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Carole Mabboux

Trascrivere il discorso nelle cronache:


rielaborazioni narrative dell’oralità (secoli XIII-XIV)

L’ultimo terzo del XIII secolo è segnato nei Comuni italiani da un


doppio movimento per quanto riguarda la trascrizione delle parole pub-
bliche. La registrazione della loro espressione è un obbligo procedurale
valorizzato1 mentre, allo stesso tempo, il loro contenuto viene progressi-
vamente standardizzato:2 il discorso registrato – spesso reso anonimo da
una formulazione collettiva – è lì per giustificare ulteriori azioni. Questo
sviluppo indica un nuovo rapporto con la traccia scritta come strumento di
prova e di memoria, e pone il notaio sempre di più nel ruolo di intermedia-
rio tra gli eventi vissuti e ciò che da essi deve essere ricordato, tra vita poli-
tica del Comune e narrazione scritta che stabilisce la sua identità. In effetti,
la parola (e forse ancora di più il confronto delle parole) e la sua memoria

1. Durante il regime del “Popolo”, i comuni hanno vissuto quella che Jean-Claude
Maire Vigueur ha identificato come una “rivoluzione documentaria”. Le istituzioni popo-
lari, sovrapponendosi alle antiche istituzioni del Podestà, hanno moltiplicato gli organi de-
cisionali ed esecutivi, nonché le relative produzioni scritte. La parola scritta, considerata
come strumento di classificazione e verifica, è ornata di ideologia: in un contesto di conflitto
interno, i governanti vogliono sottolineare la trasparenza delle loro decisioni. Questa nuo-
va preoccupazione per la prova, si traduce materialmente nella produzione di un maggior
numero di oggetti documentari destinati alla conservazione e alla consultazione. Cfr. J.-C.
Maire Vigueur, Révolution documentaire et révolution scripturaire: le cas de l’Italie médié-
vale, in «Bibliothèque de l’École des chartes», 153/1 (1995), pp. 177-185.
2. Le delibere dei consigli hanno visto la loro forma contrarsi dalla fine del XIII se-
colo, dando proporzionalmente più importanza alla decisione votata che alle discussioni
che l’hanno condotta. Questo «rispondeva senza dubbio, più che a un intento meramente
pratico di risparmio, ad una volontà di tenere l’elemento della discussione e della dialetti-
ca interna alle istituzioni fuori dall’ambito della memoria scritta»: L. Tanzini, Delibere e
verbali. Per una storia documentaria dei consigli nell’Italia comunale, in «Reti Medievali.
Rivista», 14 (2013), p. 67.
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svolgono un ruolo speciale nel mito comunale di una politica basata sul
consenso e, quindi, nella giustificazione di un’unità civica.
Questa evoluzione del pensiero documentaristico ha forti interrela-
zioni umane e testuali con la scrittura della storia urbana. In primo luogo,
perché le cronache e la documentazione spesso condividono gli stessi
autori.3 In secondo luogo, perché si può supporre, in diversi casi, che le
produzioni documentarie urbane siano servite come fonte per gli storici
medievali successivi. Ciò solleva la questione se l’evoluzione, percetti-
bile per le scritture legali, del metodo e dello scopo della trascrizione sia
evidente anche nel modo in cui i cronisti descrivono gli eventi vissuti e
in cui scrivono la narrazione di un passato a loro straniero. Inoltre, se
tale evoluzione esiste, dobbiamo considerare se riguarda, o meno, solo la
parola pubblica e politica.
Proponiamo, a tal fine, di partire da un corpus relativo a un singolo
Comune, per consentire un più sottile confronto diacronico del trattamento
degli eventi. I dieci testi considerati4 raccontano le vicende della città di
Firenze, da un punto di vista comunale o privato, dal secondo quarto del
XIII secolo al 1380. Si aggiunge un gruppo di cinque testi che descrivono
gli eventi della rivolta dei Ciompi editi insieme da Gino Scaramella,5 tutti
scritti prima del 1381.
Le modalità di trascrizione del discorso devono essere correlate con
le norme che regolano la scrittura storica di questo periodo, così come con
le proposte stilistiche dei vari autori, in un contesto, tra il XIII e la fine

3. Facciamo riferimento qui, tra gli altri, ai lavori di Girolamo Arnaldi e Marino Zabbia.
4. Chronica de origine civitatis Florentiae, ed. R. Chellini, Roma 2009 (Fonti per la
storia dell’Italia medievale. Antiquitates, 33); Sanzanome, Gesta Florentinorum, ed. O.
Otto Hartwig, in Quellen und Forschungen zur ältesten Geschichte der Stadt Florenz, Mar-
burg 1875, p. 1-34; Storia fiorentina di Ricordano Malispini dall’edificazione di Firenze
fino al 1282, ed. G. Masi, Livorno 1830; Cronica fiorentina, in Testi fiorentini del Dugento
e dei primi del Trecento, ed. A. Schiaffini, Firenze 1926, pp. 106-150; Dino Compagni,
Cronica, ed. G. Luzzatto, Torino 1968; Paolino Pieri, Croniche di Firenze, ed. A. Bego, tesi
di Laurea, Università degli Studi di Padova, 2016; Giovanni Villani, Nuova cronica, ed. G.
Porta, Parma 1991; Domenico Lenzi, Il libro del biadaiolo. Carestie e annona a Firenze
dalla metà del ’200 al 1348, ed. G. Pinto, Firenze 1978, pp. 157-542; Donato Velluti, Cro-
nica domestica, ed. I. Del Lundo e G. Volpi, Firenze 1914; Marchionne di Coppo Stefani,
Cronaca fiorentina, ed. N. Rodolico, Città di Castello 1903 (Rerum Italicarum scriptores,
Nuova edizione, XXX, t. 1).
5. Il tumulto dei Ciompi. Cronache e memorie, ed. G. Scaramella, Bologna 1917 (Re-
rum Italicarum scriptores, Nuova edizione, XVIII, t. 3).
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del XIV secolo, che ha visto la diffusione dei primi canoni umanistici6 ma
anche l’apertura della scrittura non pragmatica a nuovi gruppi sociali e pro-
fessionali. Dopo una panoramica dei tipi di oralità trascritte nelle cronache
e delle questioni narrative che esse sostengono, ci chiederemo quale peso
abbia la cultura professionale e civica degli autori nel loro rapporto con la
parola pubblica, sia in termini tecnici che simbolici.

