione: tipo Emozionale.
Il vaso immaginario che mi ha consegnato Gisèle è ancora fra le mie
mani mentre cammino lentamente lungo rue Ravignan. Mi sembra quasi di
sentirne il peso, con tutte le implicazioni che sottintende.
Gisèle mi ha dato il resto della giornata libera, e io ne approfitto per
passeggiare senza meta, ho voglia di far decantare tutte le emozioni della
mattina. Camille... Michel... È stato come se nello spazio di poche ore tutti i
miei fantasmi fossero venuti a trovarmi per organizzare un party. Con me al
posto d’onore. Ma siccome sono sicura che niente accada per caso,
l’incontro con la ragazza-farfalla continua a rimanere al centro dei miei
pensieri. È entrata proprio nell’erboristeria di Gisèle, eppure non c’è
soltanto la sua bottega a Montmartre. Sarebbe potuta arrivare due giorni
prima e non mi avrebbe trovata, invece eccola che capita proprio oggi. E la
sua presenza ha catalizzato tutte le mie paure. Continuo a risalire piano
piano la strada, ogni tanto do un’occhiata alle vetrine sporadiche. Mi è
venuta voglia di un caffè, magari con qualcosa da mangiare. Proprio davanti
a me si erge un magnifico bistrot su due piani, con la facciata
completamente rivestita di legno e le finestre a bovindo, in una piazzetta
piena di fiori e tavolini all’aperto sotto gli ombrelloni colorati. È a dir poco
invitante, con questa sua aria festosa, ma nella mia mente si affaccia d’un
tratto un’altra idea.
In fondo sono solo poche decine di metri.
L’enorme tazzina gialla si lascia intravedere non appena giro l’angolo.
Per un attimo l’incertezza mi fa esitare prima di raggiungere la porta. Sono
passati quattro giorni dall’incontro burrascoso con il barista, tuttavia, se
ripenso alla scena che si è svolta lì dentro, ancora mi sento arrossire. Non so
nemmeno perché sono voluta tornare qui, dev’essere una sorta di attrazione
per il rischio. O semplice curiosità. Faccio un bel respiro e spingo la
maniglia. Il locale non è particolarmente affollato, d’altra parte sono le due
passate. Mi guardo intorno, ma non c’è traccia del barista. Un po’ delusa,
mi avvicino al bancone e in quel momento, dalla porta che immagino dia in
cucina, esce una bellissima ragazza bruna dai tratti mediorientali. Resto a
guardarla, meravigliata, mentre lei mi si avvicina sorridente.
«Buongiorno, cosa desidera?» mi chiede.
Resto senza parole. Avevo immaginato tutt’altro incontro, mi ero persino
preparata un discorso di circostanza, ma adesso la mia capacità cerebrale
sembra azzerata.
«Ehm... sì, vorrei... un caffellatte e... un pain au chocolat, per favore»
riesco ad articolare.
«Glielo preparo subito» mi risponde con gentilezza, e sparisce dietro la
macchina del caffè. Tutta la scena mi ha spiazzato, mi sento smarrita. Mi
siedo sullo sgabello alto davanti al bancone e mi guardo intorno, cercando
di darmi un tono. Soltanto adesso mi accorgo che il locale è arredato con
gusto, un classico francese con prevalenza di rossi e legni scuri, senza
scadere nello stereotipo dell’artificio aggancia-turisti. Il registratore di cassa
è un pezzo d’antiquariato di fine Ottocento in metallo brunito e sbalzato.
Non riesco a credere che sia funzionante. Ma in realtà l’oggetto che attrae la
mia attenzione è un altro. Accanto alla cassa, sopra un Mac bianco dalle
linee essenziali, troneggia un libro piuttosto pesante. Mi colpisce perché
appare quasi fuori posto. Mi chiedo a chi appartenga, se al barista o alla
bella fanciulla. Sarei proprio curiosa di sapere cosa leggono, qui, fra uno
scontrino e l’altro. Senza pensarci due volte, scendo dallo sgabello e mi
avvicino.
Infinite Jest.
Oh, mio Dio.
A me David Foster Wallace è sempre risultato indigesto, mai andata oltre
le dieci pagine dei pochi libri che ho provato a leggere, compreso questo.
Prendo in mano il tomo, lo apro e il frontespizio mi toglie ogni dubbio:
Romain Legrange, è scritto in corsivo, in alto a destra. Sorrido fra me e me.
Non avrei mai pensato che il barista sbruffone fosse un tipo da letture
ponderose, al massimo gli avrei concesso dei fumetti. Alzo gli occhi e vedo
che la graziosa cameriera mi ha servito caffè e dolce davanti allo sgabello
vuoto. Le chiedo se posso dare uno sguardo.
«Ma certo» mi risponde con molta cortesia.
Torno al mio posto portando con me il libro, chissà, forse potrei sfruttare
l’assenza di Romain per ricominciare da pagina undici...
Sorseggio il mio caffellatte e intanto rigiro il romanzo fra le mani. È
piuttosto malconcio: intravedo qualche orecchia sulle pagine e diversi
foglietti ficcati in mezzo. Dev’essere stata una lettura impegnativa. Sono
talmente assorta nell’esame del volume che non mi accorgo della presenza
del suo proprietario se non quando è troppo tardi.
«Ehi, guarda chi c’è, la Bella Addormentata» esclama la voce nota. Mi
giro e me lo ritrovo accanto, sguardo serio e sorriso ironico d’ordinanza.
«Ciao» dico. «Passavo di qua e...»
Non mi dà il tempo di finire la frase. «Ehi, Raja» dice rivolto alla
cameriera, «porta alla signorina anche una brioche, altrimenti rischia il
collasso glicemico.» Mi guardano entrambi e scoppiano a ridere. Temo che
ormai la mia caduta sia diventata la favola del locale.
Apro la bocca per ribattere quando noto che Romain ha lo sguardo fisso
sul libro che continuo a stringere in mano.
«Sai, devo proprio dirtelo» mi confida in tono solenne, appoggiandosi
con un gomito al bancone, «contrariamente alle apparenze, non è un
fermaporta.»
Mi sento arrossire, con mio grande disappunto. Colta a curiosare fra le
cose altrui, senza riuscire a giustificarmi. E intanto lui continua a prendersi
gioco di me.
«Lo so benissimo, grazie. Ero solo curiosa, perché...»
«Lo hai letto?» mi chiede.
«Ehm... sì» mento. «Ma diversi anni fa...» Mi secca moltissimo
ammettere la mia ignoranza di fronte a lui.
«E ti è piaciuto?» insiste.
«Oh, uhm, sì... soprattutto le descrizioni...» Mi sto addentrando in un
ginepraio, ma un libro così lungo deve per forza contenere delle parti
descrittive. Ne sono certa. Se rimango sul vago me la caverò.
Lui mi guarda negli occhi, con una certa meraviglia. «È vero» conferma.
Poi, dopo una breve pausa: «Le descrizioni che fa di certi angoli di New
York sono tra le più evocative che abbia mai letto».
«Sì, infatti, lo penso anch’io» confermo con entusiasmo, felice di aver
superato il momento critico.
Annuisce e un sorriso lento stira le sue labbra. «Bene» mi dice
scostandosi dal bancone. «Ora ti lascio al tuo spuntino, ho un po’ da fare.
Mi ha fatto piacere averti rivista... in piedi.» Si allontana e va a prendere il
portatile per metterlo in una borsa. Poi chiama la cameriera. «Raja? Io vado,
ho un paio di appuntamenti per oggi pomeriggio. Non tornerò questa sera,
ci pensi tu a chiudere?»
Raja annuisce con un sorriso luminoso. «Certo, stai tranquillo. E... in
bocca al lupo» conclude strizzandogli l’occhio. Romain risponde
sollevando le dita incrociate. Sarei tentata di chiedergli cosa deve fare, ma
non ho questa confidenza. Passandomi accanto mi rivolge un cenno di
saluto e se ne va. Ma quando sta per aprire la porta si ferma e si volta verso
di me. «Ah, Viola» mi grida dalla soglia. «Se vuoi rileggere il libro, puoi
prenderlo.»
«Grazie, ma...»
«Così mi dirai se le descrizioni di Boston sono come le ricordavi tu...»
Boston??? Oddio...
I suoi occhi verdi brillano di una scintilla ironica, mentre sorride
osservando compiaciuto la mia espressione pietrificata per l’imbarazzo.
«Ci vediamo, Italie» mi dice, prima di uscire e piantarmi in asso con la
mia vergogna.
FIORI DI BACH PER SUPERARE LA TIMIDEZZA
Quando il tuo approccio alla vita e alle sue molteplici situazioni è
caratterizzato da una sensazione di forte imbarazzo, quando senti che la tua
paura di apparire ridicolo o fuori luogo agli occhi degli altri è talmente
paralizzante da rappresentare un serio impedimento a una normale
interazione sociale, allora potrebbero venirti in aiuto alcune gocce di Fiori
di Bach.
MIMULUS: è uno dei dodici guaritori, il fiore dell’insegnamento che ha
stabilito per noi il nostro Io Superiore. Mimulus è il fiore che contrasta le
paure, tutte le paure cui sappiamo dare un nome, quelle che paralizzano,
anche se le conosciamo. Per chi ha paura di parlare in pubblico, per chi
arrossisce al solo pensiero di incontrare un gruppo di persone sconosciute,
per chi ha paura del volo e per tutte le altre situazioni in cui la paura nasce
dall’eccesso del mondo circostante, che sia dovuto a persone, frastuono, o
agenti naturali.
L’insegnamento di questo fiore porta a uno stato d’animo più libero e
fiducioso nell’affrontare il mondo esterno, ci aiuta a vivere la vita con
maggiore felicità, pur rimanendo consapevoli della nostra sensibilità, forse
eccessiva, alle sollecitazioni esterne.
10
Il caldo impietoso di questo giugno parigino non risparmia niente e
nessuno. Me lo sento addosso, sulla pelle umida e nei capelli che si
incollano al viso, ma non smetto di camminare in questa mia folle
passeggiata senza meta. L’incontro con Romain mi ha lasciato addosso una
sensazione di disagio che tento di attenuare consumando energie, come se il
sudore potesse espellere anche le tossine emotive.
Dopo l’uscita clamorosa del barista sono rimasta ancora un po’ nel locale
a cincischiare con la tazza e il dolce, sotto lo sguardo divertito di Raja che
ha visto la scena cogliendone, ne sono certa, tutte le sfumature. Non volevo
uscire immediatamente dopo di lui, sarebbe stato come ammettere una
sconfitta e battere in ritirata, ho trovato più dignitoso rimanere al mio posto
e fare finta di niente. Dopo un po’, quando ho deciso che era trascorso un
adeguato lasso di tempo e sono andata a pagare, la cameriera mi ha porto,
insieme al resto, un busta di carta con dentro una brioche.
«No, grazie» le ho detto. «Sono a posto così.»
Lei ha insistito con gentilezza. «Avanti, prendila. Altrimenti Romain ci
rimane male.»
Lì per lì avrei rifiutato volentieri proprio per lo stesso motivo, ma poi, per
non fare la figura della permalosa, l’ho accettata con un grazie a mezza
bocca.
Raja mi ha sorriso tutta contenta. «E non prendertela per quello che dice
Romain» ha aggiunto con uno sguardo in cui mi è parso di aver visto
brillare dei cuoricini. «Lui è fatto così, fa parte del suo genio.»
Avrei avuto svariati epiteti, molto diversi da “genio”, adatti a definire il
suo Romain ma, per troncare una conversazione che stava diventando
penosa, mi sono limitata a un sorriso che diceva tutto e niente e me ne sono
andata.
Poi ho cominciato a camminare.
Percorro le stradine silenziose di Montmartre, quelle dimenticate
dall’animata gazzarra dei turisti, la loro serena immobilità combatte la mia
irrequietezza. Mi fermo un istante davanti alla vetrina di un negozio di
cornici e osservo il mio riflesso nel vetro. Con un pizzico d’invidia ripenso
alla bellezza perfetta della cameriera dell’Hairy Biker e al suo sorriso
radioso. Persino dalla sagoma sfocata intuisco la mia trasandatezza. Gli
abiti che indosso sono vecchi di almeno un anno e si vede. I miei capelli
sembrano quelli di Medusa, troppo lunghi e ribelli. Durante quest’ultimo
anno ho perso il contatto con me stessa, anche quello fisico. Non ho
compiuto un solo gesto di cura verso il mio corpo, l’ho abbandonato come
se fosse una scatola vuota e ormai inutile, e l’ho fatto volutamente. Mi
sembrava che qualsiasi concessione a me stessa fosse un torto nei confronti
di Michel. Che senso aveva farsi bella, comprare un abito nuovo, se non
c’era più lui a guardarmi e a dirmi quanto gli piacevo?
Riprendo a camminare per scacciare un pensiero che rischia di farmi
vacillare.
Stasera avrò bisogno di una tisana per i miei poveri muscoli.
Il mio vagare mi ha portato fino a place du Tertre dove mi scontro
frontalmente con l’apice della frenesia che ho cercato di evitare fino a
questo momento. I cavalletti dei pittori di strada sembrano occupare ogni
angolo della piazza mentre orde di turisti si spostano in masse compatte da
un ristorante all’altro, con brevi soste per ammirare i quadri esposti, sempre
più simili a stampe riprodotte in serie. E al di sopra di questo brulicare, la
candida maestosità della basilica del Sacré Coeur getta un’ombra
frastagliata sul selciato. Cerco una via di fuga aggirando la collina sulla
sinistra e mi dirigo a passo svelto verso le scale che da rue Utrillo portano
fino a rue Muller. Scendo i gradini e a un tratto, fra i passanti di fronte a me,
intravedo delle treccine bionde.
Sono identiche a quelle della mia ragazza-farfalla. Con un tuffo al cuore
affretto il passo per raggiungerla, peccato che, quando lei si volta, mi
accorgo che non è Camille. Mi fermo a metà della scalinata, stupita di me
stessa, dell’agitazione suscitata da una semplice somiglianza. E di aver
desiderato che fosse veramente lei.
Riprendo a scendere le scale, più lentamente stavolta. L’episodio di
Camille mi è rimasto dentro, si è insinuato in profondità ed è rimasto
quiescente finché non è arrivata l’occasione per farlo riemergere. E se
Michel stesse cercando di parlarmi? Come se soltanto adesso riuscissi ad
aprire veramente gli occhi e vedere quello che lui ha tentato di farmi capire
per tanto tempo.
Gli occhi di Camille tornano con prepotenza a occupare i miei pensieri.
Lo so che c’è dell’altro, so che potrei leggere dentro di lei, superare le
barriere e parlarle come non riescono a fare le parole. Solo che mi mancano
gli strumenti, la conoscenza.
Chi smette di cercare si condanna a morte...
E se fosse questa la strada? Se ce la facessi? Ho sempre saputo di
possedere una sorta di intuito, una sensibilità acuta nei confronti dei
problemi degli altri, ecco, potrei definirla un’empatia piuttosto accentuata,
quella che poi si era rivelata il mio asso nella manica quando avevo
cominciato il tirocinio nello studio Ferri, a Roma. Mi bastavano pochi
minuti di conversazione per capire che tipo di problema avesse il paziente e
indirizzarlo subito verso le cure più appropriate. A volte erano sufficienti
semplici trattamenti omeopatici o aromaterapici, mentre altri casi
richiedevano diverse sedute di approfondimento e, altre volte, il ricorso alla
medicina tradizionale, quando la patologia trascendeva le risorse
terapeutiche di quella naturale.
Spesso, durante il colloquio propedeutico, il paziente si lasciava andare e
scopriva di avere da dire molto più di quanto non pensasse, parlava a ruota
libera e, alla fine, usciva dallo studio con la sensazione di aver alleggerito il
proprio personale fardello di preoccupazioni. Poi, nel corso degli incontri
successivi, con l’aiuto delle pratiche olistiche, i suoi malesseri si riducevano
fino a scomparire del tutto. Questo perché gran parte dei malanni non sono
altro che somatizzazioni di sofferenze o disagi di natura psicologica, a volte
talmente incistati e profondi, quiescenti sotto lo strato della coscienza, da
risultare inconoscibili alla persona stessa e sfociare perciò in vere e proprie
patologie. Non voglio sostenere che per la guarigione sia sufficiente
l’illusione di una cura, oppure il conforto di un orecchio comprensivo e
privo di pregiudizi, ma è innegabile che la propensione all’ascolto sia uno
dei requisiti imprescindibili per un bravo naturopata. E io la possedevo.
Il ritmo erratico dei miei passi influenza quello dei pensieri, le strade note
offrono appigli alla memoria e i ricordi cominciano ad affollare la mia testa.
Senza rendermene conto, ho camminato come un automa fino a ritrovarmi
davanti alla mia vecchia scuola di naturopatia, al Marais.
Ripensando a mente fredda a quel periodo, alle emozioni forti e durature
che mi aveva regalato, mi viene il dubbio che il fascino che la città
esercitava su di me fosse dovuto in parte al fatto che varcare il confine era
stato per me come nascere una seconda volta. I primi tempi non facevo che
andare in giro osservando ogni minimo dettaglio con un’intensità morbosa,
come se cercassi di assorbire l’ambiente circostante attraverso gli occhi, il
respiro, i pori della pelle. Mi beavo di ogni uscita come di un bagno in
mare, mi crogiolavo nelle immagini che mi stampavo nella mente e che, un
frammento dopo l’altro, andavano a costruire il mio nuovo io, soffocando a
poco a poco la vecchia Viola. Ma era anche un tentativo di riempire il vuoto
che la separazione dalla mia famiglia aveva provocato.
E non era stata una separazione indolore.
Quel giorno avevo bussato alla porta dello studio con il bando in mano e
il cuore in gola.
«Avanti» disse la voce di mio padre.
Bussavamo sempre prima di entrare, anche quando sapevamo che non
c’erano visite. Aprii la porta ed entrai. Lui era seduto come sempre dietro la
scrivania e io mi fermai un istante a osservarlo. Considerai tutta la
situazione. Stavo terminando il secondo anno di medicina quando ero
incappata nel bando di ammissione alla scuola di naturopatia. Avevo
lavorato duramente per due anni fra esami di fisica, chimica, anatomia e
patologie varie ed ero oggettivamente una studentessa piuttosto brillante,
ma lo studio per me era un automatismo. La scienza medica mi era
familiare sin dall’infanzia, mio padre era un cardiologo stimato, aveva
salvato decine di vite e si dedicava alla sua professione in modo totale, era
la sua ragione di vita. Ma i suoi successi, invece di instillarmi il suo stesso
entusiasmo, avevano sortito l’effetto contrario. A poco a poco l’aura di
munificenza che lo ammantava aveva finito per allontanarlo da me. Negli
anni mi era parso che più che una figlia mi considerasse una discepola, una
sua creatura da guidare e plasmare perché portasse avanti il suo lavoro,
trascurando nel frattempo ogni contatto emotivo e affettivo profondo con
me.
C’era stato un tempo in cui potevo ricordare di averlo avuto vicino, ma
risaliva alla mia prima infanzia. Poi era accaduto qualcosa che lo aveva
allontanato. Erano cominciati i congressi sempre più prolungati e in città
sempre più distanti da Roma e da me. E ogni suo ritorno mi trovava un po’
cambiata, cresciuta, finché il mio diventare donna lontano dai suoi occhi
non aveva innalzato fra di noi un’invisibile barriera. Una volta, mentre
stavo leggendo nel suo studio era entrato per caso e mi aveva trovata lì.
Avevo alzato lo sguardo e nel suo avevo scorto una sorta di stupore curioso,
come se avesse davanti l’esemplare di una specie rara. Forse se gliene
avessi dato la possibilità mi avrebbe parlato, ma la sua espressione mi aveva
irritata e avevo riabbassato la testa sul libro in un muto gesto di chiusura.
La nostra incapacità di comunicare si stava trasformando in una sorta di
cancro maligno che si espandeva a vista d’occhio. C’era qualcosa in lui, un
fondo oscuro imperscrutabile, una freddezza appena percettibile nei
movimenti, negli sguardi, che stava erodendo il nostro rapporto centimetro
dopo centimetro.
«Papà, devo parlarti» dissi.
Lui mi guardò e mi fece cenno di avvicinarmi. Mi sedetti di fronte a lui,
come una paziente, e per un attimo pensai che la distanza provocata dalla
scrivania fosse una metafora del nostro rapporto. Stavo per comunicargli
qualcosa che lo avrebbe fatto arrabbiare e avevo paura che le mie parole
avrebbero spezzato quel filo sottile che ancora ci teneva insieme.
«Papà... io... ho deciso di lasciare l’università» dissi tutto d’un fiato.
Un brusco movimento della testa tradì la sua sorpresa. Aggrottò la fronte,
come se non fosse sicuro di aver sentito bene. «Non capisco» disse. «Che
cosa c’è che non va? I tuoi voti sono eccellenti, hai delle difficoltà con un
esame? Vuoi che ti dia una mano?»
Mi sentii persa. Non lo sfiorava nemmeno il pensiero che io non volessi
continuare gli studi. Perché era così cieco?
«No, papà, non si tratta di un esame» insistei. «Voglio lasciare medicina.
Non voglio diventare un medico.»
Lui rimase in silenzio poi sospirò, si tolse gli occhiali e si massaggiò gli
occhi con due dita. «Dimmi perché» mormorò. «Perché mi stai facendo
questo?»
Rimasi di sasso. Mi sarei aspettata una sfuriata, una ramanzina, ma non
quell’espressione di sofferenza che gli vidi sul viso.
«Io non ti sto facendo niente, papà. È solo che... mi sono resa conto che
non è questa la vita che voglio. Lo sai» continuai, «non mi sono mai sentita
portata per la medicina tradizionale e andando avanti con gli studi ne ho
avuto la certezza. Io voglio qualcosa di diverso, non mi piace come
vengono trattati i pazienti, non mi piace esaminarli pezzo per pezzo, come
se fossero composti da un puzzle che nessuno si cura di esaminare nel suo
insieme. Io credo che ci sia dell’altro, oltre la chimica e i tessuti, qualcosa
di più profondo, di più importante.» Feci una pausa. Quello che stavo
dicendo non sembrava credibile neppure a me. Volevo disperatamente far
capire a mio padre che non mi sentivo a mio agio nei suoi panni, ma le mie
parole parevano assumere un significato pericolosamente diverso.
«E in che modo vorresti raggiungere questi obiettivi così... alti?» mi
chiese in tono sarcastico. Anche la sua espressione era cambiata.
Appoggiai il foglio con il bando d’ammissione sulla scrivania e lo
sospinsi verso di lui. «In questo modo» dissi. «Voglio frequentare la scuola
di naturopatia in Francia, a Parigi.»
Lui diede un’occhiata al foglio e fece una risata amara, poi mi guardò
quasi con astio. «Parigi, eh? Ma perché hai questa smania di scappare da
me, Viola?» Si alzò in piedi, le mani appoggiate sulla scrivania. «Che cosa
c’è che non va qui? Perché c’è sempre qualcosa di meglio, fuori?»
«Ma io non ho detto questo!» gridai, sbalordita da quella reazione
assurda e inspiegabile. «Ho detto soltanto che non voglio diventare come...»
«Come me?» mi interruppe, alzando la voce.
Lo guardai, era immobile, e mi parve di avere davanti un estraneo.
«Vorrei soltanto trovare la mia strada, da sola. Perché non riesci a
capirlo?»
«E la tua strada quale sarebbe? Mollare tutto? Per cosa, inseguire una
fantasia sciocca e infantile, un sogno di libertà falsa e ingannevole. Ti dico
una cosa, Viola: la salute dei pazienti non è uno scherzo. Non puoi
permetterti di giocare con le persone affidandoti a teorie vaghe senza alcun
fondamento scientifico, solo per dimostrare che tu sei diversa. La malattia
va combattuta con gli strumenti adeguati. Io ho dedicato la mia esistenza a
questo e non permetterò a una ragazzina immatura di rovinare tutto per
un’alzata di testa!»
A quel punto mi sentii travolgere da un’ondata di rabbia. I suoi
rimproveri erano ingiusti, non mi aveva dato neppure la possibilità di
spiegarmi, ma come al solito era pronto a giudicarmi sempre e soltanto
secondo i suoi parametri.
«Sì» gli gridai in faccia, «non voglio diventare come te, perché sei una
persona arida! Tu che lavori sui cuori della gente eppure non sei capace di
vedere altro che una sequenza logica di patologie, sintomi e cure! Hai mai
guardato in faccia uno di loro? Hai mai cercato di entrare nella loro pelle?
No, perché non ne sei capace! Be’, papà, su un cosa hai ragione: io non
sono come te e ringrazio Dio per questo!»
Esagerai, certo, ma ormai non stavamo più parlando soltanto di
università, era il nostro rapporto a essere messo in discussione. Avrei voluto
rimangiarmi le parole e forse l’avrei fatto se mio padre non mi avesse
opposto un muro di delusione e rimprovero.
«Va bene, Viola» mi disse dopo un lungo istante, improvvisamente
rassegnato. «Se è questo che vuoi, vai a Parigi, studia, fai la tua strada. Ti
auguro soltanto che un giorno tu non te ne debba pentire.»
Dopo quello scontro, non affrontammo più l’argomento. Con mia madre
il confronto fu meno violento, ma altrettanto penoso.
«Pensaci bene, Viola» mi disse, quando andai da lei. Probabilmente
aveva già parlato con mio padre, perché non si mostrò affatto sorpresa dalla
mia decisione, mi parve soltanto rattristata. «Non agire d’impulso, solo per
ribellarti. Non puoi prevedere le... conseguenze di certe scelte. Soprattutto
se sono dettate da un ardore momentaneo.»
«Non preoccuparti, mamma» le risposi. «Sono convinta di quello che
faccio. Non avrò ripensamenti.» Poi d’un tratto provai un moto di stizza per
tutta quella situazione. «E comunque non vedo perché farne una tragedia»
scattai. «Non voglio diventare un clone di mio padre, io non sono come lui
e voglio seguire la mia vocazione, è tanto strano? O grave? Perché nessuno
di voi due riesce ad accettarlo?»
Un sorriso amaro, quasi una smorfia, si dipinse sul suo viso. «È triste
scoprire che per quanti sforzi si facciano, prima o poi i nodi vengono al
pettine» mormorò, senza guardarmi.
«Ma che c’entrano i nodi...» le risposi, esasperata.
Non la capii e lei non si spiegò. «Va bene, Viola» mi disse poi
riprendendo il solito tono da madre delusa. «Sei adulta e puoi decidere della
tua vita. Hai il tuo conto corrente, ma non pensare di poter chiedere aiuto a
tuo padre, se sarai in difficoltà. Se esci da quella porta, lo ferirai e non so
quanto sarà disposto a venirti incontro.» Non aggiunse altro e io nemmeno.
Il giorno della partenza lasciai sulla scrivania di mio padre un biglietto
con l’indirizzo e il numero di telefono dell’appartamento che avevo
affittato, e me ne andai.
Il resto è storia. Non si è fatto mai più vivo con me finché non sono
tornata a Roma.
Ma se adesso non supero questo scoglio, sarà stato tutto inutile. Se non
trovo il coraggio di arrivare fino in fondo, dimostrerò a mio padre che aveva
ragione. E il mio riscatto comincia da qui, da questa città, che sto misurando
a lunghi passi ciechi e che insieme al caldo mi sta restituendo una speranza.
TISANA ENERGETICA
Ingredienti: ginkgo biloba in foglie, rosmarino, radice polverizzata di
ginseng.
Crea una miscellanea dosando le erbe indicate in parti uguali (es 30 g di
ognuna). Dopodiché usane un solo cucchiaio per ogni tazza d’acqua
bollente. Lascia in infusione, nel recipiente coperto, per almeno cinque
minuti. Puoi assumere questa tisana una o due volte al giorno,
preferibilmente al mattino e mai oltre il primo pomeriggio, per non rischiare
di compromettere il sonno notturno.
Il GINSENG è una pianta conosciuta da millenni in Estremo Oriente
dov’è considerata un vero e proprio elisir di giovinezza. È una pianta
cosiddetta “adattogena”, cioè stimola la resistenza dell’organismo allo stress
ed è ottima per la mente in quanto favorisce la concentrazione e consolida
la memoria.
Il GINKGO BILOBA, oltre all’azione energetica, rientra nelle erbe che
fungono da antidepressivi naturali.
11
Non so per quanto tempo ho camminato, potrebbero essere ore, o forse
minuti, ma adesso mi sento svuotata. Il dipanarsi tortuoso dei miei pensieri
ha accompagnato un vagare ubriaco che ha finito per portarmi di fronte al
cancello di un parco, un piccolo cuore verdeggiante e armonioso che si
sottrae come un’isola al caos della città circostante. L’ingresso di Parc
Monceau, con la sua frescura, mi invita ad entrare e io accetto, perché la
stanchezza mi è piovuta addosso all’improvviso, come se mi fossi
risvegliata bruscamente da un’anestesia. Faccio pochi passi e poi mi butto
sull’erba, sotto i rami di un albero, viso verso il cielo, braccia spalancate.
L’ombra del tiglio mi protegge dai raggi del sole che sta calando e l’erba
fresca contro la schiena mi dà una sensazione di sollievo. Un filo di vento
mi accarezza. La quiete del parco è appena increspata dallo stormire delle
foglie degli alberi. Dopo tanto pensare, ricordare, sento una spossatezza che
mi invade, ma non è affatto spiacevole. Ho l’impressione che il mio corpo si
fonda con la terra, non sento più braccia, mani, piedi, gambe. Non mi
stupirei se le mie dita cominciassero a fiorire. Chiudo gli occhi e tento di
focalizzare i contorni del mio corpo. Con una mano mi accarezzo la pancia,
sento il calore della pelle, salgo verso l’alto, mi sfioro il seno mentre con
l’altra mano scendo lentamente verso l’inguine, poi sulla coscia. Ecco, ci
sono, esisto ancora.
All’improvviso, un sonoro fischio d’apprezzamento squarcia il silenzio e
mi strappa alla mia esplorazione silenziosa. Spalanco gli occhi di scatto e
mi tiro su a sedere, frastornata.
«La scena è molto allettante, ma ti consiglio di rinviare certe intimità a
momenti più appropriati. Qualcuno potrebbe equivocare...»
A pronunciare la battuta che mi fa arrossire fino alla radice dei capelli per
l’imbarazzo è un uomo, in piedi, davanti a me.
No, mi correggo. Non è un uomo. È quell’uomo.
«Addirittura due volte in un giorno» mi dice. «Se fossi malizioso
penserei che mi stai seguendo» conclude con un sorriso ironico e
l’atteggiamento di uno abituato a vedersi intorno stuoli di femmine
adoranti.
Mentre io sono il solito disastro. Accidenti. Accidenti. Accidenti! Che
diavolo ci fa qui? Ma non aveva degli appuntamenti oggi pomeriggio? Mi
ricompongo come posso e cerco di ignorare il suo sarcasmo.
«Ehm, risparmiati la malizia, mi stavo soltanto godendo la frescura. E tu
che cosa ci fai qui?» chiedo in tono neutro.
Lui si guarda intorno e allarga le braccia. «Mi godo la frescura, come te.»
«Bene» dico.
«Già» risponde.
Ci guardiamo, soppesandoci a vicenda. La sua bocca è sempre atteggiata
a una smorfia derisoria, ma i suoi occhi verdi sono seri, penetranti. Non mi
va di essere la prima a distogliere lo sguardo, mi sento già abbastanza
imbarazzata, così mi sforzo di osservarlo con pari intensità.
Occhi verdi contro occhi neri.
La conversazione langue, nessuno di noi fa uno sforzo per continuare un
dialogo di circostanza. D’altra parte siamo due estranei.
Alla fine è lui a prendere l’iniziativa.
«Okay, allora buona serata. Ti lascio alle tue... occupazioni. Qualsiasi
esse siano» aggiunge sollevando un sopracciglio. Mi volta le spalle e si
dirige verso l’area giochi per i bambini. Per un attimo rimango a osservarlo
mentre si allontana: sulle spalle larghe, da nuotatore, porta la borsa del
computer che ho visto al bar e cammina deciso, con lunghe falcate regolari.
Prosegue lungo il viale, fino a scomparire dietro una curva. Sbuffando, mi
sdraio di nuovo sul prato. Sono stizzita. Ma non so se la mia irritazione sia
imputabile a Romain e ai suoi modi strafottenti, o se non sia piuttosto il mio
atteggiamento, sempre così goffo con lui, a darmi sui nervi. Mi sembra di
essere tornata la bambina spaurita che ero un tempo, insicura, con la
sensazione di non avere un posto nel mondo. Chiudo gli occhi e mi
concentro sul respiro. Inspiro dal naso e lentamente espiro dalla bocca
contraendo il diaframma. Una, due, tre, sei, sette volte finché l’esercizio
diventa automatismo e a poco a poco il mio corpo si rilassa, coccolato dal
calore del sole, il cervello si svuota. Faccio pulizia dei pensieri negativi,
delle paure, delle incertezze. E soltanto quando tutto sembra essere
scomparso, concedo alla mia mente di focalizzarsi su un’immagine, la
prima che affiora dalla quiete.
Due occhi dorati, colmi di segreti. Gli occhi di Camille.
Ho trovato la mia luce.
Da una chiesa nelle vicinanze sento rintoccare le campane per sette volte.
Sono rimasta sdraiata su questo prato per chissà quanto tempo, ormai
sarebbe ora di alzarsi, il parco chiude alle otto, ma non mi decido perché, a
parte la casa di Gisèle, non ho un altro posto dove andare o altre persone da
incontrare. Alla fine mi faccio coraggio e mi alzo in piedi a fatica, le ore di
vagabondaggio hanno messo a dura prova i miei muscoli, del tutto
disabituati allo sforzo fisico. A giudicare dalle fitte che sento a ogni passo
immagino di avere anche i piedi devastati dalle vesciche, non appena
arriverò a casa mi farò un bell’impacco di calendula e consolida maggiore
con qualche goccia d’olio essenziale di tea tree. Ma prima devo arrivarci, a
casa. La via del ritorno si preannuncia lunga e difficoltosa. Mi avvio verso
l’uscita zoppicando vistosamente e, mentre sto per varcare la cancellata
nera e oro, da dietro le spalle mi raggiunge una voce che ormai ho imparato
a riconoscere.
«Ehi, Italie, sembri uscita da un frullatore, com’è che sei ridotta così
male?»
La caratteristica più evidente di quest’uomo è la delicatezza, non c’è
dubbio.
Mi giro, cercando di mantenere i buoni propositi di poco fa.
«Sono venuta al parco a piedi, ma con le scarpe sbagliate, e mi sono
venute le vesciche». Una mezza verità.
«Fino quaggiù a piedi? Scusa, ma perché non hai preso l’autobus? O la
metropolitana, la fermata è praticamente davanti all’ingresso del parco.»
Lo so perfettamente che la fermata Monceau si trova a due metri dal
cancello d’ingresso, solo che ero talmente presa dai miei pensieri che non
mi sono accorta di aver macinato dei chilometri.
«Sì, lo so, ma avevo voglia di farmi una passeggiata. Camminare fa bene
alla salute» ribatto.
Romain mi osserva da capo a piedi, inclinando leggermente la testa di
lato. «A giudicare da te, non si direbbe affatto.»
Resisto all’impulso di seguire il suo sguardo e darmi una rapida occhiata
complessiva, ma penso di riuscire a immaginare lo spettacolo che sta
contemplando: viso arrossato dal sole, capelli arruffati con contorno di fili
d’erba sparsi qua e là, pantaloni spiegazzati sporchi di terra e casacca
stropicciata. Non mi si può certo definire il ritratto della salute.
«Non giudicare un libro dalla copertina» rispondo tirando fuori il più trito
dei luoghi comuni, ma sarei disposta a ingoiare dei chiodi pur di non fargli
capire che la sua presenza mi lascia completamente senza parole. Lo trovo
irritante, è più forte di me.
Come se mi avesse letto nel pensiero, Romain si scuote e riprende a
dirigersi verso l’uscita, superandomi. Mentre mi passa accanto si ferma per
un istante.
«Come vuoi. Allora se camminare ti fa sentire tanto in forma non mi
offrirò di riaccompagnarti a casa» mi dice, facendo rimbalzare sul palmo
della mano le chiavi di quella che immagino sia la sua macchina.
Oddio. Una macchina. Tornare a casa in cinque minuti, seduta comoda, e
far riposare i miei poveri piedi che urlano pietà. È troppo allettante, ma
dovrei chiederglielo, e questo significherebbe abbassare la cresta, smentire
le scemenze che ho blaterato sulla salubrità delle passeggiate e, cosa ancora
più insostenibile, dire “per favore” e “grazie”.
No. Non ce la faccio. Non con lui.
«Bene, Italie, buon ritorno. A tout à l’heure» mi dice a voce alta mentre
esce dal cancello davanti a me.
Muovo un passo anch’io verso l’uscita e di nuovo il dolore mi artiglia i
piedi, immobilizzandomi sul posto. Tornare a casa sulle mie gambe è fuori
discussione, mi pare evidente. Sono costretta ad accettare l’offerta di
Romain, anche se in realtà non mi ha offerto un bel niente e se voglio quel
passaggio me lo devo guadagnare.
«Senti...» esclamo d’impulso, prima di ripensarci.
Romain si ferma. Se quando si volta ha ancora quel ghigno sardonico, lo
ammazzo. Ma lui si limita a girare appena la testa, guardandomi in tralice,
sopracciglio interrogativo.
«Pensavo... ecco... se la proposta è ancora valida, io accetterei volentieri
un passaggio fino a casa» aggiungo tutto d’un fiato.
Si gira verso di me e mi sorride apertamente, stavolta senza traccia
d’ironia.
«Vedi che non era tanto difficile? Andiamo, è qui a pochi passi.»
Sono sollevata e un tantino divertita. Il mio sforzo dev’essere stato
evidente. Arranco dietro di lui fuori dal parco e, come annunciato, dopo
pochi metri lo vedo fermarsi accanto al mezzo di trasporto promesso.
Mezzo di trasporto forse non è la definizione più adatta. Più che altro è
un pezzo da museo.
Mentre lo contemplo, nella mia mente sfilano una dopo l’altra immagini
d’archivio risalenti alla Seconda guerra mondiale. E mi ricordo il nome
sull’insegna del bar.
Arizona Hairy Biker.
Perché Romain sta armeggiando intorno a un sidecar. Un catafalco nero
pieno di cromature e ricoperto di adesivi peggio di una valigia. Mi chiedo se
sarà in grado di portarmi a casa tutta intera.
«Tieni, metti questo.» La voce di Romain mi strappa alle mie riflessioni
funeste e vedo che mi sta porgendo un caschetto nero aperto. Lui ne ha già
indossato uno identico che, con le ciocche di capelli scuri che sfuggono da
sotto, gli conferisce un’aria da perfetto motociclista hippie.
«Siamo sicuri che questo attrezzo ci reggerà tutti e due?» domando
mentre mi calo il casco sulla testa.
Romain mi fulmina con un’occhiataccia. «Per tua informazione, questo
“attrezzo” è un sidecar originale degli anni Quaranta e sì, stanne certa, ci
reggerà entrambi» ribatte con sussiego. «E poi» aggiunge con un pizzico di
compiacimento, «non sei certo la prima a occupare quel sedile.»
Ah, però.
Lascio cadere l’allusione e, con una certa difficoltà, cerco di incastrarmi
nel carrozzino. Romain finisce di allacciarsi il casco e sistemare la borsa nel
portapacchi, poi monta in sella e parte. Sfreccia con sicurezza in mezzo alle
macchine, schivando, sorpassando, infilandosi fra i veicoli come se dovesse
sfuggire alla polizia.
Il rombo assordante della motocicletta mi chiude dentro un bozzolo
fragoroso che impedisce qualsiasi tentativo di comunicazione con l’esterno
e io, rannicchiata nel carrozzino angusto, con il cuore in gola mentre mi
tengo saldamente al bordo, cerco di concentrarmi sul mondo accelerato che
mi passa accanto. Osservo il sole che si sta avviando al tramonto e la sua
luce rossastra che tinge il paesaggio di una sfumatura irreale, ricoprendo
edifici e persone di colori artificiali quasi inventati per l’occasione, finché
un sorpasso più azzardato degli altri non mi strappa un grido.
Terrorizzata, mi giro di scatto verso Romain pronta a chiedergli di farmi
scendere, ma... incontro due iridi verdi in cui mi perdo. E il mondo sembra
fermarsi. Perché negli occhi che mi fissano, increspati dalle sottilissime
rughe di un sorriso, scorgo qualcosa di simile alla tenerezza. È uno sguardo
caldo, carezzevole, e mi sta dicendo “Non ti preoccupare. Fidati di me, non
ti metterò in pericolo”. Pochi, intensi istanti di contatto, poi lui torna a
guardare la strada, e tutto torna come prima. O quasi. Ho come
l’impressione di aver sbirciato al di là di un sipario cogliendo la visione
fugace di ciò che si nasconde dietro le quinte di uno spettacolo, e quello che
ho visto contrasta nettamente con quanto mi è stato mostrato finora. Poi mi
accorgo che il sidecar ha rallentato e mi sfugge un sorriso. Allento la presa
spasmodica sul bordo del carrozzino e, malgrado la scomodità della
posizione, mi lascio cullare dal dondolio del mezzo che mi sta riportando
verso casa.
È stata una fortuna incontrare Romain al parco, non c’è dubbio. Mi
chiedo che cosa ci facesse, a quell’ora, armato di computer. Una passeggiata
solitaria o un incontro romantico? Sbircio di sottecchi il pilota, profilo
impenetrabile assorto nella guida, come se lo sguardo di poco prima non
fosse mai esistito. Anzi sembra che non si accorga nemmeno della mia
presenza. Forse dovrei dirgli qualcosa? Magari un’osservazione banale sulle
buche che ci scuotono la spina dorsale o sul traffico noioso del rientro. Giro
la testa e lascio che l’aria fresca della sera mi accarezzi il viso. Comunque
l’elemento che più desta la mia curiosità è la sua amicizia con Gisèle. Dopo
il nostro incontro burrascoso, ripensando alla scena con mente fredda, ho
colto nei loro sguardi una complicità e un’intesa che mi hanno lasciato
perplessa. Che cosa diavolo può avere in comune la mia amica con un tipo
come lui? Sembrano creature appartenenti a due universi paralleli. Chissà,
magari lui l’avrà soccorsa in qualche occasione, come ha fatto e sta facendo
con me, oppure l’avrà aiutata a scaricare dei pacchi e da lì le avrà offerto la
colazione e lei invece gli avrà regalato qualche tisana delle sue e poi...
«Siamo arrivati.»
La voce di Romain interrompe le mie fantasie. Il viaggio è finito e i miei
sospetti hanno ricevuto una conferma, perché lui non mi ha accompagnata
al negozio, come mi sarei aspettata, ma si è fermato davanti al portone della
casa di Gisèle, quindi conosce il suo indirizzo. Se non addirittura il suo
appartamento. Il tarlo che mi si è annidato nel cervello comincia a darsi da
fare, la curiosità mi punge sempre più acuta.
«Allora? So che il sedile è comodo, ma...»
«Ti va di andare a bere una birra?»
Le parole mi escono dalla bocca a precipizio, quasi prima che me ne
accorga.
«Per ringraziarti del passaggio e perché penso che noi due abbiamo
cominciato con il piede sbagliato e non mi sembra il caso soprattutto
considerando la tua amicizia con Gisèle...» aggiungo a mo’ di
giustificazione.
Lui ci pensa su per un attimo, testa inclinata di lato, senza spegnere il
motore. La sua pausa lunghissima mi fa presagire un rifiuto quando,
all’improvviso, ingrana la marcia e parte. Il contraccolpo mi schiaccia sul
sedile e il gesto mi coglie di sorpresa.
Spero di non dovermene pentire.
12
Se invece di scegliere il sentiero battuto, quello aperto e illuminato dal
sole, scegliessimo sempre l’altro, quello impervio e in penombra, quello che
sembra attirarci con le sue oscure promesse di una bellezza tanto segreta
quanto minacciosa, saremmo probabilmente molto sorpresi di scoprirvi
sprazzi di luce e tepore, ancora più graditi in quanto inaspettati.
È quello che sta succedendo a me, ora.
Fa uno strano effetto.
«E così sei ospite di Gisèle» esordisce Romain. «All’inizio ho pensato
che fosse una tua parente, ma poi lei mi ha raccontato la storia del vostro
incontro. Povera Gisèle, sembra che non faccia altro che raccogliere cani
abbandonati» conclude con un mezzo sorriso.
Non me la prendo per essere stata definita una randagia perché capisco
che cosa intende e, soprattutto, intuisco che in questa definizione
comprende anche se stesso. Ma non aggiunge altro. Sorseggio la birra
mentre il mio cervello lavora per trovare una risposta. L’allusione è
singolare, dà l’impressione di voler svelare qualcosa di sé senza esporsi
troppo, un’esca alla quale abbocco senza riserve.
«Allora sei in vantaggio» ribatto. «Gisèle di te non mi ha detto ancora
niente.»
«La discrezione è una delle sue caratteristiche che apprezzo di più.»
Niente da fare. Ho davanti un’ostrica.
«Okay, mi arrendo. Come vi siete conosciuti?»
Lui si accomoda sul divanetto, rigirando il bicchiere fra le mani, con gli
occhi fissi sul liquido dorato.
«È successo un paio d’anni fa, più o meno» risponde alla fine. «Ero
tornato a Parigi da poco e avevo preso in gestione il bar di mio zio Henri
che aveva deciso di andare in pensione...»
«Allora era lui il motociclista capellone?» Lo interrompo con foga perché
la curiosità sul nome di quel locale mi aveva quasi ossessionata dal giorno
in cui lo avevo letto.
«... No. Non c’è nessun motociclista capellone nella mia famiglia e, per
tua informazione, siamo parigini da generazioni...»
«Ma allora...»
«Viola» esclama lui con decisione. «Se invece di interrompermi
continuamente mi lasciassi finire, ti spiegherei anche il perché di quel nome
che per te sembra avere un’importanza vitale.»
Mi ritraggo sul sedile imbottito, leggermente imbarazzata, e attendo in un
compìto silenzio.
«Si chiama Arizona Hairy Biker perché mio zio aveva sposato
un’americana e aveva vissuto a lungo in Arizona che, come saprai, è nota
soprattutto per i suoi uragani...»
«Ah, sì, come Dorothy nel Mago di Oz che viene trascinata via...»
Occhiataccia.
Mi ammutolisco. Accidenti, però, perché non arriva mai al punto?
«Quello è il Kansas. Dicevo, appunto, gli uragani. Un bel giorno mio zio
si ritrova in macchina su una strada completamente deserta in mezzo alla
prateria. Se ne sta tranquillo al volante, con la musica a tutto volume,
quando all’improvviso si vede davanti una cosa che somiglia a una
colonnina di fumo nero, in fondo all’orizzonte. Lì per lì non si preoccupa
più di tanto, ma nel giro di pochi secondi la colonnina di fumo si fa sempre
più vicina e assume la fisionomia tipica di un ciclone.»
Pausa.
«A quel punto mio zio si ferma e capisce che deve togliersi di mezzo il
più in fretta possibile o verrà spazzato via, ma mentre pensa disperatamente
a cosa fare, ecco che l’uragano gli è quasi addosso. Lo vede, ce l’ha proprio
davanti agli occhi, addirittura vede che in mezzo al polverone girano
vorticosamente gli oggetti più impensati, rottami, pezzi di finestre, sportelli
di automobili... persino una mucca. Ecco, la mucca. Quell’immagine lo
colpisce così tanto che rimane come ipnotizzato a guardarla mentre gira e
gira e gira... e lei, a ogni orbita che li riporta uno di fronte all’altra, lei
sembra fissarlo con i suoi occhioni castani terrorizzati, mentre spalanca la
bocca in un muggito disperato. Poi, all’improvviso, l’uragano che gli è
praticamente sopra fa uno strano scarto, e devia. Sai come sono
imprevedibili gli uragani» aggiunge Romain. Poi continua: «Come per
miracolo il fungo vorticante imbocca una traiettoria che passa accanto alla
macchina e mio zio, aggrappato al volante, paralizzato dalla paura, tira un
sospiro di sollievo, ringrazia il Signore, piange di riconoscenza, sta per
ripartire a razzo... ma... ma lei, la mucca, non si è ancora arresa.»
Pausa.
Io, con gli occhi sgranati, lui che mi guarda intensamente, come se
rivivesse la tensione di quei momenti.
«Mentre sta per passargli accanto nel vortice dell’uragano lei lo guarda,
fisso. È una frazione di secondo: con uno sforzo disperato l’animale
approfitta dello scarto del ciclone e si lancia in fuori. Ha le zampe tese, la
bocca spalancata e si tuffa verso l’auto di mio zio come se fosse la Terra
Promessa e in quella frazione di secondo mio zio capisce che, sì, è
scampato all’uragano, ma che è suonata comunque la sua ora perché quasi
una tonnellata di quadrupede sta per schiantarsi sulla sua testa. Ma ecco che
proprio in quell’istante, dal nulla, sbuca una motocicletta. È una di quelle
grosse, nere e piene di cromature che fanno un sacco di rumore. A cavallo
della moto c’è un energumeno tatuato, capelli e barba lunghi fino alla vita,
vestito di pelle nera e borchie. Il tizio non fa una piega, in un istante accosta
sgommando all’auto di mio zio, salta in piedi sulla sella, intercetta al volo la
traiettoria della mucca e, con un’alzata degna di un pallavolista di serie A,
le fa compiere una parabola ad arco nell’aria e la fa atterrare con una
capriola al di là della macchina dove lei si rialza, malferma, e se ne va via
trotterellando. Viva e vegeta. Mio zio a quel punto si è già pisciato nelle
mutande, ha visto la morte in faccia per due volte e non ce la fa più.
Piangendo come un bambino si gira verso il suo salvatore per ringraziarlo,
ma lui è già risalito in sella e sta per andarsene, rombando sulla sua moto.
“Dimmi almeno chi sei” lo implora mio zio. E lui, senza guardarlo: “Mi
chiamo Joe, e sono un motociclista”. E poi scompare all’orizzonte, in una
nuvola di polvere. E così, quando è tornato a Parigi e ha aperto il suo locale,
mio zio Henri l’ha intitolato alla memoria dell’uomo sconosciuto che gli
aveva salvato la vita.»
Romain termina il racconto tutto d’un fiato, poi afferra la birra bevendola
avidamente per riprendersi dalla scarica adrenalinica provocata dal ricordo.
Io resto a bocca aperta, rapita dall’avventura che mi è parso di vivere con
lui.
«Ha dell’incredibile, eh?» aggiunge.
Annuisco, incapace di parlare.
«Lo so, ma non preoccuparti... Abbiamo abboccato tutti, esattamente
come te. Zio Henri era un gran narratore.»
E scoppia in una sonora risata.
In quel momento percepisco chiaramente, sulla pelle, il calore di un
raggio di sole dietro il sentiero buio.
Rido anch’io, di gusto, per niente offesa dalla piccola beffa. Alla fine,
come vengo a sapere, la spiegazione del nome si rivela molto più semplice:
lo zio Henri aveva vissuto davvero per alcuni anni in Arizona, dove gestiva
un pub in società con un certo Joe, appassionato harleysta, che si chiamava
The Arizona Hairy Biker’s Club, così quando era tornato a Parigi aveva
semplicemente mantenuto lo stesso nome del bar precedente per conferire
un tocco esotico al locale.
«Ma vuoi mettere la storia che ti ho raccontato con questa banalità?»
ribatte Romain, ancora sorridente.
Dopo quel racconto surreale la serata sembra prendere, appunto, una
piega del tutto differente e inaspettata.
Il guscio indisponente e presuntuoso di Romain, che mi aveva tanto
irritata, a poco a poco si è assottigliato per poi scomparire come un velo
trascinato via dal vento. Sarà la complicità dell’ebbrezza alcolica, lo
sguardo che via via si fa liquido, le parole che fluiscono con facilità, quasi
ansiose di uscire dalla bocca e conquistarsi uno spazio autonomo, la postura
rilassata che apre all’esterno liberando il corpo da recinzioni tanto invisibili
quanto invalicabili, o forse soltanto la curiosità di conoscere l’altro da sé,
fatto sta che a un certo punto, dopo la seconda media chiara, smettiamo di
guatarci e cominciamo a osservarci reciprocamente con aperta curiosità.
«Bene, le origini del nome del locale sono state chiarite, finalmente»
dico, dopo un po’. «Ma ancora non mi hai raccontato come hai conosciuto
Gisèle.» Insistente, sì, ma ormai mi sembra che il terreno sia stato spianato
a sufficienza per approfondire l’argomento che mi interessa.
Romain cincischia un po’ con il sottobicchiere, poi prende un respiro
profondo, come se volesse soppesare bene le parole.
«Sì, be’, come ti ho detto, è successo un paio d’anni fa. Ero tornato a
Parigi dopo aver vissuto diversi anni a Ginevra. A un certo punto mi ero
reso conto che quella città non mi dava più stimoli, insomma, non faceva
più per me. E così, quando zio Henri mi ha proposto di prendere in gestione
il suo locale, be’, mi è sembrato che fosse l’occasione giusta per mollare
tutto e rimettermi in gioco.»
Il suo tono è cambiato, la vena ironica che aveva sotteso la narrazione di
poco prima è scomparsa, sostituita da una sfumatura amara, appena
percettibile, ma presente. Persino lo sguardo è mutato, mi sfugge, laddove
prima aveva cercato, con le parole giuste, di incatenare i miei occhi ai suoi.
È chiaro che il ricordo non deve essere troppo piacevole e, per un attimo, mi
pento di aver insistito tanto.
«Senti, non è necessario, davvero, non volevo essere invadente...»
«No, aspetta, voglio raccontartelo, in fondo non è una storia così tragica.
A Ginevra lavoravo all’università, ero assegnista di ricerca nel dipartimento
di Lingue e Letterature Francesi e Latine Medievali... sì, so perfettamente di
non avere il physique du rôle, non c’è bisogno di fare quella faccia, eppure
sono dottore di ricerca in filologia romanza, diplomato alla Sorbona.
Stavolta parlo sul serio» aggiunge per dissipare ogni dubbio.
Per la miseria.
Mi sento arrossire con violenza perché so benissimo che, di fronte a
cotanta rivelazione, ho sgranato gli occhi incredula riuscendo,
fortunatamente, a tenere la bocca chiusa.
Un filologo, ricercatore all’università, e non una qualsiasi ma l’Università
di Ginevra, una delle più antiche e rinomate d’Europa. E io che lo avevo
classificato semplice impilatore di scatole.
Questo tizio ha studiato più di me.
Mi vergogno di me stessa, come raramente mi è accaduto prima. Ma non
tanto per aver manifestato la mia sorpresa, quanto perché mi rendo conto
che d’un tratto la mia percezione, persino la mia postura, nei confronti di
Romain sono cambiate. Che lo voglia o no, il mio retroterra culturale, il
ceppo familiare che contava decine di professionisti e professori blasonati,
ha lasciato il segno.
E con grande rammarico ricordo le discussioni con Michel quando ci
scontravamo sui metodi di cura e lui sottolineava le mie resistenze nei
confronti dell’approccio iridologico.
Non è un diploma che stabilisce chi sei, Viola, quello sta bene appeso al
muro. Devi smetterla di considerare le discipline divise da paratie stagne. Il
rancore verso tuo padre ti fa diventare cieca, e nello stesso tempo ti
irrigidisci, come se temessi di perdere qualcosa di tuo, come se non fossi
pronta a considerare qualcosa di diverso da quello che hai imparato
all’università perché temi sempre e comunque il suo rimprovero. Ma non è
così, tesoro. Apri gli occhi, guarda le cose per quello che sono realmente,
non lasciarti fuorviare dai pregiudizi.
Era stata una dura lotta. Io incastrata fra l’entusiasmo per gli studi appena
conclusi e il peso del senso di colpa per aver in un certo senso tradito mio
padre, proprio grazie a quegli stessi studi, nonostante lo avessi contrastato
per quasi tutta la vita.
«... E così mi sono detto “Non sarà mica un dramma!”, ho preso la mia
roba e sono uscito.»
Romain ha concluso il suo racconto e io, persa nei miei ricordi, ho
mancato la parte più interessante, ma non ho il coraggio di fargli altre
domande.
Il tempo è trascorso serenamente, dilatato da pause e chiacchiere e adesso
mi rendo conto che sarebbe opportuno salutare e tornare a casa, ma è un
pensiero sgradito. Non ho voglia di uscire da qui e abbandonare questo
momento di grazia, questa serenità inaspettata che ho inseguito per tanto
tempo. Un lampo di lucidità però mi fa ricordare della mia tenuta stazzonata
e all’improvviso sento il bisogno di farmi una lunghissima doccia
rigenerante. Osservo Romain, comodamente adagiato sul divanetto e, a
quanto pare, assorto nella contemplazione del fondo del suo bicchiere.
Cerco il modo migliore per annunciare la fine della serata, quando è proprio
lui a togliermi d’impaccio. A un tratto alza gli occhi. «Sarà meglio andare,
che ne pensi?» dice mentre allunga la mano per prendere il casco.
«Immagino che anche tu debba rientrare.»
Sì, e non sai quanto ne abbia bisogno, penso. Annuisco e mi alzo.
Il breve viaggio di ritorno si svolge in silenzio, ma è un silenzio diverso:
è quella quiete rilassata che non senti il bisogno di riempire, perché sai di
aver stabilito un contatto con chi ti sta accanto e non temi di perderlo, né sei
ansioso di mantenerlo vivo a ogni costo. C’è, e questo ti dà sicurezza.
Persino il carrozzino mi pare meno scomodo, adesso. In un lampo siamo a
rue Ordener, è il momento dei saluti. Mi districo da carrozzino e casco,
Romain aspetta senza spegnere il motore.
«Bene, allora... ci vediamo» mi dice al di sopra del frastuono.
Lo guardo e vorrei dirgli qualcosa di divertente, o di interessante,
qualcosa che faccia uscire allo scoperto le emozioni che provo adesso.
«Grazie» è tutto quello che riesco a pronunciare.
«E di che?» chiede lui, sorpreso. Poi mi sorride e, con un cenno di saluto,
riparte per scomparire nel buio.
Di tanto, gli direi. Tu non lo sai, ma ti devo tanto.
RIMEDIO PER RIATTIVARE IL VI CHAKRA
Il sesto chakra, Ajna, o “chakra del terzo occhio”, si trova al centro della
fronte, fra le sopracciglia, ed è la sede dell’energia percettiva,
dell’immaginazione creativa e dell’intuizione. È il chakra che regola la
capacità di “vedere” con chiarezza oltre le cose. Se bloccato può portare a
difficoltà di entrare in relazione con gli altri, confusione, incapacità di
intuire o paure eccessive.
Il GELSUMINO e l’EUFRASIA sono le piante che sbloccano il flusso
energetico nel chakra. Il primo combatte gli stati depressivi e regala
maggiore consapevolezza di sé, la seconda apre la strada alla visione chiara
delle cose. Puoi preparare una tisana con i fiori essiccati infusi in acqua
calda per almeno cinque minuti, da assumere anche quotidianamente.
Puoi utilizzare anche gli oli
essenziali di ANGELICA, ANICE o
SALVIA (sciolti in olio di mandorle
dolci) e applicarli con un
leggerissimo massaggio circolare
direttamente sul chakra, fra le
sopracciglia.
13
Gisèle questa mattina mi ha lasciata dormire ed è uscita. Per un attimo ho
avuto nostalgia dei piccoli segnali della sua presenza, del lieve rumore del
suo affaccendarsi, ma l’assenza mi ha offerto il tempo di assaporare le
emozioni della sera prima.
E non sono affatto spiacevoli.
Dopo tanto tempo, tante barriere e tante paure, per poche ore, anche solo
per poche ore, ho vissuto da persona normale. È bastato un semplice
aperitivo. Ecco il gesto “eroico” che ha sollevato la mia esistenza dallo stato
vegetativo in cui ho vissuto fino a ieri. Ho alzato la testa e lasciato che il
flusso della vita mi coinvolgesse, semplicemente, senza opporre resistenza.
La mia conquista è l’apertura. C’è un che di ironico in tutto questo,
soprattutto se penso che l’apertura e l’elasticità mentale sono le qualità
fondamentali che fanno un buon naturopata. È il principio stesso della
filosofia naturopatica che le richiede perché lo scopo del guaritore è
individuare la causa profonda del malessere del paziente e diventare per lui
una sorta di guida che lo accompagna e sostiene nel recupero dell’equilibrio
e dell’armonia fra corpo, psiche e ambiente. Ma il naturopata non può e non
deve mettersi in competizione con la medicina tradizionale, sarebbe un
tradimento e un peccato d’orgoglio.
Soltanto adesso mi rendo conto che in me, quest’elasticità è stata corrotta
sin dall’inizio. Soltanto adesso mi rendo conto che il mio radicale rifiuto nei
confronti di mio padre e del suo lavoro mi aveva portata a una rigidità che
poi si era rivelata controproducente per il mio stesso percorso di
apprendimento.
E soltanto adesso comincio a comprendere quello che voleva dirmi
Michel quando mi accusava di non essermi scrollata di dosso le pastoie del
mio vissuto.
Forse proprio per questo mi aveva tenuto nascosta la sua malattia fino
all’ultimo istante, perché sapeva che non sarei stata in grado di aiutarlo...
Forse.
Ma stamattina mi sento nuova e intatta, una distesa di neve fresca, una
pagina bianca su cui cominciare una nuova storia.
Dall’esterno il negozio sembrava vuoto, ma non appena varco la soglia
scorgo Gisèle dietro il bancone, testa china su alcuni fogli sparsi, talmente
assorta che non mi ha sentita entrare.
«Ehi, buongiorno» le dico.
Lei alza la testa di scatto, sul viso un’espressione strana, non riesco a
decifrarla. Sembra quasi che l’abbia colta con le mani nella marmellata.
«Buongiorno, tesoro, hai dormito bene?» mi risponde con un sorriso un
po’ teso mentre mette via i fogli in una cartellina gialla.
«Molto bene, anzi benissimo e... grazie per avermi lasciata poltrire.» Le
sono grata davvero.
Gisèle mi guarda, il celeste dei suoi occhi come una carezza. «Ne avevi
bisogno. Il sonno aiuta a rimettere le cose nella giusta prospettiva. Da brava
naturopata quale sei, dovresti sapere che il riposo aiuta a ristabilire armonia
ed equilibrio.»
Già, lo so.
La mia amica finisce di sistemare i suoi documenti, poi esce da dietro il
bancone e mi si avvicina.
«Allora, come ti senti?»
«Bene.» E stranamente è vero.
«Mi fa piacere» mi risponde con un sorriso. Poi con noncuranza
aggiunge: «Non ti ho sentita rientrare ieri sera. Posso chiederti cosa hai
fatto? Non voglio ficcare il naso, è solo che non ti ho vista per tutto il
giorno e be’ sono curiosa di...»
«Sono uscita con Romain» le dico senza darle il tempo di finire la frase.
Ma di fronte ai suoi occhioni sgranati mi pento immediatamente della mia
irruenza. Che diavolo mi è saltato in mente?
«Ah! Bene» mi dice con un sorrisetto. «E com’è andata la serata?»
La serata? Non è stata affatto una “serata”. Il lampo birichino che le
attraversa lo sguardo non mi piace per niente. Ma cosa si è messa in testa?
«Ehi, ehi, frena!» le dico con brio un po’ forzato. «Non c’è stata alcuna
“serata”. Ci siamo incontrati per caso a Parc Monceau e dopo abbiamo
preso una birra insieme, tanto per fare conoscenza e rompere il ghiaccio,
visto che Romain è amico tuo e sembrava che invece io e lui fossimo sul
piede di guerra. Niente di più e niente di meno» ribadisco per dare alle cose
il loro giusto peso.
Gisèle sembra delusa. «Ah, ho capito. Be’, comunque meglio così.» Poi
la sento borbottare: «Chissà se ha ancora fra i piedi quella sua fidanzata
tremenda».
L’accenno a una fidanzata mi coglie di sorpresa. Non avevo
minimamente pensato che Romain potesse avere una compagna. Voglio
dire, quei suoi modi burberi, l’espressione sempre seria, un po’ imbronciata,
non ha affatto l’aria di uno che possa condividere la vita con un’altra
persona. Il mio cervello elabora l’informazione e mi comunica
un’inopportuna sensazione di fastidio. A questo punto sono quasi certa di
aver perso la parte più interessante del suo racconto, ieri sera. A dirla tutta
mi ero fatta l’idea che fosse un tipo solitario, addirittura misantropo, ma poi
mi viene in mente che adesso, agli occhi degli altri, anch’io potrei apparire
come lui.
Chi mai penserebbe, vedendomi ora così scostante, che un tempo ho
avuto una vita piena di affetti e relazioni?
Diciamo la verità: anche qui, a parte Gisèle, non ho nessuno.
Certo, ci sarebbero i miei vecchi compagni della scuola di naturopatia,
ma sono passati sette anni di silenzio, ho perso la maggior parte degli
indirizzi e poi non so quanto potrei avere in comune, adesso, con persone
con cui ho condiviso quel periodo breve della mia vita. Oppure potrei
ricominciare da zero, o meglio, non proprio zero, almeno da uno.
Da Romain.
«Che cosa stavi leggendo?» chiedo a Gisèle per riempire il vuoto creato
dalle mie riflessioni. «Quando sono entrata eri talmente assorta e silenziosa
che ho pensato che non ci fossi.»
Lei continua a mettere in ordine, mani precise, gesti consueti che paiono
appena viziati da un accenno di concentrazione forzata. Le scatole verdi
accanto a quelle arancioni, i barattoli azzurri sopra i sacchetti di juta e sotto
le piccole anfore di terracotta brunita. Dagli scaffali del negozio si affaccia
un tripudio di colori, profumi, sapienti mescolanze di erbe, fiori ed essenze
che bastano da sole ad appagare i sensi. Chiudo gli occhi e inspiro. Iperico,
penetrante profumo d’incenso. Calendula, dolce aroma di prato. Le note
profonde e sensuali dell’ylang-ylang. Sento sulle dita la carezza serica dei
pollini, l’impalpabile friabilità dei petali essiccati, la ricca ruvidezza delle
cortecce. Lascio che ogni frammento si ricomponga dentro di me e mi
colmi. Questa è la mia casa, il mio calore, la mia forza.
Non ho bisogno di cercare nel passato, il presente schiude davanti a me
un futuro pieno di promesse. Basta accettarlo.
«Oh, niente di importante» risponde lei dopo un po’. «Soltanto... dei
documenti.»
All’improvviso mi torna in mente la visita del funzionario di banca,
l’avevo completamente dimenticata.
«Ah, Gisèle, ho dimenticato di dirti una cosa... ieri è venuto un tizio, uno
della Banca Palatine, se non sbaglio...»
Gisèle si volta di scatto. «La Banca Palatine? E che cosa ha detto?»
Il suo sguardo carico di preoccupazione mi turba. «Mah, niente» cerco di
minimizzare. «Ha detto soltanto che vorrebbe... parlarti.»
«Ah.» Continua a disporre i prodotti negli scaffali, ma vedo che le sue
mani sono meno sicure. Mi avvicino e le sfioro una spalla per farla voltare.
«Gisèle?»
Mi guarda e l’ombra nei suoi occhi è ancora lì. «C’è qualche problema di
cui non mi hai parlato? Hai detto che Mélusine e Florian ti hanno dato un
aut aut, hai problemi di soldi? Posso aiutarti?»
Lei sospira, molla le scatole e va a sedersi su uno sgabello. «No, non c’è
un vero problema. Il fatto è che quando Sabine è stata operata ho dovuto
lasciar perdere il negozio per un po’ e... le vendite ovviamente sono calate.
Allora per ricomprare la merce ho chiesto un prestito, ma... i miei figli non
lo sanno e...»
«Non sarò io a dirglielo, stai tranquilla» la rassicuro. «Ma adesso sei in
grado di restituire il prestito?»
«Oh, sì... almeno, ne sono convinta! Devo soltanto cercare di
incrementare le vendite, solo che con tutto quello che c’è da fare, finora non
ho mai trovato il tempo per occuparmene...» risponde con un leggero
sconforto nella voce.
La guardo mentre è lì seduta, con le spalle un po’ curve, come se fosse
invecchiata tutto d’un tratto. Poi osservo il negozio, e al pensiero di quegli
scaffali vuoti, dell’erbario profanato, delle pareti permeate di profumi che
potrebbero un domani ospitare un volgare ristorante, mi si stringe il cuore.
Non posso permettere che accada, non posso perdere anche questa casa. Mi
avvicino a Gisèle e le prendo la mano, ricomincio a parlare senza darle
tempo di aprire bocca, le parole vogliono uscire, incontenibili.
«Senti, stavo pensando, se tu sei d’accordo, di mettere un annuncio nel
negozio per informare i clienti che c’è una naturopata diplomata che offre
consulenze.»
Come per incanto l’ombra dell’ansia sparisce dal viso di Gisèle. Ho
pronunciato la formula magica, per lei, per me, per noi. Non me ne andrò
più, resterò qui a lavorare per tutto il tempo che vorrà, lei non sarà più sola
e io cancellerò i miei fantasmi. Il negozio vivrà di nuova linfa e i problemi
saranno superati. Insieme.
Vedo tutto questo riflesso nella gioia repentina e immensa che le illumina
gli occhi.
Sotto il suo sguardo tiro fuori il cartoncino giallo che ho preparato già da
un po’ e le ho tenuto nascosto fino a ora. Con fare solenne prendo forbici e
scotch dal cassetto e mi avvicino alla porta. Ho già scelto persino il riquadro
in cui lo metterò: quello al centro, seconda fila, non sfacciatamente troppo
alto, né basso e defilato.
NATUROPATA DIPLOMATA
DISPONIBILE PER CONSULTI SU APPUNTAMENTO.
RIVOLGERSI AL NEGOZIO.
Perché in fondo sapevo che sarebbe andata a finire così.
Perché il mio desiderio di tornare alla normalità, adesso, è più forte della
paura.
14
Mi giro trionfante verso la mia amica sicura di trovarla lacrimevole di
gioia, ma un semplice e sorridente: “Oh” è quello che mi concede.
«Be’? Tutto qua? Mi aspettavo quanto meno un pianto dirotto, un “l’ho
sempre saputo”, che so, almeno uno scaffale rovesciato per correre ad
abbracciarmi» le dico un po’ delusa.
Lei non fa una piega, finisce di riporre la scatola che aveva in mano come
se niente fosse.
«Non aspettarti sempre un biscotto per ogni gesto che compi» mi
risponde. «Sei una donna adulta, ti sto trattando come tale. Sai benissimo
quanto io sia felice e ti sia grata per questa decisione, tanto è vero che c’è
un contratto che sta ancora aspettando la tua firma, o l’hai dimenticato?»
No, non l’ho dimenticato affatto, solo che al mio ego avrebbe fatto
piacere un plauso metaforico.
«E va bene, dammi quel contratto, credo che sia arrivata l’ora di fare di
me una lavoratrice onesta.»
Gisèle recupera la cartellina che stava maneggiando poco prima del mio
arrivo e ne estrae il documento.
«Ehi, ma lo avevi già sottomano? Lo sai che qualche secolo fa ti
avrebbero bruciata sul rogo come strega?» le dico scherzando sulle sue doti
di veggente.
Lei ride. «Già, mi chiedo se non dovrei sfruttare queste facoltà per
giocare qualche numero al lotto. Ma adesso basta scherzare, ecco, firma
qua.»
Un geroglifico barocco e Viola Consalvi entra ufficialmente a far parte
della stimata erboristeria Famille Fleuret-Bourry.
Mi sento talmente euforica che vorrei uscire e correre a perdifiato, urlare,
ballare sotto la pioggia, compiere un rito iniziatico...
«Potresti occuparti di quegli scatoloni laggiù?» La richiesta di Gisèle mi
riporta prosaicamente alla realtà. «Oggi sono arrivate le nuove miscele di
henné e vanno ordinate a seconda della provenienza. Quelli mediterranei
vengono dalla Turchia e dall’Egitto, quelli mediorientali dalla Siria e
dall’Iran. Poi ci sono quelli indiani e thailandesi.»
La guardo un po’ delusa, come una bambina a cui hanno rovinato la festa
di compleanno. «Uhm, non festeggiamo nemmeno un po’?»
Forse mi aspettavo davvero che la mia decisione venisse accolta come
una festa, visto che mi era costata così tanto.
«Festeggeremo a tempo debito, adesso è ora di lavorare» mi risponde lei.
Se vuoi essere considerata un’adulta, comportati come tale.
È il messaggio che le sue parole sottendono e, in fondo, gliene sono
grata.
Comincio ad aprire gli scatoloni e a inventariarne il contenuto. L’henné è
una polvere colorante che le donne medio-orientali e nordafricane usano da
secoli per colorare capelli e pelle. «E questi dove li hai presi?» le chiedo
ammirando le piccole confezioni di carta di riso prive di etichetta.
Gisèle si avvicina e mi toglie dalle mani una scatola color zafferano.
«Questi me li ha portati Philippe, il mio vecchio fornitore. Forse te lo
ricordi, lavorava già con noi quando c’eri anche tu. È stato un pioniere
dell’importazione dall’Oriente, e anche adesso fa dei viaggi fantastici, solo
che ogni volta che parte temo di non rivederlo più» dice ridendo. Mi
restituisce la scatola. «È andato a pescarli in uno dei suoi villaggi sperduti
dell’India. Sai che cos’è il Mehndi Raat?»
«No. È doloroso?»
«Sciocchina» mi redarguisce con un buffetto sulla testa. «Il Mehndi Raat
è il tatuaggio che portano le giovani spose indiane e che si esegue prima
delle nozze.»
«Ah, una specie di marchio prematrimoniale» esclamo con un vago
disprezzo.
«Non dire assurdità» ribatte lei. «È una tradizione molto antica e ricca di
significato. Anzi, il rituale che lo accompagna è estremamente
affascinante.»
«Ah sì?»
«Già. Pensa che nei giorni precedenti il matrimonio dalla casa della
futura sposa è bandito qualsiasi essere di sesso maschile, e la ragazza è
attorniata da parenti e amiche che si occupano soltanto di lei e della sua
bellezza. La più anziana del gruppo di solito è quella che esegue il
tatuaggio. Si impasta la polvere di henné con acqua profumata ai fiori
d’arancio o limone, la si lascia riposare per diverse ore, perché così il colore
diventa più intenso. Quando la pastella è pronta, la tatuatrice vi intinge la
punta di un bastoncino e crea dei disegni meravigliosi sulle mani e i piedi
della sposa, talmente delicati e intricati da sembrare dei ricami.»
«E si usa farlo ancora?» chiedo.
«Oh, sì. Ma ormai i disegni hanno perso gran parte del loro significato
simbolico. Più che altro sono un bell’ornamento.» Gisèle ripone la scatola e
ne prende altre da mettere a posto.
Mi soffermo per un attimo su quello scenario. Immagino un circolo di
donne vivaci e ciarliere intente a raccontarsi, confrontarsi, condividere
pensieri ed esperienze. Un’atmosfera in cui la complicità è palpabile, come
un velo che ricopre e riunisce sotto di sé madri, sorelle, cugine, amiche, zie,
mani che intrecciano capelli e agganciano gioielli, avvolgono stoffe intorno
a corpi snelli e pieni di vita... Dio come mi manca rifugiarmi in un viluppo
di affetti così rassicurante.
Ricordo che da bambina, avrò avuto dieci o undici anni, lessi un libro, La
casa degli spiriti. Mi arrivò come un regalo inatteso da parte di un amico di
mia madre, non ricordo chi fosse. Non avevo mai sentito parlare di Isabel
Allende, ma lui mi disse che dovevo leggerlo e che avevo l’età giusta per
apprezzarne tutte le sfumature. Già allora ero una lettrice avida e mi tuffai
nelle pagine senza farmi troppe domande. All’epoca non colsi il significato
profondamente politico di quel romanzo, né mi interessò l’aspetto
romantico o quello esoterico. Ciò che invece vidi e che impressionò la mia
fantasia di bambina fu il legame fortissimo che pareva unire tutte le donne
protagoniste della storia, un rapporto profondo, viscerale, in cui si
mescolavano amore, gelosia, fiducia e tradimento e che univa generazioni
di madri e figlie come un filo tenace che sfidava il trascorrere del tempo e i
drammi della vita. E soprattutto in quel libro scoprii un’immagine di madre
ideale che avrei desiderato fosse la mia.
Adesso mi rendo conto che sento molto la mancanza di un’amicizia
femminile.
No. Non è così. Se fossi più onesta direi che mi manca mia madre, ma
significherebbe andare a scoperchiare un vaso di Pandora, e io non ne ho
voglia. Gisèle è una persona meravigliosa, un concentrato di affetto,
premura e calore, però in fondo non può funzionare né come surrogato di
madre, cosa che neanche lei desidererebbe, né come unica amica. Le manca
qualcosa, forse l’estraneità, la distanza da colmare che è il fondamento di
una nuova relazione, lo slancio curioso che ci spinge a voler conoscere
l’altro, il diverso da noi.
