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FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA

Quaderni di Acme
113

FELLINI-SATYRICON
L'immaginario dell' antico
a cura di
Raffaele De Berti, Elisabetta Gagetti e Fabrizio Slavazzi

FELLINI-SATYRICON
L'immaginario dell' antico
a cura di
Raffaele De Berti, Elisabetta Gagetti e Fabrizio Slavazzi
Estratto da:

FELLINI-SATYRICON
L’immaginario dell’antico
Scene di Roma antica.
L’antichità interpretata dalle arti contemporanee
I Giornata di studio

Milano, 6 marzo 2007

a cura di
Raffaele De Berti, Elisabetta Gagetti e Fabrizio Slavazzi

Quaderni di Acme 113


2009, Milano
«… VITREA FRACTA ET SOMNIORUM INTERPRETAMENTA?»
FELLINI-SATYRICON E L’ARTE CONTEMPORANEA,
TRA ORIGINARIO, FANTASCIENZA E BEAT

di Giorgio Zanchetti

Quid ego, homo stultissime, facere debui, cum


fame morerer? An videlicet audirem senten-
tias, id est vitrea fracta et somniorum interpre-
tamenta? Multo me turpior es tu hercule, qui
ut foris cenares, poetam laudasti.
Petronio, Satyricon 10, 1-2

Fellini stesso ha definito il suo Satyricon «un film sui marziani»,


descrivendolo, in più occasioni, come un vero e proprio saggio di «fan-
tascienza» del passato:
E così, cominciamo questo viaggio in un mondo sconosciuto. […] In
realtà, il Satyricon è un’operazione impossibile: non so davvero che cosa
ne salterà fuori. È un film che deve affidarsi tutto alla fantasia, ma con
le radici tagliate dal tuo mondo, dal tuo gusto dell’autobiografia. È una
specie di nebulosa. Nutrita poi di niente: perché non voglio fare un film
archeologico, né storico, né di memoria. […] Non voglio fare neanche
Petronio, d’altra parte: come potrei mettere in satira un mondo che non
conosco? La satira ha un senso solo se applicata al mondo che si ha
davanti. Si può fare della satira sui marziani?
[…] Se per magía potessimo tornare a duemila anni fa, e dovessimo
risolvere tutti i problemi, grandi e piccoli, che tale fatto ci imporrebbe,
ci troveremmo un’angoscia da impazzirne. Ecco perché questa è una sto-
ria nella quale si rimane sempre inquieti, impauriti. È un film sui mar-
ziani, un film di fantascienza.1

1 «Dovrebbe avere – continua Fellini – per i suoi spettatori lo stesso fascino che
134 Giorgio Zanchetti

Figura 1 – Fellini-Satyricon, locandina del film, 1969.


Fellini-Satyricon e l’arte contemporanea 135

Evocando questa distanza siderale rispetto alla Roma antica, Fellini


mira dunque a scrollarsi di dosso tanto la stilizzazione del classico conse-
gnata alla tradizione dall’accademia ottocentesca e dal cinema di genere
(sul quale, tra retorica di regime ed evasione popolare, si era formato il suo
stesso immaginario filmico), quanto i propri stilemi personali, autobiogra-
fici, satirici e morali. E lo fa, dopo l’attualizzazione già messa in campo con
la figura romantica e maledetta di Toby Dammit, proiettando simbolica-
mente i suoi belli e dannati fine anni Sessanta sul fondale di una romanità
corrotta e inintelligibile, aliena, nella sua arcaicità, come le fantasiose civil-
tà di altri pianeti tratteggiate dalla letteratura, dal cinema e dai telefilm di
fantascienza di quegli anni. La stessa immagine propagandistica del film si
affida, per fare un solo esempio, ad un’accurata impaginazione grafica (con
le figure ritagliate sovrimpresse a fotomontaggio su un cielo nero e un sot-
tile fascio di luce blu a segnare l’orizzonte) e ad un lettering tipici del cine-
ma fantascientifico (Fig. 1), senza concedere nulla all’evocazione classica o
letteraria e al gusto archeologico (l’affresco sfaldato del finale) pur presen-
te nella pellicola.
Fellini lavora quindi sistematicamente non sulla ricostruzione o sulla
riconoscibilità dell’antico, bensì sulla distanza della raffigurazione, sugli
aspetti complementari del primitivismo e di un glamour futuribile, legati
alla più stretta attualità dell’arte contemporanea e della cultura giovanile.
Questo originale sguardo sull’antichità, infatti, è filtrato attraverso il
nuovo interesse del regista per la cultura hippie e per la psichedelia.
Come ricorda Dario Zanelli, nel saggio-dialogo che accompagna l’edizio-
ne a stampa della sceneggiatura del film, la genesi del Satyricon si intrec-
cia indistricabilmente con la profonda crisi professionale e umana attra-
versata da Fellini durante la preparazione de Il viaggio di G. Mastorna e
con la malattia che aveva suggellato la rinuncia a quel progetto:

La prima volta che l’autore mi accennò al tema del film fu nell’estate del
’67. Seduto nell’atrio di un hotel residenziale dell’EUR, che per lui rap-
presentava a quel tempo l’alternativa romana alla casa di Fregene, il regi-
sta mi aveva rievocato le drammatiche fasi della malattia, che proprio lì,
nel medesimo albergo, gli era piombata addosso una brutta sera di aprile,

avevano per noi i primi film giapponesi: film che ti davano un continuo senso d’incer-
tezza, perché non sapevi mai se i loro personaggi ridevano oppure piangevano, perché i
salti improvvisi, gli urli ferini di Toshiro Mifune ti lasciavano sbalordito, esterrefatto …»
(ZANELLI 1969a, pp. 43-44).
136 Giorgio Zanchetti

portando così ad un fisiologico punto di rottura anche quella crisi interio-


re ch’egli stesso aveva anticipato e descritto – con l’intúito dell’artista –
nell’autobiografico 8 / . Dalla malattia (una pleurite allergica di difficile
1
2

diagnosi: fenomeno Sanarelli-Schwartzman) il discorso si era spostato


sulle medicine usate per guarirla; e dalle medicine era poi passato agli
allucinogeni, con particolare riguardo alla mescalina e all’LSD-25, di cui
Fellini aveva fatto personalmente esperienza per conto di un’équipe di stu-
diosi.
Gli allucinogeni, infine, ci avevano condotto a parlare degli hippies. E
qui avevo improvvisamente scoperto – in questo regista che, quanto più
cerca di liberarsene, tanto più si conferma vincolato alla sua educazione
cattolica: vittima insofferente e compiaciuta al tempo stesso dei tabù
che tale educazione gli ha inculcato – un calorosissimo sostenitore degli
hippies, sospinto da un istintivo impulso di simpatia a condividere i
motivi della loro rivolta contro il mondo dei padri. […] Era ora, anzi:
ci voleva, questa rottura con un passato defunto, questo «grande carne-
vale».
[…] «Ma scusa – incalzava Fellini, con una polemica irruenza che il pal-
lore del suo volto di convalescente non avrebbe lasciato presagire – mi
sai spiegare a che cosa ci hanno portato, in fin dei conti, le idee di
prima? Ai campi di concentramento, alle camere a gas, alla bomba ato-
mica … Ma allora, viva i capelloni, perbacco!»2

Al disincantato, altalenante entusiasmo dell’autore di 8 /2 per questi


1

ineffabili figli dei “vitelloni” fa da controcanto il famoso “Discorso” dei


capelli di Pier Paolo Pasolini.3 Ed entrambi contribuiscono, da differenti
posizioni, a chiarire la portata e il peso del dibattito sul costume giova-
nile, sulla contestazione e sulla creatività diffusa, nonché sulle loro, even-
tuali, ricadute politiche, a cavallo del ’68.
Fellini dichiara di provare «un rispetto profondo» per la «loro serena
indifferenza di fronte ai problemi che ci hanno assillato per tanti anni»,
ma al tempo stesso ne sottolinea, a suo modo, l’alienazione, dovuta a una
radicale mancanza di consapevolezza:

«[…] Probabilmente essi sono depositari di una nuova verità, che noi
non conosciamo ancora. […] Li vediamo: si limitano a respirare, a guar-
dare, a cantare, a far l’amore. Ma è il vuoto, si obietta. Può darsi. Ma non

2 Ivi, p. 14.
3 PASOLINI 1973.
Fellini-Satyricon e l’arte contemporanea 137

è forse meglio il vuoto, che il ‘pieno’ di idee cretine che ci ha riempito


fino ad ora?» […].
Che meraviglia vivere adesso, continuava Fellini. Anche se è stata «bru-
ciata» dalla guerra, la nostra può considerarsi ugualmente una generazio-
ne fortunata. Meglio avere quaranta o cinquant’anni, in fondo, che aver-
ne solo venti. I ventenni, infatti, sono i nuovi; la loro esistenza è tutta
chiusa entro il breve àmbito del presente. Dal punto di vista spirituale,
siamo più ricchi noi: perché possediamo la nostalgia per il mondo polve-
roso che abbiamo conosciuto, e possiamo assistere, contemporaneamente,
a questo «massacro». I giovani d’oggi non hanno ancora l’allegrezza. Sono
tristi: appunto perché sono dei pionieri, degli esploratori su un pianeta
sconosciuto.4

Pasolini, invece, si spinge più oltre, con il radicalismo anticonvenzio-


nale che gli è consono. Tenta, infatti, di riscattare ideologicamente, in
direzione anarchica e contestatoria, l’istintiva antipatia per i «capelloni»
del «’66-’67», che traeva origine dalla sua mitologia proletaria:

Capii, e provai un’immediata antipatia […]. Poi dovetti rimangiarmi


l’antipatia, e difendere i capelloni dagli attacchi della polizia e dei fasci-
sti: fui naturalmente, per principio, dalla parte del Living Theatre, dei
Beats ecc.: e il principio che mi faceva stare dalla loro parte era un prin-
cipio rigorosamente democratico.
I capelloni diventarono abbastanza numerosi – come i primi cristiani:
ma continuavano a essere misteriosamente silenziosi; i loro capelli lun-
ghi erano il solo e vero linguaggio, e poco importava aggiungervi altro.
Il loro parlare coincideva col loro essere. L’ineffabilità era l’ars retorica
della loro protesta.5

Ma dopo il ’69 – «con la strage di Milano, la Mafia, gli emissari dei


colonnelli greci, la complicità dei Ministri, la trama nera, i provocatori» –
finirà per identificare questi aspetti esteriori e, ormai, diffusi della contesta-
zione giovanile come un fenomeno irrilevante e irrisolto di sottocultura,
disponibile, al pari di ogni moda, a qualsiasi compromesso con il potere:

Il ciclo si è compiuto. La sottocultura al potere ha assorbito la sottocul-


tura all’opposizione e l’ha fatta propria: con diabolica abilità ne ha fatto

4 ZANELLI 1969a, pp. 14-15.


5 PASOLINI 1973, p. 11.
138 Giorgio Zanchetti

pazientemente una moda, che, se non si può proprio dire fascista nel
senso classico della parola, è però di una «estrema destra» reale.
Concludo amaramente. Le maschere ripugnanti che i giovani si metto-
no sulla faccia, rendendosi laidi come le vecchie puttane di una ingiu-
sta iconografia, ricreano oggettivamente sulle loro fisionomie ciò che
essi solo verbalmente hanno condannato per sempre. Sono saltate fuori
le vecchie facce da preti, da giudici, da ufficiali, da anarchici fasulli, da
impiegati buffoni, da Azzeccagarbugli, da Don Ferrante, da mercenari,
da imbroglioni, da benpensanti teppisti. […] l’isolamento in cui si sono
chiusi – come in un mondo a parte, in un ghetto riservato alla gioven-
tù – li ha tenuti fermi alla loro insopprimibile realtà storica: e ciò ha
implicato – fatalmente – un regresso. Essi sono in realtà andati più
indietro dei loro padri, risuscitando nella loro anima terrori e conformi-
smi, e, nel loro aspetto fisico, convenzionalità e miserie che parevano
superate per sempre.
Ora così i capelli lunghi dicono, nel loro inarticolato e ossesso linguag-
gio di segni non verbali, nella loro teppistica iconicità, le «cose» della
televisione o delle réclames dei prodotti, dove è ormai assolutamente
inconcepibile prevedere un giovane che non abbia i capelli lunghi: fatto
che, oggi, sarebbe scandaloso per il potere.6

Il legame strettissimo della ricostruzione felliniana della romanità di


Petronio con la cultura giovanile degli anni Sessanta non passa inosser-
vato neppure alla prima accoglienza critica, italiana e internazionale, del
film. Lo testimoniano i titoli divertiti ed eloquenti di anticipazioni o
recensioni giornalistiche che lo accomunano alla psichedelia e alla gioco-
sa visionarietà pop dei Beatles del Magical Mistery Tour del 1967: Les
Beatles en péplum, Fellini tra gli hippies di Roma antica, Fellini’s Magical
Mistery Tour, Le «Satyricon»: mauvais rêve ou «bad trip»?7.
E lo stesso Fellini lo ribadisce imbastendo su questo tema tutta la
complessa rete di collegamenti che congiunge Mastorna al Satyricon nella
messinscena autoriflessiva del breve pseudo-documentario televisivo A
Director’s Notebook, scritto e diretto per la NBC nel 1969. I giovani hip-
pies che si aggirano tra le rovine della scenografia del film non realizzato
si specchiano nei letterati beatniks di Petronio8.

6 Ivi, pp. 15-16.


7 ROMI 1968, ZANELLI 1969b, CANBY 1970, Le «Satyricon»… 1970.
8 Cfr. G. Baldini in ZANELLI 1969a, pp. 31-32.
Fellini-Satyricon e l’arte contemporanea 139

Così, anche con la scelta di due protagonisti debuttanti o poco noti


al pubblico cinematografico, Martin Potter e Hiram Keller (che si era già
distinto per l’interpretazione teatrale di un manifesto generazionale
come il musical Hair), Fellini dimostra di voler restituire l’immagine di
due divi controcorrente allora sulla cresta dell’onda come Terence Stamp,
già diretto due anni prima nel Toby Dammit, e Pierre Clémenti, allora
impegnato sul set di Porcile di Pasolini. Mentre, in un altro contributo
televisivo sulla lavorazione del Satyricon, Ciao, Federico! di Gideon

Figura 2 – FEDERICO FELLINI, Caricatura di Max Born, inchiostro su carta, 1969


(da BETTI 1970).
140 Giorgio Zanchetti

Bachmann (1969), Max Born, in costume da Gitone e col capo inghir-


landato di fiori, canta per i colleghi in una pausa delle riprese sulla spiag-
gia di Focene, accompagnandosi alla chitarra. Fellini lo ritrae ironica-
mente come un vero hippie, avvolto in una eloquentissima nuvola di fumo
(Fig. 2); e l’Ascilto e l’Encolpio pensati per Clémenti e Stamp, in un altro
disegno preparatorio per il film, sono una coppia di freaks piena di gla-
mour e assolutamente attuale (Fig. 3).