1. Parole riportate e modalità di trascrizione

Diversi studi recenti in storia medievale si sono concentrati sull’espe-


rienza sensoriale del parlare, nonostante i limiti imposti dalla trasmissione
testuale. Guardando i segni dell’oralità nella parola scritta, i paesaggi so-
nori descritti, le grida e le emozioni abbozzate, queste ricerche ricordano
che il discorso è in primo luogo una questione di rumore e di voce.7 I suoni
hanno un ruolo scenografico ma anche uno statuto di elemento scatenante
in vari episodi delle cronache del nostro corpus. Tuttavia, queste descri-
zioni auditive raramente si riferiscono a contesti di discorso: il più delle
volte fanno riferimento ai suoni delle campane che annunciano un evento
collettivo o al tumulto della battaglia, qualche volta a un clamore indistin-
to simbolizzando la rivolta.8 Il suono descrive più spesso le azioni senza

6. La storiografia umanistica dell’inizio del XV secolo dimostra un rinnovato metodo


di relazione scritta dei discorsi – che risponde gradualmente ai codici dell’eloquenza clas-
sica – ma anche un nuovo approccio alla causalità degli eventi, che dà luogo a un rinnova-
mento delle trame narrative. Cfr. R. Fubini, Cultura umanistica e tradizione cittadina nella
storiografia fiorentina del Quattrocento, in Id., Storiografia dell’umanesimo in Italia da
Leonardo Bruni ad Annio da Viterbo, Roma 2003, pp. 165-194; P. Gilli, La méthodologie
historiographique des humanistes italiens du XVe siècle. À la recherche du paradigme per-
du, in «Cahiers de recherches médiévales et humanistes», 31 (2016), pp. 355-406.
7. Tra queste ricerche, che fanno seguito a studi già avviati in linguistica storica e musi-
cologia, pensiamo a J.-M. Fritz, Paysages sonores du Moyen Âge: le versant épistémologique,
Paris 2000; M. Bouhaïk-Gironès e M.-A. Polo de Beaulieu, Prédication et performance du
XIIe au XVIe siècle, Paris 2013; C. Fiore, Il suono nel Medioevo, in Il Contributo italiano alla
storia del pensiero. Musica, a cura di S. Cappelletto, Roma 2018, pp. 27-31 o ancora al re-
cente convegno della società francese degli storici medievisti (SHMESP, 2019) sulla “voce”.
8. Gli autori che descrivono il tumulto dei Ciompi, in particolare, usano il caos sonoro
come apparato scenico e come motivo esplicativo di azioni disordinate: «facevano scrivere
queste cose con tanta confusione e romore, che a pena si intendevano l’un l’altro, e chi
faceva scrivere e chi cancellare, e chi bravava, e chi gridava: così che era una confusione».
Cfr. Il tumulto dei Ciompi, p. 38.
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parole. La voce, come medium, conta meno del contenuto del discorso,
manifestando una concezione scritturale e, spesso, lineare di quest’ultimo.9
Il discorso, più che un’azione, è informazione. Di conseguenza, la descri-
zione degli oratori è rara, e non è presente se non per dare peso o screditare
in anticipo il discorso trasmesso.
In quale forma sono trascritte queste parole? L’uso del discorso diretto
o indiretto è una scelta dell’autore secondo i propri criteri stilistici (allun-
gare o accorciare il testo, renderlo più vivo, insistere sulla violenza o l’in-
congruità di qualche parola pronunciata) ma anche, in alcuni casi, secondo
il peso testimoniale che egli dà alla propria produzione. Come hanno di-
mostrato studi comparativi di cronache che fanno riferimento allo stesso
ipotesto, qualunque sia il modo (diretto o indiretto) scelto, il contenuto
del testo non cambia.10 Francesco Senatore attribuisce dunque la successi-
va verbalizzazione di testi indiretti e, ancor più, di fonti come documenti
cancellereschi, a una pretesa di veridicità.11 Il discorso diretto riproduce la
scena, di cui il lettore può, a sua volta, essere testimone.
Come manifesta l’autore l’emergere di altri interventi all’interno del
proprio discorso? L’uso più comune è quello di introdurre la parola con un
verbo enunciativo, a volte sostituito da un termine di apostrofe.12 La gam-
ma di tali verbi è limitatissima. Il discorso individuale passa quasi esclu-
sivamente attraverso il verbo “dire”, quando le espressioni collettive sono
ridotte al “gridare”. Il passaggio da un discorso diretto all’altro (cioè il