Mi viene in mente l’uomo che l’altro giorno era venuto a cercarla.
«L’altro ieri è venuto al negozio uno che voleva parlare con te» le dico.
«Un altro bancario?» mi chiede fingendosi allarmata.
«No, no, stai tranquilla! Era un uomo sulla settantina, elegante, distinto.
Ha comprato una confezione di cipria profumata alla vaniglia. Forse è il
marito di qualche tua amica?»
Gisèle ci pensa un po’ su. Poi alza le spalle con aria indifferente. «Non
credo. Le poche amiche che ho non comprano i miei prodotti e soprattutto
non hanno mariti tanto disponibili da venire fin qui per sbrigare le loro
commissioni. Forse aveva sbagliato negozio e ha comprato la cipria per non
sentirsi in imbarazzo.»
In effetti il vecchietto era un po’ svagato.
«E perché le tue amiche non comprano i tuoi prodotti?» le chiedo senza
una reale curiosità.
«Che domanda, chérie, perché glieli regalo.»
Un pensiero mi attraversa la mente. «Senti, Gisèle...» le chiedo un po’
esitante. «Pensi che qualcuna delle tue amiche potrebbe essere interessata a
un consulto con una naturopata?»
All’improvviso il bisogno di sperimentarmi è diventato impellente.
Devo farlo, e devo farlo adesso.
Mollo gli scatoloni di henné e comincio a vagare per il negozio parlando
a raffica, in preda a una sorta di febbre. «Non so, magari qualcuna di loro
potrebbe aver bisogno di una floriterapia, oppure potrei creare delle ricette
per i disturbi gastrici, o per l’insonnia, e poi, aspetta, c’è anche il Reiki!
Soprattutto a una certa età, sai, una terapia dolce potrebbe essere di grande
aiuto sia per malesseri fisici che psicologici, oppure potrei anche...»
«Viola?»
Interrompo l’elenco delle mie competenze professionali per riprendere
fiato e vedo che Gisèle mi sta osservando da un po’, con un’espressione
schiettamente divertita.
«Tesoro, ma perché non ti rilassi un po’?»
Ed ecco qui che mi affloscio come un palloncino bucato. Lei mi viene
vicino, mi prende delicatamente per un braccio e mi accompagna davanti
alla porta del negozio. I raggi del sole che trapassano i vetri scaldano il
pavimento bianco e ocra.
«Dimmi perché sei tornata.» Lo dice con calma.
«Perché dovevo cambiare aria, perché non volevo più pensare. Lo sai
benissimo.»
«Io non lo credo. Cioè non credo che sia stato solo per questo. Credo
invece che tu sia tornata perché vuoi che io rimetta in sesto la tua vita e ti
dica quale direzione prendere. Solo che non sei abbastanza coraggiosa per
chiederlo. Ti sei consumata nella disperazione, poi hai bussato alla mia
porta. Hai pestato i piedi prima di accettare il lavoro che ti offrivo...
Guardami in faccia, per favore...»
Fisso ostinatamente lo sguardo sugli arabeschi di luce che danzano sulle
piastrelle. È tutto vero, ma sentirmelo dire in faccia mi mette a disagio.
«E poi arrivi qui questa mattina e sembra che se non cominci a lavorare
immediatamente il mondo ti crollerà addosso e ancora una volta tocca a me
prenderti e riportarti con i piedi per terra.»
Ha ragione lei. Le emozioni contrastanti che si scatenano dentro di me mi
fanno sentire come una bomba sul punto di esplodere e l’energia che mi
agita mi fa schizzare in tutte le direzioni come una scheggia impazzita,
senza senso.
La guardo e mi accorgo che sul suo viso serio non c’è ombra di
rimprovero, soltanto un’infinita compassione.
«Io... Io vorrei soltanto ritrovare il mio centro...» le dico mordendomi il
labbro per non piangere. «Vorrei soltanto ricominciare a vivere una vita
normale, mi sento continuamente sull’orlo di un precipizio, come se
bastasse un’inezia per mandarmi in pezzi. Ho chiuso talmente tante porte
dietro di me che se anche questa possibilità dovesse rivelarsi un fallimento,
io... non credo che riuscirei a sopportarlo.» Mi maledico mentre mi sfugge
un singhiozzo e le lacrime cominciano a scorrere.
Accidenti. Tutta l’euforia di questa mattina si è volatilizzata e adesso mi
sento vuota e stanca, defraudata di qualcosa di prezioso.
Gisèle è davanti a me, ma non viene ad abbracciarmi.
«Devi darti tempo, Viola, le situazioni non cambiano così dall’oggi al
domani soltanto perché noi lo vorremmo.»
Getto intorno a me uno sguardo sconsolato. Gli scatoloni vuoti a metà
sembrano chiamarmi a gran voce. La febbre che mi sento dentro comincia a
scemare, sarà meglio che mi rimetta al lavoro. Per oggi i gesti eroici sono
terminati.
HENNÉ COLORANTE PER CAPELLI
Ingredienti: lawsonia inermis, acqua.
In un recipiente d’acciaio metti la polvere di henné (la quantità varia a
seconda della lunghezza dei capelli, per una lunghezza media sono
sufficienti 50 grammi) e scioglila accuratamente con dell’acqua bollente
badando a non formare grumi. La quantità d’acqua dev’essere tale da
ottenere una pastella densa, non troppo asciutta. Lascia ossidare l’impasto
ottenuto esponendolo all’aria, senza coprirlo, per un tempo variabile da
un’ora a una giornata, a seconda del grado di freddezza del colore. Più lo si
fa ossidare, più il rosso sarà freddo. Proteggi le mani con guanti di plastica e
procedi all’applicazione dell’henné su tutta la chioma, preferibilmente
asciutta, aiutandoti se necessario con un pennello. Terminata l’applicazione,
avvolgi la testa con della plastica da cucina e lascia agire l’impasto da una a
diverse ore. Il tempo di posa influisce sull’intensità del colore.
15
La Banca Palatine si trova nel nono arrondissement, abbastanza distante
da Montmartre da richiedere necessariamente una corsa in metropolitana.
Scendo a Notre-Dame-de-Lorette e, dopo poche centinaia di metri, arrivo
davanti all’ingresso della filiale. In mano stringo il biglietto da visita di
Leblanc, casomai lui non si ricordasse di me. Dopo che le ho raccontato
della sua visita, Gisèle si è agitata parecchio, anche se non mi ha spiegato
nei particolari la situazione. Così, approfittando del fatto che lei doveva
occuparsi di alcuni arrivi merci, mi sono offerta di venire qui al posto suo,
almeno mi farò un’idea più precisa.
Entro, prendo il numero e vado a sedermi. L’attesa non sarà lunga, la
banca è poco affollata. Per ingannare il tempo osservo le facce dei miei
vicini e cerco di immaginare la loro storia, come facevo da piccola quando
accompagnavo mia madre al supermercato o alla posta. Quel signore poco
distante, per esempio, smilzo e con un viso grinzoso come una mela secca,
potrebbe essere un facoltoso possidente appena tornato da Guadalupa,
almeno visto il suo cappello di paglia, il bastone da passeggio e il completo
di colore chiaro che fanno tanto Mar dei Caraibi... Mi sfugge un sorriso, ma
poi a un secondo sguardo mi accorgo delle scarpe consunte, della giacca
solo somigliante ai pantaloni e degli occhi ansiosi fissi sul display, che
raccontano una storia completamente diversa. Mi affloscio un po’ sulla
sedia, rimpiangendo la spensieratezza dell’infanzia che certe cose non le
avrebbe mai notate, e interrompo il gioco prima di intristirmi. Sbircio
guardinga alla mia sinistra e fra i volti in attesa d’un tratto ne vedo uno
noto. È la ragazza dell’Hairy Biker. La Principessa Raja.
Lì per lì penso di mimetizzarmi dietro la spalla della robusta signora
seduta accanto a me ma la mia esitazione è fatale perché, come spesso
accade, la ragazza sceglie di girarsi proprio in quel momento. In un istante
mi riconosce e mi scocca un sorriso abbagliante che io ricambio
sforzandomi un po’. Penso di cavarmela con un saluto a distanza, ma vedo
con sgomento che lei si alza e viene verso di me. Non posso fare a meno di
notare la bellissima gonna lunga color amaranto che le svolazza intorno alle
gambe snelle, i capelli raccolti in una treccia lucida, gli orecchini d’argento,
e cerco di non pensare ai soliti pantaloni neri che indosso e al mollettone di
plastica che mi scosta la criniera dal collo.
«Ciao, che coincidenza! Come stai?» mi dice con un entusiasmo un po’
eccessivo per i miei gusti. In fondo ci conosciamo appena.
«Oh... bene, grazie. Ehm, che ci fai qui?» Domanda idiota. Siamo in una
banca, mica al luna park. Ma lei non sembra fare caso alla mia scarsa
originalità e si prepara a fare conversazione.
«Devo versare l’incasso, avrebbe dovuto farlo Romain, ma ha talmente
da fare in questo periodo che non riesce a occuparsi anche del locale...»
spiega in tono di dolce sollecitudine.
Troppo occupato per gestire il locale? Ma non è quello il suo lavoro?
«Oh. Come mai? Pensavo che facesse il barista» dico ridendo per
dissimulare la mia curiosità con una battuta.
«Oh, be’, sì... Ma Romain è un tipo così... vulcanico, sai cosa intendo
dire... pieno di energie e sorprendente! Molto, molto sorprendente, ti
meraviglieresti nello scoprire quanto può essere... eclettico. E quindi il
tempo non gli basta mai.»
Non capisco affatto cosa intenda, ma qualunque cosa sia lo dice con tale
trasporto e occhi scintillanti d’ammirazione che mi chiedo se il loro
rapporto non vada oltre l’ambito lavorativo.
«Ah, be’, se è così capisco. Ma... a te non pesa fare un lavoro extra?
Voglio dire, stare al locale dev’essere già molto impegnativo.»
Lei spalanca gli occhioni quasi indignata. «Scherzi? Lo farei altre mille
volte, Romain è così... così...»
«Vulcanico...?»
«Già! È la parola giusta» conferma ridendo. «Oops, tocca a me. Piacere
di averti vista, a presto!»
Mi saluta e si allontana con la leggerezza di una danzatrice e per un
attimo mi viene il dubbio che il discorso su Romain non riguardasse tanto il
suo lavoro quanto le sue capacità amatorie. Per fortuna non mi rimane
molto tempo per indugiare su quel pensiero perché poco dopo arriva il mio
turno.
Mi affaccio alla porta del cubicolo di Philippe Leblanc e il suo viso
compassato mi accoglie con un sorriso professionale. Almeno finché non
mi riconosce.
«Ah. Buongiorno» mi dice freddamente.
«Buongiorno» rispondo e mi accomodo sulla sedia di fronte a lui senza
aspettare il suo invito. «Vedo che si ricorda di me, quindi andrò subito al
punto. Vorrei sapere esattamente qual è la situazione del prestito della
signora Fleuret-Bourry.»
Lui mi scruta, impassibile. «Vorrei poterla aiutare, signorina, ma queste
sono informazioni riservate, soltanto la signora...»
«Io sono l’assistente della signora Fleuret-Bourry» lo interrompo e gli
metto sotto il naso una specie di delega che Gisèle ha scarabocchiato
stamattina, il cui valore legale credo sia nullo ma spero nell’effetto sorpresa.
Leblanc gli dà appena un’occhiata, poi guarda me con l’aria di dirmi “Ma
chi vuoi fregare?”, però forse perché non vede l’ora di liberarsi di me, fa
finta di niente e con un leggero sospiro si appresta a spiegarmi tutto.
«La questione è molto semplice: un anno fa la signora ha chiesto un
prestito di diecimila euro per sostenere le spese della sua attività, da
restituire in trentasei rate. Per i primi tempi non ci sono stati problemi, i
pagamenti sono arrivati regolarmente, ma ormai sono tre mesi che la
signora Fleuret-Bourry ha smesso di pagare. E non solo, non ha mai
risposto alle lettere di sollecito che le abbiamo spedito.» Fa una pausa e mi
guarda con un severo cipiglio. «Quindi, sono costretto ad avvertirla che se
la signora non comincerà a pagare gli arretrati da qui a trenta giorni, saremo
costretti a prendere provvedimenti» conclude soddisfatto.
La parola provvedimento mi fa scorrere un brivido freddo lungo la
schiena, ma cerco di non darlo a vedere. «Ho capito.» Prendo tempo, non
voglio dargli la sensazione di avermi spaventata. «Bene, signor Leblanc, la
ringrazio per la chiarezza. Vorrei tuttavia assicurarle che i pagamenti
riprenderanno in maniera regolare prima della scadenza del termine, quindi
può anche sospendere qualsiasi provvedimento in proposito.»
Lui fa una faccia fra l’incredulo e il divertito. «Davvero? Be’, allora mi
congratulo con lei. Se riuscirà a tirare la signora Fleuret-Bourry fuori da
questa situazione, avrà tutta la mia stima.»
Di nuovo in strada, mentre mi avvio verso la fermata della metropolitana,
rifletto fra me e me su quanto ho appena saputo. Diecimila euro in trentasei
rate non sono una cifra inavvicinabile, ma se cominciamo a sommare le rate
scadute e gli interessi di mora, la cosa si fa preoccupante. Mi chiedo se i
figli di Gisèle non abbiano parlato a ragion veduta quando le hanno
consigliato di chiudere. In fondo loro hanno a cuore la vita della madre.
Mentre io sono un’egoista che rischia di mandare sul lastrico un’amica pur
di non rinunciare al proprio sogno di cambiamento. Forse dovrei chiamarli.
Forse ho sbagliato ad accettare di firmare quel contratto. E se la mettessi nei
guai...
Devo assolutamente parlare con Gisèle al più presto.
Mentre cammino, sulle scale di un palazzo noto un gruppetto di ragazzini
con tutta l’aria dei bulli che hanno marinato la scuola. Bottiglie di birra,
sigarette, felpe sdrucite e jeans sporchi completano il cliché. Nel superarli li
sbircio di sottecchi, due maschi e una femmina, forse sui sedici anni, ma
con un’espressione da duri che sembra ricalcata pari pari da un filmaccio di
serie B. Mi colpisce la ragazzina, capelli rossi lunghi e un viso su cui spicca
un neo alla Cindy Crawford e che, senza i due chili di stucco che si è messa,
sarebbe molto grazioso. Per una frazione di secondo i nostri sguardi si
incrociano, ma lei abbassa subito il suo. Passo oltre e scuoto la testa, felice
di aver superato l’adolescenza e le sue insicurezze.
Ma non faccio in tempo a percorrere quattro metri che il rapido calpestio
alle mie spalle mi preannuncia quello che accadrà, ancora prima di sentire il
violento strattone alla spalla che mi fa volare a faccia in avanti sul
marciapiede. Cado malamente sbattendo sul selciato e un dolore acuto al
ginocchio mi strappa un gemito. Cerco di rialzarmi e chiamare aiuto, ma
non ci riesco e intanto vedo i tre teppisti sfrecciarmi accanto come razzi
portandosi via la mia borsa. L’ultima immagine è una fiammeggiante coda
di capelli rossi che ondeggia al vento prima di sparire dentro un vicolo.
Dolorante e inferocita resto seduta per terra, incapace di muovermi. Poi do
un’occhiata al ginocchio, per valutare il danno. C’è un buco enorme nella
stoffa dei pantaloni. Se non altro, ora non ho più scuse per evitare lo
shopping.
Tre ore dopo entro nel negozio zoppicando. Ci sono delle clienti, quindi
vado dritta nel retro cercando di non dare troppo nell’occhio, anche se i
pantaloni a brandelli e la mia faccia torva sono difficili da dissimulare.
Gisèle mi guarda sbalordita. «Credevo che dovessi andare in banca, non a
un incontro di wrestling» mormora mentre le passo accanto.
Le rispondo con un grugnito e mi rintano nel mio rifugio. Lavo subito i
tagli, poi li disinfetto con qualche goccia di tintura madre di achillea e
applico una pomata all’arnica sulle contusioni. Pochi minuti dopo, mentre
mi sto massaggiando il ginocchio con la crema, entra Gisèle.
«Mi dici che cosa ti è successo?» chiede preoccupata.
«Niente. Quando sono uscita dalla banca ho incrociato un simpatico
gruppo di ragazzini che hanno visto bene di rubarmi la borsa facendomi
asfaltare il marciapiede con le ginocchia» rispondo cercando di scherzarci
su per non farla agitare. «Comunque è tutto a posto, mi hanno soccorsa,
sono andata a fare la denuncia e persino al consolato per i duplicati. Ora,
per quanto riguarda la banca...»
«Cosa c’era nella borsa?» mi interrompe lei.
«Solo i miei documenti e le chiavi della casa di Roma, quei teppisti
rimarranno a bocca asciutta, invece la banca...»
«No, no, no, non è il momento adesso. C’è gente di là e poi non devi
preoccuparti, è tutto sotto controllo. Ne riparliamo più tardi. Ora vado.»
Batte in ritirata senza darmi modo di rispondere. Qualcosa mi dice che
non ne riparleremo né più tardi né mai.
OLIO ESSENZIALE DI LAVANDA
Quest’olio è da secoli uno dei più noti grazie alla sua estrema versatilità.
Può essere utilizzato sia per problemi epidermici sia per alleviare tensioni
da stress o dolori muscolari. Non si assume per via interna, ma tramite
massaggio o disciolto in acqua calda.
Per un massaggio efficace diluisci quattro gocce di olio vegetale in 100
ml di olio vegetale, preferibilmente olio di mandorle dolci o jojoba o cocco,
purché biologico e ottenuto con procedimento “a freddo”. Con questa
soluzione potrai ungere la pelle in caso di punture d’insetti per alleviare il
prurito, o massaggiare le tempie per dare sollievo al mal di testa, o anche
effettuare un massaggio su tutto il corpo per favorire il rilassamento
muscolare dopo una giornata particolarmente intensa.
Aggiunto all’acqua del bagno o di un pediluvio serale cancella la
stanchezza avvertita negli arti inferiori e concilia il sonno.
Io e Gisèle lavoriamo fianco a fianco per tutta la settimana. Dopo i primi
giorni i nostri gesti hanno acquisito un ritmo fluido e ci muoviamo nel
negozio pressoché in silenzio. Siamo coordinate, complementari, una
coreografia armoniosa che non ha bisogno di registi. Di tanto in tanto lancio
un’occhiata furtiva al piccolo cartoncino appiccicato sulla porta. Ogni
cliente che entra accende in me la speranza di una richiesta di informazioni,
ma siamo già a sabato e ancora nessuno sembra averlo notato.
«Che ne dici di andare a pranzo da Romain?» mi chiede Gisèle a un certo
punto.
Guardo l’orologio e mi accorgo che è quasi l’una. Non ho molta fame,
ma l’idea di un pranzo all’Hairy Biker mi attrae. Non ho più visto Romain
dalla sera della birra e un po’ ne sono rimasta delusa. Avevo pensato che
dopo essere stata io a fare il primo passo lui avrebbe approfittato della mia
mano tesa e avrebbe dato seguito alla nostra conoscenza, magari sarebbe
passato al negozio, invece niente. Non l’ho mai incrociato nemmeno per
caso, eppure siamo a distanza di poche traverse l’uno dall’altra. È pur vero
che finora, a parte il tragitto casa-negozio-casa e la disastrosa visita alla
banca, le mie uscite sono state praticamente nulle. Durante il giorno sono
molto presa dal negozio e il lavoro mi provoca una stanchezza che accolgo
con piacere perché mi fa sentire comunque viva e al contempo mi
impedisce di indugiare in pensieri funerei. E comunque devo riconoscerlo:
pur con tutte le attenuanti del caso, la diserzione di Romain ha ferito la mia
vanità.
«Allora? Ti va l’idea?» insiste Gisèle.
È proprio la mia vanità offesa che risponde: «Sì».
A questo punto vorrei soddisfare la curiosità che mi porto dietro da un
po’.
«Sembra che tu e Romain siate vecchi amici. Come l’hai conosciuto? E
quando?»
«È successo un paio d’anni fa, quando è venuto qui per aiutare lo zio. Io
sono sempre stata una cliente dell’Hairy Biker, da quando Henri lo aveva
aperto. A un certo punto è arrivato questo suo nipote da Ginevra. Per un
po’, diceva. All’inizio Romain non ci sapeva fare con i clienti, stava molto
sulle sue, non dava confidenza: l’esatto contrario dello zio, insomma, e
anche con me non scambiava più di un buongiorno.»
Non faccio fatica a credere alle parole di Gisèle, sapendo quanto è
scontroso il ragazzo...
«Non dirmi che anche a te faceva battute acide!»
Gisèle sorride e scuote la testa. «No, no tutt’altro. Una volta, era febbraio
e faceva un freddo terribile, sono arrivata al negozio un po’ prima dell’ora
solita e, forse per il gelo, la serranda è rimasta bloccata a metà mentre la
sollevavo. Mentre ero lì che cercavo di sbloccarla, è arrivato proprio lui e si
è dato immediatamente da fare per aiutarmi. Alla fine ci è riuscito e io, per
ringraziarlo, gli ho offerto una delle mie tisane. Sarà stato il calore o
l’aroma di cannella, ma dopo un po’ lui ha iniziato a sciogliersi e mi ha
parlato un po’ di sé. Dopo quella volta mi è sembrato di vederlo sempre più
aperto, felice di scambiare due parole quando ne aveva l’occasione e così...
a forza di parlare siamo diventati amici. Mi ha fatto molto piacere la sua
decisione di restare e rilevare il bar dello zio. È un caro ragazzo, in fondo. E
adesso che ne dici di andare?»
Non so se sono d’accordo con la definizione di Gisèle: Romain è un caro
ragazzo? In ogni caso, per me è diverso, ma non voglio approfondire il
discorso.
«Bene, allora comincio a chiudere.»
Mi avvicino alla porta per esporre il cartello FERMÉ, ma faccio un salto
indietro quando questa si spalanca di colpo quasi sbattendomi sul naso.
«Buongiorno... oddio! Scusami! Spero di non averti fatto male!»
Una voce nota. Una massa di treccine bionde e una sinfonia di colori
sgargianti. Benché frastornata dallo scampato pericolo di ritrovarmi il naso
spiaccicato, la riconosco subito: è la ragazza-farfalla che ho soccorso pochi
giorni fa.
Camille è tornata.
16
Si ferma esitante sulla soglia. Ha visto il cartello.
«Oh, ma sono arrivata tardi, state chiudendo... magari torno dopo.» E fa
per andarsene.
«No! Aspetta!» le dico con irruenza.
Sono felice di rivederla e non voglio lasciarla andare. È tornata, e
scommetto qualsiasi cosa che è tornata per me, perché l’ho fatta sentire
bene. Perché le ho ispirato fiducia.
«Chiudiamo fra un quarto d’ora, ma se hai bisogno di qualcosa non c’è
problema, qui non siamo tanto fiscali sull’orario.»
E il pensiero vola, mio malgrado, a Romain. Mi sfugge un sorriso.
«Prego, accomodati pure, Viola sarà a tua disposizione. Cara, io intanto
vado, ti aspetto da Romain, potrai raggiungermi lì quando avrai finito.»
Camille è ancora esitante. Le rivolgo un sorriso e chiudo la porta alle sue
spalle.
«Allora, dimmi, come posso esserti utile?»
Camille entra con circospezione, come se non sapesse bene da che parte
cominciare. Ma poi va subito al punto.
«Sai, in realtà non so nemmeno se potrai aiutarmi, io non sono tanto
versata per le cure alternative. Fumo, mi imbottisco di antibiotici e spesso
non vado neanche dal medico, faccio da sola. Però...» si interrompe e mi
soppesa con lo sguardo. «Quando sono entrata qui ho percepito qualcosa,
un’atmosfera serena e poi tu, quando mi sono sentita male, il modo in cui
mi hai rassicurata... mi sono sentita protetta. E ci ho rimuginato sopra per
quasi una settimana prima di decidermi a tornare. E poi, quando sono
arrivata qui davanti ho visto l’annuncio sulla porta e... mi è sembrato un
segno incoraggiante.» Mi sorride, fiduciosa.
Per un naturopata è fondamentale instaurare un rapporto con il paziente,
soltanto attraverso il dialogo si può cominciare a entrare in sintonia con lui
e capire a poco a poco la causa dei disturbi che si manifestano. Esistono
degli appositi questionari standard da utilizzare nelle prime sedute, ma
Camille mi piace, come persona. La sua naturale simpatia mi aveva
conquistata e allora decido di approcciare la questione in modo un po’
diverso, più personale.
«Mi fa molto piacere rivederti. Ti va un tè mentre mi racconti qualcosa in
più?»
La guido nel retro dove comincio a preparare un tè al bergamotto e scorze
d’arancia. Voglio darle il tempo per sentirsi a suo agio, ma le bastano pochi
minuti, poi comincia a parlare. Mi racconta di sé, mentre io traffico con
teiera e tazze. Si rivela una tipa chiacchierina, allegra e disposta a farsi
conoscere, così in breve vengo a sapere che fa la stilista per un’importante
firma della moda, che è figlia unica e ha vissuto per lo più con suo padre
perché sua madre, una coreografa, è sempre stata impegnata con un lavoro
che l’ha portata in giro per il mondo.
«Ultimamente mi sento un po’ affaticata, ansiosa. Probabilmente è per il
lavoro, sai abbiamo appena chiuso una nuova linea e non ho fatto altro che
disegnare per mesi. A parte l’attacco di panico della volta scorsa, non mi è
successo niente di così tremendo, però è da un po’ che non riesco a dormire
bene, anzi in realtà non dormo quasi per niente e le rare volte in cui ci
riesco faccio degli incubi terrificanti che al mattino nemmeno ricordo, so
soltanto che me ne resterei a letto tutta la giornata per la stanchezza...»
Mentre parla ho l’impressione che, nonostante i modi spigliati e
l’atteggiamento socievole, si stia in qualche modo trattenendo. Sorseggiamo
il nostro tè e io ne approfitto per osservarla meglio.
Lei resta in silenzio per un po’, assorta in qualche suo pensiero, poi si
alza in piedi. «Senti, io non so bene come funziona la naturopatia. Oggi mi
hai fatto una visita? Mi darai una cura? Accidenti...» dà uno sguardo
all’orologio, «si è fatto tardi e devo scappare, ho un appuntamento per
pranzo. Però ho finito quelle gocce che mi hai dato l’altra volta e magari le
riprenderei...»
Nascondo un sorriso. Camille parla a raffica, come se cercasse appoggio.
«Oggi abbiamo fatto un primo incontro» le spiego. «La visita vera e propria
è un po’ diversa, ma posso comunque darti un’altra combinazione di Fiori
di Bach per aiutarti a dormire e a tenere sotto controllo l’ansia, per
cominciare.»
Lei si illumina. «Fantastico! Puoi darmela adesso?»
«No, be’, la devo preparare. Puoi ripassare alle sette, se vuoi, oppure
domani mattina» le dico mentre l’accompagno all’uscita.
«No, no, ripasso più tardi!» si affretta a rispondere. Poi mi sorride mentre
apre la porta. «E magari, se ti va, andiamo a bere qualcosa.»
Cammino velocemente sotto il sole, ho fame, ma il vuoto che sento nello
stomaco non è imputabile solo alla mancanza di cibo. Una ridda di
emozioni si scatena dentro di me, difficile identificarle una per una. Euforia,
eccitazione, gioia. Il passo si fa più veloce, a ritmo del cuore che batte. È
passato tanto tempo dall’ultima volta che ho avuto una paziente e il timore
di sbagliare è sempre lì, pronto a divorarmi. Vorrei tanto correre da Michel e
raccontargli tutto. Dio, era così bello condividere le cose con lui. Ma posso
piangere e disperarmi fino a perdere la voce e le lacrime, Michel non c’è
più, punto, fine. L’unica cosa che mi resta è il suo ricordo e il suo
insegnamento. Posso soltanto pensarlo e dedicargli mentalmente la mia
piccola vittoria.
Sono quasi arrivata alla caffetteria, se non altro lì ci sarà Gisèle pronta ad
ascoltarmi.
La campanella suona dolcemente mentre apro la porta. Dietro il bancone
c’è Raja che mi rivolge un cenno di saluto mentre si dà da fare con caffè e
bevande. Le rispondo con un sorriso. Oggi varco la soglia con uno stato
d’animo completamente diverso rispetto all’ultima volta.
Il locale è ancora abbastanza affollato anche se ormai sono quasi le due.
Vedo Gisèle seduta a un tavolo accanto alla vetrina, le faccio un cenno e mi
dirigo verso di lei, quando vengo intercettata da Romain che esce in quel
momento dal retro con un vassoio carico fra le mani.
«Ehi, buongiorno! Sarà meglio che ti sieda subito prima che la fame ti
faccia crollare sul pavimento.» Mi sorride con calore, guardandomi negli
occhi, con ironica sollecitudine.
«Sbrigati a portarmi un menu, allora!» ribatto sorridendogli a mia volta.
«Eccomi qua» dico mentre mi siedo accanto a Gisèle.
«Ah, bene, e allora? Com’è andata?» mi chiede lei.
Ripenso con gioia all’incontro che si è appena concluso e comincio a
raccontare, mentre do un’occhiata al menu.
«E così oltre a una paziente hai trovato anche una potenziale amica?»
Gisèle è rimasta ad ascoltarmi con attenzione senza interrompermi.
«Amica non lo so, ce lo dirà il tempo. Però mi sembra una persona
interessante. Non vedo l’ora di tornare al negozio per prepararle il mix di
fiori.»
La mia euforia è quasi palpabile. So già quali fiori scegliere per Camille.
Mentre ci penso arriva Romain per prendere la mia ordinazione.
All’improvviso mi accorgo di avere una fame da lupi.
«Senti un po’, Romain, lo sai fare un croque-monsieur come si deve?»
Immediatamente il sorriso che mi aveva rivolto scompare, sostituito da
un’aria di sdegnosa superiorità in cui si riflettono secoli di grandeur
francese.
«Mia cara ragazza, sappi che io preparavo e mangiavo croque-monsieur
quando tu ancora non sapevi pronunciare “pizza margherita”» mi risponde
scandendo bene le ultime parole.
Il croque-monsieur per i francesi è l’equivalente culinario della Torre
Eiffel. Non è soltanto uno dei piatti più diffusi su tutto il territorio, è molto
di più: un alimento assurto all’empireo dei piatti “letterari” per essere stato
menzionato nientemeno che da Proust in un volume della sua Recherche.
Ironizzare sul croque-monsieur con un francese significa scherzare col
fuoco.
«Uhm, sarà, ma voglio proprio vedere. Sai, tutti gli italiani si vantano di
saper cucinare un ragù alla bolognese a regola d’arte, ma alla prova dei fatti
sono ben pochi quelli che si dimostrano in grado di farlo.» Continuo a
stuzzicarlo per vedere fino a che punto riesce ad arrivare.
«Bene, allora facciamo una scommessa: se il mio croque-monsieur
soddisferà le tue aspettative, tu dovrai stupirmi con un piatto italiano a tua
scelta, rigorosamente preparato espresso e davanti ai miei occhi.»
Un luccichio sbarazzino nel suo sguardo mi invita a raccogliere il guanto
di sfida.
«Ci sto» rispondo. «Ma adesso, per favore, portami il tuo capolavoro.
Non ci vedo più dalla fame.»
Dopo alcuni minuti lo vedo tornare trionfante con un vassoio su cui
troneggia uno splendido tramezzino croccante al prosciutto e formaggio. La
delizia si lascia preannunciare dal profumo che mi solletica il naso non
appena Romain mi mette davanti il piatto. Lui non si allontana, resta lì in
piedi accanto a me, a braccia conserte.
L’aspetto è più che invitante. La crosticina esterna del groviera
grattugiato è perfettamente dorata. Afferro coltello e forchetta e taglio, il
tramezzino rivela un cuore fondente di besciamella, formaggio e prosciutto
cotto. Ne prendo un boccone sotto lo sguardo vigile di Romain. È strano
come una cosa piccola e semplice come un tramezzino al prosciutto e
formaggio possa raggiungere tali livelli di sublime perfezione. Il sapore
burroso della salsa e del formaggio si amalgama con quello leggermente
affumicato del prosciutto cotto in una sinfonia cremosa e croccante insieme.
Chiudo gli occhi e mi sfugge un sospiro di piacere. Semplicemente
favoloso.
«Non c’è bisogno che parli. Posso dire di aver vinto la mia scommessa.
Mi devi una cena, Italie» esclama in tono vittorioso Romain.
Alzo gli occhi dal piatto e lo vedo che mi osserva con la solita smorfietta
beffarda.
«Chi ha mai parlato di una cena? Si era detto un piatto.»
«Oh, non preoccuparti, quando riscuoterò il premio saprò farmelo
bastare. Piuttosto, ho saputo che hai iniziato un nuovo lavoro?» mi dice,
lanciando un’occhiata a Gisèle.
«Sì, be’, non è proprio un lavoro nuovo... ho deciso di riprendere la
professione che esercitavo in Italia. Gisèle mi ha offerto la possibilità di
appoggiarmi al suo negozio.»
«Quindi significa che vuoi mettere radici qui da noi?»
Radici? Il suono definitivo di questa parola mi coglie di sorpresa. Sto
vivendo la mia vita giorno per giorno, lottando per ritrovare me stessa e mi
rendo conto che a questa domanda non so cosa rispondere. Mi sento
imprigionata fra lo sguardo curioso di Romain e quello di Gisèle,
improvvisamente trepidante.
«Mah... ecco... Non ci ho ancora pensato» balbetto mentre abbasso gli
occhi e torno a occuparmi del mio panino che si sta raffreddando. Adesso
non mi sembra più tanto buono, forse per un sapore di cartone che mi sento
in bocca.
Avverto che sopra di me Romain e Gisèle si scambiano un’occhiata, ma
mi ostino a restare a testa bassa.
«Okay» conclude Romain. «Ma ricordati che non potrai scappare prima
di aver pagato la scommessa.»
Lo guardo di sottecchi e mi sfugge un sorriso. «Non sarà certo la paura di
una sfida a farmi scappare, stai tranquillo.»
Lui non mi risponde, mi strizza l’occhio e se ne va. Finisco di mangiare
un po’ controvoglia, adesso desidero soltanto tornare al negozio e mettermi
al lavoro.
«Paghiamo e andiamo?» dico a Gisèle che è rimasta in silenzio per tutto
il tempo.
«Sì, è ora.»
17
C’è un luogo d’elezione per tutti noi. Quello il cui pensiero ci fa
sorridere, un luogo in cui ci sentiamo protetti, felici. Per me questo luogo è
il retrobottega del negozio di Gisèle. È un locale quadrato, illuminato da
due finestre rettangolari che corrono lungo la parete di fondo subito sotto il
soffitto, che funge sia da deposito che da angolo relax. Rispetto alle tinte e
agli arredi sobri del negozio, questa stanza rivela un tocco prettamente
femminile. Le pareti sono dipinte di un tenue color lilla, su quella di destra
c’è un lungo bancone occupato da ampolle, contagocce, recipienti di vetro
scuro, utensili per le preparazioni erboristiche e fitoterapiche, un antico
bilancino di precisione e un piccolo fornello. Su quella di sinistra troneggia
un lungo armadio a muro decorato con una fantasia provenzale, io lo
chiamo lo scrigno delle meraviglie perché dentro vi sono conservate le
materie prime più preziose: oli spremuti a freddo, erbe, tinture madri, oli
essenziali, idrolati, macerati e conservanti naturali che necessitano di un
ambiente buio e fresco. Un piccolo tavolo quadrato con due sedie completa
l’arredamento. È un ambiente funzionale, attrezzato anche con una
minuscola cucina, sufficiente per preparare tè, tisane e, a volte, qualche
merenda.
In questo locale ho passato momenti indimenticabili, quando ero una
ragazzina sola e un po’ spaesata appena arrivata in una città sconosciuta con
un futuro tutto da inventare, qui trovavo sempre accoglienza e consolazione.
Anche adesso, mentre apro la porta e aspiro l’aroma che sa di legno e petali
profumati con un vago sentore di polvere, rivivo quella stessa sensazione di
benessere. Dall’armadio prendo la scatola con il kit dei trentotto Fiori di
Bach per preparare il mix destinato a Camille.
Per lei ho scelto quattro fiori: Agrimony, il fiore destinato agli allegri che
reprimono il dolore dietro un sorriso perenne. Impatiens, per chi affronta la
vita con il piede sull’acceleratore. Larch, per chi manca di fiducia in se
stesso e infine Star of Bethlem, il fiore che alleggerisce l’animo segnato da
un trauma antico. Sciolgo quattro gocce di ogni fiore assoluto in una
soluzione idroalcolica, un quarto di brandy e tre d’acqua, contenuta in una
fiala di vetro scuro per proteggerla dalla luce. Agito un po’ la boccetta e la
chiudo ermeticamente. Fra poche ore sarà pronta per essere utilizzata. Mi
appoggio con la schiena al bancone e abbraccio la stanza con uno sguardo.
A casa io e Michel avevamo creato nel ripostiglio uno spazio che serviva
da biblioteca e piccolo laboratorio per le preparazioni più semplici che non
necessitavano delle attrezzature più complete dello studio olistico. Per lo
più ero io che lo usavo, Michel si chiudeva in biblioteca per studiare e
scrivere, mentre io sono sempre stata affascinata dalle fitoterapie. Michel
aveva un modo tutto speciale di rivolgersi alle persone: le guardava dritte
negli occhi e rimaneva a fissarle con uno sguardo così penetrante, acuto e
insieme carezzevole, che l’interlocutore ne rimaneva soggiogato. E non lo
faceva soltanto per deformazione professionale. Era un iridologo, gli occhi
degli altri per lui erano dei veri e propri libri nei quali era scritta tutta la loro
storia personale, intima, una storia spesso sconosciuta perfino alla persona
stessa. Leggendo quella storia, lui riusciva a trovare la strada per arrivare al
cuore del problema, vincendo una dopo l’altra tutte le resistenze razionali
che un paziente, spesso, opponeva di fronte alla sua esplorazione così
profonda, svelando i segreti che avrebbero portato alla guarigione. Le
persone si affidavano a lui senza alcun timore, come avrebbero fatto con un
vecchio amico. Come avevo fatto anch’io. Almeno fino a un certo punto.
Lavorare con Michel è stata un’esperienza meravigliosa. Ricordo che, al
termine di ogni visita, per me non c’era maggior soddisfazione del suo
sorriso di approvazione, lo aspettavo sempre, come un regalo. Eppure a un
certo punto ho avuto la sensazione che le sue teorie fossero troppo audaci
per poter essere accettate come terapie di guarigione. C’è stato un momento
in cui avrei dovuto lasciarmi andare e aprirmi alle sue intuizioni, ma non ho
avuto fiducia. Né in me stessa, né in lui.
“Ti ostini a non voler capire che non ti sto dicendo di rinnegare il tuo
passato o quello in cui credi. Le terapie di guarigione possono convivere
l’una accanto all’altra se si possiede l’apertura mentale necessaria” mi
aveva detto una volta. “L’iridologia è una disciplina affascinante, ti mette a
disposizione gli strumenti per costruire un quadro generale del paziente, sia
dal punto di vista fisico che emozionale e mentale. Immagina soltanto
questo: in una cosa piccola come una pupilla è racchiuso un intero universo,
non solo la storia dell’individuo che hai davanti, ma quella della sua
famiglia, con tutti gli aspetti ereditari e le predisposizioni individuali. E non
ti sembra che sia un punto di partenza prezioso per poi poter decidere in
quale direzione andare?”
Probabilmente lo era, ma a me era parso un salto troppo grande. Era
come se le parole di mio padre avessero gettato un seme di sfiducia dentro
di me, il timore latente di commettere un errore imputabile soltanto alla mia
ostinazione, e ogni volta che ci ripensavo tornavo a sentirmi la bambina
insicura di un tempo. “Ti auguro soltanto che un giorno tu non te ne debba
pentire.” Sembravano un monito perenne a non sfidare le leggi della
chimica e della fisica, pena un errore imperdonabile. Per cui finché si
parlava di esame del fundus oculi, di anello corneale di Kayser-Fleischer, di
ingiallimento dell’occhio come sintomo di un disturbo epatico, camminavo
su un terreno certo. Ma spaziare fino a considerare l’iride come una
microscopica rappresentazione dello stato emotivo individuale e vedere
nella pigmentazione i sintomi di malesseri che potevano risalire a
generazioni precedenti non mi convinceva fino in fondo.
“Il problema non è l’iridologia, Viola. Potremmo parlare di cucina, o di
idraulica, non cambierebbe niente. Il problema sei tu, la tua paura di non
essere all’altezza di tuo padre e di non riuscire a dimostrargli che la tua
scelta di vita è stata un successo. Ma se non decidi di credere in te stessa tu
per prima, lui non lo farà mai.”
Quella era stata la peggiore lite che avevamo avuto in tanti anni. Le sue
parole mi avevano ferita e io avevo reagito con violenza, gridandogli di
piantarla, che non ero una bambina, che lui non sapeva niente di mio padre
né del nostro rapporto, ed era molto meglio così.
Da quel giorno non avevamo più affrontato l’argomento e lui aveva
smesso di insistere con i suoi insegnamenti.
Lì per lì era stato un sollievo, poi mi era parso strano, ma soltanto troppo
tardi avevo capito che la sua iniziale insistenza era stata dettata dalla
consapevolezza che non sarebbe vissuto abbastanza a lungo per portare a
termine il suo lavoro e lasciarmi qualcosa di se stesso a cui teneva più della
sua vita.
Accadde in un giorno come tanti, senza alcun preavviso. Dovevamo
andare a cena da una coppia di amici, io mi stavo truccando davanti allo
specchio del bagno. Lo vidi passare dietro di me, rivolgermi un sorriso nel
riflesso, e un attimo dopo era accasciato sul pavimento, un groviglio
contorto di dolore.
Dopo era stato un susseguirsi di frenesie. L’ambulanza, il pronto
soccorso, l’attesa snervante fuori dagli ambulatori in cui lo stavano
passando al setaccio. Ma sopra ogni cosa il mio totale sconcerto, lo
sbalordimento che mi aveva ghermita quasi paralizzandomi. Ero talmente
scossa che non riuscivo – non volevo – immaginare che cosa diavolo fosse
successo a mio marito. Sì, negli ultimi mesi lo avevo visto un po’ pallido,
con il viso tirato, ma l’avevo imputato al ritmo forsennato di lavoro che
stava tenendo. Con imperdonabile superficialità e una certa dose di
risentimento infantile avevo ripensato alle lunghe notti in cui se n’era
rimasto chiuso in biblioteca, incollato al computer, lasciandomi come unica
compagnia il ticchettio irregolare delle sue dita sulla tastiera e all’oscuro dei
suoi progetti. Mi ero sentita trascurata e invece di chiedere spiegazioni
avevo messo il broncio.
Poi era bastato un nome, e il mio mondo era andato in pezzi. Un’asettica
sequenza di sillabe, quella più orribile, quella che uccide la speranza senza
possibilità di appello.
Poco tempo, due settimane al massimo, così mi avevano detto. Morfina
per i dolori, ci dispiace, non possiamo fare di più.
Ma mio marito era un anarchico, non aveva alcuna intenzione di
agonizzare per rispettare i pronostici altrui. Alla fine era riuscito a fregarci
tutti quanti, me per prima. Nella stanza della terapia intensiva mentre gli
tenevo la mano, mentre ascoltavo il suo respiro a cui intonavo il mio. Non
c’era stato il tempo per le parole, né per quelle inutili di speranza, né per le
spiegazioni o le recriminazioni. Se avessi saputo, se tu mi avessi detto, se io
ti avessi dato ascolto. Se, se, se... Erano stati soltanto sguardi, immensi,
infiniti, colmi d’amore. E poi quegli occhi dolcissimi, quegli occhi che
erano stati una finestra sul mondo attraverso la quale avevo guardato
anch’io, quegli occhi che mai, nemmeno nell’ultimo istante avevo visto
tremare di paura, si erano spenti.
Quindi la morte di un amore era questo. Uno spostamento lieve dell’aria.
Uno scolorare. Essere seduti e non sentire il corpo. Il pensiero ancorato a un
istante irrevocabile. È la consapevolezza che d’ora in poi non esisteranno
più domani o ieri, ma soltanto un prima e un dopo. È rimanere svegli perché
il sonno si dimentica di te. È tollerare gli automatismi di un corpo che vive
con lo sguardo indifferente di un estraneo. La sofferenza non era come
l’avevo immaginata o letta nei romanzi. Era una cosa fredda e bianca, senza
sapore.
Io ero tornata a casa da sola, meccanicamente, e la prima cosa che avevo
fatto era stata telefonare allo studio per informare i colleghi di quello che
era successo. Non ero nemmeno rimasta ad ascoltare le risposte, le lacrime,
i no increduli gridati nella cornetta. Avevo tagliato corto con la disperazione
spingendo semplicemente un tasto sul telefono. Poi mi ero guardata intorno,
nella casa che fino a pochi giorni prima era stata “nostra” e che adesso era
soltanto un guscio vuoto, alieno. Con gli occhi ancora asciutti avevo
cominciato a mettere in ordine un caos frutto di un uragano, iniziando dalle
parti nascoste. Avevo svuotato le credenze della cucina, quella delle pentole
per prima, impilando i recipienti uno nell’altro in ordine di grandezza.
Meticolosa. Maniacale. Poi ero passata ai bicchieri, quelli di vetro separati
da quelli di cristallo, calici da vino, flûtes, coppe da champagne, tumbler da
cocktail, cicchetti per i distillati. I piatti avevano richiesto più tempo, diversi
servizi, porcellana, vetro, ceramica, diversi colori. Avevo tirato fuori tutto e
rimesso le stoviglie a posto, ordinate, una sull’altra. Ma mentre stavo per
appoggiarlo, l’ultimo piattino da dolce mi era scivolato dalle mani ed era
caduto per terra fracassandosi istantaneamente in mille pezzi. In quel
momento, al centro della cucina, con i piedi coperti dalle schegge di
porcellana verde acqua, mi era parso di avere davanti agli occhi una
derisoria, banale metafora della mia vita. E sono stata travolta da una furia
cieca, una collera violenta nei confronti del destino che si era accanito
contro di me, contro Michel, mandando in frantumi il nostro mondo
costruito con tanto amore. E al piattino da dolce in pezzi sul pavimento se
n’era aggiunto un altro, poi un altro, e un altro ancora. Con rabbia, con
violenza, ho scagliato per terra un pezzo dopo l’altro, e a ogni schianto
sentivo crescere il dolore per una perdita ingiusta, crudele, irrevocabile.
Finché non mi ero ritrovata esausta e ansimante in mezzo alla cucina
disseminata di schegge aguzze e, girando lo sguardo su quell’assurdo
campo di battaglia teatro di una disfatta, finalmente avevo pianto.
Il giorno del funerale era arrivato in un batter di ciglia. Non ero stata io a
occuparmene, Yvette si era incaricata di tutto, persino di avvertire le
persone a cui io non ero in grado di pensare. E aveva fatto un buon lavoro.
Quella mattina la basilica di Sant’Agnese era gremita. Una processione di
volti tristi era venuta a salutarmi e baciarmi e a stringermi le mani. Io
volevo soltanto andare a casa e dormire.
Poi, d’un tratto li avevo visti.
Un’apparizione sul sagrato della chiesa. Uno accanto all’altra, lei con il
viso contratto in un dolore trattenuto, lui che si aggiustava inutilmente il
nodo alla cravatta. Non li vedevo da tanto, tanto tempo. E anche negli anni
precedenti, i nostri incontri erano stati radi, irrimediabilmente viziati da una
tensione mai sopita e mai risolta dal giorno del mio abbandono. Non sapevo
nemmeno come fossero arrivati fin lì, si era consumato tutto talmente in
fretta che non avevo avuto il tempo di pensare a loro. Probabilmente
dovevo ringraziare Yvette anche di questo.
Lei era venuta ad abbracciarmi, in silenzio. Mi aveva stretta a lungo in un
modo che quasi avevo dimenticato. Il modo che soltanto una madre
conosce, quello giusto. Mio padre si era avvicinato e mi aveva stretto il
braccio in quella che voleva essere una carezza.
In quel momento la bara ci era passata accanto, io avevo già deciso che
non avrei accompagnato Michel fino alla tomba. Gli avevo detto addio
nell’istante in cui aveva chiuso gli occhi e non avevo le forze per
procrastinare il distacco. Ci eravamo girati a guardarlo
contemporaneamente, tre marionette dolenti.
«Se solo lo avessimo saputo prima...»
La voce bassa di mio padre mi era arrivata di sbieco, e avevo sentito un
brivido. Mi ero voltata verso di lui e lo avevo guardato con ferocia.
«Che cosa avresti fatto, eh papà?» avevo sibilato a denti stretti, tesa, una
molla pronta a scattare. «Avresti portato Michel da uno dei tuoi dottori e
così, magari, lo avrebbero imbottito di medicine e sarebbe rimasto lì a
vegetare finché qualcuno non avrebbe deciso che era durato abbastanza?
No, grazie! Non è questa la morte che merita un essere umano.»
Lui si era ritratto, come se le mie parole lo avessero schiaffeggiato.
«Be’, consolati, comunque» avevo insistito imperterrita, «Michel era
condannato dall’inizio, e lo sapeva. Non avresti potuto fare niente per lui,
nessuno avrebbe potuto fare niente. Ecco perché non ha parlato. Neanche
con me.»
«Non volevo dire questo, Viola, ma forse con quelle medicine avremmo
potuto trovare il modo di tenerlo con noi ancora per un po’...»
«Tenerlo con noi? Chi è noi, papà? Non ti sei mai interessato a lui o a me,
in questi anni. Non lo hai mai stimato, per te era soltanto l’ennesimo
ciarlatano che mi ero portata dietro e che avevo avuto la sfrontatezza di
preferire a te e al tuo mondo perfetto di cause e conseguenze.»
Mio padre mi aveva stretto più forte il braccio. «Viola, tesoro, ora sei
sconvolta, ma...»
Mi ero svincolata con uno strattone che lo aveva fatto vacillare. Yvette si
era avvicinata temendo il peggio. L’aria fra di noi era densa del mio rancore
quasi tangibile.
«Non chiamarmi tesoro» gli avevo detto sputando le parole come veleno.
«Hai avuto trent’anni a disposizione per occuparti di me, e non hai mai
mosso un dito. Mai una volta sei venuto a chiedermi come stavo, cosa
pensavo, cosa provavo. Sempre dietro a quella scrivania, sempre pronto a
darmi lezioni. E adesso che sono a pezzi vieni qui e mi chiami tesoro e mi
accarezzi e magari vorresti anche un abbraccio.» Avevo riso, un suono arido
e sgradevole. «Ma lascia che ti dica una cosa papà» quella parola calcata
come un insulto. «Non osare metterti a fare il padre adesso. Non lo sei mai
stato. Non ne sei capace!»
A quel punto mia madre mi aveva scossa prendendomi per le braccia.
«Ora basta, Viola. Basta così.» Piangeva, per la collera, forse, o forse per la
sofferenza.
«Tu non sai quello che dici» aveva mormorato, allontanandosi da me.
Si era schierata con lui per l’ennesima volta. Lo stesso copione andato in
scena per anni: loro da una parte e io dall’altra, la cattiva, quella che
deludeva i genitori e rifiutava il loro affetto.
Mio padre non aveva più parlato, il suo viso era una maschera di cera
irrigidita nell’incredulità e in qualcosa che soltanto con il tempo ero riuscita
a riconoscere come profonda amarezza. Lo avevo ferito di proposito e con
cattiveria e malgrado lo strazio avevo provato una bieca soddisfazione nel
capire che, almeno per una volta, lo avevo colpito al cuore. Solo che glielo
avevo anche spezzato.
«Andate via» avevo detto infine voltando le spalle a entrambi e
raggiungendo Yvette in pochi passi. «Andate via.»
Quando mi ero girata, il sagrato era vuoto.
La fialetta trema fra le mie dita e per un attimo mi sento mancare.
Frammenti di ricordi che la mia mente cerca di respingere. La sofferenza mi
colpisce acuta come una lama affilata. Il rumore della fiala che rotola sul
tavolo mi fa riemergere dall’oblio della memoria, afferro il bordo del
mobile per rimanere salda. Chiudo gli occhi, respiro.
«Viola?» La voce di Gisèle mi chiama dal negozio. «Tutto bene, tesoro?»
Non le rispondo, se apro bocca vomito o scoppio a piangere.
Dio, fa’ che non venga qui.
Dio mi ascolta, lei resta dov’è e continua a parlare.
«Mi ha fatto molto piacere vederti così allegra oggi, a pranzo» cinguetta
tutta contenta. «E poi, anche tutto quel flirtare con Romain... finalmente stai
uscendo dal guscio.»
Per un attimo il paradosso della situazione mi paralizza. Il contrasto
violento fra le sue parole e il mio stato d’animo è talmente grottesco da
sconfinare nel ridicolo. Mi osservo dal di fuori e sento un moto d’ilarità
isterica che mi sale dalle viscere fino a prorompere in una risata stridula e
irrefrenabile. Rido come una pazza fino a farmi uscire le lacrime, scivolo
sul pavimento e resto lì seduta appoggiata al muro. Gisèle arriva di corsa e
quando mi vede in quelle condizioni si ferma di colpo e la sua faccia
esterrefatta mi fa ridere ancora di più.
«Che diavolo è successo?» mi chiede fra il perplesso e il preoccupato.
Io cerco di riprendere fiato, di darmi un contegno mentre mi asciugo naso
e occhi grondanti.
«Oh, Gisèle» dico ansimando fra un singhiozzo e l’altro, «Se non ci fossi
dovrebbero inventarti, davvero!» e continuo a ridacchiare finché l’ilarità
non si esaurisce in un piccolo sospiro.
Mi rimetto in piedi mentre lei continua a guardarmi.
«Sei sicura di stare bene?»
«Oh, sì» la rassicuro. «Adesso sì». E vado a stamparle un bacio sulla
fronte senza dare ulteriori spiegazioni. Non servono e lei non capirebbe, in
fondo non mi capisco nemmeno io. Da quando sono arrivata a Parigi sento
che il mio umore è mutevole come un cielo di marzo. Sono passati pochi
giorni eppure, in confronto all’immobilità pietrificata dell’ultimo anno, mi
sembra che una vita intera sia trascorsa, con alti e bassi, con l’animo in
parte spaventato e in parte pronto ad assorbire qualsiasi stimolo come una
spugna secca.
«E comunque ti pregherei di smettere di parlare di “serate” e di “flirtare”
ogni volta che Romain entra nella conversazione» la redarguisco. «Non c’è
niente di romantico fra me e lui, sia chiaro. Non ho intenzione di
complicarmi la vita.»
Lei mi ignora e intanto prende la borsa e si prepara per uscire.
«Oh cara, su questo puoi stare tranquilla» mi risponde in tono leggero.
«Sarà la vita a complicarsi per te, devi solo darle tempo. Ci vediamo a casa
più tardi, tesoro.» E se ne va senza darmi la possibilità di replicare. Non c’è
che dire, nelle uscite teatrali non la batte nessuno.
Io ripenso agli occhi di Camille e ai messaggi profondi che potrebbero
nascondersi dietro la loro bellezza. Lentamente, la loro immagine sbiadisce
lasciando il posto a quella di Michel, alle parole mai dette ancora in sospeso
fra di noi.
Lui mi ha lasciata indicandomi una strada, tocca soltanto a me decidere di
percorrerla.
18
Arriva alle sette, puntuale come un orologio. Al posto delle treccine
bionde c’è ora una massa vaporosa di riccioli trattenuti sulla fronte da una
fascia colorata che li lascia ricadere liberi sulle spalle. Indossa una tunica
leggera, color argento, lunga fino alle caviglie, stretta in vita da una cintura
morbida di perline di legno. Sul viso poco trucco, soltanto mascara e matita
neri che esaltano quei suoi incredibili occhi dorati. Nella sua essenzialità è
semplicemente perfetta.
Mi chiedo come facciano le francesi a conservare un fisico così snello
date le quantità enormi di burro che ingurgitano ogni giorno. Intanto mi
vedo riflessa nello specchio della mente: immancabili pantaloni neri, top e
sandali senza tacco.
Maledico il fatto di non essere passata a casa per cambiarmi. È davvero
arrivato il momento di pensare al mio guardaroba.
«Eccomi qua, spero di non essere troppo in anticipo» mi dice entrando.
«Hai spaccato il secondo, finisco di sistemare un paio di cose e possiamo
andare. Mentre camminiamo ti spiego che cosa ti ho preparato e come lo
dovrai assumere.»
Usciamo, e la sera tiepida di Parigi ci prende fra le braccia. Camminare
fianco a fianco, le chiacchiere fitte quasi da vecchie amiche, sbirciare la
gente che passa e le vetrine dei negozi ancora aperti. La luce rosata del sole
basso all’orizzonte, uno scoppio di risate da un gruppetto di felpe e occhiali
scuri, cani, bambini scorrazzanti, clacson improvvisi nel traffico pigro del
sabato stanco. E poi i colori, il suono ritmico dei passi sulla strada, facce,
voci, un pulsare di vita tutto intorno e io che mi lascio condurre docile da
questa ragazza sconosciuta che mi guida sicura verso una meta ancora
ignota. Prendiamo una metro alla fermata Pigalle e andiamo dritte fino a
Ménilmontant.
«Ho pensato di portarti in un locale che mi piace moltissimo, è stato
riaperto alcuni anni fa e da quando ci sono andata è stato amore a prima
vista» mi spiega Camille mentre usciamo dalla metro. «È poco distante da
qui.»
Arriviamo davanti a un grande portone di metallo marrone sormontato da
un paio di lumini. Dentro, dopo un breve vialetto, lo spazio è occupato da
un capannone tutto vetrate e acciaio diviso in più piani e in cui le insegne
indicano i diversi spazi d’uso. Le luci, il vociare e il suono ovattato di un
sottofondo jazz mi fanno ben sperare. Camille mi guida verso il pianterreno
dove c’è un cartello che dice SALA DEGLI ULIVI.
«Possiamo cenare qui, è tranquillo fino alle dieci, poi comincia il casino»
mi dice con una strizzata d’occhio. «Che ne dici?»
Mi guardo intorno e il posto è talmente attraente che non vedo l’ora di
sedermi. Davanti a me, quasi un giardino d’inverno. La sala è disseminata
di tavoli rotondi di legno grezzo costruiti intorno a enormi vasi scuri da cui
spuntano bellissimi alberi d’ulivo. Lungo il soffitto alto di lamiera ondulata
corrono grossi tubi d’acciaio e tralicci, in perfetto stile urban
contemporaneo. Sulle pareti verniciate a calce, lunghe tende rosse, poster,
scaffali pieni di libri e oggetti d’arte. Intorno, palme, divani chesterfield,
consolle, comodini da mercato delle pulci, un pianoforte verticale. Un
piccolo bancone a semicerchio contornato da sgabelli alti con i sedili in
pelle colorata delimita lo spazio del bar dietro al quale si mettono in mostra
centinaia di bottiglie di birra, vino, champagne una accanto all’altra, senza
pregiudizi.
«Dico che è perfetto» rispondo.
Ci sediamo e studiamo il menu, ma dopo pochi istanti Camille solleva lo
sguardo dal foglio e lo posa su di me. «Mi piacerebbe che mi spiegassi che
cosa c’è dentro la fiala che mi hai dato» mi chiede con gentilezza.
Metto giù il menu e rifletto, cercando le parole migliori.
«Be’, nella fiala ci sono quattro fiori, ma invece di spiegarteli tutti vorrei
parlarti del più importante, Agrimony. Agrimony è il tuo fiore, quello che io
chiamo “fiore della personalità”. È uno dei Dodici Guaritori, i fiori che
possono modificare il difetto congenito della personalità, non so se ricordi
quello che ti dissi la prima volta...»
«Sì, sì, lo ricordo. E il mio... “difetto” quale sarebbe?» mi chiede,
incuriosita.
«Be’, da quello che ho potuto capire di te sono abbastanza sicura che sia
la negazione dell’ansia, la sofferenza mascherata da falsa allegria. Tu sei
una persona allegra, spiritosa e di compagnia, ma da quello che mi hai
raccontato è evidente un tormento di fondo in te, che ti corrode anche se tu
fai di tutto per soffocarlo.»
Lei rimane in silenzio per un istante, poi risponde quasi delusa:
«Veramente questo è sempre stato il mio punto di forza. Far finta di niente.
Andare avanti comunque».
«Oh, certo» mi affretto ad aggiungere per timore di farla sentire
giudicata, «per la vita sociale e lavorativa è un punto di forza. Ma non fa
certo bene a te. Voglio dire, la negazione a oltranza alla fine provoca un
corto circuito fra le emozioni che provi e il comportamento che ti sforzi di
assumere ed è proprio questa disarmonia che porta a uno stato di malessere.
E questo fiore può aiutarti.»
Mi lancia un’occhiata divertita. «Sentiamo dottoressa, quali sono le
magiche virtù di questo fiore?»
«Diciamo che Agrimony è il rimedio che apre il cuore e la mente alla
nostra interiorità, è quello che spalanca le porte che noi cerchiamo di tenere
sigillate, fa uscire allo scoperto le emozioni represse e le ripulisce. E il
risultato è uno stato di pace e benessere.»
«Uhm, praticamente lo stesso effetto di una canna...» mormora lei e io
scoppio a ridere.
«Ah, sì, ma l’effetto della canna poi passa, l’effetto Agrimony perdura.
Allora, sono stata esauriente?»
«Direi di sì. Ora che so che non mi avvelenerai, posso anche decidere
cosa mangiare. Pronta per ordinare? Ho una fame nera...»
Camille parla, racconta quasi senza prendere fiato. È una miniera di
aneddoti, situazioni, episodi singolari. Io la ascolto fra un sorso di vino
bianco e una forchettata di ratatouille calda e speziata. Le briciole sul tavolo
segnano il trascorrere di un tempo che pare sospeso, uno squarcio nella mia
quotidianità ovattata e grigia. Osservo le sue mani magre e nervose con le
unghie laccate di nero che si muovono come una poesia. Dalla sua bocca
escono immagini che prendono corpo in quadri di una vita passata fra gli
agi. Una villa in Provenza d’estate, un attico cittadino, inverni di sci e alberi
di Natale smisurati. A poco a poco, fra i piatti e i tovaglioli si distende tutta
un’esistenza che, seppure tacitamente, in mezzo a colori e volti mi parla di
una solitudine profonda, di una madre sfuggente e irraggiungibile modello
di perfezione e di un padre affettuoso ma sordo suo malgrado alle richieste
emotive della figlia.
Io annuisco, sorrido, di tanto in tanto punteggio la conversazione con un
commento appropriato, ma non mi espongo. Voglio che parli, voglio capire
se le mie intuizioni su di lei sono corrette. Trattengo ostinatamente
l’attenzione sul suo viso, sulla bocca mobile, sugli occhi d’oro antico.
Assorbo ogni sua parola e dentro di me si fa strada un pensiero.
Quegli occhi sono una mappa.
I pigmenti sono indicativi di sofferenze passate e memoria degli eventi.
Da loro acquisiamo conoscenza dell’intensa attività mentale del soggetto...
Ancora una volta le parole di Michel tornano prepotenti nella mia mente.
Ma questa volta senza dolore. Quella che provo è rabbia. Rabbia contro me
stessa per aver chiuso tutte le porte, rabbia perché non ho seguito una strada
solo per puntiglio, rabbia perché ormai è troppo tardi per tornare indietro. O
forse no.
Ripenso alla biblioteca, ai libri e ai quaderni che ho messo sotto chiave
per non doverli più avere davanti in ogni momento.
Le note sincopate di un pianoforte interrompono le mie riflessioni.
Batteria, chitarra e la melodia trascinante del rock.
«Te l’avevo detto che alle dieci sarebbe cominciato il casino» mi dice
Camille alzandosi in piedi. «Dai, andiamo a ballare!» Mi tende la mano.
In un attimo la sala si è riempita di corpi che ondeggiano, volti sorridenti
abbandonati alla musica.
Non ballo da una vita intera e sento un’energia repressa che vuole
scatenarsi. Afferro la mano di Camille e insieme ci tuffiamo nella baraonda
sulla pista.
Non è soltanto la musica a elettrizzarmi.
A volte gli incontri inaspettati sono quelli che riaprono una porta.
«Io dico che la tua amica Camille ti ha portato fortuna» bisbiglia Gisèle
mentre mi passa accanto. «Oppure ha pagato tutti i suoi amici perché
vengano a farsi visitare da te.»
Finisco di scrivere nella scheda anamnestica il nome della signora che è
davanti al bancone. Gisèle non ha tutti i torti: nelle ultime settimane non è
passato un giorno senza che qualcuno venisse a chiedere informazioni sulle
visite. Il mio piccolo cartoncino giallo, da che sembrava invisibile, ora è
diventato la prima attrazione del negozio. Floriterapia, alimentazione
disintossicante, aromaterapia, tecniche di rilassamento. Come se tutto a un
tratto mezza Parigi si fosse svegliata con il preciso intento di dichiarare
guerra ai malesseri figli della modernità – ansia, stress, emicranie, allergie –
a colpi di terapie naturopatiche, rinunciando ad aspirine e antibiotici. Ma
quando i potenziali pazienti capiscono che le mie cure richiedono tempo,
che prevedono un percorso lento teso a ricomporre il perduto equilibrio fra
corpo, mente e spirito, pochi alla fine decidono di affidarsi a me. È un’era di
mordi e fuggi la nostra, di istantanee sovrapposte l’una sull’altra, una corsa
continua su una ruota per criceti. Chi mai sarebbe disposto a fermarsi per
imparare a respirare, o per scegliere con attenzione ciò che mangia, o anche
solo per riposare un po’ di più? No, al massimo due minuti per buttare giù
un analgesico o un antiacido e via, si riprende la corsa.
Non a caso la persona che ho davanti è una signora anziana, lenta nel
parlare come nello scrivere. La paziente ideale. Almeno non mi chiederà se
i Fiori di Bach la trasformeranno entro dieci minuti (sennò come fa a
concentrarsi prima della riunione aziendale?).
«Allora ci vediamo fra una settimana?» Ecco la domanda giusta.
«Certamente. Lei cominci ad assumere la terapia e a provare la dieta, così
fra una settimana valuteremo i primi effetti» le rispondo.
«La ringrazio tanto, arrivederci.» E si avvia lentamente verso l’uscita.
Il trillo del cellulare annuncia l’arrivo di un messaggio.
Pronta per le otto con trucco e tacchi. Megafesta da Daniel. Passo io. C.
Un mezzo sorriso accompagna la lettura. Da quando l’ho conosciuta,
Camille mi ha invitato più volte a uscire con lei. Per la mole di amicizie che
ha, la settimana dovrebbe contare almeno quindici giorni. Non c’è un
momento della sua giornata che non sia scandito da qualcosa da fare o da
vedere. Quando la guardo mi sembra quasi di vedere un’energia inesauribile
che si irradia dal suo centro e si riflette anche nei gesti. Le mani
mobilissime, sempre impegnate da una sigaretta, il cellulare o un bicchiere,
spesso contemporaneamente. I movimenti scattanti e controllati del corpo
snello e sodo che mi ricorda l’agilità nervosa di un levriero. Dalla nostra
prima cena insieme si è rivelata una persona avvolgente e desiderosa di
farmi entrare nella sua enorme cerchia di amicizie, tanto spontanea e
amichevole quanto però sfuggente come un’ombra non appena si cerca di
sondarla un po’ più in profondità. La floriterapia che le avevo consigliato ha
dato i suoi frutti, ora dorme e anche l’ansia sembra essere svanita. Ma c’è
spesso un cipiglio nei suoi occhi, quando pensa che nessuno la guardi, e
qualche volta ho visto la sua fronte appesantirsi sotto il fardello di un
pensiero. E c’è una barriera che le parole non riescono a penetrare.
Forse, basterebbero gli occhi.
Con un sospiro mi rimetto al lavoro. Gisèle è uscita e non me ne sono
nemmeno accorta. Ultimamente la sua presenza al negozio è sempre più
rara, spesso sta fuori fino al pomeriggio inoltrato, a volte la rivedo
direttamente a casa, ma se le chiedo dov’è stata le sue risposte sono sempre
vaghe. Se non la conoscessi penserei che sta frequentando qualcuno di
nascosto.
A questo pensiero mi sfugge una risatina solitaria e il cliente che è entrato
nel negozio, un bell’uomo biondo sulla trentina, mi sorride a sua volta.
Osservo la sua impeccabile camicia di lino grezzo e gli occhiali rettangolari
dalla montatura nera. In una mano regge una cartella di cuoio e con l’altra
trattiene a stento un bambinetto di forse tre anni che, in silenzio ma con
ferrea determinazione, fa di tutto per divincolarsi dalla morsa che lo
imprigiona. Insieme formano uno strano contrasto. Alto e basso, quiete e
tempesta.
«Buongiorno, vorrei dell’olio essenziale di camomilla e delle compresse
di valeriana» mi dice.
Ammiro la calma stoica che esibisce mentre la piccola piovra lì in basso
non smette neanche per un istante di agitarsi tirando, manovrando,
strattonando con la massima concentrazione, senza mai emettere un suono.
Poi, guardando meglio, mi accorgo delle occhiaie gonfie e delle rughe sottili
che solcano il viso dell’uomo creando un reticolo che si infittisce intorno
agli occhi e alla bocca.
«Chi dei due non riesce a dormire?» gli chiedo.
Lui accenna una smorfia di rassegnazione. «Entrambi, purtroppo. Martin
non si addormenta fino a notte fonda e poi si sveglia all’alba. Io cerco di
mettere a frutto le poche ore che mi concede dormendo come un sasso. È
che vorrei evitare i sonniferi, con quella roba è meglio andarci piano, poi
con un bambino piccolo in giro, sa com’è...»
Lo so, certo che lo so.
«Mia moglie vorrebbe portarlo da uno psicologo perché dice che il suo
non è un comportamento normale» continua lui, «ma io penso che si tratti
semplicemente di una fase, magari ha solo bisogno di attenzioni. In fondo
una separazione non è mai facile per un bambino.»
Padre separato, quindi, con figlio problematico a carico. A questo punto
mi stupisce persino che sia riuscito ad abbinare così bene camicia e
pantaloni.
«Ha mai provato a dare qualcosa di rilassante a Martin, invece di
imbottirsi di valeriana e basta?»
Mi guarda perplesso. «Signorina, mio figlio ha tre anni e mezzo. Uso al
massimo l’olio essenziale di camomilla per fargli un massaggio quando ha
un po’ di mal di pancia.»
«Ma sì, quello va benissimo, però per esempio potrebbe provare a fare un
infuso di passiflora e aggiungerlo all’acqua del bagnetto serale insieme a
qualche goccia di olio essenziale di lavanda» gli suggerisco. «E magari
preparargli la cena con alimenti che favoriscono il sonno. Zucchine, per
esempio, con il riso. O anche le mele.»
Lui ci pensa un po’ su.
«È lei la naturopata dell’annuncio?»
«In persona, mi chiamo Viola Consalvi» rispondo.
«Ah, un’italiana. Complimenti per il suo francese, non avrei immaginato
che fosse straniera.»
Mi scocca un sorriso da far tremare le ginocchia per quanto è abbagliante.
«Grazie, ho studiato a Parigi per diversi anni prima di tornare in Italia.»
«E poi ha avuto nostalgia della ville lumière, immagino... Sì, Martin,
adesso torniamo subito a casa...» si interrompe per rivolgersi al bimbo che
ha cominciato a mugugnare per ottenere la sua attenzione. «Bene,
dottoressa Consalvi, mi chiamo Jacques Lacroix, piacere di conoscerla.
Penso che proverò il suo infuso, se riesce a prepararmelo prima che mio
figlio le butti giù il negozio.»
Mi strizza l’occhio con aria confidenziale, il sorriso indecente è ancora lì.
Con orrore sento il sangue affluirmi alle guance e mi affretto a nascondermi
girando il viso verso gli scaffali delle erbe. In pochi minuti preparo tutto il
necessario.
«Ecco qua. Un cucchiaio di erbe lasciate in infusione per venti minuti in
una tazza d’acqua bollente da aggiungere a quella del bagno.» Spiego
meccanicamente come se leggessi un manuale, evitando i suoi occhi. Gli
porgo il sacchetto, ma mi rendo conto che non lo prende.
«Deve perdonarmi» mi dice con una buffa espressione contrita, «ma se
mollo la presa Martin si trasforma in un Diavolo di Tasmania e ancora non
mi hanno impiantato la terza mano...»
Scoppio a ridere e infilo il sacchetto nella sua borsa di pelle. «Non si
preoccupi, vedrà che dopo qualche bagnetto potrà tranquillamente disdire
l’intervento.»
«Oh, lo spero. Tornerò per farglielo sapere» mi dice ridendo. «Alla
prossima, allora.»
«Arrivederci» rispondo mentre gli apro la porta.
Lo guardo allontanarsi con il bambino che gli saltella accanto. Deve
abitare nei dintorni, o non sarebbe uscito senza passeggino. Chissà se Gisèle
lo conosce, sarei curiosa di saperlo.
Il mio sorriso non si è ancora spento quando, pochi minuti dopo, la porta
del negozio si riapre per far entrare Mister Hairy Biker in persona.
BAGNO RILASSANTE PROFUMATO AL MIELE E LIMONE
Puoi preparare un bagno profumato e rilassante anche usando degli
ingredienti che sicuramente hai nella dispensa di casa. Ti bastano:
2 cucchiai di miele, preferibilmente d’acacia o di fiori d’arancio
2 cucchiai di succo di limone appena spremuto
2 cucchiai di un bagnoschiuma a tua scelta, possibilmente con
profumazione neutra.
Mescola il miele e il succo di limone in una ciotolina, poi aggiungi il
bagnoschiuma e versa tutto nell’acqua calda della vasca. Il bagno farà bene
alla pelle e allo spirito, regalandoti un’esperienza profumata e una pelle
fresca e vellutata.
19
«Ehi, che ti è successo? Come mai quel sorriso? Dov’è finito il solito
muso?» mi chiede la voce fintamente allarmata di Romain.
«Non ti preoccupare, mi è bastato vederti per farmelo tornare» rispondo
per le rime.
«Ah, ecco, ora ti riconosco. Per un attimo ho temuto che ti avessero
rapita gli alieni.»
Romain entra e si ferma al centro del negozio. Si guarda intorno, come se
ne scoprisse il contenuto per la prima volta. È strano vederlo qui in un
orario tanto insolito.
«Come mai qui? Hai chiuso il bar?»
«No, adesso è abbastanza tranquillo, c’è Raja che fa la guardia al
fortino.»
L’accenno alla giovane e bellissima Principessa mi infastidisce un po’.
Non aggiungo altro, lascio che sia lui a spiegarmi la sua presenza. Si
avvicina con fare casuale alle ceste con i prodotti di bellezza in offerta, un
dito distratto va a sfiorare i flaconi di bagnoschiuma biologici.
«Gisèle mi ha detto che stai andando a gonfie vele» mi dice.
Poi finalmente si ferma e mi guarda in faccia. «Senti, devo dirtelo, il tuo
è un lavoro che proprio non capisco.»
Ora sì che il mio sorriso è svanito sul serio.
«Andiamo, adesso non metterti subito sulla difensiva. Intendo dire che
finché si tratta di farsi una tisana per il mal di stomaco, o di spalmarsi una
pomata per le scottature, bene, il risultato è oggettivo e tangibile. Ma
quando cominciamo a parlare di terapie di guarigione alternative, di guerra
ai farmaci e cose del genere... dài, mi sembrano discorsi oscurantisti.»
«A me sembra che di oscurantista qui ci siano soltanto i tuoi pregiudizi e
le tue idee errate» ribatto agguerrita, mentre prendo alcune scatole di sapone
nero di Aleppo appena arrivate e vado nel retro per sistemarle e, forse,
anche per dare un taglio al discorso, ma con mia grande sorpresa Romain
mi segue e sembra deciso ad approfondire la questione.
«Okay, okay, non era mia intenzione offenderti, credimi. Ma voglio
raccontarti una cosa. Parecchi anni fa mio padre si ammalò di cancro al
colon. Come puoi immaginare, per tutti noi fu uno choc, ma per fortuna
trovammo posto in un ottimo ospedale. Mio padre divideva la stanza con un
altro paziente, più giovane, un tipo sui quarant’anni di nome Fabien, stesso
cancro. Fabien era molto simpatico, aveva moglie e due bambini ed era un
sostenitore convinto della medicina naturale. Così, quando si trattò di
iniziare la cura post-operatoria, mio padre fece i suoi cicli di chemioterapia
e Fabien si affidò a una cura alternativa. Vuoi che ti dica com’è andata a
finire questa storia?» mi chiede.