Figura 3 – FEDERICO FELLINI, Studio per i protagonisti del Satyricon, pennarello su


carta, 1968 (da BETTI 1970).
Fellini-Satyricon e l’arte contemporanea 141

D’altra parte, la deriva dei protagonisti di Petronio e il fascino della


sua narrazione frammentaria e senza filtri erano già stati assunti come
spunti fondamentali in alcune delle più interessanti prove narrative spe-
rimentali del decennio precedente.
In Arbasino, oltre a costituire un implicito riferimento di base per
l’epopea di Fratelli d’Italia, il romanzo latino ritorna esplicitamente in
alcuni dei passaggi aggiunti all’edizione Adelphi del 1993, dove suggel-
la il termine estremo, frammentato, appunto, del racconto:


Viaggio in Italia?… Fratelli?…

(«These fragments» sono ovviamente solo relitti e rottami scampati a chissà


quali catastrofi. Certamente facevano parte di un’opera molto più ampia in deci-
ne e decine di libri scomparsi, come il Satyricon, e definitivamente perduti).9

Ma già nell’abbozzo primario del Blurb II per Giangiacomo Arbasino


riassume con queste parole lo schema del racconto:

Un giovane svizzero di formazione italiana e tedesca […] arriva a Roma


all’inizio dell’estate per visitare un amico scrittore incapace di felicità,
e partire con lui per un giro della Mitteleuropa.
Questa gita a Praga o a Weimar non si farà mai; e la vacanza prospetta-
ta assumerà invece la struttura e la forma di un Viaggio in Italia che non
si saprebbe immaginare più dissimile dal tradizionale itinerario geogra-
ficamente ed emotivamente ordinato del Grand Tour.
Allo schema degli “anni di pellegrinaggio” nella culla della Classicità si
sovrappone subito il calco degli “anni di apprendistato” […]: svalutati,
però, e stravolti com’è giusto oggi, a “mesi” o addirittura “settimane”

9 ARBASINO 19934, p. 1276. E a p. 1114, in una rimpatriata milanese, il cinema di


terz’ordine a Porta Genova, deputato a frettolosi amplessi, si chiama Satyricon, ed è così
descritto: «Uno di quegli odeon dove i gladiatori e i centauri si spogliano ancora sul
fondo, e tra belvederi e tribune i fauni danzanti e i satiri tirano fuori tutto anche se
ormai c’è pieno di lampadine. Marsia e Laocoonti molto allegri e simpatici, per lo più
in tuta e con poco tempo, quindi svelti. Un viaggiatore in Grand Tour, forse, non ci
crederebbe. Direbbe che viviamo nel Mito, ecc. E pensare che siamo a Porta Genova,
Petronio mio, nel mito della darsena proletaria e della genuinità milanese folk.»
142 Giorgio Zanchetti

di apprendimenti frenetici in corse violente lungo un’Italia resa come


folle dal boom economico in un’estate precipitosa e interminabile. Una
piccola banda cosmopolita batte così gli stessi luoghi già percorsi da
Goethe e Stendhal e James e Forster e ovviamente D’Annunzio e natu-
ralmente Petronio – e ciascuno rincorre secondo le proprie mitologie
una diversa Italia – fra tradizione e modernità e grottesco e dramma.10

Nella debordante rincorsa dei materiali d’appendice che s’affastellano in


questo Finale, spicca, inoltre, l’articolata ipotesi di un “trattamento” per la
trasposizione cinematografica del Satyricon di Petronio negli anni Sessanta
(o addirittura in un futuro imbarbarito e postindustriale), che corre in paral-
lelo all’intelaiatura del nuovo romanzo, intrecciando appunti di differenti
momenti, con un riferimento, non del tutto casuale, a Pasolini:

“Memo” per la produzione


La fine del nostro millennio, confrontando Huxley e Orwell con le utopie
degli strips e i film futuribili? Si stenta a credere in un avvenire tecnolo-
gico, funzionale, freddo, controllato dalle macchine, quando non si è più
capaci di riparare neanche un telefono. Sembra più probabile un “casino”
o “macello” di bambinacci anarchici e barbari inesorabili, dove non fun-
zionerà quasi niente, neanche i cavatappi e gli schiaccianoci; e volendo
sviluppare i dati del nostro presente con le proiezioni di quella scienza da
vaudeville che è la futurologia, il nostro futuro tornerà a somigliare in
forme impressionanti all’epoca del Satyricon? La sola differenza, probabil-
mente, è che gli zombies non si esprimeranno più con invenzioni lessica-
li gustose come in Petronio e come piacerebbe all’Arancia Meccanica,
all’Anguria Idraulica, al Mandarino Elettronico. Comunicheranno, proba-
bilmente, a gesti. Speriamo nell’espressività dei musini carini in serie; e
di quelle voci da scemi che possono far svenire al citofono. Ma poi, una
volta privati della personalità e dell’anima, però gonfiati di nutrimenti
sintetici, come faranno l’amore macchinale? Supermaschiettini automati-
ci progettati da Alfred Jarry? O Tom & Jerry da cartoon via satellite, con
protesi ortopediche e transatroniche? Boccadori computerizzati con
Narcisi telematici? (Ma Hermann Hesse manderebbe in giro insieme per
un’Italia da Satyricon due “studs” con nomi come Narciso e Boccadoro?).

10 Ivi, p. 1366. I due Blurb indirizzati a Giangiacomo Feltrinelli erano già compar-
si nella prima riscrittura del romanzo, pubblicata nel 1976 (pp. 653 e 656). Per le rei-
terate rielaborazioni arbasiniane di Fratelli d’Italia si veda MARTIGNONI, CAMMARATA,
LUCCHELLI 1999.
Fellini-Satyricon e l’arte contemporanea 143

Siamo noi due, allora? Uno valuta molto razionalmente, ha letto tanti
libri ma vede e capisce poco. L’altro vive e percepisce attraverso i sensi,
come un cane o un gatto, intuisce subito il carattere e gli umori delle
persone, è fedele anche quando è coureur […].
Qui, però, secondo Petronio, si dovrebbe essere almeno in tre, o quat-
tro; e allora scatta la difficoltà dell’età, perché se ci vuole un anziano
come Eumolpo, quando li facciamo noi diventiamo falsi come le parruc-
chine tinte nelle recite; e poi veramente ci vuol troppa fatica per imma-
ginare come saremo verso i quarant’anni. Tirerà ancora it? Si diventerà,
davvero, meditativi? Con riflessioni sul bicchiere? Si finirà sotto i tavo-
li come parecchi che si conoscono? […]
– Però io credo d’aver capito che finirò piuttosto come Don Chisciotte
o Sancho Panza, non so ancora quale dei due. E comunque se si volesse
fare un Satyricon c’è anche il problema che non si sopportano gli orren-
di piccini finché non han fatto il militare e non pesano almeno un set-
tanta chili, e dunque con Gitone come si fa?
– Le serate con Pasolini si sono bloccate subito proprio su questo. Né
sono capace di fare come Moravia che scrive: io sono una signorina […].
– E tutti gli zombies?
– Bisognerebbe metterli nell’Italia di appena domani, visto che in
America il Brave New World non funziona con le macchine. Guarda
solo le scale mobili! Però col pericolo che durante la pre-produzione di
un New Satyricon càpiti davvero una crisi internazionale che renda obso-
leto e ingenuo qualsiasi nostro impianto fantastico.11

Arbasino passa quindi a tratteggiare i propri protagonisti, mettendo-


ne in risalto, per contrasti, alcuni tratti da stereotipate figurine holly-
woodiane di teddy boys o di divetti d’importazione:

Ma chi sono loro?


