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ALBERTO ARA

“Non è morta, ma dorme”


Descrizione del momento
della morte
in vista della deificazione

Firenze 2020
Non spostare il confine antico, posto dai tuoi Padri
Proverbi 22,28

Noi né traiamo la fede da altri a noi più vicini nel tempo,


né osiamo presentare i parti della nostra mente,
per non fare oggetto di fede quelle che sono parole umane;
ma le cose che dai santi Padri abbiamo imparato,
quelle annunziamo a chi ci interroga.
BASILIO MAGNO, Epistularium, ep.1,2 (PG 32, 587)

a Donatella,
dolce mia compagna per l’eternità,
con il più grato immenso amore,
davanti a Dio nostro tenero Padre
con Leo
ed Emy
Introduzione

Parlare della morte è sempre questione delicata, per chi non crede ed an-
che per chi crede, seppur per ragioni ed in modi e misure diverse. Prima di
entrare nel merito è però necessaria una precisazione forse pedante ma fon-
damentale: fare (o tentare) una ‘teologia della morte’ è cosa diversa dal de-
scrivere il momento della morte. Questa distinzione ha bisogno di essere
esplicitata qui per evitare fraintendimenti tanto inutili quanto pericolosi.
Chi ha avuto occasione di leggere altri nostri saggi sa già che, per noi, la
‘teologia’ è ri-dizione agli altri di ciò che prima si è contemplato personal-
mente. In questo lavoro è certo stata utile l’esperienza della morte di nostra
madre, avvenuta proprio durante questa scrittura. Ma, in quanto contempla-
zione, non è mera ri-dizione: la teologia ha come obiettivo il cercare di mo-
strare il senso di un dato evento o elemento nel più ampio quadro della sto-
ria della salvezza, così come il teologo (cioè il contemplativo) l’ha percepi-
to. Una teologia della morte si pone quindi come fine il far vedere che, pur
essendo «entrata nel mondo per invidia del diavolo» (Sap 2,24a), Dio ha
permesso che ciò accadesse in vista di un bene maggiore. Approfondiremo
questo dato fondamentale nei capitoli della sezione seconda.
Descrivere il momento della morte è invece tutt’altra cosa: ovviamente il
legame inscindibile con il provvidenziale disegno di Dio rimane, ma il lato
personale e la valenza spirituale sono assolutamente più rilevanti. È diverso
anche ciò che viene contemplato e fatto oggetto di indagine: non è più ‘la
morte’ in sé e per se ma ‘la morte di Tizio’. Ciò implica, ad esempio, pren-
dere in considerazione il cammino spirituale ante mortem della tale persona
e gli esiti possibili cui questo lo prepara post mortem. Invece in una ‘teolo-
gia della morte’ in quanto tale ‘la morte’ deve essere descritta a prescindere
da tali declinazioni personali. Ancora. Questa personalizzazione non potrà
non avere ricadute assolutamente personali, ossia per me. Mentre penso e
parlo di Tizio, dei suoi ultimi momenti in statu viae, di quel che sceglie o
prova, come non pensare a me stesso, come non farmi domande e cercare
risposte per me, adatte alla mia situazione spirituale? E quel che dirò di Ti-
zio in qualche misura lo dirò implicitamente anche a me. Questa dimensio-
ne ‘riflessiva’ è invece esclusa de iure da una ‘teologia della morte’, perché
non parla della morte di Tizio ma della morte come evento generale.

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Questa descrizione richiede a sua volta una serie di precisazioni, sempre
per evitare fraintendimenti inutili e pericolosi.
Al momento in cui la ‘teologia della morte’ viene descritta come non ri-
ferita alla morte di Tizio si compie una operazione abituale nelle trattazioni
scientifiche, perché è communis opinio che ogni personalizzazione compor-
ti automaticamente una perdita di oggettività, e ciò che non è oggettivo non
è scientifico. Ora, a nostro avviso questo non è vero, anzi, questa oggettivi-
vità spersonalizzata rischia di essere una finzione del pensiero e non fedele
1
descrizione di una realtà vera . Ma non possiamo negare che oggi si lavora
così: e non è prudente ritenere di essere nel vero se tutti gli altri dicono di
no. Né si può negare che non è facile gestire l’esperienza personale in mo-
do da non danneggiare il lato oggettivo delle questioni, che esiste ed è di
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grande importanza . Non si può negare neppure che, nel caso della morte, si
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1
A questo proposito, riguardo cioè alla fondazione di una epistemologia teologica non
ricalcata su quella scientifica, sarebbe bene riflettere su quel che è scritto (Sir 37,19-
22): «C’è l’uomo esperto maestro di molti, ma inutile per se stesso. C’è chi posa a
saggio nei discorsi ed è odioso, a costui mancherà ogni nutrimento; non gli è stato
concesso il favore del Signore, poiché è privo di ogni sapienza. C’è chi è saggio solo
per se stesso, i frutti della sua scienza sono sicuri». Qui ‘scienza’ e ‘sapienza’ sono
sinonimi, ma in Paolo non è così (1Cor 8,2): «La scienza gonfia, mentre la carità edi-
fica». Questa differenza è ben spiegata da TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae,
III, q.40, a.1, ad 2 (Paoline, 2063; trad. nostra): «Quella vita attiva secondo la quale
qualcuno, predicando ed insegnando, porta agli altri ciò che ha contemplato (contem-
plata aliis tradit) è più perfetta della vita che solo contempla, perché tale vita suppo-
ne l’abbondanza della contemplazione. Per questo Cristo scelse questa vita». Quindi,
la scienza è libera di scegliere l’epistemologia che preferisce, ma ci pare che la teolo-
gia dovrebbe adottarne una modellata sull’esempio di Cristo. E, come insegna Tom-
maso ma si legge anche in Sir 37, questa unisce la contemplazione personale alla
condivisione comunitaria, o meglio rende accessibile a molti ciò che il singolo scopre
esistenzialmente, nel suo personale rapporto d’amore con il suo Signore. La differen-
za non è piccola: p.es., il modo in cui si gestisce la vita privata è centrale nel far ‘teo-
logia’ ma non nel far fisica o storia; il borioso o l’avido può essere un ottimo scien-
ziato ma non un teologo, il lato intellettuale per il teologo è un mezzo per comunica-
re, per lo scienziato è lo strumento e la via della conoscenza e così via...
2
Questa nota è fondamentale: l’attenzione al lato personale non deve andare a danno
di quello oggettivo, perché, se così fosse, quel che scopro personalmente diventereb-
be incomunicabile agli altri, rinchiuso come sarebbe nella irriproducibile singolarità
della mia vita. All’idolatria della oggettività sostituiremmo l’idolatria della soggetti-
vità, ma il risultato sarebbe lo stesso: tagliar fuori il vissuto delle persone. Esempio
di questo è l’arte contemporanea, incomprensibile a gran parte delle persone e ritenu-
ta tale solo dai critici che la sfruttano per vendere le loro elucubrazioni intellettualoi-
di, pari a quelle dei se-dicenti ‘artisti’: Andy Warhol è l’emblema di tale solipsismo.
Ma chi ha detto che questa è ‘arte’? Chi sborsa migliaia di dollari per avere un feca-
loma sotto vetro? La deriva solipsistica dell’arte dispiace però, se soddisfa artisti, cri-
(segue)

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è di fronte ad una tale varietà di contesti esteriori e di atteggiamenti interio-
ri che non è esagerato dire tot capita tot mortes: prendere in considerazione
il lato personale senza affogarci dentro è davvero difficile.
Ancora. Il momento della morte non si può studiare a prescindere dal suo
contesto, ossia dalle tante altre sofferenze vissute dalla persona che muore
e in generale dall’intera umanità: lo vedremo nei capitoli 11-13. In effetti la
morte è la punta di un iceberg incredibilmente più vasto e complicato che si
chiama “problema del male”. Non vi è dubbio che ritagliarsi una fetta di un
problema così grande e dificile è operazione tanto comoda quanto scorretta
metodologicamente e decettiva dal punto di vista teorico. Però è vero pure
che il ‘problema del male’ compete in primis all’antropologia teologica, al
limite all’esegesi biblica; l’escatologia entra in gioco solo in seconda battu-
ta, per così dire ‘a giochi fatti’. E se non si può negare che escatologia e
protologia si toccano come i due estremi di una circonferenza, qui potremo
solo accennare al versante protologico della sofferenza, dandone per acqui-
sita e spiritualmente compresa l’origine così come la si è esposta in un altro
3
nostro saggio . Unica eccezione sarà nella seconda sezione, dove esamine-
remo la storia spirituale-dogmatica della ‘paura della morte’.
Infine. Per questa sua ineludibile personalità, il momento della morte non
può essere studiato se non parzialmente con gli strumenti teologici abituali
(Scrittura, Padri, Magistero), mentre ci si dovrà rivolgere con più insistenza
alle testimonianze dei santi e dei mistici, con tutto ciò che questo comporta.
Invece la teologia della morte è una teologia come tutte le altre, quindi sarà
da costruirsi sulla base della testimonianza della Scrittura, interpretata dai
Padri e dal Magistero in maniera autorevole e, in taluni casi, anche vinco-
lante; la testimonianza dei santi e dei mistici non è indispensabile, anche se
spesso utile e sempre gradita. Da questo percorso, poi, dovremo fare epo-
ché anche della vicenda terrena di Cristo; certamente è omissione curiosa,
dato che si sta cercando di fare teologia e non filosofia o psicologia, eppure
è necessaria, poiché la morte dell’uomo-Dio Gesù Cristo avviene in modi e
4
tempi decisamente diversi dai nostri . Questo non significa ignorare ciò che
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tici e compratori, che sia pure. Ma non possiamo dire lo stesso riguardo alla teologia.
Questa non può essere elucubrazione mentale, più o meno colta, ma aiuto ad amare
più e meglio nostro Signore, che per questo ha dato certi doni a certe persone.
3
Cf. A. ARA, All’incrocio tra teologia e spiritualità: il caso del peccato originale. No-
te di antropologia fondamentale e spiritualità fondamentale nell’ambito di una Teo-
logia Fondamentale, Beau Bassin 2017.
4
Cf. CCC, n.627: «La morte di Cristo è stata una vera morte, in quanto ha messo fine
alla sua esistenza terrena. Ma, a causa dell’unione che la Persona del Figlio ha man-
tenuto con il suo corpo, non si è trattato di uno spogliamento mortale come gli altri,
perché (At 2,24) “Non era possibile che la morte lo tenesse in suo potere”, e perciò
(segue)

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la morte dell’uomo-Dio Gesù Cristo ha da insegnarci: al contrario, proprio
a partire dalla morte e resurrezione di nostro Signore approfondiremo nella
prima sezione il concetto di dormitio come immagine della morte. Anche in
quella occasione però ci dovremo guardare con cura dalla tentazione di fare
una cristologia completa.
Come si vede, tra la descrizione del momento della morte e una ‘teologia
della morte’ vi è una differenza di contenuti, obiettivi e strumenti tutt’altro
che irrilevante. Confonderle è perciò piuttosto pericoloso. Tuttavia, proprio
per non tagliar fuori il lato personale, dopo una prima sezione dedicata allo
studio della dormitio come immagine della morte (capitoli 1-5), ed una se-
conda dedicata alla ricostruzione storica e spirituale della paura della morte
(capitoli 6-10), proponiamo una terza sezione.
Questa offre un quadro dogmatico generale: dopo tre capitoli dedicati al-
la evoluzione della teologia della morte, evoluzione descritta storicamente
ma anche dal versante spirituale, seguiranno tre capitoli più tecnici.
I capitoli ‘storici’ (11-13) si avvarrano ampiamente degli studi sociologi-
ci e dei saggi filosofici che hanno trattato della morte, affiancandoli ai con-
tributi di santi mistici rilevanti nei diversi periodi. Questa integrazione ar-
ricchirà il dato storico-sociologico di aspetti importanti, anche se la scelta
dei santi da consultare, ovviamente ristretta, è stata davvero ardua.
Il capitolo 14 si occuperà di descrivere l’istante della morte in prospetti-
va della deificazione dell’uomo, in virtù della quale egli diventa per grazia
come Dio è per natura. È chiaro che questa visuale trasforma radicalmente
il significato spirituale e metafisico della morte. E siccome la deificazione è
sinonima di santificazione, diventa chiaro il superamento sia delle prospet-
tive solo umane, proprie dei non credenti, che di quelle solo morali, proprie
di una certa escatologia ed antropologia teologica.
Il capitolo 15 è invece dedicato a questioni ‘particolari’: come si vive la
morte degli altri, la morte dei bambini, come ci si prepara alla nostra morte,
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(TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, III, q.51, a.3, ad 2): “la virtù divina ha
preservato il corpo di Cristo dalla corruzione”. Di Cristo si può dire contemporanea-
mente (Is 53,8): “Fu eliminato dalla terra dei viventi” e (Sal 16,9s; At 2,26s): “Il mio
corpo riposa al sicuro, perché non abbandonerai la mia vita nel sepolcro, né lascerai
che il tuo santo veda la corruzione”. La resurrezione di Gesù “il terzo giorno” (Lc
24,46; 1Cor 15,4) ne era il segno, anche perché si credeva che la corruzione si mani-
festasse a partire dal quarto giorno (cf. Mt 12,40; Gv 2,1 [? forse 11,39]; Os 6,2)».
Poiché dopo la morte il nostro corpo invece conoscerà il disfacimento, sono evidenti
le ragioni del fare epochè della Sua situazione dovendo trattare della nostra. Anche
se il permanere della forma di Cristo per tre giorni post mortem è del tutto simile a
quella delle nostre forme più o meno per un tempo analogo. Ma, per non addentrarci
in dettagli un po’ troppo sottili, è meglio trascurare questo elemento e, come si dice-
va, fare epoché tout court della morte del Cristo.

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l’ultimo istante di vita. Le poche volte che si affrontano, queste situazioni
sono demandate alla morale, però non si può sperare di avere buoni risultati
senza una inquadratura che sia allo stesso tempo sistematica e spirituale. Il
lato personale ed esperienziale certo prevale su quello generale e teorico,
ma ci si è sforzati di mantenerli entrambi: la chiave di volta sta nelle dina-
miche spirituali, sulle quali diremo qualcosa tra poco.
Chiude il percorso il capitolo 16, dedicato alla presentazione di una pro-
spettiva teologica generale, nella quale l’istante della morte e in generale la
presenza di tale evento viene inquadrato nella prospettiva del cammino di
deificazione. Ciò ha richiesto l’elaborazione compiuta di tale dottrina, oggi
molto menzionata ma ben poco sistematizzata. Non essendo questo un trat-
tato di antropologia ci siamo limitati all’indispensabile, ma il risultato è co-
erente e completo. Quanto sia cogente lo stabilirà il lettore.
Ciò detto, due parole sul metodo e sul tono dell’esposizione.
Per quel che riguarda il metodo, questo ha risentito di due elementi prin-
cipali. Il primo è la scarsità di riflessioni sistematiche di una certa ampiez-
za: la letteratura teologica sul tema della morte è molta, ma spesso consta
di saggi brevi o brevissimi, quasi sempre di tenore generale o concentrati su
5
questo o quell’aspetto della riflessione di Tizio o di Caio . Il secondo è la
perdita di contatto non solo con la Scrittura, della quale si citano i soliti
due, tre singoli versetti, ma soprattutto dei Padri, della Liturgia ed anche
del Magistero. Quest’ultimo, è vero, non ha molto da dire sulla morte, ma
gli altri ambiti sono autentiche miniere. Qui si è dunque scelto di lavorare
soprattutto su Scrittura, Padri e Liturgia; la scarsità dei contributi sistemati-
ci da un lato ha ostacolato, dall’altro ha favorito quest’opzione; in ogni ca-
so se ne è tenuto conto. Questa impostazione ha sortito due effetti.
Il primo è che in diverse occasioni l’esposizione si concretizza in una se-
rie di testi, biblici, patristici, liturgici o magisteriali, citati in porzioni ampie
per facilitare il confronto: il nostro apporto consiste essenzialmente nel co-
ordinarli e commentarli. Con quali esiti lo deciderà il lettore: noi crediamo
che la prospettiva emersa sia quella insita in quei passi.
Il secondo effetto è l’importanza delle dinamiche spirituali. La teologia è
molto attenta alla filosofia, alla storia, in misura più ridotta alla psicologia,
ancor meno alle scienze, ma non vi sono tracce delle dinamiche spirituali.
La Scrittura, i Padri, ed in misura minore anche la Liturgia, vanno invece in
direzione opposta: le dinamiche spirituali sono il cuore di quei luoghi teo-
logici. E siccome oggi molti ignorano anche i dati più elementari della vita
spirituale, spesso li si è dovuti ricostruire: un po’ rapidamente e non in mo-
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5
Istruttiva la ricognizione della bibliografia citata in F. BRANCATO, La questione della
morte nella teologia contemporanea. Teologia e teologi, Firenze 2005, 141-149.

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do approfondito, ma in misura sufficiente ai nostri scopi. Il risultato, il let-
tore se ne accorgerà subito, è una teologia oggettivamente diversa, nel me-
todo e nei contenuti, da quella cui si è abituati.
Il tono non poteva restare indifferente a questa alterità. Nella misura in
cui l’aspetto spirituale diventa importante, cresce pure la drammaticità con
la quale si colgono ed esprimono le questioni. Il tono vellutato e un po’ su-
per partes abituale nelle trattazioni teologiche diventa ambiguo per il suo
sistematico smussare gli angoli, ridurre le distanze, addolcire le opposizio-
ni. Funzionale ad una presentazione oggettiva delle questioni, si rivela in-
vece fuorviante nel cogliere la portata esistenziale delle dinamiche spiritua-
li. Una dimensione che non permette di essere super partes ma costringe ad
optare per una o per l’altra. Di conseguenza il lettore potrà trovare sgrade-
vole o anche irritante il modo in cui viene presentato questo o quel punto, o
alcuni giudizi sulla pastorale o su certi saggi.
Per parte nostra, nessun problema. Non solo riconosciamo in pieno il di-
ritto al dissenso, ma ci preme ricordare che quelle qui offerte sono solo le
nostre opinioni, e di un teologo di periferia per di più: valgono perciò tanto
quanto riusciamo a provarne coerenza e cogenza. A noi interessa non smi-
nuire quella che ci pare sia la reale portata dei testi: se poi la si è espressa
male, chiediamo scusa fin d’ora. Tantomeno si creda che i toni talvolta un
po’ seri o bruschi nascano da o portino a giudizi sulle persone: gli anni e le
molte cose viste e vissute ci hanno insegnato a non osare simili errori di
presunzione. Solo nostro Signore giudica le persone, e forse neanche Lui,
soltanto noi stessi. Quel che si è cercato di fare qui è aiutare a comprendere
esattamente e chiaramentete i termini delle alternative: la scelta è sempre e
comunque libera, tutta e solo della singola persona.
Chiudendo questa introduzione, ci affidiamo alla SS. TriUnità perché
guidi il percorso delle nostre parole nei cuori di chi le leggerà, e portino i
frutti che Lei vuole.

Ad maiorem
Dei gloriam

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SIGLE

Per le riviste si è scelto di non ricorrere alle sigle per facilitare la lettura dei rimandi

AAS Acta Apostolicae Sedis, Città del Vaticano, 1909ss.


AHDLMA Archives d’Histoire Doctrinale Litteraire du Moyen Age, 1927ss.
CCC Catechismo della Chiesa Cattolica, Città del Vaticano 1992.
CCsl Corpus Christianorum, series latina, Turnhout 1953ss.
CCsg Corpus Christianorum, series graeca, Turnhout 1953ss.
CCcm Corpus Christianorum, continuatio mediaevalis, Turnhout 1953ss.
CIC Codex Iuris Canonicis, Città del Vaticano 1983.
COD Conciliorum Oecumenicorum Decreta, a cura di G. Alberigo, G.L. Dossetti,
P.P. Joannou, C. Leonardi, P, Prodi, Bologna 1996.
CSEL Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum, Wien 1866ss.
CTP Collana Testi Patristici, Roma 1979ss.
DS H. DENZINGER-A. SCHÖNMETZER, Enchiridion symbolorum definitionum et
declarationum, Barcelona-Freiburg i.B.-Roma 197636.
DPAC Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane, a cura di A. Di Berardino,
Casale monferrtao 1983.
DSAM Dictionnaire de spiritualité, ascétique et mystique, Paris 1932ss.
DTAT Dizionario Teologico dell’Antico Testamento, Torino 1978ss.
EV Enchiridion Vaticanum, Bologna 1966ss.
LXX Septuaginta (testo greco dell’A.T.), ed. A. Rahlfs, Stuttgart 1979.
MANSI G.D. MANSI, Sacrorum Conciliorum Nova Amplissima Collectio, Lucca
1749ss.
NBA Nuova Biblioteca Agostiniana, Roma 1982ss.
PG Patrologia Graeca, curante J.-P. Migne, Parisiis 1857-1866.
PL Patrologia Latina, curante J.-P. Migne, Parisiis 1844-1864.
SAEMO Sancti Ambrosii Episcopi Mediolanensis Opera, Milano 1987ss.
SCh Sources Chrétiennes, Paris 1943ss.
TM Biblia Hebraica, ed. K. Elliger - W. Rudolph, Stuttgart 1984.
Vulgata, ed. R. Weber, Stuttgart 1983.

ABBREVIAZIONI PER LE OPERE MEDIEVALI

a.n articulus numero n. inq.n. inquisitio numero n.


adnum responsio all’argumentum n. lectio n. lectio numero n.
arg.n. argumentum numero n. p.n pars numero n
comm.n commentum numero n. q.n quaestio numero n.
dist.n distinctio numero n. q.lan. quaestiuncula numero n.
in NSent commento alle Sententiae di resp. responsio o determinatio
Pietro Lombardo n.sc sed contra numero n.

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PARTE PRIMA

UN’IMMAGINE:

la morte
come
dormitio
Capitolo 1

PRIMO EXPLICATIO TERMINORUM:


PER PRIMA COSA
SPIEGAZIONE DEI TERMINI

La morte è un evento ineludibile nella vita di tutti, quella personale come


quella dei nostri cari, ed è proprio quest’ultima quella che colpisce per pri-
1
ma ed in maniera (forse ) più dura. A questo riguardo, il Catechismo della
Chiesa Cattolica afferma:
«La morte è la fine del pellegrinaggio terreno dell’uomo, è la fine del tempo
della grazia e della misericordia che Dio gli offre per realizzare la sua vita
terrena secondo il disegno divino e per decidere il suo destino ultimo.
Quando è finito l’unico corso della nostra vita terrena, noi non ritorneremo
più a vivere altre vite terrene. “È stabilito per gli uomini che muoiano una
volta sola” (Eb 9,27). Non c’è reincarnazione dopo la morte.
La Chiesa ci incoraggia a prepararci all’ora della nostra morte (“Dalla morte
improvvisa, liberaci, o Signore”: antiche Litanie dei Santi), e chiede alla
Madre di Dio di intercedere per noi ‘nell’ora della nostra morte’ (“Ave Ma-
ria”) e ad affidarci a san Giuseppe, patrono della buona sorte: “In ogni azio-
ne, in ogni pensiero, dovresti comportarti come se tu dovessi morire oggi
stesso; se avrai la coscienza retta, non avrai molta paura di morire. sarebbe
meglio star lontano dal peccato che fuggire la morte. Se oggi non sei prepa-
rato a morire, come lo sarai domani? Il domani è una cosa non sicura: che
2
ne sai, tu, se avrai un domani?”»
Questa presentazione è autorevole ed istruttiva però, come ogni sintesi,
_____________________________
1
Aggiungiamo ‘forse’ perché la questione della morte è collegata a quella della soffe-
renza; se la morte di una persona cara è dolorosa, vederla soffrire senza speranza per
anni è uno stillicidio angosciante che devasta l’equilibrio di chi le sta intorno: da qui
la discussione sull’eutanasia. Questi temi competono alla teologia morale e non alla
fondamentale tuttavia, poiché parlare della morte esige anche l’affrontare il dolore,
come si è detto nell’Introduzione, dedicheremo alla questione appositi capitoli.
2
CCC, nn.1013s. La citazione finale è dal De imitatione Christi, I, 23, 1, da noi ap-
pena ampliata e tratta dalla trad. it. a cura di U. Nicolini, Milano 19875, 80s.

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riporta solo gli elementi essenziali. Una ‘teologia della morte’ richiede una
serie di integrazioni e sviluppi ben più consistenti: in questo capitolo dare-
mo quelli indispensabili alla comprensione della nostra proposta.

1.1. Il dato di fatto della morte:


posizione della questione

Che la morte non sia affrontata da tutti alla stessa maniera è noto a tutti.
Questo è banalmente vero se pensiamo alle differenze caratteriali, ma il si-
gnificato più profondo di tale diversità è un altro, ed è ben colto da Paolo,
che ce lo insegna dicendo (1Tess 4,13 CEI73):
«Non vogliamo, fratelli, lasciarvi nell’ignoranza a proposito di quelli che
sono morti (gr. perì tôn koimômenôn; lat. de dormientibus; lett. ‘riguardo a
quelli che dormono’), perché non continuiate ad affliggervi (gr., lat. e CEI08:
‘siate tristi’) come gli altri che non hanno speranza».
Coloro che ‘non hanno speranza’ sono i non credenti, cioè chi non crede
alla vita eterna. Il punto è che spesso tali non credenti sono anche battezza-
ti, cresimati, sposati in chiesa e fanno la comunione tutte le domeniche. De
facto però sono meno cristiani di ebrei, musulmani, indù e persino buddhi-
sti, il che dovrebbe suggerire una seria riflessione sulle conseguenze di cer-
ta prassi sacramentale. In ogni caso, questi battezzati si disperano allo stes-
so modo di atei o miscredenti, e per questo, da ora in poi, con ‘non creden-
te’ intenderemo sempre chiunque non crede alla vita eterna.
Ciò stabilito, è banale osservare che i non credenti non possono che ve-
dere la morte con orrore e paura, dato che per loro è la fine di tutto, ed an-
che come rivelazione della assoluta e irrimediabile mancanza di senso della
vita. Il non credente ricco o benestante limita questa percezione cercando di
godersi il più possibile quel che ha o riesce ad ottenere. Chi non lo è, ma
aspira o spera di diventar tale, maschera quella stessa percezione affannan-
dosi a rubare denaro, cercare potere, rincorrere notorietà di ogni tipo. Chi
non sa o non ha il coraggio di sfruttare queste possibilità si chiude nel pro-
prio orticello, sfoga la sua frustrazione nel tifo sportivo o nei videogames,
che ne vampirizzano attenzione, interessi, vita sociale ed affettiva, e rifiuta
di pensare alla fine. Il non credente battezzato ha in più l’illusione di riusci-
re a limitare i danni recitando senza fine litanie di ogni genere, accendendo
un mare di candele a Maria Santissima o a tutti i santi, ma non si capisce
con quale scopo, visto che non crede di sopravvivere alla morte.
Per tutti, ma specie per chi non ha denaro da sperperare in auto lussuose,
ville, yacht, vestiti, gioielli e quant’altro s’inventa la sempre fiorente indu-

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stria del lusso per anestetizzare l’insopportabile ‘leggerezza dell’essere’, vi
è la ricerca del piacere, che ognuno si può procurare a buon prezzo: nel ses-
so, nella droga, nell’alcool, ma anche nella tavola, nelle feste, nel culto del
corpo e dello sport come unico interesse, totalmente assorbiti nel vuoto mi-
to americano di una giovinezza spensierata, senza dolore e senza fine. E se
è vero che il salutismo e la fuga nelle realtà virtuali sono gli ultimi ritrovati
dello stile di vita dei ricchi del Nord del mondo, è anche vero che sesso,
droga ed alcool sono drammaticamente diffusi anche nel Sud, specie nei
Paesi più poveri, e che funzionano come ‘anestetico’ sin dall’antichità per
tutti i popoli. Non è quindi una situazione contingente ma una caratteristica
essenziale del modus vivendi di chi non ha speranza dopo la morte.
Lo squallore di una vita così impostata si rivela nella vecchiaia, anzi, già
dalla mezza età o comunque quando svanisce la bellezza (se c’era), quando
denaro e potere non bastano più ad attrarre belle donne o begli uomini (a
seconda dei gusti), quando la notorietà svanisce (come ben sanno i divi del
cinema e dello sport). Si tenta allora di prolungare un passato ormai finito
moltiplicando lifting e protesi, riproponendoci in modi e contesti nei quali
fingiamo di essere a nostro agio mentre in realtà ci sentiamo ridicoli o pe-
nosi. Per tacere della malattia, sempre in agguato, pronta a portar via ‘i mi-
gliori anni della nostra vita’, come dicono le parole di una canzone una vol-
ta famosa. Arrivato quel tempo, tutto rivela la sua effimera consistenza, e le
parole finali del Qoelet rivelano o la loro spaventosa onestà o la loro mera-
vigliosa saggezza (Qo 12,1-8):
«Ricordati del tuo creatore nei giorni della tua giovinezza,
prima che vengano i giorni tristi e giungano gli anni di cui dovrai dire:
“Non ci provo alcun gusto”,
prima che si oscuri il sole, la luce, la luna e le stelle
e ritornino le nubi dopo la pioggia;
quando tremeranno i custodi della casa e si curveranno i gagliardi
e cesseranno di lavorare le donne che macinano, perché rimaste in poche,
e si offuscheranno quelle che guardano dalle finestre
e si chiuderanno le porte sulla strada;
quando si abbasserà il rumore della mola
e si attenuerà il cinguettio degli uccelli
e si affievoliranno tutti i toni del canto;
quando si avrà paura delle alture e degli spauracchi della strada;
quando fiorirà il mandorlo e la locusta si trascinerà a stento
e il cappero non avrà più effetto,
poiché l’uomo se ne va nella dimora eterna
e i piagnoni si aggirano per la strada;
prima che si rompa il cordone d’argento e la lucerna d’oro s’infranga
e si rompa l’anfora alla fonte, e la carrucola cada nel pozzo
e ritorni la polvere alla terra, com’era prima,

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e lo spirito torni a Dio che lo ha dato.
3
Vanità delle vanità, dice Qoèlet, e tutto è vanità» .
Queste parole suonano insopportabili alle orecchie di chi ‘non ha speran-
za’, come dice Paolo. Ma quanto è differente lo stato d’animo di coloro che
‘hanno speranza’, perché conoscono il Dio nel quale la ripongono: l’hanno
visto all’opera migliaia di volte nella loro vita, una vita come tante, una vita
non migliore né più importante di molte altre eppure così piena di grazie, di
delicatezze, di gioie dalla misericordia e dall’amore di Dio e per Dio. Come
bene disse Giacobbe ritornando sulle rive del Giordano (Gen 32,11a TM):
«Io sono più piccolo di tutte le benevolenze (lett. misericordie) e di tutta la
fedeltà/verità che hai dato (lett. fatto) al tuo servo».
E queste parole il patriarca le dice sapendo che il fratello Esaù gli viene in-
contro insieme a quattrocento armati, e certo non con buone intenzioni.
In effetti l’impressione negativa di Qo 12,1-8 è uno dei ‘trabocchetti’ in-
siti nella suddivisione della Scrittura in pericopi: se ignoriamo questa scan-
4
sione e seguiamo il testo biblico così com’è, si può iniziare a leggere an-
che prima, ad esempio da Qo 11,9s:
«Stá lieto, giovane, nella tua giovinezza, e si rallegri il tuo cuore nei giorni
della tua gioventù .
Segui pure le vie del tuo cuore e i desideri dei tuoi occhi.
Sappi però che su tutto questo Dio ti convocherà in giudizio.
Caccia la malinconia dal tuo cuore, allontana dal tuo corpo il dolore,
perché la giovinezza e i capelli neri sono un soffio.
5
Ricordati del tuo creatore nei giorni della tua giovinezza...» ,
ed allora il senso del passo cambia notevolmente: il triste lamento sull’in-
6
vecchiare diventa un elenco delle ragioni che un giovane saggio ha per ral-
_____________________________
3
Gli originali di Qo 12 sono molto diversi dalla trad. it., che seguiamo per semplicità.
4
L’attuale partizione del testo in capitoli è opera di Stefano Langton (prima metà del
sec.XIII), quella in versetti ancora più recente. Prima il rinvio veniva fatto riportando
l’inizio e la conclusione del passo che si voleva citare.
5
Anche qui gli originali hanno lezioni diverse dall’italiano; ed anche qui per semplici-
tà seguiamo CEI.
6
La trad. it. in ‘giovinezza’ dell’ebraico bachur in Qo 11,9 e 12,1 è corretta: la LXX, in
entrambi i casi, rende bachur con neótês, ‘giovinezza’, quindi è testualmente corretto
collegare Qo 11,9 e 12,1. Ma bachur, che solo in questi due versetti è in forma piena
(cioè, per l’esegesi rabbinica, ha il suo significato più pieno), significa ‘giovane atto
alla guerra, forte’, opposto a na’ar, ‘giovane inadatto alle armi, debole’, che si legge
p.es. in Ger 1,6: «Ahimè, Signore Dio, ecco io non so parlare, perché sono giovane
(ki na’ar ‘anokî)». La Vulgata invece distingue: in Qo 9,11, ha adulescentia, in Qo
12,1 riporta iuventute; la cosa non è indifferente, perché Gerolamo sa che lo iuvenes
(segue)