Faccio finta di continuare a mettere i pezzi di sapone sugli scaffali per
mascherare il tremito che mi scuote le mani. «No» mormoro. «Credo di
intuirlo.»
«Appunto. Ti basti sapere che mio padre adesso si sta godendo la
pensione nella sua villetta in Normandia.»
«E cosa vorresti dimostrare con questa storia? Che il mio lavoro è una
buffonata e che metto in pericolo le persone che si fidano di me?» gli
chiedo cercando di controllare la rabbia e il dolore che inconsapevolmente
mi provoca con le sue parole. Con un sospiro lascio perdere i saponi e mi
giro verso di lui. Apro la bocca per parlare, ma soltanto adesso mi rendo
conto che io e Romain siamo insieme qui dentro, nel mio posto. E la sua
presenza, così vicina, mi fa sentire confusa. È talmente alto che sembra
occupare tutto lo spazio e poi si è messo fra me e la porta, intrappolandomi
davanti all’armadio. Ma forse anche lui si è accorto che per la prima volta
siamo soli, senza la difesa degli spazi aperti di un parco o del chiasso di un
bar.
Si guarda intorno, fa un passo indietro. «Okay, forse sono stato un po’
irruento, non ce l’ho con te, è ovvio. Ma quando un’esperienza la provi
sulla tua pelle, be’, è come se ogni minimo collegamento con quello che hai
vissuto ti riguardasse personalmente.»
Mi appoggio con la schiena all’armadio. Credo di sapere come si sente.
«Romain, quello che mi hai raccontato è un caso limite. Nessun naturopata
sano di mente curerebbe il cancro con la medicina naturale. Né alcuna
malattia grave. Ci sono dei limiti a quello che possiamo fare e io li conosco
molto bene.» Mi trema la voce sull’ultima parola, ma lui sembra non
accorgersene. «La medicina olistica può coadiuvare la medicina
tradizionale, non sostituirsi a essa» aggiungo a bassa voce.
Cosa diresti adesso, papà?
«Va bene, va bene, ho capito. Non era mia intenzione offenderti... È solo
che queste teorie mi sembrano un po’ campate in aria, insomma, dove sono
i risultati dimostrati?»
«I risultati dimostrati sono le persone che intraprendono un percorso di
cura e ne traggono benefici!» La sua insistenza comincia a irritarmi. Così
come l’espressione scettica con cui mi sta guardando. Poi mi viene un’idea.
«Perché invece non mi dai la possibilità di dimostrarti a che cosa serve la
naturopatia? Mi bastano pochi minuti» gli dico.
«Per fare cosa, tirare fuori un coniglio da un cilindro?»
Ignoro il suo sarcasmo e gli indico la sedia. «Sono sicura che dato il
lavoro che svolgi, la tua schiena non sia proprio in ottime condizioni,
sbaglio?»
«Non sbagli. Ho un dolore perenne al collo, ma nessuna massaggiatrice è
mai riuscita a eliminarlo, ti avverto. E poi» guarda la sedia, poi me. «Di
solito mi fanno sdraiare, è solo per quello che continuo a dire che i
massaggi mi fanno bene» aggiunge con un sorriso ambiguo che rischia di
farmi arrossire.
«Be’, io non ti farò alcun massaggio, non devi sdraiarti e l’intero
procedimento non richiederà più di cinque minuti. Che ne dici?»
Inclina la testa di lato e poi si siede incrociando le braccia sul petto.
«Ecco qua. E adesso potrei sapere a quale meraviglioso trattamento sto per
essere sottoposto?»
«Reiki» rispondo mentre da una scatola di cartone lilla su uno scaffale
prendo un incenso dolcemente profumato alla vaniglia e lo accendo nel
bruciatore di legno di sandalo. «Sai cos’è?»
Romain resta in silenzio, ma sento i suoi occhi fissi su di me e sui miei
movimenti.
«L’energia universale, il Rei, viene prelevata e incanalata dall’operatore
che la mette in comunicazione con l’energia vitale individuale, il Ki...» La
mia voce sommessa dovrebbe aiutarlo a rilassarsi, così come l’aroma
delicato dell’incenso che comincia a diffondersi nella stanza. «... e quando
le due energie vengono in contatto, il Rei stimola il Ki e attiva i processi di
guarigione in colui che riceve il trattamento...» Romain si è appoggiato allo
schienale della sedia e le braccia sono abbandonate in grembo. Vado a
mettermi in piedi alle sue spalle. «Adesso chiudi gli occhi e respira.» Mi
concentro anch’io finché non percepisco il flusso energetico e solo allora
appoggio entrambe le mani alla base del suo collo. Poco dopo sento il
calore passare dai miei palmi alla sua pelle, come accade sempre, ma questa
volta la mia concentrazione è disturbata. La sensazione predominante non è
quella del calore dell’energia, ma del calore della pelle di Romain, della sua
vicinanza, dell’intimità di questo contatto che finora non mi era mai
capitato di provare. Cerco di tenere le mani ferme più a lungo che posso, ma
alla fine devo scostarle e faccio uno sforzo per non allontanarmi di scatto.
«Abbiamo finito» dico, girando intorno alla sedia e mettendomi di fronte
a Romain, a una certa distanza. Lui apre gli occhi, sbadiglia, si stiracchia
vistosamente.
«Uhm, di già? Mi ero quasi addormentato.»
«Bene, significa che il rilassamento ha funzionato. E... come va il collo?»
Lui si alza, ruota la testa a destra e sinistra. «Mmm, bene per ora» fa una
pausa e mi guarda negli occhi con espressione molto seria. «Senti, Viola,
c’è una cosa che volevo chiederti.»
«Cosa?» sento il cuore accelerare leggermente.
«Tu pensi davvero che qualcuno ti pagherà per farsi fare questo?» E
scoppia a ridere di gusto.
Ma stavolta non riesco a ridere con lui. Mi sento talmente umiliata che mi
metterei a piangere. Gli volto le spalle e torno a sistemare i miei saponi
senza dirgli niente.
«Ehi, non ti sarai mica offesa?» mi chiede quando smette di ridere.
Mi giro di scatto, più irritata che offesa. «No» mento. «Perché dovrei? In
fondo sei soltanto venuto qui per dirmi che il mio lavoro non vale niente e
che i miei trattamenti sono ridicoli, giusto?»
«Okay, andiamo, non ti arrabbiare.» Mi viene vicino. «E comunque non
ero venuto qui per prenderti in giro.»
«E allora perché?»
Lui fruga nella borsa, tira fuori un pacchettino minuscolo e me lo porge.
«Volevo portarti un incoraggiamento» mi dice con un sorriso.
Lo prendo, è un piccolo parallelepipedo di carta, compatto e di un certo
peso. Strappo la confezione con la frenesia curiosa di una bambina e mi
ritrovo a fissare una pila di rettangoli di cartone color crema, su cui è scritto
in un elegante corsivo:
VIOLA CONSALVI – NATUROPATA
con tanto di indirizzo e numero di telefono dell’erboristeria. Continuo a
guardarli senza parlare mentre la gratitudine e l’emozione mi appannano gli
occhi.
Mi ha regalato dei biglietti da visita.
È un provocatore, un arrogante, irritante ex professore declassato a
barista che non perde occasione per punzecchiarmi. Ha persino deriso la
mia professione. È insopportabile. Ma è riuscito a regalarmi l’unica cosa
che potesse toccarmi il cuore. In quei cartoncini oltre al mio nome c’è
scritto: ehi, io non credo che quello che fai abbia il minimo valore, ma
voglio darti una possibilità. In fondo in fondo, non è un cattivo ragazzo.
«Be’, grazie» balbetto ancora imbarazzata.
«Figurati. È dura ricominciare da zero, ne so qualcosa. Un in bocca al
lupo fa sempre piacere.»
«Già.»
Un silenzio goffo cala sui nostri sguardi che si incrociano per qualche
istante. Vorrei dire di più, ma non trovo le parole. Vorrei dirgli che il suo
gesto mi ha commossa, che quei biglietti sono preziosi e che non vedo l’ora
di distribuirli per tutta Parigi. Ma poi ripenso alle sue battute sarcastiche, a
quella smorfia beffarda perennemente in agguato e temo che la mia
emotività esposta offrirebbe il fianco a una facile ironia che ora non ho
voglia di rintuzzare.
«Bene» esclama a un certo punto Romain tagliando corto con i silenzi. «I
biglietti te li ho dati, ma in realtà non ero passato solo per questo...»
Sollevo un sopracciglio interrogativo. Ah no?
«Devo ancora riscuotere una scommessa, ricordi?» Il guizzo delle sue
labbra non mi fa pentire del mio mutismo. «E ho pensato che potresti darmi
una dimostrazione delle tue abilità culinarie proprio questa sera, visto che
non lavoro.»
È vero, oggi è giovedì e l’Hairy Biker rimane aperto soltanto fino a
pranzo. Se non venisse da lui avrebbe tutta l’aria di un invito galante.
«Stai tranquilla, non ti sto chiedendo un appuntamento» mi dice, e a
questo punto mi chiedo se i miei pensieri non abbiano preso il vizio di
materializzarsi su un cartellone sopra la mia testa. «Ho pensato che magari
ti avrebbe fatto piacere uscire e distrarti un po’.»
Mi farebbe piacere? Sì, certo, mi fa sempre piacere uscire e distrarmi,
come faccio insieme a Camille. Ma con lei sono al sicuro, è una donna, non
devo sforzarmi di essere altro che me stessa, non ci sono implicazioni di
nessun genere, niente strategie, né giochi occulti. E nemmeno rischi. Che
cosa so, in fondo, dell’uomo che mi sta davanti? Quasi niente. È stato un
incontro casuale il nostro, cominciato nel peggiore dei modi. Non siamo che
due estranei legati dal filo tenue di un’amicizia in comune, nient’altro.
Potrebbe diventare un amico, forse, ma in lui percepisco un’ombra che un
po’ mi intimorisce. Il suo continuo scherzare, quell’ironia onnipresente,
altro non è se non una barriera eretta per difendersi e, forse, nascondersi.
Ma da cosa? Ho capito che anche lui, come me, ha subito un danno dalla
vita e ha lottato per non soccombere. Siamo entrambi dei sopravvissuti,
ecco spiegata quella strana affinità che sento di avere con lui e che
probabilmente è la stessa che spinge lui a cercare me.
«Sì, sarebbe carino, ma» esito nella scelta delle parole... «purtroppo ho
già detto a Camille che sarei uscita con lei.»
«Ah, la biondina» risponde. «Molto simpatica.» Più che deluso dal mio
“no” mi sembra interessato al motivo.
Un paio di volte avevo portato Camille all’Hairy Biker per un aperitivo e
fin dal primo momento mi aveva colpito la naturalezza con cui lei e Romain
avevano legato. C’era stato uno scambio di battute immediato e spensierato,
niente a che vedere con la pesantezza guardinga che aveva marcato i miei
primi incontri con lui. Mi era parso che la schietta disinvoltura della mia
amica avesse contagiato anche Romain. Li avevo visti flirtare con una
spontaneità che mi aveva punta con l’ago molesto dell’invidia.
«Ma posso anche disdire» aggiungo, infastidita tanto dalla sua risposta
disinteressata quanto dalla mia pronta rettifica. Un istinto ancestrale a
marcare il territorio.
«Come vuoi» mi risponde passandosi una mano distratta fra i capelli.
«Basta che me lo fai sapere entro le cinque.»
«In tempo per organizzare altrimenti la serata?»
«Esattamente» mi dice lui con un sorriso cospiratore.
L’idea di poter essere sostituita con tanta facilità non accarezza certo il
mio narcisismo. Ma nemmeno un fremito della palpebra tradisce il
disappunto.
«Va bene, ti informerò in tempo utile. E adesso, perdonami, devo tornare
al lavoro» concludo.
«Okay, a più tardi.»
Volta le spalle ed esce. Rimango a fissare il vuoto occupato poco prima
dalla sua figura. Mi sembra di scorgerne ancora i contorni. Dovrei
telefonare a Camille e inventare una scusa per questa sera, non mi va di
raccontarle la verità. Uno strano nervosismo appena venato di imbarazzo si
insinua lentamente dentro di me, non so dargli un nome ma è molto simile
alla sensazione che provai anni fa prima di lanciarmi nel vuoto appesa a un
deltaplano. Michel era appassionato del volo e nella vita aveva provato di
tutto, dal paracadute al deltaplano fino all’aliante e agli ultraleggeri. Io, al
contrario, sono sempre stata fermamente convinta che se Dio avesse voluto
far volare l’uomo gli avrebbe donato le ali, ma alla fine avevo ceduto alle
sue insistenze e avevo acconsentito per una volta a seguirlo su uno di quei
trabiccoli. Era stata un’esperienza devastante. La nausea era cominciata non
appena avevo scorto l’imbracatura e tutte quelle cinghiette che, ne ero certa,
a un certo punto avrebbero ceduto facendomi precipitare per centinaia di
metri fino a sfracellarmi. Il resto rimane un incubo fatto di vento e strappi.
Ricordo soltanto la corsa e il salto, l’urlo che mi aveva mozzato il fiato e
artigliato la gola, le lacrime come aghi negli occhi, gli insulti di cui avevo
ricoperto Michel che, agganciato a me, rideva a crepapelle.
In questo momento il vuoto nello stomaco, il respiro che si ferma in gola
mi riportano agli istanti antecedenti il volo.
Sono passati troppi anni dal mio ultimo appuntamento con un uomo.
Paura, ecco cos’è.
20
Mi affaccio dalla porta del negozio, il cielo si sta coprendo di grigio. Alle
cinque meno dieci ho mandato un messaggio a Romain dicendogli di venire
a prendermi all’ora di chiusura. Durante la pausa pranzo ho fatto un salto
veloce a casa per cambiare jeans e maglietta con un vestito leggero, senza
pretese. A Camille ho detto semplicemente che questa sera ero troppo
stanca per uscire e che ci saremmo sentite domani. La parte spinosa era
Gisèle. Difficile mentirle, ma non me la sentivo di dirle la verità. Così, le ho
raccontato che sarei uscita con Camille.
Il macinino biposto di Romain annuncia il suo arrivo con un rumore di
ferraglia poco rassicurante. Avevo sperato che mi risparmiasse un altro giro
sulla sua giostra, ma dallo sguardo fiero che esibisce capisco che nella sua
testa mi sta concedendo un grande onore.
«Pronta?» mi chiede porgendomi il casco.
«Quasi a tutto» rispondo con un’occhiata torva al sidecar, sperando che
colga l’ironia.
Lui mi squadra da capo a piedi. «Certo, non è la tenuta più adatta a una
motocicletta.»
«Pensavo che saremmo andati a piedi» borbotto mentre mi incastro nel
sidecar e le ginocchia improvvisamente nude mi arrivano quasi in bocca.
«A pensarci bene qualche lato positivo ce l’ha» commenta lui
guardandomi le gambe senza alcun pudore.
«Prova a guardare avanti, magari evitiamo di sfracellarci» gli suggerisco.
«Rilassati, Italie, non sei così letale.» E parte a razzo, per quanto glielo
consente il rottame.
Se mi chiama un’altra volta Italie mi metto a urlare. Siamo punto e
daccapo, non facciamo in tempo a salutarci che subito partono le battute al
vetriolo. Quanto vorrei che lo spirito di Camille si impossessasse di me. Lei
avrebbe avviato l’incontro con grazia e simpatia.
Il bello è che il profilo di Romain non pare scalfito da alcuna tensione.
Non una ruga, una contrazione della mascella, una piega della bocca,
neanche un’occhiata furtiva verso di me tradiscono il benché minimo
turbamento. Sono sola a ribollire nel mio brodo. Seguo il suo consiglio e
lascio che l’aria sul viso mi distenda i tratti e ripulisca la mente.
La motocicletta corre veloce sulle strade strette di Montmartre,
scendiamo fino a place Pigalle e imbocchiamo Boulevard de Clichy. La
strada è un nastro nero e diritto che si srotola per chilometri davanti a noi,
incassata fra i palazzi e i binari della metropolitana sopraelevata.
Lungo marciapiedi le insegne dei negozi smettono via via di parlare solo
francese e ci apostrofano anche in turco, arabo, vietnamita, yiddish.
Macellerie musulmane, fioristi cinesi, tabaccai senegalesi, ristoranti coreani
convivono gli uni accanto agli altri in una congerie apparentemente casuale
che dissimula confini fra etnie tanto invisibili quanto tenaci. Siamo arrivati
a Belleville, un frammento di Mediterraneo trapiantato nel cemento
parigino e definitivamente immortalato dai romanzi di Daniel Pennac.
Romain accosta al marciapiede e si ferma davanti a un piccolo bistrot che
sembra aver visto tempi migliori. La tenda rossa è lisa e i pochi tavolini
sparuti all’esterno hanno le sedie spaiate. Spegne la moto, immagino che
siamo arrivati a destinazione.
«Carino» dico a mezza bocca mentre scendo e mi tolgo il casco.
«Non farti ingannare dalle apparenze. Non lo sai che non si giudica un
libro dalla copertina?» Mi prende in giro con le mie stesse parole.
Si ferma davanti alla porta. «Allora? Vieni?»
Entro nel locale passandogli davanti e come per incanto mi ritrovo
catapultata in un baretto studentesco romano. L’atmosfera è la stessa,
stretta, un po’ soffocante, sovraffollata di bottiglie ed etichette appiccicate
sulle pareti. Il bancone alto e corto, con l’aria di un reperto anni Ottanta, fa
da scudo a un tipo tozzo e nerboruto con un viso che pare intagliato nel
legno e gli occhi lucenti come giaietto.
Quando vede Romain si apre in un sorriso radioso.
«Ciao Ari» lo saluta amichevolmente lui, stringendogli la mano. «Come
stai?»
«Bene, bene, amico mio. È un po’ che non ti fai vedere, hai trovato un
posto più bello?» chiede il tipo.
«E come potrei? Lo sai che questo è il miglior bistrot di Parigi... dopo
l’Hairy Biker, ovviamente» risponde Romain.
«Ah ah ah, sì, certo come no. Hai una bella faccia di culo a chiamare
bistrot quella fogna» ribatte con una risata quello che immagino sia il
barista.
«Sarà pure una fogna, ma almeno non è piena di scarafaggi greci come
questo buco.»
«No, infatti, lì è pieno di scarafaggi e basta.»
Su quest’ultima battuta scoppiano a ridere entrambi e io capisco di aver
appena assistito a un rituale che, data l’apparente l’intimità, probabilmente
va avanti da anni. Poi lo sguardo del barista si posa su di me.
«La signora è con te?» chiede a Romain senza staccarmi gli occhi di
dosso.
«Proprio così. Ari, ti presento la mia amica Viola. Viola, questo è
Aristarchos, la peggiore feccia greca che sia mai approdata a Parigi.»
Ari mi prende la mano ma invece di stringerla vi depone l’idea di un
bacio. «Enchanté, Viola. È sempre un piacere conoscere le amiche di
Romain» mi dice ridendo e calando una poderosa pacca sulla spalla
dell’amico.
Penso che Romain farebbe volentieri ingoiare la lingua ad Ari, almeno a
giudicare dal subitaneo disagio che gli si dipinge in faccia.
«Okay, che ne dici di portarci qualcosa da bere invece di blaterare?» lo
redarguisce.
«Ehi, simpatia, vatti a sedere. Il tuo solito tavolo è libero.»
Romain fa una smorfia e mi guida verso un tavolo in fondo al locale.
«E così sei un cliente abituale» gli dico mentre mi siedo.
«Sì, abito qui vicino e questo posto è un po’ come una seconda casa.
Vengo sempre qui quando ho un po’ di tempo libero.»
Sarei curiosa di sapere in che modo impiega il resto del suo tempo libero,
ma mi trattengo perché la domanda che voglio fargli è un’altra. Mi guardo
intorno con indifferenza.
«Scusa, ma mi sfugge una cosa: quando e dove pensi di riscuotere la tua
scommessa?»
Lui mi guarda e sorride nel modo che ormai conosco e, un pochino, temo.
«Non puoi proprio fare a meno di analizzare tutto, vero? Niente deve
sfuggire al tuo casellario, ogni cosa deve avere un perché e un come.
Casualità e imprevisto per te non sono opzioni possibili. Sbaglio?»
Apro la bocca per rispondere a tono, ma lui non me ne dà il tempo.
«Ti rivelerò un segreto, Viola: la vita non ha una logica e gli uomini non
sono predestinati. Fatti un regalo, smetti di cercare spiegazioni e vivi. Ti
sentirai meglio.»
Lo fulmino con un’occhiata, poi ripenso ai biglietti da visita e mi sfugge
un sorriso. La vita non ha una logica come non ce l’hanno gli esseri umani.
Può capitare di avere a che fare con un esasperante polemista che poi con
un gesto rimescola le carte in tavola e tu non sai più che cosa pensare,
perché il bianco diventa nero e gli schemi mentali a cui ti eri aggrappata
crollano miseramente.
L’apparizione di Ari armato di due pinte di birra e una classica selezione
di stuzzichini da aperitivo sancisce la tregua. Mangiare e bere occupano la
bocca quel tanto che basta a non farne uscire battute spiacevoli.
«E adesso?»
La birra mi ha regalato una piacevole torpidità. I bicchieri sono vuoti e
nelle ciotoline di ceramica nera non restano che pochi avanzi.
«Adesso ce ne andiamo» dice Romain. Si alza e si dirige verso la porta
lanciando un saluto veloce ad Ari.
Lo seguo senza stupirmi dell’uscita brusca.
Risaliamo sul sidecar e percorriamo a ritroso la strada che abbiamo fatto
poco prima. Stesse vetrine, stessi marciapiedi ma sul lato opposto. Proprio
non riesco a capire cos’abbia in mente finché non arriviamo a Montmartre e
riconosco la strada. Parcheggia davanti all’Hairy Biker e scende.
E io che pensavo volesse portarmi a casa sua.
«Prego, si accomodi» mi dice aprendo la porta e cedendomi il passo con
un gesto teatrale. Il locale è buio e mi fermo poco oltre la soglia per non
inciampare. Romain chiude la porta e va ad accendere le luci. È strano
essere qui in questo guscio silenzioso e vuoto, le sedie rovesciate sui tavoli,
il bancone privo di ingombri che paiono racchiudere in sé gli echi della
folla ciarliera. Resto ferma, in piedi, scossa dall’improvvisa intimità di
questo luogo, tanto più impressionante in quanto insolita.
«Ehi?» mi chiama dalla porta della cucina. «Vieni, dài, che comincio ad
avere fame sul serio.»
In due passi lo raggiungo e uno strano languore mi stringe lo stomaco. Il
locale è inaspettatamente grande, uno spazio quadrato pulitissimo e
perfettamente attrezzato con tutto il necessario. Un vero paradiso per uno
chef, peccato che io non sia affatto versata per l’arte culinaria. Quando
avevo accettato la scommessa, non so per quale motivo avevo immaginato
uno scenario diverso: Romain sarebbe venuto a casa di Gisèle e tutti e tre
insieme ci saremmo accontentati di un piatto di spaghetti al pomodoro,
accompagnato da un buon vino e molte chiacchiere per sopperire a
eventuali manchevolezze. Troppo naïf, se vogliamo, ma adesso...
Mi guardo intorno con ostentata indifferenza, come per valutare le
potenzialità della cucina, e intanto passo in rassegna i piatti meno rischiosi
che conosco. Una volta eliminata la pasta al pomodoro e la fettina in padella
mi resta soltanto il pesto alla genovese. Lo so fare e anche Michel lo
apprezzava sempre, ma a questo punto mi auguro che mio marito non fosse
troppo di bocca buona.
Sbircio di sottecchi Romain che intanto sta tirando fuori una serie di
pentole e tegami.
«Allora, che cosa pensi di preparare di buono?» mi chiede con gentilezza
e adesso so per certo che si mostra tanto disponibile perché vuole darmi una
lezione. Sono convinta che lui sappia perfettamente che ho accettato la
scommessa solo per orgoglio, e ora vuole vedere se riesco a reggere fino in
fondo.
«Pensavo di preparare un piatto di linguine al pesto» dico con sicurezza.
«Ah.» Mi guarda un po’ deluso.
«Non farti ingannare dalle apparenze» gli restituisco il rimprovero. «Il
vero pesto alla genovese non è una salsetta qualsiasi. E poi quello che conta
è la scelta degli ingredienti e la cura che si mette nella preparazione. Non
hai letto Il pranzo di Babette?»
Intanto frugo nel frigorifero e tiro fuori un mazzo di basilico.
«Il pranzo di Babette è una favoletta da ragazzine» risponde lui con
sufficienza. «Se stai cercando i pinoli sono in quella credenza in basso. Lì a
destra invece trovi aglio, sale e olio.»
Interrompo il mio brancolare cieco e vado a colpo sicuro a recuperare
tutti gli ingredienti.
«Da ragazzine? Non ti facevo così snob, e soprattutto per essere un ex
professore che per mestiere fa mangiare la gente, mi sembri un po’ scarso
sul fronte del rapporto letteratura-cucina... Potresti mettere sul fuoco una
pentola d’acqua, per favore?»
Con un’occhiata individuo una schiera di elettrodomestici fra cui un
frullatore a immersione di cui mi impadronisco immediatamente.
«E tu chiami letteratura un raccontino come quello?» ribatte lui mentre
accende il fornello. «Avrei capito se mi avessi menzionato il pranzo di
famiglia dei Buddenbrook, o il timballo di maccheroni del Principe di
Salina... Scusa ma che stai facendo?»
Finisco di infilare tutti gli ingredienti nel bicchiere del frullatore – olio,
aglio, parmigiano, basilico, pinoli, sale dosati a occhio – e faccio partire le
lame a tutta velocità.
«Due minuti e la cena è in tavola» urlo al di sopra del frastuono.
Romain mi osserva scettico, un sopracciglio leggermente sollevato, la
bocca tesa in una linea sprezzante. Quando spengo il frullatore, nel
bicchiere riposa una purea setosa di un verde brillante, né troppo densa, né
troppo liquida. La guardo con malcelato orgoglio. È perfetta.
«Visto che meraviglia? Il segreto è nel giusto rapporto tra gli ingredienti.
Adesso passami le linguine, per favore, l’acqua sta bollendo.»
L’espressione di leggero disprezzo è ancora lì.
«L’avrai anche letto, ma ti è servito a poco Il pranzo di Babette»
mormora a mezza bocca. «Ti consiglio di assaggiarlo, prima» mi
suggerisce.
«Perché non lo assaggi tu? Io lo so com’è» rispondo ostentando una
sicumera che sono lungi dal possedere.
Romain prende un cucchiaino e lo immerge di pochi millimetri nella
salsa, poi se lo porta alle labbra con circospezione. Tutte queste manovre mi
irritano. Dopo l’assaggio il suo viso non tradisce alcuna emozione.
«Be’?» lo sollecito, contrariata.
«Assaggia tu stessa, Babette» mi dice trattenendo un sorrisetto.
Esasperata affondo un cucchiaio nel frullatore e mi riempio la bocca.
Un’ondata di sale e aglio mi incendia la lingua. Un boccone amaro e
immangiabile. Devo aver preso male le misure, accidenti. Il primo istinto è
di sputare tutto, ma mi costringo a ingoiare con una smorfia.
«Credo di aver esagerato un pochino con il sale» mormoro a mo’ di
scusa.
E il suo sorrisetto esplode in un’aperta risata, la testa gettata indietro e gli
occhi lucidi. «Oddio, sei incredibile» esclama senza fiato. «Non pensavo
che una tipa capace di mangiare a quattro ganasce come te fosse un tale
fallimento ai fornelli, oh mio dio!» E continua a ridere, e anche se io gli
metterei volentieri il frullatore per cappello, la sua risata è talmente schietta
e contagiosa che dopo un istante di contrarietà mi ritrovo a ridere insieme a
lui del mio clamoroso insuccesso.
«Oh, va’ al diavolo, non so cucinare è inutile girarci intorno» gli
confesso. «Facciamoci un piatto di pasta in bianco e chiudiamola qui, ti
prego!»
Lui esala un ultimo sospiro ilare e riprende il controllo, asciugandosi gli
occhi. «Facciamo invece che non è successo niente e ricominciamo da capo,
ti va?» mi chiede. «Ho più fame di prima e mi hai fatto venire voglia di
pesto, quindi siediti lì e stai a guardare.»
Docilmente vado a sedermi sullo sgabello che mi ha indicato mentre lui
inizia a trafficare in giro per la cucina.
«Preparare un pesto non è difficile, ma devi dedicargli del tempo.»
Prende due calici e da una cantinetta tira fuori una bottiglia di vino bianco.
«E poi la buona cucina è fatta di momenti, di profumi e sapori da gustare
lentamente.»
Mi porge un calice. Assaggio il vino e osservo Romain prendere un
mortaio di marmo e un pestello di legno.
«Vedi, il cibo non è soltanto nutrimento. È molto di più, entra nella sfera
degli affetti, comunica attenzione, cura, può arrivare a essere persino una
muta dichiarazione d’amore.» Beve un lungo sorso di vino, poi mi osserva.
«E per quanto mi riguarda, la preparazione accurata di un piatto è
paragonabile al racconto di una storia. Pensa a tutti gli scrittori che hanno
dedicato al cibo pagine a volte memorabili. Pensa alle insalate arabescate
che troneggiano sulla tavola di Jay Gatsby, simbolo della ricchezza
sfrontata del parvenu americano, oppure alla minestra di Oliver Twist, una
brodaglia disgustosa che evoca immediatamente la massa dei poveri
affamati e laceri dell’Inghilterra ottocentesca...» Continua a parlare mentre
sbuccia l’aglio e lo pone nel mortaio insieme a qualche grano di sale grosso.
«Ma spesso il connubio più celebrato è quello fra cibo e sesso. Mi viene in
mente Henry Miller e la sua fame insaziabile. Oppure Amado e la sua Doña
Flor, che alterna ricette e manicaretti ad amplessi sfrenati con il marito.»
Il pestello di legno comincia a ruotare lentamente riducendo lo spicchio
in una crema biancastra. Poi è la volta delle foglie di basilico, pestate con
perizia finché non iniziano a stillare oli essenziali dal profumo pungente.
Lo guardo mentre versa nella ciotola una manciata di pinoli e qualche
cucchiaio di formaggio grattugiato, continuando a girare il pestello nella
crema che via via si va formando, e mi sorprendo a osservare per la prima
volta le sue mani.
Sono grandi, abbronzate, con dita lunghe e affusolate che si muovono
agili e decise mentre sfiorano, stringono, premono. Paiono vibrare di
un’energia latente, animate da una passione che sembra concentrarsi tutta
nelle falangi fino a scaldarle di una luce incandescente.
«... E per me una storia ben scritta è un’esperienza sensuale pari a una
bottiglia del miglior vino, o a un piatto preparato con ogni cura.» Si
avvicina e mi riempie il bicchiere ormai quasi vuoto. «Alle storie» mi dice
facendo tintinnare il calice contro il mio e bevendo, gli occhi fissi nei miei.
Poi si allontana e ricomincia a lavorare.
In silenzio accosto la bocca al bicchiere e prendo alcuni sorsi, ascoltando
la sua voce profonda che racconta, descrive, cullandomi con le sue
intonazioni musicali. «... e per me preparare una buona salsa è un po’ come
corteggiare una donna. Dev’essere bella da guardare come la sua bocca,
vellutata come immagini sia la sua pelle al tatto, profumata come i capelli in
cui vorresti affondare le dita...»
Sento il vino che scende nello stomaco e il suo calore mi risale lungo le
vene fino a raggiungere gli estremi. L’alcol continua l’opera già inaugurata
dalla birra e una sensazione di caldo benessere mi invade. I perché non
hanno più senso, conta soltanto il momento, i racconti, i profumi e la magia
di un istante perfetto condiviso.
«Apri la bocca» mi dice d’un tratto Romain e mi accosta al viso un
cucchiaino. Schiudo le labbra e il cucchiaio scivola all’interno facendomi
rotolare sulla lingua una setosa, profumata armonia di sapori.
«Allora?» mi chiede senza spostarsi di un millimetro.
«Perfetta» mormoro, la voce roca per il silenzio prolungato.
Guardo i suoi occhi verdissimi, liquidi, contornati da ciglia scure e mi
accorgo che non riesco più a staccarmi.
«Te ne è rimasta un po’ qui» mi dice lui, e con il pollice sfiora
delicatamente l’angolo della mia bocca. Una carezza che mi squarcia come
un fulmine da capo a piedi. Resto inchiodata al mio posto mentre il respiro
mi muore in gola. Romain mi guarda, il viso sempre più vicino, mi toglie il
bicchiere dalle mani e lo appoggia sul bancone, poi con un dito segue il
contorno delle mie labbra, lento, estenuante. Chiudo gli occhi e non sono
più io, tutto il mio essere è concentrato in pochi millimetri di pelle che
scotta e palpita sotto il suo tocco. Lo sento aderire a me, fra le mie gambe,
mentre entrambe le mani mi accarezzano il viso, percorrendone creste e
valli e a ogni gesto qualcosa si scioglie dentro di me, finché le sue labbra
non si posano sulle mie in un bacio possessivo. È una vertigine, un abisso
che sa di vino e saliva e alito caldo in cui precipito e mi dissolvo.
Romain non mi lascia, le mani sul mio viso sono imperiose e la sua bocca
si muove sempre più esigente, beve il mio respiro e io, appollaiata sullo
sgabello, mi aggrappo a lui, lo stringo, accarezzo i muscoli delle braccia e
della schiena, le mani avide spinte da un desiderio violento che non mi
conoscevo più.
Lo voglio, tanto.
Ma d’un tratto un lampo di lucidità spezza l’incanto. Non posso, non
devo. Pensieri scheggiati mi esplodono nella mente. Una fidanzata
fantasma. Michel. Gisèle. Mi allontano di scatto e gli prendo le mani. Per
un istante rimaniamo a fissarci ansimanti, congestionati.
«Che succede?» mi chiede sottovoce. Cerca di farmi una carezza ma
glielo impedisco.
«Scusami, io... Non ce la faccio, è troppo complicato.» Scendo dallo
sgabello e mi allontano da lui.
«Perché?» insiste.
«Io non...» Non riesco a continuare. Per l’emozione, ma anche perché
davvero non so come potrei spiegargli quello che provo.
«Tu hai paura» mi dice con semplicità. «Hai una paura folle di perdere il
controllo» aggiunge senza astio, ma con malinconia.
Siamo uno di fronte all’altra, la distanza a farmi da scudo.
«Non è vero» gli dico mentre cerco la mia borsa. «Ci sono troppe cose
che non sai. Troppe cose che dovrei spiegarti e magari non le capiresti
nemmeno...»
Romain si appoggia al bancone e incrocia le braccia. «Mettimi alla
prova.»
Lo guardo negli occhi, che nel frattempo non mi hanno mai abbandonata
nemmeno per un istante, e quell’espressione seria, venata di curiosità,
sembra invitarmi a parlare a cuore aperto. Ma non ce la faccio. Non adesso.
«Scusami, non posso. Devo andare.»
Mi precipito alla porta inseguita dalla sua voce.
«Davvero non puoi, Viola? Forse sarebbe ora che fossi sincera con te
stessa.»
Esco nel buio di una notte senza luna e non richiudo la porta, i passi
corrono veloci mentre le sue parole mi riecheggiano nella testa.
Istintivamente mi sfioro le labbra con le dita. Sono ancora calde.
RIMEDI PER RIEQUILIBRARE IL IV CHAKRA
Il quarto chakra, Anahata, o “chakra del cuore”, si trova nel petto ed è il
fulcro che congiunge i chakra inferiori e superiori. Quando è aperto, le
energie del cosmo e della Terra confluiscono nel cuore per poi irradiarsi
nelle braccia.
Anahata è il centro dell’amore, della compassione e del perdono, se
bloccato si rischia di non riuscire ad amare se stessi e gli altri.
Il BIANCOSPINO è il fiore d’eccellenza per il chakra del cuore, un
infuso di bacche o alcune gocce di tintura madre sciolte in acqua aiutano a
seguirne gli impulsi.
Puoi preparare una tisana composta da 20 grammi di fiori di biancospino
e 20 grammi di fiori di MAGGIORANA.
Metti un cucchiaio di miscela in una tazza d’acqua calda e troverai
giovamento nel combattere gli stati di ansia e angoscia.
21
Sono fuggita da Romain senza voltarmi indietro, come se fossi inseguita
da un branco di cani affamati. Ho corso per quasi tutta la strada senza
fermarmi fino ad arrivare a casa con i polmoni in fiamme. Per tutto il tempo
non ho fatto che esaminare gli istanti precedenti rivivendoli uno dopo
l’altro.
Quale dei miei gesti o delle mie parole aveva potuto indurlo a credere che
non l’avrei respinto? Come potevamo essere arrivati a tanto quando non
eravamo niente? Ragionamenti, domande che mi affollavano il cervello, ma
soccombevano inesorabilmente di fronte al ricordo delle sue mani forti e
della sua bocca insolente e all’interrogativo che imperava su tutto: perché
me n’ero andata? Ho risalito le scale a piedi e poi mi sono lasciata andare
contro il muro, sul pianerottolo, per riprendere fiato e riordinare le idee.
Dopo poco, però, ho desistito: era inutile restarsene lì fuori a lambiccarsi il
cervello, nessuna conclusione razionale sarebbe arrivata a darmi conforto.
Entrando in casa coltivavo la segreta speranza di non incontrare Gisèle, ma
era troppo presto e infatti l’ho ritrovata in salotto in compagnia di un libro.
«Cara, come mai già di ritorno? La festa era noiosa?» ha alzato la testa
guardandomi al di sopra dei suoi occhiali da presbite.
E il momento della verità è arrivato. Mi sono lasciata cadere sul divano
con un sospiro.
«Non sono andata alla festa» le ho detto. «Sono uscita con Romain e
stavolta non per caso. È venuto a riscuotere la sua scommessa culinaria, ti
ricordi?»
Lei ha annuito ed è rimasta in silenzio ad aspettare il seguito.
«Siamo andati a bere una cosa in un locale a Belleville, vicino casa sua,
poi mi ha portata all’Hairy Biker e mi ha messo a disposizione la cucina
perché lo stupissi con i miei manicaretti.»
«Ah. E com’è andata?»
«Da schifo. Ho preparato un pesto alla genovese rivoltante.»
«Ma non è tutto, vero?» mi ha chiesto intuendo che c’era di più.
«No, infatti. A un certo punto mi ha baciata.»
Sono arrossita mio malgrado come una bambina.
«Ah» ha ripetuto lei. «E tu che cosa hai fatto?»
Che cosa ho fatto? Mi sono avvinghiata a lui e ho assaporato
appassionatamente la sua bocca quasi fosse un frutto maturo e avrei fatto
anche di più, perché in me si era acceso un fuoco che minacciava di
incenerirmi... se di punto in bianco non fossi scappata a gambe levate come
un coniglio impaurito.
«Be’, l’ho lasciato fare. Almeno fino a un certo punto, poi me ne sono
andata.» Ho preferito tagliare corto.
Gisèle si è tolta gli occhiali, ha messo via il libro e mi ha guardata senza
tradire la minima sorpresa.
«Ecco, adesso mi dirai che lo sapevi già...» le ho detto, rassegnata.
Lei si è alzata ed è andata a mettersi davanti alla portafinestra della
terrazza, dandomi le spalle.
«No, certo che no. Ecco, forse... mi aspettavo che accadesse da un
momento all’altro, questo sì. E ti dirò che l’idea non mi dispiaceva...»
È venuta a sedersi accanto a me e mi ha accarezzato una guancia.
«Vorrei che mi capissi, Viola. Quando mi sei ricomparsa davanti dopo
tanto tempo, ogni cosa in te trasudava una tristezza immensa, persino
eccessiva, pur considerando tutto quello che avevi passato. Tu parlavi, a
volte sorridevi, ma i tuoi occhi erano bui, due buchi neri da cui traboccava
un dolore implacabile. Ma la cosa che mi ha colpito di più è che sembrava
che ti stringessi addosso la tua pena quasi come uno scudo, e guai a cercare
di farti mollare un po’ la presa! E dentro di me io pensavo: “Non è giusto,
non è sano che una donna così giovane sia così attaccata alla sofferenza”...
lasciami continuare, ti prego.» Ha sollevato una mano per mettere a tacere
le mie rimostranze. «Poi hai iniziato a lavorare, la tristezza si è diradata e ho
sperato che finalmente avessi trovato lo stimolo giusto per riappropriarti di
te stessa. Certo, mi sono detta, un flirt sarebbe la ciliegina sulla torta,
regalerebbe a tutto un tocco di vivacità, e il fatto che appena arrivata avessi
conosciuto Romain mi era parso quasi un segno del destino» ha detto
ridendo. «Ma mi sono resa conto subito che eri ancora troppo fragile, troppo
insicura e preda dei fantasmi del passato per poterlo vivere nel modo giusto.
E allora ho cominciato ad augurarmi che non accadesse niente.»
Su queste ultime parole si è fatta seria. «Stai parlando di Romain come se
fosse un orco pronto a divorare una fanciulla indifesa.»
«Non è un orco, ma posso dirti con certezza che è una persona fuori del
comune.»
«Be’, non è difficile immaginarlo, basta guardare lo scassone con cui se
ne va in giro tutto tronfio...»
Ho cercato di fare una battuta per alleggerire un’atmosfera che mi
sembrava fin troppo grave, ma Gisèle non mi ha dato corda.
«Io parlo sul serio, cara. Magari l’episodio di stasera non avrà alcun
seguito, magari domani ci riderete sopra e diventerete i migliori amici del
mondo, ma in ogni caso cerca di stare attenta. Romain è uno che va deciso
per la sua strada e non si ferma a guardarsi indietro, nemmeno se si lascia
alle spalle dei relitti.»
D’un tratto una profonda spossatezza si è impadronita di me.
L’eccitazione della serata, le sensazioni ancora impresse sul mio corpo, le
immagini frammentate che mi si affacciavano alla mente... desideravo
rimanere sola e lasciare che tutto si depositasse nei miei sensi infiammati a
decantare. Le allusioni sibilline di Gisèle sembravano un invito a sciogliere
la briglia alla curiosità, ma io non avevo più voglia di arrovellarmi.
«E tu come ti senti?» mi ha chiesto dopo un breve silenzio.
«Non lo so» ho risposto. Ed era vero.
Confusione, imbarazzo, eccitazione, rammarico, dispiacere. Sensazioni
che si agitavano sul fondo e non riuscivo a distinguere. Ma forse quella
serata, e quel bacio, mi avevano aperto gli occhi. Mi ero resa conto che
ormai da tempo non avevo più la percezione del mio corpo. La mia capacità
di sentire si era atrofizzata al punto da spegnere qualsiasi forma di
desiderio, ero un involucro inerte, persino la grana della mia pelle era
cambiata, più grossolana, quasi coriacea, come se le sofferenze si fossero
materializzate in una corazza fisica che non lasciava trapelare né consentiva
il passaggio di alcuna emozione. E le carezze di Romain erano riuscite a
penetrarla.
Ho guardato il viso attento di Gisèle, ancora in attesa di una risposta che
forse non avevo.
«Non so come mi sento, una parte di me vorrebbe lasciarsi tutto alle
spalle, smettere di pensare e abbandonarsi alle emozioni, ma l’altra...» Non
ho terminato la frase perché ho temuto che se avessi nominato Michel sarei
scoppiata a piangere, ma lo sentivo vicino e non avevo il coraggio di
esprimere un pensiero che mi sembrava abominevole.
Gisèle mi ha stretto dolcemente la mano. «Non lasciare che il senso di
colpa ti impedisca di godere della vita, tesoro. Non devi negarti la gioia per
paura di fare un torto a Michel, lui non lo avrebbe mai voluto.»
Mi sono morsa il labbro e lei mi ha abbracciata. «Non lottare, piccola, i
ricordi sono dolori preziosi. Piangi se vuoi, ti farà bene.»
«Sono stanca, Gisèle» ho mormorato contro la sua spalla, gli occhi
asciutti. «Ho esaurito le lacrime, ma non il dolore. Non c’è giorno che passi
senza che io pensi a lui e, che Dio mi perdoni, a volte vorrei... vorrei che
non fosse mai esistito.»
Il pensiero di ieri sera mi fa arrossire ancora.
Il cielo grigio ha mantenuto le promesse e questa mattina una pioggia
tiepida lucida il selciato della strada. Una luce opaca inonda il negozio e si
infrange su Gisèle e me, due isole ancorate in un mare di silenzio. Non
parliamo, ma il nostro mutismo è carico di attesa perché aspettiamo
entrambe che sia l’altra a prendere l’iniziativa. La mia amica sta
scartabellando una serie di fogli e sembra profondamente assorta nel suo
compito. Per evitare che tocchi a me, quindi, mi dedico ai fiori di iperico
freschi che aspettano dentro un sacco appoggiato dietro il bancone. Li ha
portati Gérard, il nostro fidato spacciatore di erbe officinali selvatiche, un
vero stakanovista della raccolta a regola d’arte: di giorno con il sole a picco
gira per campi e boschi in zone pressoché irraggiungibili alla ricerca di fiori
e foglie, mentre di notte, al chiarore della luna, estrae radici e bulbi.
Cercando di non dare nell’occhio prendo il sacco e vado nel retro. Il vivace
giallo oro dei fiorellini è una gioia per gli occhi, prendo la paletta e
comincio a pesare le corolle sul bilancino. L’iperico è una pianta molto
preziosa: lenisce i malanni del corpo e dell’anima, le scottature come la
depressione, ecco perché voglio preparare una buona scorta di tintura
madre. Dovrà rimanere in infusione almeno quaranta giorni, quindi è
meglio farla in anticipo. Comincio a prendere i recipienti di vetro scuro, il
dosatore, l’alcool a sessantacinque gradi e, come sempre, la ritualità del
procedimento mi assorbe completamente, al punto che non sento nemmeno
il rumore della porta che si apre.
«Sembra che la pioggia ci regalerà una giornata tranquilla.»
Alla fine è stata Gisèle a rompere il silenzio.
Alzo gli occhi dal mio lavoro e la vedo appoggiata allo stipite. «Già.
Almeno per un po’ resterai qui, ultimamente ti si vede poco» le dico. «A
proposito, come mai sei sempre alle prese con qualche pezzo di carta? Mi
stai nascondendo delle lettere d’amore?»
Gisèle mi lancia un’occhiata birichina. «Se fossero lettere d’amore pensi
che le terrei così in bella mostra? Purtroppo sono solo conti, fatture.
Seccature, insomma.»
La osservo meglio e mi sembra di vedere il suo viso appannato da un
velo di preoccupazione. Ripenso al funzionario della banca Palatine con un
vago senso di inquietudine. «Senti, Gisèle... io... non vorrei averti messo in
una situazione difficile...»
«Che intendi dire?»
«Be’, in contabilità non sono una cima, ma il discorso che mi ha fatto
quel tizio in banca è stato abbastanza chiaro. Sei in arretrato con le rate del
prestito. Io ti ho detto che avrei lavorato con te, ti ho permesso di
assumermi, di darmi uno stipendio, ma... forse non hai valutato bene la
situazione. Non pensi che dovremmo parlarne con Mélusine e Florian?
Magari loro...»
«No, no» mi interrompe con foga venendo verso di me, «non ce n’è
bisogno, loro non devono sapere niente, ti prego! Ti chiedo soltanto di avere
fiducia in me, so che posso farcela, anzi che possiamo farcela. Non
abbandonarmi proprio adesso.» È una preghiera talmente accorata che non
posso fare a meno di sorriderle e, dopo averla rassicurata, torniamo ognuna
alla propria occupazione. Se non altro questo scambio ha distolto
l’attenzione dalla mia disastrosa serata.
22
La pioggia continua a scendere incessante sulla strada per tutta la mattina
come un leggero velo di tulle appena mosso dal vento. In negozio è calato
di nuovo il silenzio. Questa strana quiete fa sentire i suoi effetti anche su di
noi. Siamo entrambe in sospeso, ognuna presa dai suoi pensieri. Provo un
vago senso di frustrazione, non so perché ma mi sarei aspettata un cenno da
Romain. Desiderio illogico, d’altra parte sono stata io a piantarlo in asso e
di conseguenza qualsiasi mossa dovrebbe partire da me. Gli avvertimenti di
Gisèle mi sfiorano la mente e mi chiedo a quali “relitti” si riferisse l’altra
sera. Probabilmente è un suo modo educato di dirmi che usa le donne come
fazzoletti di carta. Ho bisogno di mettermi in movimento, altrimenti
continuerò a rimuginarci sopra fino a stasera.
«Gisèle, visto che non c’è molto da fare vorrei finire di sistemare il
retrobottega, se per te va bene.»
Avevamo già parlato di trasformarlo in un piccolo studio per me, visto
che ormai qualche paziente comincia ad arrivare.
«Certo cara, fai pure.»
Lo spazio è limitato, ma con gli opportuni accorgimenti può funzionare.
Per il momento il tavolo e le due sedie possono bastare, poi mi procurerò un
tappeto per il Reiki. La lampada a stelo nell’angolo diffonde una luce
intensa e lievemente rosata, perfetta per incoraggiare il rilassamento. Su una
mensola fa bella mostra di sé la mia collezione di cristalli per ristabilire
l’equilibrio dei chakra, l’unico oggetto che mi appartiene. Faccio un passo
indietro e osservo la stanza. Non è proprio come il mio studio di Roma, ma
la sua atmosfera intima e calda è piuttosto soddisfacente. La mia assorta
contemplazione viene disturbata dal rumore della porta del negozio che si
apre e dalla voce di Gisèle che saluta qualcuno. Per un attimo, con un tuffo
al cuore, mi aspetto di sentir rispondere Romain.
«Buongiorno signora, cercavo Viola. Non c’è?»
Sollievo e delusione insieme. È la voce di Camille.
«Ehi, che sorpresa, ma non lavoravi tutto il giorno oggi?»
Le vado incontro con gioia, la sua presenza porta una nota di colore nella
giornata grigia e poi mi offre un’ottima scusa per non pensare.
Lei mi sorride, ma mi sembra meno scintillante del solito.
«In teoria sì, ma ho preferito disertare prima di litigare con tutti, dalle
modelle ai fattorini» dice con una smorfia. «Non so perché ma questa
giornata è iniziata con il piede sbagliato, sarà che per stanotte è prevista
luna piena.»
Scambio un’occhiata complice con Gisèle. Non siamo sole, dopotutto.
«E così ho pensato di venire a trovarti» continua Camille. «Magari mi
darai uno dei tuoi favolosi fiorellini che mi rimetterà a nuovo e in pace col
mondo. Basta che non incontri una modella almeno per le prossime dodici
ore. Oddio, quanto non le sopporto più! Sempre lì a lisciarsi e rimirarsi, e se
il vestito fa una grinza ti piantano una grana che non hai idea e mangiano
aria e lattuga scondita e poi svengono dalla fame, ma se provi a dargli uno
spicchio di mela, giammai! Assassina! Sarebbero capaci di crepare d’inedia
pur di conservarsi quel cul... Ops, mi scusi, signora...» Il fiume di parole si
interrompe bruscamente prima dello scivolone, lasciando Camille
leggermente imbarazzata.
«Oh, si figuri. Nemmeno io tollero quelle stampelle vestite e i loro culetti
rinsecchiti» commenta Gisèle con un sorriso.
«Bene» dico a Camille, «sei arrivata al momento giusto per inaugurare il
mio nuovo studio. L’ho appena sistemato.»
La faccio entrare e accomodare davanti al tavolo, poi richiudo la porta.
«Allora, dimmi tutto. Come ti senti?» le chiedo sedendomi di fronte a lei.
Cincischia un po’ con gli anelli che le ricoprono le dita e prende un bel
respiro come se parlare le costasse fatica.
«Mah, non so. Fino a qualche giorno fa andava tutto bene, sempre al
lavoro e sempre di corsa, ma insomma, rientra nella mia normalità. Poi da
un po’ mi è tornata l’ansia, mi sveglio la mattina con l’angoscia e non so
perché, quando lavoro mi prende la paura di non riuscire a disegnare oppure
di avere delle idee pessime e che alla fine tutti si accorgeranno che non ho
un briciolo di talento e sono un’incapace... e anche ieri sera, alla festa... a
proposito è stata una figata pazzesca, peccato che tu non sia venuta, ti
saresti divertita... sì, dicevo, alla festa mentre stavo lì a ballare e bere mi è
venuto in mente che non avevo chiuso la porta di casa. Lì per lì ho
accantonato il pensiero, ma poi è tornato, ancora più pressante e insieme
alla porta di casa mi sono chiesta se avevo chiuso il gas e più ci pensavo più
mi veniva la paura che succedesse qualcosa, che ne so una rapina, o magari
che avrei fatto esplodere il palazzo... insomma per farla breve me ne sono
dovuta andare perché se non mi fossi accertata che andava tutto bene sarei
morta di paura.»
Sospira e abbassa gli occhi, un po’ vergognosa.
«Ma poi la porta e il gas li avevi chiusi?»
Lei mi guarda con aria afflitta. «Certo. Sono una stupida, vero?»
La osservo e ripasso mentalmente le sue parole: incapace, stupida, paura
paura paura. I fiori che le ho dato vanno bene, ma forse è il caso che ne
aggiunga uno per le piccole paure e le fobie. Mimulus, è perfetto.
«E quando sei arrivata a casa che cosa hai fatto?»
«Niente, ho visto che era tutto a posto e mi è venuto da piangere. Allora
ho telefonato a mio padre perché volevo sapere se stava bene... Gli ho anche
fatto prendere un colpo, poverino, era quasi mezzanotte... insomma avevo
bisogno di essere rassicurata, tutto qua.»
Quindi la porta e il gas non c’entrano assolutamente niente. Voleva una
parola rassicurante e non da una persona qualsiasi, ma dall’affetto
fondamentale della sua vita, altrimenti avrebbe telefonato a un amico.
«Come mai non hai chiamato tua madre?» le chiedo per curiosità.
Camille si sente presa in contropiede e sgrana gli occhi. «Perché non ci
ho pensato» confessa candidamente.
È una risposta singolare. Che Camille non abbia un rapporto sereno con
sua madre l’avevo già capito, anche se dal modo in cui ne parla traspare
un’ammirazione verso di lei che sconfina quasi nell’adorazione, ma non si è
mai addentrata nei particolari per darmi la possibilità di saperne di più. La
guardo e mi viene un’idea.
«Vieni a sederti qui, sotto la lampada.»
Lei mi guarda perplessa, ma mi asseconda. Intanto frugo nei cassetti alla
ricerca della lente d’ingrandimento.
«Bene» le dico avvicinandomi, «Adesso solleva il viso e apri bene gli
occhi. Cerca di tenerli più spalancati che puoi.»
Sotto la luce le sue iridi brillano come topazi levigati. Avvicino la lente
d’ingrandimento e comincio ad annotare mentalmente le caratteristiche che
riesco a cogliere a occhio nudo. L’iride ematogena di solito evidenzia
scompensi a livello del fegato, ma non è la patologia fisica quello che mi
interessa. Il colore dorato non è uniforme, intravedo diverse segnature. Mi
concentro e tento di ricordare ciò che avevo caparbiamente rifiutato di
apprendere anni fa.
Un insieme di lacune è sintomo di una natura emozionale che tende a
disperdere energie senza alcun filtro razionale... Generalmente gli
emozionali sono vicini alla figura paterna mentre hanno un legame intenso
ma talvolta conflittuale con quella materna...
Guardando meglio scorgo una specie di vuoto di colore, microscopico,
nella parte inferiore dell’iride sinistra.
L’area dell’accudimento è quella che riflette il rapporto madrefiglio...
Una lacuna evidenzia un vuoto o una perdita subita da un ascendente che
compare come segno nei discendenti, anche dopo diverse generazioni...
Di nuovo la voce di Michel mi parla e mi guida. E se... i malesseri di
Camille fossero il risultato di una sequenza emotiva interrotta e il vero
problema risalisse a un suo ascendente?
Camille si sottopone docilmente al mio esame finché riesce a tenere
aperti gli occhi, ma la sua resistenza si esaurisce e chiude le palpebre.
«Scusami, ma non ce la faccio più.»
«Non ti preoccupare, per il momento ho visto abbastanza.»
Non è vero, ho visto abbastanza per pentirmi di non aver approfondito gli
studi quando ne ho avuto l’occasione, e provo un moto di stizza verso me
stessa.
Ricaccio indietro il magone e mi concentro su Camille. Ora è il momento
di agire.
«Perché non hai telefonato a tua madre per farti tranquillizzare, ieri
sera?»
Lei mi punta in viso due occhi smarriti e per un istante mi sembra di
vedere al suo posto una bambina indifesa.
«Perché lei non è capace di rassicurare nessuno» mi dice lentamente.
Ripenso alla mia, di madre, e al suo abbraccio il giorno del funerale.
«Eppure una madre sa sempre come consolarti, per istinto, anche se tu
non la credi capace.»
«Tu non capisci» esclama lei alzando la voce mentre le lacrime
cominciano a spuntarle negli occhi. «Lei no, non lo ha mai fatto! Per anni,
da quando ero piccola, non c’è mai stata, è sempre andata in giro per il
mondo a riscuotere successi senza preoccuparsi di me, e ogni volta che
tornava a casa i discorsi erano sempre gli stessi: gli applausi, i complimenti
che aveva ricevuto. E mi portava un sacco di regali inutili e mi chiedeva
sempre e soltanto se la scuola andava bene e se prendevo buoni voti.»
«E adesso mi telefona e mi dice che è a Parigi e ci resterà per un pezzo
visto che l’Opéra le ha fatto un contratto per cinque anni! Che cosa si
aspetta? Che la accolga a braccia aperte e cancelli il passato con un colpo di
spugna? Troppo comodo.»
Ormai il suo pianto è irrefrenabile, ma almeno la rabbia e l’amarezza che
covava sono finalmente esplose e la sua emotività esasperata è uscita allo
scoperto. La lascio sfogare finché ne ha voglia, senza metterle fretta, e
intanto un pensiero si affaccia alla mia mente. Io posso aiutarla. Con le
conoscenze adeguate.
E se Camille mi offrisse l’opportunità di riannodare i fili spezzati?
A poco a poco il pianto si quieta e la mia amica ricomincia a respirare
normalmente.
«Meglio?» le chiedo.
«Sì. Scusami, di solito non faccio certe scenate, è che hai toccato un tasto
dolente... Adesso me lo dai un fiore che mi faccia passare la malinconia?»
conclude con un mezzo sorriso.
«Io penso che per il momento andrà bene una tisana rilassante, poi ti
preparerò di nuovo i fiori che ti avevo già dato e che immagino tu abbia
finito. Ma non credo che per il tuo problema bastino solo i Fiori di Bach...
non voglio fare la psicologa della domenica, Camille, ma credo che dovresti
comunque parlare con tua madre, darle una possibilità: potrebbe
sorprenderti. Poi, se vorrai, proveremo a sciogliere insieme questo nodo.
Quando sarai pronta.»
E soprattutto quando sarò pronta io.
«Okay, per il momento accetto la tua tisana. Per i consigli, vedremo.
Adesso ho voglia di distrarmi e non pensarci più. Che ne dici di cenare fuori
stasera?»
Trattengo un sorriso. È passata dal pianto dirotto alle cene fuori senza
fare una piega. Se non è un’emozionale lei, non so proprio chi possa
esserlo.
«Uhm, non so. Posso dirtelo più tardi? Oggi sono un po’ stanca.» Mi alzo
per prepararle la tisana.
«Oh, andiamo, non farti pregare. Ti sei già riposata ieri sera, o sbaglio?»
Rimango per un attimo con il bollitore in mano.
«Ehm. Veramente no...»
«In che senso?»
Metto giù il bollitore e mi volto verso di lei.
«Nel senso che ieri sera sono uscita. Scusa, avrei dovuto dirtelo, ma
pensavo che ti saresti offesa.»
«No che non mi sarei offesa, però mi offendo adesso se non dici cos’hai
trovato di meglio della mia megafesta» mi dice imbronciata.
«Sono uscita con Romain. Hai presente...?»
Lei aggrotta la fronte e poi un lampo le illumina gli occhi. «Romain il
barista? Quel figo spaziale? WOW! Che colpaccio! Hai capito la piccola
Viola» esclama con un sorriso che le va da un orecchio all’altro... «e
quindi? Dove siete andati? Che avete fatto?» Il suo sguardo malizioso e
pieno di curiosità è quasi più imbarazzante del ricordo della serata.
«Ma niente, cioè, lui aveva vinto una scommessa, io dovevo dimostrargli
che sapevo cucinare, poi in realtà ho fatto una schifezza, e allora ho perso
e...»
Accidenti!
Camille mi scocca un’occhiata beffarda. «Forza, sorella, piantala di
balbettare e sputa il rospo. E racconta anche i particolari. Perché lo so che
c’è qualcosa da raccontare, altrimenti perché mi avresti detto una bugia?»
«Okay, okay, te la faccio breve. Avevamo fatto una scommessa, lui ha
vinto e come premio ha preteso che gli cucinassi un piatto italiano. Ieri
pomeriggio è venuto a chiedermi di pagare pegno, così siamo usciti. Prima
abbiamo preso un aperitivo e poi mi ha portata all’Hairy Biker e mi ha
messo a disposizione la cucina.»
Camille beve le mie parole con un’espressione estatica. «Furbo, il
ragazzo. Il locale vuoto, la notte che vi circonda. Magari avrà tirato fuori un
vino di quelli buoni. Molto romantico. E poi?»
«E poi ha tirato fuori un vino di quelli buoni e tra un bicchiere e l’altro ci
siamo baciati. Contenta?» le rispondo per le rime con un po’ di fastidio.
«Fantastico! E come bacia? Ci sa fare? Hai dormito da lui o siete andati
in un albergo?»
Per poco non mi strozzo con un sorso di tisana. I miei occhi sgranati
devono dirle qualcosa perché sbuffa e mi guarda con commiserazione.
«Oddio, Viola, non dirmi che non hai concluso niente?!»
Perché ho l’impressione che tutto il mondo giri in una direzione e
soltanto io mi dibatta per andare controcorrente?
«No, non ho concluso niente, anzi se lo vuoi sapere me la sono data a
gambe.»
«Ma no! E perché?»
Il suo sguardo desolato mi strappa una risata. Sembra una bimba a cui
hanno sottratto l’orso di peluche.
«Perché non era il caso, credimi. Non ho alcuna intenzione di
impegolarmi in una storia. Non posso, è troppo complicato.»
«Viola, ma ti ascolti quando parli? “Storia”, “impegolarsi”, “complicato”,
ma chi ha parlato di una storia? Poteva essere una serata eccitante, un po’ di
divertimento non ha mai fatto male a nessuno. Non mi diventare lo
stereotipo dell’italiana moralista, ti prego! Romain ti piace, mi sembra
evidente, altrimenti non staremmo qui a parlarne e tu non ti faresti tanti
problemi. E allora, cosa c’è di strano?»
Già, cosa c’è di strano? C’è di strano che quel bacio mi ha rimescolato il
sangue, che lui è un perfetto sconosciuto, che potrebbe avere mille storie
oltre me, ma soprattutto che il pensiero di Michel e di come mi guarderebbe
mi fa tremare i polsi. Ma ancora non ho voglia di spiegare.
«Lascia stare, Camille, semplicemente non ce la faccio. Punto.» E con
questo chiudo la comunicazione.
Lei mi osserva pensierosa e sorseggia la sua tisana. Deve farle effetto
perché per qualche minuto gli unici suoni udibili sono i tramestii e le voci
che provengono dal negozio. Gisèle alle prese con i clienti, immagino.
«Va bene» dice alla fine in tono serio. «Non insisterò più, ma vorrei dirti
una cosa. Non pensare che io sia una sciocchina superficiale che non
comprende quello che ti passa per la testa. So che hai perso tuo marito e che
il dolore ti tormenta ancora, ma la vita scorre e prima o poi anche tu dovrai
voltare pagina. Non precluderti la possibilità di essere felice.»
E l’eco delle parole di Gisèle mi risuona nella mente.
Camille finisce di bere la sua tisana e si alza per andarsene. Non so se è
l’effetto della bevanda, della visita o delle chiacchiere, ma sembra tornata la
ragazza radiosa di sempre.
«Bon, c’è un’altra cosa più importante di cui volevo parlarti. Fra una
decina di giorni è il mio compleanno, ne compio trenta e vorrei organizzare
una festa di quelle che non si dimenticano. Penso di potermi far prestare la
casa di mia zia, quella in Provenza. Che ne dici di un weekend di musica,
cibo, vino e follia? Al diavolo i pensieri, le tristezze, le madri e i Romain.
Solo puro e sano divertimento. Sei con me?» mi chiede con un sorriso
irresistibile.
«Con un programma così allettante come potrei dirti di no?»
«Oh, grazie tesoro! Così mi piaci. Ci sentiamo presto.»
Mi scocca un bacio sulla guancia e se ne va richiudendosi la porta alle
spalle. Accolgo l’improvviso silenzio con piacere. Non so quanto tempo
siamo rimaste qua dentro, mi sembra un’eternità e forse dovrei affrettarmi a
raggiungere Gisèle e darle una mano, ma mi prendo ancora qualche minuto
per pensare in santa pace. Non riesco a dare un nome alle sensazioni che
provo, ma mi sembra che tutte cospirino per mandarmi lo stesso messaggio:
salda i debiti con il passato, affronta i fantasmi e le paure. Lentamente, un
sorriso distende le mie labbra. Ora so da dove cominciare, è sempre stato lì
e io non me ne sono accorta. Ma prima devo mettermi al lavoro. Apro lo
scrigno delle meraviglie e comincio a prendere l’occorrente. Quello che
voglio creare richiede tempo e concentrazione.
SCHEDA IRIDOLOGICA
Tipo Emozionale, detto anche Fiore.
Iride: è caratterizzata dalla presenza di lacune: la trama del colore appare
diradata, perforata da buchi simili a petali di un fiore che interrompono la
compattezza del tessuto cromatico dell’occhio. Non è importante il numero
delle lacune, è sufficiente anche un solo petalo per identificare l’iride di un
Fiore. Tuttavia più le lacune sono numerose e arrotondate, più l’indole del
Fiore tenderà alla spontaneità.
Personalità: sensibile, emotivo, tendente al cambiamento. Grande
empatia ed entusiasmo verso la vita. Si esprime preferibilmente con gesti
ampi e linguaggio figurato. Apprende al meglio tramite l’ascolto.
Carattere: socievole, gioioso, mutevole, spesso il suo slancio rischia di
farlo diventare incostante.
Paure: solitudine, abbandono. Vive un rapporto conflittuale con la madre
mentre cerca vicinanza con il padre che però, spesso, è distante.
Attrazione: tipo Mentale.
Entro nel negozio, Gisèle è sola. Mi guarda, sorridendo, ma la mia
espressione deve comunicarle qualcosa perché aggrotta la fronte mentre il
suo sorriso si spegne.
«Va tutto bene?» mi chiede.
Prendo un respiro e mi siedo accanto a lei. «Devo dirti una cosa, Gisèle.
Io voglio riprendere da dove ho lasciato, voglio ricominciare a studiare e
portare avanti il lavoro di Michel. Anche lui l’avrebbe voluto e forse così...»
Non riesco a continuare.
«Forse così ti sentirai in pace con te stessa» conclude Gisèle per me.
«Sì.»
Lei non mi risponde, ma d’un tratto sul celeste dei suoi occhi scende un
velo di preoccupazione. «Questo significa che tornerai a Roma?» mi chiede
lentamente.
La guardo e vorrei rassicurarla, ma prima devo essere sicura di me stessa.
«Sì» rispondo con decisione. «Ascolta» continuo, «io non voglio mandare
all’aria tutto quello che ho costruito finora e non voglio lasciare te. Però
devo affrontare questo nodo, altrimenti mi sentirò sempre incompleta.»
Intuisco che Gisèle teme che l’abbandoni un’altra volta, proprio quando
lei ha cominciato a fare affidamento su di me, perciò metto subito in chiaro
che si tratterà di un viaggio di pochi giorni. Però a un certo punto mi guarda
dritta negli occhi e mi prende la mano. «Va bene, tesoro. Sei cambiata molto
da quando sei arrivata qui e anch’io credo che sia arrivato il momento di
chiudere le cose lasciate in sospeso. Ma promettimi che, qualsiasi sarà la tua
decisione, non agirai d’impulso. Come ti ho già detto, è arrivato il momento
di fermarsi. Anche per te.» Mi stringe la mano con affetto. «Hai...
intenzione di dirlo a Romain?»
Sapevo che me lo avrebbe chiesto. Ho passato le ultime due ore a
scegliere con cura la mia risposta. «No, non me la sento di vederlo dopo
quello che è successo. Però... vorrei che tu gli dessi questo da parte mia.»
Le porgo un pacchetto avvolto in carta azzurra. Gisèle lo guarda incuriosita,
poi lo apre e compare una piccola candela di cera vergine che sprigiona un
intenso profumo floreale. Le note avvolgenti dell’ylang-ylang esplodono
subito, dopo di loro il dolce aroma della vaniglia e sul fondo il sentore caldo
della mirra. La mia amica annusa la candela. «Mmm... sensualità...
dolcezza... costanza...» mormora da esperta qual è. Poi mi lancia
un’occhiata birichina. «Tesoro, non so quanto Romain sarà in grado di
capire il messaggio, ma sono certa che un profumo del genere non lo lascerà
indifferente.»
«È quello che credo anch’io» le dico.
E in cuor mio lo spero tanto.
PARTE SECONDA
1
L’aeroporto di Fiumicino mi accoglie con il solito caos disordinato che lo
contraddistingue. La parlata romana che sento riecheggiare ovunque mi fa
ripiombare immediatamente in un’atmosfera familiare che avevo
dimenticato, ma adesso mi accorgo di averne sentito la mancanza.
I preparativi per il viaggio hanno richiesto poche ore, ho fatto una valigia
essenziale proprio per dire a me stessa e a Gisèle che non stavo scappando,
che quel viaggio sarebbe stato soltanto una sosta.
Esco dal passaggio degli arrivi e, fra gli anonimi volti in attesa, scorgo
quello noto di Yvette. Ci siamo sentite ieri sera, l’ho avvertita della mia
rimpatriata e lei si è offerta di venire a prendermi.
«Ciao, tesoro.» Mi abbraccia e mi stampa un bacio sulla guancia. È un
po’ che non la vedo, anche se so per certo che è al corrente di quasi tutto ciò
che mi riguarda tramite sua sorella. «Come stai? Sono contenta di
rivederti.»
«Anch’io, tanto» le rispondo con sincerità. Soltanto adesso, con uno stato
d’animo alleggerito, comprendo e apprezzo il suo affetto e posso
rammaricarmi di essere stata tanto respingente con lei nel momento del
dolore.
Andiamo a prendere la macchina e l’impatto con l’afa opprimente
dell’estate romana mi toglie il respiro. È passato poco più di un mese da
quando sono partita eppure mi sembra di essere stata assente per una vita
intera tanto è cambiato il mio sguardo sul mondo che mi circonda. Il
viaggio che mi riporta a casa mi consente di riappropriarmi della mia città e
di prepararmi al fatto che tra poco entrerò di nuovo nell’appartamento da
cui sono fuggita. Yvette guida in silenzio, non sono necessarie troppe parole
fra di noi, ho la sensazione che intuisca i miei pensieri. Attraversiamo corso
Trieste ed entriamo nel quartiere Coppedé, dove in un certo senso è
racchiusa quasi tutta la mia storia. La casa dei miei genitori, lo studio Ferri
e l’appartamento mio e di Michel distano infatti pochi isolati gli uni dagli
altri. Un vago senso di disagio si impadronisce di me mentre ci avviciniamo
alla meta.
«Hai avvertito i tuoi?» mi chiede Yvette.
«No» le rispondo.
«Come mai?»
«Sinceramente non me la sento. Non adesso almeno.»
Siamo arrivate davanti al cancello, Yvette parcheggia e spegne il motore,
poi si gira verso di me. Mi osserva per un istante, come se esitasse a dirmi
quello che pensa. «Sai, Viola... non pensare che voglia farti la paternale, ma
sono vecchia e ho vissuto abbastanza per arrivare a certe conclusioni. Io
credo... credo che nella vita arrivi un momento in cui è necessario e sano
sbarazzarsi dei rancori e perdonare. O almeno cercare di capire.»
Rifletto in silenzio prima di risponderle. Arrivata a questo punto, il
confine fra incomprensione e rancore mi appare sottile e sfocato. Tutto
quello che è accaduto, i troppi silenzi, i rifiuti anche reciproci, mi sembra
che abbiano eretto un muro che non ho la forza di scavalcare. «Non ci
siamo mai capiti, Yvette. Io ho tentato più volte, ma non sono mai approdata
a niente e adesso... ho altre cose di cui occuparmi» mormoro, con un po’
d’amarezza.
«Io credo che il problema è che nessuno di voi ha mai guardato
veramente gli altri. A un certo punto vi siete arroccati sulle vostre posizioni
e avete smesso di comunicare. Non dico che sia colpa tua, però... ora sei tu
ad aver bisogno di loro, Viola. Le radici sono importanti, sono la nostra
forza, non puoi pensare di farne a meno solo per orgoglio, faresti del male a
te stessa.» Mi sorride. «Fine della paternale. Ma mi prometti che ci
penserai?»
Le sorrido anch’io mentre mi slaccio la cintura e apro lo sportello. «Te lo
prometto.»
«Vuoi che venga su con te?» mi chiede.
Per un istante sono tentata di dirle di sì, poi ci ripenso. «No, grazie.
Questa è una cosa che devo affrontare da sola.»
«Va bene, tesoro. Quando vuoi, sai che io ci sono.»
Scendo e guardo la macchina andare via finché non scompare dietro la
curva.
Apro la porta di casa ed entro. È buio e fresco, ma d’un tratto sembra che
tutto il mio coraggio mi abbia abbandonata e quasi ho paura di muovere un
passo dentro questo ambiente che sento estraneo. Credo che le pareti di una
casa riescano ad assorbire le energie che si sono sprigionate al loro interno,
infatti a ogni passo provo una sensazione opprimente. Lascio la valigia
all’ingresso e vado in salotto per aprire le finestre, ho bisogno di luce. La
distanza aveva attenuato le emozioni più acute, ma adesso mi sembra di
essere tornata al punto di partenza. Ogni oggetto, ogni parete, ogni
frammento di questa casa è una fonte di rinnovata sofferenza. Eppure devo
farmi forza, perché quello che cerco si trova nella stanza che più di tutte ha
conservato la presenza di Michel.
La luce del sole inonda il salotto, mi guardo intorno e ritrovo il metodico
caos che ho creato prima di andar via. Il divano-letto è aperto e pronto. Il
tavolo e le sedie sono accostati alla parete per lasciare spazio alle scatole
piene di vestiti e scarpe che mi sono servite da armadio e che troneggiano al
centro della sala. Mi faccio forza e passo alla cucina, l’unico altro ambiente
che ho vissuto senza mio marito. Tiro su la serranda e apro la portafinestra,
soffermandomi a osservare il balcone. Le piante sono ormai ridotte a sterpi
che spuntano tristi dai vasi. La cucina è ordinata come può esserlo uno
spazio senz’anima, mancano le tracce di un passaggio umano. È normale,
ma adesso sento la solitudine di questo posto che mi stringe alla gola come
un cappio. Il tempo trascorso lontano sembra non essere mai esistito, il
fragile equilibrio che credevo di aver raggiunto scompare, mentre
sensazioni contrastanti si agitano dentro di me: voglia di fuggire e desiderio
di piangere, urlare, come se potessi svegliarmi e tornare indietro, come se
niente fosse mai accaduto. Appoggio la fronte al vetro della finestra, respiro
a fondo e cerco di ritrovare il mio centro. Sono venuta qui con uno scopo
ben preciso, non devo lasciare che le emozioni vanifichino tutti i passi che
ho compiuto finora.
C’è un solo modo per farlo.
La porta dello studio è chiusa a chiave, la chiave ancora nella serratura.
Con uno sforzo, la giro ed entro. Mi fermo un istante sulla soglia della
camera buia, aspiro l’odore di carta e polvere che aleggia nell’aria e tento di
scacciare le immagini note che mi sfiorano la mente. Vado ad aprire
l’ennesima finestra e soltanto quando ogni angolo viene spazzato dalla luce
mi permetto di guardarmi intorno. Non sono più entrata qui dentro dal
giorno del funerale e mi fa uno strano effetto accorgermi che l’immobilità
cristallizzata degli oggetti mi comunica un inaspettato senso di calma. È
tutto qui sopra: quaderni, carte, appunti, strumenti. L’essenza stessa di
Michel è dispiegata tutta intorno a me. È rimasta nelle cose, che mi parlano
anche se lui è andato via ormai da tempo, e sento che basterà accostarmi a
esse per ritrovarlo. Chiudo gli occhi e mi sembra di vederlo seduto al
tavolo, intento a scrivere. Allungo una mano per sfiorargli una spalla e
quando tocco il vuoto riapro gli occhi, sorprendentemente asciutti. Non
provo dolore. Lui è qui con me, mi sorride, mi incoraggia, mi sostiene come
ha sempre fatto.
