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anno IV, numero 7-8

gennaio-dicembre 2015
ISSN 2239-5962
materiali foucaultiani
peer reviewed

DIREZIONE & REDAZIONE


Laura Cremonesi, Orazio Irrera, Daniele Lorenzini , Martina Tazzioli

COMITATO SCIENTIFICO
Philippe Artières, Étienne Balibar, Jean-François Bert,
Alain Brossat, Judith Butler, Edgardo Castro, Sandro Chignola, Pierre Dardot,
Arnold I. Davidson, Mitchell Dean, Didier Fassin, Domingo Fernández Agis,
Colin Gordon, Frédéric Gros, David Halperin, Jonathan X. Inda, Bruno Karsenti,
Christian Laval, Olivier Le Cour Grandmaison, Boyan Manchev, Manuel Mauer,
Achille Mbembe, Sandro Mezzadra, Brett Neilson, Peter Nyers, Johanna Oksala,
Aihwa Ong, Michael A. Peters, Mathieu Potte-Bonneville, Jacques Rancière,
Judith Revel, Michel Senellart, Jon Solomon, Vincenzo Sorrentino,
Ann Laura Stoler, William Walters, Robert J.C. Young

Si ringrazia il Comitato di lettura per l’eccellente lavoro svolto.

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www.materialifoucaultiani.org
e-mail: redazione@materialifoucaultiani.org

ISSN 2239-5962

Graica e impaginazione | Laura Cremonesi, Orazio Irrera, Daniele Lorenzini

Immagine in copertina | Cecilia e Gaia Picciotto


materiali foucaultiani
ANNO IV, NUMERO 7-8 GENNAIO-DICEMBRE 2015

SOMMARIO

4 Laura Cremonesi, Orazio Irrera, Daniele Lorenzini, Martina Tazzioli


Foucault – un “classico”?

Il pensiero politico di Foucault


11 Orazio Irrera, Salvo Vaccaro Introduzione
17 Ottavio Marzocca Foucault e la post-democrazia neoliberale.
Oltre la “critica inlazionistica dello Stato”
39 Jacques Bidet Pensare Marx con Foucault e Foucault con Marx
53 Marco Assennato Ambiguità di Foucault
67 Salvo Vaccaro Foucault: dall’etopoiesi all’etopolitica
83 Frédéric Rambeau Lo sciopero della politica. Foucault e la rivoluzione soggettiva
97 Pierandrea Amato Ethos animale. Filosoia e politica nell’ultimo Foucault
123 Sandro Luce La doublure di Foucault. Il pensiero del “fuori” e le pratiche del vero
137 Daniele Lorenzini Foucault, la contro-condotta e l’atteggiamento critico
149 Orazio Irrera Foucault e la questione dell’ideologia
173 Laura Bazzicalupo Storicizzazione radicale, genealogia della governamentalità
e soggettivazione politica
189 Laura Cremonesi Spectator novus: trasigurazione e straniamento
in Foucault, Hadot e Ginzburg
203 Arianna Sforzini “Drammatizzare” la scrittura.
Il theatrum politicum di Michel Foucault
217 Guillaume le Blanc Il dir-vero come elemento del “morire bene”?
Sulla creazione di Aides in Francia
233 Philippe Sabot Disciplinare e guarire. La “realtà” come posta in gioco
del potere psichiatrico secondo Foucault
247 Martina Tazzioli The government of the mob? Produzione del resto e suo eccesso

Saggi
261 Françoise Collin Il pensiero della scrittura: différance e/o evento.
Maurice Blanchot tra Derrida e Foucault
275 Federico Rahola As we go along. Spazi, tempi e soggetti delle controcondotte
295 Paolo B. Vernaglione Michel Foucault e l’eredità della critica
Foucault – un “classico”?
di Laura Cremonesi, Orazio Irrera,
Daniele Lorenzini, Martina Tazzioli
Nell’ultimo editoriale , pubblicato un anno fa su questa rivista in aper-
1

tura del numero doppio dedicato, da una parte, alla parrhesia e all’attualità
politica della critica e, dall’altra, alla nascita della società punitiva, ci era-
vamo interrogati su due prospettive, opposte ma in un certo senso com-
plementari, che rappresentano ai nostri occhi altrettanti rischi da evitare
a tutti i costi nel lavoro che può essere fatto su, con e a partire da Foucault.
Da un lato, il rischio di ridurre un approccio, un metodo, una serie di do-
mande e di cantieri di problematizzazione dotati di una speciicità storica
e politica ben precisa a un’impresa di “attualizzazione a tutti i costi” – im-
presa che, in maniera pressoché necessaria, trasforma quindi la boîte à outils
foucaultiana in una griglia analitica che si suppone (magicamente) capa-
ce di decodiicare ogni aspetto del presente. Dall’altro lato, il rischio della
“monumentalizzazione” di Foucault, ovvero della trasformazione del suo
pensiero in un classico che sarebbe legittimo soltanto interpretare, studiare
ilologicamente nella sua genesi e nel suo accidentato sviluppo, e che non
avrebbe dunque più nulla da dirci su noi stessi e sul nostro presente – un
pensiero, perciò, inutilizzabile. Concludevamo allora sull’importanza vitale
di percorrere una strada diversa, che non si arroghi il diritto di formulare
a priori giudizi di legittimità/illegittimità o di fedeltà/infedeltà, ma che al
contempo non rinunci a intraprendere una rilessione (necessariamente a
posteriori) sugli usi di Foucault che si rivelano essere interessanti, innova-
tivi e ricchi di conseguenze e su quelli che, invece, si dimostrano sterili, ba-
nali e banalizzanti, privi di interesse e di conseguenze signiicative. In altri
termini, ci sembrava – e ci sembra – cruciale, a questo proposito, evitare
di cristallizzare una distinzione che si ha sempre più tendenza a tracciare,
ovvero quella tra un approccio interessato a sondare la coerenza storico-
ilosoica di un pensiero situato e un altro che valorizza aprioristicamente
la molteplicità degli usi che il pensiero foucaultiano suscita e continuerà
a suscitare. Evitare, insomma, il feticismo della lettera in quanto lettera così
come quello dell’uso in quanto uso, sforzandosi invece di creare le condizio-
ni propizie per un dialogo aperto e per un’ibridazione feconda tra queste
due prospettive – dialogo e ibridazione che soli possono nutrire il lavoro
del pensiero e della sperimentazione.

Cfr. L. Cremonesi, O. Irrera, D. Lorenzini, M. Tazzioli, Il lavoro della sperimentazione,


1

in «materiali foucaultiani», vol. 3 (2014), nn. 5-6, pp. 4-7.

materiali foucaultiani, a. IV, n. 7-8, gennaio-dicembre 2015, pp. 4-9.


Foucault – un “classico”? 5

Lo scorso novembre, Foucault è “entrato nella Pléiade”2. Questo


evento, che negli altri paesi si ha forse tendenza (probabilmente con buo-
ne ragioni) a sottostimare, ha suscitato vivaci reazioni e una serie di spinosi
interrogativi nel mondo intellettuale e universitario francese. Al centro di
questi ultimi, ancora una volta, la questione del rischio di una “monumen-
talizzazione” del pensiero di Foucault, che tale operazione trasformerebbe
in un’opera canonizzata e quindi condannerebbe, in un certo senso, a dive-
nire sterile oggetto di commento. In altri termini, si è suggerito da più
parti che la scelta di far entrare Foucault nella Pléiade – questa istituzione
prettamente francese che consacra scrittori e ilosoi come “classici” – im-
plicherebbe necessariamente una normalizzazione del suo pensiero attraver-
so la issazione di un corpus di testi, accompagnati da introduzioni savantes
e da un corposo apparato critico, la cui lettera è stata precedentemente
(ri)stabilita seguendo le esigenti regole della ilologia. È forse vero, allora,
che d’ora in poi si daranno solo due possibilità – la fedeltà all’ortodossia
foucaultiana, che troverà la sua più alta espressione nell’esercizio del com-
mentaire al testo, e l’eterodossia irriverente degli usi, che più nulla avranno
a che fare con il pensiero del Maestro?
Una volta di più non si tratta di sostenere che questa domanda (o
inquietudine) sia del tutto campata in aria, quanto piuttosto di lavorare
all’elaborazione di una terza prospettiva, che sfugga alla trappola di tale
dicotomia e che sappia rendere giustizia alla ricchezza e alla vivacità di un
pensiero che precisamente della critica ad ogni forma di issazione e di
normalizzazione ha fatto il proprio obiettivo primario e il motore stesso
del proprio dinamismo. A questo proposito, ci sembra opportuno svolge-
re due ordini di rilessioni.
Da una parte, per quel che concerne nello speciico la Pléiade Fou-
cault, la scelta che è stata fatta di includervi soltanto i libri e una piccola
selezione di articoli “fondamentali” (nella piena consapevolezza, del resto,
del carattere necessariamente arbitrario di tale selezione) ha il grande me-
rito di rendere esplicito, in da subito, il suo carattere non esaustivo e non
canonizzante: nessuno, infatti, potrebbe ormai sostenere, con cognizione
di causa, che la “verità” o l’“integralità” del pensiero di Foucault si trovi
soltanto in questi testi, e non anche nei Corsi al Collège de France e nelle sue
innumerevoli conferenze, nei seminari, nelle interviste, ecc. L’“operazione
Pléiade”, nel caso di Foucault, confessa quindi immediatamente la propria
2
Cfr. M. Foucault, Œuvres I e II, «Bibliothèque de la Pléiade», Gallimard, Paris 2015.
6 Cremonesi, Irrera, Lorenzini, Tazzioli

impotenza a racchiudere in un corpus prestabilito un pensiero in perpetuo


movimento, capace di disinnescare – in un certo senso con le proprie
stesse forze – ogni tentativo di monumentalizzazione, di canonizzazione
o di normalizzazione. Al contempo, però, come ha di recente sottoline-
ato il suo curatore, Frédéric Gros3, la Pléiade Foucault ha per vocazione
anche quella di correggere l’idea (opposta) che, nel corso degli ultimi due
decenni, si è andata sedimentando in Francia, in Italia, nel mondo anglo-
sassone e in tanti altri paesi, ovvero che la “verità” del pensiero di Foucault
sia contenuta innanzitutto nei Corsi al Collège de France. La Pléiade mette
invece chiaramente in luce la fecondità e la ricchezza, un po’ dimenticate,
dei libri di Foucault, offrendoli al pubblico dei lettori (vecchi e nuovi) in
un’edizione rigorosa e aprendo così la possibilità di un nuovo dialogo –
ora che tutti i Corsi al Collège de France sono stati pubblicati, e nell’attesa
che lo siano anche i Corsi anteriori a questi ultimi – tra l’“opera scritta” e
l’“opera orale” del ilosofo francese.
D’altra parte, per porre il problema su un piano più generale, l’entrata
di Foucault nella Pléiade incita a elaborare una rilessione più attenta su
una nozione – quella di “classico” – che non ha mai cessato di sollevare
interrogativi, e che tuttavia merita, proprio per questo, una disamina più
approfondita. Ci sono infatti almeno due modi di intendere tale nozione.
Da un lato, “classico” sarebbe un pensiero che fa scuola, che genera disce-
poli ed epigoni, e rispetto al quale si porrebbe dunque la questione della
fedeltà e dell’infedeltà, dell’ortodossia e dell’eterodossia – ove la fedeltà e
l’ortodossia consisterebbero, del resto, in un’ininita opera di commento
e di interpretazione del Testo. Vi è però un’altra maniera di intendere tale
nozione, secondo la quale “classico” sarebbe un pensiero irriducibile alla
molteplicità delle sue (re)interpretazioni e dei suoi usi; “classico” sarebbe
cioè un pensiero al quale è sempre possibile ritornare per trovarvi nuove
idee, nuove problematizzazioni, nuove piste di ricerca – un pensiero, in-
somma, che ha sempre qualcosa da dirci, e che senza dubbio ha sempre qual-
cosa di diverso da dire a seconda della prospettiva, delle domande e delle cir-
costanze storiche, sociali e politiche a partire dalle quali viene volta a volta
interrogato. In questo secondo senso, un “classico” non è un pensiero
normalizzato e canonizzato, che imporrebbe a priori una police discorsiva
volta a bollare come “inesatto” o “illegittimo” ogni uso che vada al di là

3
Cfr. F. Gros, Foucault est-il devenu classique?, intervento alla giornata di studi «Relire
le Foucault de la Pléiade», organizzata da Bernard Harcourt all’EHESS il 6 gennaio 2016.
Foucault – un “classico”? 7

del semplice commento; al contrario, un “classico” si conigura come una


fonte (potenzialmente) inesauribile di nuovi spunti, di nuove rilessioni, di
nuovi inizi, di modalità inedite di guardare al proprio presente. Insomma,
come una fonte inesauribile di nuovi usi.
È per questo che il lavoro di edizione critica e di commento dei testi
(con la sua inevitabile tendenza “ilologizzante”) e il lavoro con e a partire
da Foucault (ovvero i molteplici usi che di tali testi possono essere fatti,
nel presente) non possono e non dovrebbero essere disgiunti in modo
radicale. Il primo lavoro è essenziale per rendere disponibili quei testi agli
studiosi e al pubblico, ricordando in maniera salutare che un pensiero non
si forma mai nel vuoto, ma che è sempre situato, e che comprendere le sue
condizioni storiche e sociopolitiche di emergenza signiica già, almeno in
parte, intuirne le potenzialità euristiche e critiche nei confronti del pre-
sente. Il secondo lavoro, dal canto suo, rende giustizia a un impulso che
rappresenta il motore stesso del pensiero di Foucault, ovvero il tentativo di
andare costantemente oltre se stesso, di superarsi, mettendo in discussione i
propri stessi limiti e aprendo ogni volta lo spazio per quella sperimentazio-
ne della quale già si è detto. Ci sembra, del resto, che questo doppio lavoro
si possa riscontrare anche nel rapporto che Foucault stesso, in particolare
alla ine della sua vita, ha stabilito con i “classici” del pensiero antico: estre-
mamente attento alla lettera del testo, alle sfumature della lingua greca e
latina, alle interpretazioni savantes, Foucault non si è però mai accontentato
di fornire un (ulteriore) commento ai “classici” che volta a volta ha analiz-
zato – Platone, Seneca, Marco Aurelio, Epitteto, ecc. –, ma li ha piuttosto
utilizzati (in un gesto che esclude sin dall’inizio l’applicazione, a suo propo-
sito, delle categorie di fedeltà/infedeltà, legittimità/illegittimità) per nutri-
re un pensiero che non ha mai cessato di essere mosso da preoccupazioni
e da poste in gioco derivate dal suo presente.
Come detto in apertura, ci sembra del resto che la stessa postura ana-
litica debba essere mobilitata di fronte a ciò che deiniamo qui “Foucault
come metodo”. Con tale espressione non intendiamo in generale l’uso, o
meglio gli usi, fatti delle analisi foucaultiane in molteplici campi del sapere,
ben oltre la ilosoia, né crediamo che si tratti di issare limiti o criteri per
gli usi “legittimi” e possibili dei testi di Foucault. “Foucault come metodo”
designa piuttosto la tendenza, sempre più visibile nel campo delle scienze
politiche e sociali (in particolare nel mondo anglosassone), a erigere Fou-
cault e il suo lavoro a una sorta di grimaldello metodologico attraverso il
8 Cremonesi, Irrera, Lorenzini, Tazzioli

quale sarebbe possibile decifrare e interpretare ogni fenomeno e trasfor-


mazione sociale. Anche in questo caso, ciò che si rischia di produrre è una
“issazione” del pensiero di Foucault, per quanto in un senso differente
rispetto alla sua riduzione a oggetto di interesse meramente ilologico. La
monumentalizzazione di Foucault può signiicare, infatti, la sua normaliz-
zazione come autore e la neutralizzazione della politicità intrinseca delle
sue analisi, in nome di una esegesi dei testi che tende a imporre una scala
di “gradi di fedeltà” a questi ultimi. Ciò che chiamiamo “Foucault come
metodo” – ovvero, Foucault come griglia analitica esclusiva attraverso la
quale leggere e interpretare qualunque oggetto di ricerca – si basa invece
su un’opera di normalizzazione non tanto rispetto al contenuto della pro-
duzione foucaultiana, quanto precisamente in relazione alla sua capacità di
funzionare da metro normativo di lettura di tutti i fenomeni. In tale pro-
spettiva, Foucault si trova altrettanto “rinserrato” e schiacciato sui propri
testi, e questo in una duplice direzione. Da una parte, mettendo tra paren-
tesi la complessità e le sfumature del suo lavoro, vengono mobilitate le tesi
più conosciute di Foucault, riducendolo spesso a una serie di formule e as-
serzioni relative al potere disciplinare, al rapporto poteri/resistenze o alla
governamentalità. D’altra parte, i testi di Foucault – da lui stesso concepiti
come “bombe” da utilizzare per mettere in luce conigurazioni emergenti
di potere e per mostrarne la modiicabilità e la contingenza – vengono di
fatto “disinnescati” nei loro effetti potenziali di interruzione delle forme
di pensiero correnti: più che strumenti da utilizzare per far emergere l’in-
tollerabile dei meccanismi di assoggettamento in un contesto dato, i testi di
Foucault vengono così elevati a mera armatura teorico-metodologica da mo-
bilitare contro paradigmi alternativi – si pensi ad esempio allo scontro al
quale assistiamo da qualche anno, nel campo delle relazioni internazionali,
tra agambeniani (sostenitori delle tesi sullo stato di eccezione e sulla nuda
vita) e foucaultiani.
Tuttavia, mettere in discussione il gesto accademico di assumere “Fou-
cault come metodo” e come metro di ogni analisi non signiica affatto voler-
si esimere dal rivendicare e dall’esercitare un atteggiamento metodologico
di tipo foucaultiano. Al contrario, vi è un’accezione possibile di “Foucault
come metodo” che si distanzia da ogni metro normativo costruito a parti-
re dai testi foucaultiani per orientarsi invece verso una problematizzazione
del tipo di produzione di sapere che si dà oggi nello spazio accademico e
al di fuori di esso. Ripartire dalle indicazioni metodologiche di Foucault
Foucault – un “classico”? 9

rispetto alla politica e alla funzione del sapere e utilizzarle come armi per
affermare l’indeinita criticabilità del proprio presente signiica attingere
alle sue analisi nel tentativo di riattivarne il potenziale esplosivo, aprendo
così spazi di critica e di azione rispetto all’oggi che spetta a noi creare senza
(volerne o poterne) cercare la formulazione nei testi di Foucault. In questo
senso, ci possiamo rifare al celebre avvertimento metodologico enunciato
da Foucault in Nietzsche, la genealogia, la storia: «il sapere non è fatto per co-
noscere, è fatto per prendere posizione»4. Oggi si tratta forse di spingere
ancora oltre tale avvertimento, interrogandosi su cosa “prendere posizio-
ne” voglia dire e su come ripensare la nostra posizione all’interno della
produzione di sapere contemporaneo.

Londra, Marsiglia, Parigi, Pisa marzo 2016


Laura Cremonesi, Orazio Irrera,
Daniele Lorenzini, Martina Tazzioli

M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, in Id., Il discorso, la storia, la verità, Einaudi,


4

Torino 2001, p. 55.


Il pensiero politico di Foucault
a cura di Orazio Irrera e Salvo Vaccaro
Introduzione
Orazio Irrera, Salvo Vaccaro

Questo dossier monograico di materiali foucaultiani raccoglie i contri-


buti relativi al Convegno Internazionale “Il pensiero politico di Fou-
cault: governamentalità, biopolitica, post-democrazia”, svoltosi a Pa-
lermo il 27 e il 28 novembre 2014. La scelta di dedicare questo evento
al pensiero politico di Foucault non deve certamente essere letta in
riferimento alle sue particolari idee in fatto di politica, né all’interroga-
zione tutta accademica se sia lecito parlare di teoria politica nel quadro
del pensiero di Foucault o sia più opportuno declinare il suo interesse
verso la politica in senso analitico, piuttosto che ilosoico-politico. In
effetti, molteplici sono i signiicati della nozione foucaultiana di politica,
tanto quanto lo sono gli effetti politici del suo pensiero. In questo lemma,
convivono quindi diversi percorsi di analisi, legati reciprocamente ma
snodabili singolarmente.
Uno di questi è rintracciabile nella critica del paradigma sovranista,
tipico dell’intera teoria politica moderna, che Foucault intraprende sia
per disvelare la inzione contrattuale quale base trascendente dell’affer-
mazione di una autorità politica legittima, sia per analizzare lo speciico
détournement che la pratica liberale di governo effettua contro i poteri
tradizionali di ordine regale all’indomani della Gloriosa rivoluzione e,
più in generale, nel momento in cui le forze liberali cercano di pro-
porre e imporre il modello di mercato quale sfondo vincolante dell’e-
sistenza dello Stato nazionale. A partire da questa critica, si possono
individuare diverse linee di rilessione che declinano la problematizza-
zione della politica in Foucault (o a partire da Foucault) in funzione
dei temi principali proposti al convegno di Palermo: tanto quelli della
governamentalità e della biopolitica, quanto quelli meno direttamente
foucaultiani legati all’idea di post-democrazia. Sono queste linee di ri-
lessione a fornire i principali assi tematici attorno ai quali si sviluppa-
no molti dei contributi presenti in questo numero.
La prima linea di rilessione intende restituire, sottraendola alla
rimozione subita, la violenza costitutiva dello Stato moderno, nato

materiali foucaultiani, a. IV, n. 7-8, gennaio-dicembre 2015, pp. 11-15.


12 Orazio Irrera, Salvo Vaccaro

dall’accentramento di poteri singolari e di autonomie diffuse nel corpo


di una società della quale lo Stato, cercando di diventarne padrone, ha
tendenzialmente saturato ogni vitalità, lasciando al lavoro del genea-
logista la scoperta di tutta una serie di saperi minori e assoggettati nel
corso di tanti conlitti, le cui tracce, pur essendo labili, costituiscono
nondimeno un contrappunto indispensabile per cogliere il punto di
vista di Foucault. In questo senso, si tratta di mostrare come Foucault
rimetta il modulo della guerra in quanto analyseur delle relazioni di po-
tere al centro non solo della storia, bensì della vita politica moderna,
legando tra loro vari momenti della modernità – dall’attacco all’autori-
tà assoluta condotto, dal Rinascimento ai Lumi (con i suoi intenti pro-
gressisti e liberatori), attraverso prerogative discriminanti e in favore di
diritti in capo ai singoli individui, tra l’emergere di pratiche e istituzioni
penali in cui lo Stato si manifesta per punire e l’affermazione di un
diritto di conquista su cui la colonizzazione europea si è considere-
volmente appoggiata, servendosi delle colonie come di un laboratorio
della propria modernità.
La seconda linea di rilessione, parallelamente, esamina da vicino e
in modo minuzioso i regimi discorsivi e i dispositivi di potere dell’epo-
ca liberale (leggi, libri, regolamenti, norme tecniche, analisi disciplinari,
ecc.), operando quella connessione di eterogenei che costituisce una del-
le cifre più rilevanti del modo di procedere di Foucault. È a questo livello
che l’affermazione sempiterna di meno Stato, più mercato non gioca solo il
ruolo di eficace slogan elettorale, bensì rivela una razionalità di governo
che presenta importanti elementi di speciicità rispetto al potere sovrano
e che, gradatamente, dispiega una forza di autorità più sottile, più perva-
siva, più capace di aggirare, contenere e mettere a tacere i conlitti, più
seduttiva (nel senso letterale di “attrarre a sé”). Ma questo slittamento
inisce per conigurare in modo diverso anche il rapporto tra governanti
e governati, secondo quella modalità che Foucault ha designato come
governamentalità e che consiste nel condurre la condotta degli uomini,
strutturandone in anticipo il loro possibile campo di azione. Da questo
punto di vista, i rapporti tra saperi e poteri si conigurano in un spazio di
dispersione in cui una molteplicità di pratiche discorsive e di dispositivi
di normalizzazione che mettono in discussione la centralità e la vertica-
lità del potere sovrano (ino a parlare di “governamentalizzazione dello
Stato”) alludono in qualche modo anche a quella stessa dispersione che
si può oggi ritrovare nel termine anglosassone di governance.
Introduzione 13

Una terza linea di rilessione insiste invece sul passaggio dall’era mo-
derna all’era contemporanea che si compie seguendo il cammino che dal
liberalismo classico conduce al neo-liberalismo odierno, in cui il terremoto
sociale prodotto da quest’ultimo colpisce sempre più sia una dimensione
interna ai singoli Stati sovrani nazionali, sia un quadro geopolitico trans-
nazionale, segnato dalla globalizzazione di capitali, merci e stili di vita, in
cui le cose acquistano più valore degli individui, ridotti a non-persone, a
prescindere dal colore della pelle o dalle fedi anelate. Così, l’indicibilità
della violenza costitutiva del potere sovrano, rimossa attraverso l’idea di
contratto sociale, dislocata in uno spazio pre-politico, forclusa dall’istanza
liberale di governo razionale, relegata a emergenza eccezionale nel pieno
dello scontro imperiale delle guerre mondiali o mondializzate, patologiz-
zata sotto forma di reazione animalesca di istinti primordiali duri a civi-
lizzarsi, scaraventata inine nelle periferie del mondo per procura, ritorna
prepotentemente nella quotidianità sotto forma di precarietà generalizzata
dell’esistenza (considerata nelle sue determinazioni di classe, razza o ge-
nere), e inisce persino per modiicare la forma stessa della politica. Con
ciò sembrerebbe che la discorsività politica in senso aureo si sia inceppata
là dove il pensiero politico declinava il realismo politico sul piano interno
e internazionale, immunizzandosi attraverso questo stesso gesto dal virus
della potenza, della forza violenta elevata a cifra sistemica. Ma questo ac-
cadeva non nel segno dell’oscillazione disgiuntiva, come si è sempre data la
dialettica tra due ottiche egemoni di lettura (o violenza sovrana o contrat-
to sociale), bensì sotto il prisma della coincidenza, ossia nella compresenza
necessaria delle due tattiche del potere politico, ricondotte a unità e allo
stesso tempo sovradeterminate dalla governamentalità neoliberale.
Soffermarsi allora sul nesso tra governamentalità e potere signiica analiz-
zare i modi in cui Foucault precisa la sua nozione di razionalità di governo,
mostrandoci l’intreccio di saperi e poteri che la costituiscono, le pressioni
normalizzanti che producono determinati e sottili effetti di soggettiva-
zione, la soglia di biforcazione con il paradigma della sovranità attraverso
il prisma delle contro-condotte e delle resistenze che la governamentali-
tà neoliberale produce. Signiica esaminare da vicino il complesso della
governamentalità neoliberale, nella sua ricostruzione storica e nelle sue
conseguenze distruttive per la società e in relazione a una certa economia
che subisce un appiattimento dirompente sulla preponderante dimensio-
ne inanziaria. Signiica altresì interrogarsi sulle trasformazioni del potere
14 Orazio Irrera, Salvo Vaccaro

politico, del suo concetto e della sua pratica, inseguendone le dinamiche


barocche sin dentro le sue pieghe più profonde in cui esso appare lontano
da ogni dinamica di rappresentanza. Signiica anche sondare l’anima delle
tattiche governamentali nei suoi rilessi sui processi di soggettivazione, i
quali trovano una feconda base di partenza nelle analisi foucaultiane in-
torno all’obbligo di dire il vero su di sé in Occidente, una dimensione che
Foucault chiama “aleturgia” e all’interno della quale si collocano le sue
analisi, dalle perizie medico-legali alla confessione cristiana, dalla cura di
sé alla parrhesia.
È rispetto a questa dimensione aleturgica che si tratta di cogliere come,
secondo Foucault, gli stessi rapporti tra soggettività e verità si ridisegnino
a partire dallo sforzo politico di rimettere in questione ogni presunta evi-
denza e necessità del potere. Da questa prospettiva si tratta di andare al di
là della questione marxista dell’ideologia e di far apparire sotto una nuova
luce l’intento di storicizzazione radicale implicito nelle analisi genealogica
delle modalità attraverso le quali la verità si manifesta nella costituzione
stessa di una soggettività – sospesa tra l’assegnazione normativa di un’i-
dentità e la possibilità di un atteggiamento critico volto a contestare quelle
stesse norme che cercano di costituirla. Questo modo di problematizzare
i rapporti tra soggettività e storia politica della verità si pone quindi come
un’alternativa rispetto alla trama liberale intessuta di diritti e obblighi di
natura normativa che avvolge il soggetto e determina i suoi rapporti con
il potere e la verità.
Attraverso questi snodi concettuali la nozione di governamentalità, in
quanto “condotta delle condotte”, mostra quella molteplicità di signiica-
ti che Foucault stesso ha spesso rilevato: dirigere e comandare, ma pure
orientare e guidare, e inine anche modo di condursi. A partire da questa
polisemia, il tema del potere risulta strutturalmente attraversato da una
conlittualità che lo rende, nel solco di Nietzsche, lo spazio di un agoni-
smo incessante, nella cui immanenza si sviluppano resistenze, pratiche o
saperi attorno ai punti di non-accettazione del potere, i quali possono po-
liticamente comporsi attraverso l’invenzione di inedite forme di esistenza
che eccedono l’ordine discorsivo e normativo del potere. Da qui, peraltro,
si arriva anche a comprendere meglio lo scetticismo di Foucault verso la
democrazia nella forma dello Stato di diritto – regime politico non certo
al centro delle sue preoccupazioni teoriche e analitiche. Ed è proprio que-
sto scetticismo a far sì che il suo pensiero politico si presenti anche come
Introduzione 15

una griglia di intelligibilità per la comprensione di uno scenario post-de-


mocratico in cui si assiste, da un lato, alla de-politicizzazione delle società
moderne e contemporanee, ipotecate dal liberalismo classico prima e dal
neoliberalismo successivamente; e dall’altro, all’emergere di esperienze di
auto-organizzazione politica e sociale che tentano di sottrarsi alla trama
vischiosa della politica istituita, creando spazi di invenzione e di sperimen-
tazione politica.
Bisogna inine osservare come, specialmente in Italia, il concetto di
biopolitica e di biopotere, anch’essi al centro di alcuni dei contributi di
questo numero, delineino da tempo un orizzonte analitico e politico di
cruciale importanza, non solo perché sono al centro di numerose rilessio-
ni ilosoiche che vanno persino oltre il campo delle analisi foucaultiane,
ma anche perché risultano strumenti fondamentali per rivolgersi alla no-
stra attualità. Investigando tanto le odierne modalità di azione del potere
politico quanto la speciicità delle nuove conigurazioni globali della po-
litica attraverso il prisma di una biopolitica che si trasforma in funzione
delle esigenze dell’attuale governamentalità neoliberale, diventa possibile
individuare alcuni dei suoi più importanti effetti, transnazionali e locali: dai
rapporti tra capitale e lavoro alla gestione e alla moltiplicazione di spazi e
frontiere sui cui insistono tragicamente i percorsi di vita di milioni di per-
sone, dalla pressione sulle inanze nazionali e familiari ino ai nuovi assetti
del mondo del lavoro precarizzato.
È proprio in virtù dell’ampiezza di questo orizzonte tematico e della
molteplicità degli angoli di attacco relativi alla questione della politica in
Foucault che la convergenza di numerosi studiosi internazionali attorno
a questo tema ci è sembrato, ad oltre trent’anni dalla sua scomparsa, un
compito ineludibile, sia rispetto alle sue analisi e al presente da cui esse
sono scaturite, sia rispetto alla loro incredibile attualità, che può ancora
oggi essere colta grazie ai suoi strumenti concettuali e alle sue strategie
analitiche, permettendoci inine di problematizzare il nostro atteggiamen-
to intorno ai modi politici di stare al mondo.
Foucault e la post-democrazia neoliberale
Oltre la “critica inlazionistica dello Stato”
Ottavio Marzocca

Liberalismo, democrazia, governamentalità

Prenderò spunto da un testo pubblicato da Norberto Bobbio nel 1981


(Liberalismo vecchio e nuovo), nel quale il ilosofo italiano coglie lucidamente il
nesso che in quel momento si va delineando tra l’ascesa prepotente del ne-
oliberalismo e la possibilità di una “crisi della democrazia”. Nel suo testo,
Bobbio ricostruisce i termini essenziali del discorso con il quale il neoli-
beralismo si sta affermando progressivamente insistendo nella sua critica
radicale del welfare state: quest’ultimo – secondo i neoliberali – si è arrogato
il compito di offrire in misura crescente assistenza e servizi sociali ai cit-
tadini, adottando inevitabilmente decisioni parziali a favore di alcuni e a
svantaggio di altri, accrescendo a dismisura la spesa statale, mortiicando
la libertà di iniziativa economica e imboccando così «la via della schiavitù
[the road to serfdom]», come recita il titolo del libro più famoso di Friedrich
A. von Hayek. Secondo Bobbio, attraverso questa critica neoliberale delle
politiche del welfare state, «liberalismo e democrazia […] mostrano di non
essere più del tutto compatibili», dal momento che quelle politiche sono
comunque frutto degli sviluppi della democrazia1. Insomma, ciò che al
ilosofo italiano sembra del tutto chiaro è che il discorso neoliberale non
soltanto si sta traducendo in politiche vincenti con l’ascesa al potere di
Margaret Thatcher e di Ronald Reagan, ma ormai mette decisamente in
questione la forma democratica dello Stato come si è conigurata storica-
mente attraverso il suffragio universale, i partiti di massa e la nascita dello
Stato sociale2.
Nulla di tutto questo sembra emergere immediatamente dal Corso
che Foucault dedica al liberalismo e al neoliberalismo due anni prima, nella

1
N. Bobbio, Liberalismo vecchio e nuovo, in «MondOperaio», vol. 34 (1981), n. 11,
pp. 86-94, ora in N. Bobbio, Etica e politica. Scritti di impegno civile, a cura di M. Revelli,
Arnoldo Mondadori, Milano 2009, p. 898.
2
Ivi, pp. 888-901.

materiali foucaultiani, a. IV, n. 7-8, gennaio-dicembre 2015, pp. 17-37.


18 Ottavio Marzocca

stessa cruciale congiuntura storica. Ciò che a lui interessa è mettere a fuoco
innanzitutto gli elementi essenziali della governamentalità liberale e, in se-
condo luogo, le trasformazioni che l’hanno portata ai suoi aggiornamenti
neoliberali. Perciò, pur ponendo in luce con nettezza che il neoliberalismo
ormai determina «il senso del vento»3, egli non sembra percepire il rapporto
fra l’imporsi di questo «senso del vento» e la possibile crisi della democrazia,
che Bobbio invece intravede.
Da parte mia, qui cercherò di veriicare se ci si possa accontentare di
questa impressione o se piuttosto il lavoro svolto da Foucault nel Corso del
1979 non ci solleciti a impostare diversamente la questione, ovvero innan-
zitutto a riconoscere come una caratteristica intrascurabile del liberalismo la
debolezza del suo legame con la democrazia e, in secondo luogo, a veriicare
in quale misura questa debolezza si ripresenti nel neoliberalismo.
Comunque sia, l’apparente disattenzione foucaultiana verso i destini
immediati della democrazia a prima vista sembra potersi spiegare con il suo
marcato dissenso – messo bene in luce da Senellart – verso gli allarmi per i
pericoli di «fascistizzazione» dello Stato, lanciati negli anni settanta da certi
movimenti della sinistra francese4. Ciò che, però, è interessante in proposito
è che – secondo Foucault – questi allarmi di fatto convergono con la ricor-
rente denuncia neoliberale delle tendenze alla statalizzazione della società e
delle minacce totalitarie che ne deriverebbero. Sia questa denuncia sia i timo-
ri di fascistizzazione dello Stato a lui appaiono ingannevoli soprattutto per
una ragione: perché, a suo avviso, nella nostra epoca lo Stato non è lo stru-
mento di una statalizzazione crescente e oppressiva della società, ma è piut-
tosto l’oggetto di una governamentalizzazione che lo tocca e lo oltrepassa al
tempo stesso5. Insomma, il suo dissenso verso certe enfatizzazioni negative
del ruolo dello Stato deriva dal suo riiuto di un «luogo comune critico» che
egli deinisce «fobia di Stato»6. Si tratta – a suo parere – di una «fobia» che

3
M. Foucault, Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France. 1978-1979, a cura
di M. Senellart, Seuil/Gallimard, Paris 2004, p. 197.
4
Ibidem; M. Foucault, Michel Foucault: la sécurité et l’État, intervista con R. Lefort, in
«Tribune socialiste», 24-30 novembre 1977, ora in M. Foucault, Dits et écrits, 1954-1988, a
cura di D. Defert et F. Ewald, Gallimard, Paris 1994, t. III, p. 387; M. Senellart, Situation
du cours, in M. Foucault, Sécurité, territoire, population. Cours au Collège de France. 1977-1978, a
cura di M. Senellart, Seuil/Gallimard, Paris 2004, pp. 385-386.
5
M. Foucault, Naissance de la biopolitique, cit., pp. 197-198; cfr. Id., Sécurité, territoire,
population, cit., pp. 112-113.
6
M. Foucault, Naissance de la biopolitique, cit., p. 193.
Foucault e la post-democrazia neoliberale 19

trova nel neoliberalismo alcune delle sue espressioni più problematiche,


che nel suo Corso egli pone decisamente in discussione7.
Ora, io credo che proprio in questo modo Foucault ci offra la pos-
sibilità di mettere a fuoco l’attuale debolezza del rapporto fra liberalismo
e democrazia; ma non meno importante è che nel suo Corso egli ci aiuta
anche a ricostruire i presupposti storici di questa debolezza.

Opportunità più che necessità

Nel suo Corso del 1979 Foucault non riconosce alcun legame privi-
legiato fra il liberalismo e la democrazia, limitandosi peraltro ad intendere
per “democrazia” le forme istituzionali che normalmente vengono iden-
tiicate con la “democrazia liberale”, ossia il sistema rappresentativo e lo
Stato di diritto. Tutto questo risulta in qualche modo dal fatto che la sua
indagine inquadra il liberalismo non tanto come cultura politica, quanto
come razionalità e pratica di governo. Da questo punto di vista, per lui, il
liberalismo non è altro che una “continuazione con altri mezzi” della go-
vernamentalità essenzialmente economica inaugurata dalla Ragion di Stato
e praticata dallo Stato di polizia mediante le politiche mercantiliste. In de-
initiva la governamentalità liberale trova le sue condizioni di possibilità in
un contesto storico in cui né il diritto né la rappresentatività di chi governa
né la democrazia costituiscono preoccupazioni primarie. Partendo da que-
ste condizioni, il liberalismo continuerà ad affrontare gli stessi problemi di
cui si occupava già lo Stato di polizia e a perseguire i suoi stessi obiettivi:
arricchimento dello Stato, crescita della popolazione in rapporto allo svi-
luppo della produzione, equilibrio competitivo fra i paesi8.
Impostando in questi termini la genealogia del liberalismo, Foucault
ne spiega il successo storico soprattutto col fatto che attraverso l’econo-
mia politica esso riesce a far funzionare il libero mercato come principio
di limitazione interna delle pratiche di governo tendenzialmente illimitate,
inaugurate all’epoca della Ragion di Stato. Ciò che più conta in tal senso
– secondo lui – è che l’economia politica liberale indica nel libero funzio-
namento del mercato la natura indipendente delle cose di cui il governo deve
comunque occuparsi, senza aspirare però a determinarle o a controllarle

7
Ivi, pp. 113-120 e 192-198.
8
Ivi, pp. 12-16.
20 Ottavio Marzocca

in ogni loro aspetto. La libertà del mercato è appunto il limite di fronte


al quale una governamentalità costituitasi da tempo come essenzialmente
economica, dovrà sapersi arrestare all’occorrenza, cercando di governare
il meno possibile9.
Se Foucault attribuisce all’economia politica liberale quest’importanza
fondamentale è perché riconosce il ruolo preponderante ed essenziale che
la razionalità economica svolge nella governamentalità moderna rispetto
alla razionalità giuridica, ossia al diritto. Certo, anche il diritto può essere
usato come strumento di limitazione degli eccessi di governo; ma esso
non è decisivo in tal senso, poiché è e resta «esterno» rispetto al terreno
prevalentemente economico su cui la governamentalità moderna si eser-
cita dai tempi della Ragion di Stato. Mediante gli strumenti giuridici si
possono eventualmente richiamare i governanti al rispetto dei principi che
legittimano il loro potere o dei diritti naturali dell’uomo; questi strumenti
però non servono a stabilire se una pratica di governo sia o non sia eco-
nomicamente eficace e se, perciò, abbia ragion d’essere oppure debba
essere evitata o limitata. Viceversa, l’economia politica liberale pretende
di avere questa capacità sia per la sua “afinità” con la materia economica
delle cose da governare sia perché – come dice Foucault – essa si chiede
sempre: «quali sono gli effetti reali della governamentalità al termine del
suo esercizio, e non: quali sono i diritti originari che possono fondare que-
sta governamentalità?»10.
Perciò, se è certamente vero che il diritto e i limiti giuridici cui do-
vrebbe attenersi un governo non avevano grande importanza all’epoca
dello Stato di polizia, è altrettanto plausibile che con la governamentalità
liberale essi non assumeranno una centralità deinitiva e incrollabile. Il che
– secondo Foucault – è dimostrato dal fatto che la prima grande scuola del
liberalismo economico – vale a dire la Fisiocrazia – indica nel dispotismo il
regime politico capace di garantire e controllare eficacemente il buon fun-
zionamento di una libera economia di mercato11. Indubbiamente, la pro-
posta di un simile connubio fra dispotismo e libero mercato può essere il
frutto dell’immediata contiguità fra il liberalismo economico dei isiocrati
e l’assolutismo dell’ancien régime; ma Foucault va oltre questo inquadramen-
to della questione proiettandola in una dimensione più ampia e mettendo

9
Ivi, pp. 16-21.
10
Ivi, p. 17.
11
Ibidem.
Foucault e la post-democrazia neoliberale 21

in luce la problematicità complessiva del rapporto fra liberalismo, da un


lato, diritto e democrazia, dall’altro.
A questo riguardo, ovviamente, egli non nega lo «stretto legame» che il
liberalismo instaurerà nel XIX secolo con lo Stato di diritto e con i sistemi
parlamentari rappresentativi; ma questo, a suo avviso, accadrà soprattutto
per ragioni di opportunità, perché – secondo le sue parole – nella «ricerca
di una tecnologia liberale di governo […] la regolazione mediante la forma
giuridica» risulterà «uno strumento assai più eficace della saggezza e della
moderazione dei governanti»; analogamente, «la partecipazione dei gover-
nati all’elaborazione della legge in un sistema parlamentare» rappresenterà
«lo strumento più eficace di economia governamentale»12. Ciò non toglie,
in ogni caso, che per comprendere a fondo la governamentalità liberale –
secondo Foucault – occorra tener presente un dato storico intrascurabile
che egli illustra in questi termini:

come l’economia politica utilizzata innanzitutto come criterio della governa-


mentalità eccessiva, non era liberale né per natura né per virtù, e anzi essa ha ben
presto indotto atteggiamenti antiliberali (sia nella Nationalökonomie del XIX secolo
sia nelle economie pianiicate del XX secolo), allo stesso modo la democrazia e
lo Stato di diritto non sono stati necessariamente liberali, né il liberalismo è stato
necessariamente democratico o vincolato alle forme del diritto13.

Naturalmente, questa labilità del rapporto fra governamentalità li-


berale, da un lato, democrazia e diritto, dall’altro, non può essere inter-
pretata come un’inconciliabilità insuperabile. Infatti, il liberalismo ela-
bora certamente delle soluzioni giuridiche formalmente democratiche
del problema della limitazione del governo. Esso però ci riesce in modo
eficace per i suoi scopi governamentali soprattutto quando segue la sua
tendenza a non assolutizzare in maniera irrevocabile il legame dell’azio-
ne di governo con il diritto. È per ragioni simili che – secondo Foucault
– fra le due principali soluzioni giuridiche elaborate storicamente in tal
senso dal liberalismo, quella utilitarista inglese nei fatti ha prevalso sulla
soluzione assiomatica scaturita dalla Rivoluzione francese – pur combi-
nandosi in diverse maniere con essa. La soluzione utilitarista è la sola fra
le due ad aver affrontato il problema dei limiti del governo economico

12
Ivi, p. 326.
13
Ivi, p. 327.
22 Ottavio Marzocca

sul suo terreno speciico; in essa infatti la deinizione legislativa di questi


limiti non viene impostata a partire dai diritti imprescrittibili dell’uomo;
viene impostata piuttosto nei termini variabili dell’utilità, dell’inutilità o
della dannosità delle leggi e dell’intervento politico del governo rispetto
agli interessi – innanzitutto economici – che sono in gioco di volta in vol-
ta14. Comunque sia, è abbastanza plausibile che un approccio del genere
– portato alle estreme conseguenze – possa inire per sottoporre la stessa
democrazia alla valutazione secondo il criterio dell’utile e dell’inutile.

Una questione di moralità critica

Se questo è ciò che si può dire – molto in generale – sul liberalismo


classico riguardo ai suoi rapporti con il diritto e la democrazia dal pun-
to di vista foucaultiano, che cosa si può dire, invece, sul neoliberalismo
allo stesso riguardo e dallo stesso punto di vista?
È a questo proposito che assume un valore decisivo la problematiz-
zazione della «fobia di Stato». La necessità di questa problematizzazione
viene indicata dallo stesso Foucault come una delle ragioni principali che
lo hanno spinto a rivolgere tanta attenzione al neoliberalismo. Egli dice
infatti che questa attenzione non è dovuta soltanto al fatto che l’indagine
sulla governamentalità come «politica economica» l’ha resa necessaria;
essa è motivata anche da una «ragione di moralità critica» – come lui la
deinisce – ovvero dall’esigenza di porre in discussione la «critica inla-
zionistica» del ruolo dello Stato, che il neoliberalismo non ha mai smes-
so di svolgere almeno dagli anni trenta del Novecento15. Affrontando
quest’esigenza come una questione di «moralità critica», Foucault ci offre
un esempio concreto della centralità che nella sua ricerca riveste il rap-
porto fra discorso critico, attenzione all’esercizio del potere ed impegno
etico. Si tratta di un rapporto per lui imprescindibile, che egli tematizza
chiaramente già negli anni della sua intensa genealogia della governa-
mentalità16 e che, successivamente, nella sua rilessione sulla parrhesia i-

14
Ivi, pp. 40-48.
15
Ivi, pp. 191-192.
16
Cfr. M. Foucault, Qu’est-ce que la critique? (Critique et Aufklärung), in «Bulletin de la
Société française de Philosophie», n. 2 (1990), pp. 35-63.
Foucault e la post-democrazia neoliberale 23

losoica proporrà con estrema nettezza nei termini di un’impossibilità di


pensare le questioni della verità, del potere e dell’ethos al di fuori di una
reciproca relazione al tempo stesso necessaria e problematica17.
Tornando alla critica neoliberale dello Stato, ciò che di essa a Foucault
appare inaccettabile è innanzitutto «l’idea che lo Stato possieda in sé, grazie
al suo stesso dinamismo, una sorta di potenza di espansione, un’intrinseca
tendenza a crescere, un imperialismo endogeno che lo spinge incessante-
mente ad espandersi» ino «a prendere totalmente in carico la società civi-
le». Di questa critica, inoltre, a lui risulta profondamente discutibile l’idea

che esista una parentela, una sorta di continuità genetica, di implicazione


evolutiva tra diverse forme di Stato, lo Stato amministrativo, lo Stato assistenzia-
le, lo Stato burocratico, lo Stato fascista, lo Stato totalitario, considerate tutte, a
seconda del tipo di analisi, come i rami successivi di un solo e identico albero che
crescerebbe nella sua continuità e nella sua unità, e che sarebbe il grande albero
statale18.

Una volta date per scontate l’intrinseca tendenza dello Stato a fagoci-
tare la società e la temibile parentela fra tutte le forme di statalismo vero
o presunto, una serie indeinita di cortocircuiti analitici diviene possibile,
secondo Foucault: si può arrivare a sostenere, per esempio, che gli apparati
amministrativi su cui si basa la sicurezza sociale rischino di avviarci verso
i campi di concentramento; in qualunque atto autoritario delle istituzioni
politiche si può inire per ravvisare l’annuncio del peggio; e così non ci si
sentirà più tenuti ad analizzare nella loro speciicità i problemi e i pericoli
veramente attuali19.
Comunque sia, a rendere decisamente inafidabile la critica neoliberale
dello Stato – secondo Foucault – è che essa non si interroga affatto su se
stessa; essa è del tutto indisponibile a riconoscere il peso delle condizioni
storiche in cui i suoi argomenti sono maturati. Queste condizioni – egli
dice – si sono date soprattutto negli anni trenta e quaranta del Novecento,
quando il neoliberalismo ha dovuto fare i conti non solo con le politiche
del socialismo sovietico e del nazismo, ma anche con il Keynesismo, il

17
M. Foucault, Le courage de la vérité. Le gouvernement de soi et des autres II. Cours au Collège
de France. 1984, a cura di F. Gros, Seuil/Gallimard, Paris 2009, p. 65.
18
M. Foucault, Naissance de la biopolitique, cit., pp. 192-193.
19
Ivi, pp. 193-194.
24 Ottavio Marzocca

New Deal americano, il Fronte popolare francese, il Piano Beveridge in-


glese e così via20. Da quel momento il fallimento del liberalismo classico,
cui rinviava ognuno di questi fatti storici, è stato rovesciato nell’idea che
ciascuno di essi fosse apparentato con l’altro da una «invariante anti-libe-
rale». Assimilando fra loro strategie, situazioni e regimi diversi in quanto
uniti dall’anti-liberalismo, autori come Friedrich A. von Hayek e Wilhelm
Röpke hanno cominciato a indicare nell’interventismo economico-politi-
co che li segnava in misure differenti, il fattore che comunque li legava al
totalitarismo o li incamminava sulla sua strada21.
A questo riguardo Foucault non si limita ad obiettare, in partico-
lare, che lo «Stato assistenziale, lo Stato del benessere, non ha la stessa
forma, né […] la stessa matrice, la stessa origine dello Stato totalitario,
dello Stato nazista, fascista o stalinista»22; egli sostiene soprattutto che
il totalitarismo, in realtà, è l’esito di una delle due forme di indebolimento
dello Stato, che si affermano nel Novecento ognuna attraverso una propria
governamentalità: la prima è la governamentalità di partito che ha prodotto i
regimi totalitari sottomettendo le istituzioni statali alla ferrea supremazia
degli apparati partitici, appunto; la seconda, invece, è esattamente la gover-
namentalità neoliberale che destabilizza continuamente il ruolo dello Stato,
denunciandolo come fonte di pericoli costanti23.
Può forse suscitare sorpresa la nettezza con cui Foucault respinge
le enfatizzazioni neoliberali del ruolo negativo dello Stato. Da lui ci si
aspetterebbe piuttosto il sostegno a qualunque denuncia dei pericoli de-
rivanti dalla presenza statale nella società. Ma questa aspettativa si basa,
in realtà, sull’idea secondo la quale la sua visione del potere sarebbe ri-
ducibile a una sorta di “antistatalismo” preconcetto. Proprio una simile
idea, infatti, ha spinto certi suoi critici a interpretare l’attenzione che egli
ha dedicato al neoliberalismo come la prova di una fascinazione incon-
fessata che esso avrebbe esercitato su di lui. Perciò, soprattutto il Corso
del 1979 non sarebbe che l’espressione velata di una «profonda afinità»
fra il suo pensiero e il neoliberalismo, basata sul «comune sospetto verso

20
Ivi, pp. 194-195.
21
Ivi, pp. 114-115 e 195-196; cfr. F.A. von Hayek, The Road to Serfdom (1944), Rout-
ledge, London-New York 2001; W. Röpke, Civitas Humana: Grundfragen der Gesellschafts und
Wirtschaftsreform, Rentsch, Erlenbach-Zürich 1944.
22
M. Foucault, Naissance de la biopolitique, cit., p. 196
23
Ivi, pp. 196-198.
Foucault e la post-democrazia neoliberale 25

lo Stato»24. Leggendo i testi di questi critici, però, ci si rende conto facil-


mente che essi ignorano deliberatamente – o per pura supericialità – il
netto dissenso che Foucault ha espresso verso la critica neoliberale dello
Stato. Lo stesso “antistatalismo” che gli si può attribuire, attraverso que-
sto dissenso si rivela tutt’altro che conciliabile col neoliberalismo. Per lui,
infatti, non esiste alcun nesso necessario fra l’esigenza di problematizzare
il ruolo dello Stato e la sua riduzione a fattore di sottomissione inarresta-
bile della società. Quest’esigenza nella sua ricerca si traduce piuttosto nel
decentramento costante della sua attenzione verso le forme di “governo
degli uomini”, che aggirano e attraversano lo Stato rivelando il suo essere
parte di insiemi di poteri più complessi di quelli immaginati da chi ne en-
fatizza il ruolo in senso positivo o negativo25.
In ogni caso, proprio su queste basi Foucault riesce a smontare nel
modo che abbiamo visto la critica neoliberale dello Stato. Ed è così che
indirettamente egli ci pone anche in condizione di comprendere quale spa-
zio il neoliberalismo sia veramente disposto a concedere alla democrazia.

La rifondazione economica dello Stato

Innanzitutto, in proposito è importante considerare che nell’analisi


foucaultiana è il neoliberalismo tedesco ad assumere la rilevanza maggiore.
Fra le ragioni di questa rilevanza certamente c’è il fatto che esso è la prima
forma di neoliberalismo a mettere in pratica – all’indomani della seconda
guerra mondiale – una governamentalità nettamente basata sull’assunto
secondo il quale l’interventismo economico-politico sarebbe da scartare a
priori in quanto potenzialmente totalitario. Altrettanto importante, inol-
tre, è che i neoliberali tedeschi (“ordoliberali”) svolgono un ruolo fonda-
mentale nella ricostruzione dello Stato nella Germania occidentale: dal
loro punto di vista, se uno Stato democratico può essere ricostruito dopo
il nazismo, esso non può essere uno Stato democratico qualunque; esso

24
M.C. Behrent, Le libéralisme sans l’humanisme. Michel Foucault et la philosophie du libre
marché, 1976-1979, in D. Zamora (a cura di), Critiquer Foucault. Les années 1980 et la tenta-
tion néolibérale, Aden, Bruxelles 2014, p. 46; cfr. D. Zamora, Foucault, la gauche et les années
1980, in D. Zamora (a cura di), Critiquer Foucault, cit., pp. 6-11; Id., Foucault, les exclus et le
dépérissement néolibéral de l’État, in D. Zamora (a cura di), Critiquer Foucault, cit., pp. 87-113.
25
Cfr. M. Foucault, Sécurité, territoire, population, cit., pp. 112-113, 253, 362.
26 Ottavio Marzocca

deve essere piuttosto uno Stato i cui cittadini saranno posti in dall’inizio
nelle condizioni di esercitare la propria libertà innanzitutto come liber-
tà economica26. Su questa base – sostiene Foucault – viene inaugurato
un rapporto di funzionalità diretta fra Stato di diritto ed economia di
mercato, per cui si può dire che lo Stato della Germania occidentale si
costituisca come «Stato radicalmente economico»27. Lo Stato democra-
tico, insomma, qui si proila in dall’inizio come il guardiano attento del
libero mercato, che eventualmente può operare degli interventi non tan-
to sull’economia, quanto su ciò che dall’esterno ne può compromettere
il funzionamento secondo il principio della concorrenza28.
In realtà – come emerge dalla stessa analisi di Foucault – non sono
soltanto gli ordoliberali tedeschi a teorizzare la necessità di un nesso
immediato fra Stato di diritto e libertà economica. A questo riguardo,
infatti, è imprescindibile anche l’inluentissima rilessione di Friedrich
A. von Hayek. Ferme restando le intrascurabili differenze di posizioni
che si danno fra gli ordoliberali ed Hayek, anche secondo quest’ultimo la
stabile garanzia giuridica della libertà come libertà economica è la con-
dizione costantemente necessaria della legittimità di uno Stato di diritto
democratico. Anche per lui lo Stato di diritto scongiura il rischio tota-
litario soltanto se istituisce e fa rispettare regole certe e universalmente
valide del gioco della concorrenza economica29.
Comunque sia, tanto nel caso di Hayek che in quello dei neoliberali
tedeschi, «l’idea di far valere i principi di uno stato di diritto nell’eco-
nomia» non mira semplicemente a ripudiare le esperienze nazi-fasciste
e il socialismo sovietico. In realtà, quest’idea mira «a tutt’altro» – dice
Foucault –; essa mira «a tutte le forme di intervento legale nell’ordine
dell’economia che […] soprattutto gli stati democratici» hanno comin-
ciato a praticare col «New Deal americano» e con «la pianiicazione di
tipo inglese»30. Da questo punto di vista, in sostanza, a risultare intolle-
rabile per il neoliberalismo è il fatto che delle politiche interventistiche
siano scaturite dal seno stesso di paesi liberali per antonomasia. Anche
per questo – in particolare per i neoliberali tedeschi – il libero mercato

26
M. Foucault, Naissance de la biopolitique, cit., pp. 82-86.
27
Ivi, p. 87.
28
Ivi, pp. 176-184.
29
Ivi, pp. 177-179; cfr. F.A. von Hayek, The Road to Serfdom, cit., pp. 75-90.
30
M. Foucault, Naissance de la biopolitique, cit., pp. 176-177.
Foucault e la post-democrazia neoliberale 27

non può più essere considerato nei termini di un ingenuo “naturalismo”:


per loro, il mercato non è più la “natura” delle cose economiche cui lo
Stato deve semplicemente concedere spazio. Esso deve essere l’oggetto di
un’opzione preventiva e permanente che deinisce le funzioni principali e
delimita lo spazio delle istituzioni politiche, fondandone così la legittimità
e marcando precisamente il senso del loro essere democratiche31.

Acrobazie del diritto

Anche il ruolo che qui Foucault riconosce al diritto sembra poter su-
scitare qualche sorpresa. Egli, infatti, generalmente ne mette profonda-
mente in discussione l’importanza sia politica che euristica, poiché lo con-
sidera strettamente connesso all’idea riduttiva di potere, corrispondente al
concetto di sovranità32. In ogni caso, nel Corso del 1979 la “secondarie-
tà” del diritto viene confermata, dal momento che esso risulta comunque
meno adeguato dell’economia politica sul piano governamentale. Tuttavia
Foucault lo associa in modo esplicito anche alla democrazia, pur conside-
rando quest’ultima nelle sue canoniche forme istituzionali. Di conseguen-
za, la “secondarietà” del diritto all’interno della governamentalità liberale
inisce per rivelarsi una prova importante, per quanto indiretta, della stessa
debolezza del rapporto fra liberalismo e democrazia.
Ciò non toglie che, secondo Foucault, in certi contesti storici il diritto
instauri una netta relazione di funzionalità con la razionalità economica;
esso perciò acquista un suo rilievo sul piano governamentale come accade
nei casi della sua declinazione utilitarista, dell’approccio neoliberale tede-
sco o della prospettiva delineata da Hayek. Negli ultimi due casi si assiste
peraltro a una chiara ripresa del concetto di Stato di diritto. Va sottoline-
ato, però, che qui questo concetto viene mutuato dalla tradizione tedesca
del Rechtstaat e da quella anglosassone del Rule of Law, ossia da culture
giuridiche differenti dalla visione assiomatico-illuministica che ha prodot-
to la centralità dei diritti dell’uomo. A partire da quelle tradizioni il diritto
può essere concepito come armatura giuridica formale che deve garantire

31
Ivi, pp.85-86.
32
Cfr., tra l’altro, M. Foucault, “Il faut défendre la société”. Cours au Collège de France.
1976, a cura di M. Bertani e A. Fontana, Seuil/Gallimard, Paris 1997, pp. 23-25, 30-33.
28 Ottavio Marzocca

la certezza, la stabilità e l’imparzialità della legge, ma non necessaria-


mente l’irrinunciabilità di determinati principi o finalità33. Per questo
i neoliberali possono pensare di trasformarlo in strumentazione diret-
tamente funzionale alla supremazia dell’economia di mercato, renden-
do costantemente possibile al tempo stesso la divergenza fra governo
economico, da un lato, agibilità della democrazia politica, dall’altro.
In ogni caso, secondo Foucault, le pratiche concrete di governo nella
storia del liberalismo non restano mai vincolate a rigide visioni dottri-
narie della legge. Nella loro analisi, perciò, diviene imprescindibile la
messa a fuoco della sicurezza come «criterio per calcolare il costo della
libertà», che consente a queste pratiche di variare secondo convenien-
za il loro rapporto col diritto e con le condizioni di democrazia 34. Si
tratta di un orientamento che il neoliberalismo conferma decisamente,
declinandolo – come direbbe Robert Castel – in termini di «sicurezza
civile» e di ordine pubblico più che di «sicurezza sociale» e di welfare35.
Anche per questo Foucault, opponendosi a questa tendenza nell’at-
tualità della società neoliberale nascente, arriva a sostenere che «ormai
la sicurezza è al di sopra delle leggi»36. Anche per questo, inoltre, i
diritti degli uomini in quanto governati per lui diverranno oggetto di pre-
occupazione e di impegno politico crescente37.

33
M. Foucault, Naissance de la biopolitique, cit., pp. 172-181; cfr. M. Senellart, La que-
stione dello Stato di diritto in Michel Foucault, in M. Foucault, La strategia dell’accerchiamento.
Conversazioni e interventi 1975-1984, a cura di S. Vaccaro, duepunti edizioni, Palermo 2009,
pp. 239-268; J. Raz, The Rule of Law and Its Virtue, in A. Kavanagh e J. Oberdiek (a cura
di), Arguing About Law, Routledge, London-New York 2009, pp. 181-192.
34
Cfr. M. Foucault, Naissance de la biopolitique, cit., pp. 66-70.
35
Cfr. R. Castel, L’insécurité sociale. Qu’est-ce qu’être protégé?, Seuil, Paris 2003.
36
Cfr. M. Foucault, Michel Foucault: “Désormais, la sécurité est au-dessus des lois”, intervista
con J.-P. Kaufmann, in «Le Matin», n. 225 (1977), p. 15, ora in M. Foucault, Dits et écrits,
cit., t. III, pp. 366-368.
37
Cfr. tra l’altro M. Foucault, Va-t-on extrader Klaus Croissant?, in «Le Nouvel Ob-
servateur», n. 679 (1977), pp. 62-63, ora in M. Foucault, Dits et écrits, cit., t. III, pp. 361-
365; Id., Face aux gouvernements, les droits de l’homme, in «Libération», n. 967 (1984), p. 22,
ora in M. Foucault, Dits et écrits, cit., t. IV, pp. 707-708; S. Vaccaro, I diritti dei governati, in
M. Foucault, La strategia dell’accerchiamento, cit., pp. 7-30. In proposito mi permetto di
rinviare inoltre a O. Marzocca, Perché il governo. Il laboratorio etico-politico di Foucault, manife-
stolibri, Roma 2007, pp. 50-51, 131-134.
Foucault e la post-democrazia neoliberale 29

Verso l’individuo impresa

La generalizzabilità dello schema analitico che emerge dal Corso foucaul-


tiano del 1979, naturalmente, andrebbe veriicata attentamente. Essa sembra
trovare una conferma addirittura “per eccesso” nella speciica declinazione
del rapporto fra Stato e mercato, che – secondo lo stesso Foucault – è sta-
ta promossa dal neoliberalismo americano: quest’ultimo sbilancia più netta-
mente di quanto non accada in altri casi tale rapporto a favore del mercato il
quale diviene perciò un «tribunale economico permanente» di ogni iniziativa
e di ogni politica statale38. Non si può dimenticare, d’altra parte, che la pro-
spettiva delineata dal neoliberalismo dopo la seconda guerra mondiale è stata
condizionata profondamente dalle lotte sociali e dalle politiche welfariste dei
trent’anni gloriosi. Di certo, però, la conversione della socialdemocrazia te-
desca agli imperativi dell’economia di mercato – veriicatasi con il Congresso
di Bad Godesberg nel 1959 – mostra in modo chiaro in dove sia arrivato il
successo conseguito dagli ordoliberali nella loro rifondazione radicalmente
economica dello Stato della Germania occidentale39. In generale, inoltre, l’a-
nalisi foucaultiana sembra in gran parte applicabile alla storia – soprattutto
recente – dell’Unione Europea40. Anzi, oggi si può dire che l’Unione Europea
non possa pretendere di divenire un’istituzione attendibilmente democratica,
poiché – da un punto di vista neoliberale – non sembra mai poter garantire
ino in fondo di basarsi sulla supremazia del mercato.
Al di là di tutto questo, però, non bisogna perdere di vista l’effetto
sociale principale della prevalenza del neoliberalismo sulle altre forme di
governo, che Foucault indica chiaramente: si tratta della diffusione «della
forma “impresa” all’interno del corpo sociale»41. In altre parole, prota-
gonista della società neoliberale – secondo lui – è il soggetto economico
inteso non più semplicemente come attore dello scambio, ma come indi-
viduo-impresa, detentore di un capitale umano, imprenditore e venditore
di se stesso42.

38
M. Foucault, Naissance de la biopolitique, cit., p. 253.
39
Ivi, pp. 89-92.
40
Cfr. P. Dardot e Ch. Laval, La nouvelle raison du monde. Essais sur la société néolibérale,
La Découverte, Paris 2009, parte III, cap. 11.
41
M. Foucault, Naissance de la biopolitique, cit., p. 154.
42
Ivi, pp. 231-232; cfr. P. Dardot e Ch. Laval, La nouvelle raison du monde, cit.,
pp. 409-414; M. Nicoli, «Io sono un’impresa». Biopolitica e capitale umano, in «aut aut», n. 356
(2012), pp. 85-99; M. Nicoli e L. Paltrinieri, Il management di sé e degli altri, in «aut aut»,
n. 362 (2014), pp. 49-74.
30 Ottavio Marzocca

Si sa con quanta eficacia Foucault individui in questa rideinizione


dell’homo oeconomicus l’espressione compiuta di una soggettività pronta a
rispondere generalmente con un comportamento economico alle modii-
cazioni del suo ambiente. I teorici americani del capitale umano portano
alle estreme conseguenze questa visione considerando anche l’individuo
criminale come una «qualunque persona che investa in un’azione, si at-
tenda da ciò un proitto e accetti il rischio di una perdita» che, nel caso
speciico, è la «perdita economica che viene inlitta da un sistema penale»43.
Il crimine stesso, dunque, viene assunto come un fenomeno economico,
come un’«offerta» che occorre scoraggiare con una «domanda negativa».
Ed è proprio a questo riguardo che, secondo Foucault, emerge il valore
paradigmatico delle tecniche di condizionamento ambientale dei compor-
tamenti in quanto sensibili «ai cambiamenti nei guadagni e nelle perdite»44.
La legge stessa, infatti, qui igura come «regola del gioco», che determina
costi e beneici per gli attori sociali i quali saranno indotti così ad agire
secondo una razionalità di tipo economico45.
Insomma – secondo Foucault –, l’homo neoliberalis è il soggetto più
prevedibile e più adatto ad essere governato mediante gli stimoli appro-
priati46. Può apparire singolare, perciò, che egli lo avvicini al soggetto di inte-
resse secondo la rafigurazione che ne ha dato Hume, ossia come sogget-
to essenzialmente irriducibile al governo. Ma, in realtà, le ragioni per cui
questo avvicinamento è possibile si possono capire agevolmente; d’altra
parte, occorre comprendere bene anche le differenze che intercorrono fra
il contesto del classico soggetto d’interesse e quello dell’individuo-impresa
contemporaneo.

Interesse e rappresentanza

Hume, in effetti, disegna il soggetto d’interesse come profondamente


indisponibile ad obbedire indeinitamente al governo; questa sua indisponi-
bilità, in ogni caso, si dà nella misura in cui il governo tende ad ingiungergli
di prescindere dal suo interesse in nome di una razionalità giuridico-politica

43
M. Foucault, Naissance de la biopolitique, cit., p. 258.
44
Ivi, p. 264.
45
Ivi, pp. 256-266.
46
Ivi, pp. 272-275.
Foucault e la post-democrazia neoliberale 31

“superiore”. Poiché l’interesse è la motivazione assolutamente incoercibi-


le dell’azione di questo individuo, la sanzione legislativa e politica dei suoi
obblighi non può che esserne profondamente condizionata: essi valgono
davvero – secondo Hume – inché il potere che li impone garantisce la
sicurezza del commercio e delle relazioni da cui questo individuo ricava i
propri vantaggi; questi obblighi, perciò, dovranno cessare quando venga
meno l’interesse a rispettarli47. Di conseguenza – osserva Foucault – il sog-
getto di interesse non potrà mai identiicarsi interamente col soggetto di
diritto. Il primo non potrà che eccedere indeinitamente i limiti del secon-
do in relazione al variare dei propri interessi e delle capacità del governo
di garantirli48.
L’implicazione principale di questo rapporto fra interesse e diritto
sembra essere la seguente: questo rapporto non può che comportare una
revocabilità permanente di qualunque decisione politica che pretenda di
far valere soprattutto ciò che è pubblico rispetto a ciò che è privato, ciò
che è comune rispetto a ciò che è proprio. E questo lo si può dire anche
nel caso in cui questa decisione sia presa da un potere democraticamente
rappresentativo. Anzi, se esso è rappresentativo, può e deve essere tanto
più funzionale agli interessi. Anche se Foucault non assume tra i suoi ri-
ferimenti Benjamin Constant, sarà quest’ultimo a esplicitare chiaramente
queste conseguenze della centralità socio-politica del soggetto di interesse.
È in tal senso che si possono leggere le conclusioni che egli trarrà dal suo
paragone fra la libertà degli antichi e quella dei moderni.
Nel suo testo più famoso, Constant non si limita a porre in luce che
l’uomo moderno non riesce a partecipare pienamente alla vita politica
come il cittadino dell’antichità, poiché le società in cui vive sono più gran-
di e complesse di quelle delle antiche città-stato. Secondo lui, sono soprat-
tutto altre due le implicazioni inaggirabili di questa situazione: la prima è
che la libertà cui i moderni possono dedicarsi, e difatti si dedicano, dav-
vero nelle loro società troppo grandi e complesse consiste nel godimento
della loro indipendenza privata; la seconda è che il sistema politico rap-
presentativo è il più adeguato a questo stato di cose proprio perché lascia

47
Ivi, pp. 277-278; D. Hume, Of the Original Contract, in Id., Essays Moral, Political, and
Literary. Part II (1752), in Id., The Philosophical Works, a cura di Th. Hill Green e Th. Hodge
Grose (Reprint of the new edition Longman, London 1882), Scientia Verlag Aalen,
Darmstadt 1964, vol. III, pp. 455-456; D. Hume, A Treatise of Human Nature and Dialogues
Concerning Natural Religion (1739-1740), in Id., The Philosophical Works, cit., vol. II, p. 316.
48
M. Foucault, Naissance de la biopolitique, cit., pp. 275-280.
32 Ottavio Marzocca

agli individui la possibilità di perseguire indeinitamente i loro interessi


particolari, demandando ai rappresentanti politici il compito di garantirne
la sicurezza e revocando il loro mandato se essi non rispondono a questo
compito49. L’autore, naturalmente, raccomanda ai moderni di non trascu-
rare del tutto la partecipazione politica e di trovare il modo di praticarla
in qualche misura. Ma è evidente che essa non potrà che restare pro-
fondamente condizionata dalla priorità degli interessi privati e ingabbiata
nei limiti di una vigilanza da esercitare sul governo afinché li promuova
effettivamente.

Democrazia condizionata

Tornando dunque a Foucault, qual è il nesso fra l’indocilità del clas-


sico soggetto di interesse rispetto al governo e l’essenziale governabilità
che egli attribuisce all’individuo-impresa contemporaneo? A tale riguar-
do vale certamente l’indicazione che Foucault stesso fornisce implicita-
mente, domandandosi se l’homo oeconomicus non fosse in dall’inizio – ossia
già nella forma di puro e semplice soggetto di interesse – un «soggetto
che permetteva a un’arte di governare di regolarsi secondo il principio
dell’economia»50. Insomma, dal suo punto di vista, si può dire che l’homo
oeconomicus in qualunque sua “versione” sia “ingovernabile” solo nella mi-
sura in cui non lo si governa in base agli interessi che vuol far valere sul
mercato. Questo individuo, in altre parole, può essere considerato libero e
governabile al tempo stesso, poiché nella società liberale, da un lato, viene
concepito come un uomo che può sentirsi libero se riesce a fare il proprio
tornaconto e, dall’altro, viene posto nelle condizioni politiche perché con-
tinui a comportarsi in tal modo, dando per certo che ne derivi un vantaggio
generale. Una volta che la sua inclinazione a fare il proprio interesse venga
assunta come propensione indiscutibile che scaturisce spontaneamente dal
suo comportamento, il governo che si impegnerà nel promuovere questa
sua propensione potrà comunque continuare a governarlo a questo scopo

49
B. Constant, De la liberté des anciens comparée a celle des modernes, in Id., Collection com-
plète des ouvrages publiés sur le Gouvernement représentatif et la Constitution actuelle de la France,
formant une espèce de Cours de politique constitutionnelle, Bechet, Paris-Rouen 1820, vol. IV,
pp. 238-274.
50
M. Foucault, Naissance de la biopolitique, cit., p. 275.
Foucault e la post-democrazia neoliberale 33

e la sua libertà individuale potrà continuare ad essere considerata general-


mente salva e pienamente esercitata.
Detto questo in generale, Foucault ci consente di dire anche qualcosa
di più preciso sulla nostra attualità. Poiché il neoliberalismo ormai pro-
muove, da un lato, la funzionalità diretta delle istituzioni politiche al mer-
cato e, dall’altro, il deciso privilegiamento governamentale dell’individuo-
impresa, l’originaria indocilità del soggetto di interesse al governo qui non
è più semplicemente la causa di rotture eventuali del patto fra governati e
governanti in nome degli interessi. Essa si trasforma in una ragione deter-
minante per rendere funzionali la politica e la democrazia alla prevalenza
dell’interesse sia come motivazione spontanea del comportamento indi-
viduale, sia come attitudine necessaria di tutti e di ciascuno a realizzare la
propria libertà sul mercato in forma economica e privata. Perciò quel rap-
porto problematico con il diritto e la democrazia, che a Foucault sembra
caratteristico del liberalismo nel suo complesso, col neoliberalismo tende
a tradursi in rinunciabilità permanente della democrazia, ancor più che del
diritto, in nome della prevalenza del mercato e dell’individuo-impresa.
È noto del resto che Friedrich A. von Hayek, come pure Isaiah Berlin,
sono piuttosto espliciti sulla “ricusabilità” della democrazia: il liberalismo
e la democrazia – secondo loro – non corrispondono necessariamente
l’uno all’altra, poiché il primo è interessato alla limitazione dei poteri di chi
governa, in funzione della libertà privata dell’individuo; la seconda tende
invece a legittimare il perseguimento di qualunque inalità politica, purché
confortata dal consenso maggioritario dei governati. Proprio per questo
– a loro avviso – la democrazia può sempre divenire illimitata e quindi
totalitaria; di conseguenza essa non sarà sempre e comunque preferibile ad
altri regimi politici51.
In base a tutto questo è possibile forse confrontare due casi stori-
ci di applicazione della razionalità politica neoliberale come la Germania
occidentale del secondo dopoguerra e il Cile di Pinochet, osservando ciò
che segue: la Germania occidentale si è costituita come Stato democratico
impegnandosi preventivamente ad essere uno Stato radicalmente fondato
sull’economia di mercato; il Cile, invece, nel 1973 ha “cessato” di essere
uno Stato democratico poiché – in quanto tale – non garantiva effettiva-

51
F.A. von Hayek, Law, Legislation and Liberty, Routledge & Kegan Paul, London
1982, vol. III, pp. 1-40; I. Berlin, Two Concepts of Liberty, in Id., Four Essays on Liberty,
Oxford University Press, Oxford 1969, pp. 129-131.
34 Ottavio Marzocca

mente la libertà del mercato ed è stato perciò sottoposto a un governo


“dispotico” che assicurasse in modo radicale questa libertà. Come si sa,
del resto, a questo riguardo gli esponenti più autorevoli del neoliberalismo
non hanno mancato di esprimere il loro consenso sull’opportunità di una
simile “sospensione” della democrazia52.

Post-democrazia

Volendo concludere, a questo punto si può sostenere che – inquadrata


in questi termini – l’indagine foucaultiana su liberalismo e neoliberalismo
non serva soltanto a precisare i termini di quella “crisi della democrazia”,
che Bobbio paventava a suo tempo, ma abbia anche molto da dirci sul
tema della post-democrazia che emerge dalle rilessioni di autori come
Colin Crouch e Jacques Rancière. Non si tratta, però, di segnalare in modo
inevitabilmente sommario afinità e divergenze tra Foucault e questi auto-
ri. Piuttosto, si può provare a porre qualche questione conclusiva richia-
mando rapidamente le loro tesi.
Per Crouch – come è noto – la post-democrazia è la condizione che
si crea oggi non tanto con il declino della democrazia rappresentativa libe-
rale, quanto con la riduzione progressiva della politica al funzionamento
autoreferenziale dei suoi meccanismi elettorali e, soprattutto, con la priva-
tizzazione crescente di attività e servizi ino a ieri di competenza pubbli-
ca. Secondo l’autore, la democrazia liberale riafferma in tal modo la sua
vocazione a concedere il massimo spazio agli interessi privati, spingendo
proprio così la società verso la post-democrazia; oggi, infatti, il regime
democratico-liberale ormai «lascia un largo margine di libertà alle attività
delle lobby, […] soprattutto a quelle economiche, e incoraggia una forma
di governo che evita interferenze con l’economia capitalistica»; d’altra par-
te, esso scoraggia sempre più il «coinvolgimento» di cittadini e «organizza-
zioni» che sono «al di fuori dell’ambito economico»53.
Secondo Rancière, invece, si dà post-democrazia quando la politica
viene identiicata senza resti con la pratica della concertazione degli in-
teressi. Post-democrazia è la riduzione governamentale della democrazia

52
Cfr. F.A. von Hayek, De la servidumbre a la libertad, intervista con L. Santa Cruz, in
«El Mercurio», 19 aprile 1981, pp. D1-D2; J. Primera, Milton Friedman y sus recomenda-
ciones a Chile, in «Cato», 17 novembre 2006, <http://www.elcato.org/autor/jos-pi-
era-0> (consultato il 18-02-2016).
53
C. Crouch, Post-democrazia, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 5-6.
Foucault e la post-democrazia neoliberale 35

alla composizione consensuale degli interessi mediante la distribuzione di


ruoli e di “quote” alle parti sociali. Qui il problema maggiore consiste nel
fatto che le “parti sociali” vengono date come certamente identiicabili e
naturalmente riconducibili ad un assetto armonizzabile della società. In tal
modo, è la politica stessa – insieme alla democrazia – a declinare, poiché
la condizione di entrambe è piuttosto la possibilità del disaccordo, la com-
parsa di soggettività che sollevano in modo radicale la questione dell’egua-
glianza, rompendo così il gioco degli interessi e delle identità riconoscibili
in relazione a questo gioco54.
In deinitiva, sia per Rancière che per lo stesso Crouch la democrazia
e le soggettività politiche che la rendono effettiva, si danno soprattutto
come eccedenze rispetto al protagonismo politico-economico del sogget-
to di interesse e, più in generale, rispetto ai processi di privatizzazione della
sfera pubblica. In generale, dunque, sembra che le analisi dei due autori
possano articolarsi in modo fecondo con lo schema analitico che si può
ricavare dal lavoro di Foucault. Tuttavia, non credo che esse possano ser-
vire a “incorniciare” il discorso foucaultiano. Infatti, potrebbe essere più
opportuno fare il contrario per porre in luce alcuni problemi intrascurabili
che paiono sfuggire ai due autori.
Essi, in particolare, non mettono a fuoco in alcun modo il fatto che
nella società attuale i processi di privatizzazione si basano sempre più sul
consenso e sulla presenza socialmente diffusa di un individuo-impresa
ormai profondamente permeato di governamentalità neoliberale. Questo
individuo non soltanto è una igura refrattaria all’idea di democrazia, ma
è anche una soggettività che si contrappone o viene contrapposta siste-
maticamente a chi interviene nello spazio pubblico per porre problemi
non riducibili alla razionalità economica. Il che accade anche o soprattutto
quando questa igura si scontra con le crescenti dificoltà a farsi valere su
un mercato globale sempre meno controllabile, scoprendosi sempre più
spesso come semplice «uomo indebitato»55. Mi riferisco – per fare solo
qualche esempio – alle esplosioni di crescente aggressività nei confronti
degli immigrati e di chi rivendica diritti per loro o all’ordinaria indisponi-
bilità dell’homo neoliberalis a farsi carico – in quanto “cittadino” e “abitan-

54
J. Rancière, La Mésentente. Politique et Philosophie, Galilée, Paris 1995, pp. 141-143;
Id., Who Is the Subject of the Rights of Man?, in «The South Atlantic Quarterly», vol. 103
(2004), n. 2-3, p. 306.
55
Cfr. M. Lazzarato, La fabrique de l’homme endetté. Essai sur la condition néolibérale, Édi-
tions Amsterdam, Paris 2011.
36 Ottavio Marzocca

te” – della grave complessità dei problemi dell’ambiente, del territorio e


dei beni comuni, se non contestando i governi nei momenti dei disastri
e delle emergenze. In una situazione simile sorgono esigenze radicali di
“contro-condotta” democratica, post-liberale e trans-economica, cui non
si può pensare di rispondere semplicemente afidandosi all’irruzione im-
prevedibile dei «senza parte» (Rancière) o alla rigenerazione volontaristica
del rapporto fra «partiti progressisti» e movimenti sociali (Crouch). Que-
ste esigenze, infatti, ci pongono di fronte a questioni generali che qui mi
limiterò a sintetizzare con una domanda semplice: quali percorsi di sog-
gettivazione – etica e politica, individuale e collettiva – consentono oggi
di far valere delle verità irriducibili all’economia e di innestarle su pratiche
conseguenti della politica e della democrazia?
Naturalmente, interrogativi come questo non andrebbero rivolti sol-
tanto a Crouch e a Rancière. Comunque, forse per cercare qualche rispo-
sta bisognerebbe partire dal Foucault che, prima della sua morte, rilette
sulla igura del ilosofo cinico il quale pratica la parrhesia – ossia il coraggio
di parlare con franchezza – sia dicendo sfrontatamente la verità sulla pub-
blica piazza sia vivendo una vita scandalosamente povera. Egli sida e ridi-
colizza così non solo la prosopopea dei governanti, ma anche l’attitudine
dei governati a ripiegarsi sulle proprie misere ambizioni56.
Questa rilessione – come si sa – è il punto di arrivo di un percorso
che Foucault dedica in gran parte alla relazione fra crisi della democrazia
antica e crisi della parrhesia57. Nella sua analisi, le due crisi sembrano ali-
mentarsi a vicenda; ma il ilosofo cinico – radicalizzando la pratica parre-
siastica con il suo modo di vivere e protraendola in dentro l’epoca della
Roma imperiale – dimostra che solo la democrazia non sopravvive alla
sua crisi se si riduce ad essere “governo” degli uomini, che per lo più ne
asseconda il tornaconto.

Ottavio Marzocca
Università degli Studi di Bari Aldo Moro
ottavio.marzocca@uniba.it

56
Cfr. M. Foucault, Le courage de la vérité, cit., pp. 152-294.
57
Ivi, pp. 33-107; M. Foucault, Le gouvernement de soi et des autres. Cours au Collège de
France. 1982-1983, a cura di F. Gros, Seuil/Gallimard, Paris 2008, pp. 137-204.
Foucault e la post-democrazia neoliberale 37

.
Foucault and the Neoliberal Post-Democracy. Beyond the “Inlationary Criticism of the State”

Foucault does not recognize any special relationship between liberalism


and democracy, even though he contemplates the second in its forms which
are generally associated with liberalism itself. In this sense, it is easy to see
the profound difference that he points out, in his 1979 Course, between the
economic rationality of liberal governmental practices and the legal rationality
of human rights. Furthermore, his rejection of the “inlationary criticism of the
State” which neoliberalism propounds in the 20th century, can be interpreted
in a similar way. Recognizing an unprovable totalitarian danger in any political
intervention in the market, neoliberalism also casts permanent suspicion on
democracy, conditioning it and limiting it considerably. These implications
of Foucault’s research seem to agree to some extent with the current analyses
of post-democracy. However, these analyses do not focus on the ethical and
political supremacy of the entrepreneur of himself, as pointed out by Foucault.
Today this supremacy creates a need for ways of “alternative subjectiication”,
that have not yet been suitably deliberated.

Keywords: Liberalism, Neoliberalism, Democracy, Criticism of the State,


Entrepreneur of Himself, Post-Democracy, Governmentality.
Pensare Marx con Foucault e Foucault con Marx
Jacques Bidet

Il mio libro Foucault avec Marx 1


si propone di cercare le condizioni di
una collaborazione critica fra le prospettive dei due autori. Si tratta del
Foucault degli anni settanta in relazione al Marx del Capitale. Li analizzo
mediante un programma di ricerca che deinisco un approccio “metastrut-
turale” della modernità2.

1. Parto da un errore di Marx. Questi intraprende, com’è noto, un’ana-


lisi della società moderna come “fenomeno sociale totale” in movimento,
che articola tecnologia, economia, sociologia, aspetto giuridico-politico e
cultural-ideologico. Si veda lo schema che Marx propone nella forma di
ediicio infra/sovrastruttura. L’“errore” di cui parlo non riguarda specii-
camente la “base economica”, ma il paradigma nel suo complesso, l’uso
che ne fa Marx per l’analisi della società moderna (nel senso ampio in cui
intende questo termine).
Marx considera la modernità non in termini di “ragione”, ma di stru-
mentalizzazione della ragione – da non confondersi con lo schema franco-
fortese di una “ragione strumentale”. La prima Sezione del Libro I del
Capitale deinisce la logica di produzione del mercato, nella quale si trova
implicata la ragione giuridico-economica mercantile. La terza Sezione mo-
stra come, quando la forza-lavoro stessa diviene una merce, questa ragio-
ne mercantile si trovi strutturalmente strumentalizzata. Ma, agli occhi di
Marx, la struttura capitalistica presenta una tendenza storica che spinge ver-
so la propria autodistruzione: è la conclusione verso la quale tende tutto il
Libro I. In effetti, se la società capitalistica è governata dal mercato, l’impresa

1
J. Bidet, Foucault avec Marx, La fabrique éditions, Paris 2014. Vi si troverà un’argo-
mentazione più articolata e documentata delle prospettive qui presentate.
2
Questo concetto di “metastruttura” è al centro dello schema di analisi sul quale
lavoro da tre decenni e che sviluppo ulteriormente nel libro sopracitato. Rinvia all’idea che
le strutture moderne di classi devono essere comprese a partire dalla strumentalizzazione
dei loro presupposti razionali, nel senso in cui, secondo Marx, il capitalismo strumentalizza
il mercato (la propria metastruttura) che esso stesso suppone e produce.

materiali foucaultiani, a. IV, n. 7-8, gennaio-dicembre 2015, pp. 39-51.


40 Jacques Bidet

che emerge al suo interno funziona secondo l’altro modo di coordinazione


razionale su scala sociale, cioè l’organizzazione3. Man mano che il capitalismo
si sviluppa, le imprese sono sempre più grandi e sempre meno numerose. Alla ine,
forse una per settore, dice Marx4. La logica del mercato si trova allora messa ai
margini da quella dell’organizzazione. E la classe operaia industriale, sempre
più numerosa, istruita dalla tecnica e organizzata dal processo stesso di
produzione, non può evitare di darsi come prospettiva un’appropriazione
comune della macchina produttiva nel suo insieme e un governo della
produzione secondo dei piani concertati fra tutti5. I produttori si riapproprieranno
così della loro capacità di ragione comune. Si riconosce qui il grande mito eman-
cipatore del XX secolo.
L’errore di Marx si manifesta nella prospettiva teleologica così svilup-
pata. Aveva d’altronde egli stesso intravisto il pericolo. La ben nota af-
fermazione della Critica del programma di Gotha ne è una testimonianza: in
una prima fase del comunismo, dopo la sparizione del potere-capitale, reste-
rà ancora, dice Marx in buona sostanza, la “subordinazione asservente”
che è quella del “lavoro manuale” al “lavoro intellettuale”. Per dirlo con
Foucault: resterà il potere-sapere. Il seguito della storia ha mostrato come
quest’ultimo sia effettivamente divenuto sempre più potente, al punto da
suscitare, nel “socialismo reale”, una nuova classe dominante.
Ma l’errore non è soltanto teleologico. È ontologico. Si lega paradossal-
mente a una scoperta essenziale di Marx: il carattere centrale della coppia
mercato/organizzazione, che egli rende il perno della propria analisi. Marx
comprende questi due termini come le due mediazioni razionali, di cui si
può dire che sostituiscano l’immediatezza della relazione discorsiva propria
alla cooperazione immediata. Ma le comprende in una sequenza storica, che
conduce progressivamente dal mercato all’organizzazione. In realtà, nella
società moderna, queste due mediazioni sono strutturalmente contempo-
ranee, poiché formano i due poli della sua razionalità economica, quello del
tra-singoli e quello del tra-tutti. Di cui l’altra faccia, giuridico-politica, sono
la contrattualità interindividuale e la contrattualità centrale, alias “libertà

3
È l’oggetto della sezione 4 del capitolo 14 (12 nell’edizione tedesca) del Libro I del
Capitale, che tratta della “divisione del lavoro nella manifattura e nella società”, compresa
secondo la coppia mercato/organizzazione.
4
K. Marx, Il Capitale, Libro I, capitolo 24, II (parte inale), MEW 23, S. 655-656.
5
Questo è il senso generale del penultimo capitolo del Libro I del Capitale, che viene
considerato a giusto titolo come la sua conclusione generale.
Pensare Marx con Foucault e Foucault con Marx 41

dei Moderni” e “libertà degli Antichi” (altrettanto moderna). Se così è, la


Ragione strumentalizzata della società moderna, la inzione moderna di
Ragione, sempre presupposta e allo stesso tempo riprodotta, è da com-
prendere nei termini di questa bipolarità. Queste due forme di coordina-
zione danno luogo a due specie di privilegi: uno di proprietà sul mercato,
l’altro di “competenza” nell’organizzazione. Ecco perché la classe dominante
comporta due poli, quello del potere-capitale, esplorato da Marx, e quello
del potere-sapere, descritto da Foucault (e alcuni altri…). Si intravede qui
un punto di giunzione possibile tra i due, ancora problematico. È il pilastro
dell’analisi che designo come “metastrutturale”.

2. Il potere del proprietario capitalista è quello di comprare, vendere,


investire, assumere, licenziare, prestare, prendere a prestito, localizzare, de-
localizzare, ecc. In Sorvegliare e punire, Foucault mostra chiaramente che c’è
un altro potere, che consiste nel marcare i luoghi e i tempi, gli itinerari e le
tappe, nel determinare norme, performance, nel issare compiti e prove,
classiicare e gerarchizzare, includere ed escludere. E ciò in tutti i campi:
impresa, amministrazione, ospedale, prigione, scuola, esercito.
Anche Bourdieu riconosce un “capitale culturale” di fronte al “capita-
le economico”; sviluppa un concetto di “distinzione” secondo uno sche-
ma analogo di normazione e gerarchizzazione, inclusione ed esclusione; e
propone una teoria della riproduzione di questo rapporto sociale. Foucault
non cerca di sapere come quest’ultimo si riproduce, ma come si esercita. Si
esercita in pratiche, in atti che sono anche atti di parola, in un linguaggio che
è quello del trattamento dell’uomo da parte dell’uomo. Foucault si propo-
ne di farne la storia, che designa come una “storia della verità”. Non una
storia delle conoscenze scientiiche. Ma una storia di ciò che è proposto e
ricevuto come vero.
Questa “verità” di cui Foucault parla deve essere presa, mi sembra,
nel senso pieno di “validità”, nei termini di un agire comunicazionale6. Si trat-
ta di una pretesa di validità, Geltungsanspruch, che si declina secondo il triplo
registro del vero, wahr, del giusto, richtig, e dell’autentico, wahrhaftig. È noto
il paradigma dell’ascensorista che dichiara “è vietato fumare”: si presume
che enunci una verità vera (è pericoloso per tutti), una norma giusta (sa-
rebbe scorretto), un’autorità autentica (ho il potere di dirvelo). Allo stesso

6
Si veda in particolare J. Habermas, Theorie des kommunikativen Handelns, Frankfurt
am Main, Suhrkamp 1985, S. 397-426.
42 Jacques Bidet

modo per il discorso foucaultiano. Si afferma una pretesa di verità-eficacia


che è quella della scienza, che si tratti della follia, della sessualità, della
delinquenza, e il cui effetto presunto è guarire, correggere, educare, ecc.
Una pretesa di giustezza, quella della norma, che si pensa permetta di distin-
guere malati, anormali, devianti, ecc. Una pretesa di autorità autentica: l’uomo
di scienza è legittimato nella sua esigenza di ricevere la confessione della
propria sessualità, della propria colpa, della propria ignoranza, ecc. E ciò in
uno spazio pubblico di comunicazione che si suppone universale.
C’è quindi un altro potere, che non è quello del capitale. È quello dei
manager, se si dà a questo termine un senso lato, riferendosi a tutte le fun-
zioni direttive: dalla produzione di cose, beni e servizi, al management
dei corpi e delle anime. Se c’è un potere di proprietà sul mercato, siamo qui
di fronte al potere di competenza nell’organizzazione, un potere che non è la
pratica di una scienza, ma l’esercizio di una “competenza” ricevuta. Si può
allora dare alla teoria di Marx una base più larga e più realistica. La classe
dominante comporta effettivamente due poli, nel senso in cui Foucault
parlò un giorno del “nemico principale” e del “nemico immediato”. Se
così è, bisogna concludere che la “lotta di classe” si annuncia come un
gioco a tre, in cui bisogna tuttavia sottolineare che “l’altro potere” è di na-
tura differente, perché non si esercita che comunicandosi. La teoria di Marx
si trova rimessa in movimento.

3. Vi sono tuttavia un certo numero di ostacoli lungo il cammino. Una


controversia ilosoica, innanzitutto. Si è in effetti tentati di opporre uno
“strutturalismo” di Marx, che comprende la condizione degli individui a
partire delle strutture di classe, e un “nominalismo” di Foucault, che riiuta
ogni idea di totalità e di grande soggetto sociale7. Vi sono soltanto soggetti
individuali che si affrontano in una moltitudine di funzioni e posizioni
sociali, in congiunture particolari, i cui elementi si rapportano a temporalità
e spazialità diverse. Le totalità in cui si incontrano i viventi sono soltanto
“dispositivi”, amalgami eterogenei di discorsi, istituzioni, disposizioni
tecniche e territoriali. Foucault parla certo di “classe borghese”, ma
invita a considerare le classi come “gli effetti” di pratiche particolari e
interconnesse. In fondo, si trova qui davanti a un problema che è quello di
ogni sociologia: pensare la relazione tra l’individuale e il collettivo. La sua

7
Questa questione è discussa nel capitolo 3 di Foucault avec Marx.
Pensare Marx con Foucault e Foucault con Marx 43

parola d’ordine – «cominciare dall’individuo»8 –, è certamente feconda, in


particolar modo nel suo rapporto critico a certe tradizioni del marxismo.
Ma si tratta di un assioma euristico piuttosto che di una teorizzazione
alternativa.
Marx, del resto, comincia anche lui il proprio discorso dagli individui.
Spiega che non si può dire nulla delle classi se non si parte – come fa
lui, Sezione 1 – da quell’inter-individualità mercantile che caratterizza la
condizione dell’uomo moderno. E questa si trova corroborata quando si
arriva in seguito (Sezione 3) alla relazione salariale attraverso la quale si
concretizza il rapporto di classe. Lo sfruttamento dell’uomo “libero” è
tale solo perché si svolge sul terreno di un rapporto mercantile, quello del
mercato della forza-lavoro, in cui si conoscono soltanto relazioni interin-
dividuali: tra capitalisti, tra salariati e tra capitalisti e salariati.
È vero che lo sfruttamento salariale produce una scissione di classe
tra coloro che, attraverso questo processo, si appropriano dell’apparato
produttivo e gli altri. Si costruisce così una struttura, di cui bisogna ben
considerare l’essere sociale speciico. Ma la divisione così deinita fra due classi
sociali non produce due soggetti sociali. Forma un processo attivo, una frat-
tura che dà luogo a raggruppamenti, diversi secondo i tempi e i luoghi. Nella
“lotta di classe”, non sono classi che entrano in lotta ma gruppi sociali più o
meno capaci di costruirsi come attori storici, come “soggetti” più o meno
efimeri. Questi devono essere concepiti nei termini di amalgama: la “classe
operaia” è un bricolage storico di corpi al lavoro, di tecniche industriali, di
rapporti di produzione, di conigurazioni di sesso e di “razza”, di corpus
di parole sedimentate, di acquisizioni sociali e politiche. Quando questa
classe operaia industriale scompare, la stessa struttura di classe dà luogo ad
altri conglomerati analoghi, il cui potenziale storico deve essere preso in
considerazione.
L’interesse dell’approccio marxiano in termini di “struttura”, in con-
trapposizione alla considerazione foucaultiana più immediatamente con-
creta in termini di “dispositivi”, risiede nel fatto che essa permette di in-
terrogarsi sulle tendenze del processo storico. Marx esamina le tendenze
della struttura capitalistica. Sono queste, in effetti, che deiniscono campi
di possibilità, autorizzando prospettive strategiche secondo le congiuntu-
re. Si sbaglia sul tenore della tendenza, che interpreta come orientata dal

8
Su questo tema si veda M. Foucault, La volonté de savoir, Gallimard, Paris 1996,
pp. 121-129.
44 Jacques Bidet

mercato (capitalistico) all’organizzazione (socialista). Ma ciò non invalida


questa problematica struttura/tendenza. Eccetto che, per farne un uso
pertinente, è necessaria una teorizzazione pertinente della struttura. Ed è
ciò a cui, precisamente, può servire il ricorso a Foucault.
Si sarà capito che non perseguo il progetto di mettere in relazione due
“ilosoie”, che si suppone essere sovrane sullo sfondo. Lascio ad altri il
deciframento di tutte le aporie che si possono incontrare su questa strada,
sapendo anche che Marx et Foucault sono, l’uno e l’altro, penetrati di que-
stioni che provengono da ilosoie diverse. Resto sul piano della “teoria”,
se si intende con ciò il progetto di far collaborare in una coerenza d’insie-
me i diversi saperi sociali – economia, sociologia, diritto, storia, psicologia,
ecc. – attenendosi all’obbligazione critica di un lavoro ilosoico.