20
legrarsi. Ed è in questo senso che lo interpreta Cirillo vescovo di Gerusa-
lemme, che allarga la visione proprio nella prospettiva che ci interessa:
«L’Ecclesiaste, prevedendo questa venuta del Signore e gli ultimi eventi co-
smici, disse (Qo 11,9s): “Stà lieto, o giovane, nella tua giovinezza, ecc.”;
caccia il corruccio dal tuo cuore ed allontana dal tuo corpo ogni patema; ri-
cordati del tuo creatore prima che vengano i giorni tristi, quando il sole e la
luce della luna e delle stelle si oscureranno, e le pupille che guardavano dal-
le finestre - cioè le facoltà visive - si offuscheranno, quando il cordone
d’argento - cioè la struttura degli astri fulgenti come argento - si romperà, ed
il filo d’oro del sole - o della pianta chiamata ‘filo d’oro’ dai molti polloni e
dai petali simili a raggi di sole fulgente come oro - si infrangerà; quando al
cinguettìo dei passeri gli uomini risorgeranno e guarderanno la via percorsa
dalle alture senza alcuna paura.
Cosa guarderanno? Sta scritto (Mt 24,30): “Allora vedranno il Figlio
dell’uomo venire sulle nubi del cielo, e si batteranno il petto” “le tribù fami-
glia per famiglia” (Zac 12,12). E che cosa avverrà alla venuta del Signore?
Lo dice l’Ecclesiaste (Qo 12,5): “Fiorirà il mandorlo, la locusta s’ingrasserà
ed il cappero disperderà i suoi semi”. Secondo gli interpreti, il mandorlo in
fiore che annunzia la fine dell’inverno significa che allora, dopo questo in-
______________________________
ha diritti e doveri legali che l’adolescens non possiede. Quindi, o Gerolamo non leg-
ge il TM, o non l’ha ben capito oppure, per qualche ragione ignota, sente il bisogno di
rendere in due modi così diversi lo stesso termine. L’ultima ipotesi però è insosteni-
bile: bachur non è termine raro o difficile da tradurre, né conviene immaginare che
Gerolamo prenda alla leggera il testo di Qoelet (se fosse stato un altro libro, il discor-
so avrebbe potuto essere diverso, come scrive nella prefazione alla versione di To-
bia). Riguardo alla prima, la LXX concorda con TM, quindi quale altro testo può aver
letto Gerolamo? Un esemplare corrotto? Difficile, vista la cura con la quale i rabbini
copiano la Scrittura. Altrettanto difficile è che Gerolamo confonda bachur e na’ar: in
ebraico le consonanti sono diverse; in ogni caso, ciò avrebbe portato ad una tradu-
zione (come nella LXX), non a due. Né il problema scompare supponendo, in base al-
la LXX, che al tempo i due termini fossero sinonimi: perché Gerolamo ne usa due?
Per quel che riguarda il senso spirituale del termine bachur, il discorso è ancor più
interessante. Di solito la Scrittura collega saggezza ed anzianità: giustamente, perché,
come è scritto in Sir 4, prima di raggiungere la sapienza è necessario superare diverse
prove, il che richiede certamente del tempo. Ma l’età da sola non basta, come insegna
il racconto di Susanna, nel quale (Dn 13,50): «Gli anziani dissero a(l giovane) Danie-
le: “Vieni, siedi in mezzo a noi e facci da maestro, poiché Dio ti ha dato il dono della
anzianità”», mentre ad uno degli accusatori di Susanna Daniele dice (Dn 13,52): «O
invecchiato nel male!» Qo 11,9-12,1 ci spiega la ragione ultima di questa situazione:
nella vecchiaia si raccolgono i frutti del ‘ricordo del Signore’ compiuto nei giorni di
una ‘giovinezza atta alla guerra’, cioè di una giovinezza passata a combattere per di-
fendere la propria scelta per Dio. La saggezza dell’età nasce quindi dalle lotte soste-
nute nella gioventù; e si può anche aggiungere che, più tali lotte sono aspre e lunghe,
più il loro frutto sarà dolce e stabile; come è scritto (Sal 1,3): «(Il giusto) sarà come
albero piantato lungo corsi d’acqua, che darà frutto a suo tempo».

21
verno, il nostro corpo rifiorirà nel cielo; la locusta che acquista un corpo pe-
sante è figura dell’anima che riacquisterà il corpo rivestendone il suo essere
alato; il cappero che disperde i suoi semi è segno di colui le cui iniquità sa-
7
ranno disperse come spine» .
Quindi, l’amante di Dio associa alla percezione dell’effimera consistenza
dei beni terreni una serena fiducia nel suo Amato, un ben più forte anelito
all’incontro con Lui, un’irresistibile attesa dell’aldilà che non nasce dal do-
lore che prova nell’aldiqua. Di lui bene è scritto (Sal 128):
«Beato l’uomo che teme il Signore e cammina nelle sue vie.
Vivrai del lavoro delle tue mani, sarai felice e godrai d’ogni bene.
La tua sposa come vite feconda nell’intimità della tua casa;
i tuoi figli come virgulti d’ulivo intorno alla tua mensa.
Così sarà benedetto l’uomo che teme il Signore.
Ti benedica il Signore da Sion!
Possa tu vedere la prosperità di Gerusalemme per tutti i giorni della tua vita.
Possa tu vedere i figli dei tuoi figli.
Pace su Israele!»
Su questo Salmo, o meglio sulla liceità, anzi l’obbligo di interpretarlo al-
la lettera per salvare la retta comprensione del sacramento del Matrimonio
e più in generale della vita sociale e lavorativa dell’uomo, ci sarebbe molto
da dire. Per evitare ogni lettura fondamentalista, specie quelle per le quali i
ricchi sono tali a causa della loro fedeltà a Dio e quindi per volere divino,
per evitare queste sciocchezze, si diceva, ci piace affiancarlo ad un altro
passo, stavolta del Nuovo Testamento (Mc 10,28ss):
«Pietro allora gli disse (a Gesù): “Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti ab-
biamo seguito”. Gesù gli rispose: “In verità vi dico: non c’è nessuno che ab-
bia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa
mia ed a causa del vangelo, che non riceva già al presente cento volte tanto
in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e
nel futuro la vita eterna”».
Vi è dunque una ricchezza che viene da Dio, ma è quella che ricompensa
chi prima abbandona tutto, ricchezze ed affetti, e non per contrasti umani
ma per amore di Dio. Ed insieme all’agiatezza giungono anche persecuzio-
ni, ancora non a causa di contrasti umani ma perché si ama Dio; che vuole
_____________________________
7
CIRILLO DI GERUSALEMME, Catecheses, cat.15, 20 (PG 23, 896s; CTP 103, 334s). In
questa stessa direzione, ma molto più ampiamente, va anche lo PSEUDO-GREGORIO DI
AGRIGENTO (Metrofane di Smirne), In Ecclesiasten commentarius, X, 4-8 (CCsg 56,
332-348; CTP 255, 274-285). L’opera è del sec.X, ma rispecchia l’atmosfera spiritu-
ale dei secc.IV-V, quando Qoelet esprime il secondo dei tre gradini dell’ascesa spiri-
tuale, il primo dei quali è Proverbi ed il terzo il Cantico: cf. p.es. ORIGENE, In Canti-
ca canticorum commentaria, prologus, 3,1-4 (SCh 375, 128ss; CTP 1, 56s).

22
così perché non ci si attacchi al nuovo possesso. Per capire bene lo spirito
di chi vive in questo atteggiamento interroghiamo ancora Giacobbe, sempre
sul punto di ri-guadare il Giordano; ecco quel che dice (Gen 32,11s TM):
«Io sono più piccolo di tutte le benevolenze (lett. misericordie) e di tutta la
fedeltà/verità che hai dato (lett. fatto) al tuo servo.
Perché con il mio (solo) bastone passai questo stesso Giordano, ed ora ho
(lett. sono in) due accampamenti.
Liberami (lett. strappami), ti prego, dalla mano di mio fratello, dalla mano
di Esaù, perché temo che venga e colpisca me, la madre ed i (miei) figli».
L’amante di Dio non è esentato dal dolore o dal timore, ma l’ultimo ver-
setto non si può interpretare come se Giacobbe avesse paura della morte; lo
si capisce se si legge tutta insieme la sua preghiera (Gen 32,11ss TM):
«Io sono più piccolo di tutte le benevolenze (lett. misericordie) e di tutta la
fedeltà/verità che hai dato (lett. fatto) al tuo servo.
Perché con il mio (solo) bastone passai questo stesso Giordano, ed ora ho
(lett. sono in) due accampamenti.
Liberami (lett. strappami), ti prego, dalla mano di mio fratello, dalla mano
di Esaù, perché temo che venga e colpisca me, la madre ed i (miei) figli.
Tu dicesti: “Farò del bene con benefici a te, e farò la tua discendenza (lett.
metterò il tuo seme) come la sabbia del mare, che non si conta per moltitu-
dine».
Come si vede, Giacobbe non chiede di non morire, anzi, neanche adope-
8
ra il termine . Invece ha paura che Esaù annulli la promessa che lui ha rice-
vuto da Dio, o meglio vuole capire come questa possa avverarsi, dato che il
fratello gli viene incontro con molti armati per ucciderlo. Il senso dei due
accampamenti gli è ben chiaro: sono il frutto della prosperità che si conqui-
stato lavorando per suo suocero Labano, e sembrano la realizzazione della
promessa di Dio. Che significa dunque l’arrivo in forze di Esaù, il fratello
maggiore per fuggire il quale Giacobbe si è trovato a casa di Labano?
Questa incertezza nella comprensione è la forma più comune di tentazio-
9
ne per chi sceglie di servire Dio . Chi prende Dio sul serio scopre rapida-
mente che anche Dio è molto serio quando dice (Sir 2,1):

_____________________________
8
In realtà l’ebraico wehikkany, forma hiphil del verbo nakah, può significare sia ‘col-
pire, percuotere’ che ‘uccidere, ferire’: ma ‘uccidere’ non è ‘ferire’, e le altre forme
(niphal, pu’al, hophal) variano tutte sul primo lessema. La LXX ha patáxe, vulg. leg-
ge percutiat, quindi anche le versioni optano per il primo lessema. Si può perciò con-
cludere che Giacobbe pensa che Esaù lo percuoterà ma non che lo ucciderà.
9
Cf. p.es. quanto scrive GIOVANNI CRISOSTOMO, Commentarius in Iob, I, 21-26 (SCh
346, 136-154; CTP 256, 52-59). Su questo tema torneremo più volte in seguito.

23
10
«Figlio, se ti presenti per servire il Signore, prepàrati alla tentazione» .
Insieme alla forte presenza di un Dio tenero e provvidente, chi Lo prende
sul serio sperimenta altrettanto forte la presenza e l’azione continua del ne-
mico, che semina incertezze, inquietitudini, di solito per interposta persona
ma talvolta anche direttamente, e sempre lo vede sconfitto dalla preghiera
che invoca l’aiuto di Dio, della nostra Madre e dei santi. Ecco come avvie-
ne che le cose ultime in realtà sono continuamente presenti nella vita di chi
si è presentato per servire Dio, ed in definitiva ecco anche come le cose ul-
time non sono più ‘ultime’ della moglie, dei figli, del lavoro, del sonno.
Se si vive in questa prospettiva spirituale, le parole del Qoelet non sono
affatto il triste canto di lutto di un moribondo ma la serena contemplazione
di chi vede sciogliersi uno ad uno i suoi legami con questa terra; sono la il-
lustrazione ampia e dettagliata di quel che Paolo esprime con mirabile sin-
tesi così (2Tm 4,6ss):
«Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il
momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho termi-
nato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giu-
stizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non so-
lo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifesta-
zione»,
parole alle quali fa eco il grande Origene:
«Il nome di Gesù scaccia i turbamenti (ekstásis) dello spirito, i demoni ed
anche le malattie, ed infonde una straordinaria dolcezza, compostezza di ca-
rattere, amore per gli uomini, bontà e mitezza in coloro che non si fingono
cristiani a causa delle vicende della vita o a causa di certe necessità umane,
ma accettano sinceramente la dottrina riguardante Dio, il Cristo ed il futuro
11
giudizio» .
Certamente, a chi non ha una tale personale esperienza di Dio, le nostre
parole non possono che sembrare esagerate, esaltate, frutto di fondamenta-
lismo spiritualista. Pazienza. Se ciò che diciamo non piace o non convince,
lo si metta pure da parte; è Dio che converte i cuori. Il nostro compito non è
far cambiare idea ma solo illustrare quel che ci pare sia il depositum fidei a
riguardo di questa o quella questione; per il resto condividiamo quel che
scrisse l’Adamantino replicando al filosofo pagano Celso:
«È molto difficile che l’amore per la contesa e la prevenzione permettano di
guardare in faccia le cose, anche quelle evidenti, affinchè quelli che vi sono

_____________________________
10
Vedremo che LXX e vulg. hanno lezioni diverse dalla trad. it. ed anche tra loro.
11
ORIGENE, Contra Celsum, I, 67 (SCh 132, 266; Ressa, 154).

24
in qualche modo abituati non abbandonino le dottrine che hanno foggiato e
modellato la loro anima. È molto più facile che un uomo abbandoni le pro-
prie abitudini riguardo alle cose, anche se difficili da lasciare, piuttosto che
12
riguardo alle dottrine» .
Ma, se anche, dicendo ‘son cose da mistici’, si volesse mettere tra paren-
tesi questo che invece è l’unico livello al quale è fruttoso parlare delle ‘cose
ultime’ in relazione a quelle terrene (oltre che l’unico modo in cui sia bene
parlarne, se non si vuol fare dello spiritualismo disincarnato come quello di
tante sette orientalegganti), anche così, lo si dovrà ammettere, è chiaro che
un non credente non condividerà questa prospettiva futura. Allo stesso mo-
do, il credente non condividerà l’atteggiamento del non credente riguardo
alle cose ed alle persone, tantomeno la sua radicale sfiducia e disperazione.
E come potrebbe il non credente abbandonare l’intera sua vita nelle mani di
chi per lui non esiste? D’altro canto, come si può dire di essere credenti se
poi non abbandoniamo la nostra vita (che poi nostra non è) nelle Sue mani?
Cristiano è chi il cristiano fa, perché l’agire nasce dall’essere. Quanto alle
etichette, sacramentalizzate o meno non importa, nessuna è in grado di far
diventare pesce un’aquila: la si metta nell’acqua e si vedrà quanto vale la
scritta ‘pesce’. Per la verità, lo si è visto, la radicalità di questa alternativa è
onnipresente; ma di solito chi vuole farlo riesce a sfuggirla più o meno be-
ne. Davanti alla morte però questa ambiguità rivela tutta la sua risibilità.
Resta quindi assodato non solo che la morte è pre-sentita (in noi) e pre-
vissuta (negli altri) in maniera molto diversa dal credente e dal non creden-
te, ma anche che tra queste due percezioni ed atteggiamenti non vi è via di
mezzo, né si dà compromesso: dentro di noi o c’è l’uno o c’è l’altro. E poi-
ché non ci interessa fare apologetica, non ci resta che illustrare il modo cri-
stiano di pre-sentire (in noi), pre-vivere (negli altri) e considerare ‘nostra
sorella morte corporale’, come diceva san Francesco d’Assisi:
«Laudato si’, o mi’ Signore, per sora nostra morte corporale,
da la quale nullo homo vivente po’ skappare.
Guai a quelli ke morranno ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà ne le tue sanctissime voluntati,
13
ka la morte secunda nol farà male» .
* * *
Da quanto abbiamo detto, è evidente che solo il credente può essere inte-
ressato o anche aver bisogno di leggere una ‘teologia della morte’: per gli

_____________________________
12
ORIGENE, Contra Celsum, I, 52 (SCh 132, 216ss; Ressa, 137s).
13
FRANCESCO D’ASSISI, Cantico delle Creature, 12-15, in AAVV, Fonti francescane,
Padova 1977, 178.

25
altri infatti la morte è ‘semplicemente’ la fine di tutto. Ma, mentre chi non
14
crede non è davvero sicuro di quel che pure afferma , il credente, in quanto
tale, ha già chiare e sicure alcune idee importanti.
Ciò detto, stupisce scoprire che le ‘teologie della morte’ non sono molte,
come se sul tema non vi sia o non vi possa essere molto da dire, da capire,
15
da studiare . Ancor meno numerose sono le riflessioni che sottolineino non
il significato del distacco, quello mio da questo mondo e quello delle perso-
ne care da me, ma la continuità tra ciò che viviamo in questo mondo e quel
che saremo e vivremo nell’altro; e questa scarsità francamente non è facile
16
a spiegarsi . Di lavori che, infine, tratteggino il legame tra questo stato e
quello definitivo in prospettiva del ‘divenire per grazia come Dio è per na-
tura’, a che ci risulta, non ve ne sono affatto, e questo invece è quasi scon-
tato, dato il numero e la tipologia delle ricerche sul tema della deificazione.
Ma a questo dedicheremo un intero capitolo.
_____________________________
14
Se davvero tutto finisce con la morte, perché la si teme? Da lì certo non verranno dei
mali. Bisognerebbe invece temere la vita, che può diventare una tortura indicibile.
15
Il Occidente il rapporto con la morte si è molto evoluto nel tempo: cf. P. ARIÈS, Sto-
ria della morte in Occidente: dal Medioevo ai nostri giorni, Milano 1978; M. VO-
VELLE, La mort et l’Occident de 1300 à nos jours, Paris 1983; E. MORIN, L’homme et
la mort, Paris 20022. Oggi la tendenza più diffusa è quella che Lafontaine chiama
‘post-mortalità’ (cf. C. LAFONTAINE, Il sogno dell’eternità. La società postmortale,
Milano 2009): la morte è accadimento poco o punto importante, sul quale è inutile at-
tardarsi visto che il ‘dopo’, se c’è, è ignoto. Chiaramente questa prospettiva non ha
nulla di cristiano, ebraico o musulmano e neppure di indù o buddhista: è tipica del
becero edonismo diffus dalla produzione hollywoodiana che impera in Occidente da
metà del sec.XX. Negli altri continenti però l’atmosfera è molto diversa. In Africa,
senza l’asfissiante anestesia indotta dai mass media, il continuo contatto con la morte
unisce la tradizionale serenità (nel dolore) alla crescente percezione dell’ingiustizia
che spesso la provoca. In America Latina la situazione è analoga ma più esasperata:
il ruolo anestetico dei mass media è più rilevante, ma lo sono anche cultura e consa-
pevolezza delle persone. Nel Vicino e Medio Oriente l’Islam insegna a non temere la
morte ma Dio, con successo proporzionale alla comprensione della reale consistenza
dei cosiddetti ‘valori’ occidentali. Nella sua drammaticità, il fenomeno degli attentati
suicidi è molto istruttivo riguardo al senso della morte fuori dell’Occidente.
16
Emblematico a questo riguardo sono due saggi di J.C. NOEMI, «Significado teológico
de la muerte», Teologia y vida 29 (1988) 261-291; IDEM, «Vida y muerte: una refle-
xión teológico-fundamental», Teologia y vida 48 (2007) 41-55, che tratteggia il qua-
dro ‘teologico’ di una morte solo a parte hominis, ne sviscera i lati psicologici, etno-
logici, sociologici, filosofici, ma mai quello spirituale. Nomina spesso Dio, ma mai la
santità o i Novissimi. Noemi segue K. RAHNER, Sulla teologia della morte. Con una
digressione sul martirio, Brescia 1972 (or. 1958), rispetto al quale però omette il ‘ca-
so serio’ del martirio e l’excursus sul demonio; la prospettiva in sé è lecita ed anche
gradita all’odierno milieu culturel, ma perché la si vuol chiamare ‘teologica’? Con ta-
li omissioni de facto non lo è più.

26
Il bilancio delineato non è incoraggiante, e la tristezza che genera cresce
se si rileva che solo avendo un’alternativa seria e convincente si possono ri-
fiutare le lusinghe e le tentazioni di questo mondo, che non sono poche né
da poco. La prospettiva dalla quale abbiamo deciso di impostare questo no-
stro saggio ci impedisce però di prendere le mosse da questa situazione. Ci
pare infatti che, così facendo, non offriremmo ai nostri fratelli il depositum
fidei ma solo quella che pensiamo sia la risposta ad una situazione determi-
nata. Il diritto di avere risposte è sacrosanto, e ad esso corrisponde il dovere
di fornirle: ma una cosa è dare una risposta compiuta ad una domanda pre-
cisa ed un’altra è dare un insieme di punti di riferimento a partire dai quali
il singolo credente possa elaborare quella o qualunque altra che ritenga più
adatta alla sua personale condizione spirituale ed esistenziale. Ora, se non
si è grossolanamente frainteso il modus operandi dello Spirito nella storia
della Chiesa, Egli non ha mai seguito la prima strada ma sempre e solo la
seconda. Ha ispirato i successori degli apostoli a dichiarare questa o quella
dottrina come autentico ed affidabile ‘punto di riferimento’ per la prosecu-
zione del cammino spirituale, così come li ha anche messi in grado di sco-
prire e denunciare come tali quelli falsi, ma ognuno è sempre rimasto libero
di dare o meno il suo assenso di fede e di ragione.
In concreto, se cercassimo qui di elaborare una ‘teologia della morte’ per
i nostri fratelli del sec.XXI, ammesso che si sia in grado di farlo, riuscirem-
mo solo a dare una risposta, la nostra; non potrebbe mai essere la risposta
per tutti, e quindi neanche vera teologia. Questo carattere di ‘risposta per-
sonale’ le impedirebbe di divenire ‘punto di riferimento’ per il cammino
spirituale di tutti i nostri fratelli, e così in definitiva la sua utilità sarebbe
nulla: per noi perché la conosciamo già, per gli altri perché non è la loro ri-
sposta ma la nostra. Ecco la ragione per cui, in questo saggio, si è scelto di
tratteggiare alcune piste di riflessione seguite dalla Tradizione, dalle quali i
lettori trarranno gli spunti che meglio riterranno. E ciò senza supporre asso-
lutamente che le altre strade non seguano la santa Tradizione.
Ma, a questo punto, è bene cominciare ad affrontare le questioni.

1.2. Un’immagine biblica, metafisica, spirituale:


la morte come ‘dormitio’

Per riflettere in maniera sensata su un qualunque argomento o oggetto è


necessario almeno poterlo descrivere, ma nel caso della morte questo è, co-
me dire? un pò complesso, perché l’oggetto di indagine è piuttosto sfug-
gente... Nel caso non se ne abbia di precise e aggiornabili, uno scienziato si
accontenta di descrizioni almeno verosimili; in alcune branche scientifiche,

27
come la fisica delle particelle o l’astrofisica, questa è addirittura la norma, e
non di rado a chi riesce a trasformare questa verosimiglianza in una proba-
bilità ragionevole viene attribuito il premio Nobel. Ma, nel caso della mor-
te, non riusciamo neanche ad avere una rappresentazione verosimile o, se ci
si è riusciti, noi vivi non siamo comunque in grado di saperlo. Dal punto di
vista metodologico, indagare la morte è come studiare l’araba fenice. Però
nessuno ha mai visto il leggendario uccello, mentre tutti sanno, benissimo,
per esperienza diretta, che gli uomini muoiono. Tutti. Ogni giorno. A milio-
ni. Qualcuno muore felice, la gran parte no, i più lo fanno soffrendo, talvol-
ta in modo atroce. La fantasia dell’uomo si è inventata la fenice che risorge
dalle proprie ceneri, la sua bruta esperienza gli insegna che nessuno dei mi-
liardi di esseri che sono nati, cresciuti, hanno sofferto, hanno amato e sono
stati amati, nessuno di questi è mai tornato indietro a dirci qualcosa. Come
indagare qualcosa di così vicino ed allo stesso tempo così lontano? È vero,
per i cristiani una persona è risorta dai morti, l’uomo-Dio Gesù Cristo. Ma,
anche a prescindere dal fatto che per miliardi e miliardi di persone questo
non è un fatto sicuro, compresi molti tra coloro che si dicono nostri fratelli,
anche a prescindere da questa non trascurabile osservazione, dicevamo, re-
sta comunque non discutibile che nostro Signore non ci ha raccontato cosa
ha sentito e sperimentato quando è morto in croce, né quel che ha vissuto
nei tre giorni del sepolcro. Si potrebbe notare ancora che il Simbolo insegna
che è disceso agli inferi ed ha liberato tutti i giusti che là erano, non da pri-
gionieri ma neanche da ‘liberi cittadini’; però si dovrebbe replicare che, se
questo è vero, è altrettanto indiscutibile che ignoriamo quale fosse il suo
stato d’animo e quello di quei giusti, le sue e le loro sensazioni e così via.
La questione sembra senza via d’uscita. Ma, se la descrizione non ha pa-
role, la poesia ha ampi margini d’azione, l’evocatività dell’immagine è in-
tatta. Ai nostri giorni non è usuale servirsi della poesia o in generale delle
immagini per veicolare concetti: per il concorso un insieme di cause, le cui
radici sono lontane nel tempo, ci si è assuefatti all’idea che la ‘pura’ ragio-
ne si addice ai concetti e le immagini ai sentimenti o alle sensazioni. Men-
tre questi non hanno molto a che fare con la scienza, questa è tanto più pre-
cisa ed obiettiva quanto si scosta o si priva di sporgenze affettive. Non è il
caso qui di intraprendere disquisizioni epistemologiche al fine di mostrare
che non è così. Ci basta solo rilevare che non è questa la strada scelta dallo
Spirito nell’ispirare la Scrittura: la Parola di Dio si dà all’uomo in visioni,
in sogni, insomma in immagini così ricche di simbolismi che spesso sfida-
no la logica. Certamente non manca il lato discorsivo, argomentato, come è
chiaro da Deuteronomio o Romani, ma sempre l’ostacolo della indicibilità
razionale è aggirato con un’immagine. Inizieremo perciò il nostro percorso
proprio offrendo non una descrizione razionale ma un’immagine della mor-

28
te; e questa immagine non la sceglieremo noi ma ce la lasceremo suggerire
dalla Scrittura. Parleremo della morte immaginandola (cioè trattandola da
immagine) come ‘sonno’ (in latino dormitio). I dettagli biblici, patristici, li-
turgici e magisteriali di questa che, lo si può anticipare, è la sola descrizio-
ne cristianamente adeguata della morte, li offriremo nei prossimi capitoli.
Ora dobbiamo compiere un percorso diverso ma non meno importante.

1.2.1. La morte come ‘dormitio’:


i presupposti metodologici dell’esame

La nostra non è affatto una strada originale: i forti e numerosi spunti nel-
la Scrittura sono stati ripresi ed approfonditi dai Padri della Chiesa e dive-
nuti oggetto di preghiera ed intercessione nella Liturgia. Il punto è che quei
testi non sono stati letti così da tutti. Nel sec.XVI Martin Lutero continua a
considerare la morte come dormitio, ma lo fa a suo modo, declinando que-
sta categoria biblica in un senso che de facto rinnega l’interpretazione data-
ne per quindici secoli. E poiché questa deformazione non nasce da ingenui-
tà o scarsa capacità ma da determinate assunzioni a priori, in base alle qua-
li Lutero interpreta i passi della Scrittura, ecco che, da soli, questi possono
portare ad almeno due immagini di dormitio, contrastanti e incompossibili.
Dobbiamo perciò premettere l’esame di questa vicenda storica e teologica
alla lettura di quei testi per evitare di cadere negli stessi equivoci o malinte-
si. Equivoci o malintesi che vengono anche oggi riproposti tal quali da più
di una confessione, cristiana o sedicente tale, spesso per di più ammantan-
doli della veste di ‘novità’ mentre in realtà non lo sono affatto.
Naturalmente quest’opzione lascerà perplesso più di uno dei nostri letto-
ri: ad esempio, quelli che credono che il significato di un testo sia accessi-
bile a chiunque lo cerchi onestamente e correttamente, oppure che le scelte
di interpretazione seguano il coglimento del significato. Senza dubbio one-
stà e correttezza sono pre-requisiti indispensabili in questa come in ogni at-
tività umana, ma cosa qui significhino è meno scontato di quanto sembri. Il
riformato, se vuole continuare ad esser tale, non può rinunciare agli assiomi
luterani: potrà modificare o abbandonare qualche dettaglio, ma non rigetta-
re l’impostazione di fondo data da Lutero: mantenere tali assiomi sarà per
lui sinonimo di onestà e correttezza, perché li ritiene veri. Allo stesso modo
il cattolico può ridimensionare o abbandonare qualche dettaglio, ma non ri-
nunciare ai suoi assunti stravolgendo un’impostazione di fondo che ritiene
vera: questa fedeltà è ciò che onestà e correttezza significano per il cattoli-
co. Nessuno poi ha il diritto di chiedere all’altro di abdicare alla sua propria
identità confessionale. Siamo dunque di fronte ad un’altra impasse?

