Sei sulla pagina 1di 6

CARL SCHMITT TRA BOLSCEVISMO

E FASCISMO di Eos
[ 25 novembre 2018]

«Solo la guerra rivoluzionaria è, per Lenin, vera guerra,


perché nasce dall’inimicizia assoluta. E’ anche il
riconoscimento della distinzione dell’amico dal nemico è la
cosa più importante, e determina tanto la guerra quanto la
politica».
Carl Schmitt

Finalmente c’è qualcuno che parla a sinistra di nuovo di


Schmitt! Era ora….
L’interessante critica di Bazaar al pensiero di Schmitt volge
verso due paradigmi concettuali di un certo spessore che
meriterebbero ben più ampio spazio ma che cerchiamo di
sintetizzare: il primo è che Schmitt sarebbe un reazionario
tout court, antiprogressista e antidemocratico; il secondo è
che sarebbe un ammiratore del regime fascista mussoliniano, il
più prossimo alla sua teoresi politica.

Premettiamo che in termini di filosofia politica pura, non è


possibile estrarre da un pensiero teorico un modello politico
deduttivo e universale se non semplificando e banalizzando: ad
es. il Robespierre dittatore rivoluzionario del ’93 fu
antirussoviano, Lenin e Mao conquistato il potere diventano
antimarxisti o quantomeno allievi eterodossi, i democratici
costituzionali diventano rapidamente oligarchi e pluto-
autocrati. Siamo comunque nel contesto della tirannia dei
valori.

Punto da cui si può partire, è il seguente: il decisionismo


schmittiano è democratico o antidemocratico? Il decisionismo
di Schmitt scaturisce da due fondamentali fatti storico-
politici: l’elaborazione dell’art. 48 della Repubblica di
Weimar, dunque la prefigurazione dello stato d’eccezione e il
leninismo. Per Schmitt, teorico prenazista e non nazista del
Reich democratico-presidenziale, il leninismo è un evento
epocale come lo furono la guerra civile inglese e il ’93
francese. Lenin diviene il prototipo sperimentale di quello
che Bazaar definisce, forse con una decisiva forzatura, il
darwinismo sociale schmittiano (noi lo definiamo invece
politicismo monistico neo-hobbesiano). Lenin è il politico che
distingue i fronti tattici declinandoli già dal 1902 nella
strategia dell’amico-nemico. Lenin è colui che instaura la
democrazia sovietica, prassi di puro sovranismo giuridico
decisionista nel contesto dello stato d’eccezione. Lenin, per
Schmitt, è dunque il politico. E’ un dittatore, ma
democratico!
Dilegua così l’originario significato oggettivista marxista
della filosofia leninista nell’azione, nella prassi partigiana
rivoluzionaria del leader sovietico. I passi sull’amico-nemico
elaborati da Schmitt non sono comprensibili se non alla luce
della lezione dell’ “Ottobre rosso”.

A nostro avviso, quello di Schmitt rimane tutt’ora il più


significativo contributo all’analisi del leninismo quale
strategia della vittoria rivoluzionaria. Non è un Lenin
soreliano quello indicato da Schmitt, come Galli — Genealogia
della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico
moderno —sembra voler indicare tra le righe, non è affatto il
profeta del proletariato mondiale come han pensato milioni di
ingenui leninisti; per Schmitt Lenin è il leader universale
della borghesia rivoluzionaria progressista, militarizzata. E’
il nuovo Cromwell, in sostanza. Rinato alla luce del “Vom
Kriege” di Clausewitz, aggiungiamo noi ora. E Schmitt,
filosoficamente fermo alle categorie matematico-politiche
hobbesiane, sostanzialmente estraneo alla lezione del
Machiavelli, che forse a torto considera pre-moderna, dicendo
Cromwell dice l’archetipo della prassi politica. E’
neomarxista Lenin? Sì, lo è, se il nocciolo puro del Marx, che
il politico Lenin disvela, è quello stesso della gentiliana
filosofia della prassi: le Tesi su Feuerbach. Non lo è per il
resto, o almeno non lo è quanto lo siano i “revisionisti” ed i
plechanoviani.

Il decisionista Schmitt teorizza dunque nella consapevolezza


che esiste, nella storia della prassi politica, nel regno
della grande politica, un prima Lenin e un dopo Lenin. In più
casi, inoltre, Schmitt si definisce un marxista; ma non è
questa la sede di analisi dell’eventuale marxismo schmittiano.
Rimandiamo per questo agli studi di Mario Tronti o del
Cacciari di fine anni ’70 ( che oggi ha dimenticato quelle
profondità…). Schmitt non è un politico, come è evidente, ma
un giurista e un filosofo della politica. Non si può
liquidare, a nostro avviso, con la categoria di reazionario
antiprogressista ma eventualmente sarebbe più corretto
classificarlo come tradizionalista. E’ esistito un
tradizionalismo comunista? Certamente sì! Cosa era, del resto,
il maoismo, se non tradizional-comunismo, rimeditato alla luce
dell’erratissimo occidentalismo, “americanistico”,
rivoluzionario progressista del sovietismo delle origini e
dello stalinismo? Cosa era la tarda Unione Sovietica, con la
rinascita culturale del nazionalismo grande-russo? Cosa è oggi
la NordCorea se non un esperimento di tradizional-socialismo
neoconfuciano? E si noti, per Schmitt, se vivesse…, la Corea
“socialista” sarebbe democratica, mentre non lo sarebbe
l’Occidente. Democratico, ai suoi tempi, era per lui Lenin,
non Wilson. La democrazia schmittiana presuppone il conflitto
sociale, lo stato d’eccezione, la massima tensione politica.
Ma non è inclusiva, come lo deve essere il Principato
machiavellico. E’ totale. E totalitaria. Non l’astratto
economicismo o il relativismo universalistico è democratico.
E’ liberalismo questo, per Schmitt.