4. Un secondo ostacolo riguarda tuttavia precisamente la domanda


sulla possibilità di un incontro teorico fra le due prospettive. In altri termi-
ni, Marx e Foucault parlano della stessa cosa?
La questione si pone in particolare per i Corsi degli anni 1977-1979. Vi
si ritrova un lungo racconto, che si designa come una “storia della ragione
governamentale”, che va dallo “Stato di giustizia” allo “Stato amministra-
tivo”, quindi al “governo” liberale, e per inire, saltando l’episodio dello
“Stato sociale”, all’emergenza dello “Stato neoliberale”. Il grande racconto si
conclude però con un grande quadro, quello di una società contemporanea
in cui queste differenti “verità” si mescolano, in cui nulla è mai comple-
tamente immobile. Ora, questa composizione sapiente presenta un tratto
notevole: il “liberalismo” si trova regolarmente messo in valore come la
posizione di equilibrio che si appoggia sulle leggi supposte naturali del
mercato, mirando allo stesso tempo alla promozione della vita collettiva
delle popolazioni. Si trova così dotato di un duplice potenziale di ragione,
concernente da un lato il mercato, dall’altro l’organizzazione. Ma senza
che sia mai fornito il principio che permetterebbe di accordare queste due
facoltà alternative, e che darebbe precedenza alla prima sulla seconda.
Di nuovo, il contrasto con Marx non è totale. Perché la “storia della
ragione governamentale” fa certo parte di una “storia della verità”: storia
di ciò che è considerato vero, storia delle pretese di verità. Foucault lo
sottolinea a proposito della “società civile”. Invita a restare «molto pru-
denti quanto al suo grado di realtà», poiché non si tratta in questo caso,
afferma, che di «realtà di transizione», che si danno come tali all’interno
Pensare Marx con Foucault e Foucault con Marx 45

di relazioni di potere9. Chiaramente, è ciò di cui Marx stesso parla nel-


la Sezione prima del Libro I. Vi propone un’analisi rigorosa di questa
“società civile”, cioè della società moderna considerata come “società di
mercato”. E lo fa in termini di “verità di transazione”, di pretesa di vali-
dità, secondo la triplice declinazione del vero, del giusto e dell’autentico.
La verità del mercato: conigurazione concorrenziale eficace che assicura
allo stesso tempo la produttività, l’equilibrio tra i settori e l’informazione
dei produttori: tutto ciò è incluso nel corpus di concetti che compongo-
no la “teoria-lavoro” del valore (cosa che gli economisti comprendono
più facilmente dei ilosoi10). La giustezza del mercato: la sua legittimità
intrinseca come conigurazione di relazioni fra partner che si considerano
liberi, uguali e razionali. L’autenticità del mercato: le merci non entrano sul
mercato da sole, è necessario uno schiocco di dita iniziale, una decisio-
ne, un “atto fondatore comune”, scrive Marx, un patto tra noi tutti, che
consiste nel rimetterci al mercato, promosso da noi a ordine naturale, a
ordine trascendente al quale ci sottomettiamo. Risiede in ciò, mi sembra,
la vera ontologia del feticismo – un’ontologia in cui l’essere è atto – esposta
nel secondo capitolo (il primo capitolo ne espone ancora soltanto una
fenomenologia: le merci sembrano scambiarsi fra di loro). Tutto ciò insieme
compone la “inzione moderna”, per come Marx la deinisce, la pretesa
comune all’era moderna, la verità dei Moderni. Il tessuto della loro “tran-
sazione”. A questo punto, Marx e Foucault sono nello stesso discorso.
Quello della metastruttura.
Marx pone tuttavia immediatamente un’altra questione: come può
una tale inzione sorgere e sussistere storicamente? Qual è la struttura che
suppone e produce, riproduce, questa metastruttura? Risposta: la strut-
tura si trova realizzata quando la forza-lavoro vi diviene merce. Perché
allora tutto è merce, dal momento che il salariato vive del salario con il
quale compra delle merci. Si può quindi dichiarare che il mondo è un mercato.
È quando il rapporto sociale viene strutturato dallo sfruttamento che si
può praticarlo come mercato integrale. Quando tutto è così merciicato,

9
M. Foucault, Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France. 1978-1979, Seuil/
Gallimard, Paris 2004, pp. 300-301.
10
Per esempio, l’idea che il lavoro “socialmente necessario” si comprenda qui come
dipendente innanzitutto dalla concorrenza all’interno del settore, e che la considerazione del
“lavoro astratto”, indipendente dal suo contenuto concreto-utile speciico, riguardi la
concorrenza fra settori.
46 Jacques Bidet

tuttavia, non siamo giustamente più in una società di mercato, ma in una


“società di classe”, dotata di tutt’altra logica che quella del mercato: la logi-
ca del plus-valore. Marx ci insegna tale “passaggio” dalla società civile alla
società di classe. Non un passaggio storico. Ma questa relazione, imma-
nente alla forma moderna di società, tra la metastruttura, tale inzione, verità
affermata e ricevuta, e la struttura che la presuppone e la pone. Quando si
ha compreso ciò, ci si può porre altre questioni rispetto a quelle di cui ci
alimenta Foucault: le questioni della struttura capitalistica di classe e delle
sue tendenze storiche.
Eppure ciò non dà ragione a Marx. Bisognerebbe infatti ancora com-
prendere in cosa consista precisamente la moderna struttura di classe. E
assumere il fatto, strutturale, che essa combini potere-capitale e potere-
sapere.

5. Si noterà che Foucault, che all’epoca di Sorvegliare e punire si era mo-


strato così produttivo sul terreno della struttura, al termine del decennio,
parlando del governo, giunge a circoscrivere la propria analisi sul piano
della metastruttura. Si occupa certo delle pratiche politiche concrete, ma nei
termini dei loro agenti, della loro pretesa, mentre Marx cerca di coglierli
nelle loro relazioni alla struttura di classe. È ciò che fa la differenza fra
una storia delle “ragioni” di governo e una storia dei “rapporti” di classe.
Siamo qui di fronte a una contrapposizione che non è d’ordine ilosoico,
bensì politico.
Ne è testimone l’apparizione di una igura nuova, quella del Buon
Pastore11. Si tratta di un’antica parabola cristiana, che si afferma tuttavia
in epoca moderna come uno schema della teoria politica, alternativo a
quello del contratto. Foucault ne ripercorre le tracce dalla sua gestazione
nei monasteri ino allo stadio inale del pastorato sovietico. Si interessa
in particolare al compito, che il liberalismo è supposto darsi, di limitare
il potere del Pastore: il suo potere di governo delle condotte di tutti e di
ciascuno. Siamo qui di fronte a uno schema a doppia entrata, che può
tradursi altrettanto bene nel linguaggio della lotta inespiabile tra i gover-
nanti e i governati. Si è in perpetuo movimento: il potere si alimenta della
resistenza che gli è opposta, e nutre la potenza che cerca di controllare. Si
esige naturalmente di essere governati il meno possibile. E il “governo”

M. Foucault, Sécurité, territoire, population. Cours au Collège de France. 1977-1978, Seuil/


11

Gallimard, Paris 2004, pp. 204-234.


Pensare Marx con Foucault e Foucault con Marx 47

liberale ha precisamente come obiettivo di intervenire il meno possibile,


lasciando giocare un ordine naturale di mercato. Sembra tuttavia che si
debba ancora e sempre resistere, in particolare perché il Buon Pastore –
nella sua rete ininita di conduzioni di condotte – presenta una tendenza
allo sviluppo illimitato delle proprie prerogative organizzazionali, normatri-
ci e gerarchizzanti. In tutto ciò, la resistenza non è passivamente negativa;
è produttrice di effetti, generatrice di vita. Ma alimenta paradossalmente
la propria rabbia nell’idea che vi saranno sempre governanti e governati.
Come vi saranno sempre ricchi e poveri.
Foucault è cosciente che esiste un’altra via per la teoria politica. La
via non della resistenza, ma della rivoluzione, di cui dichiara la sconitta12. Si
tratterebbe non di essere governati il meno possibile, di essere governati
“altrimenti”, ma di governare se stessi. Il cittadino diventerebbe sovrano.
Si abbandona allora la tematica della governamentalità per quella dell’au-
to-governo. Non è più questione di resistere al potere, ma di abbatterlo.
Abbattere il potere di classe, appropriandosi della base economica delle
sue prerogative di governo. Al di là delle tattiche giorno per giorno, si
tratterebbe di costruire delle strategie d’insieme, portate da una nuova sog-
gettività sociale. Se si privilegia tuttavia questa direzione, resta ancora da
interrogarsi sul suo signiicato concreto, che non sembra aver dato prova
della propria evidenza.
Piuttosto che contrapporre frontalmente Marx e Foucault, sarebbe
forse meglio scommettere su una loro possibile complicità. Ma ciò è con-
cepibile soltanto, a mio avviso, a un prezzo teorico elevato, che vorrei
tentare di circoscrivere.

6. Bisogna, mi sembra, ripensare la “teoria” di Marx nella forma di un


“meta-marxismo” che porta il segno di Foucault, ma anche di tutti coloro
che hanno contribuito (in termini di “burocrazia”, di “tecno-struttura”, di
“potere manageriale”, di “capitale culturale”, ecc.) a mostrare che, paral-
lelamente al potere-capitale sul mercato, esiste un potere-sapere nell’organizzazione
– il quale agisce e si riproduce in tutt’altro modo.
Partiamo dall’ipotesi generale di Marx. Egli considera la modernità, lo
si è visto, nei termini di strumentalizzazione della ragione: il capitalismo
procede da una pretesa di razionalità economica e di ragione politica, se-
condo la quale la nostra società sarebbe da concepire come un mercato
12
M. Foucault, Naissance de la biopolitique, cit., pp. 43-45.
48 Jacques Bidet

fra persone libere, uguali e razionali. Tale è la “verità” del liberalismo, che
pretende, come dice Foucault, di ancorare il diritto all’economia13, un’e-
conomia naturalmente di mercato. La strumentalizzazione consiste nel fat-
to che, quando tutto diventa mercato, la forza-lavoro diventa essa stessa
merce. Il mercato, questo bene comune della nostra razionalità, diventa
allora lo strumento di una classe dotata dei privilegi di potere-proprietà, o
potere-capitale.
Marx non coglie pienamente che l’organizzazione, l’altra forma di co-
ordinazione su scala sociale che vede crescere in forza ino a neutralizzare
il mercato, porta in sé un potenziale analogo di strumentalizzazione, at-
traverso l’altro privilegio, quello del potere-sapere. In realtà, nella “moder-
nità” e sin dal suo inizio per tracce successive all’interno di ordini sociali
anteriori (in diversi luoghi del mondo, dall’Asia all’Europa), le due media-
zioni razionali, mercato e organizzazione, funzionano come i due fattori di
classe che convergono nel rapporto moderno di classe. La classe dominante
presenta così due poli, due teste, due forme di poteri.
Foucault ha considerato quest’altro potere su registri ben deiniti,
come quelli del trattamento sociale del corpo, analizzando il suo ruolo
nella costituzione del soggetto. Ma da queste ricerche particolari trae un
insegnamento più generale. Mi sembra infatti che si debba innanzitutto
riconoscergli di avere, meglio di ogni altro, chiaramente stabilito che esiste
effettivamente un altro potere rispetto a quello dei capitalisti: di aver cioè mo-
strato, contro la tradizione marxista, che i manager non sono solo i loro
delegati, né gli amministratori pubblici i loro funzionari incaricati. E che
questo potere è trasversale e struttura tutte le sfere della società. Ha in ef-
fetti contribuito all’identiicazione di questo potere riferendolo al sapere, non
alla conoscenza, ma alla competenza ricevuta, alle sue “verità” nel senso
delle pretese riconosciute, verità socialmente produttive. Mette così in luce
che questo potere-sapere è differente dal potere-proprietà per il fatto che
si esercita soltanto comunicandosi.
Se così è, la lotta di classe è proprio uno scontro fra due classi, di cui
una, oligarchica, si nutre dei propri privilegi riproducibili, di proprietà o di
competenza, e l’altra è la moltitudine popolare. Una lotta a due classi, ma
fra tre forze sociali primarie, dal momento che la dominante è a due teste. Alla
base, in quella che conviene designare come la “classe fondamentale”, ci si

13
Esso rappresenta, spiega Foucault, «l’économie juridique d’une gouvernementalité indexée
à l’économie économique» (ivi, p. 300).
Pensare Marx con Foucault e Foucault con Marx 49

trova divisi in frazioni diverse a seconda che si sia strutturati piuttosto dalla
mediazione mercantile o piuttosto dalla mediazione organizzazionale. E
anche in diversi strati a seconda che si detenga, frutto di “lotte secolari”,
una certa presa su questi meccanismi di mercato e di organizzazione – o
che ci si trovi consegnati a essi come fattori di esclusione, integrati come
esclusi, fattori sui quali Foucault ha in modo particolare concentrato il
proprio sguardo.
In alto, c’è senza dubbio una sola classe dominante, perché le due “me-
diazioni-fattori di classi”, mercato e organizzazione, esistono solamente
in costante interferenza. Esiste in effetti una “Ragione” (strumentalizzata)
soltanto nella loro interrelazione, mobile e multiforme. Non si può avan-
zare una prospettiva economica “razionale” che non sia un’articolazione
tra mercato e organizzazione, né un ordine giuridico-politico “ragionevo-
le” che non risponda alla co-implicazione della libertà tra ciascun singolo
e la libertà tra tutti. La teoria meta-strutturale presenta così una semplicità
di principio che parrebbe farne una metaisica. Essa è tuttavia il contrario,
dal momento che ciò che mette in avanti non è la “ragione”, ma la pretesa
di ragione, la pretesa moderna di governarsi attraverso il discorso comu-
nicazionale immediato distribuito fra tutti (ogni voce equivale a un’altra),
prolungato dalle due “mediazioni” che si danno come tramite, nella com-
plessità sociale, fra questa immediatezza discorsiva e la cooperazione diret-
ta che essa permette. È tutto questo insieme, immediatezza e mediatezza,
che si trova strumentalizzato nel rapporto moderno di classe, via i privilegi
del potere-capitale e del potere-sapere.
In basso, c’è allo stesso modo una sola classe, perché queste due “me-
diazioni-fattori di classe”, interferendo tra loro a tutti i livelli, strutturano
la società intera e la vita di ciascuno. È questo il principio della sua unità.
Ma questo è anche il principio delle sue divisioni in frazioni e strati diversi.
Orizzontalmente, alcuni sono implicati più di altri nel fattore mercato
(dal contadino o commerciante di ieri all’“auto-imprenditore” di oggi),
altri nel fattore organizzazione (funzionari), altri ancora in posizione
intermediaria (salariati del settore privato). Verticalmente, alcuni dipen-
dono da raggruppamenti che hanno acquisito una certa presa su questi
meccanismi di mercato o di organizzazione, mentre altri (tra gli abitanti
delle campagne, i giovani, le donne, ecc. – e gli stranieri: nel punto di in-
terferenza con l’altra dimensione della forma moderna di società, che non
è la struttura-di-classe ma il sistema-mondo) ne sono più o meno privi.
50 Jacques Bidet

L’unità della classe fondamentale emerge soltanto dalla vittoria su queste


divisioni, così individuate.
La caratteristica di una “teoria generale” – all’occorrenza una teoria
della modernità – è di essere semplice nel suo principio e tuttavia capace
di investirsi e di moltiplicarsi nei diversi campi della vita sociale, sui terre-
ni della sociologia, dell’economia, della politica, della storia, del diritto e
della cultura. Bisogna evidentemente fare attenzione a molti malintesi, dal
momento che si tratta di concetti iniziali. Si noterà semplicemente che si
trovano qui deinite in alto un’oligarchia, in basso una moltitudine, ma che
tutto ciò deve essere compreso in termini di processo, dal momento che le
classi non sono gruppi sociali14.
La lotta moderna di classe si analizzerà così attraverso il prisma dei “re-
gimi di egemonia”15. Intendo con questa nozione i diversi modi di assem-
blaggio, variabili nello spazio e nel tempo durante l’era moderna, di queste
tre forze sociali, a seconda che il potere-sapere si trovi alleato al potere-
capitale, o al contrario si avvicini alla classe fondamentale, cioè al popolo
in quanto massa. Quest’ultimo non può emanciparsi dalle dominazioni di
classe se non lottando sui due fronti. Ma il potere-sapere, che si esercita
solo comunicandosi, gli è più vicino, più accessibile. La saggezza del popo-
lo moderno risiede dunque nel cercare di egemonizzare il potere-sapere per
marginalizzare il potere-capitale. In altri termini, nel cercare di dominare il
mercato attraverso l’organizzazione, e l’organizzazione attraverso la lotta
democratica, la parola condivisa fra tutti – lotta tanto culturale quanto
politica. Questa “lotta” si deinisce, a differenza della “guerra”, attraverso
il suo riferimento metastrutturale. La sua insurrezione si dichiara in nome
di “verità” che si considerano comuni, e tuttavia “essenzialmente conte-
state”, nella loro anibologia costitutiva. La libertà-uguaglianza-razionalità
è allo stesso modo proclamata da coloro che la considerano stabilita e da
coloro che esigono che essa lo sia.
Il “partito dal basso” è un’entità fugace e polimorfa, che ha segnato
in profondità, e a tratti civilizzato, la società moderna. Oggi, nel regime
neo-liberale in cui il potere-capitale ha preso il controllo del potere-sapere,
esso non esiste che in una dispersione di organizzazioni, di indignazioni,

14
Mi permetto di rinviare all’analisi che propongo nel quinto capitolo di
L’État-monde, PUF, Paris 2011.
15
Questo concetto è al centro delle analisi che sviluppo in due lavori di prossima
pubblicazione: Le néolibéralisme et ses sujets e Le peuple comme classe.
Pensare Marx con Foucault e Foucault con Marx 51

di sindacati, di associazioni, di movimenti, di appelli, di circoli di studio, di


collettivi e di rivolte. Potrà sollevarsi dalle proprie sconitte solo giungendo
a concepire la propria unità pratica. Che non può essere soltanto di classe
ma anche di sesso e di “razza”, poiché la società moderna non si deinisce
integralmente attraverso la propria “struttura di classe” (ma ciò esula dal
tema della presente trattazione).
Foucault può aiutare a pensare questo amalgama. Poiché ciò che egli
ci insegna è anche che questa “grande storia” strutturale, alla quale non
abbiamo motivo di rinunciare, è sempre solo la storia incerta dell’impresa
comune. E non la quintessenza della storia umana, che è propriamente impos-
sibile da totalizzare, essendo fatta anche di tutto ciò che non può trovarvi
spazio: desideri e passioni, mancanze e sventure, godimenti e miserie, infa-
mie e accidenti. La nostra vita di soggetti non è fatta soltanto dall’“insieme
dei nostri rapporti sociali” che ostentano le loro verità, ma di tutto questo
magma insolito, nel quale tali “verità” disegnano cammini discordanti.

Traduzione dal francese di Arianna Sforzini

Jacques Bidet
Université Paris Ouest Nanterre La Défense
j.bidet@wanadoo.fr

.
Thinking Marx with Foucault and Foucault with Marx

This article is the presentation of my book Foucault avec Marx (Paris, La fabrique
éditions, 2014; London, Zed Books, 2016) aiming at studying the conditions of a
critical collaboration between their two perspectives. The Foucault of the 1970s is
reported to the Marx of Capital. They are addressed through a research program I
call the “metastructural approach” of modernity.

Keywords: Discipline, Gouvernementality, Knowledge-Power, Nominalism,


Liberalism, Strategy, Marx.
Ambiguità di Foucault
Marco Assennato

L’ipotesi di partenza di questi appunti è di tipo metodologico e tiene insieme


tre parole: politica – intesa come sperimentazione collettiva e plurale che
agisce sui modi di vita che si sviluppano nella società; ambiguità – come
spazio di un possibile metodo realista (quando non si volesse osare il termine
materialista); e critica – come attitudine etico-politica evocata da Foucault
nella sua nota conferenza del 27 maggio 1978, intitolata appunto Che
cos’è la critica?1. Si tratta insomma di chiedersi: in che maniera questo tema
dell’ambiguità assume valore metodologico? E cosa c’entra con il “pensiero
politico” di Michel Foucault? Per rispondere a queste domande, però, mi pare
necessaria una cautela. Sia chiaro: usare la cassetta degli attrezzi di Foucault
è sempre possibile, persino auspicabile. Si può addirittura usare Foucault
contro Foucault. E tuttavia mi pare che per usare Foucault politicamente, per
veriicarne il lavoro su campi vari e disparati, anche molto lontani da quelli
che egli stesso ha potuto direttamente indagare, sia opportuno stabilire una
cornice metodologica speciica, una serie di direzioni del lavoro – che si debba,
insomma, farlo con metodo, rispettarne il verso, l’attitudine o l’atteggiamento2.
Andiamo con ordine: i maggiori e più recenti studi sul pensiero politico
di Foucault vertono sul problema della costituzione dei soggetti. Con buone
ragioni, mi sembra. Tanto che – di là dal fatto che si tratti esplicitamente
del tema – la questione della soggettivazione, dei suoi modi e delle sue
possibilità, attraversa come un’ombra inquieta l’intera rilessione politica
contemporanea – sia quella direttamente dedicata all’analisi di Foucault,

1
M. Foucault, Qu’est-ce que la critique?, in «Bulletin de la Société française de
Philosophie», vol. 84 (1990), n. 2, pp. 35-63, ormai in M. Foucault, Qu’est-ce que la critique?
suivi de La culture de soi, a cura di H.-P. Fruchaud e D. Lorenzini, Vrin, Paris 2015.
2
Proprio di attitudine critica, o di critica come atteggiamento, relazione pratica a un
determinato campo di sapere parla Foucault nella sua conferenza del 27 maggio 1978:
«il me semble qu’entre l’haute entreprise kantienne et les petites activités pólemico-
professionnelles qui portent ce nom de critique […] il y a eu une certaine manière de
penser, de dire, d’agir également, […] un rapport aux autres aussi et qu’on pourrait
appeler, disons l’attitude critique» (Ivi, p. 34, corsivi miei).

materiali foucaultiani, a. IV, n. 7-8, gennaio-dicembre 2015, pp. 53-66.


54 Marco Assennato

sia quella che da Foucault trae concetti e strumenti di lavoro, sia quella che
ha radice in altri riferimenti teorici. Ora, si può convenire sul fatto che tale
questione sia stata affrontata in due modi dallo stesso Foucault. Ad una
prima analisi del potere come forza che produce gli individui – che li fabbrica
attraverso meccanismi di nominazione, identiicazione, circoscrizione,
gerarchizzazione, atti ad ottenere corpi docili ed economicamente utili
– subentra una seconda ipotesi, più vicina, che funziona, per usare una
prima approssimazione, estendendo (o intensiicando) la categoria classica di
sfruttamento, di matrice marxista.
Nel tardo Foucault, infatti, attraverso il iltro della normalizzazione
biopolitica, il potere pare investire tutto lo spazio dei modi di vita e tutti
i luoghi dell’esperienza storica: in una battuta si potrebbe dire ch’egli
intuisce il passaggio dalla fabbrica alla società del dispositivo di cattura e
captazione del valore prodotto dal lavoro vivo. Del resto, la ricezione di
Foucault che in Italia si è determinata nei primi anni settanta in ambito
post-operaista, si gioca tutta su quest’analogia3. Ma l’analisi di Foucault
non si ferma qui, poiché deinisce altresì, un doppio movimento di estrema
importanza: individua innanzitutto una sostanziale mutazione nelle forme
della razionalità necessarie per governare la vita e guadagnare una siffatta,
onnipotente estensione o intensiicazione del dispositivo normativo; e in
secondo luogo rileva come l’insieme di tecniche che determinano l’ambiente
biopolitico, non cessi tuttavia di produrre soggetti, i quali, per quanto normati,
tengono aperta al contempo la possibilità di modi di vita autonomi,
inventivi e sperimentali.
Ora però, contro questa linea, per così dire, soggettivista, se ne sono
diffuse almeno altre due, che provano a smentire tali esiti e allontanarne
i fantasmi. Due ipotesi che io considero metodologicamente scorrette,
perché rovesciano il senso e sviliscono le potenzialità del Foucault politico.

Foucault e la tentazione liberale

La prima ipotesi è quella del Foucault neoliberale. Traccia che si è articolata


in due versioni speculari, connesse alle convinzioni politiche degli autori,
tuttavia entrambe convergenti nel dipingere un Foucault acritico rispetto al
paradigma oggi dominante: l’economia politica. Lo dimostrerebbe proprio

3
Cfr. T. Negri, Quand et comment j’ai lu Foucault e S. Chignola, Une rencontre manquée ou
seulement différée: l’Italie, in Foucault, Éditions de l’Herne, Paris 2011, pp. 199-208 e 244-251.
Ambiguità di Foucault 55

il corso celeberrimo al Collège de France del 1978-1979 intitolato Nascita


della biopolitica4, nel quale, secondo alcuni, il ilosofo avrebbe messo in luce la
potenzialità dinamica della razionalità neoliberale, quale manifestazione di una
radicale opposizione allo Stato, ai suoi apparati e alla sua ragione governamentale.
I neoliberisti, in sintesi, integrando ed esprimendo in politiche eficaci tutte
le resistenze e i conlitti contrari alla forma sovrana “classica”, avrebbero
dato luogo ad una inedita forma di valorizzazione delle libertà individuali.
Geoffroy de Lagasnerie5 arriva a questa conclusione scovando in Foucault
una lettura della Scuola di Chicago come interpretazione proicua della
rivalutazione di spazi di azione individuale contro i dispositivi centralistici
che il ilosofo, nel clima successivo al maggio francese, avrebbe promosso.
La dernière leçon di Michel Foucault sarebbe dunque dedicata all’esaltazione di
qualsivoglia iniziativa eficace nel disfare la società, nel decostruire l’apparato
centralizzato del sovrano westfaliano, tanto da esaltare indistintamente
ogni pratica eterodossa e deviante – comprese quelle che traducono
continuamente la critica in occasione di valorizzazione e innovazione del
dispositivo normativo e produttivo. Secondo altri, al contrario, il liberalismo
di Foucault deriva come ovvia conseguenza dal fatto che il ilosofo francese
non sarebbe altro che l’incarnazione dello spirito degli anni ottanta. Di
una ilosoia addomesticata, quindi, perché contraria alle più serie analisi
ortodosse del pensiero anticapitalista, anarchico o marxista, e che dunque
proila un cedimento irresponsabile alla tentazione neoliberale6.
Nelle sue due varianti, questo primo capovolgimento del pensiero
politico di Foucault, è francamente fragile7. Si riassume insomma
nell’immagine del samurai in vestaglia di seta, anticonformista e libertario –

4
M. Foucault, Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France. 1978-1979, a cura
di M. Senellart, Seuil/Gallimard, Paris 2004.
5
G. de Lagasnerie, La dernière leçon de Michel Foucault. Sur le néolibéralisme, la théorie et la
politique, Fayard, Paris 2012 e Id., Néolibéralisme, théorie politique et pensée critique, in «Raisons
Politiques», n. 52 (2013), pp. 63-76. Su queste tesi mi permetto di rimandare al mio M.
Assennato, Foucault per tutti. Lezioni di critica al neoliberismo, in <http://www.uninomade.
org/foucault-per-tutti/> (consultato il 3-02-2016).
6
Cfr. D. Zamora (a cura di), Critiquer Foucault. Les années 1980 et la tentation néolibérale,
Aden, Bruxelles 2014.
7
Per una analisi più equilibrata e fondata del rapporto tra Foucault e il neoliberismo si
rimanda qui ai testi raccolti nell’ottimo dossier intitolato Les néolibéralismes de Michel Foucault,
curato da F. Gros, D. Lorenzini, A. Revel e A. Sforzini per «Raisons Politiques», n. 52,
2013, pp. 13-108, in particolare agli articoli di M. Lazzarato (pp. 51-62), L. Paltrinieri
(pp. 89-108) e all’importante editoriale irmato dai curatori (pp. 5-12).
56 Marco Assennato

uno scettico che aveva rinunciato a trovare un senso alle cose del mondo, perfettamente
compatibile con i nuovi assetti istituzionali – che già Paul Veyne aveva
tratteggiato nel suo ricordo dell’amico scomparso8. Ma questa linea risulta
debole, facilmente falsiicabile anche semplicemente scorrendo il testo
del Corso al Collège de France: com’è d’altronde noto, infatti, Foucault
discute di ordoliberali tedeschi e di neoliberali americani, sempre tentando
di impostare un’analisi delle modiiche che sono sopravvenute nella
coscienza di sé dei governanti, attraverso differenti momenti storici9. E anche
se volessimo farne un uso attuale, saremmo costretti a riconoscere che
l’analisi del neoliberalismo in Foucault resta l’analisi di una forma innovativa
di governamentalizzazione della vita. Foucault sta parlando, insomma, del
lato disciplinare di uno speciico passaggio storico. Che ne riconosca forza
e spessore politico, che ne sottolinei la razionalità, è considerazione ovvia.
Altrimenti, si direbbe, perché discuterne?
Tuttavia già questo primo ilone di lettura ci pone una questione:
quando Foucault riconosce al neoliberalismo questo radicale riiuto
dell’invasione dell’umanità da parte dello Stato – e più in generale la capacità di
mettere all’opera un quadro analitico non totalizzante, uniicatore, sintetico,
idealistico, contrario alla ragion di Stato perché sbilanciato sull’eterogeneità
e la molteplicità delle azioni singolari – dà spazio o margine a una qualche
ambiguità? La risposta che proverò ad argomentare è: sì. Il problema però
è mettersi d’accordo su cosa sia, questa ambiguità.

Foucault destituente

Veniamo alla seconda linea di lettura: ipotesi di maggiore insidia


perché teoricamente più densa e informata, essa si è sviluppata a partire da
alcune suggestioni di Giorgio Agamben e Roberto Esposito, verso forme
essenzialmente difettive della politica10, o, in divergente accordo, attorno alla
deinizione di etopolitica11. Come procedono queste letture?

8
Cfr. P. Veyne, Foucault. Sa pensée, sa personne, Albin Michel, Paris 2008, pp. 227-243.
9
Cfr. M. Foucault, Naissance de la biopolitique, cit., lezione del 10 gennaio 1979, pp. 3-28.
10
Cfr. G. Agamben, L’uso dei corpi. Homo sacer IV, 2, Neri Pozza, Vicenza 2014, in
particolare l’Epilogo, pp. 333-352, ma più in generale mi pare si dovrebbe rileggere in tal
senso tutto il ciclo agambeniano di Homo sacer, e il pensiero di Esposito almeno ino a
R. Esposito, Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero, Einaudi, Torino 2013.
11
Cfr. D. Tarizzo, Dalla biopolitica all’etopolitica: Foucault e noi, in «Nóema», vol. 4 (2013),
n. 1, pp. 43-51.
Ambiguità di Foucault 57

Il ragionamento mi pare il seguente: ne La volontà di sapere, testo


determinante per le deinizioni stesse di biopolitica e biopotere, Foucault scrive:
«i nuovi procedimenti di potere sono basati non sul diritto ma sulla tecnica,
non sulla legge ma sulla normalizzazione, non sul castigo ma sul controllo»12.
Poi, più avanti deinisce il biopotere «uno degli elementi indispensabili allo
sviluppo del capitalismo»13. E due anni dopo, nel già citato corso al Collège
de France, allarga l’ipotesi descrivendo un quadro in cui potere politico
e potere economico invertono il loro rapporto e formano una grande
tecnologia economico-politica che produce, letteralmente, l’intero dei
corpi sociali, modiicando così la forma di sovranità classica in un’inedita
tecnologia che presuppone «un sovrano – dice Foucault – che non è
più sovrano di diritto o in funzione di un diritto, ma […] un sovrano
suscettibile di amministrare»14. L’ipotesi suona talmente familiare in questo
tempo di governi tecnici, di esperti, di specialisti, che non occorre certo
argomentarla.
La cosa che più conta qui è un’altra. La razionalità neoliberale
presuppone soggettività politiche recalcitranti, riottose al potere, ma ne
interpreta la volontà di non esser troppo governate, valorizzando e mettendo a
lavoro esattamente questo spirito, così da evitare che tali forze soggettive
risultino ingovernabili: la governamentalità neoliberale in questa seconda linea
di lettura, sarebbe allora una forma di cattura del vivente estremamente
rafinata, anche oltre ciò che lo stesso Foucault aveva visto, perché in
grado di ottimizzare le ribellioni individuali, rovesciando così ogni atto di
resistenza, come per una astuzia della ragione, in servitù volontaria. Dunque
non valgono qui le accuse prima rivolte a Foucault, eppure se ne mantiene
un punto decisivo: il conlitto si riduce in ogni caso a punto residuale o
funzionale alla macchina biopolitica. Riepilogando: secondo questa linea
di lettura, l’unico discorso effettuale è ormai quello della tecnica, nel
senso di razionalità scientiica realizzata, logica economica, calcolante,
probabilistica; l’unico soggetto reale è quello prodotto dal biopotere;
l’unica libertà esistente è quella valorizzata dalla macchina neoliberista.
La vita è falsa e, come avrebbe detto Adorno, non si dà vita vera, nella falsa.
Presi nella macchina del biopotere capitalistico non resta che la possibilità di
far lavorare la critica per sottrazione.
12
M. Foucault, La volonté de savoir, Gallimard, Paris 1976, p. 118.
13
Ivi, p. 185.
14
M. Foucault, Naissance de la biopolitique, cit., p. 287. Si vedano anche le pp. 84-85,
106-107, 120-121, 146-147, 168-170 e 246-249.
58 Marco Assennato

Questa linea, ho già detto, è più insidiosa da contestare, certo più


intelligente, e del resto estremamente diffusa anche in ambito – se mi è
permessa l’espressione – militante. Tuttavia mi pare un buon esempio di
“cattivo uso di Foucault”. In effetti, il vero grande ilosofo che abita questa
impostazione – seppure in un rapporto tipicamente dialettico, di superamento
– non è Foucault, ma Heidegger. Heidegger è il ilosofo della tecnica come
politica e Heidegger ha opposto – dopo aver provato con le croci uncinate
– un gesto parmenideo all’epoca della ragione calcolante, per frenarne il
destino. «Se esistono ancora ilosoi – scriveva l’heideggeriano Massimo
Cacciari nel 1976 – allora pensino Parmenide» perché «altri luoghi liberi
non si danno!»15.
Leggere le categorie foucaultiane attraverso Heidegger (o sulla base
di Heidegger) porta dunque a una postura di questo tipo: il biopotere
riduce tutto l’essere a esser-ci, Da-sein appunto, pro-dotto, mero valore, vita
inautentica. Solo l’esserci si dà effettualmente, solo il lavoro del potere che
opera costantemente sulla vita e la manipola, la sposta, la trasforma, abita
la storia. Ciò dipende dal curioso destino della ragione umana analizzato,
come è noto, in termini di storia dell’ontologia fondamentale da Hedeigger:
l’illuminismo che scopre la sua dialettica, e compie la conoscenza in dominio,
Wille zur Macht, volontà di potere, ne è una delle tarde igure.
La critica è allora, se critica può darsi, disperato e disincantato
Andenken, ri-memorazione, ricordo della differenza essenziale dell’essere
e dell’ente, dell’animale e del culturale, della vita e della politica. L’unico
spazio critico non pensato consiste nel pensare l’oggetto storico, come
Gegen-über, dice Heidegger16: oggetto, fatto o evento che sorprende perché
non è rivolto al soggetto, non dipende dalla sua volontà di potenza, non
è mathémata ma a-lètheia, intesa tuttavia da alcuni suoi tardi interpreti, in
modo radicale, come negazione ultima del valore, della tecnica, della ragione
calcolante, dell’operosità umana. Non si dà vita vera nella falsa. Non
c’è azione possibile tra le maglie del potere. Non resta che il romantico
riiuto della storia. Si può solo, nella vita falsa, ricordare l’Essere, pensarne
l’assenza, o persino organizzare questa assenza sottraendosi al mondo
storico-sociale in nome della sua origine comune, del suo presupposto naturale,
del suo potenziale metaisico: zoé, nuda vita, “naturalmente” inoperosa e

15
M. Cacciari, Pensiero negativo e razionalizzazione, Marsilio, Venezia 1977, p. 68.
16
Cfr. su questo la seconda parte di M. Heidegger, Nietzsche, Adelphi, Milano 2000,
e ancora la pagina di Cacciari sopra richiamata.
Ambiguità di Foucault 59

destituente – e perciò – ingovernabile. Questa impostazione, rilevabile in un


certo uso italiano delle nozioni foucaultiane di biopolitica, governamentalità e
soggettivazione è a mio avviso scorretta. Perché? E cosa c’entra l’ambiguità
cui accennavo all’inizio?

Foucault e la critica

Per molte delle questioni che abbiamo attraversato sin qui, la conferenza
che Foucault ha pronunciato nel 1978 alla Societé française de Philosophie,
poi pubblicata sotto il titolo Che cosa è la critica?, mi pare illuminante. Cosa
signiica produrre lavoro critico? si chiede Foucault. E risponde: «è la
questione della quale ho sempre voluto discutere […] in direzione di una
ilosoia a-venire […] forse al posto di ogni ilosoia possibile»17. Dunque
qui la critica è qualcosa che eccede la ilosoia, la sbilancia su un esterno. O
qualcosa che, in ogni caso, si colloca in uno spazio possibile che succede alla
rilessione ilosoica classica, arenata nella dialettica del conoscere e del
potere, della razionalizzazione e del dominio.
Subito all’inizio della conferenza, Foucault dice: dobbiamo provare a
deinire la critica in sé. Una notazione interessante e curiosa, perché di solito
consideriamo la critica eteronoma ovvero come fosse «uno strumento, un
mezzo […] uno sguardo su un dominio in cui vuole fare pulizia ma in cui
non è capace di fare legge»18. Insomma, siamo abituati a pensare che non
si dia critica in sé, ma solo critica di qualcosa: della ilosoia, della scienza,
della politica, della morale, del diritto, dell’economia politica, e così via
seguitando. E invece Foucault cerca proprio questa critica in sé come ciò di
cui avrebbe voluto parlare da sempre.
Lungo la conferenza, della quale non si può qui rendere un riassunto
puntuale19, l’atteggiamento critico, viene deinito da Foucault in termini etici:
la critica è virtù fondamentale che nasce in epoca moderna, accanto alla

17
M. Foucault, Qu’est-ce que la critique?, cit., p. 34.
18
Ibidem.
19
Si rimanda tuttavia agli ottimi lavori di Daniele Lorenzini, in particolare
D. Lorenzini e A.I. Davidson, Introduction, in M. Foucault, Qu’est-ce que la critique?, cit.,
pp. 11-30; D. Lorenzini, Dall’ermeneutica del sé alla politica di noi stessi, in «Nóema», vol. 4
(2013), n. 1, pp. 1-10 e, per estensione, D. Lorenzini, La tentazione ontologica di Michel
Foucault, in «Quadranti. Rivista internazionale di ilosoia contemporanea», vol. 3 (2014),
n. 1, pp. 23-38.
60 Marco Assennato

domanda – come governare gli uomini? – raddoppiata dalla questione: come


non essere governati? L’atteggiamento critico è quindi «una parte, o piuttosto
allo stesso tempo un partner e un avversario, dell’arte di governare, come
un modo di non idarsi, di riiutare, di limitare, […] di trasformare […]
ma anche, a partire da qui, di sviluppare l’arte di governare»20. L’ipotesi
sembra, a una prima lettura, tipicamente dialettica: potere e libertà, arte
del governo e virtù della critica, vivono di un rimando continuo nel quale
l’uno invera l’altro. Tanto che Foucault può dire in modo esplicito che
governamentalizzazione e critica stanno «una in rapporto all’altra» e danno
luogo a «fenomeni capitali» nello sviluppo delle conoscenze scientiiche,
delle analisi giuridiche, delle pratiche istituzionali e dei modi di pensare21.
La critica sarebbe allora un’indocilità ragionata che riapre sempre, in forza di
ragione e verità, l’ordine del discorso.
Cosa succede – si chiede tuttavia Foucault – quando con il XIX e il XX
secolo, «la scienza inizia a giocare un rapporto sempre più determinante
nello sviluppo delle forze produttive e […] i poteri statali possono giocarsi
sempre di più attraverso tecniche rafinate»22? Quando, in altri termini, la
scienza e la tecnica – igure di un lògos storicamente realizzato – diventano
le potenze fondamentali dell’epoca e il potere si incarna in una rete
anonima e globale di cattura delle forme di vita? A questo livello dello
sviluppo moderno, secondo Foucault la semplice macchina dialettica
non basta più: perché l’indagine rileva gli «eccessi di potere» e gli «effetti
di governamentalizzazione» della ragione stessa23. Ciò che doveva liberare,
imprigiona. La ilosoia allora, modiica la domanda critica e la rende in
questi termini: «com’è possibile che la razionalizzazione conduca al furore
e al potere?»24; com’è possibile che l’esito più recente della storia della
conoscenza umana porti a produrre un mondo in cui vediamo solo una
vita falsa, alienata, catturata, calcolata, dominata? Siamo all’altezza dei
francofortesi, dei grandi storici della scienza francesi, dell’esistenzialismo
e della fenomenologia, di Heidegger e di Husserl il quale, nota Foucault
riconduceva già nel 1936, la Krisis dell’umanità europea ai rapporti tra
episteme e techné, ragione calcolante e potere25.

20
M. Foucault, Qu’est-ce que la critique?, cit., p. 37.
21
Ivi, p. 39.
22
Ivi, p. 43.
23
Ivi, p. 44.
24
Ivi, p. 46.
25
Cfr. ivi, p. 44.
Ambiguità di Foucault 61

Generosa, importante di certo, è stata questa ilosoia. Ma, secondo


Foucault, i vari tentativi ilosoici di risolvere il rompicapo prodotto dalla
scoperta della violenza normativa della ragione non hanno funzionato. E
allora egli propone un altro metodo: anziché partire dal tema de la ragione,
si dovrebbe cominciare «dal tema del potere», quindi immergersi nel
«campo d’immanenza» del reale e seguirne l’evenemenzialità, per deinire
gli insiemi storici come «singolarità assolute» che articolano speciiche
forme del sapere in determinate organizzazioni istituzionali26. Sono
pagine, se mi è permessa l’accezione larga, di grande epistemologia
politica. Il cui esito è noto: l’attenzione non può che andare alle rotture e
alle discontinuità e l’archeologia non può che lasciare il passo alla genealogia
«che tenta di ricostruire – dice Foucault – le condizioni di apparizione di
una singolarità a partire da molteplici elementi determinanti di cui essa
appare l’effetto»27.
A questo punto pare lecito chiedersi: che ne è, in questo quadro, della
dialettica tra potere e libertà? Dobbiamo accontentarci di considerare
di volta in volta la soggettivazione come risultato, effetto, di una serie
di elementi determinanti, ad esempio quelli analizzati nel corso sulla
biopolitica? In questo caso avrebbero ragione le letture heideggeriane
o post-heideggeriane di Foucault. Ed invece no. La genealogia resta
critica – cioè riapre il rapporto potere-libertà – nella misura in cui «rende
intellegibile» il fatto che le singolarità storiche «non funzionano secondo
un principio di chiusura», ma risultano da dispersioni e differenze,
casualità e fortuna, conlitti e rapporti di forza28. La genealogia, insomma,
inscrive nella trama archeologica la possibilità di eventi a-venire.
L’analisi genealogica rileva in primo luogo che «le relazioni che
permettono di dare conto di un dato effetto singolare sono […] delle
relazioni d’interazione tra individui e gruppi e cioè implicano dei soggetti,
dei tipi di comportamento, di decisione, di scelta»29. Di conseguenza essa
si fonda sull’importanza di ampli e sempre variabili margini d’incertezza.

26
Ivi, p. 51.
27
Ivi, p. 55. Si veda a tal proposito la voce Généalogie, in J. Revel, Dictionnaire Foucault,
Ellipses, Paris 2008, pp. 63-64, soprattutto laddove Revel nota: «ciò signiica che la
genealogia non cerca nel passato semplicemente la traccia di eventi singolari, ma pone la
questione della possibilità degli eventi presenti» (corsivo mio).
28
M. Foucault, Qu’est-ce que la critique?, cit., pp. 55-56.
29
Ivi, p. 56.
62 Marco Assennato

In secondo luogo la genealogia insegna che nessuna singolarità storica può


essere pensata su un unico piano: in termini di biopotere, ad esempio. Le
diverse interazioni che costituiscono una singolarità storico-sociale, infatti,
possono sempre trovarsi in contraddizione l’una con l’altra «cosicché
nessuna di queste interazioni appare come assolutamente totalizzante»30.
Insomma il potere (come il sapere) in Foucault è «una relazione in un
campo di interazioni»31. Ciò signiica essenzialmente che ogni potere
è «associato ad un campo di possibilità e dunque di reversibilità e di
rovesciamento possibili»32.
A questo punto potere e sapere, forme della ragione e forme istituzionali,
non sono più gli oggetti dell’analisi, ma il fronte su cui l’analisi si dispiega. Su
questo fronte, l’atteggiamento critico è necessario, perché è l’unico che coglie
l’ambiguità dei fenomeni storico-politici, l’unico che analizza le relazioni
di dominio e conoscenza, le forme di legittimazione e le meccaniche
operative di una data singolarità, insistendo sul fatto che «ogni relazione
può essere spostata in un gioco che la eccede»33. La possibilità di mettere al
lavoro giochi eccedenti, insomma, è interna a relazioni di tipo asimmetrico
e differenziale come quelle che normalmente si suppongono quando
si discute di rapporti di potere. Non una sostanza – ha più volte detto
Foucault – ma un rapporto conlittuale tra stili di vita originariamente
liberi e tentativi di cattura normativa che non implementano (e casomai
sviliscono) la potenza delle pratiche critiche. E lo stesso varrebbe per altre
parole: tecnica, ragione, cultura, ecc. Qui insomma, non è più questione
di una critica de la ragione occidentale, o del sistema di potere connesso allo
sviluppo scientiico, o della società della tecnica, perché Tecnica, Ragione e
Potere, non sono più considerati in termini di unità, ma nella loro regionalità
storica e quindi nella loro costitutiva ambiguità.
La rottura dell’idea unitaria di ragione, mi pare di capitale importanza
perché falsiica ogni tentativo di leggere Foucault attraverso Heidegger, o
attraverso la ilosoia tedesca dedicata al tema della razionalizzazione. Verrà
confermata, tra l’altro, dallo stesso Foucault nel corso di due conferenze
all’Università di Stanford, il 10 e il 16 ottobre del 197934. Laddove egli

30
Ibidem.
31
Ivi, p. 57.
32
Ibidem.
33
Ivi, p. 56.
34
M. Foucault, “Omnes et singulatim”: vers une critique de la raison politique, in Dits et écrits
II, 1976-1988, a cura di D. Defert e F. Ewald, Gallimard, Paris 2001, pp. 953-980.
Ambiguità di Foucault 63

sottolinea a più riprese che la sua analisi non si applica alla ragione in generale35,
e neppure alla decostruzione dell’onnipotenza presunta del processo di
razionalizzazione. Anzi, razionalizzazione è «parola pericolosa», perché tratta
«della società e della cultura come un tutto»36, perdendo di vista dunque le
contraddizioni speciiche che si producono nei vari ambiti di potere e di
sapere: «non è suficiente fare il processo alla ragione in generale. Ciò che
occorre rimettere in questione – dice Foucault – è la forma di razionalità
presente […]. La questione è: come vengono razionalizzate le relazioni di
potere? Porre una tale questione è il solo modo di evitare che altre istituzioni,
con gli stessi obiettivi e gli stessi effetti, prendano corpo»37.
Come è evidente, dunque, il fatto che la politica assuma sempre di più
carattere tecnico, burocratico, scientiico, non porta Foucault a concludere
con l’equivalenza tra razionalità e istituzionalizzazione delle pratiche sociali,
tecnica e politica. Al contrario disegna un solco profondo attraversato da
mille, speciiche e mobili, condizioni tecniche di politicizzazione del sapere. Ma ci
sono ragioni differenti che abitano questo mondo, non ricomponibili in un
unico destino. Esistono certo cattivi usi della scienza e della tecnica ma ci
sono anche ottime ragioni e usi positivi del sapere umano: quelli che spezzano
la logica del vilain pouvoir38, riaprendo le forme istituzionali della conoscenza
allo scambio e all’esame critico.
Si tratta dunque di dissociare i diversi tipi di razionalità e liberare le
loro contraddizioni speciiche, così da individuare spazi concreti di azione
politica. In ciascun dominio, in ogni spazio disciplinare, il rapporto tra
potere e libertà può sempre sbilanciarsi, aprirsi, non è destinato a chiudersi
dialetticamente. Il problema non sarà più: in forza di quale errore o illusione,
di quale destino, è possibile che la razionalizzazione e la conoscenza umana portino al
dominio, all’assoggettamento, alla riduzione dell’essere a ente? Quanto piuttosto: come
l’indissociabilità moderna di sapere e potere produce ad un tempo e nello spazio di una
medesima singolarità storica, dinamiche di assoggettamento e un «campo di possibili, di
aperture, di indecisioni, di rovesciamenti e dislocazioni eventuali» che rende ogni biopotere,
sempre, fragile39? Fin qui arrivano l’archeologia e la genealogia di Foucault. È
già tanto e siamo ormai fuori dall’impianto heideggeriano. Ma non basta.
L’ambiguità di Foucault non è ancora sazia.

35
Ivi, p. 969.
36
Ivi, p. 954.
37
Ivi, p. 980.
38
M. Foucault, Qu’est-ce que la critique?, cit., p. 62.
39
Ivi, p. 57.
64 Marco Assennato

Oltre la critica: la politica

La ricerca infatti a questo punto si riapre su quell’esterno, o su


quell’oltre la ilosoia che costituisce lo spazio speciico della critica e della
soggettivazione. Più che attardarsi a pensare differenze essenziali tra essere
ed ente, Foucault riapre il discorso procedendo per «analisi strategiche», o
meglio per «strategie concrete» che tengono insieme sapere e potere a partire
dalla volontà «insieme individuale e collettiva» di «non essere governati»40.
Le tecniche ontologiche di sé, o l’ontologia storico-critica di noi stessi di cui Foucault
parlerà altrove, dipendono da questo fondamentale atteggiamento rispetto
ai fenomeni storici, interamente spostato sulla pratica41. Le forme di vita
si muovono in un contesto che non è mai destinale, ma compiutamente
immanente e soggettivante. Contro Heidegger, Foucault s’immerge
nell’universo inautentico del Da-sein; oltre Adorno, Foucault si muove
nella vita falsa. Libertà e potere, biopolitica e biopotere compongono certo
l’indissociabile Giano bifronte della soggettivazione, ma ciò non porta
Foucault a concludere con la loro equivalenza. Al contrario: apre il cantiere
di una ricerca che deinirei agonistica. Lo afferma lo stesso Foucault: si
tratta di «un agonismo – di un rapporto che è insieme di incitazione e di
lotta»42. Ora, come ha scritto Judith Revel incrociando l’ontologia politica
di Foucault con l’iperdialettica di Merleau-Ponty:

Questa compossibilità non era facile da pensare. Si dava come un chiasma.


[…] Il Chiasma è una struttura non soltanto doppia, ma che lega in modo
indissociabile le due facce che presenta e vi assegna la caratteristica della
simultaneità: l’uno e l’altro lato del chiasma si presentano sempre insieme e allo
stesso tempo, la loro reversibilità riguarda dunque questa compresenza necessaria.
Ora – tutta la dificoltà sta qui – noi percepiamo sempre solo l’uno o l’altro lato:
noi ci consideriamo come vedenti o visti, come toccanti o toccati, anche se invero
noi siamo le due cose insieme […]. In Foucault, allo stesso modo, lo scandaglio delle
determinazioni storiche e l’apertura del presente a ciò che non contiene, […] si
danno insieme43.

40
Ivi, pp. 56 e ss.
41
Cfr. D. Lorenzini, Dall’ermeneutica del sé alla politica di noi stessi, cit.
42
M. Foucault, Le sujet et le pouvoir, in Dits et écrits II, cit., p. 1057.
43
J. Revel, Foucault avec Merleau-Ponty. Ontologie politique, présentisme et histoire, Vrin, Paris
2015, pp. 12-13.
Ambiguità di Foucault 65

La ricerca sul come non esser troppo governati, in altri termini, non allude
ad alcun esterno dalla governamentalizzazione, non è una fuga generica – che
sarebbe peraltro solo teorica – dal mondo della storia in uno spazio esterno
al biopotere, e neppure può essere assimilata, dice Foucault a «una sorta di
anarchismo di fondo, che sarebbe come una forma di libertà originaria,
assolutamente ribelle ad ogni governamentalizzazione»44. Non essere
governati è volontà strategica insieme individuale e collettiva che contesta speciici
modi di governo della vita attraverso forme autonome di soggettivazione.
L’atteggiamento critico dunque rinvia a qualcosa che è dell’ordine delle
«pratiche storiche di rivolta, di non accettazione di un governo reale»45.
Si tratta insomma di pensare la questione della soggettivazione autonoma
in modo non dialettico e tuttavia complesso. Si tratta di mettere al lavoro
l’ambiguità, sperimentando la dismisura dell’innovazione e della libertà
rispetto alle tecniche di cattura degli stili di vita.
Dunque: ambiguità del Foucault politico? Sì. Ma nel senso percorso già
da tutta la tradizione realista e materialista, almeno a partire da Machiavelli,
inventore di un metodo capace di mordere il tempo storico tenendosi
sempre dietro alla verità effettuale della cosa, piuttosto che perdendosi appresso
all’immaginazione di essa. Perché nel concreto della storia si danno solo
processi ambigui, insieme di dominio e spazi di libertà, campi di tensione
all’interno dei quali occorre schierarsi. Ambiguità, quindi, come «apertura
di mondo, apertura nel mondo»46. E sembra quasi di vederlo, questo
Foucault, che sottoscrive il gesto di quel poeta italiano capace ancora, nel
fuoco degli anni sessanta, del coraggio di parlar delle rose. Lettore di Adorno,
ne corresse il motto rovesciandone per doppia negazione la tragedia in
politica: non si dà vita vera “se non” nella falsa – diceva il poeta47. Perché
vita vera è quella che si conquista, trasformando le maglie del biopotere in
biopolitca, direbbe il ilosofo.

Marco Assennato
École Normale Supérieure d’Architecture Paris-Malaquais
marco.assennato@gmail.com

44
M. Foucault, Qu’est-ce que la critique?, cit., p. 65.
45
Ibidem.
46
J. Revel, Foucault avec Merleau-Ponty, cit., p. 206.
47
F. Fortini, Contro l’industria culturale. Materiali per una strategia socialista, Guaraldi
Editore, Rimini 1971 (ora in <www.lavoroculturale.org>).
66 Marco Assennato

.
Foucault’s Ambiguity

This article aims to analyze the recent interpretations of the relationship be-
tween Foucault and neo-liberalism. By extension it aims at highlighting the
potential criticism of Michel Foucault’s political thought. Three lines of in-
terpretation must be opposed: the Foucault neoliberal; the Foucault critic of
traditional political philosophy; and Foucault as a thinker of subjectivation. The
premise is methodological and holds together three words: politics – intended
as collective and plural experimentation acting on lifestyles that develop in
society; ambiguity – as a space of a realistic (or materialistic) method; and criticism
as ethico-political attitude.

Keywords: Neo-Liberalism, Criticism, Subjectivation, Epistemology, Politics,


Biopolitics, Governmentality.
Foucault: dall’etopoiesi all’etopolitica
Salvo Vaccaro

In un articolo recensivo sulla London Review of Books del Foucault di Gilles


Deleuze e di una rassegna critica americana curata da David Hoy, il iloso-
fo Vincent Descombes chiudeva nel 1987 così il suo ragionamento:

Il Foucault americano non condivide l’“anarchismo” del Foucault francese.


[…] Il Foucault americano è qualcuno con cui si entrerebbe volentieri in “dialo-
go”. Il Foucault francese non crede nel “dialogo” (persino Dreyfus e Rabinow si
sentono obbligati a porre il termine tra virgolette). Né ricerca un “linguaggio co-
mune” o rispetta tradizioni venerabili. Non legge Wittgenstein bensì i surrealisti.
Il Foucault americano può prendere molto sul serio i nostri impegni e le nostre
pratiche. Ma forse è il Foucault “anarchico” che tiene avvinghiati i suoi lettori1.

Questa sorta di esergo mi è funzionale come cornice di lettura di


un sapere, quello di Foucault in ogni sua sfaccettatura, intrinsecamente
politico perché votato “anarchicamente”, come ben dice Descombes, a
dissodare ogni “venerabile tradizione”. La dissacrazione critica di Foucault è
la sua posizione politica per deinizione, al di là delle forme assunte, degli
impegni presi, delle attività svolte in politica da Foucault stesso, ma al di
qua di ogni intesa linguistica preliminare, giacché per Foucault pensare
signiica prima di tutto prendere posizione, e questa presa di posizione è
Critica, una Kritik mossa innanzitutto da un atto di sospensione scettica,
di incredulità ponderata, di sorveglianza dei «poteri eccessivi della razio-
nalità politica»2.
Una ricognizione sulle modalità e sui percorsi con cui Foucault ha
pensato la politica tanto come apparato quanto come campo d’espe-
rienza umana non può disgiungersi dal processo genealogico che segna
il metodo foucaultiano di analisi. La destituzione di ogni orizzonte uni-

1
V. Descombes, Je m’en Foucault, in «London Review of Books», vol. 9 (1987)
n. 5, p. 21 (traduzione mia).
2
M. Foucault, Perché studiare il potere: la questione del soggetto (1982), in H. Dreyfus e
P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault, La casa usher, Firenze 2010, p. 281.

materiali foucaultiani, a. IV, n. 7-8, gennaio-dicembre 2015, pp. 67-82.


68 Salvo Vaccaro

versalistico che pretenda di inglobare sul piano ontologico ed essenziale


l’esperienza umana incide a fondo sul pensare la politica nella cifra della
sua contestualità storica, della sua articolazione discontinua, della sua
forma inita. Ciò si traduce nella sottrazione dell’analitica della politica
dalla sua narrazione mitica che la af-fonda quale seconda natura di un
umano socialmente organizzato (essendo la prima quella di un animale
socievole ma privo di parola e di ragione), restituendola quale effetto
discorsivo di una serie di ingiunzioni strategiche, di tattiche conlittuali
resistenti e di trame linguistiche (visuali, testuali, plastiche ed orali); si
traduce nella sua sottrazione da un itinerario epocale continuo, molare,
per presentarla nelle metamorfosi e nelle biforcazioni di senso di cui
ricostruire elementi di continuità e discontinuità da rendere evidenti; si
traduce nella sottrazione da un’aura destinale che moltiplica il dosaggio
di potenza che la politica riesce ad accumulare nel nesso tra violenza e
autorità, tra esercizio della forza ed immaginario simbolico, tra sangue e
corpo, tra fatto e rappresentazione.
In ultima analisi, lo sfondo critico da cui si staglia l’architettura gene-
alogica di Foucault, nel solco di una linea di pensiero da Kant ad Adorno
rielaborata radicalmente, si precisa come una macchina teorica che ter-
remota il signiicato ereditato della politica, che interroga per sovvertirle
le tecniche di produzione, di signiicazione, di dominio (sin qui “contro-
mimando” Habermas) e di verità/veridizione, che immette segnali di
incertezza e di acuto scetticismo sulle cornici consolidate di rilessione
teorica ed analitica, che produce bruschi scarti di direzione là dove sia-
mo trasportati placidamente ad ossequiarne totem e mantra eretti per
distogliere lo sguardo dalla sua caducità, dalla sua initudine, dalla sua
contingenza.
In questo saggio, cercherò di evidenziare il doppio spiazzamento
che Foucault effettua rispetto alla concezione moderna della politica,
da una parte aggirando il concetto su cui questa si impernia, ossia la
sovranità assoluta, utilizzando la nozione di governamentalità liberale,
dall’altra rigettando l’idea di politica come sfera separata e autonoma
della società, proponendo una analitica del potere che costituisce l’ele-
mento differenziale e contingente di una più ampia e articolata visione
dell’insieme societario. Il prisma utilizzato per questa duplice lettura sarà
il dispositivo sapere-potere-sé nella sua formazione e deformazione.
Foucault: dall’etopoiesi all’etopolitica 69

Politica dello scetticismo

La politica si presenta a Foucault soprattutto come un campo agonale,


un teatro di battaglia non solo metaforica in cui si misurano e si scontrano
tattiche di potere tese weberianamente a orientare e guidare, se non sovra-
determinare, condotte altrui. La scena politica è innanzitutto spazializzata,
visualmente individuabile attraverso strategie discorsive in cui si incarnano
le forze relazionali che esercitano potere. Apparati, istituzioni, luoghi cru-
ciali, sono costruzioni che non trovano corrispondenza nell’impalcatura
sovrana che a lungo ha eretto l’ediicio teorico della politica, né si disloca-
no secondo quella inzione di separazione tra sfera politica e società civile
cara sia a Hegel che a Marx, pur se per ragioni diverse. Proprio sul pilastro
fondativo della teoria politica moderna, il concetto di sovranità, si misura
la critica foucaultiana, tesa a riconigurare la nozione di potere secondo
una spazialità non più verticale, tipico della gerarchia, bensì orizzontale,
tipico della reticolarità al cui interno le dinamiche sono «mobili, reversibili
e instabili»3, continue e discontinue secondo i casi, anziché inamovibili,
necessarie, ontologicamente costituenti e costituite.
Al concetto di sovranità, Foucault imputa una rigidità modulare ina-
datta a spiegare narrativamente la costituzione degli apparati di dominio
statuali, dissimulando il primato della violenza e della forza bellica sotto
un discorso contrattuale di legittimità dalle maglie troppo larghe per intra-
vedere le molteplici affezioni che reggono l’impalcatura statuale. Sovranità
e unità statuale dissolvono l’esperienza storicamente reperibile delle serie
eterogenee di poteri e autorità locali ricondotte e riaccentrate secondo una
topologia piramidale. L’uso della discorsività giuridica ha permesso non
solo la concettualizzazione dello stato assoluto, ma anche l’emergenza del
suo modello contrapposto, lo stato moderno liberale, giacché egualmente
catturabile dalle élites in cerca di assicurarsene il possesso a ini governa-
mentali, come se il potere fosse una sostanza per l’appunto detenibile4.
Le tecniche di governo inaugurate dal liberalismo e inseguite sino al XX
secolo deiniscono una pratica politica molto differente dal dispositivo
dello stato assoluto, e non solo per il mutato verso della biopolitica – dal

3
M. Foucault, L’etica della cura di sé come pratica della libertà (1984), in Archivio Foucault 3.
Estetica dell’esistenza, etica, politica, a cura di A. Pandoli, Feltrinelli, Milano 1998, p. 284.
4
Cfr. le prime lezioni del corso del 1975-1976, “Bisogna difendere la società” (Feltrinelli,
Milano 1998), nonché le due conferenze del 1976 dal titolo Le maglie del potere (in Archivio
Foucault 3, cit., in particolare pp. 157-158).
70 Salvo Vaccaro

«vecchio diritto di far morire o di lasciar vivere al potere di far vivere o di


respingere nella morte»5 – bensì per la cura pastorale con cui si governa
il trittico territorio-sicurezza-popolazione secondo una modalità politica
estranea alla logica della sovranità.
Il dispositivo sapere-potere non emerge entro tale ottica, ed è proprio
su di esso che Foucault si distacca delineando una lettura alternativa del
potere nella sua relazionalità orizzontale e nella sua potenza di oggettiva-
zione tanto disciplinare, quanto governamentale. Grazie a questo dispo-
sitivo, Foucault ricostruisce lo scenario della politica, lo sfondo e le sue
quinte, le sue trame anonime e impersonali, ma non per questo deserto,
anzi pullulante di personaggi, taluni in maschera, per simulare e dissimu-
lare, altri riconoscibili per funzioni e status seppure investiti da tale dispo-
sitivo in modo ben differente rispetto al paradigma sovranista. Scena mo-
bile, invero, nessun ruolo isso, eterno, inamovibile, nessuna parte afidata
da un Regista più o meno occulto, invisibile perché osceno, trascendente,
fuori scena.
La politica secondo Foucault non è pratica da arcana imperii, non è un
plot permanente di tragici complotti e oscure dietrologie. La sua opacità è
decifrabile inseguendo sagacemente i piani plurali delle tattiche discorsive
in cui il sapere-potere opera come cemento di uniicazione di frammenti
altrimenti dispersivi. Anzi, in una prospettiva visuale e discorsiva, il legame
di interdipendenza tra «forza del potere» e «manifestazione del vero» trama
una verità aleturgica in cui la politica emerge come quella pratica supre-
ma di «governare gli uomini in generale, sia nella forma collettiva di un
governo politico, sia nella forma individuale di una direzione spirituale»6.
Il regime antico di obbligazione politica del sapere-potere si arricchisce
della dimensione dell’obbligo di verità, meglio: alla verità, che insinua la
costrizione all’obbedienza lungo un percorso “agostiniano” che dalla re-
pressione dall’esteriore giunge all’assoggettamento volontario interioriz-
zato sino a chiudere il cerchio, con il monachesimo cristiano e l’istituto

5
M. Foucault, La volontà di sapere (1976), Feltrinelli, Milano 1978, p. 122. Come
opportunamente nota Nikolas Rose, anche oggi, in era di globalizzazione neoliberale, le
crescenti diseguaglianze tra nord e sud del mondo e le relative politiche di cooperazione
conigurano un «lasciar morire in scala di massa e globale» (N. Rose, La politica della vita,
Einaudi, Torino 2008, p. 101).
6
M. Foucault, Del governo dei viventi. Corso al Collège de France (1979-1980), Feltrinelli,
Milano 2014, pp. 21 e 60. «Governo inteso in senso ampio: maniera di formare, di
trasformare e di dirigere la condotta degli individui» (M. Foucault, Mal fare, dir vero. Corso
di Lovanio (1981), Einaudi, Torino 2013, p. 15).
Foucault: dall’etopoiesi all’etopolitica 71

della confessione, tra direzione e obbedienza, tra soggezione volontaria e


annichilimento di una volontà autonoma. «Il valore dell’obbedienza dipen-
de essenzialmente dal fatto che si obbedisce», nulla di più, nulla di meno7.
Nella modernità, invece, se la narrazione contrattuale delle teorie della
sovranità ci offre lo scambio libertà-sicurezza in cui registriamo una ces-
sione di volontà, ossia un regime di verità politica che è posto sulla volontà
singolare che pure l’ha voluto e legittimato, il nesso triangolare sapere-
potere-verità ci offre di contro la coesistenza di volontà dei governanti e
dei governati, il cui dispositivo governamentale è tale da indurre i secondi
a volere sempre ciò che vogliono i primi, senza annullarsi bensì entro un
legame «libero, volontario e illimitato», senza minaccia di sanzione o co-
ercizione8.
Ed anche senza saturazione deinitiva, anzi con una eccedenza irri-
ducibile che Foucault avverte nella sua analisi del destino del soggetto sul
campo di forze in cui si gioca il governo delle sue condotte. L’indicatore di
riferimento è «il movimento per liberarsi del potere»9, il vettore è il «déprise
de soi-même» nella misura in cui il sé è l’effetto di una pratica di veridizione
legata alla rinuncia alla propria volontà autonoma, il presupposto è la li-
bertà la cui pratica si offre come partner resistenziale in ogni rapporto di
potere; in tal senso il potere è duale, esibendo due tensioni immanenti al
gioco stesso e segnando il sentiero verso una biforcazione: la prima, tipica
della ilosoia politica che pretende di fondare o rinnovare il potere, nel
segno della precettistica delle regole, della pedagogia della moderazione,
della morale dei limiti, aspira a «prendere esattamente, virtualmente, anche
segretamente il posto del potere», operando una sostituzione di igure;
la seconda, invece, muovendo dalla libertà come «condizione ontologica
dell’etica», tende verso una etopolitica che «assume [quel]la libertà» come
riiuto del gioco stesso di potere, denunciando l’insopportabilità «in sé»
dell’esercizio del potere, l’inaccettabilità del gioco sino al punto di impedi-
re «al gioco di essere giocato», destabilizzandolo «senza ine». È la biforca-
zione delle «lotte anarchiche»10.
Nella critica alla ilosoia politica classica e moderna, ciò che è in gioco
è il pilastro della sovranità che affonda la sua solidità sulla narrazione con-

7
M. Foucault, Mal fare, dir vero, cit., p. 130.
8
M. Foucault, Del governo dei viventi, cit., pp. 232-233. Per il regime di direzione antica,
particolarmente cfr. p. 276.
9
Ivi, p. 85.
10
M. Foucault, La ilosoia analitica del potere (1978), in Archivio Foucault 3, cit., pp. 103-109.
72 Salvo Vaccaro

trattuale che conferisce una legittimità ex ante ad ogni esercizio del potere,
grazie ad essa impresso come necessità inesorabile. Lo spiazzamento pro-
posto da Foucault è di segno scettico, e viene deinito anarcheologia:

È un atteggiamento che consiste innanzitutto nel dirsi che nessun potere va


da sé, nessun potere, qualunque esso sia, è evidente o inevitabile, nessun potere,
di conseguenza, merita di essere accettato in dall’inizio del gioco. Non c’è una
legittimità intrinseca del potere. […] Nessun potere è fondato di diritto o per
necessità, dato che ogni potere poggia sempre e solo sulla contingenza e sulla
fragilità di una storia, che il contratto sociale è un bluff e la società civile una fa-
vola per bambini, che non c’è alcun diritto universale, immediato ed evidente che
sia in grado di sostenere dovunque e sempre un rapporto di potere, qualunque
esso sia. […] Innanzitutto, non si tratta di tendere a una società senza rapporti
di potere come conclusione di un progetto. Al contrario, si tratta di mettere il
non-potere o la non-accettabilità del potere non a conclusione dell’impresa, ma
all’esordio del lavoro, nella forma di una messa in questione di tutti i modi con cui
effettivamente si accetta il potere. In secondo luogo, non si tratta di dire che ogni
potere è malvagio, ma di partire dall’idea che nessun potere, qualunque esso sia,
sia accettabile a pieno diritto e sia assolutamente e deinitivamente inevitabile11.

Cura di sé e contro-soggettivazione plurale

L’apparenza di dissolvimento del soggetto nella presa del sapere-po-


tere si rivela tale nel momento in cui quel dispositivo si rinnova sempre in
atto proprio perché l’obiettivo ultimo di richiudere quel campo si allontana
sempre di più. La centrifugazione delle forze sul campo della politica ecce-
de il sapere-potere che pure le costituisce, grazie al cruciale gioco tra deri-
vazione e dipendenza, tra genealogia e libertà, tra analitica e autonomia12.
L’evidenza delle contro-condotte elude la dialettica dell’antagonismo
pur sempre costola di un protagonismo intronato non certo dal paradigma
sovrano, bensì dal dispositivo sapere-potere. Le contro-condotte emergo-
no da un sé, da un movimento di soggettivazione il quale, tuttavia, per sta-
gliarsi in libertà, aprendo quindi nuovi scenari nell’agire politico e dunque

11
M. Foucault, Del governo dei viventi, cit., pp. 85-86.
12
«L’idea fondamentale di Foucault è una dimensione della soggettività che deriva
dal potere e dal sapere, ma non ne dipende» (G. Deleuze, Foucault, Cronopio, Napoli
2002, p. 135).
Foucault: dall’etopoiesi all’etopolitica 73

diverse concatenazioni tra sé conlittuali in contro-condotta, ha necessità


di legare la propria volontà alla rescissione di ogni nesso con quel dispo-
sitivo di costituzione. La soggettività, infatti, è intesa doppiamente «come
l’insieme dei processi di soggettivazione ai quali gli uomini si sono sotto-
messi o che hanno messo in atto verso se stessi»13, pertanto l’opposizione
segnala una biforcazione qualitativa che attiva scarti ed eccedenze rispetto
alla formazione identitaria di sé.
Il movimento disciplinare di oggettivazione del soggetto moderno
trova sponda, nell’itinerario foucaultiano, nel contro-movimento di sog-
gettivazione di sé come snodo plurale di differenti linee di volizione, tra-
mite le quali costruire quel sé che si autoforma rimodulando il dispositivo
di sapere-potere, per così dire, dal basso. Le diverse forme che assume il
processo di soggettivazione non incitano sempre all’autonomia della for-
mazione di sé, le tecniche che lo costituiscono lo vincolano in una piega
interiore di esteriorità, laddove la ricerca foucaultiana tende precisamente
all’opposto. Una soggettivazione che non si faccia costituire esteriormen-
te deve inventare il sé attraverso diversi movimenti, dal distacco da sé, il
distanziamento da ciò che si è per divenire qualcun altro, alla pratica di sé
che attiva in maniera anti-individualistica una “ascesi” che trasigura il sé
lungo un lavorio di auto-conversione che «sottrae il soggetto al suo statuto
e alla sua condizione attuale»14, sino alla cura come arte di vita, «una inten-
siicazione dei rapporti sociali»15, quindi una gravosa ricerca, nient’affatto
una rinuncia, «come andando verso una meta»16, della propria singolare
autonomia nella relazione tanto con sé quanto con l’altro che viene raffor-
zata da una ferrea volontà di attenersi ad essa quale legame di verità.
La dimensione etico-estetica, in ultima analisi pragmatica del volere
emerge, nell’analitica foucaultiana, sia come urgenza di ricostruzione ge-
nealogica delle condizioni della libertà e dell’autonomia, rispetto ad un
processo moderno, troppo moderno, di liberazione che inisce con il ri-
conigurare l’eteronomia di sempre, il dominio sull’altro congelando la re-
versibilità delle posizioni di potere. Ma anche come delineazione dell’eto-
poiesi quale spazio di libertà del sé al singolare che si esonera dalla cattura

13
M. Foucault, Subjectivité et vérité. Cours au Collège de France. 1980-1981, Seuil/
Gallimard, Paris 2014, p. 287 (corsivo mio).
14
M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-1982), Feltrinelli,
Milano 2003, p. 17.
15
M. Foucault, La cura di sé, Feltrinelli, Milano 1985, p. 57.
16
M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto, cit., p. 190.
74 Salvo Vaccaro

introducendo una distanza critica tra sé e sé ereditato, tra esperienza e


mondo, lungo un faticoso percorso di auto-costituzione volontaria che
assume diverse igure nel corso della nostra civiltà.
Foucault scommette, perdendo, sulla temporalità classica per individua-
re una serie di posizioni tanto teoriche quanto effettive in grado di decli-
nare la pratica di sé e di articolarla in direzione di una capacità di autogo-
verno di sé, utile altresì a ipotizzare un governo degli altri, decifrabile, in
negativo, come una tecnica di non assoggettamento, bensì di scambio re-
versibile di posizioni simmetriche che interrompa il privilegio aristocratico
(«comportamento d’élite»17) di autogoverno e governo altrui. Beninteso,
l’analitica di Foucault è perfettamente in grado di individuare nella classi-
cità, di volta in volta, diverse igure emergenti dalle quali trarre indicazioni
di libertà e di autogoverno, dalla precettistica stoica al cinismo, operando
le dovute differenze concettuali e strategiche tanto rispetto alla morale
platonica la cui parrhesia socratica è radicalizzata contro Platone, quanto
rispetto alla prescrizione proto-cristiana che chiude progressivamente lo
spazio all’etopoiesi per affermare una carica normativa di morale eteropo-
ietica («l’asserzione vale come prescrizione»18) che instaura una gerarchia
verticale tra spiritualità dell’anima e azione plasmatrice del corpo mortii-
cato, tra ricerca di una verità interiore e obbligo della sua coincidenza con
la verità enunciata da autorità spirituali superiori.
Tuttavia, l’analisi foucaultiana del mondo greco e romano, al di qua della
tara di un semplicistico transfert analogico con il contemporaneo, staglia e
ritaglia il movimento autopoietico come un processo costruttivo tutto im-
perniato sul singolo individuo, smarrendo da un lato la possibilità che tale ri-
cerca di un sé libero la cui libertà dipende da un distacco da sé – da una ascesi
che non signiichi l’abbandono dalla scena mondana in favore di una dimen-
sione ultraterrena da privilegiare, come il cristianesimo inirà per imporre
quale ethos millenario, bensì una capacità di stare in questo mondo con una
visione critica capace di scardinare il senso comune esperito e di innovare
le pratiche di condotta – possa rispecchiarsi esclusivamente in una postura
elitaria e privilegiata, «un problema di scelta personale, […] riservato a poche
persone all’interno della popolazione, […] una piccola élite»19. E dall’altro,
Foucault si accorge ben presto come l’avventura pure affascinante nel mon-

17
Ivi, p. 67.
18
Ivi, p. 312.
19
M. Foucault, Sulla genealogia dell’etica: compendio di un work in progress (1983), in
H. Dreyfus e P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault, cit., p. 302.
Foucault: dall’etopoiesi all’etopolitica 75

do greco conduca ad una sorta di disillusione20 rispetto all’investimento stra-


tegico poiché l’ethos collettivo che quel movimento autopoietico, di cura del
sé, prometteva si risolve alla in ine nella riproposizione di una continuità
pericolosa e inquietante tra autogoverno e governo degli altri, senza alcuna
interruzione di senso in grado di evocare una autonomia di libertà nel gioco
discorsivo del dispositivo allargato sapere-potere-volere. «Essere padroni di
se stessi signiicava essere capaci di governare gli altri. In tal modo il dominio
di se stessi era direttamente riferito a una relazione asimmetrica con gli altri.
Si doveva essere padroni di se stessi nel senso dell’attività, asimmetria e non-
reciprocità»21. Come se la radicalità delle pratiche di sé non fuoriuscisse dal
segno singolare del gesto individuale, dello stile di vita neutralizzabile perché
individuale e non collettivo, senza cioè forza per diffondersi nel corpo della
società quale segno plurale e condiviso.

Eccedenza e libertà

La scomparsa prematura di Foucault interrompe la ricerca di e su un


terreno etopolitico che risponda a tale limite. E tuttavia.
Come emerge dagli ultimi suoi corsi, il richiamo alla parrhesia in ottica
anti-platonica istituisce un terreno di analisi in cui la funzione del dir-vero
all’autorità politica procede da una sida elitaria, come era concepita appun-
to nella VII lettera, in direzione di uno stile del parlare in tensione di vero
che, con la ilosoia cinica, fuoriesce dagli angusti limiti autoriali per divenire
cifra tangibile e altresì simbolica di un attacco al potere politico senza subir-
ne il fascino seduttivo della mimesi. Su questo piano, dal parlar-franco del
cinismo alla militanza dissidente dell’era moderna e contemporanea, al di là

20
Tanto nella conversazione sulla genealogia dell’etica del 1983, quanto nell’ultima
intervista concessa nel 1984 pochi mesi prima della morte, Foucault si pronuncia
severamente sulla società classica greco-romana, a suo avviso né ammirevole né esemplare:
«Non un granché. […] Mi sembra che l’intera Antichità sia stata un “profondo errore”»
(M. Foucault, Il ritorno della morale, in Archivio Foucault 3, cit., p. 264). «L’etica greca del piacere
è legata a una società virile, alla dissimmetria, all’esclusione dell’altro, a una ossessione della
penetrazione, e a una specie di minaccia di essere privati della propria energia, e così via.
Tutto ciò è molto disgustoso» (M. Foucault, Sulla genealogia dell’etica, cit., p. 306).
21
M. Foucault, Sulla genealogia dell’etica, cit., p. 315. E poco oltre, sul «perfetto governo
di sé» che chiude in maniera inquietante e totalizzante la tensione tra etica e «politica
permanente tra sé e sé»: «la virtù consiste essenzialmente nel governare perfettamente se
stessi, vale a dire nell’esercitare su se stessi una padronanza esattamente uguale a quella di
un sovrano contro il quale non ci sarebbero più rivolte» (ivi, p. 320, corsivo mio).
76 Salvo Vaccaro

beninteso di tutte le trasformazioni di contesto intercorse, diventa possibile


pensare l’interruzione del processo di produzione di soggettivazione che
interpola l’emergenza costitutiva del sé con l’abilità indotta di collegarla al
governo degli altri; diventa ossia più visibile lo spazio di tangenzializzazione
di un divenire-soggetto polimorfo, sdrucciolevole, che non si lascia irretire
in classiicazioni, che non si lascia facilmente catturare dalle forze seducenti
(in senso letterale) che lo neutralizzano ponendolo entro un dispositivo mo-
bile di guida delle condotte altrui.
In tale senso, quello spazio di eccedenza al potere politico sempre im-
manente ad ogni reversibilità delle relazioni di potere spezza il legame di con-
tinuità che congiunge governanti e governati, non per situarli su due mondi
distanti, bensì per ritagliare all’interno della sfera dei governati una postura, se
vogliamo un diritto dei governati, a non essere governati tout court, secondo
una interruzione della tipica procedura di postulazione di riconoscimento che
alimenta ogni dinamica politica nella individuazione di uno spazio di interse-
zione ove riallacciare quel legame di concatenazione che vincola il governato
a farsi guidare dal governante. La politica non viene più pensata come sfera
separata bensì come arte creativa delle condotte, estetica dell’esistenza, quindi
etopolitica, «l’idea che l’etica possa essere una struttura determinante dell’e-
sistenza, senza alcuna relazione né con il giuridico in quanto tale, né con un
sistema autoritario, e nemmeno con una struttura disciplinare»22.
È noto come Foucault oscilli a deinire l’opposto della governamenta-
lizzazione proprio al suo sorgere, nel XVI secolo. In un certo senso, non
ammette che possa emergere una posizione tipicamente anarchica («non vo-
gliamo essere governati in alcun modo», «affatto»23), sebbene proprio Étienne
de La Boétie possa in qualche maniera essere considerato il precursore nel
medesimo XVI secolo di una posizione che si affermerà successivamente nel
XVIII con William Godwin. La servitù volontaria che regge l’impalcatura
del dominio sovrano allude esplicitamente ad una arte della volontà di non
farsi assoggettare sul versante di una contro-soggettivazione spesso bol-
lata come idealista, ma che proprio Foucault evoca in senso affermativo
alla ricerca di una postura individuale e collettiva di segno etico, visibile in
contro-condotte reali.

22
Ivi, p. 308. Diversa è la posizione di Rose (La politica della vita, cit., pp. 39-40, 152),
secondo il quale per etopolitica occorre intendere un governo degli individui declinato in
senso etico, ossia agendo su sentimenti, stili e modi di vita, pratiche valoriali, tecnologie
del sé, al ine di migliorarsi.
23
M. Foucault, Illuminismo e critica, a cura di P. Napoli, Donzelli, Roma 1997, pp. 37 e 71.
Foucault: dall’etopoiesi all’etopolitica 77

Nella discussione che segue la celebre conferenza su Qu’est-ce que la cri-


tique? (Critique et Aufklärung), Foucault non si pronuncia in senso anarchico,
sebbene non lo «esclud[a] categoricamente», preferendo slittare verso lo-
cuzione del genere «non vogliamo essere governati in questo modo», oppure
non vogliamo essere governati «eccessivamente», essere governati «così»24. È
possibile fornire varie interpretazioni agli slittamenti lessicali segnalati. A me
sembra che ribadiscano il metodo foucaultiano di parlare puntualmente e per
contesti ben precisi, senza generalizzazioni sovra storiche o peggio universali,
come quando rigetta «una sorta di anarchismo fondamentale, […] una libertà
originaria assolutamente refrattaria a ogni governamentalizzazione»25.
Certo, non è pensabile un Foucault che usi le locuzioni puntuali per
accettare una sorta di governamentalizzazione “buona” contro la quale non
scatta alcuna «volontà decisoria di non essere governati». Ad ogni gover-
namentalizzazione scatterà un movimento di resistenza anarchico sempre
puntualmente legato agli speciici effetti attivati da quella governamentalità.
Del resto, il triangolo che Foucault individua a proposito del governarsi,
del lasciarsi governare e di governare altri, con la sottodivisione del gover-
no di sé nel senso di una adesione spontanea e volontaria alla pressione
conformista di auto-adeguarsi alle pratiche di governamentalità oppure di
autogovernarsi sfuggendo alla pressione eteronoma, va interrogato muo-
vendo dalle soglie di interruzione di continuità tra i movimenti dell’anima,
come emerge alla ine della lunga ricerca nell’antichità classica, in cui invece
i rispettivi movimenti erano connessi strettamente gli uni agli altri secondo
una continuità inquietante che integra l’autonomia del sé nel processo ete-
ronomo di guida e di governo degli altri e dagli altri.
Piuttosto, mi sembra importante osservare che la tensione duale tra
desiderio di asservimento, passione a lasciarsi governare e suo contro-
movimento di non farsi governare denoti una rottura di tonalità, di Stim-
mung, segni cioè una biforcazione perenne, una oscillazione instabile che
caratterizza un pensiero antimetaisico in cui si nega tanto una origine
24
Ivi, pp. 37-38, 71. «La posizione che assumo non esclude assolutamente l’anarchia – e
in fondo, ancora una volta, perché l’anarchia sarebbe così deprecabile? Lo è automaticamente,
forse, soltanto per coloro che ammettono che c’è sempre necessariamente, essenzialmente,
qualcosa come un potere accettabile» (M. Foucault, Del governo dei viventi, cit., p. 86). Amplio
a questo punto quanto esposto nel mio La volontà di non essere governati, in S. Marcenò e
S. Vaccaro (a cura di), Il governo di sé, il governo degli altri, duepunti edizioni, Palermo 2011,
pp. 51-71.
25
Ivi, p. 71. «Ci si solleva, questo è un fatto» (M. Foucault, Sollevarsi è inutile? (1979),
in Archivio Foucault 3, cit., p. 135).
78 Salvo Vaccaro

assoluta, una arché originaria, quanto un destino fatale, una teleologia


onto-logica.

Nulla è fondamentale. Questa è la cosa interessante nell’analisi della so-


cietà. È questa la ragione per cui non c’è nulla che mi irriti più delle domande
– metaisiche per deinizione – sulla fondazione del potere all’interno di una
società o sull’auto-istituzione di una società. Questi non sono fenomeni fon-
damentali. Ci sono solo relazioni reciproche, e scarti continui, di un’intenzione
rispetto all’altra26.

Se leggiamo poi tale campo di tensione irriducibile tra relazione di


potere e esercizio della libertà quale sua condizione preliminare, al di
qua e al di là della politica, l’obiettivo di esautorare ogni immaginario di
inesorabile necessità del potere, di destituire di senso ogni concezione
metaisica, ontologica del Potere (con o senza la P maiuscola) viene per-
seguito, sulla scia weberiana, rendendo indisgiungibili l’esercizio del po-
tere nella sua cifra relazionale con la sida agonistica della libertà, con la
«provocazione permanente» tra due partner tesi a governare la condotta
altrui, a «strutturare il campo di azione possibile» per l’altro. Il gioco del
governo degli altri possiede al proprio interno, e in maniera costitutiva,
il proprio «limite permanente, un punto di possibile rovesciamento», la
propria potenza che lo nega. «La relazione tra il potere e il riiuto della
libertà a sottomettervisi non può perciò essere sciolta. […] Nel cuore
della relazione di potere, e a provocarla costantemente, c’è la resistenza
della volontà e l’intransigenza della libertà»27. Forse in questo momento,

26
M. Foucault, Spazio, sapere e potere (1982), in M. Foucault, Biopolitica e liberalismo, a
cura di O. Marzocca, Medusa, Milano 2001, p. 181. «Nelle società umane non c’è potere
politico senza dominazione. Ma nessuno vuole essere comandato, anche se sono molti
gli esempi di situazioni nelle quali la gente accetta la dominazione. Se esaminiamo dal
punto di vista storico la maggior parte delle società che ci sono note, constatiamo che la
loro struttura politica è instabile. Non mi riferisco alle società extra-storiche – alle società
primitive. La loro vicenda è del tutto dissimile dalla nostra. Ma tutte le società appartenenti
alla nostra tradizione hanno conosciuto instabilità e rivoluzioni» (M. Foucault, Studiare la
ragion di stato (1979), ivi, p. 153).
27
M. Foucault, Come si esercita il potere? (1982), in H. Dreyfus e P. Rabinow, La ricerca
di Michel Foucault, cit., pp. 292, 296, 293. «Dire infatti che non può esistere una società
senza relazioni di potere non equivale a dire che le relazioni che si sono istituite risultano
necessarie, e nemmeno, in ogni caso, che il potere costituisce una fatalità irraggiungibile
nel cuore della società» (ivi, p. 294).
Foucault: dall’etopoiesi all’etopolitica 79

Foucault è più vicino di quanto non si pensi all’idea di Deleuze che le


cose hanno rilievo nel mezzo, né all’inizio né alla ine, e che la società è
un costrutto esistenziale che sfugge immanentemente ad ogni chiusura
totalizzante, ad una unità costitutiva.
Lungo tale percorso, la politica viene pensata non più sotto il proilo
del campo di oggettivazione conigurato di volta in volta da un dispositivo
ad hoc di sapere-potere, bensì contro-pensata come arte di sottrazione, come
effetto di «una insubordinazione e una libertà essenzialmente irriducibile»28,
come «volontà»29 di non farsi governare, esattamente come la pensavano de
La Boétie30, gli anarchici (ad esempio, il Malatesta di Pensiero e volontà) nonché,
tangenzialmente, anche Deleuze. Una sottrazione etopolitica, in cui appunto
si coalizzano eterogeneamente esperienze individuali e lotte politiche.
Del resto, Foucault, analizzando minuziosamente il celebre testo kan-
tiano Risposta alla domanda: Was ist Aufklärung? nella lezione del 5 gennaio
1983, rievoca il lemma analogo di Ausgang, uscita dallo stato di minorità in cui
in gioco non è affatto una infanzia dell’umanità ancora immatura per una
autonomia da conseguire, bensì un deicit di volontà, «un difetto, […] una

28
Ivi, p. 296. «Una impazienza pronta a ribellarsi» (M. Foucault, L’ermeneutica del
soggetto, cit., p. 213).
29
M. Foucault, Illuminismo e critica, cit., p. 73. L’idea di approfondire il senso
politico profondo della “volontà” emerge tanto nel dibattito del 1978, quanto nello
scritto di postfazione del 1982. Tuttavia Foucault – per il quale «il problema cruciale del
potere non è quello della servitù volontaria (come potremmo noi desiderare di essere
schiavi?)» (M. Foucault, Come si esercita il potere?, cit., p. 293) – non intende tale lemma nel
senso “volontaristico” del termine, come invece tendono a fare gli anarchici da de La
Boétie a Malatesta, quanto in forma esperienziale, pragmatica, empirica, al cui interno
quell’interrogativo è riassorbito come fattispecie secondaria dalla tensione ineludibile tra
potere e libertà. Del resto, che si possa dare «subordinazione senza alienazione» è quanto
emerge visibilmente dalle pratiche ingiuntive di obbedienza proattiva e di confessione e
dalla loro funzione nell’ascesi cristiana e nel governo dell’anima condotte nelle lezioni sul
Governo dei viventi e Mal fare, dir vero. In tal senso, cfr. M. Nicoli e L. Paltrinieri, Il management
di sé e degli altri, in «aut aut», n. 362 (2014), in particolare p. 66.
30
Sono dell’avviso che Foucault legga in maniera ristretta e unilaterale il pamphlet
del XVI secolo, come denota la battuta rievocata nella nota precedente. De La Boétie
intende, a mio parere, sottolineare la fragilità costitutiva dell’autorità, la precarietà sospesa
del potere, l’assenza di qualsiasi necessità di ordine metaisico, anzi la contingenza del suo
esercizio si lega, direi quasi proto-foucaultianamente, ad una visione ascendente della sua
dinamica dal basso verso l’alto. Espongo tali considerazioni nel mio Genealogia del potere
destituente. L’inattualità tenace di Étienne de La Boétie, in L. Lanza (a cura di), L’anarchismo oggi:
un pensiero necessario, Mimesis/Libertaria, Milano 2014, pp. 133-143.
80 Salvo Vaccaro

certa forma di volontà» che limita l’accesso alla facoltà critica non solo della
ragione, ma anche della pratica di sé, seguendo le critiche kantiane; né è in
ballo una espropriazione giuridica, «un qualsiasi spossessamento (giuridico
o politico)». In effetti, sostiene Foucault, l’uscita si rende necessaria «perché
agli uomini manca la capacità o la volontà di dirigere se stessi e perché degli
altri, con molta benevolenza, si sono offerti di prenderli sotto la loro guida.
Kant si riferisce a un atto, o piuttosto a un atteggiamento, a una modalità
del comportamento, a una forma della volontà che è generale, permanen-
te, e che non crea assolutamente un diritto, ma solo una sorta di stato di
fatto in cui allora – per benevolenza e, in qualche modo, per una forma
di cortesia leggermente venata di scaltrezza e astuzia – certuni si trovano
ad aver assunto la direzione degli altri»31. Benevolenza, scaltrezza, astuzia,
sono tante denominazioni dell’eteronomia, per così dire, “in buona fede”,
pur se fondano in un’unica scena la pratica dell’obbedienza e l’insuficienza
della ragione: si tratta di riiutare la prima sulla scena pubblica e di far valere
la seconda nella costruzione autonoma della pratica di sé, oltrepassando
decisamente la conciliazione kantiana tra obbedienza e ragionamento nella
distinzione delle due sfere, invece tanto nel privato quanto nel pubblico,
sconnettendo capacità di autonomia e relazioni di potere eteronome32. In-
somma, facendo la rivoluzione.

Parrhesia e forma di vita

In Foucault, tale interruzione radicale, tale posizione di dissenso irre-


cuperabile, è leggibile, da un lato, dagli atti della sua pratica politica, una
parrhesia non in attesa di una risposta solutiva di una denuncia avanzata nella
privazione consapevole del carattere di istanza; tutt’altro, la parrhesia declina
l’esercizio della libertà contro l’autorità – non per dirle cosa fare, sul modello
del consigliere del principe, bensì «in rapporto al potere, […] in una sorta
di faccia a faccia […] con il potere», sidandolo «in una certa relazione con
l’azione politica»33 – nel legame libero e volontario tra il volere la libertà e
l’obbligo di attenersi coerentemente a tale volere che si tiene per vero, che ri-

31
M. Foucault, Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France (1982-1983), Feltrinelli,
Milano 2009, rispettivamente p. 36 e p. 37.
32
M. Foucault, Che cos’è l’Illuminismo? (1984), in Archivio Foucault 3, cit., p. 230. In
Foucault, «la libertà è deinita non come un diritto a essere ma come una capacità di fare»
(M. Foucault, Il governo di sé e degli altri, cit., p. 296).
33
M. Foucault, Il governo di sé e degli altri, cit., p. 275.
Foucault: dall’etopoiesi all’etopolitica 81

tiene veridico, che si enuncia come vero e quindi autovincolante nella pratica
autonoma di costituzione del proprio sé. Coerenza tra attitudine critica della
ragione insofferente all’obbedienza (che sia cieca o troppo illuminata tale da
accecare) e stile di vita, modalità di condotta. Un legame tra parrhesia e bios,
«maniera di vivere»34, che offre la postura di sé come esemplarità autorevole
al di qua di ogni primato sensoriale del logos o della scrittura in funzione di
autorità costituita. Un corpo parresiasta che urla il vero per proclamare, non
reclamare, la propria libertà. Anche e soprattutto a rischio della propria vita,
«perché riconosce che dire la verità è un dovere per aiutare altre persone (o
se stesso) a vivere meglio»35. In tal senso, il legame tra etopoiesi e etopolitica,
tra dimensione individuale e dimensione collettiva diviene nitido. La parrhesia
è così «la garanzia che ognuno sarà per se stesso la propria autonomia, la
propria identità, la propria singolarità politica»36.
La forza dell’interruzione tende ad aprire uno spazio eterotopico den-
tro il topos disciplinare e governamentale, al ine di giocare la soglia mobi-
le del fuori come incavo del dentro da cui proseguire l’eccedenza radicale
di senso e di immaginario rispetto ai conini del politicum possibile. L’eredità
dei cinici, lungo un percorso storico in cui ovviamente sono cambiate
condizioni e contesti di senso, viene assunta dal dissidente radicale, dal
rivoluzionario portatore di un mondo nuovo nel proprio cuore, e non
soltanto vettore di una particolare analisi ideologica del mondo o di un
progetto politico. Se la parrhesia declina il dire-il-vero anche nel senso este-
tico dell’esistenza, ossia come preigurazione visibile, come testimonianza
mondana e non trascendente della possibilità di una organizzazione della
società differente, allora «la rivoluzione ha funzionato come un principio
che ha prodotto un certo modo di vita», cioè una militanza che intesse la
vita come attività rivoluzionaria nella socialità, manifestando «direttamen-
te, nella sua forma visibile, nella sua pratica costante e nella sua esistenza
immediata, la possibilità concreta e il palese valore di un’altra vita; un’altra
vita che è la vera vita»37.

34
M. Foucault, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France
(1984), Feltrinelli, Milano 2011, p. 129.
35
M. Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica, Donzelli, Roma 1996, p. 9. «Il
corpo steso della verità è reso visibile, e risibile, attraverso un certo stile di vita: una vita
concepita come presenza immediata, eclatante e selvaggia della verità» (M. Foucault, Il
coraggio della verità, cit., p. 171).
36
M. Foucault, Il governo di sé e degli altri, cit., p. 193 (corsivo mio).
37
M. Foucault, Il coraggio della verità, cit., pp. 180, 181. «Un militantismo nel mondo e
contro il mondo» (ivi, p. 272).
82 Salvo Vaccaro

Il nesso tra parrhesia e aletheia non è quindi di natura epistemica o


religiosa, bensì etica, apre il varco per una vita ilosoica non-dissimulata,
segnata dall’irruzione di una «vita radicalmente e paradossalmente altra»
che rompa le pratiche della quotidianità in segno di rottura totale con l’e-
sistente e la sua organizzazione istituita, ereditata, la forma-di-vita da cui
sottrarsi e fuoriuscire, verso «la trasformazione del genere umano e del
mondo»38. L’etopolitica evocata, invocata da Foucault si afida allo sforzo
singolare di dis-identiicazione legato ad un movimento plurale, che trova
nella parrhesia la forza di risonanza necessaria ad produrre eco sotto forma
di una stilizzazione collettiva della vita. Il passaggio dall’etopoiesi indivi-
duale ed elitaria all’etopolitica plurale trova nel dire-il-vero quella forza di
auto-obbligazione non ideistica – giacché «laddove c’è obbedienza, non
può esserci parrhesia» – in cui l’immanenza come forza-di-vita rilancia «una
posizione essenziale dell’alterità; la verità non è mai il medesimo; non può
esserci verità che nella forma dell’altro mondo e della vita altra»39.