29
In realtà, come la filosofia del linguaggio sa ormai da un secolo, leggere
è interpretare; ed ogni interpretazione parte da certi assunti a priori. Questo
non significa che una lettura sia vera e le altre false: semplicemente, accet-
tati certi assiomi, i testi vengono letti in una direzione e non in altre. E sic-
come stiamo parlando di assiomi collocati alla radice del nostro percepire e
capire, spesso sembra che davvero i testi non possano significare altro da
ciò che noi leggiamo in essi. Ora, alcuni di questi assiomi sono così pro-
fondi da essere inconsci: solo un mutamento altrettanto profondo della pro-
pria percezione di sé può riverlarli ed eventualmente modificarli. Di conse-
guenza qui non potremo parlarne se non indirettamente, anche se le dinami-
che spirituali agiscono tutte a questa profondità. Altri assiomi invece sono
più superficiali, se ci si passa l’espressione: sono quelli acquisiti dal milieu
di nascita, dal livello di cultura nel quale ci si muove e vive, dal tipo di stu-
dio (se c’è), dalle esperienze vissute, insomma da quel numero incalcolabi-
le di elementi esterni che entrano a far parte della nostra forma mentis, che
costruiscono la nostra ‘visione del mondo’. Su questo genere di assiomi ci
possiamo soffermare perché, appunto, più ‘superficiali’. E da qui in poi ci
riferiremo solo a questi, poiché i primi, come si è detto, sono trasparenti,
presenti ed attivi ma invisibili, agli altri ma spesso anche a noi stessi.
Scegliere gli assiomi significa dunque scegliere come leggere i testi.
Pensare di poterlo fare a prescindere da ogni categoria ermeneutica è il-
ludersi, è assumere a priori che non abbiamo assunto niente a priori.
Nel nostro caso, gli assiomi in questione sono quelli che costituiscono la
visione cattolica o la visione riformata della morte come dormitio.
Ed è già evidente che o si opta per una o si opta per l’altra.
Ciò significa correre il serissimo rischio della polemica.
È davvero un rischio perché la verità non è mai legata alla ‘soluzione’ di
una polemica. Al contrario, è tutta e solidamente raggiungibile al di là e so-
prattutto senza di essa. Questo lo diciamo non perché fautori di un irenismo
poco intelligente ed ancor meno caritatevole, ma perché ciò che è vero lo è
per se stesso, non per l’abilità dialettica o logica di un polemista. La verità
ha in se stessa la ragione, la causa, la radice metafisica del suo esser vera,
perché ‘esser vero’ è rispecchiare la natura dello stato-di cose di cui si par-
la, è ri-dirlo in maniera corretta. La polemica può riuscire a mostrare queste
cause ed a rivelare questa natura: raramente però ci riesce, per la sua stessa
essenza spirituale di contrapposizione (se non di ira contro natura: polemós
in greco significa infatti ‘combattimento’). Ancora più difficile è che la po-
lemica riesca a far cambiare idea a qualcuno. Ce lo insegna anche Origene,
che di polemiche ne ebbe a sopportare molte, in un passo già letto:
«È molto difficile che l’amore per la contesa e la prevenzione permettano di
guardare in faccia le cose, anche quelle evidenti, affinchè quelli che vi sono

30
in qualche modo abituati non abbandonino le dottrine che hanno foggiato e
modellato la loro anima. È molto più facile che un uomo abbandoni le pro-
prie abitudini riguardo alle cose, anche se difficili da lasciare, piuttosto che
17
riguardo alle dottrine» .
In realtà, di norma far polemica serve solo a indurire nell’errore chi sba-
glia ed a rafforzare la presunzione in chi è nel giusto; ripresentarla altro non
è che replicare il grave errore spirituale di considerare noi ‘buoni, moderati
e saggi’, gli altri ‘stolti, parziali e cattivi’.
Le note che qui offriamo ci sono quindi per così dire ‘estorte’ dalla parti-
colare natura della questione che dobbiamo esaminare, dal fatto che l’errata
interpretazione di Lutero (ma non solo di lui e non solo la sua) trova il suo
18
fondamento ed il suo principio di coerenza interna non tanto in esegesi bi-
bliche discutibili (anche) o in una mancata o insufficiente valutazione della
Tradizione al riguardo (pure) ma, in primis, su alcuni assunti a priori di ti-
po antropologico e, in secundis, su altri assunti a priori di origine escatolo-
gica. Su questi ultimi, riconducibili in ultima analisi al rifiuto del purifica-
torio, qui non ci soffermeremo, appunto per non far polemica: la teologia
della morte non è la teologia dei Novissimi. Al purificatorio, se Dio lo vor-
rà, dedicheremo un prossimo saggio. Alla relazione tra assunti escatologici
ed antropologici dedicheremo il punto 12.3. Invece gli assunti a priori ri-
guardanti l’antropologia dovranno essere esaminati qui ed ora perché si
frappongono come una lente colorata tra l’oggetto visto e l’occhio che ve-
de, distorcono la realtà in un modo così radicale e profondo che è difficile
prenderne consapevolezza se non si solleva il problema in anticipo. A prio-
ri, appunto. Di conseguenza, se non descriviamo ora tali antropologici as-
siomi a priori non sarà possibile leggere i passi della Scrittura in senso cat-
tolico. E forse ciò potrà far riflettere anche qualche fratello riformato.
Ma entriamo nel merito.
_____________________________
17
ORIGENE, Contra Celsum, I, 52 (SCh 132, 216ss; Ressa, 137s).
18
Il ‘fondamento’ di una dottrina è la sua motivazione teoretica, il o i ragionamenti che
ne costituiscono il o i contenuti. Il principio di coerenza è invece il modo in cui una
dottrina viene esposta, modo che, ovviamente, deve evidenziarne in primis la coeren-
za vera e propria (cioè il non essere contraddittoria in quel che afferma), in secundis
la completezza (cioè l’essere capace di affrontare e risolvere tutti gli aspetti connessi
alla dottrina in questione) ed in tertiis la cogenza (cioè la capacità di convincere della
propria verità). Il principio di coerenza è sia interno che esterno: è interno nella misu-
ra in cui coerenza, completezza e cogenza appartengono alla elaborazione ed esposi-
zione della dottrina, è esterno nella misura in cui, per far questo, si serve di strumenti
come la logica formale, la dialettica, la ricerca e lo studio corretto ed esauriente dei
documenti disponibili. Come si vede, impostare una questione in modo scientifico è
cosa ben diversa dal semplice enunciare un’opinione in base a due o tre versetti.

31
1.2.2. La ‘dormitio’ cattolica e la ‘dormitio’ riformata:
contatti e distanze

Quando si è detto che l’a priori luterano consiste essenzialmente nel ri-
fiuto della esistenza del purificatorio si è affermato il vero, ma è altrettanto
vero che l’originaria concezione di Martin Luther fu rapidamente abbando-
nata dai suoi discepoli. Infatti Luther insegna la sopravvivenza dell’anima
separata dal corpo, però ritiene che (sopra)viva in uno stato di incoscienza,
del tutto analogo a quel che gli sembra accada ad ogni uomo che dorme: e
poiché la Scrittura, come vedremo tra poco, descrive spesso la morte come
dormitio (meglio, i morti sono detti ‘dormienti’, il che non è la stessa cosa:
ma per ora si soprassieda), allora Martin Luther ritiene che l’anima separata
19
dal corpo viva sì ma come priva di ogni sensibilità . Per questo motivo egli
_____________________________
19
Per alcuni riferimenti bibliografici essenziali cf. C. POZO, Teologia dell’aldilà, Cini-
sello Balsamo 1986, 170, nn.14-18. Questa concezione di anima separata va sotto il
nome di ‘condizionalismo’ o ‘immortalità condizionata’, perché si ritiene che ante
resurrectionem l’anima viva come in uno stato di sonno, dal quale si o sarà svegliata
in virtù della resurrezione della carne, e dopo il quale riceverà il premio e l’immorta-
lità oppure la condanna e l’annientamento. Come è già evidente, la dormitio luterana
può avere (e di fatto ha) conseguenze davvero molto serie; se non si mostra il suo es-
sere fondata su assunti antropologici, il rischio di prenderla per ‘biblica’ è altrettanto
forte. E di conseguenza sarà quasi impossibile mostrare la biblicità della visione cat-
tolica. Eppure, sul termine ‘condizionalismo’, sul concetto che esprime e soprattutto
sulle conseguenze metafisico-spirituali che comporta, tra i cattolici regna il silenzio:
p.es. POZO, op. cit., tace termine ed idea, ed è uno dei manuali più attenti all’esca-
tologia della Riforma; lo stesso fanno L. BOFF, Vita oltre la Morte. Il futuro, la festa,
la contestazione del presente, Assisi 1984, G. FROSINI, Aspettando l’aurora. Saggio
di escatologia cristiana, Bologna 1993, ed il più sistematico J. RATZINGER, Escato-
logia. Morte e vita eterna, in J. AUER - J. RATZINGER (edd.), Piccola dogmatica cat-
tolica, vol. IX, Assisi 20054. Identico silenzio in A. NITROLA, Trattato di escatolo-
gia, vol.I: Spunti per un pensare escatologico, Cinisello Balsamo 2001; vol.II: Pen-
sare la venuta del Signore, Cinisello Balsamo 2010, ben due corposi volumi. Stupi-
sce soprattutto il silenzio di V. SUBILIA, Il Regno di Dio. Interpretazioni nel corso
dei secoli, Torino 1993, poiché l’autore, valdese, giustamente si premura di esporre
la prospettiva riformata, che non ratifica il condizionalismo: il fatto che le confessio-
ni se-dicenti cristiane e le sette non cristiane che lo insegnano affermino di rifarsi ad
essa danneggia anche la Riforma. La voce ‘visione beatifica differita’ di Wikipedia
(aggiornata al 18/05/2013; Wikipedia non ha la voce ‘condizionalismo’) è fonte di
ulteriori e gravi errori: equipara la tesi di Giovanni XXII (dilazione della piena beati-
tudine) al ‘condizionalismo’, afferma che il ‘condizionalismo’ è sostenuto da alcuni
Padri della Chiesa (totalmente falso), annovera fra i ‘cristiani’ anche i Testimoni di
(segue)

32
rifiuta l’esistenza del purificatorio, oltre che per le note questioni legate alla
vendita delle indulgenze; o, per dir meglio, il suo rifiuto delle indulgenze lo
porta a concepire questo genere di escatologia intermedia. Il rapido abban-
dono di questa visione da parte dei Riformati non interessa, così come non
ci riguarda la sua ripresa iuxta modum a metà del sec.XX, appunto perché
non intendiamo far polemica con i Riformati né attardarci su questioni che
la onesta e completa disamina dei fondamenti della dottrina cattolica risol-
20
ve da sola nella maniera più esauriente .
È invece molto importante notare che la visione luterana dipende logica-
mente dalla assunzione a priori che un uomo addormentato sia privo di co-
scienza; la quale però, a sua volta, assume a priori che vi sia un solo genere
di coscienza, quello vigile: per questo in assenza di veglia si è incoscienti.
Si è dunque di fronte ad una doppia assunzione a priori, a cascata: assunto
che vi è solo un tipo di coscienza, quello vigile, si assume poi che durante il
sonno si sia privi di coscienza perché non si è svegli. Respingere la seconda
assunzione non implica il rifiuto della prima, viceversa rigettare questa im-
plica logicamente la negazione di quella. Quindi il fondamento della con-
cezione luterana (ma non solo della sua, lo si ricordi) è in un assunto antro-
pologico. E, ci piace dirlo anche se non potremo approfondirlo, il rifiuto da
parte dei riformati suoi contemporanei fu proprio il rifiuto di questa pretesa
incoscienza post mortem. Quanto al principio di coerenza della concezione
luterana (ma non solo della sua, lo ripetiamo), con tutta evidenza anch’esso
segue logicamente da questi due assunti a priori ‘a cascata’, poiché il modo
21
di esporre e giustificare quella interpretazione li suppone e se ne serve .
______________________________
Geova (completamente falso), vi si legge che “secondo il cristianesimo ortodosso le
anime dei dannati soffrono nell’ombra e quelle dei salvati stanno nella luce, acceden-
do alla visione divina solo al momento della resurrezione dei morti”, mentre la Bene-
dictus Deus del 1336 definisce esattamente il contrario ed i nostri fratelli Ortodossi
insegnano tutt’altro (piena beatitudine o dannazione post mortem, nessuna visio bea-
tifica). Più precisa la voce ‘condizionalismo’ dell’Enciclopedia Treccani.it: “nel lin-
guaggio teologico, la dottrina secondo la quale l’immortalità non è inerente all’anima
ma un dono di Dio, a ricompensa delle virtù esercitate in vita (pena dei malvagi sa-
rebbe l’annichilimento, immediato o graduale). È respinta da quasi tutte le confessio-
ni cristiane”. Come si vede, porre un legame tra il ‘condizionalismo’ e la dormitio
del NT, per quanto diffusa sia, è del tutto sbagliato: per questo è respinta da cattolici,
ortodossi e riformati. Una ricerca appena più approfondita evidenzia invece lo stret-
tissimo legame esistente tra il ‘condizionalismo’ e gli Avventisti del settimo giorno,
quaccheri, pentecostali, insomma tutta la frangia estremista della Riforma più, e so-
prattutto, i Testimoni di Geova: che non sono cristiani.
20
Per un rapido quadro d’insieme di questa evoluzione cf. POZO, op. cit., 469-472.
21
In verità non è semplice trovare affemazioni chiare e precise di questa posizione al di
fuori degli scritti di Lutero. Coloro che oggi riprendono le sue posizioni sono assai
(segue)

33
Ora, queste assunzioni a cascata sono entrambe false dal puro e semplice
punto di vista empirico.
Infatti, è vero che durante il sonno non abbiamo il tipo di coscienza che
si ha nello stato di veglia: ma da qui ad affermare che non possediamo nes-
suna forma di coscienza il passo è molto, troppo lungo. Partiamo da alcune
constatazioni empiriche. È vero che, durante il sonno, non sentiamo i rumo-
ri deboli, però, se l’intensità cresce, il dormiente si sveglia: quindi in lui vi
è una qualche forma di coscienza vigile, se non altro quella che distingue la
intensità del rumore. Ancora. Alcune persone non si svegliano neppure se
le si scuote con una certa forza, però sentono la sveglia: evidentemente una
qualche forma di coscienza deve esistere in questi dormienti, se non altro
quella che distinguere la diversa urgenza delle sollecitazioni. Ancora. È no-
to che i sonnanbuli, pur continuando a dormire, si alzano dal letto e cammi-
nano per la casa senza urtare gli oggetti che incontrano: evidentemente in
loro permane una qualche forma di coscienza, altrimenti cadrebbero dalle
scale, urterebbero tavoli e sedie, semplicemente non si alzerebbero dal let-
to. E vi deve essere anche una qualche forma di memoria, almeno quella
del luogo dove dormono. Infine (ma gli esempi si potrebbero moltiplicare a
piacere). Chiunque, almeno una volta nella vita, si è svegliato in piena notte
spaventato per un incubo o nel bel mezzo di un bel sogno; spesso accade di
______________________________
più sfuggenti e meno limpidi: p.es. P. RICCA, Dell’aldilà e dall’aldilà. Che cosa ac-
cade quando si muore?, Torino 2018, fa passare per teologici risultati filosofici (cf.
p.es. la copertina: «Non ci sono prove che un aldilà o la vita oltre la morte esistano,
ma neppure che non esistano. L’aldilà non è certo ma è possibile, e questo è suffi-
ciente per continuare la nostra esplorazione»). Più chiaro è P. RICCA, «Dove vivono i
morti - se vivono?», Riforma 4 (2010): si tratta di una rubrica (‘Dialoghi con Paolo
Ricca’), non di un saggio scientifico, ma le tre risposte che l’autore offre sono una
delle poche esposizioni nette della posizione valdese. La prima è la dottrina del pur-
gatorio: secondo Ricca, i cattolici fanno passare tutti i defunti per il purificatorio
«perché nessuno in questa vita è così perfetto da non avere qualche pena da espiare»,
ma lui rifiuta questa dottrina perché, a suo dire, non è biblica. «La seconda risposta è
quella del sonno in Cristo, che, tra gli altri, anche Lutero ha fatto propria. Secondo
questa concezione, quando si muore si entra in una condizione analoga a quella di un
sonno profondo, senza sogni, in cui si perde la coscienza del tempo e dello spazio».
Per la terza soluzione, «la morte non ci toglie lo Spirito Santo e non ci separa da Cri-
sto, nel quale, come ho già detto, non c’è morte, ma vita. In questo senso il ‘dormire
in Cristo’ può essere qualcosa di più che una semplice metafora, nel senso cioè che
Cristo, nella potenza della sua risurrezione, trasforma la nostra morte in sonno». Alla
fine però Ricca non opta né per la seconda né per la terza soluzione: si limita a re-
spingere quella cattolica, quindi quella valdese è de facto una non-posizione. En pas-
sant: dove ha letto, Ricca, che per i cattolici tutti i morti passano per il purificatorio?
È curioso che uno storico come lui ignori il testo della bolla Benedictus Deus, che nel
1336 definisce come dogma proprio l’esatto contrario...

34
ricordarli, seppur per poco: evidentemente ciò è possibile perché, in qual-
che misura, anche nel sonno si ha una qualche forma di coscienza e di me-
moria, diverse da quelle della veglia ma sempre ‘coscienza’ di sé e ‘memo-
ria’ di quanto vissuto (seppur nel sogno). Quindi, anche dal lato della bana-
le constatazione empirica, si deve ammettere che non è lecito affermare
che, se si è privi dello stato di veglia, allora si è privi di qualunque genere
di coscienza e quindi incoscienti.
Ma, si dirà, queste sono solo constatazioni empiriche, non hanno valore
scientifico. Questo è vero solo in parte: si dovrebbe ricordare l’adagio con-
tra factum nihil est argumentum, ‘argomentare contro i fatti è niente’ oppu-
re ‘contro i fatti non vi è argomento’. Per spiegare un evento non basta con-
statare che accade, è vero, ma è inutile cercare spiegazioni senza conside-
rarlo nella sua interezza o ignorando quel che comporta. Se poi è possibile
portare fatti che inequivocabilmente contraddicono quella spiegazione (tec-
nicamente, ‘controfattuali’), come in questo caso, allora la teoria è incom-
pleta o incoerente; certo non cogente. Attribuire tale incompletezza, incoe-
renza e non cogenza al principio di coerenza con il quale la si enuncia (qui,
se e come si interpreta questo o quel versetto biblico) non è una giustifica-
zione, è un difetto in più. Il punctum dolens infatti non è nel come si illustra
e giustifica la teoria, ma il non prendere in considerazione i fatti che vanno
in direzione inequivocabilmente opposta al risultato che si intende provare.
È chiaro che questo non è atteggiamento scientifico: e se per scoprirlo sono
sufficienti controfattuali banali, allora il deficit della teoria è serio.
A livello epistemologico, questa selettività nello scegliere gli elementi di
prova si traduce sempre in una rigidità semantica, ossia nel dare ai termini
tecnici fondamentali un significato (tecnicamente, ‘lessema’) unico e non
modificabile. Ora, il modo con il quale Lutero adopera i termini ‘coscienza’
e ‘incoscienza’ rivela una restrizione epistemologica di questo genere: non
si vorrà sostenere infatti che allora non esistevano sonnanbuli, non si face-
vano incubi o non ci si svegliava in mezzo alla notte se suonavano le cam-
pane. Semplicemente Lutero ‘sceglie’ di non considerare questi elementi. È
in virtù di questa rigidità semantica che le due assunzioni a priori ‘a casca-
ta’ sembrano ovvie e lecite, ed è ancora in virtù di questa (apparente) ovvia
liceità che i controfattuali sopra esposti possono essere espunti come ‘irrile-
vanti’ nella costruzione della teoria di Lutero (ma non è solo sua, si ricordi)
della vita ante resurrectionem dell’anima separata.
Ma, si dirà, una teologia della morte non è una teologia dei Novissimi;
perché attardarsi sulla concezione luterana della dormitio? Appunto perché
è una concezione di dormitio, la quale, a sua volta, è immagine della morte.
A seconda di cosa si ritiene sia ‘sonno’, cambia ciò che si intende per ‘mor-
te’. Questo riguarda certamente una teologia della morte, ma vi è di più: la

35
rigidità semantica con la quale sono adoperati i termini ‘coscienza’ e ‘inco-
scienza’ infatti va ben oltre le affermazioni di Lutero, che in realtà sono per
noi il pre-testo per sollevare questioni ben più ampie e diffuse.
L’importanza di questo allargamento appare, ad esempio, dalla constata-
zione che in occasioni di terremoti, incendi o altri disastri del genere, alcu-
ne persone si svegliano e si salvano, altre invece muoiono nel sonno; a Lu-
tero potremmo chiedere: se tutti i dormienti non hanno coscienza, perché
alcuni si svegliano? Ma lui potrebbe replicare: se tutti coloro che dormono
conservano lo stesso tipo o intensità di coscienza, perché alcuni muoiono?
In effetti nello stato di sonno non vi è né un unico modo di incoscienza né
un solo modo di coscienza. Ancora. In occasione di incidenti sul lavoro o
sulla strada, alcune persone si accorgono del pericolo prima di ricevere il
dànno, altre invece no: siamo di fronte a gradi diversi della stessa coscienza
vigile, ad una certa forma di vigile incoscienza oppure, nelle persone dan-
neggiate, ad incoscienza tout court? Ancora. È esperienza clinica comune
che chi sviene, ossia perde la coscienza vigile, raramente cade con la faccia
a terra: di solito infatti si girano così da finire sulla schiena; si tratta di una
forma ridotta di ‘coscienza’ o di una ridotta forma di ‘incoscienza’? E che
dire di coloro che cadono con la faccia a terra? Infine (ma gli esempi si po-
trebbero moltiplicare a piacere). Spesso le persone uscite da un coma lieve
o di media profondità raccontano di aver percepito suoni, voci, contatti fisi-
ci: in alcuni casi il risveglio è stato addirittura facilitato dalla visita di una
persona alla quale il paziente era particolarmente legato (parenti, amici ma
anche cantanti, giocatori di calcio, attori e attrici); il coma è una forma ri-
dotta di ‘coscienza’ o di ‘incoscienza’? E perché in alcuni casi, clinicamen-
te analoghi, ciò non accade? In definitiva, è chiaro che empiricamente non
è possibile distinguere tra ‘coscienza’ ed ‘incoscienza’ in modo tale che si
possa sempre dire univocamente ‘sei cosciente’ oppure ‘sei incosciente’, e
questo sia durante la veglia che in assenza di veglia. Servirsi in questo mo-
do dei termini ‘coscienza’ ed ‘incoscienza’ è errato, una restrizione seman-
tica che comporta una rigidità epistemologica. Ora, che Lutero abbia ragio-
nato così in conseguenza di un contesto storico e scientifico di un certo tipo
non fatichiamo ad ammetterlo, anche se non si deve dimenticare che molti
suoi contemporanei, riformatori come lui, non commisero questo errore, e
perciò il contesto non si può considerare ‘prescrittivo’ o ‘coercitivo’. Fati-
chiamo molto di più, invece, ad accettare un’identica superficialità nei suoi
epigoni nostri contemporanei (quasi tutti non Riformati).
Dal punto di vista antropologico, perciò, è falso assumere a priori che vi
è un solo tipo di coscienza, quello della veglia, e di conseguenza è altrettan-
to falso assumere a priori che, se non si è svegli, allora si è incoscienti. Da
ciò segue logicamente che, quando la Scrittura dice che i morti sono ‘dor-

36
mienti’, non dice affatto che sono incoscienti ma solo che non hanno quel
tipo di coscienza che si ha nella veglia. E questa conclusione, qui mostrata
solo dal lato empirico, senza far ricorso ad indagini cliniche più serrate ed
incontrovertibili ma ignote a Lutero (e però tali non dovrebbero essere per i
22
suoi emuli nostri contemporanei ), è proprio questa conclusione, si diceva,
la ragione per cui la sua concezione di vita post mortem et ante resurrectio-
nem fu respinta già al tempo della Riforma.
Si potrebbe obiettare, e con ragione, che le osservazioni empiriche sopra
riportate non sono afferenti alla nostra questione perché riguardano lo stato
ante mortem, mentre Lutero parla di ciò che accade post mortem. Vero. Pe-
rò non noi, ma Lutero legge la Scrittura in base ad assunzioni a priori de-
sunte (a suo parere) dalla situazione in statu viae. Non noi, ma Lutero fa di-
pendere la sua concezione di dormitio da tali assunzioni a priori. Non noi,
ma Lutero pensa di poter dedurre da assunzioni a priori tratte dallo statu
viae conclusioni valide per lo stato post mortem. Non noi, ma Lutero ne ri-
cava dottrine che contrastano con altri insegnamenti biblici oltre che con la
Tradizione. Non a noi quindi deve essere rivolta l’obiezione di non afferen-
za, ma a Lutero. Qui ci si è limitati a prendere atto della sua posizione per
illustrarne la distanza da quella cattolica, mostrare la non sostenibilità em-
pirica di tali assunzioni e di conseguenza la falsità delle conclusioni dedotte
23
in base a tali false assunzioni . Non abbiamo detto niente, invece, riguardo
_____________________________
22
L’odierna bibliografia scientifica, sia psicologica che psichiatrica, riguardo alla com-
plessa distinzione tra ‘coscienza’ ed ‘incoscienza’ è davvero ampia e, ovviamente,
molto tecnica. È ovvio che non si può imputare a Lutero l’ignoranza di dati scientifi-
ci acquisiti secoli dopo la sua morte. È invece imputabilissima a tutti coloro che oggi
intendono seguire le sue orme pur potendo sapere che portano fuori strada.
23
Anche se qui non ce ne occuperemo, giova però dire che esiste una versione riforma-
ta della dormitio diversa da quella luterana e dal ‘condizionalismo’. Va sotto il nome
di psicopannichismo, neologismo coniato da Giovanni Calvino unendo il greco psy-
ché, ‘anima’, ‘vita’, al verbo pannychizô. Questo verbo significa sì ‘dormire’, come
vuole Calvino (ma solo in Saffo), però più spesso (usualmente, ci sentiamo di affer-
mare), si deve rendere con ‘fare qualcosa tutta la notte’ (Pindaro), ‘festeggiare tutta
la notte’ (Saffo), ‘passare (tutta la notte)’ (Aristofane); perciò, quando Calvino chia-
ma ‘psicopannichismo’ quella che nel NT (ma anche nell’AT) è detta dormitio, evi-
dentemente forza il senso del verbo pannychizô. Il suo intento però è condivisibile:
infatti, servendosi di pannychizô e non, p.es., di koimô, sottolinea il fatto che ante re-
surrectionem l’anima separata è attiva, contro la pretesa incoscienza di Lutero ed in
una certa sintonia con la dottrina cattolica. Però tutto quel che la Chiesa cattolica fa
seguire da questa attività (purificatorio, visio Dei ante resurrectionem per i beati, do-
lore per i dannati) è respinto da Calvino, in sintonia con gli altri riformati. Senza en-
trare nei dettagli di una dottrina che qui non interessa, notiamo solo che pannychizô
non è verbo biblico (non ricorre nel NT né nella LXX) e suggerisce azioni, movimen-
ti, sensazioni dell’anima separata lontane da quelle che ci insegna la Scrittura.

37
alla liceità o meno di servirsi di osservazioni tratte empiricamente dallo sta-
tu viae per capire il significato metafisico-spirituale della dormitio come
immagine dello stato dell’anima separata, tantomeno si è entrati nel merito
della coerenza, completezza e cogenza delle moderne riproposizioni iuxta
modum delle concezioni luterane.

1.3. La ‘dormitio’ cattolica:


una presentazione generale

La concezione cattolica dello stato dell’anima post mortem et ante resur-


rectionem è profondamente diversa da quella di Lutero, e quindi altrettanto
diverso, se non più, è il significato cattolico della dormito come immagine
della morte. Per la Chiesa cattolica, infatti, l’anima separata dal corpo non è
incosciente né insensibile, anche se evidentemente la sua coscienza e sensi-
bilità non sono quelle in statu viae. La dottrina cattolica sull’escatologia in-
termedia poggia tutta su questa affermazione. Vedremo poi che non si tratta
di un’a priori di tipo antropologico ma di una argomentazione logicamente
coerente e completa basata sull’assunzione a priori di un dato biblico, pa-
tristico e liturgico, la cui conclusione per i ctattolici è cogente al massimo
grado poiché ha portato a definizioni dogmatiche irreformabili.
In questo quadro, che è quindi assolutamente teologico e non filosofico,
servirsi della dormitio come immagine della morte è procedimento che non
ci risulta essere stato adottato da altri ma la cui tenuta teoretica, dogmatica
e spirituale, a nostro avviso, merita di essere sondata a fondo. A questo ri-
guardo, la distinzione dalla concezione luterana di dormitio è punto di par-
tenza obbligato, in via preliminare per non leggere alla sua luce i testi bibli-
ci e patristici sulla dormitio, in itinere per non ripetere gli errori esegetici di
Lutero, in sede di bilancio conclusivo per non cadere nelle contraddizioni
evidenziate in precedenza. In questo procedimento, le osservazioni empiri-
che sopra riportate risultano de facto ininfluenti non solo per la tenuta ma
anche per la semplice costruzione delle argomentazioni.
Avremo modo di illustrare con dovizia di particolari, nei capitoli che se-
guono, la profonda diversità che esiste tra il modo cattolico di leggere lo
stato dell’anima separata e quello della Riforma. Per ora è sufficiente leg-
gere come Tertulliano chiude il suo De anima (210 d.C.):
«Dunque dici che tutte le anime si trovano agli inferi? Che tu lo voglia o no,
poi, in quel luogo vi sono anche pene e ricompense: hai del resto il caso del
povero e del ricco (cf. Lc 16,19ss). Ora, poiché fino a questo momento ho
rinviato la trattazione di qualche questione, ne parlerò adesso succintamente
nella conclusione. Perché mai non pensi che l’anima sia provvisoriamente

38
punita o ricompensata agli inferi per tutto il tempo in cui attende il giudizio
in uno stato di invocazione e attesa di esso? Perché - dici - nel giudizio di
Dio l’operazione avviene di necessità tutta in una volta senza nessuna anti-
cipazione della sentenza. E poi perché deve essere anche attesa la restituzio-
ne del corpo come compartecipe (consortis) di ciò che è stato fatto e della
relativa ricompensa. Che cosa succederà allora in tutto questo tempo? Dor-
miremo? Ma il fatto è che le anime non dormono neppure nelle persone vi-
ve; il sonno infatti è proprio dei corpi, ed è propria dei corpi anche la morte
insieme con la sua immagine che è il sonno. Oppure credi che non succeda
niente lì dove viene attratta tutta l’umanità, e dove viene rivolta ogni speran-
za? Ritieni che si tratti di un assaggio preliminare del giudizio o del suo ve-
ro e proprio inizio (delibari putas iudicium an incipi)? Che esso venga af-
frettato o dato prima (praecipitari an praeliministrari)? E però quanto è in-
giusta questa pace vissuta presso gli inferi se, fino al momento del giudizio,
va bene a quanti hanno peccato mentre non va ancora bene agli innocenti!
Che cosa vuoi che vi sia di più terribile dopo, una morte che gioca con una
confusa speranza e un’attesa incerta o una morte che teme già l’esame della
vita e l’assegnazione del giudizio? Ma allora l’anima aspetta sempre il cor-
po, per soffrire o per gioire? Non è forse vero che da sola è in grado di spe-
rimentare entrambe queste sensazioni? Quante volte l’anima da sola, senza
sofferenza del corpo, è tormentata dalla collera, dall’ira, dalla noia ed il più
delle volte senza neppure rendersene conto? Ed alla stessa stregua, quante
volte l’anima, nonostante il corpo stia soffrendo, ricerca per sé un piacere
segreto e si stacca dalla sua unione con il corpo, in quel momento svantag-
giosa? Direi il falso se non fosse vero che l’anima da sola ha l’abitudine di
gloriarsi e godere delle sofferenze stesse del corpo. Considera l’esempio di
Muzio Scevola, nel momento in cui bruciò la sua destra sul fuoco; pensa
all’anima di Zenone, quando gli passarono sopra gli strumenti di tortura di
Dionisio. I morsi di animali feroci sono motivo di gloria per i giovani, come
le cicatrici dell’orso nel caso di Ciro. Pertanto anche agli inferi l’anima sa
provare piacere e dolore senza il corpo, dal momento che, se vuole, prova
dolore anche all’interno di un corpo che non è sofferente e, sempre se vuole,
prova piacere anche all’interno di un corpo che invece soffre. Ora, se questo
succede nella vita come frutto di una sua scelta, a maggior ragione succede-
rà dopo la morte per decreto divino. Ma l’anima non divide con le funzioni
del corpo tutte le sue azioni; infatti la censura divina persegue anche sem-
plici pensieri e meri desideri. “Chiunque guarda una donna per desiderarla,
ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore” (Mt 5,28). Dunque, soprat-
tutto per queste cose è quanto mai naturale che l’anima, anche senza aver
aspettato il ricongiungimento con il corpo, sia punita, e cioè lo sia per quan-
to ha commesso senza essere unita al corpo. Alla stessa stregua sarà ripagata
senza il corpo per quei pensieri pii e benevoli in cui non ci fu bisogno del
corpo. Che direi poi, se anche in quelle azioni in cui v’è bisogno del corpo,
l’anima è la prima a concepire l’azione stessa, la prima ad ordinarla, a diri-
gerla, a mandarla avanti? E se anche a volte malvolentieri, essa tuttavia è la
prima a trattare ciò che è sul punto di fare attraverso il corpo; mai quindi la
coscienza di un atto sarà successiva a questo. Dunque è coerente anche con
questo argomento che essa abbia per prima la sua ricompensa, in quanto a

39
lei per prima questa è dovuta. In conclusione, se per quel ‘carcere’ di cui
parla il vangelo (cf. Mt 5,25s) intendiamo gli inferi ed interpretiamo l’‘ulti-
mo spicciolo’ come il più piccolo peccato da scontare colà con il rinvio del-
la prima resurrezione, nessuno dubiterà che l’anima abbia una qualche ri-
compensa presso gli inferi, senza con questo menomare la pienezza della se-
conda resurrezione, che è estesa anche al corpo. Anche il Paraclito ha detto
questo spessissimo, se uno ha prestato ascolto alle sue parole, sulla base del
riconoscimento dei carismi promessi. Dopo esserci avvicinati, come credo,
ad ogni opinione umana sull’anima partendo dall’insegnamento della fede,
abbiamo soddisfatto una curiosità fin qui giusta e necessaria; ad una curiosi-
tà spropositata ed oziosa resterà invece da imparare tanto quanto le piacerà
24
ricercare» .
Questo brano, lungo e complesso, sarà essere ripreso e studiato più avan-
25
ti insieme ad altri dell’identico tenore : per ora si prenda solo nota di come
_____________________________
24
TERTULLIANO, De anima, 58, per totum (CCsl 2, 867ss; trad. it. 217-221).
25
Cf. TERTULLIANO, De anima, 43, 5 (CCsl 2, 846; trad. it. 173): «Se si deve risolvere
qui la questione (della natura del sonno), non rimane che stabilire con gli Stoici che
il sonno è una sospensione della forza dei sensi, dal momento che esso procura ripo-
so solo al corpo e non all’anima e non anche all’anima. Pensiamo infatti che l’anima,
in quanto sempre mobile e sempre in esercizio, non soccomba mai al riposo, realtà
questa estranea alla condizione dell’immortalità. Nessuna cosa immortale infatti pre-
vede un termine alla sua attività, ed il sonno, d’altra parte, è la fine di un’attività.
Dunque il riposo procura con le sue lusinghe la cessazione dell’attività solo al corpo,
che ha natura mortale». TERTULLIANO, De anima, 43, 10s (CCsl 2, 847s; trad. it.
175ss): «Se Adamo presentava l’aspetto di Cristo, il sonno di Adamo era l’immagine
della morte, come pure dalla ferita del suo fianco aveva origine la Chiesa, vera madre
dei viventi. Così anche il sonno tanto salutare e tanto razionale viene concepito in
senso più lato come immagine della morte che ci riguarda tutti. Perché Dio, anche al-
trove non avendo fatto nulla nel suo disegno provvidenziale senza queste immagini,
volle, più chiaramente di Platone con il suo mondo ideale, tracciare con noi ogni
giorno sopra ogni altra cosa i termini dell’inizio e della fine della vita umana, por-
gendoci la sua mano per aiutare la nostra fede con immagini e parabole costituite sia
di discorsi che di fatti. Ti presenta dunque il corpo vinto dalla forza amica del sonno,
travolto dalla dolce necessità del riposo, immobile, quale giacque prima della vita e
quale giacerà dopo la vita, come testimonianza di com’era quando fu fatto e di
com’era quando fu sepolto; che attende l’anima come se non gli fosse stata ancora
affidata e come se gli fosse stata già tolta. Ma anche l’anima vive il sonno in modo
tale che sembra che se ne stia da un’altra parte, preparando con la dissimulazione
della sua presenza la sua assenza futura (...), e tuttavia nel frattempo sogna: da dove
le provengono i sogni? Non si riposa, non si impigrisce del tutto, non svende al son-
no la sua natura immortale. Si mostra invece sempre mobile, vaga per terra e per ma-
re, traffica, si agita, si affatica, gioca, soffre, gioisce, persegue il lecito e l’illecito,
mostra che anche senza il corpo può molto, che essa è stata dotata di membra sue
proprie ma che ga bisogno ugualmente di mettere ancora in movimento il corpo. Co-
sì, quando il corpo si sveglia, tornato alle sue funzioni ritrae davanti ai tuoi occhi la
(segue)

40
già Tertulliano, all’inizio del sec.III, rifiuti l’idea di una dormitio che non
comporti la punizione o la ricompensa ante resurrectionem per l’anima che
merita una o l’altra, e di conseguenza rifiuti di supporre che l’anima, sem-
pre ante resurrectionem, sia priva di attività, sensazione o intellezione. Per
Tertulliano il sonno è del corpo, non dell’anima; è sospensione dell’attività
del corpo ma non di quella dell’anima, che non cessa mai. E ci piace notare
come questa concezione coincida perfettamente con i risultati della psicolo-
gia clinica più recente, per i quali il sonno è un rallentamento delle funzioni
biologiche (battito cardiaco, pressione sanguigna, respirazione, funzioni fi-
siologiche) unito ad una intensificazione di quelle psichiche, con incremen-
ti dell’attività encefalica clinicamente registrabili e verificabili, oltre a fun-
zioni del tutto esclusive (attivazione di determinate connessioni neuronali,
memorizzazione, stabilizzazione dell’umore, fasi REM). Questa sintonia è
interessante, ma torniamo sul versante propriamente teologico.
Il quadro offertoci da Tertulliano, come si diceva, rispecchia la concezio-
ne cattolica di dormitio. Poiché però il De anima è opera del periodo mon-
tanista, non ce ne serviremo nell’esposizione della dottrina cattolica, sia per
un certo tuziorismo sia per non dare occasione di polemizzare. Ma proprio
perché scrive quel che scrive da montanista non si potrà certo accusarlo di
essere un papista ante litteram, né si vorrà affermare che la psicologia cli-
nica si schieri a favore della Benedictus Deus. Ma si lascino cadere le ten-
tazioni di polemizzare. È molto più interessante, utile e costruttivo esami-
nare il significato cattolico della dormitio come immagine della morte, do-
po aver sgomberato il campo dai molti possibili equivoci che l’uso della
stessa immagine da parte di Lutero e soprattutto dei suoi epigoni moderni
avrebbe potuto generare.
Ed il primo passo non può che essere, naturalmente, la ricerca e l’esame
del dato scritturistico.

