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FISIOLOGIA VEGETALE pt.

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POMPE PROTONICHE
Le pompe protoniche sono degli enzimi delle cellule vegetali e sono sempre presenti, non
solo nelle cellule in crescita. Un esempio del loro ruolo è quello
delle cellule di guardia degli stomi. La pianta può regolare
l’apertura degli stomi tramite la regolazione del volume delle
cellule di guardia. Ma come? È necessario far entrare o uscire
acqua da queste cellule. Quando l’acqua viene accumulata la
cellula si distende e lo stoma è aperto, quando essa esce le
cellule si afflosciano e lo stoma si chiude.
Per far questo è necessario sfruttare dei gradienti di soluti, di Sali e quindi quando lo stoma
deve aprirsi le cellule devono accumulare ioni. Per regolare l’entrata degli ioni la cellula
utilizza le pompe protoniche che regolano il gradiente elettrico per permettere l’entrata del
potassio.
Essi sono per questo motivo target di regolazione ormonale; come sappiamo l’auxina
controlla l’attività delle pompe protoniche e di conseguenza anche l’apertura degli stomi. Un
secondo ormone, ABA, possiede l’effetto opposto: esso inibisce l’attività delle pompe
protoniche, in maniera indiretta, facendo sì che l’uscita degli ioni sia favorita e che gli stomi
si chiudano.
Un ulteriore esempio è la descrizione delle modalità con cui l’attività delle pompe possa
essere controllata in membrana.
Nell’immagine vi sono due pompe protoniche (in verde),
esse tendono a presentarsi come
dimeri. Possiamo distinguere due porzioni extracellulari:
quella che sporge nell’apoplasto e quella che sporge nel
citoplasma, ed infine una porzione transmembrana. La
porzione nel citoplasma viene indicata come dominio C-
terminale auto-inibitorio, e nella situazione attuale non
sono in grado di trasportare ioni. Nella seconda immagine le
due pompe sono rappresentate nella loro configurazione
attiva. Ma come si passa da uno stato inattivo ad uno
attivo? Il dominio citosolico sopracitato è stato spostato ed
è mantenuto in conformazione attiva grazie al legame con
la proteina 14-3-3. Essa ha una conformazione a pinza
grazie all’associazione dimerica di due proteine identiche
(omodimero); esse agganciano e trattengono il dominio C-
terminale auto-inibitorio.
La proteina 14-3-3 è formata da alpha eliche. Un aspetto interessante di questa regolazione
è la presenza di un parassita delle piante, un fungo, che sfrutta questo meccanismo a suo
favore. Il Fusicoccum amygdali produce una tossina
chiamata fusicoccina, una piccola molecola che si
inserisce tra il dimero di 14-3-3 e il dominio C-terminale
per stabilizzare questa interazione. La stabilizzazione è
permanente, in quanto essa trova una tasca di legame ad
altissima affinità senza poter essere rimossa. La
conseguenza è che la pompa protonica rimane attivata
costitutivamente. Qual è la conseguenza? L’attività delle
pompe è incontrollata, entrano Sali e viene continuamente idrolizzato ATP. Perché il fungo
produce questa tossina? Il Fusicoccum cresce sulla lamina fogliare ma per svolgere a pieno
le sue funzioni vitali deve potersi nutrire, quindi è necessario arrivare nel mesofillo per farlo.

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Come fa ad entrare attraverso una lamina fogliare molto spessa e sigillata? L’unica opzione
sono gli stomi aperti. La conseguenza è l’appassimento della pianta per l’enorme perdita di
acqua.

Modalità di crescita cellulare


Esistono due tipi di crescita cellulare: la crescita diffusa e
la crescita di punta.
L’immagine mostra la schematizzazione dei due tipi di
crescita cellulare: nel primo caso se dovessimo segnalare
la crescita tramite dei puntiti possiamo notare come
questi nel tempo si distanzino tra loro, cosa che avviene
in maniera uniforme nella crescita diffusa.
Questi due tipi di crescita sono tipici di alcuni tipi cellulari
e non sono mai presenti contemporaneamente; le cellule xilematiche o floematiche
presenteranno un tipo di crescita diffusa, che non va in tutte le direzioni ma in una ben
precisa. Per quanto riguarda la crescita di punta possiamo presentare tre esempi
rappresentativi:
1. Le cellule del granulo pollinico: la foto mostra dei granuli pollinici in acqua che
presentano l’estroflessione di un tubetto che crescerà in maniera lineare e veloce. Il
tubulo pollinico cresce all’interno del pistillo, che è parte dell’organo riproduttivo
femminile. Distinguiamo lo stigma dove i granuli di polline maturano e lo stilo, la
porzione che il granulo pollinico deve attraversare. Sullo stigma arrivano molti granuli
pollinici che maturano contemporaneamente, lo stesso avviene nello stilo dove vi è
una competizione tra i vari granuli, i primi a maturare avranno più chance di
impollinare.
2. Pelo radicale: questo viene formato dalle cellule dell’epidermide nella zona di
maturazione della radice. Essa è una zona limitata ma di vitale importanza in quanto
da essa dipende l’assorbimento di acqua e Sali dal terreno.
3. Peli fogliari: questi sono fondamentali per la difesa dall’attacco degli erbivori e per la
formazione dello strato di fermo di aria al di sotto della foglia. Infine, possono essere
dei tricomi ghiandolari per evitare il contatto con gli erbivori.
Come avviene la crescita di punta? La cellula trasferisce e
accumula delle particolari vescicole piene di materiale nella
porzione terminale della cellula. Tutti i vari cargo vanno a
legarsi alla superficie della membrana esterna o all’esterno
permettendo la crescita della cellula in maniera direzionale.
Il trasporto avviene grazie ai microtubuli corticali e ai
filamenti di actina che formano il citoscheletro; alla fine dei
filamenti le vescicole vengono rilasciate e si fondono con la
membrana plasmatica. Questo ultimo passaggio è Ca2+
dipendente, quindi solo in presenza di un’alta
concentrazione di calcio nella porzione apicale si potrà avere la fusione delle vescicole.
Un altro aspetto importante è la modalità di trasporto delle vescicole lungo i filamenti del
citoscheletro. Vi sono delle proteine motrici che ad una estremità legano la vescicola mentre
all’estremità opposta sono in contatto con il filamento sul quale si spostano. Questo
processo richiede un enorme apporto di energia, in particolare ATP che viene trasformato
tramite idrolisi in energia meccanica.
Sul microtubulo scorrono le proteine chiamate
Chinesine con: una coda che lega il cargo
(di maggiore dimensione rispetto alla proteina
stessa ma che grazie all’idrolisi di ATP riesce

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comunque ad avanzare); una testa, con due domini che
assomigliano a piedi e che ad ogni passo richiedono la
scissione di una molecola di ATP.
Una situazione analoga si presenta sui filamenti di
actina, in questo caso le proteine coinvolte sono le
Miosine che, a differenza delle Chinesine, riescono a
riconoscere la polarità dei filamenti spostandosi in maniera direzionale. Il principio di base
rimane lo stesso, con una testa ed una coda e sempre consumando ATP.
L’immagine riassume tutto ciò che è stato detto sulla crescita di punta:
• Avviene grazie al trasporto
direzionale di vescicole: giungono nel
punto di crescita tramite proteine
motrici sui filamenti.
• La fusione della vescicola permette
al materiale di fondersi con la parete
e alla vescicola di fondersi con la
membrana cellulare. Il tutto è Ca2+
dipendente e richiede una serie di
complessi di proteine che ne
promuovano la fusione alla
membrana. La GTPasi legandosi
momentaneamente e idrolizzando
GTP permettono il funzionamento
corretto del processo.
• La membrana (delle vescicole) può
essere riciclata tramite la
gemmazione delle vescicole verso
l’interno e che possono poi essere
nuovamente utilizzate per trasportare
materiale.
• Il Ca2+ viene segnalato da due frecce blu: una proveniente dall’interno e una
dall’esterno. Esso può entrare dall’apoplasto attraversando la membrana plasmatica
e sfruttando delle proteine canale. La fonte interna è rappresentata da
organelli/compartimenti intracellulari come RE. Il RE è, infatti, uno dei punti in cui la
cellula immagazzina il calcio in alte concentrazioni e viene rilasciato a seguito di
segnali cellulari. La via descritta ha inizio dall’PIP2 (fosfolipide che è presente sulla
membrana) e che da inizio ad una via di trasduzione del segnale e che ha come
risultato l’uscita del calcio dal reticolo. PIP2 viene scisso da un enzima (lipasi) formato
da due componenti IP3 (Inositolo-3-fosfato) e DAG (Diacilglicerolo). IP3 trova dei
recettori specifici sul RE e libera gli ioni Ca2+; il DAG a seguito di alcuni segnali da
inizio a delle fosforilazioni che poi liberano il calcio.
Le cellule hanno dei loro percorsi di segnale che fanno si che vi sia un gradiente di calcio
all’interno della cellula.
• In giallo vi è la schematizzazione dei un pistillo: possiamo notare nello stigma un
granulo di polline che sta germinando e che ha formato il tubetto pollinico. La punta è
rappresentata poi in grande ed è quella che ci ha permesso di trarre le conclusioni
precedenti.
La crescita di un tricoma segue la stessa linea delle cellule dei granuli di polline; la loro
particolarità riguarda la ramificazione in quanto la crescita di punta deve modificare la
direzione di crescita nel punto in cui si ha la diramazione.
L’immagine mostra come il punto di ramificazione convoglia non tanto le vescicole, ma porta
all’avvicinamento dell’apparato del Golgi che darà poi origine alle vescicole. Questo trasporto

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si ha sempre tramite le proteine motrici: distinguiamo infatti
una miosina che trasporta il suo cargo che, a sua volta, è in
contatto con una Chinesina. Quando la miosina giunge alla fine
del filamento di actina, entra in gioco la chinesina che prende
contatto con il microtubulo e trasporta con sé il Golgi,
scorrendo fino alla terminazione del microtubulo dove vi sarà il
nuovo ramo del tricoma. Il Golgi in quel punto inizierà a
rilasciare le vescicole permettendo la crescita delle cellule in
quella direzione.
L’intero processo è più complicato e necessita di altre
componenti, come AN trasportato da un’altra chinesina. La
cosa che ci interessa di più è la capacità di piccole proteine di trasportare cargo di enormi
dimensioni.
Non solo la crescita di punta, ma anche moltissimi altri processi dipendono dal trasporto di
sostanze tramite i microtubuli. Un esempio è la deposizione di cellulosa in parete, processo
che avviene con una direzionalità. L’enzima che produce la cellulosa è la Cellulosa Sintasi
(rosetta gialla su membrana) che sintetizza filamenti di zuccheri che si uniranno a fare la
microfibrilla di celluosa. La diffusione dell’enzima determina la direzione di deposizione della
fibrilla; direzione controllata tramite l’interazione fra le cellulosa sintasi e i microtubui conticali
che scorrono dal lato citosolico in corrispondenza degli enzimi. Il contatto tra il microtubulo
e la membrana è dato da una chinesina unita ad altre proteine ignote che fungono da ponte.
Un ulteriore esempio è l’uso delle chinesine per il trasporto del Golgi nel punto in cui si
vogliono inserire le Cellulosa Sintasi in membrana. Esse vengono trasportate in vescicole
generate dall’apparato di Golgi che poi vengono avvicinate alla membrana grazie ad
ulteriori chinesine.

LA FOTOSINTESI
L’organo chiave della fotosintesi è la foglia ma anche altre porzioni della pianta svolgono la
fotosintesi, in breve tutte quelle di porzione verde.
L’equazione generale è universalmente conosciuta ma è il punto di partenza per affrontare
l’intero argomento, in quanto essa rappresenta il ciclo del carbonio sulla terra.
La vita è basata sugli organismi fotoautotrofi, gli unici in grado di trasformare i composti
inorganici in organici tramite l’utilizzo della luce solare, riducendo il carbonio della CO2 a
quello dello zucchero. Per fare questo è necessario un donatore di elettroni che viene
indicato con la sigla H2A (H2O, H2S, H2 o altri donatori di elettroni). Il passaggio di elettroni
dal riducente all’ossidante viene aiutato dall’introduzione di energia esterna (solare) nella
reazione. Il prodotto di scarto è rappresentato da A2, l’elemento riducente in forma
elementare. La forma di carbonio ridotta (il carboidrato/zucchero) viene poi utilizzata dagli
organismi eterotrofi e dagli autotrofi stessi che la useranno nella respirazione per sostenere
le cellule e la loro resistenza.

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Il questo processo, gli organismi eterotrofi e le reazioni eterotrofe degli autotrofi, estraggono
l’energia e riconvertono il carbonio nella sua forma ossidata per essere poi riutilizzato dagli
autotrofi.
I vari tipi di donatori di elettroni stanno ad indicare l’esistenza di numerose tipologie di
fotosintesi.
Quella delle piante viene detta ossigenica in quanto vi è la produzione di ossigeno come
prodotto secondario, H2O è il donatore di elettroni e la CO2 è l’accettore di elettroni. La
reazione bilanciata è la seguente: (generati con l’energia di fotoni)

Questo tipo di fotosintesi è utilizzata dalle piante superiori, quelle inferiori e i cianobatteri. I
primi ad essersi sviluppati e che grazie alla loro produzione di ossigeno sono stati in grado
di permettere la vita di altri organismi.
Esistono altri tipi di fotosintesi che sono indicate con il nome di anossigeniche in quanto non
producono ossigeno. Nel parco nazionale di Yellowstone esistono dei Solfobatteri che
utilizzano come fonte di elettroni (donatore) l’acido solfidrico (H2S). L’unico aspetto comune
è la CO2 come accettore di elettroni. Il prodotto finale è lo zolfo elementare.
La reazione bilanciata in questo caso è:

La fotosintesi ossigenica genera una reazione molto interessante che è la fotolisi dell’acqua.
La luce viene utilizzata per splittare la molecola di acqua in
ossigeno, protoni ed elettroni. Quindi l’energia della luce viene
utilizzata dalla pianta per fare quello che noi facciamo tramite
energia elettrica (). Processo molto interessante in cui si usa la
corrente elettrica per dividere l’acqua in ossigeno e idrogeno e l’esperimento si svolge così:
si prende una pila e si posizionano anodo e catodo in acqua; sull’anodo si avrà la reazione di
ossidazione con liberazione di ossigeno ed elettroni mentre al catodo si avrà la riduzione e
la liberazione di idrogeno e ioni ossidrili.
Posizionando due provette si accumuleranno
rispettivamente ossigeno e idrogeno al loro
interno (questa reazione è esplosiva nel caso
in cui idrogeno e ossigeno entrino in contatto).
Questo è l’unico modo che noi abbiamo per
produrre idrogeno ed immagazzinarlo per
utilizzarlo come fonte di energia rinnovabile
che dovrebbe poi sostituire fonti come il
petrolio. Per questo negli ultimi anni si è
provato a replicare la reazione delle piante
(fotosintesi artificiale) per la produzione di
idrogeno in quanto l’esperimento prima citato
consuma più energia elettrica dell’idrogeno
prodotto.

Le reazioni avvengono al livello dei cloroplasti che sono fondamentali per le piante. Come
sono fatti i cloroplasti? Essi sono dei “sacchetti” contenenti delle file ordinate di membrane
interne che si suddividono in grana e intergrana.

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L’immagine schematica del cloroplasto ci mostra come questo sia circondato da due
membrane: una interna ed una esterna separate da uno spazio intermembrana. Le due
membrane ci ricordano che il cloroplasto è di origine simbiotica: un cianobatterio ancestrale
che si è adattato a vivere in simbiosi con un organismo eucariotico (vive all’interno della
cellula).
All’interno delle membrane troviamo lo stroma,
una soluzione densa simile al citoplasma, in cui
sono immerse le pile di grana e le lamelle
intergrana. Questi due componenti sono
costituiti da un’unità chiamata tilacoide
(sacchetti con una membrana ed un lume) ed è
l’unica parte del cloroplasto ad essere di colore
verde (unica porzione in cui sono contenuti i
pigmenti fotosintetici, le altre parti sono trasparenti o gialline).
Più nel dettaglio, nello stroma troviamo: il DNA del cloroplasto (che codifica per alcune delle
proteine da essi contenute e che sono tradotte dai ribosomi dello stroma), plastoglobuli
(goccioline lipidiche) e dei granuli di amido che si formano di giorno e che durante la notte
vengono reindirizzati in altre porzioni della pianta (amido temporaneo).
Nella membrana dei tilacoidi vi sono delle proteine di membrana che si scambiano elettroni
come avviene per i mitocondri animali. Solo questa posizione garantisce la possibilità di
generare e mantenere gradienti che sono poi utilizzati dalla ATPsintasi per generare appunto
ATP.
Lo schema della fotosintesi si compone di due parti:
le reazioni fotochimiche e le reazioni biochimiche.
Nella parte fotochimica vi è l’input dell’energia solare
(fotoni - hn) che viene utilizzati nelle reazioni alla luce
che avvengono sulla membrana dei tilacoidi. Qui
troviamo le proteine della catena di trasporto degli
elettroni e un complesso di enzimi in grado di
generare gli elettroni (fotolisi dell’acqua). Pertanto, vi
sarà entrata di acqua e uscita di ossigeno come
sottoprodotto ed uscita di elettroni e protoni che verranno immagazzinati in molecole ad alta
energia (NADPH e ATP). Gli elettroni vengono “presi” direttamente dal NADPH mentre l’ATP
trasforma l’energia di un gradiente di protoni in energia chimica (ATPsintasi).
La fase biochimica utilizza ATP e NADPH per la riduzione del carbonio che comporta l’entrata
di CO2 e uscita di zucchero (queste reazioni avvengono nello stroma in quanto svolte da
enzimi solubili nel Ciclo di Calvin). In questo caso non è necessaria la componente luce ma
avvengono comunque durante il giorno poiché gli enzimi sono attivati dalla luce stessa. La
divisione in reazioni al buio e reazioni alla luce non può essere considerata vera.
Fotochimica
Prima di parlare delle reazioni che procedono a seguito di
assorbimento di luce è necessario prima introdurre qualche
concetto sulla luce stessa e di come essa sia formata.
La luce nel visibile è parte delle radiazioni
elettromagnetiche: onde che si propagano nello
spazio con una determinata onda di propagazione
e che generano due campi perpendicolari tra loro:
campo elettrico e campo magnetico. Una delle
caratteristiche è la distanza tra due picchi di
oscillazione, la lunghezza d’onda (l). La tabella
mostra un range di lunghezze d’onda espresse in
nm. La terza riga mostra il tipo di radiazione generato da queste lunghezze d’onda: 10-3 raggi

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gamma, 10-1 raggi-X, seguono poi altri tipi di onde che non sono percettibili all’occhio
umano. L’altra caratteristica con cui descriviamo le radiazioni elettromagnetiche è la
frequenza (n), espressa in Hz (numero di eventi al secondo), ed è dato dal rapporto tra la
velocità della luce (300 km/s à 3x108m/s) e la lunghezza d’onda (n= c/l).
Qual è l’importanza di conoscere come si calcola la frequenza? La risposta sta nella seconda
natura della luce: quella particellare. Essa è infatti vista sia come una radiazione
elettromagnetica sia come una particella (fotone) che
trasporta una certa quantità di energia (quanto - hn). Il valore
è dato dalla frequenza e dalla costante di Planck (6.6x10-34
Js). Tramite la lunghezza d’onda possiamo conoscere l’energia
contenuta in un fotone di luce in quanto conosciamo già diversi
componenti.
Ecco un esempio:
I fotoni come le molecole possono essere espressi in moli in
quanto anch’essi sono delle particelle; una mole di fotoni viene
chiamata Einstein.
Qual è lo spettro della radiazione solare che raggiunge
l’atmosfera: esso parte dagli UV (~200nm – invisibile all’occhio
umano), vi è un picco nel visibile e poi si
discende nella zona dell’infrarosso (linea blu).
L’atmosfera con i suoi assorbimenti selettivi
permette solo ad alcune radiazioni di
raggiungere la terra (linea tratteggiata rossa):
vi è un grosso taglio nella zona degli UV grazie
alla presenza dell’ozono; vi è anche un taglio
nel visibile (rosso/rosso lontano) e un forte
taglio nell’infrarosso perché vi sono delle
molecole che assorbono e riflettono l’energia
infrarossa verso l’atmosfera.
Le piante sfruttano l’energia del visibile che
arriva sulla terra (linea verde) soprattutto
intorno al blu (400nm) e al rosso (600-
700nm).
Le piante si sono adattare a questi due picchi per le loro reazioni fotochimiche. Vi sono dei
principi generali per le reazioni di fotochimica:
• Solo la luce assorbita induce un cambiamento chimico: la luce deve essere
necessariamente assorbita dalla molecola per generare un cambiamento.
• Un fotone di luce assorbito può attivare al massimo una sola molecola: la resa
quantica può variare da 0 a 1. Il fotone non sempre attiva la molecola ma la sua resa
massima è comunque 1.
• La luce assorbita (fotone) cede la sua energia ad un elettrone. L’atomo di una
molecola assorbe la luce e ne trasferisce l’energia ad uno dei suoi elettroni; la
molecola/atomo in grado di fare ciò è detto cromoforo o pigmento.
• L’assorbimento di luce da parte dell’elettrone promuove il suo spostamento al
livello energetico successivo. L’elettrone/la molecola è eccitato.

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Il processo di assorbimento di energia del fotone da parte di un
elettrone è schematizzato in figura: vi è un atomo con un elettrone
su un orbitale esterno al nucleo che assorbirà l’energia dal fotone
che si sta avvicinando, solo se il fotone trasporta una quantità di
energia pari e identica a quella necessaria all’elettrone per passare
all’orbitale successivo.
Se l’energia è troppo bassa o troppo alta allora il fotone non verrà
assorbito. Tutto questo dipende dalla lunghezza d’onda del fotone
stesso; ogni fotone ha un contenuto energetico determinato da hn.
La lunghezza d’onda non esprime altro che il campo elettrico oscillante dell’elettrone e deve
matchare l’ordine di grandezza di quello dell’elettrone perché quando il fotone si avvicina
genera un dipolo che provoca l’oscillazione dell’elettrone. Solo in caso di oscillazioni sincrone
si avrà il trasferimento di energia dal fotone all’elettrone. Questo determina lo spettro di
assorbimento di una molecola.
Come già detto, non tutte le molecole possono assorbire la luce,
ma solo i cromofori. Questi hanno delle proprietà particolari che
favoriscono l’assorbimento di luce da parte degli elettroni; una di
queste è la presenza di sistemi coniugati di elettroni: sono dei
sistemi di elettroni delocalizzati e che si generano nelle molecole
che hanno alternanza di singoli e doppi legami. Questo genera
degli elettroni delocalizzati (p). Essi non orbitano intorno ad un solo nucleo ma anche a
nuclei vicini, senza appartenere a nessuno di essi; per questo motivo sono più proni a
passare allo stato energetico più eccitato.
Quasi tutte le reazioni fotochimiche biologiche dipendono dall’assorbimento della luce da
parte di pigmenti che utilizzano elettroni delocalizzati. La molecola dopo aver ricevuto un
quanto di luce passa allo stato eccitato in quanto uno dei suoi elettroni è passato allo stato
superiore.
L’elettrone eccitato non rimarrà in questo stato molto a lungo poiché molto instabile, quindi
la molecola deve trovare un modo di cedere questa energia. In questo stato la molecola è
molto reattiva e spesso da inizio a delle reazioni chimiche che solitamente non potrebbe
svolgere. Se non dovesse essere in grado di dare delle reazioni chimiche, la molecola decade
nel suo stato fondamentale emettendo l’energia inutilizzata sotto varie forme: luce, calore,
fosforescenza (de-eccitazione o decadimento). In una situazione di questo genere si viene
a creare un ciclo futile.
Come avviene l’assorbimento della luce da parte della clorofilla?
La clorofilla (in immagine il tipo a) è contenuta nelle membrane dei
tilacoidi e per questo necessita di proprietà idrofobiche. Essa si
compone di due parti: una coda idrocarburica che permette alla
molecola di ancorarsi al doppio strato lipidico e un anello porfirinico
(tetrapirrolo) in grado di assorbire la luce. All’interno dell’anello
troviamo un atomo di Mg, elemento essenziale per le piante in
diversi aspetti.
Nel caso della clorofilla b vi è una sostituzione al livello del pirrolo b
dove al posto di un CH3 vi sia un CHO, facendo sì che vi sia uno
spettro di assorbimento differente tra le due molecole.

Ma cos’è lo spettro di assorbimento? Esso è la percentuale di


assorbimento della luce in funzione della lunghezza d’onda (asse x
– assorbanza; asse y – lunghezze d’onda date alla molecola). La molecola di clorofilla a ha
due evidenti picchi nel blu (400-450nm) e nel rosso (650-700nm); tutte le altre lunghezze
d’onda non vengono assorbite, soprattutto nel verde (ecco perché le piante ci appaiono
verdi).

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La linea rossa mostra lo spettro di assorbimento della clorofilla
b estendendo il suo spettro di assorbimento che sarebbe
altrimenti molto ristretto. Rimangono le zone centrali che
sono comunque molto poco assorbite.
In parte queste lunghezze d’onda lasciate fuori
vengono assorbite da altri pigmenti che aiutano
quindi ad ottenere una maggiore efficienza; questi
sono i carotenoidi.
Essi assorbono in una zona che estende
l’assorbimento anche nel verde, contribuendo ad
immagazzinare luce a lunghezze d’onda limitanti
per le clorofille.
I carotenoidi sono per questo chiamati pigmenti accessori; in immagine è
mostrato il b-carotene, contenuto nelle carote sia per il nome sia per il suo colore
arancione. Oltre a questi ve ne sono molti altri: licopene (pomodori), Zeaxantina
(mais) e così via.
I carotenoidi differiscono dalle clorofille anche per la loro
struttura (no anello porfirinico). Sono molecole lineari
con un’alternanza di legami singoli e doppi con elettroni
delocalizzati che permettono l’assorbimento di energia
solare.
Qual è la differenza tra spettro di assorbimento e spettro
d’azione? Partiamo da un esperimento per determinare
lo spettro di azione della fotosintesi. Esso illustra un
contenitore di acqua con delle alghe (Spirogyra)
all’interno. La loro caratteristiche è la presenza di un
cloroplasto allungato e disposto a spirale nella cellula.
L’illuminazione di queste cellule, tramite un prisma che
divide la luce nelle sue lunghezze d’onda, ci permette di
osservare un particolare fenomeno. La vaschetta, piena
di acqua sporca, contiene numerosi batteri aerotattici
(batteri che si muovono verso un gradiente di ossigeno).
Il cloroplasto della Spirogyra avrà attività fotosintetica e la sua illuminazione per un tempo
prolungato ci permetterà di osservare l’accumulo dei batteri nelle zone dei cloroplasti che
sono colpite dalla componente blu e dalla componente rossa. Ma perché? Esse sono le zone
che producono ossigeno in quanto sono le zone di luce maggiormente assorbite dai
cloroplasti.
Qual è il collegamento di questo esperimento con lo
spettro di azione? Esso ci permette di mettere in relazione
l’accumulo di batteri in relazione alla lunghezza d’onda
della luce, creando uno spettro di azione.
Ponendo sull’asse delle x le lunghezze d’onda e sull’asse
delle y la quantità di ossigeno (numero di batteri),
otterremo una linea con due picchi: uno a 400-500nm e
uno intorno a 600-700nm. Questo grafico mostra
l’azione della fotosintesi e la sua efficienza nella
produzione di ossigeno.
Lo spettro di assorbimento (capacità di una pianta di assorbire ad una certa lunghezza
d’onda) è differente in quanto mette in relazione l’assorbanza e la lunghezza d’onda; essi
coincidono ma non sono concettualmente la stessa cosa.
Eccitazione della clorofilla e utilizzo dell’energia assorbita (fase fotochimica)

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Per cominciare dobbiamo definire due stati di eccitazione
possibili per la clorofilla: stato di singoletto e .
Parliamo di un elettrone che assorbe l’energia di un fotone e
passa al suo stato eccitato.
L’immagine illustra i livelli energetici raggiungibili da un
elettrone eccitato. Gli elettroni negli orbitali sono organizzati
in doppietti con spin opposti; lo stato fondamentale mostra
infatti due elettroni con spin opposto (frecce). Quando un
elettrone si eccita esso si trasferisce ad un livello energetico
più elevato, dove si tratterà per un certo periodo di tempo. Il
terzo caso è quello appresentato dalla freccina rossa:
l’elettrone assorbe energia e passa ad un livello energetico
superiore, ma in breve tempo decade ad un livello inferiore
intermedio perdendo parte della sua energia per invertire lo
spin.
Questo fenomeno di inversione fa si che i due elettroni si trovino con la stessa direzione di
spin (stato di tripletto - T), mentre le due direzioni opposte sono chiamati stato di singoletto
(S).
La nomenclatura di questi due stati deriva da un breve calcolo:
2s-1= stato della molecola
Dove s indica lo spin totale della molecola e ogni elettrone ha un valore di 1/2 , quindi se gli
spin sono opposti avremo: 2(+½-½)+1= 1 singoletto; se gli spin possiedono la stessa
direzione allora: 2(+½+½)+1= 3 tripletto.
Analizziamo adesso in dettaglio il processo di eccitazione
della molecola di clorofilla. Sull’asse delle x abbiamo il
doppietto elettronico con spin opposto, mentre sull’asse
delle y i livelli energetici che un elettrone eccitato può
raggiungere a seconda della quantità di energia che
assorbirà.
Assorbimento di un fotone di luce rossa (energia=
183kJ/mol): l’elettrone si sposterà al livello energetico
più basso (Chl*): stato relativamente stabile e di
singoletto; può essere mantenuto per un certo periodo di
tempo prima di dover cedere energia e tornare allo stato fondamentale.
(energia= 271kJ/mol): questa energia è superiore alla precedente e l’elettrone può quindi
passare allo stato energetico superiore (Chl*)
In questo caso l’elettrone è in uno stato instabile e rimarrà in questo stato per pochissimo
tempo in quanto vi è un’alta possibilità che l’elettrone ceda energia (mantiene stato
singoletto).
Parte dell’energia viene quindi dispersa sotto forma di calore passando allo stato energetico
inferiore (quello della luce rossa), ma non finisce qui. L’elettrone perde ulteriore energia
invertendo il suo spin e passando quindi allo stato di tripletto. Questo è un evento raro ma
che può comunque presentarsi.
A questo punto la molecola di clorofilla è allo stato eccitato, possiamo quindi seguire il
destino dell’energia accumulata. Ovviamente l’elettrone tenderà a lasciare l’energia per poter
tornare al suo stato fondamentale (de-eccitazione). Un elettrone allo stato eccitato (stabile
di singoletto) ha diverse possibilità di rientro allo stato fondamentale, nello specifico sono 5:
1. Calore: questo rientro non rappresenta nessun guadagno per la pianta perché la luce
immagazzinata è stata tutta convertita in calore.
2. Fluorescenza (luce): anche in questo caso non si ha nessun vantaggio poiché questa
emissione non si può sfruttare e la sua emissione avviene ad una lunghezza d’onda
maggiore rispetto a quella assorbita (minore energia). Questa differenza è chiamata

10
Shift di Stoke. In viola vi è la curva di assorbimento e in verde
quella di assorbimento, tra i due picchi vi è una certa differenza.
3. Fosforescenza (solo per stato di tripletto): in questo caso è
necessario re-invertire i proprio spin e vi è un’emissione di luce
ad una lunghezza d’onda specifica (nel verde e in modo
graduale).
Queste tre vie di eccitazione portano sì l’elettrone ad uno stato fondamentale ma senza
alcun beneficio per la pianta in quanto non vi è immagazzinamento di energia di alcun tipo.
Passiamo ora alle due modalità utili per la pianta:
4. Trasferimento dell’energia ad un’altra Chl: l’elettrone decade al suo stato
fondamentale emettendo per radiazione la sua energia che viene poi assorbita da una
Chl molto vicina e che la userà per eccitare uno dei suoi elettroni. Questo tipo di
trasferimento necessita di una geometria
specifica tra le due molecole e che non richiede
trasferimento di elettroni (no redox ma radiante).
Questo tipo di processo permette alle Chl di agire
come delle catene fino a quando non giungerà ad
una Chl speciale, la Chl del centro di reazione.
Questa è l’unica in grado di trasferire energia
tramite l’ultima modalità.
5. Trasferimento di elettroni (fotochimica): la Chl del centro di reazione, dopo essere
eccitata, possiede un elettrone che è in grado non solo di passare allo stato eccitato
ma di lasciare la molecola per passare ad un’altra. Prima reazione REDOX. Questo è il
processo fondamentale della fotosintesi.

Le due modalità appena descritte avvengono entrambe ma in serie, prima la 4 e a seguire la


5.
Le vie di eccitazione della clorofilla sono cinque e quelle mostrate a fianco sono le reazioni
delle differenti reazioni.
La clorofilla finale dell’ultima reazione è indicata con Chl+
perché è un radicale in quanto a perso un elettrone. Le
cinque vie sono però in competizione tra loro in quanto il
substrato utilizzato è lo stesso quindi la pianta deve cercare
di ridurre a minimo le prime tre e sfruttare al massimo le
ultime due. Ma come fare? L’unico modo è sfruttare la
cinetica delle diverse reazioni chimiche, in quanto ognuna di
queste avrà una sua tipica velocità di reazione. Questa viene

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espressa tramite la costante cinetica (k in s-1) che indicheremo k1-5; essa esprime la
quantità di substrato convertito nel tempo ed ecco spiegata anche la sua unità di misura.
Ecco riassunti alcuni principi di un’equazione cinetica che ci permettono di esprimere la
velocità (v) di una reazione.
Partiamo da una semplice reazione chimica:
aA + bB à cC + dD
essa può essere espressa anche in un altro modo:
v = k [A]nx[B]n
Dove i substrati sono elevati a n (concentrazione molare unitaria– 1 convenzionalmente). In
questa condizione la costante cinetica k esprime la velocità della reazione perché essa è
indipendente dalle concentrazioni ma è solo dipendente da k. La costante cinetica, a sua
volta, è indipendente dalle concentrazioni ma è dipendente da due fattori: la reazione stessa
(natura dei reagenti e energia di attivazione) e dalla temperatura a cui essa avviene.
Le vie di de-eccitazione della Chl sono sì in competizione ma avverranno principalmente le
reazioni con maggiore velocità quindi un valore elevato di k.
Per valutare l’efficienza con cui la pianta utilizza una via per de-eccitare la clorofilla dobbiamo
introdurre il concetto di resa quantica (F) ed è il rapporto tra i fotoni che decadono lungo
una via / fotoni assorbiti in totale e può avere un valore compreso tra 0 e 1. Possiamo
calcolare il valore della resa quantica di tutte e cinque le vie di de-eccitazione e notare come
la quella inerente alla fotochimica sia nettamente favorita rispetto alle altre. Essa infatti si
aggira intorno a 0.95 mentre il restante 0.5 è dovuto alla via della fluorescenza; queste sono
le due vie preferenziali di una foglia. La resa della fotochimica essendo quasi pari al massimo
non è lontanamente paragonabile a strumenti prodotti artificialmente dall’uomo.
Il massimo teorico di 1 è stabilito dalla legge fondamentale della fotochimica (di Einstein):
un fotone assorbito può eccitare al massimo un elettrone (pag. 7).
Il segreto dell’efficienza delle piante sta nel modo in cui è organizzato l’apparato fotosintetico
Il sistema comprende due componenti: le antenne e i fotosistemi (PSI e PSII). L’immagine
rappresenta in giallo i lipidi della membrana tilacoidale, in mezzo ad essa sono presenti delle
strutture verdi (le antenne) raggruppate in trimeri e che
circondano delle strutture centrali chiamate fotosistemi
(verde scuro e viola). I PS sono a loro volta composti da
differenti componenti, ad esempio il PSII possiede una
proteina D1 e una d2, ed entrambi sono associati come
dimeri.
La visuale dall’alto ci mostra come le antenne si organizzino
intorno ai due PS sia in trimeri che in monomeri, prendendo
sempre contatto tra loro.
Procediamo ora a studiare l’anatomia e la struttura delle
antenne.
Le antenne
Le antenne sono formate dall’associazione di proteine di membrana LHC (Light Harvesting
Complex) con i pigmenti di tre tipi (Chl a e b ed i carotenoidi).
La proteina è transmembrana con tre alfa eliche che hanno la funzione di coordinare i
pigmenti in una geometria ben precisa per poi trasferire l’energia di eccitazione da Chl a Chl.
Il complesso dell’antenna si trova nella membrana dei tilacoidi
che è nei grana o negli intergrana, immersi nello stroma del
cloroplasto.
Le proteine dell’antenna si trovano a loro volta raggruppate in
trimeri, dove tre LHC si associano in una disposizione specifica.

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Le Chl si trovano anche nei PS, in particolare troviamo quelle del centro
di reazione.
Ma qual è la funzione della struttura in cui le antenne circondano i
fotosistemi? Le antenne, come dice il nome, hanno il compito di
raccogliere l’energia luminosa e trasferirla da clorofilla in clorofilla
creando una via di trasferimento che ha come meta finale la clorofilla
del centro di reazione.
Lo scopo delle antenne è quello di aumentale la probabilità che la Chl del centro di reazione
venga continuamente eccitata poiché da sola ha poche possibilità di raccogliere
autonomamente energia.
RIASSUMENDO:
le proteine LHC hanno il compito di tenere nella corretta posizione/geometria le clorofille così
da permettere il passaggio di energia tra esse, si viene a creare quello che viene chiamato
effetto Forster che l’energia dell’elettrone eccitato nella Chl I entri in risonanza con l’elettrone
della Chl II (induca un’oscillazione simile). Questo processo ricorda un po’ il passaggio di
energia tra fotone ed elettrone, ma in questo caso sono coinvolti due elettroni.
Lo stesso metodo di passaggio dell’energia viene utilizzato per il passaggio di energia dai
carotenoidi alle clorofille, dimostrando la loro capacità di ricevere e cedere energia come le
Chl.
Come furono scoperte le antenne? Emerson e Arnold nel 1932 hanno
svolto degli esperimenti che li hanno portati a questa scoperta. Il sistema
modello piò utilizzato per lo studio della fotosintesi è l’alga unicellulare
Chlorella (~10µm). Possiedono un apparato fotosintetico simile a quello
delle piante superiori e sono molto semplici da coltivare.
Per svolgere questo esperimento hanno utilizzato “the lollipop” (il lecca-
lecca): un contenitore di vetro molto appiattito che possiede una grande
superficie per essere illuminata, uno spessore ridotto che permette alla
luce di raggiungere tutte le cellule ed infine un piccolo rubinetto per
prelevare velocemente dei campioni.
Il quesito di Emerson e Arnold era: quanto ossigeno viene prodotto dalla
fotosintesi all’aumentare della luce fornita alla Chlorella? Dopo aver
illuminato il lecca-lecca con diverse intensità luminose e dopo aver
misurato la quantità di ossigeno prodotta, i due scienziati hanno creato
un grafico con i risultati: la relazione che si ha tra le due componenti
inizialmente è di tipo lineare fino a quando non si raggiunge un plateau in cui il sistema
fotosintetico è ormai a saturazione e non produce maggiore ossigeno. Ma perché? Perché
tutte le alghe ormai essendo al massimo della loro capacità di produzione non possono
aumentare ulteriormente.
A questo punto hanno prelevato le Chlorelle del
lollipop e ne hanno quantificato le molecole di Chl
contenute; questo ha permesso di fare un rapporto tra
la quantità massima di ossigeno prodotta dal sistema
e la quantità di Chl presenti. Il risultato ci dice che per
produrre una molecola di O2 il sistema utilizza 2500
molecole di Chl. Le clorofille che servono per attivare
un centro di reazione devono essere molto molto
numerose, mostrando il concetto di antenna.
Dopo anni sappiamo che ogni singola antenna contiene circa 200-300 clorofille, però ogni
Chl del centro di reazione deve essere eccitata più di una volta per far sì che una molecola
di ossigeno venga liberata. Il calcolo svolto da E&A è corretto perché ogni antenna ha circa
300 Chl che devono lavorare 4 volte (per due centri di reazione = 8) che ci da un numero
molto simile a quello dei due scienziati (2400 actual vs 2500).