9. Esempi di discorsi sospesi, perché interrotti da un altro oratore, sono rari. I cronisti
generalmente rinunciano a rendere la spontaneità di una discussione anarchica e optano per
una ricostruzione degli interi discorsi, come pensati dall’oratore e non come sentiti dal pub-
blico. Questa restituzione tende a produrre un testo lineare: i dialoghi procedono attraverso
un’alternanza regolare di punti di vista, dove la realtà implica maggiore dinamicità. Un raro
esempio di discorso disordinato, misto a lacrime e singhiozzi, si trova nel Libro del biada-
iolo, p. 353, in occasione dell’audizione di ambasciatori di Colle di Val d’Elsa a Firenze.
10. Per esempio M. Barbato, Testo e codice. Le cronache volgari fino a Villani, in Le
cronache volgari in Italia, a cura di G. Francesconi e M. Miglio, Roma 2017, p. 107. Fuori
Firenze, cfr. C. De Caprio, Scrivere la storia a Napoli tra Medioevo e prima Età moderna,
Roma 2012, pp. 62-138.
11. F. Senatore, Cronaca e cancellerie, in Le cronache volgari in Italia, pp. 285-300:
292.
12. Dino Compagni, III.14: «il loro pensiero era tenersi fino all’estremo, e allora dirlo
al popolo, e armarsi tutti; come disperati gittarsi co’ ferri in mano adosso a’ nimici, e ‘O noi
morremo per niente, o forse mancherà loro il cuore, e nasconderannosi e gitteransi in fuga
o in altri vili rimedi’».
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dialogo) non è indotto:13 ogni cambio di oratore richiede il completo riposi-


zionamento della frase introduttiva e può essere esplicitato attraverso l’uso
del verbo “rispondere”. Molte parole sono trasmesse attraverso il discorso
indiretto, il che mostra, ancora una volta, poca fantasia nella scelta dei
verbi utilizzati. La combinazione “dire + che” secondo i contesti è legata
all’uso della citazione – più che della trascrizione –, poiché è la formula
di predilezione per introdurre il pensiero di una auctoritas nella letteratura
didattica.14 Importa notare, inoltre, l’uso specifico dell’imperfetto “dicea
che”, che quasi sempre si riferisce a un’opinione piuttosto che a un discor-
so individualizzabile.15
Esistono segni grafici che indicano gli inserti di oralità all’interno del-
la narrazione nei manoscritti? Pochi studi sistematici aiutano a rispondere.
Sophie Marnette, che ha condotto un tale studio sulla base di un campione
di manoscritti composti in francese medievale,16 indica che non esiste una
regola stabile per quanto riguarda la rappresentazione grafica del discorso
riportato. Dimostra, tuttavia, che alcuni copisti stabiliscono proprie codi-
ficazioni per indicare il discorso diretto nei loro manoscritti, attraverso un
uso atipico del punto, del punto e virgola o della lettera maiuscola.
Di cosa parlano i personaggi? Osserviamo, senza sorpresa, una prepon-
deranza della parola politica. Inoltre, come sottolineato da Alberto Varvaro,
quando l’autore della cronaca trasmette altri tipi di parole, lo fa spesso nello
scopo di «riportare il contrasto macro-politico a modeste e occasionali cause
micro-politiche».17 Dobbiamo distinguere discorso collettivo e discorso in-

13. Le cronache organizzano “turni di parola” più che risposte, ogni intervento mante-
nendo la sua autonomia sintattica. La forma dialogica, in cui gli interlocutori si succedono,
era a quest’epoca ampiamente utilizzata da altri tipi di scritti, tra cui la canzone di gesta.
Cfr. C. Denoyelle, Poétique du dialogue médiéval, Rennes 2010.
14. Con Giovanni Villani, ad esempio, notiamo che il discorso diretto è molto comu-
ne, e che la formula «disse che» è generalmente riservata a parole collettive o citazioni di
un passato molto lontano.
15. D. Colussi, Cronaca e storia, in Storia dell’italiano scritto. II. Prosa letteraria, a
cura di G. Antonelli, M. Motolese e L. Tomasin, Roma 2014, pp. 132-140.
16. S. Marnette, La signalisation du discours rapporté en français médiéval, in
«Langue francaise», 149/1 (2006), pp. 31-47.
17. A Varvaro, Tra cronaca e novella, in La novella italiana, Roma 1989, vol. I,
p. 163. L’esempio più commentato è quello della discussione che inaugura la cronaca di
Dino Compagni: una promessa di matrimonio infranta porta Firenze a una lotta di fazione.
Cfr. Dino Compagni, I.2; E. Faini, Il convito del 1216. La vendetta all’origine del faziona-
lismo fiorentino, in «Annali di storia di Firenze», 1 (2006), pp. 9-36.
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dividuale. Il primo è quello di una folla, spesso indistinta, in generale presen-