Inc, naturalmente in jeans bianchi stretti e camicie larghe a righini e
rigoni, potrebbe – e sottolineo potrebbe – somigliare insieme a John F.
Kennedy e al poeta Novalis, anche pettinato (secondo lo shampoo e il
mood) volta a volta come l’uno o l’altro. Annota tutto, perché ha la
memoria a chiazze. Ma sul suo volto […] potrebbe non di rado affiora-
re il sorriso ancora caldo del Papa Buono? (E ciò lo perderà?).
Hash, invece, non dovrebbe avere il viso e il sorriso di Pio XII e di Judy
Garland? Certamente parecchi chili di catene al collo, comprate a peso

11 ARBASINO 19934, pp. 1280-1284.


144 Giorgio Zanchetti

dai ferramenta, e anche d’ottone; i peli del petto rasati per formare il suo
segno zodiacale, naturalmente il Capricorno o il Sagittario. Sempre
vestito di cuoio nero aderente (è stato uno dei primi!), cosparso di bor-
chie a piramidine che s’infittiscono galeotte e iniziatiche nelle zone
genito-anali, accuratamente rasate […].
Finalmente, Gitt! … Questa deliziosa creatura-prodigio dai ricciolini a
cavaturaccioli, in tacchi molto alti di sughero che rammemorano ai più
disgustosi vegliardi i “favolosi” anni Quaranta (quando diedero il peg-
gio), i “tits” perforati con le buccole d’oro della sua nonna, e un sorrisi-
no da martire di conoscenza che richiama l’inevitabile Maria Goretti ai
Vecchi Credenti, e “Liberate Bette Davis!” ai più immersi nelle avven-
ture dell’ideologia e della dialettica. Porta un’ascella depilata e una
colorata di verde come il garofano d’Oscar Wilde, un collarino di spec-
chietti retrovisivi, un tascapanino mimetizzato con una vecchia masche-
ra antigas per fiutare i gas di cui fa provvista. E per comunicare: un
registratore, un vibratore, una polaroid? […]
Dove vanno? Good Question, davvero. Forse ancora una volta da
Fiumicino verso Gaeta – poi si deciderà – perché le pochissime opere
d’arte superstiti pare che si vada a vederle in qualche periferia clande-
stina di Baia o di Cuma (e per loro di Bahia e Cuba… tant’è). Là sono
rimaste – un paio di Ribera, un piccolo Burri, un Fidia di seconda
mano, l’angolo di un Caravaggio tagliato, e poco più – da riparare o
riscattare dopo la mostra pan-mediterranea e i disastri.12

La lontananza cosmica rispetto alla tradizione consacrata del roman-


zo ottocentesco, pari alla distanza irrecuperabile avvertita da Fellini
rispetto alla Roma dei classici, è messa in evidenza da Arbasino stesso e
da Manganelli nei loro contributi per il volume Il romanzo sperimentale,
pubblicato a seguito del convegno palermitano del 1965 del Gruppo
’63.13 Mentre il primo ribadisce la preminenza della componente critica
e metaletteraria della «costruzione del congegno» rispetto alla linearità
della «trama» rappresentata (identificando in questo «un trend comune a
diverse arti del nostro tempo»), Manganelli si prefigura addirittura il
definitivo e meritato tramonto del romanzo – genere quant’altri mai
fastidioso per serietà e contenutismo e petizione di realismo – e i nuovi
barbari che banchettano sulle sue rovine:

12Ivi, pp. 1284-1286.


13Cfr. BALESTRINI (a cura di) 1966. Fondamentale, su questa linea, resta ovviamen-
te ARBASINO 19772.
Fellini-Satyricon e l’arte contemporanea 145

Naturalmente, non è tutta la verità: tra le reliquie dell’impero romanze-


sco, accampati accanto ai deserti, frantumati ideodotti, si affacciano i
nuovi, acerbi visigoti: battono le loro aspre oreficerie, si rallegrano di rico-
noscervi i segni astratti e arbitrari, i quadrati, i triangoli; incidono i loro
scacchi in un avorio duro, si dispongono a giocare le loro eterne, fatali,
inutili partite.14

Anche Edoardo Sanguineti, impegnandosi nella sperimentazione di un


possibile riscatto del genere narrativo d’ampio respiro, torna esplicitamen-
te in più di un’occasione al modello di Petronio. Il ricalco dell’immagina-
rio onirico nella forma simulata del romanzo di Capriccio italiano – che può
apparirci a sua volta, in stretto parallelismo con i Fratelli d’Italia di
Arbasino, come un romanzo di formazione e di viaggio tutto centrato sulle
pulsioni erotiche e sulle nebulose peripezie, restituite per frammenti, di un
protagonista-narratore – si apre con la dedica-epigrafe petroniana (ma, qui,
psicanaliticamente reindirizzata) alla moglie dell’autore:

per Luciana,
cioè mia moglie:
vitrea fracta,
et somniorum interpretamenta.15

Nel 1969, forse anche sull’onda della fortuna della trasposizione cine-
matografica felliniana, Sanguineti pubblica in sedici fascicoli allegati al set-
timanale “Tempo” una libera traduzione del Satyricon, illustrata con quaran-
ta tavole originali di Bruno Cassinari. In essa prevale, senza dubbio, il diver-
timento letterario dell’imitazione e del ricalco secondo un codice di lin-
guaggio differente e non necessariamente pertinente (il “parlar basso” di
Sanguineti, che si propone come inopinato ripensamento sulle molte ri-
sciacquature gergali e colloquiali dell’avanguardia novecentesca), tanto far
passare l’operazione quasi come un terzo romanzo dell’autore (dopo il
Capriccio e Il giuoco dell’Oca16); e infatti, l’anno successivo, il testo, in parte

14 Giorgio Manganelli in BALESTRINI (a cura di) 1966, pp. 173-174.


15 SANGUINETI 1963. Mi piace ricordare che la suggestiva espressione petroniana
utilizzata da Sanguineti era già stata registrata anche da Carlo Dossi nelle sue Note
azzurre (DOSSI 19882, n. 276, p. 17).
16 SANGUINETI 1963; SANGUINETI 1967. Entrambi sono pubblicati, con L’orologio
astronomico e altre prose più brevi, in SANGUINETI 2007, che però non include, signifi-
cativamente, il Satyricon.
146 Giorgio Zanchetti

rivisto, veniva pubblicato in forma d’opera autonoma da Einaudi, col titolo


Il giuoco del Satyricon17.

I riferimenti espliciti di Fellini all’arte contemporanea, nei mesi della


preparazione e della lavorazione del Satyricon, sono quasi sempre generi-
ci e, apparentemente, superficiali, volti, così come accade per le fonti
archeologiche, a depistare piuttosto che a soddisfare la curiosità indiscre-
ta dei suoi interlocutori.
Nel giugno del 1968, sorpreso da Dario Zanelli al lavoro sul proget-
to, sfogliando i volumi più disparati sull’arte romana, gli chiede:

«Guarda questo dipinto: non ti sembra Picasso? E questo, non ti ricor-


da Braque? Qui, poi, siamo a Campigli. Osserva un po’ questa natura
morta: non ti fa pensare a Morandi? …».18

La stessa profonda crisi depressiva di Fellini (probabilmente innesca-


tasi fin dall’avvio del progetto di 8 / e scatenata dalle prime fasi di lavo-
1
2

razione del suo film più bergmaniano e psicologicamente più difficile, Il


viaggio di G. Mastorna) è risolta, come ricorderà egli stesso un anno prima
della morte, da un sogno che vede protagonista la figura dell’artista con-
temporaneo per eccellenza: Federico sogna di essere ricevuto in una mise-
ra capanna da Pablo Picasso, che gli prepara una frittata di dodici uova e
lo incoraggia ad andare avanti nel suo lavoro.19 Benché nei suoi film il
regista non sembri ritenere molto della visione pittorica cubista e
postcubista, Picasso gli interessa appunto come figura archetipica che
esprime la piena potenza del genio artistico, taumaturgicamente capace
di rinvigorire, con quel sostanzioso nutrimento, la sua creatività esausta.
In questo senso si può spiegare l’interesse di Fellini per il suo nuovo sog-
getto letterario, che, con il tema dell’impotenza di Encolpio e della puni-
zione di Priapo, gli permette di allontanare, in una sorta di doppio oni-
rico e romanzesco, la crisi creativa preconizzata con troppo realismo nel
protagonista di 8 / . Non a caso il parziale lieto fine di Fellini-Satyricon
1
2

prende l’avvio dal successo della guarigione magica di Encolpio da parte

17 SANGUINETI 1970.
18 ZANELLI 1969b, p. 21.
19 F. Fellini, intervista rilasciata a Damian Pettigrew nel 1992, ora in D. PETTIGREW,
Fellini. Sono un gran bugiardo, film documentario, Italia-Gran Bretagna-Francia, 2002.
Fellini-Satyricon e l’arte contemporanea 147

di Enotea, ambientata in una misera capanna mediterranea, all’interno


della quale spicca l’enorme forma di un feticcio africano crivellato di
chiodi, che può suonare come un rinvio alla passione primitivista e alle
soluzioni scultoree polimateriche dello stesso Picasso.

