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Il futuro si chiama montagna

Sulle modalità di percepire il paesaggio montano, è possibile


individuare due tipi di domande. Una prima domanda, che
potremmo definire genericamente turistico-ricreativa, si basa sulla
tendenza delle persone sì di cercare di passare parte del loro tempo
in ambienti che risultino più gradevoli sul piano visivo-percettivo.
Un panorama poco avvincente può essere fonte di stress e disagio.
La nostra visione di ricostruzione sociale del paesaggio rurale,
intendendo con questo una profonda trasformazione della sua
concezione all’interno della società, si concretizza nella
promozione di un nuovo comportamento che si allontani dalle
realtà urbane più convulse. Il mondo contemporaneo è abituato a
riconoscere il paesaggio come uno dei luoghi privilegiati
dell’esperienza estetica individuale: ciascuno di noi gode della
vista di un tratto di costa, di una vallata, di una catena montuosa e
si infastidisce per la presenza di elementi disturbanti come palazzi,
complessi balneari, tralicci, impianti industriali o, ancor peggio,
discariche abusive. In grande misura ciò che tendiamo a ricercare
è una convenzione figurativa, creata dalla pittura occidentale a
partire dall’età moderna e fatta propria dall'arte fotografica, che ci
descrive un mondo naturale idealizzato, talora idilliaco e talaltra
spaventoso e primordiale, che, in primo luogo, sia distinto dagli
spazi in cui l'uomo vive. Questa nuova visione sembra rispondere
soprattutto alle mutate istanze etiche ed edonistiche delle
popolazioni urbane e coinvolge direttamente il mondo agricolo e
tutti i protagonisti del mondo rurale sempre più consapevoli delle
diffuse tendenze (Michele Bacci).
La montagna, riscoperta per i suoi importanti valori ambientali,
estetici, per la amenità e qualità della vita, sta apparendo come
uno dei termini chiave di un processo culturale più ampio, di
costruzione tipica di una “moderna riflessione post-industriale”,
intesa soprattutto come spazio di conservazione ambientale,
ricreazione e residenza, oltre la più tradizionale destinazione
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produttiva agricola.
La seconda domanda riguarda, in chiave direttamente utilitaristica,
il valore economico del paesaggio montano.
É giusto porsi il problema di garantire la conservazione del
paesaggio; riteniamo, però, che sia altrettanto giusto che la società
riconosca i diritti degli agricoltori, che col proprio lavoro
garantiscono la conservazione del paesaggio. La Convenzione
Europea del Paesaggio del 2000 e la Politica Agricola
Comunitaria del 2003 hanno, per la prima volta, affermato l’idea
che ogni popolazione ha il diritto di vivere in un paesaggio in
grado di soddisfare le proprie esigenze percettive e identitarie.
La montagna, per gli abitanti del luogo, ha rappresentato, da
sempre, un rifugio sicuro suggerito dal loro spirito di difesa e di
autoconservazione. Non a caso i loro borghi antichi, i castelli, i
monasteri si inerpicano in posti strategici e ben custoditi giacché
assolvevano a precise scelte e a compiti sociali legati alla
sopravvivenza. Oggi, questi canoni esistenziali vanno rivalutati da
una precisa programmazione istituzionale che possa ridare, nel
Paese, la dignità propria alla montagna, annullando l’opinione di
stampo medievale che l’ha resa, nel tempo, emarginata, povera,
mortificata nelle sue aspettative. Così ragionando, nei secoli
scorsi, si sono indeboliti i criteri della sua economia, della sua
intrinseca potenzialità perché non opportunamente stimate e
sostenute dai presidi istituzionali. Per decenni le popolazioni locali
sono state sviate dai giudizi negativi di una cattiva informazione,
che ha prodotto in esse apatia e sconforto in pari tempo.
Un approccio, allora, verso la montagna va completamente rivisto
soprattutto dal punto di vista pedagogico; è consigliabile fare
nuovi proseliti nel mondo della Scuola, dove la montagna viene
ancora rappresentata agli adolescenti come luogo dove si annidano
le insidie, gli orchi famelici ed i briganti. Insomma, è ancora
sinonimo di paura e di tenebra. Invece gli orchi e i briganti, è
giusto spiegarlo alle nuove generazioni, metaforicamente, si
aggirano nelle aree urbane, davanti alle scuole, alle discoteche;
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stanno in mezzo a loro, in agguato, come falchi, pronti a profittare
della loro inesperienza. La scuola che ha una funzione
fondamentale nell’educazione degli adolescenti, deve abituarli a
conoscere l’habitat appenninico in ogni suo aspetto.
L’ecopedagogia è la riflessione, oggi necessaria, su una teoria e
una prassi educativa sul diritto/dovere dell’uomo di non essere il
dominatore della Terra, ma, soprattutto, il principale custode delle
sue risorse, delle sue bellezze e delle diverse forme di vita. La
chiave di volta per un futuro possibile è una nuova forma di
razionalità all’insegna di una relazionalità flessibile, intuitiva e
processuale, in grado di recepire tutte le istanze della vita sulla
Terra, in qualunque forma esse si manifestino.
La quotidianità è la dimensione e il tempo privilegiato dello
sviluppo sostenibile.
L’ecopedagogia si propone, pertanto, come una nuova scienza che
trascende il modo in cui oggi i paesi occidentali concepiscono
l'universo e coincide, sorprendentemente, con il pensiero e la
visione del mondo delle culture tradizionali di tutte le latitudini
(N. Pascale). A differenza della scuola, la Chiesa è stata più
previdente quando ha simbolizzato, nei secoli, la montagna come
il luogo più idoneo per elevare spiritualmente a massima dignità la
nostra Fede. Mosè lasciò il deserto per salire, ispirato da Dio, sulla
sommità della montagna dove ricevette i Dieci Comandamenti. In
questo clima di ritrovata ispirazione spirituale, raccontiamo
(sembra una leggenda metropolitana) la storia di un uomo che,
attraverso il pellegrinaggio in montagna per conquistare la pace
interiore, paga un prezzo che, secondo la mentalità odierna, pare
assurdo.
“Riuscirò io a rendere l’eterno significato dello spirito delle cose?
Saprò dare alla Natura che dipingo quella luce che dona la vita al
colore, e che illumina e dà aria alle lontananze e rende infinito il
cielo? Saprò io congiungere l’idealità della Natura con i simboli
dello spirito che l’anima nostra rivela?”.