Non sono sola.
Sorrido anch’io.
Mi avvicino alla scrivania e comincio a cercare fra i quaderni, i libri e i
fogli ordinatamente appoggiati su di essa. Ho bene in mente ciò che mi
interessa, infatti lascio da parte tutti gli studi sull’iridologia classica, legata
alle patologie fisiche, e mi concentro sul resto. Alla fine le trovo. Le mappe
iridologiche, disegni schematici delle iridi suddivise secondo le aree
emotive e psicologiche che le compongono.
Iride destra, maschile – linea ereditaria paterna; iride sinistra, femminile –
linea ereditaria materna.
In queste aree è racchiusa la chiave interpretativa delle segnature,
macchie e lacune, che rappresentano altrettanti preziosi indizi da studiare.
Dissi a Michel che si era spinto troppo avanti con le sue teorie e lo
guardai con un certo sospetto e non poca diffidenza, ma adesso mi rendo
conto che la mia cecità mi ha semplicemente precluso l’accesso a un sapere
importante.
Tipo emozionale, detto anche “Fiore”... Tipo mentale o “Gioiello”...
predominanza di macchie e pigmenti... Tipo kinestetico detto “Flusso”...
individui empatici e sensibili...
Mi siedo alla scrivania e comincio a leggere con avidità, una riga dopo
l’altra.
... L’universo emotivo è racchiuso negli occhi, l’iride è la porta d’ingresso
a un mondo interiore complesso in cui interagiscono dinamiche mentali e
caratteriali, ma anche disagi profondi o potenzialità inespresse. Gli occhi
non mentono, attingono dalle profondità del nostro essere verità tanto
silenziose, quanto potenti e il compito dell’iridologo è interpretarne il
messaggio per cercare la cura naturale più adeguata, in una visione olistica
del paziente che abbia come scopo il suo benessere fisico, psicologico e
mentale...
Resto seduta a studiare senza accorgermi del tempo che passa. Ogni
parola mi restituisce il senso del lavoro di Michel e la sua passione. Ogni
pagina sembra riannodare un filo che pensavo ormai spezzato, rinnovare un
contatto con lui, ma sereno questa volta, e privo della sofferenza che mi ha
angosciata per tanti mesi. Perché la sensazione che provo è simile alla gioia,
ed è talmente incredibile che non oso darle questo nome per timore che
svanisca. È come se d’un tratto mi sentissi libera, piena di energie, pronta a
ricominciare.
Il caso della signora Elisabetta M.
Lacuna circa a ore nove dell’iride destra, quindi l’iride che riguarda la
linea maschile. Area della mappa denominata “Forza dell’Anima –
Sostegno”. Elisabetta M., anni 30, ha perso il padre in età adolescenziale.
Anche il padre a sua volta ha sofferto per la perdita del proprio padre in età
infantile. Tali vuoti traumatici subiti nella linea di discendenza maschile
provocano conseguenze importanti nel modo di vivere la relazione affettiva.
Rispetto alle relazioni che intreccia, Elisabetta M. è ossessionata da due
sensazioni dominanti: la paura di perdere il proprio compagno e
l’idealizzazione del padre, che nel suo immaginario era diventato la persona
migliore del mondo. Il trauma della perdita e la necessità di riempire un
vuoto incolmabile indirizzano la paziente verso la scelta di relazioni
squilibrate che potrebbero essere incompatibili con la formazione di un
sistema familiare sano. La lacuna così netta evidenzia una sequenza
emotiva irrisolta dovuta a una paura appartenente alla generazione
precedente...
Alzo la testa e chiudo l’ennesimo quaderno. Pagine su pagine. Mi aveva
detto la verità, centinaia di casi studiati e classificati ognuno dei quali
rappresenta un modello di riferimento. Do un’occhiata alla pila di appunti
ancora da aprire, ma non sono stanca, non sento fatica, né fame, né sete. La
voglia di riuscire e di conoscere è la linfa che nutre la mia energia. Mi
raddrizzo sulla sedia e prendo un altro quaderno...
Le ombre oblique proiettate sul pavimento mi dicono che sono trascorse
ore di cui ho perso il conto, immersa nella lettura. Mi alzo per sgranchirmi
un po’, metto da parte le mappe, i libri e gli appunti che porterò con me e do
un’altra occhiata in giro per scegliere il resto del materiale da mettere in
valigia. Sul tavolo è appoggiata anche la grossa macchina fotografica
appositamente studiata per fotografare le iridi senza provocare danni. È
l’ultima tessera del mio puzzle, quella essenziale. La afferro e sotto di essa
scorgo un quaderno spesso, rilegato in pelle verde. Lo riconosco e resto a
fissarlo ipnotizzata.
È il diario di Michel.
Metto giù la macchina fotografica e lo prendo, con una certa soggezione.
Ho sempre saputo della sua esistenza, Michel mi diceva che gli serviva
spesso per annotare le sue visite e rivederle con calma, ma non mi ci sono
mai avvicinata, non ero curiosa, né sospettavo vi si nascondessero dei
segreti. Lo rigiro fra le mani, incerta se aprirlo o no. Mi sembra di violare
l’intimità di mio marito, come se lo stessi sbirciando dal buco di una
serratura. Poi mi decido, vado in salotto e mi sdraio sul divano letto con il
diario in mano. È un momento privato, siamo io e lui, stretti l’una all’altro
come un tempo, vicini come siamo sempre stati. Apro il quaderno con
delicatezza, su una pagina a caso, e riconosco la sua calligrafia ordinata e
minuta, righe fitte di pensieri e racconti. Accarezzo lentamente la carta con
un dito, sento i solchi leggeri lasciati dalla penna e i miei occhi si riempiono
di lacrime. Quanto è ancora forte la sua presenza dentro di me, quanto
grande il rammarico per le parole non dette, per il tempo negato. Sfoglio il
diario una pagina dopo l’altra senza leggervi quasi niente, o forse cercando
inconsciamente qualcosa che allevi la mia pena. Fra le parole che mi
arrivano sfocate dalle lacrime, ne scorgo una che si impone alla mia
attenzione. Il mio nome, al centro di una pagina.
... Oggi sono finalmente riuscito a convincere Viola a farsi fotografare gli
occhi, ma non credo che servirà a qualcosa. È parecchio tempo che ci
provo, ma lei si è sempre opposta, dice che le sembra una perdita di tempo e
che tanto non è interessata a conoscere i risultati del mio studio. Mi dispiace
moltissimo che sia così ostinata, ma capisco che il suo rifiuto è
inscindibilmente legato alla rabbia e al senso di colpa che ancora prova
verso suo padre. Ho tentato di convincerla a fare il primo passo, le ho anche
detto che se non supera il suo rancore non diventerà mai una brava
naturopata, perché le sue scelte saranno sempre viziate da uno stato d’animo
non sereno, ma lei non mi ascolta. Abbiamo avuto una brutta lite per questo,
credo che sia la prima volta. Mi dispiace tanto di averla turbata, non
insisterò più.
Ricordo perfettamente quel giorno. Mi piacerebbe, adesso, che sapesse
che sono cambiata, cresciuta. Mi asciugo gli occhi e volto pagina.
... Sto studiando la foto delle iridi di Viola, ma c’è qualcosa di strano.
Nell’iride destra, quella che riguarda le relazioni con la parte maschile, è
ben visibile un pigmento. Questa macchia si è formata nel tempo, non è
genetica come può esserlo una lacuna, ed è stata prodotta dall’elaborazione
personale del rapporto con un individuo della linea maschile della cerchia
familiare. È Viola che l’ha prodotta, perché percepisce così il suo rapporto
con questo individuo. Quello che mi lascia perplesso è che si trova nell’area
dell’iride che mette in evidenza il collegamento profondo con la famiglia e
quindi con le radici.
Nel caso di Viola un pigmento tanto evidente in quest’area marca una
frattura, qualcosa di irrisolto con un uomo della famiglia, quindi con suo
padre, visto che non ha fratelli, né zii, né nonni, qualcosa di distorto nella
sua percezione del rapporto con lui. Un trauma da abbandono, forse?
Eppure non mi risulta che sia mai accaduto. Quanto vorrei poterne parlare
con Viola. Se lei avesse il coraggio di riconoscere le sue radici, riuscirebbe
a costruirsi un cammino di vita indipendente, libero dalle paure e dai sensi
di colpa. Se solo lo volesse...
Rileggo queste poche righe più volte, senza capirle fino in fondo. Un
abbandono? Mio padre non mi ha mai abbandonata fisicamente. So solo che
a un certo punto ho cominciato a sentirmi poco amata da lui, non accettata,
mentre io, da parte mia, provavo un confuso senso di non appartenenza a
quello che lui mi trasmetteva. Ma non sono mai riuscita a capire la ragione
di questo cambiamento. Sfoglio ancora il diario sperando di trovare
dell’altro, altre spiegazioni, magari una risposta, ma mentre giro le pagine a
caso, trovo una piccola busta bianca da lettera, sigillata. La prendo in mano,
dentro c’è un biglietto. Di colpo, la curiosità prende il sopravvento su ogni
cosa. Una parte di me vorrebbe aprirla subito, l’altra sente lo sguardo di
Michel, carico di rimprovero dietro le spalle. Una lettera mai spedita?
Perché? E destinata a chi, poi? Sarebbe un peccato mortale se io ora
l’aprissi? Magari leggo soltanto le prime righe e se mi accorgo che non
devo andare avanti la richiudo... Chiedo mentalmente perdono a Michel e
apro con delicatezza i lembi incollati. Tiro fuori un foglio piegato in
quattro, lo spiego e i miei scrupoli scompaiono in un istante.
Perché la lettera è indirizzata a me.
Mia amatissima Viola,
sono giorni che cerco di scriverti questa lettera, giorni che guardo questo
pezzo di carta senza riuscire a decidermi e con la segreta certezza che non
avrò mai il coraggio di dartela. Perché come posso pensare, amore mio, di
essere proprio io a darti un dolore così grande? Come posso dirti che il
nostro meraviglioso tempo insieme è quasi arrivato al termine? Ti vedo
accanto a me ogni giorno, e non mi stanco di guardarti, anzi osservo i tuoi
occhi, i tuoi sorrisi, i tuoi bellissimi capelli, i movimenti delle tue mani per
appropriarmi di tutta te stessa, di ogni cellula del tuo corpo per poterla
portare con me fino all’ultimo istante. Ti vedo accanto a me ogni giorno e
non trovo la forza di parlarti, spiegarti, forse prepararti a quello che accadrà.
Perdonami, amore, forse sono un vigliacco, un egoista, ma non voglio che il
tempo che ci resta sia avvelenato da questa maledetta malattia. Voglio
lasciarti di me un ricordo che sia la tua forza, non la tua disperazione. E ti
dico questo perché so già da tempo che non ho speranze e già da tempo ho
deciso di non lottare. Io non ho paura, Viola, la morte è un passaggio e la
mia esistenza è stata colma di felicità. L’unico mio rimpianto sarà lasciare
te, il mio grande amore, la donna che ha riempito la mia vita e l’ha resa un
perenne paradiso.
Voglio dirti grazie, amore mio, per tutti questi anni che mi hai regalato,
per avermi scelto e avermi fatto entrare nel tuo mondo. Tu mi hai reso una
persona migliore con il tuo amore, la tua gioia di vivere, la tua curiosità e il
tuo slancio verso la vita. Vorrei poter dire di aver fatto altrettanto con te,
non so se ci sono riuscito, non so se sono stato all’altezza, ma posso dirti
che per me sei sempre stata l’unica, la mia compagna amatissima, la mia
amante meravigliosa, la mia migliore amica. Niente aveva sapore se non
potevo condividerlo con te e vorrei poterti lasciare qualcosa di più di queste
parole che, mentre scrivo, mi sembrano insignificanti. Provo a immaginarti
dopo, nella nostra casa, da sola e mi si stringe il cuore al pensiero del dolore
che proverai. Ma io so che sei una donna forte, so che le tue risorse sono
grandi e profonde, so che il tuo lavoro, il nostro lavoro, è sempre stato per
te una ragione di vita, un mezzo per superare paure e difficoltà. Non
lasciarlo andare, amore, fai che diventi la tua forza, fai che tutto quello che
abbiamo costruito insieme sia un motivo per te di continuare a vivere. Ti
prego, amore mio, ti prego.
Ora mi trema la mano, sono arrivato quasi in fondo a questa lettera e mi
sembra di non aver detto le cose più importanti. Io spero soltanto di essere
riuscito a farti arrivare tutto l’immenso amore che provo per te e proprio in
nome di questo amore voglio farti una richiesta, una sola.
Non rinunciare alla vita per colpa mia, Viola, sarebbe per me un dolore
infinito. Vivi, ama, con tutta la passione di cui ti so capace e sappi che io
sarò sempre con te, nascosto in un angolo del tuo cuore.
Sempre e per sempre tuo
Michel
Le lacrime scendono copiose sulle mie guance e io non faccio niente per
fermarle mentre mi accorgo di aver trattenuto il respiro fino all’ultima riga.
Un dolore lancinante mi azzanna lo stomaco e si trasforma in un urlo,
straziato, inumano, infinito, che mi svuota i polmoni. Piango, piango
disperatamente raggomitolata sul letto, stringendomi al petto la lettera e il
diario, cullandoli come creature vive. Non oppongo resistenza, lascio che
l’amarezza e il dolore diventino parte di me, voglio abbracciare il mio lutto,
disperarmi fino a perdere le forze, finché l’ultima stilla di sofferenza non
sarà consumata.
Soltanto alla fine, quando le lacrime smettono di scendere da sole e i
singhiozzi si riducono a un respiro arrochito, trovo il coraggio di staccarmi
dalla lettera e guardarla ancora una volta.
Mi faccio forza e la rileggo, lentamente, per assorbire parola per parola.
Michel mi sta parlando, è qui con me e mentre mi tiene la mano mi
spoglia finalmente del mio fardello di colpa. Riesco a sentirlo, avverto tutto
il suo amore che mi avvolge e mi protegge, mi dà forza e mi spinge ad
andare avanti, anche senza di lui. E d’un tratto la lettera assume un gusto
dolceamaro, quello di un addio e insieme di una liberazione, di una morte
che porta con sé una rinascita, la mia.
Accarezzo la lettera prima di ripiegarla con cura e riporla fra le pagine
del diario. Alzo gli occhi e mi accorgo che la stanza è invasa dalle ombre
lunghe che preannunciano il tramonto.
Chiudo il diario di Michel e lo riporto nello studio, sopra la sua scrivania.
Finalmente, posso lasciarlo andare.
2
Schiudo le palpebre nel momento in cui avverto il tepore del sole sulla
pelle. Qualche istante di disorientamento accompagna il mio risveglio. Non
riconosco immediatamente la stanza in cui mi trovo e il mio cervello fatica
a dare un nome alle immagini che mi vedo intorno. Poi, come un lampo,
arriva la consapevolezza e, con lei, i ricordi. Apro gli occhi, ormai sveglia,
ma rimango sdraiata sul divano-letto a fissare il soffitto. Non ho voglia di
alzarmi, non ancora. Un mal di testa latente, frutto di un sonno agitato e
frammentario, minaccia di esplodere in una vera emicrania. Ma oggi non
posso concedermi il lusso di oziare, domani mattina presto ho l’aereo per
Parigi e ho molto da fare prima del rientro.
Istintivamente entro in cucina con l’intenzione di farmi un caffè, ma poi
mi ricordo che ieri non ho pensato a fare la spesa per cui frigo e dispensa
sono desolatamente vuoti. Okay, cambio programma: doccia veloce e
colazione al bar. Vado a ripescare il beauty-case dalla valigia, entro in
bagno e apro il rubinetto dell’acqua calda per farmi una doccia. Mentre
l’acqua si scalda mi lavo i denti e quando alzo lo sguardo allo specchio
quasi non mi riconosco. Gli occhi sono gonfi e arrossati, il viso stanco e
segnato dalle grinze del cuscino, i capelli arruffati e crespi. Resto con lo
spazzolino a mezz’aria a fissare quell’immagine devastata.
... Non mi stanco di guardarti... osservo i tuoi occhi, i tuoi sorrisi, i tuoi
bellissimi capelli...
Che fine ha fatto la donna riflessa in quelle parole? E se Michel mi
vedesse ora, che cosa penserebbe di me?
Mi passo una mano sul collo, ripensando alla sua lettera. Continuare a
vivere non significa trascinarsi nell’esistenza per inerzia, come un sacco
vuoto. Vivere, amare, non è possibile se non si comincia da se stessi. Ho
compiuto un primo passo tornando qui e decidendo di riappropriarmi del
mio lavoro, ora devo fare il secondo, forse quello più importante.
In cinque minuti mi vesto e sono fuori casa. Qui vicino ci sono un paio di
negozi in cui troverò quello che mi serve, dopo aver fatto colazione,
ovviamente. Il primo è un’erboristeria. Certo, non è paragonabile alla
bottega di Gisèle, ma vende comunque prodotti di buona qualità. Sorrido
alla commessa che mi dà il buongiorno, poi prendo il mio cestino e
comincio a riempirlo. Burro di karité, olio di argan, olio di cocco, semi di
lino scuri, olio essenziale di vaniglia e di arancio dolce, zucchero grezzo di
canna e miele vergine d’acacia. La sola idea delle preparazioni che farò mi
riempie di gioia. Alla fine aggiungo anche un bagnoschiuma biologico
costosissimo, ma dall’inebriante profumo di ylang-ylang. Arrivo alla cassa
e il conto mi fa vacillare un po’. Fra aereo e acquisti ho pesantemente
intaccato il primo stipendio che mi ha dato Gisèle. Spero di riuscire a
coprire anche l’importo della seconda tappa.
In vetrina sono esposti pochi capi, tutti rigorosamente in tessuto naturale:
cotone, lino, canapa, nei colori rubati a cielo e terra, fiori e mare. Mi è
sempre piaciuto questo negozio, persino Michel sapeva che se voleva farmi
un regalo a colpo sicuro doveva venire qui. Mi fermo a guardare e rimango
ammaliata da un leggero abitino di cotone color lavanda, lungo poco sopra
il ginocchio, con spalline sottili e scollo a V, molto semplice ma ingentilito
da un piccolo volant che rifinisce l’orlo. Entro nel negozio e chiedo di
provarlo, per poi pentirmene non appena lo indosso. Il vestito nuovo non fa
che accentuare la trascuratezza che i miei vecchi abiti riuscivano a
dissimulare. Se voglio acquistarlo sarà meglio che faccia uno sforzo
d’immaginazione.
Nel giro di un’ora torno a casa carica di acquisti e buoni propositi.
Procedo con metodo. Prima applico un impacco di olio di cocco sui capelli
per ammorbidirli e prepararli al lavaggio. Intanto, in un pentolino, metto a
bagno un cucchiaio di semi di lino in due dita d’acqua e lascio riposare il
tutto. Il burro di karité, l’olio di argan e l’olio essenziale di vaniglia mi
servono invece per preparare una crema profumata per il corpo. Sciolgo olio
di argan e burro di karité a bagnomaria mescolandoli finché non diventano
un composto omogeneo, quindi aggiungo due gocce di olio essenziale di
vaniglia, poi lo lascio raffreddare a temperatura ambiente. Una volta avviate
tutte le preparazioni, vado nello studio per prendere le ultime cose da
portare via.
Entro con circospezione, come se temessi di svegliare qualcuno. In una
borsa comincio a stipare libri, quaderni e appunti divisi per argomenti, poi
la macchina fotografica. Do un’ultima occhiata alla stanza e mentalmente le
dico addio, non credo che la rivedrò tanto presto. Uscendo, passo davanti
alla scrivania e mi fermo un istante per sfiorare il diario di Michel. Resterà
qui, nel luogo al quale appartiene, a me basterà il suo ricordo. Mi chiudo la
porta alle spalle con la sensazione di essere arrivata in fondo a un capitolo
della mia vita. E non è una sensazione sgradevole.
Torno in cucina per ultimare i miei prodotti di bellezza. Metto il burro di
karité a solidificare in freezer per cinque minuti prima di montarlo con il
frullino elettrico finché non si trasforma in una crema setosa e profumata,
poi faccio bollire i semi di lino a fuoco basso in modo da ricavarne un gel
vischioso, piuttosto repellente alla vista, ma un vero toccasana per i capelli.
Una volta passato in un colino per trattenere i semi il gel è pronto, vi
aggiungo due gocce d’olio essenziale d’arancio dolce per un tocco
profumato. Infine preparo uno scrub per viso e corpo a base di zucchero di
canna, miele e qualche goccia d’olio d’argan per ammorbidire.
Con un certo orgoglio ammiro i vasetti che emanano effluvi delicati, poi
li prendo e li porto in bagno. Apro il rubinetto della vasca e la osservo
riempirsi di una schiuma compatta e profumata che mi avvolge come una
carezza quando scivolo nell’acqua con un sospiro di piacere. Chiudo gli
occhi e aspiro l’aroma intenso dell’ylang-ylang. Potrei rimanere immersa
qui dentro per ore, dimenticandomi di tutto il mondo. Afferro il vasetto
dello scrub e comincio a massaggiarmi pigramente un gomito. In questo
momento di pace il mio pensiero vola a Parigi e a quello che vi ho lasciato.
Anzi, a chi vi ho lasciato. Mi chiedo se Gisèle abbia avuto modo di dargli la
candela. E se lui abbia avuto una reazione di qualche genere. Ma in fondo
che cosa importa, me ne sono andata così in fretta che potrebbe anche
essersi dimenticato di me. Non credo che gli manchino le “amiche” con cui
consolarsi, almeno da quello che ha detto Ari. Sento una fitta di gelosia a
questo pensiero, del tutto ingiustificata poi, perché fra me e Romain non c’è
assolutamente niente.
O no?
Prendo un altro po’ di scrub e ricomincio a sfregarmi tutto il corpo con
energia.
Troppa, forse.
CREMA NUTRIENTE PER TUTTI I TIPI DI PELLE
Ingredienti: 10 g di burro di cacao, 10 g di cera vergine d’api, 30 g di olio
di mandorle dolci, 10 g di olio di argan, 10 g di olio di jojoba, 10 g di miele,
10 g di macerato glicerico di calendula, 2 gocce di olio essenziale di
vaniglia
In un pentolino d’acciaio inox metti il burro di cacao, la cera, l’olio di
mandorle, l’olio di argan e l’olio di jojoba, e fai sciogliere a bagnomaria,
mescolando con un cucchiaio e tenendo il fuoco basso e il calore costante.
Aggiungi il miele e la calendula, senza mai smettere di mescolare. Una
volta ottenuto un composto omogeneo, fallo raffreddare mettendo il
recipiente in una pentola d’acqua fredda. A poco a poco lo vedrai
addensarsi in una consistenza cremosa. Aggiungi allora l’olio essenziale e
continua a mescolare finché la crema non sarà compatta e fredda.
Conservala in contenitori di vetro a chiusura ermetica e sterilizzati,
preferibilmente in frigorifero. Fino a un mese.
Il giorno dopo, alle sette del mattino, puntuale, Yvette suona al citofono.
Io sono pronta già da un po’, seduta nell’ingresso sulla valigia chiusa, con
la borsa a tracolla. Il rumore gracchiante mi fa scattare in piedi.
«Sì, Yvette, scendo subito» le dico senza chiedere chi è.
Faccio un ultimo giro per accertarmi di aver chiuso tutte le finestre e mi
fermo davanti allo specchio dell’ingresso. Di fronte a me c’è una donna
completamente diversa da quella che solo l’altro ieri ha varcato la soglia. I
capelli lucidi incorniciano con morbide onde un viso disteso in cui gli occhi
appaiono più grandi e vivi, senza ombre. Il vestito nuovo spicca su una
pelle serica che sembra rinnovata anch’essa.
Adesso, finalmente, mi vedo con gli occhi di Michel. Rivolgo un ultimo
pensiero a mio marito, lo ringrazio perché so che mi sta ascoltando, poi mi
chiudo la porta alle spalle.
«Buongiorno» dico entrando in macchina.
Yvette si gira verso di me e nel suo sguardo scorgo la conferma di quello
che ho visto prima.
«Ciao, tesoro. Non ti chiedo come stai, perché il tuo aspetto parla da
solo» mi dice. «Sei bellissima.»
Le sorrido, imbarazzata. «Grazie. Comunque, sì, mi sento bene. È stato
come... un rito di passaggio. Una rinascita.» Non dico altro, so che lei mi
capisce.
«Ne sono felice, cara, e si vede. Io spero che... da adesso in poi per te sarà
tutto in discesa» mi dice.
Guardo fuori, il cielo è limpido e luminoso. Fra poche ore sarò di nuovo a
casa.
«Penso che lo sarà» rispondo quasi tra me e me.
Il taxi mi lascia davanti alla porta dell’erboristeria quando manca poco a
mezzogiorno. Ho avvertito Gisèle che sarei andata direttamente lì senza
passare da casa. Voglio sistemare tutti i miei libri e la macchina fotografica
nel retro, a portata di mano. Spingo la porta ed entro. Gisèle mi fa un cenno
di saluto, è in compagnia di una signora sulla sessantina, forse una cliente.
Mi avvicino al bancone.
«Ciao Viola, bentornata. Arrivi proprio al momento giusto. Questa è la
signora Dubois» mi dice Gisèle indicandomi la donna. «E lei è la nostra
naturopata, la dottoressa Viola Consalvi» continua, rivolgendosi alla cliente.
«La signora mi stava chiedendo se potevo prepararle una maschera idratante
per il viso. Sai, vorrebbe sperimentare qualcosa di completamente naturale,
e io penso che nessuno meglio di te potrebbe consigliarla» conclude con un
sorriso fiducioso.
La donna mi guarda in attesa di un responso. «Ma certo» dico con
entusiasmo. Mi avvicino per osservarla meglio: è una bella donna, poche
rughe, soltanto un problema di disidratazione superficiale. «Le consiglierei
una maschera al burro di karité e miele di fiori d’arancio. Oltre
all’idratazione si ottiene anche un leggero effetto esfoliante, così i principi
nutritivi penetrano meglio. Poi aggiungerei anche una decina di gocce di
olio di rosa mosqueta, che è un ottimo antirughe perché contiene vitamina C
e agisce come schiarente sulle macchie cutanee.»
La signora mi sorride soddisfatta. «Grazie, mi sembra un ottimo consiglio
e lei una persona competente. E... quando posso passare a prenderla?»
«Questa sera, verso le sette la troverà pronta» rispondo.
«Bene, la ringrazio. Allora ci vediamo più tardi.»
Si avvia alla porta, ma quando sta per uscire ci ripensa e torna verso di
me. «Mi tolga una curiosità, cosa fa esattamente una naturopata, oltre a
preparare creme?»
Nascondo un sorriso. «Mi occupo di trovare cure naturali per i malesseri,
soprattutto quelli legati alla sfera psicologica. Diciamo che sono una
guaritrice di corpo, mente e anima.»
Lei mi guarda un po’ scettica. «E come, se posso chiederglielo?»
«Per esempio... attraverso l’analisi dell’iride» rispondo.
«L’iride?»
«Esattamente. L’occhio umano è un’estroflessione del cervello, diciamo
che è una sorta di mappa che registra traumi e mancanze che nel tempo si
stratificano a livello profondo, incosciente. Attraverso determinati segni è
possibile risalire alle cause di malesseri che possono essere psicosomatici o
sfociare in vere e proprie patologie fisiche.»
La signora Dubois resta ferma al suo posto, indecisa su cosa fare. Mi
guarda come se volesse studiarmi e capire se può fidarsi di me.
«Senta, le dico la verità: il suo discorso mi sembra davvero surreale, ma...
lei mi piace.» Fa una pausa. «Ho una nipote, ha diciassette anni, è una
ragazzina adorabile, ma negli ultimi tempi è cambiata, sembra sempre, non
so... arrabbiata con il mondo. Sta andando male a scuola, cosa che non è
mai accaduta prima. Sua madre l’ha portata da uno psicologo, io ho tentato
di parlarle, ma finora non siamo riusciti ad approdare a molto. Se per lei va
bene, vorrei portarla qui.»
Sbircio Gisèle e vedo il suo viso illuminarsi.
«Certamente» rispondo, cercando di non mostrarmi troppo ansiosa.
«Magari ne parliamo quando verrà a prendere la sua maschera idratante.»
«Va bene. Arrivederci.»
Non appena esce, Gisèle dà sfogo a tutta la sua felicità. «Oh, tesoro, sei
stata bravissima, e come hai parlato bene! Così sicura! Ne deduco che
questo viaggio ti sia stato d’aiuto! Ma sì, lo vedo, lo vedo! Sei cambiata
addirittura fisicamente, sei più... luminosa» mi dice con affetto.
Mi guardo riflessa nella vetrina e vedo la conferma delle sue parole. Ma
la mia trasformazione ha radici più profonde. «Sono cambiata, è vero. Io
credo che questo viaggio abbia segnato un punto di svolta dentro di me.
Vedi... tutto il dolore che ho accumulato in questi mesi si è trasformato. È
diventato esperienza e adesso non lo temo più perché ho dimostrato di saper
passare oltre. Ora sono pronta ad affrontare anche il dolore degli altri. Senza
paura.»
Le sorrido, poi raccolgo il coraggio per farle la domanda che covo dal
momento in cui ho rimesso piede nel negozio. «Gisèle?»
«Sì?»
«Volevo chiederti... ecco... sei per caso riuscita a vedere Romain?» Mi
sento arrossire e abbasso gli occhi per non guardarla.
«Oh... sì, be’... l’ho visto il giorno della tua partenza.»
Alzo la testa di scatto. «Davvero?»
«Sì, ho capito che ci tenevi molto, così dopo la chiusura sono andata da
lui e gli ho dato la tua candela. Mi è sembrato colpito.»
«E ti ha detto qualcosa?»
«No. In realtà sono stata io a parlare. Gli ho detto del tuo viaggio e... no»
dice prima che io riesca ad aprire bocca, «non mi ha chiesto niente. Io l’ho
soltanto informato che saresti tornata oggi, verso l’ora di pranzo.»
Istintivamente do un’occhiata all’orologio sulla parete. È l’una passata,
per lui è l’ora di punta. Sospiro, un po’ contrariata. Perché mi aspettavo di
vederlo già qui?
«Se ti va» continua Gisèle, «possiamo andare a pranzo da lui...»
«Oh, no» mi affretto a rispondere. «Non è il caso. Preferisco andare a
casa e riposarmi un po’, oggi pomeriggio devo lavorare.»
«Come vuoi.»
Usciamo e, mentre mi giro per chiudere la porta, ho la percezione chiara
che sta per accadere.
SCRUB SPEZIATO VISO E CORPO
Questa ricetta si prepara con ingredienti facilmente reperibili in casa:
1 cucchiaio di zucchero di canna
1 cucchiaio di miele
1 cucchiaino di farina di ceci
1 spruzzata di cannella
Mescola tutti gli ingredienti in una ciotola finché il composto non diventa
omogeneo. Applica lo scrub sulla pelle bagnata di viso e corpo,
preferibilmente durante la doccia, e risciacqua accuratamente.
Dopo la doccia applica su viso e corpo una crema idratante.
3
Lo sento dietro le mie spalle, ne sono certa prima ancora che lui apra
bocca, così come ero certa che sarebbe venuto oggi e questa certezza mi
offre il vantaggio di non farmi sorprendere.
«Ciao, Viola» mi dice.
Finisco di chiudere e mi giro con calma. Guardo Gisèle: sembra sulle
spine. Romain invece mantiene la sua solita aria di olimpica serenità,
soltanto un leggero movimento dei piedi tradisce un vago imbarazzo.
«Come stai?» mi chiede.
«Bene. E tu?»
«Anch’io.»
Pausa.
«Ti va di... andare a fare una passeggiata?»
Mi coglie di sorpresa, non me l’aspettavo, ma adesso mi sembra l’unica
cosa opportuna da fare. «Va bene» dico.
«Io vado a casa, chérie. Ci vediamo più tardi» dice Gisèle e si dilegua in
un batter d’occhio.
Romain mi guarda e con un gesto mi invita a incamminarmi accanto a
lui. Lascio che sia lui a guidare i nostri passi, anche perché non ho la più
pallida idea di quello che accadrà nei prossimi istanti. Cammina quasi a
casaccio, prende tempo, poi, senza guardarmi comincia a parlare.
«Com’è andato il tuo viaggio?»
«Bene, grazie.»
Mi lancia un’occhiata. «In effetti... si vede» dice con un sorrisetto,
squadrandomi da capo a piedi.
Mi sento in imbarazzo, ma riesco a non arrossire.
«Dove stiamo andando?» chiedo, tanto per alleggerire l’atmosfera.
«Oh, è... poco distante da qui. Un posto tranquillo. Non preoccuparti»
aggiunge, «c’è anche da mangiare.»
Vorrei rispondergli che tanto ho lo stomaco chiuso per il nervosismo, ma
preferisco tacere. Dopo pochi metri, Romain imbocca una traversa stretta
sulla destra e si dirige verso una piccola porta a vetri accanto a una vetrina.
«Eccoci qua» annuncia.
È una libreria. Lo guardo, stupita.
«Non fare quella faccia, è un posto molto bello. È grande e silenzioso.
Vengo sempre qui quando ho bisogno di riflettere.»
Entro, senza fare domande. In effetti l’ambiente è molto spazioso. I
soffitti sono alti e l’interno è suddiviso in corsie da scaffali ordinati per
lingue e generi. Più che a una libreria somiglia a una biblioteca. Mi guardo
intorno incuriosita, poi seguo Romain verso la corsia degli americani
moderni. «Che ne pensi?» mi chiede a bassa voce per rispettare la quiete del
luogo. «Anche se, dopo Wallace, mi sembra di aver capito che la narrativa
americana contemporanea non ti ispiri molto...»
«Ehi, vacci piano» ribatto, seccata. «Non amarne uno non significa
disprezzarli tutti. Mi piace moltissimo leggere, da sempre. Solo che non
abbiamo gli stessi gusti.»
Riusciamo persino a battibeccare sottovoce, come se fossimo in chiesa.
«No, in effetti non abbiamo gli stessi gusti.» Continua a camminare lungo
la corsia e intanto do un’occhiata ai nomi sui dorsi dei libri: Bukowski,
Carver, Cheever... «Camminare qui è come sentirsi addosso il fiato di tutti
loro» dice indicando con un gesto gli scaffali colmi di libri.
«Già» rispondo distrattamente. Non ho ancora capito dove vuole andare a
parare, così decido di fermarmi e aspetto che se ne accorga.
Lui fa qualche passo poi si gira e mi guarda come se fosse dispiaciuto di
essere stato interrotto nel suo pellegrinaggio. Torna da me e fa un profondo
respiro.
«Okay, è inutile girarci intorno, sono venuto per quello che è successo
l’altra sera. Immagino che lo sappia anche tu. E... vorrei scusarmi.»
Scusarsi? Intende dire che è stato un incidente di percorso, come andare
al cinema e vedere il film sbagliato? Un caso insomma. La mia delusione è
talmente cocente che temo mi si dipinga sul viso. Cerco di dissimularla
assumendo un tono noncurante.
«Va bene» gli dico. «Scuse accettate e amici come prima.»
Ma forse non sono riuscita a controllarmi come avrei voluto, perché
l’espressione perplessa e sorpresa di Romain è talmente evidente e comica
che se non mi sentissi così umiliata mi verrebbe quasi da ridere.
«No» mi dice poco dopo. «Non è vero.»
«Oh, insomma, cosa vuoi che ti dica? “Oh grazie Romain per esserti
sbagliato, grazie per avermi considerata un imprevisto del mestiere”!»
Cerco di controllarmi per non alzare la voce, ma non ci riesco del tutto e le
frasi sembrano venire fuori da un megafono sfiatato. «Be’, io non ragiono
come te. Se bacio un uomo è perché lo voglio, non per distrarmi o perché
mi prudono le labbra!»
Lui mi squadra come se fossi un marziano poi, lentamente, il sorriso
sardonico fa la sua comparsa.
«Accidenti» aggiunge dopo un attimo di silenzio. «Devo averti fatta
arrabbiare parecchio. Solo che adesso vorrei che mi spiegassi perché, visto
che sei stata tu a piantarmi in asso, se non sbaglio.»
Mi sento morire per l’imbarazzo e per una strana, indecifrabile
sensazione alla bocca dello stomaco. Faccio un respiro profondo e abbasso
ancora la voce.
«Sì, mi hai fatto arrabbiare, non so perché.» Sto mentendo,
consapevolmente. «Forse perché... be’... perché mi aspettavo qualcosa di
diverso. O forse che tu fossi diverso.»
Romain sospira e si passa una mano fra i capelli. «Ti saresti aspettata che
arrivassi con un mazzo di fiori?» mi chiede. Stavolta senza alcuna ironia.
«Oppure che ti dicessi che il nostro bacio avrebbe suggellato un amore
eterno? Mi dispiace, Viola, ma io non sono il tipo, almeno non più. Tu mi
piaci, anche se sei una maledetta rompiscatole. Ma proprio per questo non
posso e non voglio dirti cose non vere. Ti ho baciata perché avevo voglia di
farlo, e di farlo con te, ma forse ho sbagliato. La tua fuga mi ha fatto capire
che non vivi le cose con la giusta leggerezza. Ecco perché sono venuto a
chiederti scusa.»
La giusta leggerezza. E perché dovrei considerare l’amore o il sesso come
una cosa leggera? E poi chi è che decide qual è il “giusto” grado di
leggerezza? Resto in silenzio, ma Romain deve leggere qualcosa nei miei
occhi.
«Perché non riesci a lasciarti andare e vivere il presente senza fare
proiezioni, senza interrogarti continuamente?»
«Dovrei raccontarti molte cose per farti capire» rispondo. «Non è
questione di lasciarsi andare, ma di vissuto. E in questo momento ho altre
priorità rispetto alla leggerezza.»
Romain non batte ciglio e io intuisco che la discrezione di Gisèle deve
aver protetto lui più di me.
«Siamo adulti, Viola. Tutti noi abbiamo un passato, bello o brutto che sia.
Anch’io ho le mie cicatrici, forse non profonde quanto le tue, ma non per
questo meno dolorose.» Sospira e, per un istante, i suoi occhi si fanno
trasparenti, vulnerabili. «Sono stato sul punto di sposarmi, tempo fa.
Vivevamo insieme da cinque anni a Ginevra, lei insegnava spagnolo in un
altro dipartimento. Era una donna bellissima, intelligente, spiritosa e con
un’ambizione fortissima che le aveva consentito in poco tempo di arrivare
ai livelli più alti del mondo universitario. E io mi ero innamorato di lei
proprio per questo. L’ammiravo e l’amavo con tutta l’intensità e la passione
del primo vero amore. E siamo andati avanti in perfetta armonia, almeno
finché le cose non hanno cominciato a cambiare.»
«Le cose non cambiano da sole, c’è sempre qualcuno che fa prendere loro
una direzione» dico quasi tra me e me.
«Infatti. A un certo punto mi sono accorto che i nostri obiettivi non
coincidevano più, o meglio, io avevo deciso che il mio scopo nella vita era
un altro. Non mi piaceva l’ambiente accademico, non mi piacevano le
persone e i limiti che volevano impormi, sentivo che a forza di rinunciare al
vero “me stesso” stavo diventando sempre più infelice. Ma Isabelle, no, per
lei la carriera universitaria era tutto, non riusciva nemmeno a concepire che
si potesse aspirare a qualcos’altro. E così abbiamo iniziato a non capirci più,
a litigare, finché un giorno non ho fatto le valigie e sono venuto a Parigi. Il
resto lo conosci già» conclude.
Sono rimasta ad ascoltarlo attentamente, un po’ per la sua capacità di
raccontare, un po’ perché questa storia mi lascia perplessa.
«Ma perché rinunciare a un grande amore solo per una questione di
lavoro? Non potevate trovare un compromesso? Che so, magari visto che
eri tu a sentirne l’esigenza, avesti potuto cambiare strada senza perdere lei,
se l’amavi così tanto.»
«Il problema è proprio questo, invece. Quando le parlai del mio progetto
Isabelle mi si rivoltò contro come se l’avessi tradita, mi disse che ero un
superficiale, sognatore, inconcludente e che per cercare me stesso rischiavo
di perdere tutto quello che avevo, e forse aveva anche ragione. Ma mi sono
chiesto come potesse arrivare a ferirmi così, se mi amava veramente. Poi
fece di tutto per convincermi a rimanere, ma più lei insisteva più io capivo
che non solo non volevo più quella vita, ma che non volevo nemmeno lei.
L’avevo vista sotto una luce nuova e non mi piaceva affatto.»
«Mi sembra poco barattare un amore in cambio della libertà di fare quello
che ti pare» mormoro con una punta di sarcasmo.
Mi guarda e i suoi occhi si scuriscono di colpo. «Perché fingi di non
capire? Qui non si tratta di avere la libertà di fare quello che mi pare, sto
parlando della possibilità di realizzarmi come persona, della possibilità di
fare nella vita il lavoro che mi appassiona, e io non ci ho rinunciato per lei
come non l’ho fatto per nessuna donna che è venuta dopo di lei. Né ho
intenzione di farlo in futuro.»
Sì, forse potrei capirlo, io che per inseguire una passione ho tagliato i
ponti con la mia famiglia. Ma sarei riuscita a sacrificare un grande amore
sull’altare di un sogno?
«E adesso ti senti realizzato?» gli chiedo un po’ provocatoria.
Non risponde subito. Afferra dallo scaffale un volume di Steinbeck e lo
sfoglia con una sorta di accanimento. «Sono sulla buona strada» risponde,
più a se stesso che a me.
Tace e continua a sfogliare il libro. Io lo osservo, i capelli spettinati, il
naso marcato, le sopracciglia scure e dritte, la bocca che so morbida e
sensuale, le mani...
«Ascolta, Viola.»
La sua voce improvvisa mi fa sussultare. Rimette a posto il libro e si gira
verso di me.
«Lasciamo stare, come se non fosse accaduto niente.»
Le sue parole mi fanno male, non sono quelle che avrei voluto sentire, ma
mi rendo conto di averlo nuovamente trattato con durezza.
«Ehi, va bene» gli dico sforzandomi di sorridere. «È tutto a posto.»
«Okay» risponde lui, e mi sembra di percepire un tono sollevato che mi
fa venire da piangere. «Amici come prima. Allora... ti va di mangiare
qualcosa?»
Lo guardo e sento che se resto un minuto di più non riuscirò a trattenere il
magone.
«Ehm, no, grazie. Sono un po’ stanca per il viaggio... preferisco tornare a
casa a riposare un po’.» E mi avvio verso la porta.
«Aspetta, ti accompagno...»
«No, no, non ti preoccupare, conosco la strada. Ci vediamo» gli dico
senza quasi voltarmi.
Esco precipitosamente dal negozio e comincio a camminare in fretta
verso casa.
Soltanto dopo un po’ mi accorgo che una lacrima ha macchiato il mio
vestito nuovo.
4
La signora Dubois rigira fra le mani il vasetto di vetro scuro che contiene
la maschera idratante promessa questa mattina. Svita il coperchio e annusa
il delicato aroma di rosa che emana l’unguento. Siamo sedute una di fronte
all’altra al tavolo del retrobottega, anzi del mio “studio” come è stato
ribattezzato, al quale la signora, dopo attenta osservazione, non ha
risparmiato complimenti.
«Non so se avrà degli effetti miracolosi» mi dice, «ma soltanto per questo
profumo vale la pena provarla.»
«Sono contenta che le piaccia. Abbia l’accortezza di riporla in frigorifero.
Non contiene conservanti chimici e con il caldo rischia di deteriorarsi. Può
applicarla tre volte alla settimana, la sera, prima di andare a dormire. La
tenga in posa per quindici minuti e poi la rimuova con un dischetto di
cotone inumidito. Faccia un bel risciacquo con acqua appena tiepida e...
sarebbe meglio se terminasse tamponando il viso con acqua di rose, per
tonificare.»
Lei richiude con cura il vasetto, si appoggia allo schienale della sedia e
mi guarda con aperta curiosità. «Sa, dottoressa, devo riconoscere che lei è
molto accurata nel suo lavoro, le faccio i miei complimenti.»
Sorrido, quasi a schermirmi, ma la signora insiste.
«Dico sul serio, e a parte questo, è proprio per questa sua... come posso
chiamarla, empatia? Che ho deciso di portarle mia nipote, però...» appoggia
gli avambracci sul tavolo e intreccia le dita, come un giudice nell’aula di un
tribunale. «Potrebbe dirmi qualcosa di più su questa iridologia? Non so,
magari potrebbe farmi vedere qualche suo studio precedente?»
Ho capito sin dall’inizio che la signora Dubois, nonostante i modi gentili
e pacati, è una persona analitica e concreta, una che vuole vedere le cose
nero su bianco per avere una base solida su cui calibrare un giudizio.
Ringrazio il dio dell’ispirazione che, nonostante lo stato di prostrazione
dopo l’incontro con Romain, mi ha fatto venire l’idea di telefonare a
Camille e chiederle di venire di corsa al negozio per farsi fotografare gli
occhi. Lei non mi ha chiesto spiegazioni e si è prestata, da buona amica, a
soddisfare immediatamente la mia richiesta.
Solo che quello che doveva essere semplicemente il mio asso nella
manica ha rivelato qualcosa di molto più interessante.
Apro il mio portatile, sul quale ho scaricato le fotografie, e invito la
signora a guardare lo schermo.
«Le mostro una delle visite più recenti che ho fatto, si tratta di una
paziente che ho in cura da poco...» le dico con il tono più professionale che
riesco a produrre.
La signora osserva con un certo stupore le immagini degli occhi dorati di
Camille. «Sono splendidi. Ma a parte la bellezza, lei che cosa riesce a
vedervi?» mi chiede.
E comincio a ripeterle quanto ho detto alla mia amica appena un’ora
prima. Almeno in parte.
«L’iridologia è una disciplina che studia all’interno dell’iride la presenza
di segni che possono indicare una patologia a carico di uno o più organi del
corpo. Per dirla più chiaramente, dall’iride otteniamo informazioni mediate:
ciò che vediamo è il riflesso biologico che, attraverso il sistema nervoso, il
cervello e il sangue, torna all’iride e reca le informazioni sullo stato di
salute di un organo o di una funzione organica.» La signora Dubois mi
segue senza perdere una sillaba. «Questo per quanto riguarda l’iridologia
classica.» Pausa doverosa prima di parlare dell’iridologia di Michel...
«Esiste poi un’altra disciplina iridologica, che si chiama “iridologia
sistemica” e che riguarda principalmente la sfera emotiva e psicologica. È
una teoria piuttosto innovativa e relativamente recente, e si basa sugli studi
di alcuni specialisti che hanno associato alle sezioni dell’iride altrettante
sezioni relative agli stati emotivi dell’anima. Attraverso lo studio dei segni
che ricadono in ognuna di queste aree, è possibile identificare un trauma o
una mancanza che hanno intralciato il naturale percorso evolutivo
dell’anima alla ricerca della felicità. Ed è addirittura possibile risalire a
eventi traumatici avvenuti prima della nascita e registrati dall’iride
attraverso la linea familiare di discendenza.» Mi accorgo che la signora
comincia a perdere qualche colpo, quindi torno a illustrarle la fotografia,
per lei sarà sicuramente più facile seguirmi con un oggetto concreto davanti
agli occhi.
«All’interno di quest’iride sono evidenti diverse segnature tipiche dello
stress e dell’ansia... vede qui?» indico un punto nella parte alta dell’occhio,
«sono presenti vari anelli tetanici, cioè delle fenditure circolari concentriche
che indicano spasmi della muscolatura.» Intanto traccio con un dito il bordo
circolare della pupilla. «Inoltre, sempre qui... nella parte alta dell’iride,
quella detta cefalica, sono visibili quattro raggi minor, vede... queste pieghe
verticali che partono dal bordo corona e arrivano all’estremità dell’iride, e
poi un raggio maior... eccolo qua... che è più significativo perché parte dal
margine pupillare e non dal bordo corona. Ecco, tutte queste segnature,
anelli e raggi, indicano una contrazione del sistema nervoso autonomo e,
soprattutto concentrate nella zona cefalica, denotano una radicata tendenza
all’inquietudine e al nervosismo.»
Alzo gli occhi dallo schermo e vedo sul viso della signora Dubois la
stessa espressione estatica che si è stampata sul volto di Camille al termine
delle mie spiegazioni.
«Cavolo, che figata pazzesca!» aveva esclamato la mia amica. Tuttavia
quello che le ho detto dopo, e che per discrezione ho taciuto alla signora
Dubois, l’ha impressionata meno positivamente. La lacuna che mi sembrava
di aver intravisto nella sua iride sinistra ha trovato conferma nella
fotografia. È un segno genotipico, la manifestazione di un fatto traumatico
avvenuto nel passato, prima ancora che lei nascesse. È l’area interessata che
mi ha lasciato perplessa: quella inferiore vicina al bordo, la zona chiamata
“Nido”. È l’area del nutrimento affettivo fra madre e figlio e una lacuna qui
significa che nel loro rapporto c’è stato uno strappo. Una perdita.
«Tu sei figlia unica, vero?» avevo chiesto a Camille.
«Sì.»
«Anche tua madre? Oppure ha fratelli, sorelle...»
«Ha un fratello.»
«Vivente?»
«Ma sì, certo» si era messa a ridere. «Perché tutte queste domande?»
Le avevo mostrato la lacuna spiegandogliene il significato. Non mi era
parsa molto convinta.
«Mah, non so cosa dirti. E tu sei proprio sicura che questa... cosa...»
aveva indicato la foto, «non sia semplicemente una sfumatura di colore o
roba simile?»
«No, Camille. Adesso so per certo che non lo è. Questa lacuna ci dice
chiaramente che nella famiglia di tua madre c’è stata una perdita nella
relazione genitoriale, insomma... la famiglia ha perso uno dei suoi
componenti. Perso anche in senso metaforico» mi ero affrettata ad
aggiungere di fronte all’espressione sconcertata della mia amica. «Ecco,
magari potresti parlarne con tua madre...» avevo azzardato.
Ma lei si era chiusa come un riccio. «Okay, me l’hai già detto. Senti,
Viola, io ti voglio bene e ammiro molto il tuo lavoro, ma se questa è una
scusa per farmi avvicinare a mia madre, non funziona. Sappilo.»
Avevo sorriso fra me e me tanto le parole di Camille suonavano simili a
quelle che, tempo prima, avevo gridato con rabbia a mio marito.
«E comunque non arriverà prima di qualche settimana» aveva borbottato
poi, mentre si alzava per andar via. Mi è parso che quelle parole aprissero
uno spiraglio. Forse avevo risvegliato la sua curiosità.
La reazione della signora Dubois è un tantino diversa. «Molto, molto
interessante, dottoressa. Ma... quindi lei ritiene di poter effettuare anche una
diagnosi clinica sulla base di una foto?»
Eccola qua la domanda a trabocchetto. Accidenti, è un osso duro la
signora.
Mi appoggio allo schienale della sedia e assumo un’espressione seria.
«Signora Dubois, non starò a raccontarle che l’iridologia è la chiave magica
per risolvere qualsiasi problema, di salute o di altro genere. L’occhio non ci
dice niente sulla malattia specifica che può affliggere questo o quell’organo.
Ma ci offre una visione globale dell’organismo umano, è una sorta di
microriproduzione del sistema organico che evidenzia il riflesso delle
patologie che possono colpire i singoli organi, solo che qui si vedono tutte
insieme, ecco qual è il grande vantaggio. È un po’ come se, invece di
esaminare una singola tessera per volta, noi avessimo di fronte il puzzle
completo. In questo modo diventa più semplice anche effettuare un esame
clinico mirato, là dove la naturopatia non può arrivare.»
La signora Dubois aspetta che abbia finito di parlare poi, in silenzio, si
alza, prende la borsa, rimette a posto la sedia e soltanto allora, quando
penso che stia per andarsene e che non la rivedrò mai più perché le mie
spiegazioni non l’hanno convinta, mi rivolge un gran sorriso. «Bene,
dottoressa. Ho sentito quanto basta per avere la conferma che lei non è una
ciarlatana o una truffatrice. Le porterò mia nipote non appena tornerà da una
breve vacanza con i genitori. Per ora la ringrazio.»
Mi alzo anch’io, l’accompagno alla porta e soltanto dopo che se n’è
andata tiro un sospiro di sollievo. Lo studio forsennato degli ultimi giorni,
approfittando di ogni momento, ovunque sia stato possibile – a casa, in taxi,
in aereo – ha dato i suoi frutti, e ne sono felice. Era parecchio tempo che
non mi capitava di sudare freddo per un esame.
Sul marciapiede davanti alla vetrina una coppia sta discutendo
animatamente. Non sento le loro voci, ma i gesti e i movimenti dei corpi
lasciano intuire la dinamica della scena. Lui è alto e robusto, lei bassa e
minuta, eppure salta agli occhi chi dei due sia la parte dominante. La
ragazza mantiene una posizione salda, gambe leggermente divaricate e
busto proteso in avanti, e dal modo in cui continua a puntare gli indici verso
di lui, che resta fermo e appena un po’ ingobbito, immagino che la lavata di
capo sia una di quelle da ricordare.
Sarei proprio curiosa di sentire le loro parole.
«Tesoro, mi ascolti?»
«Eh? Cosa...?»
Mi volto di scatto e vedo Gisèle, in piedi sulla scala a pioli che mi guarda
con le mani sui fianchi. Ero talmente assorta nella contemplazione della
coppia litigiosa che non ho sentito una parola di quello che ha detto.
«Ho detto che dobbiamo fare un nuovo ordine per gli oli essenziali,
siamo a corto di ylang-ylang, lavanda e patchouli. Sembra che la gente sia
stata presa dalla mania di spargere profumi in casa. Ah, e poi stanno per
finire anche i fiori di calendula e... oh, lascia stare, ci pensiamo dopo.»
Scende dalla scala e viene a sedersi vicino a me, dietro il bancone. «Mi
sembri persa fra le nuvole, va tutto bene?»
Sono passati tre giorni dalla visita di Romain e da allora non l’ho più
visto. E la cosa che mi dà più fastidio è il senso di vuoto che sembra essersi
impossessato di me, non ce n’è ragione, in fondo. Abbiamo detto amici
come prima e questo dovrebbe bastare. Il problema è che amici non lo
siamo stati mai.
«Ti stai ancora arrovellando su Romain?» insiste lei.
«Non mi sto arrovellando, figurati. Il fatto è che...» Non so come
continuare la frase perché la sensazione che provo non è chiara neanche a
me. A parte l’amarezza per il fatto in sé, c’è stato qualcosa nel modo di fare
di Romain che mi ha profondamente delusa. «Non ti sembra che sia un po’
superficiale?»
«Chi, Romain? E perché?»
«Per il modo in cui ha parlato della sua relazione precedente. Insomma,
fra me e lui alla fine c’è stato ben poco, ma questa Isabelle... dalle sue
parole mi è parso che sia stata il suo grande amore, eppure l’ha lasciata su
due piedi, senza ripensarci e per motivi che mi sono sembrati un po’... futili
rispetto a quello che ha perduto. Stavano quasi per sposarsi!»
«Le relazioni sono complesse, Viola, non si può ridurre tutto a una
contrapposizione di vero e falso, bianco e nero. E molto spesso l’essenziale
è invisibile agli occhi altrui, bisogna sempre scavare sotto la superficie,
fermarsi alla prima impressione può essere fuorviante.» Mi guarda,
inclinando un po’ la testa. «Comunque mi sembra che continui a pensarci
parecchio, visto quanto lo consideri deludente...»
Ha ragione lei, su tutto. «Be’, un po’ mi manca. Era una presenza
piacevole e...»
«E ti aveva dato qualcosa a cui pensare, non è vero?» conclude Gisèle.
«Già» ammetto.
«Non vi siete più visti?»
«No. Anzi direi che ci siamo evitati e questo mi dispiace.»
«Viola, se hai voglia di vederlo, perché non vai semplicemente al bistrot a
fare due chiacchiere con lui?»
«La fai facile, tu» borbotto.
«A me sembra che sia tu a farla difficile. In fondo siete due adulti, avete
avuto un intermezzo, ma non è mica cascato il mondo! Insomma, cerca di
essere un po’ più...»
«Leggera?»
«No, cara. Piuttosto avrei detto matura.»
«Ah!» La sua risposta mi prende in contropiede. «Bene. Se la tua è una
sfida, stasera andrò a cena lì, da sola. Sei contenta?»
«Non sono io a doverlo essere, ma tu» mi dice con un’occhiata maliziosa.
Le do un buffetto scherzoso sulla spalla. «Sei una donna terribile, lo sai?»
La porta del negozio si apre sulle mie parole e sembra che un enorme
mazzo di fiori si faccia strada verso di noi.
«Buongiorno» dicono le rose e i lilium, «ho una consegna per la
signora...»
Viola Consalvi, spero per un attimo con un leggero tremito.
«... Gisèle Fleuret-Bourry.» Un ragazzino sporge la testa da dietro la
foresta fiorita. «È lei?» dice rivolto a me.
«Purtroppo no» rispondo con un sorriso forzato. «È lei» indico Gisèle che
intanto guarda il mazzo di fiori con gli occhi sgranati.
«Ecco qua» dice il ragazzino scaricando su Gisèle il suo fardello
profumato. «C’è anche un biglietto. Arrivederci.»
La mia amica è rimasta paralizzata, dalla sorpresa e dal peso dei fiori che
appoggia con una certa fatica sul bancone.
«Chi diavolo è che ti manda un intero campo di rose?» le chiedo. Sono
curiosissima.
«Ah, non ne ho la minima idea. Vediamo il biglietto. Dunque: Un solo
fiore non sarebbe bastato per dimostrarle la mia ammirazione. S.F. E chi
accidenti è S.F.?»
Sembra quasi arrabbiata e la sua espressione stralunata meriterebbe un
ritratto.
«Bene, bene, bene» le dico in tono ironico. «Adesso capisco tutte le
uscite alla chetichella, la banca, il commercialista... di’ la verità, ti vedi con
qualcuno?»
«Ma no, che vai a pensare? Non ho la minima idea di chi possa essere
tanto folle da mandarmi dei fiori che costano una fortuna come questi.
Soprattutto perché io detesto le rose rosse!» risponde piccata.
«Dài, Gisèle, non ti arrabbiare. Non è una reazione... matura» le dico con
una smorfia che la fa ridere.
«Buongiorno, è permesso?» chiede una voce maschile.
Io e Gisèle ci giriamo contemporaneamente.
«È un piacere entrare in un negozio tanto allegro» continua l’uomo, e in
lui riconosco il padre separato che era venuto tempo prima. «Come sta,
signora?» dice rivolto a Gisèle.
«Bene, grazie, Jacques. È un po’ che non la vedo. E Martin?»
Non mi ero sbagliata quindi, si conoscono.
«Molto meglio, grazie. Merito della sua brava naturopata. Infatti sono
tornato per ringraziarla dei suoi consigli e chiederle ancora un po’ della sua
tisana miracolosa.»
«E la valeriana per lei?» gli chiedo per curiosità.
«No, grazie. Adesso Martin dorme tranquillamente e anch’io riesco a
riposare come si deve. Lei mi ha cambiato la vita, lo sa?»
«Per così poco? Non è il caso, davvero! Ora le preparo subito la tisana.»
Jacques osserva i fiori che ricoprono tutto il bancone e sprigionano un
profumo intenso che sta rapidamente coprendo tutti gli altri aromi del
negozio.
«Sono bellissimi. A Martin piacciono molto le rose rosse» dice quasi
soprappensiero.
«Ecco la sua tisana» gli dico porgendogli il pacchetto. «Stavolta non
credo che avrà difficoltà a prenderla.»
«Oh, no di certo grazie.»
Prende il pacchetto ma rimane dov’è, come se non avesse terminato. Mi
guarda e mi sorride in quel suo modo affascinante, anche se sembra
leggermente imbarazzato.
«Volevo chiederle un’altra cosa... ho parlato con mia moglie dei consigli
che mi ha dato e anche lei ha notato che la tisana e l’alimentazione hanno
avuto un buon effetto su Martin. Vorrei sapere se lei potrebbe prenderlo in
cura. Mio figlio è un bambino adorabile e perfettamente normale, ma sa,
come le ho detto l’altra volta, forse ha risentito della separazione e... tende
ad agitarsi molto, piange senza motivo almeno in apparenza e, insomma...
pensa di poter fare qualcosa per lui?»
Oh, dio. Questo non lo avrei mai sperato. Avere di nuovo in cura un
bambino dopo l’ultima volta quasi tragica. Sono fin troppo felice per
riuscire a rispondergli subito.
«Ma certo! I bambini sono pazienti straordinari, è meraviglioso vedere
come reagiscono bene alle terapie olistiche. Soprattutto aromaterapia e
floriterapia. La prossima volta venga qui con Martin, così comincerò a
conoscerlo.»
Jacques mi sorride ancora, senza alcun imbarazzo. «La ringrazio,
davvero. Questa settimana starà con la mamma, non appena tornerà a casa
verremo qui da lei.»
«Bene, vi aspetto allora. E diamoci del tu, sarà tutto più semplice, non
trovi?»
«Eccome! Allora, ciao Viola, a presto.»
Se ne va facendo un cenno di saluto a Gisèle.
«Lo conosci, quindi» le chiedo non appena esce.
«Sì, è venuto ad abitare qui vicino da qualche anno, subito dopo il
matrimonio. Lui fa l’avvocato, sua moglie invece è una cantante. Molto
brava, tra l’altro. Si sono separati da poco, non so perché. Peccato, però,
erano una bella coppia.»
«Mi piacerebbe molto prendermi cura del bambino» mormoro.
Sono eccitatissima e anche Gisèle è visibilmente soddisfatta di come si
stanno mettendo le cose. Mi strizza l’occhio e mi propone di festeggiare con
una pausa-tisana energizzante.
L’ora di chiusura arriva in un lampo e io mi sento ancora piena d’energia,
non ho voglia di tornare a casa. L’idea dell’Hairy Biker e di una
chiacchierata con Romain mi attrae. In fondo ha ragione Gisèle, che
problema c’è?
Imbocco allegramente rue Tholozé e intanto mi preparo un discorsetto
introduttivo, tanto per rompere il ghiaccio. Gli chiederò di offrirmi una
birra, l’alcol aiuta sempre. Sorrido e affretto il passo, quando avvisto
l’insegna con la tazzina gialla e mi blocco di colpo.
Perché sotto la tazzina, girato di spalle e appoggiato al muro, c’è proprio
lui. In compagnia di una donna che, a questa distanza, appare alta, slanciata
e con lunghi capelli biondi che non fa altro che schiaffeggiare spostandoli a
destra e a sinistra della faccia. Lui sembra molto animato, persino di spalle.
Gesticola, le scosta una ciocca di capelli dalla guancia e lei ride e gli
appoggia una mano sul braccio. D’un tratto l’euforia di poco prima si è
prosciugata e dentro di me sento qualcosa che si spezza. Mi nascondo nel
vano di un portone per non farmi vedere lì in mezzo alla strada come se
stessi spiando. Certo, non devo affrettare le conclusioni, potrebbe essere sua
cugina, un’amica, la vicina di casa, ma non è questo ciò che conta. Conta
che in fondo in fondo, e forse ingenuamente, avrei voluto che desiderasse
parlare con me, che venisse a cercarmi lui per primo e non che mi desse una
dimostrazione pratica delle ultime parole che mi aveva rivolto.
Nessun impegno, solo leggerezza.
Li guardo ancora, lui le prende il braccio e la scorta dentro, aprendole la
porta con cavalleria.
Basta. Sono stanca di starmene qui a guardare la vita da fuori.
Prendo il cellulare e compongo un numero.
Pochi squilli.
«Pronto?»
«Ehi Camille, sei ancora in giro? Dimmi dove sei e ti raggiungo in un
attimo.»
Se leggerezza dev’essere, lasciamo che lo sia.
RIMEDIO PER RISTABILIRE L’EQUILIBRIO DEL V CHAKRA
Il quinto chakra, Vishuddha, o “chakra della gola”, localizzato alla base
del collo, è il centro energetico che presiede alla comunicazione e
all’espressione creativa. Se non è in equilibrio può portare a essere
autoritari, prolissi e supponenti o, al contrario, eccessivamente timidi.
Per sbloccare l’energia di Vishuddha e, con essa, i pensieri e le emozioni
che non trovano espressione verbale, è molto efficace il TRIFOGLIO
ROSSO. Puoi preparare una tisana ottimale con un cucchiaio di fiori
essiccati in una tazza d’acqua calda.
Altre piante utili sono l’ALLORO, l’EUCALIPTO e la MELISSA: devi
applicare poche gocce di olio essenziale sciolte in olio di mandorle dolci (5
gocce di ogni olio in 100 ml d’olio di mandorle) con un massaggio delicato
sulla gola, in corrispondenza del chakra.
5
«Allora sei pronta per la partenza? Domani passo a prenderti alle nove,
così abbiamo tempo per arrivare alla stazione.»
L’eccitazione di Camille è alle stelle, si percepisce persino attraverso il
telefono. L’ultima settimana è passata quasi senza che me ne accorgessi,
probabilmente anch’io sono rimasta in attesa del weekend per tutto il
tempo. Il mio nuovo studio ormai riceve diversi pazienti fissi, mi sono
anche procurata un materassino per il Reiki e la riflessologia plantare e le
giornate sono trascorse piuttosto in fretta, senza tempi morti.
«Quanto dura il viaggio?»
«Più o meno con tre ore e mezzo siamo a Aix-en-Provence, poi da lì una
ventina di chilometri verso la campagna e siamo arrivate. Ho noleggiato una
macchina per noi due e un pullman per gli amici che arriveranno sabato. Il
rendez-vous per loro è fissato per le dodici e trenta, così noi avremo tutto il
tempo di preparare un pranzo veloce. Non preoccuparti, ci sono Maëlle,
Justine e Angélique che si occupano della casa, con loro siamo in una botte
di ferro.»
Gli invitati alla festa sono una ventina, “Solo gli amici più cari” ha detto
Camille, che ha provveduto al loro viaggio e alla sistemazione. Parla come
una persona abituata a non avere problemi di disponibilità economica, ma lo
dice con una tale semplicità e allegria che accettare il suo invito non crea
nessun imbarazzo. E poi la prospettiva della piccola vacanza, l’idea di
staccare dai pensieri e da Parigi mi elettrizza.
«Sono prontissima, ho già fatto i bagagli» le rispondo.
«Hai messo in valigia qualcosa di sexy? Ti avverto che sabato sera dovrai
sfolgorare come un diamante, non voglio sentire scuse!»
Da quando le ho parlato del bacio, Camille sembra essersi imposta come
scopo nella vita quello di trovarmi un uomo. Vuole “rieducarmi al
godimento della vita”, come dice lei, e nei giorni precedenti mi ha quasi
stordita con l’elenco di tutti i giovani adoni fra i trenta e i quarant’anni che
interverranno alla sua festa. Mi stupisce che non abbia preparato delle
schede informative corredate di fotografie.
«Oh, certo! Ho telefonato a Jessica Rabbit che mi ha fatto avere subito il
suo vestito di lamé rosso con tanto di reggicalze e scarpe tacco dodici. Pensi
che sarà sufficiente?»
«Stupida! Non sottovalutare mai le occasioni che può offrirti una festa
alcolica in una casa da sogno.»
«Sì, stai tranquilla, mi vestirò come una star del cinema.»
In effetti ho anche comprato un vestito nuovo, un abito di seta blu notte
con le spalline sottili e uno spacco vertiginoso, e un paio di sandali argentati
con il tacco alto. Nello specchio del camerino avevo stentato a
riconoscermi.
«Senti...» aggiunge lei dopo qualche secondo. «Mi è venuta un’idea,
perché non vieni a dormire da me questa sera? Così domani mattina
andiamo direttamente alla stazione.»
«Sì, perché no, mi sembra una buona soluzione...»
«Bene! Allora stasera ce ne andiamo a cena da qualche parte, senza che ci
mettiamo a cucinare... magari potremmo anche andare all’Hairy Biker...»
Lo sapevo! Ecco qual è il motivo, altro che semplificazioni logistiche.
Avevo raccontato a Camille tutto quello che era accaduto, la
conversazione con Romain in libreria, le sue scuse e la donna bionda con
cui lo avevo visto parlare. Lei c’era rimasta malissimo, quasi più di me, e
aveva tentato in tutti i modi di spingermi a incontrarlo, dapprima
esplicitamente, poi con mezzi subdoli, come questo.
«Camille, piantala! Ti ho già detto che Romain è un discorso chiuso. Non
ho intenzione di andarlo a cercare, meno che mai con il pretesto di andare a
cena fuori. Non capisco perché ti sia fissata su di lui. Se ti piace così tanto
perché non ci vai tu? Ho visto che vi intendete bene!» ribatto un po’
seccata.
«Cosa!? Ma come ti viene in mente? Sappi che io ho pochi principi nella
vita, ma uno di quelli più sacri è mai rubare i fidanzati delle amiche!
Chiaro?»
Il suo tono da virtù oltraggiata mi strappa una risata e riesco anche a
sorvolare sulla parola fidanzato.
«Okay, okay non ti arrabbiare. Verrò a dormire da te, ma ti prego: non
parlarmi più di Romain.»
La sento sospirare nel telefono. «Come vuoi, noiosa. Allora a stasera.»
CREMA RIGENERANTE PER VISO E COLLO
Ingredienti:
1 cucchiaino di cera vergine d’api
3 cucchiaini di burro di karité
3 cucchiaini di olio di avocado
2 cucchiai d’acqua oligominerale non gassata
5 gocce di olio di rosa mosqueta
4 gocce di olio essenziale, nella profumazione preferita
In una casseruola d’acciaio inox metti la cera, il burro di karité e l’olio di
avocado.
Scalda a bagnomaria, mantenendo il calore basso e costante, fino a
quando gli ingredienti solidi non si sono sciolti.
Nel frattempo, scalda l’acqua alla stessa temperatura degli oli (un
normale termometro da cucina può essere utile), poi aggiungila a filo al
composto di cera e oli e inizia ad amalgamare con un frullino a immersione,
finché il composto non risulta omogeneo. Quando inizia a raffreddarsi, ma
prima che solidifichi, aggiungi mescolando con cura l’olio di rosa mosqueta
e l’olio essenziale a tua scelta.
Versa il composto in un barattolo di vetro munito di tappo e
precedentemente sterilizzato. Conserva la crema in frigo, ben chiusa, per un
mese al massimo.
L’olio di rosa mosqueta è un prodotto ottimo, rigenerante e lenitivo grazie
al contenuto di acidi grassi polinsaturi. Oltre a idratare la pelle in
profondità, può aiutare ad attenuare cicatrici derivanti da acne o scottature
ed è utilissimo nella prima comparsa delle smagliature.
«Ebbene? Che ne pensi?»
La voce di Camille mi scuote dallo stato di ipnosi in cui sono piombata di
fronte a quella che a prima vista mi è parsa una dimora incantata uscita
dritta dritta da un libro di fiabe. Immersa in un parco enorme costellato di
aiuole fiorite, boschetti e macchie di cespugli si erge una casa dalle
proporzioni di un castello. È grande, bianca, con i tetti spioventi e delle
meravigliose finestre contornate da tralci di bouganville, quasi troppo bella
per essere descritta.
«È un sogno» mormoro.
«Sì, è vero» concorda Camille. «Ho passato qui quasi tutta la mia
infanzia e per moltissimo tempo ho immaginato di essere la principessa di
un mondo incantato.»
«E poi che è successo?» le chiedo.
«E poi sono cresciuta» risponde con una risata. «Dai, entriamo così ti
presento le signore della casa e facciamo un giro di esplorazione.»
Le signore della casa sono tre donne dall’aria gentile, fra i cinquanta e i
sessant’anni, che accolgono Camille con l’affetto e il calore di tre zie. Lei le
ricambia con lo stesso trasporto e io mi chiedo quanto quelle tre donne
abbiano sopperito alla mancanza di una figura materna.
Il giro della casa richiede del tempo, passiamo in rassegna una fila di
stanze, una più bella dell’altra, fra le quali spiccano un salone pieno di
vetrate e un’immensa cucina rustica.
«Ho pensato che io occuperò la mia stanza e i ragazzi si distribuiranno un
po’ dove vogliono, siamo come una grande famiglia e i posti letto non
mancano. A te invece ho destinato la dépendance» mi dice. «Così avrai un
po’ d’intimità, non vorrei metterti in imbarazzo facendoti dormire con degli
sconosciuti» conclude con un sorriso.
Meglio così, in effetti la prospettiva di un gruppo così nutrito di persone
che non conosco mi aveva agitata un po’.
«E adesso che hai visto la casa, fai come se fosse tua. Rilassati, fai una
passeggiata nel parco, quello che vuoi. Io intanto vado a consultarmi con
Maëlle per i preparativi.»
«Va bene, allora penso che andrò a darmi una rinfrescata e a sistemare le
mie cose.»
«Ecco le chiavi, fai con comodo.»
La dépendance è un piccolo delizioso chalet rivestito in legno bianco,
separato dalla casa padronale da un boschetto di tigli. L’interno mi rivela un
piccolo salotto arredato in stile squisitamente provenzale, con legni bianchi,
vetrine e stoffe a fiorellini delicati che ricoprono sedie e divani. La camera
da letto ha al centro un letto matrimoniale a baldacchino, due poltroncine in
raso color cipria e un secrétaire. Nel bagno, rivestito di piccole piastrelle di
smalto bianco, trovano posto la cabina doccia, il lavandino sormontato da
un grande specchio rettangolare, ma soprattutto una splendida, opulenta
vasca da bagno ovale, dalle linee sinuose e i bordi arrotondati, sostenuta da
quattro piedini di zinco a forma di zampe leonine. La rubinetteria cromata
vecchio stile è perfettamente intonata al sapore vintage della stanza. Sembra
una casa delle bambole. Mi preparo con gioia a godere di tutti i suoi agi:
dopo una bella doccia rinfrescante, mi stendo sul letto intenzionata a
leggere un libro.
«Ehi, c’è nessuno in casa? Viola, mi senti?»
Il richiamo di Camille penetra nella nebbia fitta del mio sonno come
un’eco lontana. Apro gli occhi e mi accorgo che il libro che avevo
cominciato a leggere è schiacciato sotto la mia guancia, devo essere crollata
dopo le prime pagine. Con un po’ di fatica mi alzo e vado ad aprire la porta.
«Oh, scusami, ma stavi dormendo?» mi chiede Camille.
«Nn... o» rispondo con uno sbadiglio.
«Be’, cerca di svegliarti, bradipo, che fra poco è pronta la cena.»
Do un’occhiata all’orologio sulla parete del salotto e mi accorgo che sono
le sette. Accidenti se ho dormito!
«Vieni, andiamo a casa» continua lei. E tutta contenta mi tira per un
braccio verso la villa.
Entriamo in cucina, dove Justine ci ha preparato una cena da resuscitare i
morti: soufflé al formaggio, quiche lorraine, ratatouille, insalata di campo e
baguette appena uscita dal forno. Il tutto annaffiato dall’immancabile vino
bianco freddo. Duemila calorie solo per uno sguardo. Ma come al solito mi
godo dalla prima all’ultima portata.
Mentre pilucchiamo un po’ di frutta, dopo il banchetto pantagruelico,
chiedo a Camille qualche informazione sugli invitati alla festa.
«Oh, per lo più si tratta di amici d’infanzia e di scuola. Gli amici di
sempre insomma. Sono persone molto simpatiche, vedrai che ti troverai
benissimo con loro.»
«C’è qualcuno che già conosco?» In effetti di amici me ne aveva
presentati tanti alle feste a cui l’avevo accompagnata.
Lei rivolge lo sguardo al soffitto, pensierosa, mentre ripassa l’elenco dei
nomi. «Uhm... vediamo... François... no, non mi pare. Forse Jean-Marc...?
Uhm, no nemmeno lui.» Scuote la testa, ma poi il suo sguardo si illumina.
«Sì, c’è una persona che conosci!» esclama trionfante. «Ho invitato
Romain!» E scoppia a ridere come una pazza, godendosi il bellissimo
scherzo che mi ha giocato.
Ma soprattutto godendosi la mia faccia con occhi e bocca spalancati,
immagino.
«Che cosa hai fatto?» urlo. «Non puoi dire sul serio!»
«Oh, sì, invece!» ribatte lei senza smettere di sganasciarsi. «L’ho fatto
eccome!»
«Ma come...? Quando hai...? Dove?» sono talmente furiosa e sbalordita
che non riesco nemmeno ad articolare le parole.