Nell’intervista con Alberto Moravia del giugno 1969 (quindi a lavo-


razione già avanzata) Fellini dà un quadro più preciso del proprio imma-
ginario visivo dal punto di vista del gusto e dell’impostazione stilistica,
giocando però su ossimori spiazzanti quando si tratta di mettere a fuoco
delle fonti artistiche più precise:

Anche l’atmosfera sarà quella dei sogni. Molto buio, molta notte, molti
ambienti oscuri, poco illuminati. Oppure paesaggi simili a limbi,
immersi in un sole irreale, sbiadito, sognante. Molti corridoi, ambula-
cri, stanze, cortili, vicoli, scalinate e altri simili passaggi angosciosi e
angusti. Niente di luminoso, di bianco, di nitido. I vestiti tutti di tinte
sporche e opache, che suggeriscano la pietra, la polvere, il fango. Colori
come il nero, il giallo, il rosso, tutto però come velato da una cenere che
cada perpetuamente. In senso figurativo, cercherò di operare una conta-
minazione del pompeiano con lo psichedelico, dell’arte bizantina con
quella pop, di Mondrian e di Klee con l’arte barbarica.20

Il gioco delle corrispondenze con artisti come Campigli, Morandi o


De Pisis si fa però evidente nella sospesa ambientazione della Pinacoteca
(Fig. 4), dove i lacerti ingigantiti di illustrazioni di opere antiche sono
allestiti in una sorta di neoclassica “white box” – come in un museo
modernista o in una sala della Biennale di Venezia impaginata da Carlo
Scarpa – evocando nature morte e ritratti da Novecento, da Scuola roma-
na o da Italiens de Paris, ma anche anticipando, con inquietante preveg-
genza, un certo fossilizzato espressionismo (illustrativo e scenografico,
appunto) che sarà poi tipico della Transavanguardia.
Il pittore Nino Scordia (Santa Fé, Argentina, 1918 – Roma, 1988) –
amico del regista e suo collaboratore artistico in differenti occasioni, dal
Satyricon a Casanova e alla Città delle donne – ne ricorda così il procedimen-
to realizzativo, che verte sul prelievo fotografico del materiale archeologi-
co e sulla sua accurata trasposizione pittorica nel formato di opere parieta-
li o dei dipinti da cavalletto di una quadreria moderna:

20 MORAVIA 1969, pp. 70-71.


148 Giorgio Zanchetti

Figura 4 – FEDERICO FELLINI, Fellini-Satyricon (1969). La Pinacoteca, sc. 11, inq.


234: «Una pinacoteca, ampia e chiara, luminosa, di linea classica come un tempio
greco» (FELLINI, ZAPPONI 1969, p. 168).

Bien souvent avec Fellini, je fais quelque chose qu’on pourrait définir
comme ‘exercice de style’. Je me suis inspiré de Pompéi, des fresques
étrusques et à partir de là, j’ai fait des acrobaties. J’ai agrandi de toutes
petites peintures pour leur donner un format gigantesque. Par exemple,
les fresques finales, je les ai peintes à Cinecittà puis on les a transporté-
es à la mer, à Fregene, pour les filmer. De même, au début du film, j’ai
réalisé le mur couvert de graffitis devant lequel monologue Encolpe.
J’ai également fait une grande partie des peintures exposées dans la col-
lection d’Eumolpe à la Pinacothèque.21

Il determinante lavoro di Scordia per il film si configura come un vero


e proprio apporto creativo ed è qualificato, infatti, nei titoli di coda, come
«consulenza per gli affreschi», una prestazione autonoma e particolare, che
va distinta tanto dalla progettazione della scenografia e degli arredi di
Danilo Donati e Luigi Scaccianoce (con l’architetto Giorgio Giovannini),
quanto dalla concreta realizzazione dei fondali, affidata alle maestranze di
Cinecittà, sotto la direzione dell’ottimo pittore scenografo Italo Tomassi.
Il contenuto figurativo dell’opera filmica, resta però sotto il comple-
to controllo del regista, che, oltre all’ossessivo studio della presenza fisi-

21 Cfr. J.M. MÉJEAN, Entretien avec Antonio Scordia, Roma, aprile 1980, in www.ile-
taitunefoislecinema.com/article/20/Fellini-Cinéma (marzo 2007).
Fellini-Satyricon e l’arte contemporanea 149

ca e del trucco dei personaggi, si riserva l’«ideazione scenografica», im-


piegando il coro dei propri collaboratori come uno strumento relativa-
mente duttile per la messinscena delle proprie visioni:

Fellini – ricorda ancora Scordia – m’appelle un beau jour et tout dou-


cement me demande, petit à petit, de venir le voir à Cinecittà et il me
propose de réaliser telle chose. Il m’explique à peu près ce qu’il voudrait
que la peinture évoque. Je sais donc au départ que je dois réaliser les
choses qui naissent dans la tête de Fellini et que c’est lui qui signe le
film. Moi, je fais et lui, il crée. Il ne s’agit donc pas pour moi de créa-
tion libre, mais d’une forme de collaboration car en réalité, si Fellini
apprécie mes peintures, c’est que nous nous rejoignons un peu dans
l’imaginaire. Je l’admire beaucoup et en fin de compte, c’est toujours
lui qui a raison. Je sais, au départ, que ce qu’il me demande de réaliser
ira parfaitement dans le film, dans le contexte. Fellini, en plus de tout
cela, est un charmeur, il sait prendre les gens, leur parler, il les force
toujours gentiment à faire ce que lui a décidé.
[…] Si je devais dire un mot de Fellini cinéaste, je dirais qu’il est avant
tout un créateur d’images, un peintre de la caméra. Et en plus de ce
don, on peut dire qu’il a tous les autres, car sur le plateau, c’est lui qui
fait tout, il invente tout, il s’occupe de tout, du moindre détail, même
des costumes.22

Nei più comuni repertori bibliografici e informatici non si trova


alcuna segnalazione di altre collaborazioni cinematografiche, come sce-
nografo, di Nino Scordia, che divide la propria vita professionale tra
Roma e Parigi; ed egli stesso si preoccupa di ribadire, nell’intervista con-
cessa a Jean-Max Méjean nel 1980, che la propria fortunata attività pit-
torica non gli lascia tempo ed energie per quel tipo di lavoro e che ha
consentito a collaborare con Fellini solo per la profonda affinità umana e
artistica che li lega sin dai tempi del “Marc’Aurelio”.23 Ma nel 1945,
proprio agli esordi della sua carriera, il giovane Scordia aveva interpreta-
to se stesso, insieme ai colleghi Pericle Fazzini, Franco Gentilini, Angelo

22 Ibid.
23 «Bien sûr, il est un peu tyrannique, mais je m’amuse tellement; ça me change
de ce que je fais habituellement. […] Il faut bien que je précise que je fais cela pour
m’évader de mon travail, car je ne réalise rien d’autre pour le cinéma. Je travaille seu-
lement pour Fellini, parce qu’il me plaît, parce que cela m’amuse; et même si l’on me
proposait de travailler avec d’autres metteurs en scène, je refuserais». Ibid.
150 Giorgio Zanchetti

Figura 5 – FEDERICO FELLINI, Fellini-Satyricon (1969). Il muro di fondo di Il


lamento di Encolpio dipinto da Nino Scordia, sc. 1, inqq.1-9: «Sullo sfondo di un
muro rossastro, un muro di cinta o forse la parete esterna di una casa, tutto fit-
tamente graffito dai passanti […]» (FELLINI, ZAPPONI 1969, p. 149).