Salvo Vaccaro
Università degli Studi di Palermo
salvo.vaccaro@unipa.it

.
Foucault: From Ethopoiesis to Ethopolitics

In my article, it is my intent to connect, from one part, the critical perspective of


usual political philosophy with which Foucault erases the concept of sovereignty
in favor of an analysis of power that inally takes him to biopolitics and
governementality, and, from the other, the aesthetics of existence with which
Foucault is styling a care of self typically ethical. I think that the practice of
parresia brings further this tactics of thinking towards an ethopolitics viable to
deine a form of life founded on the will to not be governed.

Keywords: Foucault, Critique, Care of the Self, Parresia, Ethopolitics, Biopolitics,


Governmentality.

38
Ivi, pp. 236 (passim, anche p. 258), 298.
39
Ivi, pp. 317, 321.
Lo sciopero della politica
Foucault e la rivoluzione soggettiva
Frédéric Rambeau

Lo spostamento della problematizzazione politica del soggetto verso un


paradigma etico o etico-estetico della soggettività ha segnato, come sappiamo,
il pensiero di Foucault sulla “soggettivazione”. Un tale spostamento è
legato all’esigenza di una riappropriazione dei mezzi di produzione della
soggettività che ha fatto nascere l’analisi critica dei regimi di enunciati e di
visibilità, secondo i quali i dispositivi istituzionali fabbricano dei soggetti
governandone i corpi e la vita. Ma le relazioni tra soggettivazione etica e
“disassoggettamento” sociale possono essere solo indirette. Ma in mezzo
resta uno scarto irriducibile che in Foucault segna l’assenza di una teoria della
soggettivazione politica. Il signiicato politico – strategicamente decisivo –
dell’aver evitato la soggettivazione politica in favore della soggettivazione
etica è una questione che Foucault avrebbe lasciato aperta, come sospesa.
A questo proposito è fondamentale la sua ultima presa di posizione
durante gli eventi in Iran. Da un lato, essa rivela la forza politica che un
insieme di prescrizioni etiche può assumere, e indica come alla successiva
ricerca di Foucault sulle pratiche di sé e sugli esercizi spirituali, che riguarda
una soggettivazione che non si costituisce speciicamente in un ambito
politico, corrisponde ugualmente una posta in gioco politica. Dall’altro lato,
questa presa di posizione ci invita a riconoscere la consistenza soggettiva
che possono produrre le rivolte, le quali, dissociate dalla problematizzazione
occidentale della libertà politica e del diritto della “soggettività ininita”, si
percepiscono spiritualmente piuttosto che formularsi ideologicamente e
si fondano sul terreno della religione o delle “visioni” dell’immaginazione
piuttosto che legittimarsi su quello della politica e della deliberazione: «Essi
inscrivevano la loro fame, le loro umiliazioni, il loro odio nei confronti del
regime e la loro volontà di ribaltarlo ai conini del cielo e della terra, in una
storia sognata che era sia religiosa sia politica»1.

1
M. Foucault, Inutile de se soulever?, in Dits et écrits II, 1976-1988, Gallimard, Paris 2001,
p. 792; trad. it. Sollevarsi è inutile?, in M. Foucault, Archivio Foucault 3. Estetica dell’esistenza,
etica, politica, a cura di A. Pandoli, Feltrinelli, Milano 1998, p. 133.

materiali foucaultiani, a. IV, n. 7-8, gennaio-dicembre 2015, pp. 83-96.


84 Frédéric Rambeau

Una volta ripristinato il legame, antico e complesso, tra escatologia


religiosa e rivoluzione, categorie come quelle di “fanatismo” o l’opposizione
tra “Illuminismo” e “Oscurantismo” non ci appaiono più soltanto come
confuse sempliicazioni. Esse assomigliano a quegli schermi la cui luce
artiiciale dissimula malamente quello che dovrebbe nascondere, la povertà
etica e talvolta l’ignominia dei modi di esistenza e di pensiero che ci sono
proposti in funzione delle esigenze di mercato. L’inchiesta di Foucault in
Iran mostra il ruolo che può svolgere la cultura religiosa nell’insorgere di una
“volontà generale”, in quanto garanzia di un cambiamento reale, di massa, e
popolare del modo di vivere. D’altra parte, colpisce constatare lo scarto che
separa questa aspirazione di tutto un popolo a un’altra temporalizzazione
della vita e questa presunta fede, in cui tale aspirazione si afievolisce
ino a ridursi alla sola fascinazione «ultraterrena» della pulsione di morte,
in fondo così debole, così poco iduciosa di sé, che nell’attualità di una
situazione sceglie di distruggere ciò che è incapace di rendere impossibile –
sconfortante doppio di questa nullità etica dell’Occidente che questa stessa
aspirazione denuncia, ma per contrapporle nient’altro che questo semplice
programma di abolizione di se stessa e degli altri.
Tuttavia, l’ammirazione di Foucault per questa “rivolta a mani nude”
che inscriveva la propria forza antagonista in un’esperienza spirituale,
la sua attenzione verso la maniera in cui essa era vissuta, verso la sua
“soggettivazione” piuttosto che alle sue cause oggettive o alle sue ragioni
profonde, non l’hanno condotto, d’altronde, a sottovalutare la sua totale
ambiguità? Poiché l’appello a un’altra soggettività, a un cambiamento radicale
della forma di vita, riguarderebbe anche, e allo stesso tempo, questo tipico
processo di auto-appropriazione attraverso cui un soggetto, un popolo
o una comunità si rapportano a se stessi solo in quanto tali2. L’“assoluta”
vicinanza tra l’essenza spirituale del sollevamento e gli arcaismi della religione,
l’immediata prossimità tra l’irrigidimento conservatore della soggettività e le
esigenze emancipatrici, non indicano forse l’ambivalenza di questo balzo
dalla politica alla soggettività – e il prezzo (elevato) da pagare per avere evitato
attraverso l’etica la questione della soggettivazione politica?
È nota la critica di Jacques Rancière. Poiché il suo pensiero della politica
è costruito essenzialmente sulla questione del potere, del suo investimento

2
Se questo processo di auto-appropriazione ha segnato, come è noto, la forma
occidentale della libertà (che Foucault cerca di disarticolare), esso è anche alla base dei
diversi fondamentalismi che pretendono di affermarsi in nome di una fede.
Lo sciopero della politica 85

positivo nella gestione della vita e nella produzione di forme ottimali


d’individualizzazione, poiché esso può essere indifferentemente chiamato
“biopotere” o “biopolitica”, Foucault non si sarebbe interessato, in ogni
caso non da un punto di vista teorico, alla questione della soggettivazione
politica3. Ma, in verità, questa critica non è estranea al rimprovero che
nel 1977 Foucault rivolgeva a se stesso in La vita degli uomini infami (un
bell’esempio, d’altronde, di parrhesia): «Qualcuno obietterà: rieccoci, sempre
con la stessa incapacità di oltrepassare il conine, di passare dall’altra parte,
di ascoltare e far comprendere il linguaggio che viene da altrove o dal basso;
sempre la stessa scelta, di collocarsi dalla parte del potere, di che esso dice o
fa dire»4. Sempre con la stessa incapacità di oltrepassare il conine…
Deleuze dal suo canto presenta il riorientarsi di Foucault verso i modi
di soggettivazione etica come il tentativo di aprirsi una via di fuga, un varco
al di fuori della dimensione onnipresente delle relazioni di potere nella
quale egli avrebbe inito per sentirsi rinchiuso: «La volontà di sapere termina
esplicitamente con un dubbio. L’impasse in cui si viene a trovare Foucault
dopo l’uscita di questo libro non è però dovuta al suo modo di pensare
il potere, ma piuttosto al fatto di aver scoperto l’impasse in cui ci pone il
potere stesso, nella nostra vita così come nel nostro pensiero, proprio noi
che ci scontriamo con il potere nelle nostre più piccole verità»5. Questa
interpretazione presenta il vantaggio di far apparire la questione che resta
fondamentalmente nascosta nella prospettiva di Foucault, come insabbiata
non solo sotto la genealogia delle forme moderne dell’assoggettamento,
ma anche sotto quelle antiche del rapporto a sé. La soggettivazione indica
un’altra dimensione strategica dell’esperienza umana (quella del governo

3
Cfr. J. Rancière, Biopolitique ou politique, in «Multitudes», n. 1 (2000), ripreso in Id.,
Et tant pis pour les gens fatigués, Éditions Amsterdam, Paris 2009, p. 217. Cfr. anche Id., La
Mésentente, Galilée, Paris 1995, pp. 55-56; trad. it. Il disaccordo, Meltemi, Roma 2007, pp. 50-51.
4
M. Foucault, La vie des hommes infâmes, in Dits et écrits II, cit., p. 241; trad. it. La vita
degli uomini infami, Il Mulino, Bologna 2009, p. 23. Questa formulazione del 1977 sarà
rinviata da Jacques Rancière al suo autore l’anno seguente in La pensée d’ailleurs: «Ma se la
devianza o la rivolta non appaiono mai se non nella forma in cui i discorsi del potere le
costituiscono, la ilosoia non riprende con la mano sinistra quello che aveva lasciato con
la mano destra, permettendo alla ine che, attraverso il concetto di potere, si reinstauri
quel discorso di previdenza retrospettiva che riporta la grande ragione delle oppressioni
e delle rivolte alla piccola ragione dei libri di ilosoia», J. Rancière, La pensée d’ailleurs, in
«Critique», n. 369 (1978), pp. 242-245..
5
G. Deleuze, Foucault, Éditions de Minuit, Paris 1986, p. 103; trad. it. Foucault,
Cronopio, Napoli 2002, p. 127.
86 Frédéric Rambeau

di sé) a ianco di quelle del potere e del sapere? O sorge invece come
un eccesso rispetto ad esse, non tanto rispetto alla politica o alla scienza,
quanto rispetto alla logica che lega insieme queste due dimensioni del
potere politico e della verità scientiica?
La dimensione “strategica” (nel senso delle “relazioni di potere”, della
libertà come relazionalità del potere) riguarda tanto l’etica quanto la politica.
Proprio per questo l’etica, con le “pratiche di sé” o con le pratiche di libertà,
non riempie la forma del disassoggettamento aperta dall’inerenza delle
resistenze al potere, ma lasciata vuota dall’assenza di una teorizzazione della
soggettivazione politica. La soggettivazione etica non è meno strategica
dell’assoggettamento sociale. Il governo di sé non è meno strategico del
governo degli altri. Ne è (e non senza ironia) la condizione: la libertà è la
condizione ontologica del potere («se le relazioni di potere attraversano tutto
il campo sociale, è perché la libertà è dappertutto»6). Il rapporto a sé è la
condizione della governamentalità. Non ci sarebbero dunque altre pratiche
di libertà se non delle forme di governamentalità, nel senso più ampio che
Foucault attribuisce a questo concetto: «l’insieme delle pratiche attraverso
cui si può costituire, deinire, organizzare, strumentalizzare le strategie che
gli individui, nella loro libertà, possono avere tra di loro»7.
Tuttavia, certi punti di resistenza indicano sicuramente un fuori delle
relazioni di potere, un limite esterno del diagramma dei poteri, che non è certo
anteriore ai loro meccanismi, ma che deriva dal loro esercizio immanente,
eccedendoli, e quindi alla ine senza dipenderne. Il potere produce nella
logica immanente del proprio esercizio una forza che lo eccede e che in
parte va sempre al di là di esso.

Ma c’è comunque sempre qualcosa, nel corpo sociale, nelle classi, nei gruppi,
negli individui stessi che sfugge in certo modo alle relazioni di potere; qualcosa che
non è affatto la materia prima più o meno docile o resistente, ma il movimento
centrifugo, l’energia di segno opposto, l’elemento sfuggente8.

Se è vero che in Foucault non vi è una teorizzazione della soggettivazione


politica propriamente detta, è tuttavia proprio tale questione che, nel suo

6
M. Foucault, L’éthique du souci de soi comme pratique de la liberté, in Dits et écrits II, cit.,
p. 1539; trad. it. L’etica della cura di sé come pratica della libertà, in Archivio Foucault 3, cit., p. 285.
7
Ivi, p. 1547; trad. it. cit., p. 293.
8
M. Foucault, Pouvoirs et stratégies, in «Les Révoltes Logiques», n. 4 (1977), pp. 89-97,
ripreso in Dits et écrits II, cit., p. 421; trad. it. Poteri e strategie, in Poteri e strategie. L’assoggettamento
dei corpi e l’elemento sfuggente, a cura di P. Dalla Vigna, Mimesis, Milano 1994, p. 21.
Lo sciopero della politica 87

impegno politico in conlitti concreti, polarizza le sue prese di posizione.


Queste ultime sono puntualmente rivolte verso l’emergere di nuove forme
di soggettivazione collettiva. Da questo punto di vista, la soggettivazione
non designa più soltanto la dimensione etica delle pratiche di sé e il
campo di storicità che le è proprio. Essa indica l’apertura di uno scarto,
la disarticolazione del diagramma dei poteri. Inoltre è proprio quando
la soggettivazione appare irriducibile alla socializzazione dei soggetti
all’interno delle relazioni di potere che la politica si disarticola rispetto al
diagramma dei poteri che copre tutta la supericie del campo sociale. Che
si tratti della rivolta di un delinquente contro pene abusive, o di un folle
contro il suo deperire e la sua reclusione, o di una sollevazione popolare,
secondo Foucault, il momento di sganciamento (point de décrochage) dalle
relazioni di potere, per come esso appare sotto la forma dell’intollerabile,
è sempre costituito dall’esigenza che invoca un cambiamento radicale
della soggettività: «Ci si solleva, questo è un fatto; è in questo modo che
la soggettività (non quella dei grandi uomini, ma quella di chiunque) si
introduce nella storia e le trasmette il suo sofio vitale»9. La soggettività
diviene il luogo di questa resistenza che non è più interna alle relazioni di
potere, ma apre una dimensione che rispetto ad esse resta irriducibile.
Tuttavia, un tale scarto non sorge tanto come una discontinuità politica
ma come una discontinuità rispetto alla politica stessa. L’irruzione della
soggettività sulla scena politica porta allo stesso tempo quest’ultima verso il
suo fuori, verso i suoi margini esterni chiamati a circoscrivere la sua attività
o il suo ambito statutario attraverso pratiche prive di enunciati, impersonali e
radicalmente mute, o ancora, tramite aspirazioni soggettive di natura spirituale.
La soggettivazione non è più solamente una funzione della resistenza
rispetto all’oggettivazione degli individui oppure solo una reazione al loro
assoggettamento sociale. Essa acquista un contenuto positivo e affermativo.
Ma questo è più etico che politico. Tutto accade come se, in Foucault, la
soggettivazione non possa essere una forma collettiva di libertà se non alla
condizione di essere la manifestazione di una libertà diversa dalla politica.
La dimensione della soggettivazione è la sola in grado di dare alla politica
un senso irriducibile all’evoluzione storica di una funzione diagrammatica.
Ma appena la politica trova nella dimensione della soggettivazione una
forma di eterogeneità concreta rispetto alla storia delle pratiche materiali
di potere, essa si rovescia immediatamente nell’etica.
9
M. Foucault, Inutile de se soulever?, cit., p. 793; trad. it. cit., p. 135.
88 Frédéric Rambeau

A questo riguardo la sua inchiesta sulla Rivoluzione islamica


iraniana è esemplare. Lo stesso processo rivoluzionario (la destituzione
di una forma di organizzazione sociale e l’affermazione di una volontà
generale) presuppone un’esperienza etica. L’esperienza politica è
indissociabile da un’esperienza spirituale. Ma è esemplare anche perché
questa soggettivazione di massa, rivoluzionaria e “anti-strategica” appare
agli occhi di Foucault come uno “sciopero della politica”: non tanto
un’interruzione politica ma una interruzione della politica stessa.
L’attenzione accordata da Foucault ai processi di soggettivazione gli
avrebbe dunque permesso di reperire una delle più decisive dinamiche degli
anni a venire. Egli identiica immediatamente questo fenomeno decisivo,
che all’epoca non si offriva con la stessa evidenza che oggi ha per noi: il
peso dell’islam in quanto forza politica10. Per questa sollevazione popolare
la religione non è un rivestimento ideologico, ma risponde piuttosto
a un’esigenza etica. Non è l’obbedienza alla legge, la religione appare
piuttosto come una promessa e una garanzia in virtù di un cambiamento
radicale della soggettività: quella di una rivoluzione reale del modo di vita.

In questo modo che essi hanno avuto di vivere la religione islamica come
forza rivoluzionaria, c’era una cosa diversa dalla volontà di obbedire alla legge
il più fedelmente possibile, c’era la volontà di rinnovare la loro intera esistenza
riallacciandola con un’esperienza spirituale che pensavano di trovare nel cuore
stesso dell’islam sciita11.

Le pratiche, le condotte, gli obblighi politici o morali sono determinati


da un mondo fatto di universi spirituali, in cui si dispiegano i cicli
dell’immaginazione e gli eventi profetici. Nelle speciicità culturali e
teologiche dell’islam sciita (di cui prima non si era mai occupato),
Foucault sottolinea tutto quello non corrisponde all’obbedienza ai
codici e alle forme gerarchiche e centralizzate di organizzazione12. Così

10
«Il problema dell’islam come forza politica è un problema essenziale per la nostra
epoca e per gli anni a venire» (M. Foucault, Dits et écrits II, cit., p. 708). «L’islam – che non
è solo una religione, ma un modo di vita, un’appartenenza a una storia e a una civiltà –
rischia di costituire una gigantesca polveriera su una scala che comprende centinaia di
milioni di persone. Da ieri, ogni Stato mussulmano può essere rivoluzionato dall’interno,
a partire dalle sue tradizione secolari» (ivi, p. 761).
11
M. Foucault, L’esprit d’un monde sans esprit, in Dits et écrits II, cit., p. 749.
12
Il modo di insegnamento e il contenuto esoterico dell’islam sciita separano
l’obbedienza esteriore al codice e la profondità della vita spirituale. La sua modalità
Lo sciopero della politica 89

vengono separate l’aspirazione a un governo islamico e la realtà di un


regime politico diretto dal clero, per mostrare meglio come nella prima
vi sarebbe la manifestazione stessa della sollevazione in quanto forma di
vita. Le promesse dell’aldilà, dell’incontrastato regno del bene e del ritorno
del tempo, riportano la sollevazione iraniana a ciò che durante i secoli ha
costituito, là dove la forma della religione vi si prestasse, «non un abito
ideologico, ma il modo stesso di vivere le sollevazioni […]. Sovrapposizione
sorprendente, che faceva apparire, in pieno secolo XX, un movimento
abbastanza forte per rovesciare un regime apparentemente tra i meglio
armati, pur essendo vicino ai vecchi sogni che l’Occidente ha conosciuto un
tempo, quando si volevano inscrivere le igure della spiritualità nel terreno
della politica»13. L’escatologia religiosa costituisce il contenuto positivo,
affermativo di quella sollevazione che non è solamente un riiuto del
regime esistente, che non riguarda nemmeno un’organizzazione politica,
ma è innanzitutto una percezione collettiva: la rivendicazione d’un altro
mondo in questo mondo, ovvero di un’altra maniera di vivere.
L’esperienza spirituale rende questa sollevazione irriducibile alle lotte
contro la dominazione (la lotta contro l’imperialismo americano) e alle lotte
contro lo sfruttamento (la lotta di classe). Che vi sono certo strettamente
legate: la forma di soggettività che riiutano gli iraniani è chiaramente quella
della “modernizzazione”, l’universalizzazione del modo di vita capitalista.
Ma questa sollevazione non dipende da essa. Anche se essa è articolata
alle contraddizioni che attraversano la società iraniana, questa rivoluzione
non è una lotta anti-imperialista classica (come, ad esempio, quella del
Vietnam), in cui la religione sarebbe solo un paravento. La dimensione
religiosa, poiché è collettivamente percepita come cambiamento di
soggettività, non è riducibile a una semplice rivestimento ideologico della
lotta contro la dominazione imperialista da parte delle masse contadine e
dei mussulmani non arabi più recentemente convertiti.
Foucault vede negli avvenimenti iraniani l’apertura di uno scarto tra
la storia dei dispositivi di potere, degli interessi di classe e delle strategie

di credenza si basa sul principio secondo il quale la verità non è stata compiutamente
realizzata dall’ultimo profeta; ma grazie al ritmo ciclico della serie degli imam, essa
illumina gli uomini: attraverso il loro operare essi potranno far tornare il dodicesimo
imam che ristabilirà, nella sua perfezione, la giustizia che ha creato la legge (e non il
contrario). Inine, la sua modalità di organizzazione riposa sull’assenza di gerarchia nel
clero, sull’importanza dell’autorità puramente spirituale e sulla indipendenza delle varie
autorità religiose.
13
M. Foucault, Inutile de se soulever?, cit., p. 792; trad. it. cit., p. 133.
90 Frédéric Rambeau

politiche da un lato, e l’essenza della sollevazione dall’altro. Quest’ultimo


è vissuto secondo una speranza e un’esperienza caratterizzate da una
storia spirituale e da una coscienza religiosa irriducibili alla storia empirica,
eterogenee rispetto al tempo stesso della storia. Questa “frattura del
presente attraverso l’intemporale” vale come un’interruzione del gioco
politico, quello dei partiti, del governo, ma certamente anche di quello
delle strategie e dei calcoli rivoluzionari. Per questo non vi ritroviamo le
dinamiche abitualmente riconoscibili in una rivoluzione, in primo luogo
le contraddizioni interne a una società, la lotta di classe e la presenza di
un’avanguardia (classe, partito o ideologia politica)14.
Gli scarti che Foucault cerca di rendere visibili, tra aspirazione
generale a un governo islamico e governo dei mollahs («La spiritualità a cui
si riferiscono coloro che stavano per morire non è paragonabile al governo
cruento di un clero integralista»15), tra forma di soggettività e dispositivo
materiale di potere, tra sollevazione e rivoluzione, e inine tra politica e
storia, non dipendono più da un antagonismo fondamentale. Ma restano
in compenso sospesi e, in deinitiva, fondati, sulla differenza tra la storia
religiosa e delle condizioni storiche e politiche. È solo in quanto esistenza
spirituale che la soggettività può produrre questo scarto rispetto alle
strategie del potere politico, che sia quello dello Stato o quello del clero.
Secondo Foucault, gli avvenimenti iraniani acquistano tutto il loro senso
solo a condizione di dissociare l’evento (o “l’essenza”) della sollevazione e
la sua realizzazione empirica. Esso si basa su una storia “trascendentale”,
posta al di là della storia materiale e reale, una meta-storia che si svolge
secondo gli eventi ideali dell’islam sciita. Gli avvenimenti in Iran si trovano
in questa intersezione, in questo incrocio tra la storia essenzialmente
pensata, quella degli “eventi del cielo”, e la storia concreta dei dispositivi
empirici di potere (il dispotismo, l’imperialismo occidentale, la corruzione
dei dirigenti, ecc.). Il sorgere di un fuori rispetto alle relazioni di potere si
colloca nel legame indissolubile tra soggettività e spiritualità.
Il senso politico che Foucault attribuisce alla spiritualità o alla
dimensione religiosa è legato al cambiamento radicale della soggettività
che essa esige. Ma, al contrario, il valore che Foucault accorda a questa

14
Foucault, L’esprit d’un monde sans esprit, cit., p. 744: «Che cos’è per noi un movimento
rivoluzionario in cui non si può collocare la lotta di classe, in cui non si possono
collocare le contraddizioni interne alla società e in cui non si può neppure individuare
un’avanguardia?».
15
M. Foucault, Inutile de se soulever?, cit., p. 793; trad. it. cit., p. 134.
Lo sciopero della politica 91

rivendicazione di una nuova soggettività dipende dalla politica spirituale che


la rende possibile. L’esperienza spirituale e la dimensione etica non sono
modi possibili o una delle tante forme dell’esigenza di un cambiamento
radicale della soggettività; ne sono piuttosto la condizione.
L’attenzione alla maniera di vivere, alla conversione dello sguardo
operata da questo punto orientale della sollevazione ci porta a rompere
con il modello storicista che deinisce la soggettività come un fenomeno
semplicemente derivato dai più fondamentali meccanismi di sfruttamento
economico e di dominazione politica. Quello che resta in sospeso è
tuttavia l’articolazione antagonista tra i due una volta che si è decostruito
il loro rapporto “ideologico”. Secondo Foucault in deinitiva quest’ultimo
tende sempre a naturalizzare, a oggettivare, a scientiicizzare il rapporto
– operazione dinanzi alla quale la soggettività non sopravvive e con la
quale essa perde la sua realtà, il suo peso ontologico. Ma tutto questo non
porta anche a spiritualizzare, inversamente, il rapporto tra i due? Come
opera questa differenza, come si produce questo scarto tra soggettività e
dispositivi materiali di potere, in modo tale che la prima non sia il terminale
o la semplice derivata dei secondi, se non fondandosi su un’esperienza
spirituale e una meta-storia religiosa, come nel caso della Rivoluzione
islamica e dei suoi esiti catastroici?
Foucault sembra attribuire a questa soggettività spirituale elementi che
in verità non sono mai stati separati dalle lotte socialiste e rivoluzionarie.
Certo, ed è con tutta evidenza quello che Foucault cerca, la forma
di soggettività marxista prodotta nella lotta rivoluzionaria contro lo
sfruttamento è ritenuta essere nient’altro che il soggetto di questa rivoluzione.
Certamente, questo soggetto della rivoluzione è innanzitutto per Marx un
soggetto prodotto dalla scienza de Il Capitale. Ed è solo in quanto concetto
scientiico che il proletariato sarà ritenuto adeguato a svolgere il ruolo di
soggetto in quanto soggetto della rivoluzione. È probabilmente a questo
che pensa Foucault quando presenta la Rivoluzione (da cui distingue quel
che chiama la Sollevazione) come una forma di oggettività scientiica
fondata sulla coerenza d’insieme e la sistematizzazione totalizzante, una
strategia di potere che dipende dalla costruzione di un’avanguardia, e inine
come un’economia interna al tempo stesso che colloca la rivoluzione nella
storia issandola al suo interno16.
Ma quando Marx si trova davanti alle lotte concrete, quando descrive
per esempio la Comune di Parigi, o nei Manoscritti del ’44, anch’egli testimonia

16
Ivi, p. 791; trad. it. cit., p. 133.
92 Frédéric Rambeau

di questo scarto tra soggettivazioni all’opera nelle attività rivoluzionarie e


quello che i proletari sono tenuti a essere: lucidi su quel che essi sono e su
quel che questo essere li obbliga storicamente a fare. Queste trasformazioni
della soggettività, per mezzo di possibilità che si danno nell’immediatezza,
iniltrano nel combattimento politico e nel conlitto di classe spazi contesi
e un tempo rubato in cui si inventano nuovi rapporti con sé e con gli altri17.
Al contempo, tali trasformazioni fanno anche sì che la “politica spirituale”
faccia vivere diversamente il tempo e la temporalizzazione, e questo anche
oggi stesso. Allo stesso modo, tutto ciò relativizza la differenza sottolineata
da Foucault tra le lotte del XIX secolo contro lo sfruttamento e quelle
contemporanee, o anche più vecchie, contro l’assoggettamento.
L’indipendenza che Foucault riconosce a questa dimensione della
soggettivazione rispetto ai processi storici, economici e sociali, che si basa
su una storia religiosa, lascia di fatto interamente aperta la questione del
tipo di rottura che questa forma di soggettività e questa politica spirituale
sono suscettibili di produrre con questi processi. In che senso l’assenza
di ogni politica di divisione, di ogni conlitto “partigiano” o interno alla
popolazione (che secondo Foucault testimonia una forma reale, concreta
– e non solamente teorica – di “volontà generale”), sarebbe il segno
della forma più moderna di rivolta? Non è proprio questo il punto che
rende ancora più incerto che tale sollevazione sia in grado di resistere
alla sua propria sedimentazione in nuovi stati di dominazione e nella
continuazione, o nella permanenza, della stessa dinamica economica e
sociale del capitalismo mondiale?
L’impegno di un militante del FLN nella lotta di liberazione
nazionale non implica uno sconvolgimento soggettivo meno importante,
né conseguenze meno decisive in materia di de-soggettivazione e ri-
soggettivazione, di quelle veicolate dall’esigenza etica di una forma di

17
Cfr. K. Marx, Manuscrits de 1844, Flammarion, Paris 1996, pp. 194-195; trad. it.
Manoscritti economico-ilosoici del 1844, Einaudi, Torino 2004, p. 130. Questo desiderio degli
operai di fare qualcosa di diverso dal proprio lavoro, questa emancipazione riguardo le
virtù stesse del lavoratore sono descritte da Jacques Rancière in La nuit des prolétaires.
In Savoirs hérétiques et émancipation des pauvres, egli mostra come negli anni trenta del XIX
secolo le pratiche selvagge di appropriazione intellettuale e di riqualiicazione del loro
universo materiale da parte di operai e di falegnami ilosoi (i “Socrati della Plebe” come
Ballanche o Gauny) si svolgono secondo la duplice esigenza di una “cura di sé” e di una
“cura degli altri” inscritta nella solidarietà degli esseri. Cfr. J. Rancière, Les scènes du peuple,
in Les Révoltes Logiques, 1975-1985, Éditions Horslieu, Lyon 2003, p. 37.
Lo sciopero della politica 93

vita più spirituale. Raggiungere il partito comunista ha spesso signiicato


un cambiamento radicale di soggettività. Dando simultaneamente
all’antagonismo di classe la sua dimensione soggettiva e la sua dimensione
politica, tale impegno resta irriducibile a un calcolo tattico volto a
razionalizzare e istituzionalizzare l’appartenenza etica alla Rivoluzione in
quanto modo di esistenza o “ethos rivoluzionario”. Ed è quello che Foucault
non menziona quando, cercando di circoscrivere e di promuovere la
dimensione etica del rapporto a sé (ne L’ermeneutica del soggetto) a proposito
dell’esperienza rivoluzionaria del XIX secolo, distingue e disgiunge da un
lato la dimensione etica e la conversione, e dall’altro, l’appartenenza alla
rivoluzione tramite l’adesione a un partito18. Egli mette così da parte la
questione tuttavia decisiva del rapporto tra questo schema pratico o etico
della conversione (che sarebbe stato assorbito, prosciugato, annullato in
quello dell’adesione al partito) e la strategia politica rivoluzionaria.
L’ammirazione di Foucault riguarda questa percezione collettiva che
conferisce al processo rivoluzionario una potenza irriducibile al potere
di un’organizzazione politica. Ma questa aspirazione comune al governo
islamico (tanto “generale” e condivisa nella sua forma, quanto confusa
e indeterminata rispetto al suo contenuto) tende alla ine a sostituirsi al
processo di legittimazione politica, al posto di condurvi. Essa apre così la
via che porta all’istituzionalizzazione del momento della rivolta e della sua
materia in fusione tanto questo processo diventa sanguinario e repressivo.
Questa etica collettiva, che potrebbe dare la sua forza soggettiva alla
rivendicazione di una democratizzazione politica, inisce in realtà per
prevalere su di essa e, poiché è essenzialmente determinata da una coscienza
religiosa e da un’esperienza spirituale, giunge inine ad esserne dissociabile.
La coscienza religiosa di una identità già data, le rivendicazioni
di pratiche tradizionaliste per Foucault non sono incompatibili con un
cambiamento radicale della soggettività: «Quando dico che essi cercavano
attraverso l’islam un cambiamento nella loro soggettività, è del tutto
compatibile con il fatto che la pratica islamica tradizionale era già data e le
assicurava la loro identità»19. Siamo d’accordo. Tuttavia esse non sono però
incompatibili nemmeno con il mantenimento o il ripristino dei dispositivi

18
M. Foucault, L’herméneutique du sujet. Cours au Collège de France. 1981-1982, Seuil/
Gallimard, Paris 2001, p. 2001; trad. it. L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France
(1981-1982), Feltrinelli, Milano 2003, pp. 184-185.
19
M. Foucault, L’esprit d’un monde sans esprit, cit., p. 749.
94 Frédéric Rambeau

politici di dominazione e di quelli economici di sfruttamento. È questo


che rende così incerta la presa di questa “soggettività rivoluzionaria” sulla
logica internazionale e immanente del Capitale. Visto che quest’ultima si
“riterritorializza” costantemente, come affermano Deleuze e Guattari, su
forme identitarie e tradizionaliste.
Molto ispirato dal libro di Ernest Bloch, Das Prinzip Hoffnung (Il principio
speranza), Foucault si concentra soprattutto sulla relazione tra le lotte
religiose, antiche e precapitaliste, che riguardano le “contro-condotte”,
e quelle contemporanee che sono rivolte al riiuto di ciò che siamo e
all’invenzione di altre forme di soggettività20. Non gli appartiene invece la
questione dell’esteriorità o, al contrario, dell’omogeneità di questa politica
spirituale (non più centrata sul marxismo) con il programma o la logica del
Capitale. L’attenzione di Foucault si dispiega allora sul modo in cui questa
sollevazione è vissuta, senza cercare di scovarne le «ragioni profonde»21.
Ma tale questione resta nondimeno essenziale per l’intelligibilità di ciò che
rende questo riiuto, questa immensa protesta del popolo iraniano contro
la «modernizzazione» (i.e. contro il modo di esistenza prodotto da questa
logica e in base a questo programma), irriducibile a una rivolta contro lo
sfruttamento?
La logica del capitalismo, come è noto, non corrisponde più
solamente alla globalizzazione egemonica della soggettività europea, e
al discredito che al contempo essa attribuisce alle forme di vita che non
sono al passo di questo modello occidentale di libertà politica. Se la doxa
dello scontro di civiltà è così palesemente falsa, questo è precisamente
legato al fatto che, come l’hanno mostrato Deleuze e Guattari nei due
tomi di Capitalismo e Schizofrenia, le soggettività contemporanee prodotte
dall’assiomatica capitalista sono esse stesse divise tra il passato e l’avvenire,
tra l’arcaismo e la modernità, simultaneamente in ritardo e in anticipo su
esse stesse22. Queste sono costituite da una combinazione di attaccamento

20
M. Foucault, Le sujet et le pouvoir, in Dits et écrits II, cit., p. 1051; trad. it. Il soggetto e il
potere, in H. Dreyfus e P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault, Ponte alle Grazie, Firenze
1989, p. 244: «Forse oggi l’obiettivo principale non è di scoprire cosa siamo, ma piuttosto
di riiutare quello che siamo […]. Occorre promuovere nuove forme di soggettività
attraverso il riiuto di quel tipo di individualità che ci è stato imposto per così tanti secoli».
21
M. Foucault, Inutile de se soulever?, cit., p. 792; trad. it. cit., p. 133.
22
G. Deleuze e F. Guattari, L’Anti-Œdipe. Capitalisme et schizophrénie, Éditions de
Minuit, Paris 1972, p. 307; trad. it. L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino
1975, p. 294.
Lo sciopero della politica 95

arcaicizzante a tradizioni culturali o a vecchie forme di soggettività e


di aspirazioni alla modernità tecnologica e scientiica, tanto in Oriente
quanto in Occidente23. L’essenza soggettiva della ricchezza che ha fatto del
Capitale una forza della coscienza, un’impresa globale di soggettivazione
(la proprietà privata come attività per sé, soggetto, persona), è duplicata
attraverso le riterritorializzazioni conservatrici della soggettività che
marcano l’incessante ricodiicazione dei suoi propri limiti in «arcaismi a
funzione […] attuale», svolta mediante l’assiomatica capitalista24.
L’accento posto sull’etica, la preminenza dell’esperienza spirituale e
dell’escatologia religiosa hanno certo permesso a Foucault di riconoscere
la singolarità di questo luogo orientale della sollevazione, testimoniando
nuovamente la sua sorprendente intuizione politica. Ma lo hanno anche
condotto a mettere da parte, l’inesplorata relazione tra questa irruzione
della soggettività sulla scena politica internazionale e le ricodiicazioni
dell’assiomatica capitalista necessarie alla globalizzazione. Come rendere
conto allora della totale ambiguità di questa rivoluzione soggettiva che
ha attraversato il popolo iraniano, mescolando nello stesso processo di
soggettivazione tanto un senso di emancipazione, quanto atteggiamenti
sociali conservatori, un’esperienza spirituale “trascendentale” e arcaismi
religiosi del tutto empirici?
Anche l’inchiesta di Foucault in Iran manifesta le dificoltà, e forse i
limiti, della dislocazione etica dell’antagonismo politico che ha segnato la
sua ultima ilosoia. La questione della soggettivazione attribuisce a ciò
che era considerato inessenziale, secondario o derivato, l’importanza della
cosa più solenne e più materiale. La dislocazione decisiva della questione
politica (“che fare?”) verso quella della produzione di nuovi modi di
soggettività attribuisce a quello che era ritenuto supericiale (le parole, i

23
La coesistenza per esempio della nuova economia delle transazioni digitali e il
risorgere dei valori tradizionali della famiglia, o di dio, o ancora la riaffermazione delle
identità etniche in un mondo tuttavia regolato da una globalizzazione che va oltre le
nazionalità e gli Stati-nazione. Cfr. F. Guattari, Chaosmose, Galilée, Paris 1992, p. 13; trad.
it. Caosmosi, Costa & Nolan, Genova 1996, pp. 11-12.
24
G. Deleuze e F. Guattari, L’Anti-Œdipe, cit., pp. 306-307; trad. it. cit., pp. 293-
294. Come l’ha mostrato Marx, la produzione «per il capitale» issa al capitalismo dei
limiti immanenti allo sviluppo assoluto della sua produttività sociale, che esso non può
superare se non riproducendosi su una scala allargata (cfr. K. Marx, Le Capital, livre III,
chapitre 15, Éditions sociales, Paris 2015, p. 263; trad. it. Il capitale, Libro III, cap. 15,
Einaudi, Torino 1975).
96 Frédéric Rambeau

discorsi, i desideri, le immaginazioni) l’importanza di quello che vi è di più


profondo. Essa apre così la possibilità di una critica e di una creazione dei
modi di apparire, che non sarebbe tuttavia causata da una trasformazione
fondamentale delle forme delle società capitaliste e dalla dinamica di
accumulazione che le sostengono. Il cambiamento radicale della forma di
vita o del modo di esistenza non è più considerato come la manifestazione
naturale di una rottura nei rapporti di sfruttamento e di dominazione. Ma,
ritenuto valere di per se stesso, esso tende allora a evitare gli ostacoli che ne
impediscono la realizzazione, e per questo esso è costretto ad assumere la
forma dell’invocazione di un’esigenza etica, il cui rapporto con i dispositivi
politici non costituirebbe più la determinazione fondamentale.

Traduzione dal francese di Orazio Irrera

Frédéric Rambeau
Université Paris 8
fredericrambeau304@gmail.com

.
The Strike in Relation to Politics. Foucault and the Subjective Revolution

In the late 1970s, Foucault regards the uprising of the Iranian people as the
demand of a dramatic change of subjectivity. Religion (Shiite Islam) appears
as the guarantee of an actual transformation in the mode of existing. In this
situation, he shows that the political strength of Islam stems from the fact that
it does not primarily speak the language of politics, but of ethics. According
to Foucault, such spiritual politics, away from Marxism, cannot be reduced to
a strategic rationalization and, therefore, provokes discontinuity from politics.
It points to the spring and the critical impulse of Foucault’s ethics. It also leads
to consider “subjectivation” as a dimension that could slip from the circle of
freedom drawn by its total immanence to power. This very issue is at stake in the
Foucaldian concept of “relation to oneself ”, and in its aporia: it is both the irst
condition of governmentality and the ultimate point of resistance against any
governmentality. It thus reveals the dificulties involved in Foucault’s skirting of
political subjectiication in favour of ethical subjectiication.

Keywords: Subjectiication, Politics, Ethics, Spirituality, Iran, Governmentality,


Revolution.
Ethos animale
Filosoia e politica nell’ultimo Foucault
Pierandrea Amato

Prologo nietzscheano

Nelle letture dedicate a uno dei documenti più noti dell’anti-storicismo


tedesco, la seconda considerazione inattuale di Nietzsche, Sull’utilità e il danno
della storia per la vita (1874), passa generalmente inosservato che al fondo del
discorso nietzscheano vi è una radicale ipotesi antropologico-politica conce-
pita mediante una ilosoia dell’animalità1.
L’uomo, secondo il giovane Nietzsche, agisce, e in questa maniera di-
viene effettivamente un uomo, quando provoca ciò che non c’è; ossia, se
ostruisce la sovranità di Kronos e sperimenta il tipo di relazione estatica che
l’animale instaura con il tempo: una relazione mesmerica, frammentaria, sin-
copata, evenemenziale. Per Nietzsche, una vera azione, un’azione in grado di
concepire una durata e una storia, non possiede un fondamento storico, ma
erompe da un’infondatezza siderale e plebea. Un’azione è veramente tale, se
si rivela infedele a qualsiasi operazione della coscienza e del sapere.
Per intenderci, l’antropologia-politica del giovane Nietzsche prende pla-
tealmente le distanze dalla ilosoia fenomenologica di Hegel: l’uomo della
coscienza diventa un uomo nella Fenomenologia dello spirito quando traccia una
linea di separazione dal proprio presupposto naturale-animale e allora divie-
ne auto-cosciente perché agisce e dialetticamente trasforma il mondo e si
trasforma2.

1
Anche in due studi preziosi dedicati alla seconda Considerazione inattuale manca
un riferimento all’inclinazione politica che custodisce, nel giovane Nietzsche, il tema
dell’animalità: cfr. J. Salaquarda, Studien zur Zweiten Unzeitgemässen Betrachtung, in «Nietzsche
Studien», n. 13 (1984), pp. 1-45; J. Le Rider, La vie, l’histoire et la mémoire dans la seconde
considération inactuelle de Nietzsche, in «Revue internationale de philosophie», n. 1 (2000),
pp. 77-98. Egualmente, in un’ampia ricerca sulla simbologia politica dell’animalità,
pure dove si parla di Nietzsche, la questione in riferimento alla Seconda inattuale passa
inosservata: B. Accarino, Zoologia politica. Favole, mostri e macchine, Mimesis, Milano 2013,
in part. pp. 49-61.
2
Cfr. A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, Adelphi, Milano 1996.

materiali foucaultiani, a. IV, n. 7-8, gennaio-dicembre 2015, pp. 97-121.


98 Pierandrea Amato

L’inquietudine animale della seconda inattuale nietzscheana non si limi-


ta a rovesciare la preoccupazione antropologica di Hegel, ma abita un terri-
torio estraneo anche a una tesi che afiora in una costellazione concettuale
dove l’auto-coscienza non presenza alcuna rilevanza per stabilire lo statuto
dell’umano: nel 1929, in un ciclo di lezioni universitarie, Concetti fondamentali
della metaisica, Heidegger stabilisce la divaricazione ontologica tra l’uomo
e l’animale; la differenza si fonderebbe proprio sull’ipotesi che l’animale, a
differenza dell’uomo, non può agire ma soltanto reagire a uno stimolo3. Il
giovane Nietzsche pensa, al contrario, l’animalizzazione dell’uomo, perché
soltanto l’animale, in quanto privo di storia, fornirebbe la chance per sgravare
l’uomo dal peso eccessivo della storia. La responsabilità più grave della cul-
tura scientiica, in questo senso, è procurare la strutturale dissociazione tra
ciò che è animale nell’uomo e le funzioni teoretiche del suo logos.
Sull’utilità e il danno della storia per la vita è una critica al processo di stori-
cizzazione disciplinare del sapere. Indica, più precisamente, nella frattura tra
la vita e il sapere, la logica simbolica e materiale del progetto moderno. La
malattia storica della civiltà moderna, ciò che il XIX secolo avrebbe prodotto
con un accumulo straordinario di conoscenze ilologiche sul tempo passato,
afiora quando la storia tende, almeno idealmente, ad assumere il medesimo
statuto epistemologico delle scienze forti; si corromperebbe, a questo punto,
l’istinto che permette all’uomo di riconoscere quando è il caso di sentire in
mondo storico e quando, invece, è preferibile voltare le spalle al passato e
agire come un animale; vale a dire, senza alcuna percezione del tempo.
Quali sono gli effetti degenerativi più gravi della malattia storica? Secon-
do Nietzsche, con l’incondizionata storicizzazione della cultura, la natura
umana dissipa la propria falda animale; ossia, la sua capacità di agire. L’azio-
ne evidentemente, per il giovane Nietzsche, ha un carattere preciso ma cir-
coscritto: si dà un’azione non semplicemente quando si trasforma l’esistente
ma quando la sua creazione proviene dal nulla, da una dimensione infonda-
ta, inconcepibile, imprevedibile, da un recesso animale che, ogni qualvolta
agiamo, improvvisamente erompe. Per questo motivo, secondo Nietzsche,
per «ogni agire ci vuole oblio (Zu allem Handeln gehört Vergessen)»4; in altre
parole, per agire, ci dobbiamo dimenticare chi siamo. Per agire veramente,
dobbiamo trascurare la nostra storia, il nostro passato, da dove proveniamo.

3
M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine,
il Melangolo, Genova 1999.
4
F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Adelphi, Milano 1991, p. 8.
Ethos animale 99

Ma l’uomo moderno è consegnato a un destino d’infelicità perché la sua


cultura non prevede sfasature del tempo, lacune storiograiche, omissioni
del passato. In questa maniera però, secondo Nietzsche, l’uomo si ammala:
siorisce, diventa triste e sofferente. Al contrario, l’animale – un essere non
storico – è felice perché istituisce un rapporto epifanico con il tempo.
Il tema dell’azione, nella seconda inattuale nietzscheana, come soglia
che separa la dimensione storica da quella non storica, potrebbe esibire
un inatteso valore politico. Naturalmente, la politica in Nietzsche non sta-
bilisce un legame con gli orientamenti giuridici tradizionali della ilosoia
politica. Ad esempio, per schematizzare una questione in realtà dificile,
è troppo noto il giudizio nietzscheano nei confronti dello Stato perché
possano sorgere equivoci sull’irriducibilità della sua posizione a una deini-
zione giuridica della politica (pensiamo soltanto, per limitarci a un esempio
tratto dal giovane Nietzsche, ai brani della terza considerazione inattuale,
Schopenhauer come educatore, dove si critica pesantemente la funzione cultu-
rale dello Stato)5. Tuttavia, per quanto sia giusto essere prudenti quando
si attribuisce alla ilosoia nietzscheana una tonalità politica, è possibile,
sin dagli scritti giovanili, rinvenire in Nietzsche una forma di coalescenza
dionisiaca tra la politica e la vita basata su una concezione evenemenziale
dell’azione.
La politica nietzscheana non è un’arte di governo – lo spazio dell’am-
ministrazione dei comportamenti – né un regime di controllo; piuttosto,
separata può deinire l’indice fondamentale della trasformazione; l’epifania
del divenire che non sacralizza la vita nella sua dimensione organica, ma
nelle sue deformazioni permanenti. La politica nel giovane Nietzsche, in
questo senso, è un evento; un’eccedenza animale. Evoca l’irruzione (dioni-
siaca) della vita nella storia, perché, per Nietzsche, un’azione rappresenta
una sottrazione dell’umano a se stesso come evocazione di una condizione
estetica, concreta e infondata al contempo, in grado di infrangere la datità
della cosa del mondo.
L’uomo, per essere felice, felice se non altro per un attimo, secondo la
Considerazione inattuale sulla storia, deve agire; vale a dire, è chiamato a so-
spendere il corso ordinario del tempo e a schivare l’eccedenza del passato:
il peso delle norme, delle regole (sociali) consolidate. A ben vedere, dun-
que, l’uomo, per essere felice, deve trovare il coraggio di essere incivile; ir-
responsabile; ferino; deve trovare la forza per trascendere le norme sociali
5
H. Ottmann, Philosophie und Politik bei Nietzsche, De Gruyter, Berlin-New York 1987.
100 Pierandrea Amato

e le frontiere epistemologiche. Soltanto provocando la propria animalità


può diventare ciò che esso è, un uomo, e non un animale gregario. Non
si può comprendere la trasformazione dell’uomo moderno in un animale
gregario, problema che domina, ad esempio, Genealogia della morale, senza
tenere conto che per Nietzsche l’uomo agisce, cioè, non è un animale
gregario, esclusivamente se non è un animale mansueto, ma si comporta
senza fare calcoli particolari sul proprio destino.
In Sull’utilità e il danno della storia per la vita la soglia temporale che
separa immancabilmente l’uomo da se stesso, ossia, da ciò che è stato,
non è la causa dell’annichilimento culturale dell’uomo. Per quanto la tesi
principale della seconda inattuale sia radicale – l’esistenza è un essere
stato e l’uomo è per natura un incompiuto –, in realtà il livello in cui il
giovane Nietzsche si muove riguarda essenzialmente un ambito peda-
gogico-culturale in cui è la storia, come disciplina scientiica, l’oggetto
contro il quale si esercita la critica. Nietzsche lo dice chiaramente: l’uo-
mo ha bisogno di storia. Tuttavia l’accesso all’animalità del non storico
è il presupposto per una relazione non sclerotizzata con il passato: (r)
esiste un passato – come un ricordo qualsiasi – se il passato può essere
dimenticato. Nella trama di questo esodo dal tempo, di questa sospen-
sione (animale) del tempo, si schiude lo spazio per l’azione.
Il sentire non storico, sia ben chiaro, non è per Nietzsche una condi-
zione idillica; anzi, è una situazione tragica, perché coincide con un im-
pulso della vita che si oppone agli orientamenti della sua organizzazione
sociale. Una condizione in cui il valore della tradizione è sospeso; in
cui qualsiasi riferimento persino ideale all’oggettività del sapere è bandito.
Nondimeno, in realtà, la dimensione non storica diventa condizione fa-
vorevole per la vita proprio per la sua essenziale ingiustizia, dal momen-
to che corrisponde a quanto di più vero ci sia nella vita: la sua irrappre-
sentabilità; la sua eccedenza nei confronti di qualsiasi codice prestabilito.
Esclusivamente se il tempo non è il campo in cui domina l’inesorabi-
le, ma diventa il terreno dove può accadere l’impossibile (la sospensione
del tempo: un altro tempo nel tempo), l’uomo diventa un animale storico
in grado di non lasciarsi annichilire da ciò che è stato. Per un motivo
molto semplice: la vita è «una forza non storica»6. Eccede, precede, in-
terrompe la storia.

6
F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, cit., p. 16.
Ethos animale 101

L’uomo non è un animale soltanto se può diventare un animale. Il suo


essere animale non sarà mai una semplice condizione biologica, una mera
datità, piuttosto incarna il divenire: l’essere che potremmo essere; la nostra
potenza estranea alla sua cristallizzazione. Per agire e resistere al potere
(del tempo), dunque, bisogna imitare Gregor Samsa: non è come un insetto
ma diventa effettivamente un insetto.
Che cosa signiica per Nietzsche essere un animale? Vuol dire essere
leale: «l’animale vive in modo non storico, poiché si risolve come un nume-
ro nel presente, senza che ne resti una strana frazione; non è in grado di
ingere, non nasconde nulla e appare in ogni momento in tutto e per tutto
come ciò che è, quindi non può essere nient’altro che sincero»7. Ciò che fa
di un uomo un animale, la sua mancanza di ipocrisia, si basa sul rapporto
che instaura con se stesso: vivere e la verità nel divenire animale dell’uomo
tendono a mescolarsi; un animale dice sempre, a modo suo, la verità su di
sé nel momento in cui la dice. Probabilmente, a questo proposito, non è
esagerato considerare nel suo complesso l’impresa del giovane Nietzsche,
che sperimenta la praticabilità di una ilosoia del presente, alla luce della
conclusione della prima considerazione inattuale, David Strauss, quando
Nietzsche sancisce la propria estraneità all’epoca, almeno ino a quando
«sarà considerato inattuale quello che attuale fu sempre e che oggi più che
mai è attuale e fa bisogno – dire la verità»8.

Estetica ed etica

L’eredità della ilettatura politica della seconda considerazione inattuale


nietzscheana, consegnata a una teoria dell’azione zoo-antro-politica, riemerge
in un tornante decisivo delle ricerche del cosiddetto ultimo Foucault; quan-
do, dopo l’indagine sulla natura extra-giuridica del potere politico moderno,
dall’inizio degli anni ottanta, allestisce un cantiere su alcuni nodi del pensiero
antico, la cui posta in gioco, in estrema sintesi, è la deinizione genealogica
di un’etica del sé e, più in generale, di una rigenerazione della politica legata
alla deinizione delle condizioni di una democrazia radicale come eccedenza
permanente rispetto a qualsiasi governo democratico della vita. Ciò avviene
senza rinunciare al problema apicale della ilosoia, la verità, né alla questione

7
Ivi, pp. 6-7.
8
F. Nietzsche, David Strauss. L’uomo di fede e lo scrittore, Adelphi, Milano 1991, p. 104.
102 Pierandrea Amato

del soggetto e del potere, ma declinando la vicenda in un senso apertamente


anti-scientiico e, per quanto strutturato sulla scia inaugurata da Platone, in
una direzione esplicitamente anti-platonica. È in questa costellazione teorica,
la separazione tra la verità e la conoscenza, che il problema dell’animalità, il
nodo teorico che guida la composizione di queste pagine, diventa un elemento
in grado di svelare la logica interna dell’intero itinerario dell’ultimo Foucault.
In effetti, già nella tesi di dottorato del 1961, Storia della follia, dove l’animalità
ritrae il prisma per veriicare la trasformazione che subisce lo statuto della
follia nel passaggio tra il Rinascimento e l’età moderna, sia successivamente,
quando negli anni settanta Foucault inizia una capillare analitica del potere mo-
derno, la simbolica animale ha un peso notevole nelle ricerche foucaultiane. In
realtà, però, non è mia intenzione adesso documentare neanche brevemente il
valore che custodisce in Foucault, in termini generali, il problema dell’anima-
lità nell’economia della sua esplorazione del nesso che si instaura tra il sapere
e il potere9. Piuttosto, si tratta di allestire un’indagine più circoscritta e fare i
conti, tra le pieghe dell’inchiesta che Foucault intraprende sull’antico, con una
faccenda più speciica: la chance politica di un’emergenza etica dell’animalità.
L’aspirazione politica del suo interesse per i temi dell’etica del sé, e la sua
rilevanza per un’ontologia del presente, emerge, ad esempio, in una lezione del
17 febbraio 1982 al Collège de France:

Nella serie di tentativi e di sforzi, più o meno bloccati, e chiusi su se stessi, per
restaurare un’etica del sé, così come nel movimento che, ai giorni nostri, fa sì che
ci riferiamo continuamente a tale etica del sé, ma senza però mai conferirle alcun
contenuto, penso vi sia forse da sospettare qualcosa come una sorte di impossibili-
tà, e precisamente l’impossibilità di costituire un’etica, oggi, un’etica del sé. Eppure,
proprio la costituzione di una tale etica è un compito urgente, fondamentale, poli-
ticamente indispensabile, se è vero che, dopotutto, non esiste un altro punto, origi-
nario e inale, di resistenza al potere politico, che non stia nel rapporto di sé a sé10.

9
Indaga l’intero itinerario foucaultiano, attraverso il ilo rosso dell’animalità, un
saggio di qualche anno fa: S. Chebili, Figures de l’animalité dans l’œuvre de Michel Foucault,
L’Harmattan, Paris 1999.
10
M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-1982), Feltrinelli,
Milano 2003, p. 222. La produzione critica sull’ultimo Foucault recentemente, com’era
prevedibile, considerando la sequenza delle pubblicazioni delle lezioni al Collège de France,
è straripante. Mi limito allora a indicare due volumi molto utili comparsi recentemente in
Italia: S. Ferrando, Michel Foucault. La politica presa a rovescio. La pratica antica della verità nei corsi
al Collège de France, FrancoAngeli, Milano 2012; L. Bernini (a cura di), Michel Foucault. Gli
antichi e i moderni. Parrhesìa, Aufklärung, ontologia dell’attualità, ETS, Pisa 2011.
Ethos animale 103

L’etica del sé concepisce forme di resistenza diverse da quelle che si


deiniscono, nell’età moderna, attraverso la contrapposizione nei confron-
ti di un sovrano di cui si vorrebbe prendere il posto. L’obiettivo nell’e-
splorazione foucaultiana dell’antico è di esaminare una composizione della
soggettività che implichi una rottura del sé con il sé; una trasformazione
che ritrae, nell’intenzione di Foucault, il presupposto per accedere a un’i-
dea della verità che prenda le distanze da qualsiasi disegno epistemologico
(in effetti, nelle sue ultime ricerche, rispetto al passato, la nozione che più
di ogni altra è messa da parte o, quanto meno, subisce una rivisitazione ra-
dicale, è quella di sapere). Ciò che interessa Foucault non è la verità, come
fenomeno esterno al soggetto che conosce, ma le relazioni che il soggetto,
in nome della verità, stabilisce con se stesso. Tutto ciò avrebbe un inso-
spettato spessore non soltanto etico ma anche politico.
Facciamo un breve passo indietro: non si comprendono le motiva-
zioni della sterzata teorica foucaultiana, vale a dire, il suo abbandono della
modernità come campo d’indagine privilegiato, senza comprendere il tipo
di relazione tra le sue ricerche nell’etica classica e quelle condotte, alla ine
degli anni settanta, sul neoliberalismo contemporaneo come esito estremo
della logica della governamentalità moderna.
Il neoliberalismo, secondo Foucault, in estrema sintesi, è un dispositi-
vo di potere che si esercita non contro ma mediante la libertà: alterando la
dinamica platonica-hobbesiana, non governa ostruendo i desideri indivi-
duali, ma tramite una serie di tecniche in grado di scatenare gli impulsi pri-
vati come presupposto indispensabile per gestire una società molecolare
e complessa. Ciò signiica che il neoliberalismo governa promuovendo un
desiderio particolare e politicamente inaudito: quello di essere governati.
O, più precisamente, come sostiene Foucault, il neoliberalismo, articolan-
do senza sosta un discorso critico nei confronti dello Stato, in realtà, la-
vora all’evocazione di un desiderio dello Stato11. In particolare nel ciclo di
lezioni del 1979 al Collège de France, Nascita della biopolitica, l’obiettivo è
mostrare che le forme di governo contemporanee si basano su una capilla-
re diffusione della libertà in quanto presupposto per estendere in maniera
potenzialmente illimitata il controllo sulla vita.

11
M. Foucault, Metodologia per la conoscenza del mondo: come sbarazzarsi del marxismo, in Il
discorso, la storia, la verità. Interventi 1969-1984, a cura di M. Bertani, Einaudi, Torino 2001,
p. 267. Sul rapporto tra Stato e desiderio in Foucault, in particolare con riferimento a
Sicurezza, territorio, popolazione, si veda il mio Bio-politica e sovranità, in Tecnica e potere. Saggi su
Michel Foucault, Mimesis, Milano 2008, pp. 103-143.
104 Pierandrea Amato

L’idea che la libertà sia una tecnica di governo conduce Foucault a una
impasse teorico-politico, dal momento che nelle forme di potere neoliberale
ciò signiica che tenderebbe a svanire la possibilità di rintracciare un punto
di fuga; una via d’uscita dalle sue maglie mutevoli e, allo stesso tempo,
estese. La riduzione del ruolo dello Stato nella meccanica dei dispositivi
disciplinari, ad esempio, non diminuisce, al contrario, la diffusione di prati-
che di assoggettamento: nello spazio neoliberale, le tecniche di sorveglian-
za non sono meno intrusive di quelle sovrane e disciplinari. Anzi: fondate
sul consumo di libertà, si rivelano più eficienti di quelle disciplinari, per-
ché rendono pressoché impraticabile l’emergenza di pratiche di resistenza
eficaci. Il neoliberalismo, in sostanza, corrode qualsiasi legame (affettivo,
economico, politico, culturale in generale), ma, allo stesso tempo, produce
nuove forme di controllo collegate alla sua capacità discorsiva sia di ren-
dere la logica del mercato la fonte di inediti processi di verità sia di deinire
la propria isionomia come un’espressione del fondo più genuino della
natura umana.
Senza tenere conto dell’integrazione della libertà nei dispositivi di po-
tere contemporanei, non è possibile orientarsi adeguatamente tra le ma-
glie dell’ipotesi che stimola l’iniziativa foucaultiana sul pensiero antico. Se
il potere si esercita sempre sull’azione dell’altro, il neoliberalismo crea le
condizioni per cui il soggetto stesso istituisce i presupposti del proprio
assoggettamento, ostacolando l’opportunità di lasciare condensare una re-
lazione con l’altro nella quale la libertà può circolare nella forma di una
messa in discussione dei giochi di potere. È nelle maglie di questo preci-
pizio politico che emerge l’urgenza di veriicare l’accessibilità di pratiche
di resistenza fondate su un soggetto estraneo alla costituzione cartesiano-
hobbesiana (la coscienza e il diritto sovrano), tenendo presente, però, ri-
spetto alla dinamica classica, che la libertà non rappresenta più il polo
dialettico negativo in grado di ostacolare l’esercizio del potere.
Foucault studia il rapporto che nell’età classica il soggetto instaura con
la verità. In questa operazione genealogia, più speciicatamente, esamina la
nozione di cura di sé (epimeleia heautou): ne indaga la isionomia e lo svilup-
po storico, articolando un confronto critico con la nozione che più di ogni
altra tende a deinire l’auto-riconoscibilità della cultura occidentale nella
forma del rapporto che il soggetto instaura con se stesso: il conosci te stes-
so (gnoti seauton). Cartesio è il nome che L’ermeneutica del soggetto considera il
suggello storico-concettuale in cui si consuma il tramonto della cura di sé
nella cultura moderna: trionfa il soggetto che conosce se stesso mediante
Ethos animale 105

un metodo in cui la teoria della conoscenza ha una rilevanza assoluta. Nel-


la ilosoia cartesiana, infatti, il rapporto del soggetto con la verità riguarda
la coscienza e non la vita: la verità, in questa maniera, diventa oggetto di
una procedura; di un atto di conoscenza. La ilosoia moderna, per questo
motivo, non prevede alcun esercizio particolare su di sé del soggetto che
conosce per accedere alla verità; è suficiente, per la legalità della cono-
scenza, che il soggetto si sottometta alla logica del cogito e rispetti un iter.
Per il resto, può essere anche un criminale.
La cura di sé, al contrario, ha uno spessore esistenziale; deinisce uno
stile di vita che espone un doppio movimento: uno sguardo lanciato verso
di sé che, però, non è separato da un’azione su di sé. La verità, allora, può
essere considerata l’esito, sempre aperto e mai concluso, di un’esperienza.
È una pratica; un evento.
Per il nostro obiettivo, la veriica della condensazione di un legame tra
etica e animalità nell’ultimo Foucault, è ragionevole giungere rapidamente
alla soglia teorica probabilmente cruciale nell’economia della cura di sé:
nella costituzione del soggetto etico, nell’ambito del proilo della cura di
sé classica, Foucault attribuisce una consistenza speciale a una igura fra-
stagliata che gioca un ruolo cardine nel suo discorso sull’estetica dell’esi-
stenza (la bella vita come forma di vita in grado di ritrarsi dalla cattura del
potere): la parrhesia.
La nozione di parrhesia è un principio formato da stratiicazioni stori-
che notevoli che tra le mani di Foucault non cessa di esprimere variegate
e complesse sfumature concettuali. Tuttavia è utile tentare una sintesi: so-
stanzialmente, delinea un’etica del linguaggio in cui il nesso verità e libertà
è messo in gioco sino all’estremo e, per questa ragione, non è azzardato
pensare che sia una teoria e pratica del conlitto politico. Si tratta, infatti,
di dire la verità al potere: il parlar franco impone al soggetto di rinunciare
a qualsiasi protezione. Il gesto parresiastico, in questo senso, dimostra di
avere una funzione politica decisiva: smaschera l’ipocrisia del potere; innan-
zitutto, il suo impiego della parola come dispositivo di governo della vita.
Il parresiaste dice la verità nella contingenza: senza alcuna pretesa di
universalità e totalizzazione, contesta la verità al potere nel caso concreto (al
contrario, è il compito della confessione cristiana oggettivare e universaliz-
zare la possibilità di dire il vero, innanzitutto su se stessi, mediante soisticati
dispositivi di assoggettamento). Interviene nella congiuntura dell’adesso; è
spinto da una passione che lo costringe a dire la verità senza fare calcoli
106 Pierandrea Amato

particolari. Agisce, parla e si prende cura di se stesso, dicendo la verità. In


questa maniera segnala la propria alterità: la dissonanza, l’eccedenza etica
della propria esistenza.
Nella parrhesia una decisione individuale, dire la verità al potere, una
risoluzione di natura squisitamente etica, è in grado di sprigionare una carica
politica. Dire la verità, non tirarsi indietro e mostrare pubblicamente le cose
come stanno, introduce uno scarto, una differenza politica, all’interno della
polis. La differenza parresiastica della verità: la sua alterità è ciò che il potere
non può catturare, perché non è in grado di manipolare un soggetto che
elude qualsiasi forma di socievolezza consolidata.
È vero che Foucault tendenzialmente, più che alla dimensione politica
della parrhesia (che riguarderebbe, in particolare, il suo impiego platonico;
si veda l’Alcibiade I), è attirato dalla metamorfosi del soggetto che dice la
verità. Il cui riscontro, l’indice etico di questa modiicazione, è lo stile di
vita che si adotta per testimoniare la verità di ciò che si dice. Nella parrhesia
la controprova per la fondatezza di quanto viene detto, è la condotta di chi
pretende di dire la verità; l’armonia tra ciò che si dice e ciò che si fa prevede
una co-implicazione concreta tra il soggetto che parla e il soggetto che agi-
sce. La verità etica, in questo modo, diviene un ethos; non rappresenta, cioè,
l’elencazione di principi cui il soggetto deve sottostare, ma emerge mettendo
in gioco la propria vita. Il soggetto, in questo modo, non è più il prodotto di
forze che lo modulano, seducono, violentano, assoggettano; piuttosto, è una
forza che si costituisce da sé nel momento in cui afferma e pratica la verità.

Kant e la catastrofe

L’esplorazione foucaultiana del pensiero classico, lo dicevamo, è l’in-


dice di una rivelazione teorico-politica collegata ai suoi studi dedicati alla
ragione governamentale contemporanea: il corto-circuito tra neolibera-
lismo e biopolitica consuma l’eficacia di qualsiasi forma di resilienza al
potere, dal momento che le forme dell’organizzazione sociale si fondano
su un investimento antropologico in grado di determinare in un senso
esclusivamente anti-conlittuale le condotte individuali. In altre parole, e
un po’ brutalmente, direi che le ultime indagini di Foucault sulla ragione
governamentale – ciò che nessuna esegesi può rimuovere senza eludere
il nucleo fondamentale delle sue ricerche – mettono a fuoco la catastrofe
del presente, perché scoprono che qualsiasi processo di soggettivazione
Ethos animale 107

si rivela un programma di assoggettamento concepito manipolando la


logica della libertà.
Foucault, malgrado il presupposto che guida i lavori che ruotano in-
torno a La volontà di sapere (1976), cioè, la realtà concreta del potere non è
una gabbia d’acciaio, ma, al contrario, il sintomo dell’esistenza di forme di
resistenza, rivela in Nascita della biopolitica che tutto ciò nell’universo delle
relazioni neoliberali va in crisi. L’intero progetto moderno, la totalità della
sua architettura, inclusi gli arnesi tradizionalmente destinati a smontare le
coordinate e le prassi del potere economico-politico, sono coinvolti in un
programma di governo della vita in cui non è più concepibile alcuna effet-
tiva presa di distanza, perché è la stessa logica delle rotture, delle disper-
sioni, che, in realtà, mediante soisticati dispositivi di controllo, ci governa
senza sosta, sino a determinare la isionomia dei nostri desideri. Per essere
più precisi: rende i nostri desideri, come Foucault sostiene nella lezione
del 25 gennaio del 1978 (Sicurezza, territorio, popolazione), l’a priori economi-
co-politico in grado di rafigurare il punto di raccordo di qualsiasi forma
di governo destinato a gestire una società potenzialmente ingovernabile.
Scatenare le pulsioni fuori controllo, secondo la logica neoliberale, quindi
è l’occasione per tenerle tenacemente a bada. Il capitalismo neoliberale,
maneggiando la vita sino alla sua falda biologica, suscitando e annodando
i desideri della popolazione, è capace di rendere utile l’inutile, apprezzabili
le dissonanze, fruttuoso il dissenso. L’anarchia del potere contemporaneo
è in grado di coltivare qualsiasi piega dell’esistenza mediante l’attivazione
di una strategia che fa dell’uomo materialmente e simbolicamente un homo
oeconomicus. L’uomo del mercato è privo di qualsiasi ambizione politica,
uomo post-conlittuale, nel neoliberalismo pensa esclusivamente a soddi-
sfare i propri desideri (che, fatalmente, in realtà, assomigliano a quelli di
tutti gli altri).
Di fronte a un’epifania teorica del genere – la libertà rappresenta un
estremo dispositivo di controllo –, non è possibile, molto semplicemente,
continuare a lavorare, vivere, pensare, come prima; piuttosto, bisogna ri-
voltarsi, agire, ripensare la propria prassi teorica e concepire nuovi campi
di esplorazione concettuale. Foucault avverte l’esigenza di un mutamento
radicale nei modi di formazione del sé in grado di promuovere una singo-
larità capace, nel rapporto con sé, di eludere la cattura di un potere sinuoso
e polimorfo. Per fare tutto ciò è indispensabile inaugurare un’avventura
critica in grado di demolire ciò che simbolicamente e materialmente siamo
108 Pierandrea Amato

diventati, in modo che, tramite questo riiuto, sia possibile elaborare nuove
pratiche di soggettivazione.
In Foucault lo studio del pensiero classico non possiede un’autono-
mia storica, ma concerne – “alla Nietzsche” – l’attualità. Allora, rical-
cando le orme del giovane Nietzsche, quando si tratta di parlare del pre-
sente, di intervenire in maniera diretta nel proprio tempo, egli fa l’unica
cosa saggia che può fare un ricercatore: diventa intempestivo e si mette
a studiare gli antichi.
È nella trama di questo complesso programma ilosoico che Foucault
si impegna nell’individuazione di un’etica del sé come modello alternativo
al programma di soggettivazione moderno deinito, da un lato, dal sog-
getto cartesiano decorporeizzato e, dall’altro, nell’economia di governo
neoliberale, da una igura della soggettività fabbricata secondo le regole
del mercato. Tuttavia, prima di sondare una faglia signiicativa di questo
programma di ricerca, ossia, la condensazione cinica della parrhesia, in
modo da apprezzarne la portata teorica e politica, è indispensabile evocare
un gesto ad esso parallelo: il ritorno a Kant da parte Foucault. Foucault,
in effetti, a partire dal 1978, esamina in tre occasioni il celebre contributo
kantiano del 1784 sull’illuminismo: Was ist Aufklärung?12. Interesse teorico
che, come vedremo, è inscritto nell’ambizione foucaultiana di considerare
la ilosoia uno strumento ostile nei confronti di una deinizione funzio-
nale della verità.
Kant, notoriamente, attraverso la mediazione dell’interpretazione di
Heidegger (si veda il Kantbuch heideggeriano del 1929: Kant e il problema
della metaisica), ha un peso cruciale nell’economia della traiettoria ilosoica
di Foucault sin dai tempi della seconda tesi di dottorato dedicata all’an-
tropologia pragmatica kantiana (1961)13; lavoro che si riversa nel 1966 nel

12
L’adozione foucaultiana del testo kantiano sull’illuminismo inizia nel 1978, in
occasione di una conferenza, Qu’est-ce que la critique?, tenuta alla Société française de
Philosophie: M. Foucault, Illuminismo e critica, Donzelli, Roma 1997. Prosegue in una
lezione al Collège il 5 gennaio 1983: M. Foucault, Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de
France (1982-1983), Feltrinelli, Milano 2009, pp. 11-47. E si conclude con una conferenza
americana, What is Enligthenment?, pubblicata nel 1984: M. Foucault, Che cos’è l’illuminismo?,
in Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, vol. 3, a cura di A. Pandoli, Feltrinelli,
Milano 1998, pp. 217-232.
13
Nel 1964 Foucault si limita a pubblicare soltanto la traduzione del testo kantiano:
I. Kant, Anthropologie du point de vue pragmatique, Vrin, Paris 1964. La versione del 1961,
corredata dall’ampia introduzione, è resa pubblica solo di recente: I. Kant, Antropologia dal
punto di vista pragmatico, introduzione e note di M. Foucault, Einaudi, Torino 2010.
Ethos animale 109

progetto di Le parole e le cose. Senza dimenticare che il programma arche-


ologico foucaultiano degli anni sessanta deve il suo nome all’archeologia
ilosoica kantiana14.
Con l’irruzione nei primi anni settanta della genealogia nietzscheana
nel lavoro di Foucault, invece, il ruolo della ilosoia kantiana nell’analitica
foucaultiana del potere sembra diventare irrilevante. Eppure gli interven-
ti sullo scritto kantiano sull’illuminismo non devono meravigliare; non è,
peraltro, dificile comprendere le ragioni di questa ulteriore irruzione kan-
tiana: tenendo presente che i due corsi al Collège de France del 1978 e del
1979, Sicurezza, territorio, popolazione e Nascita della biopolitica, ruotano intorno
al problema ilosoico del presente, come d’altronde l’inchiesta sull’etica del
sé classica riguarda l’attualità, il lavoro kantiano del 1784, agli occhi di Fou-
cault, avrebbe il merito di consegnare alla ilosoia moderna la questione
dell’oggi come suo oggetto privilegiato e, di conseguenza, di porre l’urgenza
storica, per ogni periodo storico, di un’ontologia del presente.
Tra le mani di Foucault le tesi kantiane costituiscono il momento più
notevole della ilosoia moderna nella sua attitudine critica: l’uscita dalla
minorità, attraverso un gesto che ci farebbe abbandonare una condizio-
ne di assoggettamento permanente, senza scampo e senza evoluzione, è
un’impresa cui Kant attribuisce la più elevata importanza ilosoica e che,
secondo Foucault, tende a mutare il ruolo e i compiti della ilosoia.
Foucault, nel celebre incipit kantiano del 1784, «l’illuminismo è l’uscita
dell’uomo dallo stato di minorità di cui egli stesso è colpevole», intravede
una situazione etica legata al tipo di cambiamento che il soggetto, con co-
raggio («Sapere aude!»), deve operare su se stesso, perché sia concepibile un
gesto auto-critico effettivo. La minorità, in questo senso, è una condizione
nella quale la nostra esistenza è nelle mani di un altro; mentre l’illuminismo
sarebbe il movimento che ci spinge a pretendere di essere governati diver-
samente; o, meglio, di meno.
Non dovrebbe essere dificile capire perché, a questo punto, l’analisi
foucaultiana dello scritto kantiano del 1784 vada gestita in parallelo con le
sue indagini sulla cura di sé: in entrambi i casi l’elusione di una condizione
di prevaricazione, nella quale il soggetto si rivela l’effetto di un’ammini-

14
Foucault ricava da uno scritto kantiano, Quali sono gli effettivi progressi compiuti dalla
metaisica in Germania dall’epoca di Leibniz e Wolff?, pubblicato poco dopo la morte di Kant,
nel 1804, l’idea di una dimensione archeologica del sapere fondata sulla possibilità di
individuare una serie di a priori storici.
110 Pierandrea Amato

strazione eteronoma, impone innanzitutto un lavoro su di sé per abban-


donare la propria ignobile condizione.
Non c’è dubbio che il testo kantiano sull’illuminismo riveste per Fou-
cault un antecedente genealogico prezioso in preparazione della sua ricerca
nell’etica classica (altrimenti, ad esempio, non si comprenderebbe perché
Foucault si concentri sul saggio di Kant nella prima lezione di un corso
al Collège dedicato alle pratiche classiche della cura di sé)15. Ma in realtà,
probabilmente, più che per stabilire una iliazione, il riferimento a Kant
segnala una separazione: esiste uno scarto concettuale tra Kant e Foucault
che lascia divergere irrimediabilmente le due ontologie del presente in gio-
co. Per quanto l’atteggiamento di Foucault nei confronti Kant sia diverso
da quello adottato da Nietzsche nella terza inattuale, Schopenhauer come edu-
catore (Kant, secondo il giovane Nietzsche, non è un ilosofo perché la sua
esistenza, il suo modo di comportarsi non presenta nulla di esemplare),
infatti, se si adopera una corretta prospettiva ermeneutica, l’illuminismo di
Kant, anche per Foucault, si rivela un atteggiamento critico insuficiente.
Come se Foucault, rivolgendosi al testo kantiano, ci mettesse in guardia:
non è più tempo di limitarsi a dire la verità; non è nella dimensione del logos
che si può giocare la partita contro l’assoggettamento. O almeno: non è
più il tempo di criticare immaginando che ciò sia suficiente per alienare la
libertà dalle mani del potere quando oggi essa rafigura un vettore favore-
vole per instaurare dispositivi di governo capillari e permanenti.
La critica illuministica nel senso kantiano è un esercizio di emancipa-
zione qualora la libertà sia la fonte potenziale d’infrazione di un sistema
fondato su una logica pastorale guidata dall’imperativo dell’obbedienza
per l’obbedienza. Alla ine del XX secolo tutto ciò tende a diventare irri-
mediabilmente marginale: la razionalità biopolitica neoliberale erige la pro-
pria legittimità favorendo il massimo consumo di libertà per la deinizione
di programmi di controllo della vita in cui il disordine non va soffocato ma
semplicemente amministrato. Il potere non ci chiede più di obbedire, ma
di trasgredire, di eccitarci senza sosta, per permettere ai sistemi di control-
lo di transitare ovunque.

15
Cfr. S. Chignola, Il coraggio della verità. Parrhesia e critica, in Foucault oltre Foucault.
Una politica della ilosoia, DeriveApprodi, Roma 2014, pp. 171-198. Per un inquadramento
sistematico della lettura foucaultiana del saggio di Kant sull’illuminismo, si veda almeno
M. Passerin d’Entrèves, Critique and Enlightenment. Michel Foucault on “Was ist Aufklärung?”,
in «Manchester Papers in Politics», n. 1 (1996), pp. 1-28.
Ethos animale 111

Foucault, prendendo congedo dalla modernità, revoca il valore di


qualsiasi ambizione illuministica: lascia da parte la coscienza, la respon-
sabilità, la civiltà. Prende commiato da Kant e dalla ragione morale e da
qualsiasi ilosoia critica d’ispirazione kantiana16: non c’è più tempo per
dialogare, conversare, capirsi; spiegarsi, criticare, commentare. Almeno, è
questo che pensa Foucault mentre inizia a studiare l’esistenza di Diogene
il cinico.
Che la deinizione kantiana dell’illuminismo, come operazione di mo-
diicazione del sé, non vada, peraltro inevitabilmente, oltre certi limiti,
sembra afiorare già nel dibattito che segue la conferenza del 1978, Che
cos’è la critica?, dove Foucault precisa che la critica in Kant, come lavoro su
di sé per abbandonare uno stato di minorità, riguarda il desiderio di essere
governati altrimenti, ma senza mettere in discussione in quanto tale il go-
verno della vita:

Non mi riferivo a una sorta di anarchismo fondamentale, a una libertà ori-


ginaria assolutamente refrattaria a ogni governamentalizzazione. Non l’ho detto,
anche se non signiica che lo escludo categoricamente. […] se volessimo esplo-
rare questa dimensione della critica, che mi pare importante perché è contempo-
raneamente all’interno e all’esterno della ilosoia, se tentassimo questa impresa
non troveremmo lo zoccolo duro dell’atteggiamento critico in qualcosa che sa-
rebbe la pratica storica della rivolta, della non accettazione di un governo reale da
un lato, o l’esperienza individuale del riiuto della governamentalità dall’altro17?

Dove si spinge, sopravanzando l’intenzione kantiana, lo statuto della


critica nell’ultimo Foucault? Foucault organizza una mossa rischiosa: nel
corso di lezioni al Collège della France tenuto prima della morte, Il coraggio
della verità, una sorta di testamento politico e spirituale, rinverdendo la tra-
dizione inaugurata dal giovane Nietzsche nella seconda inattuale, concepi-
sce una radicale diserzione etica e politica che si spinge al punto, per elude-
re la presa del potere, di pensare una metamorfosi animale dell’uomo. Non
ci sarebbe, infatti, altra soluzione che compiere una ricusa antropologica,

16
Nel 1962, nel suo Nietzsche, Deleuze rivela i limiti del criticismo kantiano che
Nietzsche, invece, sarebbe in grado di oltrepassare: Kant non spingerebbe il suo metodo
sino all’estremo, perché non criticherebbe chi critica. In Kant, in altre parole, l’auto-critica
si rivelerebbe una sorta di auto-assoluzione. G. Deleuze, Nietzsche e la ilosoia, Feltrinelli,
Milano 1992.
17
M. Foucault, Illuminismo e critica, cit., pp. 71-72.
112 Pierandrea Amato

dal momento che l’investimento sulla natura umana, la sua deinizione


biopolitica democratica, è la prestazione economico-politica fondamen-
tale del neoliberalismo. Dobbiamo, allora, secondo Foucault, diventare
impresentabili socialmente, inanche poveri di parole e di logos. Insomma,
dobbiamo essere capaci, se necessario, di diventare dei nuovi barbari; privi
della capacità di comunicare secondo norme linguistiche codiicate e restii
a imbastire qualsiasi discorso.
È probabile che, in termini generali, la iliazione kantiana dell’impie-
go etico-politico foucaultiano della parrhesia sia corretto. Tuttavia si può
dimostrare che le cose cambiano quando Foucault realizza che la sog-
gettivazione parresiastica più stimolante, per l’obiettivo che si preigge il
suo lavoro sull’etica della cura di sé (una costituzione della soggettività
esterna al sistema dell’assoggettamento e collegata alla logica della tra-
sformazione), è la versione cinica. Si ha in questo caso l’impressione che il
ilo di continuità si interrompa, perché se con Kant ci troviamo ancora in
una dimensione legata alla direzione delle condotte di vita, con il cinismo
emerge una pratica non associabile a un esercizio critico intellettuale, ma,
al contrario, inquadrata nel rigetto persino ostentato di qualsiasi regola di
comportamento prestabilita18.

Svergognato: un’estetica della verità

Le ricerche sulla parrhesia antica – dire la verità al potere senza fare


calcoli – sfociano in Foucault in un’inchiesta sui lineamenti prevalenti nel
movimento cinico. Il cinismo costituisce una cerniera tra le varie traiettorie
dell’etica del sé perché elabora una forma di vita condensata nella mate-
rializzazione della verità: «mi sembra che nel cinismo, nella pratica cinica,
l’esigenza di una forma di vita decisamente tipica […] sia fortemente ar-
ticolata con il principio del dire-il-vero, del dire il vero senza vergogna né
timore, del dire-il-vero senza limiti e con coraggio»19. Gli stili della cura
di sé studiati da Foucault rintracciano nel cinismo un approdo: un’arte
dell’imparare a vivere quando viviamo in un universo di relazioni dove non

18
Sulla deinizione in Kant del tema delle condotte di vita, si veda N. Pirillo, Morale
e civiltà. Studi su Kant e la condotta di vita, Loffredo, Napoli 1995.
19
M. Foucault, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France
(1984), Feltrinelli, Milano 2011, p. 163.
Ethos animale 113

è più possibile vivere e dove ci possiamo soltanto vergognare per come


siamo diventati. Il cinismo, allora, si rivela l’occasione per uscire dall’ango-
lo; per smettere di vergognarsi e muoversi senza paura, in modo da eludere
una situazione nella quale il governo della vita non rende concepibile vie
d’uscita, dal momento che il soggetto è pietriicato dal desiderio di consu-
mare e di essere governato.
L’analisi del cinismo in Foucault incarna il culmine dell’implicazione
tra la vita e il pensiero come acme della logica della cura di sé e della vera
vita ilosoica. Attenzione: in Foucault la parrhesia cinica non allude al pri-
mato etico di una forza vitale incontaminata, ma concerne la deinizione
di una forma di vita in grado di desiderare in maniera diversa da come il
potere pretende che noi desideriamo. Per quanto incarni una delle ipote-
si più delicate di Foucault sulla cura di sé – delicata perché la cura di sé
si dovrebbe fondare innanzitutto sulla virtù della singolarità – il cinismo
promuove inediti processi di soggettivazione etica la cui occulta inclina-
zione politica – cioè, si passa dal singolare al plurale – si basa sul valore
non prescrittivo dell’esempio (“come si deve vivere” non costituisce una
norma né sociale né morale né giuridica ma l’occasione per cambiare la
propria vita20). L’assenza di principi universali e un’apertura alla contingen-
za, fa dell’esperienza cinica un esperimento di democrazia – letteralmente
anarchica: priva di archè – ostile a ogni governo, seppure democratico, della
legge. La condotta cinica segna, evidentemente, la ine di qualsiasi etica
dei principi; rende impraticabile qualsiasi morale non aperta al valore della
contingenza e del gesto semplicemente replicabile quando rivela la propria
eficacia21. A questo punto non sarebbe probabilmente esagerato pensare
che più che nella parrhesia politica platonica, è in quella etica, nello speci-
ico cinica, che emerge il potenziale politico più signiicativo del progetto
foucaultiano della cura di sé.
Il cinico è l’uomo della parrhesia; ma per diventare un parresiaste, non
è più un uomo come tutti gli altri. Si deve spingere oltre le soglie dell’u-
mano, perché, per manifestare la verità, per sprigionare una forma radicale
di aleturgia, in fondo devi essere un incosciente (ossia, un animale, un

20
P. Sloterdjik, Devi cambiare la tua vita. Sull’antropotecnica, Cortina, Milano 2010.
21
O. Irrera, Parr̄sia ed exemplum. La parr̄sia e i regimi aleturgici dell’exemplum a partire da
L’ermeneutica del soggetto di Michel Foucault, in «Noema», vol. 4 (2013), n. 1, pp. 11-31.
Si veda, inoltre, T. O’Leary, Foucault and the Art of Ethics, Continuum, London-New York
2002.
114 Pierandrea Amato

bambino, o un folle che va al mercato). In questa metamorfosi si annida il


principio della rivolta cinica: la logica della sua singolare esperienza etica
e politica.
Con il cinico non si conversa. Il cinico non ti critica, ma, come Dio-
gene, si masturba in pubblico. Non prende semplicemente la parola per
indicare ciò che non va, ma ti fa vedere materialmente, attraverso il suo
corpo, che le cose non possono più continuare allo stesso modo. È difici-
le pensare che una masturbazione pubblica, ad esempio, in una sala dove si
svolge un convegno dedicato a un’analisi delle forme del capitalismo con-
temporaneo, sia semplicemente una critica nei confronti, ad esempio, di
un intervento soporifero o troppo riformista. Più probabilmente, sarebbe
uno scandalo: una violenta, ingestibile presa di posizione contro ogni re-
gola e convenzione. Il suo autore, il disturbatore – masturbatore, a questo
punto, sarebbe considerato un maniaco, un folle, una bestia. Qualcuno,
al più, da commiserare. Ma certo nessuno si sognerebbe di derubricare la
cosa come a una forma di mera disapprovazione intellettuale.
Il ilosofo cinico non presenta nulla di cinico. Piuttosto, il contrario:
il suo candore fa del suo rigetto del potere una ragione di vita. Non sop-
porta che una teoria critica resti solo una teoria critica: il suo corpo, la sua
esistenza, sono la testimonianza delle sue intenzioni in grado di segnalare
la natura della sua differenza. Il cinico non ammette alcun legame partico-
lare con il potere: prende da esso le distanze; una distanza tanto grande
e dificile da sostenere che impone, a chi diventa un ilosofo cinico, di
non essere più un uomo ma di diventare qualcosa d’altro; di andare oltre
l’uomo; oltre ciò che esso è, per diventare ciò che esso ancora non è. Per
il cinico, diventare animale, quindi, non signiica un improbabile ritorno
alla natura, ma l’adesione a uno stile di vita che si riiuta di essere calcolato,
decifrato, simbolizzato. Il cinico, come l’animale, senza essere un animale,
non è mai nudo perché non può non esserlo; in altre parole, dire la verità,
per il cinico, è una ragione di vita.
Il cinico è chi conduce la ilosoia a un punto limite in cui le dottrine
che guidano l’azione svaniscono nella pura prassi sino a lasciare evapora-
re gli stessi principi cui dovrebbero sottostare. La libertà per Diogene il
cinico, ad esempio, non è altro che la possibilità di dire come stanno effet-
tivamente cose: il suo parlar franco non ammette eccezioni e limitazioni
rispetto al suo modo di vivere.
Ethos animale 115

La contiguità umana con l’animale costituisce un compito etico per


l’esistenza cinica; un’esigenza ascetica in grado di invertire l’ordine delle
cose. Le testimonianze antiche, generalmente, dipingono il cinico come un
cane: non conosce la vergogna e il pudore (per veriicare la distanza dalla
posizione assunta da Foucault, con il riferimento al cinismo, e la posizione
kantiana, è suficiente ricordare che nel lavoro sull’illuminismo Kant lascia
coincidere la minorità umana con una forma di istupidimento animale).
Il cinismo è indecente perché passa dalle parole ai fatti; spalanca l’osceno
che una vera esperienza della libertà prevede. È una dimostrazione vivente
della verità, perché la verità non è custodita in un libro o in un discorso,
ma diventa accessibile a tutti, senza, però, diventare un modello ideale/
universale; piuttosto si consuma nella pubblica piazza; erompe nella polis,
insorge politicamente.
Nell’economia delle ricerche foucaultiane sulle correnti ilosoiche
greco-romane interessate da un’etica del sé (epicureismo, stoicismo), il
cinismo riveste un’importanza speciale. Foucault, a differenza di quanto,
ad esempio, ritiene Pierre Hadot, considera il cinismo un’esperienza uni-
ca innanzitutto perché, per quanto i principi della sua dottrina siano ru-
dimentali, inanche elementari, tuttavia, consegnando un valore assoluto
alla prassi, è in grado di suscitare gesti di repulsione radicali22. Se le techne
tou biou studiate da Foucault sono generalmente esercizi per il dominio
di sé e il governo degli impulsi, nel cinismo si rovescia sistematicamente
l’intenzione canonica della cura di sé: i cinici rinunciano a qualsiasi tenta-
zione aristocratica e universalizzante nella cultura dell’etica del sé. La loro
è un’esperienza della povertà che si realizza nella rinuncia e nel riiuto del
potere23. Si rivela, allora, una forma d’ascesi che ha l’obiettivo di provocare
una profonda trasformazione del sé e in questa metamorfosi etica diffon-
de una carica ilosoica e politica inattesa24.
Per il cinismo il modo di vivere promuove la condizione per la iloso-
ia. Non c’è concetto, senza una forma d’esistenza adeguata alla sua cre-
azione che precede sempre necessariamente la sua invenzione. Il cinismo

22
Cfr. L. Cremonesi, Michel Foucault e il mondo antico. Spunti per una critica dell’attualità,
ETS, Pisa 2008, in part. pp. 171-188.
23
Sulla rinuncia, come tensione ascetica fondamentale nel cinismo antico, si veda la
prima parte di un lavoro del 1969 di Arnold Gehlen, Morale e ipermorale. Un’etica pluralistica,
ombre corte, Verona 2001.
24
E.F. McGushin, Foucault’s Akesis. An introduction to the Philosophical Life, Northwestern
University Press, Evanston 2007.
116 Pierandrea Amato

fa della forma di esistenza la pratica di riduzione che lascerà spazio al dire il


vero. Inine, fa della forma di esistenza un modo di rendere visibile, nei gesti, nel
corpo, nella maniera di vestirsi, nella maniera di vita, dell’esistenza, del bios, ciò
che potremmo chiamare un’aleturgia, una manifestazione della verità25.

L’elogio cinico dell’animalità fa parte di una più ampia considerazione


positiva della natura:

Il principio di una vita dritta che deve essere parametrata sulla natura, e sola-
mente sulla natura, implica la valorizzazione positiva dell’animalità. Ed è qualcosa
che […] è singolare e scandaloso nel pensiero antico. Si può dire in generale,
molto sinteticamente, che l’animalità rappresenta un punto di assoluta differen-
ziazione per l’essere umano. È distinguendosi dall’animalità che l’essere umano
afferma e manifesta la sua umanità. Rispetto alla costituzione dell’uomo come
essere ragionevole, l’animalità provoca sempre, più o meno, un movimento di
repulsione26.

La dottrina liberale governa le condotte favorendo gli interessi in-


dividuali. Contro l’artiicio dello Stato, promuove un discorso nel quale
la natura rappresenta un veicolo di organizzazione politica e uno stru-
mento su cui organizzare l’ordine sociale. Potrebbe apparire, in questo
senso, una sorta di rivisitazione contemporanea dell’ispirazione cinica.
In realtà, al contrario, il governo neoliberale manipola in un senso squi-
sitamente ideologico il proprio discorso intorno alla natura, afidando la
propria legittimità a meccanismi di controllo soisticati e orientando l’esu-
beranza animale della natura umana in un senso meramente economico. Il
cinismo, invece, provoca una trasformazione animale nella natura umana

25
M. Foucault, Il coraggio della verità, cit., p. 170. Per mettere a fuoco la isionomia
del cinismo antico è indispensabile un confronto con il cinismo moderno tanto che
la questione meriterebbe una trattazione ampia che qui non è possibile articolare. Mi
limito, invece, a una breve indicazione: la dimensione dell’animalità del cinismo antico
probabilmente è il modo migliore per distinguerlo dal cinismo moderno (una igura
estrema d’individualismo). La frattura, in altre parole, si consuma innanzitutto perché il
secondo è privo di quella che potremmo chiamare la predisposizione selvaggia del primo:
se il cinico antico è il nome di uno scandalo, il cinico moderno si dimostra ben integrato
nella società da cui sostiene, solo a parole, di prendere le distanze. Sulle divaricazioni
tra cinismo antico e moderno resta indispensabile il primo libro che diede notorietà a
P. Sloterdijk, Critica della ragione cinica (trad. it. parziale), Garzanti, Milano 1992.
26
M. Foucault, Il coraggio della verità, cit., p. 254.
Ethos animale 117

e per questa ragione giunge sino alla soglia in cui umanità e animalità ten-
dono a implicarsi, lasciando svanire qualsiasi separazione tra la teoria e la
prassi nella deinizione di una forma di vita.
Rovesciando un valore fondamentale del mondo classico (l’uomo è
un essere ragionevole perché non è un animale), l’animalità gioca presso i
cinici un ruolo dirompente. Anzi, è un gesto, il divenire animale del iloso-
fo, cui è afidata la massima disapprovazione nei confronti di chi detiene il
potere: l’animalità è una missione ilosoica e un compito etico. Per questa
ragione, in fondo, il cinismo rompe gli schemi della stilizzazione classica
della vita ilosoica: il suo appello alla ilosoia si rivela un cavallo di Tro-
ia, perché evoca una forma di vita che fa coincidere animalità e ilosoia,
intrattabilità ferina e pensiero. La vraie vie diventa per il cinico una pratica
pubblica; la città è una scena dove incontrare l’altro, quando un esercizio
critico, privo di mediazione, potrebbe rischiare di restare isolato27. Il cini-
co, a ben vedere, lascia deragliare qualsiasi distinzione tra oikos e polis; tra
pubblico e privato: ciò che si fa in privato, può essere ripetuto anche alla
luce del sole; e viceversa. Senza vergogna e paura.
Se il cinico è un animale senza vergogna, la sistemazione del cinismo
all’interno della storia della ilosoia potrebbe suscitare qualche imbaraz-
zo. La vergogna è un topos ilosoico dalla durata invidiabile – almeno dal
Protagora platonico sino a Levinas – che il cinismo capovolge: ritrae tradi-
zionalmente la situazione emotiva che registra una frattura rispetto all’e-
sistente, producendo la faglia indispensabile al pensiero per diventare una
forma di critica del presente. Al contrario, proprio l’assenza di vergogna,
l’attitudine squisitamente animale del cinico, diventa una condotta etica
radicale. Nella fondazione teoretica della ilosoia platonica, la vergogna
rappresenta una scintilla del pensiero. Agli occhi del cinico, al contrario,
che sposta il problema della ilosoia su tutt’altro terreno rispetto a quello
teoretico-metaisico, la vergogna rivela una concezione della ilosoia an-
cora eccessivamente astratta e collegata all’elaborazione concettuale dei
contraccolpi della nostra corporeità.
L’assenza di vergogna del cinico è la controprova del suo disinteresse
per la teoria. Forse nessuno come Deleuze e Guattari spiegano quest’im-

27
D. Lorenzini, Foucault, il cinismo e la “vera vita”, in L. Bernini (a cura di), Michel
Foucault. Gli antichi e i moderni, cit., pp. 75-99. Inoltre, cfr. C. Van Caillie, Alterità della vita
e alterazione del mondo. Ritorno sulla igura del cinico in Foucault e la performance drag in Butler, in
«materiali foucaultiani», vol. 2 (2013), n. 4, pp. 95-114.
118 Pierandrea Amato

passe, ossia la densità politica della questione, quando lavorano, in Che cos’è
la ilosoia?, a una rivendicazione del compito esclusivo della ilosoia come
fabbricazione di concetti:

Noi non ci sentiamo al di fuori della nostra epoca, al contrario non cessiamo
di scendere con essa a compromessi vergognosi. Questo sentimento di vergogna
è uno dei temi più potenti della ilosoia […] per sfuggire all’ignobile non resta
che fare come gli animali (ringhiare, scavare, sogghignare, contorcersi): il pen-
siero stesso è talvolta più vicino all’animale che muore che non all’uomo vivo28.