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Un altro aspetto che è stato dedotto è la resa quantica. L’analisi della fase lineare della
reazione (fase iniziale): se facciamo il rapporto tra ossigeno prodotto/quanti di luce assorbita
otteniamo la resa quantica di questa reazione (linea rossa) pari a 0.1; il numero è molto
piccolo perché viene rilasciata una molecola di ossigeno ogni 10 fotoni assorbiti.
Passiamo ad un secondo esperimento storico che ha portato alla scoperta dei due diversi
tipi di fotosistemi: esperimento della caduta nel rosso che ha portato a definire l’effetto
Emerson.
Emerson e Lewis hanno svolto questo tipo di misura: la resa quantica della fotosintesi
(relazione tra aumento di luce e liberazione di ossigeno in fase iniziale) usando tutte le
lunghezze d’onda del visibile. Il risultato è stato che a lunghezze d’onde appartenenti al rosso
(>680nm) la resa quantica diminuiva in maniera inspiegabile.
Il grafico riassume l’esperimento della caduta nel
rosso: sull’asse delle x troviamo le lunghezze
d’onda della luce visibile (400-700nm), e per ogni
valore sono stati misurati due parametri:
l’assorbanaza del sistema (in rosso) e la resa
quantica valutata per l’emissione di ossigeno (linea
nera). Considerando che la resa quantica è data
dalla molecola di ossigeno prodotta/il numero di
fotoni assorbiti, in teoria non deve riflettere lo
spettro di assorbimento perché essa non dipende
dalla capacità delle Chl di assorbire di più a
determinate lunghezze d’onda; essa dovrebbe quindi essere costante e mantenersi intorno
allo 0.1 dai 400 ai 680nm circa. Al valore appena citato, la resa quantica ha una repentina e
busca discesa quasi a 0.
Come si spiega questo? Emerson e Lewis hanno così effettuato
ulteriori esperimenti. In un esperimento hanno misurato la resa
quantica a tutte le lunghezze d’onda ma effettuando la misurazione
in due modi differenti: prima attraverso la semplice misurazione a
700nm poi aggiungendo una fonte di luce supplementare con una
lunghezza d’onda pari a 680. Il risultato è stato che la resa, a seguito
di aggiunta di un’ulteriore fonte, è tornata al valore canonico intorno a
0.1.
Ecco che venne scoperto l’effetto Emerson, che possiamo
dimostrare con il seguente esperimento: si misura il rate di
fotosintesi (espressa in percentuale 0-100%) in relazione al tipo di
luce che viene fornita alla pianta. Si parte al buio, viene poi data della
luce nel rosso lontano (20%), nuovamente buio e poi luce rossa
(20%). La terza misurazione viene effettuata illuminando insieme
con luce rossa e luce rosso lontano, la velocità di fotosintesi in
questo caso non è la somma delle due singole attività ma è
maggiore ad essa (effetto sinergico). In biologia, gli effetti sinergici ci suggeriscono che i due
stimoli agiscono entrambi su uno stesso meccanismo.
Tutto questo per dire che l’effetto Emerson è stato fondamentale per riconoscere la
presenza di due fotosistemi nell’apparato fotosintetico della pianta. I due fotosistemi
possiedono due optimum di luce differenti ed entrambi devono essere attivati per avere
un’attività fotosintetica ottimale.
Il PSI assorbe a lunghezze d’onda >680nm (rosso lontano) mentre il PSII assorbe
preferenzialmente a <680nm (rosso).
La struttura tridimensionale del PSI (anche chiamato P700), mostra numerose clorofille al
suo interno dove in blu riconosciamo la Chl del centro di reazione. Il tutto è presente in
duplice copia perché i PS sono complessi dimerici.

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Il PSII (P680) possiede una porzione che si trova nella soluzione interna dei tilacoidi, mentre
la porzione contenente le Chl è inserita in membrana.
In conclusione, i due fotosistemi non sono unità indipendenti tra loro ma lavorano in serie
per evolvere O2.
Catena di trasporto degli elettroni
La catena di trasporto degli elettroni si trova sulla
membrana dei tilacoidi e serve a ridurre il NADP+ a
NADPH usando come fonte di energia la luce.
Valutiamo per prima cosa le somiglianze e le
differenze tra la catena di trasporto dei cloroplasti e
quella dei mitocondri. L’immagine mostra come
entrambi siano formati da quattro complessi
principali, l’ultimo dei quali è rappresentato
dall’ATPsintasi che sfrutta il gradiente di protoni
convertendolo in ATP, non è parte della catena ma si
associa ad essa.
I tre elementi sono contenuti nella membrana dei
tilacoidi e sono: il PSII, il complesso dei citocromi
(Cyt b6f) e il PSI collegato ai citocromi tramite la
proteina solubile Plastocianina (PC). La
grandissima differenza tra le due catene è che nei mitocondri gli elettroni vengono donati
dal NADH che si ossida e diventa NAD+ e l’accettore finale è l’ossigeno che si trasforma in
acqua. Nei cloroplasti il processo è contrario, gli elettroni vengono donati dall’acqua e
l’accettore finale è il NADP+. Ma perché questa direzionalità? Il processo è consentito solo
utilizzando l’energia del sole che avviene solo al livello dei PS e quindi permette
l’assorbimento di energia e non la sua liberazione permettendo la reazione non spontanea.
La localizzazione della catena nei due organelli è molto importante: nel mitocondrio la catena
di trasporto è situata sulla membrana interna; nel cloroplasto la catena è situata non sulla
membrana interna ma sulla membrana del tilacoide. Qui i tre componenti generano un
gradiente di protoni tramite il loro accumulo all’interno del lume, la ATPsintasi sposterà i
protoni verso lo stroma e qui produrrà
ATP.
Possiamo ora analizzare passo dopo
passo l’andamento degli elettroni
attraverso di essa.
Lo schema base per comprendere il
passaggio degli elettroni in termini di
potenziale redox è lo schema a Z e
riassume il passaggio tra i tre principali
complessi sistemati in serie.
La cosa più importante di questo schema
è che il passaggio degli elettroni è, come
già detto, mostrato secondo i loro
potenziali redox (su asse delle y – detto
anche Ei e si misura in Volts) con valori che vanno da -1.2 a 0 a +1.2. Tutti i componenti che
sono elencati sono plottati in base al loro valore di potenziale redox partendo dall’acqua con
-0.8 fino al NADP che ha un valore di -0.3.
Dobbiamo pertanto capire cosa sia il potenziale redox: è una proprietà delle molecole ed
esprime la loro tendenza ad acquisire elettroni e a ridursi; esso viene calcolato per una
coppia di molecola ossidata/ridotta e può essere un valore positivo o negativo in Volts. Lo 0
è un valore di riferimento che corrisponde alla coppia 2H++ 2e- à H2 per questo tutte le

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sostanze che cedono ioni (elettroni) all’idrogeno avranno valori negativi, mentre tutte quelle
che tendono ad accettare avranno un potenziale redox positivo.
In questo schema a Z vi sono dei passaggi (da H2O a PSI) che avvengono con un progressivo
aumento del potenziale redox (+0.8à+1.2), lo stesso avviene per altre catene intermedie
(da P680 a P700) e quelle finali (da P700 a NADP+). Tutte queste reazioni sono spontanee
in quanto vanno da potenziali minori a potenziali maggiori.
Vi sono però dei punti (indicati dalle frecce nere) in cui la direzione di trasporto degli elettroni
si inverte e va da valori positivi a valori molto molto negativi (ex: +1.2à+0.6); questi salti
vengono compiuti solo grazie al fatto che i due PS sono energizzati dalla luce.
Guardiamo ora in dettaglio cosa accade al livello del P680, più esattamente alla clorofilla del
centro di reazione.
Vediamo rappresentata la clorofilla nello stato fondamentale, con i due elettroni del doppietto
elettronico appaiati; quando la clorofilla riceve il fotone (eccitazione) uno dei due elettroni
viene promosso all’orbitale superiore. Vi sono due conseguenze:
1. L’elettrone eccitato rende la molecola un forte riducente in quanto questo stesso
elettrone può passare ad una molecola con un potenziale redox maggiore.
2. L’elettrone rimasto spaiato ha invece bisogno di ristabilire il doppietto, diventando
quindi fortemente ossidante. Esso accetterà elettroni da qualsiasi altra molecola con
un potenziale più negativo del suo. Questa situazione è molto
peculiare in quanto questa molecola diventa in grado di
accettare un elettrone anche da molecole che normalmente
non cederebbero mai un elettrone ad essa. L’esempio è
rappresentato dall’acqua che ha un potenziale di circa +0.8V,
mentre la clorofilla ossidata ha un valore di +1.0V e può
accettare gli elettroni.
Lo stesso discorso vale anche per la clorofilla del P700: essa
possiede dei potenziali leggermente più negativi dove l’elettrone che
viene eccitato ha un potenziale di -0.8V, mentre il NADP è a -0.3V
che quindi può accettare elettroni dal nostro PSI eccitato. L’elettrone
spaiato diventa un ossidante e con il suo Ei può richiamare gli
elettroni del PSII eccitati che erano a valori abbastanza negativi.
Analizziamo ora l’aspetto strutturale dei complessi che formano la catena di trasporto degli
elettroni. La struttura tridimensionale è stata risolta grazie a tecniche di biologia strutturale.
Il fotosistema due è un dimero con una simmetria centrale con delle porzioni
transmembrana e porzioni esterne ad esse. Il PSII essendo molto complicato e con tante
proteine al suo interno ricrea una catena di trasporto per gli
elettroni. L’immagine mostra una semplificazione del P680
in cui distinguiamo alcuni elementi: le proteine D1 e D2 che
si incrociano al centro del fotosistema, e la D1 è quella che
tiene in posizione e coordina la Chl del centro di reazione
che andrà poi a cedere il suo elettrone. Queste due proteine
sono circondate da altre proteine (CP43, CP47, MSP e
b559). Tutte queste contribuiscono alla geometria delle
componenti centrali del PSII come: Pheo, QA e QB.
Seguiamo ora il destino dell’elettrone che lascerà la P680;
sappiamo che per fotochimica l’elettrone verrà acquisito da una molecola vicina alla clorofilla
e con un potenziale redox più positivo di quello della Chl. Questo composto è la Feofitina
(Pheo); anch’essa è una clorofilla ma con delle caratteristiche differenti in quanto non
presenta il Magnesio centrale. A qeusto punto vi è una separazione di carica dove la Pheo
ha una carica negativa e la P680 positiva. Inoltre, vi è la generazione di un DEi= 1.8V perché
l’elettrone è passato da +1.2V a -0.6V.

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il processo di separazione di carica che genera un gap di energia tra
P680 e Pheo è la reazione che sta alla base della conversione di energia
della fotosintesi, ovvero: l’energia del fotone viene convertita in energia
chimica e immagazzinata come potenziale redox.
L’elettrone appena ceduto alla Pheo può però ritornare alla Chl per
diversi fattori, se così fosse l’energia verrebbe sprecata senza alcun
vantaggio. Quindi cosa accade? In 200ps l’elettrone viene ceduto dalla
Pheo al QA, rendendo impossibile la reazione di ritorno. Le reazioni che
seguono sono più lente di quella appena avvenuta. Non solo vi è la
separazione di carica ma vi è anche l’allontanamento di queste due
cariche in cui una (+) è all’interno del PSII mentre l’altra (-) è all’esterno.
Il QB, ricevendo l’elettrone, subisce una semi-
riduzione - per essere completamente ridotto
necessita di una seconda carica negativa – ma
quella che si crea è una forma semi-stabile in
grado di attendere il secondo elettrone.
Il processo di riduzione graduale del Chinone B è
mostrato nell’immagine, possiamo quindi notare la forma intermedia che si chiama
Plastosemichinone e infine la forma ridotta il Plastoidrochinone (in seguito all’arrivo del
secondo elettrone vi è l’assorbimento di due protoni per poter ottenere la forma finale).
Questo ultimo passaggio è molto importante: il chinone B nella forma semiridotta preleva
due protoni dallo stroma per ridursi completamente a PQH2; lo stroma diventerà per questo
più alcalino generando un gradiente di protoni a cavallo della membrana del tilacoide
necessario all’ATPsintasi per la sintesi di ATP.
Vediamo ora come la Chl in forma di radicale positivo recupera l’elettrone dall’acqua. Il
processo di idrolisi dell’acqua avviene nel lume del tilacoide, infatti la parte del PSII deputata
al trasporto dell’elettrone è immersa nel lume ed è per questo costituita da proteine solubili.
Il complesso in questione è chiamato Complesso che evolve l’ossogeno (Oxygen Evolving
Complex – OEC) e al suo interno contiene degli atomi di Mn, un residuo Z (accettore di
elettroni parte del punto di interazione della proteina
D1 con OEC ed è una Tyr – non sappiamo a quale
proteina appartenga). La reazione bilanciata mostra
l’utilizzo di due molecole di acqua con la produzione
di due molecole di ossigeno, 4 protoni e 4 elettroni.
Per quanto riguarda il meccanismo di ossidazione
dell’acqua partiamo da un dato fondamentale molto
importante: tenendo una pianta al buio ed
illuminandola con dei flash di luce, noteremo che
sono necessari 3 flash di luce per evolvere la prima
molecola di ossigeno, mentre per le successive i
flash necessari saranno 4.
Affrontiamo il meccanismo enzimatico che portano al rilascio di ossigeno e di elettroni. Il
nostro punto di partenza è il Ciclo di Kok (in figura): il sistema si basa sui quattro atomi di
Mn posizionati a croce nel complesso di evoluzione. Il loro stato di ossidazione iniziale è 3
per i primi 3 e 4 per l’ultimo; questo sistema è in grado di rilasciare gli elettroni uno alla volta
cambiando continuamente lo stato di ossidazione. Si parte dallo stato S0, il sistema rilascia
quindi un elettrone e si arriva allo stato di ossidazione S1; dopo un secondo elettrone si arriva
a S2, e così via fino a S4. I quattro atomi sono ora tutti ossidati e il loro stato di ossidazione è
mostrato in figura. Ora però devono recuperare i quattro elettroni persi, ma da dove?
Dall’acqua!! I quattro manganese sono molto ossidanti e per questo strappano 4 elettroni a
due molecole di H2O. quest’ultima si scompone e forma 4H+ e una molecola di O2.

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Il sistema a questo punto è tornato al punto di partenza, ma
l’aspetto particolare è che l’acqua abbia ceduto tutti gli
elettroni insieme. Ma quando il complesso dei manganesi
cede gli elettroni una alla volta? Tutte le volte che P680 si
troverà con un “buco di elettroni” (quando viene eccitata) il
complesso dei Mn rilascia un elettrone alla Tyrz.
Solo ogni quattro flash di luce il complesso dei Mn strappa
i quattro elettroni dall’acqua che evolve in ossigeno mentre
il sistema torna a S0.
Gli elettroni vengono ceduti tramite il ciclo di Kok perché è
l’unico tramite il quale essi vengono ceduti tutti
contemporaneamente, evitando la formazione di radicali
dell’ossigeno (ROS), specie altamente reattive e pericolose. L’anione super-ossido ha un
elettrone spaiato che essendo molto reattiva è in grado di ossidare qualsiasi cosa rubando
elettroni a qualsiasi molecola.
Per finire richiamiamo il concetto espresso da Emerson ed Arnold che esprimeva la resa
quantica del processo fotosintetico (0.1) definendo il numero di fotoni necessari per
evolvere una molecola di ossigeno. Il risultato era che il numero di fotoni necessario era 10,
la domanda quindi è: perché 10 fotoni e non 4 come mostrato dal ciclo di Kok? Partiamo dal
presupposto che 10 è un numero sbagliato a causa di errori sperimentali, mentre quello
reale è 8. I fotoni sono 8 non perché il fotosistema debba lavorare due volte, ma perché la
catena di trasporto contiene due fotosistemi che devono lavorare in serie per far sì che venga
prodotta una molecola di ossigeno. Entrambi i PS devono quindi essere attivati 4 volte.
Continuiamo con la descrizione della catena
di trasporto degli elettroni: seguiamo il
destino degli elettroni che lasciano il PSII
sotto forma di PQH2. Essa si sposta all’interno
della membrana, essendo un composto
idrofobico, e diffonde verso il secondo
complesso b6f.
Dopo essere stato completamente ridotto il
PQH2 si stacca dal PSII e diffonde nella
membrana lipidica per prendere contatto con
il complesso dei citocromi.
Innanzitutto, analizziamo la struttura di questo complesso: vi sono due citocromi il b6 e l’f. i
citocromi sono delle proteine di membrana che contengono dei domini transmembrana
sotto forma di alpha-eliche, con la funzione di coordinare dei gruppi eme (anello rosso). Esso
assomiglia molto all’anello della clorofilla ma al suo interno troviamo un atomo di Fe; questo
ha la funzione di accettare e rilasciare elettroni (partecipa a delle redox). Il citocromo b6
coordina due gruppi eme con le sue eliche transmembrana (tra 3 e 4° elica) mentre il
citocromo f solo uno. Vi sono inoltre altre due proteine: la proteina Rieske Fe-S, essa è
ancorata in membrana ma possiede anche un dominio solubile dove vi sono gli atomi di Fe-
S con la funzione di scambiare elettroni; la quarta componente è la subunità quarta, non
coordina niente e possiede una funzione prettamente strutturale.
Analizziamo ora il passaggio degli elettroni all’interno del complesso dei citocromi.
L’immagine mostra una struttura molto semplificata del nostro complesso e notiamo come
questo sia inserito in membrana con una porzione stromale (citocromo b) e una luminale
(Fe-S e citocromo f). In verde vi è il PSII dal quale si è staccato il PQH2: questo composto
possiede due elettroni e due protoni; quando entra in contatto con il complesso dei citocromi,
cede tutte e quattro le sue cariche e ritorna nella sua forma ossidata. I due elettroni protoni
vengono rilasciati nel lume, aspetto molto importante perché la loro origine è lo stroma
(generazione di gradiente). I due elettroni vanno in due direzioni differenti:

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1. Il primo va alla proteina Rieske (centro Fe-S). Questo prosegue e viene poi donato al
gruppo eme del citocromo f e prosegue la sua strada tramite la Plastocianina (PC)
verso il PSI.
2. Il secondo al citocromo b: questa è una strada “sbagliata” in quanto non va dal PSI.
L’elettrone che ha ridotto il cyt b, passa al secondo gruppo eme della proteina e da qui
va a semi-ridurre uno dei chinoni ossidati (Q) che si era prodotto dall’ossidazione dei
chinoni poco prima. Uno dei Q ossidati viene ripescato e ri-ridotto con uno dei suoi
stessi elettroni (Q-) ed aspetta un secondo elettrone. Il secondo evento di riduzione
avviene quando un secondo PQH2 lascerà il PSII e rilascerà le sue cariche e
nuovamente, uno dei due elettroni verrà utilizzato per ridurre totalmente Q-. Due
elettroni vengono prelevati dallo stroma ed è nuovamente in forma PQH2. Ma perché
questo ciclo apparentemente futile? Il vantaggio è che ogni volta che viene ridotto
sottrae due protoni dallo stroma e li porta nel lume aumentando il gradiente di protoni
a cavallo della membrana (ciclo Q – forma di concentrazione dell’energia DpH).
Stiamo analizzando il trasferimento da PQ al Cyt bf dello schema a Z, dove si viene a
creare una differenza di potenziale redox (DEi=0.4V).
Andando avanti nella catena di trasporto abbiamo visto che gli
elettroni passano dal Cyt f alla plastocianina (PC). Questa è una
proteina solubile presente nel lume, ha ricevuto un elettrone dal
Cyt f e lo riesce ad accettare perché la sua struttura 3D presenta
un atomo di rame (Cu2+) che accetta e cede gli e-. Il suo nome
deriva proprio dalla colorazione bluastra dovuta al rame.
Analizziamo i passaggi dell’elettrone all’interno del fotosistema I.
Partiamo dalla PC che è attirata da una porzione del PSI sempre
presente nel lume, grazie alle cariche presenti che attraggono la
carica negativa. Le clorofille del centro di reazione sono due e
sono una doppia clorofilla (P700), ma quando accettano l’e-?
Solo dopo averne perso uno donandolo alla molecola A0,
anch’essa una clorofilla. Di conseguenza la clorofilla
P700 deve recuperarlo e lo prende dalla plastocianina.
L’elettrone passa poi ad A1, un fillochinone, che a sua volta lo cede ad una proteina Fe-S (FX).
Gli accettori successivi sono FA ed FB, tutte proteine con un centro Fe-S, ed infine si giunge
alla Ferredoxina (Fd) che si trova nella porzione stromatica. La Fd è l’accettore finale del PSI
ma anche di tutta la catena di trasporto degli elettroni. La ferrodossina usa l’elettrone
accettato per ridurre il NADP+. Per fare questo però non è sufficiente solo la proteina in sè,
ma serve l’aiuto di un enzima chiamato
Ferrodossina-NADPH-reduttasi. Dal punto di
vista del Ei siamo passati da un valore di +0.8V
(H2O) a -+0.4V (NADPH), questo sarebbe
impossibile da un punto di vista
termodinamico perché contro gradiente ma, i
due assorbimenti di energia solare permettono
il percorso in discesa per l’elettrone.
La ferredoxina riduce il NADP+ a NADPH grazie
al FNR, ma questo non è l’unico substrato che
viene ridotto ma vi sono altre quattro reazioni
possibili: riduzione del nitrito, riduzione del
solfito, riduzione delle tioredossine, la reazione
di Mehler e una reazione ciclica.
Analizziamole tutte nel dettaglio:

19
1. Riduzione del NADPH à per ridurre questa molecola sono necessari due elettroni, il
che vuol dire 2 Fd secondo la seguente reazione:

Cosa vuol dire NADP? Nicotinamide Adenin Dinucleotide Phosphate. Sono due
nucleotidi fusi: la nicotinamide (nicotina+zucchero+fosfato).
2. Riduzione del nitrito ad ammonio à nel cloroplasto entra dal citoplasma il nitrito
(forma parzialmente ridotta di azoto) dove viene completamente ridotto ad ammonio
da una reazione catalizzata dalla Nitrito Reduttasi (NIR). Essa utilizza 6 Fd, quindi 6e-
. Alla molecola di ammonio vengono donati ulteriori elettroni da 2Fd per poi formare
l’amminoacido glutammato.
3. Riduzione del solfito à parliamo sempre di nutrienti che la pianta trova nel terreno
in forma molto ossidata e che deve faticosamente ridurre come zolfo (o ammonio
come nel caso precedente) all’interno degli amminoacidi.
Si svolge anche questa all’interno del cloroplasto, sempre di giorno. Il composto entra
in una forma semi-ridotta, il solfito, che viene poi ulteriormente ridotta con il consumo
di 6Fd e la produzione di idrogeno di solfito (H2S) grazie alla catalizzazione
dell’enzima Solfito Reduttasi (SR). Questo può essere incorporato come zolfo
all’interno dell’amminoacido cisteina.
4. Riduzione delle tioredossine à cosa sono
le tioredossine? Sono piccole proteine che
fungono da antiossidanti che intervengono
nelle reazioni redox. Questa loro proprietà
deriva dalla loro struttura: vi sono dei ponti
disolfuro che ricevendo elettroni si rompono ed attivano la proteina che può a sua
volta cedere i suoi elettroni.
5. Catena di trasporto ciclico à gli elettroni escono
dalla catena di trasporto perché donati dal PSI alla
Fd, ma questa li reimmette nella catena al livello del
plastochinone. Nella foto possiamo notare come gli
elettroni rientrino nel passaggio tra PQ al cyt b6 ma
non è ancora ben chiaro. Qual è il vantaggio di
questo ciclo? Il passaggio degli elettroni nei
citocromi e nel PQH2 porta al mantenimento del
gradiente di protoni. È importante perché vi è la
produzione di ATP senza la produzione di ossigeno, ed è per questo utile in condizioni
particolari.
6. Reazione di Mehler (pseudo-ciclica) à gli elettroni in questo caso vengono accettati
dall’ossigeno che viene semi-ridotto e poi ridotto totalmente da un secondo elettrone
per dare acqua. Gli elettroni strappati all’acqua, in caso di reazione di Mehler, ritornano
ad acqua.
Partiamo dalla fotolisi dell’acqua e andiamo avanti fino al PSI che cede il suo elettrone
alla Fd che, in caso di assenza di substrati delle quattro reazioni precedenti, decide di
scaricarli sull’ossigeno. L’O2 ricevendo l’elettrone si trasforma in anione superossido:
molecola molto reattiva e pericolosa che strappa elettroni a qualsiasi molecola. Come
neutralizzarlo? La Superossido Dismutasi lo trasforma in acqua ossigenata (H2O2),
anche questa molecola molto reattiva. A questo punto interviene l’ascorbato, sistema
antiossidante per eccellenza. Questa molecola può cedere elettroni ossidandosi
convertendo l’acqua ossigenata in due molecole di acqua. Il monodeidro-ascorbato
deve ridursi nuovamente per poter essere riutilizzato. Gli elettroni necessari vengono

20
donai dalla Fd. Questa reazione non è
produttiva per la pianta se non per il
fatto che: la Fd sia stata ossidata così da
permettere alla catena di trasporto di
continuare a funzionare; e vi è la
produzione di DpH che vuol dire
produzione di ATP. Viene detta pseudo-
ciclica perché non è totalmente futile
ma il passaggio attraverso la catena
porta alla produzione di energia. Queste
possono essere considerate reazione di sfogo in caso di difficoltà.
La reazione di Mehler viene anche chiamata ciclo acqua-acqua proprio perché gli
elettroni partono e tornano alla molecola di acqua.
Vi sono numerosi erbicidi che sono stati messi appunto per sfruttare la catena di trasporto
degli elettroni: DCMU e Paraquat.
Il primo agisce al livello del trasferimento di elettroni da QA a QB, esso può fungere da
accettore di elettroni al posto del chinone B; Praquat agisce al livello della Fd, ricevendo gli
elettroni direttamente dal PSI e sostituendosi alla proteina. Il trasporto viene quindi interrotto
in entrambi i casi. Il danno è: per la pianta – dove gli elettroni vengono convogliati verso
sostanze che non sono efficienti e funzionali per la catena; ma ricevendo loro gli elettroni
sono in grado di ridurre qualsiasi cosa senza un criterio ma provocando diversi danni in caso
di riduzione di molecole come l’ossigeno.
ATP sintesi
La sintesi dell’ATP avviene alla fine della
catena di trasporto degli elettroni; essa
rappresenta la molecola, insieme al NADPH,
tramite il quale la pianta immagazzina
energia. Se nel primo composto l’energia
viene immagazzinata come potenziale
redox, nel caso della molecola di ATP sotto
forma di legame chimico ad alta energia tra
i vari P della molecola.
La produzione nel cloroplasto è molto simile a quella che troviamo all’interno del mitocondrio.
La catena di trasporto crea un gradiente di protoni a cavallo della membrana, trasferendo le
cariche positive in vari punti. Nel caso del cloroplasto il trasferimento di H+ avviene
principalmente al livello dei citocromi dove i protoni passano dallo stroma al lume dei
tilacoidi.
L’altra reazione che genera gradiente di protoni è l’idrolisi dell’acqua che determina parte del
gradiente di pH a cavallo della membrana. Alla fine della catena troviamo l’enzima deputato
alla sintesi dell’ATP: la ATPsintasi. È molto simile a quello presente nei mitocondri e ha una
pozione transmembrana, una luminale e una stromatica; in entrambi i casi abbiamo due
porzioni CF0 e CF1: la prima deputata a creare un percorso di trasferimento
per i protoni dal lumen allo stroma, tramite un trasporto passivo che
segue il gradiente. Essa inoltre sfrutta l’energia libera che si viene a
creare dal trasporto delle cariche positive per effettuare un
movimento rotatorio della parte CF1 (la porzione che fisicamente
sintetizza la molecola di ATP forzando una molecola di ADP e Pi).
Vi sono due aspetti importanti da descrivere sulla sintesi di ATP:
1. La meccanica di sintesi (cambiamenti conformazionali dell’enzima) à l’immagine
mostra una schematizzazione dell’ATPsintasi. Essa è formata da numerose subunità
dove: la parte in membrana (CF0) è formata da numerose subunità denominate C che
si uniscono a formare un oligomero (forma di tamburo); sono a loro volta in contatto

21
con una subunità a. All’interno del tamburo di c vi è la subunità g che ha la funzione di
perno e che assembla nella parte stromatica un complesso fatto di subunità ab (fpr,a
di cappello). L’oligomero di c accoglie i protoni i quali impongono un movimento
rotatorio nel passaggio dalla parte luminale a quella stromatica; questo movimento fa
ruotare anche la subunità g che a sua volta farà ruotare la porzione esterna (deputata
alla sintesi di ATP).
A cavallo della membrana viene disegnato il gradiente Dy (gradiente di potenziale
elettrochimico contenuto nella diversa concentrazione di protoni a cavallo della
membrana – somma delle componenti chimica e elettrica del gradiente).
L’immagine mostra una top view del complesso che sintetizza ATP: tre subunità
identiche con un sito di legame per i substrati (ADP e Pi) ma con gradi di affinità
diversa a seconda della rotazione che viene imposta dalla subunità g. Questi tre strati
sono denominati: open (i substrati possono entrare e caricarsi perché sito di legame
vuoto), loose (sito di legame più stretto ma non abbastanza per generare la reazione
di sintesi) e tight (legame così forte
che costringe i due substrati a reagire
tra loro). Il passaggio ai vari stati viene
imposta dalla rotazione del perno e
necessita consumo di energia che,
come detto prima, è rappresentata
dall’energia libera che si crea dal
passaggio di protoni con la rotazione
del “tamburo”. Il processo di
formazione dell’ATP è di tipo
meccanico.

2. La termodinamica della sintesi (descrizione delle forze in gioco e dei principi


termodinamici) à la teoria chemiosmotica (Mitchell, 1960) è quella che sta alla base
del processo di sintesi dell’ATP. Essa afferma: la differenza di potenziale elettrico e
quella di concentrazione dei protoni a cavallo della membrana, sono due forme
equivalenti di energia che possono essere usate per spiegare la sintesi di ATP. Tutto
questo viene riassunto nel concetto di forza proton motrice (mV) ovvero la forza
necessaria al processo di sintesi ed è la combinazione di queste due componenti
secondo la formula:
(mV) = DE – 58(DpH)

Questo è un modo per quantificare la quantità di


energia che un cloroplasto ha a disposizione per
produrre ATP. Un concetto simile lo abbiamo
affrontato con l’ATPasi (pompa protonica): questa
proteina usa l’energia dell’ATP per trasferire i protoni
e creare un gradiente, funzione opposta
all’ATPsintasi. Nel caso della prima, il trasferimento di
uno ione a cavallo di una membrana crea due gradienti: uno di concentrazione e uno
di potenziale elettrico, in quanto vi è lo spostamento di una carica. Lo stesso avviene
nel caso dell’ATPsintasi. Nel lume il pH è 4, mentre nello stroma è 8; quattro unità di
pH stanno ad indicare una variazione sulla scala logaritmica della concentrazione di
ioni H+ di 104, quindi molto elevata.
Una differenza importante tra cloroplasto e mitocondrio dove nel primo la
componente principale della FPM è il DpH, mentre nel secondo è il DE; ma questo non
ci interessa ai fini della sintesi di ATP ma perché si generano queste due? Nel
cloroplasto il gradiente si genera a cavallo della membrana del tilacoide e la direzione

22
va dallo stroma al lume; nel mitocondrio vi è lo
spostamento dalla matrice allo spazio inter-
membrana. Questo movimento genera un
potenziale elettrico (DE) il che determina un
impedimento per il trasferimento del successivo
protone, perché in questo caso si ha un movimento
contro gradiente elettrico, quindi si ha lo
spostamento di pochi H+. Per il cloroplasto la
situazione è differente in quanto vi sono dei sistemi
di co-trasporto di ioni e che permettono a cariche
uguali o opposte di spostarsi e dissipare il gradiente
elettrico. Per questo la catena è in grado di
accumulare protoni nel lume rendendo DpH la componente principale della FPM.
Ex: il valore -232mV rappresenta l’energia che l’ATPsintasi ha a disposizione. Ma
questo non ci dice molto in quanto noi siamo abituati all’uso del DG come misura.
Infatti, l’energia che si libera a seguito di idrolisi di ATP è 10.1 kCal/mole (energia di
sintesi sarà uguale). Dobbiamo ora convertire la nostra FPM in kCal per capire se essa
sia sufficiente o meno. Come facciamo? Usiamo la Costante di Faraday (F) che ci
consente appunto questa conversione (F = 0.023kCal/mole x mV): moltiplico quindi
FPM x zF, dove z tiene conto della carica dello ione (H+= +1). Il risultato è -5.4
kCal/mole. Ma cosa vuol dire? Lo spostamento di una mole di protoni non è sufficiente
per la sintesi di una molecola di ATP, ma necessita dello spostamento di una seconda
mole di protoni.

Un altro aspetto interessante è il fatto che il flusso di elettroni sia accoppiato alla sintesi di
ATP: se si arresta la sintesi di energia il gradiente di protoni, che non viene più dissipato
dall’ATPsintasi, si accumula a cavallo della membrana (FPM) che alla lunga blocca il flusso
di elettroni al livello della catena di trasporto. La sintesi dell’ATP è necessaria per permettere
il flusso di elettroni ecco perché si dice che le due componenti siano accoppiate. Questo ha
portato alla scoperta di condizioni speciali (patologiche e fisiologiche) in cui questi due
processi vengono disaccoppiati. Questi disaccoppianti possono essere di varia origine:
proteine che si inseriscono in membrana e che permettono l’uscita di protoni, dissipano il
gradiente sotto forma di calore (energia persa); vi sono delle molecole che si inseriscono in
membrana per dissipare il gradiente (ex: ormoni). La L-tiroxina o tetraiodo-L-tironina (T4)
che è un ormone tiroideo e che viene prodotto dagli organismi quando è necessario
aumentare la produzione di calore (con consumo di ossigeno perché il disaccoppiamento
avviene al livello della catena di trasporto degli elettroni). Vi sono anche dei veleni, come il
dinitrofenolo (DNP), che si inserisce al livello della membrana del mitocondrio e permette
alla catena di funzionare ma senza produzione di gradiente di protoni e senza produzione di
ATP (morte dell’organismo).
Una proteina che funge da disaccoppiante prodotta dagli organismi umani e mammiferi è
UCP-1 (termogenina), essa viene usata dalle cellule adipose del grasso bruno per produrre
calore. Questa proteina viene inserita in membrana dissipando il gradiente protonico per

23
produrre calore. Una specie vegetale che usa un metodo disaccoppiante è Arum: durante la
fioritura, la parte centrale detta spadice, aumenta la temperatura per rilasciare odori pungenti
che attirino gli impollinatori. Questo meccanismo di termogenesi è basato sul
disaccoppiamento.
I disaccoppianti possono essere usati anche come difesa contro i patogeni. Un esempio è la
cumarina, un prodotto del metabolismo secondario delle piante, che attacca la catena di
trasporto degli elettroni di organismi che attaccano la pianta (questa tossina non è
funzionale contro la pianta grazie a delle modificazioni). Vi sono anche dei Cyanobacteria
che producono delle tossine molto pericolose che hanno come target la catena di trasporto
del cloroplasto delle piante causando anche la morte delle piante.
FOTOINIBIZIONE
Questo argomento è di grande importanza per la pianta in quanto la luce non ha solo effetti
positivi ma ha anche un effetto tossico.
Questo evento si verifica continuamente nella vita di una pianta in quanto l’illuminazione
solare, specialmente in alcune stagione, è costante e anche molto intensa e per questo la
pianta ha escogitato delle strategie per proteggersi.
L’immagine mostra l’attività
fotosintetica di una pianta (emissione
di ossigeno) in relazione all’intensità
della luce (mol fotoni/m2s). Come si
vede ad intensità luminose molto
basse la relazione è di tipo lineare, ma
questa curva arriva ben presto a
saturazione e per un lungo range di
intensità luminose la fotosintesi si mantiene costante senza alcuna conseguenza. Ad un
certo punto si ha uno switch dove, superata la linea tratteggiata, l’aumento di intensità
luminosa sta ad indicare una diminuzione dell’attività di fotosintesi. Queste intensità
luminose determinano la fotoinibizione. Quando si ha questo fenomeno?
• Quando i danni al fotosistema sono di tipo irreversibile: antenne assorbono un
eccesso di energia con conseguenze importanti
o Produzione di ROS à danneggiano
l’apparato fotosintetico. L’antenna
dopo aver assorbito molta energia fa
si che i pathway utili di dissipazione
dell’energia (4 e 5 pag 11) non siano
disponibili, quindi l’elettrone eccitato
passerà con grande probabilità allo
stato di tripletto. Questo stato è in
grado di passare diretta,mente la
sua energia all’ossigeno creando la
produzione di stati di semi-riduzione
dell’O2 molto reattive. Questo fa sì
che l’apparato fotosintetico venga danneggiato e che componenti
fondamentali vengano ossidati. Un esempio è la proteina D1.
o Danno irreversibile alla proteina D1 (ossidazione da parte di ROS) del PSII
à essa è una proteina strutturale di fondamentale importanza per l’apparato
fotosintetico e il suo danneggiamento rappresenta un danno non indifferente.
La pianta attua per questo delle strategie di prevenzione.
RIASSUMENDO:
I fotoni assorbiti dalla pianta sono utilizzati principalmente per la fotosintesi ma la maggior
parte di essi viene assorbita come eccesso di energia assorbita e che va dissipata per evitare
l’accumulo e la fotoinibizione. I pathway di dissipazione presentano come capostipite il

24
calore. Però questa strategia è efficace sì ma non risolve il problema al 100%. Vi è una
piccola parte che non viene sottoposta a questo processo e che porta ai passaggi prima
descritti e che hanno come risultato finale la fotoinibizione.
Vi sono due strategie per evitare il danneggiamento della pianta:
• Diminuire l’assorbimento di luce à la pianta orienta i cloroplasti in modo da
diminuire la loro superficie esposta alla luce.
L’immagine mostra una rappresentazione dall’alto di
una cellula. In luce normale i cloroplasti si dispongono
in maniera uniforme e ben distribuita su tutta la
superficie in modo da ricevere il più possibile la luce.
In caso di luce molto forte, i cloroplasti si spostano
verso i lati della cellula disponendosi sul contorno e
impilandosi uno con l’altro così da proteggersi.
Questo meccanismo di spostamento dei cloroplasti
è un esempio particolare di trasduzione del segnale.
La luce rappresenta il segnale percepito da una
proteina esterna al fotosistema ed in grado di
ricevere la luce blu (fototropina – phot2). È una
proteina in contatto con il cloroplasto che, a sua
volta, è in contatto con un’actina speciale sulla
quale si spostano i cloroplasti con una certa
direzionalità. Non tutte le intensità luminose
producono questo segnale, ma solo la
componente blu. Ovviamente lo spostamento sul
filamento di actina avviene grazie a proteina
motrici (miosine – Miosina XI in questo caso).
Una seconda tecnica per la diminuzione dell’assorbimento di luce è la riduzione della
superficie delle antenne (diminuzione della superficie di raccolta della luce al livello
dei fotosistemi). Le proteine associate alle antenne vengono indicate con un nome
generale di LHCI, ma ne esistono di tipologie diverse a
seconda delle subunità che le compongono. Possiamo per
questo distinguere quattro proteine che prendono il nome
di Lhca1-4. Quando la pianta percepisce un eccesso di luce,
la pianta diminuisce immediatamente la componente
Lhca4, che viene sintetizzata più lentamente e il PSI viene
eccitato meno e quindi riceve meno energia.
Il terzo sistema è quello di riequilibrare l’assorbimento di
energia tra i due PS: la quantità di antenne intorno ai due
fotosistemi viene modificata con uno spostamento
direzionale da PSII a PSI. Quando il PSII riceve molta
energia e le sue antenne sono sovra-eccitate, alcune
proteine delle LHCII si fosforilano. Una volta fosforilata, si
stacca da suo sistema e diffondendo in membrana si va
ad associare al fotosistema I. Questa riequilibrazione può aiutare a controllare
l’assorbimento di energia.
La distribuzione dei fotosistemi sulle membrane dei tilacoidi è di tipo asimmetrico: il
PSII è prevalentemente presente nei grana, ovvero le zone di membrana che si
impilano; il PSI si trova preferenzialmente nella periferia della membrana,
esattamente sui lati. Lo stesso avviene per l’ATPsintasi. Ma perché? Entrambi devono
essere in contatto con lo stroma in quanto il PSI cede elettroni alla Fd, una proteina
stomatica, mentre l’ATPsintasi ha bisogno dei Pi che si trovano nello stroma. Una
localizzazione interna di questi apparati renderebbero le loro funzioni molto più

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inefficienti per la mancanza dei loro substrati. Questo rende più complicato il
passaggio di antenne tra i due fotosistemi.
Il passaggio delle antenne tra i due PS è detto
anche transizione di stato, perché si passa
dallo stato 1 (LCHII ancora legata al PSII) allo
stato 2 (LCHII è sul PSI). Nello stato normale il
PSII ha la sua antenna che non è solo in
contatto con esso, ma è ancorata alla
membrana del tilacoide sottostante tramite un
peduncolo. In eccesso di energia, quando la
redox non riesce a dissipare energia con la
stessa velocità con cui le antenne la
forniscono, una proteina chinasi viene attivata.
Essa è sensibile allo stato redox della
membrana perché in caso di accumulo di
PQH2 avviene la sua attivazione. La chinasi
fosforila la proteina LHCII aggiungendo un Pi al dominio solubile con la quale la
proteina si ancorava alla membrana sottostante; la fosforilazione fa perdere il contatto
con la membrana e ne permette la diffusione nella membrana dove può incontrare il
PSI. Una volta legato a quest’ultimo essa si comporta come una normale antenna. In
caso di diminuzione dell’eccitazione, l’antenna viene defosforilata e torna al suo PS
iniziale.
• Dissipare l’energia assorbita à nel caso in cui le precedenti strategie non abbiano
funzionato la pianta cerca quindi di dissiparla. La modalità principale è la produzione
di calore, tramite il processo di smorzamento non-fotochimico dell’energia
(quenching). Questa è una delle modalità di de-eccitazione che abbiamo analizzato
in precedenza (pag 11) e che non portano alla fotochimica. Si deve sviluppare un
cambiamento che permetta alle antenne di scaricare energia con questo pathway.
Cosa succede? In queste condizioni, il gradiente di protoni molto elevato ha un effetto
sulla struttura delle antenne in quanto queste percepiscono la variazione di pH. Esse
rispondono alterando la struttura delle proteine e dispongono le clorofille in un modo
più disordinato, non rispettando la geometria che garantisce il trasferimento di
energia. Un altro evento determinato dal pH è la conversione dei carotenoidi: altra
reazione biochimica che altera i rapporti fra i pigmenti. Si vengono a determinare così
delle trappole di energia: zone dove il passaggio di energia da pigmento a pigmento è
sfavorito e viene favorita l’emissione di energia sotto forma di calore.
L’interconversione delle xantofille rappresenta una
delle risposte al DpH: le xantofille con delle reazioni
di de-epossidazione si trasformano in altre forme del
composto. Ex: la violaxantina (Vx) con due passaggi
di de-epossidazione, dovuti alla luce e al DpH, si
trasforma in Zeaxantina (Zx). Questa molecola
riesce comunque a funzionare ma non nello stesso modo della Vx. Le proteine delle
antenne subiscono delle modifiche strutturali
anche nella porzione transmembrana.
Le trappole di energia sono così strutturate.
Quando il sistema è in pericolo di fotoinibizione
si ha una riorganizzazione delle antenne, in
particolare si formano delle aggregazioni: le LHC
che hanno subito de-epossidazione si
aggregano tra loro e sulle quali si verifica il
quenching non fotochimico. Anche le proteine