«Te lo avrei detto in diretta se non ti fossi rifiutata di venire a cena
all’Hairy Biker con me, ieri. Così, visto che ero in giro ci sono passata e gli
ho detto della festa e lui è stato molto felice del mio invito, te l’assicuro. Ha
accettato immediatamente». È così gongolante che temo di vederla
scoppiare da un momento all’altro.
«Tu non avresti dovuto farlo! Ti avevo chiesto esplicitamente di non
affrontare più il discorso e...»
«Un invito non è un discorso. È un fatto» mi interrompe.
Vorrei strozzarla.
«Non osare metterti a cavillare, sai benissimo che cosa sto dicendo. Ti
diverte così tanto questo scherzetto? Be’, allora te lo rovino io il
divertimento: adesso faccio i bagagli e me ne torno a Aix a cercare un
albergo.»
Camille mi osserva con l’aria soddisfatta del gatto che ha messo il topo
all’angolo.
«Mi dispiace tesoro, ma non c’è alcun autobus né treno che possa portarti
a Aix a quest’ora. E le chiavi della macchina le ho io.» Sorride, e mi sembra
quasi che le siano spuntate un paio di vibrisse. «Rassegnati e vai a riposare.
Domani dovrai essere su-per-la-ti-va.»
Sospiro e mi affloscio sulla poltrona.
Meno male che il mio vestito blu sarebbe degno di Jessica Rabbit.
6
Il mattino si annuncia con un sole splendente che entra a fiotti dalle
finestre aperte. Apro gli occhi ancora assonnati e un’occhiata alla sveglia mi
dice che sono già le dieci. Non mi stupisce, ieri sera a forza di parlare siamo
andate a dormire alle due. Alla fine mi ero rassegnata all’idea e avevo
ammesso con Camille che la sua trovata era stata geniale. Adesso però,
l’agitazione torna a farsi sentire con un crampo alla bocca dello stomaco.
Una parte di me è felice di vedere Romain, l’altra vorrebbe semplicemente
nascondersi. Mi alzo e faccio una doccia veloce per raggiungere Camille a
casa.
Quando entro in cucina trovo Justine e Angélique intente a preparare
quella che sembra una provvista di cibo in previsione di una carestia.
«Buongiorno» mi salutano all’unisono. «Se vuoi fare colazione trovi tutto
il necessario sulla tavola in giardino, Camille è già lì.»
Ringrazio e vado a raggiungere la mia amica.
«Ciao, hai dormito bene?» mi chiede Camille.
«Sì, grazie, anche se hai fatto di tutto per farmi avere gli incubi» rispondo
scherzando.
«Sono sicura che dopo mi ringrazierai. Sbrigati a fare colazione, i ragazzi
saranno qui fra poco.»
«Okay» rispondo. «Allora diamoci da fare.»
Il resto della mattinata trascorre velocemente occupato dai preparativi
della festa e, per quanto mi riguarda, da una toletta accuratissima a cui mi
dedico con grande attenzione. Cedo al fascino della vasca e la riempio quasi
fino all’orlo con acqua calda alla quale aggiungo un bagnoschiuma
all’arancia e zenzero, dolce e pungente allo stesso tempo. Mi spoglio e mi
immergo, è talmente spaziosa che mi viene voglia di nuotare. Resto a
cincischiare un po’ nell’acqua e intanto cerco di immaginare l’imminente
incontro con Romain per non ritrovarmi impreparata o intimidita. Quello
che mi turba è che soltanto evocarne il pensiero mi fa affluire calore al viso
e il vapore dell’acqua tiepida c’entra ben poco... Meglio che mi concentri su
di me. Prendo il guanto di crine e comincio a passarlo dolcemente su tutto il
corpo. Terminato il bagno mi sciacquo velocemente con la doccia a mano e
prima di asciugarmi massaggio la pelle umida con l’olio di mandorle dolci
che crea con l’acqua un’emulsione idratante. Poi mi avvolgo
nell’asciugamano e sfrego energicamente per eliminare l’olio in eccesso. Il
risultato finale è una pelle vellutata, morbida e profumata. Davanti allo
specchio spazzolo i capelli fino a farli diventare lucidi e li raccolgo in una
coda. Lo sguardo critico che rivolgo all’immagine riflessa mi rassicura, ho
fatto un ottimo lavoro.
Poco dopo sento la voce di Camille che mi chiama. Il pullman è arrivato.
Mi infilo in fretta un vestito lungo di cotone verde acqua stampato a
minuscoli fiorellini lilla e, prima di uscire, ingoio quattro gocce di Rescue
Remedy.
L’ansia può giocare brutti scherzi.
Mi dirigo verso il vialetto dove gli ospiti stanno scendendo e scaricando i
bagagli. Mi accoglie un vociare giocoso e un disordine di colori e visi
allegri e sconosciuti che mi sorridono ogni volta che Camille mi presenta
come la sua “amica italiana”. Alcuni fanno battute scherzose sul mio
“esotismo”, altri mi danno il benvenuto, ma fra tutti i volti che incontro non
vedo l’unico che sto cercando sin dall’inizio e, per un attimo, mi sfiora il
pensiero che possa aver deciso di non venire all’ultimo momento. Mi
allontano di qualche passo per scrutare meglio il gruppo e poi, quando
ormai sto per gettare la spugna, lo vedo uscire dal pullman con il borsone in
mano. Con il cuore in gola lo osservo mentre indugia brevemente sul
gradino per ammirare la casa prima di scendere. Poi, come attratto da una
forza magnetica, si gira di scatto e i nostri sguardi restano incatenati per un
lungo istante. Un sorriso lento schiude le sue labbra mentre viene verso di
me, senza staccare gli occhi dai miei.
«Ciao, Viola» mi dice.
E io sono talmente felice di vederlo che quasi non riesco a rispondere al
saluto. Osservo i suoi occhi verdi, i capelli un po’ arruffati e la bocca
sorridente e mi rendo conto di quanto mi sia mancato.
«Ciao. Mi fa piacere vederti.»
«Anche a me. Davvero» risponde. E la sua espressione seria lo conferma.
Rimaniamo a guardarci senza sapere bene cosa fare. Per fortuna
l’imbarazzo viene fugato da Camille che con la sua solita irruenza corre
verso di noi per salutare Romain.
«Evviva, alla fine sei venuto!» esclama abbracciandolo e schioccandogli
due baci sulle guance, cosa che mi fa provare una punta d’invidia per la sua
naturalezza.
«Ma certo» le risponde lui, abbracciandola. «Avevi dei dubbi?»
«Oh, no!» afferma Camille, rivolgendomi un’occhiata trionfante. Sto per
ribattere qualcosa ma lei approfitta della mia esitazione per voltarmi le
spalle e girarsi verso il gruppo richiamando l’attenzione di tutti.
«Allora, truppa! Il programma prevede un pranzo leggero, poi tutti in
libertà fino alle sette. Dopodiché daremo inizio alle danze» grida
allegramente.
Io e Romain ci scambiamo un’occhiata, lui mi sorride e con un cenno mi
invita a unirmi al gruppo insieme a lui.
«La sistemazione è casuale, scegliete dove volete dormire e con chi»
continua lei. «Non ho assegnato alcuna stanza perché dichiaro aperta la
caccia all’alloggio migliore al mio... VIA!» urla a squarciagola. In un
attimo il vialetto si svuota e tutto il gruppo corre a perdifiato verso la casa
accompagnato da uno scroscio di risate allegre.
Chiusa nell’intimità della mia casa di bambola, osservo il vestito disteso
sul letto e i sandali sul pavimento. Mi sono rifugiata qui, con la scusa di un
leggero mal di testa, per non essere costretta ad approfittare della libertà
concessa da Camille fino all’ora di cena. Ho visto Romain per pochi istanti
e ancora non riesco ad abituarmi all’idea che fra poco passeremo un’intera,
lunghissima serata insieme, sotto lo stesso tetto. Saperlo così vicino mi fa
tremare le mani, provo un groviglio di sensazioni indescrivibili a parole.
Sono emozionata, certo, ma in me c’è anche il timore di non sapere come
comportarmi e soprattutto cosa aspettarmi da lui. E se alla fine lo vedessi
flirtare con qualcuna? Perché, nonostante le insinuazioni di Camille, i suoi
piani strampalati per farci stare insieme, in realtà io e Romain non siamo
niente. Soltanto due persone che si sono incontrate, si sono piaciute e si
sono baciate. Ma può un solo bacio sancire la nascita di un rapporto, quale
che sia? Soprattutto con quello che è accaduto dopo? Per un attimo mi sento
prendere dallo sconforto e mi viene voglia di nascondermi sotto le coperte.
Uno sguardo all’orologio mi dice che mancano pochi minuti alle sette. Non
voglio arrivare troppo presto, preferisco fare il mio ingresso quando tutti
saranno riuniti nel salone, per evitare i tempi morti dell’attesa. Indosso il
mio vestito blu, con tanto di orecchini e collana d’argento e lapislazzuli,
opto per un trucco leggero che mette in risalto gli occhi e spruzzo sul collo
un po’ della mia amata acqua di profumo all’ylang-ylang. Ne inspiro a
fondo l’aroma sensuale.
In ogni caso lui è venuto fin qui e scommetto qualsiasi cosa che non è
stato soltanto per i begli occhi di Camille.
Come previsto, quando entro nel salone gli ospiti sono già tutti lì.
Camille, raggiante e bellissima in un abito corto di lino bianco che mette in
risalto il suo fisico da modella e i capelli color oro, mi viene incontro
sorridendo.
«Ehi, ti sei fatta aspettare ma ne è valsa la pena» mi dice, con uno
sguardo d’ammirazione. Poi si avvicina per aggiustarmi una ciocca di
capelli e mi sussurra nell’orecchio: «Sbrigati a marcare il territorio. Il
ragazzo ha già raccolto parecchi consensi.»
«Piantala» le sussurro a mia volta. Ma non resisto alla tentazione di dare
uno sguardo in giro. Non mi è difficile individuarlo, la sua notevole statura
lo fa spiccare sullo sfondo della piccola folla. È appoggiato allo stipite della
portafinestra, un calice di vino in una mano, l’altra appoggiata con
noncuranza nella tasca dei pantaloni. È una posa che conosco benissimo,
calma e sicura di sé, e anche a distanza mi fa provare un vago senso di
imbarazzo che mi trattiene dall’avvicinarmi a lui. Soprattutto perché lo
vedo impegnato in una conversazione con due ragazze che sembrano
pendere dalle sue labbra. Lo guardo a lungo, indugiando sui suoi occhi e su
quella bocca irriverente che sorride compiaciuta alle due ancelle adoranti.
Un istante dopo, ancora una volta, il suo sguardo si solleva e incontra il
mio, come se ci unisse un legame occulto, più forte della vicinanza fisica.
Senza smettere di parlare, lui solleva un sopracciglio, quasi un invito, ma
con un pizzico di civetteria decido di ignorarlo e vado a unirmi a Camille
che sta intrattenendo altri amici vicino al tavolo del buffet, dopo averlo
liquidato con un sorriso che cerca di essere spavaldo. Prendo un calice di
vino e mi unisco alla conversazione.
Se mi vuole, dovrà essere lui a venire da me.
La festa piano piano comincia ad animarsi. La musica invita tutti a
scatenarsi e il vino che scorre, abbondante e scelto con cura, contribuisce a
rendere euforica l’atmosfera. Il piacevole calore provocato dall’alcol mi
distende e a poco a poco le note trascinanti della disco anni Settanta mi
contagiano. Ho voglia di divertirmi, di ballare e sudare, lasciando perdere
imbarazzi, pensieri, preoccupazioni di ogni sorta. Mi sbarazzo dei tacchi alti
e, a piedi nudi, mi tuffo in mezzo agli altri. Sento lo sguardo di Romain su
di me e comincio a ballare. Un ragazzo mi si avvicina, balla insieme a me,
mi prende una mano e mi fa girare. Con la coda dell’occhio scorgo Romain
che beve, parla e ride insieme alle sue amiche, ma continua a guardare solo
me. Chiudo gli occhi e mi abbandono alla musica, consapevole di stare
inscenando uno spettacolo a suo esclusivo beneficio.
Guardami, gli sto dicendo, lo so che ti piace quello che vedi.
Ballo senza fermarmi finché le gambe non mi reggono più e sento il
bisogno di bere. Presa dal piacere della danza e della musica non ho più
controllato i movimenti di Romain e quando getto un’occhiata verso la
portafinestra lui è scomparso. Scruto attentamente la sala, ma non lo vedo
da nessuna parte.
Non è venuto da me.
D’un tratto tutta la mia spensieratezza svanisce e subentra il timore di
aver sbagliato tattica. Ripenso alle due ragazze. Forse non avrei dovuto
snobbarlo, magari mi ha fraintesa e ha capito che non voglio avere a che
fare con lui, magari si è rivolto altrove in cerca di compagnia...
Tento di assumere un atteggiamento disinvolto, ma l’ansia e la delusione
mi stringono il cuore. Mi faccio strada verso il tavolo del buffet per cercare
conforto in un bel bicchiere di vino.
Di Romain ancora nessuna traccia.
La vista del tavolo carico di manicaretti mi fa venire fame e, dopo aver
buttato giù un calice di vino in due sorsate, mi avvicino e mi servo
abbondantemente.
«Mi chiedo come fai a mangiare così tanto e rimanere così magra.»
Mi giro di scatto, sorpresa, ma il vino traditore mi fa inciampare nei miei
piedi e soltanto le braccia di Romain mi trattengono da una caduta rovinosa
con tanto di cocci.
«Ehi, attenta!» esclama. «È questo l’effetto che ti faccio? Scusami, non
immaginavo...» Scoppia a ridere mentre mi aiuta a recuperare l’equilibrio.
Arrossisco violentemente e maledico la mia goffaggine che in un istante
ha vanificato tutta la messinscena del ballo sexy.
«Ehm... no... che c’entri tu? È... uhm, il vino...» balbetto, facendo un
passo indietro per ristabilire le distanze.
«Vedo...» mi dice.
Mi osserva con attenzione, soffermandosi sul mio vestito, e io spero che
il ballo scatenato non abbia danneggiato troppo la mia accurata
preparazione.
«Ho avuto l’impressione che mi stessi evitando, prima» mi dice con un
sorriso ironico.
«Io? No, affatto. Ma mi è sembrato che fossi... impegnato, quindi non ho
voluto disturbarti.»
«Impegnato... no, ho conosciuto due ragazze, Justine e Marie-Claire.
Molto simpatiche, tra l’altro, ma c’era da aspettarselo essendo amiche di
Camille.»
Me ne resto zitta, con il piatto in mano, e penso a quanto questo scambio
di battute sia lontano da quello che provo davvero e vorrei che accadesse.
Ma se rimango qui ad aspettare che una qualche energia occulta agisca per
me, rischio di perdere un’occasione. Appoggio il piatto intonso sul tavolo e
gioco il tutto per tutto.
«Non ho più fame. Ti va di fare una passeggiata in giardino? Qui dentro
fa un caldo pazzesco.»
«Con piacere» mi risponde. «Ma prima gradirei che mangiassi almeno un
paio di tartine. Conoscendoti non vorrei doverti riportare indietro in
braccio...»
Il nervosismo mi ha chiuso lo stomaco, ma per evitare domande sulla mia
improvvisa inappetenza addento un crostino al salmone e poi, senza perdere
tempo a cercare le scarpe, mi dirigo verso la portafinestra. Romain mi
segue.
Usciamo e l’aria tiepida mi rinfresca il viso accaldato. La notte è
splendida, piena di stelle, colma di un silenzio surreale appena increspato
dal frinire dei grilli. Sotto i miei piedi l’erba del prato è morbida come
velluto. Camminiamo per un po’ fianco a fianco, senza sfiorarci, ma
intensamente consapevoli della nostra vicinanza. So che questa notte
accadrà qualcosa, nel bene o nel male. Parleremo, forse ci spiegheremo
ancora o forse no, in questo momento le parole mi sembrano
un’interferenza molesta. Quello che voglio davvero è prolungare
quest’attesa, vivere un istante così carico d’emozione e aspettativa il più a
lungo possibile.
Lentamente arriviamo alla piscina immersa in una pozza di luce lunare.
Mi avvicino al bordo e ammiro l’acqua fosforescente.
«Quando ero piccola nessuno riusciva a trattenermi lontano dall’acqua.
Mare, lago, stagno, piscina... dovevo per forza metterci dentro almeno un
piede, era più forte di me» mormoro, quasi a me stessa.
«E adesso?» chiede Romain.
Gli lancio un’occhiata. «Oh, non sono tanto cambiata!» In un attimo mi
tiro su il vestito e mi siedo sul bordo tuffando le gambe nell’acqua. La
frescura mi strappa un sospiro di piacere, mi appoggio all’indietro sulle
mani e sollevo il viso verso il cielo.
Romain si siede accanto a me, all’asciutto. Giro la testa verso di lui e ci
guardiamo, in silenzio. La perfezione di questo momento non richiede altre
parole.
Poi lui si sporge e mi sfiora la guancia con un dito. «Sei bellissima questa
sera.»
La sua carezza mi fa scorrere un brivido sulla pelle.
«Grazie» mormoro, sperando che non smetta di sfiorarmi.
«Sai perché sono venuto qui?» mi chiede, e il suo dito percorre
pigramente il mio braccio, giù fino alla mano appoggiata a terra.
«Perché Camille ti ha invitato con uno dei suoi sorrisi assassini e tu non
hai saputo dirle di no?»
Lui sorride e mi guarda intensamente. «No. Sono venuto perché avevo
voglia di vederti. Mi sei mancata.»
L’aria fresca non basta a trattenere il rossore che sento diffondersi sul mio
viso.
«Non pensavo di mancarti. Non dopo quello che mi hai detto l’ultima
volta» gli rispondo. E il timore di sentir ribadire le sue convinzioni mi
aggredisce lo stomaco.
Ma Romain non parla. Si avvicina e le sue mani si chiudono a coppa
intorno al mio viso.
«Quando la smetterai di ribattere punto per punto, Italie...» mormora
sulle mie labbra.
“Mai” vorrei dirgli. Ma la sua bocca si impossessa della mia senza
darmene il tempo. Mi bacia appassionatamente, con lentezza, e io rispondo
con lo stesso slancio, senza inibizioni. Assaporo la sua bocca e la mia testa
si svuota, lasciando entrare soltanto l’eccitazione delle sue carezze, le mani
che scorrono sulla mia schiena, sulle cosce, libere di esplorarmi. Dopo
qualche istante si stacca da me, senza lasciarmi.
«Senti, Viola, io...» mi sussurra.
Ma non lo lascio finire. Gli metto un dito sulle labbra. «No» mormoro.
«Non adesso.» Mi sciolgo dal suo abbraccio e mi alzo, incurante dell’acqua
che mi inzuppa il vestito. Gli tendo una mano per invitarlo a seguirmi.
«Voglio farti vedere la mia stanza» gli dico con un sorriso. «È favolosa.»
Quasi correndo lo guido verso il cottage, e intanto ci baciamo,
inciampando l’uno nell’altra, ridendo, senza smettere di toccarci, presi da
una frenesia che ci toglie il respiro. Davanti alla porta armeggio con la
chiave mentre lui mi bacia sul collo, fra i capelli e, quando finalmente
riesco ad aprire, si scosta leggermente, mi guarda e con un gesto deciso mi
prende in braccio, strappandomi un grido di sorpresa.
«E adesso vediamo com’è questa stanza» mi sussurra all’orecchio. Entra
in casa e, con un calcio, chiude la porta dietro di noi.
Il braccio di Romain pesa sul mio seno e mi impedisce di girarmi. È
giorno fatto, ma lui dorme ancora profondamente accanto a me. Lo guardo,
osservo il suo profilo rilassato, le spalle muscolose coperte dal lenzuolo, e
ripenso alla notte appena trascorsa. Il mio corpo è ancora caldo, sento il
sangue scorrere sotto la pelle come non pensavo potesse fare ancora.
Rivedo l’immagine dei nostri corpi intrecciati, dei baci e delle carezze che
ci siamo scambiati, della passione che abbiamo offerto l’uno all’altra.
Chiudo gli occhi e assaporo la sensazione di perfetto benessere che mi
invade. Nessun pensiero, soltanto emozioni, ricordi recenti si
sovrappongono nella mia mente. Sono felice e niente può turbare questo
momento. Un sorriso soddisfatto distende le mie labbra.
«Vedo che siamo di buonumore, stamattina.»
Romain si è svegliato.
«Uhmm, proprio così» gli rispondo rannicchiandomi contro di lui.
«Allora non ti dispiacerà se continuo a occuparmi del tuo benessere»
mormora, e sento la sua mano che mi accarezza una coscia.
Scoppio a ridere. «Affatto...»
BAGNO PROFUMATO PER LUI E PER LEI
Ingredienti per LEI: 100 ml di olio di jojoba, 2 gocce di olio essenziale di
calendula, 2 gocce di olio essenziale di arancio amaro, 2 gocce di olio
essenziale di sandalo, 2 gocce di olio essenziale di salvia, 2 gocce di olio
essenziale di garofano.
Ingredienti per LUI: 100 ml di olio di jojoba, 2 gocce di olio essenziale di
cipresso, 2 gocce di olio essenziale di eucalipto, 2 gocce di olio essenziale
di rosmarino, 2 gocce di olio essenziale di menta.
Mescola tutti gli ingredienti e mettili in due recipienti di vetro scuro,
dotati di tappo e sterilizzati. Agita sempre prima dell’uso. Ne basta un
cucchiaino sciolto nell’acqua calda della vasca per far sprigionare tutte le
virtù energizzanti e defaticanti degli oli essenziali. Un regalo che puoi
concederti alla fine di una giornata particolarmente stancante, o di uno
sforzo muscolare intenso.
7
La grande casa padronale risuona delle voci dei ragazzi anche da lontano.
Romain mi tiene per mano mentre ci avviciniamo alla porta.
Abbiamo indugiato a letto fino all’ultimo minuto disponibile,
continuando a cercarci senza mai averne abbastanza. Una volta o due ho
pensato distrattamente al programma di Camille che per quest’ultima
giornata prevedeva altro intrattenimento fino all’ora di pranzo per poi
tornare a Parigi tutti insieme, ma l’ho ignorato senza sentirmi minimamente
in colpa. Romain e soltanto Romain è stato al centro dei miei pensieri.
Questa mattina, quando ci siamo alzati e lui è andato a fare la doccia, mi
sono sorpresa del grado di intimità che all’improvviso si è stabilito con una
persona fino a ieri quasi sconosciuta. Ho temuto che, dopo l’amore, quando
ognuno torna in sé e i corpi smettono di fondersi in uno solo, subentrasse
l’insidiosa freddezza del disagio a scavare una distanza, ho temuto che avrei
notato i piccoli segni della fretta di andar via per tirarsi fuori da una
situazione di colpo imbarazzante. Eppure niente di tutto questo è accaduto.
La luce indiscreta del sole non ha spinto nessuno di noi due a nascondersi
dietro parole o gesti di circostanza, nessuno di noi due ha ritenuto doveroso
mostrarsi diverso da quello che è. Poi, d’un tratto, all’immagine dell’uomo
che mi aveva dormito accanto si è sovrapposta quella di Michel. Mi sono
sorpresa a rivivere sensazioni familiari che credevo di non poter più provare
e solo a quel punto un vago senso di disagio si è affacciato in me. Come ho
potuto dimenticarlo, anche solo per una notte? Com’è possibile che il mio
corpo abbia risposto con tanta intensità all’abbraccio di un altro? Per un
attimo mi sono sentita in colpa, ma poi ho ricordato le sue parole, le ultime
dedicate a me.
Non rinunciare alla vita per colpa mia, Viola... Vivi, ama, con tutta la
passione di cui ti so capace, e sappi che io sarò sempre con te...
E mi sono resa conto che, senza saperlo, gli ho detto di sì.
Ho guardato ancora Romain, il suo viso sorridente, i suoi occhi profondi.
Abbiamo condiviso un momento, bello e intenso, e per ora è tutto ciò che
conta.
«Pare che la festa sia andata per le lunghe» dico, ascoltando la musica
che adesso esce dalle finestre aperte. «Forse ci siamo persi il meglio.»
«Uhm... forse. Ma anche a noi non è andata poi così male» ribatte
Romain, strizzandomi l’occhio.
Lo guardo senza provare imbarazzo. «In effetti... no, direi di no.»
La porta di casa è aperta, entriamo senza bussare. Il salotto è in perfetto
ordine, nessuna traccia denuncia i bagordi della sera appena trascorsa. I
ragazzi ci salutano, le borse già pronte per essere portate via. Fra poco
ognuno tornerà alla propria vita di sempre e un po’ mi dispiace sapere che
questa parentesi sta per concludersi, soprattutto perché non so cosa mi
riserveranno i prossimi giorni.
Dalla porta della cucina arriva Camille, fresca come una rosa, con un
vassoio carico di spremute e succhi di frutta assortiti.
«Eccomi qua, gente, un bel pieno di vitamine per aiutarvi ad affrontare il
viaggio... Oh!» esclama, vedendo me e Romain. «Guarda, guarda, i due
piccioncini si sono svegliati. Ce l’avete fatta, finalmente!» E scoppia a
ridere di gusto, mentre gli altri si scambiano occhiate eloquenti. E tutto
l’imbarazzo che non ho provato finora mi travolge come una cascata. Non
mi piace sentirmi al centro dell’attenzione. Sbircio Romain, ma lo vedo
sorridere come gli altri, perfettamente a suo agio.
«Be’, ce la siamo presa un po’ comoda, spero che ci perdonerai» le dice,
in tono suadente.
«Niente da perdonare, te lo assicuro.» Poi guarda me e mi fa cenno di
seguirla. «Viola, verresti un attimo in cucina? Ho bisogno del tuo aiuto.»
So perfettamente che non le serve nulla, ma è soltanto una scusa per
rimanere a quattr’occhi e farmi il terzo grado, com’è nel suo stile. Romain
intanto è andato a chiacchierare con alcuni ragazzi, io sospiro e seguo
docilmente Camille.
Non appena si chiude la porta alle spalle mi salta addosso. «Allora?
Com’è andata?» mi chiede, piena di curiosità.
«È andata... bene, mi dispiace aver perso quasi tutta la festa, ma...» le
rispondo senza entrare in particolari.
«Ma chi se ne importa della festa, ce ne saranno altre mille. Piuttosto,
adesso come ti senti?»
«Mah, bene, diciamo che evito di farmi domande.»
«Su cosa?»
«Be’, su domani e dopodomani...»
«Viola, segui il mio consiglio: carpe diem, vivi giorno per giorno e non ti
fasciare la testa in anticipo. Troppe domande rovinano le cose.»
«Credo che tu abbia ragione» le dico.
«Brava, così mi piaci!» Poi dà un’occhiata all’orologio sulla parete.
«Penso che sia ora di salutarci, altrimenti farete tardi per il treno. Noi ci
sentiamo nei prossimi giorni, non appena torno a Parigi.»
La guardo, stupita. «Ma come, non parti adesso insieme a noi?»
«No, ho deciso di rimanere qui qualche giorno. Sai... ieri mi ha telefonato
mia madre, per farmi gli auguri e... ha detto che le farebbe piacere venire
qui, per festeggiare insieme il mio compleanno. Così ho pensato che
sarebbe l’occasione buona per parlare un po’. Come mi hai detto anche tu.»
Mi sorride.
Sono felice di questa decisione, potrebbe rivelarsi salutare per entrambe.
Poi mi viene un’idea. «Hai fatto benissimo, davvero. Pensi che potresti
presentarmela? Sarei curiosa di conoscerla.»
E di approfondire l’interrogativo rimasto in sospeso nella mia mente.
«Oh, certo. Ti chiamo quando sono a casa. Tu intanto comportati bene e
ricorda: carpe diem» mi ripete strizzandomi l’occhio.
Arriviamo a Parigi nel pomeriggio. Il viaggio di ritorno mi è parso sin
troppo breve, io e Romain non abbiamo parlato molto, ci siamo limitati a
stare uno accanto all’altra in mezzo agli altri, consapevoli della nostra
vicinanza.
Almeno io lo ero. E ho cercato di impegnare il pensiero altrove, di evitare
le domande che si affacciavano impertinenti alla mia mente. Carpe diem è
stato il mio mantra fino a quando abbiamo preso un taxi dalla stazione e
Romain ha dato l’indirizzo di casa di Gisèle. Allora ho capito che non
sarebbe rimasto insieme a me.
«Ti accompagno, poi vado a casa» mi ha detto.
Ha letto la delusione sul mio viso perché ha aggiunto: «Devo lavorare».
Lavorare di domenica sera? Da casa?
«Ah sì?»
«Sì, be’... devo finire di scrivere... dei documenti.» Ha fatto un gesto
vago con la mano.
In quel momento tutti i miei timori sono venuti a galla e ho dovuto lottare
per non farli trasparire. «Okay» ho detto con il tono più leggero possibile,
«allora... ci sentiamo».
Lui mi ha sorriso e lì, davanti al taxi, in mezzo alla strada, mi ha stretta
fra le braccia e mi ha baciata appassionatamente. «Sì, ci sentiamo» ha detto,
lasciandomi piacevolmente stordita. Sono rimasta qualche istante a
guardare la macchina che si allontanava con un’espressione un po’ ebete sul
viso.
Carpe diem.
Salgo le scale a passo di carica e apro la porta di casa. «Gisèle, ci sei?
Sono tornata» grido dall’ingresso, con il fiatone.
«Sì, cara, vieni sono sul terrazzo». La sua voce mi arriva attutita.
La trovo in mezzo alle sue piante, sporca di terra come il pavimento su
cui sembra essere passato un branco di segugi in caccia. «Ma che stai
facendo?»
Lei si raddrizza, con le mani piene di calendule con tanto di zolle.
«Niente, ieri stavo trafficando qua fuori e mi è sembrato che il terrazzo
fosse poco colorato, così ho fatto un salto al vivaio e... ho provveduto!» mi
dice tutta contenta.
Il profumo dei fiori è talmente intenso che arriva fino a me. Lo inspiro a
fondo. «Hai fatto bene.» Mi guardo intorno e osservo le file di piante
aromatiche e officinali ordinatamente disposte sulle rastrelliere di legno.
Pelargonio, anice, melissa, lavanda, rosmarino, menta, genziana... Quanto è
rilassante l’aria di quotidiana semplicità che emana questa sorta di giardino
pensile, così pieno di colori e profumi. «Che bello essere a casa...»
mormoro fra me e me.
«Felice di sentirtelo dire, tesoro» mi dice Gisèle, mentre si toglie i guanti.
«Ma adesso che ne dici se ci prendiamo qualcosa di fresco, così mi racconti
il tuo weekend?» Si asciuga con un fazzoletto il viso accaldato e mi precede
in casa. Indugio per un attimo vicino alle piante. Da raccontare ho
parecchio, ma l’idea mi imbarazza un po’. Soprattutto perché i vecchi
discorsi di Gisèle su Romain tornano a ronzarmi nel cervello.
«Ti sei divertita?» mi chiede lei mentre riempie due bicchieri di succo di
frutta.
Sorseggio la bevanda rinfrescante. «Sì, molto. La casa è di una bellezza
da togliere il fiato. C’era parecchia gente, tutti vecchi amici di Camille e...
c’era anche Romain» mormoro nel bicchiere.
Gisèle inarca un sopracciglio. «Ah. L’hai invitato tu?»
«No. È stata una trovata di Camille, l’ha invitato a mia insaputa e me l’ha
detto soltanto la sera prima della festa. E... prima che ti costringa a farmi il
terzo grado: abbiamo passato la notte insieme...»
Lei prende un sorso di succo, senza parlare.
«Non dici niente?» le chiedo, meravigliata.
Mi sorride. «Pensavi che ricominciassi con le mie avvertenze? No, sei
una donna adulta, non serve che io ti dica cosa fare e con chi farlo.
L’importante è che tu stia bene. Solo che...» Si interrompe sul più bello.
«Solo che?» la incalzo, presa dalla curiosità.
«Poco tempo prima che tu arrivassi a Parigi è tornata Isabelle, la sua...
fidanzata.»
Resto con il bicchiere in mano, paralizzata dalla sorpresa. Questa non me
la sarei mai aspettata. «Tornata??!!»
«Sì... l’ho incontrata una volta a pranzo all’Hairy Biker. Romain me l’ha
presentata, mi è sembrato piuttosto felice. Poi però, dopo un paio di giorni li
ho visti discutere per strada, qui vicino, e poi lei è andata via. Non so
esattamente cosa sia successo, so soltanto che dopo quella visita Romain è
cambiato... come se si fosse incupito.» Gisèle mi osserva, forse per capire
l’effetto di questa rivelazione. Sono talmente sconcertata che non riesco ad
articolare una parola. Lui non mi ha mai detto che c’era stato un seguito,
nemmeno quando ci siamo visti in quella libreria. Perché nascondermi
questo particolare quando era stato così sincero su tutto il resto?
«Tesoro, non ti avrei raccontato questo episodio se fra te e lui non fosse
accaduto niente. Però vista la situazione mi è sembrato opportuno farlo.
Come ti ho detto, Romain non è una cattiva persona, ma... ecco... non
lasciarti coinvolgere troppo, non vorrei che ci rimanessi male.»
Bevo un po’ di succo e intanto rifletto su quanto ho appena saputo. Non è
soltanto la cosa in sé a disorientarmi, ma il fatto che Romain me l’abbia
tenuta nascosta con tanta naturalezza. E se mi ha nascosto questo, cos’altro
devo aspettarmi?
Odio il lunedì, da sempre. E questo non fa eccezione, soprattutto perché i
discorsi di ieri sera mi hanno tenuto sveglia fino a tardi. L’immagine di
Romain insieme a una donna senza volto ha continuato a disturbare il mio
sonno e il risultato è che stamattina sono di pessimo umore. Oltretutto la
serranda del negozio si è inceppata e abbiamo dovuto chiamare un fabbro,
poi è arrivata una cliente che ha voluto a tutti i costi che le preparassi i soliti
Fiori di Bach e io mi sono accorta di aver terminato Honeysuckle e White
Chestnut, per cui ho provato a chiamare il fornitore di Gisèle, ma è sparito
chissà dove e non risulta raggiungibile. E adesso, ciliegina sulla torta, ecco
qui il bancario Philippe Leblanc. Lo fisso con un’espressione truce. Non mi
piace affatto il tono con cui si sta rivolgendo a Gisèle, anche se quello che
dice mi sta spaventando parecchio.
«Signora Fleuret-Bourry, l’avevo espressamente invitata a venire in
banca per parlare del suo prestito, come mai ha ignorato la mia richiesta e si
è nascosta dietro la sua assistente?» Mi rivolge uno sguardo sprezzante.
«Non lo sa che la sua situazione si aggrava di giorno in giorno? Sa che le
rate insolute potrebbero dare l’avvio a una procedura di pignoramento? È
questo che vuole?» Il suo piglio aggressivo e arrogante mette in soggezione
Gisèle, che non riesce a tenergli testa. E la cosa che mi infastidisce ancora
di più è che questo maleducato non si fa scrupolo di sproloquiare davanti ai
clienti.
«Devo proprio dirglielo, signora, lei sta rischiando molto se insiste nel
trascurare i miei solleciti.» Continua a incalzarla e tira fuori un fascio di
fogli che sbatte con malagrazia sul bancone. Gisèle trasale e io non mi
trattengo più.
«Signor Leblanc!» esclamo, cercando di mascherare l’ansia dietro
l’aggressività. «Vorrei pregarla di comportarsi in modo più urbano, siamo in
un luogo pubblico.» Lui si gira a guardarmi, infastidito dall’interruzione. «E
poi non capisco il perché di questo tono minaccioso, la signora Fleuret-
Bourry le ha già spiegato che c’è stato un piccolo ritardo dovuto a problemi
di organizzazione, ma dato che il negozio sta andando molto meglio, d’ora
in poi le rate verranno pagate entro le scadenze previste.»
Leblanc ascolta scettico le mie proteste. «E le dispiacerebbe dirmi come
ha intenzione di pagare, visto che i conti del negozio, fra vendite e ordini,
non sono in pari?»
«Di questo non deve preoccuparsi» gli rispondo con sicurezza. «La mia
attività di naturopata ha ampliato molto la clientela del negozio e i pazienti
che vengono da me comprano qui i prodotti di cui hanno bisogno, e
inoltre...»
Un istante d’esitazione, poi mi lancio.
«Da questa settimana inizieranno dei seminari di cosmesi naturale, qui
nel negozio. Ogni venerdì.» Gisèle si volta di scatto con gli occhi spalancati
e la domanda “Ma che diavolo stai dicendo? “ stampata in faccia. La ignoro
e vado avanti come se niente fosse. «Sì, come dicevo, ogni venerdì ci sarà
un seminario di tre ore in cui i clienti impareranno a preparare cosmetici
naturali con le materie prime che abbiamo qui in negozio. Sono certa che
anche questo contribuirà a incrementare le vendite.»
«E chi dovrebbe tenere questi seminari, lei? La... naturopata?» Il bancario
mi squadra da capo a piedi con un sorrisetto.
«Esattamente. Anzi...» Mi ergo in tutta la mia media altezza e mi
avvicino a lui da dietro il bancone. «Dato il suo atteggiamento ostile e
sostenuto, e la postura così chiusa, le consiglierei qualche seduta di Reiki
per riequilibrare i suoi chakra e poi...» mi avvicino ancora di più, «vedendo
il colorito della sua pelle e quel fondo giallastro della sclera la incoraggerei
a mangiare meno grassi e a provare una floriterapia... senza contare che il
colore della sua aura, così scuro, suggerisce disarmonie che potrebbero
indicare patologie di vario genere...»
«Non dica sciocchezze» mi interrompe Leblanc, aggiustandosi la
cravatta. «Signora Fleuret-Bourry, per ora lasciamo il discorso in sospeso,
ma mi aspetto dei risultati concreti al più presto. Arrivederci» conclude
raccogliendo i suoi fogli e affrettandosi a uscire.
Quando la porta si richiude, Gisèle si volta verso di me. «Hai visto
davvero la sua aura?»
«Certo che no, sono una naturopata, mica una fattucchiera» le dico
ridendo. «Ma mi stava dando fastidio, così l’ho messo in fuga.»
Lei ride. «Hai fatto bene. Ma... cos’è questa storia dei seminari?»
«Non lo so, mi è venuto in mente lì per lì. Senti Gisèle» continuo poi in
tono serio, «Leblanc sarà anche un rompiscatole, ma è indubbio che qui
dentro servano dei cambiamenti e organizzare dei corsi potrebbe essere
un’idea. Come pure mettere una serranda elettrica e non perdere due ore per
chiamare un fabbro... Dobbiamo essere più competitive.»
«Proprio quello che non ho mai voluto fare finora» mi risponde con aria
afflitta.
«Ti prometto che non snaturerò il negozio, voglio soltanto provare a
renderlo più redditizio. Fidati di me!»
Gisèle mi guarda con affetto. «Va bene, mi fido. D’altra parte da quando
ti sei rimessa al lavoro i risultati non sono mancati, a proposito...» Dà
un’occhiata all’orologio. «Fra poco arriverà la signora Dubois con la nipote,
ha chiamato quando tu non c’eri.»
«Okay, vado a prepararmi.»
Entro nello studio e do un’occhiata in giro per accertarmi che sia tutto in
ordine. Accendo il computer e preparo la macchina fotografica, poi brucio
un incenso profumato al gelsomino e metto sul fornello spento il bollitore
dell’acqua.
Chissà cosa starà facendo Romain.
Il tarlo della paura comincia a fare il suo lavoro. Forse sto mettendo
troppo in questo rapporto appena cominciato, non dovrei sentirmi così
attaccata a lui. Ma Romain mi piace, e molto, anche se ha dei lati oscuri che
mi lasciano perplessa. Non vorrei perderlo proprio adesso che ho iniziato a
conoscerlo...
Le voci che vengono dal negozio mi strappano ai pensieri cupi, poco
dopo sento bussare alla porta.
«Avanti.»
«Buonasera, dottoressa.»
La signora Dubois entra seguita da una ragazzina minuta che cammina
controvoglia e a testa bassa. Indossa la divisa di una scuola, gonna a pieghe,
giacca e cappellino che le nasconde i capelli di cui scorgo appena una
ciocca color rame.
«Prego, accomodatevi» dico loro indicando le sedie davanti al tavolo.
«Lei è Sophie, la mia nipotina» dice la signora.
La ragazzina si siede e finalmente solleva il viso.
È un visetto grazioso e pulito, illuminato da due grandi occhi castani e...
Reso inconfondibile da un neo sopra il labbro superiore.
Un neo come quello di Cindy Crawford.
8
Resto pietrificata.
L’occhiata fugace di una ragazzina troppo truccata. Lo strattone e il
dolore al ginocchio. Capelli rosso fiamma che ondeggiano al vento.
Le immagini dello scippo si affastellano rapide nella mia mente mentre
mi siedo e continuo a osservare quel volto sperando di trovarvi un
particolare che ne smentisca il ricordo. Ma non ci sono dubbi. È proprio lei.
Eppure la sua espressione indifferente fa vacillare la mia certezza. Possibile
che non mi abbia riconosciuta?
«Piacere, Sophie. Io sono Viola.» Le tendo la mano e gliela stringo a
lungo per obbligarla a guardarmi, ma i suoi occhi non tradiscono alcun
segno di riconoscimento. Le alternative sono due: o ha agito in maniera
talmente abituale che non si è data nemmeno la pena di guardare in faccia la
sua vittima, oppure Sophie è una grande attrice. D’istinto provo un moto di
stizza per questa ragazzina che si permette di starsene seduta sulla mia sedia
nel mio studio, come se niente fosse, dopo quello che ha fatto. Poi però
scorgo il guizzare ansioso degli occhi dietro il velo di freddezza, le unghie
delle mani rosicchiate, i piedi incrociati e storti sotto la sedia. È soltanto
un’adolescente, un groviglio di emozioni appena catapultata oltre la soglia
dell’infanzia, in quella terra di nessuno contesa fra essere e dover essere che
abbiamo attraversato tutti. Osservo Sophie, seduta un po’ curva, con le
braccia incrociate e tutta l’aria di voler essere in qualunque altro posto del
mondo tranne che qui, poi la signora Dubois, un monumento di
compostezza e contegno. Scommetto che non è una cattiva ragazza, mi dà
più l’idea di una creatura delicata, vulnerabile, forse vittima di un corto
circuito che l’ha fatta deviare su una strada oscura. E magari anche lei si sta
chiedendo ancora perché.
Mi viene un’idea. «Signora Dubois, forse sarebbe meglio se lei uscisse un
attimo... solo per lasciarmi fare conoscenza con Sophie.» Lo dico
gentilmente, ma la signora aggrotta la fronte.
«Non ne vedo la necessità, mia nipote non ha segreti con me.»
Non ne sarei così sicura, penso. «Oh, non lo metto in dubbio, ma per me
è importante essere a tu per tu con i pazienti. La chiamerò non appena
scatterò le foto.» Oppongo un sorriso rassicurante al suo sguardo contrariato
e lei, dopo un attimo di resistenza, cede. «Va bene, dottoressa. Aspetterò qui
fuori» sottolinea prima di alzarsi.
Non appena esce vedo che Sophie ricomincia a respirare e si appoggia
allo schienale della sedia. Non mi ero sbagliata.
«Allora, Sophie» esordisco cercando un modo neutro per superare la
distanza fra di noi, «tua nonna mi ha detto che hai sedici anni e frequenti il
liceo a indirizzo letterario...»
All’improvviso Sophie si raddrizza sulla sedia e non mi dà il tempo di
finire. «Senti, Viola, io non so che cosa ci faccio qui, okay? È stata un’idea
di mia nonna che crede che io abbia dei problemi perché ultimamente ho
preso qualche insufficienza a scuola, come se un tre fosse la disgrazia
peggiore che possa capitare nella vita... Ma te lo dico subito: io non ho
problemi. Di nessun genere. Ho soltanto deciso di divertirmi un po’ invece
di starmene chiusa dentro casa a fare la muffa sui libri... che tanto poi nella
vita non servono a niente... Ti pare una cosa tanto strana?» mi chiede con
aria di sfida.
Okay, l’adolescente ha tirato fuori gli aculei.
«No, non è affatto una cosa strana, anzi, direi che il divertimento è
sacrosanto. A te cosa piace fare?»
Mi guarda un po’ perplessa, forse spiazzata da un tono scanzonato che
non si aspettava di sentire.
«Mah... che ne so, uscire, vedere gente...» dice sprofondando nella sedia
con aria vissuta e annoiata.
«E magari starsene per strada a fare cose fuori dagli schemi... pericolose?
Giusto per vedere l’effetto che fa? Divertirsi è sano, te l’ho detto, ma certi
divertimenti possono avere conseguenze molto, molto spiacevoli, a volte...»
suggerisco lanciandole un’occhiata penetrante.
Mi risponde con un silenzio denso. Mi fissa, i suoi occhi si fanno d’un
tratto più scuri e una piccola ruga le solca la fronte mentre mi sembra quasi
di vedere la matassa dei suoi pensieri confusi dipanarsi velocissima fino a
far cadere il velo che offuscava la realtà, nuda e cruda, di fronte ai suoi
occhi.
E finalmente mi vede.
«Oh, merda...»
Si alza di scatto e si allontana dal tavolo, come a cercare una via di fuga.
Accenna a correre verso la porta ma si ricorda della nonna in agguato subito
fuori e allora, in trappola, si gira rabbiosa verso di me e mi apostrofa con
una voce in cui, però, sento vibrare più la vergogna che non la ferocia. «Sei
tu! Ecco perché mi sembravi una faccia familiare! E adesso che fai, mi
denunci? Lo dici alla nonna? Oh, no, ti prego...» E la maschera da gradassa
va in pezzi. «È successo solo una volta, giuro, e non è stata colpa mia, loro
dicevano che non era niente, solo uno scherzo e che se me la facevo sotto
ero una fifona... ti pago, tutto quello che vuoi, ma ti prego non dirlo alla
nonna!» ansima sull’orlo delle lacrime.
In un attimo tutta la sua arroganza è scomparsa e davanti a me vedo solo
una ragazzina spaventata e mortificata che quasi mi fa sorridere.
«Sophie, siediti, per favore» le dico con calma. «Non dirò niente a tua
nonna, stai tranquilla. Né alla polizia.»
Lei mi fissa, ancora sconvolta, come se volesse capire se può fidarsi.
«Avanti, siediti. Te lo prometto. Non hai niente da temere.»
Dà un’occhiata alla porta e pensa che là dietro c’è sua nonna che
l’aspetta. Allora guarda di nuovo me poi, lentamente, torna a sedersi.
«Perché non glielo dirai? In fondo ti ho rubato la borsa. Dovresti essere
arrabbiata con me.» Fa una pausa. «La nonna l’aveva detto che eri una tipa
strana...» mormora con gli occhi bassi.
Adesso sì che mi viene da ridere. «Be’, grazie, lo prendo come un
complimento!»
Sophie mi sbircia da sotto in su, le labbra piegate in una smorfia
d’amarezza. «E adesso?» chiede a bassa voce.
Adesso che mi hai scoperta e che non posso più nascondermi, che
facciamo? Ci guardiamo in faccia? E come posso guardarti dopo quello che
ho fatto?
Mi sembra di intuire i suoi pensieri.
«E adesso cerchiamo di capire che cosa ti è accaduto.»
Ma lei solleva la testa e nei suoi occhi vedo un’ombra di sospetto. «Ma tu
chi sei?» mi aggredisce. «Non sei una strizzacervelli, non sei un medico. Mi
dici perché dovrei parlare con te? E per fare cosa, poi, per farmi dare una
tisana?» Il piccolo varco che sembrava essersi aperto dopo la confessione si
è già richiuso e il suo tono tagliente vuole marcare il confine oltre il quale
non ho il diritto di avventurarmi. «Ci hanno già provato. E non è servito.
Lasciami in pace anche tu, ok? La mia vita è un casino, la gente fa schifo e
io sono stanca delle domande.» Incrocia le braccia e si chiude in un
mutismo rabbioso.
Michel diceva sempre che il modo migliore per entrare negli altri era
lasciare che fossero loro a venire verso di noi. Noi dovevamo soltanto
schiudere la porta. Sarebbe stata la promessa di quello che c’era dietro ad
attirarli.
Senza parlare mi alzo e vado ad accendere il fornello sotto il bollitore. Ci
vorranno pochi minuti. Intanto prendo le tazze, quelle che mi piacciono di
più, porcellana rosa pallido, senza fregi, perfette e delicate come conchiglie.
Niente tisana stavolta. Opto per un tè all’arancia e zenzero, dolce, fruttato e
consolatorio. Sophie segue di sottecchi tutte le mie mosse trincerata dietro
le braccia conserte e l’ostinato silenzio. Il bollitore comincia a fischiare
sommessamente e io mi affretto a versare il tè nella teiera. Dentro di me
prego che la signora Dubois non decida di rientrare prima del tempo per
vedere che cosa sta succedendo. Non ha apprezzato il fatto che l’abbia
praticamente buttata fuori. Una volta pronto il tè, aggiungo al vassoio una
scatola di metallo, l’ultimo tocco che spero mi aiuterà a fare breccia nel
cuore della mia adolescente ribelle. Torno al tavolo, vi appoggio sopra il
vassoio e mi siedo al mio posto, sempre senza parlare. Non credo che dovrò
aspettare ancora molto. È difficile gestire il silenzio quando non si è
allenati.
«Che roba è?»
Nascondo un sorriso. «Tè nero all’arancia e zenzero. Ti piace il
profumo?»
«Mmh... sì.» Ne prende un sorso. «Non è male.»
«No, infatti. Dovresti provarla con quello che c’è là dentro» le dico
indicando la scatola. «Aprila.»
Controvoglia, lei afferra il contenitore e solleva il tappo. L’ondata di
profumo che ne fuoriesce basterebbe a resuscitare un morto.
«Cioccolata...?» mi lancia un’occhiata di disprezzo adolescenziale. «E
perché non un lecca-lecca? Guarda che non ho cinque anni. E poi fa
ingrassare.»
«Questa non è cioccolata, questo è il cioccolato» la correggo.
È cioccolato grezzo prodotto da cacao mono origine del Perù, una
prelibatezza per iniziati che Gisèle ha avuto da non so quale dei suoi
attempati Indiana Jones sparsi per il mondo. «A un bambino darei la
cioccolata Nestlé. Questa è roba raffinata. Per intenditori. Certo, con un
buon rhum sarebbe ancora meglio, ma ci accontentiamo del tè. Provala.»
Lei guarda me e il barattolo con aria di sufficienza, poi si decide e pesca
un pezzetto di cioccolato. Con un linguaggio non verbale sto tentando di
dirle che il mio silenzio e la mia offerta non sono dirette a blandirla, ma a
dimostrarle che la considero una persona adulta in grado sia di gustare un
cioccolato amaro e polveroso, che di decidere autonomamente se ha voglia
di parlare oppure no, al riparo da nonne incombenti.
Lo schiocco sordo del cioccolato che si spezza sotto i denti accompagna
la mia riflessione.
«La nonna ha detto che analizzi gli occhi» dice Sophie mentre mastica.
«Perché?»
«Perché le iridi sono la porta che immette all’interno di noi stessi. Sia a
livello fisico che psicologico. Possono dirci un sacco di cose su di noi,
persino quello che noi stessi ignoriamo. Senti» le dico poi cercando di
spingermi un po’ più in là, «tu non hai voglia di parlare e ti chiedi anche
perché dovresti farlo proprio con me, ma ti propongo un’altra cosa: perché
non mi metti alla prova? Diciamo che sarò io a dover dimostrare a te che
sono in grado di aiutarti. Tu non dovrai aprire bocca, sarò io a dirti quello
che vedo. Che ne pensi?»
Non risponde subito, morde lentamente il suo cioccolato, ma vedo un
lampo di curiosità balenarle negli occhi. «Okay, ci sto. Posso prenderne un
altro pezzo?»
«Bene, allora stai dritta e ferma mentre io scatto.»
Le faccio alcune fotografie e poi le scarico sul pc. Sophie segue ogni mio
gesto in silenzio, fino a quando giro lo schermo e le faccio vedere
l’immagine.
«Wow» mormora, «È... strana. Piena di... cosi. Non me n’ero mai
accorta.»
«Quei “cosi” sono i segni che ci parlano, che raccontano la tua storia» le
spiego.
Lei solleva un sopracciglio con aria di sfida. «E se io ti dicessi
semplicemente che tutto quello che leggerai non è vero? In fondo io
conosco la mia storia, non tu.»
Ignoro la provocazione e intanto studio la foto. Ci sono vari segni, ma
uno in particolare, nell’iride destra, attrae immediatamente la mia
attenzione. «Sai, mio marito mi diceva sempre che possiamo mentire in
ogni modo, ogni giorno della nostra vita, ma non potremo mai impedire agli
occhi di raccontare le loro verità. E io ho imparato a credergli. Perciò, sì,
potresti farlo. Ma che senso avrebbe?»
Lei sbuffa. «Okay, dottoressa, allora dimmi che cosa vedi.»
«Va bene. Ma... forse prima dovremmo chiamare tua nonna.» Lo dico per
scrupolo, ma spero che mi risponda di no.
Il suo viso si rabbuia all’istante.
«Guarda che lì non c’è scritto che hai scippato una tizia per la strada» la
rassicuro.
«Sì, lo so ma non è questo... Senti, io voglio bene alla nonna, però questa
è una cosa mia e io vorrei... stare da sola. Almeno per una volta.»
Ha bisogno di intimità, è comprensibile e anche per me è meglio
rimanere ancora sola con lei.
«Facciamo così. Adesso diamo un’occhiata insieme, e se ti dirò qualcosa
che vorrai tenere per te, allora non ne farò parola con la nonna. Okay?»
Per la prima volta da quando è entrata, Sophie mi sorride apertamente.
«C’è questa macchia, la vedi?»
«A-ah.»
«Questa macchia si chiama pigmento ed è una stratificazione di colore
che si è formata in un tempo relativamente recente in seguito a un...
chiamiamolo evento, di un certo tipo. Ora, questa macchia si trova nell’iride
destra che è quella in cui si riflettono i traumi emotivi legati alla linea
parentale maschile.» Alzo gli occhi dalla foto e vedo che Sophie mi sta
seguendo con grande concentrazione. Cerco le parole più delicate per
esporle l’idea che mi sono fatta. «Posso ipotizzare, data la natura della
macchia, che forse, diciamo nell’ultimo anno, si sia verificato un... evento
doloroso legato al rapporto con... tuo padre. Un suo allontanamento, per
essere più precisi.»
Lei sposta lentamente lo sguardo su di me, la fronte contratta, gli occhi
spalancati d’un tratto lucidi di lacrime. «E dici che lì dentro non c’è scritto
anche che sono una ladra, eh?» mormora, con una smorfia dolente.
Credo di aver centrato il punto.
«Va’ avanti, dottoressa, che altro c’è da dire? Ci sono nomi e cognomi?»
Nomi e cognomi no, ma la sofferenza che lei ha provato nel sentire che il
legame fra i suoi genitori rischiava di spezzarsi è tutta lì, in quella piccola
macchia. «Ecco, Sophie... questo pigmento si trova in un’area dell’iride
chiamata “Maturità affettiva”, quella che riguarda la sfera emotiva legata
alla coppia, e in questa particolare posizione indica una... astrazione dal
legame affettivo.» Lei non parla, continua a fissare la sua iride come se vi
cercasse la conferma alle mie parole. «Tuo padre è andato via di casa?» le
chiedo alla fine.
«Non ancora» risponde in un sussurro. «Ma non credo che manchi
molto.» Mi guarda e la sofferenza le scurisce gli occhi. «Li ho visti, sai. Lui
e quella. Uscivano da un portone. E mia madre fa finta di niente.»
E tu stai cercando di trattenere tuo padre a modo tuo. Mettendoti a
rischio, cercando di attirare la sua attenzione...
«Ascolta, Sophie. A prescindere da quello che hai visto o che pensi di
sapere, questa non è una cosa che puoi affrontare da sola. Non puoi tenerti
dentro un segreto così grande, rischi di rimanerne schiacciata, anzi sta già
accadendo. Tu sei una figlia, non tocca a te proteggere il nucleo familiare,
non è il tuo ruolo e non hai gli strumenti per farlo. La strada che hai
intrapreso adesso sta facendo del male soltanto a te.»
«Ma io non posso lasciarlo fare e basta!» esclama ormai in lacrime. «Se a
mia madre non importa, a me invece sì e tanto!»
«Lo capisco, ma non puoi essere tu a entrare nella dinamica di una
coppia. Ascolta» le dico in fretta, temendo ormai di sentir bussare alla porta
da un momento all’altro, «adesso sta per entrare tua nonna e dovremo finire
qui il discorso. Ma vorrei che tornassi. Vorrei aiutarti.»
Nei suoi occhi un guizzo in cui si rimescolano sospetto e speranza. Si
asciuga le lacrime, ma non fa in tempo a rispondermi perché, dopo un
rapido bussare, la porta si apre per lasciar entrare la signora Dubois.
«Ho pensato che ormai fosse arrivata al punto, dottoressa» mi dice con
una punta di dispetto. Sposta lo sguardo da me a Sophie, e indugia sul viso
arrossato della nipote come per valutare cosa possa essere accaduto in sua
assenza.
«Ma certo, l’avrei chiamata io stessa» mi affretto a rassicurarla. «Anzi, se
vuole accomodarsi, stavo proprio cominciando ad analizzare la fotografia.»
«Sophie...» inizia la signora Dubois, mentre si siede, ma io non le do il
tempo di proseguire. «Ecco, dunque, qui si nota un appiattimento pupillare,
cioè la pupilla non è perfettamente tonda ma è appiattita nella metà
superiore... vede? Questa lieve anomalia, di solito, indica una tendenza alla
depressione, a forme di nevrosi che potrebbero determinare attacchi di
panico e ansia. Questo primo segno è confermato dall’eterocromia anulare
centrale, in parole povere: il tessuto dell’iride presenta due colorazioni
differenti... eccole qua» indico una porzione circolare intorno alla pupilla,
«c’è una parte giallo senape tendente al marrone, mentre il resto dell’iride
ha una tonalità grigio-verde, qui... fino al cerchio esterno. E, di solito, anche
questo indica una tendenza a paure ingiustificate e stati nevrotici...» Mi
limito all’analisi iridologica classica, quella fisiologica, e parlo a raffica per
catalizzare tutta l’attenzione della donna sulla fotografia. «Ovviamente non
parlo di psicopatologie, ma di semplici tendenze che possono essere acuite
da particolari momenti di stress e riflettersi in comportamenti fuori
dall’ordinario. Lei mi ha detto che Sophie ultimamente è un po’ scontrosa e
irritabile, forse si tratta semplicemente di un po’ di stress, in fondo siamo
alla fine dell’anno scolastico... io non drammatizzerei... Da parte mia posso
preparare una terapia mirata a base di Fiori di Bach e tisane per migliorare
l’umore nel suo insieme. Poi» mi rivolgo direttamente a Sophie, «se vorrai
potrò consigliarti altre terapie per favorire il relax e combattere lo stress.
Potresti tornare qui e provare il Reiki, per esempio» le dico con uno sguardo
d’intesa al quale risponde con un mezzo sorriso.
La visita è terminata, la signora Dubois sembra aver dimenticato cosa
stava per dire poco prima. Si alza e mi stringe la mano. «Grazie, dottoressa.
Sapevo che non mi sarei sbagliata su di lei. Ci vediamo presto, verrò a
ritirare la terapia di Sophie.»
«Oh, ma potrà farlo Sophie stessa!» mi precipito a correggerla, «così le
spiegherò di cosa si tratta.»
«Va bene, non credo che sarà un problema. Arrivederci.» La signora se ne
va e Sophie la segue limitandosi a salutarmi a distanza con un cenno. Mi
rilasso un attimo sulla sedia e inizio a pensare a una terapia per lei. Prima di
tutto devo fare in modo di rasserenarla, soltanto così potrà osservare le cose
con maggiore lucidità. Il Reiki in questi casi è un grande alleato. Poi le
preparerò anche una tisana di melissa, fiori d’arancio, escolzia e passiflora,
con una punta di anice per addolcirne il sapore. L’aiuterà a tenere sotto
controllo l’ansia.
Ma neanche cinque minuti dopo la porta si riapre di colpo e ricompare lei
in persona.
«Ehi, solo un minuto, ho detto alla nonna che ho dimenticato il cellulare.
Volevo... ringraziarti» mi dice trafelata, «e ci vediamo. Presto!» poi mi
abbraccia stretta per un istante e scappa via.
Sono felice.
La visita e la prospettiva delle nuove attività che voglio avviare nel
negozio mi danno serenità ed energia, e anche il pensiero di Romain sembra
ridimensionarsi nella mia mente. Certo, non l’ho ancora sentito, ma sarà al
lavoro. Anzi, vista l’ora potrei anche andare a pranzo all’Hairy Biker, come
al solito.
Vado nel negozio ad avvertire Gisèle.
«Penso di andare a mangiare un boccone da Romain, tu vieni con me?»
«No, tesoro, questa volta passo. Devo richiamare all’ordine i miei
fornitori, soprattutto adesso che ti sei messa in testa di fare la maestra di
cosmetica sarà meglio che mi procuri oli, burri, essenze e tutto quello che
potrà servirci. Non ti dispiace andare da sola, vero?»
«Nn... o» dico con poca convinzione. In realtà mi imbarazza un po’ l’idea
di non essere in compagnia, come se avessi bisogno di una scusa per andare
fino lì. Ma il desiderio di rivederlo è troppo grande.
Pochi minuti dopo sono davanti alla porta del bar. Il cuore mi batte forte,
come se stessi andando a un primo appuntamento. Il locale sembra affollato,
anche da fuori, e non mi aspetto che Romain abbia molto tempo da
dedicarmi, magari non sarà nemmeno in sala ma impegnato in cucina.
Prendo un bel respiro e apro la porta. Una rapida occhiata mi dice che i
tavoli sono quasi tutti occupati e, mentre entro a cercare un posto, guardo
verso il bancone e lo vedo.
Insieme a Raja.
Stanno guardando qualcosa sul computer, le teste vicine, i volti sorridenti.
Poi all’improvviso lei scoppia a ridere e gli appioppa un bacio sonoro sulla
guancia.
Io resto impietrita al mio posto e sento il sangue defluirmi completamente
dalle vene. Li osservo finché Romain non alza gli occhi e non mi vede, lì,
sulla porta. D’un tratto il suo sorriso si spegne e sembra a disagio, come se
lo avessi colto in fallo. Mi sforzo di fare un cenno di saluto, ma dentro mi
sento morire.
In pochi secondi lui si riprende e viene verso di me, con un sorriso
incerto. «Ehi, ciao» mi dice. «Non mi aspettavo di vederti oggi.»
«Io... be’, sono in pausa e... ho pensato di venire a salutarti...»
«Oh, sì, certo... mi fa piacere.»
Siamo entrambi imbarazzati, si percepisce facilmente. Io per lo spettacolo
a cui ho assistito, ma lui perché?
«Vieni a sederti qui, così ti porto subito qualcosa da mangiare.» Taglia
corto e mi fa strada verso un tavolo. Scosta la sedia per farmi sedere. «Sono
da te in cinque minuti» e scompare.
Non mi ha baciata, né sfiorata. Come se fossi una cliente qualsiasi. Resto
seduta al tavolo con il cuore pesante. Ho sbagliato a venire qui, non avrei
dovuto farlo. L’intimità di quella scena mi fa sudare freddo. Da lontano
osservo Raja, i suoi gesti naturali mentre parla con Romain. Anch’io ho
conosciuto questa naturalezza, un tempo, e non è detto che possa riviverla
ancora. Forse dovrò accontentarmi di altro.
E la gelosia insinua dentro di me il suo sottile veleno.
9
Allineo tutte le bottiglie degli oli sul ripiano del tavolo. Argan, jojoba,
germe di grano. In una ciotola d’acciaio schiaccio la polpa di un cetriolo
maturo. Una volta ridotta in poltiglia vi aggiungo l’albume d’uovo. Mescolo
con cura fino a ottenere un gel, poi comincio a inserire gli oli, uno alla
volta, senza passare al secondo se il primo non è stato incorporato alla
perfezione. Il gel assume una consistenza più cremosa che diventa ancora
più ricca dopo aver aggiunto l’amido di riso. Per finire, alcune gocce di
tintura madre di tiglio e poche di olio essenziale di vaniglia, e il mio latte
detergente delicato è pronto. Ha un profumo talmente invitante che viene
voglia di spalmarlo sul pane invece che sul viso. Distribuisco il composto
nei vasetti e li metto in frigorifero. Ho già preparato l’olio da massaggio
anticellulite: una base di olio di mandorle dolci in cui ho sciolto oli
essenziali di cipresso, rosmarino, cannella e ginepro, in parti variabili, per
stimolare la circolazione e tonificare i tessuti.
Faccio un passo indietro e ammiro con una certa soddisfazione il risultato
del mio lavoro. Bottigliette d’olio e vasetti di maschera per capelli sono
avvolti in carta di riso verde acqua e decorati da nastri di gros-grain della
stessa tonalità; infine ho attaccato alle confezioni dei cartellini scritti a
mano con il nome del prodotto e la spiegazione della ricetta. Per il
seminario di cosmesi naturale ho puntato volutamente su preparazioni
molto semplici, facilmente replicabili a casa, che invoglieranno le clienti a
sperimentare.
Ieri pomeriggio, tornata dall’Hairy Biker delusa e piena di dubbi, mi sono
buttata subito sul lavoro. Gisèle è riuscita a tempo di record a ottenere una
consegna d’emergenza dai suoi fornitori abituali e così ho passato il tempo
ad aprire scatole, selezionare e classificare materie prime e rivoluzionare
una parete del negozio per ricavare lo spazio dedicato alle mie creazioni e al
seminario che, spero, si rivelerà un’arma vincente. Questa mattina mi sono
alzata all’alba e sono arrivata al negozio molto prima dell’orario di apertura.
Volevo avere a disposizione tempo e silenzio. Come sempre il lavoro si è
confermato il conforto migliore. Misurare le materie prime, annusarne gli
aromi e toccarne le consistenze, vederle cambiare aspetto e poi fondersi le
une con le altre fino a dare vita a qualcosa di completamente nuovo, mi ha
sempre riempito di grande serenità e anche adesso, quando ormai i gesti
sono esperti, la ritualità della preparazione mi consente di astrarmi da tutto
e vivere per un po’ in uno spazio sospeso. I piccoli contenitori che ho
preparato questa mattina saranno degli omaggi da regalare alle clienti per
fare pubblicità al negozio. Comincio a portarli dentro e a disporli negli
scaffali che ho liberato.
Mentre faccio avanti e indietro dallo studio, entra qualcuno. Per un attimo
penso che sia Romain, magari è venuto a scusarsi per l’indifferenza di ieri,
ma il cuore mi dice che non è così. Infatti mi trovo di fronte un fattorino
con un mazzo di fiori. Questa volta si tratta di uno splendido bouquet di
peonie, in tutti i toni del rosa, una nuvola delicata e dal profumo intenso. So
già che non è per me, prima che il ragazzo apra bocca.
«Buongiorno, consegna per la signora...»
«... Fleuret-Bourry» termino al posto suo.
«Sì, infatti, ma... come fa a saperlo?» mi domanda, stupito.
«Intuito» rispondo, con un sospiro.
Prendo il bouquet per riporlo in attesa che arrivi Gisèle e fra le corolle
scorgo un bigliettino imbustato, ma non chiuso. Ci penso su un istante.
Tanto Gisèle me lo farà leggere comunque. Apro la busta e tiro fuori il
cartoncino.
Nessun fiore, per quanto bello e delicato, potrà mai competere con lei. A
presto.
S. F.
Un po’ sdolcinato forse, ma mentre lo leggo provo una puntura
d’amarezza. L’ultima persona che ha scritto per me un biglietto come
questo è stata Michel e adesso sento un acuto desiderio di provare ancora
quella tenerezza, di sorridere su parole melense, magari banali agli occhi
degli altri, ma che riempiono di calore il cuore di chi le riceve. È strano, mi
accorgo soltanto adesso che pensare a lui non mi provoca più quella fitta di
dolore a cui ormai avevo fatto l’abitudine. Il suo nome è diventato un suono
dolce, venato di una struggente nostalgia che mi piace assaporare, che mi
protegge e mi dà conforto, come appoggiarsi a un muro scaldato dal sole.
Rileggo il biglietto, osservo la calligrafia elegante che suggerisce un
gentiluomo d’altri tempi, e sorrido fra me e me cercando di immaginare chi
sia il misterioso ammiratore.
Gisèle arriva mentre sono intenta ad attaccare sulla porta il cartello che
pubblicizza il mio seminario di cosmetica.
«Ehi, vedo che l’hai presa piuttosto sul serio» mi dice, osservando i
cambiamenti nella disposizione del negozio, le graziose boccette decorate e
il cartello.
«Sì, e sono certa che funzionerà» affermo.
«Uhm, vedremo» mormora con poca convinzione.
«Cosa c’è che non ti convince?»
«Non lo so, il cambiamento in generale, forse. Ormai da anni e anni
questo negozio è rimasto uguale a se stesso e a me. Vederlo trasformarsi
così dall’oggi al domani è destabilizzante come se stesse minacciando le
mie radici. È come se io mi fossi cristallizzata insieme all’ambiente, e
questa continuità, o immobilità, come la chiami tu, è stata il mio rifugio.
Soprattutto dopo il fatto di Laurent.»
«Vuoi dire che l’hai fatto di proposito?»
«Tutti noi abbiamo bisogno di un porto sicuro su cui fare affidamento. Io
ho perso i miei genitori presto e mi sono ritrovata con due sorelle minori e il
negozio che ci dava da mangiare. Poi loro se ne sono andate ed è arrivato
Laurent, e i figli, e quando anche loro se ne sono andati, il negozio è sempre
rimasto qui, identico. È un po’ come se fosse la mia famiglia e la famiglia è
quella che ci dà forza.»
Già, penso fra me e me, proprio quello che diceva Michel. Anch’io mi
sono sentita così dopo la sua morte. Per me le radici sono state il lavoro, ma
niente può sostituire la protezione affettiva che viene dalla famiglia. Chissà,
forse è anche per questa mancanza che ho tante paure e insicurezze verso
Romain.
... Se lei avesse il coraggio di riconoscere le sue radici familiari,
riuscirebbe a costruirsi un cammino di vita indipendente, libero dalle paure
e dai sensi di colpa. Se solo lo volesse...
«E questi da dove vengono?» Gisèle ha scoperto i fiori su un angolo del
bancone.
«Sono per te. Pare che qualcuno ti pensi parecchio, ultimamente.»
Lei legge il biglietto e alza gli occhi al cielo. «Oh, no, ancora! Ne è
arrivato un altro nel weekend, quando tu non c’eri» sbuffa un po’
contrariata. «Questa storia sta diventando noiosa.»
«Io invece la trovo divertente. Non sei curiosa neanche un po’ di
conoscere il tuo misterioso ammiratore?»
«Per niente. Alla mia età certe emozioni sono passate di moda.
Piuttosto...» esordisce.
Ma non le do il tempo di andare avanti, ben sapendo dove andrebbe a
parare. «Ti prego, non chiedermi niente. Preferisco concentrarmi sul
lavoro.»
Gisèle comprende e non insiste.
Non voglio pensare a Romain, per ora. Non voglio che le mie mancanze
mi inducano a commettere un passo falso.
10
I miei campioni omaggio hanno riscosso parecchio successo fra le clienti
e, con mia grande soddisfazione, in pochissimo tempo ho visto riempirsi il
modulo delle prenotazioni per il seminario di cosmetica, alla faccia del
signor Leblanc.
Oggi sono sola e la mattinata si consuma al ritmo della gente che va e
viene nel negozio. Ma lo scorrere del tempo nella mia testa è ancorato a un
unico pensiero: sono esattamente quarantacinque ore che non vedo né sento
Romain. Inevitabili, le congetture fanno la loro comparsa. Perché non mi
chiama, oppure non passa a trovarmi? Non riesco a cancellare l’immagine
del suo volto vicino a quello di Raja, l’intesa evidente nei loro sguardi...
Perché non si è confidato con me, di qualsiasi cosa si trattasse? È vero, ci
conosciamo da poco tempo, ma sono pur sempre la sua... la sua cosa? Ecco
il vero problema. Fidanzata? no, troppo impegnativo. Ragazza? troppo
adolescenziale. Persona-che-frequenta-attualmente? orribilmente in voga
ma, ahimè, calzante. Vorrei tanto non sentire il bisogno di appiccicarmi
addosso un’etichetta, come se soltanto una definizione inequivocabile
potesse mettere a tacere le mie paure.
Viola, segui il mio consiglio: carpe diem. Troppe domande rovinano le
cose.
Carpe diem.
Carpe diem.
Carpe diem, carpe diem, carpe diem...
Il mio mantra pacificante si infrange sul cigolio della porta che si apre per
l’ennesima volta.
«Che fai, parli da sola?» chiede Sophie, entrando, con un sopracciglio
sollevato in un’espressione sprezzante.
«Certamente. Non perdo mai occasione per pronunciare la mia frase
karmica. Mi aiuta a focalizzare gli obiettivi» ribatto, serissima. «Ciao,
comunque. Non ti aspettavo tanto presto.»
«Uhm, sì, nemmeno io pensavo di tornare oggi, ma... ci tenevo a darti
questo.» Dalla borsa che porta a tracolla tira fuori uno straccio ciancicato
che appoggia sul bancone. «Quello che c’era dentro è andato, i miei amici
hanno, ehm, buttato tutto nella Senna... però questa l’ho tenuta per me. Mi
piaceva.» Abbassa gli occhi, vergognosa. È allora che riconosco la borsa di
tela che portavo il giorno dello scippo, una sacca simil-etnica acquistata
mille anni fa al mercato di via Sannio, per pochi spiccioli. La stendo sul
bancone, lisciandone con affetto le grinze. «Grazie. Ormai è un reperto
archeologico. L’ho comprata almeno quindici anni fa, quando andavo al
liceo. Anche a me piaceva molto.»
Lei tiene la testa bassa, con un dito segue distrattamente i contorni dei
disegni sulla stoffa della borsa. «Non sono venuta solo per questa»
mormora. «Volevo... parlare con te.» Mi guarda da sotto in su, con una
buffa espressione implorante.
«Okay, senti, andiamo di là, posso chiudere il negozio per un po’, tanto
Gisèle ha le chiavi.»
Vado a mettere sulla porta il cartellino “torno subito” e do un giro di
chiave. Accompagno Sophie nello studio e, mentre lei si siede, io accendo
un incenso profumato alla lavanda e metto un cd con i Notturni di Chopin
nello stereo che ho portato da Roma.
Mi siedo di fronte a lei e le sorrido. «Eccomi qui. Sono tutta orecchi.
Come ti senti?»
Immediatamente gli occhi le si riempiono di lacrime, mentre mi risponde.
«Male. Non so che fare. Non riesco a parlare con mio padre, mia madre
sembra che viva in un mondo tutto suo... e io mi sento... impotente. E sola.»
«Sophie, quello che stai vivendo è molto pesante, me ne rendo conto. Ma
come ti ho detto la volta scorsa, non puoi fartene carico tu. Al contrario,
devi liberarti di questo peso, espellerlo da te perché ti sta logorando. Quello
su cui devi concentrarti è l’amore che i tuoi genitori nutrono nei tuoi
confronti, è questa la tua forza. Il loro rapporto di coppia è qualcosa che non
puoi né gestire, né risolvere. Ti sembrerà crudele, ma credo che dovresti
prendere le distanze e lasciare ai tuoi il tempo e il modo di venire a capo dei
loro problemi. Devi sempre ripetere a te stessa che la tua famiglia ti ama,
che a prescindere da ciò che potrà accadere fra di loro, tu sarai sempre e
comunque il primo oggetto d’amore per entrambi. Non devi dimenticarlo
mai.»
Lo scetticismo di Sophie è evidente nei suoi occhi spalancati e lucidi. E
non posso non comprenderla. Se è vero che la famiglia, anzi, le radici, come
diceva Michel, sono la nostra forza, è altrettanto vero che la ferita più
profonda è quella inferta da un genitore a cui scopri di non poter più
credere. È come se d’un tratto, dopo averti tenuta in braccio e al sicuro per
tutta la tua esistenza, allentasse la presa e ti lasciasse cadere nel vuoto.
L’universo affettivo di Sophie è stato scosso profondamente dalla scoperta
dell’infedeltà di suo padre e, probabilmente, la sofferenza, la paura della
perdita e il risentimento le rendono quasi impossibile guardare oltre e dare
credito alle mie parole.
«Ascolta, purtroppo io non ho una soluzione per quanto riguarda i tuoi
genitori, ma penso di poter aiutare te, alleviando la tua pena.»