Non vergognarsi per ciò che siamo diventati, impone un primo, im-
prevedibile movimento che ci dovrebbe spingere, secondo Deleuze e
Guattari, a diventare animali: l’animalità è una condizione etica collocata
al di là di qualsiasi prescrizione morale e tipo di legge che ci impone che
cosa dobbiamo fare.
Facendo i conti con il paradigma animale del cinismo, i commentatori
antichi, pur annotando l’inadeguatezza della teoria cinica, nondimeno la
giudicano inaccettabile. Ciò accade sostanzialmente al cinismo che riesce
a trasformare principi tutto sommato elementari in uno scandalo, dal mo-
mento che li incarna sino all’estremo. Ad esempio, la virtù della povertà
non rappresenta per il cinico un’aspirazione intellettuale o una consolazio-
ne morale, ma è il nome di un’esperienza di presa di distanza dal potere
che va portata sino alle estreme conseguenze: spogliarsi di tutto. Questo
atteggiamento conduce, senza mezzi termini, il problema della parrhesia dal
dire al fare, come soltanto il cinico sa fare, dimostrando che cosa dovrebbe
essere materialmente una vita ilosoica.
Il cinismo rapisce l’attenzione di Foucault perché fa della ilosoia
una pratica; «un’estetica dell’esistenza»; una storia delle forme di vita
ilosoiche. Per questa ragione, diversamente da Heidegger, che non at-
tribuisce alcun valore alla biograia ilosoica (vedi, ad esempio, le battute
del suo Nietzsche, dove si esclude qualsiasi valore alla vita del ilosofo
per mettere a fuoco la cosa del suo pensiero29), Foucault intravede nella
condotta cinica, invece, l’emergenza della verità; l’occasione dove col-
laudare e veriicare l’attendibilità del pensiero. Per questa ragione, allo-
ra, la parrhesia, la cura di sé che ne governa la manifestazione, secondo

28
G. Deleuze e F. Guattari, Che cos’è la ilosoia?, Einaudi, Torino 1996, p. 101.
29
M. Heidegger, Nietzsche, Adelphi, Milano 1994.
Ethos animale 119

Foucault, non si limita a conigurare una possibile alterazione dell’etica e


della politica; ma provoca anche lo statuto della ilosoia. La critica della
parola parresiastica incarna uno stile; una forma di vita ostile a qualsiasi
attitudine ilosoica che si risolve esclusivamente in una semplice teoria.
Il parlar franco, un gesto contrario a qualsiasi retorica e forma di adula-
zione, si rivela in grado di produrre le condizioni per un’altra pratica del
pensiero. Tra le mani di Foucault, a ben vedere, la parrhesia dissoda dal di
dentro la tradizione ilosoica ma, allo stesso tempo, la logora, come dal
di fuori, scombinando la sua storia afidata, almeno nella modernità, es-
senzialmente allo studio delle condizioni di possibilità della sua esistenza
epistemologica e disciplinare30.

Postilla nietzscheana

Foucault vede la catastrofe ma non si lascia andare. Ricomincia da


capo. Apre un nuovo cantiere, ben inteso, denso di ostruzioni, inconve-
nienti, impedimenti concettuali, tuttavia pieno di promesse. Socchiude una
porta, dove si intravede una via nella quale la politica potrebbe diventare
nuovamente praticabile a patto di mettere in gioco la propria vita; a patto,
cioè, di riiutare ciò siamo diventati.
Foucault ci ha lasciato da pensare l’impensabile? Ma che cosa dovreb-
be fare un ilosofo se non lasciare in eredità un’eredità ingestibile? È cessa-
to il tempo in cui avevamo il compito di individuare chi siamo, per scoprire
di essere uno, nessuno e centomila; nella realtà post-edipica cui attualmente
siamo consegnati, dove, per chi ha occhi per vedere, non ci sono più idoli
da soffocare, al contrario, ci dobbiamo dissolvere e riiutare (non mi devo
più chiedere chi sono, ma chi potrei essere). Senza questo gesto, secondo
Foucault, non possiamo immaginare di desiderare altrimenti da come
chi ci governa ci impone di fare. Essere-barbari, riiutarci sino al punto
da diventare animali, è il compito politico che ci resta: ci devono essere
istanti in cui, privi di logos, dobbiamo inventare e parlare un’altra lingua.
Una lingua persino incomprensibile per chi gestisce la nostra vita.

30
Sul valore, per il destino della ilosoia, delle ricerche foucaultiane sull’antico, in
particolare alla luce delle lezioni al Collège de France del 1984 incentrate sulla parrhesia
cinica, cfr. P. Cesaroni, Michel Foucault e la ilosoia. Una traccia di lettura dei corsi al Collège de
France, in G. Gamba, G. Molinari e M. Settura (a cura di), Pensare il presente, riaprire il futuro.
Percorsi critici attraverso Foucault, Benjamin, Adorno, Bloch, Mimesis, Milano 2014, pp. 39-46.
120 Pierandrea Amato

Per concludere questa breve esposizione della differenza cinica nella


ricerca foucaultiana di un’etica sé, che lo stesso Foucault, d’altronde,
aveva da poco, prima della morte, iniziato a esplorare, potrebbe essere
utile recuperare l’esordio nietzscheano di questo contributo e in questa
maniera insistere sulla carica etico-politica che sostiene l’ipotesi foucaul-
tiana sul cinismo. Nel primo capitolo di Sull’utilità e il danno della storia per
la vita, quando Nietzsche associa la chance della felicità umana a un’istanza
animale, si dimentica che, come pure potrebbe essere lecito attendersi
dove si esaltano le virtù dell’animalità, non si ricusa alla ilosoia, ma si
colloca la sua emergenza in un movimento preciso: il cinismo. Il cinico,
secondo il giovane Nietzsche, è proprio chi sa diventare animale; chi sa
scoraggiare l’autorità (del tempo). È un ilosofo, un uomo felice, perché
sa essere, quando serve, un animale:

Se è una felicità, se è un correr dietro a una nuova felicità ciò che in un certo
senso trattiene in vita il vivente e continua a spingerlo alla vita, nessun ilosofo ha
forse ragione più del Cinico, poiché la felicità dell’animale, come perfetto Cinico,
è la prova vivente del diritto del cinismo31.

La genealogia foucaultiana eredita dalla ilosoia di Nietzsche il valo-


re del corpo per la formulazione di qualsiasi concetto. Non ci deve sor-
prendere se l’ultima rivelazione di Foucault, l’ethos animale del cinismo, si
inscrive in una rivalutazione somatica della verità che ha nel programma
del giovane Nietzsche un antecedente fondamentale. L’animalità non è
ciò cui siamo consegnati, ma diventa una missione etica per salvaguar-
dare, al di là di qualsiasi interferenza dialettica, la differenza che ci costi-
tuisce; l’alterità che sempre siamo a noi stessi. Vale a dire, ritrae il riiuto
di qualsiasi soggettivazione umana che non consideri l’identità come un
altrove da sé costituito dall’eccedenza del divenire.
L’animalità nell’ultimo Foucault non è né un’idea limite né una vaga
attitudine iper-intellettuale ma una tensione all’impossibile: dunque una
profonda riterritorializzazione della politica. Un modello di irriducibilità
quando, persino la libertà, la libertà dei moderni, diventa uno strumento
di controllo della vita. La componente animale allude, nelle intenzioni di
Foucault, al primato del divenire estraneo alla supremazia di una visione

31
F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, cit., p. 7.
Ethos animale 121

meramente organica dell’esistenza; ossia, la dimensione su cui si installa


qualsiasi potere per deinire la propria egemonia. La vera vita, nell’incli-
nazione cinica, si scaglia contro ogni forma di totalità; è un’apertura in-
calcolabile e imprevista nei confronti di qualsiasi potere che tenda, pure
quando appare un magma senza centro, a bloccare la vita tramite forme di
cristallizzazione del divenire.

Pierandrea Amato
Università degli Studi di Messina
pierandrea.amato@unime.it

.
Animal Ethos. Philosophy and Politics in the Late Foucault

This paper aims to show that Foucault’s last idea, the animal ethos in Cynic
philosophy, is linked to a somatic revaluation of the truth inspired by the
young Nietzsche. Animality is not a fate but an ethical task whose objective is
to safeguard the difference that constitutes us, the otherness we always are in
relation to ourselves. Thus, in the late Foucault, animality is a tension toward the
impossible that implies a deep reterritorialization of politics, when even freedom
– freedom of the Moderns – becomes an instrument for the control over life.

Keywords: Animality, Biopolitics, Cynicism, Critique, Ethics, Nietzsche, Subjectivity.


La doublure di Foucault
Il pensiero del “fuori” e le pratiche del vero
Sandro Luce

Perché il fuori

Foucault ci ha fornito una notevole quantità di spunti che ancora oggi,


a distanza di trent’anni dalla sua morte, risultano indispensabili per un
lavoro di critica e problematizzazione del presente. Quest’intervento si
concentrerà su un tema che, a mio avviso, attraversa tutta la sua opera,
a volte in modo esplicito, più spesso solo sotterraneamente. Mi riferisco
alla questione del “fuori”, che assume nell’opus foucaultiano una partico-
lare rilevanza sia rispetto alla concezione del potere che a quella ad essa
annessa delle soggettivazioni. Cercherò di far emergere la densità politica
che questo concetto presenta in dagli anni sessanta, quando Foucault lo
puntualizza nei cosiddetti lavori letterari, ma soprattutto proverò a mo-
strare, attraverso una lettura circolare dell’opera foucaultiana, come esso
riemerga, sia pure con degli slittamenti, nei suoi lavori sulla soggettiva-
zione etica.
Fare una rilessione sul “fuori” signiica inesorabilmente confron-
tarsi con l’attualità di un mondo globale ove non sembra esserci spazio
per alcun “fuori”. Numerose sono infatti le letture, sia pure con pro-
spettive differenti, che considerano la società contemporanea come un
unico spazio liscio nel quale i conini territoriali divengono sempre più
porosi ino a sparire nell’unicità del mondo globalizzato1. Viene spes-
so sottolineato come la sparizione di ogni limite sia l’effetto principale
dell’ordine neoliberale, che si universalizza attraverso il felice connubio

1
Su questo punto, sia pure da prospettive differenti, si vedano C. Galli, Spazi politici.
L’età moderna e l’età globale, Il Mulino, Bologna 2001 e Z. Bauman, Liquid Modernity, Polity
Press, Cambridge 2000 (trad. it. Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2011). Il conine
è invece inteso come un dispositivo riemergente e fondamentale nell’articolazione degli
lussi globali da S. Mezzadra e B. Neilson, Border as Method, or, the Multiplication of Labor,
Duke University Press, Durham 2013 (trad. it. Conini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro
nel mondo globale, Il Mulino, Bologna 2014).

materiali foucaultiani, a. IV, n. 7-8, gennaio-dicembre 2015, pp. 123-136.


124 Sandro Luce

tra un discorso del capitale, che anziché interdire comanda di godere, e


il discorso sovversivo sessantottino, che ha rivendicato la liberazione del
desiderio detronizzando la igura del padre. Sarebbero questi gli effetti
di ciò che Recalcati, attraverso Lacan, chiama l’evaporazione del padre2;
ed è un aspetto sul quale, con un’impronta più sociologica che psicoa-
nalitica, si soffermano le analisi di Chiappello e Boltanski, mettendo in
luce la brusca inversione di tendenza del capitalismo che, alla ine degli
anni settanta, fa proprie le rivendicazioni estetiche della critique artistique,
implementando la creatività come fattore di partecipazione e di crescita
individuale3. Il limite è anche ciò che per il liberalismo classico doveva
segnare le azioni di governo, seguendo logiche utilitariste o giuridico-
deduttive, al ine di creare i presupposti per l’affermazione del laissez-
faire, mentre oggi il discorso neoliberale rappresenta la forma stessa del
governo attraverso un sistema di norme impresse nelle pratiche gover-
namentali: è normatività pratica4. Svanisce il limite che distingueva tra
sfera del politico e sfera dell’economico o, per usare un’espressione di
Bazzicalupo, si assiste al passaggio dalla biopolitica alla bioeconomia, in
cui la normatività si struttura non sulla nuda vita, sulla zoè, ma sulla vita
desiderante5.
Queste analisi convergono su un punto, che rappresenta il vero
nodo problematico ed è sintetizzabile in questi termini: come destabi-
lizzare le fondamenta del discorso neoliberale che è, ripeto, non solo
una teoria o una scienza, ma una logica, che si costituisce e si rafforza
attraverso le pratiche dei soggetti. Soggetti liberi di costruirsi come
un’impresa che potenzia il proprio capitale umano, liberi di godere sen-
za costrizioni e senza quelle dilazioni che la weberiana etica protestante
imponeva al capitalismo classico. Soggettivazioni – come mostrato da
Foucault nei corsi del 1978-1979 – ovviamente ambivalenti, in quanto
assoggettate ad un discorso che le produce come libere, ma al contem-

2
Cfr. M. Recalcati, Il complesso di Telemaco. Genitori e igli dopo il tramonto del padre,
Feltrinelli, Milano 2013; Id., Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, Raffaello
Cortina, Milano 2011.
3
Cfr. L. Boltanski e È. Chiapello, Le nouvel esprit du capitalisme, Gallimard, Paris 1999.
4
Cfr. P. Dardot e C. Laval, La nouvelle raison du monde. Essais sur la société néolibérale, La
Découverte, Paris 2009.
5
Il tema, già affrontato in L. Bazzicalupo, Il governo delle vite. Biopolitica ed economia,
Laterza, Roma-Bari, 2006, viene ulteriormente indagato e approfondito in Ead., Dispositivi
e soggettivazioni, Mimesis, Milano 2013.
La doublure di Foucault 125

po nega questa libertà, che resta sempre al di là delle procedure che le


fanno esistere.
Non abbiamo altra strada che provare a ripristinare quei limiti e
quei conini che surrettiziamente ristabiliscano un’autorità trascenden-
te, o si possono conigurare soggettivazioni resistenti che, “fuori” da
quell’ordine discorsivo, ne mettano in discussione dall’interno, e dunque
immanenti ad esso, l’autorità e le modalità? E soprattutto, come queste
soggettivazioni possono produrre verità che non coincidono con quella
dominante che assoggetta le nostre vite? A queste domande si può cer-
care di trovare una risposta, del tutto provvisoria e sempre in bilico con
le incertezze dei nostri tempi, muovendo dalle analisi foucaultiane e dalla
trama che egli tesse tra soggetto, linguaggio, etica e verità.

Il vuoto del soggetto moderno

L’incontro con la letteratura, o meglio con una certa letteratura – quel-


la di Sade, Artaud, Bachelard, Bataille, Klossowski, Roussel – nasce da una
duplice necessità. Innanzitutto esso contribuisce a rafforzare l’operazione
di decostruzione del soggetto moderno, che implica non solo lo svuota-
mento del soggetto da ogni fondamento metaisico, ma anche una proble-
matizzazione del suo rapporto con la verità. Questa necessità teorica costi-
tuisce una sorta di premessa, indispensabile per affrontare una sottostante
dimensione politica legata al potenziale sovversivo del linguaggio.
Foucault individua nella letteratura contemporanea6 un luogo privi-
legiato di critica e dissoluzione della ratio moderna e del suo linguaggio e,
dunque, una straordinaria arma per colpire il soggetto della modernità, che
egli non cessa di riconoscere come il mito di una pratica discorsiva, che
ha tutte le caratteristiche di un ordine del discorso, costruita sull’assoluta
priorità del conoscere rispetto alle pratiche. È a questo soggetto fondatore
di discorsività e di conoscenza che Foucault, e più in generale il pensiero
ilosoico francese di quegli anni, muove un attacco frontale. Signiicativo
dello scarto messo in campo da Foucault è, tra gli altri, uno scritto del 1969
intitolato Qu’est-ce qu’un auteur? Sullo sfondo dei due temi che affronta –

6
Qui intendo per contemporanea ciò che Foucault chiama moderna, in contrappo-
sizione alla letteratura classica, caratterizzata dal venir meno di una Parola Prima, ossia
della garanzia di Dio.
126 Sandro Luce

l’autoreferenzialità della scrittura e la parentela della scrittura con la morte


– afiora la questione del soggetto e del processo di identiicazione tra que-
sti e la parola, che nasce all’interno del modello dell’interiorità del soggetto
in quanto autocoscienza. Secondo Foucault: «il legame del nome proprio
con l’individuo nominato e il legame del nome d’autore con ciò che esso
nomina non sono isomori e non funzionano allo stesso modo»7 perché,
come chiarisce più avanti, «un nome di autore non è semplicemente un
elemento in un discorso […] esso stabilisce una funzione classiicatoria
[…] caratterizza un certo modo di essere del discorso»8. Per questa ragione
Foucault sostituisce all’autore la “funzione-autore” e, ricollegandosi alla
ricerca svolta ne L’archéologie du savoir, deinisce le condizioni di apparizione
del discorso come presupposto metodologico necessario al processo di
decostruzione del “soggetto-autore”. L’enunciato è per Foucault ciò che
determina «le condizioni in cui si è esercitata la funzione che ha dato ad
una serie di segni un’esistenza»9. L’enunciato viene sottratto ad una dimen-
sione prettamente strutturale, per essere deinito come funzione di esi-
stenza, che si materializza in presenza di alcuni requisiti come quello di un
“campo associato”, che non va considerato come un mero contesto, ma
come il luogo di prassi discorsive e non, che rende possibile l’apparizione
di un enunciato. Questo diviene riconoscibile e acquista un signiicato solo
all’interno di quel particolare territorio.
La questione, ricondotta all’ambito letterario, non è quella di deinire
colui che parla, né di affermare la coincidenza di un’opera con la forma
di espressione di una particolare individualità, ma di rendere visibile lo
spazio vuoto da cui la funzione enunciativa emerge. Non c’è un soggetto
pensante che si riconosce come autore del discorso, ma è quest’ultimo ad
individuare il luogo da cui, in un determinato momento storico, è possibi-
le parlare ed essere ascoltati. Questo è il senso della ricerca archeologica,
tesa ad individuare le condizioni formali di speciiche pratiche discorsive.
Così concepito il discorso non è l’espressione di un soggetto che pensa,
conosce e dice, ma la supericie di dispersione del soggetto, un “mormorio

7
M. Foucault, Qu’est-ce qu’un auteur? (1969), in Dits et écrits I, 1954-1975, Gallimard,
Paris 2001, p. 825; trad. it. Che cosa è un autore?, in Scritti letterari, Feltrinelli, Milano 2004,
p. 7.
8
Ivi, p. 826; trad. it. cit., p. 8.
9
M. Foucault, L’archéologie du savoir, Gallimard, Paris 1969, p. 142; trad. it. L’archeologia
del sapere, Rizzoli, Milano 1999, pp. 145-146.
La doublure di Foucault 127

senza autore”, che apre ad una molteplicità di signiicati nuovi e, aggiun-


gerei, di verità, non più afidate alla parola del soggetto conoscente o a
quella di dio. Come afferma Foucault: «il soggetto della letteratura (ciò
che parla in essa e ciò di cui essa parla) non è tanto il linguaggio nella sua
positività quanto il vuoto in cui esso trova il suo spazio quando si enuncia
nella nudità dell’“io parlo”», quindi «l’“io parlo” funziona in senso inverso
a quello dell’“io penso”. Quest’ultimo ci portava alla certezza indubitabile
dell’Io e della sua esistenza; quello là invece spinge indietro, disperde, can-
cella quest’esistenza e non ne lascia apparire che il posto vuoto»10. Vuoto
perché ha a che fare con un oggetto esso stesso inafferrabile, come un
simulacro, che proprio per la distanza che pone tra linguaggio, letteratura e
soggetto, può solo lambire la soglia, il limite, di ciò che egli è11.
È attraverso la letteratura e il soggetto della letteratura che Foucault
evoca, in modo più o meno esplicito, i limiti di quello che, nei corsi su
L’herméneutique du sujet, chiamerà, con qualche precauzione, “momento car-
tesiano”, che ha attraversato tutta la modernità e trova ancora residui nella
fenomenologia di quegli anni12. Proprio nella lezione inaugurale di questi
corsi Foucault sottolinea come il momento cartesiano abbia prodotto una
riqualiicazione dello gnōthi seautòn socratico poiché esso: «si riferisce alla
conoscenza di sé almeno come forma di coscienza»13, con il conseguente

10
M. Foucault, La pensée du dehors (1966), in Dits et écrits I, cit., p. 548; trad. it. Il pensiero
del di fuori, in Scritti letterari, cit., p. 113.
11
M. Foucault, Linguaggio e letteratura (1964), trad. it. in «materiali foucaultiani»,
vol. 2 (2013), n. 3, p. 30; su questo tema, nello stesso volume, cfr. J.-F. Favreau, La distanza
che ci separa dalla letteratura, pp. 69-90 (p. 71). Vorrei sottolineare come la igura del nega-
tivo, incarnata secondo Foucault dalla trasgressione e dal divieto, trovi una signiicativa
consonanza con il refus di Blanchot; cfr. M. Blanchot, Le refus, in Écrits politiques, Lignes/
Éditions Léo Scheer, Paris 2003, pp. 11-12.
12
Sul rapporto conlittuale con la fenomenologia si veda J. Revel, Foucault, le parole e
i poteri. Dalla trasgressione letteraria alla resistenza politica, Manifestolibri, Roma 1996, la quale
sottolinea come gli attacchi di Foucault hanno di mira prevalentemente la fenomenologia
husserliana, mentre è possibile trovare un punto di contatto, pur con le dovute differenze,
con Merleau-Ponty e con il suo tentativo di mostrare l’impossibilità di trovare un punto di
contatto tra la logica della lingua e la creazione letteraria. Decisamente tranchant è invece
Deleuze: «Il fatto è che per Foucault non c’è niente al di sotto del sapere. Tutto è sapere.
Questa è la sua rottura con la fenomenologia. Non c’è come diceva Merleau-Ponty, una
“esperienza selvaggia”, un vissuto. Piuttosto, il vissuto è già sapere» (G. Deleuze, Il sapere.
Corso su Michel Foucault (1985-1986), Ombre Corte, Verona 2014, p. 39).
13
M. Foucault, L’herméneutique du sujet. Cours au Collège de France. 1981-1982, Seuil/
Gallimard, Paris 2001, p. 16 (trad. it. L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-
128 Sandro Luce

obnubilamento delle forme di epimeleia heautou. Vi è un’indubbia differenza


tra il procedimento cartesiano e lo gnōthi seautòn socratico, tuttavia, il suo
obiettivo è mostrare come l’inversione nel rapporto gerarchico tra i due
principi dell’Antichità sia sintomatico di un sostanziale mutamento nel
rapporto che si instaura tra ilosoia e verità: l’accesso a questa non è più
l’esito di un lavoro che il soggetto compie su se stesso, ma nient’altro
che il processo indeinito della conoscenza, che non è più «capace di
trasigurare e salvare il soggetto»14. Quelle condizioni di spiritualità che
permettevano al soggetto di accedere alla verità, attraverso una serie di
trasformazioni e di modiicazioni, vengono liquidate, nel corso della mo-
dernità, con l’affermarsi di un soggetto che viene concepito come aperto,
per la sua stessa struttura, alla verità teoretica, una verità che non è pra-
tica, né patica15. Una riduzione del soggetto a soggetto della conoscenza,
che ha permesso di scindere la coppia sapere/potere, celando il potere ed
elevando il sapere a valore autonomo di verità. È questa operazione che
la letteratura, nel suo essere simulacro non riconducibile ad un soggetto
fondatore di discorsività, disvela.

La dissonanza del discorso letterario

Considerare gli scritti letterari di Foucault come estemporanee incur-


sioni di natura prettamente estetica, o come interventi di critica letteraria
– categoria, peraltro rigettata dallo stesso Foucault –, costituisce un’opera-
zione teoricamente parziale e inadeguata rispetto allo spessore e alla pro-
fondità che li attraversa. Essi costituiscono invece un tassello decisivo per
rispondere ad un’urgenza politica – la seconda necessità cui prima accen-
navo – che interroga e cerca risposta nelle prospettive dischiuse dall’incon-
tro tra linguaggio letterario e ilosoia.

1982), Feltrinelli, Milano 2003, p. 16), ove Foucault sottolinea come Cartesio, affermando
che è suficiente un soggetto qualsiasi capace di vedere ciò che è evidente, ha sostituito
l’evidenza all’ascesi nel punto in cui la relazione con sé interseca la relazione con gli altri
e con il mondo. Su questo tema si veda M. Foucault, À propos de la généalogie de l’éthique: un
aperçu du travail en cours, in Dits et écrits II, 1976-1988, Gallimard, Paris 2001, pp. 1202-1234.
14
M. Foucault, L’herméneutique du sujet, cit., p. 20; trad. it. cit., p. 21.
15
Ivi, pp. 27-30 e 181-185; trad. it. cit., pp. 22-25 e 167-169 (Foucault precisa come
«ci troviamo di fronte non ad un conlitto tra spiritualità e scienza, quanto tra spiritualità
e teologia»).
La doublure di Foucault 129

Abbiamo visto come il linguaggio afferma, attraverso la letteratura, la


sua irriducibilità al pensiero, l’impossibilità di fungere da pura traduzione
delle rappresentazioni della coscienza, per apparire nella sua frammenta-
rietà e nel suo anonimato. Questa è la ragione per la quale, ricorda Fou-
cault, «la rilessione occidentale ha così a lungo esitato a pensare l’essere
del linguaggio: come se essa avesse presentito il pericolo che l’esperienza
nuda del linguaggio farebbe correre all’evidenza dell’“io sono”»16. Il sog-
getto ha un linguaggio che parla e di cui non è padrone, questo è il segno
del disgregamento della soggettività delle rappresentazioni, che si rilette
nel silenzio del linguaggio, nel suo essere senza parola, perché ripiegato
su di sé, divenendo un oggetto di conoscenza tra i tanti17. La parola rie-
merge solo ricorrendo a forme estreme. La letteratura, come la ilosoia,
«non può riprendere la parola, né riprendersi in essa se non sui bordi dei
suoi limiti: il limite ha a che fare con la trasgressione, è un’apertura sull’il-
limitato, ma, ricorda Foucault: «la trasgressione non sta (dunque) al limite
come il nero sta al bianco, il proibito al permesso, l’esteriore all’interiore,
l’escluso allo spazio protetto della dimora. Essa è legata al limite, piutto-
sto, secondo un rapporto di avvolgimento di cui nessuna effrazione da
sola potrà venire a capo»18. Il limite è quello, ci dice Blanchot, verso cui va
spinto il pensiero19. Ma costituisce anche il tratto peculiare di alcune espe-
rienze di vita, come la follia, capaci di disobbedire al codice del linguaggio
e di istituire una diversa riserva di senso. Viene stabilito con il linguaggio
un rapporto attivo, produttivo, che proprio nel solco della distanza che
scava dalle sue norme, trova nuovi sentieri di signiicato, nuove verità.
La letteratura contemporanea, così come la follia, è un linguaggio “se-
condo”, ripiegato su se stesso poiché «vuole dire altro da ciò che dice»20.
Esso nasconde, sotto la supericie chiara delle parole, l’ombra di signii-
cati nascosti: la piega è il disvelamento del limite della logica discorsiva,
ne è non solo il rovesciamento, ma il vero e proprio “impensato”, inteso

16
M. Foucault, La pensée du dehors, cit., p. 548; trad. it. cit., p. 113.
17
M. Foucault, Les mots et les choses, Gallimard, Paris 1966, p. 309; trad. it. Le parole e
le cose, Rizzoli, Milano 1998, p. 320.
18
M. Foucault, Préface à la transgression (1963), in Dits et écrits I, cit., p. 265; trad. it.
Prefazione alla trasgressione, in Scritti letterari, cit., p. 59.
19
M. Blanchot, L’écriture du désastre, Gallimard, Paris 1980; trad. it. La scrittura del
disastro, Edizioni Sé, Milano 1990.
20
M. Foucault, Philosophie et psychologie (1965), in Dits et écrits I, cit., p. 471; trad. it.
Filosoia e psicologia, in Archivio Foucault 1, Feltrinelli, Milano 1996, p. 104.
130 Sandro Luce

non come ciò che si oppone al pensiero, ma come ciò che è stato scisso
dalla propria attitudine critica.
Paradigmatica di come il rapporto tra esperienza e linguaggio diven-
ga attivo, produttivo di nuovi signiicati, e trovi nella letteratura un mec-
canismo di raddoppiamento21, è l’opera di Raymond Roussel, unico tra
gli scrittori “maledetti” al quale Foucault abbia dedicato un intero saggio.
Un interesse suscitato dalla speciicità di un’opera letteraria, che fonda
la trasgressione del codice del linguaggio non sulla violazione delle sue
convenzioni e delle regole grammaticali, bensì sul loro rispetto e sulla loro
proliferazione. La follia di Roussel si traduce in una scrittura anormale nel
suo essere rigorosa: le regole del procédé non hanno alcun carattere repres-
sivo, ma tendono ai limiti il processo di signiicazione, fanno esplodere
qualsiasi unitarietà del linguaggio, scavando al suo interno lo spazio nec-
essario per esprimere nuovi ed originali signiicati22. Roussel fabbrica l’im-
possibile da pensare facendo ripiegare il linguaggio su se stesso, mostran-
done la doppiezza, la maschera, la doublure, «il vuoto che si apre all’interno
di una parola»23 che, anziché costituire una proprietà dei segni verbali, apre
lo spazio per signiicati eccedenti la relazione puramente rappresentativa
tra cose e parole. Si tratta di una prospettiva di profondità, che squarcia la
correlazione perpetua ed oggettivamente fondata tra visibile ed enuncia-
bile per dischiudere un “fuori”, che non si presenta nelle vesti di una pura
esteriorità, ma come ciò che si scava dentro, nelle trame del linguaggio,
nella rete inesauribile dei segni che si intrecciano in un rapporto ininito24.
Le macchine linguistiche di Roussel, come il corpo senza organi di Artaud,
o le perversioni di Sade rimandano ad una letteratura che, lungi dall’essere
una mera forma di espressione estetica, si presenta come spazio di espe-

21
M. Foucault, Linguaggio e letteratura, cit., p. 37: «la letteratura è un linguaggio unico,
ma contemporaneamente sottomesso alla legge del doppio».
22
Per comprendere la natura “artiiciale” e “combinatoria” delle sue opere, cfr.
R. Roussel, Comment j’ai écrit certains de mes livres, Pauvert, Paris 1963, in particolare
pp. 11-35.
23
M. Foucault, Raymond Roussel, Gallimard, Paris 1963, p. 28; trad. it. Raymond Roussel,
Ombre Corte, Verona 2001, p. 46.
24
Su questo punto si veda J. Revel, Vita altra, attitudine critica, sperimentazione, in
«Iride», vol. 25 (2012), n. 66, pp. 317-327, la quale individua una strategia delle differenze,
come presupposto di un fuori, contro il rischio di “riduzione al medesimo”, tuttavia
mette in guardia dalla possibilità che questa posizione possa essere considerata un’uscita
dalla storia e dai rapporti di potere.
La doublure di Foucault 131

rienza del pensiero, indisgiungibile dalla “vita vera”, intesa non solo nei ter-
mini di un vissuto esistenziale, ma nel senso prossimo a quello dei cinici,
di una vita scandalosa attraverso la quale manifestare la propria verità e
testimoniarla attraverso la scrittura. Come sottolinea Macherey, a proposi-
to dell’opera di Roussel, essa si presenta «come il luogo di emergenza di
una verità, non nel senso psicologico dell’uomo e della sua “malattia”, ma
in quello di una verità propriamente letteraria»25, una verità – aggiungerei
– dal potenziale sovversivo poiché capace di mettere in discussione, di dis-
ordinare l’ordine del signiicante padrone, smascherandone la doppiezza,
la sua irriducibilità al rapporto tra visibile e signiicato.

Il divenire etico

A questo punto, può risultare lecita una domanda: è possibile stabilire


una relazione tra questo Foucault e il Foucault ultimo, che si occupa dei
processi di soggettivazione etica e dei giochi di veridizione? E, soprattut-
to, come dare forza all’ipotesi di un “fuori” che non consista in una pura
esteriorità, impersonale e impolitica, ma si costituisca come piega che stria
lo spazio liscio del discorso egemone (chiaramente quello neoliberale)?
Come noto, Foucault intraprende negli anni settanta un’analisi gene-
alogica, che lo conduce a riconoscere nel nesso sapere-potere uno stru-
mento essenziale di analisi dei processi di assoggettamento, mentre il di-
scorso, lontano da qualsiasi connotazione letteraria, diviene un dispositi-
vo di produzione di verità26. Tuttavia già nella sua Préface à la transgression
afferma: «una ilosoia, la quale s’interroga sull’essere del limite, recuperi
una categoria come questa, è evidentemente uno degli ininiti segni che il
nostro cammino è una via di ritorno e noi stiamo tornando ogni giorno
più greci»27. Non si tratta certo di un annuncio programmatico rispetto alla
sua ricerca, ma, sulla scia di Nietzsche, egli ha presente, sin dagli anni ses-
santa, come i Greci rappresentino quella «distanza dalla quale la ilosoia

25
P. Macherey, À quoi pense la littérature? Exercice de philosophie littéraire, PUF, Paris
1990, p. 179. Dello stesso autore si confronti anche la prefazione a M. Foucault, Raymond
Roussel, Gallimard, Paris 1992.
26
Cfr. M. Foucault, L’ordre du discours, Gallimard, Paris 1971; trad. it. L’ordine del
discorso, Einaudi, Torino 1972.
27
M. Foucault, Préface à la transgression, cit., p. 267; trad. it. cit., p. 61.
132 Sandro Luce

ci parla»28. È in questa distanza che il lavoro di Foucault si insinua, com-


piendo una sorta di ripiegamento, una doublure all’interno del suo percorso
intellettuale, reso necessario dalla necessità di individuare processi di sog-
gettivazione attivi, in grado di sottrarsi alle dinamiche di assoggettamento
così come da lui descritte negli anni precedenti.
È stato Deleuze, nel suo lavoro dedicato a Foucault, a sottolineare
come gli esercizi di autogoverno della tradizione greca permettono una
duplice separazione: dal potere come rapporto di forze e dal sapere come
forma stratiicata, organizzando una fodera interna (doublure), metafora
della curvatura delle forze del fuori. Il soggetto, che nella lettura deleuzea-
na è pensato come un fascio di forze29, si costituisce solo perché in grado
di intrattenere un rapporto agonistico con le forze. Da una parte c’è un
rapporto a sé che deriva da una relazione con gli altri, dall’altra c’è un
rapporto a sé che assume una propria indipendenza, in ragione del piega-
mento dei rapporti del fuori, che vanno a «costituire un dentro che si scava
e si sviluppa secondo una direzione propria»30. Come sottolinea Deleuze
il problema di fronte al quale si trova Foucault dopo La volonté de savoir, e
che giustiica il suo lungo silenzio prima della pubblicazione de L’usage des
plaisirs e de Le souci de soi, è quello di «concepire un “potere della verità” che
non sia più “verità di potere”, che sia una verità che sorge dalle linee tra-
sversali di resistenza»31. La piega suggerisce quindi il carattere interstiziale,
la posizione di conine di una soggettività che, pur derivando dal potere e
dal sapere, tuttavia non ne dipende. Si viene così a delineare un soggetto
che è solo uno dei soggetti possibili, come una linea che taglia, attraversan-
do con modalità e percorsi variabili, il campo dei saperi e dei poteri. Una
soggettività nomade che non si costituisce nell’ordine dell’identità, ma in
un divenire senza ine e senza alcun telos, che, proprio in ragione di una
trasformazione permanente, si presenta come un divenire creativo. Una
possibilità dischiusa, secondo Deleuze, dall’apparire di nuove “forze del
fuori”, che non sono più legate alla “forma Dio” o alla “forma uomo”,
ossia le forme che caratterizzavano rispettivamente l’episteme classica e
quella moderna – ma al salto verso la biologia molecolare e al “inito illimi-
tato” che essa ha portato con sé, ossia all’ininito numero di combinazioni

28
Ivi, p. 270; trad. it. cit., p. 64.
29
Deleuze le deinisce come «un rapporto di affezione della forza con sé, un potere
di autoaffezione, un’affezione di sé attraverso sé»; cfr. G. Deleuze, Foucault, Les Éditions
de Minuit, Paris 1986, p. 108; trad. it. Foucault, Cronopio, Napoli 2002, p. 133.
30
Ivi, p. 107; trad. it. cit., p. 133.
31
Ivi, p. 101; trad. it. cit., p. 126.
La doublure di Foucault 133

alle quali è riconducibile ogni situazione di forza32. È l’odierna condizione


antropologica in cui il pensiero della initudine si apre verso un’illimitatez-
za certamente pericolosa, in quanto priva di direzionalità e dunque esposta a
qualsiasi deriva, ma anche condizione potenziale di mutamento e produttrice
di nuove forme.
Collocate in questa prospettiva, le ricerche sull’etica antica rispon-
dono certamente ad una necessità di ordine metodologico, che le pone
all’interno del programma di ricerca sulle forme di governo e sui rapporti
tra processi di soggettivazione e dire il vero su se stessi33. Ma derivano
soprattutto ad un’urgenza ilosoica e politica, che si esplicita nel tentativo
di delineare una distanza che il soggetto scava da se stesso (dêpendre de soi
même), dal suo essere soggetto assoggettato ai saperi e alle verità dominanti
per farne apparire la contingenza storica. Questo è il senso della proble-
matizzazione cui Foucault fa appello, rivendicando la speciicità del ruolo
e delle competenze dell’intellettuale34. Se l’allotropo empirico trascenden-
tale si è ritrovato impigliato nella doppia veste di fondatore e oggetto di
un discorso vero su di sé, solo striando lo spazio discorsivo e universa-
lizzante con contro-discorsi che fanno appello alle verità dei soggetti, si
ha la possibilità di preservare un’apertura, uno spazio dell’invenzione e
delle singolarità. Ed è in questo senso che l’esplorazione foucaultiana del
mondo antico trova il suo esito nel riferimento alla parrhesia, alla ilosoia
che si fa forma di vita, testimonianza e presa di parola rischiosa. Foucault,

32
Ivi, p. 140; trad. it. cit., p. 174. Deleuze ne parla in termini di «una superpiega, di cui
ci testimoniano i piegamenti propri delle catene del codice genetico, le potenzialità del silicio
nelle macchine della terza generazione, così come i contorni della frase nella letteratura
moderna allorché il linguaggio può solo ricurvarsi in un perpetuo ritorno su di sé».
33
Come sottolinea Foucault nel Corso che inaugura il suo lavoro sull’etica antica:
«ho operato due spostamenti successivi: uno andava dalla nozione di ideologia dominante
a quella di sapere-potere e ora un secondo spostamento che va dalla nozione di sapere-
potere alla nozione di governo attraverso la verità» (M. Foucault, Du gouvernment des vivants.
Cours au Collège de France. 1979-1980, Seuil/Gallimard, Paris 2012, p. 12; trad. it. Del Governo
dei viventi. Corso al Collège de France (1979-1980), Feltrinelli, Milano 2014, p. 23).
34
Sulla funzione dell’intellettuale, cfr. M. Foucault, L’intellectuel et les pouvoirs, in Dits
et écrits II, cit., pp. 1566-1571; Id., La fonction politique de l’intellectuel, ivi, pp. 109-114; Id.,
Le souci de la vérité, ivi, pp. 1487-1497. Questo tema è inscindibile dalla più ampia que-
stione della critica intesa, a partire da Kant, come «l’arte della disobbedienza volontaria,
dell’indocilità ragionata»; cfr. M. Foucault, Qu’est-ce que les Lumières?, ivi, pp. 1381-1397 e
1498-1507; trad. it. Che cos’è l’Illuminismo?, in Archivio Foucault 3, Feltrinelli, Milano 1998,
pp. 217-232 e 253-261.
134 Sandro Luce

nel sottolineare l’irriducibilità della parrhesia ad un atto enunciativo esclu-


sivamente performativo, sottolinea come: «essa determina una situazione
aperta, o piuttosto apre la situazione e rende possibile un certo numero di
effetti che non sono propriamente conosciuti. La parrhesia non produce un
effetto codiicato. Essa apre la possibilità di un rischio indeterminato»35.
Se si può ipotizzare una possibilità del divenire in Foucault, essa non
può prescindere da un processo di trasformazione personale, da una tra-
sigurazione esistenziale che conduce ad uno stile di vita, una techne tou biou,
che non teme lo scandalo. L’estetica dell’esistenza si raccorda, in modo
«lessibile e variabile», ad una “vita vera” attraverso un pratica di cura del
sé36: questo indica nella terminologia deleuziana, la possibilità dell’affezio-
ne di sé attraverso un continuo “piegamento” dell’esteriorità nell’interiori-
tà. Un piegamento che non è una prassi di interiorizzazione che ci riporta
alla coscienza, né è un atto egoistico che assorbe il “fuori” in un “dentro”
autoreferenziale. Si tratta piuttosto di un movimento che fa del “fuori”
la condizione di possibilità per un piegamento interiore, permettendo al
rapporto a sé di divenire principio di autoregolazione pur senza esprimere
alcun rapporto originario con la propria interiorità.
Mi pare signiicativo, anche rispetto a questa lettura, come la questione
etica, che nei corsi sul Le gouvernement de soi et des autres si combinava con l’a-
spetto politico intorno alla igura del parresiasta, venga radicalizzata nell’ul-
timo Corso tenuto al Collège de France37 e vada ad investire la vita e la
sua capacità di sopportare quelle verità, anche intollerabili, manifestate at-
traverso un certo modo di esistere. Di qui l’interesse per i Cinici la cui etica,
come osserva Frédéric Gros, è «una messa alla prova della vita attraverso
la verità»38. Si tratta di verità che, lontane da qualsiasi senso epistemico, e
dunque dalla dipendenza da un discorso che le racchiude nelle condizioni a

35
M. Foucault, Le gouvernement de soi et des autres. Cours au Collège de France. 1982-1983,
Seuil/Gallimard, Paris 2008, p. 60; trad. it. Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France
(1982-1983), Feltrinelli, Milano 2009, p. 67.
36
Si tratta di un aspetto che Foucault sviluppa a partire dal confronto tra l’Alcibiade
e il Lachete nella lezione del 29 febbraio 1984 in M. Foucault, Le courage de la vérité. Le
gouvernement de soi et des autres II. Cours au Collège de France. 1984, Gallimard, Paris 2009, in
particolare pp. 148-152.
37
Su questo tema si veda P. Cesaroni, Verità e vita . La ilosoia in “Il coraggio della verità”,
in Id. e S. Chignola (a cura di), La forza del vero. Un seminario sui Corsi di Michel Foucault al
Collège de France (1981-1984), Ombre Corte, Verona 2013, pp. 132-160.
38
F. Gros, La parrhêsia chez Foucault, in Id. (a cura di), Foucault, le courage de la vérité,
PUF, Paris 2002, p. 165.
La doublure di Foucault 135

priori che disciplinano il linguaggio, sono legate alla modalità dell’atto e al ri-
schio al quale espongono il soggetto: verità incarnate e singolari, seppure in
relazione con gli altri. La parrhesia dei cinici apre lo spazio all’irruzione di un
ingovernabile, a qualcosa che non occupa alcun posto nell’ordine esistente,
né ha alcun sapere da trasmettere in quanto non risponde ad alcun logos, ma
è essenzialmente ergon, vita e azione. È la vita, e il modo in cui viene condotta
e trasformata, a manifestare la verità, perché sospinta oltre il conine tra ciò
che è razionale e ciò che non lo è, perché eccedente rispetto a qualsiasi sen-
so comune, potremmo dire un’esperienza limite in cui la verità, totalmente
immanentizzata, si riduce ai suoi effetti, cioè all’esperienza di una vita altra.
Attraverso le pratiche etiche dei cinici Foucault ci fa scorgere la possibilità
di una critica del tutto immanente, che coincide con il suo sapersi fare realtà
e modo di essere. Un’attitudine teorica e pratica, che rende insopportabile e
scuote la realtà così come è, ponendo le condizioni per uno scarto rispetto
all’esistente che situa le soggettività attraverso un continuo movimento di
differenziazione. La possibilità di pensare un fuori ai dispositivi di assogget-
tamento su cui si struttura l’odierna razionalità governamentale, e quindi la
possibilità di offrire una resistenza ad essi, muove dalla capacità di “mobili-
tare” l’oggetto per eccellenza di questi discorsi di verità: la vita. Vivere una
“vita vera” (vraie vie) è da intendersi nei termini di una vita combattiva, di
una prassi dissidente, di una vita che fa scandalo perché rompe con l’ethos
condiviso e indifferenziato, appellandosi ad altre verità.
Manifestare, attraverso la nostra condotta, il disaccordo – che è anche
una distanza – nei confronti dei discorsi ai quali siamo assoggettati, è una
possibilità che abbiamo di aprire varchi al loro interno, perché, come Fou-
cault aveva compreso, essi non sono mai del tutto totalizzanti, non aderisco-
no mai completamente al tessuto sociale, in essi si insinuano spesso pieghe
che vanno scoperte e attraversate, per questo «oggi l’obiettivo principale non
è di scoprire che cosa siamo, ma piuttosto di riiutare quello che siamo»39.

Sandro Luce
Università degli Studi di Salerno
sluce@unisa.it

39
M. Foucault, Le sujet et le pouvoir, in Dits et écrits II, cit., p. 1051; trad. it. Il soggetto e il
potere, in H.L. Dreyfus e P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault. Analitica della verità e storia
del presente, Ponte alle Grazie, Firenze 1989, p. 244.
136 Sandro Luce

.
Foucault’s Doublure. The Thought from the “Outside” and the Practices of Truth

This essay focuses on the concept of “dehors” in Foucault’s thought. Through a


“circular” reading of Foucault’s works, the author shows the extensive persis-
tence of this concept from so-called “literary works” of the 1960s to the last
texts on ethics. The aim is to avoid interpretations stressing the impolitic and
impersonal dimension of “dehors”, in order to show how this concept represents,
conversely, a fold, immanent to the processes of subjectivation, and illed with
political sense.

Keywords: Dehors, Literature, Political Subjectivity, Ethics, Parresia, Truth,


Governmentality.
Foucault, la contro-condotta e l’atteggiamento critico
Daniele Lorenzini

Lo scopo di questo articolo è circoscritto ed estremamente preciso: si


tratta di mettere a fuoco il rapporto che è possibile istituire, nei lavori di
Michel Foucault, tra la nozione di “contro-condotta”, elaborata per la pri-
ma volta nel corso al Collège de France del 1977-1978, Sicurezza, territorio,
popolazione1, e poi rapidamente abbandonata, e la nozione di “atteggiamen-
to critico” (attitude critique), che emerge nella famosa conferenza Qu’est-ce
que la critique?, pronunciata da Foucault alla Société française de Philoso-
phie poco dopo la ine di quello stesso corso al Collège de France, il 27
maggio 19782.

Condurre, lasciarsi condurre, condursi

Il concetto di contro-condotta emerge, come correlativo di quello di


condotta, quando Foucault comincia a porre le basi per la sua analisi delle
pratiche di governo e della governamentalità, nei primi mesi del 1978. In
questo contesto, tuttavia, è innanzitutto la nozione di condotta ad essere
ilosoicamente cruciale, e non è un caso che essa rimanga al centro degli
interessi di Foucault sino alla ine della sua vita3: a partire dal 1978, infatti,
Foucault non smetterà più di rilettere – sebbene da prospettive sempre
diverse e speciiche – sul problema del governo, del governo degli altri ma
anche del governo di sé. È del 1980 la deinizione (o rideinizione) forse
più signiicativa del concetto di governo che si possa trovare in Foucault:

1
Cfr. M. Foucault, Sécurité, territoire, population. Cours au Collège de France. 1977-1978, a
cura di M. Senellart, Seuil/Gallimard, Paris 2004; trad. it. Sicurezza, territorio, popolazione.
Corso al Collège de France (1977-1978), a cura di P. Napoli, Feltrinelli, Milano 2005.
2
Cfr. M. Foucault, Qu’est-ce que la critique?, in Qu’est-ce que la critique? suivi de La culture
de soi, a cura di H.-P. Fruchaud e D. Lorenzini, Vrin, Paris 2015, pp. 33-70.
3
Si pensi, per esempio, al terzo paragrafo dell’introduzione all’Uso dei piaceri: M.
Foucault, Histoire de la sexualité II. L’usage des plaisirs, Gallimard, Paris 1984; trad. it. L’uso
dei piaceri. Storia della sessualità 2, a cura di L. Guarino, Feltrinelli, Milano 1984, pp. 30-37.

materiali foucaultiani, a. IV, n. 7-8, gennaio-dicembre 2015, pp. 137-147.


138 Daniele Lorenzini

il governo è il «punto di contatto tra il modo in cui gli individui sono


condotti dagli altri e il modo in cui conducono se stessi»4. La nozione di
contro-condotta è quindi caratterizzata sin dall’inizio da una sorta di “di-
pendenza teorica” nei confronti della nozione di condotta e, sebbene si
tratti di una nozione ilosoicamente molto ricca e interessante5, Foucault
non le attribuirà mai uno statuto concettuale autonomo.
Nella lezione del primo marzo 1978 di Sicurezza, territorio, popolazione,
Foucault deinisce la condotta come «uno degli elementi fondamentali in-
trodotti dal pastorato cristiano nella società occidentale», e propone di tra-
durre, con questo termine, ciò che i Padri greci chiamavano «economia
delle anime» (oikonomia psuchon), ovvero l’insieme delle tecniche e delle pro-
cedure che caratterizzano il pastorato in quanto arte di governare gli esseri
umani6. Il termine “condotta” sembra a Foucault particolarmente appro-
priato proprio a causa dell’ambiguità che lo contraddistingue: la condotta,
infatti, indica certo l’attività del condurre, ma anche il modo in cui gli indi-
vidui si conducono e il modo in cui si lasciano condurre. Questo termine
possiede quindi tre signiicati interconnessi, ma distinti: condurre qualcuno,
essere condotti (cioè lasciarsi condurre) da qualcuno, condursi. Così, in Foucault, la
condotta si pone esplicitamente, e sin dall’inizio, al contempo su un piano
politico e su un piano etico.
Anche nell’articolo Le sujet et le pouvoir, pubblicato nel 1982, Foucault
mostra chiaramente come la nozione di condotta (con la sua ambiguità)
sia di cruciale importanza nella deinizione del concetto stesso di governo:
governare signiica condurre la condotta degli individui, agendo sulle loro
possibilità di azione, strutturando il loro campo di azione eventuale7. Tale
deinizione del governo permette inoltre di precisare che esso si fonda
sempre sulla libertà degli individui: in altri termini, come spiega Foucault,
la libertà degli individui costituisce la «condizione di esistenza del potere»8,

4
M. Foucault, L’origine de l’herméneutique de soi. Conférences prononcées à Dartmouth College,
1980, a cura di H.-P. Fruchaud e D. Lorenzini, Vrin, Paris 2013, pp. 38-39; trad. it. mod.
Sull’origine dell’ermeneutica del sé, a cura di mf/materiali foucaultiani, Cronopio, Napoli 2012,
p. 40.
5
Cfr. A.I. Davidson, In Praise of Counter-Conduct, in «History of the Human Sciences»,
vol. 24 (2011), n. 4, pp. 25-41.
6
M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., pp. 143-144.
7
Cfr. M. Foucault, Le sujet et le pouvoir, in Dits et écrits II, 1976-1988, a cura di
D. Defert e F. Ewald, Gallimard, Paris 2001, p. 1056.
8
Ivi, p. 1057.
Foucault, la contro-condotta e l’atteggiamento critico 139

o meglio di questa forma speciica di potere che chiamiamo “governo” e


che non deve essere confusa né con lo stato di dominio, né con l’utilizzo
della forza bruta o con l’esercizio della coercizione pura e semplice. Il go-
verno – nel senso foucaultiano del termine – può essere esercitato soltanto
su soggetti liberi e soltanto nella misura in cui essi restano liberi, ovvero
mantengono aperto dinanzi a sé «un campo di possibilità ove molteplici
condotte […] possono realizzarsi»9.
Più precisamente, è possibile descrivere la dinamica complessa che
struttura il governo degli esseri umani come una tensione permanente tra le
tre dimensioni, o i tre sensi, del termine “condotta” evocati sopra – con-
durre qualcuno, essere condotti (cioè lasciarsi condurre) da qualcuno, condursi.
Si osserverà così che è la dimensione o il senso “intermedio” a giocare
un ruolo cruciale: tra le molteplici istanze che cercano di governare gli
individui e la possibilità che questi ultimi hanno di governare se stessi in
(relativa) autonomia, è proprio il fatto – o meglio la decisione, la volontà
– di essere condotti (cioè di lasciarci condurre) in questo modo speciico, da
questa istanza particolare, che deinisce e struttura il campo di esercizio
della libertà di ciascuno. Una libertà che, di conseguenza, non ha nulla di
metaisico, ma che al contrario è sempre contingente, puntuale e legata a
una speciica conigurazione dei rapporti di potere; e tuttavia, proprio per
questo, secondo Foucault essa possiede una forza di insoumission (di ribel-
lione, di renitenza, di resistenza) da non sottovalutare:

La relazione di potere e l’insoumission della libertà non possono quindi essere


separate. Il problema centrale del potere non è quello della “servitù volontaria”
(come è possibile desiderare di essere schiavi?): ciò che è al cuore della relazione
di potere, ciò che la “provoca” ininterrottamente, è la rétivité [l’essere recalcitran-
te, ribelle] del volere e l’intransitività della libertà10.

Che nome dare, allora, a questa rétivité del volere e a questa intransitivi-
tà (o a questa insoumission) della libertà? Che nome dare, in altri termini, al
riiuto di un individuo di essere condotto in questo o quel modo speciico?
In Sicurezza, territorio, popolazione, Foucault risponde a queste domande co-
niando la nozione di contro-condotta11.

9
Ivi, p. 1056.
10
Ivi, p. 1057.
11
M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 151.
140 Daniele Lorenzini

Una condotta “altra”

Foucault, nel suo corso al Collège de France del 1977-1978, dopo


aver analizzato in maniera dettagliata le caratteristiche di quello che ha
deinito “potere pastorale”, si interessa ai «punti di resistenza», alle «forme
di attacco e di contrattacco che si sono affermate proprio nel campo del
pastorato»12. È evidente già in questo corso (e lo sarà sempre più negli
anni successivi) come Foucault cerchi di dare al concetto di resistenza un
signiicato positivo, produttivo, e non semplicemente “negativo” o “reattivo”,
come alcune sue analisi della prima metà degli anni settanta sembravano
a tratti suggerire – nonostante Foucault avesse sempre tentato di evitarlo.
Nel quarto capitolo de La volontà di sapere, per esempio, Foucault aveva
scritto:

[L]à dove c’è potere c’è resistenza e […] tuttavia, o piuttosto proprio per
questo, essa non è mai in posizione di esteriorità rispetto al potere. […] [I rap-
porti di potere] non possono esistere che in funzione di una molteplicità di punti
di resistenza, i quali svolgono, nelle relazioni di potere, il ruolo di avversario, di
bersaglio, d’appoggio, di sporgenza per una presa. Questi punti di resistenza sono
presenti dappertutto nella trama del potere13.

Come Foucault ha ripetutamente spiegato in seguito, lo scopo di que-


ste affermazioni non era suggerire che siamo sempre e comunque dentro al
potere e che quindi è inutile anche solo tentare di resistergli, ma proprio il
contrario: dato che il potere è dappertutto, anche la resistenza può sorgere
ovunque, e dato che il potere funziona di solito in modo “relazionale”, c’è
e ci sarà sempre qualcosa che possiamo fare per resistere, cambiare, sov-
vertire una data relazione di potere.
A partire dal 1978, Foucault propone una radicale riformulazione del-
la coppia concettuale potere-resistenza, rideinendo il potere nei termini
del governo e la resistenza nei termini della soggettivazione. La prima ri-
deinizione, però, precede cronologicamente la seconda di almeno due anni,
e così, in Sicurezza, territorio, popolazione, il primo concetto che Foucault uti-

12
Ivi, p. 144.
13
M. Foucault, Histoire de la sexualité I. La volonté de savoir, Gallimard, Paris 1976; trad.
it. La volontà di sapere. Storia della sessualità 1, a cura di P. Pasquino e G. Procacci, Feltrinelli,
Milano 1978, pp. 84-85.
Foucault, la contro-condotta e l’atteggiamento critico 141

lizza per rideinire la resistenza nell’ambito della governamentalità è quello


di “contro-condotta”, funzionale a dare alla resistenza un signiicato espli-
citamente positivo e produttivo.
All’interno del pastorato cristiano, Foucault individua una serie di «ri-
volte speciiche di condotta», di movimenti che avevano come obiettivo
«un’altra condotta», di individui che hanno voluto «essere condotti in altro
modo [autrement], da altri conduttori, da altri pastori, per raggiungere altri
obiettivi e altre forme di salvezza, con altre procedure e altri metodi»14.
L’insistenza di Foucault sull’alterità che caratterizza tali rivolte di condotta
non è fortuita, e va interpretata come la chiara indicazione della sua con-
vinzione – rimasta intatta – secondo cui la resistenza non sorge mai dal
nulla, ma è sempre resistenza a qualcosa o a qualcuno. È per questo che
Foucault decide di coniare il termine “contro-condotta”, che a suo avviso
ha il grande vantaggio di mantenere il senso attivo della parola condot-
ta15 e, al contempo, di evitare il rischio di ricadere nell’idea tradizionale
di una Resistenza (con la R maiuscola) che si oppone al Potere (con la P
maiuscola). La contro-condotta implica quindi, da una parte, un potere
o un’istanza di tipo governamentale che cerca di condurre gli individui
in un modo speciico, e, dall’altra parte, un netto riiuto espresso da tutti
o da alcuni individui, con il conseguente tentativo di condursi (o di farsi
condurre) autrement.
Ora, sebbene Foucault utilizzi questa nozione innanzitutto e soprat-
tutto nella sua analisi delle lotte antipastorali medievali, è cruciale sottoli-
neare come la deinizione che egli ne dà sia ben più generale e lo coniguri
come uno strumento concettuale da applicare – potenzialmente – a molti
altri contesti storici.

Dalla contro-condotta all’atteggiamento critico

Foucault, tuttavia, abbandona quasi immediatamente il concetto di


contro-condotta, che non riemergerà più nei suoi scritti e nei suoi in-
terventi degli anni successivi. Perché? È naturale ipotizzare che questo
concetto non lo soddisfacesse, forse perché rischiava di essere percepito
ancora come troppo “interno” alle dinamiche governamentali, come un

14
M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., pp. 144-145.
15
Cfr. ivi, p. 151.
142 Daniele Lorenzini

semplice “dire no” destinato ad essere immediatamente riassorbito nelle


maglie del potere; o forse, al contrario, Foucault temeva che potesse essere
interpretato nel senso di un’opposizione binaria tra potere e resistenza,
come se si trattasse di due sostanze eterogenee, e non di due poli di una
medesima relazione. Ma poco importano, in fondo, le ragioni speciiche
di tale abbandono. L’essenziale è che il contenuto del concetto di contro-
condotta non viene in realtà ricusato da Foucault, ma è al contrario “tra-
sferito” tel quel in un altro concetto – quello di “atteggiamento critico”.
La conferenza Qu’est-ce que la critique?, pronunciata il 27 maggio 1978,
costituisce la prima grande elaborazione, da parte di Foucault, del tema
della critica, o meglio dell’atteggiamento critico (attitude critique) in quanto
atteggiamento speciico della civiltà (occidentale) moderna. Tuttavia, l’at-
teggiamento critico non è altro che una forma (o forse la forma) tipica-
mente moderna di contro-condotta. Non è vero invece il contrario, anche
se una lettura rapida e supericiale della conferenza potrebbe suggerirlo: la
contro-condotta non può essere considerata come una forma particolare,
tipicamente medievale, dell’atteggiamento critico, poiché Foucault lega in
modo estremamente preciso ed esclusivo il concetto stesso di atteggiamento
critico al «grande processo di governamentalizzazione della società [occi-
dentale]» prodottosi a partire dal XV-XVI secolo16.
Foucault afferma infatti chiaramente che l’atteggiamento critico
emerge in quanto contrepartie, partner e al contempo avversario dell’arte
di governare gli esseri umani nel corso della prima età moderna17. Certo,
quest’arte di governare era stata elaborata in precedenza dalla Chiesa nella
forma del potere pastorale, ma era rimasta a lungo legata a una serie di
pratiche relativamente limitate, ed è solo tra il XV e il XVI secolo che
essa si “laicizza”, distaccandosi dal contesto religioso, e si diffonde nella
società civile, moltiplicandosi e colonizzando svariati campi che vanno dal
governo dei bambini, dei poveri, dei mendicanti, a quello di una famiglia,
di una casa, dell’esercito, di una città o di uno Stato. Tuttavia, proprio
come all’arte pastorale della condotta sono state opposte, nel Medioevo,
diverse contro-condotte speciiche (l’ascetismo anacoretico, le comunità,
la mistica, la lettura diretta della Scrittura e la credenza escatologica18),
anche le arti “laiche” di governo hanno suscitato svariate reazioni, conte-

16
M. Foucault, Qu’est-ce que la critique?, cit., p. 41.
17
Cfr. ivi, p. 37.
18
Cfr. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., pp. 153-163.
Foucault, la contro-condotta e l’atteggiamento critico 143

stazioni, contro-condotte – potremmo dire –, che Foucault deinisce conian-


do precisamente la nozione di atteggiamento critico. Il problema che tale
atteggiamento critico solleva è però analogo a quello che Foucault aveva
individuato al cuore delle contro-condotte pastorali: non «come non esse-
re governati affatto», ma «come non essere governati così, in questo modo,
da questa istanza, in nome di questi principi, in vista di questi obiettivi
e attraverso questi procedimenti»19 – il “contro” delle contro-condotte è
richiamato dal “così” della deinizione foucaultiana dell’atteggiamento cri-
tico, per sottolineare in entrambi i casi la dimensione essenzialmente locale
e strategica di queste forme di resistenza20. L’atteggiamento critico è una
sorta di «forma culturale generale», un atteggiamento al contempo morale
e politico che consiste nell’arte di non essere governati in questo modo e
a questo prezzo – la critica, dunque, come «arte di non essere eccessiva-
mente governati»21.
Vale la pena sottolineare, qui, il carattere provocatorio, per non dire
rivoluzionario, di questa tesi di Foucault. In Qu’est-ce que la critique?, Fou-
cault sostiene che Kant, dopo aver elaborato il tema dell’atteggiamento
critico nel suo testo sull’Illuminismo, l’ha poi trascritto e stemperato, in un
certo senso, inscrivendolo all’interno della questione della critica episte-
mologico-trascendentale. Ebbene, Foucault ha intenzione di percorrere il
cammino inverso, operando così uno spostamento che lui stesso deinisce
indecente (dal punto di vista della ilosoia tradizionale): la domanda epi-
stemologico-trascendentale della prima Critica di Kant, “Che cosa posso
sapere?”, diviene nelle mani di Foucault una «questione di atteggiamento»,
e la critica risulta rideinita come «il movimento attraverso cui il soggetto
si attribuisce il diritto di interrogare la verità sui suoi effetti di potere e
il potere sui suoi discorsi di verità» – un movimento che mira al «disas-
soggettamento nel gioco della politica della verità»22. Tale spostamento
è frutto dell’opposizione del Kant delle Critiche a un altro Kant – al Kant
di un testo minore e marginale, che all’epoca era quasi del tutto ignorato
dai commentatori. Non dovremmo dimenticare né sottovalutare il valore
sovversivo di questa operazione.

19
M. Foucault, Qu’est-ce que la critique?, cit., p. 37.
20
Cfr. D. Lorenzini e A.I. Davidson, Introduction, in M. Foucault, Qu’est-ce que la
critique? suivi de La culture de soi, cit., p. 17.
21
M. Foucault, Qu’est-ce que la critique?, cit., p. 37.
22
Ivi, p. 39. Cfr. anche D. Lorenzini e A.I. Davidson, Introduction, cit., p. 15.
144 Daniele Lorenzini

Foucault, in Qu’est-ce que la critique?, trasferisce quindi il contenuto con-


cettuale del termine “contro-condotta” nella nozione di atteggiamento cri-
tico. Ma, così facendo, trasforma il signiicato e l’obiettivo delle sue analisi.
In effetti, nella conferenza alla Société française de Philosophie, Foucault
presenta (implicitamente) lo studio delle contro-condotte pastorali che ave-
va proposto qualche mese prima al Collège de France come una tappa della
genealogia dell’atteggiamento critico: non soltanto il primo «punto di an-
coraggio storico» di tale atteggiamento al quale si riferisce è il «ritorno alla
Scrittura»23, ma durante il dibattito Foucault evoca anche la mistica e afferma
che occorre ricercare l’origine storica dell’atteggiamento critico proprio nelle
lotte religiose della seconda metà del Medioevo24. Ciò non signiica, tuttavia,
che contro-condotta e atteggiamento critico possano essere considerati due
concetti interscambiabili: se l’atteggiamento critico è una forma speciica di
contro-condotta che emerge nell’Europa della prima età moderna, infatti,
non è vero l’inverso. Questi due concetti danno piuttosto luogo a due im-
prese, a due forme di analisi storico-ilosoica differenti.
Da una parte, l’atteggiamento critico, in quanto forma storicamente
speciica di resistenza ai meccanismi governamentali di potere – una forma
che, secondo Foucault, pur essendo nata diversi secoli or sono, è ancora
attuale –, dà luogo come già segnalato a un’inchiesta genealogica che, tuttavia,
lungi dall’arrestarsi alle lotte spirituali del Medioevo (come Foucault sembra
suggerire nel 1978), deve essere spinta ben più indietro nel tempo. L’analisi
foucaultiana della parrhesia antica, infatti, non è altro che un tassello di tale
genealogia, e Foucault ne è perfettamente cosciente. Nell’ultima lezione del
corso al Collège de France del 1982-1983, Il governo di sé e degli altri, egli af-
ferma esplicitamente che il testo di Kant sull’Illuminismo costituisce per
la ilosoia un modo di prendere in considerazione «quelli che erano, nel
mondo antico, i problemi tradizionali della parrhesia»25; e nell’autunno del
1983, a Berkeley, sostiene in modo ancora più chiaro che, «facendo l’analisi
della nozione di parrhesia», egli intende «abbozzare la genealogia di ciò che
potremmo chiamare l’atteggiamento critico nella nostra società»26.

23
M. Foucault, Qu’est-ce que la critique?, cit., pp. 37-38.
24
Cfr. ivi, pp. 59-60.
25
M. Foucault, Le gouvernement de soi et des autres. Cours au Collège de France. 1982-1983,
a cura di F. Gros, Seuil/Gallimard, Paris 2008; trad. it. Il governo di sé e degli altri. Corso al
Collège de France (1982-1983), a cura di M. Galzigna, Feltrinelli, Milano 2009, p. 333.
26
M. Foucault, Discours et vérité précédé de La parrêsia, a cura di H.-P. Fruchaud e
D. Lorenzini, Vrin, Paris 2016, p. 103.
Foucault, la contro-condotta e l’atteggiamento critico 145

D’altra parte, il concetto di contro-condotta sembra piuttosto poter


dare luogo a un’impresa che Foucault non ha mai intrapreso in modo si-
stematico, ma della quale ci ha lasciato svariati “frammenti” e che potrem-
mo deinire, riprendendo la sua idea di un «cinismo trans-storico» evocata
durante la lezione del 29 febbraio 1984 del corso al Collège de France Il
coraggio della verità, nei termini di uno studio della contro-condotta in quan-
to «categoria storica che attraversa, in forme diverse e con svariati scopi,
tutta la storia occidentale»27.

Conclusione

In ogni caso, è proprio grazie ai concetti di contro-condotta e di atteg-


giamento critico che Foucault comincia ad operare una rideinizione fon-
damentale del problema della resistenza, in un percorso che lo condurrà
inine, dopo alcune peripezie, all’elaborazione della questione della sogget-
tivazione in quanto (possible) pratica di resistenza. Più precisamente, è un
problema, una impasse dinanzi alla quale si trova in Qu’est-ce que la critique? a
contribuire in modo decisivo a tale sviluppo – impasse che costituisce forse
anche una delle ragioni per le quali Foucault decide di non correggere il
testo della conferenza inviatogli dalla Société française de Philosophie in
vista della sua pubblicazione. Si tratta, naturalmente, del problema della
volontà28.
In Sicurezza, territorio, popolazione, Foucault evoca la nozione di volon-
tà soltanto nella discussione dell’ascetismo anacoretico come forma di
contro-condotta vis-à-vis del campo di obbedienza generalizzata organiz-
zato dal monachesimo, il cui scopo sarebbe precisamente la negazione, la
soppressione, l’annientamento della volontà dell’individuo, di colui che è
diretto29 – e, a questo proposito, è signiicativo come, nel corso al Collège
de France del 1979-1980, Del governo dei viventi, Foucault sostenga al con-
trario che il meccanismo di obbedienza “pura” che caratterizza l’ascetismo
27
M. Foucault, Le courage de la vérité. Cours au Collège de France. 1984, a cura di F. Gros,
Seuil/Gallimard, Paris 2009; trad. it. Il coraggio della verità. Corso al Collège de France (1984), a
cura di M. Galzigna, Feltrinelli, Milano 2011, p. 172.
28
La mia rilessione su tale problema è debitrice di un dialogo ilosoico ricco e
stimolante con Arnold Davidson che dura ormai da molti anni, e per il quale lo ringrazio
di cuore.
29
Cfr. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 156.
146 Daniele Lorenzini

cenobitico non implichi la soppressione della volontà del diretto, che resta
intera e intatta, ma richieda l’identiicazione della sua volontà con quella
del direttore30. Anche in Qu’est-ce que la critique? Foucault tenta di evitare di
soffermarsi su tale nozione di volontà, senza tuttavia riuscirci del tutto.
Nella conclusione della conferenza, infatti, Foucault fa riferimento a una
«volontà decisoria di non essere governati»31 (così, in questo modo, da
queste istanze, a questo prezzo), e nella discussione ammette che è neces-
sario, in un certo senso inevitabile, porre il problema della volontà, «tanto
nella sua forma individuale quanto nella sua forma collettiva» – il proble-
ma di cosa sia questa volontà di non essere governati così. Un problema
che, spiega, «ho tentato di evitare il più a lungo possibile», a causa della
sua dificoltà, della sua delicatezza, ma soprattutto a causa dei presuppo-
sti che lo accompagnano e che derivano da più di duemila anni di storia
della ilosoia occidentale32. Problema fondamentale, tuttavia, specie se ci
rendiamo conto che i meccanismi governamentali di potere agiscono sulla
base di e grazie alla libertà degli individui – e dunque sulla base di e grazie
a un “Io voglio” originario e reiterato ad ogni istante, sebbene in maniera
spesso implicita.
Di conseguenza, l’atteggiamento critico in quanto forma moderna di
contro-condotta, in quanto resistenza anti-governamentale, si fonda sulla
possibilità di dire “Non voglio più” (essere governato, diretto, condotto
così), una possibilità che a sua volta deve essere resa visibile – ed è questo
in fondo lo scopo delle analisi storico-ilosoiche di Foucault. Tuttavia,
questa volontà di non essere governati così non va interpretata alla luce di
una concezione ilosoica tradizionale della volontà: non si tratta né di un
concetto metaisico, né di un concetto giuridico, ma di un concetto essen-
zialmente strategico, e per evitare ogni possibile confusione converrebbe
forse parlare, piuttosto, di “decisione”, di “sforzo”, di “messa alla prova”,
di “assunzione di rischio” o di “coraggio” (termini che Foucault stesso
utilizzerà nei propri lavori degli anni ottanta) all’interno di una conigura-
zione sempre speciica di rapporti di forza e pratiche di governo.

30
Cfr. M. Foucault, Du gouvernement des vivants. Cours au Collège de France. 1979-1980,
a cura di M. Senellart, Seuil/Gallimard, Paris 2012; trad. it. Del governo dei viventi. Corso al
Collège de France (1979-1980), a cura di D. Borca e P.A. Rovatti, Feltrinelli, Milano 2014,
pp. 232-233.
31
M. Foucault, Qu’est-ce que la critique?, cit., p. 58.
32
Ivi, p. 66.
Foucault, la contro-condotta e l’atteggiamento critico 147

Ciò non toglie che l’elaborazione foucaultiana, nel 1978, dei temi della
contro-condotta e dell’atteggiamento critico apra uno spazio inedito – lo
spazio dell’etica – al cuore stesso di un’analisi che è e resterà sempre politi-
ca33. La resistenza, rideinita nei termini di una condotta o di un atteggiamento,
al contempo morale e politico, che l’individuo mette in atto volontaria-
mente, coraggiosamente, dinanzi a una speciica istanza governamentale
che pretende di condurlo e per cercare al contrario di condursi autrement,
la resistenza così rideinita punta già chiaramente in direzione del valore
politico che Foucault, negli anni ottanta, attribuirà ai processi di soggetti-
vazione, ovvero di strutturazione, di creazione di un certo rapporto di sé
con sé come modalità cruciale di opposizione all’assoggettamento – alla
costituzione di sé nella forma di un soggetto assoggettato, mero ingranag-
gio dei meccanismi governamentali di potere34.

Daniele Lorenzini
Université Paris-Est Créteil
d.lorenzini@email.com

.
Foucault, Counter-Conduct, and Critical Attitude

The main objective of this article is to explore the relationship between the
notions of “counter-conduct” and of “critical attitude” in Michel Foucault’s
thought, and to show how the elaboration of these two concepts, in 1978, opens
at the very heart of his political analyses the space of ethics. It is indeed thanks to
the notions of counter-conduct and critical attitude that Foucault accomplishes
the irst, signiicant redeinition of the problem of resistance, thus inaugurating
a path which will eventually lead him, in the eighties, to study the issue of subjec-
tivation as a (possible) practice of freedom.

Keywords: Critical Attitude, Counter-Conduct, Will, Governmentality, Michel


Foucault, Subjection, Subjectivation.

33
Cfr. D. Lorenzini, Éthique et politique de nous-mêmes. À partir de Michel Foucault et
Stanley Cavell, in D. Lorenzini, A. Revel e A. Sforzini (a cura di), Michel Foucault: éthique et
vérité, 1980-1984, Vrin, Paris 2013, pp. 239-254.
34
Cfr. A.I. Davidson, Dall’assoggettamento alla soggettivazione: Michel Foucault e la storia
della sessualità, in «aut aut», n. 331 (2006), pp. 3-10.
Foucault e la questione dell’ideologia
Orazio Irrera

Nella lezione del 30 gennaio del suo Corso del 1980 al Collège de
France Du gouvernement des vivants, Foucault ribadisce il suo riiuto di
analizzare «il pensiero, il comportamento e il sapere degli uomini» nei
termini di un’analisi ideologica, aggiungendo che, praticamente ogni
anno, durante ogni suo corso, è ritornato su questa esigenza di distin-
guere il suo modo di procedere da una prospettiva basata sull’ideolo-
gia, operando ogni volta un piccolo spostamento per conferire alla sua
critica nuove forme di intelligibilità1. Perché tutta questa insistenza nel
respingere così sistematicamente la nozione di ideologia, soprattutto
quella elaborata dal marxismo althusseriano? Proprio il fatto di aver
reiterato così a lungo questa esigenza la rende forse una sorta di Ver-
neinung che lascia apparire nella iligrana dei suoi libri, dei suoi scritti,
dei suoi corsi e delle sue interviste un percorso sotterraneo fatto di di-
versi momenti e differenti angoli di attacco nei confronti della nozione
di ideologia. In questo contributo ci si soffermerà in primo luogo su
alcuni punti salienti relativi a questa critica soprattutto in riferimento
alla concezione althusseriana dell’ideologia e al paradigma storiograi-
co della storia delle mentalità. Successivamente, si prenderà in esame
l’ipotesi che una prospettiva basata sulla norma come quella di Fou-
cault non sia per forza in disaccordo con una teoria più soisticata
dell’ideologia, come quella recentemente proposta da Pierre Macherey
attraverso il concetto di «infra-ideologia». Inine, si veriicherà come,
negli ultimi corsi al Collège de France, i tentativi di smarcarsi da un’a-
nalisi ideologica conducano Foucault a formulare la sua concezione dei
rapporti tra verità, soggettività e critica all’interno del suo progetto di
una genealogia del soggetto occidentale.

1
M. Foucault, Du gouvernement des vivants. Cours au Collège de France. 1979-1980, a cura
di M. Senellart, Seuil/Gallimard, Paris 2012, pp. 74-75; trad. it. Del governo dei viventi. Corso
al Collège de France (1979-1980), Feltrinelli, Milano 2014, pp. 83-84.

materiali foucaultiani, a. IV, n. 7-8, gennaio-dicembre 2015, pp. 149-172.


150 Orazio Irrera

La critica alla concezione althusseriana dell’ideologia e al paradigma della storia delle mentalità

Il confronto con Althusser si presenta da subito di dificile lettura, visto


che proprio mentre Foucault alla ine degli anni sessanta (come ne L’archeologia
del sapere e in altre interviste dello stesso periodo) esponeva le sue critiche alla
formulazione althusseriana della nozione di ideologia, concentrandosi in par-
ticolare, nei testi raccolti nel suo Pour Marx (1966), sulla «coupure épistémologique»
che opponeva scienza e ideologia, lo stesso Althusser, nello stesso momento,
rielaborava consistentemente la sua concezione, dando alle stampe nel 1970,
il celebre testo «Ideologia e apparati ideologici di Stato»2. A partire da que-
sto momento, da un lato, come è stato recentemente notato da Étienne Ba-
libar, Althusser avrebbe maggiormente politicizzato il rapporto dell’ideologia
con la storia, attenuando le rigidità che derivavano da un approccio troppo
“scientista”3, mentre dall’altro lato, come è noto, sullo sfondo di una distin-
zione tra apparato repressivo di Stato e apparati ideologici di Stato, avrebbe
offerto, pur nella sua frammentarietà e problematicità, una teoria dell’ideologia
volta a spiegare la riproduzione delle condizioni di produzione. Quest’ulti-
ma avrebbe tenuto assieme alcune tesi non facilmente suturabili tra loro: l’i-
deologia non ha storia; l’ideologia rappresenta il rapporto immaginario degli
individui con le loro reali condizioni di esistenza; l’ideologia ha un’esistenza
materiale; l’ideologia interpella gli individui come soggetti4.

2
M. Foucault, L’archéologie du savoir, Gallimard, Paris 1969; trad. it. L’archeologia del
sapere, Rizzoli, Milano 1980; L. Althusser, Pour Marx, Maspero, Paris 1965; trad. it. Per
Marx, Editori Riuniti, Roma 1967; L. Althusser, Idéologie et appareils idéologiques d’État
(1970), in Positions, Éditions Sociales, Paris 1976, pp. 67-125; trad. it. Ideologie e apparati
ideologici di Stato, in «Critica marxista», settembre-ottobre 1970, pp. 23-65. Cfr. anche
D. Lecourt, Pour une critique de l’épistémologie: Bachelard, Canguilhem, Foucault, Maspero,
Paris 1974; F. Raimondi, Il custode del vuoto. Contingenza e ideologia nel materialismo radicale
di Louis Althusser, Ombre Corte, Verona 2011.
3
É. Balibar, Lettre à l’éditeur du cours, in M. Foucault, Théorie et institutions pénales.
Cours au Collège de France. 1971-1972, a cura di B.E. Harcourt, Seuil/Gallimard, Paris
2015, pp. 285-289.
4
Cfr. L. Althusser, Ideologie e apparati ideologici di Stato, cit., passim. Sulle dificoltà
nell’opera di Althusser, cfr. W. Montag, “The Soul Is the Prison of the Body”: Althusser and
Foucault, 1970-1975, in «Yale French Studies», n. 88 (1995), pp. 53-77, articolo ripreso
e rielaborato apparso col titolo Althusser and Foucault: Apparatuses of Subjection, in Id.,
Althusser and His Contemporaries. Philosophy’s Perpetual War, Duke University Press, Durham
2013, pp. 141-170; F. Raimondi, Il custode del vuoto, cit., pp. 80-150; D. Melegari, Due fratelli
silenziosi. Althusser, Foucault al bivio dell’ideologia, in «Scienza & Politica. Per una storia delle
dottrine», vol. XXVI (2014), n. 50, pp. 137-159.
Foucault e la questione dell’ideologia 151

Tale spostamento avrebbe successivamente indotto Foucault a modiicare


l’oggetto della propria critica: non si trattava più infatti di mostrare che dal punto
di vista del sapere, l’ideologia e la scienza potevano funzionare l’una accanto
all’altra, lungo le diverse soglie di scientiicità che un discorso deve oltrepassare
per costituirsi come scienza5. Come si può ricostruire soprattutto dai Corsi pro-
nunciati al Collège de France tra il 1970 e il 1973 (Leçons sur la volonté de savoir, Théo-
ries et institutions pénales e La société punitive), così come dalle conferenze che ripren-
dono le ricerche esposte in questi corsi (La vérité et les formes juridiques), Foucault
critica la distinzione tra un apparato repressivo (che funziona prevalentemente
tramite il potere muto della violenza) e gli apparati ideologici (che funzionano
invece in base all’ideologia e alle sue giustiicazioni), mostrando come in realtà
«ogni punto di esercizio del potere costituisce nello stesso tempo lo spazio di
formazione, non dell’ideologia ma del sapere, e in compenso ogni sapere costi-
tuito permette e assicura l’esercizio di un potere»6. Tutto questo segnala, nel sol-
co di Nietzsche, un rovesciamento di prospettiva e implica in primo luogo che
il soggetto non si costituisce mediante la sua inscrizione all’interno di un ordine
simbolico, secondo un’istanza che lo forza contemporaneamente a riconoscersi
come tale e a misconoscere il processo della sua stessa costituzione, ma in base
all’«estrazione, l’appropriazione, la distribuzione o la issazione di un sapere» che
si sono storicamente formati in Occidente all’interno di alcune matrici giuridico-
politiche legate a una volontà di verità, ovvero come meccanismi che permet-
tono la creazione di una scena in cui la verità si deve manifestare7. In secondo

5
Cfr. D. Lecourt, Pour une critique de l’épistémologie: Bachelard, Canguilhem, Foucault, cit.;
J.-F. Braunstein, Bachelard, Canguilhem, Foucault. Le “style français” en épistémologie, in P. Wagner
(a cura di), Les philosophes et la science, Gallimard, Paris 2002, pp. 920-963; P. Cassous-
Noguès e P. Gillot (a cura di), Le concept, le sujet, la science. Cavaillès, Canguilhem, Foucault, Vrin,
Paris 2009; L. Paltrinieri, L’expérience du concept. Michel Foucault entre épistémologie et histoire,
Publications de la Sorbonne, Paris 2012; A. Ryder, Foucault and Althusser: Epistemological
Differences with Political Effects, in «Foucault Studies», n. 16 (2013), pp. 134-153.
6
M. Foucault, La société punitive. Cours au Collège de France. 1972-1973, a cura di B.E.
Harcourt, Seuil/Gallimard, Paris 2013, p. 237; cfr. anche Id., Théories et institutions pénales,
cit., pp. 197-227; Id., La vérité et les formes juridiques, in Dits et écrits I, 1954-1975, Gallimard,
Paris 2001, pp. 1406-1514 (in part. pp. 1420-1421); trad. it. La verità e le forme giuridiche, in
Archivio Foucault 2. Poteri, saperi, strategie, a cura di A. Dal Lago, Feltrinelli, Milano 1997,
pp. 83-165. Su questo punto si veda anche la ricostruzione di M. Senellart, Situation
du cours, in M. Foucault, Du gouvernement des vivants, cit., pp. 323-350, in particolare cfr.
pp. 337-341; trad. it. Nota del curatore, in M. Foucault, Del governo dei viventi, cit., pp. 340-342.
7
M. Foucault, Théories et institutions pénales, cit., p. 233. Cfr. anche Id., Leçons sur la volonté
de savoir. Cours au Collège de France. 1970-1971, a cura di D. Defert, Seuil/Gallimard, Paris 2011;
trad. it. Lezioni sulla volontà di sapere. Corso al Collège de France (1970-1971), Feltrinelli, Milano 2015.
152 Orazio Irrera

luogo, questa estrazione di sapere, che costituisce il soggetto attraverso le


pratiche della misura, dell’inchiesta, dell’esame e della confessione che
aprono così la strada alla costituzione delle scienze umane, non pre-
suppone una disponibilità ontologica da parte del soggetto a parlare o
a riconoscersi liberamente come tale, ma ha come propria condizione
di possibilità una presa sul corpo degli individui, che Foucault esamina
sia all’interno di una genealogia delle teorie e delle istituzioni penali,
sia all’interno dei processi che costringono gli individui a essere issati,
nell’apparato di produzione, in una società disciplinare o di norma-
lizzazione (normalizzati attraverso una serie di dispositivi disciplinari:
ospedali, manicomi, prigioni, ecc.).
Dal canto suo, Althusser, alla ine degli anni settanta, sosteneva di
non aver mai escluso dalla sua concezione della materialità dell’ideo-
logia il fatto che essa, per produrre i propri effetti, dovesse aver presa
sui corpi, affermando che le ideologie «hanno sempre un rapporto con
la pratica, [e] ispirano sempre un certo sistema di giudizi e di attitudini
pratiche, [pertanto] bisogna comprenderle nella loro attività di corpi,
dunque anche nei corpi. Sì, le ideologie hanno dei corpi, da cui emanano, così
come poggiano su dei corpi», aggiungendo signiicativamente in nota: «Fou-
cault l’ha mostrato bene, ma con un linguaggio teorico diverso che evi-
ta di porre il problema dello Stato e, dunque, degli Apparati ideologici
di Stato e, dunque, dell’ideologia»8. Resta tuttavia uno scarto dificile
da colmare tra il modo di pensare il soggetto nella scena althusseriana
dell’interpellazione (l’inscrizione nell’ordine simbolico del linguaggio e
della Legge) e la pratica più generale di estrazione del sapere che per
Foucault caratterizza la genealogia del moderno soggetto occidentale,
ovvero la confessione – intesa più precisamente come «un atto verbale
attraverso cui il soggetto fa un’affermazione su ciò che egli è, si lega a
questa verità, si colloca in un rapporto di dipendenza nei confronti di
altri, e modiica allo stesso tempo il rapporto che ha con se stesso»9.

8
L. Althusser, Que faire?, 1978, manoscritto inedito, p. 10, citato in F. Raimondi, Il
custode del vuoto, cit., p. 177. Su questo punto, cfr. anche W. Montag, Althusser and Foucault:
Apparatuses of Subjection, cit., pp. 155ss.
9
M. Foucault, Mal faire, dire vrai. Fonction de l’aveu en justice. Cours de Louvain, 1981,
a cura di F. Brion e B.E. Harcourt, Presses universitaires de Louvain, Louvain 2012,
p. 7; trad. it. Mal fare, dir vero. Funzione della confessione nella giustizia. Corso di Lovanio (1981),
Einaudi, Torino 2013, p. 9.
Foucault e la questione dell’ideologia 153

Nondimeno, resterebbe riduttivo pensare che il riiuto della nozione


di ideologia da parte di Foucault riguardi solo il suo tentativo di smarcarsi
da Althusser e da un certo marxismo. Infatti, bisogna anche considerare
in che modo, attraverso la critica dell’ideologia, Foucault cerchi pure di
distinguersi dal paradigma storiograico noto con il nome di storia delle
mentalità, e sul ruolo che in esso giocherebbe l’ideologia in quanto sistema
di rappresentazioni associato a certe categorie di percezione, sensibilità,
espressione e certe forme di concettualizzazione che in una determinata
epoca si tengono assieme in un quadro suficientemente coerente, in una
sorta di universo mentale collettivo10. Secondo questo paradigma, come
ammoniva Lucien Febvre, ritenuto insieme a Marc Bloch uno dei suoi
iniziatori, lo storico, per spiegare la complessità dei processi storici e acce-
dere alla mentalità collettiva di un’epoca, deve innanzitutto situarsi «nella
coscienza degli uomini che vivono in società»11. È esattamente questo as-
sunto che Foucault – dopo i primi malintesi che portarono storici come
Robert Mandrou e Fernand Braudel a salutare la Storia della follia come un
importante contributo alla storia delle mentalità12 – cerca di respingere e,
a partire dagli anni settanta, comincia a far sue le critiche che uno storico
come Paul Veyne, con cui avrebbe avuto un’intensa e duratura collabora-
zione, indirizzava già da tempo ai modelli di spiegazione causali che im-
plicavano l’ideologia e le mentalità, ovvero il primato della coscienza (col-
lettiva) e del vissuto, cui gli storici della mentalità facevano riferimento13.

10
F. Hulak, Michel Foucault, la philosophie et les sciences humaines: jusqu’où l’histoire peut-elle
être foucaldienne?, in «Tracés. Revue de Sciences humaines», n. 13 (2013); J. Revel, Machines,
stratégies, conduites: ce qu’entendent les historiens, in Au risque de Foucault, Éditions du Centre
Georges Pompidou, Paris 1997, pp. 109-128; J. Le Goff, Foucault et la nouvelle histoire, in Au
risque de Foucault, cit., pp. 129-141; L. Paltrinieri, L’expérience du concept, cit., pp. 168-181.
11
L. Febvre, Projet d’enseignement pour le Collège de France, Paris 1928, citato in
A. Burguières, La notion de “mentalité” chez Marc Bloch et Lucien Febvre: deux conceptions, deux
iliations, in «Revue de synthèse», n. 111-112 (1983), p. 340 ; J. Le Goff, Les mentalités:
une histoire ambiguë, in J. Le Goff e P. Nora (a cura di), Faire l’histoire, vol. III, Nouveaux
Objets, Gallimard, Paris 1974; J. Revel, Mentalités, in A. Burguières (a cura di), Dictionnaire
des sciences historiques, PUF, Paris 1986, pp. 450-456.
12
Si vedano i testi raccolti in Histoire de la folie à l’âge classique de Michel Foucault.
Regards critiques, 1961-2011, IMEC Éditions/Presses universitaires de Caen, Caen 2011;
J. Revel, Le moment historiographique, in L. Giard (a cura di), Foucault. Lire l’œuvre, Jérôme
Million, Grenoble 1992, pp. 83-96; A. Farge, Michel Foucault et les historiens: le malentendu, in
«L’Histoire», n. 154 (1992), pp. 74-76.
13
P. Veyne, Comment on écrit l’histoire, Seuil, Paris 1971, in part. pp. 119-138; Id.,
L’idéologie selon Marx et selon Nietzsche, in «Diogène», n. 99 (1977), pp. 93-115.
154 Orazio Irrera

Nell’ultima parte di questo contributo, torneremo a vedere come Foucault


elabori tale questione, agganciandola a una più ampia problematizzazione
dei rapporti tra soggettività, verità e potere.
In ogni caso, se Paul Veyne invitava piuttosto a privilegiare la di-
mensione delle pratiche, portando il modo di procedere di Foucault
stesso come esempio14, quest’ultimo dal canto suo, nella lezione inau-
gurale del Corso del 1982-1983, Le gouvernement de soi et des autres, pur
distinguendo la storia delle mentalità e una storia delle rappresentazio-
ni, ribadisce di volersi smarcare da questi «due metodi» in cui, implici-
tamente o esplicitamente, si ha a che fare con l’ideologia o con le sue
funzioni di trasposizione (traduzione, rilesso, espressione), giustiica-
zione, mascheramento:

Volevo smarcarmi da due metodi […], anzitutto da ciò che si […] chiama
storia delle mentalità e che sarebbe […] una storia situata su un asse che va dall’a-
nalisi dei comportamenti effettivi alle espressioni che possono accompagnare
questi comportamenti, sia che questi li precedano, sia che li seguano, sia che li
traducano, sia che li prescrivano, sia che li mascherino, sia che li giustiichino, ecc..
D’altra parte, volevo anche smarcarmi da ciò che si potrebbe chiamare una storia
delle rappresentazioni o dei sistemi rappresentativi, cioè una storia che avrebbe,
che potrebbe avere, che può avere due obiettivi. Il primo sarebbe l’analisi […]
del ruolo che possono giocare le rappresentazioni sia in rapporto all’oggetto rap-
presentato, sia in rapporto al soggetto che le rappresenta: un’analisi, diciamo,
che sarebbe l’analisi delle ideologie. E poi […] l’analisi delle rappresentazioni in
funzione di una conoscenza – di un contenuto di conoscenza o di una regola, di
una forma di conoscenza – considerata come criterio di verità15.

A questi due metodi Foucault contrappone il proprio, quello di una


«storia del pensiero», ovvero un’analisi dei «campi di esperienza» in cui si
articolano tra loro «le forme di un sapere possibile, le matrici normative di
comportamento e dei modi virtuali di esistenza per dei possibili soggetti»16.