______________________________
resurrezione dei morti. Questa sarà dunque la ratio naturale e la natura razionale del
sonno. Così anche attraverso l’immagine della morte sei iniziato alla fede, ti eserciti
alla speranza, impari a morire ed a vivere, impari a stare sveglio pur dormendo».
TERTULLIANO, De anima, 45, 1 (CCsl 2, 849; trad. it.179): «Siamo ora obbligati a
spiegare anche l’opinione dei cristiani a proposito dei sogni, visti come accidenti del
sonno e perturbazioni non indifferenti dell’anima, che abbiamo definit sempre occu-
pata ed in esercizio data la continuità del suo movimento, il che costituisce la prova
della sua divinità ed immortalità. Allora, nel momento in cui il riposo scende sui cor-
pi, i quali per natura hanno bisogno di un ristoro, l’anima, non avendo necessità di un
riposo estraneo alla sua natura, non si riposa e, se è priva dell’aiuto delle membra
corporee, si serve delle sue».

41
Capitolo 2

IL FONDAMENTO BIBLICO
DELLA ‘DORMITIO’
COME IMMAGINE DELLA MORTE

La morte non è certo una realtà assente o accessoria nella Scrittura, né lo


sono quelle che seguono al momento della separazione dell’anima dal cor-
po. Nell’affrontare questi temi, però, la Scrittura si concentra soprattutto su
ciò che precede tale momento oppure su quel che lo segue: semplificando,
potremmo dire che l’Antico Testamento è più sensibile alla nostra situazio-
ne e condotta antecedenti la morte, mentre il Nuovo Testamento è più
attento a ciò che segue da tale condotta, per altro modificata rispetto alle
esigenze dell’Antico Testamento. Invece il momento della separazione, in
sè e per sé, non riceve grande attenzione, nell’Antico Testamento meno che
nel Nuovo: in questo, infatti, al centro vi è Gesù di Nazareth la cui vicenda
storica si conclude appunto con la sua morte in croce; è però un caso unico.
È comunque vero che nel Nuovo Testamento vi sono diversi racconti di
resurrezione dai morti, più numerosi di quelli narrati nell’Antico e soprat-
tutto meno, per così dire, accidentali rispetto alle narrazioni che li precedo-
no e seguono. L’epistolario paolino, infine, ha almeno due passi importanti,
ampi e chiari dedicati alla resurrezione dei fratelli defunti. E proprio dalla
terminologia di quei passi traiamo l’immagine della dormitio.
Prima di esaminare i passi dobbiamo però premettere una nota sul meto-
do con il quale saranno letti.
In ogni manuale di Introduzione alla Scrittura, così come nel Catechismo
delle Chiesa Cattolica ed in genere ogni volta che si deve parlare del senso
della Scrittura, si legge che questa ne ha quattro: letterale, allegorico, tropo-
logico ed anagogico. Magari i nomi cambiano, a seconda che si preferisca-
no i latinismi ai grecismi, ma ciò che indicano resta identico. Ora, chiunque
frequenti anche solo un pò la letteratura esegetica constata con facilità che
il senso letterale è sviscerato con grande acribia ed eccellenti risultati, quel-
lo allegorico (o cristologico) lo è molto meno, su quello tropologico (o mo-
rale) si fatica a trovare spunti e su quello anagogico (o spirituale) ci si limi-
ta a poche, sporadiche e (ci si conceda di dirlo) spesso banali osservazioni.

43
Quando ci sono. Perché le cose stiano così non è un mistero. Agli aspiranti
esegeti si dà un’eccellente formazione a livello linguistico, storico, geogra-
fico e quant’altro può risultare utile a studiare la lettera di un passo, ma non
si insegna come ricercare con uguale acribia anche gli altri sensi. Questi so-
no de facto demandati alla passione, al fervore di fede del singolo, che pe-
rò, a sua volta, incontra non poche difficoltà nell’indagarli a causa del fatto
che, ad esempio, le dinamiche spirituali sono esposte quasi sempre dal lato
psicologico, quelle morali quasi sempre dal lato pratico, ossia orientate alla
azione, e quelle cristologiche quasi sempre appiattite sul lato dogmatico.
Questo stato di cose ha molti padri, e non è questa la sede per capire se e
come sia il caso di rinnegarli. Molto più utile ed opportuno pare invece ten-
tare una esemplificazione di lettura quadripartita. I passi biblici che parlano
della dormitio come immagine della morte saranno dunque sondati prima
letteralmente, poi cristologicamente, quindi in senso morale, infine in senso
anagogico o spirituale propriamente detto.

2.1. Il senso letterale della ‘dormitio’


come immagine della morte

Lasciamoci presentare l’immagine della dormitio da Paolo (1Tess 4,13):


«Non vogliamo, fratelli, lasciarvi nell’ignoranza a riguardo di quelli che so-
no morti (gr. perì tôn koimômenôn; lat. de dormientibus; lett. ‘riguardo a co-
loro che dormono’), perché non siate tristi come gli altri che non hanno spe-
ranza».
Qualche lettore sarà rimasto colpito dal fatto che l’italiano legge ‘morti’
là dove greco e latino hanno ‘dormienti’. Si taccia sulla (in)sostenibilità fi-
lologica della traduzione e cerchiamo di capire il senso teologico e spiritua-
1
le dell’uso del verbo ‘dormire’ . Intanto bisogna sbarazzarsi della facile ma
_____________________________
1
Non riceveremo molto aiuto dai commentari. G. BARBAGLIO (ed.), Le lettere di Pao-
lo, I, Roma 1980, 128ss, legge ‘morti’ e commenta come fosse il testo originale. A.
PITTA, L’evangelo di Paolo. Introduzione alle lettere autoriali, Torino 2013, 88s, ha
‘dormienti’ ma si limita a questo. Per trovare l’idea della morte come dormitio si de-
vono consultare H. SCHLIER, L’apostolo e la sua comunità. Esegesi della prima lette-
ra ai Tessalonicesi, Brescia 1976, 76, ed O. DA SPINETOLI, «Lettere ai Tessalonice-
si», in AAVV, Le lettere di san Paolo, Milano 1985, 37-90, 74s, che però riferiscono
il passo di Paolo a loghia di Gesù (p.es. Mt 9,24; Gv 11,11). Una nota specifica dedi-
cata al ‘dormire’ di 1Tess 4,13, è in C. NERI, «Dal dolore alla speranza (1Ts 4,13-18,
5,1-11)», in J. REDONDO - R. TORNÉ (edd.), Apocalipsi, catàbasi i mil.lenarisme a les
literatures antigues i la seua recepciò, Amsterdam 2014, 97-118, 99, molto rapida.

44
falsa risposta ‘morire e dormire sono sinonimi’; ecco infatti come Cristo ri-
sponde a chi gli dice che la figlia di Giairo è morta (Lc 8,52):
«Tutti piangevano e facevano il lamento su di lei. Gesù disse: “Non piange-
te, perché [CEI08 om.] non è morta [gr. apéthanen; lat. non est mortua], ma
dorme [gr. katheúdei; lat. dormit]”».
È chiaro che ‘morire’ e ‘dormire’ qui sono azioni contrapposte, non sino-
nime. Ma, si potrebbe obiettare, in questo passo c’è katheúdô, non koimaô
come in Paolo, quindi il discorso non regge. In realtà è l’obiezione che non
regge, perché in greco i due verbi sono quasi sinonimi, ma non importa. Si
legga infatti il racconto della resurrezione di Lazzaro (Gv 11,11-16):
«(Gesù) poi soggiunse loro: “Il nostro amico Lazzaro s’è addormentato [gr.
kekoímêtai; lat. dormit]; ma io vado a svegliarlo”. Gli dissero allora i disce-
poli: “Signore, se s’è addormentato, guarirà [gr. ei kekoímêtai, sôthêsetai;
lat. si dormit salvus erit; CEI08 ‘si salverà’]”. Gesù parlava della morte di
lui, essi invece pensarono che si riferisse al riposo del sonno [gr. perì tês
koimêseôs tou ypnou; lat. de dormitione somni]. Allora Gesù disse loro aper-
tamente: “Lazzaro è morto [gr. apéthanen; lat. mortuus est] ed io sono con-
tento per voi di non essere stato là, perché voi crediate. Orsù [CEI08 ‘ma’],
andiamo da lui!”. Allora Tommaso, chiamato Dìdimo, disse ai condiscepoli:
“Andiamo anche noi a morire [gr. ina apothánômen; lat ut moriamur] con
2
lui!”»

_____________________________
2
È interessante prendere nota del commento a questo passo fatto da AGOSTINO, In Io-
hannis evangelium tractatus, tr.49, 11 (CCsl 36, 425s; trad. it. 780): «(Gv 11,11):
“Lazzaro, l’amico nostro, dorme; ma io vado a svegliarlo”. Allora i discepoli gli dis-
sero...” Risposero secondo quanto avevano compreso: “Signore, se dorme guarirà”
[salvus erit]. Il sonno dei malati viene infatti interpretato come un sintomo di guari-
gione. “Ora, Gesù aveva parlato della morte di lui, mentre essi avevano creduto che
parlasse dell’assopimento nel sonno. Allora Gesù disse loro apertamente....” In ma-
niera velata aveva detto ‘dorme’, in maniera aperta disse “Lazzaro è morto ed io sono
contento per voi di non essere stato là, affinchè crediate”. So che è morto, ed io non
c’ero. Infatti gli era stato detto solamente che era malato, non che era morto. Ma che
cosa poteva rimanere nascosto a Colui che lo aveva creato e nelle cui mani era emi-
grata l’anima del defunto? Egli dice “Sono contento per voi di non essere stato là, af-
finchè crediate” perché cominciassero a meravigliarsi del fatto che il Signore sapeva
che Lazzaro era morto senza averlo visto né sentito che era morto. Questo serve a ri-
cordare che la fede degli stessi discepoli, che già credevano in lui, aveva ancora bi-
sogno di essere sostenuta dai miracoli; non perché mancasse e dovesse ancora nasce-
re, ma perché c’era già e doveva crescere; anche se l’espressione che ha usato può far
pensare che essi dovevano ancora cominciare a credere. Infatti egli non dice ‘sono
contento per voi perché così la vostra fede crescerà’ o ‘sarà rafforzata’; dice “affin-
chè crediate”, il che si deve intendere ‘affinchè crediate di più e con maggior fermez-
za’». Come si vede, chiaramente l’Ipponate glissa sul ‘dormire’ di Lazzaro, visto so-
(segue)

45
Qui l’italiano ‘dormire’ e composti traducono il greco koimaô, e non vi è
dubbio che ‘dormire’ è ancora opposto al ‘morire’ (apothneskô). Quindi la
opposizione è reale, però non ha sporgenze lessicali. Di più. I discepoli di-
cono che, se Lazzaro ‘dorme’ allora ‘sarà salvo’; ‘salvo’, non ‘guarito’ co-
me si è letto in CEI73 né ‘svegliato’ come sarebbe logico se davvero Lazza-
ro dormisse semplicemente. Ma, se il suo ‘dormire’ porta alla salvezza, al-
lora il suo non è certo lo stesso sonno dal quale ci si è svegliati stamattina.
Gesù invece prima dice che Lazzaro si è ‘addormentato’ e poi che è ‘mor-
to’, opponendosi all’osservazione dei discepoli ma non negando che si sal-
verà: quindi l’opposizione tra ‘dormire’ e ‘morire’ non è assoluta ma solo
relativa. Spieghiamoci meglio.
Un’opposizione è assoluta quando due concetti o cose non hanno niente
in comune: ad esempio, tra vita e morte vi è opposizione assoluta, perché se
un essere vive allora non è morto, e se è morto allora non è vivo; è vero che
comunemente si dice ‘quello è mezzo morto’, ma è solo un modo di dire: in
realtà quello è ancora vivo; tra esser vivi ed esser morti non vi è una terza
3
possibilità . L’opposizione relativa invece si ha quando la differenza tra due
concetti o cose è sì grande ma non tale da escludere un qualche contatto: ad
esempio, tra bambino ed anziano la differenza è molto grande sotto tutti gli
aspetti, ma se ci si riferisce alla stessa persona il punto di contatto è l’iden-
tità esistenziale della persona, prima bambino e poi anziano.
Nel nostro caso, l’opposizione tra ‘dormire’ e ‘morire’ è netta ma non as-
soluta, perché Gesù prima dice che Lazzaro ‘dorme’ poi che è ‘morto’: dato
______________________________
lo come ‘velata allusione’ alla realtà della morte’, ‘dormire’ che scompare poi nel re-
sto del tractatus, il solo dedicato a questo episodio evangelico e che insiste invece sul
suo essere morto. È questo il primo esempio che incontriamo di un atteggiamento
molto diffuso tra i Padri riguardo alla dormitio come immagine della morte, o meglio
riguardo a come essi la pongono in relazione a determinati passi biblici. Cronologi-
camente però si può avere più di un dubbio sul primato di questo brano: il testo ago-
stiniano, del 411-418, è infatti abbastanza vicino a CROMAZIO DI AQUILEIA, Sermo-
nes, serm.27 de resurrectione Lazari, per totum (CCsl 9A, 124-127; CTP 20, 179-
184), che al più risale al 408; ma a noi qui non interessa stabilire collegamenti filolo-
gici, quanto rilevare che entrambi glissano alla stessa maniera riguardo al ‘dormire’
di Lazzaro: per Cromazio infatti (serm.27, 2; CCsl 9A, 124s; CTP 20, 181): «Il Si-
gnore disse: “Lazzaro, l’amico nostro, dorme” perché in realtà egli stava per resusci-
tarlo come da un sonno».
3
Questo a prescindere dalla difficoltà di capire con assoluta certezza in quale stato si
trovi una determinata persona. Le leggi di polizia mortuaria impongono di attendere
24 ore prima di seppellire una persona dichiarata morta in seguito all’accertamento
della assenza di battito cardiaco, eppure alcune salme sono state trovate in posizione
fetale o con le mani in bocca: quindi, sebbene avessero ogni apparenza di morte, in
realtà erano ancor vive. Ma, appunto, vive, non morte, tantomeno ‘mezze morte’.

46
che lo stato di Lazzaro è uno solo, il fatto che lo si descriva ora come ‘son-
no’ ora come ‘morte’ significa che vi è almeno un rispetto sotto il quale lo
stato di Lazzaro si può descrivere correttamente in entrambi i modi. In altri
termini, dalle parole di Gesù si può dire che Lazzaro ‘dorme il sonno della
morte’. Ma, poiché tra ‘dormire’ e ‘morire’ vi è anche una certa opposizio-
ne, si ha che non ogni ‘dormire’ è un morire, né ogni ‘morte’ è un sonno.
Per questo Gesù riprende i discepoli, perché sembrano confondere il ‘dor-
mire della morte’ con il ‘dormire del sonno’. Saper distinguere invece è di
importanza fondamentale, perché si dorme ogni giorno ma si muore una so-
la volta: quindi la differenza deve essere ben chiara.
Ed in effetti la Scrittura mostra grande attenzione, servendosi di due ver-
bi greci diversi: quando intende il ‘dormire della morte’ usa koimaô, quan-
do intende il ‘dormire del sonno’ adopera katheúdô; anche i rispettivi ‘ri-
svegli’ godono di una certa attenzione. È facile rendersi conto di questa cu-
ra dello Spirito nell’ispirare gli agiografi perché non sono verbi molto fre-
4
quenti nel NT, ed è quindi possibile sondarne tutte le occorrenze .
Katheúdô ricorre ventidue volte, compresi i paralleli in duplice o triplice
tradizione sinottica; ecco i diversi usi e contesti:
1 Mt 8,24 (la tempesta sedata): Gesù dorme (ekátheuden; dormiebat) sul cuscino
ed i discepoli lo svegliano (êgheiran; suscitaverunt); stessa coppia nel parallelo
Mc 4,38 (lat. dormiens; excitant);
2 Mt 9,24 (la figlia di Giairo): la piccola non è morta ma dorme (ouk apéthanen
allá katheúdei; non est mortua sed dormit); espressione identica in Mc 5,39 e
Lc 8,52; la figlia risorge (êghérthê; surrexit) in Mt, in Mc e Lc è Gesù a dirle
‘risorgi’ (egheire; surge);
3 Mt 13,25: (la zizzania): il nemico semina la zizzania mentre tutti dormono (en
dé tô katheúdein; cum autem dormirent);
_____________________________
4
Per brevità non esamineremo la dormitio come immagine della morte nell’AT, anche
se fornirebbe diversi spunti, p.es. la formula ‘si addormentò con i suoi padri’ che in-
dica la morte di Davide (1Re 2,10), Salomone (1Re 11,43) e molti re (1Re 14,20.31;
15,8.24; 16,6.28; 22,40.51, 2Re 8,24; 10,35, 13,9.13 ecc.). L’idea è però più genera-
le, cf. p.es. Sal 13,4: «Guarda, rispondimi, Signore mio Dio, conserva la luce ai miei
occhi, perché non mi sorprenda il sonno della morte», o 2Sam 7,12 (orig.): «Quando
saranno completi i tuoi giorni e ti addormenterai con i tuoi padri», che non riguarda-
no solo i re. Nell’AT la dormitio poi è collegata anche alla resurrezione: cf. p.es. 1Re
17, 17-24 (Elia resuscita il figlio della vedova di Zarepta) o 2Re 4,8-37 (Eliseo resu-
scita il figlio della Sunammita). Non mancano neanche cenni al giudizio finale ed al-
la gloriosità dei corpi risorti: cf. Dn 12,2s: «Molti di quelli che dormono nella polve-
re terra si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infa-
mia eterna. I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che a-
vranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre». Tutta-
via, per non perdere del tutto questa ricchezza, quando possibile, a piè di pagina fa-
remo qualche osservazione e forniremo dati utili ad avere un’idea di massima.

47
4 Mt 25,5: tutte le vergini, sagge o stolte, si addormentano (ekátheudon; dormita-
verunt) e poi si svegliano (êghêrthêsan; surrexerunt);
5 Mt 26,40 (il Getsemani): Gesù trova gli apostoli che dormono (katheúdontas;
dormientes), cf. anche vv.43.45; stesso verbo nel parallelo Mc 14,37 (due volte,
più i vv.40s, altre due volte) e Lc 22,46 (lo stesso in Vulgata);
6 Mc 4,27 (il seminatore): l’uomo semina e, che dorma o sia sveglio (kai katheú-
dê kai egheírêtai; et dormiat et exsurgat), il seme germoglia;
7 Mc 13,36: bisogna vegliare perché l’avvento del Regno non ci trovi addormen-
tati (katheúdontas; dormientes);
8 Ef 5,14: «Sta scritto: “Svègliati, o tu che dormi (egheire, o katheúdôn; surge,
qui dormis), dèstati dai morti e Cristo ti illuminerà”» (citazione extrabiblica
non rintracciabile);
9 1Tess 5,6s: «Non dormiamo (katheúdômen; dormiamus) dunque come gli altri,
ma restiamo svegli e siamo sobrii. Quelli che dormono (katheúdôntes; dor-
miunt), infatti, dormono (katheúdôsin; dormiunt) di notte; e quelli che si ubria-
cano, sono ubriachi di notte»;
10 1Tess 5,10: «(Gesù Cristo) è morto per noi, perché, sia che vegliamo sia che
dormiamo (katheúdômen; dormiamus), viviamo insieme con lui».
La semplice scorsa dell’elenco mostra che, 19 volte su 22, il verbo ka-
theúdô indica ‘il dormire del sonno’, in pieno accordo con il greco classico;
fa eccezione il racconto della figlia di Giairo, attestato in triplice tradizione
5
(da qui le tre occorrenze), nel quale indica ‘il dormire della morte’ . In tutti
questi casi, con l’eccezione di Mc 4,27, se c’è un risveglio, il verbo che lo
indica è egheírô, che per ora si può tradurre con ‘risvegliarsi dal sonno’.
Koimaô, invece, ricorre diciotto volte, compresi i paralleli in duplice o
triplice tradizione sinottica:
1 Mt 27,52: «I sepolcri si aprirono e molti corpi di santi morti (kekoimêménôn;
dormierant) risuscitarono (êghérthêsan; surrexerunt)»;
2 Mt 28,13: «Dichiarate: i suoi discepoli sono venuti di notte e l’hanno rubato,
mentre dormivamo (koimôménôn; nobis dormientibus)»;
3 Lc 22,45: «Rialzatosi dalla preghiera, andò dai discepoli e li trovò che dormi-
vano (koimôménôn; dormientes) per la tristezza»;
4 Gv 11,11s (Gesù): «Il nostro amico Lazzaro s’è addormentato (kekoímêtai;
dormit)»; (discepoli): «Signore, se s’è addormentato, guarirà (ei kekoímêtai, sô-
thêsetai; si dormit salvus erit)»;
5 At 7,60 (morte di Stefano): «(Stefano) poi piegò le ginocchia e gridò forte: “Si-
gnore, non imputar loro questo peccato”. Detto questo, morì (ekoimêthê; ob-
dormivit)»;
6 At 12,6 (Pietro in carcere): «Pietro piantonato da due soldati e legato con due
catene stava dormendo (koimômenos; dormiens), mentre davanti alla porta le
_____________________________
5
Questo concorda con l’uso di katheúdô nella LXX, dove le 35 occorrenze hanno sem-
pre e solo il significato di ‘dormire’, mai anche quello di ‘morire’. Lo stesso per il
nome ypnos, ‘sonno’, anche se talvolta si parla di ‘sonno eterno’ (cf. p.es. Ger 28,39,
Gb 14,12, Sal 13,3).

48
sentinelle custodivano il carcere»;
7 At 13,36 (Paolo all’Areopago): «Davide, dopo aver eseguito il volere di Dio
nella sua generazione, morì (ekoimêthê; dormivit) e fu unito ai suoi padri e subì
la corruzione»;
8 1Cor 7,39: «Se il marito muore (ei koimêthêi; si dormierit) (la moglie) è libera
di sposare chi vuole»;
9 1Cor 11,30: «Tra voi ci sono molti ammalati ed infermi, e un buon numero so-
no morti (koimôntai; dormiunt)»;
10 1Cor 15,6: «In seguito (Gesù) apparve a più di cinquecento fratelli in una sola
volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti (ekoimê-
thêsan; dormierunt)»;
11 1Cor 15,18: «(Se Cristo non è risorto) quelli che sono morti (koimêthéntes;
dormierunt) in Cristo sono perduti»;
12 1Cor 15,20: «Cristo è risuscitato dai morti (eghêghertai ek nekrôn; resurrexit a
mortuis), primizia di coloro che sono morti (kekoimêménôn; dormentium)»;
13 1Cor 15,51: «Io vi annunzio un mistero: non tutti, certo, moriremo (koimêthê-
6
sómetha), ma tutti saremo trasformati» ;
14 1Tess 4,13ss: «Non vogliamo poi lasciarvi nell’ignoranza, fratelli, circa quelli
che sono morti (koimômenôn; dormientibus)... Noi crediamo infatti che Gesù è
morto e risuscitato (apéthanen kai anéstê; mortuus est et resurrexit); così anche
quelli che sono morti (koimêthéntas; dormierunt), Dio li radunerà per mezzo di
Gesù insieme con lui... Noi che viviamo e saremo ancora in vita per la venuta
del Signore, non avremo alcun vantaggio su quelli che son morti (koimêthén-
tas; dormierunt)»;
15 2Pt 3,4: «E diranno: “Dov’è la promessa della sua venuta? Dal giorno in cui i
nostri padri chiusero gli occhi (ekoimêthêsan; dormierunt) tutto rimane come al
principio della creazione”».
Anche in questo caso basta una semplice scorsa per rendersi conto che,
15 volte su 17, koimaô indica ‘il dormire della morte’: quelle in 1Cor 15 e
1Tess 4 sono attestazioni molto importanti perché contenute in passi dedi-
cati al tema della resurrezione, ma colpisce il caso di Stefano, che si ‘ad-
dormenta’ sotto una pioggia di pietre. Fanno eccezione Mt 28,13, e At 12,6,
7
dove koimaô indica ‘il dormire del sonno’ . In At 12,7, l’unico caso di ‘ri-
_____________________________
6
Cf. però Vulgata: «Ecce mysterium dico vobis; omnes quidem resurgemus sed non
omnes inmutabimur» “Ecco vi dico un mistero: tutti risorgeremo ma non tutti saremo
trasformati”. Filologicamente il dimorfismo si spiega con facilità (cf. l’apparatus del
Nestle-Aland), teologicamente le due versioni si integrano molto bene.
7
Questo uso è opposto a quello del greco classico, nel quale solo Sofocle usa koimaô
anche nel senso di ‘morire’. Più frequente, in questa accezione, è l’uso di komízô,
forma attica di koimaô, uso attestato in Sofocle ed anche in Euripide.
Nell’AT koimaô ricorre ben 150 volte, con un arco semantico ampio: oltre ‘dormire’,
nei libri più antichi indica il rapporto sessuale (koimaô meta: cf. p.es. Gen 19,32ss),
in quelli più recenti la morte onorevole, in grazia di Dio (cf. p.es. le 36 occorrenze in
2Re e 1-2Cr, oppure in Is 43,17, ed Ez 32,19-32).

49
sveglio’ dal ‘dormire del sonno’, il verbo adoperato è ancora egheírô, però
l’azione di alzarsi è espressa con anístêmi, ‘far alzare’ o ‘dal sonno’ o ‘dal-
la morte’, una scelta in linea con l’uso classico, comune e pagano, dei due
verbi. Anístêmi è verbo che indica anche il risveglio dal ‘dormire della mor-
te’ (1Tess 4,14): «Noi crediamo che Gesù è morto e risuscitato (apéthanen
kai anéstê)», e subito dopo (4,16): «I morti (nekroì) in Cristo risorgeranno
(anastêsontai) per primi». Tuttavia si legge anche (Mt 27,52): «I sepolcri si
aprirono e molti corpi di santi morti (kekoimêménôn) risuscitarono (êghér-
thêsan)» e (1Cor 15,20): «Cristo è risuscitato dai morti (eghêghertai ek ne-
krôn)», nei quali figura egheírô e non anístêmi. Ciò significa che, mentre il
cessare del ‘dormire del sonno’ (katheúdô) è sempre indicato con egheírô,
il cessare del ‘dormire della morte’ (koimaô) si può indicare sia con egheí-
rô che con anístêmi. Il verbo egheírô quindi si può tradurre con ‘risvegliar-
si dal sonno’ come ‘risvegliarsi dalla morte’; ma, su un totale di 137 occor-
renze, in questa seconda accezione è adoperato ben 72 volte, delle quali 12
in 1Cor 15. Non è quindi esagerato affermare che ‘risvegliarsi dal sonno
della morte’ sia l’accezione più importante e prevalente del verbo egheírô,
e perciò si può anche dire che, quando egheírô è collegato ad un ‘dormire’,
questo ha una certa sporgenza sul ‘morire’.
Fin qui il dato filologico. Come si è letto, tutte le occorrenze di katheúdô
e koimaô sono state sistematicamente rese in italiano con ‘morire’. Si può
discutere sull’opportunità e convenienza di questa scelta, se non altro per-
ché de facto occulta un insegnamento spirituale di rilevanza assoluta, la cui
ignoranza è rimproverata da Gesù stesso (cf. Gv 11,11-16 ). Certo appiatti-
sce molto gli episodi: si pensi ad esempio a come si trasforma quello della
lapidazione di Stefano, che in greco si chiude non con un ovvio ‘morì’ ma
con un incredibile ‘si addormentò’ sotto la gragnuola di pietre. A livello più
genericamente culturale, l’opzione occulta il fatto che ancor oggi i defunti
si depongono nel ‘dormitorio’, perché ‘cimitero’ è calco della pronuncia io-
tacista del greco koimêtêrion. Comunque, pur con i suoi limiti, la scelta dei
traduttori italiani conferma che indicare la morte con l’immagine del ‘dor-
mire’ è biblicamente fondato, anche se ovviamente non ogni ‘dormire’ è un
‘morire’ e soprattutto non ogni ‘morire’ è anche un ‘dormire’: vi è infatti la
‘morte’ dello spirito, causata dal peccato anche se si è ancor in vita, e poi la
‘morte seconda’, che è la dannazione eterna. È quindi biblicamente provato
che tra ‘morire’ e ‘dormire’ vi è una opposizione relativa. Tuttavia con ciò
il discorso non si può ancora considerare concluso.
La ricognizione ha infatti mostrato che, nonostante la differenza di signi-
ficato tra katheúdô e koimaô non sia discutibile, tuttavia non è così pacifico
affermare che con il primo si intenda il ‘dormire del sonno’ e con il secon-
do il ‘dormire della morte’, poiché abbiamo riscontrato diverse eccezioni.