«E come?»
«Con un trattamento Reiki. Sai di cosa si tratta?» le dico mentre vado a
sistemare il materassino sul pavimento e tiro le tende per creare un po’ di
penombra.
«Ss-ì, ne ho sentito parlare, ma...»
«Fidati di me. Vieni a stenderti qui, dopo ti sentirai meglio. E se non
dovesse accadere, be’... Pagherò una penitenza» le dico per convincerla.
Lei si alza, esitante, ma segue docilmente le mie indicazioni. «Ecco,
sdraiati a pancia in su, chiudi gli occhi, respira lentamente e cerca di
svuotare la mente da qualsiasi pensiero. Non ti curare di quello che faccio
io, resta concentrata su te stessa.»
Intanto mi siedo in capo al materassino, dietro la sua testa, e mi concentro
per attivare il flusso energetico. Pochi istanti dopo i chakra si aprono e i
palmi cominciano a formicolare. Con delicatezza metto una mano dietro la
nuca di Sophie e l’altra sulla sua fronte, all’altezza della radice del naso. Lì
c’è il sesto chakra, Ajna, la sede del terzo occhio, il centro dell’intuizione e
della chiarezza. La frase associata al sesto chakra è “Io vedo”, perché
quando l’energia di Ajna viene liberata, allora siamo in grado di vedere
nitidamente al di là del velo delle apparenze e delle costruzioni mentali,
delle paure e dei bisogni individuali. Ajna è la luce della percezione,
l’origine del sesto senso, il fulcro energetico in cui nascono i presagi e le
visioni. Insisto su Ajna per almeno nove minuti e gradualmente sento i
muscoli del collo di Sophie allentarsi sotto le mie mani. La diffidenza sta
venendo meno. Trascorsi i nove minuti, sposto le mani e le appoggio, una
accanto all’altra, sul terzo chakra, Manipura, che si trova sul plesso solare,
due dita sopra l’ombelico. In sanscrito significa “gemma splendente” e la
frase cui viene associato è “Io posso”. È il fulcro energetico che presiede
alle azioni, alle relazioni che intrecciamo con il mondo esterno. Manipura è
il centro della volontà personale e un suo malfunzionamento può portare a
depressione, senso di inadeguatezza e ansia di compiacere gli altri a
qualunque costo. Quando però viene sbloccato e l’energia è libera di fluire,
allora si realizzano la comprensione, la tolleranza, la saggezza e
l’accettazione priva di pregiudizi.
Lascio agire le mani su Manipura per altri nove minuti, intanto osservo il
viso di Sophie e, involontariamente, sorrido. Sembra che stia dormendo. Il
respiro è profondo e regolare, i lineamenti distesi, la ruga sulla fronte è
scomparsa e l’espressione sembra decisamente più luminosa. Trascorso il
tempo necessario, sollevo le mani dal corpo di Sophie e le lascio tutto l’agio
di cui ha bisogno per riprendersi e tornare alla realtà.
«Ehi, che viaggio!» esclama con un sorriso, non appena riapre gli occhi.
«Come ti senti? Descrivimi le sensazioni che hai provato.»
«Mi sento... serena, in pace. È stata una cosa strana. Quando hai
cominciato ho sentito un calore forte in cima alla testa, poi quando mi hai
messo le mani sulla pancia il calore si è diffuso in tutto il corpo e allora mi
sono rilassata da matti e ho provato una specie di... sensazione di conforto,
come se mi stessi facendo le coccole.»
«Allora il trattamento è andato a buon fine. È esattamente questo che
avrei voluto sentire da te.»
Si rialza dal materassino e gli occhi che mi guardano adesso sono limpidi,
non più sgranati per la paura o lucidi di sofferenza. «Si può sapere che mi
hai fatto? Perché da come mi sento, direi che è stato un incantesimo.»
«Nessuna magia, ho soltanto riequilibrato i tuoi chakra e ripristinato la
continuità fra la tua energia e quella dell’universo. Ora la tua essenza
profonda è in armonia, e questo ti darà la forza e la lucidità per affrontare
questo momento così difficile. Ripeteremo il trattamento altre quattro volte
per quattro settimane, per stabilizzare l’equilibrio che hai raggiunto, poi
vedremo come ti sentirai.»
«Se il risultato è questo, penso che potrei farlo ogni giorno» scherza lei.
Poi fa per avviarsi alla porta.
«Aspetta, non ho finito.» Dall’armadio tiro fuori la tisana che ho
preparato per lei. «Questa è una tisana che dovrai prendere ogni sera, ti
aiuterà a scacciare i cattivi pensieri e di conseguenza... ad allontanarti dalle
amicizie pericolose. Sophie, ricorda una cosa: il bene più prezioso che
possiedi sei tu. Non mancarti di rispetto, niente e nessuno merita tanto.»
Lei arrossisce, poi prende il sacchetto che le porgo. «Grazie» mormora.
L’accompagno fuori e faccio un cenno di saluto a Gisèle che nel
frattempo è rientrata e sta controllando una scatola piena di cere vegetali.
Superando il bancone lancio uno sguardo alla borsa sgualcita aperta lì sopra
e, presa da un’ispirazione improvvisa, la prendo e la porgo a Sophie.
«Perché?» chiede lei, timidamente.
«Perché questa borsa ha viaggiato abbastanza insieme a me, ora tienila tu,
ti aiuterà a ricordare la giornata di oggi e quello che ci siamo dette.»
«Oh... be’, grazie! Allora, ciao, Viola. Ci vediamo presto» dice, uscendo.
«Sì. Ne sono sicura» mormoro alla sua schiena che si allontana.
«Com’è andata con la piccola teppista?» mi chiede Gisèle. Quando le ho
rivelato l’identità di Sophie è rimasta un po’ scossa.
«Oltre Ogni Previsione, come direbbe Harry Potter.»
«Oh, e perché non Eccezionale?» Anche lei è un’estimatrice della saga.
«Mi riservo di riesaminare il caso prossimamente.»
«Va bene, McGranitt. Sono curiosa di conoscere gli sviluppi.»
Mi siedo dietro il bancone e do un’occhiata all’orologio. L’ora di
chiusura si sta avvicinando rapidamente e so che fra poco lei mi chiederà se
voglio andare fuori a pranzo. Non mi va di lasciare il bozzolo sicuro del
negozio né tantomeno desidero replicare la scena pietosa di ieri all’Hairy
Biker. A questo punto vorrei che fosse Romain a fare un passo verso di me.
Ho bisogno di recuperare qualche certezza.
«Senti, tesoro, è un po’ tardi e vorrei...» Le parole previste arrivano prima
di quanto pensassi.
«Io resto qui» taglio corto senza esitazioni. «Voglio sfruttare la pausa
pranzo per fare altri campioni omaggio, sono quasi finiti.»
Gisèle mi soppesa con lo sguardo. «Va bene, va bene. Anche se stavo per
dirti che volevo rimanere qui perché ho preso appuntamento all’una con il
tecnico per installare la nuova serranda elettrica. A cosa pensavi, scusa?»
mi chiede, ma so che è perfettamente consapevole delle mie speculazioni e
mi sento arrossire per essere stata scoperta. «No, niente... ci tenevo a...
dirtelo. Tutto qua.»
«Uhm. Come vuoi. Ma...» mi scocca un’occhiata penetrante.
«Nasconderti non ti servirà a fare chiarezza. Ricordatelo.»
Sto per protestare, ma la porta che si apre mi interrompe. Entra un
signore di una certa età, un bel tipo alto vagamente somigliante a un Yves
Montand con i capelli bianchi, che con un gran sorriso si rivolge subito a
Gisèle. «Buongiorno, signora, permesso? Spero che non sia tardi...»
Lei lo scruta per un istante, poi il suo viso si illumina. «Oh, buongiorno!
No, no, non è affatto tardi, anzi è puntualissimo.»
Il volto dell’uomo tradisce una leggera sorpresa e intanto io mi chiedo
dove l’ho già visto. Ma Gisèle va avanti come un treno. «Venga, venga, le
faccio vedere. In realtà pensavo che mandasse uno dei suoi ragazzi, almeno
così mi ha detto al telefono, ma visto che è qui in persona potrà anche farmi
subito un preventivo, così guadagniamo tempo...» E va verso la serranda
portandosi dietro il signore, rimasto quasi pietrificato dalla sua irruenza e
con la faccia di chi si chiede che diavolo stia succedendo.
«Ecco vede? Vorrei mantenere la vecchia serranda, sa, è quasi antica, con
tutti questi bei fregi e poi...»
Mentre Gisèle parla il tipo si gira verso di me con gli occhi sgranati e in
un lampo mi ricordo di lui.
È il vecchietto della cipria alla vaniglia.
«Gisèle...» Cerco di richiamare l’attenzione della mia amica per
avvertirla del granchio che ha preso, ma lei non mi ascolta.
«Un attimo, chérie. Allora che ne pensa, ci vorrà molto?» chiede poi al
signore sempre più sconcertato.
«Ma, io... veramente... non...» balbetta lui.
«Gisèle!» insisto.
Finalmente smette di parlare e si volta. «Che c’è?!»
«Credo che tu abbia frainteso. Il signore non si occupa di serrande. È...
un cliente...»
L’uomo mi guarda con gratitudine. «Sì, infatti... mi presento, sono
Stéphane Fournier» esclama.
Gisèle si ritrae di colpo, imbarazzata. «Oh. Mi scusi, non avevo capito...
Allora, prego, può rivolgersi a Viola» dice passandomi la patata bollente e
rifugiandosi dietro il bancone per buttare all’aria l’ordine perfetto delle
boccette di sali da bagno allineate negli scaffali alle nostre spalle.
Il viso sconsolato del pover’uomo mi fa accendere una lampadina nella
testa e, d’un tratto, tutte le tessere del mosaico si compongono. Stéphane
Fournier... S. F.
«Ehm... no, Gisèle, credo che il signore debba parlare proprio con te. Io...
ho delle commissioni da fare, penso che approfitterò della pausa per
uscire... ahi!» Il tacco di Gisèle si abbatte pesantemente sul mio alluce
mentre lei mi lancia un’occhiata di fuoco. Forse ha fatto due più due come
me. «Mi spiace, ma sono costretta a lasciarvi... Com’era quel discorso sulla
chiarezza...?»
Soffoco una risata di fronte al suo sguardo assassino e scappo dal
negozio.
Voglio proprio vedere come se la caverà lei, stavolta.
Una volta fuori mi guardo intorno. E adesso dove vado? La tentazione di
andare da Romain è forte, ma resisto e prendo la direzione opposta. C’è
solo un altro luogo in cui vorrei essere.
Poche fermate di metropolitana ed esco davanti all’ingresso di Parc
Monceau. Tornare qui oggi mi fa un effetto strano. Allora ero ancora piena
di dubbi e paure, dolore accumulato e mai espresso. Camminavo fra i
giardini e quasi non mi accorgevo della loro bellezza, chiusa nel mio guscio
e accecata da me stessa. Ora mi accorgo dello splendore e dell’eleganza
della sua architettura, con i padiglioni, le false rovine di un tempio che
incorniciano il laghetto artificiale alimentato da due canali e il bellissimo
ponte in stile veneziano. Per non parlare della vegetazione, fitta, barocca
nella sua opulenza. Proprio qui ho deciso di ricominciare la mia vita da
dove l’avevo interrotta e proprio qui è avvenuto il mio primo, vero incontro
con Romain. Se penso alla semplicità di quella prima volta, provo un moto
di stizza verso me stessa. Perché sono di nuovo daccapo, a complicarmi la
vita con domande e sospetti, perché non riesco a prendere le cose con
leggerezza?
Il fatto è che le rivelazioni frammentarie di Gisèle si compongono nella
mia testa in un quadro cupo di cui non riesco a trovare la spiegazione
logica.
Solo pochi giorni fa pensavo di aver compiuto un grande salto, quando le
parole di mio marito mi avevano confortato il cuore.
E invece adesso...
Mi inoltro in mezzo agli alberi, in una parte del parco poco frequentata,
immersa nel silenzio.
Forse basterebbe che guardassi Romain davvero negli occhi per trovare
una risposta alle mie domande.
Gli occhi raccontano molto più di quanto noi stessi vorremmo rivelare.
Fidati di loro e del tuo intuito...
Quante volte Michel mi ha ripetuto questa frase e adesso riesco ad
apprezzarla in tutta la sua saggezza. Sorrido fra me e me. Ancora una volta
è lui a suggerirmi la strada da percorrere e non smetterò mai di ringraziarlo
per questo.
Torno sul ponte e mi fermo al centro per ammirare l’acqua e goderne la
frescura. Do un’occhiata all’orologio. Manca ancora un po’ all’ora
d’apertura, ma mi sento in colpa per aver lasciato Gisèle da sola alle prese
con un possibile spasimante.
Certo, anche se di certo non sembrava un tipo minaccioso, anzi, con
quegli occhi azzurri e sorridenti, il portamento elegante, le mani molto
curate. Mi viene da ridere se ripenso alla sua espressione sconcertata. Al
ritorno seguo il giro esterno del parco, più lungo, per riempirmi ancora gli
occhi delle sue bellezze. Osservo le famiglie che fanno picnic, i forzati del
fitness, le coppie che amoreggiano all’ombra degli alberi e all’improvviso
lo vedo.
Romain.
Seduto in disparte appoggiato a un tiglio, una gamba piegata e il braccio
appoggiato sul ginocchio, l’altra gamba allungata a terra che sostiene il pc.
La brezza lieve gli scompiglia appena i capelli e agita leggermente il
colletto aperto della camicia, ma non scalfisce la sua espressione assorta, né
distoglie dallo schermo lo sguardo concentrato. Soltanto la mano, che di
tanto in tanto si solleva dalla tastiera e sale a scostare una ciocca importuna,
denuncia un contatto con il mondo esterno. La visione è talmente
inaspettata che resto di stucco, ferma in mezzo al sentiero, incapace di
staccare gli occhi da lui. Che diavolo ci fa al parco, a quest’ora, credevo che
stesse lavorando al bar. Invece è qui, disteso e rilassato, a fare tutt’altro.
Altro che non comprende venire a trovare me.
L’impulso di avvicinarmi è forte, ma questo suo distacco mi ferisce, mi fa
capire che non sente il desiderio di vedermi, o almeno non così forte come
lo sento io. Resto indecisa ancora per una frazione di secondo, poi continuo
il mio percorso, ingoiando il magone.
11
«Non ti perdono. Punto.»
Gisèle mi volta le spalle con aria offesa e io non riesco a smettere di
ridere.
Quando sono rientrata l’ho trovata agitatissima mentre con parole
sconnesse mi spiegava che, come mi aspettavo, il tipo si era rivelato essere
il misterioso donatore di fiori, che le aveva detto di abitare nelle vicinanze e
di averla notata da molto tempo e che, infine, era riuscito a estorcerle un
invito a prendere un tè.
«Avanti, in fondo che hai da perdere, magari è simpatico» le dico per
rabbonirla.
«Simpatico? Certo che lo è, altrimenti non avrei mai accettato. Ma chi lo
conosce? Potrebbe essere chiunque! Praticamente mi ha confessato che ha
passato gli ultimi mesi a spiarmi da dietro il vetro, ti rendi conto? E soltanto
perché era rimasto colpito dalla mia voce mentre eravamo in fila alla
posta... Oddio...» si butta a sedere sullo sgabello, affranta.
«Ma non capisci che è la quintessenza del romanticismo? Sembra la
trama di un film...»
«Dell’orrore, certo. Dove la povera vecchina finisce squartata sul tavolo
di un macellaio psicopatico!»
«Ma dài, smettila, è soltanto un tè! Dove sono finite tutte le tue belle
teorie sulla leggerezza e l’apertura alla vita e alla rinascita...»
Mi interrompe sollevando una mano come un vigile. «C’è un tempo per
ogni cosa, Viola. E per queste faccende il mio è scaduto da un pezzo ormai,
per mia fortuna.»
«E quando è fissato l’incontro con l’assassino?»
Mi fulmina con un’occhiataccia. «Per la settimana prossima. Sono
riuscita a guadagnarmi qualche giorno di vita in più. Ti consiglio di tenermi
cara, finché ci sono.»
La guardo e scoppiamo a ridere entrambe.
«Okay, allora aiutami a rivedere la contabilità, così almeno mi lascerai
con i conti in ordine» le dico.
Cominciamo a controllare ordini, fatture, scontrini, scadenze. La
situazione non sembra così nera come diceva Leblanc. Certo, non
navighiamo nell’oro, ma Gisèle ha pagato il primo arretrato e per il
momento il negozio si mantiene in attivo. I miei pazienti hanno fatto la
differenza, le vendite sono aumentate e non dispero che anche con
l’organizzazione dei seminari otterremo altri risultati.
Osservo con affetto la testa della mia amica china sulle carte, gli occhiali
un po’ scesi lungo il naso. «Gisèle?»
Lei solleva lo sguardo al di sopra delle lenti. «Sì, chérie?»
«Il negozio non chiuderà. Lo sai vero?»
Mi guarda a lungo e i suoi occhi celesti si fanno lucidi di lacrime. «Lo so,
tesoro. Lo so.»
«È una promessa. Che faccio io a te. Stai tranquilla.»
Allunga un braccio e mi accarezza il viso, appoggiandomi la mano sulla
guancia. «Sei una bella persona, Viola» mi dice, con tenerezza. «E una gran
donna. Dico davvero.»
Le sorrido. E vorrei ringraziarla per tutto quello che ha fatto per me, da
quando ho rimesso piede in questa città. Non sarei arrivata dove sono ora
senza il suo sostegno, i suoi consigli, persino le sue critiche. Ho camminato
su un sentiero lungo e accidentato, sono caduta, mi sono fermata e sono
tornata indietro, ma adesso posso dire di essere entrata in una nuova fase
della mia vita. Non so cosa accadrà d’ora in poi, ma finalmente sono
riuscita a lasciarmi alle spalle gran parte dei miei fardelli.
La porta che si apre attrae i nostri sguardi contemporaneamente. Ogni
nuovo ingresso riaccende in me la speranza di vedere il viso di Romain
invece, con un pizzico di sconforto, mi ritrovo a fissare il sorriso luminoso
di Jacques Lacroix, in compagnia del piccolo Martin.
«Buongiorno, Gisèle. Ciao Viola» ci saluta entrambe.
«Ciao Jacques» gli rispondo, nascondendo la mia delusione. «Come va?»
Lui si avvicina al bancone con il bimbo per mano e io noto che le
dinamiche sono leggermente cambiate. Martin si guarda intorno, con gli
occhi accesi di curiosità, ma non tenta di liberarsi dalla mano del padre, al
contrario, sta bene attento a non allontanarsi troppo dalla sua gamba.
«Bene» risponde Jacques. «Oggi finalmente sono riuscito a trovare il
tempo per venire qui insieme a lui. Come ti avevo detto, vorrei parlarti di
Martin.»
«Ma certo, vieni, andiamo nello studio.» Mi alzo e gli faccio strada verso
il retrobottega.
«Vuole lasciare Martin qui con me, Jacques? Per stare più tranquillo»
propone Gisèle.
Lui esita, poi si inginocchia per arrivare all’altezza del bimbo. «Martin,
vuoi rimanere qui a giocare con la signora mentre papà va un attimo di là?»
Il piccolo ci pensa un istante, poi aggrotta la fronte e getta le braccine
intorno al collo del padre.
«Uhm, questo mi sembra un “no” bello e buono» dico a Jacques. Poi mi
rivolgo al bambino. «Vieni con il papà, Martin, nello studio ci sono un
sacco di cose con cui giocare.»
Il bambino allenta appena la presa, tanto da consentire al padre di
prenderlo per mano e seguirmi.
Faccio accomodare Jacques davanti al tavolo e per Martin tiro fuori da un
pensile una serie di tegamini e pentoline. Per quanto incomprensibile, i
bambini manifestano sempre una passione smodata per le pentole e Martin,
fortunatamente, non fa eccezione. Si sistema per terra, accanto al padre e
comincia a trafficare con gli oggetti.
«Allora, eccoci qua» dico a Jacques mentre mi siedo. «In parte mi hai già
parlato dei problemi di Martin e... devo dirtelo, la situazione mi è diventata
più chiara dopo che Gisèle mi ha accennato a quello che è accaduto...»
Lui si passa una mano fra i capelli e i suoi occhi azzurri si incupiscono
dietro le lenti. «Già. Io e Inès ci siamo separati da... sei mesi, di comune
accordo, voglio dire senza tragedie o traumi, però... Martin ne ha risentito
molto e io... be’ a volte mi sembra di non essere in grado di aiutarlo,
occuparmi di lui.» La sua espressione sconsolata mi tocca il cuore.
Quest’uomo si ritrova a dover elaborare una perdita per due, per sé e per
suo figlio.
«Senti, per quanto riguarda Martin, mi sembra chiaro che avverta
moltissimo la mancanza della mamma, è così piccolo che il suo trauma non
trova spiegazione, lui percepisce soltanto l’assenza. Ecco perché è così
iperattivo e possessivo verso di te, la sua è una disperata richiesta di
attenzione e considerazione e tu devi fare un lavoro doppio. A parte la
tisana e le indicazioni alimentari che ti ho già dato, ci sono altri modi per
rassicurare Martin e fargli sentire la tua presenza...»
«Dimmi, accetto qualsiasi consiglio» esclama lui, speranzoso.
«Per esempio la sera potresti raccontargli una favola, facendo attenzione
al suo respiro, devi parlare con tono sommesso e costante, come se recitassi
un mantra. Quando senti che il respiro si rilassa, accarezzalo dolcemente
con gesti regolari, sulla pancia, vedrai che il sonno arriverà prima. Se metti
delle gocce di olio essenziale di lavanda sul suo cuscino quel profumo lo
aiuterà a rilassarsi. E se durante la notte si sveglia o piange, puoi dargli
quattro gocce di Rescue Remedy, per tranquillizzarlo.»
«Rescue Remedy? Cos’è?»
«Non preoccuparti, è soltanto una combinazione di Fiori di Bach.
Assolutamente innocui per il fisico, ma un toccasana per l’anima» gli dico
sorridendo. «Poi ti preparerò un altro mix di fiori da dare a Martin
regolarmente, questo andrà ad agire sulle problematiche specifiche legate al
senso di abbandono e al trauma che ne è derivato.»
Jacques si appoggia allo schienale della sedia e abbassa gli occhi su
Martin, impegnatissimo a costruire astruse sculture con le pentole. Gli
accarezza la testa e il bimbo gli afferra immediatamente la mano,
continuando con l’altra a maneggiare i coperchi.
«Ma...» aggiungo, «credo che per prima cosa dovresti pensare a te stesso.
I bambini sono sensibili alle atmosfere esterne, la serenità deve partire da te,
soltanto così Martin potrà assorbirla. Se vuoi, preparerò dei fiori anche per
te. Non dico che ti faranno dimenticare il dolore della separazione, ma
potrebbero aiutarti ad affrontarlo meglio.»
Lui mi scruta per qualche istante, poi mi sorride. «In effetti hai colto nel
segno. Mi preoccupo talmente tanto per lui che ho perso di vista me e la mia
vita. Tutte le mie giornate sembrano essere imperniate sulle esigenze di
Martin... quasi non so più cosa significhi avere una vita fuori da casa.
Eppure, sei mesi non sono pochi...»
«Jacques... non voglio essere invadente, ma non è una questione di
tempo. Il tempo è relativo per ognuno di noi, non esistono scadenze
prefissate. Però credo che ricominciare a uscire, a fare una vita più...
“normale”, sarebbe sano. Per te e per Martin. Credo che anche tu abbia
bisogno di distrarti...»
Un leggero bussare alla porta mi interrompe e, dopo un istante, Gisèle fa
capolino nello studio.
«Viola, scusami se ti disturbo, ma... avrei bisogno di te» mi dice in tono
imbarazzato. La guardo stupita, dev’essere una cosa seria altrimenti non
sarebbe mai entrata così.
«Non si preoccupi, Gisèle, tanto anche Martin comincia a essere
insofferente» interviene Jacques, alzandosi. «Vogliamo andare, tesoro?»
dice al bambino. Martin scatta in piedi, molla pentole e coperchi e sorride al
padre.
Li accompagno fuori e, mentre sta per andar via, Jacques si gira verso di
me. «Allora, quando potrò avere i tuoi fiori miracolosi?» mi chiede.
«Quando vuoi. Da domani mattina saranno qui ad aspettarti.» Gli sorrido
e lui resta per un attimo a guardarmi. «Bene» dice.
Poi, con un gesto repentino e inaspettato, mi prende la mano fra le sue.
«Grazie, Viola. Davvero. Per tutti i tuoi consigli» mi dice guardandomi
dritto negli occhi. «Credo che comincerò a metterli in pratica molto presto.»
Mi rivolge un ultimo, abbagliante sorriso e se ne va, lasciandomi confusa e
un tantino imbarazzata.
Si è svolto tutto talmente in fretta che non ho avuto neanche il tempo di
accorgermi che il negozio non è vuoto.
«Non sapevo che fossi una dispensatrice di... “miracoli”.»
La voce ironica arriva da dietro le mie spalle.
Un tuffo al cuore. Un’ondata di calore che mi investe da capo a piedi e
quando mi giro, il volto che non speravo più di vedere è, all’improvviso,
davanti ai miei occhi.
12
«Oh... ciao» mormoro, cercando di ricompormi.
Ora capisco qual era l’emergenza di Gisèle. La cerco con lo sguardo e lei
si stringe nelle spalle ostentando un’espressione innocente.
Romain è appoggiato con una mano sul bancone. I capelli un po’
spettinati gli ricadono sulla fronte, lui li scosta con un movimento secco
della testa, mentre nei suoi occhi si accende un guizzo malizioso. Mi fissa e
io mi sento arrossire sotto quello sguardo impertinente.
«E che miracoli fanno i tuoi fiori?» mi chiede in tono canzonatorio. «A
parte quello che ho appena visto...»
«Di che parli, scusa?» gli chiedo senza capire. Con la coda dell’occhio
scorgo Gisèle che si defila in silenzio nel retrobottega.
«Delle stelline che ho visto brillare negli occhi di quell’uomo mentre ti
teneva la mano» risponde, inarcando un sopracciglio.
Stelline?
«Non so proprio...» Ma le parole mi muoiono in gola.
Romain si avvicina lentamente, e io sento le gambe farsi di gelatina.
Sono passati appena due giorni dall’ultima volta che ci siamo sfiorati, ma
mi sono parsi un’eternità. Si ferma a pochi centimetri da me,
costringendomi ad alzare il viso per guardarlo in faccia. Sento il calore del
suo corpo, il suo profumo e intanto mi perdo nel verde ipnotico dei suoi
occhi che cancella tutto il mondo circostante. Abbasso lo sguardo sulla sua
bocca e mi accorgo che involontariamente schiudo le labbra, in attesa.
Lui resta immobile per qualche istante, il suo sguardo mi trafigge da parte
a parte.
«Ti stai rivelando sorprendente, Italie» mormora, e quel soprannome che
prima mi irritava tanto adesso ha il sapore di una dolce intimità. «Forse ho
sottovalutato i poteri della tua naturopatia...»
Poi mi prende il viso tra le mani, abbassa la testa, finché le sue labbra non
sfiorano le mie.
L’ho desiderato così tanto.
Chiudo gli occhi e mi abbandono alle sensazioni. Le sue mani sul viso, la
bocca calda, possessiva, che sembra volersi appropriare di ogni mio respiro.
Mi bacia a lungo, con lentezza e quando si scosta da me faccio fatica a
mettere a fuoco i suoi tratti.
«Se vuoi posso preparare dei fiori anche per te» mormoro.
«Uhm... no grazie. Stelline o no, le tue pratiche stregonesche non mi
convincono affatto» risponde continuando a baciarmi sulle labbra, e sul
collo.
Mi sciolgo dal suo abbraccio e mi allontano per guardarlo meglio. «Non
sarà che questa diffidenza nasconde invece la tua... paura?» gli dico in tono
provocatorio.
Lui si erge in tutta la sua altezza e mi squadra dall’alto in basso. «E di
cosa dovrei aver paura, di grazia? Che tu veda i miei segreti nella sfera di
cristallo?» Sorride con condiscendenza e scuote la testa. «Figurati.»
Nella sfera di cristallo, no. Ma potrei interrogare ben altre superfici
cristalline... penso tra me e me.
Nonostante il suo bacio mi abbia rassicurata, l’ombra del dubbio si
insinua ancora dentro di me.
«Come mai sei passato qui?» gli chiedo. «Eri in giro?»
«No» mi risponde deciso, senza esitazioni. «Ho lavorato talmente tanto in
questi giorni che non sono riuscito a staccarmi dal bar. Adesso la situazione
si è normalizzata, così ho pensato di venire a salutarti.»
Mi sta mentendo senza batter ciglio. Ma se non ha niente da nascondere
allora perché non dire semplicemente che è andato al parco a rilassarsi?
Cosa c’è di male?
«Ah. Be’, grazie. È carino da parte tua.» Gli sorrido. Non voglio essere io
a smentirlo.
«E poi...» il bagliore nei suoi occhi si fa più caldo, «volevo invitarti a
cena questa sera.»
«Oh» mormoro piacevolmente sorpresa. «E... è un invito galante, questa
volta?»
Romain torna verso di me e mi circonda la vita con le braccia. «Talmente
galante che ti terrò lontana dai fornelli almeno dieci metri... Sai non è
sfiducia, ma vorrei mangiare...»
«Ah-ah, molto spiritoso» ribatto, rispondendo al suo abbraccio. «E dove
vorresti portarmi?»
«Lo vedrai a tempo debito. E ora» mi dice dandomi un ultimo bacio
«devo andare. Il lavoro chiama. Ci vediamo più tardi, passo a prenderti a
casa.»
Se ne va e un vago senso di perplessità torna a insinuarsi nella mia mente.
Sarà meglio che mi dedichi a preparare i Fiori di Bach per Martin. Vado
nello studio dove scopro Gisèle seduta su una sedia, in attesa.
«Brava, prima mi metti nei guai e poi te la dai a gambe» fingo di
rimproverarla.
«Scusa, tesoro, ma quando è arrivato Romain ho pensato che avresti
voluto vederlo e...»
«Ehi, sto scherzando! Hai fatto benissimo» la rassicuro. «È venuto per
invitarmi a cena.»
«Oh! Bene, allora ti senti più tranquilla?»
«Sì, certo.» Non è del tutto vero, ma non voglio alimentare i miei dubbi
rivelandoli a Gisèle, non avrebbe senso. «Ora posso rimettermi al lavoro».
Le sorrido e lei torna nel negozio.
Comincio a selezionare le fiale. Cinque sono i fiori adatti a Martin.
Agrimony, per la paura della solitudine. Impatience, per l’ansia e
l’eccessiva agitazione. Chicory, per la continua richiesta di attenzioni e il
disperato bisogno di essere amato e considerato. Star of Bethlehem, per
metabolizzare il trauma subito dalla separazione dei genitori. Walnut, per
adattarsi ai grandi cambiamenti dopo il divorzio. Per Jacques invece,
aggiungo a Star of Bethlehem e Walnut alcune gocce di Gentian, che aiuta a
riprendersi dallo scoraggiamento di un insuccesso e Larch, per recuperare la
fiducia in se stesso. Sciolgo tutte le gocce nella soluzione idroalcolica e le
lascio riposare.
Ora posso pensare alla serata che mi aspetta.
Come previsto, Romain arriva sotto casa di Gisèle a bordo del suo
sidecar. Ho indossato un abito corto, di lino rosso fuoco, acquistato oggi
pomeriggio prima di rientrare a casa, che si intona perfettamente con i miei
capelli scuri e la pelle abbronzata. Ma stavolta, quando mi siedo, non provo
alcuna vergogna nel mostrare le gambe e lo sguardo compiaciuto di Romain
conferma la bontà della mia scelta. Non appena assicuro la fibbia del casco
partiamo, come sempre, con gran fracasso. È uno stato d’animo nuovo
quello che mi accompagna in questa passeggiata. Niente più timori, niente
più diffidenze, soltanto il piacere di abbandonarmi alla riscoperta di una
Parigi che mai come ora mi è parsa tanto romantica.
Pont Neuf è davanti a noi in tutta la sua imponenza. Romain ha
parcheggiato il sidecar in una stradina secondaria a poca distanza dal
lungosenna e mi ha proposto di continuare a piedi, per goderci la serata
fresca. Percorriamo lentamente il ponte, mano nella mano, e una volta
raggiunto il centro ci fermiamo contemporaneamente, senza bisogno di
dircelo. In silenzio ci affacciamo al parapetto per ammirare il fiume,
squarcio pulsante aperto nel cuore della città, grigio e in perenne
movimento sotto la superficie apparentemente immobile, solcato dai
magnifici ponti con le loro campate larghe e basse, in una lunghissima
teoria che si restringe nella prospettiva. Aggraziate balaustre di ferro stile
liberty, solidi parapetti di marmo scolpito, ringhiere barocche abbellite da
lumi e sculture nere e oro, moderni intrecci di vetro e acciaio sospesi
sull’acqua, il tutto accarezzato dalla luce tenue del sole che si avvia verso il
tramonto. E quella luce obliqua, la città riflessa sulle increspature
dell’acqua, la brezza leggera che mi solleva i capelli, il calore della mano di
Romain sulla mia, si compongono in un istante di pura perfezione, assoluta,
adamantina felicità che mi permea come se mi immergessi nelle acque
ferme di un lago e in un lampo scompaiono la paura, le bugie, le ex
fidanzate, i misteri, le cameriere principesse...
Un’epifania fulminea.
Carpe diem...
Mi giro di scatto verso di lui.
«Romain...»
Romain mi sorride dolcemente, si china per baciarmi e io... Esplodo in
una risata fragorosa, incontenibile e liberatoria che mi toglie il fiato e mi fa
uscire le lacrime dagli occhi. Mi afferro al parapetto, ansimante e piegata in
due, cercando di riprendere a respirare mentre lui fa un passo indietro e mi
guarda attonito come se mi fossero spuntate all’improvviso due teste.
«Che cosa mi sono perso?» mi chiede, caustico, quando l’accesso di
ilarità si riduce a brevi sbuffi sincopati e riesco in qualche modo a
raddrizzarmi.
«Oh, dio, Romain...» farfuglio, asciugandomi gli occhi, «Camille è un
genio...» E continuo a ridere.
«Tu hai lavorato troppo» bofonchia, staccandosi dal parapetto e
porgendomi la mano. «Sarà meglio andare. Se riesci a stare in piedi... Okay,
ma smetti di ridere, adesso!»
«Saint-Germain-des-Prés?»
«No.»
«Luxembourg?»
«No. Piantala.»
«Uff...»
Lo sbircio di sottecchi per scoprire se al tono asciutto corrisponde
un’espressione corrucciata.
Corrisponde.
Camminiamo più o meno in silenzio da quando abbiamo lasciato Pont
Neuf e le mie domande sono state a malapena degnate di qualche
monosillabo. Il mio scoppio d’ilarità deve per forza averlo spiazzato e,
forse, anche un pochino offeso. Ho infranto l’atmosfera romantica e
ammaccato il suo ego e probabilmente le sue risposte stiracchiate sono la
penitenza che devo scontare. Eppure nemmeno questo riesce a scalfire la
mia serenità.
Perché la mia mano è ancora nella sua, da quando abbiamo ripreso a
camminare, perché il suo passo si accorda al mio per non costringermi a
correre, perché avverto l’intesa che fluisce fra di noi e non mi fa
rimpiangere la mancanza di parole. Alla fine rinuncio all’interrogatorio e mi
lascio guidare da lui senza quasi far caso al percorso, con l’unica certezza di
trovarmi esattamente dove vorrei essere. Stiamo vagando nel quartiere
Latino, con i suoi mille locali e le strade traboccanti di gente eterogenea,
passanti, turisti. Nonostante l’apparente casualità della passeggiata, Romain
sembra avere ben chiara la sua meta e infatti, dopo un paio di svolte,
arriviamo in una piccola piazza dalla vaga forma esagonale, con al centro
una fontana circondata da alberi, e intorno una successione di bistrot,
ristoranti e bar, uno accanto all’altro, che la delimitano come le perle di una
collana.
«Ci siamo.»
Si ferma, mi lascia la mano e abbraccia la piazza con una lunga occhiata.
«Ah.»
Non riesco a reprimere una punta di delusione. È place de la
Contrescarpe, noto e affollato luogo di ritrovo diurno e notturno. Carina,
certo, ma mi sarei aspettata qualcosa di un po’ più romantico.
«Come “Ah”? La conosci, immagino» mi dice, indicando la piazza con
un cenno della testa.
«Sì, ci venivo spesso quando studiavo qui.»
«E perché quella faccia delusa?»
«Non sono delusa» protesto con poca convinzione, «è solo che...»
«Lascia stare, se “ah” è tutto quello che sai dire, significa che non hai mai
visto la vera bellezza di questi luoghi. Oppure che nessuno te l’ha mai
mostrata. Dài, andiamo.»
Attraversa la piazza e imbocca rue du Cardinal Lemoine. Cammina
lentamente, osservando i muri, come se cercasse qualcosa di preciso, finché
non arriva davanti a un portoncino di legno azzurro un po’ scrostato. Si
ferma, si volta verso di me e mi indica una targa posta lì accanto. La
riconosco, è quella che annuncia con orgoglio che in quello stabile, in un
appartamento del terzo piano, ha vissuto Ernest Hemingway.
«Ancora niente?» mi chiede, e io tento di indovinare che razza di risposta
vorrebbe ricevere. Invano.
Mi stringo nelle spalle. «Uhm...»
«Okay. Proseguiamo.»
Alcune decine di metri più avanti, nuova tappa. Stavolta davanti a un alto
cancello verdastro, e anche qui si ferma per indicarmi la targa, anzi le due
targhe, che ci informano della passata presenza di James Joyce e Valéry
Larbaud in quello stesso edificio.
Di nuovo si gira verso di me, e i suoi occhi brillano d’aspettativa, come
quelli di un bambino la sera di Natale.
E io sono al punto di prima. Che cosa diavolo devo dirgli? «Oh, be’, sì lo
so che queste sono le case degli scrittori, ma d’altronde tutto il quartiere è
pieno delle loro tracce e...»
«È proprio questo il punto» mi dice, poi torna a guardare la targa. «È la
vera bellezza di questi luoghi» aggiunge a voce bassa.
«Romain, lo so che Hemingway e Joyce hanno vissuto a Parigi, così
come ha fatto l’intero universo intellettuale del primo Novecento. Se volevi
diventare qualcuno dovevi venire qui a fare la fame, era un rito di passaggio
obbligatorio, come fare gli esami di terza media...»
«Come ti ho già detto, il punto è proprio questo. Qui, in questo incrocio
di strade, hanno vissuto e lavorato alcune delle più grandi menti di tutti i
tempi. Joyce, Hemingway, e cento metri più su Fitzgerald, e poi Gertrude
Stein, Sylvia Beach, Orwell... come fai a non percepire l’energia creativa
che trasudano queste pareti, la passione, la necessità imprescindibile di
riuscire, costi quel che costi?» Appoggia dolcemente una mano sul muro,
sotto la targa, come se quel gesto potesse avvicinarlo all’essenza immortale
che ancora permea intonaco e cemento. «Ma non è soltanto questo.» Sposta
la mano dal muro con un’ultima carezza e si gira a guardare la piazza, in
fondo alla strada. «Pensa all’atmosfera che doveva regnare a quei tempi su
queste strade» mormora con voce bassa, ma vibrante di calore. «La miseria
più nera a ogni angolo, ubriachi e clochard che tiravano a campare senza
sapere se sarebbero arrivati a vedere la fine della settimana. E in mezzo a
tutto questo, qualcuno ha trovato comunque la forza di credere in un sogno,
e di crederci con tale passione da attraversare un oceano e patire la fame pur
di vederlo realizzato.» Si ferma un istante, poi mi guarda e dalla sua
espressione disorientata sembra tornare bruscamente alla realtà. «Okay,
scusami, non avevo intenzione di tenere un comizio» conclude con un
sorriso imbarazzato. Poi dà un’occhiata all’orologio. «Sarà meglio andare a
cena. A piedi ci vorrà un quarto d’ora per arrivare ai Deux Magots. Quanta
fame hai?»
La strada fino al ristorante ci trova di nuovo silenziosi, ma stavolta per un
motivo diverso. Romain sembra assorto in una qualche sua riflessione e io
ripenso a quanto è appena accaduto. L’ho ascoltato stupita, non tanto per le
parole, quanto per il fervore che le ha animate. Non lo avevo mai visto così
serio, appassionato. È come se per pochi istanti si fosse messo a nudo,
dimentico di sé, perso nelle immagini che le sue stesse parole stavano
evocando. Ho visto il segno di una passione mai estinta, e mi chiedo se ogni
tanto lui non abbia dei ripensamenti, un rammarico per ciò che non ha più.
A pensarci bene la meta finale non poteva che essere i Deux Magots:
romantico al punto giusto, con la terrasse che dà sulla bellissima chiesa di
Saint-Germain-des-Prés e quell’aria vissuta e carica di storia che è in fondo
la vera essenza del suo fascino. Ci accomodiamo a un tavolo appartato.
Ormai è scesa la sera e lo spazio all’aperto è disseminato di luci soffuse che
rendono ancora più suggestivo il profilo scuro della chiesa che si delinea
contro il cielo dall’altra parte della strada. Con un’occhiata al menu, opto
per un filetto di salmone con julienne di verdure e per dessert un magnifico
moelleux aux chocolat accompagnato da gelato alla vaniglia, quanto di più
decadente e lussurioso possa offrire la carta dei dolci. Romain invece
sceglie un più sobrio controfiletto al pepe e un semplice sorbetto al ribes
come dolce. Champagne per ingannare l’attesa, come di rigore. Ne
approfitto per sbirciare il mio compagno di tavolo che mi sorride, ma
sembra che solo una parte del suo cervello mi stia prestando attenzione.
Chissà se sta pensando che proprio sulla sua sedia potrebbe essersi seduto
un Jean-Paul Sartre, o un André Gide.
«Come sei finito all’Hairy Biker?»
«Te l’ho detto, quando ho mollato l’università mio zio mi ha offerto il
posto.»
«E non hai avuto nessun rimpianto?»
«No. È stata una bella esperienza, ma... non bastava più.»
A questo punto mi spazientisco. «Romain, non raccontarmi storie, è
chiaro che la passione per le lettere, per lo studio ti è rimasta dentro. Come
fai a dire di non avere rimpianti? Hai mollato tutto quello per cui hai
lavorato e che ti rendeva felice per venire a fare il barista a Parigi, non puoi
dirmi che stai meglio adesso, non ci credo. Perché non mi racconti la verità,
una buona volta?»
«Puoi anche non crederci, ma è esattamente così. Il periodo universitario
mi è servito a capire cosa non volevo fare nella vita. È stato semplicemente
un passaggio, molto utile perché mi ha traghettato su altri lidi più...
confacenti, diciamo così.» Beve un sorso di vino, poi appoggia il bicchiere
e osserva il liquido chiaro. «E poi era una situazione troppo legata a
Isabelle. Alla fine quella che voleva arrivare in fondo era lei. Io avrei fatto
altre scelte.»
Ci portano i nostri piatti e per un po’ la mia attenzione è catturata dal
cibo, delizioso, non c’è che dire. Anche Romain preferisce concentrarsi
sulla sua bistecca. Aspetto che si interrompa per bere dell’altro vino, prima
di porre la domanda che sembra sfuggirmi dalle labbra.
«Ti manca?»
«Isabelle?»
Non ho specificato l’oggetto della mia domanda, ma o Romain è
particolarmente perspicace, oppure la sua mente stava già considerando
l’argomento.
«Non so, forse mi manca l’idea che mi ero fatto di lei e del nostro futuro.
Ma non è detto che non riesca a farcela anche da solo.» Mi scocca
un’occhiata penetrante. «Dimmi di te, invece. Da quando hai scoperto la tua
vocazione... esoterica?»
«Non chiamarla esoterica. La naturopatia è una cosa seria.»
«Va bene, va bene, non ti scaldare. Allora?»
«Da sempre, credo. Da quando ho cominciato a conoscerla, sicuramente.
È stato come aprire la porta di un mondo nuovo. Completamente diverso
dal mio, capisci, e da quel momento mi sono accorta che il mio mondo mi
andava stretto. Non mi rispecchiava.» Il pensiero vola mio malgrado a mio
padre, come sempre quando rivivo quei momenti, e taccio con la scusa di
assaggiare il moelleux aux chocolat che arriva con perfetto tempismo.
«Mmh... meraviglioso... Mmh... divino... Ne vuoi?» biascico con la bocca
piena e lo sguardo sognante, rapita dalla dolcezza sublime che mi distrae
dai pensieri cupi.
«No, grazie, Meg Ryan. E cerca di darti un contegno» mormora lui
trattenendo un sorriso. «Stavi dicendo che il tuo mondo non ti
rispecchiava...»
Gli lancio un’occhiataccia, ma prima di parlare ingoio la delizia al
cioccolato. «Sì, insomma, era una realtà troppo asettica, troppo rigida. Io
volevo essere libera. Libera di esprimere me stessa e di entrare in contatto
con gli altri.»
Mi guarda con un barlume di stupore negli occhi. «Abbiamo molte più
cose in comune di quanto pensassi. Anzi, in un certo senso ci somigliamo»
dice bevendo l’ultimo sorso di vino. «Siamo due outsider. Ma ancora non so
se sia un bene o un male.»
Cade una pausa silenziosa perché non so cosa replicare. Finisco di
assaporare le ultime cucchiaiate di torta al cioccolato, poi mi metto a
cincischiare con le briciole sulla tovaglia perché Romain non ha smesso di
guardarmi e io sento salire uno strano calore sul collo. Poi, d’un tratto, la
sua mano si chiude sulla mia e mi costringe a lasciar perdere le briciole e ad
alzare gli occhi dalla tovaglia.
«Che ne dici di andare a metterci comodi da qualche parte?» mi chiede
con la voce più profonda e sexy che gli abbia mai sentito produrre fino a
ora.
«Okay, dove?» chiedo cercando di assumere un tono disinvolto.
«Fidati di me» risponde lui con un sorriso allusivo.
13
Belleville.
Avrei dovuto immaginarlo.
Dal carrozzino del sidecar vedo passarmi davanti la vetrina ormai
sprangata del locale di Ari. Quella volta Romain disse di abitare a poca
distanza da qui e infatti, dopo qualche accelerata e alcune curve strette,
parcheggia in una strada secondaria, davanti all’anonimo portone in legno
scuro di un edificio dalla facciata piana color ocra, senza balconi né
finestre.
«Vieni.»
Lo seguo nel portone e mi ritrovo in una corte interna sulla quale si
affacciano alcuni piani di ballatoi comuni. Attraversiamo un susseguirsi di
cortili che si aprono uno dentro l’altro come matrioske e arriviamo
finalmente all’ingresso di quella che immagino sia la sua scala.
«Ti devi nascondere dai creditori?»
«No. Dalle ammiratrici troppo insistenti.»
«Ah-ah.»
Apre il secondo portone e, quando lo varco, mi sento catapultare
immediatamente in un film della Nouvelle Vague. Un androne semibuio che
sa vagamente di muffa, pavimento di graniglia e intonaco giallino un po’
scrostato, con quattro porte sul pianerottolo del pianterreno e, davanti a me,
una scalinata di legno un po’ sghemba che conduce ai piani superiori. Non
c’è ascensore.
«Quarto piano» mi informa Romain, leggendomi nel pensiero.
Mi appello silenziosamente agli spiriti di Truffaut, Godard e Chabrol e mi
appresto all’ascesa. Quattro piani dopo mi fermo davanti alla porta
promessa con un palmo di lingua fuori e l’ansimare asmatico di un san
bernardo.
«Prego, madame» mi invita Romain, aprendo.
Entriamo e mi ritrovo in un ambiente del tutto diverso da quello che
immaginavo fosse la casa di un giovane scapolo. L’appartamento è molto
accogliente, con divani ricoperti di tessuti nei toni caldi dei colori della terra
e tappeti di cotone grezzo sui pavimenti. Alle pareti sono appesi stampe e
poster che riproducono i dipinti più famosi della storia dell’umanità. Van
Gogh, Renoir, Munch... uno accanto all’altro in una fantasiosa teoria di stili
e colori.
Ma quello che mi lascia a bocca aperta sono i libri.
Centinaia di volumi disposti in librerie che arrivano fino al soffitto, in
doppie file, o sparsi sui mobili, a casaccio. Mi avvicino agli scaffali per dare
un’occhiata ai titoli. Libri di storia, saggi, critica letteraria, storia dell’arte...
ma soprattutto romanzi. Inglesi, americani, francesi, italiani, tedeschi, un
vastissimo panorama letterario si dispiega davanti ai miei occhi. Forse
nemmeno la biblioteca di mio padre è così nutrita.
Mi giro verso Romain che è rimasto a osservare la mia esplorazione.
«Sono tutti tuoi?» gli chiedo, stupita.
«Quasi tutti, sì. In parte sono un’eredità di famiglia.»
«E li hai letti tutti?»
«Quasi tutti» risponde con un sorriso soddisfatto.
Mi chiedo dove abbia trovato il tempo. La verità è che faccio ancora
fatica a sovrapporre all’immagine del barista che conosco quella
dell’intellettuale, anche se so del suo passato da professore universitario.
«Mettiti comoda, vado a prendere qualcosa da bere» mi dice sparendo in
cucina.
Vado verso il divano per sedermi, ma poi ci ripenso e approfitto dei pochi
istanti a disposizione per darmi un’occhiata intorno e cercare le tracce di
una presenza femminile, anche se ormai passata. Ma né le pareti, né gli
scaffali, né le superfici dei mobili mostrano segni rivelatori. Nessuna
fotografia, nessun oggetto attribuibile a una donna, è tutto molto sobrio e
maschile. Non so se sentirmi delusa o sollevata. Forse avrei preferito vedere
in faccia l’altra, quella con cui dovrò competere, quella con cui
inevitabilmente lui farà – se non ha già fatto – paragoni. È pur vero che
questo è soltanto il salotto. Può darsi che le cose più private le tenga in
camera da letto.
E chissà, è possibile che più tardi riesca a verificarlo di persona...
Torno verso il divano e stavolta mi siedo ad aspettare. Poco dopo Romain
torna con una bottiglia di vino bianco e due calici. Prende alcune candele da
un mobile e le mette sul tavolo di fronte a noi. Noto che una di queste è la
candela che gli ho regalato prima di partire, ancora intonsa.
«Come mai non l’hai ancora accesa?»
Lui comincia ad accendere le candele una dopo l’altra, lasciando per
ultima la mia. «Uhm. Questione di occasioni.»
Poi spegne le luci.
Dalle finestre aperte giunge di tanto in tanto il rumore attutito di una
macchina di passaggio e la voce allegra di qualche nottambulo. Per il resto,
il silenzio ci coccola con la sua carezza. Romain versa il vino nei bicchieri e
solleva il suo per un brindisi.
«A questa serata» mormora con la sua voce suadente.
«A noi» oso.
Lui sorride e non dice niente. Fingo di non notarlo e mi guardo intorno,
con noncuranza. Il mio sguardo viene inevitabilmente attirato dalle librerie.
«Cos’è che ti affascina così tanto dei romanzi?» gli chiedo con genuina
curiosità.
«Mah... non c’è una cosa sola. Forse, il viaggio. Ecco, sì, la possibilità di
vivere altre storie, altri mondi. Calarsi in una realtà che non esiste e fingere
che sia vera, anche solo per lo spazio di una lettura. Uscire dagli schemi. La
libertà. Non ho mai tollerato i limiti.» Prende un sorso di vino. «Ero il tipo
di bambino che se guardava lontano vedeva sempre un orizzonte e mai un
confine» conclude con un sorriso un po’ triste.
Le sue parole mi fanno tenerezza. Sto scoprendo a poco a poco che dietro
la sua apparenza così decisa, a volte sprezzante, si nasconde l’animo
inafferrabile di un sognatore. Affascinante e pericoloso.
«Quindi non ti piace vivere nella realtà, o almeno, nella tua realtà.
Preferisci quella inventata da altri?»
Da sopra il bicchiere mi lancia un’occhiata penetrante, come se si
chiedesse il significato recondito delle mie parole.
«Non è esattamente così. Sai, spesso sono i romanzi a nutrirsi di realtà.
Non hai idea delle migliaia di storie vere che sarebbero degne di essere
ospitate fra le pagine di un libro.»
«Davvero? E ne conosci tante?»
«Con il lavoro che faccio, ne ho sentite diverse, sì.»
«Raccontamene una allora.»
Lui temporeggia. Si passa una mano fra i capelli, sorseggia lentamente il
suo vino. Poi si appoggia ai cuscini del divano e alza gli occhi su di me.
«Allora. Questa storia comincia intorno alla metà degli anni Quaranta, qui,
a Parigi. A quell’epoca la città era appena uscita dalla guerra, dall’invasione
tedesca... immagina l’atmosfera... si aveva l’impressione di avere davanti
un futuro nuovo di zecca, tutto da inventare. Perciò la gente viveva un po’
come se ogni giorno fosse un regalo, un pacco a sorpresa da scartare ogni
mattina e da gustare in ogni sua parte, senza sprecarne nemmeno un istante.
Parigi sembrava un immenso palcoscenico in evoluzione, e i suoi attori
principali erano scrittori, artisti, intellettuali... tutti affamati di vita e senza il
becco di un quattrino. E in quel mondo senza regole, disperatamente
festoso, c’era una donna...» Appoggia il bicchiere sul tavolo e lo rigira
lentamente tenendolo per lo stelo. «... Anzi, una ragazza in realtà, anche se
aveva già due figli a poco più di vent’anni. Era di famiglia molto povera,
ma bellissima. Era elegante e riservata, il tipo che ti fermi a guardare per
strada sperando che ti rivolga almeno un’occhiata. Grazie alla sua bellezza
si era sposata giovanissima, con un facoltoso diplomatico, molto più grande
di lei, che l’amava profondamente e le aveva garantito una vita sicura.
Certo, non si può dire che fosse stato un matrimonio appassionato, ma il
marito era una brava persona, gentile e affettuoso, e la ragazza gli era molto
grata per averla tirata fuori dalla miseria. E in quella Parigi sfrenata e
chiassosa, la ragazza portava sempre i figli piccoli a fare una passeggiata,
lungo la Senna. Poi si fermava a prendere un caffè per sé e dei dolci per i
bambini proprio ai Deux Magots, dove siamo stati noi. Tutti i giorni la
stessa routine. Lo stesso percorso e la stessa tappa. Alla stessa ora. Un
giorno, sente che tra la folla dei bevitori, degli scrittori squattrinati, degli
artisti e degli aspiranti tali, qualcuno la sta fissando. Lei non sa come
spiegarselo, ma avverte una forza irresistibile che la chiama e la costringe a
voltarsi. E, quando si gira... vede due occhi nerissimi, febbrili, incorniciati
da ciglia fitte, che la scrutano senza pudore. Quello sguardo la trafigge, la
paralizza, le provoca una scarica elettrica che la passa da parte a parte. Solo
dopo qualche istante si accorge che gli occhi appartengono a un giovane
ufficiale americano in divisa, bello come un attore hollywoodiano. Lui le
sorride e lei arrossisce, abbassa gli occhi e torna a occuparsi del suo caffè e
dei suoi bambini. Ma, quando sta per andar via... vede che anche l’ufficiale
si alza, va verso il suo tavolo, si ferma un istante, solo un istante, e lascia
cadere un foglietto sul ripiano. Le rivolge un ultimo sguardo intenso, poi
scompare. La ragazza si guarda intorno nervosa, teme che qualcuno abbia
notato la manovra, ma la folla del locale è indifferente, presa da se stessa.
Così raccoglie il foglietto piegato, lo apre e vede che sopra c’è disegnata
una bellissima rosa...»
Romain fa una pausa, lo sguardo perso nei meandri dell’intreccio, e io
resto in silenzio, rapita dalla sua voce calda ed espressiva. Prende un altro
sorso di vino, e ricomincia.
«Il giorno successivo si ripete la stessa, identica scena. Bar. Sguardi.
Biglietto. Solo che questa volta il disegno ritrae una farfalla in volo. La
ragazza è turbata e incuriosita. Quei disegni risvegliano in lei un languore
che non sapeva di poter provare. A un tratto diventa ansiosa di fare la sua
passeggiata quotidiana. Lei non sa l’inglese ma forse, pensa, nemmeno lui
conosce il francese, ecco perché i suoi biglietti sono privi di parole. Dopo la
farfalla, arriva un cielo stellato, poi un mare in tempesta finché un giorno...»
Si interrompe e mi guarda dritto negli occhi. Io pendo dalle sue labbra.
«... Il biglietto non riporta un ritratto di lei con accanto un cuore
sanguinante. La ragazza rimane folgorata e quella notte stessa va a cercare
nella biblioteca del marito un vecchio dizionario inglese per trovare qualche
parola da scrivergli in cambio, qualcosa che possa esprimere quello che
prova. Da quel giorno comunicano attraverso i disegni di lui che le
raccontano una storia e le parole sgrammaticate di lei. La faccenda va
avanti per settimane. Senza mai scambiarsi una parola a voce. La ragazza è
una signora in vista, suo marito è un pezzo grosso dell’ambasciata, non
potrebbe mai commettere un adulterio senza che si venisse a sapere con uno
scandalo senza precedenti. Ma lei è giovane e impulsiva. Si strugge, lo
sogna, si è innamorata perdutamente di un uomo con cui non ha mai
parlato, con tutto l’ardore di una prima volta. Allora progetta la fuga. Arriva
persino a decidere di lasciare i figli e, tramite i soliti biglietti, si mette
d’accordo con l’ufficiale perché la venga a prendere una certa notte, quando
sa che il marito sarà assente per lavoro, per scappare insieme. La notte
designata lei lo aspetta, trepidante, con la valigia pronta. Ha baciato i
bambini addormentati e ha detto loro addio. È addolorata, certo, ma l’amore
folle che prova per il soldato è come una febbre da cui è impossibile
guarire. La ragazza aspetta, fiduciosa. Aspetta tutta la notte, fino a che il
cielo non si tinge di rosa e l’alba spunta da dietro i tetti. Allora capisce che
lui non verrà più. Capisce che è stata tutta una farsa, un gioco inventato per
passare il tempo prima del rimpatrio. E il suo cuore si spezza. Rientra in
casa, disfa la valigia e rimette i vestiti nell’armadio. Poi indossa la camicia
da notte e si infila sotto le coperte. Senza versare una lacrima. Il dolore e
l’umiliazione l’hanno talmente schiantata che le sue emozioni si sono
congelate. E non piangerà mai più. Almeno fino a quarant’anni dopo.
Quando, una sera, suo marito, ormai vecchio e perso nella vacuità della
demenza senile, in uno dei suoi deliri sconnessi non le racconterà la storia
di un giovane ufficiale americano che voleva rubare la sua bellissima
moglie. Lo aveva letto nel diario di lei, aveva visto i messaggi che si erano
scambiati ed era disperato, distrutto, non poteva permetterlo. Così, una certa
notte, aveva aspettato al varco il giovane soldato, lo aveva affrontato, aveva
cercato di dissuaderlo, ma... si era trovato di fronte un muro. Un muro
d’amore cieco e ingiusto. E allora era stato travolto dall’odio per la sua
giovinezza tracotante, la sua passione sfrontata, irrispettosa, e lo aveva
colpito alla testa con il suo bastone da passeggio. Poi, vedendo il corpo
inanimato ai suoi piedi, era stato preso dal panico e lo aveva gettato nella
Senna. Non c’era nessuno a quell’ora. Nessun testimone. Dopo quel gesto si
era sentito rinascere, libero dal peso della minaccia che lo aveva tormentato
per tante settimane. E si era ripreso sua moglie e la sua vita. Glielo raccontò
con un sorriso felice e gli occhi annebbiati dalla malattia.»
«E lei cosa fece?» chiedo con un filo di voce.
«Lei lo abbracciò, accarezzandogli teneramente il viso. Lo accompagnò a
letto e lo baciò. Poi andò a prendere il suo diario, si sedette in poltrona e,
finalmente, pianse.»
Il racconto termina in un silenzio drammatico. Romain prende il suo
bicchiere e beve lentamente. Io rimango con gli occhi fissi sulla sua bocca.
Incantata, avvinta. Niente è più sensuale di una storia raccontata con
maestria, in una calda notte di fine estate.
Ma in un lampo mi torna in mente la burla del tornado.
Lo guardo con sospetto. «E questa chi te l’ha raccontata? Non sarà
un’altra delle storie di zio Henri?»
«No, di mia nonna, questa volta. Anzi l’ho letta nel suo diario. Dove ho
visto anche i disegni che lei ha conservato per più di sessant’anni.»
Resto a bocca aperta. «Non ci credo.»
«Vuoi scommettere? È di là, in camera.»
«Quindi oltre ai cantastorie c’è anche un assassino nella tua famiglia? È
pazzesco! E nessuno lo ha mai saputo? Non può essere vero.»
«E invece sì, te lo giuro. Oh, in famiglia lo sappiamo tutti, ma mio nonno
è morto parecchi anni fa, poco dopo questa rivelazione, quindi se ti riferisci
alla polizia, no, non l’ha mai saputo. E poi, un assassino sì, ma per amore.
L’amore giustifica tante cose, no? Oppure... chissà. Forse in noi scorre una
vena di follia» mormora lanciandomi un’occhiata diabolica che mi fa
trasalire. Lui ride e beve un altro sorso di vino. «Stai tranquilla, credo che la
vena si sia esaurita con mio nonno. E tu, invece? Fra i tuoi antenati ci sono
sciamani cheyenne, o guaritori cinesi?»
«No, veramente io sono l’unica esponente della categoria. Mio padre è un
cardiologo, discendente da una stirpe di medici, mia madre è una storica
dell’arte, ha insegnato per un po’, ma poi si è data alla vita casalinga. Ha
scelto la comodità. E io sono il frutto marcio. Forse è per questo che mio
padre mi ha disconosciuta. Se avesse potuto fare un test di paternità per
rinnegarmi, l’avrebbe fatto.»
«E così sei stata una ragazzina sola e ribelle finché non è arrivato tuo
marito...»
«Più o meno...»
«E adesso?»
«Adesso cosa?»
«Adesso che sei di nuovo sola hai intenzione di portare avanti altre
battaglie, oppure ti accontenterai della realtà che stai vivendo?»
«Ma adesso non sono più sola. C’è Gisèle. Il negozio.» Non ho il
coraggio di aggiungere “e tu”. La sua frase mi ha ferita, ma non voglio
dimostrarglielo. «E poi ho smesso con le battaglie. L’accettazione è stata
una delle lezioni più importanti che ho imparato da Michel.»
Sorseggio il mio vino per evitare di guardarlo negli occhi.
«Lezioni di vita a parte, è stato anche il tuo maestro, o sbaglio?» insiste.
«No, non sbagli. Mi ha insegnato tanto. Forse più di quanto abbia fatto la
scuola di naturopatia. Se ho imparato a leggere negli occhi degli altri è
soltanto merito suo.»
Romain appoggia il bicchiere sul tavolo e si sistema ben dritto sul divano.
«Bene. Sono pronto.»
«Per cosa?»
«Per farmi leggere. Forza, streghetta, dimmi cosa vedi.»
Rimango con il bicchiere a mezz’aria. Di tutte, questa è l’ultima cosa che
avrei pensato di sentirmi chiedere da lui. «M-ma non posso... non c’è la
luce giusta... e poi... mi serve la foto ingrandita e...»
«Ehi, non ti starai mica tirando indietro? Io ti ho raccontato una storia.
Ora tocca a te, Italie.»
Questa scena mi ricorda qualcosa. Eccomi di nuovo a dover dimostrare le
mie capacità in una situazione a dir poco disagevole. Ma stavolta non posso
fallire, questo è il mio territorio, ne va della mia credibilità e del mio onore.
Prendo un respiro. «Okay. Reggi questa» gli dico passandogli una candela.
«Vicino agli occhi. E tienili ben aperti.»
«Sì, ma sta’ attenta a non farmi diventare una torcia umana.»
«Taci! Devo concentrarmi.»
Mi avvicino al suo viso e cerco di studiare le iridi quanto più possibile.
Senza luce e strumenti adeguati posso fare ben poco, anche differenziare fra
iride destra e sinistra è un’impresa. Per il momento mi limito a
un’osservazione generale. Ma mi bastano pochi istanti per rimanere turbata
da quello che vedo. Lacune e pigmenti. Compresenza di tutti i segni
distintivi iridei. Sembra un Estremo o Shaker, nome che la dice lunga, la
tipologia iridea meno diffusa e più complessa. Non posso averne la
matematica certezza, eppure... Alcuni segni sono inequivocabili. L’Estremo
è un tipo molto particolare, il suo flusso energetico non è regolare, procede
per scatti e impennate e questo ne fa un individuo imprevedibile e
contraddittorio. Sono persone alla perenne ricerca di un equilibrio interiore,
ma faticano molto a trovarlo, e per questo sono in continuo movimento, la
loro vita sembra condotta all’insegna del mutamento. Hanno menti
vulcaniche, geniali, creative. Entrano nelle vite degli altri come un uragano
e le scuotono fino alle radici, in un continuo scambio di energie, per poi,
spesso, uscirne senza guardarsi indietro. E a fronte di tanta mutevolezza,
possiedono una pervicacia sorprendente nel perseguire i propri obiettivi, a
qualunque costo.
... Romain è uno che va deciso per la sua strada e non si ferma a guardarsi
indietro, nemmeno se si lascia alle spalle dei relitti.
Non mi serve ricordare le parole di Gisèle per accrescere dubbi che già si
sono affacciati alla mia mente. Mi chiedo se un uomo tanto indipendente e
carismatico possa anche essere fedele e dare stabilità e sicurezza. E se fosse
un narcisista o un assolutista vanitoso? Non che gli estremi siano tutti così...
No, no, sono solo le mie paure...
«Allora? Sto diventando cieco...»
Accidenti. Non posso certo rivelargli tutto quello che ho pensato. Ma non
voglio nemmeno passare per un’incompetente.
«Con calma. Queste cose richiedono tempo.» Assumo un tono
estremamente professionale. «Dunque, vediamo. La trama appare diradata,
indice di un’energia debole, facilmente dispersa e quindi di una resistenza
fiacca agli agenti stressanti esterni. Poi, uhmmm, brutta cosa... Questi anelli
tetanici qui, sono numerosi, profondi e spezzati... uhm... indicano una
tendenza costituzionale alla spasmofilia...»
Mi riempio la bocca di parole strane perché spero di fare colpo su di lui e
di cavarmela con poco, anche perché data la situazione sfavorevole non
sono molto convinta che quello che sto dicendo risponda alla verità.
«... E poi il collaretto, qui, sembra particolarmente ristretto e anche
questo è un sintomo di una possibile astenia psico-fisica...»
«Okay, okay, ora basta.» Romain mi appoggia la candela sul tavolo, batte
più volte le palpebre e si strofina gli occhi che ormai saranno asciutti come
la segatura. «E brava dottoressa, anche se avrei potuto dirtelo io stesso che
sono stressato e nervoso, senza bisogno di scomodare l’iridologia. Ma
adesso...» mi prende le mani e mi avvicina a sé, «perché non mi dai modo
di dimostrarti che so perfettamente come combattere lo stress...»
In un istante mi prende fra le braccia e mi bacia con un’irruenza da
togliere il respiro. I suoi gesti tradiscono un’urgenza trattenuta da troppo
tempo, come l’esplosione di una febbre. Quasi senza che me ne accorga mi
sfila il vestito e le sue mani sono su di me, forti e carezzevoli, fanno
scorrere brividi su tutto il mio corpo mentre la sua bocca non smette di
assaporare la mia. Gli sbottono la camicia e il contatto con la sua pelle calda
mi dà le vertigini. Si sdraia su di me, inchiodandomi sul divano e il mio
cervello si svuota, le domande, i dubbi, i pigmenti e le lacune svaniscono in
un istante. Sono puro istinto e sensazioni.
Splendide, sublimi, irripetibili sensazioni.
Spero soltanto di non fare la fine della ragazza del racconto.
SCHEDA IRIDOLOGICA
Tipo Estremo, detto anche Agitatore.
Iride: contemporanea presenza di lacune e pigmenti. Non importa la
quantità o l’estensione delle une e degli altri, anche soltanto una macchia e
una lacuna identificano l’iride di un Estremo. Data la compresenza dei due
segni tipici del Fiore e del Gioiello, nell’Estremo convergono i tratti salienti
delle personalità degli altri due tipi, in maniera esasperata.
Personalità: indole orientata all’azione in modo radicale, che spesso
supera i limiti delle norme convenzionali, sia nel modo di pensare che in
quello di agire: ecco perché viene chiamato Agitatore. Apprende attraverso
l’azione e l’intuizione.
Carattere: l’Agitatore è un tipo dinamico, ribelle, estremamente vitale e
votato agli obiettivi che si prefigge e che persegue a ogni costo. Ama
viaggiare e conoscere cose nuove, ama dedicarsi alle cause disperate e per
questo spesso diventa un rivoluzionario, o un riferimento per ribelli e
oppressi.
Paure: teme il fallimento, il controllo esercitato dall’esterno e i limiti che
qualcuno potrebbe imporgli, anche nelle relazioni affettive. Teme anche
l’intimità.
Attrazione: tipo Kinestetico.
PARTE TERZA
1
BURRO DI CACAO
Ingredienti: 15 g di burro di cacao, 20 g di cera vergine d’api, 15 g di olio
di argan, 15 g di olio di mandorle dolci, 3 gocce di olio essenziale di
vaniglia.
Sciogli a bagnomaria in un pentolino d’acciaio inox tutti gli ingredienti,
tranne l’olio essenziale di vaniglia. Non appena li vedi trasformarsi in un
liquido oleoso, togli il recipiente dal fuoco, aggiungi l’olio essenziale e
mescola con cura.
Quando il composto si è raffreddato, ma prima che solidifichi,
trasferiscilo in un contenitore di vetro sterilizzato e munito di tappo, mettilo
in freezer finché non si è rassodato, poi conservalo in frigorifero, fino a un
mese.
Le signore sono tutte sedute di fronte a me. Dieci, per l’esattezza. È il
nostro terzo incontro e questa volta insegnerò loro a preparare un tonico
rivitalizzante per viso e corpo.
Mentre si apprestano a cominciare, do un’occhiata furtiva al negozio e il
pensiero di quanti cambiamenti sia riuscita a operare in poco più di tre mesi
ancora mi stupisce.
Certo, non senza difficoltà.
«Ma che fine hanno fatto le ceste con i saponi? E gli espositori degli
incensi? E le rastrelliere per le miscele di henné?»
Mentre Gisèle si aggirava smarrita nel negozio ormai orfano dei suoi
arredi originari, la sua voce era incrinata dal pianto.
«Ho messo tutto da parte, Gisèle. Occupavano troppo spazio.»
«Ma era il mio spazio. Erano le mie ceste. Non avevi il diritto di buttare
via tutto.»
Mi ha affrontata con uno sguardo ardente di dispiacere e irritazione. Ma
quel suo attaccarsi alle piccole cose della quotidianità mi ha colpito, per la
prima volta in tanti anni l’ho vista fragile e indifesa, come una bambina,
resa ancora più debole dagli anni che sembravano, d’un tratto, pesarle
addosso.
Allora mi sono accostata a lei e le ho parlato con tutta la dolcezza
possibile.
«Ne avevamo già discusso, non ricordi? Alla fine anche tu avevi
riconosciuto che era necessario cambiare qualcosa. Per il negozio. E anche
per noi.»
La rassegnazione, come un’ombra, le ha appannato lo sguardo. «Sì, lo so.
Ma tutte queste novità... il negozio... Stéphane... È come se all’improvviso
il tempo si fosse messo a correre e mi sfuggisse di mano, e io non riesco a
stargli dietro. Come se negli ultimi trent’anni fossi rimasta chiusa in una
bolla di sapone che ha preservato tutto il mio mondo immutato e adesso tu
l’hai fatta scoppiare e... Ho paura, Viola. È inutile che mi racconti storie.
Sono troppo vecchia, per troppe cose. Il mio tempo è trascorso.»
Mai, mai l’avevo sentita parlare con tanto scoraggiamento. Ma avevo
capito sin dall’inizio che c’era qualcosa che la turbava. Da un po’ di tempo
era taciturna, nervosa, e la brusca protesta di quel giorno è stata per me il
segno evidente che dovevamo fermarci, prenderci del tempo e fare il punto
della situazione. Eravamo all’inizio di agosto, ormai, il caldo opprimente
annunciava un mese infuocato e sia io che lei venivamo da un periodo
piuttosto intenso che ancora continuava a impegnarci con lo sforzo
economico richiesto dalle rate del prestito.
«Che ne dici se ci prendiamo una pausa con un bel bicchiere di tè
freddo?» le ho chiesto. Poi l’ho costretta a sedersi insieme a me dietro il
bancone e a rinfrescarsi le idee. Stéphane le aveva proposto di trascorrere
qualche giorno di vacanza insieme a lui, nella casa che aveva a Cap Ferret,
nella regione dell’Aquitaine, lei aveva acconsentito con entusiasmo, però
subito dopo le aveva telefonato Mélusine per chiederle di raggiungerla
vicino Nizza dov’era in vacanza con i bambini e il marito.
«“Viene anche Florian, pensa, staremo di nuovo tutti insieme!”. Così mi
ha detto, ti rendi conto?» ha esclamato in tono lugubre.
«Ehm... veramente non...»
«Mi stanno tendendo una trappola, Viola, svegliati! Si sono messi
d’accordo per circuire la loro vecchia madre, vogliono approfittare della
vacanza per lavorarmi ai fianchi e convincermi a vendere, ora che sanno
che la zia non tornerà più a lavorare qui.»
Infatti Sabine, per quanto si fosse egregiamente ripresa dall’intervento,
aveva confessato che ormai non se la sentiva più di sostenere l’impegno
quotidiano richiesto dal negozio e aveva definitivamente passato il
testimone a me.
È stato a quel punto che l’idea che già aveva preso forma nella mia mente
si è concretizzata in un piano che avrebbe giovato a Gisèle, al negozio e
anche a me.
«Chiudiamo» le ho detto senza tanti preamboli. «Chiudiamo da venerdì
fino al primo settembre. Che ne dici?»
Lei ha sgranato gli occhi. «Ma sono quasi quattro settimane! Il negozio è
sempre rimasto aperto d’estate, tranne la settimana di ferragosto... Come
facciamo con i clienti? E cosa faremo a casa tu e io?»
«Niente, perché tu non resterai a casa. Tu andrai in vacanza. Cap Ferret è
un posto sensazionale, non puoi perderlo! E poi potrebbe essere l’occasione
per presentare Stéphane a Florian e Mélusine...»
«Oh, Viola, non dire sciocchezze...»
Ma alla fine abbiamo trovato un compromesso: io sarei rimasta a Parigi e
avrei tenuto il negozio aperto fino a ferragosto come sempre, mentre lei
sarebbe partita e avrebbe portato ai figli il nostro “piano di risanamento” del
negozio, il cui punto di forza erano i corsi di cosmetica naturale che avrei
inaugurato a settembre e per i quali avevo già ricevuto decine di
prenotazioni.
Una volta sistemata Gisèle, ho potuto pensare al programma che avevo in
mente per me e che già pregustavo da tempo: dedicarmi a studiare
l’iridologia sistemica e a fare l’amore con Romain, alternando
piacevolmente le due attività con la maggior frequenza possibile. Ero
impaziente di rendere Romain partecipe dei miei piani, certa che li avrebbe
approvati senza riserve, anche perché negli ultimi tempi mi era parso che il
suo comportamento presente e affettuoso smentisse quei sospetti che il
contatto ravvicinato con le sue iridi aveva instillato dentro di me.
Almeno, lo pensavo.
«Ah.»
«“Ah, che splendida idea!” oppure “Ah, grazie, no?”»
Eravamo a casa sua, sdraiati sul divano dopo una cena romantica e io
avevo appena finito di esporgli le mie intenzioni. La sua risposta così priva
di animazione mi aveva irritata.
Lui mi ha abbracciata, mi ha accarezzato un polso e ha mormorato sui
miei capelli: «Nessuna delle due, mia permalosissima naturopata. Significa
che, sebbene molto a malincuore, devo declinare almeno per il momento,
perché ho promesso ai miei che sarei andato da loro in Normandia per
qualche giorno».
Doccia fredda sui miei progetti romantici. «Ma no!» ho esclamato,
incapace di trattenermi. «Devi proprio? E perché adesso tutta questa smania
di andare a trovare i tuoi?»
Mi sono scostata da lui, imbronciata come una bambina. Ma la mia
reazione non ha impedito a Romain di continuare il discorso interrotto.