14
P. Veyne, Foucault révolutionne l’histoire, in Comment on écrit l’histoire, cit., seconda
edizione, 1978, pp. 201-242; trad. it. Foucault rivoluziona la storia, in P. Veyne, Michel Foucault.
La storia, il nichilismo e la morale, Ombre Corte, Verona 1998, pp. 7-65.
15
M. Foucault, Le gouvernement de soi et des autres. Cours au Collège de France. 1982-1983,
a cura di F. Gros, Seuil/Gallimard, Paris 2008, p. 4; trad. it. Il governo di sé e degli altri. Corso
al Collège de France (1982-1983), Feltrinelli, Milano 2009, p. 12.
16
M. Foucault, Le gouvernement de soi et des autres, cit., pp. 4-5 (trad. it. cit., pp. 12-13).
Foucault e la questione dell’ideologia 155

La norma e l’ideologia sono tra loro conciliabili? L’infra-ideologia di Pierre Macherey

Nonostante tutte queste critiche che Foucault rivolge alla nozione di


ideologia, recentemente non sono mancati tentativi volti a rendere com-
patibili la prospettiva foucaultiana sulla normalizzazione e quella althus-
seriana sull’ideologia. In questo senso, il libro di Pierre Macherey, Le sujet
des normes, segna uno dei tentativi più degni di nota, proponendo di rifon-
dare l’ideologia attraverso una sua «rimaterializzazione» riferita all’insie-
me di pratiche alle quali essa rinvia17. Questo tentativo approda a forgiare
una teoria più soisticata dell’ideologia, designata col termine di «infra-
ideologia». Lungi da ogni cedimento di fronte ai ritornelli a lungo ripetuti
all’epoca delle democrazie neoliberali, che dall’alto del loro pragmatismo
tecnocratico sulla «ine delle ideologie» affermano che le ideologie, in
quanto tali, non orienterebbero più la condotta degli individui – viene al
contrario osservato come, nella società delle norme in cui viviamo, l’ide-
ologia resta comunque un concetto indispensabile per spiegare come le
norme fabbrichino il sociale attraverso certi processi di soggettivazione/
assoggettamento.
L’azione strutturante delle norme prevede infatti non solo una pre-
sa sui corpi (tanto individuali quanto collettivi), ma anche la produzio-
ne di un effetto di illusione, che tuttavia rimane immanente rispetto al
campo di intervento della norma stessa. Ma la funzione di questa forma
di ideologia non è più quella di produrre, per così dire “positivamente”,
rappresentazioni della realtà alle quali si dovrebbe aderire prendendo di-
rettamente posizione a favore o contro determinate idee. L’ideologia di
cui parla Macherey non giunge né alla formulazione di una giustiicazione,
né all’elaborazione di una razionalizzazione dell’ordine esistente. L’infra-
ideologia cerca semmai di occultare il funzionamento delle norme e il loro
carattere storico (e contingente), facendo retrocedere sullo sfondo la loro
razionalità governamentale intrinseca, al ine di trasformare le istanze di
una società di normalizzazione in qualcosa di necessario ed evidente, ov-
vero in una «seconda natura» che si basa su automatismi che aggirano il
piano delle rappresentazioni coscienti. È attraverso questa via che Mache-
rey giunge all’idea che in fondo non vi sia una vera contraddizione tra la
norma e l’ideologia, nonostante la difidenza che Foucault ha riservato

17
P. Macherey, Le sujet des normes, Éditions Amsterdam, Paris 2014. La traduzione dei
brani successivamente riportati è nostra.
156 Orazio Irrera

a questa nozione: «se ci si sofferma a osservare al di là delle parole, ci


si accorgerà che quel che Althusser intende tramite la denominazione di
“ideologia in generale” presenta un certo numero di punti comuni a ciò
che Foucault, dal canto suo, cercava di pensare con il concetto di norma,
che, al pari dell’ideologia per Althusser, gli serve a designare un processo
di assoggettamento»18.
Per cogliere più esattamente questa convergenza (certo, non si tratta
mai di una corrispondenza esatta, in quanto lo stesso Macherey sotto-
linea come l’ideologia in Althusser e la norma per Foucault non siano
interamente sovrapponibili), bisogna preliminarmente osservare che en-
trambi cercano di liberarsi, oltrepassandola, di una concezione negativa (o
difettiva) dell’ideologia che «si deinisce per quello che non è […], per la
distanza che essa mantiene rispetto al reale e alla sua materialità, ciò che fa
di essa un tessuto di illusioni […]: in questa prospettiva, l’ideologia che si
limita a “rilettere” qualcosa, non partecipa in modo effettivo al processo
di produzione sociale di cui viene pertanto fornita, retrospettivamente,
solo una visione capovolta, mistiicata, immaginaria che maschera i pro-
blemi reali»19. Tuttavia, se Foucault riiuta non soltanto questa accezione
negativa dell’ideologia, ma anche il semplice ricorso a questo termine, Ma-
cherey nota invece come Althusser proponga, al contrario, di continuare
a utilizzare la nozione di ideologia in vista di una sua ri-materializzazione,
concependola quindi «come agente effettivo del processo della riprodu-
zione sociale». A questo scopo, da una parte, si tratta di abbandonare «una
concezione puramente rappresentativa dell’ideologia» intesa come «siste-
ma di idee», «concezione del mondo», o ancora «concatenamento di rap-
presentazioni; mentre, dall’altra parte, si deve invece respingere «il ruolo
semplicemente reattivo e repressivo che la mantiene a rimorchio del reale
e ne conferma il carattere improduttivo»20.
Come è noto, prima di avanzare la tesi dell’esistenza materiale dell’i-
deologia, Althusser teneva a precisare che al cuore e al principio di ogni
rappresentazione ideologica non vi sono solamente delle concezioni del
mondo, ma anche e soprattutto il rapporto immaginario degli individui ri-
spetto alle loro reali condizioni di esistenza21. Macherey si interroga allora

18
Ivi, p. 57.
19
Ivi, p. 52.
20
Ibidem.
21
L. Althusser, Idéologie et appareils idéologiques d’État, cit., pp. 101ss. (trad. it. cit., pp. 48ss.).
Foucault e la questione dell’ideologia 157

sullo statuto di questo rapporto che, per un verso, resta immaginario, poi-
ché «produce degli effetti situati sul piano dell’immaginario», dal momento
che esso accompagna di fatto delle rappresentazioni deformate del reale;
mentre, d’altra parte, esso non può essere interamente ridotto alla semplice
rappresentazione. Un tale rapporto è quindi anche reale nella misura in cui
corrisponde alla «forma necessaria secondo la quale le condizioni di vita
degli uomini […] si manifestano alla coscienza»: è a questo titolo, d’altron-
de, che tale rapporto è produttivo: produce «una certa maniera di essere al
mondo», associata all’«essere soggetto» di cui l’ideologia è «in ultima istan-
za la causa o il principio motore»22. Così, se vi sono rappresentazioni che
possono dirsi ideologiche e immaginarie, questo accade solo alla ine del
processo di ideologizzazione, quando esse assumono l’aspetto di rappre-
sentazione e si conigurano in modo speciico all’interno di una situazione
storicamente determinata.
Questa maniera di concepire la produttività dell’ideologia implica
quindi uno spostamento ulteriore della prospettiva: non si tratta più di
partire dalle idee, dalle rappresentazioni, dalle concezioni del mondo, ma
dalle modalità secondo le quali le idee e le rappresentazioni sono inserite e
prodotte entro la dimensione materiale ed effettiva delle pratiche. Questo
permette a Macherey di avanzare l’idea che «ciò che Althusser ha cercato
di fare per il concetto di ideologia, Foucault dal canto suo l’avrebbe fatto
per il concetto di norma: ovvero mostrare che ciò che è implicato, nell’uno
come nell’altro termine, sono delle logiche pratiche di comportamento,
delle maniere di agire e non dei sistemi formali di rappresentazioni che
costituiscono un ordine a parte e che di fronte alla realtà sociale manten-
gono una relazione di esteriorità, su uno sfondo fatto di trascendenza e di
proibizione»23.
Per questa ragione, per Althusser, vivere nell’ideologia signiica con-
dursi in questa o quest’altra maniera, adottando tale o talaltro compor-
tamento. L’ideologia fa quindi agire ed è a questo titolo una azione sulle
azioni degli altri che consiste, in ultima analisi, a inserire certe azioni all’in-
terno di pratiche collettive socialmente organizzate. D’altra parte, secondo
Macherey, con l’idea di «governo» di Foucault ci troveremmo di fronte a
un quadro teorico molto simile, nella misura in cui si tratta di intendere il

22
P. Macherey, Le sujet des normes, cit., pp. 54-55.
23
Ivi, p. 59.
158 Orazio Irrera

potere come ciò che «struttura il possibile campo di azione degli altri»24.
Così, le idee degli uomini che sembrano dirigere le loro pratiche si rivela-
no in realtà silenziosamente e preliminarmente orientate dall’ideologia, la
quale, non essendo più basata su ciò che avviene nella testa delle persone,
organizza uno spazio regolato di pratiche in cui questi individui diventano,
senza rendersene conto, soggetti. L’ideologia predispone dunque tutto un
ventaglio di pratiche possibili e ammissibili secondo una razionalità che si
incarna nel modo di essere del soggetto stesso, al di qua della sua coscienza
e delle sue rappresentazioni. Ad essere in gioco è quindi la strutturazione
di un soggetto attraverso la preventiva costituzione di un campo di virtua-
lità e di possibilità che devono predeterminare sia i suoi comportamenti
effettivi, sia le sue idee.
Secondo Macherey questa produzione di virtualità costituisce il terre-
no privilegiato di intervento sia della norma, sia dell’ideologia. Tanto l’una
quanto l’altra si riferirebbero non tanto a ciò che esiste effettivamente (per
esempio un’azione già compiuta in base alla quale si tratterebbe di punire
l’agente), bensì a ciò che virtualmente può esistere, la cui esistenza, cioè, è
diagnosticata e calcolata in anticipo. Ognuno è quindi esposto permanen-
temente a essere giudicato non per gli atti che ha commesso, ma per quello
che potrebbe fare e per quello potrebbe essere, per mezzo di un criterio di va-
lutazione stabilito da certe norme. Questa valutazione attraverso la norma
(la cui azione, nei termini in cui l’intende Macherey, è comparabile a quella
dell’ideologia) le determinazioni occasionali in fatti di natura tramite mecca-
nismi di essenzializzazione e di idealizzazione. Inoltre, in questo contesto,
sono le scienze umane a schedare, archiviare e marcare tutti i fenomeni che
costituiranno poi il bersaglio della cattura delle norme e del loro potere di
controllare, sorvegliare e prevenire.
Per realizzare questa impresa di normalizzazione, bisogna che l’azio-
ne della norma o dell’ideologia «sia completamente immanente al campo
all’interno del quale essa produce i suoi effetti, in quanto il primo risultato
della sua azione, che ne condiziona in ultima istanza tutti gli altri, è proprio
la costituzione di questo campo. Se l’ideologia (o la norma) trasformano,
non è penetrando progressivamente un terreno preesistente al suo inter-

24
M. Foucault, Le sujet et le pouvoir, in Dits et écrits II, 1976-1988, Gallimard, Paris 2001,
p. 1056; trad. it. Il soggetto e il potere, in H. Dreyfus e P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault.
Analitica della verità e storia del presente, Ponte alle Grazie, Firenze 1989, pp. 245-254, in part.
p. 249.
Foucault e la questione dell’ideologia 159

vento […], ma producendo qualcosa che è trasformabile, cioè la struttura


all’interno della quale essa insinua i suoi effetti»25. È così che l’ideologa (o
la norma) arrivano a fabbricare matrici di assegnazione normativa di iden-
tità, destinate ai diversi soggetti. Queste matrici disegnano lo spazio di vir-
tualità in cui i soggetti sono, per così dire, “attesi” e rispetto al quale questi
soggetti sono tenuti a conformarsi (o a normalizzarsi) senza rendersene
conto, ovvero senza che questo processo passi attraverso rappresentazioni
coscienti e razionalizzabili in termini linguistici. Per corroborare ancora di
più questa compatibilità di fondo tra norma e ideologia, Macherey compie
due operazioni concettuali parallele, che cercano di modiicare in alcuni
punti la nozione di ideologia che si ritrova tanto in Althusser, quanto in
Foucault (benché in forma negativa, come bersaglio delle sue critiche).
L’obiettivo di questo modo di procedere è duplice: per quel che riguarda
Althusser, si tratta di precisare come il carattere produttivo dell’ideologia
possa accordarsi con il funzionamento della norma, mentre per quel che
concerne Foucault, si tratta piuttosto di mostrare che il suo sforzo per
liberarsi dell’ideologia lo conduce verso contraddizioni irresolubili.
Perché si possa parlare di una convergenza effettiva tra norme e
ideologia, rispetto ad Althusser, bisognerebbe innanzitutto rinunciare al
carattere onnistorico dell’ideologia a favore del carattere storico, che è
proprio dei dispositivi di cui si compone una società di normalizzazione –
ciò che peraltro permetterebbe di cogliere più perspicuamente come una
molteplicità di dispositivi normativi possono funzionare concretamente
“in rete”, penetrando diffusamente la società26. In secondo luogo, biso-
gnerebbe anche che il processo di assoggettamento proprio all’ideologia,
quello che interpella gli individui costituendoli come soggetti, non si basi
più sull’iscrizione di questo soggetto all’interno del campo simbolico del
linguaggio e della Legge – proprio quel campo che, nel solco di Lacan, Al-
thusser considerava lo spazio di riferimento privilegiato in cui l’individuo
è chiamato a prendere posto, trasformandosi così in soggetto27. In una
società delle norme, il linguaggio non può più essere un vettore di sog-
gettivazione in quanto portatore di signiicati. Così, per una concezione
dell’ideologia che opera come una norma, o comunque all’interno di un
processo di normalizzazione, la fabbricazione del campo in cui il soggetto

25
P. Macherey, Le sujet des normes, cit., p. 93.
26
Ivi, pp. 57-58.
27
Su questo punto, cfr. P. Gillot, Althusser et la psychanalyse, PUF, Paris 2009.
160 Orazio Irrera

va a costituirsi (ovvero il sito immanente alle norme del suo assogget-


tamento) «non assume la forma comunicativa di un messaggio o di un
segnale, come nella scena dell’interpellazione, ma si esercita direttamente
sui corpi che vengono sottomessi a una procedura ortopedica di dressage»28.
Per questo motivo la società delle norme taglia all’ideologia ogni relazione
con il simbolico per inserirla direttamente, attraverso la costituzione di ap-
positi dispositivi che si rivolgono anzitutto ai corpi, all’interno di pratiche
che mettono fuori gioco il senso e agiscono tacitamente per trascriversi
solo successivamente nel linguaggio della rappresentazione, quando, cioè, il
loro compito di strutturazione è stato eseguito29.
Rispetto a Foucault invece, per poter articolare norma e ideologia, si
dovrebbe operare una revisione di quest’ultima nozione, visto che i tenta-
tivi che Foucault ha fatto per sbarazzarsene, secondo Macherey, avrebbero
prodotto solo quella che egli chiama «una falsa uscita dall’ideologia», con-
siderando che «nel quadro delle società di normalizzazione [continuano
a essere importanti] degli atteggiamenti basati sulle rappresentazioni che
sembra naturale riportare alla voce “ideologia”»30. Per spiegare come la no-
zione di ideologia resiste alle critiche formulate da Foucault, Macherey si
concentra su due punti. Il primo è legato al ruolo e alla funzione indispen-
sabile che, dal diciottesimo secolo, l’opinione pubblica ha progressivamente
assunto nelle società di normalizzazione, un’opinione il cui giudizio si ri-
vela sempre fondamentale, poiché, anche quando resta solo una inzione,
non se ne può comunque fare a meno: ciò signiica allora reintrodurre la
questione dell’ideologia nell’organizzazione delle rappresentazioni formu-
late pubblicamente e quindi consapevolmente. Il secondo punto riguarda
invece la tematica del «liberalismo» con il suo discorso e la sua ideologia
che si basa sul principio che tutto deve derivare dalle scelte libere e spon-
tanee degli individui.
Si tratta in entrambi i casi di una dimensione ideologica indispensabile
al funzionamento della società delle norme, dal momento che il suo potere
di naturalizzazione può esercitarsi più eficacemente se esso si nasconde
dietro l’illusione, o la inzione, di una libertà di cui gli individui, considerati
sia singolarmente sia collettivamente, disporrebbero naturalmente (l’opi-
nione è allo stesso tempo particolare, ma si compone anche in un quadro

28
P. Macherey, Le sujet des normes, cit., p. 63.
29
Ivi, pp. 299-301.
30
Ivi, p. 222.
Foucault e la questione dell’ideologia 161

di insieme in cui assume precisamente la forma dell’opinione pubblica).


L’analisi che Macherey conduce a partire dai contributi foucaultiani (so-
prattutto quelli della seconda metà degli anni settanta), mostra come Fou-
cault, a dispetto delle critiche esplicite che rivolge all’ideologia, restereb-
be tuttavia consapevole dell’importanza dell’opinione pubblica, la quale
avrebbe la funzione di dissimulare il funzionamento delle discipline e delle
norme sotto la maschera (in fondo ideologica) che il regime parlamentare
e rappresentativo assegna alla inzione del contratto, inscrivendola all’in-
terno di un quadro giuridico.
Inoltre, Macherey giunge anche a sostenere che quando Foucault par-
la del diritto, senza accorgersene, reintrodurrebbe surrettiziamente l’idea
che, al cuore del potere di normalizzazione, permane l’esigenza di masche-
rare, agli occhi dei soggetti che vivono in società, quello che avviene a livel-
lo delle relazioni di potere. Ma questo corrisponderebbe a una tacita riabi-
litazione del vecchio schema marxista base/sovrastruttura, di cui Foucault
ha del resto cercato ostinatamente di sbarazzarsi31. E là dove Foucault
cerca di correggersi, come nel caso della sua analisi del liberalismo (quan-
do si tratta di mettere in relazione la cosiddetta «ideologia della libertà»
e il liberalismo inteso come tecnica di governo), apparirebbe comunque
costretto a pensare se non una relazione di dipendenza tra questi due ter-
mini, almeno una stretta correlazione, dunque uno spazio in cui l’ideologia
conserverebbe ugualmente un ruolo importante, se non addirittura inso-
stituibile. Anche qualora si considerasse che «gli schemi comportamentali,
prima di essere ideologia, riguardano una tecnologia di potere che ha la
priorità sulla loro forma ideologica, sembra comunque che si ritorni così al
modello interpretativo della sovrastruttura, che presenta l’ideologia come
un effetto di supericie alle spalle del quale c’è in gioco qualcos’altro»32.
D’altra parte, una volta che lo Stato risulta permeato, lungo tutta la
sua storia, dalla ragione governamentale, l’ideologia continua a soprav-
vivere attraverso le forme giuridiche e statali del diritto, come elemento
essenziale che permette di rendere conto della coesistenza e della corre-
lazione tra quel che accade a livello della tecnologia di potere (e del suo
regime di veridizione) e quello che avviene a livello delle rappresentazioni
dei soggetti. In altri termini, il potere funziona meglio se viene tollerato e
il diritto, l’ideologia della libertà, le manifestazioni dell’opinione pubblica,

31
Ivi, p. 226.
32
Ivi, p. 230.
162 Orazio Irrera

svolgerebbero una funzione ideologica, facendo sì che nelle rappresenta-


zioni coscienti degli individui sia disattivata la percezione di tutto ciò che è
potenzialmente inaccettabile e intollerabile.
Ma se i rapporti tra l’ideologia (soprattutto nella forma dell’opi-
nione pubblica) e le norme dovrebbero costituire l’oggetto di un’inda-
gine che, lungi dall’essere chiusa, dovrebbe al contrario essere rilancia-
ta, si tratta pure di osservare che l’ideologia non si dà più (o almeno
non principalmente) come insieme di rappresentazioni consapevoli ed
esplicitamente formulabili, ma piuttosto come «processo di naturaliz-
zazione e di quotidianizzazione» delle norme e dei comportamenti che
queste norme predeterminano. È in virtù di questo processo infra-ide-
ologico che gli individui pensano di poter decidere liberamente il posto
che è loro destinato dall’operatività delle norme e dai modelli di com-
portamento che esse mirano a imporre. In termini althusseriani questo
equivarrebbe al loro «essere-sempre-già-soggetti». Per mezzo dell’ in-
fra-ideologia, gli individui sarebbero di fatto «moralizzati» grazie all’ac-
quisizione disciplinare di certe abitudini volte a issarli all’apparato di
produzione, rendendoli così soggetti produttivi33. Tuttavia, e proprio
rispetto a questo carattere produttivo, nella nozione di infra-ideologia
resta probabilmente ancora una piccola ambiguità che il libro di Ma-
cherey non arriva forse a dissipare interamente. Infatti, non sembra
affatto semplice stabilire se la funzione dell’infra-ideologia sia di ripro-
durre i rapporti di produzione (come ci si aspetterebbe da un punto di
vista marxista e althusseriano) oppure se il suo legame costitutivo con
il funzionamento delle norme la collochi all’interno di una prospettiva
più vicina a quella di Foucault, secondo la quale il potere non ripro-
duce i rapporti di produzione come un supplemento che si aggiunge
dall’esterno, ma al contrario «è di fatto uno degli elementi che costi-
tuisce il modo di produzione e funziona al cuore di quest’ultimo»34. A
questo proposito Macherey sostiene:

33
Su questo punto si veda il terzo capitolo «Le Sujet productif. De Marx à Foucault»
(pp. 149-212) di Le sujet des normes, già apparso autonomamente in traduzione italiana un
anno prima dell’uscita del libro in Francia. P. Macherey, Il soggetto produttivo. Da Foucault a
Marx, Ombre Corte, Verona 2013.
34
M. Foucault, La société punitive, cit., p. 234. Su questo si veda anche J. Pallotta,
L’effet-Althusser sur Foucault: de la société punitive à la théorie de la reproduction, in Ch. Laval,
L. Paltrinieri e F. Taylan (a cura di), Marx & Foucault. Lectures, usages, confrontations, La
Découverte, Paris 2015, pp. 132-133.
Foucault e la questione dell’ideologia 163

La normatività, che condiziona l’assoggettamento, corrisponde quindi a un


processo che è “ideologico” nella misura in cui esso è simultaneamente, e forse
anche prioritariamente, “economico”: esso interviene mediante il meccanismo
dei rapporti di produzione di cui costituisce un ingranaggio. Si spiega in questo
modo il double bind che è proprio al funzionamento della società capitalista, che ha
messo l’economia al posto di comando assegnando allo sfruttamento della forza-
lavoro la forma della sua liberazione e che costituisce il risultato di una manipo-
lazione […]. In questa prospettiva, l’ideologia, rimaterializzata da cima a fondo,
non è più un supplemento o qualcosa che sopravvive, ovvero un qualcosa in più,
o di troppo, che viene ad aggiungersi; ma viene incorporata al reale che essa stes-
sa elabora e che contribuisce a produrre, in particolare predisponendo la posi-
zione di soggetto, che è indispensabile al funzionamento della sua “economia”35.

In ogni caso, quel che bisogna sottolineare a proposito dell’infra-ideo-


logia è che la sua presa generale sulla vita degli uomini tramite le norme, la
sua capacità di aderire alle pieghe più profonde e quotidiane dell’esistenza
in quanto «ideologia dell’ordinario», produce un ordine che ha incessante-
mente bisogno di essere riconigurato, e che per questo resta un ordine pa-
radossale, poiché ricava la sua forza di riproduzione dalla sua stessa fragilità.
Questo apre, secondo Macherey, una possibilità di reversibilità che «lascia
spazio a un lavoro del negativo, che prende la forma di resistenze […], delle
nuove forme di adattamento, che sono tanto provvisorie quanto lo sono
quelle di cui esse hanno preso il posto»36. Questo processo di assoggetta-
mento mostra così un rovescio dificile da pensare, quello della resistenza,
impossibile da predeterminare a partire dall’ordine che l’assoggettamento
instaura. A ogni modo, la dimensione dalla quale tale resistenza scaturisce
resta per Macherey la stessa dell’infra-ideologia, ovvero quella dell’ordina-
rio, con il quale ogni individuo ha a che fare37. Secondo Macherey, è proprio
questa immanenza rispetto all’esistenza e alla vita che costituisce il bersaglio
privilegiato del potere naturalizzante delle norme, un’immanenza che «una
volta generalizzata, conserva una trascendenza che le è propria»38 e diven-
ta il punto di riferimento per ogni possibilità di critica o di contestazione
dell’esistente, il punto di partenza per un’alterazione dei rapporti di forza
entro un orizzonte che è quello della politica.

35
P. Macherey, Le sujet des normes, cit., pp. 301-302.
36
Ivi, pp. 351-352.
37
Su questo punto cfr. D. Lorenzini, Éthique et politique de soi. Foucault, Hadot, Cavell et
les techniques de l’ordinaire, Vrin, Paris 2015.
38
P. Macherey, Le sujet des normes, cit., p. 351.
164 Orazio Irrera

Ideologia e aleturgia: la soggettivazione a partire dai punti di non-accettazione del potere

Per sviluppare queste osservazioni su come articolare etica e politica, è


importante ritornare ai Corsi che Foucault pronuncia al Collège de France a
partire dal 1980, un materiale di recente pubblicazione che del resto lo stesso
Macherey non arriva a prendere analiticamente in considerazione nel suo
libro39. In effetti, la citazione dal Corso del 1980 riportata in apertura, nella
quale Foucault ricorda di aver fornito, lungo tutti i suoi corsi, critiche sem-
pre diverse a una prospettiva basata sull’ideologia, fa parte di un’importante
riformulazione delle sue ricerche, un campo di problematizzazione entro cui
si inscriveranno tutte le sue analisi successive, ino a quelle dell’ultimo corso
dedicato alla parresia e ai Cinici40. Questo campo di problematizzazione è
legato alla centralità di ciò che Foucault chiama «aleturgia», ovvero l’insieme
delle procedure possibili, verbali o non, attraverso le quali viene manifestato
quel che è posto come vero in opposizione al falso, al nascosto, all’indicibile,
all’imprevedibile, e all’oblio. Secondo Foucault, infatti, non vi potrebbe es-
sere alcun esercizio del potere senza qualcosa come l’aleturgia41. Ma questa
aleturgia non riguarda solo l’insieme di atti attraverso cui la verità si salda
all’esercizio di un potere di normalizzazione, ma riguarda anche il modo
e gli atti attraverso cui il soggetto si costituisce, conformandosi a un certo
regime di verità oppure, al contrario, contestandolo. Questo processo, al po-
sto dell’interpellazione ideologica, si basa invece sull’esame delle modalità
storiche attraverso cui è emerso, e si è di volta in volta modiicato, l’obbligo
di manifestare la verità su se stessi. Si tratta di un elemento imprescindibile
per intraprendere quella genealogia del soggetto occidentale moderno che
ha lungamente occupato Foucault nell’ultima fase delle sue ricerche.
In effetti, nel Corso del 1980, Du gouvernement des vivants, il riiuto di
un’analisi in termini di ideologia è articolato a partire da un nuovo angolo di
attacco, centrato sui rapporti tra verità e soggettività. Si tratta di un passaggio
fondamentale per comprendere l’orizzonte tematico in cui la questione della
verità verrà affrontata durante gli anni ottanta. Così, con uno scarto che è
tipico della sua maniera di procedere, Foucault sostiene che, per studiare

39
Per possibili linee di sviluppo a partire dalla prospettiva di Macherey, cfr. O. Irrera,
Michel Foucault et les critiques de l’idéologie. Dialogue avec Pierre Macherey, in «Methodos», n. 16
(2016).
40
Cfr. S. Luce, Dall’ideologia all’ordine del discorso: l’interpellazione di Althusser, le parole di
Foucault, in «Filosoia politica», n. 2 (2014), pp. 311-324.
41
Cfr. M. Foucault, Du gouvernement des vivants, cit., p. 8 (trad. it. cit., pp. 18-19).
Foucault e la questione dell’ideologia 165

come il potere si esercita, bisogna prendere in considerazione anche il modo


in cui la verità si produce e si manifesta «nella forma della soggettività» – in
cui cioè la soggettività igura come operatore, spettatore (o testimone) e
oggetto di questa manifestazione42. In particolare, rispetto al regime di verità
del cristianesimo, si tratta di mostrare in che modo la verità che si manifesta
nella forma della soggettività produce effetti che vanno ben al di là della
semplice conoscenza, essendo dell’ordine della salvezza o, secondo un lessi-
co concettuale più secolarizzato, della liberazione43.
Tuttavia, questi rapporti tra governo, verità, soggettività e salvezza, ri-
corda Foucault, sono stati già indagati attraverso la nozione di ideologia, ov-
vero in base all’assunto che il governo degli uomini sarebbe possibile attra-
verso quel tipo di verità che essi manifestano, senza alcuna costrizione, nella
forma immaginaria della salvezza. In altri termini, gli uomini inirebbero
per sottomettersi spontaneamente a ciò che essi credono e si rappresentano
come vero, ovvero in base a una verità che appare anzitutto nel foro della co-
scienza in quanto rappresentazione. Sarebbe dunque il modo di rappresen-
tare qualcosa di immaginario, una semplice credenza, come verità che garan-
tirebbe l’effetto politico dell’obbedienza e della sottomissione44. Ma questo
modo di considerare la situazione appare insuficiente agli occhi di Foucault,
in primo luogo a causa delle discrepanze tra quello che gli uomini pensano,
o credono di pensare, e quello che concretamente fanno, discrepanze che
sono state riscontrate in diverse ricerche storiche sui rapporti tra rivoluzione
e religione45. Inoltre, questo modo di vedere le cose attraverso un’analisi in
termini di ideologia, secondo Foucault si inscrive entro una questione più
ampia e generale sui rapporti tra soggettività, verità e potere, questione che
Foucault chiama “ilosoico-politica”, e che pone in questi termini:

quando il soggetto si sottomette volontariamente al legame della verità, in


un rapporto di conoscenza, quando cioè pretende, dopo essersi dato i fondamen-
ti, gli strumenti e le giustiicazioni, di fare un discorso di verità – a partire da qui,
che cosa può dire a proposito, a favore o contro il potere che lo assoggetta senza
che lui lo voglia? In altre parole, il legame volontario con la verità che cosa può
dire sul legame involontario che ci fa aderire e ci piega al potere46?

42
Cfr. ivi, p. 79 (trad. it. cit., p. 89).
43
Cfr. ivi, pp. 73-74 (trad. it. cit., p. 83).
44
Cfr. ivi, p. 74 (trad. it. cit., p. 83).
45
Solo a titolo di esempio si veda, ancora una volta, P. Veyne, Comment on écrit l’histoire,
cit., pp. 119-138.
46
M. Foucault, Du gouvernement des vivants, cit., p. 75 (trad. it. cit., p. 84).
166 Orazio Irrera

Insoddisfatto da come questo modo di vedere le cose parta dalla garan-


zia di un diritto all’accesso alla verità e dalla presupposizione di un legame
volontario e contrattuale con la verità, Foucault cerca quindi di capovolgere
questi interrogativi e di fornire un altro impianto di problematizzazione che
articoli i rapporti tra soggettività, verità e potere in modo diverso, partendo
cioè dall’esigenza («volontà, decisione e sforzo») di sottrarsi alla presa del
potere e al lavoro, per trasformare se stessi e il proprio rapporto con la verità
che questa esigenza richiede. A partire da qui si tratta piuttosto di chiedersi:

che cosa ha da dire la messa in questione sistematica, volontaria, teorica e


pratica del potere riguardo al soggetto di conoscenza e al legame con la verità con
cui egli si trova involontariamente annodato? Non si tratta più di dirsi: essendo
dato il legame che mi lega volontariamente alla verità che cosa posso dire del po-
tere? Ma: essendo dati la mia volontà, decisione, sforzo di sciogliere il legame che
mi lega al potere, che ne è allora del soggetto di conoscenza e della verità? Non è
la critica delle rappresentazioni in termini di verità o di errore, in termini di verità
o di falsità, in termini di ideologia o di scienza, di razionalità o di irrazionalità, che
deve servire da indicatore per deinire la legittimità del potere o per denunciare la
sua illegittimità. È il movimento per liberarsi del potere che deve fare da rivelato-
re delle trasformazioni del soggetto e del rapporto che mantiene con la verità47.

Si tratta di un passaggio molto rilevante che meriterebbe di certo analisi


più approfondite. Quello che tuttavia ci si può limitare a osservare rispet-
to al tema di questo contributo, riguarda il come Foucault concepisca, dal
suo punto di vista, il proprio modo di smarcarsi dall’idea di verità implicita
nel concetto di ideologia. Questa verità non è qualcosa di immaginario, una
credenza ritenuta vera, ma riguarda il modo di affrontare l’obbligo di dire il
vero su di sé, di quel meccanismo che ha generalizzato la pratica della con-
fessione inserendone il nucleo pratico e aleturgico all’interno dei dispositivi
di normalizzazione agganciati ai regimi di veridizione delle scienze umane48.

47
Ivi, pp. 75-76 (trad. it. cit., p. 85). Su questo passaggio essenziale si vedano le
osservazioni che Foucault aveva già fatto nella conferenza alla Société française de Philosophie,
il 27 maggio 1978. In particolare, cfr. M. Foucault, Qu’est-ce que la critique? suivi de La
culture de soi, a cura di H.-P. Fruchaud e D. Lorenzini, Vrin, Paris 2015, pp. 39-40.
48
Cfr. M. Foucault, L’origine de l’herméneutique de soi. Conférences prononcées à Dartmouth
College, 1980, a cura di H.-P. Fruchaud e D. Lorenzini, Vrin, Paris 2013; versione italiana,
Sull’origine dell’ermeneutica del sé, a cura di mf/materiali foucaultiani, Cronopio, Napoli 2012;
L. Cremonesi, A.I. Davidson, O. Irrera, D. Lorenzini e M. Tazzioli, Da dove viene il sé? La
forza del dir-vero e l’origine dell’ermeneutica del sé, in «aut aut», n. 362 (2014), pp. 116-133.
Foucault e la questione dell’ideologia 167

Di fronte all’obbligo di dire il vero su stessi, attraverso il quale il soggetto,


affermando la verità di ciò che egli è, si lega a questa verità, collocandosi
all’interno di un regime di verità che lo pone in un rapporto di dipendenza
nei confronti di qualcun altro e modiica allo stesso tempo il rapporto che ha
con se stesso, Foucault cerca di trovare un modo di far apparire nel processo
di soggettivazione la possibilità di un atteggiamento critico. In altri termini,
nello stesso processo di assoggettamento a una verità che costituisce il sog-
getto, ci sarebbe lo spazio per un intervento di sé su sé, la possibilità di una
trasformazione della soggettività stessa, qualcosa che naturalmente eccede il
campo delle traiettorie virtuali del suo assoggettamento.
Da questa nuova prospettiva, a un’analisi in termini di ideologia, Foucault
oppone lo studio dei regimi di trasformazione del rapporto che la soggettività
intrattiene con la verità, rapporto messo in opera dalla soggettività stessa. La
possibilità di questo governo di sé non è tuttavia ancorata a una dimensio-
ne solitaria della soggettività, ma ha luogo sempre in relazione a un universo
sociale di riferimento (che non coincide tuttavia con la questione della sog-
gettivazione collettiva, tema che Foucault non affronta), in cui tutti gli sforzi
di elaborazione del sé possono assumere un senso prettamente politico solo
nella misura in cui aprono uno spazio di sovversione possibile rispetto a una
norma di comportamento, a una convenzione sociale che orienta una condot-
ta, a un modo di vita. Dopo il passaggio appena riportato, Foucault fa alcuni
esempi per mostrare come un’analisi ideologica parta sempre da qualcosa di
reiicato, che si dà quindi come già costituito, originario, quasi naturale, qual-
cosa che, in ultima analisi, si dà come un universale (la follia, l’uomo), per poi
domandarsi «a quali motivazioni e a quali condizioni obbedisce il sistema di
rappresentazioni che ha condotto a una pratica», come ad esempio quella della
reclusione, ampiamente studiata da Foucault 49. Al contrario, un’analisi centra-
ta sulla convinzione che il potere non sia necessario – prospettiva che Foucault
chiama «anarcheologia» – parte dalle pratiche e dal sapere messi storicamente
in atto dal governo degli uomini e le considera nella loro contingenza e nella
loro costitutiva fragilità, al di là di ogni universale che si potrebbe ideologi-
camente supporre alla base. Si tratta quindi di comprendere l’intelligibilità di
questo potere a partire da ciò che a questo potere sfugge, ovvero da quel che
Foucault chiama i suoi «punti di non-accettazione», per reperire inine delle
tecnologie di potere (o meglio sarebbe dire dei foyers d’expérience), piuttosto che
un programma ideale e ideologico di riforma50.

M. Foucault, Du gouvernement des vivants, cit., p. 78 (trad. it. cit., p. 87). Su questo
49

modo di procedere di Foucault, cfr. P. Veyne, Foucault révolutionne l’histoire, cit.


50
Cfr. M. Foucault, Du gouvernement des vivants, cit., p. 78 (trad. it. cit., p. 87).
168 Orazio Irrera

Ma esaminare genealogicamente i rapporti tra soggettività e verità dal


punto di vista della non-accettazione e della non-necessità di ogni forma di
potere, impone a Foucault di ritrovare, al di qua del regime di verità del cri-
stianesimo, che avrebbe dato luogo ai processi di oggettivazione e normaliz-
zazione del soggetto moderno, conigurazione storicamente e morfologica-
mente diverse del rapporto tra verità e soggettività. Lo studio dell’antichità
greco-romana non risponde in alcun caso al bisogno di trovare modelli da
applicare anacronisticamente al presente, quanto piuttosto alla capacità iction-
nelle propria dell’analisi genealogica di mostrare il presente stesso come non-
evidente, non-necessario e non-naturale. È in questo senso che una genealo-
gia del soggetto occidentale si propone di mostrare, per quanto storicamente
lontane, altre forme di rapporto tra verità e soggettività in cui, ad esempio, il
sé non era ancora qualcosa da oggettivare e verbalizzare dinnanzi a un’altra
persona, ma uno spazio di intervento e di trasformazione che implicava una
diversa maniera di intendere tanto i discorsi che veicolano una certa verità
quanto il loro potere trasformativo.
In questo nuovo quadro, il Corso del 1981, Subjectivité et vérité, offre a
Foucault un’ulteriore opportunità di smarcarsi da un’analisi in termini di ide-
ologia, e lo spinge a soffermarsi su quello che viene considerato un punto di
svolta decisivo nella storia della soggettività in Occidente51. Si tratta dell’e-
poca dello stoicismo romano, e, più precisamente, del periodo in cui si stava
veriicando una diffusione delle pratiche matrimoniali e una issazione di nor-
me giuridiche molto rigorose relative alla vita di coppia (le spose acquisivano
nuovi diritti e l’adulterio veniva pesantemente condannato). A questo propo-
sito Foucault si interroga su quale fosse l’esatto statuto dei discorsi ilosoici
che prescrivevano l’osservanza di un determinato codice di comportamento.
Perché questi discorsi avrebbero dovuto prescrivere qualcosa, se la realtà delle
pratiche matrimoniali cui queste prescrizioni si riferivano avevano già effet-
tivamente luogo nella società? In altri termini, tale discorso prescrittivo non
era forse «di troppo»52? Alla luce di questa coincidenza tra prescrizione ed
effettivo andamento della realtà, in che cosa consisterebbe il supplemento
che il discorso apporterebbe al reale attraverso la sua semplice enunciazione?

51
Cfr. M. Foucault, Subjectivité et vérité. Cours au Collège de France. 1980-1981, a cura di
F. Gros, Seuil/Gallimard, Paris 2014. La traduzione dei brani successivamente riportati
è nostra.
52
Su questo punto cfr. anche F. Gros, Soggetto morale e sé etico in Foucault, in Foucault e le
genealogie del dir-vero, a cura di L. Cremonesi, O. Irrera, D. Lorenzini e M. Tazzioli, Napoli,
Cronopio 2014, pp. 17-31.
Foucault e la questione dell’ideologia 169

Nella lezione del 18 marzo 1981, Foucault passa in rassegna tre moda-
lità di concepire questo rapporto tra i discorsi e le pratiche reali: «il raddop-
piamento della rappresentazione», «la denegazione ideologica» e inine «la
razionalizzazione universalizzante». Secondo la modalità della denegazio-
ne ideologica, il discorso ilosoico sul matrimonio costituisce «l’elemento
attraverso cui il reale non viene detto»53, e la sua natura prescrittiva serve
solo da giustiicazione ideologica che occulta, che impedisce di cogliere,
che «schiva», una realtà materiale sottostante. Quest’ultima sarebbe inine
costituita dalla scomparsa delle strutture economico-politiche della polis
e dalla crisi delle sue istituzioni familiari, per cui la perdita di potere e
la mancanza di sicurezza derivate dall’affermazione dell’Impero, avevano
fatto sì che la vita coniugale si fosse costituita come unico rifugio possibi-
le. Questo processo subirebbe, nel discorso ilosoico, uno «spostamento
verso l’idealità»54, trasformando una pratica reale già esistente e causata da
altri processi, in un obbligo morale da prescrivere. Nondimeno, Foucault
giunge a respingere anche questa prospettiva perché in fondo il reale che
verrebbe occultato e taciuto dal discorso, non è il reale di cui il discorso
ilosoico intende effettivamente parlare, ma «la causa che l’analisi ideolo-
gica attribuisce, retrospettivamente e ipoteticamente al reale». In questo
senso, si presuppone che «sotto una forma capovolta, l’idea che l’esistenza
di un discorso è sempre funzione del rapporto del discorso alla verità […],
in rapporto a quel che sarebbe l’essenza, la funzione, la natura in qualche
maniera originaria, autentica, del discorso fedele al suo essere, che è il di-
scorso che dice il vero»55.
Al posto di questo rinvio ideologico a una dimensione della realtà
altra rispetto al discorso (per spiegare il rapporto che esso intrattiene con
la realtà), Foucault ribadisce che «il reale non contiene in esso stesso la
ragione d’essere del discorso»56, ovvero il fatto che tale realtà non ha per
forza bisogno di un gioco di veridizione che si articoli con essa, che la
determini secondo il gioco del vero e del falso. La verità si afferma come
evento, non sopraggiunge necessariamente per giustiicare l’adeguamento
di un discorso vero alla realtà. Da questo punto di vista la verità è sempre
contingente: è ciò che Foucault chiama «una sorpresa epistemica»57. Per

53
M. Foucault, Subjectivité et vérité, cit., p. 242.
54
Ivi, p. 243.
55
Ivi, p. 244.
56
Ivi, p. 237.
57
Ivi, p. 238.
170 Orazio Irrera

intraprendere quella che Foucault designava come «una storia politica della
verità», non ci si doveva allora domandare se questo gioco di veridizione,
questo discorso vero sia adeguato al, e necessitato dal, reale, ma: «quali
effetti di obbligo, di costrizione, di incitazione, di limitazione sono stati
suscitati dalla connessione di pratiche determinate con un gioco vero/fal-
so, un regime di veridizione anch’esso speciico»? Bisogna inine chiedersi
«a quali obblighi si trova legato il soggetto di questa pratica dal momento
che la separazione (partage) del vero e del falso vi svolge un ruolo? A quale
obbligo vero/falso si trova legato il soggetto di un discorso vero dal mo-
mento che si tratta di una pratica deinita?»58.
In un quadro più ampio, relativo alle lezioni inali di questo Corso, le
tre modalità di concepire il rapporto tra discorsi e pratiche (di cui fa parte
la «denegazione ideologica») sono opposte da Foucault al particolare sta-
tuto pratico-discorsivo che storicamente avevano assunto in epoca impe-
riale i cosiddetti aphrodisia rispetto alla condotta matrimoniale e sessuale: si
tratta delle technai peri ton bion, delle arti di vivere, ovvero quelle “tecniche”
che prendono ad oggetto la vita, l’esistenza59. Tali tecniche sono pensate
da Foucault come procedure regolate e consapevoli volte a operare su un
soggetto determinato un certo numero di trasformazioni in funzione di
alcuni ini da raggiungere. Nella fattispecie, esse si esercitano sul bios, ov-
vero sulla vita in quanto soggettività, esistenza irriducibile tanto alle pro-
prie determinazioni biologiche, quanto a un qualsivoglia statuto sociale, a
una professione o a un mestiere. Rispetto a una prospettiva ideologica e
al modo di porre la questione “ilosoico-politica” che abbiamo visto nel
Corso del 1980, la prospettiva del modello antico di soggettivazione pre-
suppone invece una ricerca continua e indeinita che mira alla padronanza
di sé nelle mutevoli circostanze dell’esistenza individuale e collettiva. Di
conseguenza, nell’Antichità greco-romana, la sfera delle attività sessuali
è inserita da Foucault in un campo di problematizzazione più ampio, nel
quale la padronanza e il governo di sé diventano la condizione impre-scin-
dibile per l’esercizio del potere sugli altri, acquisendo dunque un valore
anche politico60.
Prendendo le mosse da queste analisi è quindi possibile leggere nella
loro iligrana anche uno spostamento relativo alla nozione stessa di verità

58
Ivi, p. 239.
59
Cfr. ivi, p. 253.
60
Cfr. ivi, pp. 280-293.
Foucault e la questione dell’ideologia 171

e ai suoi rapporti con la soggettività rispetto a quello che era implicito in


un’analisi in termini ideologici. La verità legata alle tecniche di sé antiche
non era infatti deinita né da una corrispondenza con la realtà, né da qual-
cosa che si troverebbe nelle profondità della coscienza, in un’interiorità
psicologica da decifrare incessantemente. La verità in questione riguardava
piuttosto la forza e la radicalità grazie alle quali certi discorsi danno forma
all’esistenza particolare di ciascuno61. Il bios greco si presentava così come
la supericie su cui la verità si manifesta (ed è chiamata a manifestarsi) in
un rapporto tutto da costruire ed inventare a seconda della situazione, ma
che costituiva nondimeno la cifra essenziale della stilizzazione etica e po-
litica dell’esistenza nell’Antichità greco-romana. Tale argomento costituirà
l’oggetto di analisi privilegiato negli ultimi tre Corsi di Foucault al Collège
de France.
Nelle ultime ricerche di Foucault sulla parresia presso i Cinici, anche
se la questione dell’ideologia non è più posta direttamente rispetto alla
questione della soggettivazione (si è visto come il richiamo all’ideologia
nel Corso del 1983 si riferisse soprattutto al tentativo di smarcarsi sia da
una storia delle rappresentazioni, sia dalla storia delle mentalità), forse si
può nondimeno ritrovare un ultimo e ulteriore elemento di differenza tra
il modello di interpellazione all’opera nell’ideologia di cui parlava Althus-
ser e quello messo in atto da Socrate e poi dai Cinici stessi. Quest’ultimo
modello, infatti, piuttosto che caratterizzare la scena della soggettivazione
come assoggettamento, si pone come una pratica che produce de-sog-
gettivazione, che appartiene a una forma storicamente speciica di quel-
l’«atteggiamento critico» capace di inscrivere direttamente sui corpi, nello
spessore delle singole esistenze, una duplice possibilità: da un lato quella
della trasformazione del sé nella direzione di una non-accettazione del po-
tere e, dall’altro lato, la possibilità che questa produzione dell’inaccettabile
possa strategicamente costituire, entro determinate condizioni, una sorta di
intensiicatore critico e politico di relazionalità62. In altre parole, un dispo-
sitivo in grado di comporre politicamente i punti di non-accettazione del
potere e delle sue norme in una forma collettiva di vita “altra”, ma che non
risulti comunque mai issabile all’interno di una conigurazione normativa

61
Su questo punto cfr. L. Cremonesi, A. I. Davidson, O. Irrera, D. Lorenzini e
M. Tazzioli, Da dove viene il sé?, cit.; O. Irrera, La verità come forza. Dir-vero, potere e soggettività
nell’ultimo Foucault, in Foucault e le genealogie del dir-vero, cit., pp. 33-57.
62
Cfr. S. Luce, Dall’ideologia all’ordine del discorso: l’interpellazione di Althusser, le parole di
Foucault, cit., in part. pp. 320-324.
172 Orazio Irrera

stabile e deinitiva, che inirebbe per reintrodurre nuove forme di potere.


Si tratta allora non solo di produrre una forma di vita altra, ma anche un
atteggiamento che mantenga vivo nel rapporto di sé con sé un potere
“alterizzante”, in grado di generare una mancanza di conformità, carica di
effetti politici, rispetto a ciò che si attende da una soggettività individuale o
collettiva, facendo diventare la possibilità stessa di questo spostamento cri-
tico qualcosa di costitutivo che deve sempre politicamente accompagnare
e limitare il governo degli uomini.

Orazio Irrera
Université Paris 1 Panthéon-Sorbonne
orazio.irrera@univ-paris1.fr

.
Foucault and the Problem of Ideology

In his course On the Government of the Living, Foucault afirms that he has always
refused to analyze thought, behavior, and knowledge in terms of ideology. He adds
that almost every year, in each one of his courses, he has revisited this need for
distinguishing what he is doing from a perspective based on ideology, even as he
modiies the angle of attack each time by giving his critique new forms of intelligi-
bility. In this article, I analyze the major points of this critique, especially those that
bear on the Althusserian conception ideology, as well as on the historiographical
paradigm of the history of mentalities. Next, I suggest that a perspective based
on the norm, such as the one developed by Foucault, does not necessary diverge
from a more sophisticated theory of ideology, as, for example, Pierre Macherey
has recently developed with the concept of “infra-ideology”. Finally, I will look
at how Foucault, in the inal courses at the Collège de France, once again tries to
distinguish what he is doing from an analysis of ideologies. Here he formulates his
conception of the relations between truth, subjectivity, and critique as part of the
larger project of a genealogy of the subject in the West.

Keywords: Ideology, Subjectivation, Truth, Norm, Althusser, Practice, History of


Mentalities.
Storicizzazione radicale, genealogia della governamentalità
e soggettivazione politica
Laura Bazzicalupo

Politicità del pensiero e razionalizzazione

Lavorare sull’ultimo Foucault è talvolta inquietante. Se da una parte


non sempre si riconoscono i caratteri del discorso foucaultiano cui era-
vamo abituati, dall’altra afiniamo l’analisi di questi ultimi scritti per-
ché cerchiamo in essi una chiave per fuoriuscire da una situazione di
impasse, da un rinvio claustrofobico alla governamentalità neoliberale
che è diventata – malgrado Foucault – una specie di scolastica, con
effetti paralizzanti da un punto di vista politico, pur essendo la catego-
ria nella quale la geniale analitica foucaultiana ha mostrato la massima
fecondità in relazione al nostro presente. Una tale capacità euristica
da essere adottata da studi neoliberali, postcoloniali, neodeleuziani e
perino da paludati studi di diritto amministrativo up date. E questa
adozione implica il rischio di un sapere codiicato, di una verità episte-
mica e oggettivante.
Il circolo governamentale soggettivazione-assoggettamento può
diventare una trappola dalla quale è impossibile uscire, una trappola
che trova conferma nella dificoltà di una soggettivazione politica di-
versa, tanto più urgente quanto più ardua.
Questo rischio non può non turbare chi riconosca a Foucault la
sua scelta di iscrivere direttamente il pensiero sulla scena politica ri-
iutando ogni passaggio attraverso la ilosoia politica e il logos. Per un
pensiero che esca dall’accademia, che circoli nella vita e che sia sempre
già una pratica, è stato pronto a smobilitare le codiicazioni del proprio
metodo, sollecitato dalla contingenza politica.
Eppure è evidente, ed è stata notata più volte, l’ambivalenza dei
governmentality studies, sviluppati nell’alveo del pensiero foucaultiano che
spingono la categoria della governamentalità in direzione di una forma

materiali foucaultiani, a. IV, n. 7-8, gennaio-dicembre 2015, pp. 173-188.


174 Laura Bazzicalupo

di razionalizzazione1. Che si tratti o meno di razionalizzazione è una


questione di importanza cruciale che ci spinge a mettere a fuoco proprio
il livello epistemologico del pensiero foucaultiano, per preservare quello
che è un grande progetto di storicizzazione e di incidenza politica su di
essa. Occorre evitare che il grande tema della trasformazione del potere
in senso governamentale sia assorbito in una dimensione epocale, di-
venti una tappa di una storia delle idee e che perda la dimensione della
temporalità attuale, contingente, intesa come campo di forze attive.
Il mio intento è dunque di riattivare la tensione epistemologica e
pratica della genealogia: lasciar emergere il movimento dinamico che sia
il discorso parresiastico, sia il discorso dello storico sia, per certi versi, lo stesso
discorso del mercato, con il loro “posizionamento” immanente alla scena
politica e sociale, imprimono alla categoria della governamentalità.
La traccia epistemica che Foucault ci ha lasciato, è oggi invece piuttosto
trascurata: un sentiero interrotto. Forse a causa dell’emergere, nella rilessio-
ne postfoucaultiana della via larga del naturalismo, che la trascrive in termini
affermativi, ontologici. In questo caso Foucault diventa un passaggio, per-
ché l’obiettivo è il manifestarsi di una autoregolazione immanente del dive-
nire. Ma, a questo punto Foucault è residuale, perché il passo verso la natura
è il passo che Foucault non compie e non vuole compiere: la sua analisi
gira attorno al fondamento e alla sua assenza abgrund/grund, ma non accede
all’abisso della vita come potenza autoregolativa. L’accesso alla “natura” – si
ricordi il dibattito con Chomski –, o ancor più alla vita, sono stati sempre
per Foucault il cuore dei dispositivi di controllo del vivente2. Fermarsi prima,
prima del fondamento, prima dell’origine: fermarsi alla supericie di ciò che
è visibile e che è stato realmente detto. Conosciamo il dileggio di Foucault
verso le indagini storico-ilosoiche che mirano al segreto, al non detto, al
mormorio dal quale emergerà la verità e il senso complessivo.
La fedeltà strettissima di Foucault all’empiria e alla “positività”, ino al
nominalismo e al comportamentismo: è questo il punto. L’empirico non è

1
Cfr. A. Barry, T. Osborne e N. Rose (a cura di), Foucault and Political Reason. Liberal-
ism, Neo-Liberalism and Rationalities of Government, The University of Chicago Press, Chi-
cago 1996; P. Miller, P. Rose e N. Rose, Governing Economic Life, in «Economy and Society»,
n. 19 (1990); di recente B. Golder (a cura di), Re-Reading Foucault. On Law, Power, and Rights,
Routledge, London 2013; in senso critico T. Lemke Neoliberalismus, Staat und Selbsttechnolo-
gien: Ein kritischer Überblick über die governmentality studies, in «Politische Vierteljahresschrift»,
vol. 41 (2000), n. 1.
2
N. Chomsky e M. Foucault, The Chomsky Foucault Debate: On Human Nature (1971),
Norton & Company, New York 2006.
Storicizzazione radicale, genealogia della governamentalità e soggettivazione politica 175

che una combinazione di connessioni, accessibili solo al livello della loro


immanenza, che non solo non autorizza ma è programmaticamente ostile
a ogni accesso alla originarietà del fenomeno che, per Foucault, svolge una
funzione di occultamento.
L’impianto metodologico foucaultiano – di cui si parlò a lungo ne-
gli anni dell’Archeologia del sapere e di Le parole e le cose e nel momento del
passaggio alla genealogia – impianto sempre ri-posizionato in coerenza con
questa assoluta “fedeltà”, che Deleuze deinisce dermatologica, al visibile,
al detto, è oggi trascurato tanto in direzione di una governamentalità come
razionalizzazione quanto in direzione di un accesso alla soglia naturalisti-
ca. Proprio oggi, quando l’attualità dell’analitica del potere governamenta-
le e gli studi sulla parrhesia offrono un incrocio prospettico che potrebbe
avere una importanza cruciale per il pensiero della politica.
Foucault traccia un complesso e multipiano progetto di interpretazio-
ne della storicità e dell’ontologia del presente come campo di forze attive,
irriducibile ad un unico piano-sequenza, sia esso quello del potere gover-
namentale onnipervasivo che quello della biopotenza. Radicalizzando il
percorso Hegel-Nietzsche costruisce daccapo il sapere storico come analisi
genealogica dell’evento, della sua differenzialità e irriducibilità all’universa-
le del signiicato. Con la événementalisation della storia si eludono le strutture
necessitanti e si lasciano emergere pratiche, programmi e dispositivi con
effetti differenzianti3. Perciò il dispositivo governamentale dovrebbe cor-
rispondere non ad una compatta totalità ma a un insieme di positività
disperse indotte dagli effetti di pratiche anonime. Razionalità multiple e
strategie locali invece di un unico processo di razionalizzazione. La razio-
nalizzazione è il fronte polemico per Foucault, ma anche il rischio impli-
cato evidentemente nel suo stesso lavoro:

Par “gouvernementalité”, j’entends l’ensemble constitué par les institutions, les procédures, analyses
et rélexions, les calculs et les tactiques […]. Deuxièmement, par “gouvernementalité”, j’entendes la
tendance, la ligne de force qui, dans tout l’Occident, n’a pas cessé de conduire […] vers la prééminence
de ce type de pouvoir […]. Enin, par “gouvernementalité”, je crois qu’il faut entendre le processus […]
par lequel l’État […] s’est trouvé petit à petit “gouvernementalisé” 4.

3
M. Foucault, L’ordre du discours, Gallimard, Paris 1971, pp. 59-60. Cfr. anche il
concetto di événementialisation in Qu’est-ce que la critique?, in «Bulletin de la Société française
de Philosophie», vol. 84 (1990), pp. 42-45, 48.
4
M. Foucault, Sécurité, territoire, population. Cours au Collège de France. 1977-1978, Seuil/
Gallimard, Paris 2004, pp. 111-112.
176 Laura Bazzicalupo

Questo passo molto citato oscilla tra aderenza alla dispersa concretez-
za dei poteri che trova una aggregazione nominalistica nel termine (j’en-
tends l’ensemble), totalizzazione epocale (dans tout l’Occident, n’a pas cessé de
conduire vers la prééminence de ce type de pouvoir) e teleologia tendenziale (la ligne
de force, le processus): con il rischio di autorappresentarsi nel cerchio della
razionalizzazione storica. E se c’è razionalizzazione non ci sono che due
possibilità: o la tecnocrazia che ci piega alla razionalità “trionfante” o la
valorizzazione simbolica delle nozioni, per cui le veridizioni sono o reazio-
narie o progressiste5. E si perde la politicità del modo foucaultiano di fare
storia: la sua genealogia del modo in cui la verità si istituisce coincide con una
politica della verità, delle condizioni di accesso al reale.
L’agire politico coincide con il posizionamento al livello delle forze attive
e conlittuali. E la genealogia è il punto di vista che “vede” il conlitto, lo scar-
to differenziale che emerge di volta in volta nelle relazioni governamentali se
genealogicamente analizzate6. Il problema peraltro non è solo relativo sola-
mente al tema della governamentalità. Anche gli scritti sulla epimeleia seauton
e talvolta anche quelli sulla parrhesia sembrano tradire, con la loro doppia
faccia verso la storia delle idee e verso l’evento della soggettività eroica, l’e-
venemenzializzazione: vi si prendono in esame (come peraltro già in Nascita
della biopolitica) teorie, dottrine, testi letterari e ilosoici prevalenti su eventi
o strutture materiali che rendono possibili quei testi e la loro eficacia. Così
che è da quelle teorie o testi letterari e non da queste condizioni di possibilità
materiale e concreta che emerge un soggetto etico-libero problematicamente
fondato sulla cura di sé sulla distanza rispetto alla propria soggettivazione epi-
stemica. La stessa ipotesi di una parrhesia trans-storica e cripto-idealtipica ap-
pare “fondata” e può sconcertare in un autore che afferma che non esistono
costanti nella storia7. La relazione tra politica e storia è in Foucault altra cosa
rispetto agli ideal-tipi: anche malgré lui, è più fedele alla immanenza dell’agente
al campo d’azione. Quell’immanenza cieca che, signiicativamente, aveva af-
fascinato Foucault nell’anti-governamentalità liberale: la opacità della totalità
del mercato come condizione della scelta del libero agente economico, il cui
campo di azione è un incrocio di contingenze e precarie necessità.

5
M. Foucault, Sur l’archéologie des sciences. Réponse au Cercle d’épistémologie, in Dits et écrits
I, 1954-1975, Gallimard, Paris 2001, p. 756.
6
H. Dreyfus e P. Rabinow, Michel Foucault, Beyond Structuralism and Hermeneutics, The
University of Chicago Press, Chicago 1982; cfr. M. Foucault, The Subject and Power, ivi.
7
Cfr. S. Chignola, Phantasiebildern / Histoire iction: Weber, Foucault, in P. Cesaroni e
S. Chignola (a cura di), La forza del vero, ombre corte, Verona 2013, pp. 30-70; J. Revel,
Passeggiate, piccoli excursus e regimi di storicità, ivi, pp. 161-179.
Storicizzazione radicale, genealogia della governamentalità e soggettivazione politica 177

Storicizzazione radicale: livelli che si intersecano

Proviamo a ricostruire il gioco di livelli nel progetto foucaultiano


di storicizzazione: al livello, condannato perché astraente/mistiicante,
della ilosoia della storia e della razionalità giuridica e ilosoica (che
conosce il senso del divenire e polarizza la dicotomia potere e libertà)
risponde polemicamente il piano prescelto nella genealogia, che analiz-
za le pratiche nella loro dispersività e mette a fuoco in esse le relazioni
governamentali e la interdipendenza dei presunti poli oppositivi, deco-
struendo il momento metaisico della contraddizione.
Solo però un ulteriore livello di discorso, del tutto sciolto nell’im-
manenza di ciascun polo di quelle relazioni, che si muova in un am-
biente opaco dove il senso o la valorizzazione di ciascuno dei vettori
non è pre-dicibile né controllabile e acquisisce senso solo ex post: solo
quando il vettore rinuncia alla visione dell’intero campo di battaglia
governamentale e assume le veridizioni partigiane di affrontamento
ampliicandone l’inquieta contrapposizione (ancorché, si intende, de-
costruibile nella interdipendenza del governo), solo a questo livello di
discorso, rischioso e congetturale, “agisce” e trova l’energia e il corag-
gio di farlo. E agisce (possibilmente ma non necessariamente) avendo
consapevolezza genealogica della politicità delle verità contro cui e con
cui combatte.
Forse questa dinamica di livelli rinvierebbe a una scomposizione del
processo di soggettivazione. Ed è presumibile che da questa esigenza
nasca la contaminazione lacaniana di molta ilosoia postfoucaultiana.
Ma non è questo un problema di Foucault che non indaga la scena,
conlittuale e governamentale insieme, che si disloca “dentro” il proces-
so di soggettivazione. Foucault teme l’interiorizzazione e l’originarietà
trascendentale che il soggetto vi assumerebbe e considera un perno fon-
damentale del suo metodo l’analitica del visibile, delle esternizzazioni,
delle pratiche. Rimane sulla supericie dermatologica: e questa presenta
una serie di piani di discorso ma anche piani di analisi, piani di scelta che
tagliano l’evento a differenti livelli: e su essi qui dobbiamo rilettere. E
allora? Esclusa qualsiasi scomposizione ontologica della psiche, allora
l’agire politico è possibile solo se lo sguardo che ha colto le relazioni
governamentali è davvero radicalmente genealogico e non sistemico.
La critica illuminista ci offre un esempio dell’intreccio dei livelli pro-
spettici, nella parziale sovrapposizione del livello giuridico/istituzionale e
178 Laura Bazzicalupo

metaisico delle verità enunciate (inserite in un costrutto di ilosoia della


storia) sul livello della veridizione di parte parresiastica che contrappo-
ne concretamente un potere/verità ad un altro potere/verità, quello del-
lo stato assoluto, a sua volta concreto e attivo8. I livelli si intersecano: la
ilosoia della storia intesa con le sue verità giuridiche genera tanto una
pratica giurisdizionale agonistica contestualizzata che la universale visione
giuridico-istituzionale moderna. Paradossalmente, quest’ultima trascen-
denza è esattamente il piano che la veridizione critica si sceglie per vincere
la sua battaglia; non dentro, non troppo immersi nell’immanenza di una
veridizione reattiva che offuscherebbe la sua identiicabilità politica. Ci
dovremmo chiedere se, piuttosto che una contrapposizione un po’ sempli-
cistica tra verità epistemiche oggettivanti e verità aleturgiche testimoniali,
non ci troviamo di fronte ad uno spostamento di prospettiva, di punto di
osservazione. È, a mio avviso, l’imperativo epistemico di porsi all’inter-
no, di sottomettersi al fenomeno, assoggettandosi così alle veridizioni che
costruiscono le soggettivazioni assoggettandole, a liberare la dimensione
aleturgica, non oggettivante e non epistemica, di quelle stesse soggettiva-
zioni. Il focus si sposta dai contenuti universalizzanti alla loro capacità di
costruire soggettività autogovernate, stili di vita e di contro-condotta.
Ma questo passaggio di livello comporta non solo la relativa opacità sul
“senso” dell’insieme (di cui è davvero problematico affermare che sia ten-
denza epocale, linea di forza o processo dominante in Occidente), ma anche
l’opacità circa la dipendenza dell’agente dalla verità istituzionalizzata.
Dificile dire a questo proposito se sia indispensabile l’askesis che per-
mette di prendere la distanza, la déprise che sfonda l’immanenza storica:
processi etico/ilosoici improbabili nei grandi numeri dell’agire collettivo.
Oppure se sia suficiente la curvatura o piega etica che possiamo pen-
sare nei termini di ripetizione differente: variazione senza opposizione,
più immaginabile nella soggettivazione governamentale non interdittiva
del neoliberalismo. Dobbiamo comunque partire da un evento, da una
contingenza che si dà se si dà: una resistenza, una condotta di dissenso, un
vivente che afferma una vita altra; un pensiero «focolaio di esperienza»9,
che ha voce e che fa scandalo: da dove alza la sua voce?

8
M. Foucault, Qu’est-ce que la critique?, cit., pp. 35-63; Id., Qu’est-ce que les Lumières?
(1984), in Dits et écrits II, 1976-1988, Gallimard, Paris 2001, pp. 1381-1397.
9
M. Foucault, Le gouvernement de soi et des autres. Cours au Collège de France. 1982-1983,
Seuil/Gallimard, Paris 2008, p. 13.
Storicizzazione radicale, genealogia della governamentalità e soggettivazione politica 179

Governamentalità tra genealogia e razionalizzazione

Ma cos’è da un punto di vista metodico la governamentalità? Di


quale approccio epistemico è frutto? Della genealogia, ovviamente: cui
in verità la lega una speciale afinità che ampliica i rischi di una razio-
nalizzazione.
Se già l’archeologia combatteva contro la ilosoia della storia, della
coscienza e del soggetto, la genealogia sceglie polemicamente una moda-
lità nietzscheana di tenere insieme storia e prassi, anzi, storia monumentale e
un agire politico che non venga mortiicato dalla prevaricazione teorica10.
Ma c’è di più. Si accumulano diversi indicatori signiicativi per segnalare
una speciale afinità con l’assetto governamentale dei poteri.
Innanzitutto la inseparabilità delle conoscenze dalle pratiche di
potere: questo signiica che non si cercano le condizioni razionali che
rendono possibile l’evento, ma le condizioni materiali, inclusive degli
elementi eterogenei e slegati che hanno reso possibile quell’evento con-
tingente e non un altro. Non c’è Zeitgeist, non c’è stile comune e tanto
meno una razionalità sottesa agli eventi: l’obiettivo è esattamente l’even-
to, lo scarto discontinuo e contingente che non è riassorbibile in condi-
zioni razionali che ne siano “la causa”. La genealogia vuole «reperire la
singolarità degli eventi, fuori di ogni inalità monotona»11: non ci sono
essenze, leggi, ini metaisici. Cerca la discontinuità. Evita la profondi-
tà: fa apparire gli eventi di supericie, i dettagli, i piccoli mutamenti12. Il
genealogista scrive la storia effettiva, la wirkliche historie: non totalizza la
storia, né il suo sviluppo interno13. Vede tutto ciò che si muove.
In questa prospettiva le pratiche contano più delle generalizzazioni
teoriche, scientiiche o meno, che dalle pratiche ricavano la loro eficacia,
10
F. Nietzsche, Unzeitgemässe Betrachtungen. Zweites Stück: Vom Nutzen und Nachtheil der
Historie für das Leben (1874), in Kritischen Gesamtausgabe (KGW), Abteilung III, Band 1, De
Gruyter, Berlin-NewYork 1975.
11
M. Foucault, Nietzsche, la généalogie, l’histoire, in Hommage à Jean Hyppolite, PUF, Paris
1971, pp. 145-172.
12
M. Foucault, Nietzsche, Éditions de Minuit, Paris 1967, pp. 186-187: «la profondità
è restituita come segreto assolutamente supericiale». Analoga la concezione deleuziana
di evento di ispirazione nietzscheana: G. Deleuze, Nietzsche et la philosophie, PUF, Paris
1962, p. 4.
13
M. Foucault, Nietzsche, la généalogie, l’histoire, cit., p. 160: «Niente nell’uomo è
abbastanza saldo – neppure il suo corpo – per comprendere gli altri uomini e riconoscersi
in essi».
180 Laura Bazzicalupo

intelligibilità e inluenza. Le pratiche sono pervasive, disseminate, com-


plesse, ma anche contingenti e stratiicate e qualunque tentativo di totaliz-
zare in una sintesi ciò che accade è destinato ad essere una distorsione pe-
ricolosa. Pericolosa? Se ogni storiograia dotata di senso è caratterizzata da
una intenzione pragmatica, non si scrive che la storia del presente, storia
per la politica. Il genealogista conosce «il segreto che le cose sono prive di
essenza o che la loro essenza è stata costruita pezzo per pezzo a partire da
igure a loro estranee»14, ma contemporaneamente: «nessuno è responsa-
bile di un’emergenza, nessuno può gloriarsene; essa si produce sempre in un
interstizio»15. Compare così la nozione di emergenza che svolge un ruolo
chiave nell’analisi foucaultiana della governamentalità, ma anche, signii-
cativamente, in quella della parrhesia. E interessante è anche la nozione di
interstizio. Il rapporto delle forze che agiscono in una qualsiasi situazione
storica è reso possibile dallo spazio, l’interstizio, che deinisce queste forze.
È questo campo di immanenza ad essere primario per il genealogista: le
sue coordinate sono il risultato delle pratiche stabilizzate. E in esso appa-
iono manovre sociali che hanno rilievo per coloro che vi sono coinvolti,
conlitti che deiniscono quello spazio d’immanenza. Lo sguardo è su di
essi: i soggetti non preesistono, compaiono su quel campo di battaglia, sul
quale soltanto svolgono il loro funzionamento. Per lo sguardo comporta-
mentista del genealogista, il mondo è ciò che appare. E appaiono conlitti,
rapporti di forze; il genealogista ne vede il rituale con obblighi e diritti, che
non dipendono dal soggetto, ma lo fanno funzionare.
Aggiungiamo alcune notazioni di Dreyfus e Rabinow: il déchiffrement
della genealogia è la presa d’atto che ‹le pratiche sociali si prestano ad una
intelligibilità radicalmente diversa da quella che ne hanno gli attori≈; e
ancora, per il nostro discorso signiicativamente: il genealogista osserva le
cose da lontano16.
Perché ho richiamato sommariamente questi caratteri assai noti del
metodo genealogico? Empirismo, positività, materialità, evento, singola-
rità, emergenza, discontinuità, interstizi e campi di forza, distanza tra gli
attori e il sapere degli effetti, impredicibilità, storia visibile, storia concreta,
storia effettiva, storie plurali, disperse, non totalizzabili. La diagnosi sul
presente di Foucault, che oggi più ci sollecita, mette a fuoco i caratteri del

14
Ivi, p. 148.
15
Ivi, p. 156.
16
H. Dreyfus e P. Rabinow, Michel Foucault, Beyond Structuralism and Hermeneutics, cit., p. 22.
Storicizzazione radicale, genealogia della governamentalità e soggettivazione politica 181

potere neoliberale, il suo modus governamentale, in senso lato biopolitico,


con il quale si governano le vite. “Vediamo” la governamentalità, come in
ogni genealogia, attraverso i conlitti, gli scarti, che ne delineano il campo
di immanenza, attraverso cioè le resistenze delle vite che sono riottose a
farsi governare tanto o a farsi governare così. È l’evento della resistenza
che spezza il continuum di una possibile razionalizzazione e fa emergere
il governo delle vite come una relazione di potere, instabile e speciica,
diversa a seconda dei luoghi e dei tempi.
Notiamo però che molti dei caratteri che abbiamo elencato nell’ap-
proccio genealogico trovano una corrispondenza, una risonanza nella
scena governamentale: anche qui viene meno la sintesi: nessuno la cer-
ca, tanto meno si cerca una ilosoia della storia; anche qui coesistono
elementi eterogenei in una inclusività instabile, non identitaria; anche
qui si evidenzia senza mascheramento la logica strategica dei saperi, in
particolare del sapere economico che attraversa e accomuna i dispersi
vettori del campo di forza, senza forzarli in una sintesi di senso: la logica
dell’organizzazione volta alla ottimizzazione tramite competizione è il
medium che circola uniicando il campo senza sintetizzarlo; anche qui
soprattutto non è richiesto un sapere totalizzante circa il senso o l’orien-
tamento delle scelte: anzi, stante il modello del mercato e gli standard
normativi ex post che sostituiscono le leggi, gli status, un sapere globale
sarebbe distorsivo della libera dinamica dei poteri sociali; anche qui so-
prattutto, non c’è una posizione isolata e contrapposta di ciascuno, ma
vige, nonostante l’immaginario individualista, una dipendenza relativa
di posizionamento, evidenziata dalla valutazione competitiva cui è de-
mandato il compito di governare l’anarchia dei poteri. E questo signiica
che mentre il potere non dovrebbe apparire che nel conlitto/resistenza,
esso si manifesta piuttosto in una gerarchizzazione delle posizioni che
dipendono dagli standard comparativi che a loro volta rinviano alle scel-
te di ciascuno.
Questa risonanza tra governamentalità e sguardo genealogico che la
evidenzia non solo mostra come sia ormai svuotata la polemica antitra-
scendentale che diede origine alla scelta genealogica stessa, ma è carica
di effetti rischiosi.
Cosa signiica vedere genealogicamente (e valorizzare governamen-
talmente) l’interdipendenza dei poli della relazione di potere? Signiica che
per quanto la genealogia ci guidi ad una nozione di governamentalità che
forzi il continuum nella pluralità irriducibile delle situazioni e degli eventi,
182 Laura Bazzicalupo

per quanto questi eventi mostrino la discontinuità, lo scarto, per quanto


l’obiettivo sia l’emergenza dell’evento resistenziale, questo stesso apparire
dell’oggetto di governo sotto il proilo dell’emergenza che lo rende gover-
nabile e la riconduzione della resistenza alla dipendenza reciproca aderisce
esattamente al progetto governamentale, lo replica, e dunque lo raziona-
lizza. Differenza e conlittualità sono mantenute e ricondotte alla compa-
razione competitiva i cui criteri emergono dall’incrocio cieco delle condotte
e delle scelte: senza responsabilità che non sia rinviabile a ciascuna di esse.
Certo, ogni tecnologia di governo implica una razionalità politica che è in
qualche modo bifrontale: da una parte l’asse concettuale rappresenta e ra-
zionalizza tecniche di esercizio del potere, un campo discorsivo che indi-
vidua oggetti, limiti, argomentazioni giustiicative e legittimazioni, razio-
nalità normative e regole: quindi un discorso di saperi/verità, attorno a cui
si struttura il potere17; dall’altro fa afiorare o meglio accoglie la visibilità
di una speciica e concreta forma di intervento di governo: le due facce si
condizionano reciprocamente in una trasformazione incessante, secondo
il presupposto nietzscheano della impurità costitutiva, della contaminazio-
ne inevitabile delle scienze e dei saperi relativi all’oggetto di governo. Ma
c’è qualcosa di più che opera nell’intreccio metodo-oggetto, genealogia-
governamentalità: possiamo dire che la genealogia assembla sotto il nome
governamentale un dispositivo che costruisce processualmente il proprio
oggetto – individui e popolazioni – (lo pone, cioè, nella dimensione della
sua governabilità), piegandosi alla sua pluralizzazione concreta e facen-
done emergere le problematicità (le eventuali carenze e inadeguatezze),
per disporre contemporaneamente le strategie per migliorarlo: problem sol-
ving. L’oggetto governamentale che emerge dall’indagine genealogica che
non si indirizza che alle strategie, è a sua volta squisitamente strategico
e, come tale, razionalizzante: costruisce e deinisce al ine del controllo.
Come conferma la strutturale logica pragmatica operazionale di organiz-
zazione, management che lo denota. L’ontologia cede a questa modalità
di approccio curvata su una realtà non deinibile a priori, congiunturale e
emergenziale.

17
A.I. Davidson, The Emergence of Sexuality. Historical Epistemology and the Formation
of Concepts, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2001, p. 179: «combination of
certain techniques for analyzing concepts and of certain techniques for writing their
history». Cfr. anche Id., Introduction. Régimes de pouvoir et régimes de vérité, in M. Foucault,
Philosophie. Anthologie, Gallimard, Paris 2004, pp. 381-392.
Storicizzazione radicale, genealogia della governamentalità e soggettivazione politica 183

Cambiamenti di livello: emergenze, pieghe e strappi

Diamo per dato che l’obiettivo foucaultiano fosse di individuare – in


quelle vischiose macchine che sono le relazioni di potere governamentale
– il momento delle lotte di resistenza e i vettori di contro-potere. Ma la
debole formazione oggi di soggetti politici resistenti e antagonisti sembra
rinviare proprio alla capacità della governamentalità neoliberale di meta-
bolizzare e lasciar coesistere forme incoerenti in un insieme privo di sin-
tesi; le emergenze non interrompono, non contestano: divengono punti di
forza del controllo e della cattura. Così come l’eccezione viene continua-
mente sollecitata e valorizzata. La governamentalità si presenta come un
dispositivo generatore di eccezioni che incessantemente le razionalizza e le
cattura: coincide dunque tanto con le pratiche di razionalizzazione quanto
con il nomen genealogico che le dovrebbe evidenziare come resistenze. La
stessa analisi foucaultiana oscilla tra un neoliberalismo antigovernamenta-
le e una governamentalità neoliberale che esercita controllo.
Dobbiamo dunque lasciar perdere la genealogia e con essa la politica del-
la verità oppure l’obiettivo viene raggiunto con una rotazione epistemica che
senza abbandonare il campo della genealogia colloca lo sguardo del ilosofo
esattamente come quello dell’attore, dentro, il campo di osservazione?
Non si tratta di una sconfessione metodologica. È infatti proprio la
posizione interna al campo di osservazione che ha caratterizzato l’episte-
me concreto foucaultiano. Già da sempre si è trattato di un negativismo
nominalista, che sostituiva a universali come la follia, il crimine, la sessua-
lità (ora la governamentalità) l’analisi dell’esperienze storiche singolari. Si
tratta piuttosto di una ricodiicazione del metodo che permetta di mante-
nere l’assunto di una storicizzazione radicale e dunque politica, radicaliz-
zando in senso stretto la limitatezza, contingenza e pluralità degli sguardi
soggettivi immersi nel lusso degli eventi18. Solo il livello di questi sguardi
genera la visibilità prospettica delle resistenze senza fagocitarle nella rela-
zione di potere cui pure appartengono e nella quale solo sono reali.
È questa posizione che, al di là dell’ovvio riferimento a Nietzsche,
deinirei machiavelliana – fatto salvo il fraintendimento foucaultiano di
Machiavelli – che andrebbe valorizzata nell’ultimo Foucault. Se pratichia-
mo una storicizzazione radicale del punto di applicazione dell’analisi, le
contro-condotte che piegano la governamentalità in senso antigoverna-
18
M. Foucault, Le gouvernement de soi et des autres, cit., p. 22.
184 Laura Bazzicalupo

mentale, assumono un contorno più netto e visibile, nello sfondo atonale


della relazione governamentale. E, tanto più, le esperienze di parrhesia cini-
ca – letterale incarnazione, farsi carne di una improbabile libertà naturale e
di una verità a tutto tondo che si oppone alle opinioni false e ipocrite del
mondo – assumono il carattere agonistico di sida ordalica, che rilette la
politicità schietta e innegabile del pensiero.
Come si è detto, è un problema di livelli, piuttosto che di rovesciamen-
to prospettico.
La nostra domanda è: a quale livello dobbiamo tagliare l’evento, afin-
ché il dato della critica (come della parrhesia, della resistenza, della opposi-
zione veridica alla verità dominante) non risulti assorbito da quello della
governamentalità e del sistema di verità che la sostiene e che è stato, molto
probabilmente, in grado di sollecitarla? La risposta è sempre la stessa in
Foucault: quello che «restituisce al discorso il suo carattere di evento»19, di
emergenza. Ma l’emergenza “evenemenziale” si trova nella governamentalità
neoliberale eterogenea e antirappresentativa, in una rischiosa risonanza che
la contamina: opacità, differenzialità, destrutturazione, disseminazione dei
poteri sono assunte come razionalità politica da sollecitare e controllare.
Diventa allora necessario andare più a fondo, s-profondare nella stes-
sa razionalità di governo per ritrovarsi nelle sue situazioni differenziali, per
aderire a quel livello dermatologico delle conlittualità e delle resistenze:
non vedere o rinnegare le interdipendenze.
Così il vecchio paradigma del potere battaglia, innestato su quello del go-
verno lo riaccende: se e solo se lo sguardo soggettivo di parte vede un vuoto
e una contraddizione dove vuoto e contraddizione non ci sono. Solo se
la discontinuità resiste al continuum che le veridizioni governamentali co-
struiscono, diventa visibile il punto di vista di chi prende posizione, strut-
turando “liberamente” il campo di azione. La congiuntura torna a se stes-
sa; acquisisce l’aspetto, che noi spettatori percepiamo, di una frattura che
spezza il tempo in mille possibili punti. Esattamente come nel discorso
dello storico che dà conto della conlittualità, dell’antagonismo tra gruppi,
tra razze: potere/battaglia20. In “Bisogna difendere la società” Foucault oppone

19
M. Foucault, L’ordre du discours, cit., p. 40.
20
M. Foucault, Surveiller et punir. Naissance de la prison, Gallimard, Paris 1975, p. 31:
«lo studio della microisica del potere […] come modello gli si conferisce la battaglia per-
petua piuttosto che il contratto che opera una cessione, o la conquista che si impossessa
di un dominio». Cfr. M. Senellart, Michel Foucault: “gouvernementalité” et raison d’État, in AA.
VV., Situations de la démocratie, Seuil/Gallimard, Paris 1993, pp. 276-298.
Storicizzazione radicale, genealogia della governamentalità e soggettivazione politica 185

il modello bellico alle teorie contrattualiste proprio per cogliere, nel ri-
sentimento segreto degli sconitti, nella loro contro-storia la persistenza
di una irriducibile conlittualità21. Il discorso storico (storico partigiano,
storico politico, certo non ilosoico-storico), quello di marca tucididea,
si sottrae ad ogni universalità; rilevando i posizionamenti antagonisti,
opera, effettua (non si può non pensare alla verità effettuale di Machiavelli)
la disposizione delle parti, la verità come vittoria di parte (la wirkliche
Historie di Nietzsche22).
Superluo ricordare che con il passaggio dal potere/battaglia al po-
tere/governamento la relazione di potere si fa più complessa: entrano in
gioco i fattori oblativi, le modalità della cura, i ini protettivi-incrementativi
della vita in senso ampio biopolitici e viene messa in gioco la funzione
produttiva di soggettivazione del potere governamentale, non frontalmen-
te contrapposto al potere del governato… e la lotta? Essendo il governo
azione sulle azioni degli altri si valorizza una forma di libertà dipendente e
«conseguentemente non c’è alcun affrontamento faccia a faccia di potere e di libertà che
sia reciprocamente esclusivo»23. La genealogia, l’abbiamo detto, si trova
di fronte ai dispositivi governamentali che includono relazionalmente in
reciproca dipendenza i poli del conlitto. Pur radicalizzando il punto di
vista genealogico, mirato alla discontinuità, quest’ultima (che testimonia lo
strutturale fallimento dell’assoggettamento) resta inclusa nel dispositivo e
non trova emersione nella forma dell’affrontamento. Non potremo vede-
re lo scarto rispetto all’assoggettamento, il discontinuo della resistenza se
non come ininito rinvio di assoggettamento e soggettivazione.
Libertà, ma senza affrontamento: piega, dunque. Ma cessa per questo
la lotta delle verità che caratterizzava il discorso dello storico? Rivendicando
nello stesso saggio, la stretta relazione dell’analisi empirica con le relazioni di
potere legate al presente, Foucault insiste “nel considerare come punto di par-
tenza le forme di resistenza opposte alle differenti forme di potere. Per usare
un’altra metafora esso (metodo) consiste nell’utilizzare queste resistenze come
un catalizzatore chimico che permetta di mettere in evidenza le relazioni di
potere, di localizzare la loro posizione, di scoprire i loro punti di applicazione e
i metodi utilizzati. Piuttosto che analizzare il potere dal punto di vista della sua

21
M. Foucault, “Il faut défendre la société”. Cours au Collège de France. 1975-1976, Seuil/
Gallimard, Paris 1997, pp. 48-53.
22
M. Foucault, Nietzsche, la généalogie, l’histoire, cit., p. 159.
23
M. Foucault, The Subject and Power, cit., p. 249 (corsivo mio).
186 Laura Bazzicalupo

razionalità interna, si tratta di analizzare le relazioni di potere attraverso l’antagonismo


delle strategie24. L’antagonismo delle strategie rende visibile la disposizione delle
parti antagoniste, le “localizza”, ne scopre i punti di forza e di debolezza: ciò
che separa una forza dall’altra, non ciò che le unisce: “strategie di lotta in cui
le due forze (che Michel Senellart giustamente sottolinea essere molteplici25)
non giungono a sovrapporsi, non perdono la loro natura speciica e inine non
arrivano a confondersi. Ciascuna costituisce per l’altra una sorta di limite per-
manente, un punto di possibile rovesciamento.
Questo il piano dell’antagonismo politico, dello scontro frontale delle ve-
ridizioni (come nel caso della critica e della parrhesia), che segnano frontiere
ben precise perché legate alla differenziazione tra vero e falso e supportano
sì le strategie, ma tramite l’enfasi della contrapposizione. Questa enfasi non è
affatto secondaria perché è sulla pubblicità e perentorietà del gesto oppositivo
che si innesta l’effetto politico e la capacità di fungere da esempio. Certo il
quadro è ben più complesso di quello della semplice ipotesi del potere batta-
glia, «piuttosto che di un antagonismo essenziale sarebbe meglio parlare di un
agonismo, di un rapporto che è allo stesso tempo di incitamento e di lotta»26.
Ma l’antagonismo nella parrhesia c’è e afiora in modo deciso, legato a
quella virtù del coraggio e alla sida provocatoria sul rischio di vita chiamato
a garantire il maggior valore, la differenzialità etica della verità testimoniata
rispetto a quella dominante. La relazione di potere è un affrontamento tra due
avversari.
Cruciale, suggerisce Foucault, «è la possibilità di decifrare questi stessi
eventi dall’interno di una storia delle lotte oppure dal punto di vista delle re-
lazioni di potere»27. Il punto chiave di questo prezioso suggerimento è quel
‘dall’interno’ che permette l’emersione delle lotte.
A seconda della direzionalità dello sguardo e della sua immanenza al
campo di osservazione avremo signiicati, concatenamenti, intelligibilità di-
versi riferibili alla stessa realtà storica, fermo restando che l’analisi che evi-
denzia le lotte non può non rinviare a quella che focalizza la piega governa-

24
Ivi, p. 239.
25
Michel Senellart (M. Senellart, Michel Foucault: “gouvernementalité” et raison d’État, cit.)
sottolinea il ritorno alla molteplicità della battaglia al di fuori di ogni teleologia rivoluziona-
ria e di ogni struttura binaria di contrapposizione; Foucault ci dice che ogni strategia di
affrontamento mira a diventare una relazione stabile di governo e di “vincere” la resisten-
za. Provvisoriamente, s’intende, perché la relazione di governo solleverà altra resistenza.
26
M. Foucault, The Subject and Power, cit., p. 315.
27
Ibidem.
Storicizzazione radicale, genealogia della governamentalità e soggettivazione politica 187

mentale: in combinazione e rinvio reciproco. Entrambe forme di storiciz-


zazione radicale che, riconoscendo la propria co-appartenenza al piano di
immanenza descritto, deiniscono il dire-il-vero in tutta la sua contingenza:
l’una però rendendoci la prospettività soggettiva del conlitto.
Se di fronte allo sguardo che si mantiene aderente all’immanenza sto-
rica senza trascenderla, non emergerà la prospettiva rivoluzionaria globale,
né la guerra dicotomica e frontale, ma molte pratiche singole di trasgres-
sione e contrapposizione, di contraddizione in fondo, pure la loro inci-
sività sociale, culturale e politica non va sminuita e manifesta un piano
del discorso dove è proprio l’antagonismo, lo scontro ad essere cruciale.
Saranno lotte trasversali, sempre infra-governamentali, mirate al “nemico
immediato”, situato, piuttosto che al “nemico principale”, si tratterà di lot-
te anarchiche orientate alla “differenza” come sono state quelle del ’68, ma
comunque ruotano attorno alla domanda “chi siamo?” e al riiuto radicale
delle oggettivazioni veridiche governamentali sia scientiiche che ammini-
strative, alle forme di sottomissione della soggettività28. Contrapporsi alla
marcatura che ci fa soggetti assoggettati, comporta qualcosa di più che
una piega: una contrapposizione che pur essendo risolta nella pratica di
resistenza, si incardina su un’altra veridizione, contrapposta e dicotomica,
oppure così radicalmente ligia alla verità dominante da rovesciarla proprio
nel prenderla assolutamente alla lettera. Come facevano i cinici con la ve-
rità ilosoica.
Le pratiche parresiastiche imprimono nelle veridizioni dominanti ri-
petizioni-variazioni che – lo si vede bene nella parrhesia cinica rispetto al
tronco di quella socratica – le piegano, le estremizzano. Sono pieghe che
però vengono vissute e testimoniate come uno strappo, un posizionamen-
to frontale e come tali sono percepite anche da chi assiste alla scena.
Più che una verità aleturgica contro quella epistemica, abbiamo una
radicalizzazione e una ripetizione con differenza: la verità dominante si
replica, alterandosi in una smoria, Butler direbbe: una parodia. È questo
il “gioco di specchi” della parrhesia; la parrhesia cinica è lo specchio infran-
to della ilosoia dominante e dunque di una forma di governamentalità.
Una ripetizione che non solo non esclude la differenziazione etica, ma
che giunge a rompere lo specchio in cui si rilette. Ma la radicalizzazione
è così violenta che si spezza il ilo, la trama, il tessuto della piega: quando

28
Ivi, p. 244: «Forse oggi l’obiettivo principale non è di scoprire che cosa siamo, ma
piuttosto di riiutare quello che siamo».
188 Laura Bazzicalupo

qualcuno si espone alla morte per la verità fa saltare ogni acconsentimen-


to biopolitico governamentale, a partire da quello hobbesiano. È il piano
congiunturale del rapporto a sé, il piano dell’ontologia storica del sé, il
piano cioè dell’etica come politica29. Questo piano dipende dalla governa-
mentalità, ma la nega: è parziale e discontinuo rispetto ad essa.

Laura Bazzicalupo
Università degli Studi di Salerno
l.bazzicalupo@unisa.it

.
Radical Historicising, Genealogy of Governmentality, and Political Subjectivation

The essay focuses epistemic tension between the category of governmentali-


ty and the radical historicizing that is implicit in the discourse of the historian
and in the category of parresia. Against the use of governmentality in order to
rationalize the discontinuities, the essay claims, in the Foucauldian work, the ra-
dical empiricism and Nietzschean genealogical analysis of the event. The eve-
nementalisation, keeping open the contingency, avoids historical necessity and
reveals practices, programs and devices with differentiating effects that make
possible political antagonist action that governmental perspective seems some-
times exclude.

Keywords: Governmentality, Radical Historicizing, Parresia, Antagonism, Event,


Genealogy, Rationalization.

29
M. Foucault, Politics and Ethics. An Interview, in P. Rabinow (a cura di), The Foucault
Reader, Pantheon Books, New York 1984, p. 375: «I would more or less agree with the
idea that in fact what interests me is much more morals than politics or, in any case,
politics as an ethics».
Spectator novus: trasigurazione e straniamento in Foucault,
Hadot e Ginzburg
Laura Cremonesi

Questo articolo intende aprire un confronto tra pensatori provenienti


da percorsi profondamente diversi, ma che trovano un punto in comu-
ne nel far ricorso a un procedimento di modiicazione della prospettiva
per orientare i loro metodi di indagine. Si tratta di Pierre Hadot, di Carlo
Ginzburg e di Michel Foucault, che hanno impiegato le idee di esercizi spi-
rituali, di straniamento e di trasigurazione per mantenere nei confronti dei
loro oggetti di ricerca e delle loro rispettive discipline – dalla ilologia alla
storia e alla ilosoia – una proicua distanza, che permette di modiicare
eficacemente il nostro sguardo su questi ambiti di studio.
Uno dei primi esempi della messa in atto di questa distanza ci è sta-
to infatti offerto da Hadot che, grazie a una lettura dettagliata e attenta
dell’opera di Marco Aurelio, ha mostrato come molte delle sue pagine
consistano proprio nella deliberata assunzione di un diverso punto di vi-
sta nei confronti degli oggetti e degli eventi della vita quotidiana. Questa
lettura di Hadot ha un certo rilievo sia per la rilessione di Ginzburg sul
procedimento dello straniamento sia, in generale, per il lavoro di Foucault
e per le sue considerazioni sul concetto di critica.
Sulla scia dei lavori di Arnold I. Davidson1 che, evidenziando chiara-
mente come il procedimento dello straniamento possa essere letto come
un vero e proprio esercizio spirituale, hanno aperto la possibilità di questo
confronto, questo articolo ripercorrerà, in un primo tempo, l’interpreta-
zione di Hadot dell’Eis heauton di Marco Aurelio, per poi passare all’im-
portanza cognitiva del procedimento dello straniamento, messa in luce da
Ginzburg, e affrontare inine in modo più dettagliato la questione della
critica e dei suoi rapporti con la pratica della trasigurazione in ambito
estetico, che appare in alcuni degli ultimi testi di Foucault. Il ilo condutto-
re che unirà questi tre momenti sarà quello della igura dello spectator novus,
di colui che sa guardare le cose come se le vedesse per la prima volta.

1
Si veda, in particolare, A.I. Davidson, L’arte di leggere lentamente. Discussione de Il ilo
e le tracce di Carlo Ginzburg, in «Iride», vol. 20 (2007), n. 51, pp. 381-386 e C. Ginzburg e
A.I. Davidson, Il mestiere dello storico e la ilosoia, in «aut aut», n. 338 (2008), pp. 178- 202.

materiali foucaultiani, a. IV, n. 7-8, gennaio-dicembre 2015, pp. 189-201.


190 Laura Cremonesi

Pierre Hadot: l’Eis heauton come esercizio spirituale

A un primo sguardo, l’Eis heauton appare inevitabilmente come una


raccolta disordinata di rilessioni, redatte da Marco Aurelio nelle varie cir-
costanze della sua vita, e forte è la tentazione di leggerle come un diario
intimo, testimone della vita psicologica e degli stati d’animo dell’impera-
tore, perlopiù improntati a un profondo pessimismo e a una tetra disil-
lusione. Una lettura più attenta può però permettere, secondo Hadot2,
di far emergere sotto all’apparente disordine dei pensieri una struttura
coerente e organizzata secondo determinati princìpi. Il primo passo da
compiere sta nel riconoscere il genere letterario cui il testo appartiene,
che non è quello del diario intimo: l’Eis heauton è infatti un testo propria-
mente ilosoico. Il secondo passo consiste poi nel riconoscere la natura
dell’insegnamento ilosoico dell’epoca, che non verteva prevalentemente
sulla trasmissione di nozioni astratte, ma aveva lo scopo primario di agire
sull’anima del discepolo e di guidarlo verso un modo di vita ilosoico,
coerentemente con l’idea, che permea la cultura greca, ellenistica e ro-
mana, per cui la ilosoia è una maniera di vivere, volta al conseguimento
dell’ideale – orientativo e irraggiungibile – della saggezza. Come ha ben
messo in luce Hadot nel corso delle sue ricerche, questo cammino verso
la saggezza si realizzava attraverso un’askesis quotidiana, composta da nu-
merosi esercizi, di cui i testi ilosoici antichi ci offrono una preziosa te-
stimonianza. Tra questi esercizi, di capitale importanza era senza dubbio
la meditazione (melete)3: si trattava di un lavoro che i discepoli svolgevano
sui princìpi fondamentali delle scuole ilosoiche, al ine di assimilarli in
modo profondo e averli sempre presenti allo spirito e disponibili (sotto-
mano – procheiron) in tutte le circostanze della vita, per orientare il proprio
comportamento e regolare le loro disposizioni interiori in modo confor-
me agli insegnamenti della scuola.

2
Cfr. P. Hadot, La physique comme exercice spirituel ou pessimisme et optimisme chez Marc
Aurèle e Une clé des Pensées de Marc Aurèle: les trois topoi philosophiques selon Epictète, in
Exercices spirituels et philosophie antique, a cura di A.I. Davidson, Albin Michel, Paris 2002,
pp. 145-164 e 165-192; trad. it. Marco Aurelio: la isica come esercizio spirituale, ovvero ottimismo
e pessimismo e Una chiave dell’Eis heauton di Marco Aurelio: i tre topoi ilosoici secondo Epit-
teto, in Esercizi spirituali e ilosoia antica, a cura di A.I. Davidson, Einaudi, Torino 2002,
pp. 119-133 e 135-154.
3
Cfr. P. Hadot, Exercices spirituels, in Exercices spirituels et philosophie antique, cit., pp.
19-74; trad. it. Esercizi spirituali, in Esercizi spirituali e ilosoia antica, cit., pp. 35-38.
Spectator novus 191

Il testo di Marco Aurelio deve dunque essere ricollocato in questo conte-


sto e letto come una preziosa testimonianza dello speciico esercizio spirituale
della meditazione, svolto per scritto «in forma di autentico dialogo con se
stesso: eis heauton»4, destinato ad assimilare e a richiamare incessantemente alla
memoria le basi dello stoicismo. Ecco quindi che le sue constatazioni, che a
un primo sguardo apparivano velate dal più profondo pessimismo, possono
essere lette in una luce nuova. Quando Marco Aurelio, ad esempio, non vede
nel laticlavio o nei cibi più pregiati altro che una spoglia realtà fatta di sangue e
di cadaveri di animali, non sta posando sul mondo uno sguardo disilluso, ma
sta mettendo in pratica un preciso esercizio spirituale, che consiste nell’attuare
i princìpi della ilosoia stoica (e in particolar modo della isica):

Le vivande cotte e altri commestibili del genere bisogna rappresentarseli quali


il cadavere di un pesce, di un uccello o di un porcellino; e il Falerno quale succo
d’uva; e la porpora quale peli di pecora bagnati nel sangue di una conchiglia5.

È lo stesso Marco Aurelio, secondo Hadot, a spiegare la natura del


metodo applicato in questo brano:

Occorre sempre dare una deinizione o descrizione dell’oggetto che si pre-


senta nella rappresentazione, al ine di vederlo in se stesso, qual è nella sua essen-
za, messo a nudo tutto intero e in tutte le sue parti secondo il metodo della divi-
sione, e dire a se stessi il suo vero nome e quello delle parti che lo compongono
e nelle quali si risolverà6.

Questo esercizio è quindi volto a fornire una rappresentazione esatta,


isica, degli oggetti che ci circondano e degli eventi che suscitano in noi
desideri e passioni. Questa descrizione spoglia degli oggetti e degli eventi
serve a “vederli in se stessi”, per come sono realmente, ossia staccati dai
valori sociali e condivisi che vengono loro convenzionalmente attribuiti.
Si tratta quindi di uno sguardo che «attraversa [transperce]»7 cose ed eventi,
oltrepassa le valutazioni convenzionali, per guardarli da un altro punto

4
P. Hadot, La physique comme exercice spirituel, cit., p. 150; trad. it. cit., p. 122.
5
Marco Aurelio, Eis heauton, VI, 3; traduzione di Pierre Hadot, ivi, p. 145; trad. it.
cit., p. 119.
6
Marco Aurelio, Eis heauton, III, 11.
7
P. Hadot, La physique comme exercice spirituel, cit., p. 152; trad. it. cit., p. 124 (Hadot
cita Marco Aurelio, Eis heauton, VI, 13).
192 Laura Cremonesi

di vista. In Marco Aurelio, questa nuova prospettiva è quella della natura


universale, della necessaria concatenazione di cause che governa il cosmo
e in cui cose ed eventi sono immersi. Questa modiicazione dello sguardo
ha due effetti: trasigura cose ed eventi che, visti in quanto parte della na-
tura universale, appariranno dotati di un’inedita bellezza e, al tempo stesso,
trasforma il modo di essere di chi esercita questo sguardo, aprendogli la
strada per la grandezza d’animo, stato che permette di acquisire una nuova
familiarità con il mondo e di accettare e di amare ogni accadimento, perché
lo si riconosce come scaturito dalla volontà della natura universale.
La isica, modulata come esercizio spirituale, permette quindi di por-
tare sulle cose uno sguardo nuovo che, pur se derivato da una profonda
conoscenza del complesso sistema della ilosoia stoica, possiede tutta l’in-
genuità di chi vede le cose per la prima volta, senza esser guidato da tutto il
sistema di valori sociali che solitamente orienta il nostro modo di guardare.

Carlo Ginzburg: l’importanza cognitiva dello straniamento

L’ingenuità dello sguardo è anche il filo conduttore scelto da Car-


lo Ginzburg per descrivere le varie figure di straniamento, nel suo
articolo Straniamento. Preistoria di un procedimento letterario 8, in cui pro-
pone un percorso che parte appunto da Marco Aurelio per arrivare a
Proust, passando per il genere popolare degli indovinelli, per l’Illu-
minismo francese, per Tolstoj e, naturalmente, per Viktor Šklovskij,
che dello straniamento ha fatto uno dei cardini della descrizione del
funzionamento dell’arte, intesa come “congegno” 9. Ed è proprio la
lettura dell’Eis heauton fornita da Hadot a permettere a Ginzburg di
vedere nelle riflessioni di Marco Aurelio una prima traccia di quel
procedimento che avrà tanta fortuna nella letteratura moderna e
contemporanea. Se le descrizioni fisiche degli oggetti e degli eventi
proposte da Marco Aurelio hanno infatti lo scopo primario di far
mutare il nostro sguardo e di farci aggirare il sistema convenzionale
di valori che vengono abitualmente loro attribuiti, questo è anche

8
G. Ginzburg, Straniamento. Preistoria di un procedimento letterario, in Occhiacci di legno.
Nove rilessioni sulla distanza, Feltrinelli, Milano 2011, pp. 15-39.
9
V. Šklovskij, Una teoria della prosa, De Donato, Bari 1966.
Spectator novus 193

l’obiettivo che Šklovskij attribuisce all’arte: essa infatti metterebbe


in atto dei procedimenti – tra cui lo straniamento – volti a scuoterci
dalle nostre abitudini percettive che ci impediscono di vedere le cose
che ci circondano e che ci sono eccessivamente vicine e familiari;
lo straniamento, come procedimento consistente nel «descrivere [le
cose] come se le si vedesse per la prima volta», nel «presentare [ogni
evento] come se accadesse per la prima volta» 10, porrebbe tra noi e
ciò che ci circonda una distanza che ci permetterebbe una reale vi-
sione delle cose.
Questo procedimento, continua Ginzburg, era stato impiegato
dagli autori dell’Illuminismo francese come strumento efficace di una
critica politica e sociale. Un espediente ricorrente e che ha una lunga
storia è quello delle figure del selvaggio, del bambino o dell’animale
che descrivono dal loro punto di vista costumi e abitudini che non
appartengono al loro mondo e che non comprendono pienamente.
Questa descrizione ingenua, non condizionata dall’abitudine, coglie
però più a fondo la realtà sociale, le sue ingiustizie e le sue assurdità,
fornendo un’acuta critica politica che scalza tutte quelle forme di
legittimazione che derivano unicamente da ben radicate consuetudi-
ni secolari. Come in Marco Aurelio, lo sguardo di queste figure che
vedono il nostro mondo per la prima volta riesce a cogliere ciò che è
solitamente velato dall’abitudine o dai valori sociali che attribuiamo
alle cose.
Se, ancora in Tosltoj, lo straniamento ha lo scopo di mostrare le
cose come realmente sono, è in Proust che, secondo Ginzburg, esso
acquisisce una finalità di segno inverso: Madame de Sévigné ed Elstir
condividono il dono di mostrarci le cose preservando la freschezza
delle prime impressioni, prima che esse si combinino in una figura
riconoscibile; non si tratta, quindi, di cogliere la realtà delle cose te-
nendole a distanza dalle convenzioni sociali che ci impediscono una
loro esatta visione, quanto di portare sulle cose uno sguardo nuovo,
“superficiale”, non condizionato da precedenti rappresentazioni. Ed
è proprio in riferimento all’Elstir di Proust che Ginzburg chiarisce
l’importanza dello straniamento per il metodo storico:

10
Ivi, p. 18.
194 Laura Cremonesi

Mi sembra che lo straniamento sia un antidoto eficace contro un rischio


cui siamo esposti tutti: quello di dare la realtà (noi stessi compresi) per scontata.
Le implicazioni antipositivistiche di quest’affermazione sono ovvie. Ma nel sot-
tolineare le implicazioni cognitive dello straniamento vorrei anche oppormi con
la massima chiarezza possibile alle teorie di moda che tendono a sfumare, ino
a renderli indistinti, i conini tra storia e inzione. Questa confusione sarebbe
respinta dallo stesso Proust. Quando diceva che la guerra può essere raccontata
come un romanzo, Proust non voleva affatto esaltare il romanzo storico; al con-
trario, voleva suggerire che tanto gli storici quanto i romanzieri (o i pittori) sono
accomunati da un ine cognitivo. È un punto di vista che condivido pienamente.
Per descrivere il progetto storiograico in cui personalmente mi riconosco uti-
lizzerei, con un piccolo cambiamento, una frase di Proust […]: «E se volessimo
supporre che la storia fosse scientiica, bisognerebbe dipingerla come Elstir di-
pingeva il mare, alla rovescia»11.