50
Per quel che riguarda katheúdô, la sola eccezione è data dalla presenza
nel racconto della resurrezione della figlia di Giairo, attestata in tutti i pa-
ralleli sinottici. È quindi molto improbabile che si tratti di una coincidenza,
tanto più che, come si è visto, a proposito di ‘dormienti’ che ‘si risvegliano’
di solito il verbo adoperato è koimaô, specie e soprattutto nell’epistolario
paolino, anteriore alla composizione dei Vangeli. Ma si può concludere che
allora non è lecito affermare che katheúdô indichi il ‘dormire del sonno’? A
nostro avviso, no. Mt 9,24, ci pare la tipica eccezione che conferma la rego-
la valida per 19 occorrenze su 22; tanto più che il contrario (ossia che indi-
chi il ‘dormire della morte’) è del tutto insostenibile.
Per quel che riguarda koimaô, il discorso è ancora più semplice. È vero
che, su un numero di occorrenze minore (18 contro le 22 di katheúdô), le
eccezioni sono più numerose (2 contro 1), ma sono poco o niente rilevanti
dal punto di vista del contenuto. Al contrario, koimaô è impiegato nelle due
sole trattazioni per così dire ‘tecniche’ del tema della morte e resurrezione,
che per di più sono anche le più antiche dal punto di vista della redazione
del testo; quindi non ci pare possibile avere dubbi sul fatto che koimaô in-
8
dichi esattamente il ‘dormire della morte’ .
Ma l’esame delle eccezioni non esaurisce il contributo dell’immagine del
‘dormire’ alla comprensione della morte. Resta ancora da compiere il lavo-
ro più importante e complesso, ossia cercare di trarre delle indicazioni spi-
rituali e metafisiche da questo quadro filologico e testuale. Perché qui sta la
differenza tra teologia e filologia: questa si ‘accontenta’ (per così dire) di
chiarire il dato testuale, ma la teologia deve trasformarlo in uno strumento
per diventare più santi ed amare meglio e più profondamente nostro Signo-
re. In questa prospettiva conviene imitare i nostri santi Padri e, senza pre-
tendere di esaurire il tema e neanche di dire cose in-audite (cioè mai sentite
prima), tentare di scoprire quali sensi spirituali, metafisici e dogmatici pos-
sa avere il fatto che la morte è descritta dalla Scrittura come dormitio, cioè
una specie di ‘sonno’. Quindi, dal senso letterale proveremo adesso a pas-
sare a quello cristologico, ossia a ricercare nella distinzione tra katheúdô e
koimaô qualche indizio sulla natura o sulle azioni di nostro Signore Gesù
Cristo. Data però l’enorme ricchezza e complessità di una esegesi così im-
postata riguardo ad un tema così importante, potremo fare solo dei cenni.
_____________________________
8
Naturalmente un biblista dovrebbe a questo punto chiedersi per quale ragione il NT
mantenga l’uso di katheúdô nella LXX ma inverta quello di koimaô. E perché non sia
accaduto il contrario, ossia mutare il lessema di katheúdô e mantenere quello di koi-
maô. La letteratura intertestamentaria (p.es. 1Enoch) in questo ha certo il suo peso,
così come il ruolo di Paolo, ma porci e soprattutto tentare di rispondere a queste do-
mande ci porterebbe al di là del nostro scopo, che è studiare il senso letterale della
dormitio come immagine della morte nel NT, e non la sua storia in tutta la Scrittura.

51
2.2. Il senso cristologico (o allegoria)
della ‘dormitio’ come immagine della morte

Lo Spirito ispira la Scrittura per farci crescere nella fede. Poiché tale cre-
scita consiste nella progressiva e sempre più completa ‘cristificazione’ del
cristiano (che per questo si chiama così), è ovvio che, appurato il senso let-
terale, il passo successivo consista nel capire cosa da quel certo brano pos-
siamo imparare sul nostro Signore, o sulla persona o sul suo modo di agire,
sentire e pensare, così che lo si possa meglio imitare nelle situazioni della
nostra vita, come ci insegna Paolo (Rm 15,5s):
«Il Dio della perseveranza (gr. ypomonê; lat. patientia) e della consolazione
vi conceda di avere gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti ad esempio di
(gr. katà; lat. secundum) Cristo Gesù, perché con un solo animo e una voce
sola rendiate gloria a Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo».
Come tale ‘cristificazione’ possa avvenire in relazione alla morte lo si
apprende nel dettaglio nel meraviglioso inno che si trova nella lettera ai Fi-
lippesi (2,5-11), purtroppo profondamente depauperato nella sua pregnanza
spirituale e dogmatica dalle versioni (riportiamo quella di CEI73):
«5Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù,
6 il quale, pur essendo di natura divina (gr. en morphê teoû ypárchon; lat.
cum in forma Dei esset; CEI08 ‘pur essendo nella condizione divina’),
non considerò un tesoro geloso (gr. arpagmón; lat. rapinam; CEI08 ‘privi-
legio’)
la sua uguaglianza con Dio (gr. tò einai isa theô; lat. se aequalem Deo;
CEI08 ‘l’essere come Dio’);
7 ma spogliò (gr. ekénôsen; lat. exinanivit; CEI08 ‘svuotò’) se stesso,
assumendo la condizione di servo (gr. morphên doúlon labôn; lat. for-
mam servi accipiens;)
e (gr. lat. omissis) divenendo simile agli uomini (gr. en omoiômati an-
thrôpôn genómenos; lat. in similitudinem hominum factus)
apparso in forma umana (gr. kai en schêmati eúretheis ôs anthrôpos; lat.
et habitu inventu ut homo; CEI08 ‘dall’aspetto riconosciuto come uomo’),
8 umiliò (gr. etapeínôsen eautòn; lat. humiliavit semet ipsum) se stesso
facendosi (gr. genómenos; lat. factus) obbediente fino alla morte
ed alla morte di croce.
9 Per questo Dio l’ha esaltato (gr. yperypsôsen; lat. exaltavit; CEI08 ‘esal-
tò’);
e gli ha dato (gr. echarísato; lat. donavit; CEI08 ‘donò’)
il nome che è al di sopra di ogni altro nome;
10 perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi

52
nei cieli, sulla terra e sotto terra (gr. epouraníôn kai epigheíôn kai kata-
chthoníôn; lat. caelestium et terrestrium et infernorum);
11 e ogni lingua proclami (gr. exomologhêsêtai; lat. confiteatur);
che Gesù Cristo è il (gr. lat. CEI08 omissis) Signore,
a gloria di Dio Padre (gr. eis dóxan theoû patrós; lat. in gloria est Dei
9
Patris)» .
_____________________________
9
Come si vede, CEI08 non è più fedele agli originali di CEI73. Riportiamo di seguito le
traduzioni degli incisi greci e latini, chiaramente impossibili ad inserirsi nel testo:
v.6a gr. en morphê teoû ypárchon; lat. cum in forma Dei esset; lett. “essendo posses-
sore della forma - cioè ‘della natura’ - di Dio”; CEI08, ‘essendo nella condizione
divina’, è decisamente debole e filologicamente insostenibile;
v.6b gr. arpagmón; lat. rapinam; CEI08 ‘privilegio’; in greco arpagmón significa ‘co-
sa bramata avidamente ricercata’, quindi simile alla rapina della Vulgata; il ‘privi-
legio’ di CEI08 è inesplicabile, poiché non ha né senso né fondamento;
v.6c gr. tò einai isa theô; lat. se aequalem Deo; CEI08 ‘l’essere come Dio’; in greco
isos indica l’assoluta uguaglianza, omoiôs la somiglianza ed ôs un semplice ‘co-
me’: CEI08 riesce a trasformare il più forte appoggio biblico alla piena divinità del
Figlio in una affermazione ancor più debole di quella di Ario, che a Nicea era di-
sposto ad accettare un ben più forte omoiôs;
v.7a gr. ekénôsen; lat. exinanivit; CEI08 ‘svuotò’; CEI73, ‘spogliò’, è resa poetica ma
assai debole; corretta invece quella di CEI08;
v.7b gr. morphên doúlon labôn; lat. formam servi accipiens; CEI73,08 rendono mor-
phê con ‘condizione’, mentre significa ‘natura’: questo versetto, insieme al v.6, è
uno dei più forti appoggi biblici della dottrina delle ‘due nature’ di Cristo (divina
e umana insieme), e precisamente dell’assunzione della natura umana da parte di
quella divina, cosa invisibile in CEI73 ma che in CEI08 si trasforma in una incredi-
bile (ed in-audita) dottrina delle ‘due condizioni’, che neanche Nestorio osò inse-
gnare. Chissà cosa ne penserebbe il miafisita Cirillo d’Alessandria...
v.7c gr. en omoiômati anthrôpôn genómenos; lat. in similitudinem hominum factus;
CEI73,08 qui rendono bene l’avv. omoiôs, ‘simile’;
v.7d gr. kai en schêmati eúretheis ôs anthrôpos; lat. et habitu inventu ut homo; CEI08
‘dall’aspetto riconosciuto come uomo’; il greco, lett., significa ‘e nelle consuetu-
dini fu trovato come uomo’, il lat., lett., significa ‘e nelle consuetudini (fu) trovato
come uomo’; CEI73 introduce un ‘apparire’ che sminuisce la forza della ‘forma
umana’, CEI08 adotta il più banale dei sensi di schêma/habitus, quello di ‘aspetto
esteriore’ (senza contare che in greco una locuzione come ‘schêma di casa’ signi-
fica semplicemente ‘casa’); il v.7d intende dire che il Figlio ha assunto non solo la
natura umana ma anche i modi di fare, le consuetudini di un uomo, com’è scritto
in Eb 4,15: «Non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le no-
stre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi,
escluso il peccato»; per CEI73 invece Cristo si limita ad ‘apparire’ in forma umana
e per CEI08 ha semplicemente un ‘aspetto umano’, traduzioni entrambe molto vi-
cine al docetismo, eresia per la quale Cristo ‘apparve’ come uomo ma non lo era;
v.8a gr. etapeínôsen eautòn; lat. humiliavit semet ipsum; CEI73,08 sono corrette; eta-
peínôsen però ha in sé l’idea del ‘rimpicciolire’, del ‘diminuire’, che ricorda quel
che dice di sé il Battista (Gv 3,30): «Egli deve crescere ed io invece diminuire»,
(segue)

53
La lettura dell’inno è indubbiamente complicata non poco dalla necessità
di riportare i testi originali greco e latino, dai quali entrambe le versioni ita-
liane si scostano significativamente proprio nei punti più delicati, sia dog-
maticamente che spiritualmente. In nota abbiamo fornito qualche osserva-
zione molto generale al riguardo, ma qui conviene cercare cosa questa de-
scrizione della In-umanazione del Figlio di Dio, che giunge fino alla morte,
10
ci dice sulla natura dell’uomo-Dio Gesù il Cristo .
* * *
L’accenno alla morte come culmine dello ‘svuotamento’ di Cristo ci dice
subito che il senso cristologico di questo evento, unico ed irripetibile nella
vita di ognuno, è assolutamente profondo. Ma si può dire che la morte di
Cristo è stata un ‘dormire’, seppur nel senso di koimaô e non del più banale
katheúdô? A noi sembra di sì. Infatti, come Lazzaro Egli è realmente mor-
to, è stato realmente deposto in un vero sepolcro e là il suo corpo è restato
realmente rinchiuso per tre giorni; e che Lazzaro dormisse lo dice lo stesso
Gesù, il quale subito dopo però spiega che in realtà egli è morto. Anche no-
stro Signore ha quindi conosciuto quella ‘separazione’ tra corpo ed anima
che ognuno di noi sperimenterà quando Dio vorrà. Ma tale ‘separazione’,
______________________________
anche se in Gv il verbo greco non è tapeinóô;
v.8b gr. genómenos; lat. factus; CEI73,08 traducono ‘facendosi’, un riflessivo, mentre
gr. e lat. sono due participi passati con sfumature passive; ed è chiara la distanza
dogmatica tra un ‘farsi’ obbediente ed un ‘essere fatto’ obbediente;
v.9a gr. yperypsôsen; lat. exaltavit; CEI73,08 sono corrette, però lett. yperypsôsen si-
gnifica ‘super-innalzò’, più forte di ‘esaltare’;
v.10c gr. epouraníôn kai epigheíôn kai katachthoníôn; lat. caelestium et terrestrium
et infernorum; il gr. lett. è “(quelli di chi è) al di sopra dei cieli e (quelli di chi è)
sulla terra e (quelli di chi è) infernali”, il che non è esattamente quel che lasciano
intendere CEI73,08, specie riguardo alle ‘ginocchia’ infernali;
v.11a gr. exomologhêsêtai; lat. confiteatur; CEI73,08 traducono ‘proclami’, ma exomo-
loghêoô significa ‘riconoscere apertamente’ e confiteor ‘ammettere’; la differenza
ci pare chiara di per sé, ma aumenta di pregnanza spirituale e dogmatica se si tiene
presente il v.10c originale: chi è ‘sopra i cieli’ può ‘proclamare’ la signoria di Cri-
sto, perché lo ama e lo vede come Egli è, ma chi è sulla terra può solo ‘riconosce-
re apertamente’ tale signoria, poiché lo ama ma ancora non lo vede così com’è; i
dannati poi sono costretti ad ‘ammettere’ la signoria di Cristo perché la subiscono
e non la amano affatto; è chiaro che la diversità è grande e non si può esprimere
con un solo termine: ‘proclamare’ conviene solo ai primi, ‘riconoscere’ solo ai se-
condi, per i terzi gr. e lat. non danno spunti.
10
Il Simbolo di fede dei Concili di Nicea e Costantinopoli insegna che il Figlio di Dio
sarkôthénta kai enanthrôpésanta, termini da sempre tradotti il primo con ‘si è incar-
nato’, correttamente, ed il secondo con ‘si è fatto uomo’, mentre alla lettera significa
‘fu in-umanato’. È vero che in italiano ‘in-umanato’ è termine orrendo, però eviden-
zia meglio di ‘fatto uomo’ la reale umanità dell’uomo-Dio Gesù Cristo.

54
per Lui come per noi, giunge solo al culmine di un percorso di ‘svuotamen-
to’; se il suo è chiaramente irripetibile per noi che siamo solo uomini men-
tre Lui era vero Dio oltre che vero uomo, è però imitabile nella misura in
cui nostro Padre ha scelto per noi, creandoci in un dato modo e collocando-
ci in un certo contesto storico, sociale, culturale ed ecclesiale. Ciò detto, è
necessario capire in che senso questo ‘svuotamento’ della natura divina in
quella umana fino a ‘dormire’ il sonno della morte sia fondamentale.
In primis è la ragione per la quale il Concilio di Calcedonia descrive il
modo di unione della divinità ed umanità in Cristo con quattro avverbi: a-
synchitôs (in-confusamente), atreptôs (in-mutabilmente), adiairétôs (in-di-
visibilmente) e achorístôs (in-separabilmente). Se in Cristo divinità e uma-
nità stessero tra loro in uno qualunque di questi modi, allora in croce sareb-
be morto solo l’uomo Gesù, dato che Dio non può morire. Da un lato è ve-
ro: la dottrina che insegna che insieme all’uomo-Gesù è crocifisso anche il
Figlio (patripassianismo) è insegnata da Noeto di Smirne nel sec.III e subi-
to condannata. Dall’altro sottolineare troppo questa distinzione introdurreb-
be una frattura nell’unità della persona dell’uomo-Dio: e siccome quel che
non è assunto dal Figlio non è redento, allora la morte non sarebbe stata
11
vinta . Ma a qual scopo in-umanarsi se non si vince il nemico entrato nella
creazione per invidia del demonio e per la caduta dei nostri progenitori? Se
_____________________________
11
In realtà il discorso è più complesso. Il patripassianismo infatti è l’estremizzazione di
una mancata distinzione tra Padre e Figlio, un monarchianismo esasperato che sfocia
nel modalismo e quindi comporta inevitabilmente la negazione della Trinità. Purtrop-
po non vi sono molti studi specifici su queste dottrine: conosciamo solo l’ormai data-
to V. MARCHIORO, L’eresia noetiana, Napoli 1921. Il primo a combattere questa ere-
sia è Origene (cf. De principiis, I, 2), poi è la volta di Tertulliano (Adversum Praxe-
an) e lo pseudo-Ippolito Romano (Contra Noetum), infine completano il lavoro Epi-
fanio di Salamina ed i Cappadoci (Basilio Magno, Gregorio di Nazianzo e Gregorio
di Nissa). Il modalismo è condannato da papa Callisto I (†222), poi dal Concilio di
Alessandria del 261, quindi da quello di Nicea (325) ed infine dal Costantinopolitano
I (381). Ora, dal lato trinitario l’ereticità del patripassianismo è palese ma, pur espri-
mendola in modo inaccettabile, Noeto coglie una verità cristologica: nell’uomo-Dio
Gesù Cristo non è lecito porre alcun iato tra divinità e umanità. Per evitare le storture
noetiane è necessario il concetto di ‘appropriazione’: un’azione conviene più ad una
Persona divina che non alle altre, seppur non esclusivamente. L’idea è in AGOSTINO,
De Trinitate, IV, 21, 30 (CCsl 50, 203; trad. it. 175): «La Trinità ha inseparabilmente
operato la voce del Padre, la carne del Figlio e la colomba dello Spirito santo, sebbe-
ne queste tre singole cose si riferiscano alle singole Persone. Questo esempio vale in
qualche modo a far capire che i Tre, inseparabili tra loro, si mostrano separatamente
attraverso le creature visibili, e che l’operazione dei Tre rimane inseparabile anche
nelle singole cose che stanno ad indicare propriamente il Padre e il Figlio e lo Spirito
santo». Ripresa da alcuni Concili di Toledo (cf. DS nn.491.531.535.571), la ‘appro-
priazione’ entrerà in modo stabile in teologia trinitaria dal sec.XIII.

55
il rapporto tra divinità ed umanità in Cristo stesse in una di quelle modalità,
l’agire di Dio sarebbe inutile, privo di ogni significato salvifico.
In secundis, se lo ‘svuotamento’ fino alla morte prova la reale e completa
assunzione della natura umana, la resurrezione prova la natura anche divina
del Cristo: Gesù rimane nella tomba solo tre giorni, o meglio ci resta il suo
corpo, dato che in spirito scende negli inferi a liberare i giusti. Ora, anche
noi risorgeremo nel Giorno della sua Venuta, ma non perché in noi abiti la
natura divina del Figlio bensì per la potenza della Sua Grazia. È vero che i
beati diventano per grazia come Dio è per natura ma, appunto, ‘diventano’,
non ‘sono’, come Cristo; ‘per grazia’, non per natura, diventano non ‘Dio’
12
ma ‘come Dio’ . Il modo di unione tra umanità e divinità nell’uomo-Dio
_____________________________
12
Il lemma “divenire per grazia come Dio è per natura” esprime la dottrina della deifi-
cazione, intesa come fine ultimo dell’uomo e dell’agire di Dio. Ne sintetizza molti di
Massimo il Confessore, il Padre della Chiesa che ne ha fatto il centro della sua teolo-
gia. Testualmente la più vicina forse è MASSIMO IL CONFESSORE, Ambigua, prob.33
(PG 91,1285C-1288A; trad. it. 431s, corretta): «L’uomo tutto intero è impregnato di
Dio e diviene tutto ciò che è Dio». Concettualmente l’idea è invece ben espressa in
MASSIMO IL CONFESSORE, Mystagogia, 21 (PG 91, 697A; trad. it. 183): «Essi, per
adozione, possono essere ed essere chiamati dèi per grazia, per l’intero Iddio che in-
teramente li riempie e non lascia nulla di loro vuoto della Sua presenza». Massimo
dice questo riferendosi ai cantori degli inni liturgici durante i santi misteri; a fortiori
vale per i santi post mortem. Le espressioni con le quali Massimo descrive la deifica-
zione dell’uomo sono molte e varie: cf. J.-C. LARCHET, La divinisation de l’homme
selon saint Maxime le Confesseur, Paris 2009, per totum ma spec. 594-608; Massimo
però si limita a sviluppare un’idea presente da sempre tra i Padri della Chiesa: cf. al
riguardo l’excursus in LARCHET, La divinisation, op. cit., 20-59. Abitualmente si ri-
tiene che sia concezione propria della patristica greca, ma non è così. Senza dubbio i
Padri greci hanno interesse e familiarità con tale concezione molto più forti e pro-
fonde che non i Padri latini, ma questi non la ignorano né la sottovalutano: cf. p.es.
G. POGGIALI, La divinizzazione dell’uomo in sant’Agostino. Dalla rigenerazione
all’amore di Dio, Crotone 2017. I nostri fratelli ortodossi fanno della deificazione la
chiave di lettura dell’intera teologia, alla quale conferiscono quindi un tipico sapore
escatologico e spirituale. Nonostante figuri molto spesso in Tommaso d’Aquino (cf.
p.es. L.T. SOMME, Fils adoptifs de Dieu par Jésus Christ. La filiation divine per
adoption dans la théologie de saint Thomas d’Aquin, Paris 1997: IDEM, Thomas d’A-
quin. La divinisation dans le Christ, Genève 1998), noi cattolici abbiamo scoperto da
poco l’importanza di questa dottrina, che ovviamente è lungi dall’essere la chiave di
volta della teologia. La Riforma vive questa scoperta in modo ambiguo: da un lato ne
comprende ed apprezza l’immenso valore spirituale, dall’altro si sforza di ‘recuperar-
la’ a prescindere dalla Tradizione (con la quale, si sa, i Riformati non si trovano a lo-
ro agio). Il risultato di quest’ultima tendenza è indulgere ad esegesi francamente in-
sostenibili: p.es. M.D. LITWA, We are being transformed. Deification in Paul’s sote-
riology, Berlin-Boston 2012, nella prima sezione ‘dimostra’ che la deificazione è già
nel TM (neanche nella LXX...).

56
Gesù Cristo è diverso da quello dei santi. Poiché non vi è mai stato un tem-
po in cui Egli non fosse anche Dio, allora la sua umanità non è proprio co-
me la nostra: non è solo-umanità, una specie di nietzscheana allzumenschli-
chkeit (‘troppa umanità’), ma una umano-divinità oppure una divino-uma-
nità, i cui due versanti sono dimostrati uno dalla vera morte, l’altro dalla
vera resurrezione. Per Cirillo d’Alessandria questa inscindibile, irripetibile
unione genera una natura altrettanto inscindibile ed irripetibile: per questo
l’uomo-Dio Gesù Cristo è il solo ed unico mediatore tra Dio e l’uomo (cf.
1Tim 2,5). Per gli altri Padri riuniti nel Concilio di Calcedonia (451) invece
questa inscindibile ed irripetibile unione avviene non nella natura ma nella
ipostasi che la rende concreta, palpabile, veramente e completamente uma-
na: la persona dell’uomo-Dio Gesù Cristo, che quindi è altrettanto inscindi-
bile ed irripetibile. Il cuore di questa diversità sta nel rapporto tra natura ed
ipostasi, che Cirillo concepisce in altro modo rispetto agli altri Padri. Ma la
forte connotazione metafisica e non spirituale di questo disaccordo (che pu-
re generò sofferenze e divisioni importanti) ci invita a fermare qui le note
cristologiche generali ed esporne alcune più afferenti alla nostra ricerca.
Il fatto che l’in-umanazione del Figlio di Dio comporti l’assunzione pie-
na della natura umana, e che l’autenticità e completezza di tale ‘svuotamen-
to’ sia provata dalla sua morte, sembra volerci dire che la morte appartiene
alla natura umana. Cristo dunque muore perché ha assunto la nostra natura,
che comporta appunto la morte. È chiara l’estrema importanza dogmatica e
spirituale di questa conclusione per una ‘teologia della morte’: per di più
coinvolge e influenza molte altre questioni, perciò avremo modo di tornare
più volte su di essa. Qui spetta sondare in prima istanza se ed in che misura
sia biblicamente fondata. Ora, a ben vedere, che la morte appartenga alla
natura umana non si deduce dal fatto che Cristo è morto ma, all’opposto, ne
è il criterio ermeneutico: siccome noi tutti moriamo, se Cristo diventa come
noi allora deve morire anche lui. Come si diceva sopra, Cristo muore per-
ché ha assunto la nostra natura, che comporta appunto la morte.
Ma siamo sicuri che, siccome tutti moriamo, allora la morte fa parte del-
la nostra natura? Rispondere ‘sì’ è meno pacifico di quel che pare, ma lo si
conceda pure: in tal caso, siamo sicuri che Cristo muoia perché è diventato
uomo come noi? Se anche qui rispondiamo ‘sì’, allora dovremo spiegare
perché in Fil 2,7b si legge “divenendo simile agli uomini (gr. en omoiômati
anthrôpôn genómenos; lat. in similitudinem hominum factus)” e non un più
semplice ‘divenendo uomo’: se il Figlio ha assunto tutta la natura umana, in
cosa il suo ‘svuotamento’ differisce dalla ‘condizione umana’? In qualcosa
di certo, perché ‘simile’ non è ‘identico’ ed il v.7c legge “apparso in forma
umana (gr. kai en schêmati eúretheis ôs anthrôpos; lat. et habitu inventu ut
homo)”: anche se CEI08 lo rende con ‘dall’aspetto riconosciuto come uomo’

57
è comunque ben diverso dal dire semplicemente ‘essendo uomo’. Delle due
l’una: o i versetti di Filippesi insegnano che Cristo non è vero uomo oppure
insegnano che in noi vi è qualcosa in più oltre alla natura umana, qualcosa
che il Figlio non assume.
In effetti questa seconda è la risposta giusta, come è scritto (Sap 1,13s):
«Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi.
Egli infatti ha creato tutto per l’esistenza; le creature del mondo sono sane,
in esse non c’è veleno di morte»,
ed anche (Sap 2,24):
«La morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo e ne fanno esperienza
coloro che gli appartengono».
Se Dio non ha creato la morte, allora questa non fa parte di nessuna natu-
ra creata, non solo in quella umana. Su questo Paolo è chiaro (Rm 4,12):
«Come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il pec-
cato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché (gr.
add. eph’ô, ‘in lui’; CEI73,08 om.) tutti hanno peccato».
Il demonio istiga al peccato Adamo ed Eva, questi accettano la tentazio-
ne, peccano, e da allora la morte entra a far parte della nostra vita. Il Figlio
assume la natura umana ma ciò non significa assumere anche la morte, per-
ché questa non fa parte della natura umana ma le si aggiunge come conse-
guenza della caduta originale. Cristo quindi muore non perché è in qualche
misura ‘costretto’ a farlo dalla nostra natura ma perché liberamente sceglie
di morire, come è scritto (Gv 10,17s):
«Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita, per poi riprenderla
di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere
di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo comando ho ricevuto
dal Padre mio».
Questa scelta è poi rivolta non contro la morte ma contro chi la morte ha
in qualche maniera introdotto nella creazione (ci si passi per ora questo im-
preciso modo di esprimerci). Come è detto (Eb 2,14b-15):
«Per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il po-
tere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che per timore della morte erano
soggetti a schiavitù per tutta la vita».
Per questo nella Preghiera Eucaristica II si prega dicendo:
«Egli, offrendosi liberamente alla sua passione...»,
e nella Preghiera Eucaristica IV:

58
«Per attuare il Tuo disegno di redenzione si consegnò volontariamente alla
morte»,
mentre la Preghiera Eucaristica della Riconciliazione I prega così:
«Il Tuo Figlio, il solo giusto, si è consegnato nelle nostre mani e si è lasciato
inchiodare sulla croce».
Quindi l’uomo-DioGesù Cristo assume sì la natura umana ma questa non
comporta la morte; muore perché sceglie liberamente di morire; sceglie di
13
morire per sconfiggere definitivamente il nemico . È quanto mai evidente
l’importanza di questa conclusione per il nostro percorso.
* * *
Ancor più rapida e accennata può essere la lettura allegorica delle azioni
di Gesù riguardo alla dormitio come immagine della sua morte. Infatti, tutte
le azioni di Gesù sono finalizzate da un lato a perfezionare lo ‘svuotamen-
to’ iniziato con l’In-umanazione, perché l’uomo-Gesù ha anch’egli bisogno
di compiere un cammino spirituale per poter liberamente accogliere il dise-
gno di Dio su di lui), da un altro a far riverberare tale progressivo perfezio-
namento sugli altri, perché la santificazione non è mai un fatto ‘privato’ ma
sempre un evento comunitario, che coinvolge, provoca, edifica. Quella par-
ticolare azione che è la sua morte raggiunge questi due scopi in modo ori-
ginale e del tutto diverso da quelli delle altre azioni (miracoli, predicazioni,
scontri e così via), però qui è impossibile sviluppare il confronto in maniera
compiuta. Ci limiteremo a suggerire alcune tra le molte possibili piste di ri-
flessione personale, avvalendoci dei passi biblici già riportati.
Riguardo al particolare contributo allo ‘svuotamento’ di sé del Cristo ap-
portato dalla sua sopportazione della durezza di cuore dei suoi contempo-
ranei, potrebbe essere utile soffermarci di nuovo su Romani 15,5s:
«Il Dio della perseveranza (gr. ypomonê; lat. patientia) e della consolazione
vi conceda di avere gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti ad esempio di
(gr. katà; lat. secundum) Cristo Gesù, perché con un solo animo e una voce
sola rendiate gloria a Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo».
Il sostantivo greco ypomonê ha un senso più ampio e spiritualmente sti-
molante dell’italiano ‘perseveranza’ ed anche della più pregnante ‘pazien-
_____________________________
13
Bisogna guardarci dal pensare che il diavolo abbia il potere di dare la morte: se così
fosse, nessun uomo sarebbe vivo. In realtà è scritto (1Sam 2,6): «Il Signore fa morire
e fa vivere, scendere agli inferi e risalire»; è concetto fondamentale che rileggiamo
anche in Dt 42,39 («Sono io che do la morte e faccio vivere») e Sap 16,13 («Tu hai
potere sulla vita e sulla morte, conduci giù alle porte degli inferi e fai risalire»). Solo
Dio ha il potere di dare o togliere la vita: il nemico, in quanto creatura, ha solo quel
che il suo Creatore gli ha affidato; ed il potere di vita e di morte Dio lo riserva a sé.