Figura 6 – CY TWOMBLY, senza titolo, olio e pastelli su tela, 1968. Providence,


Museum of Art, Rhode Island School of Design.
Fellini-Satyricon e l’arte contemporanea 151

Figura 7 – GASTONE NOVELLI, Nascondersi vale la pena, tecnica mista su tela,


1959. Roma, collezione Ivan Novelli.

Savelli e Orfeo Tamburi, nel film Le Modelle di via Margutta di Giuseppe


Maria Scotese che restituiva in forma di dramma popolare la disordinata
vita di bohème degli artisti romani dell’immediato dopoguerra.
Nel realizzare, come egli stesso ricorda, il «muro coperto di graffiti»
che fa da sfondo al monologo iniziale del Satyricon (Fig. 5), Scordia sem-
bra essersi mosso con un discreto margine di libertà interpretativa. Già
Fellini e Zapponi, peraltro, l’avevano immaginato con precisione come:

… un muro rossastro, un muro di cinta o forse la parete esterna di una


casa, tutto fittamente graffito dai passanti, che vi hanno fatto disegni,
scritto parole latine e greche incomprensibili, fin quasi a divenire una
decorazione astratta di ghirigori bianchi …24

24 FELLINI, ZAPPONI 1969, sc. 1, inqq. 1-9, p. 149.


152 Giorgio Zanchetti

Figura 8 – FRANCO VACCARI, Le tracce, Bologna, Sampietro, 1966.

Ma abbassandone i toni, da quelli archeologici del laterizio a quelli


quasi bicromatici, bituminosi o gessosi, dell’immenso fondale graffito, il
pittore riprende esplicitamente le recenti esperienze del materismo anni
Cinquanta e soprattutto delle ossessive scritture segnico-gestuali di arti-
sti come Cy Twombly o Gastone Novelli (Figg. 6, 7). Quest’ultimo si era
interessato non episodicamente alla scrittura spontanea e asistematica,
pubblicando nel 1958, per le edizioni di “L’Esperienza moderna”, il libro
d’artista Scritto sul muro,25 dove la grafia manuale si fa espressione anti-
nozionistica delle pulsioni e del profondo individuale, sulla linea che
dalle esperienze dada e surrealiste aveva portato all’art brut di Jean
Dubuffet. Così, otto anni più tardi, spingendo un passo più oltre la sen-
sibilità sociale e relazionale per il graffito lasciato sui muri, Franco
Vaccari, nel volume fotografico Le tracce (Fig. 8) e nel video Nei sotterra-
nei,26 si limiterà a collezionarne gli esempi dalle pareti delle latrine pub-
bliche, cogliendone gli aspetti antropologico-culturali di inconscio col-
lettivo.
Twombly era attivo a Roma da diversi anni e il suo lavoro, ricco di
implicazioni relative al culto nostalgico della classicità romana, era

25 NOVELLI 1958.
26 VACCARI 1966; F. VACCARI, Nei sotterranei, film autoprodotto, Italia, 1966.
Fellini-Satyricon e l’arte contemporanea 153

ormai piuttosto noto negli ambienti artistici d’avanguardia. Tra gli


interpreti più penetranti del suo linguaggio non si può non ricordare il
poeta, critico e filologo Emilio Villa27 che, nel 1960, ne evidenziava le
componenti di immediata proiezione psicologica e al tempo stesso di raf-
finatissima mitografia individuale:

nel netto profilo della / innocenza ostruita e accettata, / nella meccani-


ca / dell’intreccio, del viticcio, dello sgorbio, // nell’elogio segreto della
/ iterazione e della pausa, / nello scatto che fende, che difende, che /
offende, nel governo / delle ideazioni non nate e già // perdute, e incise
/ sul campo della indicibile manifestazione […]. / non è forse che man-
chino / spettri di storia, apparentemente: si può / leggere casa cuore
sesso sesso sesso / scala sesso cy twombly archaic / germe nevrastenia
assenza istere / foglia niente niente niente nemmeno / unione incrocio
passa porta casa / casa cancella cassa scala cupola! ma è che i sensi stori-
ci di tali / o di simili / nominazioni ovulazioni accentuazioni / sono bru-
ciati nella compilazione, / nell’organismo che li ha / sottratti alla realtà
/ per darli a ingerire alla massima / ombra bianca che è la vita del / vive-
re prima e vivere / dopo.28

E dietro la fuga a ritroso dal mondo classico petroniano verso un’ori-


ginarietà culturale ed esistenziale, proposta da Zamboni e Fellini, sembre-
rebbe di poter scorgere in filigrana l’articolata e strutturale riflessione di
Villa sulle radici arcaiche, mesopotamiche, semitiche e mediterranee della
tradizione ellenica e di tutta la cultura occidentale. Fin dagli anni Trenta,
a Milano prima, a Roma poi, le sue capacità davvero uniche di instaurare
collegamenti ad ampio raggio tra gli esiti più attuali della ricerca artisti-
ca di neovanguardia e una prospettiva di studio archeologica e antropolo-
gica hanno fatto di Villa un sensibile e tempestivo compagno di strada di
molti dei protagonisti del rinnovamento artistico, da Lucio Fontana ad
Alberto Burri, Giuseppe Capogrossi, Ettore Colla, Twombly, Novelli,
Mimmo Rotella, fino a Francesco Lo Savio.29
Esemplare di una lettura antropologico-culturale anticlassica del mito
è la sua traduzione dell’Odissea, pubblicata da Guanda, nel 1964, in una
prima versione ancora “provvisoria” e ripresa con varianti anche sostanzia-

27 Su Villa si vedano TAGLIAFERRI 1996; TAGLIAFERRI 2004; PARMIGGIANI 2008.


28 VILLA 1957-1960.
29 Cfr. VILLA 1970.
154 Giorgio Zanchetti

li per l’edizione nell’Universale Economica di Feltrinelli, nel 1972.


Prendendo le mosse dalla convinzione che

quello che ci è pervenuto è un testo del tutto obliterato e redazional-


mente rifatto, da una arcaica narrazione mitologica, cosmologica, su
referti, probabilmente, minorasiatici (hittiti),

Villa riconduce la narrazione simbolica del viaggio di Ulisse alla figu-


ra di un itinerario labirintico – del quale le peregrinazioni di Encolpio
costituiscono evidentemente un doppio parodico desacralizzato – dove
l’origine e la meta coincidono con l’archetipo, attualizzato, della Grande
Madre mediterranea:

Si veda dunque come la fuga dalla Mater non è che il ritorno alla Mater;
e l’iter travagliato è la rappresentazione oscillante dell’andare e del
ritornare dalle acque alle acque, dentro abisso acqueo dal quale nemme-
no il dio né l’eroe né il demone (né forse l’uomo …) trovano scampo o
spiraglio. La vita, qui, si rappresenta così, nel teatro del rito. È solo que-
sto scandaglio lungo l’arginata sepoltura delle acque, traverso la illimi-
te aula delle acque madri, caos e pullulazione: essa è la zona enigmica
della peripezia odisseica. Naturalmente su quel livido oceano corre
tutto il dramma; si esaltano la rissa e l’inquietudine; si esercita la sto-
ria, così detta, e i culti che si annodano, si coniugano, si sopraffanno, si
uccidono: e il lucro delle egemonie culturali, tra le quali, infine, perfi-
no il culto vacuo dell’«uomo», mito scadente, scadente retaggio del pic-
colo tardo elleno, malamente rinverdito dall’umanesimo, dagli umane-
simi di ogni sorta, dai realismi guerci, dai naturalismi assortiti, che
sono, dopotutto, di una irrefrenabile tristezza.30