Il ricorso al procedimento letterario dello straniamento, quindi, lungi


dal fare della storia una inzione, è un procedimento cognitivo che può
utilmente orientare lo storico che, fermo nella metodologia che gli è pro-
pria, può rivolgere il suo sguardo verso il proprio oggetto, in modo da
guardarlo come se fosse visto per la prima volta, con quella distanza ne-
cessaria per evitare di incorrere nei più comuni errori che costellano il
cammino della procedura storica.
Come ha ben messo in luce Arnold I. Davidson, anche il metodo
storico e ilologico di Hadot implica una modiicazione del modo di guar-
dare all’oggetto di ricerca. Grazie ai saggi di Hadot, ad essere trasformata
è infatti la nostra visione del testo di Marco Aurelio, perché essi rendono
infatti visibile una struttura coerente che non è mai stata nascosta ma che,
per esser percepita, richiedeva un cambiamento di prospettiva, un modo
nuovo di guardare ai pensieri raccolti nell’Eis heauton. Davidson descrive
con chiarezza questa trasformazione del nostro modo di vedere:

Hadot, discovering the form that “renders all the details necessary”, allows us to read the
Meditations coherently, transforms our experience form that of reading a disconnected journal
to one of reading a rigorously structured philosophical work12.

11
C. Ginzburg, Straniamento, cit., p. 34.
12
A.I. Davidson, Introduction. Pierre Hadot and the Spiritual Phenomenon of Ancient Phi-
losophy, in P. Hadot, Philosophy as a Way of Life. Spiritual Exercises from Socrates to Foucault,
Blackwell, Malden 1995, p. 12.
Spectator novus 195

I lavori di Hadot non svolgono quindi un compito ermeneutico, di


messa in luce di un signiicato soggiacente e invisibile, ma realizzano una
trasformazione della nostra esperienza di lettori, grazie a precisi strumenti
ilologici e storici.
Hadot e Ginzburg fanno dunque un uso simile, rispettivamente, degli
esercizi spirituali e dello straniamento, considerandoli come una sorta di
“libro di bordo” per la ricerca storica, come strumenti che permettono
di guardare un oggetto con gli occhi dello “spectator novus”, che dirige sul
mondo uno sguardo nuovo, cui fa riferimento Pierre Hadot, quando spie-
ga la storia e l’attualità degli esercizi spirituali antichi, in relazione a un
noto passaggio della Lettera 64 di Seneca:

Non sono meno estasiato dalla contemplazione della saggezza di quanto


io non lo sia, in altri momenti, dalla contemplazione del mondo che, di fre-
quente, guardo come farebbe uno spettatore che lo vede per la prima volta
[spectator novus]13.

Hadot commenta:

Questo sguardo nuovo non è un’intuizione gratuita e inattesa, ma il risultato


di uno sforzo interiore, di un esercizio spirituale destinato a vincere l’abitudine
che rende banale e meccanico il nostro modo di vedere il mondo, destinato anche
a distaccarci dall’interesse, dall’egoismo, dalle preoccupazioni che ci impediscono
di vedere il mondo in quanto mondo, perché ci costringono ad applicare la nostra
attenzione sugli oggetti particolari che ci procurano piacere o che ci sono utili14.

Anche per Hadot, quindi, ad esser centrali nello sguardo dello spectator
novus sono l’idea dell’abitudine, che rende meccanica la nostra percezione,
e quella del distacco, che permette di modiicare la nostra prospettiva, idee
che costituiscono anche il nucleo dello straniamento.

13
Seneca, Lettera 64, 6, brano citato in P. Hadot, L’homme antique et la nature, in Études
de philosophie ancienne, Les Belles Lettres, Paris 2010, p. 314; trad. it. L’uomo antico e la natura,
in Studi di ilosoia antica, a cura di A.I. Davidson, ETS, Pisa 2014, p. 275.
14
Ivi, pp. 314-315; trad. it. cit., pp. 275-276. Si veda anche P. Hadot, Le sage et le
monde, in Exercices spirituels et philosophie antique, cit., pp. 343-360; trad. it. Il saggio e il mondo,
in Esercizi spirituali e ilosoia antica, cit., pp. 179-192.
196 Laura Cremonesi

Michel Foucault: il compito della critica e la trasigurazione

Questa articolazione tra vicinanza, eccessiva familiarità e importanza


della messa a distanza si trova anche in Michel Foucault, in alcuni suoi
saggi dedicati al compito attuale del pensiero ilosoico15. Come è noto,
in questi testi Foucault fa risalire la deinizione del compito critico del-
la ilosoia alla risposta kantiana alla domanda sull’Illuminismo16. In essa,
Kant avrebbe ben colto la caratteristica principale dell’Illuminismo, indivi-
duandola nel fatto che, da quel momento in poi, il pensiero ilosoico non
avrebbe più potuto evitare di confrontarsi con la sua attualità. Da allora,
la ilosoia sarebbe stata inevitabilmente chiamata interrogarsi sul proprio
presente, a dirne i caratteri, e a prendere parte attiva ai movimenti di tra-
sformazione che vi accadono e che lo differenziano rispetto al passato.
Con Kant, quindi, si inaugurerebbe per il pensiero un modo speciico di
essere in rapporto con l’attualità, che secondo Foucault può essere deini-
to come atteggiamento critico.
In particolare, Kant realizza questo atteggiamento critico quando in-
dividua, come carattere della propria attualità, l’uscita della ragione dalla
minorità, e quando assume un compito speciico verso questo movimento
di autonomizzazione della ragione, compito che consiste nell’incentivare
l’autonomia della ragione, deinendo in modo esatto i limiti legittimi del
suo uso. Kant mette in luce dunque un tratto caratteristico della propria
attualità e lo assume come punto di partenza per il proprio compito ilo-
soico.
In che modo, però, Foucault pone il proprio lavoro in continuità con
la deinizione kantiana dell’Illuminismo? Non si tratta, chiaramente, di dar
seguito all’impresa critica kantiana, ma di salvaguardare quel doppio rap-
porto al presente messo in luce da Kant nella sua risposta sull’Illuminismo.
Come ha ben sottolineato infatti Judith Revel, Foucault vede in quel testo

15
In particolare M. Foucault, Le gouvernement de soi et des autres. Cours au Collège de
France. 1982-1983, a cura di F. Gros, Seuil/Gallimard, Paris 2008, pp. 3-39; trad. it. Il go-
verno di sé e degli altri. Corso al Collège de France (1982-1983), a cura di M. Galzigna, Feltrinelli,
Milano 2008, pp. 11-47 e Qu’est ce que les Lumières?, in Dits et écrits II, 1976-1988, a cura di
D. Defert e F. Ewald, Gallimard, Paris 2001, pp. 1381-1397; trad. it. Che cos’è l’Illuminismo?,
in Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, vol. 3, a cura di A. Pandoli, Feltrinelli, Mi-
lano 1998, pp. 217-232.
16
I. Kant, Risposta alla domanda: cos’è illuminismo?, in Scritti di storia, politica e diritto, a
cura di F. Gonnelli, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 45-52.
Spectator novus 197

la messa in opera di un doppio compito per la ilosoia: uno da esercitare


in relazione al presente, e uno da esercitare in relazione all’attualità. Del
presente, infatti, la ilosoia deve dire la genealogia, individuare il punto di
emergenza storico delle pratiche che lo hanno fatto essere quale è; quando
si rivolge all’attualità, la ilosoia deve invece mettere in luce le possibilità
aperte di trasformazione, divenendo allora sguardo rivolto più al futuro
che al passato17. Revel spiega:

Il punto di rottura possibile del presente è ciò che Foucault chiama l’attualità
– l’attualità: la rottura intima del presente. L’attitudine è ciò che introduce una
disgiunzione tra il presente e l’attualità. Il nostro presente è ciò che permane; la
nostra attualità è ciò che interrompe il nostro presente attraverso l’introduzione
di una differenza possibile che è importante identiicare18.

Come si concretizza, quindi, questo doppio atteggiamento critico?


Come è possibile introdurre questa “disgiunzione”, come identiicare la
“differenza” possibile? Per Foucault, una delle possibilità consiste nell’e-
sercizio di quello che egli chiama sguardo “diagnostico”. Adottare un at-
teggiamento critico nei confronti del presente signiica quindi, per Fou-
cault, tentare di conferire al proprio sguardo uno speciico orientamento,
che permette di afferrare il presente sotto un’angolatura diversa. Si tratta
quindi di assumere in modo deliberato una certa prospettiva, per tentare di
ottenere un effetto che Foucault deinisce di “fragilizzazione” del nostro
modo di essere attuale. Foucault afferma:

La critica è proprio l’analisi dei limiti e la rilessione su di essi. Ma, se la que-


stione kantiana era di sapere quali siano i limiti che la conoscenza deve rinunciare
a superare, mi sembra che, oggi, la questione critica debba essere ribaltata in
positivo: qual è la parte di ciò che è singolare, contingente e dovuto a costrizioni
arbitrarie in quello che ci è dato come universale, necessario, obbligato? Si tratta,
insomma, di trasformare la critica esercitata nella forma della limitazione neces-
saria in una critica pratica nella forma del superamento possibile19.

17
J. Revel, Passeggiate, piccoli excursus, regimi di storicità, in P. Cesaroni e S. Chignola (a
cura di), La forza del vero. Un seminario sui Corsi di Michel Foucault al Collège de France, Ombre
Corte, Verona 2013, pp. 161-179.
18
Ivi, p. 178.
19
M. Foucault, Qu’est ce que les Lumières?, cit., p. 1393; trad. it. cit., p. 228.
198 Laura Cremonesi

Lo sguardo diagnostico che caratterizza la critica tenta quindi di co-


gliere la contingenza, l’arbitrario e la singolarità al cuore del nostro essere
presente e di mettere in opera quella impresa di storicizzazione che Fou-
cault ha da sempre indicato come compito effettivo della sua pratica ar-
cheologica e soprattutto genealogica. La sida della critica consiste quindi
nello spingere lo sguardo diagnostico il più lontano possibile, ino a fargli
attraversare le strutture “universali” del nostro essere, a partire proprio
dalla forma che ha attualmente la nostra soggettività.
Foucault, però, fornisce anche ulteriori indicazioni sui possibili modi
in cui questo sguardo critico si può esercitare. Ne La ilosoia analitica della
politica, ad esempio, egli propone una rilessione sui possibili rapporti tra
ilosoia e potere e sui vari ruoli che, storicamente, la ilosoia ha svolto
nei confronti del potere. Come è facile immaginare, per Foucault, il ruolo
classico della ilosoia, quello di “moderatore” che limita gli eccessi del
potere con l’esercizio della ragione, non può che essere illusorio. Egli cerca
allora di deinire un altro modo in cui la ilosoia si può situare nel campo
strategico delle relazioni di potere:

Da molto tempo sappiamo che il compito della ilosoia non è di scoprire


ciò che è nascosto, ma di rendere esattamente visibile ciò che è visibile, di far ap-
parire quello che è così vicino, così immediato, così intimamente connesso a noi,
da non poter essere percepito20.

Compito della ilosoia è quindi quello di orientare lo sguardo, di “ren-


dere visibile” il modo effettivo di esercizio del potere. Se abitualmente non
percepiamo alcune relazioni di potere, è perché esse sono troppo familiari,
intimamente connesse a noi, perché sono ciò che ha costituito la forma
presente della nostra soggettività. Per percepirle, non occorre portare alla
luce qualcosa che sarebbe invisibile, o nascosto, ma è necessario porre in
atto un’operazione di distacco, di perdita di familiarità, di riorientamento
della nostra attenzione. Per Foucault, in effetti, il modo di funzionamento
del potere non è mai nascosto: non è coperto da un velo di ideologia, né
siamo vittime di un’alienazione che ci impedirebbe di vedere le cose per
come realmente sono. Per cogliere il modo di azione del potere basta rio-
rientare lo sguardo e, ad esempio, scegliere bene la scala di grandezza: per

20
M. Foucault, La philosophie analytique de la politique, in Dits et écrits II, cit., pp. 540-541;
trad. it. La ilosoia analitica della politica, in Archivio Foucault, vol. 3, cit., pp. 103-104.
Spectator novus 199

descrivere il modo in cui si è esercitato il potere in certi periodi e contesti


storici, uno sguardo “microisico” può essere più eficace di uno che si
colloca al livello dei grandi apparati statali e che non riesce quindi a perce-
pire i meccanismi disciplinari.
Il compito della ilosoia, come già accennato prima, non è però mai
puramente descrittivo. Il gesto della critica è sempre duplice: se da un
lato mostra l’azione dei meccanismi di potere nella costruzione del nostro
essere storico, dall’altro essa apre lo spazio in cui un’attività di modii-
cazione del presente può realizzarsi. Rendere visibile il presente e, nello
stesso gesto, mostrarlo nella sua possibile alterità: per designare questo
atto, Foucault impiega l’idea di “trasigurazione”, che egli trae dall’espe-
rienza letteraria e in particolare dai testi di Charles Baudelaire dedicati al
pittore Constantin Guys. In Che cos’è l’Illuminismo?, per descrivere l’ethos
su cui la critica deve basarsi, Foucault fa infatti riferimento alle pagine di
Baudelaire in cui il poeta si sofferma sul modo in cui Constantin Guys di-
segna, descrizione che secondo Foucault riesce a isolare proprio quel tipo
particolare di sguardo cui la critica deve far ricorso: uno sguardo capace
di afferrare il momento presente nella sua realtà contingente e, al tempo
stesso, di trasformarlo.

[Guys realizza una] trasigurazione che non è annullamento del reale, ma gio-
co dificile tra la verità del reale e l’esercizio della libertà […]. Per l’atteggiamento
moderno, il grande valore del presente è indissociabile all’accanimento con cui lo
si immagina, con cui lo si immagina diversamente da come è e lo si trasforma, non
per distruggerlo, ma per captarlo in quello che è. La modernità baudelairiana è un
esercizio in cui l’estrema attenzione al reale è messa a confronto con la pratica di
una libertà che rispetta quel reale, e al tempo stesso lo vìola21.

La trasigurazione è quindi un esercizio che richiede uno sguardo molto


attento al reale, capace di captarne le linee di forza e, al tempo stesso, una de-
cisione di renderlo “altro”. È quindi possibile pensare a un parallelismo tra lo
sguardo critico che “rende visibile il visibile” e il lavoro della trasigurazione in
ambito estetico. Va però detto che, concludendo la sua lettura di Baudelaire,

21
M. Foucault, Qu’est ce que les Lumières?, cit., p. 1389; trad. it. cit., pp. 224-225. Il
riferimento è a C. Baudelaire, Le peintre de la vie moderne, in Œuvres complètes, a cura di
C. Pichois, Gallimard, Paris 1976, t. II, pp. 683-724; trad. it. Il pittore della vita moderna, in
Opere, a cura di G. Raboni e G. Montesano, Mondadori, Milano 1996, pp. 1272-1319.
200 Laura Cremonesi

Foucault tiene a sottolineare che, per Baudelaire, questa trasigurazione del re-
ale rimane di natura puramente estetica e non può essere realizzata nell’ambito
socio-politico. Per Foucault, invece, questa operazione appartenente all’ambi-
to estetico sembra capace di offrire un modello possibile per la pratica iloso-
ica nella sua funzione critica. Se poi proseguiamo la lettura del Pittore della vita
moderna, che nel testo sull’Illuminismo kantiano Foucault affronta in modo
relativamente rapido, ci imbattiamo in una deinizione dello sguardo di Guys
che ci riporta al nostro punto di partenza. Baudelaire scrive infatti:

Si immagini un artista che sia sempre, con il suo spirito, nello stato del con-
valescente, e si avrà la chiave del carattere di G. Ora, la convalescenza è come un
ritorno all’infanzia. Il convalescente possiede in sommo grado, come il bambi-
no, la facoltà di interessarsi vivamente alle cose, anche a quelle all’apparenza più
banali. […] Il bambino vede tutto in una forma di novità; è sempre ebbro. Nulla
somiglia tanto a quella che chiamiamo ispirazione, quanto la gioia con cui il bam-
bino assorbe la forma e il colore22.

Certo, la connessione tra infanzia e genio artistico in Baudelaire è com-


plessa e non può essere adeguatamente affrontata in questo contesto, ma è
interessante ritrovare, a proposito di Guys, quell’idea di spectator novus il cui
sguardo si sofferma sulle “cose all’apparenza più banali” per afferrare in esse
i tratti di novità.
A partire da percorsi molto diversi, Hadot, Ginzburg e Foucault hanno
tutti affermato la necessità di operare una modiicazione profonda del nostro
sguardo, per realizzare compiti di natura diversa, ma dotati di un’analoga inali-
tà. Per Foucault, si tratta di dare concretezza al quel compito critico che, a par-
tire dal testo kantiano sull’Illuminismo, ha indissolubilmente legato la ilosoia
al proprio presente e alla propria attualità; per Ginzburg, ad essere in gioco è
il lavoro dello storico, che può essere utilmente orientato da uno sguardo di-
staccato nei confronti del suo oggetto di ricerca; per Hadot, inine, lo sguardo
nuovo è parte di un esercizio spirituale volto, in primo luogo, a realizzare quel-
lo «spaesamento [dépaysement] interiore, [quella] trasformazione spirituale, che
procura la pace dell’anima e un nuovo modo di vedere il mondo»23.
22
C. Baudelaire, Le peintre de la vie moderne, cit., p. 690; trad. it. cit., p. 1280.
23
P. Hadot, Le génie du lieu dans la Grèce antique, in Études de philosophie ancienne, cit.,
p. 322; trad. it. Il genius loci nella Grecia antica, in Studi di ilosoia antica, cit., p. 283. Lo spa-
esamento è anche ciò che orienta la raccolta di saggi di Ginzburg, Occhiacci di legno, che si
apre con il saggio sullo straniamento (cfr. pp. 11-13).
Spectator novus 201

Tre spunti, questi, di natura diversa ma dotati di inalità analoga, che pos-
sono quindi costituire, oggi, degli utili punti di partenza per pensare nel suo
versante critico il lavoro ilologico, storico e ilosoico, inteso non solo come
accurato strumento di indagine del proprio oggetto, ma anche nella sua utilità
attuale e nel suo rapporto mobile con il presente.

Laura Cremonesi
Università degli Studi di Pisa
cremonesilaura@gmail.com

.
Spectator Novus: Transiguration and Estrangement in Hadot, Foucault, and Ginzburg

Spiritual exercises, estrangement and transiguration: these are three different


processes appearing in Pierre Hadot, Carlo Ginzburg and Michel Foucault’s
works. In these authors, coming from different theoretical backgrounds, these
processes share a common purpose, that is to modify their perspectives, reorient
their methodologies and place their research objects at a useful distance. This
article analyses these processes, identiies their common framework in the igure
of the spectator novus – who is able to see things through a new point of view –
and, in conclusion, it underlines the critical force of these processes, not only to
renew some research ields but also to redeine the way in which philosophical
thought could enter into a critical relation with its present.

Keywords: Spiritual Exercises, Estrangement, Transiguration, Pierre Hadot, Carlo


Ginzburg, Michel Foucault, Critique.
“Drammatizzare” la scrittura
Il theatrum politicum di Michel Foucault
Arianna Sforzini

Questo breve saggio intende mostrare come la “teatralità” sia un ele-


mento essenziale della logica dell’immaginario e dello stile foucaultiani, in-
tendendo stile in senso nietzscheano: non soltanto la forma della scrittura
ma uno strumento a valore ilosoico-critico e quindi, per Foucault, politi-
co. Il titolo Theatrum politicum (chiaramente un gioco di parole che richiama
un celebre saggio foucaultiano del 1970, Theatrum philosophicum1), è un’e-
spressione che riprendo da un articolo del 2004 di Alessandro Fontana,
Il paradosso del ilosofo2, pubblicato su aut aut. Vorrei in un primo momento
ripercorre il contenuto di questo testo. Cercherò quindi di sviluppare l’in-
tuizione che vi è contenuta secondo la quale il teatro come strumento della
scrittura, un discorso teatralizzato, costruito attraverso scene e “personag-
gi concettuali”, sia una via particolarmente feconda per comprendere il
valore critico delle analisi foucaultiane. Metterò inine più esplicitamente
in luce la forza politica di tale discorso: ricostruire i molteplici “teatri sto-
rici della verità” diventa per Foucault un modo per ripensare una “politica
della verità”, rimettere in questione il rapporto che intercorre fra verità
e potere, mostrando non soltanto il ruolo che le relazioni di potere han-
no nel determinare la nostra concezione della verità ma soprattutto come
certe forme di “parlar-vero” divengano vere e proprie armi da far giocare
nello spazio politico.
Ne Il paradosso del ilosofo, Fontana analizza la tesi centrale della Storia
della follia (la fondazione del cogito attraverso il “coup de force” cartesiano
che esclude la possibilità della follia per il Soggetto conoscente) come
l’allestimento da parte di Foucault di una scena ilosoica sulla quale recitano
due personaggi – personiicazioni di due movimenti contrari e comple-
mentari di una stessa costellazione di pensiero. Il primo è evidentemente

M. Foucault, Theatrum philosophicum, in Dits et écrits I, 1954-1975, Gallimard, Paris


1

2001, pp. 943-967.


2
Cfr. A. Fontana, Il paradosso del ilosofo, in «aut aut», n. 323 (2004), pp. 87-96.

materiali foucaultiani, a. IV, n. 7-8, gennaio-dicembre 2015, pp. 203-216.


204 Arianna Sforzini

Descartes. Nelle Meditazioni metaisiche3 viene descritta un’esperienza di


ascesi che, come Foucault mostra bene nel suo corso al Collège de France
del 1981-1982, L’ermeneutica del soggetto, è completamente diversa da quella
del mondo antico4: il dubbio cartesiano non richiede una lunga serie di
esercizi preliminari, allenamento mentale e isico per rendere il soggetto
capace di conoscere e realizzare nel proprio corpo e nella propria esistenza
la verità. Il soggetto è in sé, essenzialmente, capace di conoscere il vero, a
patto che si sia spogliato di ogni pregiudizio, e cioè: di ciò che gli insegna-
no il corpo, la sensibilità, l’immaginazione, il sogno. L’esperienza della fol-
lia, è ben noto, è esclusa secondo Foucault d’entrée de jeu dallo spazio della
soggettività: io che penso non posso ammettere la possibilità di essere
folle se non voglio perdere immediatamente il mio statuto di soggetto di
verità. Il cogito cartesiano è quindi un evento capitale nella storia del pensie-
ro: il Soggetto, reso solido e impermeabile agli attacchi della Dis-ragione,
diventa il padrone universale e assoluto della scienza del mondo, sovrano
della natura che può conoscere e soprattutto piegare ai propri desideri
attraverso i progressi della tecnica.
Ora, analizzare, come fa Foucault, questo momento chiave della cultura
occidentale non come un’evidenza nella storia continua e lineare della ragio-
ne, ma come un evento, una lotta che conosce vincitori e vinti, uno scarto di
cui la ragione non può dire tutta la storia perché è essa stessa prodotto di
questa storia, porta a domandarsi cosa ne è di tutto ciò che il progetto totaliz-
zante della ragione non può includere nel suo movimento: la potenza tragica
della déraison, il legame tra follia e verità, ma soprattutto la soggettività empirica
fatta di passioni, desideri irrazionali, emozioni – l’individuo che è corpo, prima
di essere anima. Foucault si trova quindi nella necessità di ritrovare ciò che
resta al di fuori del cogito, in uno stile di analisi che non può chiaramente essere
più quello del cogito. Ed è per questo, afferma Fontana, che Foucault dramma-
tizza la propria scrittura – una scrittura deinita, dice, non senza «una certa
ingenuità da qualcuno “barocca”»5. Foucault costruisce l’affermazione del co-
gito come una scena, e ciò dovrebbe permettergli di prendere in conto anche

3
Cfr. R. Descartes, Meditazioni metaisiche (1641), Laterza, Roma-Bari 1997.
4
Cfr. M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-1982),
Feltrinelli, Milano 2003, pp. 3-36.
5
A. Fontana, Il paradosso del ilosofo, cit., p. 89. È Blanchot che parla, a proposito della
scrittura di Foucault, di un «grand style baroque» (M. Blanchot, Michel Foucault tel que je
l’imagine, Fata Morgana, Paris 1988, p. 11).
“Drammatizzare” la scrittura 205

ciò che, in essa, ha perso la propria voce: ritrovarne protagonisti e comparse;


attori e maschere; palcoscenico e “dietro le quinte”. La storia della follia come
paradossale archeologia di un «silenzio»6, secondo un’espressione che si trova
nella prima prefazione scritta per la Storia della follia nel 1961, diventa possibile
perché l’analisi di Foucault procede per scene e non come un discorso codi-
icato e puramente descrittivo. Fare dell’età classica una scena è un modo di
eludere la questione della verità del cogito, per porre piuttosto quella della sua
emersione in quanto paradigma di verità: il problema della scena sulla quale la
cultura occidentale moderna ha separato il vero e il falso e creato i criteri per
riconoscere e convalidare i discorsi veri7.
Per Fontana, vi è un secondo personaggio al centro di questa scena
foucaultiana del pensiero classico: Diderot. Fontana cerca infatti di rintrac-
ciare la storia di quell’individuo naturale, residuale, che il cogito aveva escluso
dalla propria costituzione – l’ego empirico di fronte all’ego trascendentale
che sarà ancora un problema essenziale per Husserl nelle sue Meditazioni
cartesiane8. Il rapporto del soggetto concreto alla verità può trovare nel regno
del cogito delle forme di espressione? Ebbene, esso si ritrova precisamente a
teatro: il teatro delle passioni di Shakespeare e Racine, il teatro barocco, la
“commedia dell’arte”, in cui «si attenua sempre più il conine tra il sogno e la
realtà, tra il vero e il falso, tra l’essere e l’apparire»9; e poi ancora la commedia
borghese di Molière, Marivaux, Goldoni. Questo teatro gioca costantemente
con l’indistinzione e la confusione possibili tra essere e apparire, pensiero e
corpo, conoscenza universale e calcolo particolare. Se un dubbio è presente,
non è certo il dubbio controllato e metodico di Descartes ma il «dubbio che
attraversa da parte a parte l’esistenza e il cui solo esito è quello di insediarsi
nell’esistenza, nelle imprese, negli scontri, nelle prove della vita, all’orizzonte
di una verità che non è ora solo incerta e sempre differita»10. Sulle scene del
XVII e XVIII secolo, la verità dell’uomo risiede nelle dinamiche degli affetti
singolari. Le passioni dominano il mondo, ridicolizzando la grandeur della
ragione e formando quindi davvero «l’altra scena» della nostra modernità.

6
Cfr. M. Foucault, Prefazione, in Follia e discorso. Archivio Foucault 1. Interventi, colloqui,
interviste. 1961-1970, Feltrinelli, Milano 1996 [2014], p. 50.
7
Cfr. M. Foucault, La scena della ilosoia (1978), in Il discorso, la storia, la verità. Interventi
1969-1984, Einaudi, Torino 2001, pp. 213-240.
8
E. Husserl, Meditazioni cartesiane (conferenze pronunciate nel 1929), Bompiani,
Milano 2009.
9
A. Fontana, Il paradosso del ilosofo, cit., p. 90.
10
Ibidem.
206 Arianna Sforzini

Diderot è l’emblema, con il suo Paradosso sull’attore11, di questa dialettica


ambigua tra individualità e soggetto razionale. Consiglia a tutti coloro che
vogliono diventare attori di spogliarsi completamente delle passioni perso-
nali, per recitare con la lucidità della ragione e la capacità analitica. È come
un Trattato delle passioni12 per l’attore: Diderot propone un’ascesi che mima
quella di Descartes, per governare e persino annullare l’io empirico al di
qua del cogito. Bisogna spogliarsi del proprio ego naturale, non per fondare
la certezza indubitabile della scienza ma per essere pronti a diventare il “gu-
scio vuoto” di ininiti personaggi possibili, per lasciarsi penetrare dalle loro
molteplici anime. L’attore è il fantoccio, il burattino dell’individuo moderno: non
è più nessuno; può portare tutte le maschere del mondo, può giocare tutti i
ruoli che la vita e il teatro gli impongono. L’attore disindividualizzato è l’altro
versante della soggettività cartesiana, rappresentazione della «vana pienezza
dell’apparenza»13, per utilizzare un’espressione della Storia della follia: una
verità che non si identiica con la certezza scientiica ma con le verità plurali
e contraddittorie del teatro; la verità al di fuori della ragione, la verità della
follia e della sragione. Descartes e Diderot sono allora davvero i due «per-
sonaggi concettuali»14 della nostra modernità: da un lato, la reductio ad unum
del molteplice et la disqualiicazione del differente, il grande sogno impe-
rialista della ragione occidentale; dall’altro lato, la dissoluzione dell’ego «nel
multiplo, nella varietà, nella disseminazione teatrale dell’io» e delle «piccole
verità» (secondo un’espressione di Nietzsche) della scena ilosoica moder-
na. «Paradosso del ilosofo: molti che divengono uno; paradosso dell’atto-
re: uno che diviene molti. In questo chiasmo, in questo loro incrociarsi, si
deciderà forse il destino di tutta la ilosoia moderna»15.
11
D. Diderot, Paradosso sull’attore (dialogo scritto tra il 1773 e il 1777, ma pubblicato
postumo), Editori riuniti, Roma 1972 [1978], p. 95-96: «Insisto dunque a dire: “È l’estrema
sensibilità che fa gli attori mediocri; è la sensibilità mediocre che fa l’ininita schiera dei
cattivi attori; ed è l’assoluta mancanza di sensibilità che prepara gli attori sublimi”. Le
lacrime del vero attore discendono dal cervello, quelle dell’uomo sensibile salgono dal
cuore. Nell’uomo sensibile sono le viscere che turbano eccessivamente la testa; nell’attore
è la testa che reca talvolta un turbamento passeggero nelle viscere; l’attore piange come
un prete miscredente che predichi sulla Passione; come un seduttore ai piedi di una donna
che non ama ma che vuole ingannare; come un mendicante per la strada o sulla porta di
una chiesa, che vi insulta quando non spera di commuovervi; o come una cortigiana che
non sente nulla ma che va in smanie tra le vostre braccia».
12
Cfr. R. Descartes, Le passioni dell’anima (1649), Bompiani, Milano 2003.
13
M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano 1963 [BUR,1976], p. 387.
14
G. Deleuze e F. Guattari, Che cos’è la ilosoia?, Einaudi, Torino 1996, pp. 51-76.
15
A. Fontana, Il paradosso del ilosofo, cit., p. 92.
“Drammatizzare” la scrittura 207

L’intuizione ilosoica forte di Fontana è quindi che la Storia della follia,


nel suo ritrovare l’evento di svolta della storia della ilosoia moderna, può
essere letta come una scena in cui il teatro, sotto la maschera di Diderot,
rappresenta l’“altro” per eccellenza del movimento centripeta e uniicato-
re che sancisce da Descartes in poi la forma della nostra verità scientiica.
Si comprende quindi come una scrittura ilosoica teatrale, costruita trami-
te scene e personaggi, possa divenire per Foucault uno strumento di critica
di tale dominio della ragione tecnica. La teatralizzazione della scrittura fou-
caultiana costituisce un vettore critico contro la sovranità del Soggetto dei
ilosoi e le teleologie della ragione.

È in questa storia dalla doppia faccia, ilosoia da un lato, teatro dall’altro,


che si iscrivono la posizione e il percorso foucaultiano. […] Bisognerebbe analiz-
zare gli effetti di queste posizioni sul pensiero e sulla scrittura di Foucault, ovvero
su un pensiero che ha cominciato a separarsi dal soggetto sovrano, dalla verità
del cogito, per aprirsi alla verità della follia, ai discorsi come pratiche, tecniche e
strategie, a quelle grandi conigurazioni concettuali senza soggetto che sono le
epistème, che, com’è noto, si annunciano con quel folgorante squarcio sulle Meni-
nas di Velasquez in Le parole e le cose16.

Foucault fa giocare nello stile delle proprie analisi una teatralità del di-
scorso che è come il mimo inquietante della potenza rappresentativa della
ragione cartesiana (che Foucault stesso descrive bene studiando l’archeo-
logia della nozione di rappresentazione ne Le parole e le cose17). È evidente
che, se si può parlare di una scrittura “per scene” da parte di Foucault,
queste scene non sono “rappresentazioni” vere della realtà, mimesis, ma
un modo per mettere in questione le rappresentazioni vere comunemente
accettate e far emergere le verità altre nascoste dietro la presunta sovranità
“chiara ed evidente” del soggetto trascendentale. Dal momento che la ra-
zionalità classica procede per costruzione di quadri, di categorie, di ordini
rappresentativi del mondo, un’analisi condotta sì per scene, ma che rompa
il legame tra teatralizzazione e rappresentazione, può giocare un ruolo di
critica verso le forme tradizionali del sapere e del discorso occidentale18.

16
Ivi, pp. 94-95.
17
M. Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1967 [BUR, 1998], pp. 61-92.
18
Cfr. M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo (1938), in Sentieri interrotti, La
Nuova Italia, Firenze 1997, pp. 71-101.
208 Arianna Sforzini

Di fatto, e lo si vede bene se si segue il dibattito critico attorno alla


Storia della follia e in generale all’elaborazione del metodo archeologico,
Foucault si trova di fronte al dificilissimo problema di dover fare un’a-
nalisi della storia dei nostri spazi discorsivi avendo a disposizione un ar-
mamentario di concetti e di forme del discorso che di quella storia sono il
prodotto. Jacques Derrida lo mette perfettamente in luce, nella polemica
con Foucault che segue la pubblicazione della Storia della follia. Muoversi
sui bordi dei discorsi, là dove la parola razionale diventa delirio, dove un
paradigma di sapere si trasforma in un altro, è un compito arduo e al limite
contraddittorio, perché si tratterà sempre di un’analisi formulata in un cer-
to linguaggio, del quale ci si può a giusto titolo domandare «quali saranno
la sorgente e lo statuto»19. Non posso qui che accennarvi sinteticamente:
quale rapporto la parola stessa di Foucault abbia con i discorsi di cui vuo-
le essere un’archeologia resta un problema cruciale dei suoi primi testi20.
Denunciare la sovranità della ilosoia del Soggetto e delle dialettiche della
storia implica l’invenzione, nella pratica di analisi e di scrittura, di un di-
scorso eterogeneo a quelli di cui si sta facendo l’archeologia, di un linguag-
gio “eccentrico”, di rottura. È noto come il linguaggio letterario21 abbia
rappresentato per Foucault negli anni sessanta un’esplorazione di questa
possibile forza disgregante delle parole: la capacità di creare un discorso
che contesti quelle stesse regole discorsive nelle quali esso nasce e viene
elaborato. Le analisi genealogiche degli anni settanta e ottanta non fanno
che spostare e arricchire la questione sul campo più propriamente politico,
cioè materiale e conlittuale: non si tratterà più di trovare linguaggi “tra-
sgressivi” rispetto a un certo ordine del discorso ma di pensare la possi-
bilità effettiva di pratiche di resistenza, di spazi e di modi di essere altri .
La teatralità diventa a mio avviso per Foucault uno strumento po-
tente per pensare un’analisi critica eficace e interna al piano di discorso e
di relazioni di potere su cui opera. La scena è il doppio immanente della
realtà, che proprio in questo suo essere “simulacro”, identico e altro allo
stesso tempo, può divenirne il luogo di interrogazione e di messa alla pro-
va politica. Avendo cominciato citando un articolo di Fontana, ricordo
che lo stesso Fontana, nel suo testo sulla scena per la Storia d’Italia Ei-

19
J. Derrida, Cogito e storia della follia, in La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1971
[1990], p. 44.
20
Cfr. J. Revel, Foucault, le parole e i poteri, Manifesto libri, Roma 1996.
21
Cfr. M. Foucault, Scritti letterari, Feltrinelli, Milano 1971 [2004].
“Drammatizzare” la scrittura 209

naudi22, studia la storia di tale concetto utilizzando insieme Nietzsche e


Freud23, e distinguendo scena simbolica, immaginaria e reale. Non è certo
un’accezione freudiana della scena che può essere applicata al discorso
di Foucault. Ma resta vero che il “rimosso” dell’ordine del discorso ha
sempre una ratio politica che può essere esplorata e interrogata. E proprio
la teatralizzazione foucaultiana dei giochi di verità è un modo per dram-
matizzare tale ratio politica e metterla in questione. Non si esce dalla storia
materiale, dalle intensità del presente, e non si esce, in un certo senso,
dall’ordine del discorso in cui ci si trova a vivere ed eventualmente con-
liggere. Ma la scommessa di Foucault è quella di mostrare che è possibile
immaginare un’attualità inedita, portando al limite le forme, le categorie,
le dinamiche dell’ordine costituito sino a produrre in esse uno scarto co-
stituente di verità e di libertà. Teatralizzando, per dirlo in un altro modo,
le imposizioni discorsive e politiche, portando in luce la scena nascosta
delle retoriche eficaci e assoggettanti dei poteri, dislocando i loro spazi
d’imprigionamento.
Giocando sul legame classico tra teatro e rappresentazione, per esem-
pio, “mettendo in scena” Descartes, Foucault può utilizzare i concetti e
gli strumenti drammatici nella propria scrittura per rompere dall’interno
il paradigma rappresentativo, la tirannia del Soggetto che si appropria del
mondo sotto il velo della presunta oggettività e purezza della scienza.
Più in generale, il teatro come forma dello stile ci consente di ripensare
oggi la questione decisiva della ilosoia foucaultiana – la verità –, in uno
spazio che non è quello del pensiero astratto bensì la “scena” presente
della sua affermazione storica. E il semplice fatto di riferirsi a questa
scena sposta l’interrogazione in spazi politici vuoti d’essenza – in senso
ilosoico tradizionale – ma densi di corpi, pratiche, conlitti, eccessi, ce-
dimenti, sottrazioni: la storia della verità che le genealogie foucaultiane
vogliono ricostruire non è la dialettica del suo progresso continuo, né una
storia «delle “idee”, delle “strutture”, delle “mentalità”», ma storia che
«si fa e si costruisce attorno e a partire da eventi, all’interno di scontri,
resistenze, combattimenti tra avversari in lotta gli uni con gli altri: theatrum
politicum»24, appunto.

22
A. Fontana, La scena, in AA. VV., Storia d’Italia, vol. 1, I caratteri originari, Einaudi,
Torino 1972, pp. 794-862.
23
Si veda anche A. Fontana, Un’educazione intellettuale, in «aut aut», n. 362 (2014), pp. 7-34.
24
A Fontana, Il paradosso del ilosofo, cit., p. 95.
210 Arianna Sforzini

In un testo scritto nel 1969 su Logica del senso di Gilles Deleuze, Fou-
cault deinisce in questi termini la novità della ilosoia deleuzeana:

C’è stata (Hegel, Sartre) la ilosoia-romanzo; c’è stata la ilosoia-medi-


tazione (Descartes, Husserl). Ecco, dopo Zaratustra, il ritorno della ilosoia-
teatro; non rilessione sul teatro; non teatro carico di signiicati. Ma ilosoia
divenuta scena, personaggi, segni, ripetizione di un evento unico e che non si
riproduce mai25.

Credo che il pensiero stesso di Foucault sia un esempio potente di


tale ilosoia-teatro: «il teatro meraviglioso – continuando a citare Ariane
s’est pendue – in cui si mettono in scena, sempre nuove, queste differenze
che siamo, queste differenze che facciamo, queste differenze fra le quali
ci muoviamo»26. O ancora, per prendere una deinizione contenuta in un
articolo del 1970 su Differenza e ripetizione di Deleuze: «La ilosoia non
come pensiero, ma come teatro: teatro di mimi dalle scene multiple, fug-
gevoli e istantanee, dove i gesti, senza vedersi, si fanno segno; teatro dove,
sotto la maschera di Socrate, scoppia improvviso il riso del soista»27. La
ilosoia-teatro è un pensiero della pluralità, della spazialità, della diffe-
renza, dell’immaginario contro l’unicità del senso. Un pensiero che Fou-
cault usa per costruire non un’ontologia dell’immanenza alla Deleuze, ma
un’ontologia del presente: non una ilosoia immanente della verità ma una
genealogia ilosoica e critica delle nostre forme di verità, in relazione alla
pluralità delle pratiche politiche, discorsive, etiche che danno forma alla
nostra esistenza nella storia. Sulla forza della scena come strumento di una
storia politica della verità, Foucault si spiega in modo estremamente chiaro
in un’intervista tenuta nel 1978 con il ilosofo giapponese Watanabe:

Forse in dalla sua condanna da parte di Platone, la ilosoia occidentale non


si è quasi più per nulla interessata al teatro. Dovremo attendere Nietzsche per po-
tere di nuovo assistere alla riproposizione, all’attenzione della ilosoia occiden-
tale, della questione del rapporto tra la ilosoia e il teatro in tutta la sua intensità.
E credo che la svalutazione del teatro all’interno della ilosoia occidentale e un
certo modo di porre la questione dello sguardo siano, in effetti, fra loro collegati.

25
M. Foucault, Ariane s’est pendue, in Dits et écrits I, cit., p. 796 (traduzione mia).
26
Ivi, p. 799 (traduzione mia).
27
M. Foucault, Theatrum philosophicum, cit., p. 967 (traduzione mia).
“Drammatizzare” la scrittura 211

Fin da Platone, e soprattutto a partire da Descartes, una delle questioni ilosoi-


che tra le più importanti è quella di sapere in cosa consista il fatto di guardare le
cose, o piuttosto nel cercare di sapere se quel che si vede è vero oppure illusorio,
e quindi se ci troviamo nel mondo del reale oppure in quello della menzogna. La
funzione della ilosoia è così diventata proprio quella di separare il reale dall’illu-
sione, la verità dalla menzogna. Il teatro, invece, è qualcosa che ignora totalmente
tali distinzioni. Non ha nessun senso chiedersi se il teatro sia vero, se sia reale,
o se invece sia illusorio, mendace. Il solo fatto di porre la questione provoca la
scomparsa del teatro. […] Quel che […] vorrei fare è proprio tentare di descri-
vere il modo in cui gli uomini dell’Occidente hanno potuto vedere le cose senza
mai porsi la questione se ciò che vedevano fosse vero oppure no. Vorrei inoltre
tentare di descrivere il modo in cui loro stessi hanno allestito, per mezzo della
messa in funzione del proprio sguardo, lo spettacolo del mondo. Poco mi impor-
ta, in fondo, che la psichiatria sia vera oppure falsa, poiché in ogni caso non è
questo il problema che mi pongo. E poco mi importa che la medicina dica cose
errate o dica delle verità: ai malati la cosa importa sicuramente parecchio, ma a
me in quanto analista, se vogliamo, non è questo che interessa, tanto più che non
ho alcuna competenza per stabilire la distinzione fra il vero e il falso. Quel che
io, invece, vorrei conoscere è in che modo è stata messa in scena la malattia, ad
esempio, o come si è messa in scena la follia, o il crimine. Il che equivale a chiede-
re in che modo la malattia, o la follia, o il crimine, sono stati percepiti, come sono
stati recepiti, quale valore è stato attribuito alla follia, al crimine, o alla malattia,
e che ruolo è stato loro assegnato. Quella che vorrei fare è allora una storia della
scena su cui si è tentato, in seguito, di distinguere il vero e il falso, anche se ad
interessarmi non è tanto questa distinzione, quanto la costituzione della scena e
del teatro. È appunto il teatro della verità quello che io vorrei descrivere: in che
modo l’Occidente si è costruito un teatro della verità, una scena della verità, una
scena per quella razionalità diventata inine, ai giorni nostri, come un contrasse-
gno dell’imperialismo degli uomini occidentali28.

Ritrovando le “scene” molteplici e diversiicate, le scene politiche del-


la verità è dunque possibile rovesciare completamente l’approccio iloso-
ico al vero, e cioè parlare (e fare) della verità senza porsi la domanda sulla
sua intrinseca verità o falsità. Un’analisi di questo genere scardina quindi le
accuse di relativismo mosse da più parti alla ilosoia foucaultiana. Come
dirà Foucault stesso nel corso del 1983:

28
M. Foucault, La scena della ilosoia, cit., pp. 213-214.
212 Arianna Sforzini

Alle obiezioni che postulano la squaliicazione del nichilismo/nominali-


smo/storicismo, bisognerebbe cercare di rispondere facendo un’analisi storicista
nominalista nichilista di questa corrente. E con questo voglio dire: non si tratta di
ediicare nella sua sistematicità universale questa forma di pensiero e di giustii-
carla in termini di verità o di valore morale, ma si tratta di cercare di sapere come
ha potuto costituirsi questo gioco critico, questa forma di pensiero29.

Ricostruire la “scena” del relativismo; le “scene”, i “giochi” di verità:


ecco la risposta di Foucault a chi lo accusa di non interessarsi o di svuo-
tare di senso la questione sulla verità. Possiamo ripensare in questa chia-
ve l’affermazione, ripetuta più volte da Foucault, di non aver scritto che
“inzioni”30. La inzione non è in questo senso un termine che esclude la
questione della verità, ma che la ripensa in un contesto plurale e politico,
cioè molteplice, differenziale, materiale: la verità teatrale dei doppi e dei
simulacri contro l’imperialismo del Logos che si è imposto da Platone in
poi (Platone che non a caso vedeva nel teatro tragico e nel tipo di sape-
re e di verità che esso veicolava il proprio avversario principale). Una
ilosoia-teatro, une ilosoia-iction pone la questione dell’“alterità” come
arma contro ogni forma di riduzionismo e di dominazione. La scrittura
“drammatica” di Foucault, giocando sui molteplici legami che il nostro
sapere intreccia tra soggetto, verità e rappresentazione, è un modo di de-
formare creativamente la storia tradizionale della ilosoia per metterne
in luce le contraddizioni, l’impensato, i pregiudizi non dimostrati, come
pure per dare spazio ai corpi che vi sono stati dimenticati, le voci infami,
i piaceri marginalizzati.
Esiste, a mia conoscenza, un solo tentativo foucaultiano di scrittura
effettivamente costruita come una pièce di teatro. Si tratta di una con-
ferenza tenuta il 7 aprile del 1972 all’università del Minnesota, intitola-
ta: Cerimonia, teatro e politica nel XVII secolo. Purtroppo non possediamo

29
M. Foucault, Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France (1982-1983), Feltrinelli,
Milano 2009, pp. 15-16.
30
In un’intervista del 1980 a M. Dillon Foucault afferma: «Je ne suis pas véritablement
historien. Et je ne suis pas romancier. Je pratique une sorte de iction historique. D’une
certaine manière, je sais très bien que ce que je dis n’est pas vrai. […] J’essaie de provoquer
une interférence entre notre réalité et ce que nous savons de notre histoire passée. Si je
réussis, cette interférence produira de réels effets sur notre histoire présente. Mon espoir
est que mes livres prennent leur vérité une fois écrits et non avant. Mon espoir est que
mes livres prennent leur vérité une fois écrits et non avant» (M. Foucault, …, in Dits et
écrits II, 1976-1988, Gallimard, Paris 2001, p. 859).
“Drammatizzare” la scrittura 213

il manoscritto della conferenza, ma soltanto un riassunto, benché molto


dettagliato, redatto da Stephen Davidson31. Foucault vi analizza un episo-
dio chiave nella storia civile e politica francese: la rivolta dei Nu-Pieds che
ebbe luogo nel 1639 in Normandia contro la pressione iscale imposta da
Richelieu, e che è un esempio estremamente importante delle resistenze
contro la formazione della monarchia assoluta in Francia. Foucault è so-
prattutto interessato alle cerimonie volte a riaffermare il potere sovrano
dopo la rivolta, che vengono analizzate e messe in scena dalla scrittura
come se si trattasse di una tragedia classica, in cinque atti.
Secondo il riassunto della conferenza, Foucault spiega all’inizio del
suo discorso che il suo scopo è quello di una più vasta analisi delle ceri-
monie del potere politico dall’Antichità classica sino alla ine del XVIII
secolo, dall’agora greca alle rivoluzioni che hanno costruito la modernità
occidentale. Foucault sembra avere in mente il progetto di uno studio ap-
profondito delle forme in cui «il potere assume forme visibili o teatrali e
lascia la propria impronta sull’immaginazione o il comportamento di un
popolo. Si tratterebbe di una vera e propria etnologia delle manifestazio-
ni del potere politico, uno studio del sistema di demarcazione del potere
all’interno della società»32. Benché l’idea del potere che lascia la propria
traccia su di una popolazione sembra ancora inluenzata in un certo modo
da una concezione ideologica del potere (che Foucault riiuterà nettamente
in seguito), il progetto di un’esplorazione dei rituali politici è già un chiaro
modo di dissociarsi da un’analisi tradizionale e strettamente giuridica del
potere. È ben noto, Foucault interroga il potere non solo come un insie-
me di leggi, istituzioni, pratiche autoritarie, ma come un insieme teatrale
di forze; non semplicemente un campo di battaglia ma un “dramma” di
conlitti, rapporti di forza, insurrezioni di corpi, occupazione e invenzione
di spazi: la manifestazione concreta di strategie, discorsi, verità storico-
politiche, e delle relazioni che tali giochi di verità intrattengono con le
soggettività che vi sono coinvolte e costruite.

31
S. Davidson, Michel Foucault. Cérémonie, Théâtre, et Politique au XVIIe siècle, in Acta
I. Proceedings of the Fourth Annual Conference of XVIIth Century French Literature, University
of Minnesota, Minneapolis 1972, pp. 22-23. Il testo è disponibile online: <http://
progressivegeographies.com/2013/10/10/foucaults-1972-lecture-at-minnesota-
summary-now-available/> (consultato il 4-02-2016). L’episodio della rivolta dei Nu-Pieds
verrà ripreso nel Corso al Collège de France del 1971-1972; cfr. M. Foucault, Théories et
institutions pénales. Cours au Collège de France. 1971-1972, Seuil/Gallimard, Paris 2015.
32
S. Davidson, Michel Foucault. Cérémonie, Théâtre, et Politique au XVIIe siècle, cit., p. 22.
214 Arianna Sforzini

Foucault non proseguirà per la strada abbozzata all’università del Min-


nesota e non riproporrà più in occasioni successive un’analisi storica co-
struita come una pièce e articolata in atti. Ma la teatralità in quanto forma
estetico-politica dello stile attraversa, ho cercato di mostrarlo, la pratica
intellettuale foucaultiana. L’idea di un’esplorazione della storia della verità
come scena multiforme dei rapporti concreti, materiali, persino “corpo-
rei” fra veridizione, potere e soggettività ne è un asse portante. Tutta la
tematica della parrhesia come coraggio del vero potrebbe essere ripensa-
ta nell’ottica di una verità-teatro – Foucault lui stesso parla d’altronde di
“drammatica della verità” per indicare «l’analisi di quei fatti del discorso
che mostrano come l’evento stesso dell’enunciazione possa inluenzare
l’essere dell’enunciatore»33, o, secondo un’altra deinizione di “drammati-
ca”: «non un qualunque accessorio ornamentale ma ogni elemento che, in
una scena, fa apparire il fondamento di legittimità e di senso di quanto vi
si svolge»34.
In questo senso la ilosoia-teatro diventa un elemento essenzia-
le per ripensare il valore critico-politico delle rilessioni di Foucault. In
una conferenza tenuta nel 1964 alle Facultés universitaires Saint-Louis, à
Bruxelles, intitolata Linguaggio e letteratura», la critica come forma propria
all’analisi letteraria contemporanea è deinita da Foucault come lo studio
della forza di raddoppiamento del linguaggio, l’«analisi delle distanze e delle
differenze nelle quali si distribuiscono le identità del linguaggio»35. Non è
certo una deinizione banale: mettendo in campo, in relazione all’analisi
dei discorsi, uno sforzo di ritrovamento non delle analogie, dei rapporti
a una parola primordiale e originaria, ma delle differenze reali in cui si si-
tuano i sistemi di identità degli enunciati, la critica è per Foucault anche e
soprattutto un tentativo di autorilessione sull’incidenza e le linee di fuga
del proprio linguaggio.
Si tratta di ritrovare le linee di organizzazione ma soprattutto i punti
di frattura dei discorsi. È dunque un esercizio etopoietico di libertà: in un
mondo in cui i grandi miti di emancipazione e di rivoluzione politica sem-
brano aver esaurito la propria forza, afferma Foucault nel 1963, la parola

33
M. Foucault, Il governo di sé e degli altri, cit., p. 73.
34
M. Foucault, Mal fare, dir vero. Funzione della confessione nella giustizia. Corso di Lovanio
(1981), Einaudi, Torino 2013, p. 202.
35
M. Foucault, Linguaggio e letteratura, in «materiali foucaultiani», vol. 2 (2013), n. 3, p. 53.
“Drammatizzare” la scrittura 215

come esercizio critico resta la nostra sola via di contestazione e insurrezio-


ne36. La critica è quindi già nel 1964 un abbozzo di quella pratica effettiva
della distanza e della differenza che Foucault cercherà di realizzare nei
propri lavori e con la propria passione civile ino alla ine della sua vita:
l’impegno vivo a pensare il mondo in modo diverso, un movimento che
vuole toccare i limiti della nostra storia per realizzare un’«ontologia critica
di noi stessi […], analisi storica dei limiti che ci vengono posti e prova del
loro superamento possibile»37. La critica come « simulacro della ilosoia»38
è un altro nome per il teatro politico-ilosoico che Foucault intende co-
struire con e attraverso il proprio pensiero: «il teatro meraviglioso in cui
si mettono in scena, sempre nuove, queste differenze che siamo, queste
differenze che facciamo, queste differenze fra le quali ci muoviamo».

Arianna Sforzini
Université Paris-Est Créteil
arianna.sforzini@univ-paris-est.fr

.
A “Dramatic Style” of Thought. Foucault’s Theatrum Politicum

This article aims at exploring the “theatrical” values of Michel Foucault’s


philosophy. It formulates the hypothesis that theatre as a style of writing – a

36
M. Foucault, Le langage en folie, in La grande étrangère. À propos de littérature, Éditions
de l’EHESS, Paris 2013, pp. 54-55: «Je crois qu’on pourrait dire ceci, qu’au fond, nous
ne croyons plus de nos jours à la liberté politique, et puis le rêve, le fameux rêve d’un
homme désaliéné est tombé maintenant dans la dérision. De tant de chimères, que
nous est-il resté? Eh bien, la cendre de quelques mots. Et notre possible, à nous autres
hommes d’aujourd’hui, notre possible, nous ne le conions plus aux choses, aux hommes,
à l’Histoire, aux institutions, nous le conions aux signes. […] Au XXe siècle on écrit
– je pense bien entendu à la parole littéraire –, on écrit pour faire l’expérience et pour
prendre la mesure d’une liberté qui n’existe plus que dans les mots mais qui là s’est faite
rage. Dans un monde où Dieu est mort déinitivement et où on sait malgré toutes les
promesses, de droite et de gauche, de la droite et de la gauche, qu’on ne sera pas heureux,
le langage est notre seule ressource, notre seule source».
37
M. Foucault, Che cos’è l’Illuminismo?, in Estetica dell’esistenza, etica, politica. Archivio
Foucault 3. 1978-1985, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 229, 231.
38
M. Foucault, Linguaggio e letteratura, cit., p. 53.
216 Arianna Sforzini

theatrical discourse built upon scenes and “conceptual characters” – is an


extremely fruitful device to understand the critical force of the Foucauldian
analyses. The essay focuses in particular on the political implications of this
theatrical discourse. The multiple historical theatres of truth described by
Foucault in his works are a way to formulate new “politics of the truth”: a way
to call into question the traditional interactions between truth and power, by
showing not only the role of power relations in the foundation of our conception
of truth, but also the possibility for speciic forms of “truth-telling” to become
weapons and forces performing our actual political space.

Keywords: Michel Foucault, Theatre, Philosophy, Dramatic, Double, Truth, Power.


Il dir-vero come elemento del “morire bene”?
Sulla creazione di Aides in Francia
Guillaume le Blanc

I.

In un articolo del 1971 intitolato Gli usi sociali del corpo, il sociologo Luc
Boltanski evoca l’esistenza di una «cultura somatica»1 che si diffonde in
maniera differenziata tra le classi sociali. Egli nota in particolare che «il
linguaggio che serve a esprimere le sensazioni morbose e, più in generale,
a parlare della malattia, costituisce l’esperienza che i soggetti sociali hanno
della malattia e allo stesso tempo la sua espressione». Questo signiica che
il linguaggio medico-scientiico informa il modo in cui i malati si presen-
tano, ma anche quello in cui essi possono voler cercare, opponendosi a
questo linguaggio medico-scientiico, il loro linguaggio, per deinirsi, se
non proprio al di fuori della medicina, almeno ai suoi margini. L’esperien-
za della malattia non si riduce dunque alle condizioni di possibilità o di
impossibilità del «colloquio approfondito», ma afiora allo stesso modo in
tutto un linguaggio della malattia, la cui portata non si riduce all’annuncio
terapeutico della nosologia della malattia, nella diagnosi, ma deve essere
restituita all’interno dell’esperienza dello stesso malato. È possibile affer-
mare, almeno come punto di partenza di questa nostra analisi, che la storia
contemporanea della medicina potrebbe interpretarsi come l’affermazione
della soggettività del paziente di fronte a quella del medico. È stato spesso
rilevato che, nel corso della seconda metà del ventesimo secolo, il paziente
è diventato così attivo nella relazione terapeutica da risultare ormai come
una persona che si cura da sé (autosoignant), capace attraverso il suo sapere
e i protocolli tecnici a sua disposizione, di dializzarsi da solo. Come viene
sottolineato da Claudine Herzlich e Janine Pierret, «chi si cura da solo at-
traverso la propria condotta afferma il suo diritto a tenere un discorso spe-

1
L. Boltanski, Les usages sociaux du corps, in «Annales. Économies. Sociétés.
Civilisations», vol. 26 (1971), pp. 205-233.

materiali foucaultiani, a. IV, n. 7-8, gennaio-dicembre 2015, pp. 217-231.


218 Guillaume le Blanc

ciico sul suo corpo malato»2. Che si parli di «homo medicus» come fa Pa-
trice Pinell3 o di «homosanitas» come per Daniel Delanoe e Pierre Aiach4,
si tratta in ogni caso di sottolineare in che modo, specialmente nel quadro
delle malattie croniche, al paziente è richiesto di partecipare e di afiancare
il medico per il mantenimento della propria salute. Patrice Pinell, in parti-
colare, mostra come la nozione di «homo medicus» sia apparsa tra le due
guerre, durante le prime campagne di prevenzione lanciate dalla Lega contro
il cancro (Ligue contre le cancer), quando si cercava di coinvolgere il pubblico
e di fare di ogni malato un «medico ausiliario». Egli sottolinea quanto la
formazione di un pubblico di malati ideali, che aveva a disposizione un
solido linguaggio medico, sia stata esplicitamente richiesta proprio in vista
del governo dei malati da parte dei medici nella lotta contro il cancro.

II.

Insomma, la progressiva pubblicizzazione della malattia che si conclu-


de con la promozione delle competenze del malato è uno degli eventi sa-
lienti della nostra modernità medica. Ed è proprio questo che mi propon-
go di interpretare alla luce dell’emergenza del dir-vero nella relazione con
la morte, concentrandomi in particolare sulle persone colpite dall’Aids e
sull’emergere di collettivi come Aides durante gli anni ottanta. Ovviamente
questa pubblicizzazione progressiva della malattia può essere interpretata
in diversi modi.
a) È innanzitutto il segno più evidente di una democratizzazione della
questione medica. Essa concerne sempre meno il governo dei medici e, al
contrario, si diffonde ampiamente nella società, attraverso riviste specializ-
zate sempre più numerose e tramite collettivi di pazienti. Questo implica
una rilessività medica senza eguali, con la sorprendente conseguenza, sot-
tolineata dallo storico Georges Vigarello, che i Francesi non hanno esitato
a dichiarare il 75% in più delle malattie tra il 1970 e il 1980 mentre, nello

2
C. Herzlich e J. Pierret, Malades d’hier, malades d’aujourd’hui, Payot, Paris 1984, p. 271.
3
P. Pinell, Naissance d’un léau. Histoire de la lutte contre le cancer en France (1890-1940),
Metailié, Paris 1992.
4
D. Delanoe e P. Aiach, L’ère de la médicalisation. Ecce homosanitas, Economica, Paris
1998.
Il dir-vero come elemento del “morire bene”? 219

stesso periodo, questo incremento non presenta alcun rapporto con la


cifra delle patologie reali5.
b) Questa pubblicizzazione della malattia si svolge nel quadro di quel
che il sociologo Dominique Memmi chiama una «bio-oggettivazione di
sé», rispetto alla quale il riferimento alla salute è solo un caso particolare6.
Con questa locuzione ci si riferisce al fatto che l’espressione dell’individua-
lizzazione contemporanea passa in modo consistente attraverso pratiche
che investono il corpo, ma anche attraverso forme di rilessività che fanno
del corpo il loro oggetto: «Quello che qui colpisce è la promozione di un
pensiero capace di costituire il dato corporale al contempo come uno de-
gli ambiti oggi più rilevanti di costruzione individuale e come problema,
come oggetto di rilessività»7.
c) La pubblicizzazione della malattia deve essere interpretata come
l’apparizione di attori politici nuovi che si sono dati come obiettivo la
promozione della difesa del «corpo minacciato»8. In Les enjeux politiques de
la santé, Didier Fassin sottolinea che la salute è un «oggetto costruito a po-
steriori in termini di concorrenze e lotte tra agenti, sia per enunciare quel
che essa è, sia per farne prevalere alcuni modelli»9. Lo stato di queste lotte
issa la politica della salute a un dato momento. Tuttavia, questa politica
non deve essere interpretata solo come un governo dei malati da parte
dei medici, ma allo stesso tempo anche come un governo della malattia
da parte dei malati in relazione alle lotte per autodeinirsi e alle pratiche
che li contrappongono ai medici. La salute non riguarda dunque il solo
corpo isico, ma anche la politicizzazione del corpo minacciato all’interno
del corpo sociale nel suo insieme. E questa politicizzazione si caratteriz-
za nella nostra società, a differenza delle società tradizionali, attraverso
l’emergere di uno «spazio politico della salute», nel quale si assiste a una
«presa crescente del politico sulle differenti manifestazioni, normali e pa-
tologiche, individuali e collettive, della vita umana»10, nel momento in cui,

5
G. Vigarello, Le sain et le malsain. Santé et mieux-être depuis le Moyen-Âge, Seuil, Paris
1983, p. 306.
6
D. Memmi, Faire vivre et laisser mourir. Le gouvernement contemporain de la naissance et de
la mort, La Découverte, Paris 2003, p. 284.
7
Ivi, p. 288.
8
Cfr. D. Fassin, L’espace politique de la santé. Essai de généalogie, PUF, Paris 1996; Id., Les
enjeux politiques de la santé. Études sénégalaises, équatoriennes et françaises, Karthala, Paris 2000.
9
D. Fassin, Les enjeux politiques de la santé, cit., p. 10.
10
D. Fassin, L’espace politique de la santé, cit., p. 39.
220 Guillaume le Blanc

come nel caso dell’epidemia di Aids, la politica è messa alla prova dalla
salute. A questo titolo la politica è contemporaneamente sia la politicizza-
zione della salute dispiegata nel quadro nazionale di una sanità pubblica,
di un ministero della salute, sia la politicizzazione della salute riaffermata
da nuovi collettivi come Act Up, Aides, se si pensa all’Aids, ma potremmo
tranquillamente aggiungere Medici senza frontiere, Médecins du Monde in altri
contesti, secondo nuove forme di militanza che, come viene sottolineato
da Dominique Memmi, si concentrano sulla «sorte riservata al corpo»11.
d) La politicizzazione della malattia come elemento centrale della pub-
blicizzazione della malattia si sviluppa per mezzo del corpo dei malati nella
dimensione della vulnerabilità. Con questo si intende che la difesa del cor-
po minacciato, oggetto non per forza della politica della sanità pubblica e
della politica dei nuovi attori politici (associazioni e simili), è soprattutto
una difesa del corpo vulnerabile. Il riferimento alla vulnerabilità, che circo-
scrive un nuovo gioco di linguaggio proprio alle società a noi contempora-
nee, non rinvia necessariamente a una ontologia della vita del corpo mor-
tale, come una lettura depoliticizzata della storia dell’Aids potrebbe farci
credere. Tale riferimento fa apparire piuttosto una nuova coscienza sociale
della fragilità, che si organizza secondo due ingiunzioni, fatte parallela-
mente alla situazione della malattia e del malato posto davanti alla malattia
stessa, ovvero da un lato l’inserimento di un capitolo «sanità pubblica»
che modiica la situazione che genera vulnerabilità, dall’altro, l’inserimen-
to di un capitolo «comportamentale» individuale che deve modiicare la
risposta degli individui nei confronti della situazione di vulnerabilità alla
quale essi sono esposti. Questo equivale a dire che la vulnerabilità, come
categoria, non riguarda tanto i rischi connessi al corpo degli individui. La
logica del riferimento alla vulnerabilità è pertanto duplice. Da una parte,
essa intende agire sull’ambiente che circonda i corpi per modiicarne certe
proprietà o per gestirle: se esiste un rischio alimentare, in funzione della
considerevole diffusione sul mercato di prodotti ricchi di grassi, carboi-
drati e sodio, tale logica si sforzerà di limitare la produzione di grassi, di
carboidrati e di sodio negli alimenti preconfezionati grazie all’elaborazione
di codici di buona condotta presso i gruppi industriali e i poteri pubblici.
D’altra parte, essa mira a modiicare le condotte alimentari individuali,
sviluppando logiche del mangiar bene. La vulnerabilità «permette così di
aggiornare il lavoro del corpo sociale per affrontare un rischio e contener-
11
D. Memmi, Faire vivre et laisser mourir, cit., p. 283.
Il dir-vero come elemento del “morire bene”? 221

ne la concretizzazione»12 sul doppio versante di una modiicazione delle


condizioni negative dell’ambiente e di una responsabilizzazione dell’agire
individuale dei soggetti vulnerabili.

III.

Che cosa bisogna mantenere dell’argomentazione della progressiva


pubblicizzazione della malattia nella relazione con il dir-vero? È impor-
tante difidare dell’illusione secondo cui la pubblicizzazione della malattia
caratterizzi una liberazione del malato rispetto al potere medico. Come se
assistessimo a un nuovo umanesimo medico. In verità, occorre piuttosto
considerare gli spostamenti che vengono operati all’interno delle relazioni
di potere che circolano nell’ambito medico. Lungi dall’interpretare la pro-
mozione del malato in quanto soggetto della relazione terapeutica come
indice di un riequilibrio di quest’ultima che accompagna la riattualizza-
zione dell’etica medica, ci sembra più giudizioso, sulla scia di Foucault,
esplorare il tipo di economia di potere che vi si trova all’opera. Questo non
signiica in alcun modo rinunciare alla critica del potere medico, ma com-
prendere tale promozione del malato tanto come un ostacolo del potere
medico, quanto come una condizione del suo rilancio, e questo a partire
dalla sua storicità. Riprendiamo una frase che Foucault pronuncia in un’in-
tervista: «Quello che cerco di analizzare […] è il modo in cui gli individui,
liberamente, nelle loro lotte, nei loro scontri, nei loro progetti, si costitui-
scono come soggetti delle loro pratiche o al contrario riiutano le pratiche
che vengono loro proposte»13.
Possiamo a questo proposito fare riferimento all’Aids e alla testimo-
nianza di Daniel Defert, compagno di Michel Foucault, in un volume di
interviste Une vie politique. Rispondendo a una domanda postagli sulle cause
della morte di Foucault e sull’ignoranza che egli aveva rispetto alla natura
della malattia che se l’è portato via, cioè l’Aids, Defert nota: «Per me non
è possibile che qualcuno muoia a questa età per una malattia che i medici
conoscevano e lui non conosceva»14. In questa testimonianza appare una

12
M.-H. Soulet, La vulnérabilité, une ressource à manier avec prudence, in La vulnérabilité
saisie par les juges en Europe, Éditions Pedone, Paris 2014, p. 23.
13
M. Foucault, Interview de Michel Foucault (1984), in Dits et écrits II, 1976-1988,
Gallimard, Paris 2001, p. 1512; trad. it. Intervista, in Discipline, poteri, verità, a cura di M.
Bertani e V. Zini, Marietti, Genova-Milano 2008, p. 197.
14
D. Defert, Une vie politique, Seuil, Paris 2014, p. 95.
222 Guillaume le Blanc

relazione capovolta con la verità. La verità della malattia è nota al medico,


mentre è ignorata dal malato ed è ignorata poiché il medico se la tiene per
sé, non giudicando necessario comunicargliela. Diverse sono le ragioni di
questo difetto di comunicazione. Una riguarda la natura del potere medico.
Il medico, padre di famiglia, conosce quel che è bene per il iglio (il pazien-
te), quel che per il suo bene gli può essere comunicato e quel che non può
esserlo. Il contratto terapeutico, all’origine del mito della clinica, si basa su
un’appropriazione della verità della malattia da parte del medico, contro la
quale i malati, o i collettivi di malati come soggetti delle pratiche mediche,
si sono ribellati. L’altra ragione riguarda la natura cosiddetta vergognosa
di questa malattia, identiicata, all’inizio, con l’omosessualità, «un cancro
gay, sarebbe troppo bello»15, freddura che ironizzerebbe sull’inscrizione
della perversione nella natura, che assumerebbe la forma di disfunzione
genetica cellulare.
La realtà è che l’apparizione dell’Aids riguarda la dissimmetria pazien-
te/medico nel rapporto con la verità. E quel che è da discutere è proprio
questa appropriazione della volontà di verità da parte del medico e l’elu-
sione del malato. I collettivi come Act Up o Aides criticarono l’esclusivi-
tà di una verità non condivisa. Nella conferenza alla Société française de
Philosophie nel 1978, Qu’est-ce que la critique?, Foucault scrive che «la critica
è il movimento attraverso il quale il soggetto si riconosce il diritto di in-
terrogare la verità nei suoi effetti di potere e il potere nei suoi discorsi di
verità»16. Così deinita, la critica è l’atto di interrogare il potere della verità
e la verità del potere, circoscrivendone gli effetti in rapporto alla condotta
dei soggetti che queste due economie della verità e del potere implicano.
Occorre ricordare che l’importanza della critica deriva proprio dalla sua
capacità di interrompere o di contestare la relazione apparentemente or-
ganica tra verità e potere. Il diritto dei malati a disporre della verità della
loro malattia è stato uno degli obiettivi della creazione di Aides. Questa
politicizzazione del diritto alla verità da parte dei malati si accompagna a
una importante posta in gioco etica: la persona affetta da Aids non è la sua
malattia. Si opera una disidentiicazione di sé nel momento in cui si è espo-
sti al rischio della potente identiicazione del malato con la sua malattia. La
portata critica dei collettivi come Aides proviene dal fatto che il diritto del

15
Ivi, p. 92.
16
M. Foucault, Qu’est-ce que la critique?, in Qu’est-ce que la critique? suivi de La culture de soi,
Vrin, Paris 2015, p. 39; trad. it. Illuminismo e critica, Donzelli, Roma 1997, p. 40.
Il dir-vero come elemento del “morire bene”? 223

malato a disporre della verità della sua malattia, lungi dall’identiicarlo con
essa, gli conferisce al contrario la possibilità di disidentiicarsene.
È questa posta in gioco che è possibile analizzare più nel dettaglio
riferendosi alla creazione di Aides. Si tratta di circoscrivere qui una delle
modalità della soggettività malata nella storia di Aides (come momento di
una problematizzazione della malattia Aids) che costituisce la presa di pa-
rola e la sua capacità di testimoniare la malattia in quanto critica del potere
medico. Daniel Defert propone una distinzione interessante, nel solco di
Foucault, tra la confessione e la testimonianza: «Non chiamo confessione
una parola collettiva»17. La confessione riguarda il sacramento della con-
fessione e si dà in una pastorale: «dimmi chi sei», che può avere la forma
di una pastorale cristiana (confessa i tuoi peccati), ma che può ugualmen-
te assumere la forma di una pastorale medica, congiungendo l’esistenza
supposta scandalosa del malato e il male della malattia, oppure in modo
più neutro, favorendo autobiograie di moribondi, di malati terminali, che
sono, per riprendere l’espressione di Dominique Memmi, «autobiograie
da istituzione», cioè racconti di sé che confermano le attese dell’istituzione
medica, rivelando nella narrazione la struttura benevola del governo dei
malati in ospedale.
La testimonianza riguarda una pratica completamente diversa e acqui-
sisce senso attraverso l’emergenza di una parola collettiva che essa stessa
rende possibile. La confessione riguarda il sé, la testimonianza costruisce
un «noi». Si tratta di costituire, grazie alla testimonianza, una politica di noi
stessi nel senso in cui Foucault, nella versione americana di Che cos’è l’Illu-
minismo?, parla di «ontologia critica di noi stessi»18 che egli deiniva come
la produzione di un «ethos» riferito alla critica dei limiti storici che assog-
gettano gli individui e alla capacità di superarli. Ora, la testimonianza di un
malato affetto da Aids deve mettere in crisi l’appropriazione della verità
della malattia da parte del potere medico proprio nello stesso momento
in cui intende promuovere una propria cultura omosessuale. Si tratta nello
stesso tempo di riiutare il monopolio del possesso della verità che ha il
medico e di dire che cosa ne è, in termini di esistenza, del «noi» omoses-
suale sconvolto dalla malattia. Là dove l’attenzione mediatica si sofferma

17
D. Defert, Une vie politique, cit., p. 97.
18
M. Foucault, What is Enlightenment?, in Dits et écrits II, cit., p. 1396; trad. it. Che cos’è
l’Illuminismo?, in Archivio Foucault 3. Estetica dell’esistenza, etica, politica, a cura di A. Pandoli,
Feltrinelli, Milano 1998, p. 231.
224 Guillaume le Blanc

sulla magrezza del malato, sui sarcomi di Kaposi, sulla necessità di indos-
sare una tuta speciale per entrare in contatto coi malati, l’obiettivo è quello
di fare emergere l’esistenza di persone portatrici del virus, di restituire
visibilità a coloro che la vergogna sociale relega nell’invisibilità.
Il testo fondatore della costituzione di Aides precisa proprio questi
obiettivi. Esso si presenta come una lettera indirizzata da Daniel Defert ad
alcuni amici il 25 settembre 1984 cui seguono alcuni spunti di rilessione
e di iniziativa. L’obiettivo è la de-medicalizzazione dell’Aids: «Sapevo che
la questione dell’Aids non poteva essere ridotta ancora per molto tempo a
una questione medica»19. Solo questa de-medicalizzazione dell’Aids poteva
introdurre certe rivendicazioni sul modo di essere omosessuali. Il testo
enuclea quattro elementi: a) La questione dell’Aids non può più essere
considerata solo come una questione medica. b) Si tratta di istituzionaliz-
zare il rapporto con la malattia e, in maniera più generale, con la vulnera-
bilità là dove la cultura gay si è invece costruita attorno ai valori della salute
e della giovinezza. c) Ci si deve rendere conto del nuovo sapere che si sta
costituendo per i gay e riiutare l’arbitrio della parola del medico: «La co-
munità sarà presto la popolazione più informata dei problemi immunitari,
la più allertata sulla semiologia dell’Aids, e i medici limiteranno sempre più
i loro scrupoli a tacere o meno la cosa al malato»20. d) Si devono ripensare
i rapporti tra sessualità e identità riiutando la chiusura dell’identità omo-
sessuale entro la sola pratica sessuale per riaprirla a tutti gli affetti, ino a
includervi il rapporto con la morte. Bisogna quindi reinventare la sogget-
tività gay de-familiarizzando il suo rapporto con la morte e la sessualità:
«non tornerò a morire dalla mamma. Rischiamo di lasciarci rubare una
parte essenziale dei nostri legami affettivi. De-familiriazziamo la nostra
morte così come la nostra sessualità»21.
In questo testo fondatore di Daniel Defert è notevole che, a partire
dalla deinizione di un inventario dei bisogni dei malati, si proponga una
politica di sostegno che si sviluppa allo stesso tempo nella direzione di
risposte istituzionali, di lavori di ricerca e di informazione, il cui obiettivo
è chiaramente la trasformazione della soggettività gay tramite l’appropria-
zione della verità della malattia. Da qui si vede che il dir-vero è un elemen-
to fondamentale se non del vivere bene almeno del morire bene. La que-

19
D. Defert, Une vie politique, cit., p. 97.
20
Ivi, p. 233.
21
Ivi, p. 234.
Il dir-vero come elemento del “morire bene”? 225

stione medica è così de-medicalizzata mediante una rivendicazione preci-


samente parresiastica: non si tratta tanto del fatto che il malato conquista
la verità della sua malattia, quanto piuttosto del lasciarsi trasformare da
questa verità e questo persino nella relazione con la morte. La soggettività
del malato trova nell’appropriazione della verità della malattia la possibilità
di trasformarsi attraverso questa appropriazione.
Partendo dalla convinzione ribadita nel testo fondatore di Aides che
«ogni cultura presuppone lo sviluppo di modelli del morire bene»22, l’ap-
propriazione del sapere della malattia da parte dei malati, ma anche da
parte dei parenti e degli amici, per come vengono intesi da Aides (ovve-
ro come coloro che svolgono il ruolo di sostegni) deve rendere possibile
questo morire bene. La natura di questo morire degnamente può essere
raggiunta solo se la competenza del malato e dei suoi amici è riconosciuta
in quanto tale. Questo presuppone un nuovo interesse della medicina ver-
so lo spazio del malato che va oltre la sua malattia e si riferisce non solo
al suo proprio sapere, ma anche alla sua esistenza, la quale deve essere
riconosciuta all’esterno dell’ospedale perché sia presa meglio in conside-
razione al suo interno: «L’organizzazione ospedaliera stessa è obbligata a
fare entrare tra le sue mura e nella sua disciplina i ritmi della vita econo-
mica dei pazienti se non vuole accrescere la loro esclusione professionale»
– riconosce Daniel Defert in una conferenza del 1989 intitolata Un nuovo
riformatore sociale: il malato23.
Questo interesse rivolto al malato è ampiamente costruito dal malato
stesso o dai collettivi di malati grazie all’appropriazione del sapere medi-
co. Questa appropriazione non signiica solo una volontà di sapere, ma
al contempo anche una volontà di potere, intesa come potere di vivere
diversamente attraverso il sapere. Essa sola permette, per l’esattezza, una
relativa padronanza delle condizioni di vita propria alle persone affette
da Aids: «L’irruzione forse più radicale delle persone contagiate dall’HIV
per controllare il loro ambiente corrisponde alla loro appropriazione del
sapere medico»24. Tale appropriazione del sapere, nel collettivo, permet-
te cosi un’auto-organizzazione dei pazienti su basi alternative rispetto a
quelle dell’ambiente familiare. Col passar del tempo questa auto-organiz-
zazione deve indurre una nuova soggettività che non si lascia confondere

22
Ivi, p. 236.
23
Ivi, p. 242.
24
Ivi, p. 243.
226 Guillaume le Blanc

con la malattia. La volontà di dir-vero si accompagna così alla possibilità


di viversi diversamente come malato, e questo ino all’imminenza della
morte.
La prova migliore è data dai movimenti comunitari americani che han-
no contrapposto al termine malato l’espressione «persona che convive con
l’Aids». Là dove il malato è ancora associato alla malattia che lo deini-
sce e lo identiica negativamente, l’espressione «persona che convive con
l’Aids», resa possibile dalla lotta dei collettivi che si organizzano a partire
da un diritto al sapere e alla verità, ricrea le condizioni di una identiicazio-
ne in grado di favorire nuove soggettivazioni, nuove maniere di diventare
soggetto persino nella morte. In nessun modo allora il dir-vero è allora un
elemento del morire bene soltanto perché costruirebbe una verità della
morte accettabile per la persona affetta da Aids, esso lo è semmai poiché
crea un rapporto aperto a inedite modalità di considerare la morte come
oggetto di rilessione. Ribadire l’espressione «persona che convive con
l’Aids» signiica riiutare che la vita di un essere vivente colpito dall’Aids
sia normata attraverso la morte: è solamente per un essere vivente capace
di vivere persino nel rapporto con la morte che si mantiene la possibilità
del morire bene. Questa disidentiicazione della persona malata con la per-
sona che convive con l’Aids è l’obiettivo inale della creazione di Aides; la
formula che chiude il testo-manifesto di Defert la porta alla luce del sole:
«Aides deve essere l’inversione dell’Aids»25.

IV.

Tale disidentiicazione del soggetto affetto da Aids porta con sé


un’ambiguità fondamentale che tocca da vicino le relazioni tra medicina
e parrhesia. Da una parte, attraverso il dir-vero si tratta di conquistare
una nuova forma-soggetto irriducibile alla deinizione di sé come ma-
lato che l’identiicazione della malattia continua a produrre. Dall’altra,
tuttavia, questa nuova forma soggetto sembra potersi raggiungere solo
a partire da una certa politicizzazione della medicina che presuppone il
valore morale, politico e sociale del malato di fronte al medico. Come
comprendere il fatto che la possibilità di divenire se stessi, resa possibile
dal sapere-potere dei malati (organizzati in collettivi), eccede la forma-
25
Ivi, p. 237.
Il dir-vero come elemento del “morire bene”? 227

soggetto del malato per giungere così alla prova inale della disidentiica-
zione che sembra permettere la pratica parresiastica da parte dei malati?
Può esistere una parrhesia dei soggetti malati che possa operare come una
pratica di disidentiicazione rispetto allo spazio della malattia e dunque
rispetto al riferimento alla soggettività malata? La soggettività del malato
può essere una cosa diversa da una soggettività malata grazie alle pratiche
del sé che si rapportano al dir-vero della malattia? È proprio questa la
posta in gioco pratica che, come abbiamo visto, la creazione del collettivo
Aides presuppone, ma può benissimo essere la posta in gioco pratica di
ogni soggetto colpito da una qualunque malattia. In che modo il soggetto
può essere così diverso dal malato ino a giungere al potere di opporsi al
medico o a una équipe medica?
Questo problema così formulato dal punto di vista del malato e del
suo ethos, può essere riformulato anche dal punto di vista della medicina
a partire dalle seguenti questioni. La medicina può affrancarsi da un’erme-
neutica del sé, ovvero, da un insieme di tecniche di confessione che co-
stringono il malato a dire chi sia? Egli lo può e lo deve dire davvero? Sono
queste due questioni che, inine, bisogna considerare in quanto ciò che le
unisce è proprio il problema comune del riferimento alla verità. Ovvero, la
verità della malattia comporta, come sua conseguenza obbligata, la verità
del malato? Bisogna passare da una all’altra? Quel che può rendere ne-
cessario un tale passaggio è che, per meglio gestire il trattamento medico,
sembra si debba risalire alla psicologia del malato, interessarsi per esempio
alle ragioni che egli può avere avuto per non seguire un certo trattamento.
I dispositivi medici oggi sembrano essere, per questa ragione, dei disposi-
tivi psicologici che fanno parlare il malato, spesso per governarlo meglio,
per disporre di lui nel migliore dei modi.
Questa generalizzazione della parola del malato è legittima per diverse
ragioni: a) Dal punto di vista dello stesso dispositivo, il riferimento alla
parola del malato può ripristinare la sua singolarità. La medicina è preser-
vata come la clinica contro il suo punto di svolta esclusivamente tecnico,
ritenuto disumanizzante. b) La presa di parola del malato riequilibra la
dissimmetria di potere e sapere tra il medico e il paziente, quando una
volta essa era sbilanciata solo a favore del medico. Essa contribuisce a
una riformulazione del contratto terapeutico sulla base dello scambio di
due competenze. Occorre ovviamente affrettarsi a restituire questa presa
di parola del malato all’interno del dispositivo medico nel quadro di una
228 Guillaume le Blanc

generale ascesa del ragionamento psicologico nell’insieme dei dispositivi


sociali contemporanei.
Ma resta la questione di sapere perché la medicina come sapere-potere
abbia inine convocato la verità del malato nel processo che giunge a ri-
velare la verità della malattia. È una cosa che non è ovvia se la collochia-
mo nella prospettiva di una storia della medicina e del pensiero medico,
a lungo ripiegati sulla convinzione, che ancora era formulata all’inizio del
ventesimo secolo dal chirurgo Leriche nella sua Filosoia della chirurgia (Phi-
losophie de la chirurgie), secondo cui il malato è un elemento di disturbo nel
dispiegarsi della nosologia patologica che formula la diagnosi. Come in-
terpretare la promozione del malato nella storia dei saperi/poteri medici?
Questo ci spinge di nuovo a chiederci da quale punto di vista la lotta dei
collettivi di malati (come Aides) ha permesso una politicizzazione della
medicina di cui uno degli effetti è stato il rafforzarsi del potere del malato,
ma la cui conseguenza ha potuto essere la creazione ex nihilo di un valore
del malato come soggetto che esiste in quanto tale. In una tale prospettiva
come si fa a ridare senso alla possibilità della disidentiicazione del malato
di Aids o peggio ancora del «sidaïque» e della «persona che convive con
l’Aids» promossa invece da Aides?
L’introduzione che Foucault fa del concetto di parrhesia, se la si colloca
nel gioco più ampio della politica della verità, per come è messo in pratica
dalla duplice prospettiva di un governo dei soggetti attraverso la verità e
di una critica degli effetti di potere della verità, si rivela molto interessante,
poiché mostra come il dir-vero può comprendersi contemporaneamente
come una critica del governo medico e come un’invenzione di forme di
soggettività particolari da parte dei malati ino al punto estremo che cor-
risponde alla prova della disidentiicazione relativa allo statuto del malato
stesso. Come Foucault scriveva in uno dei suoi ultimi testi, «Il soggetto e il
potere»: «Occorre promuovere nuove forme di soggettività»26.
Che cosa esattamente è in questione nel concetto di parrhesia? Nella
prima lezione del corso del 1984, Foucault stabilisce che la nozione di
parrhesia sia, da un punto di vista storico, una nozione politica27. Essa si è

26
M. Foucault, Le sujet et le pouvoir, in Dits et écrits II, cit., p. 1051; trad. it. Il soggetto e il
potere, in H. Dreyfus e P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault, Ponte alle Grazie, Firenze
1989, p. 244.
27
Cfr. M. Foucault, Le courage de la vérité. Le gouvernement de soi et des autres II. Cours au
Collège de France. 1984, Seuil/Gallimard, Paris 2009; trad. it. Il coraggio della verità. Il governo di
sé e degli altri II. Corso al Collège de France (1984), Feltrinelli, Milano 2011.
Il dir-vero come elemento del “morire bene”? 229

diffusa nel contesto della democrazia ateniese del V secolo a.C., ma è solo
successivamente che si è sviluppata nell’ambito della morale. Nel contesto
politico della polis ateniese, la parrhesia designa il diritto di ogni cittadino
libero, maschio e adulto, di parlare davanti all’Assemblea e di esprime-
re liberamente il proprio parere su ogni questione di pubblico interesse.
La parrhesia dà la possibilità a ogni cittadino di dire tutto28. Il tema del
ilosofo-re mise un freno alla diffusione di questo ambito del dir-tutto.
Dal momento che la città per essere ben governata deve essere in mano ai
ilosoi, la parrhesia viene distinta dall’isegoria: «Non è perché tutti possono
parlare che ognuno può dire il vero»29.
Il fatto che la parrhesia sia stata sottratta al demos produce effetti impor-
tanti: a) La verità è una questione di potere nel senso di una tecnologia di
governo piuttosto che un semplice affare dei governati. b) I governati non
sono più considerati soltanto capaci di dire il vero ma, in quanto tali, anche
di riconoscerlo. O se lo sono non possono esserlo all’interno del campo
politico, ma solo costituendosi come ilosoi. c) Foucault mostra che la
parrhesia diventa un valore ilosoico quando smette di essere un diritto
politico garantito a tutti i cittadini30.
Da questa analisi storica si può notare che il concetto di parrhesia è
impiegato secondo due usi distinti, ma che, in contesti storici differenti,
come ad esempio il nostro, possono incontrarsi. Esso deinisce per tutti
un dovere di veridizione nei confronti della città, un obbligo democratico
di dir-vero. Ma deinisce anche una maniera di condursi come soggetto
morale. La parrhesia, come viene sottolineato da Foucault, è agganciata alla
polis e all’ethos. È una differenziazione al contempo politica ed etica che
presuppone di conoscere non solo il vero bene della città, ma anche il pro-
prio bene. In termini foucaultiani, la parrhesia è una tecnologia di governo
di sé. È una trasigurazione etica della politica così come una trasigurazio-
ne politica dell’etica.
In cosa questo ragionamento di Foucault risulta pertinente per pensa-
re il nostro problema, l’esperienza della déprise de soi del malato all’interno
delle forme di sapere-potere medico? Solo di recente il dir-vero è diventa-
to un valore per la medicina. Ma occorre innanzitutto osservare che esso

28
Ivi, p. 33. Cfr. D. Lorenzini, Éthique et politique de soi. Foucault, Hadot, Cavell et les
techniques de l’ordinaire, Vrin, Paris 2015, p. 250.
29
Ibidem.
30
Ivi, p. 246.
230 Guillaume le Blanc

è stato per molto tempo un valore del medico piuttosto che del malato.
Dire il vero al malato si impone sempre più come il dovere etico per ec-
cellenza da parte del medico. Se le modalità etiche di questo dire il vero
sono oggetto di discussione, l’imperativo etico di dire il vero è diventato
un’evidenza. L’obbligo di dire il vero al malato sulla natura della malattia
da cui è affetto si inscrive nella nuova economia del sapere-potere medico
di oggi. Tale obbligo può essere considerato come la maggiore clausola
del rispetto che si deve all’integrità del paziente. Ma può essere anche ana-
lizzato come una prospettiva supplementare sull’assegnazione di potere
del medico nei confronti del paziente. Allo stesso modo questo obbligo
può valere come effetto di giurisdizione (juridicisation) della relazione tera-
peutica, che impone nuove assegnazioni di responsabilità al medico. Tutto
questo sarebbe stato inimmaginabile senza il contro-potere che gli stessi
pazienti e collettivi di pazienti hanno saputo opporre alle équipe di medici.
Tuttavia alla ine di questa analisi resta la questione di cosa diventano le re-
lazioni tra verità e malato. Se è possibile affermare che la verità del malato
non si confonde con quella della malattia, sembra che la critica dell’identi-
icazione del malato con la verità della sua malattia presupponga, a rigore,
la prova dell’affrancarsi rispetto allo statuto di malato, imposta, in termini
più affermativi, dalla malattia. L’ultima posta in gioco di una parrhesia del
malato sarebbe allora la capacità di vivere come tutti gli altri. È quello che
sembra promettere la pratica di un dir-vero dei malati.

Traduzione dal francese di Orazio Irrera

Guillaume le Blanc
Université Paris-Est Créteil
guillaume.le-blanc@orange.fr

.
Truth-Telling as an Element of “Dying Well”? About the Creation of Aides in France

In this paper I discuss the emergence of truth-telling in relation with death,


focusing in particular on Aids patients and on the constitution of collective
groups like Aides during the 1980s. Only in recent years truth-telling acquired
a positive value in medicine, but mostly on the side of the physician, who must
Il dir-vero come elemento del “morire bene”? 231

tell the truth to her patient about the nature of her illness. In this new economy
of medical power-knowledge, however, what kind of relations are established
between the patient and truth? I argue that the main stake of a practice of truth-
telling on the side of the patients lies in their ability to live like everybody else.

Keywords: Bioethics, Body, Truth-Telling, Illness, Parresia, Medical Power,


Resistance, Vulnerability.
Disciplinare e guarire
La “realtà” come posta in gioco del potere psichiatrico secondo Foucault
Philippe Sabot

A partire dal Corso al Collège de France del 1972-1973, La società puni-


tiva, Foucault s’impegna in un’approfondita rilessione sulla fabbricazione
del potere che si basa prima sull’analisi della forma-prigione come forma
sociale, ovvero come «forma secondo la quale il potere si esercita all’inter-
no di una società»1. Questa analisi lo porta ad individuare gli elementi di
un’apprensione concettuale di quel che venne da lui chiamata una «società
del potere disciplinare»2, fondata sull’acquisizione di abitudini valenti come
norme sociali: la prigione, intesa come un «dispositivo di cattura» (appareil
de séquestration), «fabbrica un tessuto di abitudini attraverso cui si deinisce
l’appartenenza sociale degli individui a una società. [Questo dispositivo]
fabbrica qualcosa come la norma […]. La sua funzione è di produrre indi-
vidui normali»3. Un interessante prolungamento di una tale analisi si trova
nel Corso del 1973-1974 dedicato al Potere psichiatrico. Tra il primo e il se-
condo tuttavia la sua rilessione si modiica in due punti. In primo luogo,
non sono più studiate le funzioni normalizzanti della prigione, con il loro
collegamento ad un apparato di produzione4, questa volta l’interesse verte
piuttosto sul manicomio, identiicato come una «scena di affrontamento»5
in cui il medico e il folle si fronteggiano nel quadro di un’operazione tera-
peutica considerata soprattutto nell’ottica di una relazione di potere 6.

1
M. Foucault, La société punitive. Cours au Collège de France. 1972-1973, Seuil/Gallimard,
Paris 2013, p. 230.
2
Ivi, p. 240.
3
Ivi, p. 242.
4
Ivi, p. 201: «La coppia sorvegliare-punire si instaura come rapporto di potere
indispensabile alla issazione degli individui sull’apparato di produzione, alla costituzione
delle forze produttive e caratterizza la società che possiamo chiamare disciplinare».
5
M. Foucault, Le pouvoir psychiatrique. Cours au Collège de France. 1973-1974, Seuil/
Gallimard, Paris 2003, p. 11; trad. it. Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France (1973-
1974), Feltrinelli, Milano 2004, p. 21.
6
In questo senso, Il potere psichiatrico riprende e sposta le analisi che in Storia della follia
erano state dedicate alla nascita del manicomio. Foucault si spiega molto chiaramente su
questo punto nella lezione del 7 novembre (pp. 14ss.; trad. it. cit., pp. 24ss.).

materiali foucaultiani, a. IV, n. 7-8, gennaio-dicembre 2015, pp. 233-246.


234 Philippe Sabot

In un certo senso, il modello della «guerra civile» che Foucault proponeva


di estendere all’insieme del corpo sociale7 per comprendere la logica in-
terna dei suoi meccanismi punitivi, si trova reinvestito come matrice del
«potere psichiatrico» a livello di questo particolare spazio disciplinare che
è il manicomio. Successivamente, uno degli obiettivi di questo studio è di
mettere in luce più chiaramente rispetto al Corso precedente, e secondo
una modalità immanente alle pratiche manicomiali dell’inizio del dician-
novesimo secolo, il modo in cui è emersa una forma disciplinare di potere
che ha sostituito un potere cosiddetto sovrano. Da questo punto di vista,
Il potere psichiatrico mette ormai l’accento su una distinzione cui Foucault
aveva solamente accennato nella conclusione del suo Corso su La società
punitiva:

Fino al diciottesimo secolo, ci si trovava in una società in cui il potere ave-


va la forma visibile, solenne e rituale della gerarchia e della sovranità […]. Nel
diciannovesimo secolo, ciò attraverso cui il potere si esercita non è più questa
forma solenne, visibile, rituale della sovranità, ma l’abitudine imposta ad alcuni,
o a tutti, rispetto alla quale, innanzitutto e fondamentalmente, alcuni vi si trova-
no obbligatoriamente piegati. In queste condizioni il potere può perfettamente
abbandonare tutta questa sontuosità che è propria ai suoi rituali visibili, ogni suo
drappeggio e tutte le sue insegne. Esso assumerà la forma insidiosa, quotidiana,
abituale della norma, ed è così che si nasconde come potere e si potrà presentare
come società8.