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CP che coordinano le clorofille del centro di reazione tendono ad aggregarsi e formare
una zona di dissipazione dell’energia.
Quest’ultimo sistema è molto efficace ma vi è sempre una piccola parte di energia che non
viene dissipata e che può rappresentare un pericolo per la pianta. Ma come fa a far danno?
Gli elettroni eccitati permangono a lungo allo stato di singoletto e possono subire l’inversione
dello spin e passare allo stato di tripletto. In questo stato la configurazione elettronica della
Chl è in grado di passare energia all’O2. Questo passaggio da inizio ad una cascata di reazioni
che formano delle specie reattive dell’ossigeno e ossidano qualsiasi cosa.
L’ossigeno nel suo stato fondamentale è nello stato di
tripletto, in quanto i suoi due elettroni spaiati hanno lo
stesso spin, rendendolo molto reattivo ma molto lento
nelle sue reazioni. L’accettare energia dalla clorofilla
l’ossigeno passa allo stato di singoletto e può ora reagire
molto più velocemente. Vi è un meccanismo che riduce
l’ossigeno singoletto e ha come protagonista i carotenoidi.
Essi sono in grado di competere con l’ossigeno e ricevere
l’energia dalla Chl nello stato di tripletto e poi trasformarla
in calore.
Torniamo al nostro schema e proseguiamo verso il basso: in caso di danno alla cellula dovuta
al non totale quenching da parte dei carotenoidi, la pianta è comunque in grado di riparare la
proteina D1. Il processo di sintesi e turn-over delle proteine del fotosistema è molto
complicato nonostante questo avvenga normalmente all’interno di una cellula.
In caso di intensità luminose non elevate allora la sintesi e sostituzione avvengono in tempi
compatibili con il mantenimento del sistema funzionante; quando le intensità sono maggiori
e si entra in fotoinibizione, il danneggiamento della proteina D1 è molto più veloce del
sistema di riparazione e quindi si arriva ad avere un danno.
Il processo di sostituzione, come già accennato è molto complicato. L’immagine mostra i
passaggi salienti del turn-over della proteina D1.
L’eccesso di luce trasforma la proteina D1 in proteina danneggiata, come segnalazione il
cloroplasto fosforila l’intero complesso così
da dare inizio al processo di riparazione.
Inizia ora il disassemblaggio del PSII: per
prima cosa viene rimosso l’OEC (parte
inferiore luminale),
la proteina D1 può essere degradata e
rimossa. Giunge nel punto di inserimento
della proteina un ribosoma, questo sta già
traducendo l’mRNA che codifica per
questa proteina. Man mano che il
ribosoma traduce, la catena nascente
viene inserita nella membrana e inizia ad
assumere la sua conformazione finale
nella membrana del tilacoide. Terminata la
traduzione, il ribosoma si stacca, la proteina si assembla nelle sue configurazioni superiori e
il fotosistema può rassembrarsi. Ecco che è pronto per essere nuovamente funzionale.
Vi è un problema: la traduzione completa della proteina D1 intervengono delle componenti
che provengono dal nucleo. Il gene della proteina (psbA) è un gene del cloroplasto, ma la
sua traduzione è controllata dal nucleo. Questo crea dei problemi di comunicazione in
quanto il nucleo deve ricevere dei segnali per attivare le proteine enzimatiche che
permetteranno la traduzione della proteina del fotosistema.
Come avviene la segnalazione del cloroplasto al nucleo? Tramite dei segnali retrogradi. Essi
sono segnali di stress e hanno a che fare con l’elevata energia accumulata nel cloroplasto;

27
questo ci fa pensare a delle reazioni redox che riducono i ponti
disolfuro ed entrano nel nucleo dove segnalano la necessità della
sintesi di D1.
Un segnale abbondante nel cloroplasto sotto stress è l’ossigeno
singoletto (1O2): elemento molto reattivo e reagisce tramite
intermediari, infatti, potrebbe ossidare i carotenoidi. Uno dei prodotti di questa ossidazione
potrebbe essere il beta-cyclocitral che sembra essere un segnale di stress per il nucleo.
Se anche questa strategia di riparazione non è sufficiente si ha il danno permanente al
fotosistema e la pianta va in fotoinibizione.
RIASSUMENDO:
La pianta per evitare fotoinibizione può:
• Ridurre assorbimento di luce:
o Movimento dei cloroplasti
o Regolare la dimensione
dell’antenna in PSI (LHC4)
o Equilibrare l’assorbimento fra
i fotosistemi (transizione di
stato)
• Dissipare l’energia assorbita:
o Smorzamento non
fotochimico (convesione dei
carotenoidi, DpH)
o Smorzamento del tripletto della Chl da parte dei carotenoidi
• Sostituzione di D1 mediante sintesi ex-novo
FOTOSINTESI: LE REAZIONI DEL CARBONIO (Ciclo di Calvin)
Passiamo ora alle reazioni biochimiche della
fotosintesi, queste venivano dette “al buio” anche
se avvengono solo durante il giorno. Le reazioni
fotochimiche terminano con la produzione di
ATP e NADPH, questi immagazzinano parte
dell’energia dei fotoni.
In questa seconda fare l’energia immagazzinata
viene utilizzata per ridurre la CO2 (forma molto
ossidata) a CH2O (carboidrato – forma
altamente ridotta). La riduzione del carbonio
avviene sì nel cloroplasto, ma nello stroma. Il
ciclo del carbonio viene anche detto ciclo di Calvin e
viene catalizzato da una lunga serie di enzimi che si
trovano disciolti nello stroma.
Partiamo da una domanda: qual è il primo composto
organico in cui veniva inserita la molecola di CO2?
Per trovare una risposta Calvin ha svolto il seguente
esperimento: utilizzando un lollipop (pag 13) viene
coltivata una coltura di Chlorella. Troviamo un
rubinetto di aria dal quale si può insufflare aria o CO2,
vi è un rubinetto inferiore per prelevare i campioni di coltura (versate in alcohol bollente per
bloccare le reazioni biochimiche e denaturare le cellule all’istante) e sulla destra vi è l’entrata
per una siringa tramite la quale viene iniettata della CO2 radioattiva con l’atomo 14C che ci
servirà per identificare lo zucchero che incorpora la molecola di anidride carbonica.

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Questo carbonio radioattivo viene fornito come idrogeno bicarbonato (H14CO3-) in quanto
l’anidride carbonica gassosa è difficile da somministrare. Questo a contatto con la soluzione
acida della coltura libererà CO2 radioattiva.
A pochi secondi dall’immissione del bicarbonato viene prelevata un campione
di coltura per poi studiarne il primo composto coinvolto. Dal campione
prelevato si purificano le sostanze solubili dal resto della cellula che vengono
depositate su un foglio di carta per essere separate per cromatografia
(cromatografia su carta). Essa si basa sul trascinamento da parte del solvente
delle sostanze presenti nella goccia che abbiamo messo sulla carta (ogni
solvente ha un suo criterio). Per un’ulteriore separazione si gira il foglio di 90°
e si immerge il foglio in un differente solvente (in questo caso, risalendo per
capillarità le sostanze si sposteranno in maniera diversa).
I fogli di carta cromatografica vengono posti su delle lastre fotografiche
e, se in una macchia (spot) è presente una sostanza che ha
incorporato la CO2 con 14C allora riusciremo a vederla. Meno secondi
intercorrono dal momento che si immette la CO2 al prelevamento del
campione meno spot vedremo.
Calvin è riuscito ad individuare il composto che per primo riesce ad
incorporare l’anidride carbonica: il PGA (Acido 3-Fosfoglicerico).
Come si fa a determinare che sia proprio lui? Esso era il composto più
abbondante presente sul foglio. Se si ripete l’esperimento dopo 30s
noteremo che anche molti altri composti sono presenti in quantità
elevata e per questo non siamo in grado di definire quale sia il primo della catena.
La reazione completa è la seguente:

Ribulosio-1,5-bifosfato + CO2 (carbossilazione) à intermedio instabile a 6 atomi di C


(idrolisi) à 2 PGA

La reazione di carbossilazione è la prima reazione del ciclo di Calvin (o ciclo del carbonio).
Parliamo di un ciclo perché il Ribulosio-1,5-bifosfato è il substrato della prima reazione ed è
anche il prodotto dell’ultima.
Il ciclo di Calvin si divide in tre fasi:
1. Fase di carbossilazione à in cui entra la CO2.
2. Fase di riduzione à riduzione dell’anidride carbonica a
carboidrato
3. Fase di rigenerazione del substrato à permette al ciclo di
avvenire continuamente e anche numerose volte.
La prima fase è quella della carbossilazione, ma l’aspetto
fondamentale di questa reazione è rappresentato dalla RuBisCO,
enzima deputato alla sua catalizzazione. Il suo ruolo è quello di fissare la CO2 all’interno di
una molecola organica. RuBisco vuol dire Ribulosio-bifosfato carbossilasi e Ossigenasi;
essa catalizza l’incorporazione della molecola di CO2 o di O2 sullo stesso substrato (RuBP).

29
La RuBisCO è un enzima eccezionale in quanto è composto da 16 subunità:
8 di tipo L (large) e 8 di tipo S (small). Le L si posizionano in modo centrale
a formare un cilindro che da entrabe le parti viene chiuso da 4 subunità S.
Le due subunità sono il prodotto di due geni differenti: la subunità small è di
origine nucleare (RbcS – RuBisCO Small) mentre la subunità grande è di
origine cloroplastica (RbcL – RuBisCO Large). La particolarità delle piante di
aver spostato geni di origine cloroplastica nel nucleo l’avevamo già incontrata ma questo
può essere un vantaggio ma anche uno svantaggio; il cloroplasto non è un’unità individuale
ma è sotto il controllo della cellula il che è un bene, mentre quando il cloroplasto necessita
di alcune componenti necessita il supporto del nucleo e la sua sincronizzazione con esso
per poter sintetizzare alcune proteine. Il segnale di trascrizione in questo caso parte dalla
luce, in quanto questa indica la possibilità per la pianta di fare fotosintesi.
Un’altra caratteristica importante della RuBisCO è il suo turn-over molto molto lento
(numero di molecole processate nel tempo), infatti essa incorpora 3 CO2/sec che per un
enzima è una velocità molto bassa (ex: anidrasi carbonica – 106/s).
La pianta per incorporare più anidride carbonica possibile supplisce aumentando il numero
di copie della RuBisCO; essa diventa quindi uno degli enzimi più abbondanti sulla terra in
quanto rappresenta il 50% delle proteine solubili della foglia.
Passiamo alla fase di riduzione. Questa è la fase in cui avviene il consumo di NADPH e ATP,
il ciclo di calvin usa i prodotti della fase luminosa per ridurre l’anidride carbonica a carboidrato
(gruppo aldeidico – aldeide CH2O).
La riduzione del PGA avviene in due tempi:
1. Si consuma ATP per attivare il gruppo carbossilico
COO- (fosforilazione) catalizzata dalla Fosfoglicerato
chinasi (PGK) – stacca un fosfato dall’ATP e viene
attacato al COO- ottenendo 1,3-bifosfoglicerato
(1,3BPG o BPG).
2. Riduzione del BPG a Gliceraldeide 3-fosfato (GAP) con ossidazione del NADPH che
torna nella sua forma NADP+. L’enzima che catalizza questa reazione è il
Gliceraldeide 3-fosfato deidrogenasi (GAPDH).
Il costo energetico fino ad ora è pari a 1 NADPH e un ATP per ogni molecola di PGA prodotta
(2) pertanto il costo totale fino ad ora è: 2 ATP e 2 NADPH per ogni CO2 inserita.
Queste reazioni sono equivalenti a quelle che accadono nel citosol e riguardano la
respirazione e la glicolisi. Dobbiamo però ricordare che in questo caso le due molecole
energetiche verranno prodotte e non consumate.
Vi è una grande differenza tra la GAPDH che troviamo nei cloroplasti e quella del citosol:
quella del cloroplasto può utiizzare come substrati sia il NADPH sia il NADH, mentre quella
della glicolisi funziona solo in presenza di NAD+ mentre non funziona con NADP+ (isoenzima
selettivo).
Passiamo alla fase di rigenerazione. Il prodotto della
riduzione, il GAP, lascerà il ciclo di Calvin ma bisogna prima
comprendere il bilanciamento degli atomi di C del ciclo,
con le molecole di CO2 che entrano ed escono per capire
come possa il ciclo generare anche il proprio substrato.
Per capire bene il ciclo di Calvin bisogna fare la
stechiometria delle reazioni del carbonio; essa va fatta
partendo dall’utilizzo di 3 RuBP (5 atomi di C) à
3x5C=15C; ad ogni molecola viene incorporata una
molecola di CO2 (3xCO2=3C) à 15C+3C=18C.
I 18C si scompongono in 3PGA (3Cx6=18C). Segue la
fase di riduzione in cui le molecole di carbonio non variano
in quanto abbiamo 3GAP (6Cx3=18C).

30
Inizia ora la fase di rigenerazione: 1 GAP esce come output e si passa quindi da 18C-3C
(GAP)= 15C, rimangono le cinque molecole che rimangono nel ciclo e che entrano nella fase
citata. Vi sono numerosissime reazioni in cui gli atomi vengono trasferiti tra diverse molecole
ma senza cambiare il numero totale fino all’evento di fosforilazione. In questo passaggio, la
fosforilazione del Ribulosio farà sì che si generi il RuBP con l’utilizzo di 3ATP. (una per ogni
molecola di ribulosio fosforilata).
Per fare un bilancio totale del costo energetico per la fissazione di CO2 avremo che, per
3CO2, nella fase di riduzione si sono consumate 6ATP e 6NADPH e nella rigenerazione si
aggiungono 3 molecole di ATP.
TOTALE: 3CO2 à6ATP+3ATP=9ATP
6NADPH
1CO2 à 3ATP 2NADPH
Guardiamo nel dettaglio la fase di rigenerazione. Questa parte da 5GAP che sono in equilibrio
con il diidrossiacetone fosfato (DHAP).
In una prima reazione di condensazione, catalizzata dall’aldolasi, GAP + DHAP à F1,6bP
(Fruttosio-1,6-bifosfato). Questo viene fosforilato da una fosfatasi a Fruttosio-6-fosfato
(F6P). F6P+GAPà molecola a 9C che idrolizza in due molecole à Xilulosio5P (5C) +
Eritrosio4P (4C). Eritrosio4P+GAP à Sedoeptulosio1,7bP (7C) à (defosforilazione) à
Sedoeptulosio7P. Sedoeptulosio7P+GAP (7C+3C=10C) à Ribosio5P+Xilulosio5P
(5C+5C). Conversione di tutti gli zuccheri a 5C in Ribulosio5P
(2Xilulosio5P+1Ribosio5P=3Ribulosio5P).

Il substrato della RuBisCO è il RuBP quindi è necessaria una fosforilazione svolta da una
chinasi; per ogni zucchero è necessario un fosfato quindi si ha un consumo di 3ATP.

31
La fase di rigenerazione di Calvin assomiglia alla via ossidativa dei pentosi fosfati del
citoplasma (OPPP), via molto particolare che produce NADPH e non NADH. Inoltre, viene
usata per produrre i pentosi a partire dal Glucosio6P che perde una CO2. I pentosi non
utilizzati vengono convertiti in GAP.
Tirando le somme del costo energetico il ciclo di Calvin usa 3ATP e 2NADPH per 1CO2 per
la produzione di un esoso è: 18 ATP e 12 NADPH.
Questo costo ci serve per calcolare l’efficienza energetica o termodinamica del ciclo di
Calvin. Bisogna fare il rapporto tra l’energia richiesta per formare una molecola di zucchero
e l’energia rilasciata da questo zucchero quando viene utilizzato.
Costo: 12 NADPH e 18 ATP.
OssidazioneNADPH=217kJ/mole
IdrolisiATP=29kJ/mole
Il costo totale per la formazione di una mole
di esoso è pari a 3126kJ. Sappiamo che uno
zucchero dalla sua ossidazione rilascerà
2804kJ, quindi l’efficienza è data dal
rapporto tra l’energia liberata e quella
consumata con un valore percentuale pari al
90%.
Ma quanta energia ci è voluta per la
produzione di queste molecole energetiche?
Per la produzione di 1 NADPH sono
necessari 2e- che, a loro volta, necessitano di
2 fotoni. Contando che per ogni anidride
carbonica mi servono 2 NADPH il numero di
fotoni totale sarà
2(fotoni)x2(elettroni)x2(NADPH)= 8 fotoni.
Ma a quanta energia corrispondono? Dipende
dal tipo di fotone assorbito, nel caso di minor
costo energetico (luce rossa – maggiore
lunghezza d’onda): 680nm à 175kJ/mol (hn
vedi pag 7) questo valore va moltiplicato per il
numero di fotoni in modo da conoscere il
valore per ogni molecola di CO2. Ma dobbiamo
ricordare che per un esoso l’anidride carbonica
va fissata sei volte e per questo il valore
appena ottenuto va moltiplicato ancora una
volta x6.
Alla fine, l’efficienza reale del ciclo di Calvin è pari al 33%, un valore nettamente inferiore
rispetto a quello teorico che avevamo prima calcolato.
Ma perché l’efficienza è così bassa? Perché le piante non crescono in condizioni ideali quindi
non si avrà una situazione al 100% favorevole per il ciclo di Calvin. Se si potesse raddoppiare
l’efficienza si potrebbe raddoppiare l’utilizzo della luce solare con enormi guadagni per
l’agricoltura. Rimane comunque un ciclo con un’efficienza teorica molto molto elevata che è
dovuta alla regolazione del ciclo stesso: esso non funziona al buio – avviene solo quando è
utile e quando gli enzimi sono presenti in quantità sufficienti. Vi sono due tipi di regolazione
che avvengono alla luce:
• Regolazione lenta à comporta cambiamenti nell’espressione genica e nella
biosintesi delle proteine. Al buio molti degli enzimi del ciclo di Calvin non vengono
minimamente sintetizzati. Un esempio di questo tipo di regolazione lo avevamo già
citato: il gene della subunità S della RuBisCO (gene nucleare RbcS) viene attivato
dalla luce e poi si unirà nel cloroplasto alla subunità L. Il segnale luminoso percepito è

32
la componente rossa della luce che
viene assorbita da una proteina
citosolica (Fitocromo – uno dei recettori
della luce e che cambia le sue proprietà
dopo l’assorbimento); questa si sposta
nel nucleo ed attiva la trascrizione del
gene RbcS che è sotto il controllo del
promotore LRE (Light Regulated
Element). La proteina (SSU) viene pre-
tradotta nel citoplasma dove, grazie ad
una sequenza segnale, si sposta nel
citoplasma dove poi si unirà alla subunità grande (LSU).
L’elemento LRE è un cis-acting element in quanto si trova dalla stessa parte del
promotore (a monte del gene). I trans-acting factors sono proteine che si legano alla
cis-acting sequence per controllare l’espressione di un gene.

• Regolazione veloce à regolazione genica con modificazioni post-traduzionali delle


proteine stesse che alterano la loro attività.
In questo caso l’attivazione veloce proviene dalla Fd che
viene ridotta dal PSI e che vuole cedere i suoi elettroni; essa
ha diversi pathway tra cui scegliere ed uno di questi è la
riduzione delle Tioredossine tramite la Fd-Td reduttasi (pag
20). Questa proteina, accettando gli elettroni, si attiva in cui i
ponti disolfuro vengono rotti ed è ora in grado di ridurre delle
proteine target: enzimi del ciclo di Calvin. Ma quali sono
questi enzimi?
Ve ne sono diversi:
a. Fruttosio-1,6-bifosfato fosfatasi (FBPase) à enzima che rimuove Pi da
F1,5bP
b. Sedoeptulosio-1,7-bifosfato fosfatasi (SBPase) à rimuove Pi da Sd1,7bP
c. Ribulosio-5-P chinasi (RB5PK) à aggiunge Pi a Ribulosio5P per dare RuBP
d. NADP: Gliceraldeide-3-P deidrogenasi (GAPDH) à
e. RuBisCO attivasi à enzima che attiva la RuBisCO per catalizzare la reazione
di carbossilazione.
f. ATPsintasi
Esiste però anche un enzima che viene inibito
dalle tioredossine, il che vuol dire che in
presenza di luce viene inattivato: Glucosio-6P
deidrogenasi (G6PD). Dove viene utilizzata
questa? Nella fase di rigenerazione che,
assomigliando alla via ossidativa dei pentosi
fosfati, è presente anche nel citoplasma della
pianta. Il funzionamento della G6PD durante il
ciclo di Calvin potrebbe causare la conversione
del Fruttosio6P in Glucosio6P (isomerasi) che,
grazie al G6PD, verrebbe poi trasformato in
Ribulosio5P (la via normale dei pentosi nel citosol) e poi in GAP. Calvin vuole invece spingere
la reazione contraria perché vuole la produzione di RuBP, per questo mette il G6PD sotto il
controllo della luce così da non attivarlo quando il ciclo è funzionante.

33
FOTORESPIRAZIONE: inibizione della PS dovuta all’ossigeno
Ciclo metabolico che le piante C3 svolgono; è un processo che avviene alla luce e che
assomiglia molto alla respirazione mitocondriale in quanto consuma ossigeno e rilascia CO2.
L’esperimento risale al secolo scorso (Warburg 1920) ed è il seguente: è stato messo
appunto un sistema sperimentale per studiare gli scambi
gassosi di organismi vegetali quantificando, tramite variazioni
di volume e pressione parziale, l’emissione di un gas e
l’assorbimento di un altro. Nello specifico veniva misurata la
velocità di fotosintesi (percentuale) in funzione dell’aumento
dell’intensità luminosa, ma in due condizioni atmosferiche
differenti: [O2] =20% (normale) e [O2] =0,5%. Cosa accadeva?
Abbassando la concentrazione di ossigeno la velocità di
fotosintesi aumentava e anche la resa della pianta alla luce.
Waeburg ha quindi scoperto come l’ossigeno inibisca il
processo
fotosintetico delle piante. Come è possibile? L’enzima RuBisCO non è solo una carbossilasi
ma anche un’ossigenasi (pag 29) in quanto può aggiungere una molecola di ossigeno al
RuBP. Nel caso della CO2 si hanno 2 atomi di PGA, se viene introdotta una molecola di O2,
vi sono sempre 5 atomi di carbonio totali quindi si avrà una molecola di PGA ed una a due
atomi di C chiamata 2-Fosfoglicolato (PG).
Ovviamente la fissazione di ossigeno porta ad un
mancato guadagno per il ciclo di Calvin. Sappiamo che
la RuBisCO fissa una 1 O2 ogni 3 CO2, con una
riduzione della resa della pianta del 25% (¼). Ma come
mai solo una molecola ogni 3 viene fissata? L’affinità
dell’enzima in sé è maggiore per l’anidride carbonica
che non per l’ossigeno; questo concetto di affinità viene espressa dalla KM (equazione di
Michaelis-Menten).
L’esperimento condotto sulla RuBisCO misurando la velocità enzimatica della proteina
fornendogli i substrati a concentrazione variabile (velocità iniziale in sola presenza di
substrati e senza prodotti – perché in caso di equilibrio la velocità diminuisce). Cerco ora la
KM (concentrazione di substrato alla quale la velocità di reazione è la meta di quella massima
– ½V): per la CO2 – la curva a più veloce saturazione
– è 9µM, mentre per O2 – curva che cresce più
lentamente – è 535 µM, 60 volte maggiore di quella
dell’anidride carbonica. Per avere la stessa velocità di
reazione tra le due componenti bisognerà fornire 60
volte più ossigeno rispetto all’anidride carbonica. Ma
come mai la RuBisCO riesce comunque a fissare una
molecola di O2 con così tanta frequenza? La concentrazione di queste due molecole nell’aria
è molto differente rendendo molto favorevole la fissazione dell’ossigeno (500 volte in più).
Inoltre, nella cellula vi è la produzione di ossigeno che ne aumenta la concentrazione e
l’apertura degli stomi influisce anch’essa su questo fattore favorendo nuovamente la sua
reazione.
Un ulteriore problema è la solubilità dei gas nell’acqua, l’ossigeno è 30 volte più solubile e
possiamo calcolarlo tramite questa formula:

34
Dove Pgas è la pressione parziale nell’atmosfera (O2=21%, CO2=0.04%), moltiplicato per il
coefficiente a (coefficiente di assorbimento di Bunsen) che ne influenzerà la solubilità. Ed
infine vi è il fattore di conversione da volume a µM (106/V0, dove V0 è il volume di una mole
di gas 22.4L/mole). Il valore di a è molto più
favorevole per l’ossigeno che per l’anidride
carbonica soprattutto in caso di aumento della
temperatura. Perché? Esso è inversamente
proporzionale alla temperatura ma con un
andamento differente per i due gas.
Ad alte temperature la chiusura degli stomi fa sì che entri poca CO2 e quindi la RuBisCO
effettua fotorespirazione.
FOTORESPIRAZIONE
Cosa succede? In caso di fissazione di ossigeno si ha come prodotto PGA+PG. Il PG
rappresenta una forma persa di carbonio ma non può essere in alcun modo utilizzato, quindi
il ciclo della fotorespirazione si occupa di trasformare il PG in PGA per permettergli di
rientrare in Calvin. Per fare ciò è necessario il consumo di ATP e vi è la perdita di anidride
carbonica.
Questo ciclo coinvolge tre organelli cellulari: cloroplasto, mitocondrio e perossisoma
(organello utilizzato per svolgere reazioni con prodotti pericolosi come i ROS – al suo interno
è elevata la concentrazione di catalasi che fa sì da neutralizzare questi complessi).
L’immagine mostra la vicinanza tra questi tre organelli,
caratteristica che facilita l’intero processo.
Il ciclo della fotorespirazione comincia nel cloroplasto,
per poi proseguire nel perossisoma e poi nel
mitocondrio; ovviamente poi tornerà nel cloroplasto.
Il composto iniziale è il 2-fosfoglicolato (PG) prodotto
a seguito della fissazione dell’ossigeno sul RuBP. Per
fare il bilanciamento del ciclo useremo 2PG (4C
totali).
Cloroplasto:
• Defosforilazione di PG a glicolato
Perossisoma:
• Trasporto passivo in quanto la membrana non è selettiva come quella dei cloroplasti
• Ossidazione di glicolato a gliossilato (entra ossigeno e si produce acqua ossigenata
che viene neutralizzata dalla
catalasi)
• Gliossilato riceve gruppo NH3
dall’acido glutammico con la
formazione di Glicina
Mitocondrio:
• La glicina entra nel mitocondrio
utilizzando un trasportatore
(membrana interna molto selettiva)
• Glicina viene condensata in Serina
(3C) à rilascio di una molecola di
CO2 + NH4+ (ammonio) e
produzione di una molecola di
NADH (potere riducente)
Perossisoma:
• Serina lascia il mitocondrio ed entra
nel perossisoma

35
• Serina viene trasformata in Idrossipiruvato cedendo il suo gruppo NH3 al gliossilato
• L’idrossipiruvato viene ridotto a glicerato tramite una molecola di NADH (il guadagno
del mitocondrio viene speso per la riduzione à ciclo in pari)
Cloroplasto:
• Glicerato torna nel cloroplasto
• Glicerato fosforilato a PGA con consumo di ATP
• Può ora tornare in Calvin.
La fotorespirazione protegge dalla fotoinibizione. Quando il ciclo di Calvin funziona a basse
velocità, la fotoR consuma eccesso di ATP e permette alla catena di trasporto di funzionare
evitando che l’energia si accumuli nei fotosistemi danneggiandoli. Specialmente in caso di
alte temperature, dove la chiusura degli stomi porta a meno immissione di CO2.
REGOLAZIONE DELLA RuBisCO
Un argomento molto importante è quello riguardante la regolazione della RuBisCO, molto
molto complessa.
L’immagine mostra il sito attivo della RuBisCO che è
costituito da alcuni amminoacidi (con una lisina molto
interessante – his, arg, lys, asp, lys e lys). In particolare,
mostra la situazione dell’enzima al buio (inattivato) ed ha
legato una molecola di substrato.
La presenza del RuBP mantiene l’enzima nello stato
inattivo perché impedisce l’accesso alla Lys del sito attivo.
Ma coma si attiva la RuBisCO? Il RuBP deve essere
rimosso, e la catena laterale della lisina deve perdere due protoni e legare in modo covalente
una molecola di CO2.
Il processo di attivazione avviene alla luce in quanto, in questo stato, viene attivata la
RuBisCO attivasi (positivamente attivato dalle tioredossine – pag 33); essa rimuove il
substrato inibitorio liberando quindi la lisina che può essere
quindi modificata (carbamilazione – il carbonio di una CO2
si lega in modo covalente alla catena laterale dell’aa
generando un gruppo carbossilico in fondo). Il gruppo
carbossilico, che nel pH dello stroma è deprotonato ed ha
carica negativa COO-, coordina insieme al gruppo
carbossilico dell’aspartato uno ione Mg2+ (con legame
elettrostatico per le cariche opposte).
Ma a cosa serve il magnesio? Esso coordina la molecola di CO2 che verrà poi legata al
substrato. Ovviamente il sito attivo coordina il legame del RuBP in diversi modi per far sì che
questo si trovi nella giusta posizione.
Ecco un riassunto sulla regolazione della RuBisCO: parte dalla luce che regola l’enzima
deputato all’attivazione della RuBisCO che rimuove l’RuBP dal sito attivo (SugP), lasciando
libero accesso alla lisina del sito di reazione; a questo punto la Lys subisce un paio di
modifiche (perde due protoni) per poi essere carbamilata e infine legare il magnesio.
La luce contribuisce a generare le condizioni ideali per l’attivazione della RuBisCO, come?
L’attivazione richiede il rilascio di due protoni
quindi il pH alcalino pari a 9 rende le reazioni che
librano protoni più favorevoli (equilibrio verso
destra). In più vi è la necessità di alte
concentrazioni di magnesio. In presenza di luce,
nello stroma il pH si eleva fino ad 8-9 ed
aumenta anche la disponibilità di Mg2+.

36
Andiamo adesso ad analizzare nuovamente sui gradienti
di protoni che si generano a cavallo della membrana dei
tilacoidi. Al buio, la catena di trasporto non funziona quindi
i protoni rimangono nello stroma e il magnesio rimane nel
lume; alla luce i protoni vengono accumulati nel lume,
mentre il magnesio si sposta nello stroma. Ecco
soddisfatte le due condizioni di attivazione della RuBisCO.
Come ridurre la fotorespirazione?
Si chiama fotorespirazione negli scambi gassosi alla respirazione in quanto consuma
ossigeno e produce anidride carbonica, tutto questo alla luce.
Molte piante hanno quindi evoluto dei sistemi per ridurla e tutti hanno in comune uno scopo:
diminuire l’attività ossigenasica della RuBisCO aumentando la concentrazione di CO2 nel
punto in cui l’enzima è presente. Le strategie sono principalmente 3:
1. Cianobatteri e alghe
2. Piante C4 (tropicali – mais, canna da zucchero) à il primo prodotto in cui si fissa il
carbonio è un atomo a 4C.
3. CAM (piante succulente – cactus) à hanno una strategia simile alle C4 ma con
alcune differenze che consente loro di ridurre la respirazione.
Analizziamo ora la strategia dei cianobatteri e delle alghe chiamata: meccanismo di
concentrazione del carbonio (CCM – Carbon Concentrating Mechanism). Si tratta di un
meccanismo biologico di grande rilevanza in quanto questi organismi svolgono il 50% della
PS del pianeta.
L’immagine mostra un cianobatterio che si
contraddistingue dalla colorazione verde per la presenza di
membrane fotosintetiche al suo interno, possiamo inoltre
notare dei corpuscoli esaedrici, tipici dei cianobatteri
fotosintetizzanti, e che prendono il nome di carbossisomi.
Il carbossisoma è la struttura nella quale viene accumulato
in altissime concentrazioni la RuBisCO e insieme ad essa
anche l’anidride carbonica. Il carbossisoma ha una forma
molto regolare (icosaedro) con un diametro di 100nm. Esso è formato da un capside esterno
composto da migliaia di subunità della stessa proteina esamerica e che, ai vertici, presenta
una proteina pentamerica. La struttura è cava e contiene al suo interno la RuBisCO che viene
disposta in file ordinate; oltre a questa troviamo l’anidrasi carbonica (CA).
La peculiarità di questo organello è la sua somiglianza ad un virus:
l’assemblaggio spontaneo di tutte le subunità proteiche che lo
compongono. Ma perché vi è anche la CA? essa svolge una
reazione chimica importante: converte la CO2 in bicarbonato.
Tiene in equilibrio la reazione di idratazione della CO2 che si
scioglie con acqua formando acido carbonico che,
immediatamente si dissocia in bicarbonato (reazione spinta verso
destra dal pH della cellula).

CO2 + H2O H2CO3 HCO3+ + H+


L’anidrasi carbonica rende questa reazione velocissima, inoltre è uno degli enzimi con un
turnover altissimo.
Sappiamo quindi che il cianobatterio è fotosintetizzante e contiene diverse membrane
all’interno delle quali si trovano i carbossisomi. Come funziona il sistema che concentra la
CO2 nell’organello dove vi è la RuBisCO? Il batterio contiene numerosi sistemi di trasporto
per l’anidride carbonica; in particolare ne contiene uno sulla membrana esterna che favorisce

37
l’entrata di CO2 sotto forma di bicarbonato, e uno sulla membrana
fotosintetizzante che può trasferire CO2 convertendola in bicarbonato.
Questo composto permea attraverso il carbossisoma e viene subito
convertito in anidride carbonica tramite l’azione dell’anidrasi carbonica.
La presenza di altissime concentrazioni di enzimi RuBisCO fa si che
l’anidride carbonica venga continuamente consumata spostando la
reazione della CA verso il composto che viene meno. Il carbossisoma
concentrando l’anidride carbonica e non permettendogli di “scappare”
fa sì che l’impatto della fotorespirazione sia controllata.

Un’ulteriore caratteristica interessante è che tutte le proteine che compongono il


carbossisoma sono contenuti sullo stesso operone nucleare incluse: le proteine del capside
esterno, quelle della RuBisCO, della CA ed altre proteine che aiutano all’associazione del
capside. Questa organizzazione ha permesso di
mettere a punto una strategia di miglioramento
genetico delle piante superiori; una strategia della
biologia sintetiche che utilizza la conoscenza del
genoma e delle proteine per ingegnerizzare nuovi
organismi, strutture o pathway metabolici. Uno degli
esperimenti è stato l’inserimento del carbossisoma
all’interno di una pianta superiore in modo da
aumentarne la sua efficienza.
L’immagine mostra un carbossisoma che ha il trasportatore e l’accumulatore di bicarbonato
in rosso e all’interno il carbossisoma. L’idea era quella di trasferire nel cloroplasto di una
cellula di pianta superiore lo stesso meccanismo di accumulo dell’anidride carbonica: i
trasportatori e gli accumulatori e anche il gene che codifica per tutte le proteine del
carbossisoma.
L’esperimento si basava sul trasferimento di geni (della RuBisCO)
provenienti da Synechocistis nel genoma di cloroplasto di una pianta di
Tabacco. Innanzitutto, hanno inattivato il gene della RuBisCO endogena
del tabacco e, al suo posto, hanno inserito i geni delle subunità L e S
dell’enzima provenienti da Synechocistis, ovviamente anche il
chaperone per l’assemblamento è stato trasferito. Oltre a questi, hanno
inserito una proteina che facilita ad impacchettare la RuBisCO nel
carbossisoma.
Cosa hanno ottenuto? Abbiamo tre piante, un controllo negativo e due piante transgeniche.
Le due trattate sono molto più piccole ma nonostante ciò sono autotrofiche e sopravvivono.
Dobbiamo ricordare che nelle due piante transgeniche sono contenuti i geni della RuBisCO
e quelli che aiutano ad impacchettare la
proteina ma non tutti quelli che formano il
carbossisoma, quindi è presente solo la
RuBisCO della Synechocistis.
Le piante in d ed e sono le stesse piante di b
e c ma in forma più adulta, nonostante ciò
sono di dimensioni minori rispetto al controllo.
Se si fa poi un estratto di proteine e si purifica
la RuBisCO da queste piante transgeniche e
si compara l’attività carbossilasica con il
controllo si vede che la RuBisCO del

38
cianobatterio è più efficiente rispetto al wt. Sull’asse delle y abbiamo il saggio di fissazione
della CO2 nel tempo su una scala di concentrazione crescente di anidride carbonica marcata
radioattivamente (asse delle x).
Confrontando i cloroplasti wt con quelli della pianta transgenica (RuBisCO+chaperon)
notiamo che in quest’ultima la RuBisCO si può identificare con la stessa chiarezza del wt
(immunolocalizzazione – proteina messa in evidenza tramite degli anticorpi specifici per i
due tipi di RuBisCO. L’anticorpo è a sua volta legato ad un anticorpo secondario legato ad
una pallina di oro che riusciamo a distinguere nella foto in nero).
In caso di pianta transgenica con RuBisCO + proteine del carbossisoma, notiamo la
formazione di corpi ovoidali molto organizzati rispetto al cloroplasto che potrebbero poi in
futuro trasformarsi nel carbossisoma vero e proprio nel caso in cui si dovessero transfettare
geni che codificano per tutte le altre proteine della struttura.
Il prossimo meccanismo di concentrazione della CO2 è quello delle
piante C4 (mais, sorgo, canna da zucchero). Queste piante sono poco
diffuse ma hanno raggiunto un’importanza economica elevata grazie
alla loro elevata efficienza fotosintetica senza la perdita del 25% tipico
delle piante C3.
Le temperature elevate alle quali sono sottoposte queste piante sono
deleterie per la fotorespirazione perché la chiusura degli stomi
diminuisce l’assorbimento dell’anidride carbonica unita a tutti gli altri
fattori trattate in precedenza (pag.34).
Le piante C4 si distinguono dalle C3 anche per l’anatomia
fogliare: vi è un mesofillo spugnoso disordinato ed uno
strato di cellule fotosintetizzanti ordinate (cellule della
guaina del fascio). Le piante C4 hanno un’organizzazione
diversa perché non sole le cellule della guaina sono
disposte ad anello intorno al fascio, ma anche quelle del
mesofillo (Anatomia di Kranz – in tedesco corona).
Un’altra caratteristica è la presenza di differenti cloroplasti
nelle due corone di cellule: le cellule della guaina hanno dei cloroplasti allungati che non
possiedono un’organizzazione in grana, ma solo integrana (no organizzazione in pile); le
cellule del mesofillo possiedono nei cloroplasti più rotondeggianti e con la tipica divisione in
grana ed intergrana. Ma le differenze non sono solo di tipo strutturale, ma anche biochimico.
Ma perché? Le cellule della guaina del fascio hanno i cloroplasti che non contengono i grana
e questo ci ricorda che non è presente il PSII, in quanto l’antenna di questo ha un pedicello
che si estende nella membrana sottostante e tiene insieme due tilacoidi in modo da impilare
i grana (pag. 26). Le lamelle di membrana rimangono quindi distese in modo uniforme. Ma
perché manca il PSII? Perché questo quando funziona produce ossigeno in quanto le cellule,
isolate da uno strato di suberina le isolano dall’ambiente atmosferico, non fanno entrare
ossigeno e senza il PSII non ne producono così da poter accumulare la RuBisCO favorendo
la reazione di carbossilazione. I cloroplasti delle altre cellule sono normali ma non presentano
RuBisCO perché non ci interessa far avvenire la reazione in quel punto.
La prima reazione del ciclo delle
piante C4 è la fissazione della CO2 su
una molecola di Fosfoenopiruvato
(PEP), ma ricordiamo che il carbonio
entra come bicarbonato in quanto
l’anidride carbonica viene prima
convertita in acido carbonico e poi in
bicarbonato (HCO3-). Quest’ultimo è
il substrato di questa reazione che
viene fissato sul PEP. Il PEP possiede