Benché i contatti documentati tra il poeta-critico e Fellini si riduca-


no, come si vedrà, ad un episodio, del tutto occasionale, il rapporto di
Emilio Villa col mondo del cinema risale almeno al principio degli anni
Quaranta, quando dedica una pagina di sorprendente lucidità al tema
del confronto tra linguaggio filmico, civiltà e storia (dove il cinema è
identificato come «creazione di storia» e non come «semplice rappre-
sentazione decorativa della medesima») recensendo su “Cinema” di

30E. VILLA, Nota del traduttore (agosto 1971), in VILLA (traduzione e cura di) 19943,
pp. 352-353.
Fellini-Satyricon e l’arte contemporanea 155

Luciano De Feo e Vittorio Mussolini un’Histoire du cinéma pubblicata a


Parigi dal cognato, Giuseppe Lo Duca.31 Sarà poi, nel 1966, il consu-
lente storico-filologico, del tutto irrituale, che affianca John Houston
durante la preparazione e le riprese del colossal La Bibbia a Cinecittà.
Riflettendo su quel film, con incisiva intuizione, Villa sottolinea la fun-
zione essenzialmente iconografica del cinema, in rapporto alla tradizio-
ne delle altre arti figurative, nella proposta di un rinnovato immagina-
rio contemporaneo:

Il problema […] del rapporto tra arte in genere, arte cinematografica e


Bibbia può essere, anche sistematicamente, descritto come un rapporto
secondo il quale lo scambio del fondamento espressivo avviene sul ter-
reno iconografico. […] È un privilegio che sembrava appartenere alle
arti maggiori. Ma ecco il cinema si impadronisce dei temi, li articola in
una narrazione coerente, evita gli scogli aridi e le tempeste della teolo-
gia biblica, e imprime nuova flessione, declinazioni meno ostiche e più
energiche, ai temi; li sorprende alla fonte e li esemplifica espressiva-
mente in un senso che è tutto moderno, più libero, più penetrante; e ne
riverbera e proietta il sentimento su milioni e milioni di spettatori […].
C’è un nuovo campo visivo e prospettico, sconosciuto totalmente, se
non per allusioni improprie, alle varie successive impostazioni prospet-
tiche ideate dalla pittura e dalla scultura dall’antichità ad oggi. In que-
sto campo si esercitano mediazioni e interferenze mai messe in opera
dalle altre arti, trasparenze emotive nuove, proprie della luce ideata e
disciplinata dalla macchina da presa, che ha in sé i principi e la natura
di una poesia operante su riflessi reali, e non simbolici: né, essa stessa
prospettiva del cinema, speculare e divaricata, in certo senso aberrante,
ha molto in comune con la prospettiva rinascimentale o geometrica.

E finisce per identificare tale «prospettiva» cinematografica come

una dimensione psicologica, che amalgama e fonde inediti raggruppa-


menti di colore, altri nuclei di toni, timbri, intensità luminose, sensa-
zioni atmosferiche, accostamenti cromatici.32

31 VILLA 1942. Cfr. LO DUCA 1942. Ringrazio Davide Colombo per la segnalazio-
ne e per le numerose e sempre stimolanti indicazioni di percorsi critici e creativi villia-
ni ignoti o meno noti.
32 VILLA 1966, pp. 25-28.
156 Giorgio Zanchetti

I nomi di Villa e del regista riminese appaiono, poi, semplicemente


affiancati, per il tramite di Antonello Trombadori e del gallerista Egidio
Maria Eleuteri, sulle pagine di un cataloghino del 1983, dedicato alle
vedute ottocentesche di Venezia33. Con singolare accordo Fellini vi pub-
blica un estratto dalla sceneggiatura del Casanova relativo alla litania
scritta da Zanzotto per la liturgia della nascita di «Venessia / Venùsia»,
«la grande madre mediterranea», dal mare34; mentre Villa insiste sul tra-
passo, a fine Settecento, dal «Genius of Venice» all’idea di Venezia come
«Uterus», «avatar di Iside-Bambina», «sterile nascitura parodia dell’im-
menso corale ctonio subacqueo».35
Ma la coincidenza più sconcertante e significativa, benché non sia pos-
sibile documentarla più precisamente, è quella del rispecchiamento del-
l’immagine di sé – deviante, antiaccademica, marginale e antimondana –
offerta da Emilio Villa negli ambienti culturali romani degli anni
Cinquanta e Sessanta, nella figura chiave di Eumolpo, al quale nel Fellini-
Satyricon dà corpo (ma non voce!) un intenso e scostante Salvo Randone:
poeta e appassionato conoscitore d’arte nella scena della Pinacoteca, corti-
giano, ubriacone e ambiguo sfruttatore, poi, che, nella decadenza generale
della cultura, ancora si commuove per le melopee sublimi e apparentemen-
te incomprensibili degli omeristi.36 La marcata somiglianza fisica tra il
poeta reale e il poeta rappresentato (Figg. 9, 10), evoca l’immagine del per-
sonaggio di Petronio restituita a ricalco nell’argot di Edoardo Sanguineti:

Ma ecco che lì […] ci entra un vecchio bianco, lì in pinacoteca, con la


sua faccia un po’ sofferta, che sembra che ci promette le cose grandi, non
so, ma che non era mica poi tanto messo bene, lì come ci stava vestito,
però. Insomma, che te lo capivi subito, di lì, che era il tipo del lettera-
to, quello, di quelli che i ricchi ce li detestano, tante volte. E quello si
mette lì, allora, di fianco lì a me. E mi dice: «Ma io sono un poeta, io.
E ci ho un fiato ispirato che non è niente male, se uno ci crede un po’
ai premi letterari […]. Ma tu mi dici, però: “Ma perché ci va vestito così
male, allora, quello?” Ma che è proprio per questo, guarda, che è il culto
della cultura, davvero, che non ci ha fatto ricco mai nessuno».37

33 ELEUTERI (a cura di) 1983-1984.


34 FELLINI 1983-1984, p. 5.
35 VILLA 1983-1984, pp. 15-16.
36 FELLINI, ZAPPONI 1969, sc. 15, inqq. 347-353, pp. 181-182.
37 SANGUINETI 19702, pp. 111-112.
Fellini-Satyricon e l’arte contemporanea 157

Figura 9 – FEDERICO FELLINI, Fellini-Satyricon (1969). L’entrata in scena di


Eumolpo. La Pinacoteca, sc. 11, inq. 240: «Io sono un poeta. Ma com’è, dirai, che
sei vestito così male? Proprio per questo» (FELLINI, ZAPPONI 1969, p. 169).

Figura 10 – Emilio Villa, a destra, con Gino Marotta, 1968.


158 Giorgio Zanchetti

Figura 11 – EMILIO VILLA, La grand mère d’un mer d’air, tecnica mista su tela, 1968.
Bolzano, Museion, collezione Archivio di Nuova Scrittura – Paolo Della Grazia.