«Dispiace anche a me» ha ripreso con lo stesso tono carezzevole, «però» ha
aggiunto mentre cominciava a baciarmi sul collo e mi faceva scivolare più
giù sul divano... «potremmo fare scorta di sensazioni da stipare nella
memoria per i giorni in cui non ci vedremo...»
Inutile dire che la proposta mi ha trovata più che consenziente.
E così, partito anche Romain alla volta della Côte Fleurie, mi sono
ritrovata con la prospettiva di qualche settimana da passare con me stessa, il
negozio e soprattutto i miei libri. La delusione per la defezione di Romain è
stata grande, ma poi ho cominciato a vedere la situazione da un’altra
prospettiva. E vi ho scorto un’occasione d’oro. Da quando ero tornata da
Roma non avevo fatto altro che leggere e studiare approfittando di ogni
ritaglio di tempo, ma adesso avrei avuto a disposizione giornate intere e
l’idea di trascorrerle fra mappe iridologiche, casi risolti e approfondimenti
mi appariva quanto mai allettante. Purtroppo però è sorto un problema: mi
sono accorta presto che Gisèle, come al solito, aveva ragione. Anche in quel
torrido mese di vacanza, a parte la settimana di ferragosto, il negozio
lavorava di buona lena.
Ma a un certo punto il destino mi è venuto in aiuto sotto una forma
inattesa.
Da dietro il lungo tavolo rettangolare che assolve la duplice funzione di
cattedra ed elemento divisorio, osservo le mie allieve riunite a coppie
intorno ai cinque piccoli banchi di cui è composta l’“aula” che occupa la
parte destra del negozio, là dove prima c’erano le famose ceste e rastrelliere
sparse di Gisèle. La porta del negozio si apre per lasciar entrare due
ragazze. Non sono interessate al seminario, ma alle miscele di henné che ho
sistemato in belle file ordinate davanti al bancone. Invece di interrompere la
lezione e dedicarmi a loro mi giro appena per scambiare uno sguardo con il
“regalo del destino” che mi aiuta ormai da qualche settimana.
Sophie.
Si è materializzata in negozio in una delle solite mattine afose,
inaspettata, chiedendomi se poteva fare una seduta di Reiki, ma l’arrivo
improvviso e la sua espressione cupa mi hanno detto che quella richiesta
nascondeva dell’altro. Io e Sophie avevamo fatto un buon percorso fino a
quel momento, i trattamenti e soprattutto le lunghe chiacchierate che
seguivano l’avevano aiutata moltissimo ad aprirsi, a cercare di trovare un
equilibrio nella difficile situazione che stava vivendo. Alla fine suo padre
era andato via di casa ma, paradossalmente, il suo uscire allo scoperto, la
verità esposta alla luce del sole, avevano avuto un effetto benefico su di lei.
Ora Sophie non era più la depositaria di un segreto troppo doloroso da
custodire, non era più investita dell’improprio ruolo di protettrice della
quiete familiare. Adesso poteva vivere quel momento della sua esistenza in
piena libertà, esprimendo senza remore di sorta tutte le emozioni che
provava, dal dolore alla rabbia all’amore che sempre e comunque la legava
a suo padre e a sua madre. Non era una situazione facile, ma non dubitavo
che l’avrebbe superata. In poco tempo era cambiata, cresciuta, e della
criminale in erba che avevo conosciuto ormai non rimaneva più alcuna
traccia, le sedute di Reiki e il riequilibrio dei chakra avevano purificato il
suo corpo energetico sottile e il risultato era una generale condizione di
benessere fisico e psicologico, tanto che ormai da un po’ avevamo sospeso i
nostri incontri.
Ecco perché sono rimasta sorpresa quando è venuta da me.
«Vogliono spedirmi a Juan-les-Pins» ha annunciato in tono lugubre.
«Oh, mio dio che sciagura! Vuoi che avverta la gendarmerie?»
Juan-les-Pins è una delle località balneari più mondane e rinomate della
Côte d’Azur.
«Non scherzare! Tu non sai che cosa significhi passare tre settimane in un
buco di paese pieno di vecchi che vanno in spiaggia a fare le sabbiature e
intanto rimpiangono i bei tempi andati della Belle Epoque» si è disperata
lei. «E la cosa peggiore è che dovrei andare sola con la nonna... Ma te lo
immagini? Tre settimane, ventiquattr’ore al giorno, con lei che mi chiede in
continuazione: “Cosa fai? Dove vai? Come ti vesti?”. Sento già la catena
che mi stringe il collo...» Si è seduta, affranta, con la testa fra le mani.
«Uhm, sì la prospettiva non è delle migliori...»
«È un’idea dei miei, lo so. Vogliono liberarsi di me per sistemare le loro
cose, okay, ma è proprio necessario mandarmi a fare la muffa in mezzo ai
pensionati? Piuttosto avrei preferito un campo di lavoro!»
E io ho capito che il destino mi stava strizzando l’occhio.
Un sommesso tossicchiare mi richiama al mio dovere. Le signore
aspettano che io cominci la lezione, armate di carta e penna. Oggi faremo
un’acqua rivitalizzante e lenitiva agli estratti di rosa e cetriolo. È una
preparazione semplice, ma di grande soddisfazione e dai risultati evidenti.
Ho dotato tutte le partecipanti di provette, misurini e recipienti che poi
resteranno a loro per tutte le preparazioni in cui vorranno cimentarsi.
«Allora, signore, avete tutto? Rivediamo insieme la lista degli
ingredienti. Potrete applicare quest’acqua rivitalizzante su viso e corpo,
dopo la doccia per esempio, per tonificare e rinfrescare la pelle.»
Mentre sto illustrando come dosare gli estratti e gli oli essenziali con i
misurini, la porta del negozio si apre e Gisèle si affaccia, facendomi segno
di uscire un attimo.
«Vi prego di scusarmi, signore, torno subito» dico avviandomi alla porta.
«Tesoro, scusami se ti ho interrotta, ma volevo avvertirti che oggi
pomeriggio non ci sarò...»
Mi affaccio e scorgo a pochi passi di distanza Stéphane che mi rivolge un
cenno di saluto.
«A-ha» dico scoccando a Gisèle un’occhiata maliziosa. «E capisco anche
il perché...»
Lei arrossisce. «Smettila! Io e Stéphane andiamo a vedere una mostra e
poi a cena e... be’, insomma. Ciao, ci vediamo più tardi.»
Sorrido mentre la vedo dileguarsi al braccio del suo accompagnatore.
Dopo essere sopravvissuta al primo appuntamento, alla vacanza e alla
presentazione in famiglia, Gisèle ha capito che fuori dal negozio c’è un
intero mondo fatto di mostre, teatri, passeggiate e altre amenità tutte da
gustare. E dalla scarsa frequenza con cui si sta facendo vedere al lavoro
immagino che lo stia apprezzando parecchio. Anche il celeste assoluto dei
suoi occhi, ormai privo di ombre, lo conferma. Mi viene in mente la
telefonata che Mélusine mi ha fatto quest’estate.
“Ciao Viola, come stai?” ha esordito con una voce allegra che, a quanto
ricordavo, raramente aveva riservato a me. A differenza di Florian,
Mélusine è sempre stata un po’ gelosa del rapporto che avevo instaurato con
sua madre, molto probabilmente temendo che la mia presenza avrebbe
assorbito le attenzioni e l’affetto di Gisèle, sottraendole a lei. “Io volevo
dirti... anzi, io e Florian volevamo dirti che abbiamo letto il programma che
hai ideato per il negozio e... be’... ci sembra fantastico, davvero.”
“Oh, grazie Mél, sono felice che la pensiate così...”
“Sì, e poi... volevo ringraziarti per... tutto. Mamma mi ha detto quanto ti
sei impegnata e quanto le sei stata vicina e così... be’, grazie, tutto qua.”
Che detto da lei aveva un significato molto più profondo di quanto
lasciassero intuire le parole. “Ah, un’altra cosa. Ora che mamma è fuori...
Che mi dici di questo Stéphane? Sono curiosissima!”
È stata la prima volta che l’ho sentita ridere insieme a me con tanto
calore.
Torno dentro e continuo a dedicarmi alle mie allieve. «Bene, signore. A
questo punto cominciamo a inserire uno alla volta tutti gli ingredienti,
mescolando con cura a ogni nuova aggiunta, dopodiché aspetteremo
quindici minuti per dare modo all’acido ialuronico di gonfiarsi e
sciogliersi...»
TONICO RINFRESCANTE AL CETRIOLO E ACQUA DI ROSE
Ingredienti:
40 ml di acqua di rose
50 ml di succo centrifugato fresco di cetriolo
10 ml d’acqua oligominerale non gassata
Puoi acquistare l’acqua di rose in erboristeria, purché sia biologica e
senza aggiunta di componenti chimici, ma se hai la fortuna di poter
accedere a un roseto, puoi facilmente farla in casa, procedendo in questo
modo: raccogli le rose (che siano non trattate!), preferibilmente nelle prime
ore del mattino. Elimina i petali esterni più rovinati e stacca gli altri uno a
uno, in quantità tale da riempire una pentola d’acciaio inox, fermandoti a
circa tre dita dal bordo. Copri i petali a filo con dell’acqua distillata, metti la
pentola sul fuoco e porta a ebollizione, mantenendo un calore moderato,
quindi spegni il fuoco. Lascia i petali a macerare nel liquido per almeno
un’ora e accertati, trascorso questo tempo, che abbiano perso tutto il loro
colore. Se necessario lasciali a macerare un po’ più a lungo. Dopodiché
filtra il liquido e strizza bene i petali avvolgendoli in un panno di lino.
Per preparare il tonico: centrifuga i cetrioli e aggiungi il succo ottenuto
all’acqua di rose nelle proporzioni indicate, diluisci con l’acqua
oligominerale non gassata e travasalo in bottiglie di vetro scuro, sterilizzate.
Conserva in frigo per dieci giorni al massimo.
Applica il tonico su viso e collo, mattina e sera, dopo la pulizia abituale.
Il cetriolo ha proprietà emollienti e antinfiammatorie, insieme all’acqua di
rose ti regalerà una pelle profumata e vellutata.
2
Al termine della lezione le signore si affollano davanti al bancone per
acquistare gli ingredienti che ho indicato loro. Sophie si mette
immediatamente al mio fianco, pronta a esaudire tutti i desideri delle clienti.
Senza di lei sarebbe impossibile stare dietro a tutte le richieste, ma insieme
riusciamo a diradare la ressa e, dopo avermi ringraziato, anche l’ultima
cliente se ne va con la busta piena.
«Sono sfinita» dico a Sophie, sbuffando. «Ti va un succo di frutta?»
Vado nello studio e, quando poco dopo riemergo con due bicchieri pieni,
Sophie sta parlando con un’altra persona.
«Ehi, arrivo proprio al momento giusto, ce n’è un po’ anche per me?»
Una voce argentina, un tono allegro che stona con la giornata grigia.
Camille è tornata.
Per parecchio tempo ho temuto che non l’avrei rivista più.
Proprio mentre Gisèle e Romain partivano per le rispettive destinazioni,
Camille rientrava finalmente dalla lunga vacanza in Provenza.
Subito dopo il suo arrivo a Parigi è venuta a trovarmi per farmi conoscere
sua madre. Mi sono trovata davanti una donna molto bella, magrissima e
flessuosa come soltanto una ballerina classica può essere.
«E così lei è la famosa Viola. Mi chiamo Clémentine Pellier. Sono felice
di conoscerla, Camille non ha fatto altro che parlare di lei e delle sue
“magie”» mi ha detto con una voce morbida, elegante come lei. «E questo
negozio... è delizioso, proprio come lo ha descritto mia figlia. Posso dare
un’occhiata?»
«Ma certo» le ho risposto. «Si lasci guidare da Camille, lei ormai è di
casa.» La donna mi ha sorriso e ha seguito la figlia. Si è mossa con passo
leggero, eterea come un’apparizione fantastica, tanto delicata da farmi
pensare che sarebbe scomparsa se solo l’avessi sfiorata. Eppure c’era, in
quella sorta di dolce evanescenza, un che di inquieto, una stonatura che lì
per lì non sono riuscita a spiegarmi, ma che poi è diventata lampante
vedendola accanto alla figlia. Non la toccava. Mai, nemmeno per sbaglio.
Era Camille ad andare verso di lei, non il contrario, e quel distacco era tanto
più eclatante se lo confrontavo con l’espressione nei suoi occhi ogni volta
che si posavano sulla figlia. Sembravano rifulgere di una luce che veniva da
dentro, traboccanti d’amore. Ma allora perché? Camille è una persona molto
fisica, espansiva, non lesina abbracci, baci, carezze, allora perché sua madre
aveva un atteggiamento tanto distante, come se fosse racchiusa in un
bozzolo trasparente?
A quel punto la curiosità di parlarle si è fatta più acuta e ho cominciato a
lambiccarmi il cervello per trovare una scusa per rimanere sola con lei. Ma
è stata proprio Camille a venirmi in soccorso. Si è avvicinata e mi ha preso
da parte.
«Senti, Viola, io devo andare a un appuntamento che non posso
rimandare, poco lontano da qui. Ti secca se chiedo a mia madre di
aspettarmi qui da te? Mi dispiace piantarla in asso e poi non ci metterò
molto.»
«Non preoccuparti, le terrò compagnia fino al tuo ritorno.»
«Sembra che dovrò disturbarla ancora per un po’, dottoressa. Mia figlia
teme che senza di lei possa perdermi nella mia città» ha detto Clémentine,
venendomi vicino.
«Nessun disturbo, signora, mi fa piacere avere l’occasione di conoscerla
un po’ meglio. Anche a me Camille ha parlato molto di lei.»
«In termini un po’ meno entusiastici, temo» ha replicato con una smorfia
triste. «Ma d’altra parte, non potevo fare diversamente.»
Ho colto la palla al balzo e, con un cenno d’intesa a Gisèle, ho chiesto
alla signora se per ingannare l’attesa potevo offrirle qualcosa di fresco nel
mio studio.
«Grazie, accetto volentieri.»
Una volta nello studio l’ho fatta accomodare e le ho servito un bicchiere
di succo di frutta. «È bellissima questa stanza, dottoressa. I colori, i
profumi... è tutto molto rilassante. È qui che cura i suoi pazienti?»
«Proprio qui. Ma mi chiami Viola, la prego.»
«Viola... è un bel nome. Immagino l’abbia scelto sua madre. Gli uomini
di solito sono meno poetici. Ecco, Viola, vorrei ringraziarla per quanto ha
fatto e sta facendo per Camille.»
«Non ho fatto molto, in realtà...»
«No, no, non si schermisca. Mia figlia è cambiata da quando ha
conosciuto lei, è più distesa, meno arrabbiata. Sta addirittura pensando di
smettere di fumare. E poi... non mi aveva mai chiesto di passare del tempo
insieme, prima. E anche questo credo che sia stato merito suo.»
«Le ho suggerito di parlare, questo sì. Ho creduto che... data la
situazione... fosse un primo passo necessario.»
«Non abbia paura di offendermi, Viola. So perfettamente che Camille non
mi ha fatto sconti nel raccontarle del nostro rapporto.»
«In effetti, no.»
«Oh, ne sono consapevole, non creda. So di non essere stata la migliore
delle madri, ma... le assicuro, io... Ho fatto tutto il possibile. Tutto quanto
era nelle mie possibilità...» La sua voce si è incrinata all’improvviso e lei ha
smesso subito di parlare.
«Signora...» ho azzardato, credendo che fosse arrivato il momento giusto.
«Camille le ha parlato del mio lavoro, vero? Dell’iridologia.»
«Sì, certo. Una materia affascinante» ha risposto, riprendendo il
controllo. «Da dove nasce?»
«È una disciplina molto antica, le potenzialità diagnostiche contenute
nell’occhio erano note addirittura agli antichi Egizi, e anche la medicina
cinese riteneva che la sclera e l’iride fossero legate agli organi del corpo
secondo i principi dell’agopuntura. L’iridologia nasce ufficialmente dopo la
metà dell’Ottocento, in Ungheria, grazie agli studi del dottor Ignaz von
Peczely... ma non voglio annoiarla con queste nozioni storiche. Per tornare
a noi, l’iridologia è una materia molto affascinante, è vero, a volte consente
di scoprire l’inaspettato. Ecco, io vorrei parlarle di quello che ho visto negli
occhi di Camille, se non le dispiace. Penso che potrebbe essere utile per
entrambe.»
Lei mi ha rivolto uno sguardo perplesso e un po’ scettico, ma non ha
rifiutato l’offerta, così ho acceso il pc e le ho mostrato le foto.
«C’è questo segno nell’iride sinistra, lo vede? Questo svuotamento nella
trama che ricorda la forma di una goccia d’acqua. È una lacuna ed è un
segno genotipico, significa che l’iride di Camille ha registrato un trauma
avvenuto prima ancora della sua nascita. Ma è un trauma che ha segnato la
sua vita, signora Pellier. E che lei ha trasferito su sua figlia. E potrebbe
essere una delle cause della vostra impossibilità di comunicare. Vorrebbe
parlarmene?»
Clémentine si è ritratta sulla sedia, la fronte aggrottata e una smorfia
dolente sulle labbra. «Per favore, dottoressa, non è il caso di rivangare certe
storie. Ormai sono morte e sepolte, non c’è più niente da dire.»
«Io credo che invece sia l’unica cosa da fare. Nascondersi non serve.
Soltanto la verità ci permette di comprendere e accettare le situazioni, anche
le più cupe.»
Quante volte avevo ripetuto quella frase?
«Se non se la sente, le dirò io quello che immagino sia accaduto.»
Lei ha distolto lo sguardo, ma ancora una volta non ha detto di no.
«Questa lacuna, che è il segno di una perdita o di una mancanza, si trova
nell’area dell’iride chiamata “nutrimento affettivo”. È l’area in cui si
riflettono gli eventi traumatici legati al rapporto con i figli.» Mi sono
fermata per darle il tempo di assimilare le mie parole, ma lei era già andata
oltre, e credo che lo avesse fatto da quando abbiamo cominciato a parlare di
Camille.
Clémentine si è girata verso di me e d’un tratto mi è parsa invecchiata: ho
avuto la sensazione che tutta la sua leggerezza fosse svanita lasciando solo
il peso di un lutto che traspariva dagli occhi pieni di lacrime. «Lei non ha
figli, vero? No, certo. Altrimenti saprebbe quanto sia impossibile parlare
della perdita di uno di loro, quanto sia atroce il dolore per qualcosa che è
contrario all’ordine stesso delle cose. Quando l’ho perso, Alexandre aveva
soltanto tre mesi. Se n’è andato nel sonno, ancora adesso non so perché. Le
chiamano morti bianche. Ho giurato a me stessa che non avrei avuto altri
figli, che visto che non ero stata in grado di proteggere lui, non potevo
permettermi di fare del male a un altro bambino. Ma poi, quando mi sono
accorta di essere incinta di nuovo, non sono riuscita ad abortire. Allora ho
cercato di proteggere Camille come potevo. Stando lontana da lei. Ero
convinta che se fosse cresciuta senza di me, sarebbe stata al sicuro...» Il
pianto trattenuto alla fine ha trovato sfogo, impedendole di parlare.
Mi sono alzata di corsa per andare da lei, volevo confortarla, ma
purtroppo Camille ha scelto proprio quel momento per tornare. Di fronte
alla madre in lacrime il suo sorriso si è spento immediatamente e mi ha
guardata con ferocia.
«Che diavolo sta succedendo qui?»
«Niente, io e tua madre stavamo parlando e...»
«E il risultato è questo? Io ti affido mia madre per un’ora e tu me la riduci
in lacrime? Ma che ti è saltato in mente, Viola?»
«Aspetta, Camille, non è come pensi...»
«Io non penso, io vedo soltanto che hai fatto star male mia madre, e
questo non te lo perdono! Andiamo, mamma, ti porto a casa mia.»
«Camille, lasciami almeno spiegare...» ho tentato di dirle, ma lei non mi
ha neanche guardata. Ha messo un braccio sulle spalle di Clémentine e l’ha
portata fuori senza dirmi altro.
Da quel giorno non l’ho più vista.
«Camille!» mormoro.
«Grazie, ci voleva proprio» dice lei, soddisfatta, dopo che Sophie le ha
ceduto il suo bicchiere. Poi mi sorride e mi strizza l’occhio, quasi volesse
dirmi che va tutto bene, che non è rimasta traccia della burrasca che ha
rischiato di porre fine alla nostra amicizia... Si tiene a distanza perché non
siamo sole, lo so, e allora anch’io le sorrido e aspetto.
Da fuori arriva il rombo attutito di un tuono in lontananza. Il cielo si sta
oscurando rapidamente e promette di regalare torrenti di pioggia.
«Sophie, va’ a casa adesso» le dico, «non vorrei che ti ritrovassi a piedi
sotto il diluvio universale. Ci vediamo domani mattina.»
«Okay, grazie, a domani. Ciao, Camille.»
Camille la saluta e la segue con lo sguardo mentre si chiude la porta alle
spalle. Poi si gira verso di me.
«Ehi...»
È l’unica parola che pronuncia prima di stritolarmi in un abbraccio
pacificatore.
C’è voluto più di un mese di silenzio prima che si decidesse a farsi
rivedere. E adesso eccola qui, che si presenta di punto in bianco portandosi
dietro il solito turbinio di colori e una confezione di deliziosi macarons
assortiti per me.
«Non so nemmeno da dove cominciare per chiederti scusa» mi dice,
porgendomi la scatola, a occhi bassi.
«Non c’è niente di cui tu debba scusarti, Camille. Hai difeso tua madre,
tutto qua. Hai pensato che piangesse per colpa mia e hai agito di
conseguenza. Come avrebbe fatto qualsiasi figlia.»
«Ma non devo soltanto chiederti scusa. In realtà sono venuta per
ringraziarti.»
«Davvero?»
«Sì. Mia madre mi ha detto tutto. All’inizio per me è stato uno choc. Puoi
immaginartelo... Venirlo a sapere adesso, dopo tutto questo tempo. E poi lei
non è una persona semplice. In questi tre giorni non abbiamo fatto altro che
parlare, giorno e notte, come se volessimo recuperare tutti gli anni passati.
Certo... non sarà facile, è passato tanto tempo ormai e noi siamo cresciute e
cambiate, l’una lontana dall’altra. Ma c’è un legame profondo che ci unisce,
più forte di qualsiasi distanza e qualsiasi incomprensione. E adesso riesco
anche a spiegarmi quella che pensavo fosse indifferenza e freddezza da
parte sua. E lei è stata così dolce... Sai, Viola, devo ringraziarti, per quello
che mi dicesti tempo fa. Che una madre sa sempre come consolarti perché
le appartiene per istinto. Be’, è vero. Ho scoperto che mia madre mi
conosce profondamente, nonostante non mi sia stata accanto per anni. E...
be’, è molto confortante saperlo. È una consapevolezza che ti dà forza, non
ti fa sentire sola.»
Le dico che sono molto felice per lei e che mi fa piacere averla aiutata a
riscoprire questo rapporto, ma dentro di me provo una punta d’invidia. E di
dolore. E intanto penso a mia madre, ai nostri dissapori, al nostro legame
spezzato. Ora che mi sento più forte, ora che ho fatto chiarezza dentro di
me, vorrei tanto condividere con lei le mie piccole conquiste, la mia
ritrovata serenità. Mi tornano in mente le parole di Yvette, quella volta a
Roma.
... Credo che nella vita arrivi un momento in cui è necessario e sano
sbarazzarsi dei rancori e perdonare... Promettimi che ci penserai...
Ci ho pensato spesso e un paio di volte sono stata tentata di alzare il
telefono e chiamare. Ma una sorta di pudore me l’ha impedito. Come se
dopo tutto questo tempo non mi sentissi autorizzata a farlo.
«Ma adesso dimmi di te» continua Camille, «Come stai, che cosa hai
fatto durante queste settimane... Anche se basta guardarti per capire che sei
in un momento di grazia. Hai cambiato pettinatura» mi dice sfiorando la
mia nuovissima frangetta e le ciocche scalate che mi incorniciano il viso.
«Sembri la sorella di Monica Bellucci.»
«Grazie per la parentela illustre, ma più che la sorella potrei sembrare la
sua cugina povera... Ho aprofittato di questo periodo per dedicarmi a me
stessa, in ogni senso. Ho studiato molto, ho ricominciato a fare meditazione
e per completare il tutto mi sono regalata un taglio di capelli e un
guardaroba nuovi» rispondo lisciando sui fianchi la lunga gonna di seta
cruda color oro cupo che ho comprato approfittando degli ultimi saldi. «Che
ne pensi?»
«Sei stupenda, non c’è che dire. Lo stile zingaresco sembra fatto apposta
per te.» Mi sorride con affetto, poi mi lancia un’occhiata maliziosa. «Ma nel
tuo bel quadretto manca la figura più importante. Che mi dici del tuo bel
tenebroso?»
Quasi ad anticipare la mia risposta, in quel momento il cellulare vibra per
l’arrivo di un messaggio.
Passo a prenderti alle otto. R.
«Stasera andiamo al cinema» dico a Camille, mostrandole il telefono.
«Uhm, chiaro e conciso, non c’è che dire.»
«Già, ma è strano. Quando è stato in Normandia mi ha mandato messaggi
che sembravano usciti da un libro di Madame de Staël. Adesso invece,
quattro parole sembrano anche troppe. Mah.»
Lei mi scruta come se volesse scandagliarmi l’anima. «È andato in
Normandia senza di te? Ed è per questo che sei così scettica o c’è
dell’altro?»
Aspetto un attimo prima di rispondere. Il fatto è che, nonostante tutto,
sento ancora nel profondo un’eco di diffidenza, talmente flebile da udirla a
stento, eppure restia a scomparire del tutto.
«No, non è per la Normandia, è andato in vacanza dai suoi. Però quando
è tornato aveva un colorito talmente terreo che sembrava uscito da una
settimana d’ospedale. Ora, è vero che la Normandia non è Santo Domingo,
ma anche lì ci sono le spiagge e il sole e credo che in dieci giorni un
minimo di abbronzatura avrebbe dovuto prenderla.»
«E gli hai chiesto come mai?»
«Sì, certo. Mi ha detto che in treno c’era l’aria condizionata al massimo e
non appena è arrivato a casa si è messo a letto con la febbre a trentanove.»
«Be’, mi sembra una spiegazione plausibile. E poi?» chiede Camille in
tono derisorio.
«Ecco, quando è andato in vacanza ha assunto un’altra cameriera per il
bar, Yasminah. La sorella di Raja. Vuoi che te la descriva?»
«Oh, no, ti prego» esclama Camille, scoppiando a ridere come una pazza.
«Povera Viola, circondata dalle principesse esotiche! Non mi dirai certo che
è bastata una bella ragazza a scatenare i tuoi sospetti?»
«No, certo, ma...»
«Stammi a sentire. Romain ha un sacco di donne che gli girano intorno.
L’hai visto anche tu alla mia festa. E l’ho visto io, all’Hairy Biker. C’è
sempre qualche ragazzetta che lo punta. Ma il dato concreto è che lui,
nonostante questo sovraffollamento, ha scelto te. Ehi, guardami in faccia»
mi dice con dolcezza, mettendomi un dito sotto il mento. Alzo gli occhi e li
fisso nei suoi. «Tu non pensi davvero che queste piccolezze stiano minando
il rapporto fra di voi, non è così? Io credo che tu abbia semplicemente
timore di riconoscere che Romain è sincero con te.»
La guardo e la sua espressione sorridente mi contagia. In fondo so che ha
ragione lei e le sue parole non sono altro che il riflesso di quello che penso
anch’io.
«Credo che i miei timori siano dovuti al fatto che Romain in molte
occasioni sembra sfuggente, a volte sparisce per una giornata intera e non
mi dice cosa fa. Anche quando siamo andati in Alsazia, a ferragosto, è stato
un weekend bellissimo, ma... Non so, ogni tanto lo vedevo con
quell’espressione assorta, come se fosse preso da pensieri imperscrutabili.
Lontano da tutto, anche da me.»
«Secondo me lo stai analizzando troppo. Tu devi basarti sulla realtà, non
sulle proiezioni mentali dettate dalle tue paure. Lui è carino con te?»
«Be’, sì...»
«Ti ha mai dato buca a un appuntamento?»
«No, certo, ma...»
«Hai mai avuto l’impressione che non volesse stare con te?»
«No, no, questo no...»
«Ha mai pronunciato il nome di un’altra mentre fate l’amore?»
«Ah ah ah... ma che diavolo dici? No!»
«E allora di che ti preoccupi?» conclude ridendo, mentre l’oro dei suoi
occhi si illumina.
Quanto mi è mancata la leggerezza di Camille. Forse avevo proprio
bisogno di parlare con lei e veder smontare uno a uno tutti i miei sospetti. E
forse è davvero arrivato il momento di smettere di scavare sotto ipotetiche
menzogne alla ricerca di una verità che molto probabilmente è già qui,
davanti ai miei occhi.
«E Gisèle come sta?» mi chiede ancora Camille.
«Oh, benissimo. Adesso che il negozio si è rimesso in carreggiata e non
ha più l’incubo dei debiti da saldare fila talmente d’amore e d’accordo con
il suo Stéphane che ormai la vedo a malapena a casa. Anzi, neanche lì visto
che la maggior parte delle volte esce a cena con lui. Ti confesso che sto
pensando di cercare un appartamento per conto mio. Ormai il negozio è ben
avviato, fra stipendio e visite guadagno abbastanza da permettermi un
affitto... Non ha più senso rimanere da Gisèle, senza contare che magari
prima o poi anche lei potrebbe decidere di fare un passo insieme a
Stéphane.»
«Ehi, sorella, ma che diavolo hai mangiato in questo mese per diventare
così saggia? No, seriamente, mi sembra un progetto fantastico. Ma posso
farti una domanda? Perché non chiedi a Romain di andare a vivere da lui?»
«No, è escluso, figurati. Non ho nessuna voglia di chiederglielo e poi
sono sicura che il pensiero non lo sfiori nemmeno.»
Un tuono più sonoro degli altri sembra voler sottolineare la mia
delusione.
Camille guarda preoccupata fuori dal negozio. «Oddio, credo che farei
meglio a sbrigarmi, forse riesco a raggiungere la metro prima che si scateni
la tempesta.»
«Sì, lo penso anch’io. Oh... Camille, prima che scappi via, mi daresti una
mano a mettere via le sedie pieghevoli?» Ho appena finito la lezione ma sto
già pensando al tema della successiva. Prima di lasciare il negozio voglio
preparare un burro di cacao.
«Ma certo!»
In poco tempo riordiniamo tutto e, mentre estraggo da una vetrinetta la
cera d’api e l’olio di avocado, nel negozio entra una persona.
«Buonasera.»
È un uomo, fra i cinquanta e i sessant’anni. Non è male, anche se i capelli
neri e un po’ lunghi, l’anellino d’argento all’orecchio e l’abbigliamento
molto casual suggeriscono un tipo particolare, estroso direi. Mi comunica
un’immediata simpatia, forse per il suo sorriso aperto, gli occhi scuri e
brillanti e quel pizzico di trasandatezza che mi fa pensare a una persona
poco conformista e poco attenta alle apparenze. Gli sorrido a mia volta.
«Buonasera, prego, si accomodi.»
Il signore fa qualche passo, guardandosi intorno con curiosità. «Molto
carino questo negozio. Ne ho sentito parlare nel quartiere...» Sposta lo
sguardo da me a Camille. «Cercavo la dottoressa Consalvi.»
«Oh, allora deve parlare con lei» interviene Camille, indicandomi. «Io
sono soltanto la ragazza di bottega.»
«Ah, be’, una ragazza molto carina comunque...» le dice con cortese
galanteria. Poi osserva me, con molta attenzione. «Quindi è lei... Viola.»
«In persona. Mi dica, signor...?»
L’uomo si avvicina e mi tende la mano. «Molto piacere, mi chiamo
Philippe Bertrand.»
Gli stringo la mano, che è salda e forte.
«Ho un amico qui, in zona, che mi ha parlato di lei e della sua... attività.
E mi ha detto che si è... trovato bene e allora mi chiedevo, visto che sono da
queste parti, se... potevo fare una... visita.»
La sua allusione a un amico mi lascia perplessa. A meno che non si
riferisca a un cliente. I miei pazienti sono quasi tutte donne, tranne...
«Lei conosce Jacques Lacroix?» gli chiedo. È l’unico che mi venga in
mente.
«Oh, sì, sì, esatto. Proprio lui» risponde.
«Be’, signor Bertrand, di solito ricevo su appuntamento, ma visto che per
oggi non ho visite e sono già quasi le sei...Venga pure, si accomodi nello
studio.» E gli indico la porta sulla parete di fondo.
A quel punto Camille, che è rimasta a guardare la scena mi si avvicina e
mi mormora all’orecchio: «Io devo andare, ma questo mi sembra un tipo
strano. Vuoi che resti qui con te?».
«Ma no, che dici? È soltanto un po’... eccentrico. Sta’ tranquilla. Chiudo
fra un’ora e mezza, cosa vuoi che succeda?»
«Okay, ma tu tieni il cellulare a portata di mano e se fa qualche mossa
strana... Chiamami!»
«Va bene, ma non ce ne sarà bisogno, fidati» la rassicuro. «Vai pure,
prima che venga giù il diluvio.»
«Comunque ti chiamo più tardi.»
La guardo uscire mentre cominciano a cadere le prime gocce di pioggia,
poi raggiungo il signor Bertrand.
3
Ci sediamo e mi concedo qualche istante per osservarlo meglio. Ha un
viso interessante, segnato dalle rughe d’espressione ma non sciupato, si
vede che è una persona facile al sorriso e i suoi occhi sono attenti e
penetranti, ma sembrano privi di ombre. Sbircio le mani, che ha appoggiato
sul tavolo. Sono molto belle, nervose e con le dita lunghe e affusolate,
ornate da un anello d’argento al pollice destro. Scommetto qualsiasi cosa
che si tratta di un artista.
Il fatto curioso è che, a pelle, non avverto alcun indizio di disarmonia in
lui. Di solito anche senza parlare, intuisco se una persona ha un blocco, una
rigidità di qualche genere. Mi è successo con Camille, e con la signora
Dubois, di cui avevo percepito l’anima d’acciaio già al primo scambio di
parole. Ma qui l’unica sensazione che avverto è la serenità. Lo vedo dal
modo in cui mi osserva, diretto e schietto: non sfugge il mio sguardo, non
cincischia con le mani. È seduto in una posa rilassata.
Che diavolo è venuto a fare qui?
«Allora, signor Bertrand, vuole parlarmi un po’ di sé? Che tipo di
problema ha?»
Ci pensa un attimo. «Io... non dormo bene, sa? È questo il mio problema,
il sonno disturbato.»
«Uhm. E cosa le succede, non riesce a addormentarsi, oppure si sveglia a
intermittenza durante la notte, o magari si sveglia e non riesce più a
riprendere sonno?»
«Ecco, sì, proprio così.»
Ma proprio così, cosa? Mi viene da ridere. Questo tipo comincia a
incuriosirmi.
«Mi parli di lei, signor Bertrand, così riuscirò a inquadrarla meglio. È
sposato, ha figli? Che tipo di vita conduce?»
Lui sospira. «La mia vita è abbastanza caotica, temo. Sono un musicista.
Pianista, per la precisione. Jazz.»
Centro! Penso fra me e me.
«Quindi sono quasi sempre in giro per concerti e festival e registrazioni...
cose del genere. Ho un appartamento qui a Parigi, ma lo uso molto poco.
Non sono sposato, purtroppo. Anni fa fui sul punto di farlo, ma poi lei...
decise che non era il caso. Però ho una figlia, questo sì, dovrebbe avere
circa la sua età. Anche se non la vedo da molto tempo... Ecco, non perché
non voglia, io l’ho sempre seguita anche se ero lontano, ma perché ci sono
delle... complicazioni.»
«Complicazioni... dovute alla madre, immagino.»
«Oh, no, no. Lei sarebbe stata anche propensa a farmela vedere, ma... è
una situazione complicata. E poi il mio lavoro non facilita le cose.»
«Capisco.» No, non capisco un bel niente, ma sono curiosa di vedere
dove arriverà. «È un peccato che dica così, io credo che il suo sia un lavoro
meraviglioso. Mia madre ha tentato di farmi studiare pianoforte, quando ero
piccola, ma persino il mio maestro le disse che ero completamente negata
per la musica. Lei ci rimase molto male. Io no.»
«Non le piace la musica?» mi chiede, un po’ deluso.
«L’adoro, ma preferisco ascoltarla piuttosto che suonarla.»
«Ah, capisco.» Fa una pausa. «Lei è italiana, vero?»
«Proprio così. Immagino si senta dall’accento.»
«Oh. No, non molto. Bellissimo paese» mormora.
«Lo conosce?»
«Oh sì. Vi ho passato uno dei periodi più belli della mia vita. Molti, molti
anni fa... Ero in Italia per un giro di concerti. Sarei dovuto rimanere solo per
pochi giorni, come da programma, ma poi finii col rimanervi per diversi
mesi.»
«Si era innamorato dell’ambiente, immagino.»
«No» mi dice guardandomi negli occhi. «Di una donna. Oh, era una
donna bellissima, colta, intelligente, dotata di una grazia quasi fiabesca.
Una persona talmente intensa che pareva... muovere l’aria intorno a sé.» La
sua voce ha un’intonazione sognante, come se stesse parlando a se stesso.
«E io l’amavo moltissimo, e credo che anche lei mi abbia amato molto, e
avrei voluto sposarla, ma purtroppo... alla fine lei si tirò indietro. Anche se
aspettava un figlio da me.»
«Oh.» Non riesco a dire altro, la conversazione si sta trasformando in una
sorta di confessione e comincio a sentirmi in imbarazzo. «Signor Bertrand,
non è costretto a rivelarmi tutti questi particolari così intimi, io...»
«No, no, anzi. Lei mi piace molto, Viola, le dispiace se la chiamo per
nome? Io... vorrei che conoscesse la mia storia, penso che solo così
potrebbe comprendermi.»
Esito per un istante. Ma forse se lo lascio parlare capirò qual è il suo vero
problema. «Va bene, signor Bertrand, la ascolto.»
«Sì, dicevo, lei era incinta, ma nonostante questo non volle sposarmi. Era
già sposata. Suo marito era un tipo importante, famoso nel suo campo,
ricco, anche se era sempre in viaggio per lavoro, preso fra una conferenza e
un congresso, e quasi si dimenticava di averla accanto. Era un tipo
taciturno, molto serio, quasi triste e io mi chiedevo che cosa mai potesse
avere in comune con una donna solare e vitale com’era lei. Ma alla fine,
quando arrivammo al dunque, lei mi disse che lo amava troppo per
abbandonarlo. Che nonostante tutto lui aveva bisogno di lei e che si era
accorta di amarlo tanto profondamente proprio grazie alla nostra relazione.
Perché quando si era trattato di scegliere, lei non aveva avuto alcun
dubbio... Buffo, vero?» dice con amarezza.
«È una storia triste, sì. E dopo che cos’è successo?»
«Dopo... è nata la bambina. Mia figlia. L’ho vista una sola volta, quando
aveva poche settimane. Oh, era bella, anche così piccola. Aveva gli occhi di
sua madre» dice a bassa voce.
Lo scrosciare della pioggia sembra aggiungere ulteriore tetraggine a
questa conversazione.
«Dov’è nata?»
«A Roma, in un ospedale del centro.»
Oh.
«E dopo quella volta? Non l’ha più vista?»
Il suo sguardo si vela di rimpianto. «No. Quella è stata l’unica volta.» La
desolazione nella sua voce mi fa stringere il cuore. Non oso neanche
immaginare che cosa significhi per un padre sapere di avere un figlio e non
poterlo vedere mai.
«Ma ho saputo che adesso è venuta a stare a Parigi» aggiunge. «E così
sono venuto a trovarla...» Mi guarda negli occhi a lungo, in silenzio, con
una tale intensità da farmi provare un brivido.
Quello sguardo, da cui non riesco a staccarmi, mi provoca una sensazione
strana, un senso di familiarità che arriva da lontano, dal punto più profondo
di me stessa, come se lo riconoscessi da una vita precedente. E qualcosa
nella mia testa fa clic. Un timore crescente si impadronisce di me, mentre
lui continua a fissarmi, come se volesse leggermi dentro.
«Signor Bertrand» gli dico lentamente. «Come si chiama sua figlia?»
«Perdonami, ti prego» mi dice a bassa voce. «Ma io dovevo farlo.
Dovevo vederti.»
Non lo ascolto, perché ascoltarlo significherebbe capire davvero e farlo
diventare reale. «Signor Bertrand» ripeto a voce alta, tagliente. «Come si
chiama sua figlia?»
«Lo sai... Viola...»
Sento il cuore fermarsi, per un attimo tutto diventa buio e il freddo mi
penetra nelle ossa. «Se ne vada» mormoro. «Esca di qui.»
«Aspetta, Viola, io capisco che per te è sconvolgente, ma dammi il tempo
di spiegare.»
Mi alzo di scatto, come una furia, sbatto le mani sul tavolo e mi protendo
verso di lui con una ferocia che lo fa indietreggiare. «Se ne vada. Io non la
conosco, non so chi sia né perché ha inventato questa storia. Cos’è, un ladro
di identità? Ha fatto una ricerca su internet e ha deciso che io ero la vittima
ideale? Fuori di qui, o chiamo la polizia!» urlo.
Lui resta fermo, osserva il mio viso devastato, il corpo contratto dalla
collera e fa un passo avanti. «Tua madre si chiama Giulia. E suo marito
Francesco. Sei nata il 28 gennaio del 1983 alle 9 del mattino...»
Chiudo gli occhi. Mi gira la testa.
«... Hai frequentato il liceo classico e hai iniziato a studiare medicina, ma
poi hai cambiato strada e sei venuta a Parigi per studiare naturopatia...»
Sento che sto per vomitare.
«... Ti sei sposata sette anni fa, ma tuo marito Michel è morto l’anno
scorso per un...»
«BASTA!» urlo, accasciandomi sulla sedia, le mani premute sulle
orecchie. «Non voglio sentire nient’altro» gli dico piangendo.
Lui si avvicina, lentamente. «Viola, stammi a sentire, ti prego. Mi rendo
conto che quello che ti ho detto è scioccante per te, ma cerca di ascoltarmi...
non ti chiedo altro.»
Mi rannicchio sulla sedia, continuando a piangere. Voglio che se ne vada,
che sparisca, si polverizzi davanti ai miei occhi. Qualsiasi cosa pur di
cancellare il significato delle sue parole.
Ma lui non se ne va. Resta qui, in piedi, davanti a me. «Io ho dovuto
farlo, ho dovuto darmi una possibilità, per conoscerti, sapere chi sei. In
questo momento ti chiedo soltanto di pensarci. Non voglio obbligarti a
vedermi, né a parlarmi. Pensaci e basta. Soltanto questo.»
Lo guardo attraverso le lacrime che mi riempiono gli occhi e quel viso
che solo poco prima mi era parso così affabile ora mi sembra odioso,
estraneo, crudele. Lui prende qualcosa da una tasca e l’appoggia sul tavolo,
davanti a me. «Ora me ne vado, devo partire per una tourné. Ma tornerò fra
tre mesi. E vorrei tanto rivederti. Ma non verrò più a cercarti. Se deciderai
di vedermi, mi troverai qui.» Spinge verso di me una busta da lettera bianca.
«Io ti aspetterò, Viola. Ti aspetterò finché vorrai.»
Non gli rispondo, giro la testa dall’altra parte e soltanto quando sento il
rumore della porta del negozio che si richiude, mi azzardo a guardare sul
tavolo. Prendo la busta bianca e fatico ad aprirla per quanto mi tremano le
mani. Dentro ci sono due biglietti per un concerto.
PHILIPPE BERTRAND – JAZZ IN PARIS – 19 DICEMBRE, ORE
18.00
RIMEDIO PER RIEQUILIBRARE IL VII CHAKRA
Il settimo chakra, Sahasrara, o “chakra della corona”, si trova in cima alla
testa ed è il chakra che connette la nostra energia con quella universale. È
legato al risveglio della propria componente divina, è il chakra che apre la
mente oltre i confini e mette in comunicazione con il proprio lato spirituale.
Uno squilibrio di questo chakra così importante porta a scollegarsi dalla
componente divina dell’esistenza, facendo apparire la vita inutile e fine a se
stessa, frustrazione che può sconfinare in un deprimente materialismo.
Aprire e riequilibrare il settimo chakra richiede impegno e costanza, ma
esistono alcune piante in grado di coadiuvare il percorso di risveglio. Gli oli
essenziali di LAVANDA, INCENSO, GERANIO, LEGNO DI ROSA sono
ottimi coadiuvanti aromaterapici.
Puoi aggiungere poche gocce dell’olio scelto all’acqua del bagno, oppure
scioglierle in un olio da massaggio e applicarlo con gesti delicati in
corrispondenza del chakra, o ancora puoi inalarne i vapori benefici tramite
un bruciaessenze.
4
Sembra il soggetto di una telenovela di quarta categoria.
Oggi è arrivato un uomo sconosciuto e mi ha detto di essere mio padre.
Non può essere vero. Ma nella confusione affiora un ricordo...
... Sto studiando la foto delle iridi di Viola, ma c’è qualcosa di strano...
Un pigmento in quest’area marca una frattura, qualcosa di irrisolto con un
uomo della famiglia, quindi con suo padre... Un trauma da abbandono,
forse?
Mio dio, Michel, non puoi aver visto tutto questo... E ripenso a mia
madre, il giorno del funerale, alla sua reazione violenta di fronte alle parole
crudeli che ho rivolto a mio padre.
Ora basta, Viola. Basta così... Tu non sai quello che dici.
Il mio mondo è stato rovesciato e scosso al punto da uscire dai cardini.
Non so più cosa è vero e cosa non lo è, non so più chi sono.
Ma forse c’è una sola persona che può dirmi la verità.
Raccolgo le forze e prendo il telefono. È tanto, troppo tempo che non
compongo quel numero e le mie dita incespicano sui tasti.
Pochi squilli.
«Pronto?»
Apro la bocca, ma non riesco a parlare.
«Pronto?»
«... Mamma...»
«... Oh, dio... Viola...» La sua voce è un soffio. Carico di commozione.
«Mamma...» E le lacrime ricominciano a scendere.
«Viola... tesoro... come stai?» Anche la sua voce si spezza.
«Mamma... è successa una cosa...»
«Cosa?» Il panico è palpabile. «Cosa? Stai bene? Ti è successo qualcosa?
Dimmelo!»
E le parole escono sconnesse, a raffica. «Mamma... è venuto un uomo
qui, da Gisèle... ha detto delle cose orribili, delle cose assurde... dice che si
chiama Philippe, che ti conosce, che conosce papà... e che... che...» Il pianto
mi impedisce di continuare, ma dall’altra parte sento chiaramente che lei
trattiene il respiro per poi esalarlo in una parola sola.
«... No...»
Ha capito subito.
«Mamma, dimmi che non è vero niente. Dimmi che sono solo bugie, che
si è inventato tutto, ti prego!»
«Viola, amore mio... io... ma non adesso, non così! Io devo vederti,
amore, dobbiamo parlare...»
Perché non mi dice che non è vero niente?
«Mamma, basta che tu dica che non è vero. Bastano queste parole e poi
parleremo, okay? Verrò a casa e ci diremo tutto, va bene? Partirò domani
mattina. Ma adesso tu devi dirmi che sono tutte bugie.»
«Viola... io... amore mio. Non posso...»
E l’ultimo baluardo contro una realtà che dentro di me so essere vera,
crolla. Smetto di piangere e sento il gelo che mi penetra nel cuore.
«Come hai potuto?» dico con voce bassa e fredda. «Come hai potuto, per
tutti questi anni? Neanche una parola, quando quell’uomo di me sapeva
tutto. Come hai potuto?»
«Tesoro, aspetta, ascolta, non è come pensi... Avrei voluto dirtelo, da
tanto tempo, ma... non così...» La sento piangere, sento i suoi singhiozzi,
ma non hanno alcun effetto su di me.
«Mi avete mentito tutti. Sempre. E io che pensavo che fosse colpa mia.
Non ti voglio più vedere, mamma. Non ti perdonerò mai per questo.»
«No, Viola, cerca di capire, io...»
Ma non le do il tempo di terminare la frase. Attacco il telefono senza più
ascoltarla e lo getto sul tavolo, accanto alla busta accartocciata.
Resto per lunghissimi minuti immobile, raggomitolata sulla sedia a
fissare quei due oggetti che sembrano la summa del cataclisma che ha
travolto la mia vita. Poi il telefono comincia a squillare. È il numero di casa
dei miei. Lo lascio fare finché non entra la segreteria e gli squilli cessano.
Ma pochi secondi dopo ricomincia. Sempre lei. Il trillo assordante mi
perfora i timpani, ma non voglio toccare il telefono. Non voglio avere
nessun contatto con lei. Al terzo tentativo scatto in piedi ed esco dallo
studio. Devo andarmene, non posso più rimanere nel negozio, mi sento
soffocare.
Ho bisogno di parlare, di sfogarmi, ho bisogno che qualcuno dia un senso
a tutto questo.
Comincio a correre. Rue Tholozé non è lontana, mi bastano pochi minuti.
Arrivo davanti alla porta del bar e la spalanco d’un colpo. Romain è seduto
al bancone, insieme a una donna bionda, ma quasi non la vedo. Non
m’importa di lei. Non appena sente il rumore della porta lui si gira di scatto
e quando vede la mia faccia stravolta salta in piedi e viene da me.
«Viola... che diavolo è successo?»
Lo guardo, incapace di parlare, e le lacrime lo fanno per me.
«Piccola...» mormora mentre mi abbraccia. «Cosa...?»
«Io... devo parlarti... ma...»
«Okay, okay, aspetta. Un istante solo e ti porto a casa. Resta ferma qui»
mi dice mentre va verso il bancone. Lo vedo scambiare due parole con la
bionda e poi tornare indietro. Non m’importa degli altri, di quello che
pensano, di quello che vedono. Voglio soltanto andare via, a casa, da Gisèle.
«Vieni.»
Saliamo sul sidecar, ma Romain non prende la direzione per rue Ordener.
Imbocca quella opposta.
Mi porta a casa sua.
Seduta sul divano, con una tazza di camomilla fra le mani, comincio
lentamente a calmarmi. Romain è seduto accanto a me, con un braccio
intorno alle mie spalle e la mano che mi accarezza i capelli. Gli ho
raccontato tutta la storia, dall’arrivo di Philippe Bertrand alle telefonate di
mia madre a cui non ho risposto.
«Accidenti» ha detto, quando ormai il mio pianto si era esaurito e
cominciavo a respirare normalmente. «Questa sì che è una notizia bomba.
Altro che il mio nonno assassino.»
Gli ho sorriso, malgrado tutto.
«Come ti senti?»
«Non lo so. Male, comunque.»
«Immagino. Quello che proprio non capisco è perché sia venuto da te
così, senza neanche parlarne con tua madre.»
«Mah. Avrà avuto un rimorso di coscienza, oppure voleva semplicemente
vedere com’ero fatta. Quello che so è che in questa storia nessuno si è
fermato un istante a chiedersi cosa avrei provato io. Mi hanno presa in giro,
tutti. Mia madre, mio padre, questo... Philippe. Per anni.»
«Viola... non vorrei entrare in un campo minato, ma... hai pensato che un
comportamento così sconvolgente potrebbe aver avuto delle motivazioni
altrettanto sconvolgenti?»
Mi giro a guardarlo, stupita. «Che cosa intendi dire?»
«Voglio dire che se analizzi la situazione nuda e cruda... tua madre ha
avuto una relazione con un altro uomo di cui è rimasta incinta. Nonostante
questo, è rimasta con tuo padre il quale o è all’oscuro di tutto o ha accettato
di allevare una figlia non sua. Non pensi che per un genitore sia quanto
meno arduo spiegare tutto questo al proprio figlio? Chi ti dice che tua
madre, in tutti questi anni, non abbia cercato soltanto di trovare il momento
giusto per parlartene? E che alla fine questo momento sia arrivato nel modo
meno opportuno possibile, cogliendo tutti di sorpresa?»
«Li stai giustificando?» chiedo in tono aggressivo.
«No, non li sto giustificando, ma credo che ci siano delle... attenuanti. Gli
esseri umani sbagliano, Viola. Tutti, anche i genitori. Forse non dovresti
essere così dura.»
«Non è solo questo!» esclamo, liberandomi dal suo abbraccio. «Tutti
commettiamo degli errori, è vero. Ma loro mi hanno mentito. Io ho vissuto
una vita intera che non è la mia e probabilmente lo sapevano tutti, tranne
me. Quest’uomo, Philippe, sa tutto di me, a che ora sono nata, quali scuole
ho frequentato... è come se mi avesse spiato per tutto questo tempo da dietro
una porta mentre invece per me lui è un perfetto sconosciuto che dice di
essere mio padre. Io non tollero le bugie, Romain. Posso sopportare un
colpo duro, ma la menzogna e il tradimento no, non posso perdonarli. E
poi... c’è dell’altro...»
«Cosa?»
«Questo fatto cambia tutte le carte in tavola. Io ho sempre pensato che
mio padre non mi stimasse, non mi volesse bene perché lo avevo deluso,
perché non ero come lui. Mi sono fatta un vanto della mia diversità, gliel’ho
sbattuta in faccia perché pensavo che fosse un cattivo padre. E invece...»
Gli occhi mi si riempiono di lacrime. «Invece aveva ragione lui. Non poteva
amarmi, perché non sono sua. E tutte le rivalse, le rivincite che ho pensato
di prendermi su di lui in questi anni, sono... sbagliate. Gli ho soltanto fatto
dei torti. Gratuiti.» Le lacrime mi scendono sulle guance e non riesco più a
parlare. Da un momento all’altro tutte le mie certezze sono svanite,
cancellate con un colpo di spugna. Persino le parole di Michel adesso mi
appaiono sotto una luce diversa. Tutti i discorsi sul mio lavoro, la mia
passione, l’importanza di riconoscere le proprie radici, non contano più
nulla. Sono frasi senza significato.
Mi giro e guardo Romain, i suoi occhi, le spalle larghe, il viso scolpito.
Ho bisogno del suo calore, della sua passione. Voglio perdermi in lui e con
lui, voglio dimenticare tutto. Appoggio la tazza sul tavolo e salgo a
cavalcioni sulle sue gambe.
«Ehi...» mi dice, sorpreso.
Comincio a baciarlo sul collo, chiudo gli occhi aspirando il suo profumo.
Gli sbottono la camicia e infilo le mani sotto la stoffa, ma lui me le blocca
prendendole fra le sue. «Aspetta» sussurra. «Sei ancora turbata, non voglio
che...»
«Shhh» mormoro baciandolo sulle labbra. «Questo è quello che voglio
adesso. Te.»
Lui mi sorride e i suoi occhi si fanno di giada liquida. Mi lascia andare le
mani e mi sfiora dolcemente il viso con la punta delle dita, soffermandosi
sulla bocca, poi sul collo e sulle spalle. Io sospiro di piacere e chiudo gli
occhi. Romain mi stringe a sé, mi culla accarezzandomi la schiena a lungo.
Poi, con tutto il mio peso addosso, si alza dal divano quasi senza sforzo e
mi porta, in braccio, fino alla camera da letto.
TISANA PER ALLENTARE LE TENSIONI MUSCOLARI
Ingredienti: radice di valeriana, foglie e fiori essiccati di passiflora, fiori
essiccati di camomilla, fiori essiccati di biancospino, fiori essiccati di
arancio amaro, anice stellato.
Crea una miscela dosando le piante in parti uguali. Poni un cucchiaio di
erbe in una tazza d’acqua calda e lascia in infusione per almeno cinque
minuti.
È una tisana composta da piante che favoriscono il rilassamento, con in
più il tocco del biancospino che è un ottimo cardiotonico. È particolarmente
indicata la sera, prima di andare a letto, oppure dopo uno sforzo fisico
prolungato
5
Quando mi sveglio di soprassalto, il sole è sorto da un pezzo e filtra dalle
tende color canapa. Allungo un braccio al mio fianco, ma il letto è vuoto.
Romain non c’è. Al suo posto c’è un biglietto:
Uscito presto. In cucina c’è la colazione. Fai con calma, ci sentiamo poi.
R.
Un perfetto telegramma. Se si fosse impegnato di più, non sarebbe
riuscito a farlo meglio. Nemmeno un cuoricino a fondo pagina. La storia dei
disegni parlanti di sua nonna non gli ha insegnato granché. Rimetto la testa
sul cuscino e mi rigiro fra le lenzuola che portano ancora impresso il suo
odore.
È stata una notte di quelle da ricordare.
Abbiamo fatto l’amore a lungo, lentamente. La sua tenerezza ha vinto a
poco a poco la mia disperata frenesia. Ha calmato il mio cuore impazzito
con i baci e le carezze, e la sua passione ha scaldato ogni centimetro della
mia pelle. Mi sono addormentata con un nodo alla gola per l’emozione
struggente che ho provato questa notte, e adesso vorrei semplicemente
rimanere qui a rivivere tutto, momento per momento. Eppure devo alzarmi.
Non ho avvertito Gisèle che sarei tornata stamattina e ora mi ricordo di aver
lasciato il cellulare nello studio. Oh, al diavolo, oggi farà senza di me.
Magari l’ha avvertita Romain. La mia serenità precaria sta già svanendo e le
immagini di ieri si stanno riaffacciando alla mia mente.
Ieri ho scoperto di avere un nuovo padre. Ehi, ciao papà, mi dico
sforzandomi di associare a questa parola il volto di Philippe Bertrand. Ma
mi sfugge una risata triste, perché le uniche immagini che quella parola
evoca appartengono alla mia infanzia, sono quelle dei pomeriggi di gelato e
televisione sul divano insieme a mio padre, delle figurine appiccicate con
mano maldestra sull’album e lui che correggeva le storture, dei bagni in
mare fra le sue braccia che mi tenevano a galla... Niente da fare,
l’imprinting ha lavorato bene. Buono o cattivo che sia, Francesco Consalvi
è l’unico uomo che io possa chiamare padre. Sempre che lui lo voglia
ancora, però.
Sbuffando tiro via le lenzuola e mi alzo. Raccolgo i vestiti sparsi per tutta
la stanza e mi sistemo un po’ prima di andare a fare colazione. E non
appena varco la soglia della cucina, i miei occhi colgono un panorama che
mi allarga il cuore. La tavola è perfettamente apparecchiata con tovaglia
bianca e porcellane nere. Il termos del latte è accanto alla tazza e il caffè nel
bollitore. Sul tavolo, meravigliosa visione, ci sono la baguette ancora calda,
burro, marmellata di more, una brioche e un pain au chocolat.
Improvvisamente mi torna il buonumore e mi metto a tavola pronta a fare la
festa a tutto quel bendiddio.
Mi alzo dalla sedia quasi un’ora dopo, molto soddisfatta. Sono talmente
distratta dalla colazione che non mi sono resa conto di essere prigioniera!
Accidenti, passando davanti alla porta di casa mi accorgo che Romain si è
dimenticato di lasciarmi le chiavi. E non posso nemmeno avvertirlo perché
non ho il cellulare. Credo che l’unica scelta possibile sia quella di aspettare
il suo ritorno qui, magari leggendo con calma uno dei suoi mille romanzi.
Oppure dando un’occhiatina in giro. Oggi mi considero in vacanza. Vado in
bagno e cerco un asciugamano per la doccia. Apro sportelli e cassetti finché
non trovo quello che mi serve. Mi fa uno strano effetto stare qui da sola,
senza Romain. È come se mi trovassi al Luna Park, dietro le quinte delle
attrazioni da baraccone. C’è un che di proibito nello sbirciare fra le cose
altrui che rende l’operazione molto stuzzicante. Quello che mi colpisce è
l’estremo ordine di questa casa, sembra che non ci sia nemmeno un capello
fuori posto. Mi concedo una lunga doccia, con tutta calma, poi mi rivesto e
torno in salotto.
Comincio a spulciare i dorsi dei libri in cerca di un titolo interessante. Mi
cade lo sguardo su Festa Mobile, di Hemingway. Uno dei preferiti di mio
padre. Anzi, del mio patrigno. Il suono di questa parola inconsueta mi fa
stringere il cuore. Mi sento come se mi stessero rubando la mia storia dalle
mani, è un’orribile sensazione di non appartenenza che dà le vertigini.
Eppure prima o poi dovrò fare i conti anche con questo. Nascondere la testa
sotto la sabbia non servirà a superare l’ostacolo, ma soltanto a ritardarne il
salto. Con un sospiro rimetto a posto il libro, sono troppo agitata per la
lettura. Sarà meglio che mi distragga facendo un giro per la casa.
L’appartamento è piccolo, ma ben disposto. Il demone della curiosità mi
suggerisce malignamente di cercare un indizio sulla famosa Isabelle, la
donna senza volto. So che non ha vissuto qui con Romain, ma mi chiedo se
lui non abbia conservato qualcosa che le appartiene, magari una fotografia,
o un biglietto. Do un’occhiata nel comodino, ma a parte una scatola di
preservativi non trovo niente di compromettente. Idem dicasi per l’armadio.
Un po’ delusa torno in salotto e mi metto a osservare un mobile squadrato,
pieno di cassetti, che sembra fungere anche da scrivania. Quasi con
indifferenza comincio ad aprire qualche cassetto, a casaccio. Scopro archivi
di fatture, documenti di gestione del locale e burocrazia varia. Ma quando il
diavolo ci mette lo zampino, difficilmente le cose vanno lisce. L’ultimo
cassetto che apro, infatti, sembra contenere qualcosa di più personale. Per
esempio un fascio di fogli coperti da una fitta calligrafia che hanno tutta
l’aria di essere delle lettere. Per un attimo sono tentata di prenderle, poi mi
viene in mente una frase che diceva mio nonno quando ero piccola: Attenta
a quello che cerchi, potresti trovarlo. E se trovassi un diario, dove si parla di
Isabelle? O delle foto di loro due insieme? Farei del male soltanto a me
stessa con un passato contro il quale non posso fare niente. Be’, però
almeno mi toglierei la curiosità di capire bene perché è finita la loro storia.
Se è finita, poi. Prendo i fogli e vado a sedermi sul divano.
Ho visto giusto.
Una notte non basta. Anche perché quella cena sontuosa ha aspettato
invano di essere consumata. Ma ti darò la possibilità di riprovare. E
riprovare. E riprovare. Finché ne avremo voglia.
Ah, ricorda soltanto una cosa: “ti amo”, detto in certi momenti, non ha lo
stesso significato...
Ti aspetto.
Tua Denise
Denise? E chi è questa virago amante della cucina? Io pensavo di trovare
una lettera di Isabelle. Accidenti, si è dato da fare Romain... ha detto “ti
amo” anche a questa qui. Oltre che a Isabelle, presumo. Credo che abbia
ragione Camille, a proposito dell’effetto che Romain ha sulle donne... lo
stesso che ha su di me. D’altra parte è un Estremo, un trascinatore, un capo
carismatico, un agitatore di folle. Gli occhi non mentono mai, non c’è
niente da fare. Avevo ragione a preoccuparmi. Ma non si può essere gelosi
del passato di una persona, è sciocco. Il passato è passato, punto. L’unica
cosa che mi disturba di questa lettera è il fatto che lui le abbia detto “ti
amo”.
Sfoglio distrattamente le altre e mi accorgo che sono tutte sullo stesso
tenore: traboccanti d’amore, di baci, di carezze e di passione reciproca e
condivisa. Okay, mi sono tolta lo sfizio, ora basta. Sto per rimetterle a posto
nel cassetto, quando i miei occhi colgono un particolare che non avevo
notato, in fondo alla lettera. E che mi gela il sangue.
Parigi, 16 settembre 2015.
Tre giorni fa.
No, dev’esserci un errore, un malinteso. Sfoglio febbrilmente tutte le
altre.
12 settembre 2015... 8 settembre 2015... 30 agosto 2015... 25 agosto
2015...
Oh, mio dio. Mi tremano le ginocchia. Non è possibile, non ci credo. Non
può essere vero. Mi torna in mente la donna bionda. Lentamente mi siedo
sul divano e resto lì, irrigidita, con le lettere fra le mani, incapace di
pensare. Non so per quanto tempo resto in quella posizione, ma almeno fino
a quando non sento il rumore delle chiavi che girano nella serratura della
porta di casa. «Viola?» sento chiamare dall’ingresso.
Non rispondo.
«Ci sei? Oh... eccoti qui» dice Romain entrando in salotto. «Come stai?
Perché non hai risposto?» mi chiede, sorridendo.
Poi si accorge del mio viso pietrificato.
«Ehi, ma che ti succede?»
Fa per avvicinarsi, ma io scatto in piedi e mi allontano. «Chi è Denise?»
«Chi è chi? Ma cos...» La sua espressione passa rapidamente dallo
stupore alla collera non appena si accorge delle lettere che tengo in mano.
«Dove le hai trovate?»
«Non importa dove. Le ho trovate, è questo il punto.»
«Tu non avevi alcun diritto di ficcare il naso nelle mie cose, Viola. Come
ti sei permessa di curiosare in questo modo? Quelle lettere erano in fondo a
un cassetto. Nessuno era autorizzato a leggerle, tu meno che mai.» Tende
una mano verso di me. «Dammele. Ora.» Il suo tono è glaciale, privo di
qualsiasi sfumatura.
«Come ti permetti tu di trattarmi in questo modo!» grido mentre sbatto le
lettere nella sua mano. «Non ti prendi nemmeno la briga di negare, sei
soltanto arrabbiato perché ho scoperto il tuo piccolo segreto, non è vero?»
«Ma che stai dicendo? Io sono arrabbiato perché mi hai mancato di
rispetto, ecco perché. Ti ho lasciata da sola a casa mia, fidandomi di te, e tu
ti sei messa a rovistare nei miei cassetti, te ne rendi conto o no?»
«Io mi rendo conto soltanto che tu sei un bastardo, punto!» la rabbia mi
fa tremare la voce.
«Ma certo, come no! E ti è bastato un pezzo di carta per trarre le tue belle
conclusioni, vero? Condannato senza appello! Ma brava, e tu saresti una
che indaga la psiche degli altri guardandoli negli occhi? Be’, vorrei proprio
sapere come, mia cara. Sappi che uno sguardo sospettoso e distorto altera le
cose e soltanto se hai gli occhi buoni riesci ad andare lontano.»
«Ma che diavolo stai dicendo? Adesso dovrei essere io a giustificarmi? Io
mi sono fidata di te, non il contrario. Proprio in un momento delicato della
mia vita, quando ero riuscita a liberarmi di tante paure, ho deciso di
crederti, e tu cosa fai? Te la spassi con un’altra dietro le mie spalle? Le ho
viste le date di quelle lettere. Come hai fatto, portavi a casa me e andavi da
lei?»
Lui mi fulmina con un’occhiata feroce. «Sai che ti dico, Viola? Tuo
marito ha fallito miseramente con te. Visto che è stato lui a insegnarti a
guardare e tu non riesci a vedere al di là dei tuoi pregiudizi!»
Si ritrae di colpo di fronte ai miei occhi sgranati. Ha detto una cattiveria
orribile e gratuita, e se ne rende conto soltanto adesso.
«Sei un essere mostruoso...» La voce si spezza sulle ultime sillabe e con
mia grande rabbia, mi ritrovo a piangere.
Romain sembra leggermente turbato. «Senti, adesso calmati, parliamone,
okay? Mi hai profondamente deluso, ma...»
A questa frase scoppio a ridere, amaramente. «Tu sei deluso? Ti sei
rivelato come tutti gli altri, un bugiardo, tutto qua. Come... come mio
padre.» Mi asciugo le lacrime e cerco di trattenere i singhiozzi. «Te l’ho
detto esattamente ieri, qui, su questo divano. Posso tollerare tutto, ma non la
menzogna. E tu... tu hai commesso l’unica azione che io non potrò mai
perdonare e...» Prendo un respiro profondo e mi avvicino a lui. «Io ti ho
dato il mio cuore Romain» mormoro, «e tu l’hai buttato via. E non ho altro
da dire.»
Gli volto le spalle e vado verso la porta.
«Viola, aspetta...» mi dice. Ma non fa un gesto per fermarmi.
Né io mi giro a guardarlo.
6
Lo specchio appeso nel bar di rue des Abbesses mi rimanda l’immagine
del mio viso affaticato dalla mancanza di sonno. Ho le palpebre gonfie, la
pelle spenta e sottili rughe di stanchezza intorno agli occhi. Mi guardo e mi
sembra di rivedere la Viola che è arrivata qui tre mesi fa. Forse perché in
fondo in fondo ho la sensazione di essere scivolata rovinosamente giù per la
china di una montagna a tempo di record per ritrovarmi esattamente al
punto di partenza. Non ho fatto in tempo a inorgoglirmi per i miei successi
che nel giro di due giorni la mia vita è stata nuovamente stravolta.
Quando sono tornata a casa, dopo aver rotto con Romain, l’ho trovata
vuota. Forse a quell’ora Gisèle era al negozio. O magari a pranzo con
Stéphane. In ogni caso entrare nelle stanze silenziose e in penombra mi ha
fatto sentire sola come non mi capitava da molto tempo. Non avevo più
Romain e non avevo più nemmeno la mia famiglia. Ero un’isola. Gisèle è
arrivata nel tardo pomeriggio e, per fortuna, non c’è stato bisogno di dirle
niente. È entrata in camera mia e si è seduta sul letto.
«Tua madre ha continuato a chiamare sul tuo cellulare, incessantemente.
Alla fine ho risposto. Mi ha spiegato quello che è accaduto e... era davvero
sconvolta, Viola. Credimi. Ha detto che non vuoi vederla mai più. È così?»
«Sì.»
«Be’, scusami se te lo dico ma stai sbagliando.»
Mi sono seduta sul letto e l’ho guardata a lungo. Le ho preso la mano e
l’ho tenuta stretta. «Lo so Gisèle, ma... perdonami. Adesso voglio sbagliare
per conto mio. Non voglio più ascoltare nessuno. Voglio decidere da sola
cosa fare e come farlo. Con le mie forze.»
E non abbiamo più affrontato l’argomento.
«Non mi piace per niente questo bar» dice Camille con aria schifata.
«Neanche a me. Ma al momento non so dove altro andare.» E sottintendo
che l’Hairy Biker è escluso a priori.
«Non l’hai più sentito?»
So che si riferisce a Romain, anche se si guarda bene dal nominarlo.
«No.»
È passato un mese, ormai. Un mese di assoluto silenzio che non ha fatto
altro che confermare i miei sospetti. Sono furiosa con lui, a volte vorrei
andare a casa sua e prenderlo a pugni, distruggere tutti i suoi libri,
provocargli la stessa devastante sofferenza che provo io in questo momento.
Camille non dice niente. Al contrario degli altri lei è stata l’unica che ha
ascoltato tutta la storia senza fare commenti, senza dare consigli. Si è
limitata a starmi vicina e le sono grata per questo, per aver alleviato la mia
solitudine. Frugo nella borsa per prendere il portafoglio e nel tirarlo fuori
faccio cadere i due biglietti per il concerto di Philippe che sono rimasti lì
dal giorno in cui si è presentato da me. Camille li raccoglie da terra e me li
porge.
«Pensi di... andare al concerto di... tuo padre?» mi chiede timidamente.
«Non chiamarlo così, per favore. Quell’uomo non è niente per me. È
soltanto uno che è comparso, mi ha sconvolto la vita e ne uscito.
Nient’altro. E comunque, no. Non ha senso.»
«Però non hai ancora buttato via i biglietti» osserva.
Osservo i cartoncini nella mano di Camille. È vero, non l’ho ancora fatto.
Dopo un attimo di pausa, Camille torna all’attacco. «Che cosa pensi di
fare, adesso?»
«A che proposito?»
«In generale. Della tua vita. Che progetti hai?»
«Che progetti ho? Sinceramente non lo so. In quest’ultimo periodo sono
andata avanti grazie alla solita routine, senza sforzarmi di pensare. E questo
è un bene, mi dirai tu, almeno riesci a portare avanti i tuoi impegni. Be’, no,
non è affatto un bene! All’ultima lezione ho detto alle signore di mettere
venticinque gocce di olio essenziale di cannella in cento millilitri di olio da
massaggio. Venticinque gocce, sai che cosa significa?»
«Nn... o»
«Significa che meno male che me ne sono accorta e gliel’ho fatto buttare,
o si sarebbero ritrovate con delle ustioni sulla pelle! Non ci sto con la testa,
Camille. E non mi capita solo con le lezioni. La settimana scorsa ho fatto un
trattamento Reiki a Sophie e mi sono accorta che mentre le tenevo le mani
sui chakra pensavo a come torturare lentamente Romain e a come uccidere
Philippe Bertrand senza lasciare tracce.» Faccio una smorfia. «Non è questo
lo stato d’animo più corretto per far scorrere l’energia e attivare i processi di
guarigione.»
«No, è vero. Però, se posso dirtelo... ecco è un peccato che per colpa di
altri tu perda tutto quello che hai conquistato fino a adesso. Voglio dire, sei
cambiata tanto da quando ti ho conosciuta. E in meglio. Perché non ti
concentri su tutto quello che potresti fare da adesso in poi? Hai moltissime
cose fra cui scegliere, c’è la casa di cui mi hai parlato, e i tuoi studi, le
ricerche di Michel da approfondire... Insomma, questo qui ormai è il tuo
mondo. Non permettere che qualcuno te lo porti via.»
La osservo con interesse. Mi ha dipinta come non mi sono mai realmente
vista, ha descritto la donna che non credevo di poter diventare, eppure ha
ragione lei e adesso riesco a specchiarmi nelle sue parole. È vero, ho fatto
tanto. Ho costruito un piccolo universo fatto di lavoro, amicizia, affetti. Non
posso permettermi di regredire, non voglio farlo.
«Grazie.» Prendo la mano di Camille e la stringo. «Sei un’amica
preziosa. Ti voglio bene.»
«Oh, non fare tante storie! Il vero motivo per cui voglio che resti è farmi
mantenere i chakra allineati.»
Do un’occhiata all’orologio. Sono quasi le tre, è ora di riaprire e Gisèle
come al solito non c’è. «Tesoro, io devo andare» dico a Camille. «È ora.»
«Sì, anche per me. Allora ti chiamo domani.»
«Okay.»
Ci separiamo davanti alla porta del bar e ognuna prende la sua strada. Mi
avvio verso il negozio facendo il giro più lungo, quello più lontano da rue
Tholozé. Mentre cammino respiro a fondo l’aria fresca di questa fine di
ottobre. L’autunno è arrivato. Si vede nei colori delle foglie, nel cielo che si
fa più mutevole, nell’aria che spesso è impregnata dell’umidità della
pioggia ancora lontana. Mi stringo la sciarpa intorno al collo e affretto il
passo.
In pochi minuti arrivo davanti al negozio e inserisco la chiave per
azionare la serranda elettrica. La guardo con una certa soddisfazione mentre
si solleva lentamente. Questa rimarrà per sempre una delle mie più grandi
conquiste, a mio eterno onore e gloria. Apro la porta e, mentre sto per
entrare, una voce mi chiama per nome. «Ehi, Viola, che piacere vederti.»
Jacques Lacroix si avvicina e mi tende la mano. «Ciao Jacques, come
stai?» gli chiedo, stringendola.
«Molto bene, devo dire. Anche per merito delle tue gocce.» Mi sorride. I
suoi occhi azzurri dietro le lenti sono brillanti e vivi. Effettivamente sta
molto meglio dell’ultima volta.
«E Martin?»
Dopo l’estate ho visto il piccolo diverse volte, l’ultima una settimana fa,
proprio a casa di Jacques, dove lui mi ha mostrato con orgoglio la cameretta
del bambino dipinta di un delicato verde pastello e il cuscino riempito di
semi di lavanda, secondo le indicazioni che gli avevo dato. Ho constatato di
persona e con grande soddisfazione che la floriterapia che avevo prescritto a
Martin stava dando i suoi risultati. Il bambino era molto più pacato e aperto,
mi ha mostrato i suoi giocattoli ed è stato disposto ad ascoltarmi mentre gli
leggevo un breve racconto. Ma la cosa più importante è stata osservare il
cambiamento del bimbo nei confronti del papà: quella possessività
ossessiva, venata di disperazione, era praticamente scomparsa, al punto che
Jacques ha potuto dedicare parte del suo tempo a prepararmi un caffè e a
berlo in santa pace insieme a me sul terrazzino dell’appartamento.
«Sta molto bene anche lui. Ora è con la baby-sitter. Stiamo provando a
lasciarlo solo per qualche ora alla settimana e, per il momento, sembra che
reagisca bene.»
«Immagino. Ma credo che dipenda soprattutto dalla tua serenità. È quella
a essere contagiosa. Volevi entrare?»
Lui mi sorride ancora di più, la testa leggermente inclinata di lato. «In
realtà... no. Ero passato appositamente per chiederti se ti va di venire a cena
con me, questa sera. Sempre che tu non abbia altri impegni.»