59
za’ latina. Infatti ypomonê (da ypoménô, ‘restare indietro’, ‘aspettare’, ‘tol-
lerare’) significa innanzitutto ‘restare indietro’ (Aristotele), poi ‘resistenza’,
‘sopportazione’ come quella dello scudo ai colpi di spada (Polibio), ‘accon-
discendenza’ (Teofrasto), ed infine, nella LXX, ‘fiduciosa attesa’. È certo a
questo ultimo significato che pensa Gerolamo quando rende ypomonê con
‘patientia’ ed il traduttore italiano nello scegliere ‘perseveranza’. Se però
osiamo una etimologia un pò diversa, il termine ypomonê si può considera-
re composto da ypo, preposizione che significa ‘sotto’, e mónos, aggettivo
che vuol dire ‘unico’. Se si accetta questa’etimologia, la ‘perseveranza’ o la
‘pazienza’ mostrano di nascere da un ‘essere unificati al di sotto’, da una
monoliticità interiore che permette di reggere agli urti, di sopportare, di pa-
zientare senza che le molte cose che accadono infrangano la nostra solidità.
Questa progressiva ‘unificazione’ dell’uomo interiore è un movimento spi-
rituale di estrema importanza nella prospettiva di Massimo il Confessore,
movimento che avremo modo di studiare a fondo più avanti.
Se troviamo più stimolante approfondire il nesso tra l’agire della Persona
del Figlio e quello dell’uomo-Gesù, ci può aiutare il passo di Filippesi, 2,
dove gli spunti di riflessione sono moltissimi e tutti assai fecondi. Li ab-
biamo accennati sia qui nel testo che in nota.
Se invece vogliamo avvicinarci di più alla nostra ricerca, dal punto di vi-
sta puramente spirituale giova ricordare che il grido di Gesù che spira, “E-
loì, Eloì, lamà sabactanì”, è sempre stato considerato dalla Tradizione come
un rinvio al Salmo 22, che effettivamente inizia proprio così, “Dio mio, Dio
mio, perché mi hai abbandonato?”, e descrive non solo la sofferenza spiri-
tuale del giusto ma anche la sua certezza della salvezza. Qui è al centro non
tanto l’agire in sé e per sé quanto l’agire come relazione con il nostro Dio,
come ‘ponte’ tra la persona dell’amato e quella dell’amante, a prescindere
da chi sia uno o l’altro. Agire come frutto di puro amore e come premessa
di puro amore, agire che pare senza senso e invece è il vertice del senso,
l’amore di Dio e per Dio fine a se stesso. Non a caso in molti quadri il Cro-
cifisso è sostenuto dal Padre che tiene i due bracci orizzontali, mentre lo
Spirito, in forma di colomba, è tra il Padre ed il Figlio in croce, a testimo-
nianza che là dove sembra regnare il più completo abbandono vi è invece la
vicinanza più assoluta e profonda.
Se vogliamo capire meglio l’aspetto psicologico dell’uomo-Gesù mentre
agisce sapendo che la morte di croce è il suo destino, può essere interessan-
te scoprire quale differenza c’è tra avere dei sentimenti ‘ad esempio’ di Cri-
sto, come dice Rm 15,6 CEI73,08, o ‘secondo’ Cristo, come si legge in greco
e latino. Altro infatti è avere Cristo come ‘esempio’, al modo dei maestri
buddhisti o dei filosofi greci, altro è ‘sentire come’ Cristo, perché ciò com-
porta, ad esempio, ‘sentire’ lo stesso disprezzo su di sé, uguale angoscia per

60
scia per il destino altrui, identica premura per l’avvento del Regno. ‘Sentire
come’ Cristo significa voler tornare al Padre come Lui voleva tornarci, a-
mare i fratelli come Lui ci ha amati. Dare la nostra vita in sacrificio per lo-
ro è ben altra cosa che ‘prendere ad esempio’...
Ma come è stato possibile arrivare ad un simile fraintendimento?
Perché l’azione del nemico è stata ed è ancora assai abile, dal versante
spirituale come da quello metafisico. Per prima cosa, ci ricorda la distanza
tra noi e Dio, sia spirituale che metafisica; ed è vero che tale distanza esi-
ste. Poi fa notare che essa impedisce di considerare l’amore di e per Dio in
qualche modo o misura paragonabile a quello che noi possiamo provare per
una qualunque creatura, perché questa è al nostro livello ma Dio no; anche
questo è vero, e per di più sposta il peso dal lato metafisico a quello spiri-
tuale. Infine, stavolta solo dal lato spirituale, mostra che quello di Dio è un
amore a dir poco strano, dato che permette il male e addirittura la morte di
chi ama. Non è forse scritto (Gb 33,19-22):
«(Il Signore) corregge l’uomo con il dolore nel suo letto e con la tortura
continua delle ossa;
quando il suo senso ha nausea del pane, il suo appetito del cibo squisito;
quando la sua carne si consuma a vista d’occhio
e le ossa, che non si vedevano prima, spuntano fuori,
quando egli si avvicina alla fossa e la sua vita alla dimora dei morti»?
ed anche (Sir 30,1):
«Chi ama il proprio figlio usa spesso la frusta, per gioire di lui alla fine»?
Già questo è sufficiente per allontanare molti, ma il nemico non si accon-
tenta, e nel nostro cuore fa sorgere altre domande: “Ma che padre è quello
che uccide il figlio bravo e buono per rimediare ai delitti dei fratelli depra-
vati? Chi si comporta così merita di essere chiamato ‘padre’ o non piuttosto
‘depravato’ anche lui? Certo quel che prova per il figlio buono non può es-
sere detto ‘amore’, e se non ama lui figurarsi gli altri!” E così dalla distanza
riesce a creare la separazione, e dalla diversità l’opposizione.
Fino a qualche decennio fa, quest’idea di Dio Padre severo che esige do-
lore ed infligge punizioni come espiazione per i peccati commessi era asso-
lutamente comune, ed ancor oggi molti nostri fratelli continuano a credere
14
che sia così . Quest’idea riempiva e ancora riempie di scandalo e ripulsa i
_____________________________
14
Cf. p.es. il detto: “Cosa ho fatto di male per meritarmi questo?” Come se nostro Si-
gnore ripagasse il male con il male! A questa ignoranza spirituale quasi invincibile si
unisce un’altrettanto forte ma ancor più incomprensibile assenza di buon senso: quale
madre ripaga le marachelle di suo figlio con altrettante malefatte? L’unica ragione di
queste affermazioni è che per chi le fa Dio non è né padre né madre: ma, allora, quale
(segue)

61
nostri fratelli ortodossi, i quali hanno imparato a rapportarsi con Dio in mo-
15
do totalmente diverso . È vero che le loro polemiche falliscono il bersaglio
quando pretendono di dire che questo sia l’insegnamento della Chiesa cat-
tolica, perché la dogmatica già da tempo ha preso tutt’altre strade. Però non
si può negare che nelle nostre parrocchie ci si pone così di fronte al dolore
ed alla morte, e che i pastori non fanno molto per cambiare le cose. De fac-
to i suggerimenti perversi e pervertitori del nemico continuano ad essere se-
guiti e propagandati tra i nostri fratelli, anche se de iure si dovrebbe inse-
gnare l’esatto contrario. Ma questo è discorso che ci porterebbe lontano.
Comunque sia, nella realtà le cose stanno in modo del tutto diverso.
Dal punto di vista spirituale, l’errore non consiste nell’esaltare la distan-
za tra noi e Dio, ma nel semplice porla. L’esaltazione infatti pone la negati-
vità nell’eccesso che indica, ma il fatto è che ormai questa distanza non esi-
ste più, quindi non c’è proprio niente da esaltare o anche solamente da indi-
care. Ma affermare che tra creatura e Creatore non c’è distanza è tesi che da
qualcuno potrebbe essere fraintesa, se non accusata di idiozia prima ancora
che di eresia, quindi è bene arrivarci per gradi.
In primis, il momento della morte dell’uomo-Dio Gesù Cristo non può e
non deve essere separato dal resto della sua vita terrena, vita che mostra un
Dio ben diverso da quello severo fino alla cattiveria suggerito dal nemico
ed accettato per ignoranza da uomini che non sanno cosa significhi ‘ama-
re’. Questo contrasto, da solo, basta a mostrare che vi è qualcosa di errato

______________________________
Dio si è predicato fino ad oggi? Dal lato umano si passa poi a quello ‘naturale’: ecco
allora le ‘orche assassine’, ‘la neve killer’, ‘la natura omicida’ e così via. Se infine si
considerano uragani, terremoti, carestie, allora accusare Dio di insensibilità, cattive-
ria o addirittura sadismo è ancor più facile: il terremoto di Lisbona del 1755 ne è un
eccellente esempio, oltre che di un’altrettanto fuorviata percezione da parte del clero.
Ora, quello del male è certo il problema più duro e pesante che un non credente possa
porsi; ma il credente, se è davvero tale, non può uniformare il proprio sentire a quello
di chi non crede, perché sa che Dio non agisce al modo che suppone chi non lo cono-
sce. In realtà, come vedremo, per chi ama Dio le cose stanno in tutt’altra maniera; ed
a dirla proprio tutta, quello della morte è il risvolto di gran lunga più semplice, per-
ché Cristo ha già fatto tutto: basta guardarlo ed imparare. Per il resto della creazione,
specie la inanimata, le cose sono invece un po’ più complesse.
15
Cf. p.es. l’abitudine armena di non porre mai il corpo di Cristo sulla croce, ma di
rappresentare questa sempre fiorita, con almeno due tralci che si dipartono dalla sua
base verso destra e verso sinistra. Ciò perché della crocifissione di Cristo non interes-
sa la morte bensì la resurrezione, che la svuota di paura. Ora, in Armenia di croci ce
sono ovunque, di ogni genere e dimensione; scolpite nella pietra, il tempo le ricopre
di muschi e licheni, e così il simbolo della vita si ricopre di vita vera. È ovvio che un
popolo abituato a questa onnipresente simbologia nutra poi una speranza ed una fede
nella vittoria di nostro Signore semplicemente impensabile da noi in Occidente.

62
nella prospettiva sopra esposta; e siccome la Scrittura non mente, l’errore è
necessariamente in tale visuale. In secundis, la vita terrena di Cristo è quel
che è a causa della ragione per la quale il Figlio ha assunto la nostra natura
umana, altrimenti dovremmo supporre che Dio fa qualcosa (l’Incarnazione)
in vista un certo scopo ma poi si comporta in modo da ottenerne un altro. In
tertiis, questa ragione è appunto annullare la distanza tra creatura e Creato-
re perché la radice del peccato è proprio porre, accettare e vivere in questa
lontananza. Per questo è scritto (Ef 2,13-22):
«Ora, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vi-
cini grazie al sangue di Cristo.
Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo,
abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia,
annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di de-
creti,
per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace,
e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce,
distruggendo in se stesso l’inimicizia.
Egli è venuto perciò ad annunziare pace a voi che eravate lontani e pace a
coloro che erano vicini.
Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo
Spirito.
Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei
santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei
profeti, e avendo come pietra angolare lo stesso Cristo Gesù. In lui ogni co-
struzione cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore; in lui an-
che voi insieme con gli altri venite edificati per diventare dimora di Dio per
mezzo dello Spirito».
Il riavvicinamento operato dall’Incarnazione è allo stesso tempo spiritua-
le e metafisico: spirituale, perché in Cristo l’uomo riacquista la possibilità
di divenire per grazia come il Creatore è per natura, metafisico, perché è la
unione di due nature senza confusione, senza mutamento, senza mescolan-
za e senza divisione, ed in questo consiste il divenire per grazia come Dio è
per natura. La rivelazione che il riavvicinamento è stato compiuto in Cristo
avviene attraverso la ‘mostrazione’ dell’annullamento della morte per mez-
zo della Sua resurrezione, come è detto (1Cor 15,54ss):
«La morte è stata ingoiata per la vittoria.
Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?
Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la legge».
La rivelazione che il riavvicinamento deificante è stato compiuto in noi
ce la comunica Paolo, ad esempio quando scrive (1Cor 3,16s):

63
«Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se
uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché santo è il tempio
di Dio, che siete voi»,
oppure (2Cor 6,16ss):
«Quale accordo tra il tempio di Dio e gli idoli? Noi siamo infatti il tempio
del Dio vivente, come Dio stesso ha detto: “Abiterò in mezzo a loro e con
loro camminerò, e sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. Perciò u-
scite di mezzo a loro e riparatevi, dice il Signore, non toccate nulla d’impu-
ro. E io vi accoglierò, e sarò per voi come un padre, e voi mi sarete come fi-
gli e figlie, dice il Signore onnipotente”»,
dove il collage di passi dell’AT (Lv 26,11s; Ez 37,27; Is 52,4.11; 2Sam
7,8.14) mostra come in nuce questa idea fosse già presente allora.
In definitiva, è vero che tra noi creature e Lui, nostro Creatore, esiste una
distanza spirituale e metafisica immensa: ma dal Suo lato, dal Suo punto di
16
vista, questa non esiste . Ce lo ha reso noto attraverso l’Incarnazione, mor-
te e soprattutto resurrezione dell’uomo-Dio Gesù Cristo. Per questo lo Spi-
rito ha ispirato Paolo a scrivere ‘si svuotò’ per indicare il movimento meta-
fisico-spirituale dell’incarnazione; per questo usa il verbo ‘umiliarsi’ e ‘far-
si obbediente’ per descrivere l’atteggiamento dell’uomo-Dio Gesù Cristo:
per evidenziare che la distanza tra Creatore e creatura, che pure rimarrà an-
che dopo la deificazione, è però annullata dall’onnipotenza amante del Cre-
atore. Chi ama qualcun altro (figli, moglie/marito, cani, gatti) sa bene cosa
ciò significa: fare noi quel che l’amato non può fare e di cui ha però biso-
gno. Chiunque ami Dio perciò non si meraviglia dell’agire dell’Amato.
Potremmo continuare su questa falsariga per molto, ma conviene prose-
guire la nostra esegesi.

2.3. Il senso tropologico (o morale)


della ‘dormitio’ come immagine della morte

Abbiamo ormai compreso che una ‘teologia della morte’ in realtà è una
_____________________________
16
Che le cose stiano così non è straordinario. P.es. in matematica non è raro che il limi-
te di una funzione tendente ad un certo valore da destra sia diverso da quello che ha
quando vi tende da sinistra: cf. p.es. l’iperbole equilatera. Ancora. Per studiare l’infi-
nitamente grande, cioè stelle, galassie, buchi neri ecc., è indispensabile conoscere al-
la perfezione l’infinitamente piccolo, cioè quark, bosoni, wimp e così via. Spesso, la
vita spirituale appare illogica a causa di ignoranza, o razionale (deficit scientifico) o
relazionale (deficit affettivo) o esistenziale (deficit esperienziale), ma in realtà non è
così. Senza contare poi che ‘logico’ si può dire in molti modi.

64
‘teologia della vita’, poiché si muore in modo coerente a come si è vissuti,
o meglio al modo in cui si è scelto di vivere. A questo riguardo è bene non
dimenticare mai quel che scrive Paolo (Rm 7,14-25):
«Sappiamo infatti che la legge è spirituale, mentre io sono di carne, venduto
come schiavo del peccato. Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: in-
fatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto. Ora, se faccio
quello che non voglio, io riconosco che la legge è buona; quindi non sono
più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io so infatti che in me, cioè nel-
la mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la ca-
pacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che
non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma
il peccato che abita in me. Io trovo dunque in me questa legge: quando vo-
glio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti acconsento nel mio intimo
alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove
guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato
che è nelle mie membra. Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo
corpo votato alla morte? Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo
nostro Signore! Io dunque, con la mente, servo la legge di Dio, con la carne
invece la legge del peccato».
Prendere coscienza di questa profonda ed insanabile distanza tra il nostro
‘voler il bene’ ed il nostro fattuale ‘fare il bene’ (per semplicità e carità non
diciamo ‘fare il male’: ma Paolo scrive così) è sicuramente il primo e fon-
damentale passo per impostare correttamente la propria vita spirituale. Chi
non lo fa rischia molto seriamente di leggere con gli occhi di Pelagio quel
che è scritto altrove (Sir 15,15ss):
«Se vuoi, osserverai i comandamenti; essere fedele dipenderà dal tuo buon-
volere. Egli ti ha posto davanti il fuoco e l’acqua; là dove vuoi stenderai la
tua mano. Davanti agli uomini stanno la vita e la morte; a ognuno sarà dato
ciò che a lui piacerà».
La morte è solo un istante di una vita solitamente molto, molto più lunga,
e però segna l’ingresso nella vita senza fine dell’aldilà. Di questa duplice e
molto complessa prospettiva qui possiamo solo accennare qualche dato ri-
guardo al versante ante mortem della dormitio come immagine della morte.
Per capire meglio ciò che intendiamo, dobbiamo pensare che l’elemento ca-
ratteristico della dormitio come immagine della morte, cioè la deposizione
del nostro corpo nella tomba, dura fino al Giudizio Universale, mentre la
decisione del destino personale avviene al momento stesso della separazio-
ne dell’anima dal corpo, è definitiva, si svolge per un tempo non precisabi-
le a prescindere dal corpo e porta ad esiti talvolta profondamente diversi da
quelli iniziali. Infine non dobbiamo dimenticare neppure che, come imma-
gine, la dormitio non si adatta perfettamente a ciò che dovrebbe rappresen-
tare, la morte appunto, se non altro perché il risveglio dal sonno ci reintegra

65
nella situazione iniziale mentre quello dalla morte, cioè la resurrezione del-
la carne, ci costituirà definitivamente in uno status metafisico e spirituale
incomparabilmente diverso. Saremo allora pienamente diventati per grazia
come Dio è per natura oppure definitivamente dannati e lontani da ogni be-
ne e gioia. Qui non affronteremo nessuna di queste problematiche, ma vi
dedicheremo ampio spazio nei prossimi capitoli.
* * *
Il senso tropologico della Scrittura (qui, della dormitio come immagine
della morte) non consiste tanto nell’individuare precetti morali quanto nello
scoprire le radici spirituali dalle quali questi scaturiscono. Perché, se è vero
che una spiritualità senza pratica è falsa, è anche vero che altrettanto falsa è
una morale priva di interesse per la vita spirituale. Ora, indagando il senso
allegorico o cristologico della dormitio come immagine della morte, si è
scoperto che solo un percorso spirituale di ‘svuotamento’ di se stessi porta
alla cristificazione della nostra vita e quindi ad una morte come ricongiun-
gimento al Bene tanto amato e bramato, nostro Signore. E nel descrivere,
seppur poveramente, le azioni che Cristo compie per poter giungere alla
croce, si sono anche date le coordinate di fondo del senso tropologico che
qui intendiamo illustrare. Il punto di partenza non può essere altro che una
riflessione sull’immagine della dormitio in sé, ancorchè limitata.
Apparentemente il ‘dormire’ quotidiano è un’azione molto semplice: ci
si spoglia, si indossa un pigiama, ci si corica e, dopo un tempo più o meno
breve, ci si addormenta. In realtà le cose non stanno così. In primis, è espe-
rienza comune che, se ci si corica prima del tempo, queste operazioni sono
inutili: chi soffre di insonnia sa bene che si può restare a letto per ore senza
chiudere occhio. In secundis, anche se si ha molto sonno, è ancora comune
esperienza che il letto o un cuscino non nostro, troppe coperte o troppo po-
che, le zanzare e tanti altri inconvenienti possono impedirci di addormen-
tarci oppure svegliarci, e non è detto che dopo si riesca a riprendere sonno,
o che questo sia tranquillo. In tertiis, tali inconvenienti possono essere tutti
interni a noi: una cena pesante, una serata poco tranquilla, un incubo ed ec-
co che una veloce notte di sonno si trasforma in una interminabile nottatac-
cia di sudori, pensieri, soprassalti. Infine, ed è bene non sottovalutare que-
sto elemento, quando ci corichiamo sappiamo che, dopo un certo periodo di
tempo, con il risveglio riprenderemo il controllo della nostra esistenza e
della nostra coscienza; insomma, che ritorneremo tra i vivi.
L’ultimo inciso non è retorico, al contrario: i greci chiamavano il sonno
‘piccola morte’, perché il mito narrava che Ypnos (‘sonno’) fosse fratello di

66
17
Thanatos (‘morte’) . Ciò è dovuto al fatto che ‘dormire’ significa accettare
di perdere il controllo su noi e sull’ambiente intorno a noi. Che siamo certi
di poterlo riprendere, se non quando vogliamo (o meglio quando decide la
sveglia; ma la sveglia l’impostiamo noi, quindi...) almeno prima o poi nella
giornata. Abbandoniamo il controllo sicuri che nel frattempo non subiremo
danni: certo, potremmo finire bruciati o affumicati o intossicati o derubati o
chissà che altro, ma di solito non pensiamo a tali eventualità. L’immagine
del ‘dormire’ quindi è tutt’altro che ingenua o ‘facile’; solo la grande fami-
liarità con tale azione ci permette di non accorgerci della sua complessità.
Ma queste sue caratteristiche sono esattamente ciò che la rende un ottimo
analogo della morte. Non della morte così come la percepisce chi preferisce
non pensarci e fingere di credere che vivrà in eterno, bensì della morte così
come la sente chi si prepara ad essa anche solo come filosofo, come perso-
na che vede gli altri e se stesso invecchiare e quindi avvicinarsi al redde ra-
tionem. Questa prospettiva interiore si traduce, com’è inevitabile che sia, in
azioni esteriori, delle quali la preparazione al sonno è un buon esempio pur
mantenendo un’evidente, irriducibile distanza esperienziale. Così, spogliar-
ci dei vestiti che adoperiamo di giorno e l’indossare il pigiama riecheggia
quel dice Paolo (Col 3,9s):
«Vi siete spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il
nuovo, che si rinnova, per una piena conoscenza, ad immagine del suo Crea-
tore»,
mentre poco prima affermava (Ef 4,20-24):
«Voi così avete imparato a conoscere Cristo, se proprio gli avete dato ascol-
to e in lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù, per la quale do-
vete deporre l’uomo vecchio con la condotta di prima, l’uomo che si cor-
rompe dietro le passioni ingannatrici e dovete rinnovarvi nello spirito della
vostra mente e rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e
nella santità vera»,
passo cui fa eco l’autore della lettera agli Ebrei (12,1s CEI73):

_____________________________
17
Cf. p.es. ATENAGORA, Legatio pro christianis, 12, 3 (SCh 379, 108; CTP 59, 264):
«Si ritiene che siano pii quanti credono che la vita consista in questo (Is 22,13):
“Mangiamo e beviamo perché domani moriremo”, e considerano la morte come un
sonno profondo ed un oblio». Questi ‘pii’ sono soprattutto autori greci: OMERO, Ilia-
de, XIV, 231; XVI, 672; Odissea, XIII, 79; SENOFONTE, Ciropedia, VIII, 7, 21; ma
l’idea non è sconosciuta a quelli latini: cf. VIRGILIO, Eneide, VI, 278, né ai filosofi,
cf. p.es. PLATONE, Apologia Socratis, 40 c-d. Atenagora non è l’unico testimone del-
la diffusione di questa concezione non solo greca: p.es. cf. anche CLEMENTE ALES-
SANDRINO, Protrepticus, X, 102, 3 (SCh 2, 170).

67
«Anche noi dunque, circondati da un così gran nugolo di testimoni, deposto
tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza
nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e
perfezionatore della fede. Egli in cambio della gioia che gli era posta innan-
zi, si sottopose alla croce, disprezzando l’ignominia, e si è assiso alla destra
18
del trono di Dio» .

_____________________________
18
A proposito di questo passo ci piace riportare il bel commento che ne fa GIOVANNI
CRISOSTOMO, In epistulam ad Hebreos homiliae, hom.28, 2 (PG 63, 193s; trad. it.
393-396; il testo greco che Giovanni commenta è talvolta diverso da CEI73): «Spesso
la Scrittura prende motivo di consolazione nella liberazione dei mali che accadono,
come quando il profeta dice (Is 4,6): “(Dio) sarà tuo riparo dal caldo e ricovero dalla
pioggia” e Davide (Sal 121,6): “Di giorno non ti farà male il sole, nè la luna di not-
te”. Lo stesso dice qui, cioè il ricordo di quei santi [i.e. dei giusti morti prima di chi
legge] è come una nube che con la sua ombra ripara dai raggi troppo caldi del sole e
dà sollievo e forza all’anima logorata dai mali. Non dice che quella nube sta sopra di
noi ma che ci avvolge, il che è più efficace, e così spiega che, standoci tutt’attorno, ci
dà maggior sicurezza. Chiama ‘testimoni’ [lett. martiri] non solo quelli del Nuovo
Testamento ma anche quelli dell’Antico, perché essi pure resero testimonianza alla
grandezza di Dio, come i tre giovani [Sadràch, Medràch, Abdènego; cf. Dan 3], Elia
con i suoi, tutti i profeti. “Sbarazziamoci da ogni fardello” (Eb 12,1), cioè dal sonno
della negligenza, dai pensieri bassi e da tutti I sentimenti umani. “E da peccato che ci
inceppa”, cioè, o che facilmente ci lega o che facilmente ci lascia inceppare; e questo
è il senso preferibile, giacchè, se lo vogliamo, è facile vincere il peccato. “Corriamo
senza posa nella gara che ci è aperta dinanzi”. Non dice ‘picchiamo’ né ‘lottiamo’ né
‘combattiamo’ ma si serve del termine più facile, quello della corsa. E neppure dice
‘corriamo a perdifiato’ ma ‘perseveriamo nella corsa’; non perdiamoci d’animo, ma
“corriamo nella gara che ci è proposta”. Poi mette il più importante argomento di e-
sortazione e consolazione, il primo e l’ultimo, il Cristo. “Tenendo fisso lo sguardo
all’autore e perfezionatore della fede, Gesù”. È quel che Cristo stesso diceva conti-
nuamente ai suoi discepoli (cf. Mt 10,24): “Se hanno chiamato Belzebù il padrone di
casa, quanto più i suoi servitori”, ed anche (Mt 10,24): “Non c’è discepolo superiore
al maestro, né servo da più del padrone”. “Guardiamo fisso”, dice, cioè per imparare
a correre guardiamo a Cristo. Come infatti in tutte le arti ed in tutte le gare si guarda
ai maestri e così ci si imprime nella mente l’arte, imparando le regole da quel che si
vede, così anche qui, se vogliamo correre e correre bene, guardiamo a Cristo, all’au-
tore e perfezionatore della fede, Gesù. Che vuol dire? Che Lui stesso ha inserito in
noi la fede, Egli ce ne ha dato l’inizio. È quel che Cristo disse ai suoi discepoli (Gv
15,16): “Non voi avete scelto me ma Io ho scelto voi”. E Paolo dice (1Cor 13,12):
“Allora conoscerò allo stesso modo in cui sono conosciuto”. E se Lui ci ha dato l’ini-
zio, ci darà anche il termine (cf. Eb 12,2): “Il quale, in cambio del gaudio che gli era
proposto, sopportò la croce senza curarsi dell’ignominia”. Cioè, se avesse voluto, a-
vrebbe potuto evitare i patimenti. Infatti Egli non aveva peccato né si trovò falsità
nella sua bocca, come dice Egli stesso nel Vangelo (Gv 14,30): “Viene il principe di
questo mondo, ed in me non trova niente”. Se avesse voluto, avrebbe potuto non es-
sere crocifisso. Dice infatti (Gv 10,18): “Ho potere di deporre l’anima mia e potere di
(segue)

68
Che questo ‘spogliarsi’ consista in azioni vere e proprie è quindi sicuro,
così come è certo che ha senso solo se è un modo per meglio ‘rivestirci’ di
Cristo. La povertà cristiana infatti non è un pauperismo a priori né far virtù
di una miseria imposta dal sopruso di qualche prepotente o da un sistema.
Il coricarci nella certezza del risveglio, fiduciosi che niente di brutto o di
pericoloso accadrà, se non nasce da superficialità o dal rifiuto di pensare al
peggio, è invece un ottimo esempio di quell’atteggiamento interiore di se-
rena fiducia ben espresso da Paolo (1Tess 4,13):
«Non vogliamo, fratelli, lasciarvi nell’ignoranza a proposito di quelli che
sono morti (gr. perì tôn koimômenôn; lat. de dormientibus; lett. ‘riguardo a
quelli che dormono’), perché non continuiate ad affliggervi (gr., lat. e CEI08:
‘siate tristi’) come gli altri che non hanno speranza».
Non esser tristi, non affliggersi, nutrire speranza sono atteggiamenti inte-

______________________________
riprenderla”. Se dunque Lui, che non aveva nessuna necessità d’essere messo in cro-
ce, fu crocifisso per causa nostra, quanto più è giusto che noi sopportiamo tutto con
animo grande! “Il quale in cambio del gaudio che gli era proposto, sopportò la croce
senza curarsi dell’ignominia”. Scelse cioè la morte più obbrobriosa. Sia pure che mo-
risse, ma perché nel modo più disonorante? Per nessun altro motivo se non per inse-
gnarci a non far caso della gloria degli uomini. Perciò la scelse, pur non essendo per
niente soggetto al peccato, per insegnarci ad affrontarla coraggiosamente e a non dar-
le nessuna importanza. Perché non disse: ‘tristezza’ ma ‘ignominia’? Perché sopportò
tutto senza rattristarsi [ma cf. Mt 26,38: “L’anima mia è triste fino alla morte”]. E
come finisce? Ascolta, giacchè aggiunge (Eb 12,2): “È seduto alla destra di Dio”.
Vedi che premio? È la stessa cosa che Paolo scrive (Fil 2,10): “Perciò Dio lo ha esal-
tato, e gli ha donato un nome superiore ad ogni altro nome, affinchè ogni ginocchio
si pieghi nel nome di Gesù Cristo”. Questo lo dice in quanto alla carne. Anzi, pure se
non ci fosse nessun premio, basterebbe il suo esempio a persuaderci a scegliere di
soffrire ogni cosa; invece ci sono promessi premi nella gara, e non di poco valore ma
grandi ed ineffabili. Sicchè, quando noi abbiamo da patire qualche cosa di simile, più
che agli apostoli guardiamo a Cristo stesso. Perché? Perché tutta la sua vita fu piena
di oltraggi: fu detto pazzo, seduttore, imbroglione; una volta i Giudei gli dissero (Gv
9,16): “Quest’uomo non viene da Dio”, un’altra volta (unde?): “Non è altro che un
demagogo” e ancora (Mt 27,63): “Quel seduttore, quand’era vivo disse: ‘Fra tre gior-
ni risorgerò’”. L’accusavano pure di magie (Mt 12,24): “Egli caccia I dèmoni con
l’aiuto di Belzebù” e (unde?): “Avevamo pure ragione di dire che è un indemoniato
ed un pazzo furioso”. E queste cose si sentì dire da quelli che aveva beneficati, per i
quali avva operato miracoli e fatto vedere opere che solo Dio può fare. Se questi ol-
traggi li avesse ricevuti senza aver fatto niente non sarebbe cosa tanto straordinaria;
ma che, dopo aver insegnato la verità, lo abbiano chiamato imbroglione e, scacciando
i demoni, l’abbiano detto indemoniato, e dopo aver combattuto tutti i malanni, l’ab-
biano proclamato un fattucchiero, non è forse cosa da sbalordire? Di queste cose, in-
fatti, continuamente lo accusavano». Si è scelto di riportare questo bel passo nella
sua interezza perché è un ottimo esempio di esegesi tropologica.

69
riori che, se veramente vissuti e non affettati, si traducono inevitabilmente
in atti esteriori: essere tranquilli e sereni se non proprio scherzare sul nostro
status di mortali, fare scelte, esprimere desideri che implichino il ‘durare
oltre’ la situazione attuale e così via. Ma su questi atteggiamenti ci soffer-
meremo con agio in seguito; per ora ricordiamo che è scritto (Sir 14,11ss):
«Figlio, per quanto ti è possibile, tràttati bene e presenta al Signore le offerte
dovute. Ricòrdati che la morte non tarderà e il decreto degli inferi non ti è
stato rivelato. Prima di morire fà del bene all’amico, secondo le tue possibi-
lità sii con lui generoso»,
ed anche (Sir 15,17):
«Davanti agli uomini stanno la vita e la morte; a ognuno sarà dato ciò che a
lui piacerà»,
il che significa agire adesso pensando a quel che sarà di noi in futuro. Co-
me è detto (Sir 18,25s):
«Pensa alla carestia nel tempo dell’abbondanza, alla povertà e all’indigenza
nei giorni di ricchezza. Dal mattino alla sera il tempo cambia, e tutto è effi-
mero davanti al Signore»,
ed anche (Sir 28,6):
«Ricòrdati della tua fine e smetti di odiare, ricòrdati della corruzione e della
morte e resta fedele ai comandamenti».
L’ultima azione, ultima in senso temporale ma anche perché la più
profonda, nell’immagine della morte come ‘sonno’ è esemplificata
dall’entrare sotto le lenzuola, ed è il deporre del proprio corpo nella tomba.
Ed anche su questo ci lasciamo istruire dal saggio Gesù figlio di Sirach (Sir
41,1-3):
«O morte, com’è amaro il tuo pensiero per l’uomo che vive sereno nella sua
agiatezza, per l’uomo senza assilli e fortunato in tutto, ancora in grado di gu-
stare il cibo!
O morte, è gradita la tua sentenza all’uomo indigente e privo di forze, vec-
chio decrepito e preoccupato di tutto, al ribelle che ha perduto la pazienza!
Non temere la sentenza della morte, ricòrdati dei tuoi predecessori e succes-
sori».
Lo Spirito, per bocca e mano del figlio di Sirach, qui offre alla nostra ri-
flessione quattro diversi atteggiamenti interiori di fronte alla morte. Uno, il
primo e più diffuso nel nostro mondo occidentale ed all’interno delle nostre
Chiese ricche di beni e comodità, è quello di amarezza. Non è paura vera e
propria, però è lo stesso del giovane ricco di cui parla Marco (10,22):
«Ma egli, rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto, poiché aveva
molti beni».