Inoltre l’entrata in scena, apparentemente incongrua, dell’Eumolpo


cinematografico fra una coppia di quinte costituite da frammenti ingigan-
titi di scrittura cuneiforme modernamente ricreati a pittura, in nero su
bianco, – e perché poi queste grafie dipinte in una pinacoteca? – potrebbe
spiegarsi come un riferimento all’interesse archeologico e antropologico,
segnico e semantico, sempre manifestato da Villa per le origini mesopota-
Fellini-Satyricon e l’arte contemporanea 159

miche della scrittura e da lui riversato più volte anche nella sua poesia e
nell’ermeneutica dell’arte contemporanea (di Capogrossi, ad esempio38).
Anche nella sua rara, ma costante, pratica creativa nell’ambito delle ricer-
che verbovisuali Villa offre un esempio calzante di questa commistione
babelica tra il segno scrittorio originario (i caratteri cuneiformi), lo spazio
destrutturato dell’informale e l’idioletto letterario di un francese barbaro e
elementare, inteso come la lingua madre del discorso sul profondo di tra-
dizione surrealista (Fig. 11).
Certo, se non direttamente a Fellini, almeno a Scordia, come a tutti i fre-
quentatori dei caffè di piazza del Popolo, non poteva essere ignota la figura
stazzonata ma piena di fascino affabulatorio di un Villa che attraversava
quotidianamente, come un esploratore d’altri tempi, il mondo dei pittori di
Roma. Vicino a personaggi come Ennio Flaiano e Leonardo Sinisgalli,
Scordia collabora fin dai primi anni Cinquanta con “Civiltà della macchi-
ne”, che nel 1953 e nel 1955 pubblica a più riprese sue illustrazioni, accan-
to ad altre di Cagli, Mafai, Gentilini, Sassu e Corpora, per citare solo alcu-
ni nomi tra i più noti.39 Il testo di Scordia I napoletani sanno fare anche que-
sto uscirà su un numero particolarmente denso della rivista, quello del set-
tembre del 1954, nel quale s’incontrano testi come l’Antologia Dada di
Achille Perilli, Teoria e pratica della X Triennale di Dorfles, Ritorno alla socio-
logia di Enzo Paci e, soprattutto, Le navi di Ulisse dello stesso Emilio Villa.40
Così un altro dei protagonisti di quella stagione, l’artista Fabio
Mauri, ricorderà Villa nel 1983:

Dalla parte di via Ripetta, sotto i gradini della Chiesa, è in arrivo un


altro gruppetto, una tribù nella tribù. Impermalito, curvo, veggente,
Emilio Villa è con Giulio Turcato, intabarrato d’agosto. Non si capisce
chi è il cieco e chi è il bastone. Come Lutero, Villa traduce la Bibbia,
legge il sanscrito, redige “Appia” rivista d’arte […], ha scoperto Burri,
o per lo meno gli è intimo.41

38 Cfr. COLOMBO 2005.


39 Cfr. “Civiltà delle macchine” I, 4, luglio 1953; I, 5, settembre 1953; I, 6,
novembre 1953; III, 4, luglio-agosto 1955. Sulla stessa rivista Brunello Rondi pubbli-
ca nel 1958 (VI, 1, gennaio-febbraio 1958) il suo Bilancio del Neorealismo italiano e
Gastone Novelli, proprio nel 1969 (XVII, 1, gennaio-febbraio), Il linguaggio figurativo
e la sua funzione.
40 “Civiltà delle macchine” II, 5, settembre 1954.
41 MAURI 1983, p. 63.
160 Giorgio Zanchetti

Figura 12 – FEDERICO FELLINI, Fellini-Satyricon (1969). La morte dell’Ermafrodito. Sc.


49, inq. 855: «[…] uno spiazzo pietroso, arido, senza un albero a vista d’occhio;
solo cespugli bruciati dal sole» (FELLINI, ZAPPONI 1969, p. 239).

Figura 13 – ALBERTO BURRI, Cretto bianco, 1971, incisione a secco su carta.


Fellini-Satyricon e l’arte contemporanea 161

E proprio dall’opera di Burri, invero carissima a Villa e certo ben pre-


sente a Scordia, è ricavata la più macroscopica e profetica suggestione
dall’arte attuale del Fellini-Satyricon, quando Donati e Scaccianoce am-
bientano al centro di una conca desertica gemella dei Cretti del pittore di
Città di Castello la scena della morte dell’Ermafrodito (Figg. 12-13). La
craquelure come risultato della libera articolazione di materiali pittorici
non convenzionali o incongrui è ovviamente presente nel lavoro di Burri
già dalla fine degli anni Quaranta, ma si sviluppa sistematicamente come
forma espressiva autonoma e inizia a comparire pubblicamente alle espo-
sizioni solo verso i primi Settanta, per approdare poi alla scala ambienta-
le e paesaggistica nel Grande cretto bianco di Gibellina, realizzato tra il
1985 e il 1989.
162 Giorgio Zanchetti

ABBREVIAZIONI BIBLIOGRAFICHE

ARBASINO A. 19772, Certi romanzi, Milano, Einaudi (prima ed.: 1964).


ARBASINO A. 19934, Fratelli d’Italia, Milano, Adelphi (prima ed.: 1963; secon-
da ed.: 1967; terza ed.: 1976).
BALESTRINI N. (a cura di) 1966, Gruppo 63. Il romanzo sperimentale. Palermo 1965
(Materiali, 7), Milano, Feltrinelli.
BETTI L. 1970, Federico a.C. Disegni per il Satyricon di Federico Fellini, con una
Prefazione di O. Del Buono, Milano, Milano Libri Edizioni.
CANBY V. 1970, Fellini’s Magical Mistery Tour, in “New York Times”, 15 marzo
1970.
COLOMBO D. 2005, Emilio Villa: lettura fonetica delle Superfici di Capogrossi, in
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.... ~ ::: Nel 2009 occorrono i 40 anni dalla prima proiezione, alla XXX Mos tra :-:"
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Internazionale del Cinema di Venezia, d i Fellini-Satyricon, uno dei film
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,.':~ più misteriosi di Federico Fellini per i molteplici livelli di lettura che
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implica. Per questo anniversario giunge a conclusione un lungo lavoro di
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" '.;;' lo scopo d 'incrociare le letture di studiosi di aree disciplinari diverse: dal -
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sta al musicolog o, un lavoro prose guito nel tempo con il coinvolgimento
di altri ricercatori com e il g lottologo, impegnato a identificare le tante
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lingue solo in pa rte sconosciute o inc om prensibili presenti nei dialoghi
. ~: della pellicola. Si è creato così , in questi due ann i, un a sorta di laborato-
rio sul Fellini -Satyricon che ha portato , tr a l'altro, a un imponente lavoro
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di trascrizione della sceneggiatuta audiovisiva desunta direttamente dal
film e a interessanti e inedite scoperte sulle fonti antiche e contempora-
nee utilizzate dal regis ta e dai suoi più stretti collaboratori, come Nino
Rota, Danilo Donat i e Piero Tosi, al fine di creare un gioco caleidoscopi-
co d i continui rimandi fra presente e passa to. .:.~. '

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Il volum e è anche il primo risultato di un progetto pi ù ampio, Scene di


R oma antica. L'antichità interpretata dalle arti contemporanee, ideato dagli
stessi curatori nell 'ambito dell 'Università deg li Studi di Mi lano, con lo
scop o di evidenziare il punto di vist a sull'antichità romana di tutte le arti
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contemporanee (cinema, teatro , arti figurative, letteratura, musica, foto-
- grafia, tele visione e moda), che rappresentano il passato sia come sfondo,
sia come soggetto.

Gli Aut ori: G ianf ranco A ngelucci, G iuseppe Bartesaghi, Paolo B osisio, Raff aele
D e Berti, Marco D el Sant o, Elisabetta Gagetti, N icola Pace, Emilio Sala,
Andrea Scala, Fabrizio Slavazzi, G iorgio Z anchett i.

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della pellicola. Si è creato così, in questi due anni, una sorta di laborato-
rio sul Fellini-Satyricon che ha portato, tra l'altro, a un imponente lavoro
di trascrizione della sceneggiatura audiovisiva desunta direttamente dal
film e a interessanti e inedi te scoperte sulle fonti antiche e contempora-
nee utilizzate dal regista e dai suoi più stretti collaboratori , come Nino
Rota, Danilo Donati e Piero Tosi , al fine di creare un gioco caleidoscopi-
co di continui rimandi fra presente e passa to.
Il volum e è anche il primo risultato di un progetto più ampio , Scene di
R oma antica. L'antichità interpretata dalle arti contemporanee, ideato dagli
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