Se in quel momento mi fosse caduto un meteorite sulla testa, non sarei
rimasta più sbalordita... Jacques è venuto fin qui, dopo che non lo vedo da
una settimana, esclusivamente per chiedermi di uscire. Comincio a credere
anch’io che i Fiori di Bach nascondano virtù terapeutiche miracolose.
«Be’... ecco... Sì. Anzi, grazie dell’invito.»
«Fantastico! Hanno appena aperto un nuovo ristorante qui vicino dove
pare che abbiano ostriche freschissime. Passo a prenderti qui, diciamo... alle
sette e mezzo.»
Mi sforzo di sorridere. «Perfetto.»
«Bene. A più tardi.» E se ne va con un allegro cenno di saluto.
Mi vorrei impiccare. Io detesto le ostriche. Eppure mi sono state
propinate quasi a ogni primo invito galante che ho ricevuto, persino da
Michel. Ma quando la smetteranno gli uomini di credere che ci sia una
correlazione matematica tra l’offrire ostriche e ricevere sesso in cambio?
Romain non l’ha fatto. Lui al primo appuntamento ha messo in cucina
me. Il ricordo di quella serata mi strappa una risata che, però, finisce in un
singhiozzo soffocato.
Il ristorante è nel cuore di Montmartre. Ci arriviamo a piedi, dopo una
breve passeggiata. È un locale ultramoderno, tutto bianco e acciaio, con
musica lounge in sottofondo. Accogliente quanto un obitorio, ma
elegantissimo. Jacques è perfettamente intonato all’ambiente, impeccabile e
attraente quanto un fotomodello da copertina. Vedo parecchie teste
femminili che si girano mentre passiamo. Io indosso un abitino corto nero
con colletto all’americana e una profonda scollatura sulla schiena e faccio
anch’io la mia figura. Ci sediamo e lui ordina per due, immaginando di
farmi una gentilezza. Riesco a evitare le ostriche per il rotto della cuffia con
la scusa di un’allergia. Mentre sorseggiamo il nostro vino e mangiamo
microscopiche porzioni di cibo sconosciuto mimetizzato sotto foreste di
prezzemolo e verdure julienne, chiacchieriamo piacevolmente. O meglio,
Jacques chiacchiera e io mi limito ad annuire e intervenire di tanto in tanto.
Jacques è quello che si definisce un brillante conversatore. Parla di tutto,
attualità, politica, cinema, musica, il suo lavoro, e anche in modo piacevole
e per nulla affettato. Di tanto in tanto riesce, casualmente, a toccarmi una
mano, sfiorarmi un polso, un ginocchio sotto il tavolo. Sento che sta
cercando di accorciare le distanze fra di noi, lo vedo da come si china verso
di me quando mi propone un brindisi, da come mi guarda negli occhi
quando mi parla. È un bell’uomo, simpatico, e il suo corteggiamento mi
lusinga. Mi divertono gli sguardi gelosi delle altre donne che ricambio con
l’arroganza della prescelta. Allora concedo a Jacques un sorriso più
ammiccante, lascio che le sue carezze fortuite mi trovino compiacente. Una
parte di me sta interpretando la parte della donna ammaliante e mi rendo
conto che ci riesco anche piuttosto bene. La ragazza impaurita di qualche
tempo fa ha lasciato il posto a una persona nuova, a una donna che non
dipende più dagli sguardi di un uomo, né ha bisogno che sia un uomo a
indicarle la strada da prendere. Mi sento padrona di me stessa e della
situazione che sto vivendo, so che potrei giocare questa partita fino in
fondo.
Ma allora perché sto ascoltando Jacques con un solo orecchio perdendo la
metà delle parole che gli escono dalla bocca? Continuo a sorridere sperando
che i miei “Oh, però?” e “Davvero?” e “Fantastico!” cadano sempre nel
corretto intervallo della conversazione senza infrangerne la scorrevolezza. E
intanto ripenso con tenerezza alle storie avvincenti di Romain, alla sua voce
pacata e carezzevole. Al suo perenne sorriso ironico... Ci penso talmente
tanto che alla fine si materializza.
Davanti a me. A distanza di due tavoli.
E quel che è peggio, insieme alla donna bionda che si schiaffeggiava i
capelli. C’è anche altra gente, è vero, ma loro due sono seduti vicini. Lo
guardo e comincio lentamente a morire. Sono innamorata di lui.
Disperatamente. Ma la forza d’attrazione del mio sguardo deve funzionare
ancora, perché Romain alza gli occhi e incontra i miei e per un istante
infinito anneghiamo una nell’altro. Poi lui sposta lo sguardo da me a
Jacques e il gelo che gli scende sul viso mi sembra di sentirlo sulla pelle.
Questione di secondi, la donna bionda richiama la sua attenzione e l’incanto
si spezza.
Come me.
Trascorro il resto della serata in stato di trance sperando che finisca in
fretta. Romain non guarda mai più dalla mia parte, lo so anche se nemmeno
io lo guardo.
Finalmente arriva il conto e Jacques va signorilmente a pagare alla cassa.
Usciamo e accolgo con piacere il freddo che mi punge la pelle prima che
Jacques, con gesto cavalleresco, mi porga il cappotto da infilare. Arriviamo
davanti al negozio e a questo punto io vorrei salutare e rientrare in fretta a
casa per rimanere sola, ma Jacques ha altri programmi.
«Ti accompagno, non è bene che una bella ragazza cammini tutta sola di
notte.»
Vorrei dirgli che tra Roma e Parigi sono almeno quindici anni che mi
avventuro sola di notte per le strade delle metropoli, ma mi sembra un po’
rude. «Grazie, ma sono dieci minuti di strada, non mi succederà niente e poi
mi va di fare una passeggiata.»
«Ne sei sicura?»
«Oh, sì.»
«Come vuoi. Allora...» Mi si avvicina e mi prende la mano. «Grazie per
la bellissima serata.» Si avvicina ancora di più. Decisamente troppo, ma non
posso scostarmi senza essere scortese. Così resto ferma e aspetto che mi
baci sulla bocca. È un bacio gentile e delicato, proprio come lui, e molte
donne sarebbero felici di ricambiarlo, ma le mie labbra restano fredde. Non
provo assolutamente niente.
Jacques non è stupido, se ne accorge e si ritrae, un po’ umiliato.
«Scusami. Non avrei dovuto.»
«No, Jacques, non è colpa tua. Tu sei una persona adorabile, ma io... mi
dispiace, ma c’è qualcun altro nel mio cuore.»
«Oh. Capisco. Non ti preoccupare. Però posso accompagnarti lo stesso,
se vuoi» mi dice con un sorriso gentile.
«Grazie, ma davvero preferisco andare da sola.»
«Va bene. Allora... ci vediamo.»
«Sì, ci vediamo.»
Ma sappiamo entrambi che d’ora in poi i nostri incontri riguarderanno
esclusivamente Martin.
Rientro a casa con una matassa di pensieri aggrovigliati nella testa e nel
petto un tumulto di sensazioni. Non mi curo di non fare rumore perché so
che Gisèle non c’è, è rimasta a dormire da Stéphane. Con uno strattone mi
libero del cappotto che cade per terra, le scarpe le calcio via una dopo l’altra
mentre cammino. Arrivo in camera e mi fermo davanti alla grande
specchiera dell’armadio. Mi guardo e lentamente sfilo il vestito dalla testa,
poi tolgo le calze, il reggiseno e le mutandine. Voglio vedermi senza filtri.
Osservo l’immagine riflessa per cercarvi i segni tangibili del mio
cambiamento interiore. Il mio corpo è più forte, le curve dei fianchi e del
seno più piene e ferme, non c’è ombra di fragilità nei muscoli affusolati
delle braccia e le gambe sode recano la traccia delle tante strade percorse a
piedi nel corso di questi ultimi mesi. Accarezzo con le mani la pelle serica
dei fianchi, mi abbraccio, chiudo gli occhi e immagino che sia la mano di
Jacques a sfiorarmi il seno. Ma il gioco non funziona. Perché è un altro il
nome che sale alle mie labbra, un altro il viso che si impone agli occhi della
mente. Un nodo si stringe nella mia gola. Lascio cadere le mani e, a testa
bassa, giro le spalle allo specchio senza guardarmi indietro.
7
Le mattine stanno cominciando a peggiorare. Novembre è arrivato quasi
senza che me ne accorgessi e il cielo si presenta sempre più spesso grigio o
offuscato dalle nuvole. Anche i miei risvegli sembrano accordarsi al clima
in mutamento. Ecco perché oggi sono venuta nell’unico posto capace di
riconciliarmi con me stessa e con il mondo esterno. Parc Monceau è un’oasi
di serenità anche al freddo e sotto la minaccia della pioggia. Dopo la
disastrosa serata con Jacques, così inutilmente premuroso, e l’incontro con
Romain e la sua donna bionda, sono stata di pessimo umore per giorni e
giorni, anche sul lavoro. Poi però ho cominciato a vedere le cose sotto
un’altra luce. Ho riflettuto sul commento di Camille. È un peccato che per
colpa di altri tu perda quello che hai conquistato fino a adesso. Anche se
Romain si è rivelato diverso, deludente, questo non può distruggere tutto il
mio percorso. Se devo ricominciare, lo farò ripartendo da quello che ho già
costruito. E il prossimo passo sarà andare a vivere da sola. L’idea di stare
per conto mio non mi dispiace affatto. La parte difficile sarà dirlo a Gisèle.
Non appena entro nel negozio e mi accosto a lei per parlarle, mi accorgo
che c’è qualcosa che non va. Gisèle è sulle spine, come se dovesse rivelarmi
un fatto molto importante.
«Tesoro, dovresti andare nello studio. C’è qualcuno per te.»
La guardo stupita. Non prendo mai appuntamenti di mattina.
«E chi è?»
«Sarà meglio che tu lo veda con i tuoi occhi.»
Mi precipito alla porta con il cuore in gola, pregando e sperando di
aprirla e vedere Romain, ma quando la spalanco, resto di sasso. Immobile
sulla soglia.
«Ciao, tesoro. Come stai?»
Solo il suono di quella voce mi fa salire le lacrime agli occhi. Poi mia
madre si alza dalla sedia, mi viene incontro e mi bacia leggermente su una
guancia. Mio padre è già in piedi, ma non si avvicina. Li fisso, incapace di
credere che siano davvero qui, anche se la loro vista scatena in me una
battaglia di sentimenti contrastanti. È più di un anno che non ci vediamo.
Dal giorno del funerale. Li osservo attentamente per cogliere qualche
trasformazione nelle loro fisionomie. Mia madre è sempre bellissima, con i
suoi lunghi capelli scuri, la bocca piena e il fisico snello, e quando la vedo
camminare ripenso alle parole di Philippe Bertrand.
... Una grazia quasi fiabesca... Talmente intensa che muove l’aria...
Nessuna immagine potrebbe ritrarla meglio.
Tuttavia è mio padre quello che attira di più la mia attenzione. Ricordo
con rimorso le parole terribili che gli gridai quel giorno e, soprattutto adesso
dopo quello che ho saputo, mi sento ancora più dispiaciuta e in colpa. Lui
sembra imbarazzato, come se non sapesse che tipo di libertà prendersi con
una figlia ormai consapevole della verità.
«Ciao, mamma. Ciao, papà.»
Non ci abbracciamo. Siamo tutti e tre frenati dal disagio di ritrovarci
insieme dopo tanto tempo e in questa circostanza.
«Viola, noi... siamo venuti per parlare con te» dice mia madre. «C’è un
posto tranquillo dove possiamo andare?»
Io penso che il mio posto sia questo. Questo studio. Questo negozio. Qui
è cominciato tutto e qui deve chiudersi il cerchio.
«Rimaniamo qui, se non vi dispiace. C’è silenzio, intimità. Siamo liberi
di dire tutto quello che vogliamo.»
«Va bene» acconsente mio padre, sedendosi. Mi guarda a malapena.
Mia madre resta un istante accanto a lui, come per accertarsi che stia
bene, poi si siede e gli prende la mano.
«Intanto vi preparo una tisana» dico per alleggerire l’atmosfera. Prendo il
bollitore e metto su l’acqua. Poi le tazze e la tisana alla cannella di Gisèle
che sprigiona un profumo dolce e confortante. Nel frattempo sbircio di
sottecchi mio padre e quello che vedo mi stupisce. Per la prima volta mi
appare come un uomo fragile, indifeso. L’alterigia a cui ero abituata sembra
svanita, e dal suo viso traspare una profonda preoccupazione per ciò che sta
per accadere. Provo un moto di tenerezza per lui.
È mia madre a parlare per prima.
«Io non so bene da dove cominciare, Viola» dice a bassa voce. «Ma forse
è meglio farlo dall’inizio.» Prende un respiro per farsi coraggio e io mi
chiedo se si è preparata il discorso in anticipo, per non dimenticare nulla.
«Ho conosciuto Philippe a un concerto, a Roma. Io e tuo padre non
stavamo passando un bel periodo, lui era troppo concentrato sul lavoro,
sempre lontano per i suoi congressi e io mi stavo stancando di essere
trascurata. Non ci vedevamo quasi mai, eravamo sull’orlo della separazione
e lo sapevamo entrambi, anche senza dircelo esplicitamente. Philippe era un
giovane musicista affascinante e divertente e io cominciai a frequentarlo
poco dopo averlo incontrato. Lui si innamorò di me e anch’io per un po’
pensai di esserne innamorata. Fino a quando non scoprii di essere incinta.
Allora lui mi propose di sposarlo e andare a vivere a Parigi. A quel punto
dovetti fare una scelta. E scelsi di parlarne con tuo padre. Gli raccontai
tutto, della relazione e della gravidanza. Io sentivo che fra di noi c’era
ancora qualcosa, che il nostro amore non era finito, e decisi di fare un
ultimo tentativo. E infatti, tuo padre non mi deluse. Compì un gesto che mi
colpì al punto da mandare all’aria tutti i piani che avevo fatto.»
La vedo stringere più forte la mano di mio padre. Lui resta impassibile,
ma tiene le spalle un po’ curve, come se fosse sfinito.
«Che cosa fece?» Sono curiosa di conoscere questo gesto.
«Lui... mi disse di tenere il bambino. Che l’avrebbe considerato suo e
l’avrebbe cresciuto con tutto l’amore di un vero padre. E che saremmo
diventati di nuovo una famiglia. Tutti e tre.»
Resto di sasso, incredula, e rischio di rovesciare il vassoio con le tazze.
«L’hai deciso tu, papà? E perché? Io pensavo che...»
«Che me l’avesse imposto tua madre come condizione per non
lasciarmi?» mi chiede lui, rivolgendomi la parola per la prima volta.
Appoggio il vassoio sul tavolo e distribuisco le tazze di fronte a ciascun
posto, per prendere tempo.
«Be’... sì» ammetto.
Mio padre mi guarda con tenerezza e un’ombra di rassegnazione. «No,
Viola. È stata una mia scelta. Anzi, sono stato io a pregare tua madre di
tenerti con noi.»
Sono sempre più sconcertata. Il quadro sembra cambiare continuamente
forma sotto i miei occhi. Mi siedo e prendo fra le mani la mia tazza.
«Ma... perché? In fondo, io sono il frutto di un tradimento, dovresti
odiarmi, detestarmi perché te lo ricordo ogni giorno della tua vita...»
«Odiarti?» esclama mio padre, perdendo per un attimo il suo aplomb. Mi
guarda negli occhi e scuote la testa. «Tesoro mio... tu sei stata il regalo più
bello che abbia mai ricevuto dalla vita. Io non posso avere figli miei, l’ho
sempre saputo, ma li avrei voluti. E quando Giulia mi ha detto che saresti
arrivata tu... è stato come vedere avverarsi un desiderio. Sarei diventato
padre. Non ti avrei ceduta a nessuno, per niente al mondo. Ti ho amata dal
primo giorno, Viola, da quando ti ho tenuta in braccio per la prima volta e...
ho continuato ad amarti sempre... anche se...» La sua voce si incrina per la
commozione, e lui si chiude nel silenzio.
Le sue parole si imprimono nella mia mente a poco a poco e davanti ai
miei occhi cominciano a sfilare immagini remote. Io sulla bicicletta senza le
rotelle e mio padre che mi spinge e corre accanto a me finché non riesco a
rimanere in equilibrio. Io che mi addormento puntualmente in macchina, la
sera al ritorno da qualche uscita, e mio padre che mi prende in braccio per
non svegliarmi, anche quando ormai il mio peso doveva essergli gravoso. Io
che corro a perdifiato giù per la discesa della scuola e lui che apre le braccia
per prendermi e tirarmi su al volo. I Baci Perugina trovati sul tavolo ogni
San Valentino, finché da adolescente non cominciai a protestare che era una
cosa sciocca. Quanto dispiacere deve aver provato, allora.
«Ma se è così... perché... perché siamo arrivati a questo punto? Quando
abbiamo cominciato ad allontanarci?» chiedo, ricacciando indietro il nodo
che sento in gola.
Mio padre abbassa lo sguardo sulle sue mani e non risponde subito. Non
l’ho mai visto così incerto. «Io credo di doverti delle scuse, Viola.»
«Cosa? E perché mai?»
«Perché tutto questo è accaduto per colpa mia, della mia paura» dice
lentamente. «Della mia paura di perderti.» Mi guarda, e adesso i suoi occhi
sono lucidi. «Vedi...» si schiarisce la gola. «Io non ho potuto darti la vita,
Viola, e questa per me è stata una costante spina nel fianco. Temevo che un
giorno arrivasse il tuo padre naturale e ti portasse via, che tu lo preferissi a
me, soltanto per i geni che avevate in comune. Ecco perché mi sono
intestardito tanto con la storia dell’università. Volevo che, crescendo, mi
somigliassi. Volevo trasmetterti qualcosa di me che ti rimanesse dentro per
sempre.»
«Ma, papà... perché non me l’hai mai detto?»
Nei suoi occhi scende un’ombra di tristezza. «Perché è difficile dire certe
cose a una figlia che cresce, soprattutto quando ti accorgi che gli anni la
stanno trasformando in qualcosa di inaspettato. Diverso da quello che avevi
sperato.»
«Allora è per questo. È perché ti ho deluso che hai smesso di volermi
bene.» Mi trema la voce e i miei sforzi per non piangere si stanno rivelando
vani.
«Viola io non ho mai smesso di volerti bene, mettitelo bene in testa! È
solo che, a un certo punto... ho avuto quasi paura di te.»
«Paura...»
«Sì, mi rendevo conto che... nonostante tutto, tu... non mi somigliavi.»
Mi guarda, e nei suoi occhi leggo una profonda tristezza. «Eri migliore di
me... così sensibile, anticonformista, tenace nelle tue scelte... così... bella. E
ho temuto che fosse merito di... Philippe. Non mio. Ho temuto di perdere il
tuo amore che fino a poco prima era appartenuto esclusivamente a me. E
quando hai deciso di andare in Francia, proprio a Parigi, io... sono diventato
geloso. Perché a Parigi c’era lui. Solo che non sono riuscito a fare altro che
irrigidirmi. Io non sono un tipo comunicativo, Viola. Non come te. E ti ho
dimostrato quello che provavo nel modo sbagliato. Allontanandoti da me.»
Sono senza parole. Mai, mai nella mia vita avrei pensato che mio padre
potesse sentirsi così insicuro, così minacciato. Guardo mia madre, che è
rimasta silenziosa per tutto il tempo, la mano in quella di mio padre. «E
tu?» le chiedo. «Perché non hai fatto niente? Perché mi hai lasciata
andare?»
«Perché di voi due eri tu la più forte, Viola. Tuo padre aveva bisogno di
me, non potevo schierarmi o spiegarti senza essere costretta a raccontarti
tutto. E... perdonami, tesoro, ma non sono mai riuscita a trovare il coraggio
di farlo. Ho sempre rimandato a un momento migliore, ma poi sembrava
che questo momento non arrivasse mai. E poi le cose hanno preso il loro
corso, la situazione si è deteriorata, abbiamo costruito muri tali che per me
sono diventati ostacoli insuperabili.» Mi rivolge un sorriso triste. «Sono
stata debole, tesoro, mi dispiace. E ti chiedo di perdonarmi. Io... anzi, noi...
non siamo stati capaci di starti vicino, ma non abbiamo mai smesso di
amarti e oggi, be’... oggi siamo venuti qui per dimostrartelo e per dirti che
ci dispiace. Ci dispiace se ti abbiamo fatta sentire abbandonata, soprattutto
dopo la morte di Michel, quando avresti avuto più bisogno di noi. Puoi
perdonarci? Possiamo ricominciare da qui?» Il suo sguardo è una preghiera
talmente struggente che non resisto più. Mi alzo dalla sedia e corro ad
abbracciarla, ad abbracciarli tutti e due. Basta parlare, spiegarsi, pentirsi e
chiedere scusa. Adesso siamo qui, insieme, e questo basta. Questo è tutto. È
ogni cosa.
Le strade di Montmartre sono meno affollate, adesso. L’arrivo del freddo
ha diradato parecchio le invasioni turistiche di massa e la città tornerà ad
appartenere a se stessa almeno fino a Natale. Noi tre camminiamo
lentamente, schierati in riga, io al centro. Ho detto loro che li avrei
accompagnati in albergo, per stare ancora un po’ insieme.
«Rimanete per qualche giorno, vero?»
«Dobbiamo ripartire mercoledì, purtroppo ho delle visite che non posso
rimandare» mi dice mio padre, dispiaciuto.
«Oh, be’, ma oggi è soltanto sabato, abbiamo ancora... tre giorni interi!»
gli rispondo. «E poi... non saranno di certo gli ultimi.»
Ora che ci siamo rivisti, che i muri sono crollati e siamo riusciti
finalmente a guardarci in viso e vederci, ognuno per quello che è
veramente, la strada che abbiamo davanti mi sembra tutta in discesa. Niente
più silenzi, rancori o incomprensioni. Siamo quelli che siamo, con i nostri
errori e le nostre debolezze, liberi di accettarci reciprocamente.
Mia madre rallenta il passo e mi prende sottobraccio, poi si ferma.
«Tesoro... pensi di vedere Philippe?»
Mentre eravamo nello studio ho detto loro del concerto. Guardo mio
padre e lo vedo incupirsi. Credo che il nome di quell’uomo gli provochi
sempre e comunque un dolore, anche a distanza di tanti anni.
«Non lo so, mamma. Manca ancora più di un mese al concerto, ma... non
sono sicura di voler parlare con lui. In fondo non lo conosco affatto, è un
perfetto estraneo che a un certo punto è piombato nella mia vita così, dal
niente, e ha sconvolto tutto e tutti, senza ritegno. Più che parlargli avrei
voglia di prenderlo a schiaffi.»
«Capisco quello che provi, Viola, ma lui è comunque tuo...» risponde lei,
ma non la lascio finire.
«No, mamma, non è mio padre. Biologicamente sì, ma le cellule contano
poco. E non è una frase di circostanza, papà» dico a mio padre. «Non voglio
tirare fuori le solite storie del genitore che è tale perché ti accompagna a
scuola e ti prepara la colazione. Sì, certo, io ho avuto tutto questo. Ma nel
nostro rapporto ci sono stati anche tanti scontri, liti, discussioni, silenzi e
rancori. Non è stato un legame facile, per nessuno di noi due. Eppure siamo
ancora qui, insieme, e abbiamo voglia di continuare a stare insieme, anche
se ci scontreremo ancora. Perché ci amiamo, ecco qual è il punto. Niente di
più e niente di meno. Mentre Philippe...»
«Io invece credo che dovresti andarci.» È mio padre a interrompermi e la
sua frase mi sorprende non poco.
«Ma come?»
«Sì, Viola, credo che sia giusto. Non certo per lui, intendiamoci, ma per
te. Tu dici che le cellule non contano, ma è vero fino a un certo punto. Io ti
ho aiutata a crescere, ti ho dato dei valori, una cultura, dei modelli. Ma la
tua indole profonda, e lo dico con un certo dispiacere, non dipende da me.
Se vuoi avere una conoscenza vera di te stessa, dovrai imparare a conoscere
anche lui. Fa parte delle tue radici, Viola. E le radici sono importanti, sono
loro che ci spingono verso l’alto.»
Lo guardo e mi viene da sorridere per queste parole ormai così familiari.
In fondo lui e Michel non sono poi tanto diversi. «Okay, papà. Ci penserò
su.»
Infilo il braccio sotto quello di mio padre e riprendiamo a camminare.
«Mamma?»
«Sì?»
«Chi di voi ha scelto il mio nome?»
Entro nel negozio e Gisèle mi viene incontro, gli occhi pieni di ansia.
«Allora? Com’è andata? Ho visto che siete rimasti chiusi nello studio per un
sacco di tempo, ma quando siete andati via non ho avuto il coraggio di
avvicinarmi, sembravate tutti molto presi...»
«È andata... bene. Se non altro adesso è tutto sul tavolo, non ci sono più
segreti. Possiamo guardarci negli occhi e parlare senza paure. Certo, non
sarà una passeggiata, dopo tutto quello che è successo, ma credo che il
nostro rapporto ne uscirà più solido. Soprattutto quello con mio padre.»
Giro dietro al bancone e mi siedo mentre ripenso alle sue parole.
«A che pensi?»
«Mio padre ha detto che dovrei andare al concerto di Philippe e iniziare a
conoscerlo... Ha parlato anche lui dell’importanza delle radici...»
«Credo che abbia ragione» ribatte Gisèle. «Che tu lo voglia o no,
Philippe è una parte di te e non è negandola che la farai scomparire. Non ti
dico che debba fartelo piacere a tutti i costi, ma conoscendo lui potresti
scoprire qualcosa di più su te stessa. Non è poco.»
«Uhm, forse.» Taglio corto perché non ho più voglia di sviscerare
l’argomento. Poi mi torna in mente la questione che quella mattina, prima
dell’arrivo a sorpresa dei miei, avrei voluto affrontare con Gisèle. «Senti
Gisèle, dovrei parlarti di una cosa a cui penso ormai da un po’ di tempo.»
«Caspita che tono solenne, è una cosa grave?» scherza lei, sedendosi
accanto a me.
«No, niente di grave, però... non vorrei che lo prendessi come uno
sgarbo, perché non c’è niente di personale, te lo assicuro, è che sono io
che...» Mi interrompo e faccio un respiro, maledicendo in silenzio la mia
goffaggine. Gisèle mi osserva perplessa, con un sopracciglio inarcato, in
attesa di capire dove il mio preambolo stentato andrà a parare. «Okay.
Vorrei cercare un appartamento per conto mio.» Oh, l’ho detto.
Lei aspetta un istante prima di rispondere e io penso di averla ferita.
«Be’, cara, finalmente. Credevo che non ti saresti mai più staccata dal mio
fianco.» Mi sorride.
Decisamente non l’ho ferita. «Quindi per te va bene?»
«Ma sì, tesoro! Credevi forse che ti avrei voluta incollata per sempre a
me a farmi da bastone? No di certo! Anzi, sono felice di questa decisione.
Hai sempre detto che il tuo più grande desiderio era imparare a stare sulle
tue gambe, ripartire e ricostruire, e fino a un certo punto ci sei riuscita. Hai
lavorato sodo, ti sei trasformata in un’imprenditrice e hai avuto successo.
Ma in fondo, in tutto questo tempo, mi è sempre parso che in un certo senso
tu contassi sulla rete di sicurezza offerta da me e dalla mia casa. E non parlo
solo di pareti e stanze, bada bene, parlo di affetti. Per un po’, quando è
arrivato Romain, ho pensato che te ne saresti andata con lui e ti confesso
che l’idea non mi sorrideva... Non fraintendermi» mi dice prima che io
possa replicare, «so che tu l’avresti voluto, ma che ne sarebbe stato, allora,
del tuo cammino di crescita, della tua ricerca di indipendenza? Le belle
parole e i buoni propositi sono necessari per focalizzare degli obiettivi, ma
se non li traduciamo in azioni, rimarranno sempre e soltanto parole e
propositi. Devi cominciare a chiudere qualche porta, Viola. Hai già
compiuto un grande passo con Michel, ora ti si presenta l’occasione di farlo
con i tuoi genitori, tutti i tuoi genitori. Ma non potrai riuscirvi se prima non
riconoscerai a te stessa la tua individualità. E andare a stare in una casa tua
mi sembra un gradino imprescindibile.»
Vivo accanto a lei da mesi, siamo state gomito a gomito per anni, eppure
ci sono momenti in cui la profondità della saggezza della mia amica ancora
mi sorprende. Io volevo soltanto chiederle se le sarebbe dispiaciuto
rimanere sola e mi sono ritrovata a ricevere una lezione di vita preziosa
quanto colei che me la impartisce.
«Arriverà un giorno in cui smetterò di dirti grazie?»
«Oh, certo, cara. Arriverà anche molto presto, dipende soltanto da te. E a
questo proposito, che cosa pensi di fare con tuo pa... con Philippe? Andrai
al suo concerto?»
«Non lo so, Gisèle, davvero. Manca ancora tanto, devo rifletterci. Il
tempo porterà consiglio.»
«Come vuoi, ricordati però che il tempo scorre in fretta.»
La porta del negozio che si apre mi fa girare lo sguardo. Stavolta non
provo nemmeno a illudermi. Infatti entra un ragazzo con la divisa da pony
express e un pacchetto in mano. Lancio un’occhiata a Gisèle, e le strizzo
l’occhio aspettandomi la frase che seguirà.
«Buongiorno, ho una consegna per la signora... Viola Consalvi.»
«Cosa???» esclamo, colta alla sprovvista.
Gisèle scoppia a ridere e il ragazzo ci guarda come se fossimo uscite dal
manicomio.
«Ehm, sono io, grazie.»
«Una firma qui. Ecco a lei, arrivederci.»
«Finalmente si sono invertite le parti! Chi è il tuo ammiratore?»
Osservo il pacchetto avvolto in carta azzurra. Spero solo che non sia
qualcosa di imbarazzante. Lo scarto e apro la scatola. Dentro c’è una
bellissima rosa di carta bianca, tanto delicata da sembrare vera. La prendo
con cautela, attaccato al gambo c’è un biglietto.
Non so disegnare. Ma se vorrai ascoltare una nuova storia:
19 dicembre, ore 19.00 – 37, rue de la Buchêrie.
R.
8
Il biglietto di Romain è diventato quasi illeggibile. Le parole sono
sbiadite e la carta spiegazzata dai troppi maneggii, eppure non ho avuto il
coraggio di buttarlo via. È sempre qui nella mia borsa, ormai da un mese, a
fare compagnia ai biglietti ancora più consunti per il concerto di Philippe.
Non riesco a liberarmi di nessuno dei due, mi seguono ossessivamente,
perenni promemoria di un giorno che vorrei non arrivasse mai. Eppure non
posso fare a meno di toccarli entrambi, di tanto in tanto, per accertarmi che
ci siano ancora, che io abbia ancora la possibilità di dire “sì” o “no”.
Guardo l’orologio con impazienza. Ho detto a Yvette che l’avrei chiamata
non appena atterrata a Fiumicino per risparmiarle l’attesa del ritiro bagagli,
ma la cosa si sta trascinando per le lunghe, come sempre. Quando il nastro
trasportatore fa comparire come per magia la mia valigia, però, mi coglie
un’ispirazione improvvisa. Prendo il cellulare, chiamo Yvette e la libero
dall’impegno dicendole che ci vedremo con calma nei prossimi giorni. Poi
compongo un altro numero.
«Pronto?»
«Papà? Ciao, sono a Fiumicino. Pensi che potresti venire a prendermi?»
Roma risplende come se fosse nuova di zecca. La luce riflessa sui vetri
delle finestre, sulle carrozzerie delle macchine, sui palazzi di cristallo
manda bagliori improvvisi e accecanti. È una di quelle nostre meravigliose,
uniche, mattine di inizio dicembre in cui il sole sembra aver sbagliato
stagione e brilla con forza estiva in un cielo troppo azzurro senza traccia di
bianco. Soltanto l’aria, una tramontana tagliente e impietosa, mi ricorda
brutalmente che è tutta una messinscena. Il gelo non impedisce però alla
gente di riversarsi nelle strade e il traffico già congestionato ci costringe a
un’andatura a singhiozzo. C’è stato un tempo in cui avrei provato un senso
di claustrofobia nel ritrovarmi costretta dentro una macchina, incastrata
nelle vie di una città che sembrava mostrare i denti a ogni angolo e nella
quale non riuscivo a camminare senza che il peso dei ricordi mi aggredisse.
Allora, di Roma, non vedevo altro che il lato cupo e ostile, le brutture, la
sporcizia, l’incuria. La città sembrava amplificare le cicatrici e l’oscurità del
mio mondo interno, io mi ostinavo a tenere lo sguardo fisso verso il basso e
non mi accorgevo dei tesori che aspettavano soltanto che trovassi la forza di
sollevare gli occhi. Ma adesso, mentre percorriamo a passo d’uomo le
strade del quartiere dove sono nata e cresciuta, riesco a vederne tutta la
bellezza, un po’ sciupata certo, ma ugualmente magnetica anche sotto gli
intonaci scrostati e le radici degli alberi che spuntano dai marciapiedi.
Perché mi basta alzare lo sguardo per scorgere una fontana circondata da
rane pronte a saltare, o un arco da cui pende uno strabiliante lampadario in
ferro battuto, o le vetrine dei negozi che annunciano con luci e festoni
l’arrivo imminente del Natale. E questo viaggio prende il sapore di un
ritorno, un ritorno alle mie origini, alla mia casa, al luogo che, volente o
nolente, resterà per sempre radicato nel mio cuore.
Ora che il mio animo è più leggero e gli occhi trasparenti e nuovi.
Mio padre guarda la strada davanti a sé e non parla. Gli ho chiesto di
portarmi a casa mia e forse c’è rimasto un po’ male, avrebbe preferito che
tornassi da loro. Ma il suo profilo, dove l’ombra di un sorriso fisso tiene
sollevato l’angolo della bocca e increspa leggermente la pelle intorno
all’occhio, tradisce il piacere che prova nello stare seduto accanto a me.
L’ho chiamato d’impulso, senza fermarmi a riflettere che c’era una
possibilità su un milione che in quel momento lui fosse a casa, con le mani
in mano e disposto a venire a prendermi così su due piedi. Eppure non ha
esitato un attimo. Qualunque cosa stesse facendo ha lasciato perdere tutto
ed è venuto da me, perché gliel’ho chiesto e avevo bisogno di lui. Ci siamo
salutati con un bacio veloce sul marciapiede, abbiamo scambiato
pochissime parole, poi lui ha messo la mia valigia in macchina e mi ha
aperto lo sportello. E ora siamo qui insieme, felici, ma ancora poco avvezzi
all’intimità e incapaci di sciogliere quel velo d’imbarazzo che proviamo
entrambi.
Alla fine è lui ad aprire un varco, dopo aver parcheggiato.
«Allora» si schiarisce la voce. «Come mai questa sorpresa? È successo
qualcosa o hai semplicemente deciso di venire a trovarci?»
Rifletto un istante prima di rispondere. Il discorso di Gisèle sul percorso
di crescita e la necessità di chiudere certe situazioni si era depositato nel
mio cervello e lì aveva cominciato lentamente a sedimentare finché, con il
passare dei giorni e l’avvicinarsi di una data che sentivo avrebbe
rappresentato un momento significativo per me, qualunque fosse stata la
mia scelta, non avevo deciso di agire e tornare a Roma per affittare la mia
casa. Era un passo definitivo che mi avrebbe permesso di chiudere davvero
con il passato e aprirmi un futuro più stabile grazie al denaro che ne avrei
ottenuto.
Dopo la rosa di carta, di Romain non ho saputo più nulla e ormai dal
nostro ultimo, terribile incontro sono passati più di due mesi. Io mi sono
chiusa nella mia sofferenza e delusione, intimando a chiunque di non
parlarmi di lui né di tentare di farci incontrare. Sono stata molto rigida,
certo, ma ai miei occhi il suo comportamento era apparso inaccettabile, e i
dubbi sulla sua onestà, che avevo cercato di tenere sopiti, si erano riaccesi
con violenza rendendomi impossibile giustificarlo o, tantomeno,
perdonarlo.
«Non ti offendi se ti dico “un po’ l’una e un po’ l’altra?”»
Lui mi guarda, poi con una leggera esitazione mi accarezza una guancia.
«L’importante è che tu sia qui. I perché e i percome contano poco.»
La tenerezza di quel gesto, appena maldestro per colpa di un innato
riserbo, mi commuove fino alle lacrime.
«Andiamo, ti aiuto a portare su i bagagli.»
Il proverbiale pragmatismo di mio padre mi salva da una scena patetica e
io gliene sono immensamente grata.
Apro la porta ed entro, stavolta con la sicurezza di tornare in una casa
non ostile, non più piena di dolore, ma soltanto di ricordi. Mio padre invece
rimane sulla soglia, come se fosse restio a oltrepassarla.
«Che succede? Non ti va di entrare?»
«No, no. È che... è passato così tanto tempo.»
«Dai, vieni, aiutami a tirare su le serrande.»
Una dopo l’altra le finestre lasciano entrare la luce del giorno. Non mi
sono ancora tolta il cappotto perché la casa è gelida, ma perfettamente in
ordine. La volta scorsa sono stata brava: ho inscatolato praticamente tutto e
allineato gli scatoloni lungo le pareti della sala. L’effetto è un po’ asettico,
ma accogliente. Mio padre si guarda intorno, impacciato come se non
sapesse bene che posto occupare.
«Se non ricordo male, l’ultima volta che sono stata qui ho comprato il
caffè. Non sarà freschissimo, ma almeno ci riscalderà un po’, che ne
pensi?»
«Mi sembra un’ottima idea.»
Andiamo in cucina, preparo la moka e la metto sul fornello.
«Hai ancora tutte le utenze?» chiede mio padre.
«Sì, non ho disdetto i RID. Così sarà anche più facile affittarla.»
«Ah. Quindi è questo il motivo per cui sei qui.»
«Una metà» rispondo sorridendo. «Ho deciso di farlo perché così non
dovrò pagare le spese di questa casa e magari mi resterà qualcosa da
mettere da parte. Ora come ora non potrei mai venderla, anche se so che
non ci abiterò mai più...»
«Immaginavo che la tua sarebbe stata una partenza definitiva» mormora
mio padre, una sfumatura triste nella voce.
«Sì, ma non è come pensi tu, papà, davvero. Non vederla come una fuga
perché non lo è. Ho trovato un punto fermo, un luogo dove finalmente mi
sento realizzata, come professionista e come persona. E poi lì c’è il negozio,
Gisèle e...» Mi fermo in tempo, perché il nome di Romain mi sale alle
labbra a tradimento.
«E Philippe?» conclude mio padre.
«Oh, no. Non pensavo a lui.»
«E a chi, allora?» Il tono è affettuso e sollecito, ma io non me la sento di
parlare.
«Niente, lascia stare. Oh, è pronto il caffè.» Faccio per prendere le
tazzine ma mio padre mi ferma mettendomi una mano sul braccio.
«Non tenermi fuori dalla tua vita, Viola, per favore. Mi dispiace, mi
dispiace di essere stato tanto ostile verso Michel, mi dispiace di non averti
capita, di averti lasciata sola e, te lo giuro Viola, darei la vita per poter
tornare indietro e comportarmi diversamente, ma non posso. L’unica cosa
che posso fare è stare con te adesso, da ora e per sempre fin quando avrai
bisogno di me. Ti prego, lasciamelo fare.»
L’emozione che ho trattenuto finora esplode dentro di me di fronte a
quelle parole tanto vibranti, pronunciate tutte d’un fiato che finalmente
squarciano quel velo che ci ha sempre impedito di comunicare davvero.
Senza più ombra d’imbarazzo, mi precipito fra le braccia di mio padre e
lascio che il pianto dia sfogo a tutta la mia amarezza.
«E così, stesso giorno e quasi stessa ora» dice lui dopo che gli ho
raccontato tutto di Romain, della rosa e dei biglietti che ancora si fanno
compagnia nella mia borsa. «Una scelta difficile.»
Siamo seduti in cucina, davanti al caffè intonso e ormai freddo.
«Già.»
«Uhm. Adesso io dovrei tirare fuori una frase molto saggia, oppure una
massima di quelle che i padri dei telefilm hanno sempre pronta in tasca e
risolvere tutti i tuoi dubbi, vero? Tesoro» mi dice, stringendomi la mano,
«purtroppo non ce l’ho anche perché se dovessi decidere io, li picchierei
entrambi. L’unica cosa che posso dirti è di guardare bene dentro il tuo
cuore. È la frase più trita che si possa pronunciare in materia d’amore, però
proprio perché è tanto banale è molto vera. Usa il tuo sguardo interiore, non
lasciarti fuorviare da ragionamenti, convenzioni o aspettative. Certe risposte
sono già dentro di noi, solo che spesso non le vediamo perché sono nascoste
sotto troppe sovrastrutture. L’istinto le conosce perché non c’è mediazione.
E tu devi seguire l’impulso che parte dalla pancia, non dal cervello. Una
volta che hai formulato un pensiero, hai perso l’occasione. L’attimo è
passato. Quindi, quando arriverà quel giorno, non pensare, non riflettere,
non fare congetture. Esci e imbocca la strada che ti indica il cuore. Sarà
sicuramente quella giusta.»
Lo guardo con tanto d’occhi, come se lo vedessi davvero per la prima
volta. Chi avrebbe mai pensato che mio padre possedesse questa sensibilità,
che fosse capace di parlarmi con tanta schiettezza? «Caspita. Non ti facevo
così romantico.»
«Ci sono molte cose che non sai di me, mia cara.» Poi si alza, prende la
mia valigia e si avvicina alla porta. «Adesso andiamo.»
«Dove?»
«A casa. Dài, Viola, non puoi rimanere qui a morire di freddo. La tua
camera è sempre pronta, potrai stare da noi in questi giorni, ti aiuteremo a
fare il trasloco. E poi ho detto a tua madre che eri qui e lei sicuramente avrà
messo in forno le lasagne.»
«Vuoi dirmi che ha imparato a cucinare?» chiedo, incredula, mentre
prendo le chiavi.
«Ma quando mai! Però quelle della rosticceria all’angolo sono una
cannonata...»
Il cuore ha deciso per me, come ha detto mio padre.
All’ultimo momento ho preso la metro da Abbesses in direzione
Concorde e ho cambiato con la linea 1. E adesso sono qui. Il locale è
affollato, malgrado sia piuttosto grande. Il soffitto a botte e i muri di
mattoni a vista fanno pensare a un’antica cantina vinicola. Le pareti sono
coperte da fotografie di musicisti, cantanti e performer di vario genere. In
fondo al locale, un piccolo palcoscenico ospita un pianoforte, un
contrabbasso e alcuni fiati. Mi faccio strada verso una delle prime file e
trovo miracolosamente un posto a sedere, mezzo nascosto da giacche e
borse. Mi siedo e aspetto. Nella mia borsa c’è ancora il secondo biglietto
spiegazzato che era destinato a Romain. Non ho avuto il coraggio di
buttarlo via. Sarei tanto voluta venire qui con lui, averlo accanto mi avrebbe
dato sicurezza. Apro la borsa e sbircio l’altro biglietto, quello che è arrivato
con la rosa di carta. Quello che mi chiede un appuntamento con lui al quale
non andrò. Che storia mi racconterebbe? Quella di lui e della donna bionda?
Non ho voglia di sentire altre parole che mi farebbero del male. In sala si
accendono le mezze luci e alcune ragazze passano a distribuire il
programma musicale. Prendo il cartoncino ripiegato, lo apro e mentre lo
leggo la sorpresa mi fa trasalire.
CONCERT POUR MA FILLE EN TROIS MOUVEMENTS
1- LA FILLE INCONNUE (PIANO – SAX – CONTREBASSE)
2- LA FILLE RETROUVÉE (PIANO – TROMPETTE –
CONTREBASSE)
3 - VIOLA (PIANO SOLO)
Non sapeva nemmeno se sarei venuta o se mi avrebbe vista, eppure tutta
la sua musica è dedicata a me. Le luci si abbassano ed entrano i musicisti.
Philippe si siede al piano e dà inizio al concerto.
Anche le note musicali raccontano storie. Certo, non sono storie che
hanno un inizio, una fine o un intreccio. Non ci sono personaggi o
descrizioni, ma le loro sonorità, i ritmi e gli accordi parlano di sensazioni,
emozioni, sentimenti e impressioni che toccano le corde più intime di chi
ascolta. E parlano al suo cuore. La musica di Philippe parla di nostalgia e
rimpianto, assenza e distacco, di un amore profondo vissuto con
trepidazione. Almeno è quello che io leggo nei suoi fraseggi, soprattutto in
quelli dell’assolo di pianoforte che mi commuove fino alle lacrime. Quando
l’eco dell’ultima nota svanisce nel silenzio, la sala diventa buia e dopo un
istante si riaccendono le luci per l’omaggio agli artisti. Philippe fa un passo
avanti per ricevere gli applausi e intanto i suoi occhi frugano ansiosi la
platea. Sta cercando me, ne sono certa, e quando mi vede il suo viso si
illumina. Scende dal palco e, mentre stringe mani a destra e a manca, viene
verso di me.
«Ciao, sono felice di vederti.» Capisco che vorrebbe abbracciarmi, ma si
trattiene. Gli porgo la mano che lui stringe subito fra le sue. «Vieni,
andiamo a bere qualcosa al bar, è un po’ più tranquillo.»
Ci spostiamo in un’altra sala, meno affollata, ci sediamo a un tavolo e
Philippe ordina due bicchieri di champagne.
«Sono felice di vederti» ripete. «Non pensavo che saresti venuta. Non
dopo il nostro incontro... come dire, burrascoso per il quale ti chiedo scusa
ancora una volta.»
«Oh... be’, non c’è bisogno che ti scusi...»
«Ma non preoccuparti, ci ha pensato tua madre a farmi pelo e
contropelo... Me ne ha dette talmente tante...»
Sorrido al pensiero di quello che deve esserle uscito dalla bocca. Mia
madre è una persona educata e contegnosa, ma se le sale il sangue al
cervello diventa una furia scatenata.
Cade il silenzio e mentre aspettiamo lo champagne ci studiamo a vicenda,
probabilmente entrambi cerchiamo nel viso dell’altro qualcosa di familiare.
Il mento, per esempio, o la linea della fronte, il taglio della bocca. Ma più di
tutto c’è una cosa che voglio chiedere a Philippe, una cosa a cui penso dal
momento in cui mia madre mi ha raccontato tutta la storia.
«Posso farti una domanda?»
«Tutte quelle che vuoi.»
«Perché non hai chiesto a mia madre di potermi tenere con te, che so,
almeno per le vacanze. La legge te l’avrebbe consentito.»
L’arrivo dello champagne gli concede qualche istante prima di
rispondere.
«Lo so, ma... quando ho conosciuto Francesco, tuo padre...»
«Hai conosciuto mio padre?» gli chiedo, sbalordita.
«Sì, certo. Dovevo affidargli mia figlia, volevo sapere che tipo di uomo
fosse. Comunque, quando l’ho conosciuto ho capito che con lui saresti stata
al sicuro. È una persona seria e responsabile, forse un po’ troppo rigido, ma
generoso, e poi desiderava così tanto un figlio che non ho avuto dubbi sul
fatto che ti avrebbe amata come se fossi stata sua.»
«Ma allora tu non...»
«Non ti ho abbandonata, se è questo che vuoi dire. Ho fatto la scelta
migliore per te e per il tuo futuro. Certo, poi me ne sono pentito mille volte,
ma sapevo che stavi bene e questo mi bastava.»
«E mia madre? Ti sei pentito di averla lasciata andare?»
«Penso a lei ogni giorno della mia vita. Anche adesso. Giulia è stata il
mio unico vero amore, ecco perché ho scelto di non vederla più. Perché
sapevo che non avrei mai potuto averla. Ci scriviamo, da buoni amici.» Fa
una pausa e mi guarda con curiosità. «E tu hai una persona speciale, adesso,
nella tua vita?»
«L’ho avuta, fino a poco tempo fa. Ma... ci sono state delle
incomprensioni e... non è andata.»
«E tu ci sei rimasta molto male, vero?»
«È così evidente?»
«Si vede dai tuoi occhi. Sono tristi. Ma se posso darti un consiglio, cerca
di capire se l’incomprensione è stata davvero tanto grave. Io mi sono
chiesto mille volte cosa sarebbe accaduto se invece di andarmene avessi
insistito. Forse Giulia non mi avrebbe seguito lo stesso, ma almeno adesso
vivrei senza rimpianti. L’amore è qualcosa di prezioso e raro, quando lo
incontri devi fare di tutto per non fartelo sfuggire. Anche se questo significa
perdonare l’imperdonabile. Segui il cuore, Viola, non le regole o i principi.
L’amore e la passione non ne hanno. Sono anarchici.»
Segui il cuore.
Prendo un sorso di champagne e do un’occhiata all’orologio: sono le sette
e mezzo. Non è tardissimo, ma non so nemmeno in che razza di posto lui mi
stia aspettando.
Se mi sta ancora aspettando.
Guardo il viso di Philippe e i suoi occhi attenti. Devo dire che entrambi i
miei padri, per quanto diversi, se la cavano egregiamente con i consigli.
«Philippe, sai dov’è rue de la Bûcherie?»
9
In un lampo sono fuori dal locale. Rue de la Bûcherie è sull’altra riva
della Senna, per arrivarci devo attraversare l’île de la Cité davanti a Notre-
Dame e poi, subito dopo il ponte, prendere a destra.
Per fortuna ho gli stivali bassi.
L’aria gelida mi artiglia il viso, ma la ignoro. Prendo un bel respiro e
spicco la corsa. Mi precipito su rue de Rivoli e poi giù, verso il Ponte
d’Arcole. Schivo i passanti che mi guardano inviperiti, evito le buche e le
biciclette, non rispetto i semafori pedonali rischiando di farmi ammazzare,
ma non m’importa di niente. Il mio unico pensiero è arrivare in tempo.
Dio, fa che mi aspetti!
Corro finché il dolore alla milza non mi piega in due e i polmoni
implorano pietà. Ma li ignoro, così come ignoro le vesciche che mi stanno
martoriando i piedi. Quando ormai sono al limite della resistenza, intravedo
finalmente il Pont au Double. Lo attraverso a tutta velocità e arrivo in rue
de la Bûcherie. Mi fermo un attimo a riprendere fiato e mi appoggio con la
schiena al muro di un palazzo. Nonostante il freddo ho il viso sudato, il
cappotto di traverso e il cuore che mi batte all’impazzata. Non mi serve uno
specchio per sapere che ho l’aspetto di una scampata a un cataclisma. Non
so quanto sia saggio farmi vedere da Romain in queste condizioni, ma
ormai ci sono e non posso tirarmi indietro. Guardo l’ora, sono le otto.
Inizio a percorrere la strada scorrendo i numeri civici finché non arrivo
davanti al 37.
E mi fermo a guardare la porta mentre nella mia testa sbocciano le
domande più assurde. Sono di fronte all’ingresso di una libreria. E non una
qualsiasi.
Shakespeare and Company
Tiro fuori il biglietto per essere sicura di non aver sbagliato indirizzo.
Non ho sbagliato, è proprio qui. Non so se in me prevale la perplessità o la
curiosità, comunque sia entro. L’interno è piccolo ma grazioso e mi ricorda
la casa di Romain, con le pareti rivestite di librerie alte fino al soffitto. Da
fuori sembrava affollata, ma ora mi accorgo che le persone, di cui vedo le
spalle, sono rivolte tutte verso un medesimo punto. Dentro il locale il caldo
è insopportabile, allento la sciarpa sul collo e apro il cappotto per cercare un
po’ di sollievo. Comincio a dare un’occhiata per vedere se in mezzo alla
gente c’è ancora Romain quando, all’improvviso, sento la sua voce che
arriva, attutita, da un punto imprecisato della sala, al di là della folla.
«... Me lo disse, ridendo con quell’espressione birichina che avevo
imparato a conoscere e io pensai che avrei voluto stringerla fra le braccia e
baciarla e che del resto mi importava ben poco...»
Seguo il suono delle sue parole e mi spingo un po’ più avanti mentre la
sua voce diventa sempre più chiara. Mi affaccio fra le persone assiepate in
piedi e do un’occhiata alla sala. Diverse file di sedie, tutte occupate,
guardano verso il fondo dove è stato allestito un tavolo accanto a un leggio
dotato di microfono. Con un tuffo al cuore vedo che seduta al tavolo c’è la
donna bionda che ho visto più volte insieme a Romain.
Ma in piedi dietro il leggio, c’è proprio lui, intento a leggere brani da un
libro.
Un’ondata di calore mi investe. Dopo tanto tempo, rivederlo così,
d’improvviso. Anche da lontano riesco a vedere i suoi occhi, le mani, quella
bocca... Ma forse è solo il ricordo, visto che i miei occhi sono velati di
lacrime. Mi fermo dietro l’ultima fila di sedie per riprendere il controllo e
cerco di dare un senso alla scena che ho davanti. Pensavo che il suo
biglietto significasse qualcosa di diverso, che l’allusione alla storia
riguardasse noi due, quello che ci eravamo detti, non una lettura pubblica.
Avanzo di qualche passo, facendomi strada in mezzo alle sedie. Mentre
cammino, vedo di sfuggita che molti hanno in mano lo stesso libro e quando
riesco a scorgerne la copertina, rimango di sasso per la sorpresa.
Romain Legrange, Un amour d’Italie
Ha scritto un romanzo. Nella mia testa cominciano a comporsi i
frammenti del mosaico. Le sue sparizioni improvvise. Le sue piccole bugie.
Tutte le allusioni all’obiettivo che aveva nella vita...
Sì, ma perché non me l’ha mai detto?
Nel frattempo la lettura prosegue.
Mi avvicino ancora. Ormai sono a pochi passi da lui, ho il cuore che batte
talmente forte che temo possano sentirlo anche gli altri. Lo osservo, preso
dalla lettura, le mani appoggiate ai lati del leggio, una gamba leggermente
piegata e il peso che poggia sull’altra.
«... Fu come se il mondo intero scomparisse lasciando soltanto noi due,
uno di fronte all’altra. Mi guardò con quei suoi occhi neri, grandi e lucenti e
fu in quel momento che mi resi conto di amarla e che per lei avrei dato la
mia vita.»
In quel preciso istante, Romain alza gli occhi dal libro e incontra i miei.
Ci guardiamo per un secondo o due. Un lampo di sorpresa, lui mi fissa, con
una luce strana negli occhi, e io resto paralizzata al mio posto. Folgorata
dalle parole che ho appena sentito.
Quello che accade subito dopo è come un film proiettato sullo sfondo. Un
applauso, la donna bionda che abbraccia Romain, la gente che si alza e va
verso di lui con i libri in mano, lui che stringe mani e firma dediche, mi
guarda e mi chiede silenziosamente di aspettare...
Mentre tutti si muovono, io resto ferma per cercare di riportare la calma
dentro di me. Mi sento come se avessi le sinapsi in corto circuito e il
risultato è una vera e propria paralisi motoria e mentale. Romain continua a
essere circondato da persone che adesso comincio a riconoscere: Raja, Ari,
molti clienti abituali dell’Hairy Biker... Ma soprattutto la bionda che lo tiene
sottobraccio con un fare possessivo che mi fa salire il sangue alla testa. Non
resisto più dentro questa libreria, mi sento soffocare. Giro i tacchi e
raggiungo più in fretta possibile l’uscita facendomi largo fra la gente.
Passando davanti alla cassa vedo una pila di romanzi con il suo nome sopra.
Ne prendo uno, pago ed esco senza più voltarmi indietro.
Perché mi ha fatto venire fin qui, se poi non ha tempo per venire da me?
Perché mi ha mentito su tutta la sua vita? E soprattutto perché io non ho
dato retta a quello che i suoi occhi mi avevano rivelato con tanta evidenza,
accidenti a me? Le domande continuano a girarmi nella testa come un disco
rotto. Non è stato come l’avevo immaginato, o meglio, sperato. Non c’è
stato nessun incontro commovente, nessun abbraccio, niente di niente. Ma è
tutta colpa mia, non dovevo mettermi in testa certe idee.
Cammino a casaccio, come sempre quando sono nervosa, imbocco strade
e traverse senza guardare, cercando conforto nella fatica, aspettando che il
cervello si snebbi e i dolori muscolari mi facciano riprendere contatto con la
realtà. Fa freddo, molto freddo, l’aria gelida sembra portare odore di neve,
non sarebbe insolito nel mese di dicembre. Quando il gelo comincia a
penetrare attraverso il cappotto e il maglione mi fermo e mi guardo intorno
per capire dove sono arrivata. La strada che riconosco mi strappa una
smorfia fra l’amaro e il divertito. Sono davanti a place de la Contrescarpe.
Quando si dice il destino beffardo. Uno sguardo all’orologio mi dice che
sono già le nove e mezza. Ho camminato moltissimo e all’improvviso mi
sento stanca. Mi infilo nel primo bistrot che trovo e ordino un cappuccino
bollente, almeno servirà a riscaldarmi un po’, poi deciderò cosa fare. Il
locale è affollato, normale di sabato sera. Soltanto adesso mi accorgo di
aver tenuto il libro stretto nella mano che, senza guanti, ha un inquietante
colore violaceo. Mentre sorbisco il caffellatte, comincio a sfogliarlo, ma
non riesco a soffermarmi sulle parole, c’è troppa confusione e io sono
ancora troppo agitata. Ho bisogno di quiete, di silenzio, di un luogo che mi
accolga. Alzo gli occhi dal libro, sorrido.
Perché non ci ho pensato subito?
La serranda sembra sollevarsi con un fracasso infernale nel silenzio
assoluto della notte. La fermo a metà lasciando solo lo spazio per arrivare
alla serratura e aprire la porta. Entro senza accendere le luci e spingo il
pulsante per riabbassare la grata, meglio mettersi al sicuro. Al buio
raggiungo il mio studio, entro e accendo la luce lasciando la porta aperta.
Mi libero di sciarpa e cappotto, prendo un plaid che tengo sempre qui per
comodità, e vado a sdraiarmi sul materassino del Reiki con il libro. Lo apro
con cautela e comincio a leggere. Dapprima con circospezione, quasi
temessi di trovare fra quelle pagine parole minacciose, immagini che
potrebbero ferirmi ma, a poco a poco, vedo dipanarsi davanti a me la storia
della caduta e della rinascita di un uomo. La storia di uno smarrimento, di
una ricerca del senso di una vita che sembrava aver perso i suoi riferimenti
fino al giorno fatidico di un incontro inaspettato.
Mentre leggo è come se le parole aprissero gradualmente un varco nel
buio della mia incomprensione. Vado avanti con avidità sempre crescente,
saltando le pagine, cercando fra quelle righe la prova che il mio intuito non
mi sta ingannando.
In un lampo ripenso alla rosa di carta e alla rosa della storia di cui è
chiaramente una riproduzione.
Soltanto io ne conosco il significato.
Sta raccontando la nostra storia.
E mille altre scene, mille altre parole non fanno altro che accrescere la
mia certezza. Divoro le pagine in cui vedo una me stessa che combina
disastri in cucina, che sorride, che gioca con l’acqua di una piscina, che
piange fra le braccia dell’uomo che ama e che... Scrive lettere d’amore.
Lettere prive di significato se non per la persona cui sono destinate.
... Una notte non basta. Anche perché quella cena sontuosa ha aspettato
invano di essere consumata. Ma ti darò la possibilità di riprovare. E
riprovare. E riprovare. Finché ne avremo voglia...
Oh mio dio.
Ho sbagliato tutto. Ho travisato ogni cosa. Mi sento travolgere da
un’ondata di vergogna e poi di disperazione. E se fuggendo, questa sera,
avessi perso l’ultima occasione per rimettere a posto le cose? No, non posso
pensare che...
Un rumore metallico mi fa sussultare. Viene da fuori, non c’è dubbio.
Un altro rumore, più forte stavolta.
Sento il gelo della paura scendermi nelle ossa, chiudo il libro e lo stringo
forte nella mano. Qualcuno deve aver visto la luce attraverso la grata. Mi
alzo, e con la mano libera prendo il cellulare e compongo il numero della
polizia pronta a chiamare, poi spengo la luce e in punta di piedi entro nel
negozio. Il lampione della strada illumina la sagoma scura di quello che è
chiaramente un uomo aggrappato alla grata che sta tentando di forzarla.
Panico, panico assoluto, armeggio con la mano sudata sul cellulare che
cade per terra con un tonfo.
«Ho chiamato la polizia, stanno arrivando! Vattene, vattene subito!» urlo
con tutto il fiato che ho in corpo, mentre stringo spasmodicamente il libro,
pronta a usarlo come arma contundente.
«Be’, richiamala e di’ che ti sei sbagliata. Ci mancherebbe soltanto che
mi facessi arrestare. Non ti sembra di averne combinate abbastanza, Italie?»
La voce è attutita dal vetro, ma l’ironia pungente che conosco bene è
inequivocabile.
È venuto a cercarmi. È arrivato fin qui per me, solo per me. Un
singhiozzo mi sfugge incontrollato e inizio a tremare.
«Allora? Ti decidi a farmi entrare o vuoi farmi morire assiderato qui
fuori?»
Mi precipito alla porta e premo il pulsante della serranda.
Il cuore sembra uscirmi dal petto mentre lui entra e si chiude la porta alle
spalle. Si ferma davanti a me e io sono talmente imbambolata che non
accendo nemmeno le luci. Rimaniamo a fissarci, una davanti all’altro, con
la luce fioca e giallastra del lampione che entra di sbieco e ci getta ombre
sul viso. Ma non mi serve altra luce per cogliere il bagliore di quegli occhi
verdi e penetranti, la curva sensuale delle labbra.
«Ciao.»
L’amore che provo per lui è talmente forte da farmi male.
«Ciao» rispondo con un filo di voce. «Come... come sei arrivato qui?»
«Ho girato mezza Parigi per correrti dietro» risponde lui burbero.
«Quando ti ho vista uscire ho pensato che andassi a casa e allora dopo la
presentazione ho chiamato Gisèle, ma lei ha detto che non c’eri e così ho
cominciato a camminare. Ho camminato per ore, poi sono venuto qui, non
so nemmeno io perché, chiamala intuizione se vuoi, ho visto la luce nel
negozio e... ho fatto due più due.» Poi vede il libro nella mia mano, lo
guarda per un istante e solleva gli occhi su di me. Vi leggo stupore, sollievo,
timore. Emozioni che si inseguono, si sovrappongono come in un
caleidoscopio, eppure esplicite più di qualsiasi spiegazione.
«Perché non me l’hai mai detto?»
Lui si avvicina e mi toglie il libro dalle mani. «Non potevo. Non sapevo
nemmeno io come sarebbe andata a finire. Volevo aspettare e capire. Da
quando ti ho conosciuta sei entrata nei miei pensieri come un’ossessione e...
ho avuto paura.»
«Di me?»
«Di quello che provavo quando mi eri vicina. E soprattutto quando eri
lontana.»
«Ma avresti potuto farmelo capire, avresti potuto almeno accennare a
qualcosa. E quando ho trovato quelle lettere, tu hai lasciato che io...»
«Ho lasciato che credessi ai tuoi pregiudizi e alle tue paure, sì.» Si
avvicina ancora, appoggia il libro su un ripiano e mi prende fra le braccia.
«Ho voluto farti toccare con mano che le apparenze ingannano, forse sono
stato un po’ duro, ma mi sembrava proprio che tu non riuscissi a vedermi
realmente per quello che sono» la sua voce è sempre più una carezza contro
il mio orecchio e io mi sto perdendo in lui... finché nella mia mente non
esplode un’immagine.
Mi scosto leggermente. «Ma quella donna bionda...»
«Martine Richard, la mia agente» sussurra stringendomi di più. «Proprio
non vuoi imparare la lezione, eh?»
Il collo mi diventa bollente. «Oh, ehm, io non sapevo...» farfuglio mentre
abbasso la testa sul suo petto per nascondere l’imbarazzo.
Lui mi mette una mano sotto il mento per costringermi ad alzare il viso.
«Guardami, Viola. Sono qui per te. Sono esattamente quello che vedi.» E
mentre io sento ogni paura svanire, con la voce più profonda e colma di
promesse che io abbia mai sentito mormora sulle mie labbra: «Guardami
negli occhi».
EPILOGO
Sei mesi dopo
Il negozio è completamente decorato da fiori e nastri bianchi. Ce ne sono
decine e decine. Intorno alla porta, sul bancone, lungo le severe scaffalature
di noce. Una piccola folla di amici e clienti affezionati ride e chiacchiera
distribuendosi fra il locale e il marciapiede antistante.
Io sono nello studio, davanti allo specchio montato per l’occasione,
impegnata negli ultimi preparativi. L’acconciatura è semplice, uno chignon
morbido, trattenuto sulla nuca da un’unica rosa bianca. Niente velo, ne
abbiamo parlato a lungo, c’è stata una vera e propria riunione di famiglia,
ma alla fine abbiamo deciso che, no, per un matrimonio in comune non
sarebbe stato adatto. Sbircio l’immagine riflessa e nascondo un sorriso. Il
vestito è il mio grande orgoglio. Il modello, un tubino semplicissimo, lungo
fino al ginocchio con scollatura dritta e bolerino, è un’idea di Gisèle che io
ho approvato senza riserve, ma il colore è tutta opera mia. Ho cercato
questa tonalità avorio per settimane, ho passato in rassegna chilometri di
sete, shantung, rasi, taffetà, pizzi e merletti, ma non riuscivo mai a trovare
quel particolare punto di bianco che avevo bene in mente e a cui non volevo
rinunciare. Ma proprio quando stavo per dichiararmi sconfitta ecco che,
come un intervento divino, è arrivata mia madre con il suo infallibile,
impeccabile senso del colore. È bastato che le dessi poche indicazioni –
avorio vero, eh mamma, non quel giallino stinto che ti rifilano dappertutto,
né quel bianco ingiallito a forza di invecchiare negli scaffali, ah e niente
lucentezze simil-plastica! – e voilà, direttamente da largo Argentina in
Roma è arrivata la stoffa dei miei sogni. E adesso, vedendo come si sposa
perfettamente con la tonalità rosata della pelle, facendola apparire ancora
più diafana, quasi mi commuovo e rischio di sbaffare il trucco prima del
tempo. Giro lo sguardo verso le finestre alte attraverso le quali uno
sfacciato sole estivo inonda lo studio.
Dall’altra parte della porta arriva, smorzato, l’allegro cicaleccio degli
invitati che attendono impazienti la grande uscita trionfale.
Guardo nello specchio e do il tocco finale alla pettinatura appuntando il
cappellino con veletta in cima alla testa, leggermente spostato verso destra.
«Perfetto» dico. «Non ti sembra?»
Gisèle, seduta davanti a me, incrocia il mio sguardo nello specchio con
due occhi limpidissimi, luminosi, proprio quelli che ci si aspetta di vedere
nel viso di una sposa. E mi sorride radiosa ed emozionata.
«Credo che sia un “sì”» risponde la voce di Mélusine, intenta ad
allacciare al collo della madre un bellissimo solitario, regalo del futuro
marito. «Non so se te ne sei accorta, ma la mamma ha completamente perso
l’uso della parola da quando è entrata nel vestito, circa due ore fa.»
«Oh, smetti di essere così impertinente e non approfittare del fatto che
non posso muovermi per paura di rovinare qualcosa» risponde Gisèle
ritrovando improvvisamente la favella. Poi sorride di nuovo. «Grazie,
ragazze. Avete fatto un lavoro magnifico.»
«Con una materia prima così, sarebbe stato difficile fare altrimenti» le
dico. «Sei un sogno, Gisèle.»
«Sì, mamma, sei un sogno» mormora Mélusine, abbracciando la madre
da dietro le spalle. I loro occhi, così simili, brillano di commozione. «Bene»
aggiunge subito dopo, con il consueto piglio dell’avvocata in carriera. «Il
programma è questo: tu, mamma, verrai in macchina con me e Florian.
Stéphane è già andato in comune e scommetto che starà friggendo per
l’impazienza... Tu, Viola, verrai subito dietro di noi. Gli altri, familiari e
amici, arriveranno per conto proprio. Una volta lì, aspetteremo che siano
entrati tutti e io e Florian ti accompagneremo. Tutto chiaro?»
«Chiarissimo, tesoro.»
«Perfetto. Allora io intanto vado di là in negozio a istruire gli altri»
aggiunge mentre apre la porta, «Viola, dai tu un’ultima occhiata alla
mamma prima di farla uscire? Ci vediamo fra cinque minuti.»
Cinque minuti sono niente. Non che ci siano da fare grandi discorsi, io e
Gisèle ci siamo dette tutto un mese fa, quando è venuta a trovarmi
nell’appartamento dove avevo traslocato da meno di una settimana, per
mostrarmi l’anello di fidanzamento che le aveva regalato Stéphane e
chiedermi di farle da testimone di nozze. Ma questi sono gli ultimi istanti di
un capitolo che si chiude, vorrei poterli immortalare con qualcosa di
memorabile. Mentre cerco le parole, Gisèle si alza, apre l’armadio a muro e
tira fuori un pacco rettangolare avvolto in carta bianca.
«Tesoro, vieni qui.» Mi avvicino e lei mi porge il pacco. «Non abbiamo
molto tempo, ma prima di andare ci tenevo a darti questo.»
Lo prendo, è piuttosto pesante. «Grazie, ma dovrei essere io a dare un
regalo a te.»
«Oh, non mi sono mai piaciute le convenzioni. E poi questo è un regalo
speciale. Sono sicura che tu lo capirai.»
Con un sorriso penso che la mia amica è riuscita a farmela sotto il naso
anche questa volta. Alla fine è stata lei a rendere memorabile questo
momento. Faccio per aprire il pacco, ma la testa di Mélusine che fa
capolino dalla porta mi interrompe.
«Cosa state aspettando? Avanti, dovete uscire, è tardi!»
Gisèle prende il suo bouquet. «Be’, cara, sembra che dovrai aspettare
ancora un po’ per vederlo. Sei pronta?»
Poso a malincuore il pacco sul tavolo e vado alla porta. «Sì. Andiamo.»
La precedo nel negozio, poi mi faccio da parte per farle fare il suo
ingresso. Un applauso accoglie la sua figuretta elegante, gli invitati fanno
circolo intorno a lei finché Mélusine non interviene per scortarla fuori, alla
macchina che l’attende.
In un attimo il negozio si svuota e io rimango sola. So che dovrei
affrettarmi, ho un compito importante da assolvere. Ma il pensiero del
regalo rimasto nello studio mi attira. Torno di corsa nel retro, afferro il
pacco e strappo la carta.
I miei occhi si spalancano per lo stupore. Fra le mie mani compare
l’erbario miniato che ho sempre ammirato nella vetrina del negozio e al
quale non ho mai osato avvicinarmi. Lo osservo con reverenza, toccandolo
delicatamente per timore di rovinarlo. L’orlo di una busta bianca spunta
fuori a metà del libro. Lo apro con cautela e vedo che sulla pagina segnata
campeggia la splendida illustrazione di una mandragora con tanto di radice
antropomorfa femminile. È un vero capolavoro dell’arte amanuense, ma
quando vado a leggere la didascalia sottostante, mi accorgo che il testo è
scritto in... tedesco. Non riesco a crederlo. Tutto questo tempo passato a
immaginare chissà quali segrete perle di saggezza racchiuse in quel libro
attendessero soltanto che io trovassi il momento giusto per fruirne, e mi
ritrovo con un libro da cui, a parte le figure, non potrò mai imparare niente.
Profondamente delusa, apro la busta e leggo il biglietto.
Mia cara Viola,
ho deciso di regalarti questo erbario sapendo quanto tu l’abbia sempre
ammirato e abbia segretamente desiderato sfogliarlo. È la copia tarda di un
manoscritto greco, databile intorno alla metà del Cinquecento. È un’opera
di grande valore, ma non è per questo che voglio darlo a te. Questo libro
racchiude in sé tutto l’immenso amore, il sacrificio, la dedizione di
generazioni di uomini e donne che hanno creduto nella difficile e misteriosa
arte medica dell’erboristeria. È il simbolo di una passione tramandata di
padre in figlio, di un sapere antico e raro. Immagino che ti sarai già accorta
che, ahimè, è scritto in tedesco. Ti sembra uno scherzo crudele, non è vero?
Ma io so che, anche senza poterne comprendere i segreti, coglierai
ugualmente il senso profondo di questo libro: perché il dono più grande è
quello di saper guardare oltre la superficie in ogni situazione, superando i
limiti, i pregiudizi, gli stereotipi, le paure. Il tuo percorso ti ha portata
lontano, forse più di quanto tu stessa immaginassi. Hai dimostrato di avere
un animo limpido, perché soltanto chi lo possiede è in grado di scrutare
davvero l’animo altrui, di capirlo e amarlo, senza timore di rispecchiarsi
negli occhi di un altro.
Custodisci e nutri questo tuo dono prezioso, Viola, è ciò che fa di te la
persona unica che sei e resterai per sempre. E non smettere di guardarti
dentro, prima di ogni altra cosa. Lì c’è già tutto ciò di cui hai bisogno per
essere felice.
Con amore,
Gisèle
Un sorriso ha sostituito la smorfia delusa sulle mie labbra. Ora il cerchio
è chiuso. Qui ho iniziato il mio cammino e qui lo concludo, compiendo
contemporaneamente il primo passo di un nuovo viaggio. Riavvolgo con
cura l’erbario nella carta e lo ripongo al sicuro nell’armadio. Faccio
un’ultima sosta davanti allo specchio per controllare il trucco e mi guardo
negli occhi. Sono lucenti, grandi, pieni di vita. Nerissimi, con sfumature
violette.
“Il tuo nome è scritto nei tuoi occhi” mi diceva Michel. Chissà che il mio
papà non abbia visto più in là di tutti gli altri, quando ha scelto di impormi
il nome del suo fiore preferito.
Esco dal negozio, chiudo la serranda e corro incontro a Romain,
elegantissimo nel suo abito grigio. Questa volta ha lasciato a casa il sidecar
e mi aspetta accanto a un taxi. Lo guardo e d’un tratto mi viene in mente
che – perché non ci ho pensato subito? – lui, filologo e ricercatore, potrà
essere la mia chiave d’accesso ai segreti dell’erbario.
«Possiamo andare?» mi chiede aprendomi lo sportello.
«Oh, sì» mormoro con un sorriso. «Adesso sì.»
RINGRAZIAMENTI
Il primo ringraziamento va alla mia famiglia, Walter e Miriam, Valerio e
Nadia, perché ci sono e perché mi amano e sostengono in tutto quello che
faccio.
Grazie alla mia agente e amica Laura Ceccacci, per essermi stata sempre
accanto con la sua granitica fiducia e il suo incrollabile ottimismo. Grazie
per avermi incoraggiata, soprattutto nei momenti di crisi. E ce ne sono stati
tanti...
Grazie a Caterina Venturini, amica indispensabile e scrittrice di talento,
semplicemente perché esiste e perché è nella mia vita.
Grazie a tutte le altre amiche e agli amici che hanno seguito con affetto la
lunga gestazione di questo romanzo: Manuela Di Giosa, Bruno Gagliardo,
Francesca Binanti, Danilo Parisini, Antonella Passaro, Alessandra Maffey,
Alessandra Rizza, Riccardo Carlone, Riccardo Flangini, Licia Solas,
Annamaria Colantuono, Carlotta Paratore, Marco Federici.
Grazie alla mia amica e bravissima naturopata Alessandra Meloni, c’è
molto di lei nella mia Viola.
Grazie al dottor Loreto Bizzarri, mio mentore per tutto quanto riguarda il
mondo dell’iridologia.
Grazie alla mia preziosa erborista, Manuela De Murtas, e al suo
splendido negozio di Via Bravetta, la bottega di Gisèle deve molto al suo
“Arancio Amaro”.
Grazie a Giulia Ichino, per il grande lavoro svolto, per la professionalità e
l’estrema grazia con cui mi ha sempre offerto i suoi suggerimenti.
Grazie a Carlo Carabba e allo staff della Mondadori.
Grazie a Adriano, per essere arrivato al momento giusto.
L’ultimo ringraziamento va alla persona senza la quale questo libro non
sarebbe mai stato nemmeno concepito. Alla persona che ha creduto in me
molto prima che lo facessi io stessa e che, a suo tempo, mi aiutò a capire
che c’era un intero romanzo dietro quella semplice idea che le descrissi in
una mail.
Giovanna De Angelis, ormai inscindibile parte del mio cuore.
Per l’iridologia, grazie a:
dottor Loreto Bizzarri, iridologo. Autore di: Trattato di iridologia delle
relazioni umane e dei sistemi familiari, Universitalia, 2011.
Sito internet: www.iridologiafamiliaresistemica.it
Per la naturopatia:
dottoressa Alessandra Meloni.
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