Il Corso dedicato a Il potere psichiatrico tenta per l’appunto di mostrare


come questo tipo di potere, un potere disciplinare, al contempo si elabora
e si nasconde nelle pratiche manicomiali riguardanti la «proto-psichiatria»9,

7
M. Foucault, La société punitive, cit., p. 14: «[…] per fare l’analisi di un sistema penale,
quello che in primo luogo dev’essere delineato è la natura delle lotte che, in una società,
si svolgono attorno al potere. È quindi la nozione di guerra civile che deve essere messa al
centro di tutte queste analisi sulla sfera penale».
8
Ivi, pp. 242-243.
9
La pratica manicomiale che Foucault designa come «proto-psichiatria» è «quella
che si sviluppa tra gli ultimi anni del XVIII secolo e i primi venti o trenta del XIX,
prima dell’apparizione del grande ediicio istituzionale costituito dal manicomio, e
che in Francia possiamo collocare nel corso del decennio 1830-1840, più esattamente
nel 1838, allorché viene promulgata la legge sull’internamento e l’organizzazione dei
grandi ospedali psichiatrici» (M. Foucault, Le pouvoir psychiatrique, cit., p. 27; trad. it. cit.,
pp. 35-36).
Disciplinare e guarire 235

ovvero sviluppandosi indipendentemente dai modelli epistemologici e te-


rapeutici che si erano già imposti in medicina. Si tratta dunque per Foucault
di render conto del tipo di razionalità medica o extra-medica che organiz-
zava queste pratiche di una psichiatria in corso di istituzionalizzazione, e
di cogliere anche quali sono le sue poste in gioco in termini di relazioni di
potere, quali sono le “tattiche” e le “strategie” che comandano tali relazio-
ni di potere. Questa analisi, rivolta a cogliere in qualche modo la nascita
della clinica psichiatrica come punto di emergenza di una nuova forma di
potere, non ha come punto di partenza le conoscenze psicopatologiche di
cui questa clinica sarebbe la realizzazione, l’applicazione pratica. E non ha
inizio neppure con un’analisi dell’istituzione psichiatrica, ma si concentra
piuttosto sulle stesse pratiche manicomiali, per come sono restituite dagli
archivi della proto-psichiatria, attraverso il discorso degli psichiatri stessi,
mediante i protocolli o le scene di cura che essi descrivono empiricamente
e grazie alle ragioni che adducono per giustiicarle.
Quel che si può leggere in questi archivi è sicuramente un certo rap-
porto di forze tra lo psichiatra e la follia, un rapporto che si concatena
nella forma di una relazione di potere di tipo disciplinare, caratterizzato
in primo luogo da quello che Foucault designa come «contatto sinaptico
corpi-potere» o ancora come «congiunzione corpo-potere»10. Tale con-
giunzione permette così di caratterizzare questa nuova modalità di potere
che arriva in qualche modo a sostituirsi col potere sovrano e a spiegare
diversamente la razionalità propria all’operazione terapeutica in atto nella
clinica psichiatrica all’inizio del diciannovesimo secolo. I corpi in questio-
ne designano infatti singolarità somatiche che non possono in alcun modo
essere ridotte ai corpi anatomici su cui un sapere medico arriverebbe a
individuare i sintomi di un’affezione patologica per adattarli a una griglia
di analisi nosograica relativa a un sapere preordinato. Si tratta piuttosto di
corpi individuali presi in maniera permanente da un regime di sorveglianza
e di registrazione generalizzato, di corpi assoggettati a questo potere di
controllo regolare e sottile che ne isola le funzioni e ne organizza i movi-
menti nello spazio e nel tempo, che li costringe in una «trama di scritture»,
in «una sorta di plasma graico che li registra, li codiica, li trasmette lungo
la scala gerarchica e inisce col subordinarli a un ordine centralizzato»11.

10
Ivi, pp. 42 e 44; trad. it. cit., pp. 48 e 50.
11
Ivi, pp. 50-51; trad. it. cit., p. 57.
236 Philippe Sabot

Emerge così, nel cuore dell’esercizio del potere disciplinare, una nuova
forma di individualizzazione che non è più l’individualizzazione ascen-
dente propria del potere sovrano, che isolava l’individualità del sovrano
rispetto alla molteplicità indistinta dei suoi sudditi, ma piuttosto una «in-
dividualizzazione tendenziale molto forte in relazione alla base»12, relativa
cioè alle singolarità somatiche.
È di nuovo importante sottolineare che l’istituzione psichiatrica non
è il terreno privilegiato di elaborazione o lo spazio chiuso di questa forma
di individualizzazione propria al potere delle discipline. Essa vi trova al
contrario le sue proprie condizioni di possibilità. Questo signiica allora
che la nuova economia dell’esercizio del potere che Foucault designa nel
suo Corso come “disciplina” viene in dall’inizio a sovradeterminare l’e-
sercizio terapeutico della nascente psichiatria, afiancandolo in qualche
modo con una dimensione extra-terapeutica che la spiega e la condiziona.
Questa dimensione extra-terapeutica dell’operazione terapeutica in opera
nella clinica psichiatrica rinvia esattamente a queste procedure d’indivi-
dualizzazione e di assoggettamento che sono dirette verso la sottomis-
sione di una forza, verso la padronanza continua di una volontà indocile,
caratteristica della follia13.
La posta in gioco di queste analisi de Il potere psichiatrico appare allora
in tutta la sua chiarezza. Si tratta di sottomettere la psichiatria a una ge-
nealogia delle sue pratiche che, anziché appoggiarsi a una pratica e a un
sapere medici già dati, che garantivano in qualche modo la loro neutralità
oggettiva attraverso il riferimento a una norma scientiica di verità, rinvia
direttamente i suoi obiettivi più evidenti (la guarigione dei malati) a una
scena di affrontamento, a tattiche e a manovre che trovavano nell’esercizio

12
Ivi, p. 57; trad. it. cit., p. 64. Questa analisi delle forme di individualizzazione
relative alle modalità di esercizio del potere, per come essa è presentata nella lezione
del 21 novembre 1973, è ripresa in Sorvegliare e punire, in particolare attraverso l’idea che
«le discipline segnano il momento in cui si effettua quello che potremmo chiamare il
rovesciamento dell’asse politico dell’individualizzazione». Cfr. M. Foucault, Surveiller et
punir. Naissance de la prison, Gallimard, Paris 1975, pp. 225-226; trad. it. Sorvegliare e punire,
Einaudi, Torino 1976 (1993), pp. 210-211.
13
Foucault cita così Pinel e la deinizione che egli dà della terapia psichiatrica:
«l’arte di soggiogare e domare, per così dire, l’alienato, ponendolo in una condizione di
stretta dipendenza da un uomo che, per le sue qualità isiche e morali, sia in grado di
esercitare su di lui un imperio irresistibile e di mutare il concatenamento vizioso delle
sue idee» (M. Foucault, Le pouvoir psychiatrique, cit., p. 10; trad. it. cit., p. 20).
Disciplinare e guarire 237

di un potere disciplinare un sostegno eficace per raggiungere i loro ini,


ovvero alla sottomissione e alla padronanza regolata di questa forza insur-
rezionale della follia per come si manifesta tanto nell’indocilità del corpo
quanto nell’indocilità della volontà del folle.
All’interno di questo dispositivo genealogico, la clinica proto-psichia-
trica propone di conseguenza un particolare modo di annodare il potere e
il sapere. Infatti, il potere disciplinare per come funziona all’interno dell’o-
spedale psichiatrico, mentre risulta impiegato a fabbricare corpi disciplina-
ti, produce e sviluppa tutto un sapere legato a questo insieme di tecniche
di sorveglianza generalizzata, di condizionamento e di addomesticamento
dei gesti, dei discorsi e delle condotte individuali. L’eterogeneità di par-
tenza tra medicina e psichiatria sfocia dunque in un potere psichiatrico
individualizzante che, al posto di affondare su competenze e conoscenze
mediche precedenti, è piuttosto il rovescio di un sapere disciplinare indi-
vidualizzato fondato, per riprendere l’espressione dello stesso Foucault,
sull’applicazione della funzione soggetto su una singolarità somatica14. Un
tale sapere non è direttamente elaborato nella forma di teorie psichiatri-
che, ma si costituisce piuttosto come una specie di razionalità implicita che
si apre proprio all’interno dei protocolli terapeutici elaborati dagli psichia-
tri dentro il manicomio e in contatto con i folli, nel gioco di un rapporto
di forze. Si spiega così il rapporto con la verità, che poteva essere deter-
minante quando la follia era considerata come un errore15, o esso stesso
preso in un certo rapporto con la realtà a partire dal quale si ingaggia
l’affrontamento del medico e del folle sulla scena della proto-psichiatria.
In deinitiva sembra proprio che sia questo rapporto con la realtà a for-
mare qui la posta in gioco del sapere-potere che comanda l’insieme delle
operazioni terapeutiche messe in atto nella clinica proto-psichiatrica sotto
forma di tattiche disciplinari.
La rideinizione della stessa follia in termini di potere e l’avversità regi-
strata sin dall’inizio del diciannovesimo secolo16, illumina in un certo senso
l’orizzonte strategico entro il quale si dispiegano queste tattiche. Il potere

14
Ivi, p. 57; trad. it. cit., p. 64.
15
Ivi, p. 9; trad. it. cit., p. 19.
16
Ibidem: «a caratterizzare il folle, a rendere possibile l’individuazione della follia
del folle [a partire dall’inizio del XIX secolo], è proprio l’irruzione di tale forza, è il fatto
che si scateni in lui una determinata forza, una forza che non viene dominata, forse non
dominabile […]».
238 Philippe Sabot

che il folle oppone allo psichiatra è infatti chiaramente un potere di oppo-


sizione – di resistenza – alla realtà, un “riiuto” di accordarsi con la realtà:
il potere folle di affermare l’irreale in quanto reale e di volere l’irrealtà (ino
al delirio). È questa determinazione pratica della follia che va allora a issa-
re la forma stessa assunta dall’operazione psichiatrica: quella di un contro-
potere da opporre al potere della follia in vista di “sottometterlo” e di “do-
marlo” (come diceva Pinel). Ma quale potere si può opporre a una volontà
che afferma l’irrealtà, se non la realtà stessa – a condizione tuttavia che si
abbia la capacità di fare funzionare la realtà stessa come potere, di dare alla
realtà il potere della realtà? È attorno a tale questione che ruota l’analisi
foucaultiana della proto-psichiatria per come si è sviluppata all’inizio del
corso del 1973-1974. È allora possibile chiedersi come la transizione verso
un regime di potere di tipo disciplinare permetta di risolvere praticamente
questa tensione, la cui principale posta in gioco è il reale o il rapporto con
la realtà. Qual è l’effetto del reale proprio del potere disciplinare?
Una tale questione appariva formulata da Foucault sin dall’inizio della
lezione del 14 novembre 1973, quando presenta, come contrappunto della
«scena iniziale, fondatrice, della psichiatria»17 – quella della “liberazione”
dei folli fatta da Pinel – un’altra scena, altrettanto spettacolare, ma getta
una luce differente sul dispositivo proto-psichiatrico e sulla « manipola-
zione regolata e concertata dei rapporti di potere»18 che lo caratterizza.
Questa altra scena è quella che riporta lo stesso Pinel nel suo Traité médico-
philosophique sur l’aliénation mentale (sezione V, § vii): quella dell’internamen-
to del re d’Inghilterra, Giorgio III19. In realtà, queste due scene «sono in un
rapporto di continuità»20: dicono la stessa cosa, anche se solo la prima ha
richiamato l’attenzione della storiograia psichiatra attenta a promuovere,
per suo tramite, il mito di un trattamento umanitario dei folli. Ma per Fou-
cault ciò che queste scene hanno di fatto in comune è soprattutto il fatto di
re-inscrivere la pratica psichiatrica entro l’orizzonte della trasformazione
del potere sovrano come rapporti di potere fondati sulla disciplina.

17
Ivi, p. 21; trad. it. cit., p. 29.
18
Ibidem; trad. it. cit., p. 30.
19
Ivi, p. 22; trad. it. cit., p. 30. Il racconto di Pinel è ripreso da Foucault nella lezione
del 14 novembre 1973, prima di essere analizzato in modo dettagliato nelle pagine
successive.
20
Ivi, p. 30; trad. it. cit., p. 38.
Disciplinare e guarire 239

In queste condizioni, il racconto dell’internamento di Giorgio III of-


fre proprio un inatteso chiarimento sulla gloriosa narrazione della nascita
della psichiatria, tradizionalmente ricostruito a partire dal gesto liberatore
di Pinel:

[…] questa scena di liberazione non è propriamente ispirata a principi di ca-


rattere umanitario; credo anzi che la si possa esaminare come se fosse l’espressio-
ne di un rapporto di potere, o meglio, come la trasformazione di un determinato
rapporto di potere, con la violenza che lo caratterizzava – la prigione, la cella, le
catene, ovvero tutto ciò che faceva ancora parte della vecchia forma del potere di
sovranità – in un rapporto di assoggettamento, che è essenzialmente un rapporto
di disciplina21.

La genealogia della psichiatria che propone Foucault si sofferma dun-


que sulla trasformazione storica dei rapporti di potere che sembrava com-
piersi all’inizio del diciannovesimo secolo e che è correlativa della ridei-
nizione della follia in termini di volontà indocile e di avversione rispetto
al rapporto col reale. Ed è proprio questa trasformazione a essere letteral-
mente incarnata da Giorgio III, sovrano divenuto folle e destituito, a causa
della sua stessa follia, della sua sovranità a beneicio di un’altra forma di
potere, quella che regna nel manicomio e che è basata sulla disciplina. La
scena22 dell’internamento del re si presenta dunque in primo luogo come
una scena di intronizzazione reale, ma parodica, ironizzata, e alla ine ra-
dicalmente capovolta quando «chi dirige il trattamento [i.e. lo psichiatra]
gli dichiara che non solo non è più sovrano, ma deve ormai essere docile
e sottomesso»23. Docilità e sottomissione formano allora l’obiettivo tera-
peutico che lo psichiatra assegna alla sua azione che capovolge la potenza
del monarca in impotenza e dipendenza, e applica ormai al corpo nudo del
re la potenza anonima, quotidiana, regolare della disciplina, come risposta
al disturbo del suo comportamento. All’esercizio di un potere di cui il so-
vrano, con gli attributi simbolici e le cerimonie rituali che autentiicavano

21
Ibidem; trad. it. cit., p. 39.
22
Il manoscritto della lezione del 14 novembre 1973 precisa, a proposito della
nozione di “scena” qui impiegata, che deve essere intesa non già come un «episodio
teatrale», ma come «un rituale, una strategia, una battaglia» (ivi, p. 34; trad. it. cit., p. 43).
Questo non esclude una certa drammatizzazione nell’esercizio strategico dell’operazione
psichiatrica che riposa in larga parte su una manipolazione della realtà.
23
Ivi, p. 22; trad. it. cit., p. 30 – citazione estratta dal racconto di Pinel.
240 Philippe Sabot

la sua onnipotenza, era la causa universale ed eficiente, si sostituisce dun-


que la forma di un potere eficace perché mira soprattutto a produrre una
serie di effetti sul suo “bersaglio”, ovvero sul «corpo e la persona stessa del
re spogliato delle sue insegne, e che da questo nuovo potere deve essere
reso “docile e sottomesso”»24.
Questa scena di internamento e il trattamento psichiatrico di cui
Giorgio III è stato oggetto illustra quindi perfettamente il rovesciamento
dell’asse di individualizzazione del potere25 in quanto questo rovescia-
mento inaugura una forma paradossale di potere, allo stesso tempo ano-
nimo (quanto al suo esercizio) e individualizzante (quanto al suo “ber-
saglio”): dal momento che è internato, isolato dal mondo in cui poteva
esercitare il suo potere, «le funzioni essenziali della monarchia sono […]
messe tra parentesi» e il monarca è oramai ridotto «a quello che egli è,
vale a dire al suo solo corpo», è soltanto un corpo tra altri corpi, un corpo
da sottomettere e da disciplinare. La stessa guarigione non è niente di
più che l’effetto di questo disciplinamento del corpo per come è operato
nel manicomio attraverso l’esercizio di «un potere anonimo, senza nome,
senza volto; di un potere che risulta suddiviso tra diverse persone e che
– ed è questo quel che più conta – si manifesta attraverso l’implacabilità
di un regolamento che non viene nemmeno formulato, perché, in fondo,
nulla viene detto, […] tutti gli agenti del potere restano muti. Il mutismo
del regolamento va a occupare, in un certo senso, il posto lasciato vuoto
dalla degradazione del re»26.
Tuttavia, la scena d’internamento e di guarigione di Giorgio III pre-
senta agli occhi di Foucault anche un altro interesse, che rinforza ancor più
il suo valore esemplare. Infatti, il potere sovrano che Giorgio III sembra
potere pienamente incarnare solo al di fuori dello spazio manicomiale, di-
venta, una volta condotto all’interno di questo spazio, l’utopia di un potere
inito, ormai anacronistico e vano, ridotto al livello di una gesticolazione
senza fondamento. Ma, in questa dimensione utopica, egli appare allora
anche come la igura della follia par excellence. Al potere del sovrano si so-
stituisce quindi il potere sovrano della follia che consiste nell’affermare
come reale questo potere destituito, divenuto irreale. Il potere psichiatrico
ha quindi a che fare, con Giorgio III, con la follia di un re decaduto che

24
Ivi, p. 23; trad. it. cit., p. 32.
25
Cfr. supra, nota 12.
26
M. Foucault, Le pouvoir psychiatrique, cit., p. 23; trad. it. cit., p. 31.
Disciplinare e guarire 241

pretende ancora di avere quel potere che ha perduto, che pretende e vuole
essere re quando ormai non lo è più27. La dichiarazione del medico che
dice al re «che non è più sovrano» è dunque una dichiarazione di guerra:
l’operazione terapeutica si dispiega sullo sfondo di un affrontamento, di
una lotta condotta (in nome della guarigione del folle) contro l’insieme di
comportamenti indotti dalla dichiarazione avversa («sono il re»), contro
l’ostinata volontà che afferma un potere irreale, e di conseguenza, la realtà
del potere della stessa follia.
La posta in gioco della lotta che ha luogo all’interno del manicomio, la
cui inalità è la guarigione del folle (da intendere come la vittoria sulla sua
follia), è quindi proprio la realtà stessa28. La razionalità pratica del tratta-
mento degli alienati nella proto-psichiatria dipende strettamente da questa
posta in gioco che investe l’intento terapeutico e ordina il disciplinamento
dello spazio manicomiale. Si tratterà infatti, in questo spazio, di fare fun-
zionare la realtà stessa come potere, non semplicemente come ciò che è
simmetrico rispetto a questa irrealtà affermata come reale dalla follia (que-
sto signiicherebbe riconoscergli una certa realtà e dunque fare il gioco del
folle, o persino a considerare la stessa follia solo come un gioco…), ma
come un supplemento di realtà, facendo funzionare la realtà stessa come
sovra-potere (sur-pouvoir):

lo psichiatra, almeno per come comincia a funzionare nello spazio della di-
sciplina manicomiale, sarà decisamente signore della realtà […]. Lo psichiatra è
ormai colui che deve conferire al reale quella forza stringente grazie alla quale il
reale potrà impadronirsi della follia, attraversarla per intero e farla sparire come
follia. Lo psichiatra è diventato colui il quale – ed è proprio questo aspetto a dei-
nirne la funzione e il compito – dovrà assicurare al reale il supplemento di potere
necessario afinché possa imporsi alla follia, ma anche chi, inversamente, dovrà
togliere alla follia il potere di sottrarsi al reale29.

27
Oppure quando non lo è. Foucault sottolinea infatti che «troviamo sempre una
certa affermazione di onnipotenza» (ivi, p. 147; trad. it. cit., p. 140). Questa può esprimersi
specialmente sotto forma di mania di grandezza o di delirio di sovranità: si crede di essere
e lo si afferma.
28
Questo punto è affrontato da Foucault a partire dalla lezione del 12 dicembre
1973 e si articola a una questione generale relativa alla coppia disciplinare-guarire: «Come
e in quale misura può essere attribuito un effetto terapeutico a uno spazio, a un sistema
disciplinare [come il manicomio]? […] Ma in che modo si ritiene che questo spazio
disciplinare possa guarire?» (ivi, p. 128; trad. it. cit., p. 124).
29
Ivi, pp. 131-132; trad. it. cit., p. 127.
242 Philippe Sabot

Ritroviamo qui l’idea che la follia si presenta come forza sregolata, de-
lirio pericoloso, potere che minaccia il reale stesso quando gli attribuisce la
forma delirante dell’irreale. Per affrontare questa minaccia e ridurla, il potere
psichiatrico si sforza dunque, nel suo movimento generale così come nelle
sue tattiche disciplinari particolari, di essere «un operatore di realtà, una sorta
di intensiicatore di realtà intorno alla follia»30. La microisica disciplinare, con
le sue registrazioni regolari, con la sua messa in sorveglianza degli individui,
si impone allora come presa sul reale. E si presenta essa stessa come la rea-
lizzazione di un supplemento di realtà, di un sovrappiù di realtà, che cerca di
rendere la realtà ancora più reale della realtà stessa, al ine di opporsi all’irrealtà
che la volontà del folle intende far passare per la realtà nel suo insieme31.
Questa analisi di Foucault conferma in un certo senso che l’atto di nascita
della psichiatria moderna non deve essere cercato nello slancio umanitario e
paciicatore della liberazione dei folli, ma piuttosto nel ricondurre, all’interno
del campo manicomiale e dentro il dispositivo psichiatrico, una scena di af-
frontamento in cui si prende parte a una lotta per il reale, e in nome del reale.
La posta in gioco terapeutica della manovra della psichiatria è quindi in questo
senso subordinata a quello di una presa di potere sul reale, cioè sulla frontiera
tra realtà e irrealtà, poiché è su questa frontiera che si tiene il delirio dell’alie-
nato ed è questa stessa frontiera a minacciare l’ediicio del potere psichiatrico.
Resta allora da precisare quale può essere l’operatore di questo potere psi-
chiatrico, esposto all’inquietante porosità tra realtà e irrealtà. Ma soprattutto, la
matrice disciplinare del potere psichiatrico, come quella che Foucault analizza
nel suo Corso del 1973-1974 e per come appare in correlazione con una follia
intesa come volontà indocile e minacciosa (ino a puntare l’ordine del reale),
è una disposizione autosuficiente per opporsi a questa minaccia? Questo in-
terrogativo nasce dalla lettura delle lezioni successive dedicate a precisare la
natura delle operazioni che permettono allo psichiatra di assicurare la sua pa-
dronanza della realtà. Uno dei due operatori privilegiati di questa padronanza
è il corpo dello psichiatra.

30
Ivi, p. 143; trad. it. cit., p. 136.
31
Da questo punto di vista, il principio di visibilità permanente, la messa in
sorveglianza generalizzata e anonima che ordina la macchina panoptica del manicomio,
contribuisce, nella forma della massima esposizione del reale (sempre sottomesso a uno
sguardo possibile), a questo effetto terapeutico della realtà stessa, dal momento che è
imposta come un potere in grado di costringere. Su questo punto cfr. ivi, pp. 103-104;
trad. it. cit., p. 103.
Disciplinare e guarire 243

Ci si può domandare se l’importanza che Foucault sembra attribuirgli


non sia un po’ paradossale rispetto alla logica disciplinare del campo psi-
chiatrico in via di costituzione. Infatti, non si può essere colpiti dai marchi
del potere sovrano che si reintroducono nel cuore del campo proto-psi-
chiatrico, e questo sin dalla “scena di guarigione” di Giorgio III. Se dunque
questa scena testimonia in modo esemplare il passaggio da un regime di
potere sovrano a questo regime di potere anonimo, disindividualizzato e
“disincorporato” delle discipline, bisogna anche notare che, a favore di tale
“passaggio”, si trovano messi in luce la igura dello psichiatra e, in parti-
colare, la realtà del suo corpo, a partire dal quale certi aspetti del potere
sovrano vengono rimessi in gioco in modo nuovo proprio all’interno del
nuovo spazio disciplinare. Dopo aver analizzato la posta in gioco del reale
nella proto-psichiatria, Foucault sottolinea infatti l’importanza conferita da
questa psichiatria al corpo dello psichiatra, un corpo che è descritto minu-
ziosamente, attraverso la sua postura, la sua muscolatura, le espressioni del
suo viso e i tratti del carattere che esse dovevano rendere immediatamente
visibili. La presa del dispositivo psichiatrico sulla follia, che cercava di col-
locare lo psichiatra all’interno di un rapporto di forze con il folle, è innanzi-
tutto operata dalla presenza irriducibile della realtà del suo corpo:

la prima realtà che il malato deve incontrare, e che è in un certo senso ciò
attraverso cui gli altri elementi di realtà saranno costretti a passare, è costituita dal
corpo stesso dello psichiatra. Ricordatevi le scene di cui vi ho parlato all’inizio:
ogni terapeutica comincia con la comparsa dello psichiatra di persona, in carne
e ossa, che si erge d’un tratto davanti al malato – ciò avviene sia il giorno dell’ar-
rivo di questi in manicomio, sia in quello in cui comincia il trattamento – e che,
in virtù del prestigio di un corpo che dovrà essere, si dice, senza difetti, dovrà
imporsi grazie alla sua sola presenza plastica, alla sua sola imponenza. Questo
corpo dovrà imporsi al malato come realtà, o come ciò attraverso cui passerà la
realtà di tutte le altre realtà. È a un corpo del genere che il malato dovrà essere
sottomesso32.

La padronanza della realtà passa quindi dalla realtà del corpo dello
psichiatra che giunge a innescare e a rendere possibile il cerimoniale della
cura, che assomiglia esso stesso a un rituale di sovranità che impone alla
volontà folle questo sovrappiù di realtà, questo prestigio di una realtà so-

32
Ivi, p. 179; trad. it. cit., p. 171.
244 Philippe Sabot

vrana, l’unica a poterla mettere in difetto e a riportarla allo stato di volontà


sottomessa, destituita dalle sue proprie deliranti pretese di realtà. L’asim-
metria concertata di questo rapporto di forze mira allo stesso tempo a
escludere ogni reciprocità possibile e a alienare, per il folle stesso, ogni
potere sulla realtà facendo passare integralmente questo potere dalla parte
di questo “altro” che è lo psichiatra:

La realtà con la quale il malato deve essere costretto a confrontarsi, la realtà


a cui la sua attenzione, distratta – da una volontà in stato d’insurrezione – deve
piegarsi, sino a esserne soggiogata, è costituita innanzitutto dall’altro in quanto
centro di volontà, fonte di potere. La realtà consiste nell’altro proprio perché
questi detiene, e sempre deterrà, un potere superiore a quello del folle. Il surplus
di potere sta dall’altra parte: l’altro sarà sempre in possesso di una quota di potere
superiore rispetto a quella del folle33.

Il corpo dello psichiatra pareva incarnare proprio quell’aumento di


potere e di realtà; è il nucleo di potere e di realtà a partire dal quale si af-
ferma una volontà sovrana, che regna come padrone assoluto sulla realtà.
Sembra quindi che, rispetto a un tale protocollo della guarigione, Foucault
si distanzi dalla disincarnazione ideale di un potere disciplinare che fun-
ziona in modo ottimale nell’anonimato dei suoi regolamenti e delle sue
architetture silenziose di sorveglianza e di punizione. Qui, al contrario, il
campo psichiatrico sembra riattivare, nel cuore stesso dei suoi dispositivi
disciplinari, questo momento eminentemente sovrano di un corpo sovra-
esposto, nel quale si fondono simbolicamente il potere e la realtà, la realtà
del potere e il sovrappiù di potere conferito a questa realtà.
Occorre allora vedere in questo posto centrale accordato al corpo del-
lo psichiatra e alla sua operazione sovrana, un’inconseguenza che sarebbe
propria all’analisi di Foucault? Probabilmente no se ci si ricorda che, nella
sua propria genealogia del potere disciplinare, non era stata tanto messa in
questione la rottura con il potere sovrano quanto il progressivo emergere
di dispositivi di tipo disciplinare all’interno delle forme storiche di potere
di tipo sovrano: «Così come esistevano i poteri di tipo disciplinari nelle
società medievali, ovvero in società in cui pure prevalevano gli schemi di
sovranità, allo stesso modo è possibile trovare ancora, nella società con-
temporanea, forme di potere di sovranità»34.

33
Ivi, p. 173; trad. it. cit., p. 164.
34
Ivi, p. 81; trad. it. cit., pp. 84-85.
Disciplinare e guarire 245

La famiglia, in particolare, con il ruolo afidato al padre, forma una


tale isola di sovranità in mezzo a un regime di potere dominato dagli sche-
mi disciplinari. Piuttosto che cercare di fare dello psichiatra stesso un so-
stituto della igura paterna, appariva più fecondo trarre da questa analisi
un’analogia funzionale: alla stregua della famiglia, il corpo dello psichiatra
rinvia a un dispositivo di sovranità il cui ruolo cruciale è di essere «il car-
dine, il punto d’incastro assolutamente indispensabile»35 al funzionamento
stesso di questo sistema disciplinare particolare che è il sistema manico-
miale. Il dispositivo psichiatrico sostiene dunque proprio la presenza, nel
suo seno così come alla sua testa, di un corpo sovrano che funge da sup-
porto simbolico e da operatore materiale di questo “sovrappiù di potere”
che innesta nel cuore della macchina manicomiale tutte le operazioni di-
sciplinari, tra loro articolate e ordinate dall’esigenza strategica della padro-
nanza della realtà.
È quindi per rispondere a questa esigenza strategica, propria alla
macchina manicomiale che condiziona anche il suo funzionamento disci-
plinare, che il potere psichiatrico si supplementa nella realtà sovrana del
corpo dello psichiatra, tendenzialmente identiicato con il «corpo» stesso
del manicomio che egli domina in tutte le sue dimensioni, e sul quale si
estende il suo impero: «Il manicomio è il corpo dello psichiatra, ampliato,
espanso, dilatato alle dimensioni di un’istituzione, esteso a tal punto che il
suo potere si eserciterà come se ogni parte del manicomio fosse una parte
del suo proprio corpo, governato dai suoi stessi nervi»36. Il posto centrale
accordato al corpo dello psichiatra nel dispositivo proto-psichiatrico non
rivela dunque un’infelice confusione tra regimi di poteri incompatibili e
storicamente distinti, ma si comprende soprattutto in funzione della sin-
golarità del dispositivo manicomiale e della natura delle operazioni tera-
peutiche che vi si giocano, sullo sfondo delle relazioni di potere e di lotta
per il reale, e in nome del reale. Queste operazioni convergono verso
l’obiettivo di fare della realtà un potere coattivo, di intensiicare la realtà a
tal punto da farne un potere capace di combattere e di vincere la follia. Il
corpo dello psichiatra concentra, da un punto di vista insieme materiale e
simbolico, le risorse di questa intensiicazione e mette il suo supplemento
di sovranità al servizio del dispositivo psichiatrico per opporsi al delirio
minaccioso della follia.

35
Ivi, p. 82; trad. it. cit., p. 86.
36
Ivi, p. 179; trad. it. cit., p. 171.
246 Philippe Sabot

Tuttavia questa articolazione della proto-psichiatria sul corpo dello psi-


chiatra non regola tutto. Nel seguito del Corso, Foucault mostra infatti come
questa scena iniziale di affrontamento, la cui posta in gioco è la padronanza
della realtà, si ripete e si rimette in gioco in particolare a partire dal grande
problema che accompagna la nascita della clinica psichiatrica e che costitui-
sce la sua «croce»37, ovvero il problema della simulazione. Questo problema,
che si basa allora su un confronto tra realtà e verità, costituisce la principale
posta in gioco della «crisi dell’isteria»38 che ha condotto a una crisi del potere
psichiatrico negli anni 1860-1870 – una crisi da cui è derivata la psicanalisi.
Le ultime lezioni del Corso del 1973-1974 saranno per l’appunto dedicate
all’approfondimento di questa crisi, e ai nuovi «giochi di verità» ai quali essa
ha potuto dare luogo, quando, confrontandosi col corpo dell’isterica, il tipo
di razionalità pratica forgiata dalla proto-psichiatria si è trovato incapace di
mantenere come elemento strategico dell’internamento e del trattamento
degli alienanti questa sola dimensione della realtà in nome della quale essa
aveva potuto esercitare il proprio potere ino ad allora.

Traduzione dal francese di Orazio Irrera

Philippe Sabot
Université Lille 3
philippe.sabot@univ-lille3.fr

.
Discipline and Cure. “Reality” as the Stake of Psychiatric Power According to Foucault

Following the analyses that Foucaut leads in the early 1970s about the proto-
psychiatric clinic, in particular in the course The Psychiatric Power, we strive to show
the game of power and counter-power which this clinic is the ground et “Reality”
is the main issue and the tactical impulse. It is thus to operate reality itself as
power to give to reality the power of reality. The question is then whether and
how a power of disciplinary type may respond to this issue. What is the effect of
real of disciplinary power ?

Keywords: Psychiatry, Tactics, Madness, Body, Will, Reality, Discipline.

37
Ivi, p. 134; trad. it. cit., p. 130.
38
Ivi, p. 233; trad. it. cit., p. 207.
The government of the mob?
Produzione del resto e suo eccesso
Martina Tazzioli

L’existence des séries de banalités biographiques


qui commencent à devenir l’objet d’un savoir […]
toute cette grisaille a peine irrégulière1.

P
« rima non vi erano che dei soggetti, dei soggetti giuridici […] adesso
ci sono corpi e popolazioni. Il potere è divenuto materialista»2: così, ne
Le maglie del potere, Foucault sintetizzava il modo in cui nelle società con-
temporanee la vita è diventata il centro di tecniche politiche di regolazio-
ne, capitalizzazione e calcolo. Questa “presa” calcolata sulla vita, deinita
con il neologismo di biopolitica da Foucault, ha tuttavia, se seguiamo la
genealogia tracciata da Foucault stesso, un oggetto primario su cui va a
esercitarsi che non è la vita in quanto tale ma la popolazione. Ora, a che
tipo di “presa” sulla vita ci troviamo di fronte nelle forme di biopolitica
attuali, quando la realtà della popolazione non è il livello su cui si esercita
la regolazione della molteplicità?
Cosa è una popolazione? Da chi è formata? «Una molteplicità di in-
dividui», la deinisce Foucault in Sicurezza, territorio, popolazione, nella lezio-
ne dell’11 gennaio, «che sono ed esistono fondamentalmente ed essen-
zialmente in quanto biologicamente legati alla materialità all’interno della
quale vivono»3. E questa molteplicità, per essere oggettivata come “po-
polazione”, viene assunta, riferita e governata rispetto a un certo spazio
– quello della città ma soprattutto, storicamente, lo spazio della nazione,
che seppur mai direttamente al centro dell’analisi di Foucault, fa da cornice
e viene presupposto nelle rilessioni sul funzionamento dei dispositivi di

1
M. Foucault, La société punitive. Cours au Collège de France. 1972-1973, Seuil/Gallimard,
Paris 2013.
2
M. Foucault, Les mailles du pouvoir (1976), in Dits et écrits II, 1976-1988, Gallimard,
Paris 2001, p. 1013.
3
M. Foucault, Security, Territory, Population. Lectures at the Collège de France, 1977-1978,
Palgrave Macmillan, Basingstoke 2009.

materiali foucaultiani, a. IV, n. 7-8, gennaio-dicembre 2015, pp. 247-259.


248 Martina Tazzioli

sicurezza nel Corso del 1978. Uno spazio, dunque e una serie di determi-
nazioni, caratteristiche biologiche che deiniscono le «curve di normalità»
rispetto a cui ogni fenomeno deve essere governato o «delimitato all’in-
terno dei limiti accettabili», senza comprendere la totalità dei soggetti in
quanto tale ma, piuttosto, ciò che Foucault deinisce «il livello pertinente
della popolazione»4.
Su questo punto è importante aprire una breve parentesi, che in realtà
necessiterebbe di un intervento a parte, per dire che una serie di auto-
ri, tra cui Stephen Legg e Ian Hacking, hanno mostrato come “insiemi-
popolazioni” sono stati costruiti, soprattutto a partire dalla seconda metà
del XIX secolo, su una base differente da quella nazionale: statistiche sulle
patologie o le devianze che si riferivano a una parte della popolazione
nazionale, a sotto-popolazioni deinite appunto a partire da determinati
fenomeni fuori norma, da mappare, diagnosticare, calcolare5. Ma anche
in questo caso di popolazioni prodotte su base non nazionale, e rispetto a
cui non è così scontato rintracciare un referente spaziale deinito, ciò che
importa all’interno di questa problematizzazione su popolazioni migranti,
è l’omogeneità, la serie di elementi in comune che caratterizzano anche
queste sotto-popolazioni non nazionali – omogeneità data per l’appunto
dalla stessa patologia o fenomeno che si intende mappato. È precisamente
questo presupposto che, come vedremo, viene a cadere quando guardiamo
a coloro che vengono governati in quanto migranti.
La popolazione, dunque, si presenta come l’immancabile correlato
che deinisce l’azione stessa di governo, la sua supericie di presa. A tal
proposito merita ricordare che nonostante spazio e soggetti siano indisso-
ciabili nel funzionamento di una tecnologia di governo si tratta certamente
di un governo attraverso lo spazio, ma che nella prospettiva foucaultiana
ha come suoi oggetti e punti di presa condotte e individui, presi singolar-
mente o come facenti parte di un gruppo: «non si governa mai uno stato
né un territorio, né una struttura politica, si governano persone, individui
o collettività»6. Le tecniche di governo che si esercitano sulla popolazione
e costituiscono quella molteplicità di individui come un insieme governa-

4
Ivi, p. 92.
5
I. Hacking, Biopower and the Avalanche of Printed Numbers, in «Humanities in Society»,
n. 5 (1982), pp. 279-295; S. Legg, Foucault’s Population Geographies. Classiications, Biopolitics
and Governmental Spaces, in «Population, Space, Place», n. 11 (2005), pp. 137-156.
6
M. Foucault, Security, Territory, Population, cit.
The government of the mob? 249

bile, hanno come scopo quello di incrementare la salute della popolazione


stessa. È questo doppio livello – governo delle molteplicità e presa sulle
singole condotte, omnes et singulatim – precisamente anche quello su cui
merita insistere nelle analisi stesse sulla popolazione, sulla classiicazione
statistica: di fatti, l’insistenza da parte di Foucault sul doppio livello per-
mette di anticipare una considerazione che caratterizza le analisi correnti
sugli insiemi-popolazioni, o se non altro sulle popolazioni non nazionali,
rispetto all’importanza degli elementi qualitativi accanto a quelli quantita-
tivi. Ovvero, non solo quali curve statistiche di normalità sono in gioco
ma anche che tipo di soggettività speciiche, di proili e condotte di mo-
bilità sono presupposte e prodotte come elementi costitutivi di gruppi-
popolazione.
Ora, a ianco di questa determinazione “positiva” della popolazione,
che si presenta al tempo stesso anche come oggetto e soggetto costituente
dello spazio dello stato nazione, in realtà Foucault fa apparire a margi-
ne un’immagine e una deinizione di popolazione molto più luttuante
e instabile, che lascia di fatto indecidibile. Una presenza, forse più che
una nozione ben distinta, che emerge ai conini stessi della governabilità.
Una contro-popolazione, verrebbe da dire, o una sotto-popolazione che
racchiude ciò che non è inscrivibile né governabile da quelle leggi di nor-
malità. È la popolazione impossibile, la popolazione come “problema”,
ossia l’insieme di soggetti e condotte che sfugge alle regolarità attraverso
cui un oggetto popolazione può propriamente essere deinito. Ancora la
lezione dell’11 gennaio: è qui che Foucault ne parla riferendosi al governo
della città: «il problema della città del XVIII secolo è quello di fronteg-
giare l’insicurezza proveniente dall’inlusso di una popolazione luttuante
di mendicanti, vagabondi, delinquenti»7. Qualche pagina dopo Foucault
deinirà quella contro-popolazione in termini di «popolo» come insieme di
soggetti che resistono e riiutano di essere una popolazione8. Soggettività
indocili che si sottraggono alla soglia di governabilità.
E tuttavia, mi sembra che non sia appropriato parlare di una “contro-
popolazione” che si determina per difetto, come insieme di elementi e
condotte che sfuggono alla presa governamentale. Difatti, oltre a indicare
questo aspetto certamente rilevante, di attrito, sottrazione e riiuto, quella

7
Ivi, p. 34.
8
Ivi, pp. 64-65.
250 Martina Tazzioli

soglia di ingovernabilità designa in realtà una funzione interna alla popo-


lazione “positiva”, vale a dire ciò che della popolazione non può essere
parte, per far funzionare i suoi stessi margini – che delimitano non sol-
tanto il “dentro” ma i suoi meccanismi di oggettivazione per partizione.
In fondo, la capacità di tracciare una divisione tra buona e cattiva circo-
lazione costituisce il principio di funzionamento stesso dei dispositivi di
sicurezza. Un limite/soglia di ingovernabilità, non issato una volta per
tutte ma al contrario oggetto di costante rideinizione, un limite o per
meglio dire un’eterogeneità di soggetti prodotti come “resto” e rispetto a
cui possono instaurarsi speciiche pratiche di governo, di contenimento
o di controllo. Quindi un’ingovernabilità che lungi dal comportare un’as-
senza di controllo nei confronti di quei soggetti “eccedenti” indica una
loro cattura sotto una forma diversa, o se non altro inassimilabile, rispetto
al governo della popolazione. E questo non solo in virtù di un’assenza di
omogeneità interna ma anche, anticipo qui, di una produzione differente
della norma.
Il punto rispetto a cui vorrei provare a interrogare la griglia foucaul-
tiana del governo riguarda ciò che deinirei il carattere di indecidibilità della
norma che è al lavoro in quel contesto e, insieme, i meccanismi di indi-
viduazione e di presa sui soggetti che sono in gioco nel governo delle
migrazioni. Vorrei però tornare prima ai testi di Foucault e provare a ri-
formulare quanto detto concentrandomi sulla produzione e sul governo
del “resto”, sui suoi margini di non governabilità e sul suo eccesso rispetto
alle condizioni stesse della sua produzione. Per farlo riparto però da un
Corso antecedente a Sicurezza, territorio, popolazione, in cui dunque l’ogget-
to popolazione non è presente in quanto tale, ma in cui, a mio avviso, si
possono rintracciare alcuni elementi utili per comprendere questa produ-
zione di resto di cui parlavo prima; al contempo, questo Corso ci permette
di qualiicare meglio questa non-popolazione che è oggetto di governo e
che al tempo stesso vi resiste, facendo di quel resto un eccesso: La société
punitive, le lezioni al Collège de France del 1972-1973. La produzione e il
governo del “resto”, di un resto però interno e costitutivo del funziona-
mento delle società moderne, è in effetti il modo in cui può essere letta
l’apertura del Corso, dove Foucault si propone di provare a «classiicare le
società sulla base […] del modo in cui governano coloro che cercano di
sfuggire al potere, come reagiscono di fronte a coloro che trasgrediscono,
violano o contraddicono le leggi». E tuttavia, al contempo mostrare come
The government of the mob? 251

questo governo del resto in eccesso non sia però fondato principalmente
sull’esclusione.
Questa rilessione sul governo di soggettività e collettività resistenti o
irriducibili all’insieme popolazione coniugata con una messa in discussio-
ne del paradigma dell’esclusione mi sembra sia una lente analitica che ben
ci aiuta ad analizzare la funzione stessa della produzione e del governo dei
“resti”, e dunque anche del governo delle migrazioni. Ora, nell’assumere i
meccanismi di penalità come “analizzatori dei meccanismi di potere” Fou-
cault va a guardare i soggetti su cui questi agivano nella Francia del XVIII
secolo e soprattutto il tipo di soggettività che, producendo, presuppone-
vano: ciò che emerge è una “contro-società” fatta di voleurs, vagabondi,
delinquenti e più in generale modalità di esistenza colpevoli di esercitare
un “illegalismo per dissipazione”; vale a dire, un riiuto del lavoro, della
produttività e dunque dei meccanismi disciplinari di presa sul tempo degli
individui, che mirano a “issare” i corpi agli apparati di produzione.
Un dressage disciplinare, attraverso cui si cerca di garantire da un lato la
produttività all’interno dei meccanismi di produzione capitalista; e dall’al-
tro una “presa” sul tempo della vita e una regolarità, e dunque governabi-
lità, rispetto ai modi di vita di coloro che si sottraggono – fuggendo, mi-
grando o riiutando ogni operosità. Ne La société punitive, Foucault deinisce
quell’eccesso da governare descrivendo come l’irriducibile alla popolazione
resista ai meccanismi di issazione dei corpi e agli apparati di produzione.
Per meccanismi di issazione, Foucault intende l’insieme di tecniche di
dressage, regolamenti, coercizioni corporali, istituzioni di incarceramento
o pedagogiche che funzionano come dispositivi di cattura di una poten-
ziale forza-lavoro recalcitrante; una vita che non accetta “di sintetizzarsi
in forza lavoro”.
Credo sia importante far apparire il modo in cui l’oggetto governabile
“popolazione” non racchiude né include tutti i soggetti che sono comun-
que oggetto di tecniche di governo, di classiicazione e di partage. Un eccesso
per sottrazione: nel Corso del 1978 una molteplicità – le peuple – irrecupe-
rabile all’interno dell’insieme omogeneo popolazione; ne La société punitive
una “contro-società”, una “contro-collettività”9 che corrisponde ai vari
comportamenti “irregolari”, di diserzione nei confronti del dressage pro-
duttivo. In tale prospettiva, le pratiche di mobilità non autorizzata fanno
parte proprio di quelle forme di riiuto della presa sulle vite esercitata dai
meccanismi di produzione – nel duplice senso di produzione dei soggetti
9
M. Foucault, La société punitive, cit., p. 219.
252 Martina Tazzioli

stessi, in quanto forza-lavoro, e produzione economica. E, più in generale,


riiuto di ogni istituzione di normalizzazione, che mira a ricondurre gli
individui all’interno di una soglia accettabile di devianza o di illegalismo.
Una delle ragioni dell’interrogarsi sulla produzione della norma e,
insieme, sul tipo di governo delle molteplicità in gioco nel governo del-
le migrazioni dipende dalla necessità di decifrare il tipo di “presa” sulle
vite che caratterizza il governo delle migrazioni e dal fatto che con la
deinizione di campo di governamentalità speciico – migration management
– vengono delineate popolazioni sui generis, o meglio gruppi temporanea-
mente governabili.
Quello che voglio provare a suggerire è che vi sono due livelli, oggetti
“popolazione” che in parte si sovrappongono. Uno è quello della popola-
zione dei cittadini rispetto a cui i migranti risultano in eccesso, o (in parte)
esclusi. In fondo la contro-collettività di cui parla Foucault come insieme
dei comportamenti resistenti al sistema produttivo capitalista, nonostan-
te sia deinibile come l’irriducibile alla popolazione è comunque deinita
negativamente rispetto all’insieme positivo della popolazione: per quanto
vengano messe in atto istituzioni di normalizzazione, apparati di sequestro
speciici, per quelle vite che riiutano di essere “messe al lavoro”, si tratta
comunque di un “resto” interno allo stesso spazio di governamentalità
da cui tentano di sottrarsi. Tuttavia, vi è anche un altro livello di “popola-
zione”, o meglio collettività, molteplicità come oggetto delle tecniche di
governo, che emerge precisamente dalla deinizione stessa di un campo/
spazio di governamentalità speciico, che si attiva per contenere, regolare e
selezionare i movimenti e lo stare di coloro che vengono deiniti e prodotti
come migranti.
Quando si parla di un regime delle migrazioni ci si riferisce a un in-
sieme di pratiche discorsive, tecniche di governo, leggi e politiche che si
esercitano sui corpi e sui singoli soggetti, certo, che in alcuni momenti si
trovano a confrontarsi a tu per tu con varie forme di conine: l’identiica-
zione tramite la presa delle impronte digitali, la prova di conine dei visti,
l’espulsione dal paese in quanto “clandestini”, o inine il diniego ricevuto
a fronte della domanda di asilo. E tuttavia queste forme di illegalizzazione,
che sono al tempo stesso pratiche di individuazione – ovvero di produzio-
ne di soggettività “irregolari” – vanno inserite all’interno di una “presa”
sulle vite e di meccanismi di partizione che avvengono prima di tutto a
livello delle molteplicità. Un governo dei e attraverso i numeri, come i bol-
The government of the mob? 253

lettini dei migranti arrivati nei porti siciliani quest’anno (oltre che i numeri
dei morti); ma un governo che conta per selezionare, escludere, tracciare
partages e dividere gruppi esistenti per formarne altri.
Chiaramente bisogna distinguere, la “selezione” durante gli arrivi sulle
coste italiane, ciò che viene deinito il management delle rotte migratorie
– e dunque il passaggio di un numero rilevante di persone lungo un certo
percorso – o quella che è la gestione di un campo di rifugiati e dunque di
un insieme per niente omogeneo di persone in un luogo circoscritto e go-
vernato da regole precise. Un governo che, per quanto sia estremamente
produttivo – attraverso un’incessante creazione di nuovi proili giuridici,
di spazi ad alto monitoraggio, di controlli a distanza e criteri di partizio-
ne – deve essere tuttavia in parte distinto dall’accezione di governo di cui
Foucault traccia la genealogia in Sicurezza, territorio, popolazione associandola
nel contesto moderno e contemporaneo a un oggetto su cui il governo ha
presa – la popolazione – e alla sua messa a valore, alla sua massimizzazio-
ne. Difatti, nel governo di coloro che vengono classiicati e gestiti come
migranti, per quanto il migration management venga promosso in nome di
una “migrazione ben regolata”, non vi è uno stato ottimale o ideale, una
stabilità o un potenziamento desiderabile. Al contrario, vi è sempre un
eccesso presentato come il limite del governabile.
Ora vorrei soffermarmi ancora un momento su questa produzione
di collettività divisibili che caratterizza il regime delle migrazioni. Innan-
zitutto, le politiche migratorie non possono essere analizzate indipenden-
temente da un governo dei numeri: si può dire, in effetti, il governo delle
migrazioni è prima di tutto un governo dei e attraverso i numeri. Ma appunto,
come ricordavo sopra, numeri solo inizialmente e apparentemente equi-
valenti che sono assemblati per essere divisi, differenziati. Gruppi tempora-
neamente governabili, in cui ciascuno dei soggetti che li compongono andrà
poi a far parte di nuove molteplicità divisibili, o di proili migratori in
costruzione.
“The mob” è il termine usato da alcuni autori per designare l’eccesso
ingovernabile che le politiche di cittadinanza e di mobilità intendono re-
golare. The mob rappresenta l’antinomia del popolo, l’eccesso e il tumulto
che è percepito come minaccia per le forze democratiche. Tuttavia, nel
caso delle migrazioni non è suficiente arrestarsi al livello di quello che può
essere una molteplicità ingovernabile, anche per il proprio essere numeri-
camente eccedente – e dunque appunto the mob: infatti a essere in gioco è
254 Martina Tazzioli

la produzione di temporanee molteplicità divisibili, formate e governate


in base a criteri geopolitici, politici o amministrativi che di fatto vanno
a deinire quella stessa molteplicità. Uso il termine “non-popolazioni”
proprio per sottolineare non tanto l’assenza di caratteristiche, elementi
oggettivanti che deiniscono il tratto comune di quei soggetti10 – anche
se spesso l’evidenza di un criterio di “naturalizzazione” va a complicarsi
con altri e risulta inafferrabile; invece, serve per indicare un procedimento
inverso a quello di un insieme-popolazione deinito come tale sulla base
di un’omogeneità riproducibile e da riprodurre. E perciò, se certamente
vi è una norma intesa come principio (mobile) di governabilità, non vi è
una vera e propria norma a suo sostegno in senso statistico, né una cur-
va di normalità da rispettare. Questo non solo per l’estrema variabilità,
mobilità della norma, che in tale contesto funziona come criterio di go-
vernabilità, ma anche per la produzione di un resto che non corrisponde
all’anormale.
Un resto che è costitutivo del meccanismo di governo per divisione
che caratterizza il coninamento delle pratiche di movimento dei e delle
migranti. Un resto che produce e contribuisce a creare nuovi proili migra-
tori, proili di scarto; e un resto su cui si regge il meccanismo stesso dell’u-
manitario. Ma un resto che va anche a deinire una molteplicità dispersa
dei pochi, una politica dei numeri invertita potremmo chiamarla rispetto
all’irruzione non prevista dei senza parte sulla scena del politico11: il re-
sto di chi resta, quell’esiguo eccesso che a differenza del mob è l’inassimilabile
per difetto e che sfugge a ogni cattura rappresentativa, incalcolabile come
“parte”; quel “pochi” che viene argomentato sulla base di una classiica-
zione, partage spaziale, riuscito rispetto ai molti e che l’esiguo resto non va
a iniciare.
Un resto che resta, dunque e che tuttavia talvolta fa saltare proprio
quei margini su cui si reggono la serie di partages e di produzioni di pro-
ili escludenti; di fatti, il governo delle migrazioni e dei migranti prevede che, per
funzionare, non tutti siano governabili, assimilabili o deinibili da quelle categorie. E
10
A seconda dei momenti e dei contesti politici si rideiniscono queste norme
temporanee di governabilità. La nazionalità costituisce indubbiamente dei principali
elementi caratterizzanti che deiniscono una temporanea molteplicità divisibile: nel 2011
i tunisini, come migranti della rivoluzione, e poi a loro volta distinti dai “libici” in fuga
considerati meritevoli di una protezione umanitaria. Cfr. F. Sossi (a cura di), Spazi in
migrazione. Cartoline di una rivoluzione, ombre corte, Verona 2012.
11
J. Rancière, Il disaccordo, Meltemi, Roma 2007.
The government of the mob? 255

tuttavia, come Hacking osserva, “l’effetto inatteso” del contare classii-


cando, non può essere mai del tutto eliminato dall’operazione stessa della
“conta”. Un inatteso che nel contesto delle migrazioni spesso consiste
appunto nella produzione di un resto che resta. Un inatteso funzionale a
moltiplicare ulteriormente il numero dei proili e delle categorie stesse, e
dunque degli strumenti a disposizione per dividere ulteriormente l’esigua
molteplicità. Ma un inatteso che in parte semplicemente resta, in eccesso,
anche se numericamente irrilevante. “La paura dei piccoli numeri” cui mi
riferisco differisce però in parte da quella descritta da Appadurai nel suo
celebre capitolo con questo nome12. Difatti, il resto di cui parlo non indica
la minoranza che fa traballare ogni coesione interna del demos, di ciò che,
come Appadurai spiega, nel pensiero liberale corrisponde al numero zero
come unione degli uno. Piuttosto, il “pochi” in questo caso è il resto che
rende possibile i partages escludenti tracciati dai proili migratori; e al tem-
po stesso è ciò che rende manifesta l’intollerabilità di quelle partizioni e di
cui, agendo come resto, fa implodere i conini.
Il resto che resta può essere preso anche come punto di partenza per
invertire lo sguardo e soffermarci su come quelle temporanee molteplicità
divisibili producono un esiguo eccesso, che può dare luogo a un’interru-
zione di quella presa governamentale. Nel dire questo ho in mente una lot-
ta in uno spazio di migrazione e di coninamento che si è andato conigu-
rando sempre più come spazio di resti, per lo meno a partire dal momento
in cui è stato politicamente invisibilizzato. Si tratta dello spazio del campo
rifugiati di Choucha, in Tunisia al conine con la Libia, ormai un non-cam-
po per le autorità tunisine e gli attori dell’umanitario che lo gestivano. O
meglio, un non-spazio, uno spazio inesistente da quando è stata decretata
la sua chiusura come campo di rifugiati, come luogo dell’umanitario. Ma
da quel deserto di tende alcuni hanno riiutato di andarsene: coloro che
erano stati diniegati dall’Alto Commissariato per i rifugiati e dunque ille-
galizzati come migranti economici senza permesso sul territorio tunisino.
Alcuni, quelli che non hanno tentato la traversata del Mediterraneo, sono
rimasti per uno spazio in cui stare. Sono “pochi” ormai rispetto ai numeri
dei grandi campi cui ci abituano i gestori dell’umanitario; 150 circa, ma c’é
chi dice 90, e poi dipende se di giorno o di notte. In fondo, come sottoli-
nea Didier Fassin, «la statistica è molto più di una tecnologia che produce

12
A. Appadurai, La paura dei piccoli numeri, in Sicuri da morire. La violenza all’epoca della
globalizzazione, Meltemi, Roma 2005.
256 Martina Tazzioli

informazioni sulle popolazioni […] è anche un potenziale indicatore delle


politiche della vita»13, ragion per cui quando «le vite non si contano più,
non contano più»14.
Perché in fondo, i “pochi”, che di fatto l’umanitario smette di contare
e lascia non-contati, sembrano essere ciò che viene lasciato sfuggente, quel
resto che proprio per la sua irrilevanza deve restare indistinto, approssima-
to. «Choucha ha funzionato come campo perché per tutti è stata trovata
una soluzione, quelli che resistono e non accettano di rientrare nel loro
paese o di installarsi in Tunisia sono poche unità»15. Ma è quel “pochi” che
ha cominciato a svuotare la stessa categoria di protezione (internazionale),
ad appropriarsene secondo quella che potremmo deinire una biopolitica dei
governati: rivendicando il fatto di essere nonostante tutto governati, limitati,
deiniti dalla stessa presa “umanitaria” sulle vite che li ha deiniti “not of
concern”, e dunque dei non-soggetti dell’umanitario. Ai criteri storicamente
escludenti dell’asilo, i migranti del campo di Choucha hanno in dall’ini-
zio contrapposto la loro provenienza comune dalla Libia, la loro fuga dal
conlitto. E quando a rimanere a Choucha sono stati “pochi”, i conini
dell’umanitario sono stati fatti esplodere ancora una volta assumendo le
stesse categorie di governati dell’umanitario, dissociando la loro deinizio-
ne dal piano del diritto già scritto: “siamo qui a vivere in questo deserto da
tre anni e mezzo; al conine con una guerra in corso: chi altri dovrebbero
essere i soggetti dell’umanitario?”.
La produzione di gruppi “non-popolazioni” da parte delle politiche
migratorie, il governo dei migranti attraverso la costituzione di queste
temporanee molteplicità divisibili, non avviene tuttavia soltanto attraver-
so una delimitazione spaziale, un coninamento dei corpi che stabilisce
anche le regole interne, le norme di partizione e classiicazione. Difatti
la presa governamentale spesso, nel campo delle migrazioni, si esercita a
un livello che non corrisponde a quello dell’individuo inteso come corpo
o come singola condotta, ma nemmeno a quello di un insieme-gruppo
realmente esistente, per quanto provvisorio sia. Mi riferisco alla creazione
di quello che può essere deinito una singolarità generalizzabile, esito di
un meccanismo di “messa a proilo” delle esistenze, e delle loro attività.

13
D. Fassin, Ripoliticizzare il mondo. Studi antropologici sulla vita, il corpo e la morale, ombre
corte, Verona 2014, p. 37.
14
Ivi, p. 140.
15
Intervista con UNHCR Tunisia, Zarzis, agosto 2014.
The government of the mob? 257

Una proilizzazione che ha come sua origine non le singolarità in quanto


tali: piuttosto, si “tratteggiano” elementi, caratteristiche e azioni simili tra
questi individui, che permettono di qualiicare una molteplicità indecidibi-
le tramite un meccanismo di individuazione che non individualizza ma al
contrario, generalizza in “proili”.
Da un punto di vista foucaultiano però è importante osservare che
queste singolarità generalizzabili, che consentono di attivare criteri e norme
di governabilità e di partizione, non dipendono esclusivamente da un’ana-
lisi e selezione di caratteristiche relative all’identità della persona, e dun-
que a tratti facilmente naturalizzabili. In altre parole, a differenza dei tratti
biologici attraverso cui si costruisce l’oggetto popolazione, nel governo
delle migrazioni e dei migranti pur non essendo assenti questi vanno a
combinarsi – e spesso in subordine – con comunanze relative all’attività
dei soggetti, ai comportamenti e alle strategie di migrazione. Un esempio
in proposito sono i modelli di schedatura di Mos Maiorum, l’operazione
europea di caccia ai migranti coordinata dall’Italia che ha avuto luogo dal
13 al 26 ottobre. In quell’occasione, gli agenti di polizia sono stati chiamati
a riportare criteri relativi al ’chi è’ (nazionalità, genere, età, statuto di rifu-
giato o meno) combinati a caselle sul “cosa e come fa” (mezzi di trasporto
usati, rotte seguite, destinazione inale, somma sborsata per il viaggio e
punto di ingresso nell’UE). Ciò che si genera a operazione conclusa, è un
insieme di potenziali singolarità riproducibili per individuare nuovi spazi
di intervento e tecniche di coninamento – «spazi di governamentalità»16.
Ad ogni modo a essere in gioco non è un meccanismo individualizzante,
ma al contrario un’estrazione di informazioni, caratteristiche e dati, relativi
soprattutto alle strategie di migrazione, attraverso cui poi nuove soggetti-
vità generalizzabili vengono prodotte per governare i corpi e i movimenti
dei migranti.
In questa proiezione di proili governabili ed estendibili, vediamo che
il problema di una popolazione governabile viene meno, o comunque pas-
sa in secondo piano. Dal livello del collettivo come gruppo da regolare nei
suoi fenomeni, il meccanismo di produzione e cattura si sposta a quello di
una molteplicità di soggetti tra loro spazialmente distanti, il cui principio
di governabilità è dato dalla traduzione delle loro pratiche di migrazione
in proili. Ma anche in questo caso il “resto” è parte di queste soggettività

16
M. Tazzioli, Spaces of Governmentality. Autonomous Migration and the Arab Uprisings,
Rowman & Littleield, London 2014.
258 Martina Tazzioli

generalizzabili: in fondo la creazione delle “mappe di rischio”, ovvero di


proiezione di futuri scenari di migrazione da governare, è sempre una
cartograia reattiva, che tenta di contenere, classiicandole (con un pote-
re estrattivo, che rende proili generalizzabili le attività e le strategie dei
migranti) le pratiche di movimento sfuggenti o eccedenti rispetto agli
stessi meccanismi di illegalizzazione. E quando viene dichiarata una crisi
migratoria (“migration crisis”), come spesso fanno le agenzie delle migra-
zioni o dell’umanitario, l’impasse giuridico – chi classiicare e come – e
politico – come contenere la mobilità – segnalano di fatto un resto che
si produce oltre lo scarto necessario dei meccanismi escludenti; un resto
dovuto alla materialità stessa di movimenti e di lotte per lo spazio che
fanno esplodere quei proili.
Queste due modalità di agire al livello della molteplicità, di “tratta-
re” e governare coloro che vengono deiniti migranti, la produzione di
temporanee molteplicità divisibili e la generazione di soggettività/proili
generalizzabili, non si escludono a vicenda. Al contrario, queste differenti
forme di individuazione e partage indicano una tecnologia di presa sulle
vite dei e delle migranti che agisce tramite molteplicità diversamente co-
struite. È dove il resto funziona come suo elemento costitutivo e al tempo
stesso, come suo eccesso che le politiche migratorie si trovano ogni volta
a rincorrere.

Martina Tazzioli
Université Aix-Marseille
martinatazzioli@yahoo.it

.
The Government of the Mob? The Production of Remnant and Its Excess

Focusing mainly on the Lectures at Collège de France The Punitive Society and
Security, Territory, Population, this article considers the issue of subjects and
multiplicities that remain outside population and that cannot be assimilated, and
they are produced as remnants in excess. While in Security, Territory, Population
the issue of who remains outside the population is relatively unexplored, in this
article I show that by reading that Lecture series in the light of the analysis
of popular illegalisms done by Foucault ive years before in The Punitive Society
The government of the mob? 259

enables bringing to the fore that unruly subjectivities and remnants in excess are
actually the constitutive outside of populations. In the inal section, the article
explores how they very notion of population is not appropriate for designating
the production and the government of migrant groups in border-zones and
suggest to look at them as temporary divisible multiplicities.

Keywords: Migrant Multiplicities, Unruly Subjectivities, Illegalisms, Population,


Biopolitics, Governmentality, Border-Zones.
Saggi
Il pensiero della scrittura: différance e/o evento
Maurice Blanchot tra Derrida e Foucault
Françoise Collin*

C’est l’heure vois-tu de supporter ensemble,


pièces et morceaux, comme si c’était le tout1.
(R.M. Rilke, Sonnets à Orphée)

En écrivant cette page on se donne à soi-même,


on donne à son existence une espèce d’absolution.
(M. Foucault, Le beau danger)

Sono passati quarant’anni da quando nel 1971 scrissi Maurice Blanchot et la


question de l’écriture2, lo studio critico che avevo dedicato all’opera di Mauri-
ce Blanchot, trasgredendo senza saperlo il silenzio quasi sacro che ino ad
allora lo circondava.
Ogni analisi è necessariamente sempliicatrice: taglia il corpo vivo
dell’opera. E pretendendo di chiarirla ne nasconde la lingua originale. Essa
traduce e tradisce. Tradisce necessariamente per tradurre. Cercando una
prospettiva che potesse chiarire l’insieme dell’opera di Blanchot nella di-
versità dei suoi registri, ero ricorsa al concetto di scrittura.
Tale nozione mi sembrava poter render conto, nello stesso tempo, dei
testi critici, ilosoici e dei testi narrativi di Blanchot come delle differenti mo-
dalità di un percorso per certi aspetti continuo nella sua stessa discontinuità.
La scrittura dice, all’interno di ciascuno di questi registri e attraverso
di essi, il perpetuo rinvio di senso che la ine del libro interrompe ma non
compie: la “inalità senza ine” del testo, l’ininito che eccede la totalità.

* Versione francese originale: F. Collin, La pensée de l’écriture: différance et/ou événement.


Maurice Blanchot entre Derrida et Foucault, in «Revue de métaphysique et de morale», n. 86
(2015), pp. 167-178. Per la gentile autorizzazione a pubblicare la traduzione italiana di
questo articolo si ringraziano gli eredi di Françoise Collin, Laurence e Pierre Taminiaux;
Mara Montanaro, responsabile scientiica dell’Archivio Collin, nonché curatrice della
presente traduzione; Éric Hoppenot, che ha diretto il numero della Revue de métaphysique et
de morale in cui è apparso postumo questo articolo.
1
R.M. Rilke, I sonetti a Orfeo, Garzanti, Milano 2000, I, XVI: «Vedi, si tratta
d’ammucchiare, io e te, frammenti e pezzi quasi fosse il tutto».
2
F. Collin, Maurice Blanchot et la question de l’écriture, Gallimard, Paris 1971.

materiali foucaultiani, a. IV, n. 7-8, gennaio-dicembre 2015, pp. 261-273.


262 Françoise Collin

Essa prova il carattere sempre riutilizzato e ricominciato di un’opera che,


irriducibile alle forme tradizionalmente impermeabili, ne interroga i limiti.
L’arbitrarietà stessa del Libro, il suo Uno, è messa in questione, il si-
stema ecceduto dalla sua frammentazione. E la temporalità dialettica è
sovvertita dalla ripetizione e dalla dislocazione.
In effetti, il libro forma un tutto, ma un falso tutto. La scrittura – come
“frammento”, come “intrattenimento”, ma anche come narrazione – de-
costruisce la sua apparente unità – la sua totalità – nello stesso tempo in
cui la stabilisce. Tale è il paradosso con il quale si confronta lo scrittore,
e l’intera opera di Blanchot ne è la prova. Poiché «l’informe è un riiuto
delle forme classiche in direzione univoca, ma non un abbandono della
forma come condizione fondamentale della comunicazione», scrive Um-
berto Eco che cita Mallarmé: «un libro non comincia e non inisce: tutt’al
più inge». O, come sottolinea giustamente Marlène Zarader: «Il Neutro
non è l’erosione della differenza e dei differenti ma la vigilanza – la veglia
– l’insonnia che vi presiede». (È forse anche ciò che formula Emmanuel
Levinas, in tutt’altro registro, articolando Totalità e ininito).
Tuttavia, questo tema nasconde e dissimula ciò che nell’opera di Blan-
chot – che sia nei racconti o nel dispiegamento della sua rilessione iloso-
ica – ha a che fare con lo iato: il grido o il silenzio che interrompe la frase,
il fraseggio. Nasconde anche ciò che separa la teoria dalla inzione così
come dal commentario critico – e l’irriducibilità dell’uno all’altro. Si tratta,
nello stesso tempo, di un parametro chiariicante e di un’illusione didatti-
ca. Poiché, come scrive Blanchot stesso, «la parola poetica non si oppone
solamente al linguaggio ordinario ma anche al linguaggio del pensiero».
Cercando dei riferimenti ilosoici che potessero, se non giustiicare,
almeno chiarire l’ipotesi di una continuità discontinua tra le diverse forme
di espressione che caratterizzano l’opera polimorfa di Maurice Blanchot –
racconti, critica, rilessione ilosoica – e le loro modalità di sviluppo, ero
ricorsa al concetto trasversale di “scrittura”. Ed era nel pensiero allora in
ieri di Jacques Derrida, che aveva appena introdotto il tema della différance
come perpetuo rinvio del senso – ma senza ancora riferirsi a Blanchot –,
che avevo pensato di trovare un chiarimento dell’opera blanchotiana.
Eppure, nel 1966, quando tale lavoro era ancora in gestazione, mi
avevano chiesto di partecipare ad un numero della rivista Critique, uno dei
primi numeri, o il primo, dedicati a Maurice Blanchot.
Questo numero (in cui Derrida è ancora assente) include, oltre ad un
articolo di Emmanuel Levinas – e ad un altro di Paul De Man, collaborato-
Il pensiero della scrittura 263

re abituale della rivista –, un testo importante di Michel Foucault, Il pensiero


del fuori, ripubblicato in volume nel 1986 per Fata Morgana ma che, all’e-
poca, non aveva stranamente inluenzato o interrogato il corso della mia
lettura su Blanchot. Tuttavia, accanto al mio articolo, che avevo intitolato
L’uno e l’altro, Foucault aveva intitolato più giustamente una delle sezioni
del suo: “Né l’uno né l’altro”.
Blanchot è stato da subito un riferimento importante per Foucault. E
lo stesso Blanchot ha manifestato il suo interesse per l’opera di Foucault
nella misura in cui essa si apre all’eccedente della norma – della normalità.
Già nel 1961, sottolineando l’importanza della Storia della follia (che
aveva, come si sa, subìto le critiche di Derrida), Blanchot scriveva: «In
questo libro ricco, incalzante attraverso le sue necessarie ripetizioni, quasi
irragionevole, e poiché questo libro è una tesi di dottorato, assistiamo con
piacere a questo scontro tra l’Università e la sragione»3.
E nel 1986, nel libro che dedica a Foucault, dopo la morte di quest’ul-
timo, fa l’elogio dell’«esigenza della discontinuità» che caratterizza la sua
opera, precisando altrove che «la parola poetica non si oppone solamente
al linguaggio ordinario ma anche al linguaggio del pensiero» (Blanchot, Lo
spazio letterario).
Cieca alla questione introdotta da Foucault, mi sono riferita dunque
all’opera nascente di Derrida – che stava articolando la différance con una a
e che non aveva ancora rivendicato il suo rapporto privilegiato con Blan-
chot –, prediligendo nell’opera il perpetuo differire piuttosto che lo iato
dell’evento: due dimensioni eterogenee ma congiunte nell’articolazione del
testo di Blanchot e particolarmente incisive nei suoi racconti: la différance
come concatenamento e l’evento come interruzione.
Il concetto di scrittura – per certi versi illuminante – dissimula o
nasconde d’altronde ciò che distingue la letteratura dalla ilosoia, foss’an-
che quest’ultima declinata in frammenti e attraversata da riferimenti au-
tobiograici.
Ne è prova l’opera proliica di Derrida, interamente animata dalle pa-
role, ma strettamente legata all’oralità – al corpo presente – e che non
accede mai – forse è qui la fonte della sua malinconia – a questa “inalità
senza ine” che caratterizza la letteratura e che incarna, per certi versi al-
meno, l’opera di Blanchot: «Achille non raggiungerà mai la tartaruga». Da

3
M. Blanchot, Notre épopée, in «La nouvelle revue française», n° 100 (aprile 1961)
[nota non presente nella versione pubblicata, ma presente nella versione dell’archivio
privato di Françoise Collin – NdT].
264 Françoise Collin

questo punto di vista, la nozione di scrittura, nascondendo la discontinuità


tra pensare e raccontare – della ilosoia e della letteratura –, è una sorta di
inganno. C’è sicuramente uno stile del pensiero ilosoico, un modo speci-
ico del suo sviluppo che non è indifferente, ma questo stile resta bloccato
nel suo messaggio articolato alla comunicazione. Il passo che separa lette-
ratura e ilosoia non è compiuto. Il pensiero si scrive ma non scrive.
D’altra parte, il concetto di scrittura come différance o perpetuo diffe-
rire fallisce nel rendere conto degli iati, degli spazi bianchi che fratturano
il testo blanchotiano – che si tratti dei frammenti teorici o narrativi – e
che attestano una discontinuità che è la sua forma di coerenza. Poiché i
racconti di Blanchot sono irriducibili alla forma del romanzo, così come
i suoi testi teorici sono irriducibili al sistema ilosoico: rompono in ogni
caso con la deinizione tradizionale del romanzo come del trattato, non
solamente con la messa in questione della temporalità lineare alla qua-
le sostituiscono la ripetizione, la giustapposizione, la circolarità ripetitiva,
ma anche attraverso l’incoerenza dei “personaggi” non identiicabili, che
non esistono che nell’efimero della loro deambulazione attraverso spazi
non assemblati – il colore, la camera, i bordi del mare – e attraverso tagli
successivi – un grido, un gesto – in istantanee folgoranti, in modo che ap-
paiono come igure piuttosto che come persone. Disfacendo l’Uno – del
racconto o del pensiero – nella sua stessa elaborazione.
L’opera di Jacques Derrida, nella prodigalità ininita della parola e del-
la scrittura, attesta un’immensa malinconia – un lutto impossibile –: poiché
Achille non raggiungerà mai la tartaruga, e il ilosofo non sarà mai uno
scrittore, pur scrivendo e parlando, ininitamente. L’abbandono del “siste-
ma” ilosoico – la sua “decostruzione” – non è suficiente. La différance
nel suo ininito dispiegamento è ancora una forma indiretta (détournée) di
totalizzazione – di occupazione del terreno – alla quale niente sfugge, ed è
in tal senso una riformulazione indiretta (détournée) dell’ambizione dialetti-
ca: non lascia alcuno “spazio bianco”.
Come ha sottolineato Blanchot, la letteratura è senza ingiunzione: non
risponde a – anche se risponde di – e nemmeno si oppone. Dà luogo senza
garanzia ad una comunicazione che è dell’ordine della proposizione insen-
sata, sempre frammentaria, e che non è dell’ordine della dimostrazione.
Così si chiama inzione. Essa fa spazio all’interruzione – allo iato. E i greci
non avevano torto nel separare l’agora, dove oficia il ilosofo, dall’anitea-
tro dove le passioni e la ragione non sono distinte e di cui la letteratura è
l’erede.
Il pensiero della scrittura 265

La scrittura letteraria: il nouveau roman

La contraddizione interna tra la scrittura e il libro – tra il non-uno e


l’uno – come tra l’ininito rinvio del differire e la violenza dell’interruzione
– si era giocata e si giocava nello stesso momento nel campo propriamente
letterario attraverso l’avventura di ciò che verrà deinito come nouveau ro-
man, da Samuel Beckett a Alain Robert-Grillet, da Robert Pinget a Claude
Simone o a Nathalie Sarraute, tra altri.
Il nouveau roman rompeva infatti con la logica narrativa di tipo discor-
sivo che presuppone un intrigo dispiegato in un tempo lineare in cui il
punto di arrivo è la parola ine, così come con la coerenza del personaggio,
e vi sostituiva la scansione, la ripetizione, la dislocazione. Anche qui era in
gioco la questione dell’Uno che non è.
Poiché all’indomani della seconda guerra mondiale, quando, nell’uni-
versità, trionfava la dialettica hegeliana – («la nottola di Minerva non inizia
il suo volo che sul far del crepuscolo», scandiva Jean Hyppolite, martel-
lando il pugno sulla sua scrivania della Sorbona – e ognuno, pietriicato,
credeva di assistere a questo alzarsi in volo) –, una nuova e tutt’altra con-
cezione della temporalità si imponeva nella scrittura letteraria, temporalità
se non cacofonica, nondimeno spezzata, nella quale la dislocazione che in-
terrompe o la ripetizione si sostituiscono allo sviluppo o lo trasgrediscono,
generando, secondo Umberto Eco, un’“opera aperta”. La fede nella Storia
e nelle storie veniva meno. Ci si rifugiava nella struttura.
Roland Barthes chiarisce a suo modo questa tensione: «scrivere (nel
senso stranamente intransitivo del termine) è un atto che supera l’opera,
scrivere è precisamente accettare di vedere il mondo trasformare in discor-
so dogmatico una parola che si è tuttavia voluta (se si è scrittori) deposita-
ria di un senso offerto».
Il Libro, che si presenta come Uno, è sovvertito tanto quanto costitu-
ito – al tempo stesso costituito e sovvertito – attraverso il dispiegamento
della scrittura. Il libro è dell’ordine dell’Uno che non è: è il campo stesso di
questa tensione poiché «Achille non raggiungerà mai la tartaruga».
Così, rompendo con l’imperativo dell’intrigo lineare, gli scrittori del
nouveau roman attestavano nella loro pratica l’artiicio della narrazione
quando questa è intesa come una progressione – una storia – che mira ad
una conclusione, laddove si impone piuttosto la dislocazione, la ripetizio-
ne, l’interruzione: l’Essere come Tempo nella sua frammentazione e nella
sua discontinuità, quando l’evento eccede la sua riduzione alla dialettica
266 Françoise Collin

così come alla nebulosità del differire – della différance – poiché sia l’uno
che l’altro nascondono o civilizzano i suoi iati.
Ma è anche la consistenza e la coerenza unitaria del personaggio che vi
era interrogata, l’“io” (je) o ancora l’“egli” (il) sostituendosi al “me” (moi) –
e cercando anche a volte rifugio nel “questo, ciò” (ça) (Lacan oblige). Ogni
movimento è in preda all’altro non identiicabile. Lo scrittore conosce l’ar-
bitrarietà della sua necessità.
Si può ipotizzare che l’esperienza violenta della guerra avesse, per
questa generazione, rimesso in causa violentemente la rappresentazione
dell’Uno propria all’Illuminismo. Anche se questo fantasma conosceva
sulla scena politica una seconda vita o una sopravvivenza nell’utopia co-
munista – mentre Mosca e poi Pechino continuavano ad essere alternativa-
mente dei punti di riferimento per una parte dell’opinione pubblica (ino
alla caduta del muro di Berlino).
Se ne trovano d’altronde gli echi e i sussulti nell’opera stessa di Blan-
chot, che cede politicamente ai successivi canti delle sirene marxiste e del
maggio 1968, dopo essere stato succube (come si sa ormai), prima della
seconda guerra mondiale, di quelle dell’estrema destra. Come se ricercasse
nella vita dei punti dove ancorarsi – delle forme di salvezza – di cui la sua
opera tuttavia decostruisce costantemente l’immagine, il miraggio.
La scrittura letteraria articola allora la sua posta in gioco in termini
nuovi. La linearità tradizionale dell’intrigo – che assicura il passaggio pro-
gressivo di un cominciamento verso una ine attraverso la risoluzione del
suo nodo è, negli anni cinquanta e sessanta, rimessa in discussione dal-
le manifestazioni di ciò che è chiamato nouveau roman. Nella casa editrice
Seuil, la rivista Tel Quel diretta da Philippe Sollers – e che frequentarono
alternativamente sia Derrida che Foucault –, ma anche la rivista Écrire e la
collezione diretta da Jean Cayrol, aprono e assicurano la scena di questa
mutazione mentre, nella casa editrice Minuit, Jerome Lindon ne sostiene
un’altra linea pubblicando Samuel Beckett, Robert Pinget, Alain Robbe-
Grillet e Nathalie Sarraute, tra altri. È anzitutto nella letteratura che la “de-
costruzione” manifesta la disfatta dell’Uno come Totalità e l’irriducibilità
del tempo alla storia.
Il racconto attesta allora dell’irricevibilità di una linea narrativa di tipo
dialettico che conduce l’intrigo dal cominciamento verso la sua ine come
verso un compimento. Rompendo con ogni modello progressivo, non pri-
vilegia, o non solamente, la circolarità, ma la ripetizione e la dislocazione,
Il pensiero della scrittura 267

nella dissoluzione dei personaggi e degli eventi: quando al “Tempo per-


duto” non segue alcun “Tempo ritrovato”. È ciò che scandiscono a loro
modo i racconti di Blanchot, estranei al movimento tradizionale dell’intri-
go, articolando in una forma sconvolgente la struttura e l’evento. In questo
senso L’Arrêt de mort (La sentenza di morte) è, nella sua condensazione, come
il cuore segreto, anzi insuperabile dell’opera blanchotiana, laddove si dice
nello stesso tempo il morire e l’evento della morte, il narrabile e l’inenarra-
bile, il “c’era una volta” – il per sempre dell’irrimediabile – e “l’incessante”.
Nello svelamento e nel nascondimento dell’immagine, secondo “le due
versioni dell’immaginario”.
È dunque in gioco una nuova concezione della scrittura e della strut-
tura romanzesca, della sua temporalità, che sconvolge la linearità del rac-
conto tradizionale a vantaggio del suo dispiegamento cacofonico, circolare
o ripetitivo: la nozione di testo, di testualità o ancora di “opera aperta”
(Umberto Eco) si sostituisce a quella del Libro inteso come totalizzazio-
ne. Lo iato del negativo eccede la negatività. In un’epoca in cui nella sfera
pubblica e politica la teoria della storia post-hegeliana, persino marxista
sembra rinascere nel segno di Mao che la riveste di esotismo, c’è come
una lotta interna tra dialettica e struttura, persino una “disseminazione”,
al centro delle forme culturali. La scrittura – letteraria – del nouveau roman
rompe l’intrigo, resiste al discorso, interrompe il corso, sconfessa l’artiicio
dell’Uno.
I racconti di Blanchot, irriducibili a qualsivoglia categoria, rompono
con la deinizione tradizionale del romanzo, non solamente mettendo in
questione la temporalità lineare alla quale si sostituisce la ripetizione, la
giustapposizione o la circolarità, ma anche l’incoerenza o la coerenza ine-
dita dei personaggi che non esistono che nella puntuazione delle loro de-
ambulazioni attraverso spazi non assemblati – il colore, la camera, il bordo
del mare – o per tagli, pause successive – un grido, un gesto –, istanti
folgoranti. Disfacendo l’Uno, ma verso quale non Uno?

Differenza e evento

Cercando un chiarimento ilosoico dell’estraneità con la quale mi


confrontavo nell’opera di Blanchot, nel suo pensiero e più particolarmen-
te nei suoi racconti così poco conformi alla convenzione romanzesca, ne
268 Françoise Collin

avevo all’epoca trovato degli elementi nell’opera di Jacques Derrida, allora


ancora agli inizi e che non aveva ancora rivendicato una prossimità a Blan-
chot, come farà in seguito in maniera insistente. In effetti, la nozione di
différance come perpetuo differire mi sembrava opporsi alla nozione di dia-
lettica che struttura l’intrigo romanzesco tradizionale o supposto tale e che
la conduce dal suo cominciamento verso la sua ine in una progressione
ascensionale: il “tempo perduto” che non può essere recuperato da alcun
“tempo ritrovato”. La différance derridiana chiariva qualcosa di ciò che la
“scrittura” diceva nell’opera di Blanchot: il perpetuo rinvio del senso che
la ine del libro interrompe ma non compie.
Ma la différance derridiana nasconde o civilizza il selvaggio (il termine
“selvaggio” è pronunciato a più riprese da Blanchot) vale a dire la violenza
dell’evento che interrompe – il grido irriducibile alla parola –, che risuona
nell’opera, determinando la rottura della narrazione e la frammentazione
del pensiero. In effetti, la différance ricostituisce una forma di continuità
addomesticata nella discontinuità di ciò che è “selvaggio”: tale nozione
può chiarire in parte l’opera di Blanchot, ma ne disconosce l’estraneità dei
suoi iati.
La ilosoia della scrittura come différance o perpetuo differire dissimu-
la ciò che, nella scrittura nel senso blanchotiano del termine, è interruzio-
ne, ciò che ha a che fare con il tragico: l’evento della morte irriducibile alla
struttura del morire, a “l’essere-per-la-morte”.
Derrida non l’ignora ma la coniuga nella prodigalità del suo discorso
e dei suoi discorsi, ino ai conini delle tombe4, velando così lo iato – il
silenzio improvviso.
D’altra parte, la nozione ecumenica di “scrittura” articolata nella sua
opera ilosoica con la categoria di différance – con una a, come perpetuo
differire – dissimula la propria impossibilità di accedere alla libertà dell’im-
maginario che regge la inzione letteraria: Achille, qualsiasi cosa faccia,
non raggiungerà mai la tartaruga. Dissimula altresì il privilegio paradossale
dell’oralità, e ciò che essa chiede di adesione immediata, nell’elaborazione
dell’opera – corsi, conferenze, interventi –: il lusso della parola, in un’os-
sessione della presenza – radicalmente estranea a Blanchot, che era invece
quasi invisibile e che si voleva invisibile –, e che attesta una dimensione
della melanconia nell’impossibilità del lutto.

4
[Françoise Collin si riferisce qui, ironicamente, all’opera derridiana Ogni volta unica,
la ine del mondo (2003), Jaca Book, Milano 2005 – NdT.]
Il pensiero della scrittura 269

Poiché la differenza come ininito differire è ancora una modalità sot-


tile di occupazione del terreno, di rapporto indiretto al tutto, una denega-
zione del limite così come appare, ad esempio, nel nascondimento formale
della “differenza sessuale” che può sembrare un gesto liberatore ma che
costituisce, in effetti, una forma di appropriazione. (Così Derrida può scri-
vere: “Io sono una donna”, senza assumerne tuttavia gli eventi impreve-
dibili – senza rinunciare ai suoi privilegi –, ma stigmatizzando ogni donna
che affermerebbe “io sono un uomo”.)
Il confronto molto veemente, addirittura violento che ha opposto
Derrida a Foucault può chiarire una doppia lettura di Blanchot o almeno
la tensione della sua lettura tra differenza e evento, tra ininito rinvio di
senso e rottura del senso, tra movimento ininterrotto e interruzione, come
tra ciò che è ludico e ciò che è tragico.
«Foucault, un potente gesto di protezione e chiusura. Un gesto carte-
siano per il XX secolo», scrive Derrida. «Derrida non conosce per niente
la categoria dell’evento singolare», scrive Foucault. E ancora, non senza
irritazione – in un dibattito su Descartes –: «il postulato di Derrida è che
la ilosoia è al di là e al di qua di ogni evento. Non solamente niente può
succedere ma tutto può succedere se si trova già anticipato o sviluppato
attraverso essa […] è per lui dunque inutile – e senza dubbio impossibile
– leggere ciò che occupa la parte essenziale se non la totalità del mio libro:
l’analisi di un evento». Poiché la differenza (con una a) assume il negativo
come rinvio del senso (contro la sua interpretazione in termini di costitu-
zione dialettica), ma elude o ricopre le rotture che rompono la frase: i suoi
bianchi che danno luogo all’inatteso. Essa riempie in maniera febbrile la
pagina. Tenta di addomesticare – di civilizzare – il disordine articolandolo
in un ininito differire che assume e nasconde ciò che Blanchot nomina, in
rapporto al morire, l’“arrêt de mort” nella brutalità del suo evento.
La disseminazione designa d’altronde inizialmente, come dice Der-
rida, la dissipazione ludica del seme – dello sperma – del iglio gettato al
vento, opposto allo sperma fecondo ed economo del padre: la differenza
con una a è un movimento di resistenza all’Uno del sistema patrocentrico
ma anche – paradossalmente – una protezione contro l’imprevedibile – il
nuovo.
Civilizza e ricicla nella modalità ludica la ferocia del grido come la
violenza dell’interruzione. Il differire della differenza, rinvio ininito del
senso, riconduce così ad una forma di continuità totalizzante. Nel dispie-
gamento serrato del suo tessuto logorroico non fa spazio allo iato dell’in-
270 Françoise Collin

sensato – della follia – che anima Foucault e che lacera anche la narrazione
blanchotiana attraverso il grido, il gesto senza seguito, o il silenzio.
È ciò che Blanchot identiica in Foucault come “l’esigenza della di-
scontinuità” laddove la différance derridiana o la decostruzione tende inini-
tamente a ricostruire la continuità, a costo tuttavia di non arrivare mai al-
l’“indecostruttibile”: uno iato, un arresto «che potrebbe ben guastare tutta
la macchinazione», ma che tuttavia non la guasterà.
Il dibattito con Foucault sarà protratto da Derrida, anche dopo la
morte di quest’ultimo, segno evidente dell’importanza che gli accorda. In
una conferenza pronunciata nel 1991 all’ospedale Sainte-Anne, pubblicata
negli atti del convegno e poi in Resistenze della psicoanalisi, vi ci torna per giu-
stiicare, più precisamente, la sua posizione. Tuttavia, in questo contesto, la
posta in gioco non è l’articolazione tra differenza ed evento, ma l’articola-
zione tra ragione e follia, nel loro rapporto alla psicoanalisi che considera
essere stata trascurata, addirittura misconosciuta, da Foucault.
Per quest’ultimo infatti, la psicoanalisi ricondurrebbe attraverso for-
me modiicate la distinzione tra normale e patologico, ratiicando indiret-
tamente ancora la teoria cartesiana del “genio maligno”.

Evento e alterità: Levinas dopo Foucault

Dopo la morte di Foucault, sembra tuttavia che l’opera di Jacques


Derrida si trasformi. Nel libro molto bello che Jacob Rogozinski gli dedi-
ca, forse il più lucido e il più sensibile, quest’ultimo sottolinea che «men-
tre il termine (di evento) non appariva quasi mai nei suoi primi scritti, si
imporrà sempre di più, e diverrà possibile deinire la decostruzione come
ciò che lascia avvenire l’avventura o l’evento del tutt’altro», e ciò a partire
dall’incontro di Derrida non con il pensiero di Foucault – incontro man-
cato – anche se qualcosa può essere stata ripresa e assimilata involonta-
riamente poiché si è sempre segnati dall’“avversario”, ma con quello di
Levinas che sembra così, anche per la pubblicazione di Totalità e ininito,
costituire un punto se non di avvicinamento, ma almeno di riferimento
– per ragioni diverse – per i suoi contemporanei. E al quale, per quanto
paradossale possa sembrare, Blanchot è stato preparato dal suo incontro
precedente con Bataille la cui opera proclama, in altri termini, nella moda-
lità erotica, la frattura dell’alterità.
Il pensiero della scrittura 271

Il superamento o l’abbandono del pensiero dialettico – legato a una


concezione progressiva del tempo, che va verso una ine della storia che
sarebbe il suo compimento – è stato un fenomeno proprio di tutta un’e-
poca del pensiero, ma fa spazio a due versioni della temporalità: una che,
sotto il nome di différance – perpetuo differire, rinvio ininito del senso
– supera così bene l’opposizione dialettica da ricondurne indirettamente
la continuità, l’altra che integra gli iati, la rottura, in breve la dimensione
dell’evento, e che signiica, a suo modo, il “volto” in un’alterità irriducibile
al suo superamento come al suo nascondimento. L’“evento” come iato,
ma anche come “altro” – la sua trascendenza – interroga l’aspetto ludico
della différance, vi fa resistenza: qualche cosa accade, che è qualcuno.
Così, al di là delle motivazioni contingenti che riguardano le persone,
è questa la posta in gioco sottintesa alla polemica tra Derrida e Foucault
nel loro comune riiuto della dialettica, e che abita – nella sua irresolutezza
o nella sua ambiguità – il testo di Blanchot, il quale assume contempora-
neamente la scansione del “morire” e “l’evento della morte” – dimensioni
congiunte in modo particolarmente sconvolgente nel racconto insupera-
bile che costituisce L’Arrêt de mort. E che, nei suoi racconti, fa apparire dei
“personaggi” che si manifestano soltanto per frammenti, o più esattamen-
te per esplosioni, irriducibili a qualsiasi deinizione identitaria.
Nei racconti di Blanchot, in effetti, in ogni momento, qualcosa acca-
de – un evento – che non si inscrive nella continuità, che sia quella della
dialettica che per superarlo l’assumerebbe, o quella della differenza che lo
placherebbe sostenendolo.
Un grido interrompe la “ripetizione continua”. Qualcosa succede, o
qualcuno. Così, al di là della negatività dialettica o della logica narrativa
propria del romanzo tradizionale (ci sono romanzi tradizionali?), ma an-
che della différance risolutrice, l’opera di Blanchot dice alternativamente e,
nello stesso tempo, il perpetuo morire e l’evento della morte o la morte
come evento. E se si possono trovare pertinenti le distinzioni freudiane,
si troverà forse principalmente in Derrida il registro della malinconia e in
Foucault quello del lutto, ma è questo doppio registro che attesta l’opera di
Blanchot, e, tra altri, il racconto insuperabile che costituisce L’Arrêt de mort.
L’opera di Maurice Blanchot ci lascia di fronte ad un’ambiguità diso-
rientante tra il movimento ininterrotto della scrittura – l’intrattenimen-
to ininito, la différance – e la violenza dell’interruzione, tra la ripetizione
eterna e il grido, come tra il movimento del morire e l’arrêt de mort. E può
272 Françoise Collin

essere chiarita a questo punto dalla polemica – il dialogo tra sordi – tra
Derrida e Foucault, tra il movimento della différance o del differire come
perpetuo rinvio, che assicura una forma di continuità e lo iato dell’evento,
fonte al massimo di contiguità, «pezzi e frammenti come se fosse il tutto»,
quando la scrittura si circoscrive nel compimento di un libro, nient’altro
che un libro, parodia del Libro, sapendo che «Achille non raggiungerà mai
la tartaruga» (M. Blanchot).
Qualsiasi cosa ne sia delle analisi o dei commentati letterari e iloso-
ici che si possono fare dell’opera di Blanchot – e che si sono moltiplicati
all’ininito – la lettura o la rilettura dei suoi frammenti di pensiero e dei
suoi racconti è, in effetti, ogni volta, nella nudità del faccia a faccia, l’op-
posizione dell’“eterna ripetizione” e al tempo stesso dell’“evento”: poiché
qualcosa succede che non è dell’ordine della “disseminazione”. Questa
ambiguità irrisolta è costitutiva dell’opera e ne costituisce il suo fascino.
In effetti, l’opera dispiega “la inalità senza ine” della scrittura – rac-
conto e/o pensiero – il suo ininito differire, ma attestandone gli iati che la
fratturano o la frammentano: attestandone lo scontro con l’evento.
Evento la cui violenza, articolata da Blanchot anzitutto nella vicinanza
con Georges Bataille, tra eros e morte, è attestata nel suo interesse per Fou-
cault, prima di trovare, in un confronto, piuttosto tardivo, con l’opera di
Levinas, amico di sempre, la sua formulazione più serena, legata all’alterità,
quando qualcosa accade, che è “qualcuno”, riconducendo e scongiurando
allo stesso tempo l’innominabile: un volto, come colui che non è mai visto.
Così la scrittura blanchotiana è, al contempo, ininito differire e messa a
nudo dell’interruzione: “grido” e “mormorio”. Questa tensione insupera-
bile la rende affascinante.

Traduzione dal francese di Mara Montanaro

.
The Thought of Writing: Différance and/or Event. Maurice Blanchot between Derrida
and Foucault

In this study, Françoise Collin proposes to measure what could be taken into play
between his irst reading of Blanchot (Maurice Blanchot et la question de l’écriture,
Paris, Gallimard, 1971) and his current interpretation (2011). The book in 1966
tries to approach (in light of Derrida’s notion of writing) Blanchot’s work in its
Il pensiero della scrittura 273

totality, in other words, in order to establish a discontinued continuity between


ields apparently incompatible, such as iction, literary criticism and philosophy.
The present study aims to discuss the choice of the Derridean theory of writing
that now, seems no longer suficient, especially when we take into account the
void in-between the fragments of texts and unidentiiable characters of heroes
or heroines in Blanchot’s work. The irst part of the article settles the historical
perspective, and contextualizes Blanchot’s system in regard to the new novel.
The second part intents to situate Blanchot in regard to the reading of Derrida
and Foucault, speciically around the notion of “différance” and “event”. At the
end, the third and the forth parts demonstrate how, the event, under the belated
inlexion of his reading of Levinas, comes to be rendered in terms of absolute
disarrangement of alterity.

Keywords: Writing, Difference, Event, Deconstruction, Literature, Derrida,


Blanchot.
As we go along
Spazi, tempi e soggetti delle controcondotte
Federico Rahola

Alle note che seguono serve forse un preambolo, un punto di partenza.


Lo afido a una frase: condursi insieme in modo diverso. Avevo la sensazione
che tra le parole pronunciate da Foucault al Collège de France il 1° marzo
del 1978 ci fossero anche queste, e in quest’ordine. Così non è, e allora ho
tentato di intercettare un passaggio in cui, non solo in quella lezione e in
quel corso, Foucault si è avvicinato di più al senso di questa frase. E forse
ho trovato qualcosa, o forse no. Resta il fatto che quelle parole hanno con-
tinuato a lavorare. Cercavo un modo per sintetizzare le impressioni ricava-
te da quanto avevo letto, visto, sentito e immaginato su Kobane; un modo
per venire a capo dell’importanza e della necessità straordinarie di quella
lotta di resistenza: cosa era successo in città prima del precipitare degli
eventi, nello spazio-tempo in between, tra i mille rivoli della diaspora curda
e l’assedio dell’Is e la resistenza degli abitanti? E soprattutto come era suc-
cesso? Questa domanda si riletteva nella frase attribuita a Foucault: che
cosa implica l’atto di decidere insieme come condursi in modo diverso? A
tutto ciò si è associata un’altra frase, forse incongrua e forse di John Col-
trane: «non c’è nulla di improvvisato nell’improvvisazione». Improvvisare,
nel jazz e non solo, signiica procedere collettivamente creando qualcosa
di nuovo, ed è una pratica che richiede lunghe ore di preparazione, che
pesca qua e là, rovistando altrove, rubando sequenze di note. Soprattutto,
improvvisare chiama in causa un sapere condiviso e una conduzione re-
ciproca, un trasformarsi insieme: abitare uno spazio e un tempo mentre
li si producono, as we go along1. Quanto segue è un tentativo di intrecciare
queste domande e queste frasi: di sondare quali idee di tempo, di spazio
e di soggettività chiami in causa la pratica collettiva di condursi in modo

1
As we go along: il riferimento è a Wittgenstein («And is there not also the case where we play
and – make up the rules as we go along? And there is even one where we alter them – as we go along»;
L. Wittgenstein, Ricerche ilosoiche, Einaudi, Torino 1983, § 83); l’invito (forse implicito)
è di spostare l’accento dalla “puntualità” delle regole alla luidità di una situazione, un
gioco, una forma.

materiali foucaultiani, a. IV, n. 7-8, gennaio-dicembre 2015, pp. 275-294.


276 Federico Rahola

diverso; e di mostrare quanto tale pratica sia a un tempo autonoma, in-


dividualizzante e plurale, comune. È probabile che tutto questo si riveli
lontano da ciò che Foucault ha inteso con il termine controcondotte. Ma
ancora non ne sono così sicuro.