te “sulla piazza”, davanti al palazzo di un’autorità. Si esprime lamentandosi,
esultando o fischiando. Il suo discorso stereotipato («Viva X!» o «Muoia
X!») è comune a tutte le cronache. I testi del corpus conservano raramente
motti più contestualizzati.18 I cronisti distinguono queste azioni collettive da
voci o opinioni comuni, per le quali usano forme impersonali («si dice che»)
o, più raramente, un verbo d’opinione.19 In generale, il discorso collettivo
serve per esprimere con chiarezza la ricezione popolare di una decisione po-
litica. Il suo carattere stereotipato viene forse da questa funzione narrativa: è
un indicatore implicito di posizione degli attori.
Il discorso individuale offre una gamma più ricca di interventi. Com-
prende la parola ufficiale, autorevole, che proviene dal governo, da un
capo in battaglia o trasmessa dagli ambasciatori. Si tratta di una dichia-
razione e, quindi, di un discorso unilaterale che non comporta alcuna
interazione. È il tipo di discorso più comune nelle cronache e, spesso, il
più ornato. Contrariamente a ogni aspettativa, la sua formulazione è vi-
cina a quella dei discorsi nelle assemblee riportati dai cronisti: le delibe-
razioni non assumono la forma di dialoghi, ma di successioni di discorsi
autonomi.20 Parallelamente a queste espressioni formali o formalizzate
dalla documentazione urbana, troviamo una serie di parole individuali
che si riferiscono a un pensiero personale,21 a dialoghi privati tra uomini
di potere, a interazioni pubbliche o private tra gli abitanti delle città,22 o

18. Il Libro del biadaiolo è un’eccezione, in quanto contiene, accanto al censimento


mensile dei prezzi dei cereali, scene che ricordano le lamentele dei mercanti e della popo-
lazione sottoposta alle restrizioni. Anche se schemi ricorrenti sono percettibili (compresa la
“misericordia” richiesta ai governanti), i reclami registrati si sviluppano da un anno all’altro
e si differenziano.
19. Dino Compagni fa della supposizione una parola per sé stessa: «providono af-
forzarsi con lui altrarno, imaginando: ‘Se noi perdiamo il resto della città, qui rauneremo
nostro sforzo’». Cfr. Dino Compagni, II.9.
20. C. Mabboux, Transcrire et reconstruire le débat. De la prise de notes à l’enregis-
trement de la parole en conseils: l’exemple de Fucecchio (XIIIe-XIVe s.), in «REGIDEL»,
2019 <https://regidel.hypotheses.org/1217>.
21. «Incontanente ke ’l vescovo ebbe la lettera apo sé, si disse: Io oe ingannato il
Papa’. Non pensò mai di ritornare al vescovado, anzi tenea dietro alla corte, godendo e
facendo grassa vita»: Cronica fiorentina, p. 108.
22. Questi dialoghi si riferiscono più spesso ad alterchi o accordi tra lignaggi. L’a-
nonima Cronica fiorentina, per esempio, ritraccia sotto forma di dialogo l’alleanza ma-
trimoniale tra Ranieri Buondelmonti e Neri Piccolino nel 1239. Cfr. Cronica fiorentina,
p. 120.
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ancora a esclamazioni, utilizzate per esprime un atteggiamento emotivo


del personaggio.23
I cronisti si riferiscono regolarmente a parole dette nello spazio priva-
to, il quale raramente si distingue dallo spazio pubblico – tranne nei casi
di cospirazione. Il più delle volte l’autore descrive le discussioni tenute
lontano dalle orecchie dei cittadini (e da lui stesso) senza spiegare come
l’ha saputo e quindi senza distinguere livelli di veridicità nelle parole che
riporta. Allo stesso modo, i cronisti raramente spiegano il loro uso del mul-
tilinguismo. Alcuni tendono a tradurre in lingua toscana qualsiasi interven-
to di un personaggio allofono,24 mentre Giovanni Villani si ostina a citare
fedelmente il latino o i dialetti stranieri. Si può supporre che, al di là di un
semplice mimetismo delle fonti utilizzate, questa sia una strategia di vero-
simiglianza da parte dell’autore.

2. Funzioni narrative del discorso tra realtà e verosimiglianza

Perché introdurre discorsi in forma diretta? Prima di affrontare le que-


stioni stilistiche, consideriamo la funzione di testimonianza di tali citazio-
ni. Il discorso diretto dà al lettore l’illusione di assistere alla scena descritta
senza alcun intermediario. Egli deve considerare i discorsi riportati come
rappresentativi di un evento reale, accentuando nello stesso tempo il lavoro
di formalizzazione del cronista. Le parole riportate, se non sono pensate
come prove dal cronista, devono essere garanzia di verosimiglianza: sono
generalmente rielaborate non come sono state ascoltate, ma come avrebbe-
ro potuto essere dette.25 Il cronista impegna la fides nel suo lavoro di elabo-

23. Nella sua cronaca domestica, tra le vicende del comune, Donato Velluti descrive
scenette che si prestano a uno stile a volte ludico, in cui interiezioni ed esclamazioni eviden-
ziano l’incongruità delle memorie. Ricorda così l’imitazione dello schiamazzo dei polli da
parte di un parente («chischi, chischi») o la morte in buona compagnia di un altro: «essendo
collei molte donne, e favellando e cianciando, subitamente dicendo ‘O me’, passò di questa
vita». Cfr. Donato Velluti, pp. 31, 120.
24. «Esposta loro ambasciata, il re Carlo di sua bocca volle fare la risposta, e disse in
sua lingua in francese. Le quali parole in nostro volgare vengono a dire: ‘o io mettero oggi
lui in inferno, o egli metterà me in paradiso, cioè, io non voglio altro che battaglia, o io
uccidero lui oggi, o egli me’». Cfr. Ricordano Malespini, p. 425.
25. Ciò è particolarmente evidente quando si confrontano gli stessi eventi tra più cro-
nache. Il tumulto dei Ciompi si presta bene a questo confronto, essendo riportato da diversi
storiografi. Gli autori, tra cui Alamanno Acciaioli è il più prolifico, ricompongo un discorso
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razione, regolarmente ricorrendo al motivo della voce pubblica.26 Per dare


peso alla funzione testimoniale dei loro scritti, alcuni autori si prendono
la briga di indicare chi ha sentito le parole che riportano. Giovanni Villani
presenta più volte il fratello, che «era in corte mercatante di papa», come
fonte di informazione.27 Dichiara inoltre di aver ottenuto i resoconti di dia-
loghi da mercanti, di cui garantisce l’affidabilità.28 Infine, Villani assicura
la veridicità delle sue affermazioni ricordando di essere stato testimone
diretto dei fatti29 – affermazione comune alla maggior parte dei cronisti,
che siano o meno attenti a citare le loro fonti.30
In generale, l’uniformità dei testi è tale che non si percepisce alcun
cambiamento stilistico tra i discorsi riportati da altri e quelli ascoltati
dall’autore. Vale anche se l’autore è egli stesso l’artefice del discorso de-
scritto, ovvero l’oratore? Questo dipende dallo stile di scrittura dell’autore,
dalla sua capacità di rendere a posteriori i discorsi e dal peso, variabile,
che vuole dare alla sua persona all’interno della narrazione. Dino Compa-
gni trascrive quattro dei suoi discorsi pubblici, più una serie di rimproveri
che ha scritto per i suoi concittadini.31 Appaiono poche differenze tra i di-
scorsi che si attribuisce e quelli degli altri, per quanto riguarda il lessico e
la sintassi. Tuttavia, gli interventi di Dino sono più lunghi e indulge a una
maggiore enfasi nelle sue apostrofi.32 Il testo dei suoi discorsi testimonia

a partire dalla memoria generale del suo contenuto. Si veda, per esempio, la scena dell’usci-
ta del priore Guerrante Marignolli, nella quale il Popolo chiede agli altri priori di lasciare il
palazzo comunale: Il tumulto dei Ciompi, pp. 30, 75.
26. Nel primo capitolo della sua cronaca, Dino Compagni presenta il suo metodo:
spiega che può assicurare la verità delle cose di cui egli stesso è stato testimone e «quelle
che chiaramente non [vide]», «[propone] di scrivere secondo la maggior fama». Dino Com-
pagni, I.1.
27. Giovanni Villani, XII.19-20, XIII.51.
28. «E io scrittore ebbi di ciò testimonianza da quegli mercatanti ch’erano presenti col
detto in su la detta nave, e udirono il detto Berto, i quali erano uomini di grande autorità e
degni di fede, e la fama di ciò fu per tutta la città nostra»: Giovanni Villani, VIII.50.
29. Vedere: IX.36 e 78, XI.50, 146 e 184.
30. Paolino Pieri, ad esempio, si presenta come testimone delle grida pronunciate
quando Carlo I d’Angiò entrò a Firenze nel 1284 («e io che ’l vidi e udi’ ne porto la testi-
monianza»): Paolino Pieri, p. 54. Sull’uso della (propria) testimonianza orale da Marchion-
ne di Coppo Stefani: A. De Vincentiis, Scrittura storica e politica cittadina: la “Crona-
ca fiorentina” di Marchionne di Coppo Stefani, in «Rivista storica italiana», 108 (1996),
pp. 264-269.
31. Dino Compagni, I.21 e 24, II.5, 8 e 22.
32. «Cari e fedeli cittadini», «Cari e valenti cittadini», «O malvagi cittadini».
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le sue qualità di composizione letteraria, ma non mostra il suo carattere di


oratore. Donato Velluti, al contrario, approfitta dell’unico intervento pro-
prio per descrivere sia i suoi gesti che le sue intenzioni, esplorando i criteri
comportamentali e morali del giusto oratore.33
La trascrizione dei discorsi ha anche altri usi narrativi. La sua funzione
di strumento narrativo è la più ovvia. In primo luogo, i discorsi permettono
al narratore di adottare un punto di vista onnisciente: gli individui rivelano
le loro opinioni, i loro desideri e paure attraverso formule esplicite. Inol-
tre, l’ascolto delle parole è un vero e proprio schema di narrazione, che
permette di stabilire le causalità e di spiegare la sequenza degli eventi.34
Il discorso serve a spiegare la diffusione di un sentimento da un gruppo
ristretto (familiare o civile) alla popolazione in generale.
L’uso del discorso diretto è, allo stesso tempo, un effetto enunciativo:
permette di sollecitare la reazione del lettore e di includerlo nelle scene de-
scritte. In questo modo, il cronista cerca di mantenere l’approvazione, l’in-
dignazione, lo stupore o la risata che il pubblico può aver provato. A tal fine,
gli autori non esitano mai a trascrivere gli insulti scambiati tra i protagonisti.
Al di là della sorpresa, il confronto del lettore con le presunte parole grezze è
un’occasione di edificazione. In un’ambizione morale, i cronisti usano rego-
larmente i discorsi e le loro situazioni correlate come exempla. Invitano poi
il lettore a riprodurre o a rifiutare certi comportamenti e, più in generale, a
integrare un quadro di riferimento per le sue aspirazioni comunitarie.35
Infine, le trascrizioni dei discorsi sono un’opzione stilistica: in alcuni
casi, permettono di dare ritmo alla narrazione. Osserviamo una certa rego-
larità nell’alternanza tra narrazione e testi riportati da Dino Compagni, ad
esempio. Per descrivere i periodi più remoti, gli autori devono trovare un
equilibrio tra esigenza di veridicità e stile orale. I cronisti trecenteschi scel-
gono di solito di limitare i discorsi e i dialoghi ai periodi più recenti, dove,
al contrario, i testi della prima metà del XIII secolo si prestano facilmente

33. «Leva’mi io, e dissi, quello che io diceva io il dicea con purità e fede, acciò che
la città e’ cittadini e chi volesse bene vivere si contentasse meglio non facea; […] e che se
parea a loro e a’ Collegi, dovea parere a me: e puosi fine alle mie parole»: Donato Velluti,
Cronica domestica, p. 250.
34. «Udendo» e «sentendo che» sono utilizzati come strumenti di coordinamento lo-
gico che introducono le conseguenze di un atto.
35. Un discorso di Dino Compagni assolve perfettamente a queste funzioni, ricordan-
do il fondamento cristiano della comunità e facendo della concordia civica una chiave di
elevazione al divino: Dino Compagni, II.8.
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al gioco della ricomposizione delle parole di Catilina alla battaglia di Pi-


stoia.36 Si possono identificare gli stili di trascrizione da un autore all’altro?
È facile notare che alcuni fanno poca menzione dell’oralità (l’annalistica
di Paolino non si presta bene a questo), mentre altri si fondano su di essa.
Alcuni favoriscono le interiezioni, mentre altri trascrivono (o riscrivono)
lunghi interventi. Da un punto di vista qualitativo, si distinguono alcuni
modi di scrivere. Prendiamo due esempi.
Sanzanome non riassume le parole e riporta interi discorsi, che si riferi-
scono alle norme della composizione dictaminale della prima metà del XIII
secolo. I suoi discorsi riportati corrispondono a uno stile in cui non ci sono
segni di oralità. Le frasi sono molto lunghe, utilizzano un lessico latino alto
e non sollecitano il coinvolgimento del lettore. Sanzanome crea un rapporto
“retorico” per il discorso. Allo stesso tempo, come molti altri cronisti succes-
sivi, riproduce all’interno del suo racconto modelli di lettere (o forse copie di
lettere prodotte o ricevute dalla cancelleria fiorentina), che differiscono poco
nella loro composizione dai discorsi riportati. Sanzanome, iudex et notarius,
integra le sue regole professionali di resoconto nella sua scrittura storica.
Su questo punto, l’influenza esercitata su di lui da Boncompagno da Signa
è già stata sottolineata.37 Influenzato dal lessico delle deliberazioni urbane,
Sanzanome coinvolge i suoi personaggi come se fossero in un’assemblea
(il personaggio surgens dixit, la sua parola placuit omnibus). Ci troviamo di
fronte a una scrittura della parola più che a una parola riportata.
Lo stile di Dino Compagni è più diretto: le frasi riportate sono brevi,
formulate in un lessico semplice. Questo formato induce una maggiore
plausibilità orale, ma non riflette necessariamente una maggiore realtà. In-
fatti, i discorsi trascritti da Dino si caratterizzano per la loro uniformità:
I.10: Signori, le guerre di Toscana si soglìano vincere per bene assalire; e non
duravano, e pochi uomini vi moriano, ché non era in uso l’ucciderli. Ora è
mutato modo, e vinconsi per stare bene fermi. Il perché io vi consiglio, che
voi stiate forti, e lasciateli assalire.
I.15: Signori, il consiglio del savio cavaliere è buono, se non fosse di troppo
rischio; perché, se nostro pensiero venisse manco, noi saremo tutti morti:

36. Discorsi del genere si possono trovare, ad esempio, nella Chronica de origine
civitatis Florentiae e nelle Gesta di Sanzanome. Si può ipotizzare qui un’influenza da fonti
classiche, tra cui Sallustio, in una forma rielaborata dalla canzone di gesta: i Faits des Ro-
mains, tra altri, erano allora comunemente diffusi nell’Italia comunale. Già alla fine del XIII
secolo, questi discorsi sono solo evocati nel testo di Ricordano Malespini.
37. Chellini, Chronica de origine civitatis Florentiae, p. 143.
Trascrivere il discorso nelle cronache 281

ma vinciàgli prima con ingegno, e scomuniàgli con parole piatose, dicendo:


I Ghibellini ci torranno la terra, e loro e noi cacceranno, e che per Dio non
lascino salire i Ghibellini in signoria: e così scomunati, conciànli per modo
che mai più non si rilievino.
II.5: Signori, voi sete buoni uomini, e di tali avea bisogno la nostra città. Voi
vedete la discordia de’ cittadini vostri: a voi la conviene pacificare, o la città
perirà. Voi sete quelli che avete la balìa; e noi ad ciò fare vi proferiamo l’ave-
re e le persone, di buono e leale animo.
La lunghezza delle parole varia poco. Il discorso inizia sempre con
una formula di apostrofe, segue una concessione che, in un terzo momento,
implica un’azione dell’interlocutore. Ogni parola si conclude con l’annun-
cio delle misure da adottare. Questa omogeneità indica una coerenza del
discorso a livello dell’opera e non a quello dell’oratore, ed evidenzia il
lavoro di composizione che produce il cronista. In questo quadro, prova a
rendere indicazioni dell’oralità nel testo, aggiungendo talvolta una sintassi
meno elegante.38 Per amplificare l’individualizzazione del discorso, alcuni
autori mettono parole offensive in bocca ai loro nemici. Come abbiamo
notato, Villani aggiunge l’uso della poliglossia.39
Prima della piena diffusione dei modelli umanistici, tra il XIII e il XIV
secolo si nota un’evoluzione del discorso riportato verso una maggiore
oralità e (finta) spontaneità. I canoni della trascrizione tendono a far scom-
parire la necessità di un discorso chiuso e retoricamente completo. Questa
evoluzione è dovuta, certamente, a un cambiamento nei gusti dei lettori,
ma anche a un’apertura sociologica del gruppo degli storiografi.

3. Discorso, cultura professionale e cultura civica

All’interno del nostro corpus, le cronache della fine del XIV secolo mo-
strano una particolare attrazione per le fonti di trasmissione orale.40 Questi

38. «Allora il vescovo, che avea corta vista, domandò: ‘Quelle, che mura sono?’»:
Dino Compagni, I.10.
39. G. Porta, I passi francesi nella “Nuova Cronica” di Giovanni Villani (con altri
saggi di varianti redazionali), in Miscellanea di studi. I, a cura di G. Bianchini, Arezzo
1981, pp. 7-31. Fuori Firenze troviamo già questa tecnica nella Cronica di Salimbene de
Adam. Cfr. C. Segre, Livelli stilistici e polifonia linguistica nella “Cronica” di Salimbene
da Parma, in Salimbeniana, Bologna 1991, pp. 181-192.
40. De Vincentiis, Scrittura storica e politica cittadina, p. 267.
282 Carole Mabboux

sono percepibili nei testi attraverso l’impersonale “si dice che”, rivelando
una cultura diffusa. Queste citazioni, poche un secolo e mezzo prima, sono
già molto presenti nei testi di Dino Compagni e Giovanni Villani. Tuttavia,
spesso essi utilizzano anche fonti scritte, alcune delle quali sono prodotte dal
Comune.41 Il loro uso, come abbiamo già notato, sembra evidente in autori
come Sanzanome, che scrive i discorsi dei suoi personaggi “alla maniera
di”, o come l’anonimo autore della Cronica fiorentina, che inserisce copia di
lettere nel suo testo.42 Le fonti scritte sono altrettanto presenti nei testi di au-
tori che lasciano spazio alle voci. Marchionne, ad esempio, copia in diverse
occasioni interi elenchi di titolari di uffici urbani dai registri comunali.
L’opera di un cronista del XIII e XIV secolo consiste principalmente
in un lavoro di compilazione. Si basa sulla citazione di cronache prece-
denti43 ma anche su documenti ufficiali a disposizione dello storico. La
capacità di scrivere (in latino) e l’accesso a tali fonti hanno disegnato
molto presto il ritratto privilegiato del cronista-notaio o cronista-cancel-
liere. Assistiamo allora a un doppio movimento. Da un lato, dal punto di
vista sociale, il progresso dell’alfabetizzazione urbana e della formazio-
ne professionale ha accompagnato i cambiamenti economici di Firenze.
La diffusione dei volgarizzamenti e dei testi didattici volgari, a partire dal
terzo quarto del XIII secolo, ha permesso a nuovi gruppi di leggere e, poi,
di scrivere. D’altra parte, dal punto di vista politico, i governi del Popo-
lo hanno allo stesso periodo incoraggiato l’aumento della produzione di
documentazione pubblica. Questo approccio è stato caratterizzato da un
nuovo desiderio di pubblicità, incoraggiando i notai a produrre registri
più facili da consultare e, presto, a tradurre alcuni documenti ufficiali in
un linguaggio volgare.
La combinazione di questi movimenti ha varie conseguenze sul tipo
di cronache prodotte a Firenze. Menzioniamo alcuni di loro. Socialmente,
il profilo degli storiografi si sta diversificando. Mentre Dino Compagni si

41. Dino Compagni, per esempio, organizza alcuni passi della sua Cronica secondo la
struttura delle delibere. Cfr. C. Mabboux, Quelle place pour les registres de délibérations dans
la promotion des institutions communales ? (Toscane, fin XIIIe-XIVe s.), in La Voix des assem-
blées, a cura di F. Otchakovsky-Laurens e L. Verdon, Aix-en-Provence, in corso di stampa.
42. Cronica fiorentina, p. 136.
43. Le cronache fiorentine di questo periodo si combinano intorno ad alcuni ipotetici,
che servono da quadro cronologico per buona parte di esse. Cfr. E. Brilli, Firenze, 1300-
1301. Le cronache antiche (XIV secolo ineunte), in «Reti Medievali. Rivista», 17/2 (2016),
pp. 113-151.
Trascrivere il discorso nelle cronache 283