70
Il giovane può sfuggire alla richiesta di Gesù, noi non possiamo sfuggire
alla morte, perciò la sua è tristezza, la nostra una (più grave) amarezza. Con
tutta evidenza nasce da un attaccamento del cuore, se non proprio ai beni,
di certo almeno alla vita terrena.
Il secondo, il più diffuso nel sud del mondo ed in genere tra chi ha triste
confidenza con il dolore, consiste nel desiderare la morte in quanto fine del
dolore e della paura. Certo è atteggiamento che ha in sé più verità del pri-
mo, ma non nasce dall’amore per Dio bensì dall’odio per il dolore. Parafra-
sando Basilio Magno, potremmo dire che questo atteggiamento è frutto di
un certo ‘mercenarismo’: apprezziamo la morte per quel che ci dà (la quie-
19
te) e non per Colui di fronte al quale potrebbe portarci .
Se il primo atteggiamento è facilmente etichettabile come spiritualmente
malsano ed il secondo altrettanto, sebbene più comprensibile, il terzo nasce
da una dinamica spirituale piuttosto sottile. Tecnicamente infatti si configu-
ra come un moto in avanti contro natura, in parole più semplici (ma molto
meno precise) lo si potrebbe descrivere come ‘perdita di pazienza’. Questo
accade a chi si impegna a lungo e con tutte le sue forze nel servizio di Dio
ma continua a non vedere i frutti della ‘sua’ fatica. Ad un certo punto nel
suo animo sorgono (o gli sono ispirati...) pensieri simili a quelli che, muta-
tis mutandis, provò e ci comunicò il profeta (Ger 20,9a):
«Mi dicevo: «Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome!»
Nell’animo del profeta, così come in quello di chi agisce per amor di Dio
e non per il riconoscimento degli uomini, a questa reazione, errata ma com-
20
prensibile così come è errato ma comprensibile il non voler più penare , a
_____________________________
19
Cf. BASILIO MAGNO, Regulae fusius tractatae, prol., 3 (PG 31, 896; trad. it. 67):
«Vedo queste tre diverse disposizioni d’animo di fronte all’assoluta necessità della
obbedienza: o ci allontaniamo dal male per timore del castigo, e ci troviamo allora
nella disposizione d’animo propria degli schiavi, oppure, aspirando ai guadagni della
ricompensa, osserviamo i comandamenti per il vantaggio che ne ricaviamo, e siamo
così simili ai mercenari, o ancora operiamo per il bene in se stesso e per amore di
Colui che ci ha dato la Legge, lieti di essere stati trovati degni di servire un Dio tal-
mente glorioso e buono, e ci troviamo così nella disposizione d’animo dei figli».
20
L’errore del non voler più penare, è banale ma purtroppo ancora si pensa e si insegna
il contrario, non consiste nel considerare positiva la sofferenza ma nel puro e sempli-
ce ‘volere’ questo invece di quello. Non amare e tantomeno cercare la sofferenza non
solo è segno di sanità mentale ma non è neanche peccato: Gesù nel Getsemani prova
dolore fino a sanguinare e chiede di non soffrire. Ma ha voluto che si compisse non il
suo ma il volere del Padre. Il punto è capire cosa vuole da noi Dio, e non è semplice
neppure per Paolo (Fil 1,21s): «Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guada-
gno. Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa
debba scegliere». Per questo motivo IGNAZIO DI LOYOLA, Esercizi spirituali, n.23d,
(segue)

71
questa reazione, dicevamo, si affianca quest’altra percezione (Ger 20,9b):
«Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa;
mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo».
Quindi chi agisce per amore di Dio constata il rifiuto altrui, ne soffre, si
stanca, percepisce l’inutilità dei suoi sforzi ma anche il dover continuare, il
non poter cessare. Capisce che questo agire, per quanto infruttuoso, è la ra-
gione del suo esistere, e così va avanti. Stringe i denti e continua. Qualcuno
invece non coglie o rifiuta questa prospettiva, e così si ferma alla ripulsa:
amaramente convinto dell’inutilità del suo agire (accidia), dapprima si fer-
ma (omissione), poi desidera abbandonare la partita convinto di ricevere
comunque la ricompensa (amore mercenario). Per questo suo voler imporre
a Dio tempi e modi è detto dal Siracide ‘ribelle’: e lo è davvero, ragion per
cui la morte non gli recherà la ricompensa sperata ma avverrà di lui ciò che
è scritto altrove (Mt 7,21ss):
«Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma
colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. Molti mi diranno in
quel giorno: “Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e
cacciato demòni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome?” Io
però dichiarerò loro: “Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi
operatori di iniquità”».
Come si vede, solo attraverso un paziente ed incessante lavoro su di noi,
spirituale e pratico, è possibile arrivare a deporre il proprio corpo con sere-
nità nelle mani di quel Signore la cui bontà e misericordia così tante volte
si è già sperimentata. Così scrive a questo riguardo Giovanni il Climaco:
«Chi vuole trattenere sempre nel cuore il ricordo della morte e del divino
giudizio e nello stesso tempo concedersi quei pensieri e sollecitudini terrene
rassomiglia a quel tale che voleva nuotare senza usare le braccia in tutta li-
bertà. Il ricordo vivo della morte intercetta quello dei viveri; se tu te li tagli
umilmente, recidi insieme le passioni. L’abbondanza dei cibi inaridisce alle
fonti lo spirito, come l’indurisce il cuore insensibile al dolore. La sete e la
veglia tormentano il cuore, ma dal cuore afflitto sgorgano abbondanti le la-
crime. Questo è duro per gli schiavi del ventre, né possono crederlo quelli
che si dànno al buontempo, ma lo stimerà volentieri suo traguardo chi è im-
pegnato nell’ascesi, e fattane l’esperienza infine se ne riderà, poiché chi si
______________________________
scrive (Schiavone 58s): «È necessario renderci indiffrenti verso tutte le cose create
(in tutto quello che è permesso alla libertà del nostro libero arbitrio e non le è proibi-
to) in modo da non desiderare da parte nostra più la salute che la malattia, più la ric-
chezza che la povertà, più l’onore che il disonore, più la vita lunga che quella breve,
e così in tutto il resto». Soffrire è male, non voler soffrire è bene, ma volere questo e
non quello non ci garantisce di fare il volere di Dio, come tutto Giobbe insegna.

72
ferma al desiderio ne rimarrà frustrato e triste.
Come i Padri dicono fonte inesauribile di pace la perfetta carità, così io ti di-
mostrerò che il perfetto modo di pensare la morte non comporta paura di
sorta. In molti modi opera lo spirito impegnato nell’ascesi: riflettendo sulla
carità verso Dio, risvegliando il ricordo della dipartita, tenendo Dio presente
nella memoria, richiamando alla mente il Regno, emulando la santità dei
martiri, rinnovando l’esperienza della presenza di Dio secondo quanto sta
scritto (unde?): “Vedevo Dio sempre davanti a Dio”, riconoscendo la pre-
senza delle sante ed incorporee potestà, richiamando alla mente le verità del-
la tua morte e del tuo incontro con Dio, dei suoi castighi e del suo giudizio.
Ho cominciato dai pensieri più elevati per finire con quelli che ci debbono
21
allontanare dalle cadute» .
Solo alla fine di quel percorso potremo dire anche noi le parole di Sime-
one il Giusto (Lc 2,29-32):
«Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola;
perché i miei occhi han visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i
popoli, luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele».
E se qualcuno obietterà che non si può conservare questa serenità quando
la morte ci è imposta, è feroce e violenta (il che non è del tutto falso), ri-
leggiamo come termina il racconto del martirio di Stefano (At 7,55-60):
«Stefano, pieno di Spirito Santo, fissando gli occhi al cielo, vide la gloria di
Dio e Gesù che stava alla sua destra e disse: “Ecco, io contemplo i cieli a-
perti e il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio”. Proruppero allora in
grida altissime turandosi gli orecchi; poi si scagliarono tutti insieme contro
di lui, lo trascinarono fuori della città e si misero a lapidarlo. Ed i testimoni
deposero il loro mantello ai piedi di un giovane, chiamato Saulo. E così la-
pidavano Stefano mentre pregava e diceva: “Signore Gesù, accogli il mio
spirito”. Poi piegò le ginocchia e gridò forte: “Signore, non imputare loro
questo peccato”. Detto questo, si addormentò».
Questo ‘svuotamento’ quindi prepara al momento in cui la separazione
dell’anima dal corpo avverrà; ma, come si è già detto, per quanto preparati
ciò non eliminerà del tutto una certa resistenza. È quanto ci insegna con la
consueta acutezza il nostro santo Padre Giovanni detto il Climaco:
«Ricordare la morte vuol dire morire ogni giorno, ed il ricordo della diparti-
ta implica un continuo cordoglio per la morte. Aver timore della morte è in-
sito alla natura dacchè è avvenuta la disubbidienza (di Adamo); averne tre-
_____________________________
21
GIOVANNI CLIMACO, Scala paradisi, or.6, 59 (PG 88, 796; CTP 80, 136s). Le lacrime
di cui parla Giovanni non sono di dolore ma un dono dello Spirito; cf. p.es. MARCO
L’ASCETA, De lege spirituali, c.12 (SCh 445, 76; trad. it. 173): «Non innalzarti quan-
do versi lacrime durante la preghiera: è Cristo che ha toccato i tuoi occhi e tu hai
riacquistato la vista spirituale».

73
more però è segno che non ci siamo convertiti da una vita di peccato: il Cri-
sto ebbe timore (phóbos) e non tremore (trómos) dinanzi alla morte, per ma-
nifestare apertamente le qualità delle due nature. Il pensiero della morte è
necessario nutrimento per ogni nostra attività come lo è il pane che fra tutti i
22
cibi è quello più indispensabile» .
La distinzione tra timore (phóbos) e tremore (trómos) è fondamentale.
Spesso infatti il timore è preso solo nella sua accezione negativa, che esiste
ed è importante ma non è la sola: ciò che Cristo vive nel Getsemani insegna
che esiste almeno un modo di temere la morte che non è negativo, un modo
che qui il Climaco indica appunto distinguendo tra timore (phóbos) e tre-
more (trómos). Del primo, in senso positivo, infatti è scritto (Sir 1,9-18):
«Il timore (phóbos) del Signore è gloria e vanto, gioia e corona di esultanza.
Il timore (phóbos) del Signore allieta il cuore e dá contentezza, gioia e lunga
vita.
Per chi teme (tô phobouménô) il Signore andrà bene alla fine, sarà benedetto
nel giorno della sua morte.
Principio della sapienza è temere (phóbeísthai) il Signore; essa fu creata con
i fedeli nel seno materno. Tra gli uomini essa ha posto il nido, fondamento
perenne; resterà fedelmente con i loro discendenti.
Pienezza della sapienza è temere (phóbeístai) il Signore; essa inebria di frut-
ti i propri devoti. Tutta la loro casa riempirà di cose desiderabili, i magazzini
dei suoi frutti.
Corona della sapienza è il timore (phóbos) del Signore; fa fiorire la pace e la
salute. Dio ha visto e misurato la sapienza; ha fatto piovere la scienza e il
lume dell’intelligenza; ha esaltato la gloria di quanti la possiedono.
Radice della sapienza è temere (phóbeísthai) il Signore; i suoi rami sono
lunga vita».
‘Timore’ (phóbos), ‘temere’ (phobeísthai), qui sono termini molto positi-
vi e non implicano niente di negativo, nessuna paura o vergogna, anzi, sono
la via per acquistare uno dei doni più belli dello Spirito, la sapienza, la qua-
le permette di vedere con gli stessi occhi di Dio. Per questa sua positività
Cristo ha potuto ‘temere’ la morte senza commettere peccato; è vero che,
come dice il Climaco, questo timore è frutto della caduta di Adamo ma, lo
si è già visto, come avrebbe potuto nostro Signore redimere la nostra natura
se non assumendo anche ciò che dalla sua caduta deriva? Assumere le con-
seguenze (qui, il timore della morte) non significa assumere anche le cause
(cioè il peccato), però eliminare quelle annulla de facto queste: così il Fi-
glio ottiene la redenzione del genere umano senza assumere il peccato.
Del secondo, ossia del tremore (trómos), bisogna dire in primis che nel
NT ricorre solo cinque volte:
_____________________________
22
GIOVANNI CLIMACO, Scala paradisi, or.6, 58 (PG 88, 793-796; CTP 80, 134s).

74
1 Mc 16,8: Esse (i.e. Maria di Magdala, Maria di Giacomo e Salome), uscite,
fuggirono via dal sepolcro perché erano piene di timore (trómos) e di spavento
(ekstasis). E non dissero niente a nessuno, perché avevano paura (ephoboûnto);
2 1Cor 2,3 gr.: Io (Paolo) venni in mezzo a voi in debolezza e con timore (phó-
bos) e molta trepidazione (trómos);
3 2Cor 7,15: Il suo (i.e. di Tito) affetto per voi è cresciuto (lett. ‘le sue viscere
hanno sovrabbondato per voi’), ricordando come tutti gli avete obbedito (lett.
‘l’obbedienza di tutti voi’) e come lo avete accolto con timore (phóbos) e trepi-
dazione (trómos);
4 Ef 6,5: (Voi) schiavi (lett. ‘servi’) obbedite ai vostri padroni secondo la carne
con timore (phóbos) e tremore (trómos), con semplicità di spirito, come a Cristo;
5 Fil 2,12: Quindi, miei cari, obbedendo come sempre, non solo come quando ero
presente ma molto più ora che sono lontano, attendete alla vostra salvezza con
timore (phóbos) e tremore (trómos).
Dalla semplice lettura di questi rinvii è evidente che, anche se la resa ita-
liana è un po’ oscillante, di solito trómos non ha significato negativo, anzi;
e ciò lo si potrebbe affermare anche di phóbos, con il quale (lo si vede), è
spesso accoppiato. Ciò rende difficile trovare nella lettera della Scrittura la
conferma della distinzione di Giovanni Climaco. Questa però esprime una
idea teologica ineccepibile: se manca l’appoggio biblico, vuol dire che non
si è percorsa la strada giusta. Ed in effetti anche nel greco comune timore
(phóbos) e tremore (trómos) sono praticamente sinonimi. Ciò detto, lo ripe-
tiamo, distinguere tra il timore/tremore che appartiene alla natura decaduta
che tutti noi condividiamo ed il timore/tremore che segue da una scelta po-
sitiva contro Dio è assolutamente necessario: nostro Signore Gesù Cristo ha
certamente provato il primo, forse anzi ha dovuto farlo, il secondo gli è si-
curamente rimasto estraneo. A questo riguardo scrive Isaia l’Anacoreta:
«Finchè c’è guerra, l’uomo sta in timore (phóbos) e tremore (trómos), non
sapendo se oggi vincerà o sarà vinto, se domani sarà vinto o vincerà: chi lot-
23
ta ha il cuore alle strette. Ma l’impassibilità è uno stato scevro da lotta» ;
ed è evidente che nostro Signore non era certo ‘in guerra’ con il peccato ma
in perfetta impassibilità.
Poiché lo scopo della ricerca tropologica è ricavare dalla persona di Cri-
sto o dalle sue azioni elementi utili alla nostra crescita spirituale, possiamo
dire, con Climaco, che ci è lecito provare una certa trepidazione riguardo
alla dormitio che indica la separazione dal corpo, perché questa è contraria
alla nostra natura umana che non consiste nella sola anima. Non ci è lecito
invece il timore che segue dall’attaccamento alla vita terrena, perché ciò
appartiene e costituisce il peccato. E la morte ce ne ricorda la vanità.

_____________________________
23
ISAIA DI GAZA, De custodia intellectus, 18 (trad. it. 93).

75
* * *
Questi che abbiamo offerto qui sono solo poveri cenni, incapaci di ren-
dere giustizia alla importanza e delicatezza di saper interpretare la propria
vita come una grandiosa preparazione alla morte. Tantomeno speriamo di
aver replicato ai molti teologi che sulla morte oggi insegnano altre cose.
Ma, non potendo sperare di essere esaurienti se non dedicando un volume
intero alla questione, conviene lasciarla e provare a tratteggiare il passo ul-
24
teriore nell’esegesi della dormitio come immagine della morte .
_____________________________
24
Leggiamo però almeno le belle parole che a questo tema dedica AGOSTINO, In Iohan-
nis evangelium tractatus, tr.49, 2 (CCsl 36, 420; trad. it. 771s): «Apprendiamo dal
Vangelo che tre sono i morti resuscitati dal Signore [Lazzaro, la figlia di Giario ed il
figlio della vedova di Nain], e ciò non senza significato. Sì, perchè le opere del Si-
gnore non sono soltanto dei fatti ma anche dei segni. E se sono dei segni, allora, oltre
ad essere mirabili devono pur significare qualcosa; e trovare il significato di questi
fatti è alquanto più impegnativo che leggerli o ascoltarli. Abbiamo ascoltato il vange-
lo che racconta come Lazzaro riebbe la vita, pieni di ammirazione come se quello
spettacolo meraviglioso si svolgesse davanti ai nostri occhi. Se però rivolgiamo la
nostra attenzione ad opere di Cristo più meravigliose di questa ci rendiamo conto che
ogni uomo che crede risorge; se poi riuscissimo a comprendere l’altro genere di mor-
te molto più detestabile (quello cioè spirituale), vedremmo come ognuno che pecca
muore. Se non che tutti temono la morte del corpo, pochi quella dell’anima. Tutti si
preoccupano della morte del corpo, che prima o poi dovrà venire, e fanno di tutto per
scongiurarla. L’uomo destinato a morire si dà tanto da fare per evitare la morte, men-
tre non altrettanto si sforza di evitare il peccato l’uomo che pure è chiamato a vivere
in eterno. Eppure quanto fa per non morire lo fa inutilmente: al più ottiene di ritarda-
re la morte, non di evitarla. Se invece si impegna a non peccare, non si affaticherà e
vivrà in eterno. Oh! se riuscissimo a spingere gli uomini, e noi stessi insieme con lo-
ro, ad amare la vita che dura in eterno almeno nella misura in cui gli uomini amano
la vita che fugge! Che cosa non fa uno di fronte al pericolo della morte? Quanti, sotto
la minaccia che pendeva sul loro capo, hanno preferito perdere tutto pur di salvare la
vita! Chi infatti non lo farebbe per non essere colpito? E magari, dopo aver perduto
tutto, qualcuno ci ha rimesso anche la vita. Chi, pur di continuare a vivere, non sareb-
be pronto a perdere il necessario per la vita, preferendo una vita mendicante ad una
morte anticipata? Se si dice ad uno: se non vuoi morire devi navigare, esiterà forse a
farlo? [al tempo di Agostino i naufragi e gli attacchi dei pirati erano frequenti e qua-
si sempre con esiti mortali] Se si dice ad uno: se non vuoi morire devi lavorare, si la-
scerà forse prendere dalla pigrizia? Dio ci comanda cose meno pesanti per farci vive-
re in eterno, e noi siamo negligenti nell’obbedire. Dio non ti dice: getta via tutto ciò
che possiedi per vivere poco tempo tirando avanti stentatamente; ti dice: dona i tuoi
beni ai poveri se vuoi vivere eternamente nella sicurezza e nella pace. Coloro che
amano la vita terrena, che essi non possiedono né quando vogliono né finchè voglio-
no, sono un continuo rimprovero per noi; e noi non ci rimproveriamo a vicenda per
essere tanto pigri, tanto tiepidi nel procurarci la vita eterna, che avremo se vorremo e
che non perderemo quando l’avremo. Invece questa morte che temiamo, anche se
non vogliamo, ci colpirà».

76
2.4. Il senso anagogico (o spirituale in senso stretto)
della ‘dormitio’ come immagine della morte

Tratteggiare il senso spirituale in senso proprio di un passo biblico è for-


se l’impresa più ardua che un esegeta possa prefiggersi. La vita spirituale di
ognuno di noi differisce da quella di ogni altro, e quindi ciò che per me, qui
ed ora, può essere di somma utilità nell’unione con il mio Dio potrebbe ri-
sultare sorpassato per qualcuno, inutile o incomprensibile per altri. Per que-
sto i Padri, pur ribadendone sempre la centralità, esitano poi a proporre in-
segnamenti di quel livello: la gran parte privilegia il senso letterale e quello
25
allegorico ; solo i Padri neptici sondano a fondo quello tropologico ed ac-
26
cennano a quello anagogico, ma la loro lettura è tutt’altro che facile .
Ora, se tali maestri si sono fermati di fronte a tale impresa, è ovvio che
noi non abbiamo alcuna speranza di poter riuscire laddove essi si sono arre-
si. Tuttavia è possibile, restando sulle generali, avere delle indicazioni di
fondo sul senso anagogico della dormitio come immagine della morte. Na-
turalmente sarà possibile procedere solo per rapidi spunti accennati, e ben
di rado potremo entrare in qualche dettaglio.
* * *
I sensi della Scrittura sono come impilati uno sull’altro: l’anagogia che ci
interessa è frutto della tropologia, a sua volta sorta dall’allegoria, che ha le
sue basi ultime e più profonde nella lettera del testo o, come nel nostro ca-
_____________________________
25
Questo in primis perché la gran parte degli scritti dei Padri sono omelie o commenti
alla Scrittura destinate ad uditori generici e molta della restante produzione consta di
trattati dogmatici che hanno altre finalità. In secundis perché la distinzione dei quat-
tro sensi della Scrittura non è sempre percepita ed intesa dai Padri al modo in cui la si
è applica qui. Così, è possibile leggere una interpretazione tropologica sotto il nome
di ‘allegoria’ (Gerolamo lo fa spesso), o proporre come anagogia quello che invece è
un approfondimento del senso letterale (frequente in Origene). Ma qui interessa l’im-
padronirsi spirituale di un modo di leggere la Scrittura in vista della propria crescita
nella fede e non perseguire un’impossibile fedeltà a schemi precostituiti.
26
In realtà gli scritti neptici sono come collazioni di appunti: chi sa ciò di cui parlano
non fatica a capire quel che legge ma chi ignora in parte o del tutto tali dinamiche af-
ferra solo la lettera del testo, e neanche sempre. Questa selettività, compiuta dallo
scritto e non dall’autore, in base al percorso spirituale di chi legge e non ai suoi titoli
di studio, che frutta crescita di fede e non pubblicazioni, rende le opere neptiche irri-
tanti per i teologi di professione (i.e. con stipendio, ufficio, segretaria...), che le riten-
gono (e descrivono) come inutili. E siccome i candidati al presbiterato si formano sui
manuali dei teologi, ecco l’ignoranza delle dinamiche spirituali anche più semplici.

77
so, dell’immagine il cui significato si intende indagare. Ciò significa che il
senso spirituale ultimo della dormitio come immagine della morte deve es-
sere inteso e ricercato come fosse una prosecuzione, un prolungamento di
quello tropologico, senza però perdere mai di vista l’allegoria e soprattutto
la fedeltà alla letteralità dell’immagine.
Ora, poiché qui possiamo solo far dei cenni, il primo punto e fondamen-
tale emerso dalla tropologia è che una morte santa è il culmine di una pro-
gressiva e sempre più radicale ‘spoliazione’ di sé da parte dell’innamorato
di Dio; a questo proposito scrive il nostro Padre Giovanni il Climaco:
«Quelli che hanno discernimento sanno distinguere il timore naturale della
propria dipartita dal tremore non naturale, come si nota chiaramente la diffe-
renza tra lo specchio di uno stagno ed una superficie argentea che all’appa-
renza riflette in maniera simile i raggi luminosi. Segni sicuri del ricordo del-
la morte in un cuore spiritualmente ad essa sensibile sono l’insensibilità vo-
lontariamente acquisita nei riguardi di ogni creatura ed il rinnegamento tota-
le della propria volontà. Chi vive nell’attesa della morte tutti i giorni opera
sapientemente, ma chi l’attende ora per ora con tutto lo slancio del cuore
27
può dirsi santo» .
Quindi il modus della dormitio è l’ultimo e più appariscente frutto di un
percorso analogo durato anni ed anni, nel quale si è imparato l’abbandono
confidente nelle mani di Dio per ogni cosa. Come dice il profeta (Is 30,15):
«Nella conversione e nella calma sta la vostra salvezza,
nell’abbandono confidente sta la vostra forza».
Il contesto immediato di questo bellissimo verso ci permette di cogliere
un elemento fondamentale a livello spirituale. È scritto infatti (Is 30,15s):
«Poiché dice il Signore Dio, il Santo di Israele:
“Nella conversione e nella calma sta la vostra salvezza,
nell’abbandono confidente sta la vostra forza”.
Ma voi non avete voluto, anzi avete detto:
“No, noi fuggiremo su cavalli”.- Ebbene, fuggite! -
”Cavalcheremo su destrieri veloci”.
Ebbene, più veloci saranno i vostri inseguitori».
Qui non si è di fronte ad una delle tante mancanze di fede nei confronti
di Dio ma a qualcosa di più profondo: Israele, minacciato dagli Assiri, rice-
ve da Dio, per mezzo del profeta Isaia, l’esortazione a resistere ed a fidarsi
della Sua azione liberatrice; ma Ezechia, di fronte alle armate assire, prefe-
risce confidare nel Faraone, che li tradirà. Qui siamo di fronte non ad una
mancanza di fede (Ezechia è uno dei pochi re il cui comportamento è ap-
_____________________________
27
GIOVANNI CLIMACO, Scala paradisi, or.6, 58 (PG 88, 793; CTP 80, 135).

78
provato dalla Scrittura) ma alla fondamentale distinzione spirituale tra ‘fi-
darsi’ e ‘affidarsi’. Vediamo di descriverla con una certa precisione.
Già la sola lettura delle parole italiane mostra che ‘fidarsi’ ed ‘affidarsi’
esprimono concetti o atteggiamenti non lontani ma neppure identici. Infatti
‘fidarsi’ significa ‘avere fiducia’, di qualcuno o di qualcosa, oppure che un
dato evento accadrà o non accadrà; ma non si dice ‘affidarsi di qualcosa’ o
‘di qualcuno’, né ‘affidarsi che qualcosa accadrà’ o ‘non accadrà’. Questo
perché un identico atteggiamento interiore (‘fiducia’) è espresso ora secon-
do la modalità dell’avere (‘avere fiducia’ = fidarsi) ora secondo la modalità
dell’essere (‘essere fiduciosi’ = affidarsi). Ma tra la modalità dell’essere e
quella dell’avere la distanza è fortissima: mentre tutto ciò che ora si ha tra
poco si può perdere, o quel che ora non si ha tra poco si potrà avere, quel
che si è non muta, né si perde o si acquista, altrimenti noi non saremmo più
noi ma qualcos’altro. Una camicia può perdere il colore, perché ha quel co-
lore, ma non può perdere l’essere camicia, altrimenti cesserebbe di essere
camicia. Se trasponiamo tutto questo al ‘fidarsi’ capiamo di essere di fronte
ad un atteggiamento spirituale fondamentale.
Quando ci ‘fidiamo’ di qualcuno, per esempio dell’autista del bus, non ci
curiamo di quel che fa se non quando ci accorgiamo che qualcosa non va,
ad esempio se non svolta dove dovrebbe o se salta una fermata; in tal caso
ci allertiamo e, se necessario, interveniamo. La ‘fiducia’ quindi è condizio-
nata alla soddisfazione di quel che noi riteniamo sia giusto; finchè le cose
vanno nel verso desiderato ci ‘fidiamo’ di chi agisce per nostro conto, ma
al momento in cui questo cessa smettiamo di ‘fidarci’ e riprendiamo noi il
controllo. Invece ‘affidarsi’ significa, per restare nell’esempio dell’autista
del bus, rendersi conto che non ha svoltato al momento giusto o non si è
fermato, ma non intervenire, perché la ‘fiducia’ che abbiamo riposto in lui
non è condizionata ma incondizionata: arriveremo lo stesso dove dobbiamo
arrivare. ‘Fidarsi’ significa conservare ancora un po’ di controllo su se stes-
si, ‘affidarsi’ è rinunciare del tutto a se stessi. Un ottimo esempio di ‘fidu-
cia’ ce lo dà il nostro Padre Abramo quando accetta di giacere con Agar e
mette al mondo Ismaele; siccome la promessa fatta da Dio di una discen-
denza tarda ad arrivare, Abramo pensa di ‘aiutarlo’ un pochino: accetta il
suggerimento di quella brava donna che è sua moglie e cerca di procurarse-
28
lo da sé; con il risultato che sappiamo . Un ottimo esempio di ‘affidamen-
_____________________________
28
La nostra ironia è dovuta al fatto che Sara prima istiga Abramo ad accoppiarsi con la
schiava Agar, poi l’istiga a cacciare lei ed Ismaele per invidia (cf. Gen 16,1-16) e
quando infine Dio promette la nascita di Isacco non riesce a far di meglio che ridere,
irritando il Signore (cf. Gen 18,9-15). Non si può certo dire che nell’AT Sara sia una
figura positiva; anche quando Abramo, per paura di Faraone, pensa di presentargliela
(segue)

79
to’ ce lo dà ancora Abramo, quando parte per il colle di Morija (senza ne-
anche sapere che è là che deve andare) a sacrificare suo figlio Isacco, il suo
unico figlio, il figlio che tanto ama, come ben specifica il Signore nel dargli
l’ordine; e lo fa senza dire una sola parola, anche se uccidere il suo unico
figlio significa contraddire la promessa sulla quale ha giocato la sua vita e
quella di chi lo ha seguito. Che sia la stessa persona, per giunta ‘nostro Pa-
dre nella fede’ (cf. Rm 4,12), a darci chiari esempi di entrambi gli atteg-
giamenti significa che, se la fiducia in Dio è certamente foriera di imprese
grandiose (Abramo si ‘fida’ di Dio quando lascia la sua terra senza sapere
dove andare), tuttavia è solo la premessa per apprendere la complessa e de-
licata arte dell’affidarsi a Dio: per questo è solo dopo il tentato sacrificio di
Isacco che gli viene detto: “Ora so che temi Dio” (Gen 22,11s):
«L’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: “Abramo, Abramo!”.
Rispose: “Eccomi!”. L’angelo disse: “Non stendere la mano contro il ragaz-
zo e non fargli alcun male! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo
figlio, il tuo unico figlio”».
La distanza spirituale tra ‘fidarsi’ ed affidarsi’ è quindi difficile da sotto-
valutare. I Padri neptici descrivono questa distinzione servendosi della fa-
coltà della ‘volontà’: per loro ‘fidarsi’ significa conservare una certa ‘vo-
lontà propria’, ‘affidarsi’ invece è sinonimo di ‘perdere la volontà propria’.
E, lo si sarà capito dagli esempi che hanno per protagonista niente di meno
che Abramo, passare dal primo atteggiamento al secondo è cosa ben più
sottile e complessa del semplice ‘custodire i precetti di Dio’ o ‘fare la Sua
volontà’, sebbene presupponga entrambi. Questo delicato rapporto è così
descritto dal nostro santo Padre Marco l’Asceta:
«Chi al precetto mescola nascostamente la volontà propria è un adultero, co-
me è rivelato dalla Scrittura, e, mancando di senno, è soggetto a dolori e di-
29
sonori» ;
e poco più avanti l’approfondisce con una distinzione tanto sottile quanto
degna di riflessione:
______________________________
come sorella, lei non obietta nulla, né dice una sola parola quando Faraone la prende
in moglie (platonicamente?): è lui a scandalizzarsi ed a rimproverare Abramo (Gen
12,10-20). Sara ricorda la ancor più meschina figura della moglie di Giobbe, il quale,
oltre alla sofferenza per la malattia, la perdita dei figli e quella delle ricchezze, deve
anche sopportare le bestemmie della moglie stupida (cf. Gb 2,9s). Però è bene ricor-
dare che a suo riguardo (e non della moglie di Giobbe) è scritto (Eb 11,11): «Per fede
anche Sara, sebbene fuori dell’età, ricevette la possibilità di diventare madre perché
ritenne fedele colui che glielo aveva promesso»; quindi è bene non dare giudizi defi-
nitivi (come sempre quando parliamo degli uomini).
29
MARCO L’ASCETA, De lege spirituali, c.125 (SCh 445, 106; trad. it. 182).

80
«Altra cosa è l’attuazione di un comandamento e altra è la virtù, sebbene vi-
cendevolmente si scambino le occasioni di bene. Chiamiamo ‘attuazione di
un comandamento’ il compiere ciò che è stato comandato; ‘virtù’, quando
30
ciò che è stato fatto è gradito alla verità» .
La pedagogia che porta gradatamente alla completa recisione della ‘vo-
lontà propria’ ci è insegnata dal nostro Padre Doroteo di Gaza:
«Se dunque vogliamo allontanarci completamente e liberarci (dal peccato),
impariamo a recidere le nostre volontà e così, poco a poco, avanzando con
l’aiuto di Dio, arriviamo alla libertà dalle passioni. Niente giova all’uomo
quanto il recidere la propria volontà: con questa cosa si avanza veramente
oltre ogni virtù. Come un uomo che percorre una strada e trova una scorcia-
toia, se la prende, grazie a quella scorciatoia guadagna una gran parte di
quella strada, così è chi percorre questa strada della recisione della propria
volontà: se uno recide la sua volontà, acquista la libertà dalle passioni, e dal-
la libertà dalle passioni giunge, con l’aiuto di Dio, alla perfetta impassibilità.
In un piccolo intervallo di tempo si possono recidere dieci volontà, e dico
come. Uno passeggia un po’ e vede una certa cosa: il pensiero gli dice:
“Guarda là”, ma lui dice al pensiero: “Non guardo davvero”; recide la sua
volontà e non guarda. Poi trova alcuni che parlano e il pensiero gli dice: “Dì
anche tu questa parola”, ma lui recide la sua volontà e non la dice. Poi il
pensiero gli dice: “Và dal cuoco a chiedere che cosa sta preparando”; ma
non ci va, e recide la propria volontà. Vede poi una cosa ed il pensiero gli
dice: “Domanda chi l’ha portata”; recide la sua volontà e non fa domande. E
così, recidendo recidendo, acquista l’abitudine di recidere; dalle cose picco-
le comincia a recidere senza fatica anche quelle grandi, e così arriva a non
avere nemmeno più volontà (propria). Qualunque cosa accada, lo soddisfa
come fosse volontà sua e, proprio quando non vuole fare la propria volontà,
si trova a farla sempre. Siccome non ha più nulla di proprio, tutto quello che
accade è suo. Così, come dicevamo, si trova a non avere passioni, e dalla li-
31
bertà dalle passioni giunge all’impassibilità» .
_____________________________
30
MARCO L’ASCETA, De lege spirituali, cc.194s (SCh 445, 124s; trad. it. 187).
31
DOROTEO DI GAZA, Preaecepta spiritualia, 20 (SCh 92, 176s; CTP 21, 60s). Ci piace
riportare la nota che il curatore italiano pone a questo capitolo (tra parentesi alcune
integrazioni nostre): «Il termine stoico apatheia, ‘impassibilità’, è quello comune-
mente usato nella tradizione spirituale ortodossa per indicare lo stato di libertà dalle
passioni (pathè) che si consegue con la pratica dei comandamenti e con la lotta con-
tro le passioni stesse. Questa fase della vita spirituale, in cui predomina il lavoro atti-
vo dell’ascesi, è indicata con il nome di praxis o praktikê. Alla praxis segue poi la
theôria physikê, o contemplazione della presenza di Dio nella natura e nella storia,
sia quella umana che quella della salvezza. La terza e più alta tappa della vita spiri-
tuale segna poi l’unione di grazia con Dio, la contemplazione vera e propria (gnôsis o
theologia: i due termini di solito sono sinonimi, solo Evagrio Pontico li distingue).
Questo schema, la cui processione non intende essere necessariamente cronologica, è
già presente in ORIGENE, In Cantica canticorum homiliae, hom.1, 6-10 (SCh 37bis,
(segue)

81
Sempre Doroteo ce ne illustra anche la più profonda dinamica spirituale:
«Se l’uomo non espone (prima a Dio e poi al maestro spirituale) tutto quello
che ha dentro, specialmente se proviene da una vita o da una educazione cat-
tive, il diavolo trova in lui una volontà propria o una presunzione di aver ra-
gione e per mezzo di esse lo getta a terra. Quando infatti il diavolo vede che
uno non vuol peccare non è mica tanto ingenuo nel far del male da suggerir-
gli subito così direttamente un peccato evidente. Non gli dice: “Vattene a
fornicare” oppure “Vattene a rubare”, perché sa che queste cose non voglia-
mo farle e non si azzarda a dirci quel che non vogliamo; ma trova, come ho
detto, che noi abbiamo una volontà propria o una presunzione di aver ragio-
ne e per mezzo di esse, sotto pretesti ragionevoli, ci danneggia. Ecco perché
è ancora scritto (Prv 11,15 LXX): “Il maligno opera il male quando mette in
mezzo la presunzione di aver ragione”. Il maligno è il diavolo, e fa il male
quando mette in mezzo la presunzione. È allora che ha più forza, che nuoce
di più, che agisce di più. Quando infatti ci attacchiamo alla nostra volontà e
ci fondiamo sulle nostre presunzioni, proprio allora, credendo di fare una
bella cosa, tendiamo insidie a noi stessi, ci perdiamo e non sappiamo nean-
che come. E come possiamo conoscere la volontà di Dio o cercarla davvero
32
se confidiamo in noi stessi e ci attacchiamo alla volontà propria?»
______________________________
86-102; CTP 83, 49-59), in cui è ben più che un abbozzo, ed è fissato definitivamen-
te da Evagrio Pontico. Si hanno quindi i tre momenti (tipici anche della mistica me-
dievale), della via purgativa, illuminativa e unitiva che portano l’uomo a passare dal-
la condizione di principiante a quella di proficiente per poi arrivare a quella di per-
fetto. Tale schematizzazione (per quanto generica o forse proprio per questo) è di-
venuta classica ed è rimasta sostanzialmente immutata in tutta la storia dell’ascetica e
della mistica cristiana, sia orientale che occidentale. Doroteo, nei suoi Praecepta spi-
ritualia, si occupa quasi esclusivamente del primo stadio, quello della praktiké, an-
che se è stato lui stesso un mistico ‘perfetto’» (NdA). Il termine theôria è presente in
Occidente: cf. p.es. PIETRO IL VENERABILE, De miraculis, I, 20 (PL 189, 886; trad.
nostra): il monaco Benedetto, «intento giorno e notte alla divina theoria, trascendeva
di continuo con il suo spirito le cose mortali e con i beati angeli assisteva quasi di
continuo alla visione interiore del Creatore»; II, 8 (ibid., 917): il monaco Matteo
d’Albano «non si staccava mai dalla theoria (non relinquebat partem aliquam theo-
riae intactam)». Questa contemplazione non è però identica a quella che avremo in
cielo, dove la deificazione per grazia avrà la sua pienezza e sarà in-perdibile.
32
DOROTEO DI GAZA, Preaecepta spiritualia, 62 (SCh 92, 252; CTP 21, 106s). La trad.
di Prv 11,15: «Il maligno opera il male quando mette in mezzo la presunzione di aver
ragione», è ad sensum: LXX infatti recita: «Il malvagio compie il male quando si con-
mescola al giusto (ponêròs kakopoeî otan symmíxêi dikaíôma), odia infatti chi ha si-
curezza dal peccato (aspháleia)». TM è molto lontano, poiché legge (con qualche in-
certezza): «Il malvagio sarà maltrattato perché ha garantito lo straniero, ed ha rassi-
curato il nemico con colpi sulla spalla (i.e. con mallevadoria)», anche se i critici sug-
geriscono di leggere l’iniziale ‘malvagio’ come un infinito assoluto del verbo ‘diven-
tar cattivo’ (ma che significa?). Vulg. ha tutt’altro testo ancora: «Sarà afflitto dal ma-
le colui che fa fede per l’estraneo; chi invece si guarda dai lacci sarà sicuro», mentre
(segue)

82
Perciò, come si è detto, una morte santa è il culmine di una progressiva e
sempre più radicale ‘spoliazione’ di sé da parte dell’innamorato di Dio, che
avviene attraverso atti di ‘fiducia’ in Lui sempre più impegnativi fino a in-
segnare un ‘affidarsi’ totale. Per questo è detto nel Salmo (Sal 131,2):
«Io sono tranquillo e sereno
come bimbo svezzato in braccio a sua madre,
come un bimbo svezzato è l’anima mia»,
e per questa ragione Simeone ha invocato la morte così (Lc 2,29-32):
«Ora lascia, o Signore, che il tuo servo
vada in pace secondo la tua parola;
perché i miei occhi han visto la tua salvezza,
preparata da te davanti a tutti i popoli,
luce per illuminare le genti
e gloria del tuo popolo Israele».
E non è certo per caso che questo cantico lo recitiamo ogni notte, nella
preghiera di Compieta, prima di addormentarci (dormitio!) e facendolo pre-
cedere da questa antifona, tratta dal Salmo 4,9:
«In pace mi corico e subito mi addormento: tu solo, Signore, al sicuro mi fai
riposare».
La distinzione tra ‘fidarsi’ ed affidarsi’ è quindi il primo guadagno ana-
gogico che ci frutta la dormitio come immagine della morte. Da questo pe-
rò ne segue immediatamente un secondo, più tecnico ma non per questo
meno importante o delicato a viversi.
* * *
Ogni movimento spirituale può segnare un avvicinamento a Dio oppure
un allontanamento: nel primo caso i Padri parlano di ‘moto secondo natu-
ra’, nel secondo di ‘moto contro natura’. Alla radice di ognuno dei moti vi
è sempre un atteggiamento spirituale, o secondo natura o contro natura. Il
percorso ‘fidarsi’-‘affidarsi’, in tutte le sue scansioni, non fa eccezione, an-
zi: l’atteggiamento che lo muove è il più profondo e, in definitiva, il solo
che meriti di essere coltivato, essendo gli altri come degli effetti di questo.
L’atteggiamento profondo di cui stiamo parlando è amare Dio.
______________________________
CEI73 ha «Chi garantisce per un estraneo si troverà male, chi avversa le strette di ma-
no a garanzia vive tranquillo» e CEI08 legge: «Chi garantisce per un estraneo si tro-
verà male; chi rifiuta garanzie vive tranquillo». Babele impera. Fondare la dottrina di
Doroteo sulla lettera di Prv 11,15 LXX è un po’ complesso, farlo sulle altre versioni è
azzardato, però la si può sostenere interpretando quel ‘con-mescolarsi’ come cenno
al mantenimento di una volontà propria, che appunto si ‘mescolerebbe insieme’ alla
volontà di Dio rendendo talvolta questa irriconoscibile, indistinguibile da essa.

83
33
Amare Dio si traduce sempre in un moto in avanti secondo natura .
L’incessante andare avanti secondo natura ci fa vivere nella prospettiva
dell’eternità.
La prospettiva dell’eternità implica necessariamente un continuo ricordo
della morte: per questo in alcuni monasteri, dopo la preghiera della Com-
pieta, un monaco bussa alla porta di ogni cella e dice a chi è dentro: “Fra-
tello, ricordati che devi morire”. Così il Climaco commenta questa usanza:
«Tra quelli che vivono la vita comunitaria (cioè i monaci), il ricordo della
morte è stimolo per il duro lavoro e per la pia meditazione, e più che altro fa
sentire la dolcezza dei disprezzi subiti; tra coloro che vivono appartati dal
tumulto (gli eremiti), esso genera il rigetto di ogni preoccupazione, l’abito
ad una preghiera ininterrotta e la custodia del cuore, virtù che di esso sono
34
genitrici e sorelle» .
Il passaggio dalla ‘fiducia’ all’abbandono del ‘affidarsi’ è enormemente
facilitato dal continuo ricordo che ogni istante può essere l’ultimo, che il
sonno che attendiamo la sera potrebbe non avere risveglio, e questo pensie-
ro all’innamorato di Dio non porta terrore, come a chi è senza speranza, né
tristezza, come a chi ama questa terra e ciò che contiene, ma serenità e no-
stalgia: perché qui non riusciamo a vedere ed a sentire Colui che amiamo e
desideriamo, o meglio lo vediamo, lo sentiamo, lo percepiamo in maniera e
misura insufficiente, insoddisfacente, che non ci basta. Più di tante parole,
lasciamoci illustrare questo sentimento dallo Spirito, così come Egli lo mi-
se nello stilo di Gesù figlio di Sirach (Sir 51,13-30):
«Quando ero ancora giovane, prima di viaggiare, ricercai assiduamente la
sapienza nella preghiera.
Davanti al santuario pregando la domandavo, e sino alla fine la ricercherò.
Del suo fiorire, come uva vicina a maturare, il mio cuore si rallegrò.
Il mio piede si incamminò per la via retta; dalla giovinezza ho seguito le sue
orme. Chinai un poco l’orecchio per riceverla; vi trovai un insegnamento
abbondante. Con essa feci progresso; renderò gloria a chi mi ha concesso la
sapienza. Sì, ho deciso di metterla in pratica; sono stato zelante nel bene,
non resterò confuso.
La mia anima si è allenata in essa; fui diligente nel praticare la legge.
Ho steso le mani verso l’alto; ho deplorato che la si ignori.
A lei rivolsi il mio desiderio, e la trovai nella purezza.
In essa acquistai senno fin da principio; per questo non la abbandonerò.
_____________________________
33
I Padri neptici distinguono sei direzioni spirituali: in avanti o all’indietro, verso de-
stra o sinistra, in alto o in basso. Ognuna di queste direzioni può essere poi vissuta
secondo natura o contro natura: nel primo caso genera virtù, nel secondo peccati. Si
tratta di una distinzione tra le più basilari tra le molte dinamiche della vita spirituale.
34
GIOVANNI CLIMACO, Scala paradisi, or.6, 58 (PG 88, 793; CTP 80, 135).

84
Le mie viscere si commossero nel ricercarla; per questo ottenni il suo pre-
zioso acquisto.
Il Signore mi ha dato in ricompensa una lingua, con cui lo loderò.
Avvicinatevi, voi che siete senza istruzione, prendete dimora nella mia scuo-
la. Fino a quando volete rimanerne privi, mentre la vostra anima ne è tanto
assetata? Ho aperto la bocca e ho parlato:
“Acquistatela senza denaro.
Sottoponete il collo al suo giogo, accogliete l’istruzione. Essa è vicina e si
può trovare.
Vedete con gli occhi che poco mi faticai, e vi trovai per me una grande pace.
Acquistate anche l’istruzione con molto denaro; con essa otterrete molto o-
ro. Si diletti l’anima vostra della misericordia del Signore; non vogliate ver-
gognarvi di lodarlo. Compite la vostra opera prima del tempo ed egli a suo
tempo vi ricompenserà”».
* * *
L’ultima nota anagogica che la dormitio come immagine della morte ci
fornisce porta al di là della dimensione personale nella quale finora ci si è
mossi. Perché è impossibile amare davvero Dio senza amare anche ciò che
Lui ha creato. Amare Dio significa amare le Sue creature. Non attaccarsi ad
esse non significa disprezzarle, anche se per molti secoli il ‘disprezzo per il
mondo’ fu considerato segno di santità. L’esempio di Francesco d’Assisi
valga più di ogni altra osservazione. Per la salvezza dell’uomo ma anche
per la redenzione dell’intero creato Dio si è fatto come noi ed ha accettato
di morire in croce; il corretto atteggiamento spirituale verso l’opera di Dio
è ben riassunto da Paolo così (Rm 8,18-23):
«Io ritengo che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili
alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi. La creazione stessa attende
con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa
alla caducità - non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa
- e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzio-
ne, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sapppiamo bene in-
fatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto;
essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito,
gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del no-
stro corpo».
Se tutta la creazione geme con noi aspettando la rivelazione dei figli di
Dio e la liberazione dalla corruzione, come oseremmo noi disprezzarla, per
di più con la sfrontatezza di dirci ‘innamorati di Dio’? Non è certo chi a-
spetta la morte a costituire un pericolo per il creato, dato che appunto desi-
dera lasciarlo, bensì coloro che puntano tutto su questa vita, su ciò che da
essa possono ricavare, che vivono aggrappati a questo tempo come se non
dovesse finir mai. E proprio perché sanno che invece finirà, la loro proter-
via ed insaziabilità nello sfruttare cresce senza limite e controllo. È, questo

85
del rapporto tra attaccamento alla vita e distruzione di quel che la permette,
un tema bello e delicato sul quale però non avremo modo di tornare. Ci si
accontenti perciò di quel che insegna il nostro Padre Marco l’Asceta:
«Bisogna rigettare l’amore per il denaro, odiare la vanagloria e la voluttà:
perché sono madri dei mali e matrigne delle virtù. A motivo di queste ci è
stato comandato di non amare il mondo e quello che è nel mondo: non per-
ché prendessimo in odio, senza discernimento, le creature di Dio, ma perché
35
recidessimo le cause di quelle passioni» .

2.5. Il fondamento biblico della ‘dormitio’


osservazioni conclusive

Alla fine di questo percorso, seppur solo accennato data la sua immensità
e complessità, è ormai evidente che una teologia della morte non è affatto
una disquisizione sugli ultimi istanti della nostra vita terrena. Certo è anche
quello, ma servirci della dormitio come immagine della morte rivela che in
questo passaggio è insita invece una incredibile ricchezza, sia rispetto a ciò
che lo precede e prepara sia rispetto a ciò che ad esso segue e consegue.
Letteralmente, il NT si serve di due verbi, koimaô e katheúdô: quando si
riferisce a ‘il dormire della morte’ usa il verbo koimaô, quando intende ‘il
dormire del sonno’ adopera il verbo katheúdô. Il diverso significato è pale-
se se prendiamo in considerazione i verbi che il NT usa per indicare il ri-
sveglio: il cessare del ‘dormire del sonno’ (katheúdô) è sempre indicato con
egheírô, il cessare del ‘dormire della morte’ (koimaô) si può indicare sia
con egheírô che con anístêmi. Il verbo egheírô quindi si può tradurre con
‘risvegliarsi dal sonno’ come ‘risvegliarsi dalla morte’; ed infatti, con que-
sta seconda accezione, nel NT viene adoperato ben 72 volte, delle quali 12
in 1Cor 15, su un totale di 137 occorrenze. Non è quindi esagerato afferma-
re che ‘risvegliarsi dal sonno della morte’ sia l’accezione più importante e
prevalente del verbo egheírô, perciò si può anche dire che, quando egheírô
è collegato ad un ‘dormire’, questo ha una certa sporgenza sul ‘morire’. Da
qui si ha che, nel NT, il ‘dormire’ come immagine della morte ha in sé, in-
scindibilmente, anche il ‘risveglio’ come immagine della resurrezione. Ed
in effetti questo risultato è forse il più importante finora conseguito: il valo-
re dell’immagine della dormitio non è tanto nel descrivere il ‘cosa’ della
morte (come in Lutero e soprattutto nei suoi emuli moderni), bensì nel pre-
sentare il ‘perché’. Siccome si muore in vista della resurrezione, morire de-
_____________________________
35
MARCO L’ASCETA, De lege spirituali, cc.107s (SCh 445, 100; trad. it. 180).

86
ve essere più o meno come dormire. Ovviamente con notevoli differenze,
che si riflettono terminologicamente sia nei verbi adoperati per descrivere
tale ‘sonno’ che in quelli usati per indicare i rispettivi, diversi ‘risvegli’.
A differenza dell’usuale modo di fare esegesi, non ci si è fermati qui ma
si è sondato il significato cristologico di questo dato letterale, ossia si è in-
teso scoprire cosa ciò rivelasse sulla persona o sul modo di agire del Cristo.
A riguardo della Sua persona si è appurato che la morte, a prescindere dalla
immagine della dormitio, non appartiene alla natura umana. Certamente, se
la si descrive per mezzo di questa immagine ciò risulta ancor più evidente
che non dalla usuale disamina dogmatica, però su questo argomento avre-
mo modo di soffermarci con agio nei prossimi capitoli. Riguardo alle azio-
ni del Cristo, esse si rivelano come funzionali a quello ‘svuotamento’ del
Figlio che culmina nella morte in croce. Questa finalizzazione frutta diversi
insegnamenti spirituali. In primis, che la morte è il termine di un moto di
progressiva ‘unificazione spirituale’ di tutto ciò che appartiene all’uomo: è
questa unificazione che permette la perseveranza di fronte a rifiuti e falli-
menti e la pazienza nelle tentazioni. In secundis, che l’atteggiamento spiri-
tuale dietro a questo moto è quello dell’amore, o meglio del ‘sentire come
Cristo’: è questo atteggiamento che permette la cristificazione del fedele,
ed in ultima analisi è in esso che consiste l’essere ‘cristiani’. In tertiis, che
le azioni del Cristo non hanno tanto lo scopo di dare esempi morali (anche)
quanto di annullare la distanza metafisica tra la creatura ed il Creatore: per
questo il culmine dello ‘svuotamento’ del Cristo è proprio la morte, perché
così viene distrutto il muro che separa la nostra natura da quella divina (cf.
Ef 2,14), aprendo la via metafisica alla deificazione per grazia.
Il terzo passaggio è stato quello di sondare il senso morale della dormitio
come immagine dlela morte. ‘Morale’ va però inteso nel senso patristico e
medievale del termine, ossia riferito alle dinamiche spirituali dalle quali na-
sce il retto agire. In questa prospettiva risulta utile la distinzione di Giovan-
ni Climaco tra ‘timore’ (phóbos) e ‘tremore’ (trómos). Anche se nella Scrit-
tura questi termini sono spesso accostati uno all’altro, ragion per cui non è
corretto opporli, altrettanto vero è che non sono neppure sinonimi. ‘Timo-
re’ (phóbos) e ‘temere’ (phobeísthai) sono termini positivi e non implicano
paura o vergogna, anzi, sono la via per acquistare uno fra i doni più belli
dello Spirito, la sapienza; per questo Cristo ha potuto ‘temere’ la morte
senza commettere peccato. Il ‘tremore’ (trómos) è un po’ più ambiguo, poi-
ché in certi passi suggerisce effettivamente una qualche incertezza se non
proprio paura, come si legge nelle versioni italiane. È però un ‘tremore’ ra-
dicalmente diverso da quello dei demoni, di cui parla Giacomo (2,19):
«Tu credi che c’è un Dio solo? Fai bene; anche i demòni lo credono e tre-
mano! (phríssousin)»,

87
e che si incontra soltanto qui in tutto il NT, a riprova della sua unicità. In
definitiva, mentre il ‘timore’ nasce dalla reverenza ispirata dall’amore per
Chi è oggettivamente molto più di noi in tutto, il ‘tremore’ è più frutto della
percezione di questa alterità, del nostro essere ancora lontani da Dio. Tutta
la nostra vita pratica consiste nell’armonizzare questa tensione tra il ‘già
ma non ancora’ delle nostre nozze d’amore con il Signore.
L’ultimo passaggio di questo tentativo di esegesi in stile patristico della
dormitio come immagine della morte ne sonda l’aspetto più propriamente
spirituale. Questo versante è certo il più delicato, ragion per cui, più che in
precedenza, ci si è limitati a pochi spunti. Il primo è stato distinguere tra
‘fidarsi’ ed ‘affidarsi’: lo stesso atteggiamento spirituale del ‘fidarsi’ viene
espresso ora secondo la modalità dell’avere (‘avere fiducia’ = fidarsi) ora
secondo la modalità dell’essere (‘essere fiduciosi’ = affidarsi). Nel primo
conserviamo ancora un certo controllo su noi stessi (volontà propria), nel
secondo no (indifferenza ignaziana). È ovvio che, di fronte alla morte, ‘fi-
darsi’ è impossibile: o si sa ‘affidarsi’ a nostro Signore oppure la nostra non
sarà una morte santa (il che non significa automaticamente essere dannati:
esiste il purificatorio...). Il nostro atteggiamento al momento della dormitio
mortis altro non è che l’ultimo e più appariscente frutto di un percorso du-
rato tutta la vita e nel quale, ‘svuotandoci’ progressivamente di ogni volon-
tà propria, abbiamo imparato l’abbandono confidente nelle mani di Dio. Il
secondo spunto che ci è sembrato opportuno dare viene dal più ampio con-
testo spirituale che ha come culmine la dormitio. Questo contesto è l’amore
di e per Dio. All’innamorato di Dio la dormitio non porta terrore, come a
chi è senza speranza, né tristezza, come a chi ama questa terra e ciò che
contiene, ma serenità: qui non riusciamo a vedere ed a sentire come vor-
remmo Colui che amiamo e desideriamo, dopo niente più si porrà in mezzo
tra noi e Lui, e, divenuti per grazia come Lui è per natura, potremo amarLo
come merita e vogliamo. Pienamente, con tutti noi stessi, per sempre, senza
limite. Il terzo ed ultimo spunto che ci è parso bene evocare (ma ce ne sa-
rebbero diversi altri) è la dimensione cosmica di una dormitio spiritualmen-
te ben vissuta. Questa dimensione è il riflesso in noi dell’amore di Dio per
l’intera sua creazione: lungi dal causare disprezzo per essa, come insinua
chi parla di quel che non sa, il non essere attaccati a questa vita è il solo
modo per non sfruttare egoisticamente la natura, il solo modo per vederla
così com’è davvero, un segno, un indizio, una traccia dell’Amato.
* * *
Giunti al termine di questa prima presentazione, non possiamo trattenerci
dal sottolineare la profonda distanza tra questa raffigurazione della morte e
quella che troviamo in tanti saggi di teologia. Per scelta non entreremo mai
nei dettagli di questa differenza, né per criticare né per cercare appoggi. Se

88
il lettore è interessato a farlo troverà modi, tempi e misure a lui congeniali:
a noi basta ricordare che è scritto (2Tm 2,24):
«Un servo del Signore non deve essere litigioso ma mite con tutti, capace di
insegnare, paziente»,
ed anche (Gc 3,16):
«Dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive
azioni».
A questi risultati ricavati essenzialmente dal NT sarebbe stato interessan-
te aggiungere quelli di un’analoga ricerca nell’AT. L’ampiezza di questo
capitolo dimostra però che ciò richiederebbe un saggio a sè.
Ci piace chiudere questa meditazione con le parole con le quali il nostro
santo Padre Giovanni il Climaco chiude la sua:
«Non illuderti, operaio insipiente, di poter compiere in altro tempo quel che
devi fare in questo, perché la tua giornata non basta a compiere quel che de-
vi al Signore, anche se la impiegassi tutta senza interruzione. Non è possibi-
le agli uomini, come è stato affermato, passare secondo pietà la giornata che
vivono se a questa essi non pensano come all’ultima di tutta la loro vita. Fa
veramente meraviglia come anche dei pagani si siano così espressi, definen-
do la filosofia ‘meditazione della morte’. Ecco il sesto gradino (della Scala
del Paradiso), salendo il quale nessuno potrà mai più peccare (Sir 7,40):
36
“Ricordati della tua fine, e non peccherai in eterno”» .
Resta ora da sondare come questa immagine sia ripresa dalla Chiesa.

_____________________________
36
GIOVANNI CLIMACO, Scala paradisi, or.6, 61 (PG 88, 800; CTP 80, 139). Quando
parla di ‘pagani’ Giovanni si riferisce a PLATONE, Fedone, 62 a1-d5.

89
Capitolo 3

LA RIFLESSIONE DELLA CHIESA


SULLA DORMITIO
COME IMMAGINE DELLA MORTE

Poiché, come si è visto nel capitolo precedente, nel NT la morte è spesso


descritta con l’immagine della dormitio, è facile supporre che la Chiesa ab-
bia avuto una certa attenzione ad essa. Ma in che termini? Ed in che misu-
ra? Qui ci soffermeremo su tre dei diversi ambiti nei quali questa attenzio-
ne si è tradotta, quelli che rivestono la maggior importanza per noi oggi: la
riflessione dei Padri, la Liturgia ed il Magistero. In verità ve ne sarebbero
altri, come il rapporto tra fede e dottrina dell’immortalità dell’anima oppure
l’evoluzione del nesso tra escatologia e percezione della morte. Sul primo
diremo qualcosa sondando il contributo del Magistero, al secondo dediche-
remo un capitolo a sé ma ai tanti altri preferiamo riservare altre sedi.
Iniziamo dunque dalla dormitio mortis nel pensiero dei Padri.

3.1. La ‘dormitio’ nella Tradizione


dei nostri santi Padri

Per descrivere il modo in cui i nostri santi Padri si servono della dormitio
come immagine della morte possiamo iniziare dalla Catechesi 23 di Cirillo
di Gerusalemme, che descrive la celebrazione Eucaristica. Infatti vi si legge
che, dopo la consacrazione,
«facciamo poi ricordo di tutti coloro che si sono addormentati: a partire dai
Patriarchi e dai profeti, dagli apostoli e dai martiri, perché Dio accolga le
nostre preghiere attraverso le loro e con il loro patrocinio; per finire con i
santi che ci sono stati Padri, con i vescovi defunti e con gli altri che ci hanno
1
preceduto nel sonno della morte» .
Non vi è dubbio che Cirillo descriva la morte come dormitio, ma l’idea è
_____________________________
1
CIRILLO DI GERUSALEMME, Catecheses, cat.23, 9 (PL 33, 1116; CTP 103, 464).

91
solo qui e non è facile sfuggire all’impressione che sia una metafora piutto-
sto che non una descrizione vera a propria. In ogni caso Cirillo non dice più
di quanto non si leggesse nella Lettera ai Corinti di papa Clemente (sec.I):
«Riteniamo dunque cosa grande e straordinaria che il Creatore dell’universo
opererà la resurrezione di coloro che lo hanno servito santamente nella sicu-
rezza di una fede sincera. Non ci comprova anche in un uccello (l’araba fe-
nice) la grandezza della sua promessa? Dice infatti (Sal 28,7 e Sal 88,11):
“Mi resusciterai e ti loderò”. E (Sal 3,6): “Mi coricai e dormii, mi svegliai
poiché tu sei con me”. Ed ancora dice Giobbe (19,26): “E resusciterai questa
2
mia carne che ha sopportato queste cose» .
Qui la morte è equiparata al sonno e la resurrezione al risveglio, come si
legge più volte nel NT; certo è più che una metafora, anzi, con ogni proba-
bilità Clemente intende dare una descrizione, ma di fatto non dice niente di
più di quanto non si legga nella Scrittura. Sondiamo allora i commenti dei
Padri ai passi del NT che descrivono la morte come dormitio.

3.1.1. La ‘dormitio’ come immagine della morte


nei commenti biblici dei Padri

Gran parte dei commenti alla Scrittura che i nostri santi Padri ci offrono
sono in realtà omelie il cui intento è chiaramente più pastorale che sistema-
tico. Questo ha significato da un lato il concentrarsi su certi scritti e non su
altri, dall’altro il privilegiare alcuni temi o passi ed il trascurarne altri. Così
si spiega, ad esempio, l’abbondanza dei commenti a Giovanni e Matteo, la
rarità di quelli a Luca e l’assenza di quelli a Marco. Apocalisse non è libro
frequentato dai Padri, anche se lo citano spesso, mentre Romani e 1Corinzi
sono oggetto di numerose omelie. Senza dubbio la scelta liturgica delle pe-
ricopi svolge un ruolo importante nel determinare questo stato di cose, ma i
commenti sistematici non se ne scostano molto: se è vero che molte opere
sono andate perdute, è anche vero che non si ha notizia di alcun commento
a diversi libri del NT.
Ulteriore premessa consiste nel distinguere tra occorrenze ‘materiali’ ed
occorrenze ‘sistematiche’: le prime sono la mera citazione di questo o quel
versetto, le seconde ne offrono l’esegesi più o meno approfondita oppure lo
inseriscono organicamente in un contesto più o meno ampio. La Catechesi
23 di Cirillo ci dà un esempio di occorrenza materiale, il passo di Clemente
ce ne mostra una più sistematica ma certo non approfondita.
_____________________________
2
CLEMENTE ROMANO, Epistula ad Corinthiois, 26,1-3 (SCh 167, 144; CTP 5, 67).

92
I passi del NT che presentano la dormitio come immagine della morte si
leggono quasi sempre come occorrenze ‘materiali’ il cui contesto è però di
un certo interesse. Ottimo esempio di questa specie di ