Sei sulla pagina 1di 4

IL CONTRATTO DI MERCHANDISING

Il marchio è quel segno distintivo che identifica il produttore di quel determinato bene.
Il contratto di merchandising riguarda è un contratto atipico attraverso cui si permette al titolare di un
marchio di concederlo in uso a terzi per apporlo su beni diversi da quelli per cui è nato.
Inizialmente azienda e marchio erano legati, infatti non si poteva apporlo su beni non prodotti dall’azienda;
per farlo occorreva trasferire, totalmente o parzialmente, l’azienda.
Questa visione statica del marchio è stata superata grazie alla “legge marchi”, la quale ha consentito, per
talune categorie di marchi, di poterli apporre su beni di terzi diversi da quelli per cui il marchio è nato.
Tuttavia, come detto, ciò non è possibile farlo per tutti i marchi ma solo per quelli che hanno assunto una
certa notorietà tra il pubblico (es. Ferrari, Gucci, Coca Cola).
Es. il marchio Coca Cola lo vediamo apposto anche su magliette, oltre che sulle bevande.

Vantaggi e svantaggi a carico delle parti del trasferimento del marchio


Un vantaggio che il licenziante ottiene dalla concessione dell’uso del marchio su beni di terzi diversi da
quello per cui è nato è la “possibilità di ampliare la platea di soggetti che acquistano il marchio”, poiché
esso viene apposto su beni diversi da quello per cui è nato. Es. la Ferrari non guadagnerà solo perché vende
auto ma anche perché grazie a quel marchio vengono venduti altri prodotti diversi.
A sua volta, uno svantaggio che ottiene il licenziatario (cioè colui che può utilizzare il marchio altrui) è “la
forza del marchio”, la quale gli da un vantaggio competitivo in quanto vendere una maglietta con marchio
Ferrari e più facile che vendere di una maglietta senza marchio perché grazie al marchio è più facile colpire
una certa cerchia di consumatori sensibile al fascino di quel marchio lì.
Lo svantaggio principale per il licenziante può essere “un danno d’immagine”, il quale si verifica
allorquando il licenziatario nella produzione dei suoi beni non mantiene gli stessi standard qualitativi che
invece caratterizzano i beni prodotti dal licenziante.
Es. se compro un paio di occhiali Ferrari mi aspetto un bene di alta qualità.
Ecco perché quando viene stipulato il contratto il licenziante cerca di mantenere un certo controllo sullo
standard di qualità che il licenziatario dovrà rispettare, ma anche sulle politiche di marketing che dovrà
adottare (onde, appunto, evitare un danno d’immagine legato a come i consumatori percepiscono il
marchio).
Lo svantaggio principale per il licenziatario può essere “l’abuso di posizione su diritti che generano
dipendenza economica”, ossia il verificarsi di quelle patologie tipiche del terzo contratto.
Ad esempio, è ovvio che la presenza di una clausola che permetta al licenziante di poter recedere in
qualunque momento dal contratto crea un danno al licenziatario allorquando il licenziante se ne avvalga
ancor prima che il licenziatario abbia ammortizzato i costi sostenuti per la concessione in uso del marchio.
Es. se spendo 100.000 euro per ottenere in concessione d’uso il marchio Ferrari e nel contratto c’è messo
che Ferrari può in qualsiasi momento recedere dal contratto, quindi togliermi la possibilità di usare il
marchio, è ovvio che qualora decidesse dopo 10 giorni di avvalersi del suddetto diritto io licenziatario sarei
nei guai poiché non avrò avuto il tempo di ammortizzare il costo sostenuto per ottenere in concessione il
marchio.
Proprio per questo il licenziatario quando stipula il contratto è interessato a garantire che esso abbia una
durata minima utile a permettergli, anzitutto, di ammortizzare il costo sostenuto per l’ottenimento della
concessione in uso del marchio.
Altro aspetto che interessa molto il licenziatario è quello di cercare di far si che la concessione dell’uso del
marchio sia in esclusiva. Infatti, per me licenziatario è molto importante che all’interno dell’area geografica
in cui opero sia l’unico a poter usare quel marchio poiché se vi sono altri che possono vendere il medesimo
bene con lo stesso marchio per me ciò crea un danno agli affari (in quanto aumenta la concorrenza).
Altro problema che riguarda il merchandising e che riguarda sia il licenziante che il licenziatario è il
fenomeno della imitazione servile (c.d. contraffazione) del marchio.
Il prof fa leggere un contratto messo su studium
Nella lettera B fa vedere che il licenziate si sta tutelando nei confronti del licenziatario, sottolineando che il
suo marchio è un marchio di alta qualità che va bene per ogni settore merceologico. Fatto ciò, il prof
raccomanda di non confondere il contratto di merchandising con il contratto di sponsorizzazione.

RAPPORTI TRA TRUST, NEGOZIO FIDUCIARIO E NEGOZIO INDIRETTO

In senso lato, l’operazione può essere definita come quel contratto attraverso cui il disponente trasferisce la proprietà di
un bene (mobile, immobile o strumenti finanziari) o patrimonio a un altro soggetto detto beneficiario; con l’obbligo da
parte di quest’ultimo di gestire, godere o trasferire il bene nell’interesse del disponente o di un terzo soggetto (ma mai
nel proprio interesse).
Dunque, condizione imprescindibile del trust è “l’effetto segregativo” o di “segregazione patrimoniale”.
Effetto che ha due funzioni:
A) Una piena dissociazione tra proprietà formale e proprietà sostanziale.
Infatti, tramite il contratto di trust il proprietario formale del bene sarà il beneficiario, ma il proprietario sostanziale del
bene sarà colui nel cui interesse il patrimonio/bene deve essere gestito – usato – alienato.
B) La creazione di un patrimonio autonomo rispetto al patrimonio del disponente e del beneficiario.
Infatti, tramite il contratto di trust il patrimonio/bene che ne è oggetto non è né nella disponibilità del disponente e
nemmeno è nella disponibilità del beneficiario (visto che deve gestirlo – usarlo – alienarlo nell’interesse del beneficiario
o di un terzo soggetto). Ciò fa si che su tale patrimonio/bene non possano soddisfarsi ne i creditori del disponente e
nemmeno i creditori del beneficiario; gli unici soggetti che potranno soddisfarsi su tale patrimonio/bene sono i creditori
che hanno assunto tale qualità a seguito della gestione del suddetto.
Ciò detto, il trust è un istituto di origine antiche sviluppato nei sistemi common low che si basa sulla “fiducia”, infatti il
patrimonio/bene non viene trasferito in capo a qualunque beneficiario ma solo in capo a quel beneficiario su cui ripongo
fiducia sul fatto che sappia operare una corretta gestione del patrimonio in funzione del soddisfacimento dell’interesse
di soggetti terzi o del mio stesso interesse (trust auto-dichiarato).
Ciò detto, il contratto di trust è pienamente ammissibile nei paesi common low mentre provoca problematiche varie
in merito alla sua ammissibilità e applicazione all’interno del nostro ordinamento.
Infatti, anzitutto, questo tipo di contrasto si pone in contrasto con numerosi principi del nostro ordinamento.
Ad esempio, nel nostro ordinamento esiste il contratto fiduciario, il quale sembrerebbe simile al trust ma in realtà se ne
discosta profondamente. Infatti, il negozio fiduciario nel nostro ordinamento rientra all’interno della categoria del
negozio indiretto, ossia di quel negozio attraverso cui si utilizza uno schema negoziale tipico (es. vendita, donazione,
somministrazione, ecc) di per sé dotato di una propria causa/contenuto ma che attraverso l’inserimento di apposite
clausole persegue uno scopo che appartiene ad altro negozio giuridico pur sempre tipico. Quindi si usa il contratto di
compravendita, il cui effetto diretto è trasferire la proprietà del bene, per perseguire (attraverso l’inserimento di
apposite clausole) un effetto ulteriore e indiretto, che in questo caso è quello di costituire una garanzia reale a favore
del creditore (il quale rappresenta il vero motivo per cui il contratto di compravendita viene posto in essere).
Tipiche figure sono la fiducia curm amico e la fiducia curm creditore.
Nella fiducia curm creditore il fiduciante è debitore del fiduciario. Il fiduciante potrebbe ricorrere a meccanismi di
garanzia reale o personale (es. fideiussione, contratto autonomo di garanzia, ecc). Invece, si attua un’operazione più
sofisticata. Si stabilisce che il fiduciante stabilisce la proprietà su un determinato bene mobile o immobile al fiduciario e
viene previsto un ulteriore “patto di fiducia” a latere del contratto in cui si stabilisce che qualora il fiduciante sia
adempiente al debito assunto (e quindi paga il fiduciario), il fiduciario sarà obbligato a ritrasferire il bene al fiduciante.
Dunque si ha un effetto reale traslativo (perché viene trasferito il bene) e un effetto obbligatorio (che nasce dalla
presenza del patto fiduciario, il quale mi limita ed incide sull’effetto traslativo).
Ciò detto, qualcuno potrebbe pensare che il contratto di trust si avvicini molto (assomigli molto) al contratto fiduciario,
ma in realtà le differenze sono profonde; infatti nel contratto fiduciario non si verifica l’effetto segregativo, ossia la
creazione di un bene/patrimonio destinato, poiché avendo il fiduciario la piena proprietà del bene lo può gestire –
godere e alienare nel proprio interesse e i suoi eventuali creditori possono rifarsi sul suddetto. Ciò implica anche che
non si verifica la dissociazione tra proprietà formale e proprietà sostanziale, in quanto il patto di riscatto ha natura
obbligatoria (non reale) e quindi avvenuto il trasferimento del bene dal fiduciante al fiduciario questi ne acquista a pieno
titolo la proprietà.
Inoltre, proprio perché manca l’effetto segregativo e quindi la dissociazione tra proprietà formale e sostanziale, si ha che
il contratto fiduciario è ispirato alla c.d. fiducia romanistica (poiché il patto di riscatto non è opponibile ai terzi, in quanto
ha natura obbligatoria e quindi vincola solo le parti); mentre il contratto di trust è ispirato alla c.d. fiducia germanistica
(poiché in esso, a seguito dell’effetto segregativo, il patto di riscatto ha natura reale ed è quindi opponibile anche ai
terzi).
In altre parole, dunque, ogni qualvolta il patto di riscatto è ispirato alla c.d. fiducia romanistica non si verrà mai a
realizzare quell’effetto segregativo che permette di opporre il patto anche ai terzi; dunque il rispetto della fiducia riposta
dal fiduciante nel fiduciario non sarà rimessa a meccanismi giuridici ben precisi (come avviene nel trust) ma è rimessa
all’onore, alla lealtà e alla correttezza del fiduciario.
Dunque, altra differenza tra il contratto di trust e il contratto fiduciario è che in quest’ultimo il grado di fiducia che il
fiduciante ripone nel fiduciario è maggiore; infatti, se il fiduciario decide di non essere onorevole, leale e corretto,
potrebbe “fregare” il fiduciante, ad esempio, alienando il bene prima che l’adempimento avvenga facendo si che
l’obbligazione sia comunque estinta ma privando il fiduciario della possibilità di riscattare il bene (cosa che magari
voleva fare) visto che, come detto, il patto di riscatto nel contratto fiduciario non può essere opposto ai terzi (cosa che
invece può essere fatta nel contratto di trust).
In virtù di quanto scritto possiamo dire che nel nostro ordinamento è presente un tipo di fiducia ispirato alla c.d.
fiducia romanistica.
Chiarito ciò, passiamo a vedere perché il contratto di non è compatibile con il nostro ordinamento giuridico.
Il contratto di trust non è compatibile con il nostro ordinamento giuridico perché se stipulato violerebbe 4 principi:
1) Violerebbe l’art. 2740 del c.c. il quale stabilisce che “il soggetto risponde di ogni debito assunto con tutto il suo
patrimonio, presente e futuro, e soltanto può stabilire quali sono le ipotesi di limitazione alla responsabilità
patrimoniale generica”.
Dunque secondo questo articolo il contratto di trust non può trovare applicazione nel nostro ordinamento in quanto
presuppone che i creditori del disponente non possano rifarsi sul bene di cui egli ha la proprietà formale; presupposto
che cozza con quanto previsto dall’art. 2740, il quale stabilisce che è solo la legge che può prevedere ipotesi di
limitazione della responsabilità patrimoniale generica.
2) Violerebbe il principio di tipicità dei diritti reali previsto dal nostro ordinamento.
Nel nostro ordinamento è stabilito che i diritti reali che possono essere costituiti su un bene/patrimonio possono essere
quelli tipici, cioè espressamente previsti dal legislatore: proprietà, usufrutto, diritto di superficie, diritto di servitù e un
altro diritto di cui nella registrazione non si capisce il nome. Il nostro ordinamento non ammette la costituzione su un
bene/patrimonio di diritti reali atipici (cioè non espressamente previsti dal legislatore).
3) Violerebbe il principio secondo cui nel nostro ordinamento si trascrivono, salvo qualche eccezione espressamente
prevista dal legislatore, soltanto gli atti aventi effetti reali e non anche gli atti aventi effetti obbligatori.
4) Verrebbe violato il principio di inopponibilità ai terzi degli atti non trascritti.