era formato alle arti liberali e Donato Velluti alla legge, Domenico Lenzi
e Giovanni Villani esercitavano la professione di mercanti. Questo allar-
gamento consente di rintracciare diversità formali nelle cronache: elabo-
razione retorica del discorso meno sistematica e, in alcuni casi, apertura
della storiografia verso una parola privata o verso il mondo economico
– con una inversione di tendenza rispetto alle cronache del XIII secolo,
che riservavano escluso interesse ai temi politici. Linguisticamente, allo
stesso tempo, il numero di cronache scritte in volgare si è moltiplicato,
creando, a sua volta, nuovi collegamenti nella compilazione dopo la tradu-
zione iniziale. Marchionne, ad esempio, riprende gran parte della cronaca
di Giovanni Villani per la propria composizione. Materialmente, infine, il
desiderio (ostentato) di trasparenza dei governi popolari ha portato a un’e-
voluzione degli oggetti della documentazione pubblica. L’obiettivo è quel-
lo di facilitarne l’accesso e la ricerca di informazioni al loro interno. Lo
stesso pragmatismo guida la progressiva modifica dell’impianto strutturale
e grafico delle cronache volgari: «la cronaca volgare, nel Trecento, è ormai
nella maggior parte dei casi divisa in libri, o articolata in capitoli preceduti
da rubriche che ne anticipano brevemente il contenuto».44
L’intreccio tra forme scritte storiografiche e notarili è facilmente in-
tuibile, ben oltre la coincidenza professionale dei loro autori.45 Giovanni
Villani, ad esempio, volgarizza sei documenti ufficiali46 nell’ultima parte
della Cronica, tra cui un discorso di ambasciatori.47 Perché? Jérémie Ra-
biot ha dimostrato come questa scelta di fonti scrupolosamente riporta-
te risponda agli interessi politici e alle convinzioni civiche del Villani.
L’ambasciata fiorentina, arrivata davanti a Luigi d’Ungheria nel dicem-

44. F. Ragone, Giovanni Villani e i suoi continuatori: la scrittura delle cronache a


Firenze nel trecento, Roma 1998, p. 118.
45. «Sono state notate in alcuni casi forti contaminazioni [della cronaca] con al-
tre scritture, come quella notarile, in particolare, ma anche novellistica e memorialisti-
ca […]. L’incompiuta interiorizzazione delle tecniche compositive della comunicazione
scritta è verosimilmente una delle principali ragioni della mancata affermazione di una
precisa competenza del sapere storiografico»: Ragone, Giovanni Villani e i suoi conti-
nuatori, p. 120.
46. Una bolla pontificia, un trattato di alleanza militare, tre lettere diplomatiche e un
discorso di ambasciata. Cfr.
47. «Ambasciata sposta a Rimino per gli ambasciadori di Firenze al re d’Ungheria
mandati, recitata nel cospetto del re e del suo consiglio per meser Tommaso Corsini in
gramatica con molti alti latini; fatta volgarizzare per seguire lo stile»: Giovanni Villani,
XIII.19.
284 Carole Mabboux

bre del 1347, vuole sondare le sue ambizioni, in un contesto di conflitto


tra i due rami della dinastia angioina, a cui lo stesso Luigi apparteneva.
Mostrando il discorso degli ambasciatori al suo lettore, Giovanni Vil-
lani cerca di convincerlo della validità dell’appello in favore del ramo
primogenito degli Angioini, rappresentato da Luigi. Il cronista trasmette
in extenso e in forma volgare i testi che contengono le decisioni che gli
sembrano meritare la massima forza di convinzione: la trascrizione del
discorso diventa, di per sé, l’elemento di una strategia retorica e politi-
ca. L’argomentazione non è più rivolta all’ascoltatore, ma al lettore. Il
pubblico, attraverso la trascrizione, non cercherà la testimonianza di un
fatto provato, ma l’espressione di un’opinione che ancora risuona nel
presente.
Poiché cerca di convincere politicamente il suo lettore con una di-
mostrazione di eloquenza, Giovanni Villani si mostra conservatore. Attri-
buisce al discorso un ruolo civico di cambiamento dell’equilibrio di po-
tere permesso dalla sola convinzione. Questa onnipotenza dell’eloquenza
è descritta un secolo prima dai dictatores, che giustificavano con il mito
ciceroniano di una comunità basata sullo scambio di parole ragionate sia
il loro ruolo politico-sociale che il valore quasi antropologico dell’as-
semblea politica.48 Il discorso civico trasmesso dai registri delle “crona-
che di documenti” sarà gradualmente sostituito nel secolo successivo da
una preponderanza di informazioni sul discorso e da un approccio meno
persuasivo e più conflittuale dell’opinione politica, guidato da modelli
classici di invettiva.
La trascrizione dei discorsi nelle cronache costituisce uno dei pos-
sibili indicatori funzionali all’analisi dell’evoluzione della cronistica,
per quanto riguarda sia la sua specificità in quanto genere letterario,
sia l’evoluzione delle tecniche e degli autori, nel loro rapporto alla
scrittura. La diacronia dimostra un’evoluzione delle forme di discorso
coerente con la cultura professionale dell’autore, con le sue opzioni
linguistiche e con le fonti da lui utilizzate. Da questo punto di vista,
l’evoluzione delle pratiche storiografiche comunali è inscindibile dalla
progressiva valorizzazione pubblica della documentazione governati-
va. Oltre allo sviluppo di vari stili (con o senza segni di oralità), l’evo-

48. E. Artifoni, Retorica e organizzazione del linguaggio politico nel Duecento italia-
no, in Le forme della propaganda politica nel Due e nel Trecento, a cura di P. Cammarosa-
no, Roma 1994, p. 160.
Trascrivere il discorso nelle cronache 285

luzione delle parole trascritte manifesta una rinnovata concezione del


discorso letterario e del discorso civico.
Da forma registrata di un intervento standardizzato, la parola parlata si
trasforma in vera e propria funzione narrativa tra i cronisti. A lungo limitato
alla registrazione di una dichiarazione politica o di un giuramento, il discor-
so, facilitato anche dalla scrittura volgare, lascia finalmente le assemblee e le
cancellerie per essere registrato anche in altri ambienti, all’esterno, persino
nell’incongruenza delle scene private e nella spontaneità delle interiezioni.

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