39
3C ottenendo come primo prodotto un atomo a 4C, l’ossalacetato (OAA). Il secondo
passaggio è la riduzione dell’OAA a acido malico (Malato) che, a sua volta, si sposta nella
cellula adiacente con i cloroplasti modificati (guaina). Qui subisce un’idrolisi rilasciando una
molecola di CO2 trasformandosi in Piruvato (Pyr).
Notiamo quindi come l’anidride carbonica venga trasferita da una cellula del mesofillo ad una
della guaina del fascio (passaggio di nostro interesse), mentre il Pyr torna nella cellula iniziale
per essere riconvertito in PEP.
Se guardiamo nel dettaglio la prima reazione scopriamo altre peculiarità: l’enzima che
catalizza questa reazione è il PEP carbossilasi (PEPC), è quindi una carbossilazione come la
prima del ciclo di Calvin da parte della RuBisCO. In questo caso però, il bicarbonato è il
substrato della reazione che riesce a raggiungere concentrazioni più elevate dell’anidride
carbonica. Come è possibile? Anche in queste cellule è presente l’anidrasi carbonica che
tiene in equilibrio la reazione di idratazione della stessa. L’acido carbonico però si dissocia
subito in bicarbonato e H+. La reazione è spostata verso destra grazie al pH alcalino del
citosol. (pH=7.4). Questo permette l’aumento della concentrazione di bicarbonato circa 50
volte maggiore rispetto a quella dell’anidride carbonica.
Adesso guardiamo il ciclo completo delle piante C4. Esso si svolge in due cellule unite da
plasmodesmi (esattamente 4).
La prima reazione, fissazione del carbonio, è catalizzata dalla PEPC ed avviene nel
citoplasma e non nello stroma del cloroplasto. Si forma quindi OAA per inserzione di una
molecola di bicarbonato su una di PEP.
La seconda reazione, catalizzata dalla Malato deidrogenasi
(MDH) che riduce l’OAA in Malato; per questa reazione sono
necessari degli elettroni che vengono forniti dal NADPH nel
cloroplasto. In questo caso la catena di trasporto è completa
quindi vi è la sintesi di potere riducente.
Il malato ridotto sfrutta la stessa navetta e torna nel citoplasma della cellula del mesofillo da
cui diffonde tramite nei plasmodesmi ed entra nel cloroplasto della cellula della guaina del
fascio.
Qui il malato, catalizzato dall’enzima
Malico, viene scisso in Pyr e CO2; in questa
reazione vi è anche la produzione di
NADPH (gli elettroni ricevuti dal malato
precedentemente vengono ceduti al
NADP+ fondamentali per la cellula –
perché in questa cellula non essendoci il
PSII non può avere una catena di trasporto
standard e quindi non può produrre potere
riducente).
A questo punto la CO2 si trova nello stesso
scompartimento della RuBisCO che
quindi la fissa al RuBP e da inizio al ciclo di
Calvin. Per proseguire su questa via il PGA
verrà ridotto a GAP, serve però NADPH e
ATP: il primo, trasportato dal malato, sarà
sufficiente per una singola molecola di
PGA (ne abbiamo 2) quindi la seconda
non può essere ridotta. Questa esce
quindi da questo cloroplasto ed entra in
quello della cellula del mesofillo dove può
essere fosforilato e ridotto in GAP (in

40
questo organello la catena è completa quindi si può avere la riduzione delle molecole).
La GAP si intercorverte all’equilibrio con il Diidrossiaceton fosfato (DOAP o DHAP) ritorna
nella cellula della guaina del fascio (nel cloroplasto) e a questo punto rientra nel ciclo di cui
5 riformeranno il substrato iniziale e la sesta rappresenterà il guadagno netto.
Nonostante manchi il NADPH, il cloroplasto delle cellule della guaina contengono sempre
ATP, come? Avendo il PSI sono in grado di effettuare fotofosforilazione ciclica dove gli
elettroni che arrivano alla Fd ritornano al PSI passando dal complesso dei citocromi (pag.20).
È dunque sempre lo stesso elettrone a circolare che genera gradiente di protoni con
formaizone di ATP.
Infine, vi è un ultimo passaggio: il Pyr deve ritornare nella cellula del mesofillo per formare
nuovamente PEP ed essere utilizzato nel prossimo ciclo. Come? Il
Pyr entra nel cloroplasto della cellula del mesofillo dove subisce una
doppia fosforilazione, molto costosa a livello energetico ma che torna
ad essere PEP.
La reazione di formazione del primo substrato è catalizzata dalla
Piruvato, fosfato dichinasi (PPDK) dove la molecola di ATP cede
due legami ad alta energia del fosfato ed esce come AMP. Uno dei
due Pi si attacca al Pyr e forma il PEP; il secondo viene usato per
formare il Pyrofosfato (PP), al solo scopo di spostare la reazione
dell’equilibrio verso destra in quanto questa molecola si idrolizza
molto velocemente scomparendo e liberando ortofosfato Pi
(catalizzata dalla Pirofosfatasi – PPase). È molto costosa in quanto
vi è l’utilizzo di un ATP per la formazione di PEP, ma la formazione di
AMP che deve tornare ADP necessita del consumo di ATP. Le
molecole di ATP consumate in totale quindi sono 2.
RIASSUMENDO:
per ogni molecola di CO2 che vengono fissate vengono spese 2 NADPH e 3 ATP (tipiche
del ciclo di Calvin) + 2 ATP (rigenerazione del PEP) = 2 NADPH e 5 ATP.
Le piante C4 quindi hanno un costo energetico più elevato rispetto a quello delle C3, ma
questo viene compensato da una maggiore efficienza di queste piante in caso di alte
temperature. In questo caso non vi è riduzione di disponibilità di anidride carbonica e non vi
è il problema della maggiore solubilità dell’ossigeno.
Il vantaggio è quindi evidente in condizioni tropicali dove queste piante si sono evolute.
PIANTE CAM
Il terzo metodo per ridurre la fotorespirazione è quello adottato dalle piante CAM
(Crassulacean Acid Metabolism), ovvero le piante comunemente conosciute come
“grasse”.
Queste piante hanno il problema di crescere molto lentamente a causa della loro fotosintesi
poco efficiente ma che gli permette di risparmiare sulla perdita di acqua. Anche in questo
caso, come nelle C4, abbiamo una divisione tra la fissazione della CO2 negli acidi organici
(OAA, malato) dalla carbossilazione di questa su RuBP. A differenza delle C4 però, non vi è
una divisione nello spazio bensì nel tempo: la CO2 viene fissata sul PEP durante la notte così
da accumulare malato; di giorno vi è la carbossilazione dell’anidride carbonica da parte della
RuBisCO.
L’immagine mostra la divisione delle reazioni
tra le due tipologie di piante e come la divisione
delle reazioni sia differente tra queste.
Come funziona però la fotosintesi in una pianta
CAM? Innanzitutto, gli stomi vengono aperti
solo la notte poiché la temperatura è bassa e vi
è un grande risparmio nella perdita di acqua.
Entra la CO2 che viene fissata nel citosol della

41
cellula con lo stesso procedimento delle C4, utilizzando il bicarbonato ed il PEP come
substrati ed infine producendo OAA e poi riducendolo a malato (questa riduzione nelle CAM
avviene nel citoplasma, mentre nelle C4 avviene nel citoplasma).
Il malato prodotto viene accumulato all’interno del vacuolo come acido malico, questo
perché il pH interno è acido grazie ad una pompa. La trasformazione del malato in acido
malico fa sì che la reazione di sintesi del malato sia sempre
favorita grazie alla sua scomparsa una volta entrato nel
vacuolo. L’acido malico rappresenta il massimo di accumulo di
anidride carbonica poi disponibile per le reazioni successive.
Di giorno, il malato esce dal vacuolo ed entra nel cloroplasto
per poi rilasciare CO2, formare il Pyr e NADPH; ovviamente
l’anidride carbonica sarà usata dalla subisco per fissarla sul
RuBP.
Ma ci sono tre questioni da affrontare sulla fase notturna della
fotosintesi:
• Chi genera o rigenera il substrato PEP? In quanto man mano che il bicarbonato
viene fissato sul PEP, il malato viene poi accumulato nel vacuolo ma il substrato
iniziale va consumandosi.
Il PEP durante la notte viene prodotto da degli zuccheri che sono stati accumulati
durante il giorno dal cloroplasto. Questo organello produce dei carboidrati che
vengono accumulati al suo interno sotto forma di amido e che vengono poi
smantellati per: rifornire o le altre parti della pianta o durante la notte il citosol della
cellula per produrre PEP. Ma come? L’amido primario viene consumato durante la
notte per produrre PEP tramite le reazioni normali della glicolisi (prima trasformato in
triosi fosfati che escono nel citosol – GAP – che va incontro a tutte le fasi del processo
fino a quando non vi è la produzione di fosfoenolpiruvato).
In questa fase di ossidazione vi è anche la produzione di NADH e ATP, il primo poi
utilizzato per ridurre OAA à malato.
• Chi fornisce il potere riducente che serve per convertire OAA in malato? L’enzima
è la MDH e la reazione si svolge nel citoplasma.
La produzione di PEP da parte della glicolisi porta alla formazione di potere riducente
che verrà poi usato per questa reazione,
• Cosa favorisce l’accumulo di malato nel
vacuolo? Sulla membrana del vacuolo
(tonoplasto) vi è un sistema di trasporto di
protoni, una pompa protonica, che consuma
ATP ma che genera un gradiente di protoni che
mantiene il pH del vacuolo acido. Il malato,
maggiormente presente nel citoplasma, si
sposta passivamente per gradiente di
concentrazione nel vacuolo dove viene
trasformato in acido malico “scomparendo”;
questo permette al sistema di continuare ad
introdurre malato.
Guardiamo ora la fase della fotosintesi che avviene di giorno: vi sarà un accumulo della CO2
al livello della RuBisCO ed è possibile che si formi del PEP; vi sono per questo dei sistemi di
regolazione che intervengono sulla PEP carbossilasi che fanno sì che l’anidride carbonica
non venga fissata da questo enzima bensì dalla RuBisCO.
Il malato esce dal vacuolo tramite i protoni che hanno un gradiente favorevole alla loro uscita.
Una volta nel citoplasma viene subito trasportato nel cloroplasto, dove l’enzima malico gli fa
subito rilasciare Pyr e CO2 formando una molecola di NADPH. Questi ultimi due vengono
subito usati dal ciclo di Calvin.

42
Questo è il meccanismo che concentra l’anidride carbonica al livello della RuBisCO così da
ridurre la fotorespirazione.
Il piruvato può, però, può tornare nel citoplasma sotto forma di PEP e questo ci fa tornare al
problema prima menzionato: come faccio ad evitare che il fosfoenolpiruvato competa con il
RuBP per la fissazione della CO2? Se la PEP carbossilasi non fosse inattiva di giorno il ciclo
diventerebbe futile in quanto non vi sarebbe anidride carbonica per Calvin. L’enzima PEP
carbossilasi è però strettamente regolata da un meccanismo molto sofisticato che la rende
attiva solo durante la notte. Questo enzima può essere presente in due forme: una attiva ed
una inattiva, e si differenziano per una fosforilazione su
una serina. La forma inattiva ha la serina non fosforilata,
mentre quella attiva è fosforilata. Questa reazione è
catalizzata da una chiansi che trasforma l’ATP, la
reazione di idrolisi è a carico di una fosfatasi. Perché la
forma fosforilata è attiva? Perché questa forma è
insensibile al malato (prodotto della reazione), mentre
la forma non fosforilata è inibita dal malato e per questo
di giorno essa non è attiva (molto malato nel
citoplasma prima di entrare nel cloroplasto). La
proteina è quindi presente ma non è attiva.
Ecco alcune considerazioni finali sulle piante CAM:
• Assorbono la CO2 solo aprendo gli stomi durante la notte à la temperatura meno
elevata e l’aria più umida permettono alla pianta di contenere la pedita di acqua.
• Dato che la capacità di accumulo del malato nel vacuolo è limitata la crescita di
biomassa giornaliera di una CAM è bassa à potrà crescere solo quel tanto di
anidride carbonica che è riuscita ad accumulare durante la notte nel vacuolo.
• In casi di aridità estrema, la pianta sopravvive tenendo gli stomi chiusi in quanto
non può permettersi la perdita di acqua che non potrebbe in alcun modo
recuperare. In questi casi sopravvive fissando la CO2 che era stata prodotta dalla
respirazione ma senza crescita.
• Ci sono delle piante C3 che, in condizioni estreme, riescono a trasformare il loro
metabolismo in CAM à un esempio è la Mesembryanthemum crystallinum.
Ripartiamo dalla considerazione dell’elevato costo energetico delle piante C4 rispetto alle
C3, dove vi è un consumo addizionale di due molecole di ATP per la rigenerazione del PEP
(pag.39) .
Il costo è indubbiamente molto elevato, ma le piante lo tollerano per la maggiore efficienza
di fotosintesi in condizioni di fotorespirazione favorita. In queste stesse condizioni si può
ammirare il vantaggio di queste piante sulle C3; mentre in condizioni ideali la situazione si
ribalta.
Illustriamo ora un concetto che chiarisce il vantaggio delle C4 sulle C3 in caso di bassa
anidride carbonica: il punto di compensazione.
Il grafico mostra la velocità di assimilazione della CO2 (la velocità di fotosintesi o di
incorporazione in sostanza organica) espressa in µmol/sec sull’asse y, rispetto ad un
aumento di concentrazione di anidride carbonica nell’aria espressa in ppm (parti per millione
– 0.04% = 400ppm), sull’asse x.
Come si può notare la reazione tra i due parametri è inizialmente lineare fino a quando non
arriva a saturazione. La particolarità è che la fissazione della CO2 può avere anche dei valori
negativi che stanno ad indicare il rilascio della pianta. Come è possibile? La pianta, come
sappiamo, svolge due processi che portano alla liberazione di anidride carbonica: la
fotorespirazione e la respirazione cellulare. Se la concentrazione di CO2 è bassissima
nell’atmosfera (=0), se misuriamo gli scambi gassosi invece di assorbire anidride carbonica
la rilascia (alla respirazione si aggiunge la fotorespirazione).

43
La pendenza di questa curva è proporzionale alla capacità di carbossilazione della RuBisCO,
dipendente quindi dalla concentrazione dell’enzima, dal suo turnover. Modificando questo
parametro allora cambierà anche la curva.
La curva raggiunge la saturazione perché la fotosintesi non è più limitata dalla
concentrazione di CO2 ma, per esempio, dalla velocità di rigenerazione del substrato da parte
di Calvin e tanti altri. A 400ppm (concentrazione nell’aria) la velocità di assimilazione è già
abbondantemente saturata.
Il punto di compensazione si verifica quando
la funzione attraversa l’asse delle x e
rappresenta la concentrazione di CO2 (di
substrato) a cui questo passaggio si verifica.
Ma a cosa corrisponde? Alla concentrazione
di anidride carbonica a cui la pianta ha una
fissazione netta di carbonio, ovvero essa
prevale sul processo di fotorespirazione
(quest’ultima è molto più favorita a
concentrazioni di CO2 basse).
Le piante C3 hanno un punto di
compensazione che è intorno a 50ppm,
quindi finché nel cloroplasto ci sono meno di
50ppm prevarrà la fissazione dell’ossigeno e il rilascio di
anidride carbonica.
Passiamo ora alle piante C4 che hanno messo in atto un
meccanismo di concentrazione della CO2 dove vi è la
RuBisCO.
In questo caso possiamo notare come il punto di
compensazione in queste piante sia nettamente inferiore
rispetto a quello delle precedenti, esso ha infatti un valore
pari a 5ppm. Questo perché la concentrazione di anidride
carbonica nel vacuolo in cui è presente la RuBisCO tanto
da ottenere un valore dieci volte inferiore rispetto a quello
delle C3.
Si può dire che le piante in questione portino ad un risparmio di acqua che, data la presenza
del meccanismo di concentrazione dell’anidride carbonica e un punto di compensazione
molto basso, permette loro di tenere gli stomi chiusi più a lungo (meno perdita).
Ecco alcuni conti sulla perdita di acqua con piante C3 e C4 a confronto. Nella parte superiore
dell’immagine vediamo le C3 con uno stoma molto aperto per far entrare la CO2 con una
perdita di acqua molto elevata. L’anidride carbonica è presente all’esterno con una
concentrazione di 350-400ppm, mentre all’interno della foglia si può accumulare fino a
250ppm; all’interno del mesofillo questa concentrazione diventa 8 µM quando si discioglie
in soluzione e al livello della RuBisCO si
mantiene intorno ai 6 µM. Tutto questo
porta ad una perdita di acqua intorno alle
700-1300 molecole per ogni molecola di
CO2 fissata.
Se guardiamo le C4 notiamo come lo
stoma sia nettamente meno aperto e la
concentrazione nella foglia necessita di
150ppm per garantire alla RuBisCO una
concentrazione di anidride carbonica
elevatissima. Infatti, nelle cellule del
mesofillo la concentrazione di CO2 si aggira

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intorno 5µM (meno delle piante C3 perché hanno tenuto gli stomi più chiusi) ma, grazie al
loro sistema di pompaggio nella cellula della guaina del fascio, riescono a concentrarla anche
più di dieci volte fino ai 70µM. Questo fa sì che il rapporto tra molecole di acqua perse e
molecole di anidride fissata siano intorno ai 400-600.
Facciamo delle considerazioni sull’evoluzione delle piante C4 e sul loro futuro. Esse si sono
evolute nell’era glaciale, dove la concentrazione di anidride carbonica atmosferica era pari a
200ppm. Le C3 facevano fatica ad effettuare fotosintesi e quindi si sono evolute queste
piante. Ora che la concentrazione è elevata, queste stesse piante sono ora svantaggiate per
l’elevato costo energetico; sono quindi avvantaggiate solo in situazioni di scarsa CO2.
Come risponderanno queste piante all’aumentare della concentrazione dell’anidride
carbonica? In laboratorio le piante C3 rispondono meglio delle C4 e questo riapre la
domanda più generale: le piante C3 avranno quindi un vero vantaggio? Gli scienziati che si
interrogano su questo quesito da anni ma la risposta delle piante in situazioni reali e quelle
ricreate in laboratorio è differente.
Questo ha fatto sì che venissero messe appunto delle misure in ambienti più naturali
possibili (di campo) che risultano in esperimenti molto complicati.
Parliamo di esperimenti di arricchimento di CO2 dell’atmosfera, dove in alcuni campi sono
stati inseriti degli impianti che emanano CO2 per aumentarne la concentrazione. Questi
esperimenti hanno dimostrato come le piante C3 non andassero incontro ad un aumento di
produttività, ma perché? Queste piante si adattano all’aumentata concentrazione di anidride
carbonica senza aumentare il fattore di fotosintesi. In grandi disponibilità di CO2: la pianta
tende a risparmiare e quindi produrre meno RuBisCO; oppure, in caso di surplus di
carboidrati prodotti questo agisce da feedback negativo nei passaggi della fotosintesi che
producono i carboidrati (anche Calvin).
Non è quindi semplice modificare i metabolismi della pianta per over produrre, in quanto
queste sono abituate a lavorare il giusto per raggiungere la generazione successiva.
Vi è un altro fenomeno che si verifica quando la concentrazione di anidride carbonica viene
elevata al livello della pianta: l’aumento di
temperatura. L’immagine mostra la temperatura
con una scala di colori (infrarossi): nel punto di
arricchimento di CO2 si ha un aumento della
temperatura (maggiore chiusura degli stomi) di
circa 1.5°C rispetto alle zone dove l’anidride è
mantenuta a livelli normali. Questo ha anche un
effetto disaccoppiante nella respirazione per cui alla
fine vi è una perdita di resa dovuta al fatto che la
respirazione non riesce a convertire tutta l’energia in
ATP ma ha delle perdite sotto forma di calore.
MOLECOLE DI IMMAGAZZINAMENTO DELL’ENERGIA
Analizziamo ora le molecole nelle quali la pianta immagazzina l’energia generata dal
processo della fotosintesi partendo dagli zuccheri triosi (GAP). La produzione di biomassa
che ne deriva è molto imponente, ogni anno ci è la conversione di 200miliardi di tonnellate
in biomassa, la maggior parte al livello delle alghe. Tutta questa biomassa che corrisponde
alle componenti delle cellule viene inizialmente fornita alla cellula sotto due diverse molecole:
il saccarosio e l’amido.
La fotosintesi genera a seguito del ciclo di Calvin i triosi fosfati
(3C); da qui la cellula del mesofillo li utilizza per formare i due
composti prima citati. Il saccarosio è la principale forma di
zucchero traslocato nel floema per raggiungere le diverse
parti della pianta, esso rappresenta quindi la forma di
zucchero circolante tranne nelle canne da zucchero ed altre
dove funge da riserva. L’amido, invece, costituisce la forma di

45
zucchero immagazzinata come riserva. Ne esistono due forme: l’amido
primario prodotto dalla cellula del mesofillo e il secondario prodotto da
altre parti delle piante a partire dal saccarosio.
Il saccarosio è un disaccaride, formato da due unità di esoso (glucosio e
fruttosio entrami 6C), è una forma molto solubile ed è trasportata
all’interno della soluzione acquosa che scorre nei vasi del floema.
L’amido è un polisaccaride formato da numerosissime unità di
esosi (glucosio) ed è presente in due forme: l’amilosio (no
ramificazioni) e l’amilopectina (la riconosciamo perché sono delle
catene di glucosio con legame a1-4, con delle ramificazioni a 1-
6).
Entrambe le forme sono depositate in granuli costituiti da strati concentrici
depositati uno sull’altro e che possiedono questa forma sferica anche a causa
del fatto che le catene di amilosio tendono ad arrotolarsi ad aspirale. Dobbiamo
però ricordare che il 70% dei granuli è formato da amilopectina, le cui
ramificazioni tendono a disporsi in modo parallelo dando origine ad una struttura
cristallina. Pertanto, i granuli di amido sono formati da un’alternanza di strati amorfi e
cristallini per la disposizione delle catene di amilopectina. Vi sono dei casi in cui
l’amilopectina non si forma e i granuli sono formati quasi esclusivamente da amilosio, un
caso è quello dei piselli rugosi di Mendel. Essi hanno un aspetto ammaccato perché non
producono amilopectina poiché l’enzima che serve per la ramificazione è difettoso.
Abbiamo detto che l’amido si distingue in primario e secondario: il primo rappresenta una
forma temporanea in quanto si accumula nel cloroplasto durante il giorno e scompare
durante la notte; il secondo viene accumulato negli organi di riserva (radici, tuberi, frutto,
interno del fusto, seme) dove rimane fino a quando non è necessario (stagione successiva
per le gemme, situazioni di aridità).
In entrambi i casi la deposizione avviene in
granuli, nella prima immagine possiamo
notare un grande granulo di amido tra i
tilacoidi; nella seconda distinguiamo
numerose cellule al cui interno è possibile
vedere un granulo di mais colorato grazie al
reattivo di Lugol.
Il motivo per cui le piante un polisaccaride come molecola di riserva è che l’amido è una
molecola osmoticamente inattiva (il glucosio è unito in una sola molecola e questo fa sì che
all’interno della cellula questo conti come uno nonostante vi siano fino a 104 molecole di
glucosio), mentre l’accumulo come glucosio si avrebbe un impatto osmotico molto
importante (circa il 50% della componente osmotica cellulare).
Torniamo alla nostra cellula del mesofillo dove tutto ha inizio. Possiamo notare un cloroplasto
(verde) contenente numerosi granuli di amido primario, ed intorno vi è il citoplasma (in
azzurro) dove avviene la sintesi di saccarosio. Ecco la prima suddivisione importante: l’amido
è prodotto e accumulato nel cloroplasto, il saccarosio è sintetizzato nel citoplasma della
cellula del mesofillo dalla quale esce per entrare nel floema e raggiungere tutte le porzioni
della pianta.
La cellula del mesofillo durante il giorno sintetizza sia l’amido
primario sia il saccarosio; queste produzioni sono in
competizione l’una con l’altra in quanto entrambe utilizzano
lo stesso substrato iniziale: i triosi fosfati (GAP).
Un elemento importante è il trasportatore che troviamo
inserito nella membrana interna. (perché più selettiva) del
cloroplasto; esso è una proteina che ha un ruolo importante
nel bilanciamento della sintesi delle due molecole di

46
accumulo. Il suo compito è quello di spostare i triosi fosfati
scambiandoli con il fosfato inorganico che dal citosol rientra
nel cloroplasto dove viene poi utilizzato nel Ciclo di Calvin per
la generazione di zucchero inorganico.
Il saccarosio sintetizzato viene subito esportato perché ha due
funzioni:
1. Nutrire tutte le cellule che devono continuamente sostenersi e sopravvivere (fare
respirazione) ma soprattutto svolgere le loro funzioni.
2. Accumulare riserve per le stagioni successive e così via. Questo saccarosio viene
sempre esportato nelle altre parti della pianta. à durante il giorno si ha la
produzione di zucchero da parte delle cellule fotosintetiche, ma le altre cellule della
pianta necessitano di sostentamenti anche durante la notte, per questo il trasporto di
saccarosio non si ferma mai. È per questo che, di notte, quando la cellula non può fare
fotosintesi l’amido primario viene idrolizzato per fornire glucosio e triosi fosfati che
vengono trasferiti nel citoplasma per la sintesi del saccarosio.
Quando il saccarosio giunge a destinazione, come in una cellula della radice, esso viene ri-
trasfomato in amido al livello di un plastidio
(leucoplasto) che ha una funzione di riserva. In
entrambi i casi la sintesi dell’amido avviene nei
plastidi, che sono gli unici a contenere gli enzimi
necessari.
Analizziamo ora la via di sintesi dell’amido nella
cellula del mesofillo (cloroplasto): due molecole di
trioso fosfato si uniscono a formare una molecola
di Fruttosio1,6bP (fase di rigenerazione del ciclo di
Calvin). Le prime tappe della sintesi dell’amido
coincidono con alcune della fase finale del ciclo di
Calvin.
Il F1,6bP viene convertito in F6P per
defosforilazione e a questo punto le due vie si
separano, la sintesi di amido procede così: il F6P
viene, in due passaggi, convertito in Glucosio 1-P
(F6P à (isomerasi) à Glucosio6P à
(fosfaglucomutasi) à Glu1P). Questi due passaggi
avvengono all’equilibrio e per questo non pongono
alcun problema energetico.
Il Glu1P è la molecola che viene utilizzata per
allungare la catena nascente di glucosi che forma
l’amido; ma il passaggio non è semplice perché
richiede una pre-attivazione della molecola di
glucosio con l’aggiunta di energia. Questa pre-
attivazione viene fatta a spese dell’ATP
producendo un pirofosfato (PPi) e un ortofosfato
(parte di AMP) che si attacca al G1P dando origine
al ADP-Glucosio. Questa reazione è quella che
avviene poco prima della sintesi dell’amido, ma è
molto interessante per la formazione del
pirofosfato.
L’immagine mostra il G1P (con Pi in rosso) e un
ATP; la reazione è catalizzata dal ADP-Glucosio
pirofosforilasi e unendo i due substrati genera due
prodotti: il pirofosfato PPi che viene

47
immediatamente idrolizzato in fosfato inorganico (Pi); l’altro prodotto è l’ADP-Glucosio che
si ottiene dall’unione di AMP e del Glucosio1P.
La reazione successiva è l’unione del glucosio appena formato alla catena di amido in
formazione con l’uscita di ADP ad opera dell’amido sintasi.
Il primo passaggio che genera ADP-glucosio, genera anche PPi perché altrimenti la reazione
sarebbe sfavorita; infatti l’immediata scomparsa del pirofosfato fa sì che la reazione venga
spostata verso destra. Questa strategia non ci è nuova ma viene usata dalla cellula nella
rigenerazione del PEP al livello del ciclo delle piante C4 (pag.41).
La notte l’amido viene demolito in due vie: una con la b-amilasi che scinde i legami a1-4
generando prima maltosio e successivamente glucosio; la seconda via è quella della
fosforilasi che stacca dei singoli carboidrati, questi ripercorrono la via di Calvin fino alla
formazione di triosi fosforilati per la sintesi di saccarosio.
Di giorno la sintesi dell’amido è in competizione con quella del saccarosio poiché i prodotti
della fotosintesi devono essere ripartiti tra il citoplasma che li esporta come saccarosio e il
cloroplasto che li immagazzina per la notte. La cellula ottiene questa regolazione tramite il
controllo di tre enzimi:
1. La Fruttosio 1,6 Bifosfatasi à l’enzima del ciclo di Calvin che ha una sua regolazione
importante anche in questo.
L’enzima è controllato dalla luce attraverso le tioredossine (pag.33). Questo enzima
nel citoplasma è regolato in maniera differente.
2. ADP-Glucosio Pirofosforilasi (Triose/Pi) à enzima che catalizza la reazione prima
menzionata. Esso a sua volta è controllata dal rapporto dei triosi sul fosfato inorganico.
Non dal valore assoluto dei singoli ma proprio dal rapporto.
Controlla la conversione del G1P in ADP-G ed è appunto controllato dal rapporto
Triose/Pi in particolare: quando la concentrazione di triosi è molto elevata, il rapporto
si alza e quindi si ha l’attivazione dell’enzima. Questo è ovvio in quanto la presenza di
molti zuccheri nel cloroplasto indica che il trasporto nel citoplasma non sta
funzionando (non è necessario), essi sono a disposizione del cloroplasto per fare la
riserva. Se i triosi non vengono spostati nel citoplasma anche il Pi non verrà
trasportato nel cloroplasto, ed ecco perché il rapporto continua a salire attivando la
via di sintesi dell’amido. Ma perché? La via di sintesi dell’amido rilascia il fosfato che
serve poi per far procedere il ciclo di Calvin.
3. Esporto di triosi dal cloroplasto à trasportatore che esporta i triosi in scambio con il
fosfato inorganico, modificando il rapporto menzionato prima e quindi regolando
anche l’enzima numero 2.
Chiaramente il trasportatore dei triosi dal cloroplasto al citoplasma e i Pi in direzione
opposta, ha un ruolo fondamentale perché controlla anche il rapporto Triosi/Pi.
Passiamo ora a descrivere la sintesi di saccarosio: esso viene formato a partire dai triosi
fosfati nel citosol tramite l’unione di un glucosio ad un fruttosio.
La sintesi inizia con l’esporto dei triosi dallo stroma al citoplasma tramite un co-trasportatore
che porta i fosfati all’interno del citoplasma in modo da permettere al ciclo di Calvin di
continuare, in quanto esso genera zuccheri fosfati e necessita un input di Pi per procedere.
I triosi attraverso una serie di reazioni simili a quelle della sintesi dell’amido vengono prima
convertiti in F1,6bP che, a sua volta, viene trasformato in F6P ed in due passaggi in
Glucosio1P. Questo zucchero deve essere pre-attivato prima di reagire con il Fruttosio6P;
anche in questo caso l’attivazione è ad opera di un nucleotide (UTP) che rilascia PPi e forma
UDP-Glucosio. Il glucosio in questione si unisce al F6P e tramite la saccarosio-fosfato-
sintasi genera il Saccarosio6P che, perdendo un fosfato, diventerà saccarosio.

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Anche in questa sintesi uno step importante è controllato
dalla UDP-Glucosio Pirofosforilasi che produce UDP-
glucosio e anche pirofosfato in maniera simile all’ADP.
Il nucleotide UTP (Uridina+3Pi) reagisce con il G1P per
formare: il pirofosfato che viene degradato
immediatamente e l’UMP residuo viene legato al G1P per
la formazione dell’UDP-Glucosio. Anche questa volta la
reazione è spostata verso destra grazie alla scomparsa
del PPi come per la reazione dell’amido.
L’UDP-G si unisce al F6P grazie all’azione della
saccarosio6P-sintasi dando origine al Saccarosio6P che,
grazie all’azione della saccarosio6P-fosfatasi, si
trasforma in saccarosio.
Queste due ultime reazioni sono regolate e sono molto importanti
il quanto il prodotto funge da feedback negativo sull’enzima
(saccarosio6P-sintasi) bloccandone l’attività. Nello stesso modo
il saccarosio avrà effetto inibitorio per il suo enzima. Queste due
reazioni di regolazione sono molto semplice, ma vi sono delle altre
reazioni a monte che vengono regolate in maniera più complicata.
Uno degli enzimi molto regolati all’inizio della sintesi del
saccarosio è il Fruttosio1,6biFosfatasi del citosol; esso è regolato
anche nella sintesi dell’amido tramite le tioredossine, ma in questo
caso essa avviene in maniera differente.
Un altro fattore importante è il rapporto tra triosi/PPi, anche in
questo caso ha un’importanza molto elevata.
La fruttosio1,6biFosfatasi è bloccato da un regolatore che agisce
inibendo l’enzima: il Fruttosio2,6bP. Esso è una molecola con la
sola funzione di regolazione. La differenza con il F1,6bP è che questo è un metabolita usato
durante una reazione mentre il F2,6bP è un regolatore. Come si forma ili F2,6bP? Questa
molecola viene prodotta a partire dal F6P aggiungendogli
una molecola di Pi. Il fruttosio di partenza è il prodotto della
reazione che io F2,6bP andrà ad inibire. La sua
fosforilazione è a carico di una chinasi che, una volta
prodotto, verrà degradato a F6P (reazione reversibile per
il controllo della molecola regolatrice).
La regolazione del livello di F2,6bP e quindi la sua attività di inibizione della sintesi di F6P,
dipende dai triosi fosfati e dal fosfato inorganico. Ma perché? i triosi controllano l’attività della
chinasi che producono il F2,6bP, il Pi controlla l’attività della fosfatasi che lo rimuove
(controlla anche in modo inverso la chinasi). In condizione di triosi molto abbondanti la cellula
permette la sintesi del saccarosio, infatti il F2,6bP non è presente proprio per l’inibizione da
parte degli zuccheri; in caso di Pi abbondante la cellula percepisce la situazione come un
segnale di produzione molto elevata del saccarosio. Essendo questa una situazione non
necessaria alla pianta, essa utilizza il fosfato inorganico per inibire la degradazione del
F2,6bP in modo da accumularlo e inibire la sintesi di saccarosio.

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L’immagine mostra un riassunto della sintesi di saccarosio e amido nei corrispettivi
compartimenti della cellula che sono in competizione tra loro.

Ecco alcuni esperimenti effettuati con l’uso di piante transgeniche per confermare le vie
metaboliche che hanno confermato la sitesi di amido e saccarosio: alcuni per confermare
quali siano gli step chiave di queste reazioni, altri sono stati utilizzati per la creazione di piante
in cui fosse possibile pilotare la produzione di saccarosio o amido per favorire alcuni aspetti
della pianta. Un esempio sono le piante di patata dove si è provato a favorire la produzione
di amido per ingrandire la dimensione del tubero.
Vediamo ora quali sono gli enzimi modificati:
• Il trasportatore Triosi-Pi il cui gene è chiamato TPT-1 à in questo caso,
diminuendo il trasportatore, si pensava di aumentare di molto la sintesi di
amido.
• ADP-glucosio pirofosforilasi (Adg1) à in questo caso si voleva aumentare la
sintesi di saccarosio inibendo quella di glucosio.
In entrambi i casi si ha un esperimento di knock-out dove il trascritto o non veniva prodotto
o non era tradotto in proteina.
Ecco il risultato dei due esperimenti:
• Pianta transgenica KO di Tpt-1 à le immagini mostrano a
confronto la pianta wt e quella transgenica. Quest’ultima cresce
in maniera molto molto simile alla pianta normale, ma come mai?
Mancando il trasportatore la pianta accumula molto più amido
primario; facendo questo si è abituata a smantellarlo e esportarlo
come maltosio nel citosol (non solo di notte ma anche di giorno).
In questo modo la pianta è in grado di crescere normalmente
grazie all’esportazione del glucosio che poi viene utilizzato per
fare il saccarosio. La pianta non subisce danno da questa
diminuzione del trasportatore.
• Pianta KO di aAdg1 à la pianta cresce in modo ridotto rispetto al
wt, on un notevole ritardo di crescita. La mancanza di sintesi
dell’amido costringe al citosol a produrre il doppio del saccarosio
ma questo presenta un problema. La sintesi di saccarosio avviene solo
di giorno quando la fotosintesi è in funzione; di notte, non essendoci la
riserva di amido primario, la sintesi di saccarosio si blocca e di
conseguenza non può crescere
FLOEMA
Anche questo rappresenta un trasporto a lunga distanza come quello che
avviene nello xilema. Ora vediamo come vengono trasferiti gli zuccheri prodotti dalla
fotosintesi.
Come sappiamo, nella pianta vi sono due sistemi di trasporto a lunga distanza: lo xilema (in
rosso) e il floema (in verde). Il primo sposta acqua e Sali dalle radici alle foglie, mantenendo

50
sempre la stessa direzione (dal basso verso l’alto) favorita dal
potenziale di pressione negativo instaurato a livello delle foglie
che riesce a vincere la forza di gravità. Questo tipo di trasporto non
è di tipo cellulare, in quanto le cellule a maturità del sistema sono
morte e per questo parliamo di apoplasto con membrane e pareti.
Il floema è rappresentato come movimento di soluti e fotosintati
disciolti, con una direzionalità che va dalle foglie alle radici; ma
questa direzione non è sempre veritiera in quanto può anche
essere contraria e andare dalle radici alle foglie contro la gravità.
In questo caso abbiamo un sistema cellulare.
Più nel dettaglio, i fotosintati non si spostano dall’alto verso il
basso ma dai luoghi di produzione (source) a quelli di consumo o di immagazzinamento
(sink). Le sorgenti sono, ad esempio, le foglie mature che producono più zuccheri rispetto al
loro fabbisogno e quindi li esportano in pozzi, come le radici, che non essendo fotosintetici
non sono in grado di produrli.
Sia la sorgente che il pozzo possono inter-convertirsi, quindi un pozzo che un anno ha
accumulato zuccheri può diventare una sorgente. Nello specifico, una radice o un tubero che
ha accumulato zuccheri può degradarli e donarli a parti della pianta che ne hanno bisogno;
ad esempio le foglie giovani che necessitano di zuccheri per poter crescere.
Un caso tipico è quello delle piante biennali come la barbabietola: il primo anno possiedono
le foglie che fanno fotosintesi (source) e che mandano gli zuccheri alla radice (sink) che si
accumula e si ingrossa. All’inizio del secondo anno, gli zuccheri vengono
mandati verso l’alto per la formazione di foglie, fiori, frutti e semi.
Anche le foglie sono prima sink e poi una volta mature diventano
source. l’immagine mostra un riassunto di quello che abbiamo detto e
possiamo notare la bidirezionalità del floema; questo non avviene
contemporaneamente ma singolarmente.
Le connessioni del floema rappresentano un aspetto molto
interessante in quanto queste sono connessioni plastiche e che
possono modificarsi nella vita della pianta e che possono variare a
seguito di avvenimenti traumatici.
L’esperimento è il seguente: si prende una pianta con la disposizione
fogliare a rosetta e si segue il percorso di distribuzione degli zuccheri
sintetizzati al livello della foglia 14 (foglia matura in grado di fare
sufficiente fotosintesi da esportare prodotti). A questa foglia viene
fornita 14CO2, gli zuccheri saranno pertanto radioattivi e potremo
tracciarne il punto di arrivo identificando così le foglie sink e i
collegamenti della foglia 14. Si scopre che sono sink le foglie 1,3,4 e 6
che sono foglie giovani e sono posizionate dalla stessa parte della
rosetta; le altre saranno fornite da altre foglie source che si trovano dalla
loro parte.
Questo esperimento può essere ulteriormente modificato fornendo
14
CO2 ad una foglia matura (10) ma solo dopo aver rimosso le altre foglie
mature presenti sulla pianta (sul lato opposto). Seguendo la
distribuzione dei fotosintati si può notare come non solo le foglie giovani
dallo stesso lato della foglia source ma anche le altre sul lato delle foglie
rimosse. Questo ci dimostra come la pianta abbia modificato il sistema
di connessione per nutrire anche le altre foglie che non avrebbero
ricevuto zuccheri.
Ricordiamo che nelle dicotiledoni la distribuzione del floema e dello xilema è molto regolare
e il primo è situato nella porzione più esterna, sia nella crescita primaria sia in quella
secondaria. Le immagini mostrano le varie disposizioni dei due sistemi vascolari delle piante.

51
Il floema è quindi uno strato sottile esterno che, rimuovendo la corteccia, viene anch’esso
rimosso. L’esperimento di Malpighi (1686) mostra come la linfa scorresse nello strato
esterno in quanto, la rimozione di un anello di corteccia, porta all’accumulo di zuccheri da
parte della parte superiore che riesce quindi a vivere più a lungo, mentre quella inferiore
muore prima.
In una versione più recente dell’esperimento sono stati fatti due tagli ad
anello e si misura la velocità e la quantità di afflusso di zuccheri al
secondo anello, al variare della quantità di corteccia lasciata. Se la
corteccia viene rimossa la quantità di zucchero che viene accumulata è
zero, se si lascia il 10% vi è una quantità di zuccheri che viene
accumulata che aumenta insieme alla quantità di floema.
Come è fatto il tubo cribroso? Esso è formato da cellule singole impilate
con delle piastre cribrose bucate sull’estremità superiore ed inferiore;
queste rappresentano delle aree estese di connessione tra gli elementi
dei tubi e possono essere presenti anche nelle pareti laterali.
Gli elementi del tubo cribroso sono cellule considerate vite e
presenta gli elementi tipici di una cellula: la membrana
plasmatica (in viola), al cui interno troviamo il contenuto delle
cellule; filamenti di proteina P; dei plastidi modificati
difficilmente riconoscibili e un piccolo RE. Mancano elementi
importanti come il nucleo e la maggior parte degli organelli,
essa infatti non è in grado di sopravvivere da sola. La sua
sopravvivenza è assicurata dalla cellula compagna che è una
cellula funzionante al 100% e che fornisce tutti i materiali
necessari per la sopravvivenza delle cellule del cribro.
L’immagine mostra un ingrandimento di pianta di zucca dove vi sono due
tubi cribrosi sovrapposti (piastra cribrosa con delle placche molto
evidenti separati da pezzi di parete); sulla sinistra vi è l’immagine di una
sezione trasversale di una membrana cribrosa.
I tubi cribrosi, quando vengono danneggiati, possiedono la proteina P
filamentosa che viene risucchiata nei pori per occluderli ed evitare la
perdita di linfa.
Analizziamo ora l’anatomia delle cellule compagne, legate tramite
plasmodesmi alle cellule cribrose. Esse hanno la stessa origine delle
cellule del cribro poiché si originano per divisione asimmetrica della cellula madre. Sono la
sorgente di energia perché possiedono nucleo e mitocondri per le varie funzioni del DNA e
quelle si sintesi dell’ATP.
Possiamo distinguerne due tipi:
a. Cellule compagne ordinarie à
b. Cellule Transfer à cellule compagne che si trovano nelle zone di caricamento
del floema, dove i fotosintetati vengono caricati all’interno di questo.
Essa possiede delle evidenti invaginazioni della parete che risultano in
invaginazioni della membrana plasmatica e
che hanno lo scopo di aumentare la
superficie della membrana. Questo perché
essa ha la funzione di assorbire ed
accumulare gli zuccheri da trasferire poi alle
cellule del cribro; quindi maggiore la
membrana della cellula transfer maggiore
la quantità di zuccheri che verranno caricati.

52
Parliamo ora dei materiali che vengono traslocati nel floema e come avviene il caricamento
di questi nella cellula.
La maniera più semplice per analizzare il contenuto del floema è quello di prendere lo stelo
di una pianta con vasi molto abbondanti (es: zucca) e da questi vedremo scorrere la linfa.
Questo metodo è okay ma bisogna tenere conto che nello stesso punto si interrompono
anche i vasi dello xilema e l’acqua in esso contenuta andrà a diluire il contenuto del floema.
Ci sono dei sistemi più raffinati che usano gli afidi, insetti presenti sulla pianta e che si
nutrono della linfa contenuta nel floema. Grazie alla loro bocca a stiletto essi riescono a
raggiungere i vasi, questi con la grande pressione spingono la linfa nella bocca dell’insetto e
che durante il passaggio nell’apparato digerente assorbe più zuccheri possibili. La quantità
è talmente elevata che vi sarà la fuoriuscita di una gocciolina ancora molto carica di
carboidrati e che viene raccolta dalle formiche per nutrirsi.
Gli sperimentatori per ottenere campioni di floema utilizzano gli afidi permettendogli di
succhiare lo zucchero e a seguito di anestesia l’apparato boccale dell’afide viene staccato e
la gocciolina carica di succo floematico viene prelevata e analizzata.
Questa analisi viene svolta con una tecnica molto complicata:
cromatografia liquida unita alla spettrometria di massa
(LC/MS). In questo caso la cromatografia non è svolta su un
medio solido (come nel ciclo di Calvin per la determinazione del
primo composto (pag.29) ma su una colonna di liquido e serve
per separare i composti presenti in un campione. Il grafico mostra
i picchi separati in viola e vanno verso l’asse delle x. Ognuno di questi
picchi viene analizzato per spettrometria di massa (MS) che utilizza la massa
delle sostanze per definire quali sostanze siano (rivelatore – le sostanze vengono ionizzate
e spostate in un campo elettrico nel quale si sposteranno a velocità elettrica secondo il
rapporto carica elettrica/massa).
L’immagine mostra un profilo di eluizione di
un campione usciti con tempi di eluizione
differenti e i cui picchi sono stati tutti
identificati. Amminoacidi e zuccheri sono
sicuramente parte del floema, ma vi sono
anche proteine. Per l’identificazione delle
proteine si svolge un’elettroforesi su gel di
acrilamide.
La composizione del floema raccolto da uno stelo di ricino (una delle piante più utilizzate) e
notiamo come gli zuccheri siano l’elemento a concentrazione più elevate (80-100mg/mL),
seguono gli amminoacidi, gli acidi organici, le proteine, diversi ioni ma anche ormoni e
microRNA.
Considerando il peso molecolare del saccarosio= 342u, quale sarebbe la molarità del
saccarosio se la componente zuccherina fosse costituita solo da esso (100mL).
Se pongo 342g/1L= 1M à 342mg/1mL= 1M. Nel nostro caso si avrà una concentrazione
0.25/0.3M; questa concentrazione è molto alta.
Parliamo ora del tipo di zuccheri trasferiti: sicuramente non vi è il trasporto di monosaccaridi,
poiché questi comprendono gruppi molto reattivi (aldeidico e chetonico) che potrebbero
essere ossidati e quindi perdere parte dell’energia. La pianta trasporta quindi zuccheri non
riducenti, come? I monosaccaridi vengono uniti a formare polisaccaridi per far sì che il
gruppo riducente non sia libero ma legato ad un altro. Il disaccaride per eccellenza è il
saccarosio ma a questi si possono aggiungere altre molecole di monosaccaridi formando
delle molecole più complesse. Ciò che importa è che questi non sono soggetti ad
ossidazione.
Per quanto riguarda gli amminoacidi, ve ne sono due che vengono trasferiti a lunga distanza:
le ammidi dell’acido glutammico e dell’acido aspartico. L’acido glutammico ha come catena

53
laterale un gruppo carbossilico (-COOH) e la sua ammide (glutammina) ha un gruppo
ammidico (NH2); pertanto la glutammina trasporta due atomi di azoto: quello del gruppo
amminico e quello della catena laterale.
Lo stesso discorso vale per l’asparagina, l’ammide dell’acido aspartico, e anch’essa contiene
due atomi di azoto. La pianta per spostare l’azoto dal punto di assorbimento (radici) alle foglie
trasporta il doppio dell’azoto con una singola molecola.
Passiamo alle proteine trasportate dal floema. Esse possono essere separate con
elettroforesi su gel e poi identificate con un’analisi di massa.
I tipi di proteina che troviamo nel floema sono principalmente le proteine tipiche del floema
(filamentose – in caso di buchi o rotture intervengono e bloccano i pori). Vi sono anche altre
proteine meno abbondanti: quelle di detossificazione dei ROS (proteine in grado di
neutralizzare le specie molto reattive – catalasi), proteine di difesa contro erbivori o patogeni
(reazioni enzimatiche che danneggiano gli attacchi patogeni), la
proteina FT (flowering time – segnale sistemico che viene prodotto in
un punto della pianta per essere inviato ad un altro dove poi agirà). Che
funzione ha questa proteina? Essa invia dei segnali all’apice per attivare
i geni di attività floreale; l’apice deve quindi passare dallo stato
vegetativo, di produzione di foglie, a quello floreale. Questo segnale viene
inviato dalle foglie mature, in grado di percepire il fotoperiodo,
segnalando alla pianta che è il momento di fiorire.
Qui sono stati trovati anche dei microRNA che hanno la funzione di segnale e contribuiscono
a modificare la trascrizione di alcuni geni; essi non produrrano delle proteine ma solo
funzione regolatrice.
Il risultato finale della sua attività è la degradazione
dell’mRNA ed è un sistema che viene usato come
protezione da patogeni etc. L’esempio mostra come i
microRNA vengano usati come segnali a lunga distanza
tramite il floema. Il segnale viene inviato dalle foglie alle
radici, le prime sono in carenza di fosfato per questo devono inviare un
segnale alle radici per far sì che venga potenziato il sistema di
assorbimento di fosfato. Al livello del mesofillo fogliare in carenza, viene
sintetizzato questo microRNA segnale che viene caricato nel floema a
livello delle foglie, trasportato lungo i vasi e poi scaricato al livello delle
radici. Qui interferirà con la trascrizione di una proteina bloccandola,
facendo sì che vi sia la metilazione del DNA che ha come conseguenza l’aumento
dell’espressione del gene responsabile dell’assorbimento di fosfato dal terreno.
Come avviene il caricamento del floema?
Prendiamo in considerazione il mesofillo di una
foglia come source. L’immagine mostra una
rappresentazione semplificata di una foglia: in
verde vediamo le cellule del mesofillo dalle quali
lo zucchero verrà caricato nel floema. Per
arrivare al vaso, i soluti devono passare dal
mesofillo alle cellule della guaina del fascio, le
cellule di parenchima, giungono quindi alla
cellula transfer ed infine nell’elemento del cribro.
È un percorso molto articolato che richiede numerose tipologie di cellule.
Vi sono due vie di caricamento, con alcuni passaggi iniziali comuni. Gli zuccheri passano
attraverso le cellule del mesofillo utilizzando i plasmodesmi (simplastico) con un numero
variabile di passaggi. Passano poi, sempre per via simplastica, nelle cellule della guaina del
fascio (con cellule del parenchima in numero diverso) e da qui le vie si separano.

54
1. Via apoplastica à qui vi è un passaggio
apoplastico in cui lo zucchero esce dalla
cellula del parenchima, attraversa la
membrana e si posizione nella parete
comune delle due cellule e dall’apoplasto
rientra attraverso la membrana della cellula
compagna e dai plasmodesmi raggiunge la
cellula del floema.
2. Via simplastica à in questo caso prosegue
dalla cellula del parenchima alla compagna
senza fuoriuscita dall’apoplasto.
Entrambe le vie riescono a concentrare lo zucchero nel floema a livelli molto
più elevati di quelli che avvengono in tutte le altre cellule della pianta. Il
rientro dello zucchero dall’apoplasto alla cellula compagna costituisce lo
step di concentrazione dello zucchero, una volta arrivato nell’apoplasto lo
zucchero rientra tramite dei sistemi di co-trasporto che abbinano il
trasporto del saccarosio a quello di protoni (con la formazione di protoni).
L’immagine mostra una cellula compagna dove sulla parete vi è il
saccarosio viene fatto rientrare tramite la pompa protonica che fornisce
energia per lo spostamento contro-gradiente. Ma come funziona quello
della via simplastica? Il tutto avviene usando una trappola di polimeri. Una volta entrato nella
cellula compagna (cellula intermedia) il saccarosio scompare in quanto viene trasformato in
raffinosio con l’aggiunta di un galattosio. Il raffinosio può muoversi solo nella direzione della
cellula del floema, senza poter tornare indietro perché i plasmodesmi che collegano la cellula
parenchimatica sono troppo piccoli.
Man mano che il saccarosio scompare, il suo gradiente
viene mantenuto molto elevato nella zona della cellula
compagna con accumulo di zucchero sotto forma di
raffinosio.
Il numero di plasmodesmi che collegano la cellula
compagna a quelle circostanti è quasi nullo nella via
apoplastica, mentre è molto elevato nella via
simplastica.
Come avviene invece lo scaricamento? Anche in questo caso vi sono due vie: la
simplastica e l’apoplastica.
L’immagine mostra la cellula del cribro e la sua compagna
legate alle cellule sink. Questo scaricamento avviene grazie
al gradiente che si viene a creare a seguito dell’immediato
utilizzo degli zuccheri una volta utilizzati (via simplastica).
Nello scaricamento apoplastico vi è uno step di interruzione che
può essere posizionato in diversi punti (tra cribro e compagna, tra
compagna e sink) della catena. Ed il gradiente viene mantenuto
dall’apoplasto, grazie al fatto che le cellule siano in grado di
sequestrare lo zucchero presente nell’apoplasto mantenendo i
livelli bassi in questo. Ecco che il flusso va dal floema all’apoplasto.
Le cellule sink assorbono gli zuccheri ma li convertono solitamente
in riserve per le stagioni successive.
Il seme è un esempio tipico, questo non fa più parte della pianta
madre ed è sempre staccato apoplasticamente dalla madre.
Sempre nella via apoplastica, un ruolo importante lo gioca l’enzima Invertasi; esso idrolizza
il saccarosio in glucosio e fruttosio. L’enzima si trova nell’apoplasto quindi appena entra viene

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scisso così da mantenere il flusso di saccarosio
verso gli organi sink; abbassando i livelli di
saccarosio l’uptake viene favorito.
Ma come avviene il meccanismo di trasporto
floematico? Possiamo porci diversi quesiti: la
velocità di trasporto, se si tratta di un trasporto
passivo e quale sia il meccanismo che spiega il
trasporto nei tubi.
La velocità di trasporto della linfa si può misurare ed è pari a 1m/h (xilema 4mm/sec à
4x3600s = 14,4m/h).
La teoria che spiega il movimento della linfa nel floema è la teoria del flusso determinato
dalla differenza di pressione. È un flusso di massa in cui l’acqua e gli zuccheri e tutti gli altri
elementi si spostano insieme ed avviene per differenza di pressione nel tubo de floema
come spiega la legge di Poiseuille. Si tratta di (1) un gradiente di pressione tra la souce e
il sink. Il (2) trasporto è di tipo passivo poiché il gradiente di pressione è un gradiente
termodinamico che rilascia energia libera. (3) Non è necessaria ulteriore energia se non
nel caricamento e nello scaricamento apoplastico per generare il gradiente. (4) Il flusso
nel floema non avviene in maniera indipendente dal trasferimento di acqua nello xilema;
quindi il floema, per spostare elementi nel suo sistema, richiede anche il contributo del flusso
di acqua dello xilema.
Ecco un esempio: il trasferimento di massa è segnato in rosso e
va dalla source (mesofillo) al sink (cellula radicale).
Gli zuccheri prodotti al livello del mesofillo vengono trasferiti ed
accumulati nella cellula compagna (vaso cribroso); in questo
punto si genera una forte concentrazione con una grande
riduzione del potenziale idrico (per la componente dei soluti), con
conseguente richiamo di acqua dai vasi xilematici vicini. L’acqua
che scorre nello xilema viene in parte assorbita dal punto di
caricamento, generando una pressione positiva. Questa, essendo
più elevata rispetto a quella del punto di sink, avviene lo
scaricamento degli zuccheri in queste cellule. Con lo
scaricamento si ha una diminuzione del contenuto di soluti, ed il
potenziale dell’acqua assume un valore più positivo della source
tornando nello xilema e riportando la pressione
a valori di base.
Facciamo ora una piccola misura quantitativa.
Partiamo dalla zona source dove l’accumulo di
zuccheri porta il yw a valori più negativi (ys=-
1.7MPa), in questo modo viene richiamata
acqua dallo xilema (yw=-0.8MPa) in quanto il
suo potenziale idrico è meno negativo.
L’acqua entra e mette sotto pressione positiva
il vaso (yP=+0.6MPa).
Al livello del sink gli zuccheri escono e (ys=-
1.7à-0.7) questo fa si che anche il yw diventi
più positivo con un valore di circa -0.4MPa, che
comporta un’uscita di acqua verso lo xilema che questa volta è più negativo. In questo modo
di perde parte della pressione positiva. Questa è quindi la driving force che trasporta i soluti
all’interno del floema. La differenza di pressione che vi è tra il souce e il sink è la chiave del
trasporto floematico.
Questa teoria ha molti aspetti provati sperimentalmente ma vi è un punto ancora non chiaro:
quello con cui abbiamo a che fare è un trasferimento di soluti da un potenziale idrico (yw=-

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1.1MPa) ad uno più positivo (yw=-0.4MPa). Da un punto di vista termodinamico questo va
contro molti dei principi su cui si basa il trasporto di acqua, in quanto questa si sposta da un
potenziale idrico molto negativo ad uno più positivo. Questo è però un processo non
all’equilibrio e quindi necessita della termodinamica non all’equilibrio. Esso non è un
processo osmotico, non passa delle membrane, quindi non si possono considerare tutte le
componenti ma va considerata solo la pressione.
Ecco gli esperimenti che sono stati svolti per dimostrare il modello a flusso di pressione. Vi
sono alcune caratteristiche da considerare:
• I pori delle placche non devono essere ostruiti à tecniche di freeze fracturing
(raffreddamento e fissazione) per poi visualizzare al microscopio elettronico, si sono
ottenute delle placche che non siano ostruite dalla proteina P a seguito di danno.
• Non si può avere trasporto bidirezionale in uno stesso elemento del cribro à
concordanza in quanto non è mai stato visualizzato, ma può avvenire comunque in
entrambe le direzioni.
• Non è richiesto grande dispendio di energia à verificato perché il trasferimento e la
sua velocità non risentono della temperatura. La bassa temperatura non diminuisce il
trasporto, quindi esso è un trasporto di tipo fisico e non da reazioni biologiche.
• Effettiva presenza di un gradiente di pressione à è stato possibile misurarlo con un
valore di circa 0.3-0.4MPa.
NUTRIZIONE MINERALE
Essa è al pari della luce del sole e all’anidride carbonica, uno dei tre elementi necessari per
la sopravvivenza della pianta. Essa avviene tramite l’assorbimento da parte dei peli radicali
ma sappiamo che la fonte inorganica di CO2 viene presa dall’atmosfera.
Dobbiamo introdurre il concetto di elemento chimico essenziale per la pianta: un elemento
chimico che deve essere presente nella vita, in quanto in sua assenza la pianta non riesce a
completare il ciclo vitale – produrre semi per la generazione successiva. Non è un concetto
basato sull’abbondanza, ma sulla sua funzione nel metabolismo e nella crescita della pianta.
Sono numerosi gli elementi richiesti e sono classificati nella tabella a seconda della loro
abbondanza all’interno dell’organismo. La quantificazione viene fatta su peso secco: si
prende la pianta, si incenerisce e si fa una concentrazione dell’elemento.
In questo caso, gli elementi molto importanti vengono
espressi in percentuale su peso secco; se meno
abbondanti allora saranno espressi per ppm/dry matter.
Un ulteriore metodo di misurazione è il rapporto tra gli
atomi di un elemento e quelli del molibdeno (elemento
meno diffuso).
Idrogeno, carbonio e ossigeno sono le componenti
principali e rappresentano il 96% degli elementi di una
pianta, e sono tutti ottenuti dall’acqua o dall’anidride
carbonica.
Un altro gruppo di elementi, sempre considerati
macronutrienti, presenti a concentrazioni altamente
inferiori a quelle precedenti (1.5-0.1%). Ne fanno parte
atomi molto importanti come l’azoto o ioni come
potassio, calcio e magnesio (silicio dona resistenza alla
parete).
Vi sono poi i micronutrienti in quanto sono sì essenziali
ma sono presenti in concentrazioni bassisime (es: Cl-
per l’apertura e la chiusura degli stomi) per questo
espresse in ppm.

57
L’AZOTO
L’azoto è uno dei quattro macronutrienti principali e parliamo di come questo venga
assimilato e metabolizzato.
Da dove preleva l’azoto la pianta? Nel terreno. Nonostante l’atmosfera sia fatta dal 70% di
azoto, le piante non sono in grado di utilizzare la sua forma gassosa, quindi deve sfruttare le
forme presenti nel terreno. L’ammonio (NH4+) ed il nitrato (NO3-) che derivano dalla
degradazione della sostanza organica prodotta dai batteri del terreno. La pianta può quindi
assorbirli con le radici.
L’assimilazione di azoto da parte della pianta avviene in diversi passaggi:
1. Assorbimento dal suolo nelle due forme ioniche
2. Riduzione ad ammonio nel caso in cui abbia assorbito nitrato à questa reazione
avviene in due step e può avvenire a livello delle radici o delle foglie, dopo essere stato
trasportato a lunghe distanze.
3. Fissazione dello ione ammonio all’interno di un aa à da qui può essere trasferito a
differenti molecole.
Come funziona l’assorbimento? È necessario un trasportatore
(NRT – Nitrate Transporter), in quanto essendo un anione non
può essere trasferito all’interno di una cellula vegetale
passivamente. Viene quindi utilizzato un sistema di co-trasporto
con i protoni: la pompa protonica crea un gradiente che viene
utilizzato come energia per favorire il simporto del nitrato. Quando
poi il nitrato viene assorbito nella cellula della radice, può subire
due destini:
1. Essere accumulato al livello del vacuolo della cellula della radice à qui viene
immagazzinato ad alte concentrazioni in caso di grande disponibilità nel terreno.
Questo destino rappresenta un metodo di riserva per quando questo sarà scarso; ma
può essere tossico per gli animali erbivori che si cibano di queste piante. Un esempio
è l’ortica, quando le vacche si nutrono di queste piante perché questo si concentra
nel fegato degli animali. Qui si riduce a nitrito dove può legarsi all’emoglobina
impedendo all’ossigeno di legarsi.
2. Trasportato a distanza da xilema e floema verso le foglie
L’assunzione di ammonio dal terreno, dalle cellule delle radici,
avviene in maniera differente; l’ammonio è un catione e la sua
carica positiva gli permette di entrare spontaneamente nelle
cellule in quanto queste possiedono un potenziale pià negativo
rispetto all’esterno.
Esso possiede due modalità di entrata principali: il trasportatore
di ammonio (AmT – Ammonium Transporter) o tramite i canali
per il potassio che hanno una certa permeabilità anche allo ione ammonio.
A differenza del nitrato, l’ammonio non può essere accumulato all’interno del vacuolo o in
una cellula. Questo perché se accumulato esso si rivela tossico poiché dissipa i gradienti di
protoni (in tilacoidi, mitocondri, vacuoli). Ma perché? Vediamo nell’immagine due
compartimenti a pH differente separati da una membrana:
quello di sinistra ha una bassa concentrazione di protoni e un
pH molto alto, quello di destra con molti protoni e un basso pH.
Se l’ammonio nel compartimento a pH alcalino rilascia il suo
protone e si trasforma in ammoniaca (NH3); questa a
differenza dell’ammonio, che non può oltrepassare le
membrane spontaneamente, può passare la membrana
lipidica e passa quindi nel compartimento a pH acido. Qui
l’ammoniaca guadagna un protone e si trasforma in ione
ammonio. Il risultato è che un protone è stato rilasciato nel

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compartimento di sinistra, mentre uno è stato sequestrato in quello di destra. In questo modo
si riduce il gradiente di protoni che la cellula aveva creato a cavallo della membrana. Se il
sistema va verso l’equilibrio non è più compatibile con le attività vitali della cellula.
Per evitare questo problema, l’ammonio non viene mai accumulato nella pianta e viene
quindi incorporato in una molecola organica così da non dissipare il gradiente di protoni.
Nel floema troviamo azoto sotto forma di due amminoacidi, due ammidi, e sono la forma
sotto cui le piante spostano ammonio in quanto spostano il doppio dell’azoto rispetto ad un
altro amminoacido.
RIASSUMENDO:
sia il nitrato che l’ammonio vengono assorbiti al livello delle radici ma possiedono due destini
molto diversi.
• L’ammonio non può essere accumulato e non può restare libero quindi viene
incorporato in amminoacidi e poi trasportato a lunga distanza verso le foglie.
• Il nitrato ha un destino un po’ diverso:
o Essere accumulato al livello del vacuolo
o Trasportato a lunga distanza verso le foglie. Qui può essere accumulato nel
vacuolo o essere assimilato. La prima reazione di assimilazione consiste nella
sua riduzione ad ammonio. Da qui potrà subire lo stesso destino dello ione
ammonio venendo incorporato in un aa.
Le reazioni che avvengono a livello delle radici sono molto simili sia nel tipo di reazione sia
nella loro localizzazione negli organelli.
Partiamo dalle cellule della radice:
il nitrato viene assorbito tramite co-trasporto di protoni ed
entra nel citoplasma. Qui ha diversi destini: accumulato nel
vacuolo, ridotto ad ammonio o trasportato verso le foglie.
La riduzione ad ammonio richiede una prima riduzione nel
citoplasma, con la conversione di nitrato a nitrito (nitrato
reduttasi); il nitrito viene trasferito al livello del plastidio
(leucoplasto), dove subisce un’ulteriore riduzione ad
ammonio tramite la nitrito reduttasi.
Nel leucoplasto l’ammonio viene incorporato negli
amminoacidi (asparagina e gutammina) ed essendo ora
innocuo può essere trasportato a lunga distanza verso le
foglie che lo richiedono.
Quando invece il nitrato, trasportato subito alla cellula della
foglia, viene assorbito dalla cellula del mesofillo con lo
stesso meccanismo utilizzato dalla cellula della radice
(pompa protonica e gradiente di protoni per il co-
trasporto). Il nitrato qui può essere accumulato
temporaneamente nel vacuolo o andare incontro a
riduzione verso ad ammonio. Prima la riduzione a nitrito nel
citoplasma; questo viene spostato nel cloroplasto dove viene ulteriormente ridotto ad
ammonio per essere fissato sugli amminoacidi. È ora disponibile per la pianta.
Analizziamo ora le due reazioni di riduzione del nitrato:
1. Da nitrato a nitrito (citosol) à catalizzata dalla nitrato reduttasi ed è la seguente:

il donatore di elettroni in questo caso è un NADH.


L’enzima coinvolto è molto interessante poiché
presenta tre co-fattori legati ad esso: FAD, Cyt-b e il
molibdeno (MoCo). Questi sono legati
covalentemente alla proteina e creano in essa una

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mini-catena di trasporto degli elettroni che li trasferisce NADH à FAD à Cyt-b à
MoCo.
Il molibdeno è uno degli elementi essenziali della pianta, ma quello presente in misura
minore, qui possiamo notare la sua importanza per l’organismo (pag.56)
2. Riduzione del nitrito (plastidio) à in questo caso abbiamo la nitrito reduttasi ed è
una reazione molto costosa:

Come vediamo per un singolo nitrito sono


necessari 6 elettroni e 8 protoni per la
produzione di una molecola di ammonio e due
di acqua. Ci troviamo nel mesofillo e il donatore
di elettroni è la Fd che, durante il giorno, è
continuamente ridotta dal PSI (pag. 20).
Se siamo nella radice e la reazione avviene nel
leucoplasto allora il donatore di elettroni è il
NADPH.
Anche la nitrito reduttasi è un enzima molto interessante, poiché ha al suo interno una
piccola catena di trasporto deglie elettroni i cui cofattori sono: Fe-S, FAD e gruppo
Siro-heme. Se siamo nel cloroplasto mediano la riduzione da parte della Fd; se siamo
nel leucoplasto la mediano per il NADPH. Ma come si forma il NADPH? Si forma
attraverso la processamento degli zuccheri nella via dei pentosi fosfati (PPP). Questa
via la troviamo anche nei plastidi in quanto è parte della rigenerazione del ciclo di
Calvin.
ASSIMILAZIONE DELL’AMMONIO
L’ammonio presente al livello della foglia deriva dalla riduzione del nitrito, ma la maggior parte
dell’ammonio assimilato deriva dalla fotorespirazione (10X).
La fotorespirazione quando genera la serina (livello del mitocondrio – pag. 35) libera uno
ione ammonio quando le due glicine si uniscono. Questo ammonio viene spostato dal
mitocondrio al cloroplasto per essere incorporato in una molecola organica.
Ecco come avviene l’assimilazione dell’ammonio nella foglia, al livello del cloroplasto in
quanto richiede energia.
La fonte di ammonio è la riduzione del
nitrito, in rosso, o dalla fotorespirazione in
nero. Lo ione ammonio viene incorporato su
uno scheletro carbonioso di un
amminoacido (acido glutammico o
glutammato); questa incorporazione
richiede consumo di energia sotto forma di
ATP e genera l’ammide dell’amminoacido:
la glutammina. L’enzima deputato a
catalizzare questa reazione è la
glutammina sintetasi (GS). La glutammina
è un amminoacido con due gruppi NH3, ed
in un secondo step reagisce con un acido
organico (acido a-chetoglutarico) su cui
trasferisce uno dei due gruppi ammonio,
con la formazione di due molecole di
glutammato. Questa reazione necessita di
potere riducente, fornito da due Fd, catalizzata dall’enzima Glutammato sintasi ed il suo
substrato, l’acido a-chetoglutarico, deriva dalla fotorespirazione. Esattamente dalla fase che

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avviene nel perossisoma dove il glutammico cede un gruppo NH3 per formare la glicina (pag.
35).
Guardiamo più in dettaglio la prima reazione: il
glutammato viene pre-attivato con una molecola di
ATP; riceve un gruppo fosfato che si lega al gruppo
carbossilico che poi incorporerà l’NH4+, diventando
glutammina. L’enzima glutammina sintetasi è
inibito dal glufosinato, un analogo del substrato che
viene utilizzato come erbicida. Esso blocca
l’incorporazione dell’ammonio, questo accumulandosi nel cloroplasto e dissipando il
gradiente di protoni uccide la pianta.
Nella seconda reazione, la glutammina reagisce
con l’acido a-chetoglutarico; con l’intervento della
Fd, la glutammina riesce a trasferire il gruppo NH3
della catena laterale, al gruppo COO- con la
formazione di due molecole di glutammina.
Parliamo ora dell’assimilazione dell’ammonio nel
leucoplasto. La questione è capire da dove
proviene il potere riducente e l’ATP rischiesti per
l’assimilazione, in quanto i passaggi sono gli stessi.
L’ATP non può essere prodotto all’interno del
leucoplasto, quindi viene trasportato dal citosol (glicosilazione o mitocondri); la Fd, richiesta
per il secondo passaggio, proviene dal NADPH che si genera nella via dei pentosi fosfati.
Il glutammato è il primo amminoacido in cui viene incorporato l’ammonio nelle piante. Esso
lo donerà ad altri amminoacidi o verrà donato a scheletri carboniosi per la formazione di altri
amminoacidi, in quanto la pianta è in grado di sintetizzarli tutti e venti. Questo avviene
inserendo il gruppo ammonio su degli scheletri carboniosi che possono essere nuovamente
modificati. Gli scheletri sono principalmente quattro: il PEP, Eritrosio-4-fosfato, Ribosio-5-
Fosfato e il Fosfoglicolato (PG) che sono tutti prodotti del ciclo di Calvin. Questo ciclo non è
solo fondamentale per l’organicazione del carbonio ma anche nella formazione degli
scheletri carboniosi per la sintesi degli amminoacidi.
Ci sono esempi che conosciamo già: il PG che da inizio alla fotorespirazione e che origina la
glicina e la serina.
Dal PGA si può ricavare il PEP da cui, se si va a Pyr, si può ottenere per inserimento di un
gruppo ammonio l’alanina.
Eritrosio-4P unito al PEP danno origine ad uno
scheletro carbonioso degli amminoacidi aromatici:
fenilalanina, triptofano e la tirosina. Questa via di
sintesi è bloccata dal glifosato (un erbicida).
Il glifosato è un erbicida sistemico (assorbito da una
parte della pianta e diffuso in tutte le parti della pianta)
ad ampio spettro (agisce su tutte le specie) in quanto
agisce sulle reazioni che portano alla sintesi degli
aminoacidi aromatici. Gli agricoltori l’hanno utilizzato
da subito, soprattutto dopo che la Monsanto ha
introdotto nel mercato le piante in grado di resistervi (solo le infestanti venivano colpite,
senza danneggiare le culture).
La polemica nasce dal fatto che la Iarc ha inserito il glifosato tra le sostanze possibilmente
cancerogeni (gruppo 2A – con una probabilità molto molto bassa). Questo concetto è stato
trasformato in una battaglia, nel dettaglio contro la Monsanto. L’OMS non la considera una
sostanza pericolosa ed ha più volte specificato che la sua assunzione sia cancerogena per
l’uomo in quanto sarebbero necessarie quantità enormi.

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La polemica si è diffusa in maniera irrazionale poiché nati su basi ideologiche. Gli agricoltori
sono a favore in quanto ha un costo molto molto basso ed una grande efficacia.
Regolazione dell’assimilazione dell’azoto
È un processo che richiede molta energia ma allo stesso tempo essenziale per la pianta. Per
questo motivo il processo è sotto stretta regolazione da parte dell’organismo. Questa
regolazione avviene prevalentemente al livello della nitrato reduttasi (prima reazione che
trasforma nitrato in nitrito); aggiungiamo che il nitrato ha un effetto regolatorio sulla
trascrizione genica.
La nitrato reduttasi è un enzima che ha un turn-over molto rapido, con un emivita molto
breve (2-3 ore), pertanto può essere regolato a livello della trascrizione del gene. Agire al
livello della sua trascrizione è un modo efficace per regolarne l’abbondanza nella cellula.
Ci sono tre fattori principali che regolano la trascrizione del gene:
a. L’abbondanza di substrato (NO3-) à che promuove la trascrizione della
proteina. Ecco che il nitrato ha anche funzione di segnale. L’abbondanza del
nitrato promuove quindi la sua trascrizione al livello del gene.
b. Regolazione da parte degli zuccheri à gli zuccheri prodotti al livello del ciclo
di Calvin sono gli scheletri carboniosi per la formazione di aminoacidi. Una loro
abbondanza rappresenta uno dei fattori che spingono la trascrizione del gene.
c. Presenza di luce à la luce fornisce il potere riducente richiesto per la riduzione
del nitrito ad ammonio e poi per la sua assimilazione. L’elevato uso della Fd è
un segnale per la trascrizione. Allo stesso modo si ha l’inibizione della
trascrizione in quanto non si vuole accumulare nitrito nella cellula se non si può
assimilare. Il nitrito oltre ad essere pericoloso per gli erbivori lo è anche per la
pianta in quanto possiede delle proprietà mutagene.
La slide mostra lo schema di regolazione
della nitrato reduttasi: sulla sinistra sono
rappresentati i fattori che influenzano la
trascrizione del gene in maniera positiva
(rosso) o negativa (nero). A seguire troviamo
un sistema di regolazione della sua attività:
essa può esistere nella forma fosforilata
(nitrato-reduttasi-chinasi con uso di ATP) e
defosforilata. Sono entrambe attive, ma la
forma fosforilata diventa substrato delle
proteine 14-3-3, che hanno funzione
regolatoria anche della pompa protonica.
Esse riconoscono i substrati solo se
fosforilati, quindi la nitrato reduttasi viene quindi sequestrata e inattivata. La fosforilazione è
controllata dalla luce: essa stimola la reazione di riduzione del nitrato e quindi previene la sua
fosforilazione per evitare la sua inattivazione. Stimoli derivanti dal calcio possono invece
promuovere la sua inattivazione per fosforilazione.
Il nitrato agisce come molecola segnale per la trascrizione genica su questi geni (per la sua
assimilazione o trasporto):
• Nitrato reduttasi
• Nitrito reduttasi
• Glutammina sintetasi
• Trasportatore NRT1 e NRT2
Ma come fa a controllare la trascrizione di questi geni? Tutti possiedono degli elementi in
cis che sentono la presenza di nitrato e possono quindi rispondere alla sua sequenza. Essi
sono chiamati NRE (Nitrate Responsing Elements) e sono stati localizzati nei promotori di
questi geni.

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Questo elemento NRE viene riconosciuto dal fattore di trascrizione
NLP8 (attivato dalla presenza di nitrato), legandosi insieme
inducono la trascrizione dei geni in questione. Ma esso può anche
promuovere la germinazione del seme con la degradazione
dell’ormone ABA. Uno dei fattori di generazione del seme è
l’abbondanza di nutrienti nel terreno; il nitrato segnala quindi al
seme la condizione ideale per sviluppare la plantula. Come
meccanismo di segnalazione usa l’attivazione di NLP8 che
riconosce l’elemento NRE del gene CYP707A2, che viene trascritto.
La proteina matura avrà un ruolo chiave nella degradazione dell’ormone ABA (inibitore della
germinazione).
Il nitrato può anche regolare le proteine che lo trasportano.
A livello della cellula della radice vi sono due sistemi di trasporto (NRT1 e NRT2), sono
entrambi dei simporter di protoni ma si distinguono perché uno ha un’affinità micromolare
mentre l’altro millimolare (NRT1).
Non vengono prodotti entrambi ma solo quello necessario a seconda della concentrazione
presente: infatti in caso di un cambiamento
improvviso nella concentrazione, il trasportatore
viene modificato per diventare NRT2. Come? Tramite
la fosforilazione di una treonina nel trasportatore.
La diminuzione di nitrato del terreno promuove la
fosforilazione della Thr101 questo provoca la
dissociazione del dimero con la formazione di due
monomeri che funzionano da trasportatori ad alta affinità.
Un altro effetto della disponibilità del nitrato è lo stimolo della crescita delle
radici laterali. L’esperimento mostra due piante che crescono in condizioni
differenti, possiamo quindi notare la formazione di radici radicali in maniera
differente. Questo si ricollega alla sua capacità di regolare il trasportatore
NRT1. A basse concentrazioni di nitrato esso trasporta anche auxina, che inibisce la crescita
delle radici laterali.
Come mai il trasporto dell’auxina non promuove la formazione
di una radice? Perché in caso di trasporto non vi è accumulo
dell’ormone e quindi non vi è crescita. In caso di alte
concentrazioni di nitrato vi è l’accumulo di auxina nel punto in
cui possono crescere le radici laterali tramite la distinzione
delle cellule.
Ecco un modo per visualizzare la presenza di auxina nelle
cellule vegetali. L’accumulo si può visualizzare in modo indiretto:
piante transgeniche (esprimono il gene GUS sotto il controllo di promotore DR5::GUS) i cui
promotori sono controllati dall’auxina. Il gene GUS codifica per una proteina che catalizza
una reazione il cui prodotto è di colore blu. Nei punti in cui vediamo il blu, il gene attivato
dall’auxina è stato trascritto. Dove vi è più colore blu vi è più auxina; in questo caso si ha
questa situazione a concentrazioni di nitrato molto alte.
Fissazione dell’azoto
Questo aspetto riguarda la simbiosi di alcune piante con organismi in grado di fissare l’azoto
molecolare. Ecco costituisce una fonte infinita di azoto per gli organismi, ma pochissimi sono
in grado di utilizzarlo per la presenza di tre legami ad alta energia. La sua riduzione necessita
di davvero tanta energia. L’uomo riesce ad utilizzarlo riducendolo ad ammoniaca con una
procedura industriale con molta energia e pressioni elevatissime; in natura solo i batteri sono
in grado.

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La reazione è la seguente:

Parliamo di fissazione biologica dell’azoto che avviene grazie all’enzima nitrogenasi, con una
richiesta energetica esagerata: 4e- (NADH) e 16 ATP. Un ulteriore problema è che l’enzima
è inibito dall’ossigeno, quindi i batteri creano delle condizioni anaerobiche. Questa necessità
ha spinto alla formazione di una simbiosi tra batteri e piante: queste ultime
creano un ambiente a basso contenuto di ossigeno (noduli delle radici), qui i
batteri fissando l’azoto producono delle molecole di ammonio che vengono
utilizzate dalle piante che donano loro carboidrati.
L’associazione è particolarmente evoluta tra Rhizobium e le leguminose, che
producono dei semi a grande contenuto energetico.
L’immagine mostra una radice con cinque noduli e a una schematizzazione di
un nodulo dove vi è una parte esterna che rende impermeabile il
nodulo agli scambi gassosi e la leghemoglobina (emoglobina
delle leguminose) che lega l’ossigeno per ridurne la
concentrazione al livello della nitrogenasi.
Il nodulo effettua scambi con il sistema vascolare della radice dal
quale riceve zuccheri e al quale cede ammonio. Le
leghemoglobina sono molto interessanti; esse possiedono un
gruppo eme che lega l’ossigeno ed è sintetizzato dai batteri, e una parte proteica che è
sintetizzata dalla pianta (globina).
Assomiglia nella sua struttura tridimensionale alla mioglobina che troviamo nei muscoli dei
mammiferi.
Come avviene la nodulazione? Il processo richiede uno
scambio di segnali tra la pianta ed il batterio. Questo vive
libero nel terreno e viene attirato verso la superficie della
radice per chemiotassi (flavonoidi – entrano nel batterio
e attivano i geni Nod). La produzione dei fattori Nod e la
loro secrezione inducono, nella pianta, la trascrizione dei
geni che danno orgine al nodulo. Il primo evento è la
formazione del tubetto di infezione. Questo processo si ottiene per allungamento e curvatura
di un pelo radicale, in questo modo raccoglie al suo interno i batteri.
I batteri una volta all’interno si trovano negli strati della corteccia della radice dove poi
vengono rilasciati all’interno delle cellule. L’immagine mostra una cellula della corteccia
invasa da batteri che sono a loro volta circondati da una membrana (provenienti dal tubetto
di infezione o dalla membrana della cellula – sono chiamati batterioidi).
Il rilascio dei batterioidi si ha attraverso la scissione del
tubetto di infezione che è penetrato nella cellula. La loro
presenza determina un segnale di crescita in questo
punto (auxina) ed incomincia a dividere e distendere le
cellule in questo punto con la produzione del nodulo.
Il nodulo mentre si forma va incontro ad una
maturazione con la formazione di connessione con i
vasi che scorrono nella radice (xilema e floema),
necessari per il trasporto dei carboidrati verso il batterio
sia per i prodotti della fissazione dell’azoto. Qui inizia la sintesi della leghemoglobina che
mantiene bassa la concentrazione di ossigeno ottenendo così le condizioni ideali per la
nitrogenasi.
La crescita del nodulo è stimolata da due ormoni: l’auxina e l’etilene. Possiamo notare le
connessioni tra nodulo e pianta: quelle tramite lo xilema che servono ad esportare gli

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amminoacidi sul quale è stato fissato l’azoto atmosferico verso il
resto della pianta; mentre il floema trasporta gli zuccheri ed i
fotosintati che la pianta offre al batterio.
La pianta fornisce saccarosio che viene convertito in malato,
necessario ai batteri per la fissazione dell’ammonio che verrà poi
esportato in tutta la pianta. Guardando più nel dettaglio vediamo
che la cellula della radice contiene la leghemoglobina che
mantiene basso il livello di ossigeno intorno al batterioide. Quest’ultimo
deve fissare l’azoto e per farlo ha bisogno di 8e- e 16 ATP. Ma da dove
arriva tutta questa energia? Dalla respirazione del malato, all’inizio vi è
il ciclo di Krebs che produce NADH che viene un po’ usato come potere
riducente, mentre un po’ viene respirato ad ossigeno nella catena di
trasporto che però ha come accettore finale l’ossigeno. Quindi la
leghemoglobina deve mantenere basso il livello di ossigeno per non
inibire la nitrogenasi, ma non deve sequestrarlo tutto perché esso è necessario per la
respirazione del batterio (sintesi di ATP).
L’affinità della leghemoglobina per l’ossigeno ha una Kd=0.01µM,
mentre l’ultima ossidasi della catena respiratoria batterica ha una
Kd=0.001µM. Il poco di ossigeno reso disponibile dalla proteina è
sufficiente per la catena respiratoria del batterio.
Un altro organismo è rappresentato dai cianobatteri. In caso di
mancanza di azoto alcune cellule si trasformano in eterocisti, qui
perdono il PSII e riducono così l’azoto atmosferico.
Simbiosi tra una felce d’acqua (zolla) ed il cianobatterio che si
inserisce nella lamina fogliare della felce, in una tasca in cui è
protetto da. Numerosi strati di cellule dall’ossigeno.
Descriviamo ora la riduzione dell’azoto atmosferico con la nitrogenasi. Questo enzima non
lavora da solo ma insieme ad un secondo: la nitrogenasi reduttasi. I substrati sono una
molecola di azoto atmosferico N2, 8 elettroni, 16 ATP con la produzione di 2NH3, H2, 4NAD+
e 16ATP.
La nitrogenasi reduttasi contiene un gruppo Fe-S, mentre la nitrogenasi uno MoFe, tutti
gruppi prostetici per le reazioni redox. Il NADH cede un elettrone ad una Fd che, a sua volta,
passa l’elettone al gruppo FeS della nitrogenato reduttasi (in verde), che si riduce. Questo
elettrone ha un potenziale redox (E0’) = -0.25V; esso non è sufficientemente negativo per
ridurre il gruppo MoFe. Ma come rendere il suo potenziale più negativo? Consumo ATP
(2ATP per ogni elettrone), ecco spiegato l’elevato consumo di energia di questa reazione.
E0’= -0.25V à -0.4V sufficiente per ridurre il MoFe. Questo gruppo può già ridurre l’azoto
molecolare, rompendo progressivamente i tre legami che uniscono la molecola di azoto. Per
la riduzione della molecola di azoto molecolare sono necessari 8 elettroni ecco spiegato il
consumo di 16 ATP (8e-x 2 ATP (ad ogni elettrone) = 16 ATP).

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TRASPORTO DI SOLUTI ATTRAVERSO LE MEMBRANE
Il trasporto di soluti attraverso le membrane è uno degli argomenti principali della fisiologia
vegetale in quanto queste oltre a permettere le funzioni della pianta rappresentano anche
una barriera verso l’esterno.
Le membrane sono per natura impermeabili a moltissime delle molecole necessarie alla
cellula, compresa l’acqua.
Partiamo prima dall’aspetto termodinamico (biofisico) e poi analizziamo tre modalità di
trasporto in maniera qualitativa.
Partiamo da un sistema semplice: una membrana cellulare che separa l’ambienta A
(extracellulare) dall’ambiente B (intracellulare) ed una molecola j. La membrana è
permeabile a questa molecola? Dipende da j. Se essa è di piccole dimensioni, non presenta
carica allora probabilmente sì la membrana sarà permeabile; ma se j è di grandi dimensioni
o polare allora la risposta è no. Il doppio strato lipidico non è permeabile a j e per questo
necessita di proteine di trasporto che sia specifica per la molecola.
Abbiamo incontrato numerosi trasportatori che favoriscono il trasporto di diverse molecole
come ioni, glucosio, aminoacidi.
Nel caso in cui ci sia un sistema di trasporto per la molecola j, in quale direzione avverrà il
trasporto? (in modo spontaneo o passivo) j entrerà in cellula o uscirà dalla cellula?
Ovviamente per poter decidere in che direzione avverrà il trasporto spontaneo di j, dobbiamo
fare un ragionamento di tipo termodinamico.
La direzione del trasporto dipende dalla differenza di potenziale chimico (Dµj= µj in – µj out)
tra dentro e fuori (i nostri punti di riferimento). Ma cos’è il potenziale chimico? È un modo
per esprimere l’energia libera associata ad una molecola. Esso ci permette di definire se il
trasporto in una direzione avverrà in maniera spontanea, con rilascio di energia, oppure no. I
valori possono essere >0 (trasporto attivo – molecole esce dalla cellula), <0 (trasporto
passivo – entra nella cellula) o =0 (no trasporto).
Analizziamo ora le componenti del potenziale chimico per arrivare poi a quantificarlo. il
potenziale chimico viene espresso in J/mole; esso è dato dalla somma di varie componenti
che rappresentano delle forze che agiscono sulla molecola e che contribuiscono a formare
l’energia libera totale della molecola in quello stato.

La prima componente è µj* che è il potenziale di riferimento – elemento necessario in


quanto qualsiasi potenziale può essere definito in base ad un riferimento. Ad esso si associa
la componente RTlnCj essa è dipendente dalla concentrazione (R=0.0083 J/molK –
costante dei gas; T è la temperatura assoluta in K; Cj la concentrazione della molecola J in
mol/L). Un’altra, relativa alla carica elettrica della molecola, zjFE (in caso di molecole senza
carica netta questa non verrà considerata, nel caso di ioni questa non può essere ignorata):
zj è il numero della carica (+1, +2, -1, -2, …), F è la costante di Faraday (F= 96.4kJ/molV –
costante di conversione tra volt e joule) infine E è il valore del potenziale elettrico
transmembrana (V).
Vi sono anche altre due componenti, la componente dovuta alla pressione (VjP) in quanto,
se sulla sostanza agisce una pressione maggiore rispetto a quella atmosferica questo
incrementa l’energia libera della sostanza; e anche la componente dovuta alla gravità (mjgh)
perché se la molecola viene spostata lungo il campo gravitazionale ad un’altezza diversa
assume energia.
Stiamo parlando di un trasporto attraverso una
membrana cellulare e consideriamo che non vi siano
variazioni di gravità o di pressioni.
Calcoliamo ora il Dµj del saccarosio (senza carica
elettrica), per vedere se questo viene trasportato nella

66
cellula o esce da questa. Il fatto che sia senza carica prendiamo in considerazione solo la
componente della concentrazione.
Se diamo dei valori otterremo questo risultato:

La differenza di potenziale chimico è maggiore di 0 il che vuol dire che la molecola di


saccarosio ha una direzione che va dall’interno all’esterno della cellula.
Nel caso del trasporto apoplastico, il saccarosio esce nell’apoplasto (in concentrazioni
basse) e viene poi caricato nelle cellule compagne contro-gradiente. Non è quindi sufficiente
il cotrasporto di protoni, ma serve il gradiente di protoni per la formazione di energia per
raggiungere l’energia necessaria.
Quantifichiamo il Dµ dei protoni e vediamo se è sufficiente per il trasporto di saccarosio. In
questo caso parliamo di molecole che sono cariche, quindi prendiamo in considerazione
anche la componente elettrica (potenziale elettrochimico).
il procedimento è lo stesso del saccarosio e
ora vediamo il calcolo numerico.
Consideriamo una differenza di pH di due
unità tra interno ed esterno della cellula.

Il saccarosio può essere concentrato fino ad un


milione di volte più dell’esterno della cellula.
Prendiamo questa volta in considerazione uno
ione (il potassio K+) nella seguente situazione:

Come per il saccarosio, considerando le stesse


concentrazioni allora possiamo non svolgere il
calcolo.

In questo caso il valore del Dµ è molto inferiore a 0, in che vuol dire che questo entrerà
spontaneamente in cellula, grazie ad un gradiente elettrico favorevole.

67
POTENZIALE DI MEMBRANA
Esso rappresenta il potenziale elettrico a cavallo di una qualsiasi membrana. Nell’esempio
del potassio, il potenziale di membrana è importante in quanto prende parte nel calcolo di
un potenziale elettrochimico per determinare il trasporto degli ioni.
Questa differenza di potenziale si può misurare sperimentalmente: si usano dei
microelettrodi che vengono inseriti in sottilissimi capillari di vetro che potranno essere inseriti
in una singola cellula. Ovviamente non è possibile in tutti i tessuti e non è sempre banale ma
si può comunque effettuare questo esperimento.
L’elettrodo di riferimento verrà messo in contatto con la soluzione in cui è immerso l’estratto
cellulare, così da calcolarne la differenza di potenziale. Questo valore viene misurato tramite
un votmetro che mette in relazione i valori all’interno e all’esterno della cellula. In una cellula
animale ci aggiriamo intorno a -70mV, mentre in una cellula vegetale essi sono molto più
negativi e vanno da -100 a -200mV.
Partendo dal dato che i valori di potenziale elettrico variano da cellula a cellula e da
organismo ad organismo, la seconda domanda che ci poniamo è: cosa contribuisce a creare
un gradiente elettrico? Perché si crea e cosa determina il suo valore?
La differenza di potenziale elettrico è creata dalla differenza di diffusione delle molecole
cariche attraverso la membrana (potenziale di diffusione); quindi alcuni ioni attraversano
facilmente la membrana rispetto ad altri. Arriveremo a parlare del potenziale elettrochimico
(o di Nernst) che si ha quando una membrana è permeabile ad un singolo ione.
Il valore del potenziale elettrico è generato sicuramente dal potenziale di diffusione (con il
caso di Nernst), ma vi è un ulteriore fattore: il trasporto attivo (tutti i meccanismi di trasporto
che avvengono contro-gradiente e che si hanno con consumo di energia) – essi generano
un valore di potenziale elettrico transmembrana diverso da quello dipendente solo dal
potenziale di diffusione (potenziale elettrogenico).
Vediamo ora nel dettaglio le due componenti.
Esperimento: abbiamo una vaschetta divisa a metà da una membrana e al cui interno vi sono
due soluzioni: t0 due concentrazioni differenti di potassio e cloro (sinistra più concentrata).
Nelle vaschette il numero di ioni sarà lo stesso per generare elettroneutralità. La membrana
è leggermente più permeabile al potassio rispetto al cloro. Al tempo t1 (inizio
dell’esperimento) entrambi gli ioni tenderanno ad andare verso destra per raggiungere
l’equilibrio; il potassio però è più permeabile quindi vi sarà un momento in cui esso è
maggiormente accumulato nella seconda soluzione rispetto al cloro (situazione dinamica –
destinata a modificarsi non appena il cloro attraverserà la membrana) dando origine ad una
differenza di potenziale (sn più negativo di destra). Il sistema va ora verso l’equilibrio.
L’esperimento mostra il concetto di differenza di potenziale, in cui vi è la generazione di un
potenziale di membrana a causa della diversa permeabilità.
Parliamo ora del caso estremo: la membrana è totalmente impermeabile ad uno ione (Cl-).
Anche in questo caso al t0 vi sono le due soluzioni in cui la concentrazione degli ioni è
maggiore a sinistra rispetto a quella di destra (potenziale pari a 0).
T1 anione e catione tenderanno ad andare verso destra, solo che lo ione negativo verrà
respinto mentre quello positivo passerà senza problemi. Questo contribuirà a formare un
gradiente in quanto le due componenti non sono bilanciate nelle due parti della vaschetta.
Per questo il K+ tenderà a ritornare nella vaschetta di sinistra per tornare ad una situazione
di equilibrio (quasi immediata). Il potassio tende ad andare a destra per la concentrazione
differente ma verrà spinto nuovamente a sinistra per il gradiente elettrico che si è venuto a
creare; queste due forze (concentrazione ed elettrica) trovano subito un punto di equilibrio
che viene registrato dagli elettrodi e che darà un valore in mV a quello che corrisponde a Ek
(potenziale elettrochimico del potassio in questo esperimento). Esso è un valore di
potenziale elettrico che controbilancia la forza di differenza di potenziale chimico dovuta alla
differenza. Quindi la forza del potenziale chimico è uguale e contraria a quella del potenziale
elettrico del potassio. Questo equilibrio è definito equilibrio di Nernst (o elettrochimico).

68
Possiamo quantificarlo il valore dell’equilibrio di Nernst, considerando che all’equilibrio
potenziale elettrochimico di K+in è uguale al potenziale elettrochimico dell’altra vaschetta
(K+out); esso sarà perciò uguale alla somma delle due
componenti:
quello che otteniamo alla fine sarà il seguente à

Questa è la formula che ci permette di quantificare il valore di DE (potenziale elettrico) che


mantiene all’equilibrio il potassio che ha due concentrazioni diverse e note a cavallo della
membrana.
Facciamo un’ulteriore semplificazione e diciamo
che 2.3(RT/zF) può essere sostituito da un valore
più o meno costante (dipendente dalla
temperatura scelta), ma considerando le due
temperature standard avrà i seguenti valori: 58 se
T=20K e 59 se T=25K. Ed ecco che troviamo la
semplificazione della nostra formula nel riquadro
rosso.
Tornando all’esempio da cui siamo partiti: diamo
dei valori ai due compartimenti della vaschetta
(snin=100mM, dxout=10mM) possiamo ora
calcolare il potenziale di Nernst:

Questo ragionamento lo abbiamo fatto sul potassio ma è valido per qualsiasi altro ione che
entra ed esce da una cellula, è ovviamente necessario conoscere le due concentrazioni dello
ione all’interno e all’esterno.
In una cellula non ideale, quasi sempre, più ioni possono spostarsi contemporaneamente in
quanto le membrane sono contemporaneamente permeabili a più ioni. Ogni ione, quindi,
genererà un suo valore di potenziale di equilibrio spostandosi da un lato all’altro.
Se si sposta il sodio ad esempio si avrà un DE pari a +41mV. Alla fine, se la membrana è
permeabile a più ioni, il valore di potenziale elettrico sarà determinato a tutti e tre i potenziali
di equilibrio ma anche il grado di permeabilità di ciascuno dei trasporti. Per sapere il
potenziale a cavallo di una membrana è necessario sapere il potenziale di equilibrio di ogni
singolo ione, ma anche la permeabilità dello ione.
Questo concetto è espresso dall’equazione di Goldman: determina il potenziale elettrico di
una cellula dipendente da ioni che hanno permeabilità relative differenti.

Dove le differenti P (PK, PNa e PCl) rappresentano le differenti permeabilità relative degli ioni.

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Equazione di Nernst che considera anche la componente della permeabilità della membrana
per un determinato ione; in quanto se la permeabilità di due componenti è bassa allora sarà
un singolo ione a determinare il potenziale elettrico. Con la
seguente formula semplificata:
Questo ci riporta alla semplice equazione di Nernst in quanto
Na+ e Cl- sono irrilevanti nel calcolo del potenziale elettrico della
membrana, perché quasi impermeabili.
Ricapitolando. I fattori che contribuiscono a formare una differenza di potenziale elettrico a
cavallo di una membrana sono:
• Il potenziale di diffusione à dovuto alle differenti permeabilità delle membrane agli
ioni.
• Potenziale di Nernst à in cui la membrana è permeabile ad una sola specie. Questa
si distribuisce all’equilibrio chimico, ma lo spostamento del potassio genera un
potenziale elettrico con il raggiungimento dell’equilibrio elettrochimico. Nel caso in cui
vi sia la permeabilità di più di uno ione allora in contributo di ciascuno deve essere
modificato usando Goldman che tiene conto del potenziale dello ione e della sua
permeabiilità.
Il terzo fattore che aiuta a definire il valore del potenziale elettrico transmembrana di una
cellula è il trasporto attivo. Trasporto di sostanze contro il loro gradiente di potenziale grazie
al lavoro di proteine che le spostano con il consumo di energia. Parliamo quindi di trasporto
elettrogenico in quanto contribuisce a creare un valore di potenziale elettrico.
Un esperimento che dimostra il contributo del trasporto attivo è il seguente: il grafico mostra
la misura di un potenziale transmembrana di una cellula vegetale, espressi in mV sull’asse
delle ordinate (valori negativi perché nella cellula i valori di potenziali elettrico sono negativi)
in relazione con il tempo, asse x.
All’inizio l’elettrodo viene inserito all’interno della cellula e si misurano 130mV (misura
stabile); a questo punto si aggiunge alla soluzione esterna del cianuro (0.1mM CN- - veleno
metabolico che impedisce alla catena di trasporto dei mitocondri di funzionare, no
produzione di ATP). Quasi istantaneamente la misura dei valori di potenziale elettrico
aumenta notevolmente, fino al raggiungimento di -60mV (valore del potenziale di diffusione
dovuto a tutti gli ioni presenti e dovuto alle permeabilità relative della membrana ai vari ioni
– Goldman).
Poco alla volta il cianuro diminuisce il suo effetto e la cellula recupera nel tempo il suo valore
iniziale di potenziale. Cosa ci dice questo esperimento? -130mV è un valore di potenziale
che la cellula sostiene solo grazie all’attività metabolica che produce ATP, quindi dovuta al
trasporto attivo di sostanze. Quando questo viene meno si ottiene il valore di potenziale
dovuto al semplice trasporto passivo.
Un modo per capire se uno ione è distribuito all’equilibrio elettrochimico (t.passivo) o
sottoposto a trasporto attivo è usare l’eq. Di Nernst.
Questa equazione mi permette quindi di predire la concentrazione di K+
interna, quanto il potenziale di membrana e il potassio fuori mi
permettono di ricavarne il valore all’equilibrio. Confrontando con quella
misurata posso dire se esso sia all’equilibrio o meno.
Questo sistema viene utilizzato per capire se la distribuzione degli ioni
siano sottoposti a trasporto attivo o passivo; molti ioni sono stati appunto analizzati.
Sono tanti gli ioni distribuiti in maniera differente rispetto al valore di Nernst e sono quindi
sottoposti a trasporto attivo.
Vi sono due tipi di trasporto attivo:
• Trasporto attivo primario à è quello mediato dalle pompe (H+-ATPasi e Ca2+-ATPasi)
• Trasporto attivo secondario à è mediato dai co-trasportatori (saccarosio/H+, Na+/H+,
Cl-/H+ e NO3-/H+).

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La definizione primario/secondario deriva dalla definizione che i primari utilizzano
direttamente ATP per lo spostamento di uno ione, mentre i secondari utilizzano il gradiente
di protoni generato da un trasportatore primario per trasportare una molecola.
La quantità di energia ha disposizione per il trasporto secondario è la quantità di energia
presente nel gradiente di protoni (gradiente elettrochimico degli H+ - Dµ) con la formula vista
a pagina 67. Questa espressione DµH+ non è altro che quella che abbiamo chiamato FPM
(Forza Proton Motrice – l’energia necessaria per
generare ATP pag.23).
La trasformazione aritmetica è per dimostrare che
la FPM è l’espressione del gradiente di potenziale
elettrochimico dei protoni.
Conoscendo quindi la concentrazione di H+ a
cavallo della membrana e il potenziale elettrico
che si misura a cavallo di essa, possiamo ricavare
la forza proton motrice.

Il valore di questa forza determinerà nel trasporto saccarosio/H+ quanto saccarosio può
essere accumulato nella cellula.
L’accumulo di saccarosio può, in teoria, procedere fino a generare un gradiente di protoni
uguale e contrario rispetto al gradiente di protoni che uso per trasportare il saccarosio
all’interno.
Ecco che la somma dei due
gradienti sarà pari a zero
(gradiente elettrochimico).
+236mV sarà uguale al Dµ del
saccarosio che si verrà a creare.
Divido per F perché il Dµsaccarosio è espresso in J/mole in
quanto sto usando la FPM che è espressa in mV.
Sostituisco a Dµ à (RT/F)ln(sacin/sacout); a
RT/Flog(sacin/sacout)à (58mV)logX/1. X è perché cerco la
concentrazione interna di saccarosio, mentre all’esterno so
già che è pari a 1mM.
PROTEINE DI TRASPORTO
Iniziamo dalle proteine che mediano il trasporto passivo, quello che avviene secondo
gradiente elettrochimico. Vi sono due trasportatori:
1. I canali ionici à essi sono proteine transmembrana con un poro acquoso e idrofilico
attraverso il quale gli ioni possono attraversare la membrana. In genere ogni canale è
selettivo ad un tipo di ione, e ala direzione del flusso dipende unicamente dal
gradiente elettrochimico dello ione.
La loro attività può essere misurata grazie alla generazione di piccolissime correnti
elettriche che si possono misurare tramite la tecnica del patch-clamp. Si elimina la
parete cellulare, una volta ottenuto il protoplasto (cellula rotonda) si inserisce una
pipetta di vetro che tocca la membrana. Questa viene sigillata in una piccola porzione
che dovrebbe contenere un canale. Tramite un elettrodo si può misurare la corrente
elettrica del canale.

71
È possibile effettuare la misura di patch di tutta la membrana (di un solo tipo di canale)
vi sono numerose micro-correnti con intensità di
corrente differenti. Valori di potenziale
transmembrana crescenti porteranno anche
all’aumento di intensità della corrente. La corrente a
valore positivo invertirà il suo segno. Questo perché gli
ioni carichi si sposteranno a seconda del voltaggio
della membrana secondo la legge di Ohm. I(intensità
- corrente)=V(voltaggio)xG(conduttanza).
Il piano mostra sull’asse delle y la corrente misurata mentre su x i potenziali imposti:
Quanto si misura la corrente che passa dai canali
ionici, il potenziale in cui la corrente è pari a 0 (I cambia
di segno – potenziale di inversione della corrente) è
il potenziale di Nerst di quello ione, in quanto la
corrente che entra è uguale e contraria a quella che
entra. Se la cellula mantiene il valore di potenziale
transmembrana (Em), ad un valore più negativo del
potenziale di Nernst del potassio, all’apertura del
canale si avrà l’entrata di potassio all’interno della
cellula; se il valore di Em è più positivo di EK, l’apertura
del potassio porterà all’uscita dello ione.
La direzione di trasporto del canale dipende dal valore di potenziale di Nernst di uno
ione in relazione al valore del potenziale della membrana, ma essendo questo un
valore variabile i canali hanno delle regolazioni che permettono l’apetura del canale
solo nelle condizioni in cui il suo trasporto rispetti la necessità della cellula. La loro
regolazione avviene tramite un dominio che funge da sensore del voltaggio; essa
percepisce il valore relativo di Em e, a seconda della sua
variazione, genera un cambiamento di conformazione che apra
il poro.
I canali di potassio delle piante si dividono in due grandi classi:
quelli che si aprono per valori di EK, come mostrato nel grafico,
mediando una corrente uscente; e quelli che si aprono a valori
di Em più negativi di EK con una corrente entrante.
Lo stesso meccanismo di controllo è fondamentale nella
regolazione delle cellule di guardia degli stomi: gli stomi si
aprono quando le cellule di guardia si rigonfiano a seguito di
richiamo di acqua, e si richiudono quando esse si sgonfiano. I
movimenti di acqua sono passivi e seguono l’accumulo di Sali:
K+ e Cl-. Per aprire gli stomi faranno entrare Sali e quindi anche
acqua, utilizzando i canali rettificatori entranti; per la chiusura
useranno i canali rettificatori uscenti.
La velocità di trasporto degli ioni è molto elevata in quanto può
spostare 108ioni/s.
2. Trasportatori (uniporto) à trasferiscono una sola sostanza
alla volta. Essi cambiando conformazione il sito di legame dai due lati della membrana
così da spostare le molecole.
Questi trasportatori sono molto più lenti proprio per la modalità di trasporto che
effettuano (104ioni/s).
Passiamo ai trasportatori che effettuano trasporto attivo contro gradiente chimico o
elettrochimico (se cariche). Analizziamo la Ca2+-ATPasi: è una proteina transmembrana che
idrolizza ATP per ricavare l’energia necessaria per spostare uno ione calcio dall’interno
all’esterno. Questo ione è contenuto in quantità molto molto bassi al livello del citoplasma,

72
poiché esso funge da secondo messaggero e una piccola variazione di concentrazione in un
livello basso è percepibile dalla cellula e può attivare delle cascate di segnali.
L’immagine mostra valori bassi di calcio e valori elevati (rosso) e bassi
(blu) di calcio nei vari compartimenti della cellula, per questo essi
contengono vari sistemi di trasporto che rimuovono il calcio dal
citoplasma e o lo esportano verso l’esterno o lo importano negli
organelli. In caso di segnalazione la cellula o apre i canali di calcio degli
organelli, o quelli del citosol facendo sì che si accumuli all’interno.
Parlando di efficienza di trasporto, le pompe sono molto poco efficienti
perché il trasporto contro-gradienti sono molto complicati e, come i
trasportatori, sono meno efficienti dei canali.
Le pompe protoniche sono presenti in diversi tipi: tipo-P, tipo-V
(tonoplasto) e pirofosfatasi (tonoplasto). Le pompe di tipo-P (fosforilate)
rappresentano proteine di trasporto che devono subire fosforilazione per
completare il ciclo di trasporto. La proteina possiede al suo interno la
molecola M e, a seguito di fosforilazione subisce un cambio
conformazionale e rilascia la sostanza sul lato esterno. Una volta perso il
fosfato riacquista la sua conformazione fisica normale. Un inibitore di questa
pompa è lo ione Vanadato (VO4)3- che si lega nel punto in cui la proteina
può essere fosforilata; esso si lega nello stesso punto ma non induce lo
stesso effetto.
Il tipo-V (vacuolo) è molto simile nella sua struttura all’ATPsintasi, ma
non sintetizzano ATP bensì la idrolizzano per trasferire ioni/protoni a
cavallo della membrana (operano al contrario di quelle a cui siamo
abituati) – spostano protoni dal citoplasma al vacuolo. Non sono
fosforilabili e quindi insensibili al vanadato che può, quindi, essere usato
per distinguere tra i due tipi di pompe.
Il terzo tipo di pompa che trasferisce i protoni è la pirofosfatasi;
essa non idrolizza ATP bensì PPi. Questo composto contiene
meno energia dell’ATP, infatti vi il trasporto di un singolo
protone per ogni PPi idrolizzato.
Il pirofosfato è un prodotto di numerose reazioni, questo porta
all’acidificazione del vacuolo della cellula (lime=2.7pH).
Infondo alla lista troviamo un tipo di cactus che varia il pH
della sua foglia (del vacuolo) a seconda dell’orario in cui viene
misurato.
Tra questi trasportatori inseriamo i trasportatori attivi
secondari che abbinano il trasporto di due protoni (uno
contro-gradiente e uno secondo gradiente). Il passaggio
dello ione secondo gradiente fornirà l’energia necessaria per
il trasporto attivo di un altro ione. Possiamo distingue il
simporto (stessa direzione) e l’antiporto (direzioni opposte).

Degli esempi di simporto sono: il saccarosio/H+,Cl-/H+ e NO3-/H+. Questo perché il potenziale


elettrico transmembrana è più negativo all’interno rispetto all’esterno e per questo non
permettono il trasporto di altre cariche negative.
Un esempio di antiporto è quello che abbina Na+/H+, il primo essendo tossico per la pianta
deve essere portato all’esterno e sfrutta il rientro dei protoni per questo movimento.
Ecco schematizzati i tipi di trasportatori che troviamo sia sulla membrana plasmatica sia su
quella del vacuolo in una cellula vegetale.

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Da sinistra, sulla membrana plasmatica, troviamo le pompe che usano ATP trasportando
protoni, esse generano un gradiente che viene usato per far entrare in cellula sostanze
importanti.
L’uniporto per il saccarosio viene utilizzato per far uscire lo zucchero dalla cellula che
passivamente lo farà uscire dalla cellula.

TOLLERANZA SODIO
Parliamo ora dell’eccesso di salinità nel terreno: i terreni coltivati sono caratterizzati
dall’accumulo di Sali (NaCl principalmente) che impediscono la crescita delle piante. Questa
situazione è dovuta al contenuto di sale nelle acque di irrigazione e nei fertilizzanti.
Questo causa grossi problemi di approvvigionamento di acqua, in quanto il potenziale di
questa è troppo negativo nel suolo, con conseguente appassimento. L’altro problema è
l’elevato effetto tossico per le cellule a causa dell’accumulo di sodio all’interno della cellula.
Ma perché è tossico? Perché interferisce con i sistemi di entrata del potassio, diminuendo
l’entrata di questo altro ione. Il secondo motivo è che, l’accumulo di sodio, altera alcune
reazioni metaboliche che magari sono regolate dal potassio.
Le glicofite sono piante molto sensibili ad NaCl (quasi tutte le specie coltivate); le alofite sono
più tolleranti e fra queste vi è la barbabietola da zucchero. Infine, vi sono piante come le
mangrovie che sopportano fino a 0.5M di Sali o le piante che vivono sugli scogli che sono
soggette ad alte variazioni saline.
In generale, le strategie adottate da quasi tutte le piante per tollerare grandi quantità di sali
nel terreno sono due:
• L’aggiustamento osmotico à per poter estrarre acqua da un substrato con un
potenziale idrico molto basso, la cellula accumula dei soluti compatibili così da
diminuire ulteriormente il suo potenziale (i soluti accumulati non devono essere
tossici e quindi compatibili con la vita).

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• Esclusione del sale à in questo caso la pianta estrude il sodio verso l’ambiente
esterno o di accumularlo nella cellula (nel vacuolo) così da impedire la sua attività
tossica.
I sistemi per trasportare il sodio sono degli antiporti che sfruttano il trasporto di protoni. Nel
vacuolo l’accumulo dei protoni è all’interno con un pH più negativo (5) in questo modo i
protoni entrano facilmente nel citoplasma mentre viene trasportato il sodio all’interno. Vi è la
stessa pompa nel citoplasma che invece butta fuori il sodio dalla cellula. Il trasporto è
mediato dai canali di potassio in quanto non vi sono delle strutture dedicate a questo ione,
proprio perché non voluto.
Blumwald voleva inventare una strategia per aumentare la
tolleranza della pianta alla Salinità: la sua idea era clonare il gene
che codifica per il trasportatore Na+/H+ (NHX1). Una volta
clonato, ha overespresso il gene all’interno di una pianta di
pomodoro e l’ha coltivato in terreni molto carichi di sali. Questo
ha dimostrato che la pianta era maggiormente in grado di
crescere e sopravvivere in quanto il sodio era subito accumulato all’interno dei vacuoli. Ma il
vero successo della pianta è stato che l’accumulo di sale avveniva prevalentemente al livello
delle foglie e non avveniva nel frutto, tanto da poter essere
commercializzato.
Dopo questo primo risultato positivo, altri hanno provato ad
aumentare la tolleranza al sodio aumentando l’espressione di
SOS1 (gene del trasportatore della membrana plasmatica).
Un’altra strategia è quella di aumentare l’attività della pompa
protonica così da accumulare più sodio nel vacuolo o per
estruderlo dalla cellula sfruttando la maggiore FPM.
L’overespressione della pirofosfatasi è fattibile in quanto è codificata
da un singolo gene (singola subunità)
e quindi il trasferimento è molto più semplice da attuare. Questo
esperimento è stato fatto ed effettivamente è funzionale. In tutte le
piante sono stati over-espressi uno o più geni: la pianta con AVP1
(pirofosfatasi) è molto prospera, così come quella che unisce i due
geni. La pianta con il singolo gene del NHX1 cresce ma non con la
stessa efficienza delle prime due.
TRASDUZIONE DEL SEGNALE
Analizziamo ora come la pianta percepisce gli stimoli endogeni ed esogeni, e come risponde
ad essi.
Ma definiamo prima il concetto di trasduzione del segnale, in
quanto ogni segnale percepito viene tradotto in una risposta
cellulare di tipo solitamente nucleare con l’alterazione nella
trascrizione di alcuni geni. La trasduzione del segnale si
compone di tre fasi:
• Percezione del segnale à attuato da un recettore
(proteina specifica per quel tipo di segnale)
• Trasduzione del segnale à entrata in campo dei
secondi messaggeri (Relay molecules) che, attraverso più step, possono giungere al
nucleo dove di solito si ha la vera rispost
• Risposta à attivazione o inattivazione di un gene
I recettori di un segnale possono essere sulla membrana plasmatica o all’interno della cellula,
anche se il primo è il più diffuso. Vi sono dei recettori interni in quanto il segnale stesso è
permeabile e può diffondere senza grandi problemi all’interno del doppio strato lipidico.
Il caso più generale è quello sulla membrana plasmatica il cui recettore può rispondere ad
un ormone, una variazione di pH o i canali ionici voltaggio dipendenti (segnalano un

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cambiamento nel potenziale di membrana). Altri segnali importanti sono: la luce, percepita
a differenti lunghezze d’onda; i nutrienti, come il nitrato di cui la pianta percepisce
l’abbondanza nel terreno; o ancora un patogeno, grazie ai metaboliti prodotti da questo
attacco.
A questo step di percezione segue quello di trasduzione del segnale
dove, il recettore attivato libera una seconda molecola (secondo
messaggero - Ca2+, cAMP, chinasi, pH) che andrà a raggiungere il
nucleo dove poi attiverà o inattiverà la trascrizione di un gene. Alcuni
di questi secondi messaggeri sono enzimi che producono una
quantità di prodotto enzimatico molto elevata e, se ognuno di questi,
diventa un attivatore di un secondo enzima allora il numero di
secondi attivatori si avrà un’amplificazione del segnale elevatissima.
Un tipico esempio di trasduzione del segnale è quello dei recettori
accoppiati alle G-protein (GPCR – G-Protein Coupled Receptor):
quando un ormone si lega al recettore, quest’ultimo si attiva e
subisce un cambiamento conformazionale iniziando a diffondere
nella membrana fino a quando non incontra la proteina trimerica G.
Questa proteina è formata da tre subunità: a,b,g la prima collegata
ad una molecola di GDP. Quando il recettore si lega alla proteina G,
la subunità a scambia una molecola di GDP con una di GTP,
attivandosi (cambio conformazionale). La subunità in questione si
staccherà dalle altre due subunità e diffonderà in membrana fino a
quando non incontra la sua proteina target C (adenilato ciclasi)
questa, a partire da una molecola di ATP produce cAMP. Questo secondo messaggero verrà
prodotto in quantità enormi in quanto essa è una reazione enzimatica. Questo secondo
messaggero andrà poi ad attivare la risposta del segnale attivando un enzima proteina-
chinasi dando origine ad un secondo step di amplificazione del segnale (la proteina potrà
fosforilare numerose proteine).
L’amplificazione di questo primo segnale termina quando il GTP
viene defosforilato e le tre subunità della proteina G si uniscono
nuovamente. SISTEMARE BENE
Nelle piante non ci sono i GPCR, ma vi sono dei RLK (Receptor-
Like Kinase). Queste si legano al segnale e che una volta attivate
da questo legame, diventano delle vere e proprie chinasi e
fosforilano le tre subunità delle proteine G. In questo caso, la
subunità a non scambia il GDP con il GTP, ma la fosforilazione di
tutte e tre da inizio alla cascata di segnali. Il tutto termina quando
una fosfatasi elimina i fosfati dalla proteina G e le RLK si staccano
da essa.
Un esempio di recettore chinasi è il seguente: il recettore è
assemblato dalla presenza del ligando (FLS2 – piccola proteina che
fa parte del flagello dei batteri), il recettore dimerizza passando così
allo stato attivo. Una volta diventato una proteina chinasi
funzionante può fosforilare le subunità della proteina G che vanno
ad agire su altri target.
Un'altra via di trasduzione del segnale che è stata trovata negli animali ma si pensa esserci
anche nelle piante è quella che porta all’attivazione della fosfolipasi C da parte delle proteine
G. La fosfolipasi è una proteina che si trova nella membrana e cha, alla fine di una via di
trasduzione del segnale, viene attivata idrolizzando un fosfolipide particolare: il PIP2
(Fosfatidilinositolo). Questo PIP2 presenta due catene idrofobiche legate ad un glicerolo
legate poi all’inositolo. La fosfolipasi scinde le due catene dall’inositolo che è ora solubile e

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diffonde nel citosol (IP3) mentre le due catene sono
idrofobiche e rimangono in membrana (DAG – Diacil-
glicerolo). IP3 diffonderà fino a trovare il suo recettore presente
sul RE: un canale del calcio. A seguito del legame con l’inositolo
si ha la liberazione del calcio nel citosol dal reticolo
endoplasmatico, con un movimento secondo gradiente.
L’aumento del calcio andrà poi ad attivare la proteina chinasi C (calcio-dipendente) che
legherà il diacilglicerolo in membrana. Il legame di questi due elementi attiverà le proprietà
chinasiche della proteina che potrà fosforilare numerosi elementi.
Un’altra via di trqsduzione del segnale è quella che andrà ad
attivare il recettore tirosina chinasi (RTK). Esso è formato da due
monomeri che dimerizzano solo quando legano il segnale
extracellulare. Il legame con il ligando unisce i due monomeri e
attiva la proteina: essa fosforila le tirosine ma la prima cosa che
fa è autofosforilare i due monomeri della proteina (cross-
phosphorilation). Lo stato fosforilato è attivato e le permette di
interagire con altre proteine; un esempio è il legame del recettore
con Grb2-Sos che attiva la proteina Ras (fosforilandola GDP à
GTP – proteina di membrana). Quest’ultima interagisce con
Raf attivandola (proteina citosolica) dando inizio ad una
cascata di fosforilazione delle proteine chinasi (cascata
delle proteine MAPK). Vi sono numerose proteine che si
fosforilano a vicenda fino a quando l’ultima non entra nel
nucleo e agisce sulla trascrizione.
Un sistema non presente negli animali ma solo piante e
batteri è il sistema a due componenti. I batteri lo utilizzano
per regolare l’osmolarità (in modo da sopportare i
cambiamenti ambientali elevati); mentre le piante lo utilizzano come sistema di trasduzione
di segnale per gli ormoni (etilene e chitochinine).
Questo sistema è formato da: una proteina di membrana (in verdino nell’immagine), una
proteina chinasi che si autofosforila su un’His. La sua porzione extracellulare percepisce il
segnale, mentre quella citosolica dopo il legame con il ligando si fosforila; il secondo
componente è il regolatore di risposta, una proteina solubile a due domini: uno interagisce
con l’His del primo componente, l’altro attiva la trascrizione dei geni reclutando la RNApol
una volta legato al DNA.
Più nel dettaglio:
• Istidina chinasi à contiene una porzione esterna
che percepisce il segnale, un dominio
transmembrana e il dominio interno con l’His. Arriva
il segnale, viene percepito e si ha la fosforilazione
dell’aa dopo l’attivazione della funzione chinasica.
• Regolatore di risposta à percepisce la
fosforilazione dell’His e trasferisce il fosfato su un
suo aminoacido (aspartato) che viene fosforilato. Il
regolatore di risposta è attivo e attiva il suo modulo
di output. Questo, dopo essere entrato nel nucleo, sarà in grado di legare il DNA e
attivare la trascrizione.
Tutto termina quando vi è la rimozione della fosforilazione dall’aspartato e il regolatore di
risposta torna nel nucleo per un nuovo ciclo.
Nei batteri viene usato per regolare il potenziale osmotico e funziona in questo modo. In caso
di alta osmolarità il segnale viene percepito dal primo componente che viene fosforilato; la
fosforilazione viene passata al regolatore di risposta che una volta attivato passa nel nucleo

77
dove andrà ad attivare la trascrizione della porina (canale ionico che
una volta formato aiuterà la cellula a raggiungere l’equilibrio con
l’esterno prima che questa collassi). Il tutto termina con la
defosforilazione del regolatore di risposta.
Il sistema a due componenti è un sistema molto arcaico che si trova
in organismi meno evoluti: piante, lievito, batteri o animali unicellulari.
La luce come segnale
Uno dei segnali ambientali più importanti per la pianta è proprio
quello attivato dalla luce. All’inizio della catena di trasduzione vi è la percezione da parte della
cellula della luce; ma come fa una proteina a percepire una certa lunghezza d’onda?
Partiamo dalla prima considerazione dove mostriamo come la luce sia un segnale di crescita
e non solo: prendiamo due piante, una sviluppata al buio
(pianta eziolata) e una alla luce. Le due piante sono
totalmente differenti; la pianta eziolata tende ad essere
sottile ed allungata, soprattutto a carico dell’ipocotile
(porzione sotto i cotiledoni), essa possiede un colore molto
chiaro e giallastro, MAI VERDE!!! Perché nella sintesi della
clorofilla sono necessari degli step alla luce. Infine, essa
possiede i cotiledoni ripiegati da un uncino apicale che non
si espandono.
Il processo di trasformazione di una pianta eziolata in una cresciuta alla luce (de-
eziolamento) è dovuto all’assorbimento di luce a precise lunghezze d’onda. Infatti, se noi
forniamo luce rossa (al centro) possiamo notare come alcune delle caratteristiche
spariscano: ripiegatura ad uncino, epicotile più lungo e sviluppo delle nuove foglie e il colore
è giallastro. Per avere un processo di de-eziolamento completo servono altre lunghezze
d’onda: quelle della luce blu (nella bianca). Lo sviluppo della pianta al buio è detto
scotomorfogenesi, mentre quello della pianta alla luce fotomorfogenesi.
La fotomorfogenesi richiede sia luce rossa sia luce blu; l’immagine indica anche i recettori
delle varie lunghezze d’onda: 600-700nm usa il fitocromo, 400-500nm criptocromo o
fototropina.

Il fitocromo
Le fasi di crescita della pianta controllate dall’assorbimento di luce da parte del fitocromo
sono numerose:
• Fotomorfogenesi (sviluppo) à varie caratteristiche della pianta sono determinate da
esse
• Fisiologia (germinazione)
• Fotoperiodo (fioritura) à capacità di percepire la lunghezza del giorno rispetto a
quella della notte
• Funzioni ecologiche (effetto ombreggiatura) à per capire se vengono ombreggiate
da altre piante
• Movimenti epinastici (non richiedono crescita) à movimenti del girasole
L’esperimento con cui si è scoperta l’esistenza del fitocromo è il seguente: reversione della
germinazione dei semi di lattuga.
I semi sono posti a germinare in un ambiente umido (foglio di carta bibula imbevuto di acqua
all’interno di una capsula petri), se tenuti al buio i gemi non germinano. Se però si fornisce
un flash di luce rosse (660nm) si ha la germinazione di quasi tutti i semi di lattuga; ma se

78
dopo il primo si fornisce anche un flash di luce nel rosso lontano (730nm) allora la
germinazione veniva inibita.
Cicli di flash rosso-rosso lontato-rosso riattivava la germinazione
dei semi, così da revertire l’effetto del rosso lontano. Lo stesso
valeva se si terminava con il rosso lontano, con l’inibizione della
crescita della radichetta.
Il fitocromo può rispondere a due lunghezze d’onda (660nm e
730nm) con effetti reversibili. Il fitocromo è un recettore della luce
rossa che si inter-converte tra due forme Pr (Phytochrome Red)
e Pfr (Phytochrome Far Red). Il Pr una volta assorbita la luce a
660nm allora si trasforma in Pfr che può assorbire a 730nm e tornare alla sua forma iniziale.
Questo ci spiega come sia possibile che gli effetti della luce rossa e quella rosso lontano
siano reversibili.
Esiste un altro esperimento per dimostrare l’inter-
conversione della molecola di fitocromo: misurazione
dello spettro di assorbimento delle due forme.
Si prende il fitocromo purificato e lo si espone alla luce
rossa (666nm), il risultato è che questo fitocromo ha
uno spettro di assorbimento con un picco massimo nel
rosso lontano. Ecco che lo identifichiamo nella forma
Pfr, che assorbe nel rosso lontano. Se invece il
fitocromo purificato viene illuminato con una lunghezza
d’onda pari a 730nm, il suo picco di assorbimento viene indentificato nel rosso ed ecco che
la proteina si trova nello stato Pr.
Se noi sottoponiamo il campione a luce rossa saturante (Pr à Pfr) riusciamo a convertire
l’85% in Pfr mentre il 15% rimane Pr. Come mai? Perché la forma convertita in Pfr ha una
spalla di assorbimento nel rosso. Lo stesso succede se illuminiamo con il rosso lontano: il
97% diventerà Pr e il 3% Pfr (perché lo spettro di assorbimento nel rosso possiede una
piccola coda nel rosso lontano); questo da origine ad un equilibrio fotostazionario. In una
situazione reale, la pianta riceve la luce solare che ha delle lunghezze d’onda molto differenti
a seconda dell’ora del giorno, dell’ombreggiamento etc, quindi il punto di equilibrio può
diventare un fattore che regola la risposta della pianta.
Come fa la proteina ad assorbire la luce rossa? L’immagine mostra
una semplificazione della proteina: vediamo segnalati una serina in
verde nella parte amino-terminale e un dominio chinasino sulla
porzione C-terminale. Al centro troviamo il legame con un cromoforo.
La proteina assorbe luce proprio grazie al legame con questa
molecola che è in grado di farlo. Il cromoforo in questione è una bilina
(fitocromobilina). Esso è formato da quattro anelli pirrolici disposti
linearmente; l’anello A è collegato covalentemente alla cisteina
della proteina stessa.
Il sistema coniugato di doppi legami permette l’assorbimento della
luce e l’anello D è in posizione cis rispetto all’anello C. A seguito di
assorbimento di luce, l’anello cambia conformazione e passa in
forma trans; questa modifica del cromoforo viene percepita dalla proteina che andrà incontro
a delle modifiche trasformandosi in forma Pfr.
La modifica indotta da parte del cromoforo è un’attivazione del dominio chinasico del C-
terminale. Una volta attivato, esso fosforila la serina che si trova sull’N-terminale. Questa è
la sua forma attiva che gli permette di andare avanti nella trasduzione del segnale.
RIASSUMENDO:
la forma Pr è considerata la forma inattica che, a seguito di assorbimento di luce e
fosforilazione della serina, passa nella forma attiva Pfr. Questa è in grado di dare le risposte

79
cellulari, ma è anche in grado di assorbire luce FR e che la riconverte
nella forma inattivata. Questo è un metodo che la pianta può utilizzare
per attivare o inattivare il fitocromo.
Scendendo più nei dettagli vediamo che il fitocromo funziona come
dimero (due subunità una N-terminale con cromoforo e una C-
terminale con funzione chinasica). Nella forma Pr ha un aspetto
dimerico in cui il dominio N-terminale è chiuso sul C-terminale. La
fitocromobilina viene sintetizzato dal cloroplasto, mentre la proteina è
sintetizzata nel citoplama, l’unione da origine alla proteina OLO.
Con l’assorbimento di luce, la proteina cambia conformazione e si apre,
mantenendo la sua forma dimerica; questa conformazione lascia la
porzione C-terminale libera di funzionare e dare inizio ad una cascata di
segnali: eventi che il fitocromo determina sulla membrana e il suo
potenziale (canali) o eventi all’interno del nucleo con la regolazione di
geni (fotomorfogenesi).
Esistono diversi modi per classificare le risposte mediate dai fitocromi
nella pianta, uno di questi è quello che si basa sulla quantità di luce necessaria per attivare
la risposta.
Vi sono risposte che sono provocate da quantità di luce bassissima (quella di una lucciola)
ed altre che richiedono l’esposizione della pianta ad irraggiamenti ad altissima energia che
devono durare giorni o settimane. Una singola proteina è in grado di mediare risposte molto
diverse tra loro; questo perché ne esistono diversi tipi di fitocromo.
La classificazione in base alla quantità di luce ci da come risultato il grafico seguente, con
tre tipi di risposta:
a. VLFR (Very Low Fluence Rate) à
hanno la reciprocità e non sono
reversibili con il FR
b. LFR (Low Fluence Rate) à
reciprocità ma reversibili R à FR
c. HIR (High Intensity Rate) à lunghe
esposizioni, no reciprocità e no
reversibilità.
Esse sono plottate su una scala logaritmica (asse
x) di densità di flusso di fotoni (µmol/m2s). La scala
è logaritmica il che vuol dire che le differenze sono
imponenti. La caratteristica con cui il fitocromo è stato scoperto (reversibilità) non è tipica di
tutte le risposte. Il termine reciprocità indica che ciò che conta è la quantità di fotoni che
conta (ex: 10 fotoni in 1 ora o 1 fotone in 10 ore).
Un evento controllato da quantità molto basse di luce rossa assorbita è la germinazione dei
semi di Arabidopsis (0.0001 µmol/m2 – di una lucciola) e che giustificano la regola dei
contadini di seminare durante certe fasi lunari (una luna piena manda una quantità di luce
maggiore rispetto a quella richiesta dalla germinazione dei semi).
Un esempio di LFR è quello della germinazione dei semi di lattuga che abbiamo visto prima
(pag.77) con un’intensità pari a 0.1 µmol/m2.
Infine, un irraggiamento prolungato è quello che controlla la sintesi di
antociani della buccia di mela (1000 µmol/m2), questa risposta richiede per
questo tempi molto lunghi.
Si è scoperto che nelle piante superiori esistono diversi tipi di fitocromo,
esattamente 5: con delle vicinanze tra essi, dove A e C sono simili, mentre E,
B e D sono parte di un altro.
Le due proteine che sono più espresse e anche più studiate sono il fitocromo
A e il fitocromo B.

80
Il fitocromo A è labile alla luce (si accumula nelle piante quando crescono al buio, o negli
organi al buio), infatti una pianta che è esposta alla luce non lo presenterà se non solo negli
organi in ombra. Esso è presente nelle piante eziolate e risponde alla luce nel rosso lontano.
Il fitocromo B è fotostabile e quindi non viene degradato alla luce. Esso.è attivato dalle
lunghezze d’onda nella luce rossa.
I due tipi di fitocromo hanno funzioni comuni in quanto inibiscono
l’allungamento dell’ipocotile come possiamo vedere
dall’immagine.
Come si è arrivati a scoprire che l’allungamento dell’ipocotile è
mediato dai due tipi di fitocromi? Tramite degli screening di
mutanti. Si fanno delle librerie di mutanti di Arabidopsis casuale,
con raggi X o altro e dopo averle coltivate si selezionano le plantule
insensibili alla luce rossa (sn – ipocotile rimane lungo e non si
accorcia con un fenotipo eziolato) e insensibili alla luce rosso
lontano che presenta lo stesso fenotipo. Il gene modificato era un
gene della forma A.
Questo può essere dovuto anche a mutazioni in step intermedi della trasduzione del segnale
che vi è dopo l’attivazione del fitocromo.
Il fatto che i due fitocromi controllino lo stesso fenomeno (non allungamento dell’ipocotile),
questo ha un risvolto ecologico importante per la pianta permettendogli di percepire
l’ombreggiamento da parte di altre piante.
L’immagine mostra una plantula appena emersa dal terreno (seme germinato che ha fatto
una parte di vita epogea dove l’epicotile si stava allungando per raggiungere il prima possibile
la luce). Una volta emersa essa si trova con il fitocromo A che viene degradato, mentre il
fitocromo B viene attivato dalla luce rossa e permette quindi di bloccare l’allungamento
dell’ipocotile. La pianta rallenta la crescita ma espande le foglie e inizia a fare fotosintesi.
Quando una pianta cresce all’ombra di un’altra, essa cresce ricevendo la luce del sole filtrata
dalla pianta sovrastante. Questa consumerà la luce del rosso
e ne trasmetterà quella del rosso lontano che arriva alla
plantula sottostante. Questa pianta ha per breve tempo il Phy
A che per un po’ viene attivato dalla luce rosso lontano; viene
però degradato e il Phy B non è attivato per la mancanza di
luce rossa. La plantula allunga per questo l’ipocotile
superando in altezza la foglia che la ombreggiava riuscendo
ad assorbire la luce rossa con il Phy B ora attivato. Ora che
arriva alla luce rossa può quindi rallentare la sua crescita.
Parlando del controllo dei fitocromi A e B, abbiamo introdotto
il concetto di funzioni ecologiche del fitocromo: Shade Avoidance.
Lo spettro solare contiene una quantità equilibrata di luce rossa e rossa lontana ed il rapporto
è circa 1. Questa è la luce che una foglia riceve dal sole se non è ombreggiata. Le foglie
all’ombra ricevono uno spettro solare diverso, impoverito nella componente blu e quella
rossa ma carico di quella rosso lontano con rapporto di 0.2. Lo
spettro della luce che raggiunge due foglie in condizioni solari
differenti è differenti.
Inoltre, lo spettro del sole può variare e la tabella mostra alcuni valori.
Il tipo di rapporto che una foglia riceve farà variare anche i
fotoequilibri delle forme Pr e Pfr; quindi quando la luce non è filtrata
(ratio=1) il rapporto Pfr/Ptot è molto alto, perché per i sistemi di
conversione l’equilibrio si sposta verso il rosso lontano. Se il rapporto
è 0.2 allora il Pfr/Ptot è molto basso. Questo viene usato come
segnale di ombreggiamento da parte di un’altra pianta.

81
Con la diminuzione della luce rossa e quello del rapporto
di Pfr/Ptot si ha un allungamento della crescita del fusto
della pianta così da raggiungere la luce. Se i due valori
sono alti allora la pianta resterà bassa.
Vi sono piante che rispondo a questo segnale
aumentando la loro dimensione e crescita (rapanello
tenderà ad allungarsi nel caso in cui siano ombreggiate
ma non vi è una crescita nella parte aerea e non nella radice), altre invece non rispondono
perché sono abituate alla crescita all’ombra (piante sciafile).
Per la seminazione di colture molto fitte, si sono selezionate delle piante che hanno perso in
parte o completamente la shade avoidance, infatti tutte le piante saranno alte uguali.
Vi sono due tipi di risposta da parte del fitocromo:
1. Risposte rapide à dipendono da variazioni del potenziale di membrana (flussi di ioni,
acqua) e controllano i movimenti epinastici che non richiedono la crescita della pianta.
Un esempio è la Campanula (Sleeping Beauty) che si apre di giorno e la notte invece
si accartoccia; questi movimenti sono dovuti a cambiamenti di turgore di alcuni gruppi
di cellule.
Un altro esempio è quello di alcuni trifogli che la sera si chiudono il giorno si riaprono.
Questo tipo di movimenti non sono solo dovuti alla luce ma anche al tatto (chiudono
le foglie – Mimosa Pudica). Le cellule responsabili di
questi movimenti sono chiamate Pulvini e si trovano alla
base della foglia (inserzione nello stelo) e in caso di
apertura si ha un trasferimento di sali dalle cellule dorsali
a quelle ventrali con l’apertura; il contrario avviene per la
chiusura. I movimenti di sali comportano anche il
movimento di acqua. (modifiche di permeabilità delle
membrane a ioni ed acqua).
2. Risposte lente à in questo caso richiedono l’attivazione di geni con grandi
cambiamenti all’interno della pianta.
Queste avvengono in tempi di minuti se non giorni. Qui la luce agisce sul fitocromo
che poi agisce sull’attivazione dei geni. I primi ad essere attivati sono i geni di risposta
primaria; questi a loro volta attivano dei fattori di trascrizione che andranno ad agire
su geni di risposta secondaria.
L’esempio mostra il gene MYB (gene risposta primaria) che in
una scala di tempi mostra la crescita della sua trascrizione
(poche ore) che va poi diminuendo. Al picco del gene MYB
segue l’attivazione del gene LHCB (gene risposta secondaria)
il cui trascritto aumenta notevolmente nel tempo. In questo
modo possiamo definire quale sia il gene primario e quale il
secondario. Ecco un esempio: l’immagine mostra il controllo del fitocromo sul gene
LHCB (proteina antenna del PSII). Il segnale parte nel citosol dove è presente nel
fitocromo (recettore della luce rossa che non necessita di stare sulla membrana
perché questa penetra le membrane).
Quando colpito dalla luce rossa, viene
attivato (Pfr) e si sposta dal citosol al nucleo
tramite un poro di transizione nucleare. La
forma Pfr è in grado di influenzare la
trascrizione di un gene perché si associa ad
una proteina (pif3) che era legata al
promotore inattivandolo. Il sequestramento
di pif3 permette la trascrizione del
messaggero che codifica per la proteina

82
MYB (fattore di trascrizione – gene primario) e che verrà assemblata nel citoplasma.
Una volta matura, rientra nel nucleo e si lega al promotore di un altro gene (lhcb –
gene secondario) permettendo la sua trascrizione e sintesi in seguito.
La luce blu
Sappiamo che la luce riceve la luce blu come segnale dalla lezione precedenti, che permette
quindi la fotomorfogenesi della pianta. Le due proteine che si occupano dell’assorbimento
della luce blu sono:
• Criptocromo à inibizione della crescita del coleottile. È un evento
controllato anche dal fitocromo ma si complica ulteriormente per il
controllo da parte di questo recettore.
• Fototropina à controlla il fototropismo, quindi la crescita della pianta
verso una fonte di luce. Il time-lapse mostra come il coleottile si orienti
verso la fonte di luce proveniente da destra.
L’inibizione della crescita del coleottile è facile da dimostrare in quanto basta far
crescere una plantula al buio e una in luce blu continua. Noteremo con le plantule eziologiche
mostrino i tipici tratti di questa tipologia mentre quelle cresciute in luce blu no.
Se si fa uno spettro di azione di questo fenomeno:
inibizione della crescita del coleottile, si nota che
l’illuminazione alle diverse lunghezze d’onda porta un
grafico molto complicato. Vi sono dei picchi nel blu
(esattamente tre) non vi sono picchi tra il blu e il rosso; ed
infine, nel rosso si ha un picco. Questo ci indica la
partecipazione di più fotorecettori perché nessun
cromoforo assorbe sia nel blu sia nel rosso. È difficile
attribuire quale sia il recettore che assorbe nel blu. La svolta
e l’identificazione si è avuta solo a seguito di screening
genetico.
L’identificazione del recettore è stata fatta nello stesso modo dei fitocromi (pag. 79). Si è
identificato un mutante cry1 che presentava una crescita spropositata dell’ipocotile anche a
seguito di esposizione a luce blu, come se non percepisse la sua presenza.
Il criptocromo è una proteina composta da due domini e che
lega due cromofori: una pterina che assorbe gli UV-A e un FAD
(assorbe nel blu). Già così spieghiamo il complicato spettro di
azione prima analizzato. Il dominio N-terminale assomiglia una
fotoliasi (enzima che si trova nel nucleo e ripara le rotture del
DNA a seguito di UV-A) e utilizza questi raggi sia per attivarsi
sia per riparare, ricavando energia; il criptocromo però non ha
nessuna funzione di riparazione del DNA. La sua funzione è collegata alla porzione C-
terminale (rosso) che è una chinasi e può fosforilare altre proteine.
Sono stati trovati due geni che codificano per le proteine in Arabidopsis e sono chiamari Cry1
e Cry2.
Il criptocromo è una proteina che, quando è attiva, si accumula nel
nucleo e si auto-fosforila. In forma inattiva possiede una
conformazione chiusa (omodimero); a seguito di assorbimento
della luce blu si ha un cambio conformazionale che apre la
proteina con il C-terminale altamente fosforilato e che attrae molte altre proteine che
agiranno sulla trascrizione genica.
Gli effetti sono sulla crescita dell’ipocotile, modificando i geni che controllano questa crescita,
ma può anche agire sulla fioritura.
Per quanto riguarda l’evento di fotomorfogenesi andiamo ad analizzare il meccanismo di
trasduzione del segnale in maniera molto semplificata l’interazione tra il fitocromo e il
criptocromo con la proteina COP1.

83
Per una fotomorfogenesi completa servono quindi entrambe le lunghezze d’onda e che i due
pathway di segnalazione si incrociano al livello della proteina COP1. Questa è una proteina
che se viene eliminata dalla pianta (KO cop1) e questa viene fatta crescere al buio,
presenterà una morfologia uguale a quella di una pianta cresciuta alla luce. L’unica differenza
sarà che non vi sarà la clorofilla. Ma cosa vuol dire questo? COP1 ha una funzione inibitoria
per la fotomorfogenesi e degrada quindi i fattori di trascrizione che la promuovono; la sua
rimozione farà sì che la trascrizione dei geni della fotomorfogenesi non siano intaccati.
Guardiamo cosa succede alla trascrizione dei geni della fotomorfogenesi al buio e alla luce.
• Buio à la proteina PIF3 si lega al promotore dei geni e ne impedisce la trascrizione.
In questa situazione, CRY1 è
inattivo e si associa ad una serie
di proteine dando origine ad un
complesso. Questo ha la
capacità di ubiquitinare HY5
segnalandone la degradazione.
Nel citosol vi è un citocromo
inattivo per la mancanza di luce.
• Luce à la proteina PIF3 è stata
sequestrata e al suo posto vi è
HY5 che promuove la
trascrizione. In questo caso
CRY1 assorbe luce blu e viene
attivato: non è più in grado di ubiquitinare HY5 ma sequestra COP1 dal nucleo
trasportandolo nel citoplasma. Dall’altra parte vi è l’attivazione del fitocromo da parte
della luce rossa: la forma attivata, Pfr, si sposta nel nucleo e fosforila PIF3 che viene
poi ubiquitinato e quindi degradato. HY5 è quindi in grado di legarsi al promotore del
gene e attivarne la trascrizione.
Il fitocromo ha un’interazione con COP1 che gli impedisce di legarsi al complesso
promuovendo la degradazione di HY5.
Vediamo ora come la fototropina controlla la direzione di crescita delle piante verso la fonte
di luce. La modifica della direzione si ha solo in organi in crescita (es: coleottile o ipocotile),
non ha quindi effetto su altre parti della pianta.

Il fototropismo oltre ad avere a che fare con organi in crescita, ha a che fare anche con
l’auxina. La risposta fototropica del coleottile viene eliminata o eliminando l’apice o se questo
viene schermato in modo da non far entrare la luce (la direzionalità della luce richiede
l’apice). Questi studi sono stati migliorati con la scoperta che vi è una sostanza in grado di
diffondere; la sua diffusione può essere impedita aggiungendo uno strato di mica (minerale)
o favorita tramite l’aggiunta di una sostanza gelatinosa. La crescita si ha solo se la mica viene
inserita nella zona colpita dal sole, mentre non cresce se la mica viene introdotta nelle zone
all’ombra. È per questo importante che questa sostanza venga diffusa nelle zone di buio.
La sostanza prodotta dall’apice è l’auxina (IAA), ormone
continuamente prodotto e trasferita verso il basso
(trasferimento basipeto dell’auxina dall’alto al basso). Se
togliamo l’apice allora non vi sarà produzione di auxina; se si
incappuccia l’apice e la zona in crescita sottostante così da non
far percepire la luce, non avremo la crescita differenziale (la
quantità di auxina è minore nella zona di luce e maggiore in
quella di buio, così da permettere la crescita in direzione della
luce).
La differente quantità di auxina ai due lati dell’ipocotile è stata
dimostrata dal seguente esperimento: pianta transgenica con un gene auxino-dipendente

84
(l’ormone ne stimola la trascrizione legandosi al suo promotore
DR5). Al posto del gene a valle è stato inserito il gene GUS, gene
reporter che darà origine ad un prodotto colorato. La plantula, nella
zona all’ombra, mostra una colorazione azzurra più abbondante.
A questo punto possiamo chiederci quale sia il recettore della luce
blu che è responsabile della distribuzione asimmetrica di IAA. Per
identificare il recettore si è partiti dallo spettro di azione che però
era molto simile a quello dell’inibizione del coleottile. Si è capito che
assorbiva nel blu e un po’ nell’UV-A ma non si era capito quale fosse la
proteina. Si è nuovamente effettuato uno screening di mutanti: sono stati
selezionati tutti quelli che non presentavano una crescita direzionale verso
la luce (NPH – Non-Phototropic Hypocotyl).
Da questi mutanti si è risalito al gene mutato che è quello che codifica per
la proteina: fototropina. L’immagine mostra una
schematizzazione della proteina; vi sono diverse subunità:
quella al C-terminale (in rosso) è una chinasi che è preceduta
da due domini che legano delle flavine (LOV1 e LOV2) seguiti
da un’alfa elica (Ja-helix). Le frecce indicano i domini di auto-
fosforilazione. La conformazione 3D della proteina ha un
dominio centrale di alfa-eliche e foglietti-beta che coordinano il
legame con il cromoforo (flavina mononucleotide – FMN).
Prima dell’assorbimento della luce, i domini LOV e il dominio
chinasico sono in contatto grazie all’’elica Ja; quando vi è
assorbimento di luce, avviene un cambiamento di
conformazione dell’elica Ja facendo sì che il dominio chinasico
sia attivo. Come prima cosa auto-fosforila la fototropina e poi lo farà
anche per altri target dando inizio alla cascata di segnali.
Il meccanismo che segnala alla proteina l’assorbimento di luce da
parte del cromoforo è il seguente: la flavina assorbe la luce, si eccita
e carica di energia creando un legame covalente con un aa della
proteina. Quindi il cromoforo prima è solo all’interno, quando poi
assorbe luce può legarsi ad essa. Questa reazione è reversibile al
buio ma impiega molto tempo prima di tornare allo stato di partenza
in quanto bisogna rompere un legame covalente che è molto molto
stabile.
Ora cerchiamo di capire come la fototropina determini una distribuzione asimmetrica
dell’auxina. Ma come avviene il trasporto cellulare di questo ormone? IAA si trova
nell’apoplasto e può entrare nella cellula attraversando la membrana. È un acido debole
quindi, al pH della membrana (pH=5), sarà 50% dissociata e 50% indissociata. La parte
senza carica netta è in grado di attraversare quindi la membrana lipidica. Nel citoplasma
trova però un pH alcalino, dissociandosi e trasformandosi in anione IAA- + H+. Questo anione
sarebbe costretto a restare all’interno della cellula per la sua carica; tutto
ciò non avviene per la presenza di trasportatori (PIN3 – controlla efflusso
laterale di IAA) che si trovano sulla membrana. Se la cellula controlla la
distribuzione di queste proteine allora può controllare la direzione di uscita
dell’ormone; essi sono posizionate sui lati delle cellule potendo andare a
destra o sinistra. In caso di attivazione della fototropina si ha una modifica
della distribuzione di PIN3 da un lato della cellula, accalcandoli da un solo
lato (quello verso il buio). Ecco come sia possibile la crescita differenziale di una pianta.
Sappiamo però che esistono due tipi di fototropine, il primo di cui abbiamo parlato, ma
Phot2?

85
Essa una composizione simile a quella della 1: vi sono due
domini LOV, un dominio PKD. Ma vi sono evidenze che
questa sia coinvolta in altre funzioni come il movimento dei
cloroplasti indotto da variazioni di intensità di luce. Avevamo
già parlato di questo fenomeno con la fotoinibizione
(pag.25). L’immagine mostra due cellule disposte ad intensità
di luce differente: se la luce è media allora i cloroplasti si
dispongono su tutta la superficie per massimizzare
l’efficienza, mentre in caso di alte intensità si ha la
distribuzione in colonna per proteggere i vari organelli. Il
mutante phot2 non possiede questa risposta, quindi non è in
grado di incolonnare i cloroplasti.
Infine, le due fototropine sono coinvolte nella regolazione
dell’apertura degli stomi. Gli stomi durante il giorno hanno una curva di regolazione: a fine
notte sono chiusi, con l’aumentare dell’intensità luminosa tenderanno ad aprirsi per favorire
la fotosintesi e durante la notte tenderanno a chiudersi.
Il percorso che porta all’apertura degli stomi da
parte della luce blu comincia con la percezione di
questa da parte della fototropina (phot1 e
phot2). Esse una volta fosforilate sono in grado di
legare le 14-3-3 (che lega anche la pompa
protonica). Le due phot fosforilate, con una serie
di passaggi che attivano i secondi messaggeri,
arrivano ad attivare e fosforilare la H+-ATPasi.
Quest’ultima, una volta fosforilata da PK, lega le
14-3-3 che la mantengono attiva. Essa non mantiene solo il gradiente di protoni ma anche
poteziale elettrochimico e iperpolarizzazione. Si aprono quindi i canali rettificatori entranti del
K+ e rientrerà anche il Cl-. Si avrà accumulo di potassio-cloruro (KCl) che richiamerà acqua
e permetterà l’apertura degli stomi.
Questo è l’esperimento che lo dimostra: si misura l’attività
della pompa protonica come abbassamento di pH nel
mezzo esterno (gradiente di protoni). Si ha una forte caduta
di pH dovuta presumibilmente dalla pompa protonica
attivata dalla luce blu. Il gel mostra infatti l’aumento dello
stato di fosforilazione della pompa protonica, che in
assenza di luce blu è meno evidente. Si vede anche che,
aggiungendo l’inibitore K-252a a concentrazioni diverse, si
ha una diminuzione della fosforilazione. Questo agisce sulla
proteina necessaria alla fosforilazione della pompa. In
questo caso si ha anche un minore trasporto di protoni e un minore abbassamento di pH
perché la luce la attiva ma l’inibitore la contrasta.
La luce blu porta alla fosforilazione della pompa protonica che genera le condizioni giuste
per l’apertura degli stomi.
• Assorbimento della luce blu dalle due Phot, auto-
fosforilazione inizio della catena di trasduzione del
segnale.
• Attivazione enzima PP1, fosfatasi che porta
all’attivazione di PK (chinasi)
• PK fosforila la pompa e la attiva. La pompa viene poi
inattivata da una fosfatasi PP.

86
A livello di PP1 si ha l’azione di una seconda via di trasduzione del segnale, quella dell’ABA:
una via che porta all’effetto opposto. L’ormone segnala lo stress idrico per questo inibisce
PP1 e tutto quello che si trova a valle di esso.
REGOLAZIONE STOMATICA
Oggi descriviamo la regolazione degli stomi da parte dell’acido abscissico.
Le cellule di guardia si differenziano dalle altre cellule dell’epidermide perché
sono più piccole e possiedono i cloroplasti, assenti nelle altre.
Esse non sono collegate simplasticamente con il resto dell’epidermide, essa
è quindi indipendente. Gli stomi rappresentano delle valvole idrauliche
che funzionano con movimenti controllati dall’accumulo di soluti e sali
all’interno della cellula e che richiamano acqua. Gli ioni sono in parte
controllati dalla pompa, mentre saccarosio e malato sono dipendenti
dalla fotosintesi.

La regolazione dello stoma è molto complicata in quanto regolata da numerosi fattori:


• Luce (quantità e qualità) à se blu o rossa, se intensa o no.
• Temperatura à agisce indirettamente perché ha effetto sull’umidità relativa (quando
si abbassa troppo gli stomi saranno chiusi per evitare la perdita di acqua)
• U.R. à umidità relativa
• [CO2] à mancanza fa aprire gli stomi
• Ormoni (ABA) à ha una funzione molto chiara che tende a farlo chiudere
Gli stomi possono integrare differenti segnali perché i vari signaling interagiscono tra loro
tramite degli elementi comuni.
Riprendendo il segnale della luce come segnale positivo, notiamo la
correlazione dell’incidenza della luce durante il giorno e l’apertura
dello stoma: le due curve sono praticamente identiche (essa è un
fattore di promozione). Per quanto riguarda la qualità vi è l’effetto della
luce rossa che porta all’apertura, ma una volta raggiunta la
saturazione della luce rossa, se aggiungo luce blu, aumento
ulteriormente l’apertura degli stomi. Questo effetto può essere in
conflitto con la fotosintesi quindi è sempre consigliato il passaggio a
saturazione della luce rossa.
L’effetto della luce rossa: è lento, non si ha nelle piante che non
effettuano fotosintesi (albine), dipende dall’accumulo di zuccheri,
dalla riduzione di CO2 che agisce come segnale.
È diversa la funzione della luce blu che ha, invece, un effetto diretto
sull’apertura degli stomi come abbiamo visto precedentemente (pag.
86): il movimento di ioni fa si che vi sia accumulo di acqua e quindi l’apertura dello stoma.

87
Per chiudere uno stoma bisogna perdere sali e anche acqua, verranno in seguito demolite
le riserve di saccarosio e malato.
L’acido abscissico (ABA) è uno dei fattori che promuove la chiusura degli stomi. Esso è un
acido organico (Pk=4-4.5) ed è prodotto al livello delle radici
quando queste percepiscono uno stress idrico nel terreno. Cosa
vuol dire? Quando il potenziale idrico del terreno si abbassa
notevolmente e le radici fanno fatica ad assorbire acqua. L’ABA
viene trasportato verso le foglie dove giungono nelle cellule di
guardia che sono il target specifico.
Quando l’ABA giunge in concentrazioni modeste attraverso lo xilema, nel mesofillo (non
ancora in stress idrico) trova una condizione di pH dell’apoplasto che favorisce la sua
distribuzione un po’ dappertutto. Essendo l’apoplasto acido il 50% indissociato quindi in
grado di diffondere nelle cellule del mesofillo. Questa dispersione fa sì che alle cellule di
guardia ne arrivi poco.
Quando la pianta è in stress idrico, la concentrazione di ABA che giunge al mesofillo è molto
elevata e il pH più alcalino, l’acido abscissico è maggiormente dissociato e non riesce ad
entrare in tutte le cellule ma giunge, a concentrazioni più elevate, alle cellule di guardia.
Ricostruiamo la via di segnale dell’ABA nelle cellule di guardia:
esso giunge alle cellule di guardia dove incontra il recettore (dovrebbe essere un recettore
di tipo citosolico perché è stata identificata la proteina Pyr1 che ha questa funzione ma è nel
citosol). Si verificano a seguito di questo segnale degli eventi cellulari: (1) aumento della
concentrazione di calcio nel citoplasma, (2) aumento del pH (alcalinizzazione) e (3) la
depolarizzazione del potenziale di membrana.
(1) L’aumento di calcio indotto da ABA è dovuto per la sua
entrata sia dall’apoplasto sia dalla liberazione da parte del
vacuolo, a seguito della fosforilazione dei canali del calcio. In
mezzo a questi due step vi sarà l’attivazione di una chinasi che
fosforila i canali.
L’aumento di calcio nel citoplasma si misura attraverso la
fluorescenza (aumento della fluorescenza di una proteina che
la emette quando legata al calcio): dopo un minuto dalla
somministrazione di ABA si ha un aumento del livello di calcio.
Questo fenomeno precede temporalmente la chiusura dello stoma. Il grafico sotto mostra
come uno stoma si chiuda dopo cinque minuti dalla somministrazione dell’ormone
dimostrando la correlazione tra i due eventi.
(2) il secondo evento è quello del pH all’interno della cellula,
anche in questo caso possiamo misurarlo tramite la fluorescenza
di un reporter sensibile al pH. Vedremo come la
somministrazione di ABA in una cellula di guardia mostri un
cambio di colore nelle cellule che sta ad indicare l’alcalinizzazione
del pH. La scala di colori della proteina che abbiamo inserito nella
cellula ci da indicazioni sulle variazioni all’interno della cellula.
Non è ancora chiaro come l’aumento di calcio porti alla
diminuzione dell’attività della pompa, sicuramente si ha una diminuzione di substrato (pH
alto pochi protoni da trasportare e termodinamicamente sfavorito), ma anche un effetto
diretto di ABA sulle 14-3-3 che ne favorisce il rilascio e quindi l’inattivazione della pompa
(blocca la fosfatasi PP1 che permette poi a fosforilare PK che poi attiva la pompa).
(3) il terzo evento è la depolarizzazione del potenziale di membrana e ha
un pathway molto chiaro: l’aumento del Cl- all’interno della
cellula attiva la proteina CDPK (chinasi calcio-dipendente).
Essa fosforila il canale ionico per il cloro e che ne favorisce
l’uscita: esso uscendo sposta le cariche negative verso

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l’esterno e causa una depolarizzazione della membrana. La depolarizzazione porta il
potenziale di membrana da valori molto negativi (-160mV) a valori positivi (+30mV). Questa
variazione fa sì che la cellula si porti ad un valore più positivo del potenziale di Nernst del K+
(rettificatori uscenti – pag. 72) che ne causano l’uscita. Vi sono quindi due effetti della
depolarizzazione sui canali del potassio: si attivano i rettificatori uscenti, mentre inibisce i
rettificatori entranti. Le modifiche dell’aumento di calcio hanno anch’esse degli effetti:
l’entrante è forzatamente chiuso dal calcio nel citoplasma, mentre gli uscenti sono
ulteriormente attivati dall’alcalinizzazione del pH.
Vi è un problema di gerarchia di stimoli: in presenza di stress idrico l’ABA induce la chiusura
degli stomi anche in condizioni di luce. La pianta discrimina tra i segnali per seguire quello
più importante in quel momento.
Come detto in precedenza vi è un recettore dell’ABA citosolico ed è la proteina PYR1. Esso
ha sicuramente più effetto in altri ambiti ma è comunque un recettore.
PYR1 legandosi all’ormone cambia la sua conformazione e riesce ad
interagire con una proteina che è chiamata PP2C (solitamente non legata
ad esso). Quando libera, PP2C è una fosfatasi che inibisce altre proteine,
quindi il sequestro di questa proteina da parte di PYR1 permette ad una
proteina chinasi (SnRK2) di fosforilare i suoi target (un fattore di trascrizione
e un canale ionico).
INTERAZIONE PIANTA-PATOGENO
Le piante devono difendersi da una grande lista di organismi: funghi, batteri, nematodi, piante
parassite.
I patogeni più abbondanti per le piante sono i funghi che possono crescere sulla lamina
fogliare ma che si insinuano anche internamente crescendo tra le cellule o all’interno per
sfruttare gli zuccheri. Un fungo che abbiamo incontrato è il Fusicoccum amygdali, che
produce la fusicoccina (pag.1) e che porta alla morte della pianta in quanto lascia
costitutivamente attiva la pompa protonica. Gli stomi sempre aperti vengono quindi sfruttati
dal fungo per penetrare all’interno della pianta tramite degli austori.
Chiaramente per poter assorbire gli elementi del citosol della cellula, queste sono molto
protette da cere e pareti che hanno anche funzioni di difesa.
Durante un attacco fungino si verificano due cose:
1. Attacco del fungo alla pianta à uso di enzimi in
grado di degradate la parete delle cellule della
pianta. Esse sono fatte di pectina e per questo
l’enzima coinvolto nella degradazione è la
Pectinasi. La pianta, però, percependo la presenza
del fungo produce ed emette degli enzimi che
siano in grado a loro volta di degradare la parete del
fungo (chitinasi e glucanasi – gli enzimi sono
quindi in grado di attaccare il fungo lasciando
intatta la pianta).
2. Resistenza al patogeno à In tutti questi attacchi si creano
dei frammenti di parete cellulare (zuccheri/polisaccaridi)
chiamati elicitors. La pianta possiede dei sistemi di
percezione di questi frammenti così da attivare i segnali di
risposta all’attacco fungino. Due esempi sono: (a-1,4) acido
poligalatturonico che si forma per l’azione della
pectinesterasi (polygalacturonase), a seguito della
degradazione delle pectine della parete. O il oligomer b-1,4-
linked glucosamine prodotto dalla degradazione della parete dei funghi. Non basta il
segnale ma è necessario il riconoscimento del segnale: vi sono delle proteine di
membrana che funzionano da recettori di entrambi i tipi di elicitors.

89
Questi due elementi permettono quindi alla pianta di resistere all’attacco di un fungo.
L’elicitor è il prodotto di un enzima che, a sua volta, è
codificato da un gene del patogeno che viene indicato con
il nome di gene di avirulenza.
Il recettore che la pianta produce e che percepisce la
presenza di questi prodotti ed è codificato da un gene
chiamato gene di resistenza della pianta.
L’interazione tra pianta e patogeno è in continua co-evoluzione,
in quanto tutte le volte che un patogeno mette in atto una strategia di attacco la pianta
mette in atto una strategia di resistenza. Questo genera varie combinazioni:
• Generazione di un elicitor da parte del patogeno à sviluppo del gene di resistenza
(resistenza)
Gli altri casi sono di suscettibilità della pianta:
• Non produzione dell’elicitor à gene della resistenza
• No elicitor à no gene resistenza
• Gene avirulenza à no gene resistenza
Vi sono due tipi di risposta agli attacchi dei patogeni:
1. Strategie a breve termine à detta anche risposta ipersensibile. È
caratterizzata dalla morte delle cellule intorno al punto di infezione,
così da prevenirne la diffusione. La morte controllata è dovuta ad un
burst ossidativo con la produzione di ROS (reazione ipersensibile).
La foto mostra una cellula marcata in rosso (FM4-64) per la parete
cellulare e in verde (DCF) per le specie reattive dell’ossigeno e
possiamo notare un grosso accumulo all’interno della cellula (in particolare H2O2).
Questo tipo di risposta ha vari effetti:
a. Essere prodotto verso l’esterno per bloccare
ed uccidere il patogeno: l’acqua ossigenata è
tossica anche per il patogeno
b. Aiuta il rafforzamento della parete: essa è
necessaria anche per la lignificazione della
parete (non della cellula che la produce
perché va in apotosi ma quelle vicine)
c. Aiutare la trascrizione genica delle cellule circondanti: porta alla sintesi di
segnali, come le fitoalessine, che possono agire a distanza con funzione
antibiotica e antimicrobica.
La slide riassume alcuni dei tipi di stressi che portano la cellula alla formazione di ROS che
possono portare, a seconda della loro concentrazione, a diverse risposte. Questo
meccanismo funge da sistema immunitario anche per attacchi futuri.
Le fitoalessine agiscono come delle tossine per il patogeno; l’immagine
mostra un seme di arachide che produce fitoalessine nel punto di attacco da
parte del fungo. Una delle tossine è il Resveratrolo che viene usato dalla vite
contro la Botrytis cinerea.
2. Strategie a lungo termine à la pianta è capace di avere a distanza che determinano
una resistenza sistemica acquisita. Essa utilizza dei segnali che viaggiano a lunga
distanza e sono degli ormoni: acido abscissico, acido salicilico, etilene e acido
jasmonico. Essi vengono sintetizzati nel punto di attacco ma sfruttano i vasi floematici
e xilematici le altre parti della pianta dove inducono la trascrizione dei geni delle
fitoalessine che saranno pronte in caso di un nuovo attacco.
L’acido salicilico è il primo composto per ricavare l’aspririna.

90
FITORMONI
Gli ormoni sono dei mediatori chimici di determinati eventi cellulari. Essi sono prodotti in una
cellula e il loro sito di azione può essere lontano o vicino ad essa; li definiremo endocrini se
le cellule su cui agiscono sono lontane, paracrini se il sito di azione è rappresentato dalle
cellule adiacenti e autocrini se agiscono sulle stesse cellule che li producono.
I fitormoni delle piante sono differenti, alcuni di questi sono conosciuti da molto tempo e ne
conosciamo bene anche il meccanismo di azione, altri sono di più recente scoperta e non
conosciamo molto (parleremo dei Brassinosteroidi).
Gli ormoni sono più o meno coinvolti in tutti gli step della crescita della pianta, spesso
lavorando in concerto e quasi in maniera ridondante. È probabile che un ormone,
responsabile di un determinato meccanismo non lo sia direttamente, ma indirettamente
inducendo la sintesi di un altro ormone.
Lo stess è una delle condizioni che causa le risposte da parte di un ormone.
L’auxina (IAA)
È un ormone che insieme alle citochinine è vitale per la pianta, la sua rimozione causa la
morta della stessa. Possiede un gruppo indolo e uno acetico (Acido 3-indoloacetico) e la sua
via di biosintesi ha inizio dal triptofano (Trp).
La localizzazione della sintesi dell’auxina è gran parte nel cloroplasto ma vi sono degli enzimi
che sono localizzati nel citoplasma e per questo possiamo dire che la biosintesi sia divisa tra
i due compartimenti.
L’IAA è stata ampiamente studiata ed è definito l’ormone della crescita perché è stato
caratterizzato per il suo stimolo della crescita del cotiledone di una pianta (essa ne controlla
lo sviluppo ma anche il fototropismo).
A livello cellulare: essa è responsabile:
1. Crescita cellulare (modello espansione acida)
2. Divisione cellulare stimolando la via di biosintesi di un secondo ormone (Gibberelline)
3. Differenziamento cellulare (in concerto con altri ormoni)
A livello di organi l’auxina controlla:
• Fototropismo
• Gravitropismo à capacità della pianta di orientarsi seguendo la gravità terrestre
• Tigmotropismo à movimento della pianta a seguito del contatto con agenti esterni
• Dominanza apicale
• Sviluppo fiore e frutto à generazione di frutti partenocarpici (prodotti da fiori non
impollinati). Un esempio è la fragola: la rimozione degli acheni dalla fragola
(producono auxina) porta al non sviluppo del frutto. La somministrazione di auxina al
frutto ne permette poi lo sviluppo in seguito.
L’auxina permette anche la partenocarpia, lo sviluppo del fiore e del frutto anche
senza l’inseminazione (molto utile a livello commerciale).
• Sviluppo foglie e filotassi
• Inibizione della crescita della radice primaria (tramite etilene)
• Sviluppo radici laterali e avventizie (non si originano dall’apparato radicale – talee) à
l’inversione delle talee si ha comunque lo sviluppo delle radici avventizie.
• Induzione differenziamento vascolare
• Ritarda abscissione fogliare (inibizione etilene) à distaccamento picciolo del fiore o
del frutto dalla pianta
Cos’è la dominanza apicale? Le piante presentano un meristema apicale e dei meristemi
secondari; la produzione di auxina, al livello del meristema apicale del germoglio, inibisce la
produzione di meristemi secondari, più nel dettaglio non vi è la produzione di un secondo
ormone (le citochinine – per divisione cellulare). Essa controlla, inoltre, il giusto
differenziamento del meristema apicale tramite l’inibizione delle gibberelline garantendo il
corretto sviluppo delle cellule.

91
La dominanza apicale è un fenomeno per cui, in presenza del meristema apicale i meristemi
secondari sono inibiti. La sua rimozione indica anche la rimozione della produzione di auxina.
La filotassi è l’organizzazione dello sviluppo delle foglie lungo il fusto. Esso è un fenomeno
fondamentale perché garantisce la massimizzazione dell’esposizione della foglia al sole,
favorendo il meccanismo fotosintetico.
L’auxina controlla anche lo sviluppo e la riparazione dei vasi: la rimozione del meristema
apicale non permette tutti questi fenomeni in caso di lesione al sistema vascolare.
I siti principali di produzione sono i due meristemi ma anche giovani tessuti in crescita. Come
si individua la presenza di auxina? Al posto del gene dell’auxina possono usare dei geni
reporter che tramite le loro colorazioni mi permettono di visualizzare la localizzazione
dell’ormone.
L’auxina è l’unico degli ormoni che possiede due tipi di trasporto:
1. Trasporto acropeto (verso apice) à esso è mediato dal sistema vascolare
(floematico) ed è tipico di tutti gli ormoni. Il suo trasporto indica il movimento dal
meristema apicale del germoglio al meristema apicale della radice. Il suo movimento
va da una sorgente (SAM) verso un pozzo (radice), quindi da un luogo molto
concentrato ad uno meno.
2. Trasporto basipeto (polare – unidirezionale) à si muove sempre seguendo uno
schema preciso, dall’apice della cellula alla sua base. Questo movimento può essere
riorganizzato tramite una riorganizzazione dei trasportatori nei vari distretti della
membrana.
L’esperimento mostra la polarità del movimento dell’auxina. È stato preso l’ipocotile di
una plantula (zona in estensione) vi è una regione basale e una apicale e sono state
posti due blocchetti gelatinosi alle due estremità. Il posizionamento nella corretta
direzionalità si avrà un accumulo dell’auxina nella parte basale; in caso contrario non
si avrà auxina nel blocchetto basale.
Qual è il meccanismo del trasporto polare: esso è un
meccanismo complesso che richiede energia.
L’immagine mostra una schematizzazione di cellule
che trasportano auxina. L’auxina è un acido debole
(Pka=4.75), l’apoplasto è una regione acida
(pH=5/5.5), per questo motivo l’ormone si trova per il
75% in forma dissociata e per il 25% in forma
indissociata. La forma neutra può diffondere
all’interno del doppio strato lipidico senza grandi
problemi mentre la maggior parte necessita di un
trasportatore (co-trasportatore protoni-auxina
AUX1). Questa proteina è localizzata principalmente
nella zona apicale della cellula dove l’ormone incontra
un pH neutro e si trasforma nella sua forma
deprotonata (intrappolamento da pH – l’auxina non
può diffondere nuovamente nell’apoplasto). Il movimento in uscita dell’auxina è mediato da
dei trasportatori che si trovano nella parte basale della cellula e sono due famiglie di proteine:
PIN e PGP. Queste proteine lavorano spesso in concerto anche interagendo fisicamente tra
loro (aumentano la specificità del trasporto).
I PGP fanno parte della famiglia degli ABC-transporters: proteine che utiilizzano l’ATP come
fonte di energia chimica per il movimento attivo dell’auxina dalla cellula all’apoplasto.
I PIN sono dei trasportatori passivi, quasi dei canali ionici, ma che non sfruttano un gradiente
di protoni per lo spostamento dell’ormone come per AUX1; in questo caso l’auxina segue il
suo gradiente elettrochimico (movimento degli ioni attraverso una membrana non è solo
dipendente dal gadiente chimico ma anche da quello elettrico. La membrana è un capacitore
quindi la differenza di accumulo di carica dalle due parti genera un energia potenziale di

92
natura elettrica – potenziale di membrana). Per il gradiente elettrochimico che si ha, l’auxina
esce dalla cellula; i PIN hanno una struttura a b-barell (cilindrica) inserita in membrana e
sono selettivi per il passaggio dell’IAA ma senza consumo di energia.
Una volta nell’apoplasto l’auxina ricomincia il ciclo che abbiamo appena visto. In tutto questo,
naturalmente, per mantenere l’apoplasto acido e il potenziale di membrana molto negativo
è fondamentale la pompa protonica (H+-ATPasi). Questo modello è definito: modello
chemioosmotico.
L’immagine mostra una schematizzazione delle proteine PIN e PGP in Arabidopsis: ve ne
sono 7 di un tipo e 3 dell’altro. PIN1 è responsabile dell’auxina nel meristema apicale del
germoglio e da qui alla radice; nella radice vi è un costante movimento che dipende dalla
combinazione di numerosi PIN. Lo stesso discorso vale per le PGP dove, PGP1 come PIN1,
sono coinvolti nel movimento del meristema apicale del gemoglio e della radice.
PIN1 è sempre localizzato nella parte basale delle cellule. L’uso di BFA (Brefeldina A), un
inibitore della proteina, fa si che questa rimanga intrappolata nelle vescicole del Golgi senza
trasporto di auxina. Il mutante Pin1 ha una forma a spillo per la mancata diffusione
dell’ormone.
Accrescimento acido
È definito così perché con la somministrazione di auxina si ha una forte acidificazione
dell’apoplasto che è associata ad un allungamento della cellula per estensione. Come
avviene tutto questo? Vi sono due meccanismi in gioco, uno di tipo osmotico e l’altro
Il meccanismo osmotico mostra una cellula circondata dall’apoplasto. Sulla membrana
plasmatica è posizionata la pompa protonica che estrude protoni e diminuisce il pH
dell’apoplasto; l’auxina aumenta l’estrusione di protoni con una over-espressione della
pompa sia aumentando i protoni portati all’esterno. In questo modo aumenta anche la FPM
che viene poi utilizzata da altri sistemi per l’accrescimento delle cellule. La FPM è usata da
dei trasportatori attivi secondari che utilizzano il gradiente protonico tra simplasto e
apoplasto per trasportare contro-gradiente cloro. Insieme a questo trasportatore vi sono
trasportatori di sostanze organiche. Però essa è usata anche da canali ionici voltaggio-
dipendenti di K+ che si attivano per iperpolarizzazione: la percezione di questa situazione
apre il canale rettificatore entrante. Pompando cariche positive all’esterno fa sì che vi sia una
differenza di cariche molto negativa rispetto alla situazione normale.
L’iperpolarizzazione che porta all’entrata di potassio fa sì che questo si combini con altri
anioni formando dei sali. L’accumulo di soluti nel vacuolo richiama acqua per osmosi facendo
gonfiare il vacuolo. Questo organello si ingrossa sempre di più andando a premere contro la
parete che permetter quindi l’accrescimento della cellula. Dobbiamo rimarcare che
l’acidificazione dell’apoplasto genera una maggiore cedibilità della parete: delle proteine (le
espansine) catalizzano la rottura dei legami idrogeno che mantengono unite le molecole che
compongono la parete. Ovviamente la crescita è accompagnata dalla sintesi delle
componenti della membrana e della parete che dovranno essere allargate.
Come l’auxina controlla la pompa protonica? Vi sono due modi:
1. Azione a lungo termine à essa da avvio alla trascrizione del gene che codifica per la
pompa protonica
2. Azione a breve termine à ne potenzia l’attività tramite la proteina ABP1. Questa
proteina è principalmente localizzata nel RER ma viene in parte trasportata sulla parte
esterna della membrana e che lega l’ormone (unico recettore di membrana). Il
legame di questi due componenti fa sì che interagiscano con una chinasi di
membrana (TMK1) che attivandosi fosforila la pompa protonica iperattivandola. Si
pensa che la stessa proteina sia responsabile dell’attivazione dei canali rettificatori
entranti.
Analizziamo nel dettaglio il meccanismo alla base del fototropismo: la proteina che media il
trasporto asimmetrico dell’auxina, luce blu dipendente, è PIN3. Questa, a differenza delle
altre che abbiamo visto, ha una localizzazione abbastanza diffusa durante le ore notturne

93
questo perché essa viene fosforilata da parte di PID e per questo inattivata. Durante il giorno,
la fosforilazione di PID da parte della Phot1 rende la proteina inattiva che quindi non può
fosforilare PIN3. Questa proteina tende quindi a polarizzarsi sulla parte della membrana più
in ombra.
Il gravitropismo è un altro effetto controllato dall’auxina: esso rappresenta il movimento della
pianta seguendo la gravità terrestre e in base all’apparato si muove in maniera differente.
L’apparato aereo cresce in maniera negativa (direzione opposta) mentre quello della radice
secondo un movimento positivo (seguendo la gravità).
Nella radice la percezione della gravità avviene nelle cellule della cuffia. Essa non ha solo una
funzione di difesa per l’apice della radice ma è anche la sede della percezione della gravità.
Nelle cellule della cuffia sono presenti degli amiloplasti ricchi di amido (statoliti) che con il
loro peso si muovono contro le pareti della cellula seguendo la gravità. Il movimento degli
amiloplasti è fondamentale per la percezione della gravità. La rimozione della cuffia porta ad
un forte allungamento (perché tolto organo di ridistribuzione dell’auxina) mentre la
rimozione di parte di essa porta al ripiegamento della radice nella direzione della porzione
rimanente.
È l’auxina che, come nel fototropismo, è fondamentale; la distribuzione disomogenea
dell’ormone all’interno della radice è quella che controlla il movimento della radice nella
direzione della gravità terrestre.
Il grafico mostra la risposta della crescita della radice in risposta alla concentrazione
dell’auxina: vi sono dei valori che provocano l’allungamento mentre altri lo bloccano. La
concentrazione che si raggiunge in zone di crescita della pianta è un accumulo con un ordine
di concentrazione di 10-5M. A concentrazioni maggiori la produzione di auxina stimola quella
dell’etilene che andrà ad inibire la cellula.
Spesso le concentrazioni a cui funzionano gli ormoni
sono molto molto basse (10-4M). ecco il grafico che
mostra la stimolazione o l’inibizione a seguito di
somministrazione di auxina. La radice è sensibile a
concentrazioni di auxina molto basse che non hanno
effetto della parte aerea; al contrario, le concentrazioni
che stimolano la crescita della porzione aerea hanno
un effetto inibitorio per la porzione radicale.
Il tigmotropismo indica la capacità della pianta di
muoversi a seguito di contatto con un agente esterno.
È stato fatto un esperimento per studiare il tigmotropismo: una radice incontra un ostacolo
e lo scansa nella sua crescita per poter proseguire verso il basso. Nella zona di allungamento
parallela al terreno si ha un minore sviluppo nell’angolo concavo e maggiore in quello
convesso.
Per molti anni non si è saputo se il tigmotropismo fosse collegato all’auxina. La rimozione di
tutti i recettori intracellulari dell’auxina si nota come la curvatura della radice avvenga in
maniera più lenta ma il piegamento avviene comunque. Il tigmotropismo non è strettamente
dipendente da esso, ma l’ormone ne controlla solo la velocità della risposta.
La presenza di un gradiente di calcio ha dimostrato come esso influisca nel gravitropismo
della cellula della pianta, tanto da risultare più forte come segnale rispetto all’auxina. La prima
cosa studiata è la risposta all’auxina: vediamo come all’inizio l’ormone sia distribuito ai due
lati della radice in modo uguale; una volta toccato il suolo si avrà un accumulo dell’auxina
nella porzione destra della pianta determinando la produzione di etilene che inibisce la
crescita; al contrario, nella zona sinistra dove vi è poca auxina vi è una maggiore crescita
delle cellule.
La ridistribuzione dell’auxina è dipendente dal riposizionamento del suo carrier PIN2. Questa
cosa non succede se noi trattiamo la radice con un inibitore della traslocazione delle
proteine. Il calcio gioca un ruolo in questa traslocazione: la radice immersa in una soluzione

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con il calcio presenta un accumulo di PIN2 nella porzione destra facendo sì che qui si
accumuli auxina; la radice in soluzione con EGTA (chelante del calcio) si ha una distribuzione
uniforme delle proteine di trasporto.
Meccanismo di azione molecolare di IAA
Come l’auxina regola l’espressione genica? l’enzima E3
ligasi coinvolto è un complesso multiproteico SCFTIR1,
proteina del complesso con il sito di legame per l’auxina.
Contiene tre proteine con attività ubiquitina E3 ligasica
mentre TIR1 si lega all’ormone.
Quando il complesso si lega all’auxina si attiva e può quindi
ubiquitinare il suo target. Insieme alle altre ubiquitine (E1 e
E2) trasferisce le ubiquitine su delle proteine chiamate
AUX/IAA. Queste sono dei repressori di geni dipendenti
dall’auxina; queste una volta poli-ubiquitinate così da
distruggerle. La degradazione delle proteine AUX/IAA, che solitamente inibiscono la
trascrizione del promotore, permette ad ARF di dimerizzare dando origine ad un fattore di
trascrizione che permette la trascrizione dei geni dipendenti dall’auxina.
Gibberelline, citochinine ed etilene
Le gibberelline sono numerose e molte di queste non sono molecole biologicamente attive
ma sono parte della biosintesi o della degradazione delle gibberelline attive. Sono costituite
da tre cicli e circa 18 atomi di C.
La via di biosintesi è molto complessa ed è compartimentalizzata in tre diversi organelli: inizia
nei plastidi, si sposta nel reticolo endoplasmatico ed infine vi sono alcuni passaggi nel citosol.
Prendono il nome perché la loro storia nasce dallo studio di un fungo, Gibberella fujikuroi,
questo attacca le piante di riso portando ad un fenotipo gigante. Una volta scoperto che il
fungo produceva questa sostanza, si è capito che questa viene prodotta anche dalle piante
ed è a tutti gli effetti un fitormone. Qual è la sua funzione? Incrementa la crescita della pianta.
La foto mostra due piante, una wt che presenta una crescita normale e quella sinistra con il
gene delle gibberelline KO con un fenotipo nano. La somministrazione esogena di
gibberellina promuove comunque la crescita.
Abbiamo visto che l’auxina è responsabile della crescita cellulare per l’influsso di acqua; le
gibberelline controllano anche loro la crescita cellulare ma agiscono in sinergia con l’auxina
a due livelli:
1. La cedibilità della parete à aumentano la trascrizione di geni che codificano per le
espansine, proteine estruse nell’apoplasto che rompono i legami idrogeno dei
polisaccaridi che formano la parete. Sintesi di proteine di membrana che favoriscono
la traslocazione delle espansine dal citoplasma cellulare alla parete.
2. Divisione cellulare à aumentando la trascrizione di chinasi dipendenti dalla ciclina
(CDK) fondamentali per il ciclo cellulare.
Le gibberelline sono sintetizzate non in siti definiti ma in siti multipli della pianta, così come
in fasi differenti della pianta sono prodotte in zone differenti. Lo studio tramite GUS ci ha
permesso di identificare i siti dove le gibberelline sono sintetizzate.
Ecco riassunti gli effetti controllati dall’auxina che è un regolatore positivo della sintesi delle
gibberelline:
• Accrescimento del fusto (allungamento degli internodi)
• Accrescimento apparato radicale
• Promuovono transizione da fase giovane ad adulta
• Promuovono la fioritura e possono influire sulla determinazione del sesso in piante
con fiori unisessuali (effetto specie dipendenti)
• Promuovono lo sviluppo di polline e tubetto pollinico
• Promuovono lo sviluppo e la germinazione (direttamente connesse alla vernazione –
produzione di amilasi per nutrire il germoglio)

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• Promuovono la fruttificazione (accrescimento del frutto a seguito dell’impollinazione)
e il sovradimensionamento di alcuni frutti anche dove le auxine non hanno effetto
• Devono essere inibite nel SAM per mantenere l’attività meristematica (cellule
staminali) e sono fondamentali nello sviluppo di primordi fogliari.
Il grafico mostra la crescita di due internodi dal fusto di riso, escisi e poi cresciuti in due
soluzioni: una con gibberelline e una senza. Senza l’aggiunta delle GA3 si ha una curva
specifica nel tempo che cambia totalmente in caso di aggiunta dell’ormone. Si ha prima un
periodo di latenza (la GA3 ha un effetto a lungo termine al contrario dell’auxina) fino a quando
non si raggiunge una curva di tipo esponenziale molto ripida.
Controllano anche il passaggio dalla fase giovane a quella adulta della foglia insieme a quello
della fase adulta vegetativa a quella riproduttiva. Il trattamento di alcune specie di piante con
GA3 fa sì che il passaggio alla fase riproduttiva avvenga in tempi molto molto brevi rispetto
a quelli canonici e biologici.
Il non corretto sviluppo dell’apparato fiorale è
dipendente da questi ormoni in quanto il gene
che è responsabile di questo fenomeno è sotto
stretto controllo delle gibberelline.
Le gibberelline sono importanti per la
germinazione: il germoglio produce le GAs che
vengono poi traslocate nella zona dove è
contenuto l’amido (sorgente di zuccheri per il
germoglio). Qui agiscono al livello delle cellule
dell’aleurone che produrranno enzimi idrolitici
che metabolizzano l’amido producendo
zuccheri semplici. In particolar modo l’amilasi.
Esse non sono presenti nel meristema apicale
del germoglio perché così la struttura delle
cellule del meristema è mantenuta (cellule
indifferenziate con alto tasso di divisione).
Meccanismo molecolare di azione delle gibberelline
Meccanismo del tutto identico a quello di azione dell’auxina.
A livello nucleare, in assenza di gibberelline, vi sono dei
repressori dei geni dipendenti da questi ormoni (DELLA
repressor). Questi repressori sono caratterizzati da un
dominio DELLA (per la sequenza aminoacidica) che si lega
ai fattori trascrizionali legati al promotore bloccandone la
trascrizione.
In presenza di gibberelline, i recettori intracellulari (GID1)
quando legano l’ormone al loro sito di legame reclutano il
complesso SCGGID2 ubriquitina E3 ligasi (come per
auxina). Questo complessa marca la degradazione della
proteina DELLA permettendo quindi l’attivazione dei geni
gibberellina dipendenti.
Citochinine
La zeatina è la citochinina più importante e la loro struttura deriva dalla metabolizzazione
dell’adenina. L’ormone ha in posizione N6 un sostituente che non è presente nel nucleotide
(sono diversi i sostituenti e determinano il tipo di citochinina). Esse controllano la divisione
cellulare in quanto controllano la trascrizione dei geni delle chinasi ciclina-dipendenti (CDK).
Esse sono state individuate in una serie di esperimenti che cercavano di mantenere in vita
cellule di pianta indifferenziata in vitro (calli). I calli sono delle strutture amorfe di cellule

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vegetali indifferenziate e che sono in grado di proliferare; essi sono indotti da un certo
rapporto tra citochinina e auxina.
Le citochinine sono legate all’Agrobacterium tumefaciens: questo crea delle neoplasie nelle
piante per potersi insediare al suo interno (tumore del colletto); questo grazie alla produzione
di citochinine. Questo batterio, oltre al suo
DNA, possiede un plastidio che grazie alla
ricombinazione omologa può essere inserito
nelle cellule vegetali infettati dal batterio
(così da modificarne il fenotipo e le proteine
prodotte). Questo plastidio contiene i geni
per tre vie di biosintesi: quella dell’auxina,
quella delle citochinine e quella dell’opina
(fonte di azoto e carbonio). Una certa
concentrazione dei due ormoni porterà al de-
differenziamento delle cellule che
inizieranno a dividersi dando origine ad una
galla (tumore). La rimozione della galla e la sua sterilizzazione, se tenuta in coltura mantiene
la sua capacità proliferativa.
Il sito principale di sintesi delle citochinine è il meristema apicale della radice; qui grazie allo
xilema (trasporto per gradiente idraulico) viene spostato al fusto e alle foglie dove agiscono.
Ecco gli eventi controllati dalle citochinine:
• Morfogenesi dei germogli e delle radici (regolano la velocità di divisione cellulare del
SAM e inibiscono quella del RAM)
• Coinvolte nella dominanza apicale (auxina inibitore dei SAM, viene trasferita nei
meristemi secondati dove blocca la produzione di citochinine per mantenerli
quiescenti)
• Ritardo della senescenza fogliare
• Promuovono il movimento dei nutrienti nella via floematica. I nutrienti sono importanti
verso i tessuti trattati con citochinine, forse mediante smobilitazione di nutrienti nella
zona del pozzo al fine di richiamarne altri nella zona della sorgente
• Sviluppo del cloroplasto
I diversi rapporti di auxina/citochinine inducono la formazione di radici (alti rapporti) e di
germogli (bassi rapporti) a partire da calli. Rapporti intermedi fanno ingrossare il callo, ma
senza differenziamento.
Ma cosa vuol dire che le citochine sono fondamentali per la proliferazione delle cellule del
meristema apicale del germoglio: a sinistra una pianta wt e a destra due transgeniche dove
è stata over-espressa una proteina che degrada le citochinine. Le due piante presentano
una porzione aerea molto poco sviluppata al contrario del controllo; la porzione radicale vede
invece la proliferazione nelle piante transgeniche.
La colorazione dei nuclei con DAPI mostra il RAM
di una pianta che ha le citochinine degradate
come molto più grossa rispetto ad una pianta
wild type. Ecco spiegato l’effetto della crescita
della radice in funzione della concentrazione
delle citochinine: l’andamento è gaussiano.
Anche le auxine avevano lo stesso andamento
ma gli effetti non sono dovuti ad un innalzamento
generico ma dipendono da particolari aumenti. Vi
sono dei range di concentrazione ottimali e altri
sub-ottimali che generano degli effetti diversi.

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L’abbassamento delle citochinine a livelli ottimali stimola la crescita delle radici mentre una
concentrazione meno ottimale porta ad un’inibizione della crescita.
Quello che conta di più non è il semplice aumento di un ormone ma l’aumento o la
diminuzione dei rapporti tra due ormoni che portano quindi ad effetti differenti: alte
concentrazioni di IAA e basse di Citochinina portano ad un maggiore sviluppo dell’apparato
radicale; la situazione opposta sviluppa gli apparati aerei. Concentrazioni equimolari o
rapporti equilibrati mantengono il callo nella sua condizione di cellule indifferenziate.
Le citochinine sono fondamentali perché richiamano i nutrienti verso gli organi che li
necessitano. L’esperimento mostra tre piante trattate differentemente: la prima con una
soluzione di controllo dove lo zucchero viene iniettato nel cotiledone destro e si diffonde in
piccola parte anche al sinistro; la seconda trattata con una soluzione di citochinine, questa
diventa una forte regione pozzo che
attira il composto radioattivo dal
cotiledone di destra accumulandolo
tutto in quello di sinistra; nella terza
pianta il cotiledone di destra viene
iniettato con il composto radioattivo e
spruzzato con la soluzione di citochinine
che lo fanno diventare un pozzo senza
alcun trasporto nell’altro cotiledone.
Le citochinine sono anche importanti nel rallentare la senescenza fogliare
(legata ad etilene). L’over-espressione di questi ormoni portano ad un fenotipo
in cui le foglie sono ancora molto verdi e piene di vita mentre quelle della pianta
wt, con la stessa età, sono tutte appassite.
Un altro compito è quello dello sviluppo del cloroplasto: essi si differenziano
mediante la luce. Al buio la pianta presenta dei plastidi e non i cloroplasti ma il
trattamento di una pianta con citochinine fa sì che si sviluppino cloroplasti
anche al buio.
Meccanismo di azione molecolare delle citochinine
Il sistema non è come quello di auxina e gibberelline ma è un sistema del tipo a due
componenti (come nei batteri pag.77). Uno dei due componenti è un sensore istidina chinasi
con due domini (dominio rosa che percepisce il segnale e il dominio chinasico – un’istidina
chinasi che si autofosforila su questo aa); il secondo componente è il regolatore della
risposta con due domini (un dominio viola – aspartato chinasi – fusa con il dominio output
che porta alla trascrizione genica).
Una volta autosforilata la His del primo componente, il
fosfato viene passato all’aspartato chinasi che attiva la
trascrizione. Questo
è come funziona nei
batteri, nelle piante è
più complicato. Vi
sono tre componenti:
1. Sensore ibrido
istidina chinasi à
troviamo il dominio input che lega le citochinine, fuso a
questo vi è il dominio istidina chinasi che è, a sua volta,
legato ad un dominio ricevente.
2. Hpt (AHP) à istidina chinasi intermedia
3. ) à come nei batteri è formato da due domini:
aspartato chinasi e dominio output. Ve ne sono di due tipi

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Il sensore istidina chinasi è una proteina di membrana con un dominio extracellulare
(CHASE) deputato al legame con la citochinina; una volta legata il dominio His-kinase viene
fosforilato e a sua volta, passa il fosfato al dominio ricevente.
Quest’ultimo va a fosforilare la seconda istidina chinasi AHP (intermedia) – questa può ora
traslocare nel nucleo per fosforilare le proteine ARR (proteine di risposta). Distinguiamo il
tipo A che è costituito da un singolo dominio (chinasi aspartato dipendente) che si attiva e
andrà a fosforilare altre proteine o fattori trascrizionali per la trascrizione di geni. Può anche
fosforilare i fitocromi. Il fattore di risposta di tipo B è formato da due domini in cui l’output
lega il promotore dei geni che regolano i fattori di risposta di tipo A (solo loro vanno ad
attaccare i geni della risposta).
Il tipo B funge da feedback positivo per aumentare i sistemi output A.
Etilene
Esso è un ormone gassoso. Un evento fortuito è
quello notato da uno studente russo il quale le
piantine su cui lavorava sviluppavano il fenotipo
della tripla risposta. Le piantine presentavano un
ipocotile molto tozzo (espansione orizzontale più
favorita rispetto a quello longitudinale per la
presenza di etilene – riorganizzazione dei
microtubuli in parallelo all’asse maggiore) e poco
sviluppato in altezza, l’apparato radicale era molto ristretto e l’apice molto curvato. Si sono in
seguito resi conto che ciò che provocava questa situazione erano gli alti livelli di etilene
presenti nel laboratorio.
Qual è il senso fisiologico? Le piantine germinano sottoterra per poi uscire e completare lo
sviluppo; la presenza degli ostacoli porta al blocco della crescita. Si pensa che il blocco porti
alla produzione di etilene con un fenotipo simile a quello descritto. Ma perché? Questo
fenotipo sembra essere adatto per la spinta dell’ostacolo che la plantula presenta sopra di
se, così da uscire e poter riprendere la crescita normale.
L’etilene è conosciuto come l’ormone della senescenza non solo delle foglie ma anche quella
dei fiori e dei frutti ma anche la produzione di radici avventizie. Questi due fenomeni li
avevamo già associati all’auxina ma essa li controlla solo indirettamente: essa controlla la
sintesi di etilene che a sua volta porta a questi fenomeni.
Ecco alcuni fenomeni controllati dall’etilene:
• Senescenza fogliare e abscissione (auxina induce abscissione inducendo la
produzione di etilene)
• Maturazione del fiore e del frutto
• Produzione di radici avventizie (auxina mediante la produzione di etilene)
La produzione di etilene è indotta anche dallo stress.
Ecco come l’etilene causa l’abscissione fogliare: questo vi è una zona. La zona di abscissione,
dove vi è l’accumulo di etilene e la produzione di enzimi litici da parte delle cellule in quel
punto. Questi enzimi vanno a digerire le pareti della zona di abscissione rendendole molto
sottili ; il rigonfiamento delle cellule fa sì che queste si stacchino nel punto dove vi è il vaso
con la conseguente caduta. Nelle giovani foglie vi è l’auxina che inibisce l’etilene che non
viene quindi prodotto e permette la crescita delle foglie; a maturazione e senescenza i livelli
di auxina si abbassano e l’etilene viene prodotto.
L’etilene è anche l’ormone della maturazione: l’inibizione della via di biosintesi dell’etilene
permette ai frutti di rallentare la loro maturazione.

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Meccanismo di azione molecolare dell’etilene
In alto vi è la situazione in assenza
di etilene: il recettore per l’ormone
(ETR1) è un dimero di membrana
del RE; questo perché essendo un
gas lipofilo penetra facilmente in
cellula (forse perché vicino al
nucleo e rende la risposta più
veloce). Questo recettore ha un
dominio citoplasmatico a cui è
legata una proteina chinasi (CTR1)
che lega poi una seconda proteina
citoplasmatica (EIN2 - nella
membrana del RE). La
fosforilazione di questa proteina ne
segnala la degradazione. Nel
nucleo vi sono due proteine
(EBF1/2 – parte della famiglia F-Box di cui facevano parte anche il recettore intracellulare
dell’auxina sia quello delle gibberelline). Esse sono proteine regolatrici del complesso
multiproteico EIN3/EIL1 mancandone la degradazione.
In presenza di etilene: esso si lega al suo recettore sulla membrana del reticolo
endoplasmatico che disattiva CTR1. Questa disattivazione impedisce la fosforilazione di
EIN2 che, al contrario, va incontro a proteolisi che stacca la porzione C-terminale. Questa
porzione ha una sequenza di localizzazione nel nucleo, qui impedisce ad EBF1/2 di legare
EIN3/EIL1 così da non degradarlo.
Questi si legano al promotore del fattore di trascrizione ERF1 che, a sua volta, si lega al
promotore dei geni dipendenti dall’etilene permettendone la trascrizione.
Un altro meccanismo attraverso cui la porzione C-terminale di EIN2 agisce per inibire la
degradazione di EIN3/EIL2 è di agire sugli mRNA di EBF1/2 localizzandoli nei corpi di
inclusione (strutture in cui vengono accumulate molecole che devono essere inibite –
sequestro e digestione).
ABA – Acido abscissico
La via di biosintesi ha inizio dai carotenoidi: la zeaxantina è un precursore fondamentale. Alla
fine della via vi sono due importanti modificazioni che può subire: ossidazioni o glicosilazione;
sono modi per accumulare ABA in forma non attiva. Il pathway si divide tra i plastidi e il
citoplasma.
Cosa controlla ABA a livello degli organi:
• Inibizione della germinazione (fa entrare in dormienza gli embrioni maturi) à effetto
regolato dal rapporto ABA/GA più che dal valore assoluto di ABA nel seme. Gli
embrioni maturi hanno alti livelli di ABA perché in condizioni di stress è meglio non
germinare.
• Risposta allo stress idrico: chiusura degli stomi, abbassamento del potenziale idrico
così da assorbire acqua dal suolo, favorita la crescita della porzione radicale.
• Promuove l’accumulo di sostanze di riserva nel seme e la tolleranza della
disidratazione (fino al 90% della perdita di acqua) mediante la produzione di lipidi e
proteine ad hoc per la resistenza e la disidratazione.
• Inibisce le GA che producono amilasi (enzimi litici) e quindi inibisci le vie di
metabolismo delle riserve del seme per la crescita del germoglio.
• Quiescenza invernale delle gemme

100
Viviparia à fenomeno che porta alla germinazione precoce, ancora prima che cada al suolo.
La presenza di ABA permette di bloccare questo fenomeno.
La risposta allo stress è quella più
menzionata: il mutante che non produce
l’ormone presenta un fenotipo molto
particolare infatti le foglie sono molto
avvizzite a causa della grossa perdita di
acqua. Il grafico mostra andamento del
contenuto di acqua all’interno di queste
piante.
Come viene trasportato e assorbito l’ABA
nelle cellule target? Esso è trasportato a
livello floematico.
Nella radice vi sono una serie di trasportatori sulle cellule del floema; essi sono trasportatori
sia per il caricamento che per lo scaricamento di questo ormone. Trasportato a livello
floematico fino alle foglie dove arriva alle cellule del mesofillo tramite dei trasportatori.
A livello della membrana plasmatica delle
cellule di guardia vi sono i trasportatori però
uno per il caricamento e uno per lo
scaricamento.
Un meccanismo che in parte regola il rilascio
di ABA a livello delle foglie è simile a quello
dell’auxina (intrappolamento acido). La pKa è
leggermente più alta di quella della IAA ma la
sua protonazione e de-protonazione dipende
dal pH. Nel mesofillo il pH, in condizioni normali, è debolmente acido e qui l’ABA si trova in
condizione deprotonata immagazzinandosi li; alle cellule di guardia arriva una quantità di
ormone molto bassa. Mentre, in condizioni di stress, il pH diventa leggermente basico e la
molecola diventa carica quindi rimane intrappolata nelle cellule del mesofillo che poi
raggiunge le cellule di guardia facendo chiudere gli stomi.
Ecco la risposta indotta dall’ABA in caso di stress idrico: la chiusura degli stomi.
Si è scoperto che la chiusura degli stomi
dipende dall’ABA prodotto in loco a livello
delle foglie, ancora prima di quello che
giunge dall’apparato radicale. Non è
quindi questo il segnale che provoca la
chiusura degli stomi.
Ecco due vie di segnale: una che parte
dalle radici e una che parte dalle foglie.
In caso di abbassamento di potenziale
idrico del suolo, l’apparato radicale
produce un piccolo peptide (CLE25) che
viene traslocato nelle foglie. Sulla
membrana plasmatica delle cellule di
guardia vi sono dei recettori (BAM1 e
BAM3) parte della famiglia Leucina-chinasi. Possiedono un dominio citoplasmatico con
attività chinasica, una porzione transmembrana e una esterna che lega i piccoli peptidi. La
loro attivazione da inizio ad una cascata di segnale che ha come prodotto la trascrizione di
un enzima (NCED3), fondamentale per la sintesi di acido abscissico. La produzione di ABA
poi porta alla chiusura degli stomi.
Vi è una seconda via: lo stress non è solo la siccità ma anche un’esposizione a forti intensità
di luce solare. Come rispondono le foglie? La risposta avviene in loco, nelle foglie, tramite la

101
produzione di ABA. Esso viene quindi sintetizzato nel sistema vascolare e nelle cellule di
guardia ma utilizza un sistema più complesso. Vi è l’utilizzo di secondi messaggeri come il
calcio e i ROS. In questo sistema di chiusura è coinvolto anche un secondo ormone: l’acido
Jasmonico.
Meccanismo molecolare di ABA
Il meccanismo a lungo termine è molto simile a quello a breve
termine. Il suo recettore è di tipo intracellulare (PYR1 – ve ne
sono 3); una volta legato al suo recettore si va a creare un
complesso formato da PYR1 e PP2C (una fosfatasi); questo ha
il compito di inattivare la proteina. Il target di PP2C è SnRK2,
delle fosfatasi che si attivano tramite la loro fosforilazione (in
assenza di ABA vengono defosforilate da PP2C). Una volta
attivate si ha una cascata di fosforilazioni che solitamente ha
come target finale un fattore di trascrizione che andrà ad
attivare le risposte ABA-dipendenti.
Le risposte a breve termine sono simili, analizziamo ora la
chiusura degli stomi.
Il sistema è molto complesso ed è di natura osmotica: coinvolge canali che provocano
movimento di soluti con la fuoriuscita di acqua.
In assenza di ABA:
le proteine PP2Cs sono attive e quindi
possono defosforilare diverse proteine
(GHR1, CPKs, SnRK2s) coinvolte nel
processo di chiusura. Vi sono poi
ulteriori target: canali di Ca2+, attivati
dalla fosforilazione; GHR1, proteina
chinasi attivata dai radicali liberi (auto-
fosforilazione); SLAC1, canale del cloro
che dipende dalla fosforilazione; canali
anionici (ALMT12, canale per il malato
e QUAC1 canale del cloro) che
controllano l’omeostasi degli anioni.
Questi canali non sono direttamente
regolati da PP2C ma la loro
fosforilazione dipende dalle SnRK2.
In presenza di ABA:
il legame dell’ormone con il suo
recettore inibisce la proteina PP2C e si ha quindi l’attivazione di tutti gli elementi prima
inattivati dalla proteina.
I canali di calcio sono attivati da una fosforilazione sul dominio intracellulare (GHR1 – chinasi
attivata dai ROS che va a fosforilare il canale; CPKs sono delle chiasi che vengono attivate
dalla presenza di calcio all’interno – feedback positivo). Sia le chinasi appena attivate sia la
famiglia SnRK2 fosforilano ed attivano SLAC1 (efflusso di cloro per gradiente
elettrochimico); con un rinforzo positivo SnRK2 possono essere ulteriormente fosforilate
dalle chinasi calcio-dipendenti così da aumentare i target finali. Altri due infatti sono
QUAC1/ALMT12 che implementano l’uscita di soluti dalle cellule.
Infine, a causa dell’efflusso, vi è una depolarizzazione della membrana plasmatica che porta
all’apertura dei canali del K+ con la conseguente fuoriuscita dello ione.
I brassinosteroidi (BR)
Sono ormoni steroidei che hanno origine da uno steroide. Si chiamano brassino perché sono
stati indentificati in una specie di pianta.

102
L’esperimento mostra delle piante di pisello con degli innesti misti: wt radice/aerea + BR-
deficient radice/aerea.
Il fusto della pianta mantiene un fenotipo nano in quanto la produzione
di BR non viene traslocata dalle radici al fusto. Essi sono quindi ormoni
paracrini che non hanno funzioni a lunga distanza. Le altre
combinazioni invece mostrano i vari fenotipi dipendenti dal genotipo
wt o BR-deficient.
In caso di over espressione di un gene della sintesi di BR porta ad un
enorme accrescimento della pianta, al contrario del wt che rimane
normale.
Ma come agiscono i BR?
Analizziamo prima i tempi necessari per avere un aumento della
dimensione del fusto a seguito di somministrazione di BR. All’inizio si
ha un momento di lag di circa 45min prima che inizi la fase
esponenziale. Questo lag-time indica che i BR non agiscono
determinando in maniera osmotica l’espansione cellulare, ma sono dei fenomeni long-term
(auxina e ABA impiegano 10/15min). Questo vuol dire che l’espansione cellulare è mediata
dalla sintesi di proteine coinvolte nel cedimento della parete
(espansine, proteine di sintesi della membrana e della parete, come
anche i geni che codificano per le CDK).
Un’altra cosa fondamentale è la modulazione l’assetto dei
microtubuli all’interno delle cellule vegetali. La corretta espansione
in senso longitudinale di una cellula vegetale dipende
dall’organizzazione dei microtubuli. L’immagine mostra delle linee
verdi (microtubuli colorati con GFP) che corrono parallele all’asse principale. I BR sono
coinvolti in questa regolazione; infatti, la pianta deficiente per i BR porta ad un’organizzazione
random. La somministrazione endogena di questi ormoni
porta al recupero dell’organizzazione dei microtubuli.
I brassinosteoidi hanno un’azione sinergica con IAA e GA:
l’auxina inibisce, a determinate concentrazioni, la crescita delle
radici primarie ma attiva quella delle radici laterali. Ecco come
i BR agiscono insieme al primo ormone per favorire la sintesi
di queste radici.
A concentrazioni basse di auxina (1-20nM) si ha un piccolo
aumento della crescita che diventa esagerato oltre i 20nM.
Con la presenza di BR l’aumento diventa molto evidente
anche a concentrazioni bassissime di IAA.
I BR inibiscono, probabilmente, la crescita della radice primaria
tramite la produzione di etilene.
Il corretto sviluppo del sistema vascolare, oltre ad essere
controllato l’auxina, è controllato dai BR che determinano un
giusto rapporto tra la porzione xilematica e quella floematica.
Il P è molto meno diffuso dello X, infatti piante mutanti nella
sintesi di BR presentano uno squilibrio nel rapporto P/X che va
a favorire il primo.
Meccanismo molecolare di azione dei BR
I recettori sono ubiquitari e fanno parte della famiglia Leucine-repeat Kinase Receptor (è lo
stesso recettore che media la risposta allo stress idrico degli ABA nella chiusura degli stomi).
Si chiamano così perché hanno un dominio extracellulare che è ricco in leucina.
Ma come funzionano? Vi è un dominio di legame al ligando nella porzione extracellulare, una
porzione transmembrana ed infine il dominio C-terminale con l’auto-inibizione.

103
Quando il brassinosteroide si lega al suo recettore si hanno dei cambiamenti
conformazionali che sono trasmessi al dominio transmembrana e a quello chinasico (si
attiva). Esso fosforila il C-terminale inibitorio e si auto-fosforila determinando la loro
associazione con una proteina della stessa famiglia (non è un recettore): BAK1. Ha un
dominio Leucine-repeat ma non lega i BR; essa si lega al dominio citoplasmatico di BR1 (la
prima viene fosforilata).
Il complesso va ad agire sulla proteina BIN2 (una chinasi – sia sulla membrana plasmatica
sia a livello nucleare); essa, nel nucleo, fosforila due fattori trascrizionali (BES1/BZR1) che
attivano i geni sotto il controllo dei BR.
In assenza di BR, BIN2 è attiva e fosforila il complesso dei fattori di trascrizione che vengono
poi degradati. In presenza dei BR, per una via ancora non nota si ha l’inibizione di BIN2, i due
fattori di trascrizione vengono defosforilati (BSU1) che permette il legame con il promotore
dei geni BR-dipendenti: in caso di legame di BES1 si avrà l’attivazione della trascrizione, in
caso di legame di BZR1 si avrà la repressione dei geni.

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