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Così si interrogava nei suoi diari il pittore Segantini. Giovanni
Segantini morì il 28 settembre 1899, a 41 anni, mentre stava
ultimando uno dei suoi capolavori, la Natura, elemento centrale
dell’omonimo trittico. Si trovava a 2700 metri di altitudine sullo
Schafberg, la montagna di Pontresina, per cercare la luce pura, la
luce che vivifica i colori, che illumina le lontananze, che allarga il
cielo. E sullo Schafberg, circonfuso da quella luce, trovò la morte.
La natura, per Segantini, era prima di tutto una categoria dello
spirito... una coscienza del meditare; un’iperbole dei sensi
percepiti con la più sottile, sofisticata bizantina capacità
intellettuale. Il paesaggio, per lo sfortunato pittore, rappresentava
una esigenza meritocratica della creatività nel suo godimento e nel
controllo dell’energia vitale. Annusare, centellinare, guardare,
inventare, annientare, ricreare, distruggere. Mentre il godimento
dei sensi si elevava alla massima potenza, il suo cuore palpitava,
afferrava, fagocitava. Con quanta fatica...
Riprendendo il ragionamento, richiamiamo l’attenzione comune
su alcuni progetti istituzionali avviati, a livello sperimentale, in
funzione della valorizzazione del nostro patrimonio religioso,
naturale e culturale, su scala europea.
«Caminos de Europa»: la via Francigena e il cammino di
Santiago. Un progetto, maturato nell’ambito della cooperazione
transnazionale Leader +, che si propone la promozione turistica di
diverse realtà rurali e montane italiane, francesi e spagnole.
Possiamo riconoscere che il sentimento che, oggi, si nutre verso la
montagna è diffusamente cambiato; si sta trasformando in
ricchezza e opportunità di conoscenza a cui guardano, con
interesse, artisti, giovani imprenditori, professionisti, agricoltori e
politici. Sì, anche questi avvertono l’urgenza che le nuove
esigenze trovino rispondenza nel linguaggio della Politica a
proposito della montagna, perché essa non sia più considerata area
marginale, depressa e nemica dello sviluppo. La montagna con la
sua storia, invece, rappresenta una valida opportunità per
l’affermazione futura di alcuni settori: economici, turistici,
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culturali ad essa collegati. Sapremo cogliere questa occasione?
Sicuramente si, se, in riferimento anche agli indirizzi delle nuove
politiche agricole comunitarie 2021-2026 sapremo apprezzare
l’esaltazione della dimensione “multifunzionale” del sistema
agricoltura che apre agli operatori agricoli, ai componenti della
loro famiglia nuove opportunità economiche. La multifunzionalità
può e potrà favorire iniziative di gestione del territorio, di sviluppo
di attività produttive extra agricole, di agricoltura sociale e quindi
di consolidamento e creazione di nuova occupazione. Si passa,
dunque, ad una concezione di reddito agricolo diversificata. Detto
in altre parole, da una politica passiva, discorsiva del mercato e a
carattere meramente redistributivo, si passa invece ad una politica
attiva, selettiva, volta a mobilitare con opportuni incentivi (e
penalizzazioni) le risorse per competere in mercati più aperti alla
concorrenza (sia pure opportunamente regolata) e, allo stesso
tempo, per assicurare ai territori rurali sostenibilità e attrattività.

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