Dunque progressista e anti-progressista, democratico e


antidemocratico sono categorie che schmittiamente vanno usate
a dosi omeopatiche.

Schmitt fascista e mussoliniano, dice Galli. E Bazaar sembra


fare suo il pensiero. La fascinazione dello Schmitt per
Mussolini è effettiva. Ci sta. Mussolini, per il giurista
tedesco, è il Principe machiavelliano contemporaneo. Se Lenin,
il Cromwell rosso, marciava hegelianamente con la storia, la
cavalcava, Mussolini riportava il Rinascimento nella
modernità, era un prerazionale o un antirazionale. Il suo
merito indiscusso di politico fu di affermare la dimensione
del mito e dello spirito nella storia, come un profeta
weberiano lavatosi con un bagno di realismo politico italiano.
Questo il pensiero di Schmitt.

Ma il punto è che Mussolini fu un crociano e un elitista


paretiano antidemocratico, non fu nè gentiliano nè
schmittiano; si vedano i suoi scritti su Machiavelli, i più
sinceri e importanti nella sua produzione teorica dove
individua machiavellicamente nel liberalismo individualista
anglosassone il nemico: nello Stato opera morale il leader
romagnolo identifica la quintessenza fascista e l’alternativa
al mondo globale occidentale anglosassone. Mentre Lenin fu
schmittiano senza conoscere Schmitt, il leader italiano, pur
conoscendo Schmitt, non lo fece mai “suo”. Lenin, narra la
leggenda, lesse, o rilesse il Principe, durante le giornate di
Pietrogrado. Ma Lenin non fu machiavellico. La tradizione
romana, mediterranea, dell’inclusione politica gli è estranea;
inutile girare troppo attorno al problema. Lenin non fu un
buon medico. Fu un chirurgo. Hobbes e Clausewitz si
sintetizzarono nella sua azione di statista rivoluzionario.
Mussolini socialista invece (sino al 1914) non fu marxista ma
elitista blanquista e teorico dell’attivismo “irrazionalista”,
l’antipopulista per eccellenza del partito socialista, sebbene
da leader politico comprendesse la centralità del raccordo
strategico tra elite-masse mobilitate.

Schmitt teorizza lo Stato totale (dunque anche in questo caso,


le eventuali affinità con l’URSS staliniana e socialista
andrebbero ben sviscerate) mentre Mussolini attua un neo-
principato civile, uno Stato di cultura rinascimentale,
neomachiavelliano, in epoca contemporanea. Mussolini fu
profondamente inclusivista al contrario del messaggio centrale
schmittiano. Durante il regime, peraltro, i filosofi idealisti
fascisti accusavano Schmitt proprio di darwinismo sociale,
mentre la politica mediterranea fascista sarebbe stata per gli
ideologi mussoliniani di respiro universale, imperiale-latino,
cristiano. Si leggano Cantimori, Battaglia, Berto Ricci, per
fare tre nomi. Singolare la coincidenza di vedute
antischmittiana: il giurista tedesco sarebbe un darwinista,
dunque un antifascista. Elemento, a loro avviso, questo del
presunto darwinismo schmittiano, che avrebbe attestato il
carattere non totalitario del regime di Mussolini,
distanziandolo dalla Germania hitleriana e dalla Russia
sovietica.

In definitiva ci pare vi sia il rischio il torcere in senso


anti-leninista e democraticistico-atomistico la nuova via
socialista. Se si tratta di salvaguardare strategicamente
l’art. 49 la distanza politica e strategica con il centro-
sinistra (anticomunista) degli anni ’70 dove sarebbe? Di
fronte poi a un così radicale antipoliticismo e
antischmittismo il rischio di precipitare nello spontaneismo
liberal ultra-sinistro (massimamente contrapposto al messaggio
fondato sull’avanguardia cosciente e sul partito
rivoluzionario di scuola leninista) è subito dietro l’angolo.
Già vedemmo i risultati straccioni e inconcludenti anni fa. I
Gender di oggi sono i figli degli Spontaneisti del ’68, come
specificava SOLLEVAZIONE giorni fa. Con Tronti, diremmo invece
volentieri più Schmitt, più Lenin, più organizzazione politica
e meno sociale. Più politica e più avanguardia. Meno diritti e
meno società civile. Avanguardie politiche nuove e novatrici o
la barbarie. Riconfiguriamo il leninismo dei nuovi tempi,
proviamoci, mandando una volte per tutte in frantumi il
socialismo sociale e socialdemocratico della sinistra
occidentale e torniamo alla pratica leninista dell’avanguardia
cosciente, politica, che è in fondo profondamente schmittiana.

Potrebbero piacerti anche