Infatti, ragionando per assurdo, se il contratto di trust dicessimo che è ammissibile nel nostro ordinamento ciò
equivarrebbe ad affermare che è possibile opporre ai terzi il vincolo di destinazione patrimoniale che a seguito
dell’effetto segregativo si viene a produrre nonostante tale contratto non possa essere trascritto dato che per il nostro
ordinamento non produce effetti reali (essendo ammessi come tali solo quelli espressamente previsti dal nostro
legislatore). Dunque, la violazione del quarto principio è una conseguenza della violazione del terzo principio.
Per tutti questi motivi il trust si ritiene inammissibile nel nostro ordinamento giuridico.
Tuttavia, dallo stato italiano è stata firmata una convenzione internazionale dell’AIA che regola, seppure in maniera
minimale, il trust. Dunque, a seguito di questa firma, il nostro paese, che per le violazioni prima citate è un paese “no
Trust”, sembrerebbe ammettere l’ammissibilità di questo negozio giuridico nel nostro ordinamento.
Ciò detto, è opportuno chiarire che, in generale, la convenzione internazionale è uno strumento che serve a risolvere
eventuali conflitti tra paesi circa la disciplina giuridica da applicare per regolare una certa fattispecie.
Es. nel caso della successione, se il decuius è un italiano avente beni a londra si pone il problema di capire se per tali
beni l’istituto della successione va regolato mediante legge italiana o legge inglese; per dirimere questa controversia si
usa, appunto, quanto dettato dalle convenzioni internazionali firmate da tali paesi.
Chiarito ciò, possiamo quindi affermare che in generale elemento imprescindibile per l’applicazione di quanto disposto
da una convenzione internazionale è che vi sia una controversia riguardante la diversa legislazione tra due paesi.
Pertanto, ritornando al trust, si ha che la convenzione che l’Italia ha firmato si può applicare solo se tra disponente e
beneficiario vi è una diversa nazionalità (pur essendo entrambi cittadini europei), e in particolare se uno di essi
appartiene a uno stato il cui ordinamento giuridico ammette il trust, o se pur avendo la stessa nazionalità il trust ha
oggetto un bene/patrimonio che si trovi in un altro paese europeo in cui è ammesso il trust.
Dunque occorreva necessariamente una convenzione internazionale per risolvere i conflitti di legge che vi sono tra paesi
con ordinamenti giuridici “no” trust e paesi “pro” trust. Ciò detto, elemento indefettibile dell’applicazione delle
convenzioni è che vi sia una diversa nazionalità tra disponente e beneficiario o che il bene/patrimonio si trovi in un altro
paese europeo a favore del trust (in ambo le due ipotesi si parla di trust esterno).
In conclusione, quindi, il nostro ordinamento, nel rispetto della citata convenzione firmata dall’Italia, ammette solo il
trust esterno poiché tale trust, pur violando i principi del nostro ordinamento è ammissibile in quanto prevale quanto
prevale quanto disposto dalla convenzione internazionale (in quanto gerarchicamente sovraordinata: ricorda il discorso
sulla gerarchia delle fonti fatto alla prima lezione).
Quello che non può essere ammesso nel nostro ordinamento è solo il trust interno, ossia quel trust che coinvolge solo
soggetti italiani e che ha ad oggetto un bene/patrimonio situato in Italia. Infatti, per tale tipo di trust manca l’elemento
di internazionalità che è elemento necessario per applicare quanto previsto dalla convezione firmata dall’Italia e quindi
per giustificare l’applicazione di tale trust nel nostro ordinamento.

Il prof prende la convenzione dell’AIA firmata dall’Italia e rimarca che essa contiene tutti gli elementi essenziali che
connotano la struttura del contratto di trust. Inoltre sottolinea che alcuni ritengono che il trust interno potrebbe
comunque essere ritenuto ammissibile nel nostro ordinamento perché la convenzione contiene appunto la
descrizione dei connotati del trust; tuttavia precisa che questa è una giustificazione debole poiché come detto la
convenzione si applica solo se vi è l’elemento di internazionalità e nel trust interno esso manca.

Potrebbero piacerti anche