Situazioni

Esiste, nel dibattito ilosoico contemporaneo, la tendenza a far coin-


cidere la temporalità della politica con la dimensione puntuale e idiosincra-
tica di un “evento”, a condensarne il senso in un atto di rottura2. Si tratta,
nella sua complessità, di una concezione dificilmente aggirabile e non
priva di fascino, che rischia però di trascurare qualcosa. Lo suggerisce per
esempio Sandro Mezzadra, alludendo al tempo vissuto di tutta una serie di
pratiche e di lotte che possono precedere o seguire un evento, costituen-
done l’innesco, le condizioni di possibilità, e articolandone la durata3. Di
questa temporalità protratta è possibile rintracciare esempi dappertutto,
anche in luoghi soffocati dagli “eventi”, dove il cielo si fa plumbeo, l’aria
irrespirabile.
Anche a Kobane, l’enclave curda sul conine turco-siriano per mesi
sotto assedio da parte della macchina da guerra dell’Is. In una regione sa-
tura di conini, Kobane rappresenta uno spazio scandalosamente aperto.
Ed è uno spazio che ha fatto scandalo in primo luogo per la quotidianità
eterodossa che l’ha caratterizzato: per un’esperienza politica (se il termine

2
Cfr. A. Badiou, L’essere e l’evento, Il Melangolo, Genova 1995. Si tratta di un approccio
articolato e complesso, che schiacciare su un solo testo, peraltro importante, come L’essere
e l’evento è senz’altro riduttivo. Inoltre, a partire da Logiques des mondes (Seuil, Paris 2006),
il lavoro dello stesso Badiou registra una signiicativa correzione di rotta, ripensando
l’evento non solo come rottura e cominciamento radicale ma come «un’alterazione locale
di una molteplicità data» (dove il ricorso al termine “alterazione” suggerisce un’analogia
con la transitività indicata da Wittgenstein). Resta però l’impressione complessiva di una
reductio, un precipitare del molteplice in un momento dato che cancella la dimensione
protratta e molteplice che la stessa alterazione può assumere. Il riferimento a Badiou vale
comunque come stilizzazione, punto di massima visibilità di una tendenza rintracciabile
anche in altri autori. Cfr. J. Rancière, Il disaccordo, Meltemi, Roma 2007; B. Honig, Antigone,
Interrupted, Cambridge University Press, Cambridge 2013; E. Isin, Acts of Citizenship, Zed
Books, London-New York 2008.
3
Cfr. S. Mezzadra, Moltiplicazione dei conini e pratiche di mobilità, in «Ragion pratica»,
n. 41 (2013).
As we go along 277

fosse un po’ meno parassitario, si direbbe un laboratorio) e una serie di


pratiche (se il termine non fosse così assiomatico, si direbbe di cittadi-
nanza) che l’hanno reso refrattario a ogni conine imposto. Per Kobane si
potrebbe recuperare quanto Gilles Deleuze e Felix Guattari, verso la ine
di Mille piani, riferivano a una dinamica interna ai territori urbani4, e leg-
gerla come lo spazio paradossalmente “liscio” scaturito da una supericie
iper-striata, in cui soggetti catalogati come diversi (per provenienza, lingua,
confessione, genere, ecc.) hanno saputo costruire un terreno comune di
articolazione democratica contro e al di là delle lacerazioni perentorie cui
l’intera regione mediorientale è condannata5. Il fatto è che la creazione
di questo “terreno” ha sicuramente preceduto e in qualche modo deter-
minato la successiva delagrazione di una serie di “eventi”, innescando
l’attacco fascista delle milizie dell’Is e la straordinaria resistenza della città.
Cosa opporre alla pretesa assoluta di chi avrebbe voluto imporre la propria
striatura politico-religiosa su Kobane, o di chi ha lasciato che ciò potesse
succedere (la Turchia, gli stati limitroi, gli Emirati, la stessa coalizione
internazionale), se non la difesa di questo “spazio di rappresentazione”
orizzontale? Resistenza, si dice. E certo quello di Kobane è un caso ecla-
tante di resistenza: difendere giorno per giorno, metro su metro, quanto si
è realizzato giorno dopo giorno, qualcosa che si oppone alle leggi imposte
sul luogo, le leggi dei conini, e che si crea parlando, partecipando, coope-
rando, producendo spazi. Ammettiamolo, se comparata alla potenza di un
evento, questa situazione dilatata rivela un fascino minore e forse anche
maggiore fragilità, l’esposizione a reazioni che possono scatenarle contro
una pressione istantanea. Ma non è sempre una questione di ultima parola,
valgono anche quelle pronunciate prima… e dopo.
Ricondurre il momento assoluto della resistenza e della lotta di libera-
zione a una serie di pratiche quotidiane permette di comprenderne meglio
il signiicato: di non farsi abbagliare dalla totalità dell’evento e di capire
che la posta in palio è esattamente la costruzione o la difesa di un modo di
(con)vivere realizzato nel tempo, nello spazio, tra soggetti. Proprio questa
dimensione discreta, meno appariscente, lontana dal clamore di un atto di
rottura, innesca il gesto di imbracciare un fucile, rappresentando il ine di

4
Cfr. G. Deleuze e F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi,
Roma 2006, pp. 706-707.
5
Cfr. S. Mezzadra, Kobane è sola?, 2014, in < http://www.euronomade.info/?p=3332>
(consultato il 15-01-2016).
278 Federico Rahola

cui quest’atto necessario diventa mezzo. Kobane, però, è un caso limite.


E per mettere a fuoco lo spazio-tempo vissuto di una serie di pratiche che
precedono, assecondano e perdurano rispetto all’eruzione di un evento si
può anche guardare a situazioni in cui il conlitto e la violenza assumono
tratti politici meno estremi. Si pensi allora a Rio de Janeiro. Se, nel giugno
del 2013, le manifestazioni che hanno portato in strada più di un milione
di persone sono state l’atto di rottura contro l’ordine esclusivo imposto
dalla città dei “grandi eventi”, prima e dopo quell’irruzione (considerata
improvvisa, inaspettata, clamorosa) ci sono state tutta una serie di espe-
rienze e pratiche quotidiane che l’hanno favorita e assecondata: l’occupa-
zione di case nei centri urbani, l’organizzazione di istituzioni alternative
alle logiche selettive di cittadinanza via consumo e carta di credito che si
sono imposte in Brasile negli ultimi anni6.
Questo per dire che tra la temporalità dell’evento e quella delle prati-
che interviene una differenza essenziale. Per coglierla occorre però rinun-
ciare a qualcosa o perlomeno attenuarne la portata. Si tratta dell’integralità
o dell’esclusività “costituente” che connota il modo di pensare (ilosoica-
mente e spesso feticisticamente) un evento. Un atto, nella sua singolarità,
quando concepito nei termini di epifania o di irruzione (e declinato come
resistenza o rivoluzione), può determinare effetti immediati in virtù della
sua capacità di spezzare o interrompere una situazione che si protrae. Una
pratica, invece, non necessariamente possiede questa forza in grado di de-
porre (gewalt, la chiamerebbe Walter Benjamin7) e, pur esprimendosi attra-
verso forme di resistenza o di lotta, è orientata soprattutto a costruire nel
tempo qualcosa di inedito – come la carta del Rojava, nel caso di Kobane e
di altre città curde della regione. Senza estremizzare la polarizzazione, pas-
sare da un evento di rottura a una pratica di lotta signiica transitare da un
gesto puntuale/singolare (e dalla sua portata immediatamente destituente)
a una situazione protratta e a una tensione costituente: a un insieme di azioni
e interazioni che esprimono altre temporalità, spazialità eterodosse e pure
una diversa igura di soggettività. Chiamiamole appunto, e provvisoria-
6
Cfr. R. Rolnik, Prefazione, in Cidade rebeldes. Passe livre e as manifestações que tomaram as
ruas do Brasil, Boitempo, S. Paulo 2013.
7
L’immagine benjaminiana di una violenza che depone (gewalt), sviluppata in Critica
della violenza, si arricchisce di una portata per certi versi costituente nelle pagine che
Benjamin dedica al «carattere distruttivo», come momento di irruzione del nuovo, del
cambiamento, «del bisogno di emanciparsi dalla memoria e dai legami del passato». Cfr.
W. Benjamin, Il carattere distruttivo, Mimesis, Milano 1995.
As we go along 279

mente, “situazioni”, lasciando che l’eco, forse incongrua, del signiicato


attribuito alla parola da Debord e soci le avvolga del dovuto carattere sov-
versivo. Situazioni, dicevo, scaturite da un particolare lavoro “insieme”, da
saperi e gesti che dialogano e procedono nel tempo, per quanto l’obiettivo,
il ine, non ricada nell’alea e rappresenti sempre un orizzonte tanto con-
creto e immediato quanto in divenire. Si tratta più precisamente di dar vita,
nel tempo e nello spazio, a qualcosa di diverso.
Sembrerà strano, ma l’esempio più eficace che mi viene in mente lo
fornisce l’improvvisazione jazzistica, a patto di non concepirla nei termini
di un gesto spontaneo8 o di un’occasione singolare, ma nella cornice più
estesa di un lavoro d’insieme che nel qui e ora della sua esecuzione/evolu-
zione riattualizza una pratica culturale, rilettendo la vicenda generale degli
afroamericani9: una presa di parola in cui esperienza individuale e collettiva
si confondono e si saldano10, espressione di quella «parte di chi è senza
parte»11 la cui irruzione, se anche evenemenziale, non si consuma nell’atti-
mo ma perdura proprio in virtù della capacità di precederlo, assecondarlo
e dargli spessore. Così, da una situazione localizzata e unica come una jam
session è possibile recuperare i sintomi di una trama più generale, di una
pratica che rilette di continuo un tempo (quello della diaspora), uno spa-
zio (l’atlantico nero) e un soggetto (afroamericano) che sono “altri” per-
ché tutti in qualche modo dislocati (nel senso di dificilmente inquadrabili
in termini unitari), in tensione e quindi “contro” quelli impliciti e sedentari
(oltre che codiicati per razza, classe, genere) dello stato, della nazione, del
cittadino. Nel tempo sincopato dell’improvvisazione, in questa situazione
aperta e dilatata, ilogenesi e ontogenesi si saldano e l’imperativo, se vo-
gliamo, è sempre creativo: «play it different!» (Coltrane); «diventare diversi
perché il proprio futuro possa essere diverso»12.
Per quanto poco immediato, parto dal presupposto che proprio in
questa dimensione protratta e collettiva, rilesso di storie più genera-
li, espressione di pratiche spaziali, temporalità e igure della soggettività
inedite o altre, sia possibile rintracciare un punto di convergenza tra due
8
Cfr. D. Sparti, Musica in nero. Il campo discorsivo del jazz, Il Saggiatore, Milano 2007.
9
Cfr. P. Gilroy, The Black Atlantic. L’identità nera tra modernità e doppia coscienza, Meltemi,
Roma 2003.
10
Cfr. A. Baraka, Il popolo del blues. Sociologia degli afroamericani attraverso il jazz, Shake,
Milano 2011.
11
J. Rancière, Il disaccordo, cit.
12
E. Said, Nel segno dell’esilio, Feltrinelli, Milano 2008.
280 Federico Rahola

concetti tanto immediati quanto pericolosamente indeiniti del lessico fou-


caultiano: l’idea di “spazi altri” (o eterotopie), che qui vorrei declinare in
termini più afilati come contro-spazi, e soprattutto la nozione introdotta
fugacemente nel corso del 1978 e mai ripresa ino in fondo di contro-
condotte. L’intenzione è di ricondurre entrambi i (contro)concetti a una
matrice comune, eminentemente spaziale, leggendoli attraverso la lente di
una serie di pratiche situate, orientate verso ciò che Henri Lefebvre deini-
va la «produzione dello spazio»13.

Controconcetti

Occorre quindi tornare su questi due controconcetti. Concetti fumo-


si, si diceva, perché avvolti in una vaghezza di fondo, probabilmente non
casuale. Se, sulla rinomata conferenza di Tunisi del 1967 sulle eterotopie,
si è detto molto, forse troppo, diversa è stata la ricezione dell’idea di con-
trocondotte, abbozzata e poi lasciata sospesa dopo il Corso al Collège del
1978. Si tratta di un termine verosimilmente poco fortunato, faute de mieux,
tanto è vero che introducendolo Foucault cerca quasi di giustiicarsi:

[S]enz’altro una parola costruita male, ma che ha il vantaggio di permettere


il riferimento al senso attivo del termine “condotta”. Controcondotta nel senso
di lotta contro i procedimenti impiegati per condurre gli uomini. […] La parola
controcondotta dà la possibilità di analizzare – senza dover necessariamente sa-
cralizzare qualcuno come dissidente – le componenti del modo di agire effettivo
nel campo generale della politica o dei rapporti di potere: consente di individuare
la componente di controcondotta facilmente rinvenibile nei delinquenti, nei folli
e nei malati14.

L’accenno apparentemente downplaying a delinquenti, folli e malati, ol-


tre a rilettere un lessico per certi versi simile a quello di Erving Goffman15,

13
H. Lefebvre, La produzione dello spazio, Moizzi, Milano 1976.
14
M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978),
Feltrinelli, Milano 2005, pp. 151.
15
Mi riferisco in particolare a quella che è stata deinita perspective by incongruity,
l’accostamento incongruo che getta luce sulla convenzionalità arbitraria delle norme
sociali (cfr. P.P. Giglioli, Introduzione all’edizione italiana, in E. Goffman, La vita quotidiana
come rappresentazione, Il Mulino, Bologna 1969).
As we go along 281

permette di liberare il discorso da ogni enfasi eroica: nessuna “dissidenza


sacralizzata”, nessun gesto esemplare di rottura, solo il lavoro carsico di
una serie di comportamenti e modi di agire di cui si sottolinea la compo-
nente attiva. In altre parole, quello delle controcondotte sembra essere un
universo di pratiche ordinarie ma produttive, nella misura in cui indicano
modalità di “gestione” (di sé, del tempo e dello spazio) altre rispetto alle
forme di condotta maggioritarie e imposte.
In realtà, nel corso del 1978, anziché a delinquenti e folli (igure, come
si sa, al centro di altri corsi e testi foucaultiani e la cui condotta appare
comunque lontana da un atto esplicito di dissidenza), Foucault fa riferi-
mento soprattutto ai protestanti, nel tentativo di deinire la portata sov-
versiva della riforma nei territori sottoposti al potere pastorale della chiesa
di Roma. Per questo introduce il concetto riferendolo immediatamente
a una serie di pratiche quotidiane e piuttosto razionali, che rintraccia nei
movimenti diffusi e popolari, dal basso, che si oppongono alle strategie
di “governo delle anime” e al discorso egemone della chiesa. Il successo
della riforma, infatti, dipende essenzialmente dalla capacità di affermare
attivamente un “contro-discorso”, attraverso una serie di comportamenti
che minano ed eccedono il potere pastorale lavorando però sullo stes-
so terreno e riarticolando in termini immanenti e mondani un analogo
discorso di “redenzione”. Al di là di una matrice comune rintracciabile
nell’idea astratta di un’“ascesi intramondana”, sappiamo poi quanto quel
campo fosse differenziato al proprio interno (la distanza che separa Lute-
ro e Thomas Muntzer, per esempio). Il fatto è che tali striature, per quanto
profonde, hanno inito a volte per coagulare in superici “scandalosamen-
te lisce” e in forme di condotta in grado di sovvertire regole e strategie di
governo fondate su un più generale movente “estrattivo”, sia materiale che
immateriale – dall’estorsione delle decime a quella di una “verità”, omnes et
singulatim, sui soggetti. Siamo per certi versi vicini al presente, anche allo
spazio “scandalosamente liscio” di Kobane e alle dinamiche estrattive che
sconvolgono il Medioriente e non solo, ma soprattutto lontani da una lo-
gica destituente o di mera dissidenza.
Se questo è vero, ne consegue che dal rapporto che le controcondotte
instaurano con l’ambito canonizzato delle condotte sia possibile desumere
un’articolazione più complessa rispetto alla reattività diretta e quasi mec-
canica che caratterizza il rapporto tra poteri e resistenze. Si tratta di una
distinzione a mio parere decisiva (avendo a che fare soprattutto con la
282 Federico Rahola

qualità temporale e la matrice spaziale particolari che questo “controcon-


cetto” chiama in causa), ma sottile. Del resto, lo stesso Foucault suggerisce
esplicitamente di leggere la relazione tra controcondotte e potere pastorale
su un piano di immanenza sostanzialmente identico a quello delle resisten-
ze rispetto al potere disciplinare e microisico. All’assoluta e reciproca in-
ternalità di potere e resistenza (dove, come noto, la seconda è coestensiva
al primo nella misura in cui «ha luogo nel campo strategico delle relazioni
di potere come queste esistono in relazione a una molteplicità di punti
di resistenza») corrisponde un’analoga relazione tra condotte e contro-
condotte, come polarità immanenti che oltre a collocarsi su uno stesso
ordine attingono agli stessi “ingredienti”. Ma c’è di più, perché l’analogia
si estende a una speciica “produttività”, che solleva tanto le resistenze
quanto le controcondotte dal piano meramente reattivo/negativo della di-
sobbedienza. Lo sottolinea per esempio Arnold Davidson, in un saggio
piuttosto recente:

[T]he tactical immanence of both resistance and counter-conduct to their respective ields
of action should not lead one to conclude that they are simply a passive underside, a merely
negative or reactive phenomenon, a kind of disappointing after-effect […], the productivity of
counter-conduct […] goes beyond the purely negative act of disobedience16.

Posta così, nei termini di una “positività” condivisa, la relazione sem-


brerebbe quasi di assoluta coincidenza. Cosa che non è. Sempre secondo
Davidson, infatti, è possibile recuperare una differenza tra resistenze e
controcondotte nel sovrappiù etico che caratterizza le seconde: «On the
one hand, the notion of counter-conduct adds an explicitly ethical component to the no-
tion of resistance»; da cui consegue un’ulteriore peculiarità: «on the other hand,
this notion allows one to move easily between the ethical and the political, letting us
see their many points of contact and intersection»17. Confesso di aver provato un
certo disagio, perlomeno iniziale, di fronte alla “svolta etica” e individuale
(ammesso che di svolta si possa parlare) degli ultimi corsi al Collège di
Foucault, ma è un dettaglio. Davidson, invece, muovendosi con maggiore
familiarità in questi territori, coglie proprio nella transitività tra i due piani,
etico e politico, l’elemento distintivo delle controcondotte. La dimensio-

16
A.I. Davidson, In Praise of Counter-Conduct, in «History of the Human Sciences»,
vol. 24 (2011), n. 4, p. 27.
17
Ivi, p. 28.
As we go along 283

ne politica, infatti, non è meno immediata di quella etica, e il suo tratto


decisivo consiste nel saldare sfera collettiva e individuale, nei termini di
un’“insurrezione delle condotte”. Qui Davidson riprende alla lettera Fou-
cault: «movements characterized by wanting to be conducted differently, whose objec-
tive is a different type of conduction, and that also attempt to indicate an area in
which each individual can conduct himself, the domain of one’s own conduct
or behavior»18.
A costo di sovrapporre caoticamente sfere (etica, politica, individua-
le, collettiva), è necessario sottolineare la differenza propria del gesto di
“condursi in modo diverso”. Tra voler essere condotti in modo diverso
e condursi in modo diverso, infatti, in gioco non è solo la distanza che
separa una dichiarazione di intenti da un atto: anziché decidere come farsi
condurre (da chi e in che modo), stabilire “un’area in cui potersi condurre”
è un atto etico e politico che, sebbene Foucault si affretti categoricamente
a negarlo19, sembra affermare una certa autonomia, collocandosi immedia-
tamente in un ambito individuale, costituendo un territorio del sé. Certo,
questo gesto lo si potrebbe sempre leggere come “evento”, ma la modalità
in cui avviene nel tempo e nello spazio suggerisce un’articolazione più
intricata, molteplice, lontana dalla singolarità di un atto. Si tratta, verosi-
milmente, di un processo di soggettivazione, che in quanto tale si oppone a
ogni forma di assoggettamento rispondendo in primo luogo alla domanda
etica su quale soggetto diventare.
È questo un nodo su cui, come noto, i corsi successivi, dall’Ermeneutica
del soggetto in avanti, torneranno ossessivamente: la costituzione di sé come
soggetto morale articolata su una serie di tecniche, pratiche di sé, modes de
subjectivation, tutte essenzialmente individuali ma essenzialmente interlocu-
torie, fondate cioè su un dialogo, una “convocazione”, un «dar conto di sé
agli altri»20. Resta il fatto che, perlomeno nel marzo del 1978, il concetto
di controcondotte è declinato eminentemente al plurale, riferendosi per

18
Ivi, p. 27 (tondo mio). La versione italiana del passaggio cui fa riferimento Davidson
è leggermente diversa: «Movimenti che si danno come obiettivo un’altra condotta, nel
senso che vogliono essere condotti in un altro modo, da altri conduttori […]. Ma sono
anche movimenti che cercano di sfuggire alla condotta altrui, che cercano di deinire per
ciascuno la maniera di condursi» (M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., pp. 144-145).
19
«Queste rivolte di condotta possono pertanto essere speciiche nella loro forma e
nel loro obiettivo, ma non sono e non restano mai autonome, qualunque sia il carattere
decifrabile della loro speciicità» (M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 147).
20
J. Butler, Critica della violenza etica, Feltrinelli, Milano 2006.
284 Federico Rahola

lo più a gruppi e comunità che, oltre a voler essere condotti in modo di-
verso, a volte mostrano di volersi condurre da soli. Lavorando su ciò che
Foucault non dice (e anzi nega), credo che la portata sovversiva di questo
concetto, il suo straordinario potenziale politico, si giochi tutto in una tale
affermazione plurale di autonomia e di autogestione. Solo se deinito col-
lettivamente, as we go along, l’atto di (decidere come) condursi diventa una
pratica, chiamando in causa, oltre a un’idea posizionale di sé e degli altri,
una speciica produzione di spazio (un’area in cui stabilire insieme come
condursi) e una particolare temporalità: quali esattamente? Rispondendo a
questa domanda è possibile intravedere quanto Foucault non lascia vede-
re, e cioè la portata costituente delle controcondotte, di quelle situazioni
protratte nel tempo, quelle insurrezioni carsiche e progressive, in cui la
cooperazione dà vita a qualcosa di nuovo e di diverso.
Avremmo quindi un soggetto collettivo, una rivendicazione di autono-
mia che si traduce in pratiche condivise, attraverso una serie di situazioni
di dialogo e interazione calate nel tempo e nello spazio. E l’eco è sempre
quella di un intreccio tra “ilogenesi e ontogenesi”, biograia individuale e
storia comune, che deinisce, per esempio, lo statuto dell’improvvisazione
nei termini più generali di una speciica pratica culturale afroamericana.
Come in una jam session, diventare un soggetto collettivo implica questa for-
ma di cooperazione: la conduzione «di sé attraverso sé nell’articolazione dei
suoi rapporti con l’altro» – così si esprimerà Foucault nel Résumé del corso
del 1981 su soggettività e verità, parlando però di “governo” e riferendosi
alla soggettivazione imposta dall’invenzione del matrimonio21.
Ma affermare che l’obiettivo degli ultimi corsi di Foucault sia stato
quello di gettare luce sui processi attraverso cui diventare soggetti collet-
tivi (o diventarlo collettivamente) è sicuramente una forzatura. E occorre
anzi riconoscere che la posta in palio del viaggio intorno al soggetto che
dall’ermeneutica arriva ino al governo di sé (e degli altri) è essenzialmente
individuale, nel tentativo di riscoprire nel mondo classico modelli di una
soggettività – questa sì, autonoma – da opporre alle forme e alle tecno-
logie di assoggettamento. L’ultimo corso, sin dal titolo, lascia però la que-
stione aperta, sia nei termini sospesi di un’ultima parola non detta sia in
quelli letterali di una particolare apertura al mondo, alla polis, propria della
parrhesia cinica. Forse è solo uno spiraglio, ma l’idea è che “il governo di sé

21
M. Foucault, Subjectivité et vérité. Cours au Collège de France, 1981, Seuil/Gallimard,
Paris 2014.
As we go along 285

e degli altri” possa ritradursi in un tutt’uno, un condursi insieme, sincro-


nico, progressivo, condiviso, protratto. Ed è poco più di una congettura,
costruita sull’ipotesi che le pratiche dei cinici (ciò che dalla conoscenza
di sé conduce al coraggio di una verità «che non può esserci che nella
forma di un mondo altro e una vita altra»22) lascino intravedere il rilesso di
una parola, controcondotte, cui in realtà Foucault non ricorrerà mai per
deinirle. Ma se le traiettorie delle controcondotte si rivelano un sentiero
interrotto, un tracciante destinato ad assumere una rotta essenzialmente
etica ed essenzialmente individuale, forse è proprio perché la loro portata
politica (e cioè materiale, nello spazio e nel tempo) risiede precisamente
in questa dimensione plurale di pratiche autonome e collettive – le stesse
che Foucault aveva rintracciato in alcuni movimenti popolari e diffusi al
tempo della Riforma e soprattutto nell’esperienza dei militanti socialisti e
anarchici del diciannovesimo e ventesimo secolo.
Portata politica quindi. Perché nelle prime due settimane di marzo
1978 (e ancora nell’ultima lezione, ad aprile), di questo termine “costruito
male” Foucault si limita a cogliere gli effetti “positivi” e sovversivi, sia te-
orici e politici che individuali e collettivi. E non è poco: «Controcondotte
nel senso di lotte contro le procedure adottate per condurre gli altri»23,
che possono essere rintracciate sia «a livello dottrinale», sia «in forme di
comportamento individuale» o «di gruppi fortemente organizzati» (come i
valdesi, gli hussiti, gli anabattisti24). E ancora:

[Q]ueste comunità si caratterizzavano per una tendenza contraria alla società


e favorevole al rovesciamento dei rapporti e della gerarchia sociale, con una com-
ponente carnevalesca. Bisognerebbe allora studiare – è un problema aperto – la
pratica carnevalesca del rovesciamento della società e la costituzione di gruppi se-
condo modalità esattamente inverse a [quelle della] gerarchia pastorale esistente25.

È possibile cogliere qui un’eco del lavoro di Mikhail Bachtin sul mon-
do alla rovescia, l’abbassamento materiale e corporeo che deinisce lo spa-
zio-tempo del carnevale come speciico momento rituale di sovversione/

22
Sono queste, forse, le ultime parole “pubbliche” di Foucault, espresse come note
inali al corso del 1984, due mesi prima di morire. Cfr. M. Foucault, Il coraggio della verità.
Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France (1984), Feltrinelli, Milano 2011, p. 331.
23
M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 151.
24
Ivi, p. 153.
25
Ivi, p. 160.
286 Federico Rahola

profanazione26. Si tratta però di un rituale che, tradotto nella prospettiva


delle controcondotte, non rientra nello spazio-tempo imposto di un ca-
lendario, e anzi lo eccede, ne produce di altri, e nuovi. Davidson, a questo
proposito, ricorda come l’eccentricità del comportamento fosse il carat-
tere che John Stuart Mill associava a quanto Foucault avrebbe ricondotto
nell’ambito ascetico e/o carnevalesco delle controcondotte27. E rintraccia
correttamente il rilesso prolungato di questo tipo di eccentricità in alcune
pratiche dei femminismi o dei movimenti gay e queer, prima di dichiarare,
quasi rassegnato:

The armature of economic neo-liberalism, studied in The Birth of Biopolitics, cannot


concede any space to the idea of counter-conduct; counter-conduct becomes inconceivable, since
conduct as such is a concept fully integrated into a scientiic-epistemological ield. Regime of
veridiction, homo oeconomicus, rational behavior, ethical and political neutralization – such is
the scheme, for instance, of American neo-liberalism28.

Parole che suonano come un verdetto: nessuno spazio per le contro-


condotte nel tempo della governamentalità neoliberale. Si tratta eviden-
temente di una impasse dificilmente aggirabile, che grava sul presente,
sulla possibilità di individuare una serie di pratiche e situazioni “costituen-
ti” da opporre alla razionalità della global governance, alla “libera condot-
ta” imposta dalle retoriche sul capitale umano e dall’economia sociale di
mercato29. Si tratta, inoltre, della stessa impasse che determina la svolta

26
Cfr. M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella
tradizione medievale e rinascimentale, Einaudi, Torino 1979.
27
A.I. Davidson, In Praise of Counter-Conduct, cit., p. 31.
28
Ivi, p. 37.
29
Ciò ovviamente non signiica che l’orizzonte delineato dall’“armatura del
neoliberalismo” sia privo di conlitti. Al contrario, il conlitto si dissemina, partendo
spesso dai “margini”, e la sua portata evenemenziale e potenzialmente destituente
sembra accentuarsi: molte piazze si sono incendiate; regimi che parevano inespugnabili
hanno vacillato o sono stati abbattuti. E tuttavia, anche quando la potenza destituente
delle insurrezioni si è dispiegata, un secondo dopo aver deposto “tiranni locali” di vario
genere, queste rivolte si sono trovate a fronteggiare i regimi a geograia variabile imposti
dalla global governance neoliberale. All’interno di questa “razionalità”, dificile da localizzare
(perlomeno in termini convenzionali di sovranità), è però possibile rintracciare una
matrice “pastorale”: l’enfasi sui comportamenti (all’insegna di benchmark, best practices);
l’imposizione di forme canonizzate di condotta attraverso il sacriicio e l’austerità; la
dimensione espiatoria e il ricatto “morale” somministrati attraverso l’indebitamento;
As we go along 287

etica (e individuale) dei successivi corsi al Collège, intervenendo non a


caso in quello che segue immediatamente Sicurezza, territorio, popolazione e
sopprimendo sul nascere la breve stagione delle controcondotte: la lotta,
se di lotta si tratta, non sembra passare (più) attraverso le condotte. La
questione però persiste e lavora nel tempo, come sottolinea Frederic Gros
nella nota critica all’ultimo corso, del 1984: «quali modi di soggettivazione
vengono ad articolarsi sulle forme di governo degli uomini per resistervi o
per abitarle?»30. Come aderire o negarsi, quali tecniche di sé e quali forme
collettive opporre alla razionalità governamentale neoliberale? Ammesso
che la domanda valga ancora, che cioè questa razionalità si deinisca attra-
verso particolari condotte, imponendo un modello di “libertà individuale”
che neutralizza ogni percorso di liberazione collettiva, perché non provare
ancora a cercare una risposta nelle controcondotte?

Exit through the giftshop

Si dice “guardi l’albero e perdi di vista il bosco”, ma non sempre è


così. Concentrasi sull’orizzonte quotidiano delle pratiche anziché esclusi-
vamente sul close-up dell’evento signiica in un certo senso muoversi “tra
gli alberi”, as you go along: osservare i dettagli (e per lo più i margini, i con-
ini), anziché un ipotetico momento centrale o un inafferrabile quadro
d’insieme; focalizzarsi sul percorso più che sul traguardo (come fa chi im-
provvisa). A partire dall’alternativa radicale contenuta nelle parole di Gros
(«resistervi o abitarle»), e a costo di dar l’impressione di ammiccare a una
serie di approcci tra i meno attraenti della teoria sociale contemporanea (la
rational choice, la teoria dei giochi – al fascino della quale Foucault non era

l’indirect rule e il governo “attraverso le differenze” di sistemi misti o parziali che, dietro
un universalismo oggettivo, omnes et singulatim, impongono striature e gerarchie all’interno
di territori in precedenza formalmente omogenei. Cfr. Graeber 2011; Lazzarato 2012;
Teubner 2008. Se quindi tracce del potere pastorale sono recuperabili nella macchina mista
«sovrano-governamentale» (S. Mezzadra e B. Neilson, Conini e frontiere. La moltiplicazione
del lavoro nel mondo globale, Il Mulino, Bologna 2014) della governance globale, il campo delle
lotte antipastorali sembra arrestarsi su una soglia in cui alla portata destituente subentra
un’impasse costituente. In una congiuntura rappresentata come stasi, nel “vuoto” della
crisi riempito dal momento costituente dei dispositivi con cui la si governa, a svanire
sembra essere la tensione costituente che deinisce quanto qui, a partire da Foucault, si
intende per controcondotte.
30
F. Gros in M. Foucault, Il coraggio della verità, cit., p. 331.
288 Federico Rahola

immune…), vale la pena di insistere sulla modalità speciica che deinisce


lo spazio di azione e la temporalità protratta delle controcondotte. Perché
il modo in questo caso fa letteralmente la differenza, la produce. Ma di
quale modo si tratta?
Come già accennato, invece di concentrare la propria portata su un
gesto reattivo o un atto di rottura, l’idea di controcondotte chiama in causa
una particolare durata e, soprattutto, un modo di condursi che interviene
sullo stesso campo e agisce in direzione analoga e contraria rispetto alle
condotte canonizzate, producendo qualcosa di radicalmente inedito. Ri-
prendendo l’approccio sistemico e formale della sociologia di Luhmann,
si potrebbe dire che le controcondotte implicano la capacità/necessità di
«agire sullo stesso medium», articolando a partire da questo un piano di
differenze31. Non a caso, Foucault ribadisce con insistenza l’“adesione tat-
tica” delle controcondotte rispetto all’orizzonte delle condotte pastorali:

[Gli] elementi fondamentali delle controcondotte non sono evidentemente


esterni al cristianesimo, ma si situano al suo conine e non hanno mai smesso
di essere reimpiegati, reimpiantati e ripresi in un senso o nell’altro. […] La lotta
non avviene nella forma dell’esteriorità assoluta, ma nel quadro dell’impiego
permanente di elementi tattici che sono pertinenti nella lotta antipastorale e
fanno perciò parte, anche se in misura marginale, dell’orizzonte generale del
cristianesimo32.

In questi termini, la dimensione spazio-temporale delle controcon-


dotte sembra giocarsi in una sorta di concatenamento, un piano trasfor-
mativo di analogie e permutazioni. Non si tratta però di un rapporto sem-
plicemente mimetico, né tantomeno speculare: piuttosto di qualcosa che
scaturisce dai margini e agisce attraverso la differenza, in termini che si
potrebbero deinire contrappuntistici33. In un certo senso, si può sostenere
che le controcondotte spezzano ogni simmetria rispetto alle condotte nella
misura in cui, partendo dai margini, restituiscono sempre uno squilibrio,
uno scarto, un eccesso (l’idea di un “carnevale tutto l’anno”), e che il loro
rapporto con le condotte è contrappuntistico nella misura in cui si orienta
dall’interno verso qualcosa di radicalmente diverso, auspicabilmente rove-
31
N. Luhmann, Generalized Media and the Problem of Contingency, in Loubser et al. (a
cura di), Exploration in General Theory in Social Science, New York, The Free Press 1976.
32
M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 163.
33
E. Said, Nel segno dell’esilio, cit.
As we go along 289

sciato. C’è qui, forse, un’eco della (oggi in troppo abusata) opposizione
tra tattiche e strategie tratteggiata da De Certeau, e pure di manifesti “an-
tropofagici” di stampo modernista34, ma soprattutto un’idea speciica di
concatenamento che Foucault, nel 1978, poteva solo preconizzare. Il rife-
rimento in questo caso è a una relazione che in termini astratti (e rovescia-
ti) può essere utile leggere nella prospettiva suggerita da Deleuze e Guatta-
ri di una matrice o piano (l’assiomatica del capitale) che articola e rimodella
di continuo le relazioni tra economia e spazi – politici, giuridici, culturali
– imponendo una serie di processi modulari, più precisamente “isomori-
ci”: un asse sincronico e parallelo di analogie, similitudini e trasformazioni.
Isomorismo, però, non signiica affatto riproduzione speculare o eterno
ritorno dell’uguale: «Non c’è niente di più errato che confondere isomor-
ismo e omogeneità: al contrario, isomorismo vuol dire favorire e quasi
incitare la continua produzione di eterogeneità»35.
Deriva da qui l’idea del capitale come macchina della differenza, pia-
no assiomatico attraversato da processi paralleli che riproducono regimi di
disuguaglianza. Il fatto è che un tale rapporto isomorico, orientato verso
la differenza, sembra emergere anche dalle controcondotte, dalla loro “in-
ternalità marginale” rispetto al piano canonizzato e imposto delle condotte.
Si tratterebbe quindi di un rapporto che “fa la differenza” agendo isomor-
icamente rispetto all’assiomatica del capitale. Ed è su questo piano che le
controcondotte si allontanano dal momento dell’evento e dalla sua portata
destituente. Se, come si è visto, ragionare in termini di evento signiica appel-
larsi a un atto singolare che disarticola il quadro, che spezza unilateralmen-
te ogni simmetria, l’insieme di pratiche che deiniscono le controcondotte
sembrano invece lavorare su un orizzonte diverso e molteplice, in termini di
tempi protratti, di spazi condivisi, di processi di soggettivazione.
Non si tratta certo di ritracciare qui le traiettorie del débat sui “modi
di costituzione della soggettività” (o sulla “produzione della soggettività”,
dove il genitivo ha un valore duplice, oggettivo e soggettivo36). Solo di

34
E. Viveiros de Castro, Métaphysiques cannibales, PUF, Paris 2009.
35
Cfr. G. Deleuze e F. Guattari, Mille piani, cit., p. 676.
36
Cfr. A. Negri, Fabbriche del soggetto, XXI Secolo, Livorno 1987; S. Zizek, Il soggetto
scabroso. Trattato di ontologia politica, Raffaello Cortina, Milano 2003; É. Balibar, Citoyen sujet
et autres essais d’anthropologie philosophique, PUF, Paris 2011; J. Rancière, Il disaccordo, cit.;
J. Read, The Micro-Politics of Capital. Marx and the Prehistory of the Present, State University
of New York Press, Albany 2003; S. Mezzadra, Nei cantieri marxiani. Il soggetto e la sua
produzione, Manifestolibri, Roma 2014.
290 Federico Rahola

suggerire come al suo interno, e su una rotta per certi versi inaugurata dal
lavoro dello stesso Foucault37, emerga l’idea di un soggetto “dislocato”,
che confuta ogni impossibile ipotesi unitaria ricollocandola in un campo
in tensione, nel punto di incrocio tra dispositivi di assoggettamento e pra-
tiche di soggettivazione. Concepire questo rapporto in termini isomorici,
pensare cioè che assoggettamento e soggettivazione agiscano in un con-
catenamento (essenzialmente su uno stesso piano di analogie e trasforma-
zioni) signiica allora allontanarsi dall’evento e situarsi in una dimensione
processuale, in divenire: considerare i processi di soggettivazione come
immanenti all’assoggettamento, ma in grado di imprimervi una logica di
differenza. Isomorismo, da questo punto di vista, implica la possibilità di
pensare le pratiche di soggettivazione come “dentro e contro”; di “gio-
care” le logiche dei dispositivi di assoggettamento contro il loro stesso
principio di funzionamento. In questi termini, anziché instaurare una sim-
metria o un loop, le controcondotte (in quanto interne e marginali rispetto
all’universo delle condotte) indicano il modo (più che il momento) in cui,
nel tempo e nello spazio, il gioco si rovescia e lo specchio si infrange, resti-
tuendo lo scarto o l’eccesso determinato dalle pratiche di soggettivazione
rispetto ai dispositivi di assoggettamento. Si tratterà poi di uno scarto, un
salto in avanti che, nella prospettiva dell’assiomatica del capitale, dovrà
essere sempre recuperato, riproducendo il concatenamento. Ma questa è
un’altra storia, o la stessa storia da un’altra parte del bosco…
Qui, sulla scia di ciò che Foucault lascia forse intuire parlando di con-
trocondotte, in gioco è la possibilità di pensare tali pratiche non solo in
quanto evento ma anche come situazione (protratta, contraddittoria, di-
slocata nel tempo e nello spazio), e non solo come processo individua-
le ma anche in una dimensione articolata, “orchestrata” e quindi plurale,
collettiva. Proiettare questo scarto, questa produzione di soggettività che
è produzione di differenza (qualcosa di non molto lontano dall’idea di
différance in Derrida) nell’atto di condursi insieme in modo diverso (ovvero in ciò
che deinisce la dimensione politica delle controcondotte) chiama in causa
un terreno e un processo molteplici e comuni, e conferisce una particolare
tensione costituente, temporale e spaziale, a tali situazioni. Credo sia que-
sto il potenziale politico delle controcondotte (declinate rigorosamente al
plurale), per come viene delineato en passant e subito accantonato o negato

37
Cfr. M. Foucault, Perché studiare il potere: la questione del soggetto, in H.L. Dreyfus e
P. Rabinow (a cura di), La ricerca di Michel Foucault, Ponte alle Grazie, Firenze 1989.
As we go along 291

da Foucault nel 1978: un insieme di pratiche che riproducono, eccedono e


sovvertono le forme uficiali di condotta; un «supplemento di individua-
zione su vasta scala, che riunisce una pluralità di individui»38 e si realizza
attraverso spazialità e su temporalità “altre” e contro. Come le note e gli
strumenti “rubati” (anche letteralmente e nottetempo) dagli schiavi che,
agendo sullo stesso spartito, oltre a un’altra musica hanno creato un altro
“popolo”, un “contro-popolo”, quello eterogeneo e in tensione del blues
e del jazz.
Il rapporto mimetico condotta/controcondotte si spezza infatti nella
materialità dei tempi e degli spazi “altri” che queste producono, trovando
nei territori in cui “decidere insieme come condursi” la propria portata
costituente, all’insegna dell’autonomia, dell’autogestione. Occorre allora
cercare di deinire meglio questi “territori di soggettivazione” e passare
quindi al secondo controconcetto, non meno opaco del primo, di eteroto-
pie. Lo dico subito: data la mole di interpretazioni che ha attirato, all’idea
di “spazi altri” dedicherò molta meno attenzione rispetto alle controcon-
dotte. Immediatamente, la conferenza tenuta al Cercle d’études architecturales
di Tunisi offre una ricognizione tanto estesa quanto ospitale e vaga degli
spazi “altri”39: una rassegna che guarda più ai luoghi che alle pratiche,
che legge le pratiche in funzione dei luoghi. Nessuno, però, a partire da
Foucault, vieta di procedere in direzione opposta – quella suggerita dalle
controcondotte. In tal senso, del breve saggio mi interessano soprattut-
to (se non unicamente) l’idea introduttiva e l’ultima immagine. Iniziamo
dalla prima: «spazi in cui tutti gli altri vengono rappresentati, contestati e
invertiti».
È possibile rintracciare qui qualcosa di molto vicino al particolare rap-
porto isomorico che avrebbe dovuto designare, dieci anni dopo, i territori
e le aree di soggettivazione delle controcondotte, condensandoli in luoghi
carichi di un particolare valore proiettivo, sintomatico e sovversivo: spa-
zi “contro” che evocano, ricapitolano e invertono ogni altro luogo. Tutti
questi caratteri convergono nelle ultime righe del saggio, nell’immagine
delle navi come principale “serbatoio di immaginazione”: «La nave è l’e-

38
G. Simondon, L’individuazione psichica e collettiva, DeriveApprodi, Roma 2006.
39
Genericità che, nell’intervento sulle eterotopie del 1966 su France Culture, era
attenuata dal tentativo di mostrane le determinazioni concrete di luoghi precisi e reali,
localizzabili su una carta, con un tempo determinato, «che si può issare e misurare
secondo il calendario di tutti i giorni».
292 Federico Rahola

terotopia per eccellenza. Nelle civiltà senza navi, i sogni inaridiscono, lo


spionaggio sostituisce l’avventura e la polizia i corsari»40.
Si potrebbe associare questa immagine a quella duplice suggerita da
Deleuze e Guattari in Mille piani, per cui il mare è «lo spazio essenzialmen-
te liscio che si lascia striare», e le città sono invece «superici striate che
restituiscono spazi scandalosamente lisci». La nave, in altre parole, sembra
funzionare come spazio rovesciato, “dentro e contro” il mare: ne sfrutta il
moto e lo dirige altrove; così come Kobane sembra essere il contro-spazio,
scandalosamente liscio, che emerge da una supericie iperstriata: “sfrutta”
i conini e le deinizioni che producono per creare uno spazio ad essi con-
trario. E cosa se non le pratiche dei corsari e delle/dei militanti dello YPG
hanno contribuito a rendere entrambi dei contro-spazi? Al pari di Kobane,
le navi corsare restituiscono piuttosto eficacemente un esempio di “aree
in cui decidere come condursi”, territori di soggettivazione collettiva dei-
niti/costituiti attraverso una serie di pratiche che potrebbero chiamarsi an-
che controcondotte. Foucault, già lo si è accennato, offriva una particolare
deinizione della nave come contro-spazio o “eterotopia per eccellenza”,
e lo faceva a partire dalle pratiche ricorrendo all’idea di un “serbatoio di
immaginazione”. Credo che quest’immagine permetta di cogliere, quasi
di afferrare, il punto di contatto tra gli spazi altri, i contro-spazi elencati a
Tunisi nel 1967 e le pratiche altre o controcondotte passate in rassegna al
Collège de France nel 1978, alludendo a territori che si immaginano/de-
iniscono mentre li si abitano/costruiscono, mentre li si praticano41: as we
go along. Del resto, l’immaginazione è presumibilmente la principale facoltà
richiesta a chi improvvisa, a chi cioè produce collettivamente, procedendo
insieme, qualcosa di diverso, tempi e paesaggi sonori inesplorati.
Eterotopie, quindi, come contro-spazi di soggettivazione. E non si
tratta di un marchio di fabbrica esclusivo di Foucault. Lo stesso termine,
infatti, è stato utilizzato qualche anno dopo e con un’accezione sostanzial-
mente diversa anche da Henri Lefebvre, per indicare uno «spazio limina-
le», ai margini, “dentro e contro”, in cui produrre «qualcosa di diverso»42.
Ce lo ricorda David Harvey:

40
M. Foucault, Spazi altri, Mimesis, Milano 2001, p. 34.
41
Cfr. T. Ingold, Ecologia della cultura, Meltemi, Roma 2004; F. Rahola, Texture as a
Practice, in I. Buonacossa e J. Grima (a cura di), Cosmic Jive: Tomàs Saraceno, the Spider Session,
Genova 2014.
42
H. Lefebvre, La rivoluzione urbana, Armando, Roma 1973.
As we go along 293

Il concetto di eterotopia di Lefebvre delinea degli spazi di possibilità liminali


dove “qualcosa di diverso” non è solo possibile ma necessario per deinire delle
traiettorie rivoluzionarie. Quel “qualcosa di diverso” non nasce necessariamente
da un piano consapevole: più semplicemente da ciò che le persone fanno, sen-
tono, percepiscono e riescono ad articolare quando sono alla ricerca di un senso
nella loro vita quotidiana. Queste pratiche creano dappertutto spazi eterotopici.
Non occorre aspettare nessuna grande rivoluzione per creare simili spazi43.

La parola non avrà vita lunghissima (neppure) nel pensiero di Le-


febvre, ma si rideinirà e inirà per conluire (verosimilmente e carsica-
mente) nell’idea di «spazi di rappresentazione», in territori a un tempo
isici e immaginati da opporre alla rappresentazione uficiale e normata
degli spazi. Come per le eterotopie, si tratta di spazi quotidiani, segna-
ti ma aperti alla possibilità, al conlitto: «lo spazio dominato, dunque
subìto, che l’immaginazione tenta di modiicare e di occupare»44. Esiste
infatti uno spazio vissuto, prodotto da situazioni, che si innesta, dialoga
o conligge (che “abita o resiste”) con quello concepito/rappresentato
uficialmente, andando a conluire nell’insieme delle pratiche spaziali,
dello spazio per come lo percepiamo45. In altre parole, le pratiche spa-
ziali sono la somma di automatismi, di rappresentazioni oggettivate (e
assoggettanti) che costituiscono lo spazio concepito, e di spazi di rap-
presentazione (o di soggettivazione) che rilettono ed eccedono questa
geograia deinita e tracciata: che la ri-rappresentano, contestano e in-
vertono. Produrre collettivamente e materialmente questi contro-spazi
deinisce l’orizzonte quotidiano e la tensione costituente propria di una
serie di situazioni collocate ai margini o negli interstizi46, e che dai mar-
gini sovvertono l’idea di centro.
Cercavo un riferimento spazio-temporale per deinire la portata di
tali situazioni. E ho trovato qualcosa in quanto Georges Perec rubricava
come “infra-ordinario”: «non ciò che i discorsi uficiali deiniscono come
l’evento, il momento topico, ma ciò che gli sta dietro, l’impercettibile ru-

43
D. Harvey, Città ribelli, Il Saggiatore, Milano 2013, p. 17.
44
H. Lefebvre, La produzione dello spazio, cit., vol. I , p. 59.
45
Cfr. E. Soja, Thirdspace. Journeys to Los Angeles and Other Real-and-Imagined Places, Basil
Blackwell, Oxford 1996.
46
Cfr. A.M. Brighenti (a cura di), Urban Interstices. The Aesthetics and the Politics of the
In-between, Ashgate, London 2013.
294 Federico Rahola

more di fondo che diventa premessa e possibilità dell’evento stesso»47.


All’idea di controcondotte associo questo universo di pratiche situate e
“infraordinarie”, autonome e collettive: situazioni in cui si decide insieme
come condursi e si producono nuovi spazi da costruire, tempi da abitare,
soggetti da divenire, as we go along. E ancora non so se Foucault sarebbe
d’accordo.

Federico Rahola
Universita degli Studi di Genova
federico.rahola@unige.it

.
As we go along. Spaces, Times, and Subjects of the Counter-Conducts

This paper explores the ideas of time, space and subjectivity that are inscribed in
a series of contemporary collective practices of conducting oneself differently,
and in particular in the struggle of resistance that took place in Kobane. It shows
that these “infra-ordinary” practices are both autonomous (individualizing) and
plural (common) and suggests that we should consider them as “counter-con-
ducts”, i.e. as speciic situations in which we collectively choose how to conduct
ourselves and we produce as we go along new spaces to be constructed, new times
to be inhabited and new subjects to become.

Keywords: Counter-Conduct, Time, Space, Subject, Resistance, Infra-Ordinary,


Collective Practices.

47
G. Perec, L’infra-ordinaire, Seuil, Paris 1989, p. 7.
Michel Foucault e l’eredità della critica
Paolo B. Vernaglione

Essere critici

Per rintracciare la funzione della critica nel pensiero di Michel Foucault


bisogna tentarne la ricerca interrogando il presente. Ponendo al nostro
tempo la questione della sua ontologia, tentiamo di invertire il soggetto
che pone la domanda con l’oggetto che dovrebbe rispondere. Perché noi,
conitti come siamo in questo presente, non possiamo rispondere alle
sollecitazioni intorno all’esistenza, o ai punti di resistenza, o alle linee
di diserzione della critica, se non esercitando anzitutto la critica di noi
stessi. Ma per far ciò, dovremmo abitare un altro tempo, produrre una
impossibile distanza da ciò in cui siamo implicati. D’altra parte non ri-
usciamo nell’intento neanche mettendo il mondo tra parentesi, perché
l’epoché fenomenologica suppone un’intenzione soggettiva, cioè un atto e
un sapere che, nell’inversione di oggetto e soggetto, tipica del movimento
della critica, sfugge ad ogni determinazione di ciò che oggetto e soggetto
potrebbero essere.
Del resto, Foucault insiste più volte, riguardo alla mobilità in cui l’in-
sieme delle pratiche di soggettivazione è presa – soprattutto quando in
gioco è la dismissione di dispositivi di disciplinamento – sulla mobilità
delle deinizioni ontologiche, e sull’effetto di desoggettivazione che questa
dinamica produce, nel gioco tra i corpi, nei rapporti di potere, nelle rela-
zioni tra saperi e conoscenze1.
Chiedendo dunque alla quotidianità concreta piuttosto che a noi
stessi se esiste un posto della critica in questo presente evitiamo il dop-
pio rischio del soggettivismo e della tautologia, ma accettiamo un rischio
maggiore: di non poter intendere la risposta che nel caso ci perviene.
1
Giorgio Agamben ha di recente evidenziato questa dinamica, in riferimento al
sadomasochismo, che, per Foucault, «pur essendo un rapporto strategico […], è sempre
luido. Vi sono certo dei ruoli, ma ciascuno sa benissimo che essi possono essere
rovesciati. A volte, all’inizio del gioco, uno è il padrone e l’altro lo schiavo, ma, alla ine
colui che era schiavo diventa padrone» (G. Agamben, L’uso dei corpi, Neri Pozza, Vicenza
2014, p. 147).

materiali foucaultiani, a. IV, n. 7-8, gennaio-dicembre 2015, pp. 295-313.


296 Paolo B. Vernaglione

Quando infatti abbandoniamo la posizione del soggetto ci esponiamo ai


segni del mondo, che non giungono tradotti nel linguaggio verbale; d’altra
parte dal momento in cui il pensiero, in quest’ultima modernità, ha riiu-
tato di pensare il mondo come oggetto, è stato investito da un’esteriorità
irriducibile alla percezione quotidiana.
La risposta, se ci sarà, dovrà dunque essere avvertita nella percezione
che questi giorni offrono delle continuità con, e delle contraddizioni ri-
spetto ai discorsi che si fanno, ai rapporti di potere che si danno e alle for-
me di soggettività in cui abitano questi discorsi e questi rapporti. Dunque,
la domanda sulla realtà della critica non può attendere una risposta che
sia espressa solo nel linguaggio verbale, nella scrittura o nell’enunciazione
teorica, ma forse più in quella dimensione non discorsiva della sensibilità,
nella percezione della “tonalità emotiva” inerente a quest’epoca, o, se vo-
gliamo, al livello delle sintesi passive, laddove l’aria che si respira, gli odori
che si annusano, le sensazioni provate segnalano distintamente lo “spirito
del tempo” ma trovano a fatica traduzione in parole.
Con la domanda sulla critica infatti siamo al di là della semplice
espressione di come il mondo è; supponiamo l’uso della ragione e di un
linguaggio articolato, in cui l’analisi del mondo diviene rilessione, una
volta operato un distacco, recepita una rottura, avvertita una crisi. Ma se
pretendiamo di ottenere dalla realtà ciò che sappiamo sulle epoche di crisi,
tutto ciò che l’epoca moderna ha prodotto come critica, tutto ciò che la
storia ha trascinato in qui del senso della critica – proprio perché attendia-
mo risposta dalla prassi –, la realtà non ci fornisce un annuncio attendibile.
L’inversione dei termini nella questione della critica, per cui oggi la
risposta spetta più al mondo e meno all’essere umano, almeno da quando
Nietzsche ha operato quest’inversione dei valori nella ricerca genealogica,
ci conduce nel campo di indagine battuto da Foucault, cioè in quella zona
franca del sapere in cui uomo e mondo si indifferenziano, l’uno trovandosi
al limite delle possibilità del pensiero verbale, l’altro distogliendosi dall’o-
pacità cosale che lo manifesta nell’espressione di ciò che l’essere umano
può percepire solo nei toni e nel ritornello del presente.
Alla luce di tale premessa la domanda rivolta al presente assume la for-
ma non retorica sulla critica. Cioè: esiste ancora la critica nel nostro tempo,
sia nel senso di una critica del presente che di una critica nel presente? E
a quali condizioni si può oggi formulare un campo della critica che non
riduca l’oggetto su cui essa si esercita alle categorie con cui, almeno dal di-
Michel Foucault e l’eredità della critica 297

ciottesimo secolo, è stata praticata? E, d’altra parte, a quali condizioni oggi


può prodursi un sapere critico che non metta a rischio la pratica critica
considerandola superata, anacronistica o inadeguata? Insomma quale posi-
zione il fare critico può ricavarsi tra la tradizione e la virtualità, in modo da
non essere schiacciato tra le opposte polarità dell’abitudine impressa dalla
tradizione e di un esercizio che non contesta il tempo attuale?
Così posta la questione si presenta come questione dell’eredità della
critica, tanto più se riconosciamo che l’epoca moderna, come Foucault
dichiara nella conferenza del 1978 Qu’est-ce que la critique?, è contrassegnata
dal fare critico, cioè da un certo proilo individuale e collettivo in cui si
fanno consistere i rapporti del soggetto con il mondo2.
Ora, come Foucault dimostra, esiste una continuità storica della criti-
ca, dalle contestazioni della pastorale cristiana in Wycliff e nel basso me-
dioevo, alla Riforma protestante, all’Illuminismo e, nel diciannovesimo
secolo, alla “sinistra” hegeliana. I grandi episodi storici, religiosi e iloso-
ici di sovvertimento, di deviazione, di eresia, vivono in una consistenza
che attraversa il tempo e ci porta a pensare il loro senso come materia di
un’eredità possibile, cioè di un patrimonio che si trova in un certo rappor-
to con eventuali eredi; un patrimonio che è più o meno formalizzato in
regole e vincoli di enunciazione e che è in qualche modo legittimato dai
conlitti sociali, dalle rivolte, dalle rivoluzioni – ma anche dalle guerre, dalle
stragi, dai genocidi.
Dobbiamo però dire subito che per “eredità” Foucault non intese
un lascito costituto dall’accumulo di conoscenze e credenze e inserito in
una tradizione, ma, al contrario, l’insieme degli elementi di dispersione,
gli strati di saperi eterogenei che risultano come emergenze in un tempo
determinato e possono essere restituiti alla conoscenza solo a determinate
condizioni. Questo signiicato della prassi critica, conigura il pensiero in
ciò che ha di storico.
Come Foucault scrive di se stesso (in terza persona) nell’“autoritratto”
per il Dictionnaire des philosophes del 1984:

la sua opera potrebbe essere deinita come Storia critica del pensiero. Con que-
sta deinizione non si deve intendere una storia delle idee che sarebbe, nello
stesso tempo, un’analisi degli errori che possono essere rilevati a posteriori; o
neanche un deciframento dei misconoscimenti a cui sono legati e da cui potreb-

2
Cfr. M. Foucault, Illuminismo e critica, Donzelli, Roma 1997.
298 Paolo B. Vernaglione

be dipendere quello che pensiamo oggi. Se, con pensiero, intendiamo l’atto che
pone un soggetto e un oggetto nelle loro diverse possibili relazioni, allora una
storia critica del pensiero sarebbe un’analisi delle condizioni in cui si formano o
vengono modiicate certe relazioni tra il soggetto e l’oggetto, nella misura in cui
queste ultime sono costitutive di un sapere possibile3.

Ora, il fatto che, tramite l’opera di Foucault possiamo in qualche


modo ricostruire una storia della critica, con tutte le cautele riguardo alla
genericità di un concetto che trova applicazione in tutti i campi del sapere,
indica che é esistito e forse esiste ancora, un patrimonio da ereditare, un
lascito da rivendicare, una posta da pretendere, alla ine della partita, una
volta che i giocatori hanno abbandonato il tavolo. Inoltre, il fatto che in
questa modernità ci riconosciamo come esponenti di una razionalità che
ha una storia, ma siamo anche eredi a nostra volta di un fare critico in una
storia di dominio e di resistenza al dominio, a certe forme di governo di sé
e degli altri; e ci riconosciamo in una vicenda di conlitto, per la costituzio-
ne di alternative al dominio della ragione capitalista; in ragione di questo
riconoscimento, cioè che esiste una misura della razionalità con cui sono
stati conosciuti i rapporti tra poteri, saperi e soggetti – possiamo dire che
la questione della critica come eredità è una questione insieme genera-
zionale, archeologica e strategica. Cioè una questione di scelta dei regimi
discorsivi inerenti al modo in cui la critica potrebbe operare come teoria,
come arma di conlitto e come prassi di soggettivazione.
Dunque genealogia, archeologia, strategia.
E se siamo d’accordo che al presente la critica non può che conigu-
rarsi come quel proilo d’opera e di pensiero già da sempre vigente nel
passato e recuperabile a determinate condizioni, se ammettiamo questo,
potremmo cogliere il senso forse più radicale della critica: l’essere “per
natura” critici.
Come Foucault ribadisce in più occasioni, al di qua e al di là del pensie-
ro critico, la critica è una pratica inerente a, o che esprime un atteggiamento,
in cui il soggetto nasce e vive critico. Diciamo allora che non c’è pensiero
o opera se, al fondo della produzione di pensiero e di opere non esiste un
istinto critico. Ma questo senso, attribuito “per natura” al proilo critico,
l’essere “naturalmente” critici, l’esercitare per istinto, o per nascita, o per

3
M. Foucault, Archivio Foucault 3, 1978-1985. Estetica dell’esistenza, etica, politica, a cura
di A. Pandoli, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 248 e ss.
Michel Foucault e l’eredità della critica 299

destino o carattere la critica, è molto generico e molto contraddittorio ri-


spetto alla storicità della prassi umana. Rischia dunque di essere equivocato,
perché potrebbe essere interpretato come la deinizione di una qualità o di
un carattere innato (l’esser nati critici e quindi avere un destino da critico),
mentre già Walter Benjamin, critico d’eccezione e in più campi del sapere,
aveva dimostrato che, a differenza dell’antichità, in cui erano considerati in
senso mitico e religioso, bisogna intendere i termini di destino e di carattere
individuale come proili e funzioni normative della soggettività.
D’altra parte, l’attribuzione all’essere critici di una specie di generatività
spontanea non è completamente errata perché ci permette di apprezzare,
per dirla con Foucault, la distanza tra l’antichità e l’epoca classica, e tra
questa e la modernità; distanza per il diverso modo di considerare il destino
personale, la vocazione e l’insieme delle preferenze personali, nonché il
campo di ricerca che si pratica o il settore lavorativo che si vorrebbe intra-
prendere.
Questo per dire che in effetti in un certo modo di dirigerci, in un certo
comportamento, che non è del tutto assimilabile all’educazione, all’ambien-
te, ai rapporti sociali o di produzione, o alle tecnologie; in un particolare
modo di affrontare il mondo opponendosi al senso comune, contestando
il pensiero corrente, pensando e operando controcorrente per sfaldare i
rapporti di potere, le costrizioni e i vincoli di uno Stato, di una cultura, di
una verità assoluta; in questa pratica più o meno ingenua, più o meno pura,
riscontriamo l’indelebile segnatura dell’essere critici.
Tuttavia, non diremmo che esiste una zona nascosta, sottratta al senso
e alla ragione e determinata in via esclusiva dalla genetica o dalla isiologia,
cioè che esiste un’eredità biologica inconoscibile che, messa direttamente
all’opera, a prescindere dall’esercizio critico, dall’azione critica, dai rapporti
di sapere e di potere in cui il soggetto si trova implicato, nonché dalla bio-
graia individuale, produce il critico come tipo umano speciico e particola-
re; il tipo dotato del genio della critica, come invece si pensava intorno alla
metà del diciannovesimo secolo in Francia e in Germania.
Siamo oggi propensi a dire, misurando la distanza tra certe pratiche
inerenti il “sé”, l’insieme di “tecnologie del sé” che Foucault ha indagato
nell’antichità greca e latina e nel cristianesimo, e le possibilità aperte nella
modernità da un’ermeneutica del soggetto, che non esiste comportamento
critico al di fuori di una costellazione storica, di un tirocinio sociale, di un
campo di esperienza che comprende anzitutto le sconitte, e in primo luogo
le sconitte storiche di soggetti collettivi.
300 Paolo B. Vernaglione

Ma possiamo affermare questo, cioè che il rischio della critica è l’es-


sere sconitti, perché questa esperienza è anzitutto un fatto individuale
ed è costituita dagli eventi di cui è intessuta la storia personale. La critica
insomma è anzitutto ciò che racconta una biograia, quando decifra il rap-
porto del soggetto al mondo, alla realtà, al tempo in cui vive, agli spazi che
abita e ha abitato; ma è anche l’espressione franca dei compromessi che
ha accettato, delle incoerenze in cui è caduto, delle contraddizioni tra atti
di resistenza e desideri. Possiamo allora dire che la critica, la pratica della
critica è il rapporto del soggetto con la storia, è il luogo in cui il soggetto,
legandosi alla verità si vincola alla storia. In questo senso la pratica critica
ci distoglie da “noi stessi”, disloca la storia personale nel campo aperto
della storia e ci fa riconoscere soggetti nella storia solo a patto di esaurire
la storia del soggetto.
Non esiste quindi rivoluzione senza critica; ma la critica esiste nel
fallimento delle rivoluzioni, nella débacle dei progetti di rivolta, nella
sovversione di un ordine post-rivoluzionario, che viene registrato ed ela-
borato individualmente. In prima istanza la critica non è l’autocritica di
un collettivo, un partito, un’organizzazione politica. L’autocritica infatti
è un’altra cosa, ha a che vedere con un altro tempo, un’altra prassi di sog-
gettivazione in cui vige la condivisione delle sconitte, l’obbligo a render
conto di qualcosa anche quando manca l’accordo, o laddove si percepi-
sce la lontananza da una verità del fallimento; quando è promossa una
narrazione che dissolve d’imperio il tempo e l’interpretazione soggettiva
della sconitta, non lasciando a quel tempo di commisurare le ragioni
enunciate con quelle percepite e non sapute, o non comunicabili, e per
questo più cogenti.
Si potrebbe allora dire che l’essere critico, la modalità esistenziale
della critica, emerge e può essere praticata a causa di una rottura tra la
soggettività e un potere istituito, o che ha guadagnato posizioni, o che
si è consolidato. Il momento della critica non è mai l’atto assoluto nell’i-
stante in cui esplode, bensì l’effetto di misura della distanza tra se stessi
e ciò che si è contribuito a rovesciare; tra ciò che si era prima della rivo-
luzione e ciò che si è adesso. Le domande della critica sono: Con quali
nuovi poteri ho a che fare? Quali relazioni discorsive posso intrattenere?
A quale tipo di attività sono costretto? Quali interessi posso coltivare?
Detto con Foucault: A quali giochi di verità posso partecipare, o quali
posso intraprendere e da quali sono preso?
Michel Foucault e l’eredità della critica 301

Certo è solo attraverso l’esercizio che la critica si costituisce come tale,


e non esiste una natura critica dell’umano che ontologicamente o alla stre-
gua di un trascendentale precede la prassi critica. E però, sempre con Fou-
cault, le condizioni in cui può darsi esercizio critico, consistono nell’essere
costituiti come critici, nell’avere un proilo ad esclusione di altri proili,
prima di ogni atto e di ogni impresa. È quanto Foucault constata, quando
nell’età classica viene messa in discussione la lettura dogmatica delle Scrit-
ture; oppure agli inizi della modernità quando evaporano le superstizioni
che non consentivano secondo Kant la fuoriuscita dell’uomo dallo “stato
di minorità”.
Assumere dunque un certo atteggiamento, essere in una certa posizio-
ne nei confronti delle continuità storiche, dei rapporti di potere esistenti,
delle forme in cui si produce la soggettività, in questo consiste l’essere cri-
tici, ed è ciò che permette e disloca la critica come esercizio. Si tratta, come
si vede, di un atteggiamento etico, di una prassi etica, di qualcosa che ha a
che fare con l’intrinseca costituzione dell’organico, nella cui differenza di
modi riconosciamo la distanza tra l’epoca classica e la modernità, la distan-
za tra se stessi e la realtà esistente: in una parola, nell’essere critici troviamo
l’inattuale che Nietzsche attribuiva a se stesso e ai “ilosoi dell’avvenire”.
Bisogna in secondo luogo operare un’altra distinzione, utile per far
emergere un campo della critica: quello tra invarianza biologica e variazio-
ne storica, che Paolo Virno ha messo in luce e ha chiarito in tutto il valore
epistemico che tale distinzione acquisisce4. L’effetto di distacco dal mondo
del soggetto che sarà critico di se stesso e del mondo, non è l’emergenza
di un individuo biologico “tornato allo stato di natura”. La critica come
prassi naturale, come carattere specie-speciico dell’animale umano, che
determina, alle spalle dell’impresa critica, l’opera critica, consiste piuttosto
in una posizione singolare in rapporto alla conoscenza, alla verità e alla
prassi come fatti naturali.
In questo senso l’essere critici come fatto etico è una consapevole natu-
ralizzazione, a partire da cui, nelle continuità storiche in cui si annunciano le
rotture della modernità, si è costituita una tradizione e in cui possono costi-
tuirsi certe forme storiche come effetti della critica. La Riforma protestante
e le lotte contadine, l’Illuminismo e la Rivoluzione francese, il socialismo e le

4
Cfr. P. Virno, Quando il verbo si fa carne. Linguaggio e natura umana, Bollati Boringhieri,
Torino 2003; Id., E così via, all’ininito. Logica e antropologia, Bollati Boringhieri, Torino 2010;
Id., Saggio sulla negazione. Per un’antropologia linguistica, Bollati Boringhieri, Torino 2013.
302 Paolo B. Vernaglione

rivoluzioni del 1848, il comunismo e la Comune di Parigi, la Repubblica dei


Consigli in Germania, la rivoluzione del 1917 in Russia, la rivoluzione ope-
raia e studentesca del ’68-’69 in Europa; l’operaismo e il movimento del ’77,
il femminismo e le pratiche rivoluzionarie di soggettivazione di “genere”,
rompendo la cultura, annullando le distinzioni tra natura e artiicio, realtà e
inzione e sovvertendo la prassi hanno costituito forme di vita, prima che
ordinamenti e organizzazioni di potere. Ciò in ragione del fatto che l’abito
critico si confeziona nel campo di tensione di libertà e necessità, passività
del pensiero e azione razionale, contingenza dell’evento e permanenza del
discontinuo. Per questo motivo il luogo della critica, potremmo dire il reale
della critica, è il luogo archeologico di un sapere generale, di una ilosoia, da
cui possono provenire così la teoria critica e l’interpretazione delle scienze,
come la contestazione dei dispositivi di potere.
Inoltre osserviamo che se l’essere critici è una certa posizione del sog-
getto in rapporto alla verità, il concetto di critica nell’età moderna è inscritto
in un sapere antropologico la cui parabola inizia con l’Antropologia pragmatica
di Kant e si conclude alla ine del diciannovesimo secolo con lo sviluppo
delle scienze umane. Proprio perché la critica inerisce all’eredità di un sapere
sull’uomo prima che all’impresa di cui testimonia; e proprio perché è dislo-
cata, storicamente, nel campo di tensione tra sapere e non sapere, possibilità
e divenire, sintesi passive e uso della ragione; per questo motivo l’uso della
critica segna il limite della possibilità di conoscere. Inoltre questa soglia è
generata, nella mobile contingenza dei rapporti tra saperi, poteri e soggetti,
da una fonte che è replica dell’esercizio critico nel campo del sapere sulla
natura umana; inine, l’essere critico per esistere ha bisogno di un ambito, che
non è la conoscenza astratta più o meno formalizzata delle scienze e delle
discipline, bensì il luogo di una volontà di sapere in cui troviamo pulsioni e
volontà di verità, istinti e comprensione, tracce di ininito in possibilità inite
e numerabili. Fonte, ambito, limite sono le condizioni di possibilità della cri-
tica come sapere sull’uomo che Foucault rinviene nell’Introduzione al testo
kantiano,5 rievocate sinteticamente nella conferenza del 1978.
In questa soglia di epistemologizzazione riconosciamo a nostra volta
l’effetto di una pratica archeologica. Come infatti abbiamo appreso da Le
parole e le cose, il nesso che stringe critica e antropologia deve essere a sua
volta criticato. Il diciannovesimo secolo che lo ha instaurato si incarica di

5
Cfr. M. Foucault, Introduzione all’«Antropologia» di Kant, in I. Kant, Antropologia dal
punto di vista pragmatico, Einaudi, Torino 2010, pp. 9-94.
Michel Foucault e l’eredità della critica 303

spezzarlo. Infatti, nel momento in cui la rilessione del sapere sull’uomo


inizia ad avere come oggetto la natura umana, le griglie di interpretazio-
ne in vigore nella modernità si sfaldano a favore delle scienze umane
e sociali, culminando negli anni venti del Novecento nell’antropologia
ilosoica, oggi in via di rivisitazione per motivi connessi alla storia del
dominio che essa ha bordeggiato, e in alcuni episodi prodotto e fomen-
tato. Nella contestazione dei valori a partire dalla volontà di potenza
nella seconda Considerazione inattuale6, Nietzsche critica l’umanesimo che,
nella ricerca di un senso dell’essere, ha la pretesa di ricentrare l’uomo nel
tempo del suo massimo decentramento, nell’epoca del tramonto dell’u-
mano. Nietzsche delinea dunque quel progetto critico, ancor oggi mino-
ritario, di cui Foucault riprende la tematica. Questo progetto, espresso in
Nietzsche, la genealogia, la storia7, costituisce il rovescio di qualsiasi eredità
che venga considerata come il lascito di un sapere accumulato, omoge-
neo e organizzato, da conseguire per le future generazioni.

Critica, storia, teoria

A differenza della storia monumentale e antiquaria, nella storia cri-


tica troviamo il campo in cui Benjamin riconoscerà il proilo del mate-
rialista storico8. Si tratta infatti di contestare alla storia lineare dei grandi
eventi (monumentale) e delle identità (antiquaria), la verità del suo corso
da cui è espunta la storia quotidiana e miserabile delle plebi, di cui a
fatica, oggi come ieri, ricostruiamo l’archivio. E si tratta di indirizzare
la ricerca passando la storia a contropelo e risalendone il corso non per
veriicarne le continuità ma per promuovere l’evento, per riconoscere lo
svolgersi effettivo dei conlitti. Questo gesto in cui lo storico si lega alla
storia non come ad un’oggettività data alla rilessione, ma nella moltepli-
cità di rapporti in cui gli eventi si offrono come differenze, questo gesto
instaura un’altra serie di relazioni, tra lo storico e la storia e tra la storia
critica e la prassi.

6
F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Adelphi, Milano 1999.
7
Cfr. M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia (1971), in Microisica del potere,
Einaudi, Torino 1977.
8
W. Benjamin, Tesi di ilosoia della storia, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di
R. Solmi, Einaudi, Torino 1976, pp. 72-83.
304 Paolo B. Vernaglione

Anzitutto la posizione dello storico muta rispetto alla storia: il suo


posto non sarà più quello assegnatogli da una distanza, in cui si realizza
l’obbiettività a posteriori che ha nome di “falsa coscienza” ma, come Fou-
cault scrive ne L’archeologia del sapere, e come ricorderà Deleuze nel saggio
su Nietzsche9, lo storico vive dal basso di un’altezza, posizione vera e pa-
radossale dalla quale apprezza i conlitti reali, i movimenti di popolazioni,
le rotture e le dispersioni. In secondo luogo il soggetto della storia non
preesiste all’evento ma si realizza nella disorganizzazione del suo apparire.
Inine, il gesto critico investe la storia critica che ha promosso, ove si tratta
di sottrarre l’interpretazione degli eventi agli “uomini del risentimento”,
alla classe conlittuale, per restituirle il soggetto di una genealogia.
Nei tre ambiti d’esercizio degli storici registriamo il limite e la disdetta
di tre concezioni della storia che hanno fatto scuola tra la ine del di-
ciannovesimo e la ine del ventesimo secolo e che il metodo storico degli
Annales ha rimesso radicalmente in discussione: il positivismo della scuola
storica di Sombart, lo storicismo della Seconda Internazionale, il materia-
lismo dialettico.
Mentre infatti la storia di Sombart pronuncia l’universale nella cro-
nologia dei grandi eventi, isolando i fatti dalla trama delle circostanze, le
attualizzazioni compiute, come scrisse Benjamin, nel “bordello dello sto-
ricismo” dispiegano la storia nello sviluppo lineare in cui gli oppressori
non smettono mai di vincere; mentre il materialismo dialettico in nome
della necessità causale, rinuncia all’evento, censurandolo nella trama della
struttura economica da cui è determinato in maniera unilaterale.
La dificoltà dei conlitti nel divenire eredità e l’inoperosità di quel
modello di storia critica, sembrano dunque risultare da una certa conce-
zione del soggetto storico che anima al fondo la teoria critica che, mentre
coglie al livello dell’archivio le rotture e le discontinuità storiche e ne rileva
l’importanza nella costruzione di controcondotte, genera una sistematica,
una specie di ortodossia, da cui le generazioni attuali si allontanano e che
impedisce che si prenda possesso di una possibile eredità critica. Infatti
l’eredità è un fatto di vicinanza, che potrebbe divenire acquisizione e con-
siste nel fatto, simbolico e reale, che rimette in discussione le genealogie,
che disloca le iliazioni, e che tramuta l’arché nella replica dell’origine; trat-
tandosi insomma di un evento di dispersione in rapporto a forme di vita
nate nella differenza, è all’interno di questa differenza che bisogna cercare
9
G. Deleuze, Nietzsche e la ilosoia e altri testi, Einaudi, Torino 2002.
Michel Foucault e l’eredità della critica 305

le ragioni della non-corrispondenza tra la teoria critica “storica”, cioè la


storia della teoria critica e il suo possibile uso al presente. Il tempo pre-
sente, che tralascia la critica per l’immediatezza di un atto che si pretende
puro, apre un campo di problematizzazione, che nasce dalla differenza tra
la tradizione della teoria critica, istituita da Weber e che arriva ad Adorno
e a Marcuse, ed un antagonismo che possiamo chiamare non critico, ma
che sembra essere l’effetto della stessa teoria critica che interpreta il riiu-
to come sintomo di omologazione alla “società dei consumi”, invece che
come salutare testimonianza dell’esodo dallo Stato, dal lavoro subordinato
e dalle identità collettive. Sicché possiamo dire che a divenire problematici
non sono gli atti di contestazione ma la prassi politica, la “formazione”
delle anime e la produzione di soggettività nelle forme in cui tali dispositivi
si costituiscono.
Certo, genericamente siamo pronti ad asserire che, a differenza degli
anni sessanta, l’insieme dei rapporti sociali è profondamente cambiato,
e attribuiamo ad un mutamento antropologico la causa più diretta delle
differenze tra generazioni. Ma rimane comunque il fatto della distanza tra
il pensiero critico e le forme attuali di soggettivazione, distanza che non è
riducibile né alle sole ragioni dello sviluppo tecnico della razionalità occi-
dentale, né solo allo sviluppo delle forze produttive, né soltanto al muta-
mento delle forme di governo alla ine dello scorso secolo.
Diremmo che in capo a questi rapporti è ancora la questione della
soggettività che può metterci sulle tracce sia della scomparsa della teoria
critica, sia della differenza tra le pratiche dei movimenti degli anni settanta
del Novecento e le odierne forme di protesta, come delle possibilità di co-
stituire la critica come un’eredità liberamente adoperata. Ciò che insomma
cerchiamo di chiarire è che al presente non in una sola delle componenti
degli attuali rapporti sociali (componente delle tecnologie, componente
dell’economia capitalista, componente della governamentalità), ma nell’in-
sieme di esse si misura la differenza tra le attuali pratiche di resistenza e
la sperimentazione critica degli anni sessanta. E che d’altra parte le forme
di vita attuali ci restituiscono aspetti parziali della crisi della critica come
esercizio del pensiero. L’inchiesta sulle pratiche di soggettivazione non
potrà darci un quadro attendibile delle dinamiche effettive che osservia-
mo. E sappiamo, per la storia trascorsa dagli anni sessanta, che quanto più
cerchiamo uno schema che ci consenta di inscrivere al suo interno le for-
me di conlitto o le pratiche di riiuto e di contestazione, tanto più queste
pratiche sfuggono e si sottraggono deliberatamente alla storicizzazione.
306 Paolo B. Vernaglione

Ciò accade forse perché ciò che si progettava negli scorsi anni set-
tanta, e che alla luce di un progetto si pensava, si discuteva e si realizzava,
si traduce nell’immediatezza di un gesto assoluto, senza che un’identità
metta capo ad una forma di vita o ad un soggetto. Gli effetti di questa
mutazione, che è insieme antropologica, psichica e governamentale, cioè
che riguarda il mutamento dei rapporti tra saperi, poteri e soggetti, sono
al cuore della differenza tra le forme di resistenza e di soggettivazione del
ventesimo secolo e quelle con cui è iniziato il ventunesimo secolo. Questa
differenza però non nasce solo in ragione della distanza dagli scorsi anni
settanta, né dall’aver immaginato in questi anni una classe che non c’è,
come nella vulgata reazionaria che riesuma la “centralità” del lavoro, bensì
dal non poter rinunciare al soggetto, laddove, oggi più di ieri, è urgente,
con Nietzsche e con Foucault, «rischiare la distruzione del soggetto della
coscienza nella volontà, indeinitamente dispiegata, di sapere»10. Laddove
infatti la realtà si struttura e si destruttura in molteplici pratiche di desog-
gettivazione, mantenere al centro dell’analisi del capitalismo la tendenza
alla costituzione di un soggetto, o di una soggettivazione di classe che non
consente più una dinamica di organizzazione, risulta contraddittorio in
ordine alle reali composizioni sociali, come alla loro evanescenza.
La proposta di un soggetto dei conlitti, benché disposta nell’auto-
nomia e nell’indipendenza da apparati di Stato, di mercato e della socie-
tà civile, che è oggi il vero soggetto di governo, non fa che riprodurre
un proilo identitario in luogo dei molti proili già organizzati altrove:
nelle fabbriche del sapere, nelle attività di comunicazione, nel dominio
sul lavoro e sulla cura, se è vero, come ha scritto l’economista Christian
Marazzi, che il dispositivo biopolitico è una macchina antropogenetica di
regolazione dei corpi11.
Perché quel rapporto è un indice rilevante della distanza tra un’analiti-
ca del presente, invocata come compito da Foucault, e la realtà dei conlitti,
a partire da un passaggio di generazione che non riconosce una genealogia
tradizionale; che non sente di appartenere alla storia del movimento ope-
raio, né alla vicenda dei gruppi anarchici; né proviene dalla storia delle lotte
per i diritti civili, o da quella del sindacalismo statunitense più di quanto
percepisca la iliazione con il mutualismo del primo Novecento.

10
M. Foucault, Archivio Foucault 1, 1961-1970. Follia e discorso, a cura di J. Revel,
Feltrinelli, Milano 2014.
11
Cfr. C. Marazzi, Il comunismo del capitale. Finanziarizzazione, biopolitiche del lavoro e crisi
globale, Ombre corte, Verona 2010.
Michel Foucault e l’eredità della critica 307

Si tratta infatti di un’altra storia e di tutt’altro sapere; o meglio, all’in-


terno di quest’altra storia, di un altro modello di storia: la decolonizza-
zione, le black panters, le rivolte antisindacali, studentesche, femministe e i
circoli del proletariato giovanile – solo per fare alcuni esempi di una gene-
alogia incompleta. Dentro questa storia si sono sviluppati la critica post-
coloniale, un pensiero dell’esodo dalla società del lavoro, le gender theories e
le teorie queer, in cui sono rievocati e riarticolati i concetti di biopolitica e
di soggettività.
Nel quinto capitolo de La volontà di sapere, Foucault adotta il concetto,
o meglio la segnatura del “potere sulla vita” per indicare quella speciica
relazione tra poteri, saperi e soggetti in cui «il diritto di vita e di morte è
nei fatti il diritto di far morire e di lasciar vivere»12.
A partire dal diciannovesimo secolo, ma in realtà in una lenta evo-
luzione dall’età classica, questo potere di morte «si presenta ora come il
complemento di un potere che si esercita positivamente sulla vita, che
incomincia a gestirla, a potenziarla, a moltiplicarla, ad esercitare su di essa
controlli precisi e regolazioni d’insieme». Questa trasformazione ha dise-
gnato nuovi conini tra norma ed eccezione, legge e regola, inclusione ed
esclusione, basata sul sangue, sulla razza, sul comportamento, determi-
nando una soglia di normalizzazione incentrata sull’essere per gli altri un
pericolo biologico. Così, «al vecchio diritto di far morire o di lasciar vivere
si è sostituito un potere di far vivere o di respingere nella morte»13.
Il potere sulla vita, dal diciassettesimo secolo, si esercita in due forme:
sul corpo in quanto macchina con una tecnologia disciplinare, costituendo
un’anatomo-politica del corpo umano; e, verso la metà del diciottesimo
secolo, sul corpo-specie, inscrivendo in un nuovo regime di governo la
nascita e la mortalità, la salute e la durata della vita, in una biopolitica
della popolazione. L’era del bio-potere inaugura un’ideologia dell’ordine so-
ciale che mette capo ad un dispositivo di sessualità come tecnica di pote-
re: «L’investimento del corpo vivente, la sua valorizzazione e la gestione
distributiva delle sue forze sono stati in quel momento indispensabili»14.
Con l’ingresso della vita nella storia «la realtà biologica si rilette in quella
politica». Bio-storia e biopolitica sono «quel che fa entrare la vita ed i suoi
meccanismi nel campo dei calcoli espliciti e fa del potere-sapere un agente

12
M. Foucault, La volontà di sapere. Storia della sessualità 1, Feltrinelli, Milano 20018, p. 120.
13
Ivi, p. 121.
14
Ivi, p. 125.
308 Paolo B. Vernaglione

di trasformazione della vita umana; questo non signiica che la vita sia stata
integrata in modo esaustivo a delle tecniche che la dominano e la gestisco-
no; essa sfugge loro senza posa»15.
Dunque il regime biopolitico che le società neoliberali hanno prodot-
to e rafinato, a differenza del potere sovrano, non si esercita in un con-
trollo totalizzante sulla soggettività, bensì nelle discontinuità operate nel e
dal soggetto, all’interno di questo regime, nel tentativo di prelievo sulla vita
che “sfugge senza posa” a quelle tecnologie di cattura. E sfugge proprio
perché la vita è assunta come oggetto e posta in gioco del governo.
Da una parte infatti norme, regole, discipline e tecnologie di controllo
hanno la funzione di governare la vita integralmente, di non lasciare alcuna
piega, alcuna percezione, alcun affetto, alcuno strato di soggettività alla
nuda vita in cui il bios incontra la zoé. Ma, d’altra parte, la vita fugge via in
quanto luogo di affezioni e percezioni, sostrato dell’organico e luogo delle
mutazioni. E questo insieme di istinti e qualità, impressioni ed espressioni
che si cerca di catturare e governare, costituiscono una volontà di sapere e
una possibilità del soggetto che, nell’esteriorità dell’esistenza, può sottrarsi
all’insieme dei dispositivi in cui si produce la sua libertà. Questa volontà
“affettiva” in senso lato, può essere assimilata a qualcosa come una libertà
anteriore a qualsiasi esercizio di potere. Come più volte Foucault ha affer-
mato, laddove si esercita, un potere di assoggettamento incontra una forza
contraria, una volontà di diaspora, di dispersione, di riiuto.
Ora, ciò che è importante, e che non fa ricadere tale costituzione delle
forze nella dialettica di assoggettamento e soggettivazione, è che al presen-
te assoggettamento e soggettivazione, non si muovono su piani simmetrici
e non si conigurano secondo un modello proiettivo per cui ogni assog-
gettamento produce un soggetto come sua rappresentazione. E i rapporti
di forza non si organizzano in un simbolismo che ne compone le igure e
le direzioni, ma producono conlitti nella dispersione, nella disparità, nella
differenza di potenziale che si genera nella contingenza, nell’occasione di
scontro, nell’alea del gioco.
Dunque la realtà non coincide con la possibilità, che si crea piuttosto
nelle soglie di irrealizzazione, nelle zone di dispersione, nelle vie di fuga
da quel reale che produce sia i dispositivi che i soggetti, che organizza i
dispositivi come soggetti e dispone le prassi di soggettivazione. C’è sem-
pre squilibrio tra la realtà del potere sulla vita e le possibilità autonome di
15
Ivi, p. 126.
Michel Foucault e l’eredità della critica 309

costituzione. Non c’è automatismo nell’autonomia. Non c’è produzione


di soggettività che sia commisurata all’esercizio effettivo di un potere; ci
sono invece chances di liberazione negli strati dissestati di quei poteri, nelle
forme periferiche, negli interstizi cavi in cui di continuo e per necessità il
potere deve trasformare sovranità in governo dei viventi, leggi in norme,
discipline in controllo.
Nel regime biopolitico non c’è da una parte un potere totalizzante che
esercita controllo e costrizione e dall’altra parte il riiuto integrale del sog-
getto che vi si oppone, che sia un individuo, un gruppo sociale, una classe
o una popolazione. Ogni raggruppamento, ogni singolarità, ogni forma di
vita diviene soggetto disperdendo identità, creando sparizioni, fessurando
controllo e normazione.
Cogliere queste dinamiche che per lo più sono inconsapevoli, non
sapute o non tematizzate, può essere utile per cercare di farsi governare il
meno possibile.
Ma dissolversi come soggetto non vuol dire annullarsi, bensì divenire
altro, a prescindere dalla volontà di accelerare o meno questo divenire. Ciò
signiica che ogni tentativo di organizzare, di pensare, di regolare un’ap-
partenenza, di riconoscersi come gruppo falliscono perché si ripiegano
nell’identità e sono riconosciuti dalle forze cui intendono resistere. È la
logica della guerra, che Foucault esamina nel corso “Bisogna difendere la socie-
tà”; è la dialettica del conlitto, la contraddizione tra capitale e lavoro, che
nel presente le forze produttive abbandonano all’esodo e alla diserzione.
Voler recuperare quella dialettica, anche se ciò è avvenuto nella logica del
conlitto diffuso, mette fuori gioco le resistenze e le contestazioni, emar-
gina la reazione al disagio, laddove sarebbe necessario rendere inoperoso
il lavoro, disattivare la legge, disarticolare la norma. Cioè considerare la
soggettività (ad esempio il precariato), non come un tutto, ma come un
resto, nel senso che Agamben attribuisce al primato d’elezione che deriva
da una klésis, una vocazione16. Perché solo come resto, come singolarità
particolare, non come parte di un tutto sociale, nella deriva del riconosci-
mento, la legge risulta disapplicata, il diritto è sospeso, la norma inoperosa.
Poiché infatti la presa sulla vita si attua sui corpi e sulle popolazioni, è
anzitutto valutando questo regime di iscrizione che vale la pena ripensare
una strategia critica.

16
Cfr. G. Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla lettera ai Romani, Bollati
Boringhieri, Torino 2000, pp. 55 e ss.
310 Paolo B. Vernaglione

Se, a partire dalla metà degli scorsi anni settanta, le conseguenze


della “presa sulla vita” con cui siamo entrati nella realtà neoliberale de-
rivano, come Foucault annota alla ine di La volontà di sapere, dalla rottura
dell’episteme classica e dalla trasformazione del discorso scientiico; dalla
proliferazione delle tecnologie politiche che investono i corpi (la salute,
le modalità di nutrirsi e di abitare, le condizioni di vita e l’intero spazio
dell’esistenza) e dall’applicazione della norma piuttosto che della legge; se
sono questi gli elementi di consistenza del governo dei viventi, il contrasto
alla governamentalità diviene possibile nella diffrazione delle forze, nella
frammentazione delle identità sociali, nel non riconoscimento degli spazi
lavorativi (servizi, entertainment, informazione) organizzati dal capitalismo,
più che nel recupero di una soggettività collettiva; nel “tra” della relazione,
cioè nel comune, nello spazio che stacca i soggetti più che in quello che li
accomuna. Ed è problematica proprio la produzione di questo spazio. Ma
è a partire da esso, dall’irrealtà della sua esistenza, cioè dalla possibilità che
si realizzi, che si ritessono rapporti e si creano un’altra forma di vita e un
mondo altro.
Nelle spinte centrifughe al divenire altro, all’anonimato; nel portare
alle estreme conseguenze ciò che il capitalismo opera con la inalità di
proilare la vita singola incontriamo, nella lettura di Nietzsche, l’interpreta-
zione dell’intelletto generale. Accentuare la crisi, radicalizzare le tendenze,
toccare il limite di presa e resistenza del capitale sottraendovisi, disertando
la partita, evitando di giocarla sul terreno truccato – non per trovare l’an-
tagonismo degli atti puri che costringe al silenzio e che, in nome dell’inte-
grità astratta della lotta, opprime chi dovrebbe liberare; ma per valorizzare
il rapporto tra preindividuale e individuo, tra metastoria e storia, comune
e singolare che il capitalismo preleva a proprio vantaggio.
Ripensare allora alla “presa sulla vita” nella stratiicazione archeolo-
gica in cui il concetto si è cristallizzato in questi anni. Districarlo dalle
generalizzazioni da cui è stato investito. Riallocarlo distribuendone l’in-
tensità nella dissoluzione del soggetto collettivo. Provare ad organizzare
le resistenze possibili sulla base dei bisogni reali di corpi e popolazioni.
Veriicare a quali condizioni e su quale livello, in quest’analitica del potere,
l’intelletto interviene, qual è la sua funzione, in quali punti di smottamento
dei regimi di enunciazione si trova incastonato. Rielaborare insomma un
pensiero come critica afinché una pratica sia anche insieme un’esperienza
da trasmettere.
Michel Foucault e l’eredità della critica 311

In sintesi, sono occorse almeno tre interpretazioni della biopolitica:


come presa sulla e della nuda vita; come immagine ambivalente di indivi-
duazione immunizzante; come fulcro di governamentalità in cui si esprime
l’intelletto sociale, nel mutamento dei rapporti di produzione, nel divenire
rendita del capitale e nel divenire reddito (indisponibile) del salario. Queste
tre interpretazioni hanno avuto diverso valore: la prima reintegra la lettera
foucaultiana nella problematica del governo dei viventi e dell’homo sacer; la
seconda interpreta la dinamica biopolitica come un paradigma; la terza, in
presa diretta con l’analisi dei rapporti di produzione, cerca gli strumenti
per restituire Marx ai conlitti sociali.
Ma più che come dispositivo immunizzante o come dominio sotto il
segno dell’intelletto generale, la realtà neoliberale ci mette di fronte al va-
lore della nuda vita, che è la vera posta in gioco delle tecnologie di sapere-
potere. Se così è, se la costituzione del vivente in cui si sostanzia la sog-
gettivazione e che riscrive una certa idea di natura umana, valorizzata dalle
bio-tecniche e dalle tecnologie digitali, comporta l’intreccio inestricabile
di metastoria e storia, invariante biologica e variazione storica, stratiica-
zione preindividuale e individuazione, come sostiene Paolo Virno; e se in
questo nesso consiste la bio-economia, secondo la qualiicazione che ne
ha dato Christian Marazzi, come produzione di «forme di vita, e quindi di
creazione di valore aggiunto, che deinisce la natura dell’attività umana»17
allora è là, nei punti di giuntura e di separazione tra nuda vita ed economia
come amministrazione dell’oikos18, che cerchiamo possibilità di resistenza,
pratiche di desoggettivazione, orizzonti di sganciamento in cui opera un
intelletto sociale.
Oikos e nuda vita sono matrici generative, l’uno della vita preindividuale
dell’organico, l’altra della variazione singolare della vita generica. Il campo
di applicazione del governo della vita consiste dunque nel tentativo di ri-
trovare, alle spalle del rapporto tra capitale e lavoro, l’oikos e la nuda vita per
valorizzare entrambe non più secondo la legge del valore e la misura del
salario, bensì secondo l’accumulazione della rendita e la trasformazione in
reddito dell’attività umana. Abbiamo dunque da un lato il modello dell’im-
presa, dall’altro il capitale umano come basi di produzione della ricchezza.
Se l’incidenza profonda delle tecnologie di governo si attua nella trasfor-

17
C. Marazzi, Il comunismo del capitale, cit.
18
Cfr. G. Agamben, Il Regno e la Gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del
governo, Bollati Boringhieri, Torino 2009.
312 Paolo B. Vernaglione

mazione dell’economia in oikonomia nella logica d’impresa, e nella trasfor-


mazione dell’esistenza singolare in capitale umano, alle spalle di entrambe
le formazioni, nel luogo di indistinzione di materiale e non materiale,
preindividuale e individuale, si trova quel dispositivo antropogenetico respon-
sabile ad un tempo sia della monetizzazione della vita singola nell’oikos
inanziario, sia della trasformazione del salario in reddito possibile, nella
forma del capitale umano. In entrambi i casi è la misura del reddito a
funzionare come equivalente generale, come mezzo di pagamento e come
forma del valore.
Ma allora, sciogliersi dai vincoli del valore, dal ricatto del lavoro, dalla
valorizzazione della vita signiica pretendere reddito nella dismissione del
lavoro, sganciando la nuda vita dal valore, facendo delagrare il modello
d’impresa che imprigiona l’oikos.
Divenire anonimo, divenire impercettibile, non contare come grup-
po, come soggetto organizzato, istituzionale, normato. Produrre un sapere
sociale che è gaia scienza, che è politica della vita, che se la ride del mon-
do impolitico istruito da ilosoi e sociologi. “Una risata li seppellirà” è il
motto della genealogia, il rischio che «la storia, genealogicamente diretta,
non ha per ine di ritrovare le radici della nostra identità, ma di accanirsi al
contrario a dissiparle»19. Ed è la condizione della critica, che può divenire
eredità se «la critica delle ingiustizie del passato in nome della verità che
l’uomo detiene oggi diventa distruzione del soggetto della conoscenza at-
traverso l’ingiustizia propria alla volontà di sapere»20.
Se infatti il limite della storia critica come storia degli uomini del
risentimento è il soggetto (come soggetto della storia, della conoscen-
za, della classe sociale), solo nell’annullamento dell’unità dell’“io”, della
sua verità, della volontà di ricostituzione, scorgiamo la possibilità di una
controcondotta.
D’altra parte, disgregarsi non è cedere alla violenza reattiva di chi ri-
tiene di aver compiuto l’esodo dai rapporti sociali, e vive il rituale di un’a-
micizia comunitaria, inconsapevole dell’inconsistenza di questa rendita di
posizione. Debole anzitutto perché la comunità non “avviene” mai. In
secondo luogo perché l’istinto dell’utile immediato sopravanza il miglior
comunismo possibile. Inine perché, adoperando un’immagine di Benja-
min, la felicità mondana è tramonto e quand’anche si realizzi in un mo-

19
M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, cit., p. 51.
20
Ivi, p. 54.
Michel Foucault e l’eredità della critica 313

mento dato nella storia degli spazi alternativi, non fonda una politica, non
inaugura una permanenza, non libera affatto da ciò che ha sovvertito.
Desoggettivarsi si può divenendo inattuale, tramontando, cercando
la scomparsa, cancellando le tracce della propria venuta al mondo nell’a-
nimale, che non pretende alcuna posterità, che disdice la iliazione, che
disloca le forze. Cioè trovando un’essenza che dissolve le sostanze, altera
le forme, disdice il discorso. Tanto più quanto «il sapere chiama oggi a fare
esperienza su noi stessi»21.
La critica del capitalismo nell’epoca della mobilitazione delle capacità
e degli affetti potrebbe prodursi a partire da questa costellazione, cui non
si tende ma che è reale; che non si organizza ma si deterritorializza; che
è presa in un divenire altro. Da qui una politica della vita, spazi che sono
eterotopie, luoghi del fuori in cui avviene la libertà; un divenire animale
nella temperie oltreumana del gioco e dell’arte di cui possiamo essere liberi
produttori.

Paolo B. Vernaglione
Università degli Studi di Roma “La Sapienza”
paolo.vernaglione@uniroma1.it

.
Michel Foucault and the Inheritance of the Critique

What has happened to the critical nature of people? This script tries to
investigate this question. If Foucault has described his work as a “critical history
of thinking”, today we need to ask ourselves in which conditions critiquing is
possible. Furthermore we need to ask “what does it mean to be critical”? This
bunch of questions seems to be derived from Kant’s prior answer to “What
is Enlightenment”? But today this issue is a matter of legacy, referred to the
multiple ways in which the “power over life” is exercised.

Keywords: Critique, History of Thought, Untimeliness, Enlightenment, Benjamin,


Inheritance, Generations.

21
Ivi, p. 53.

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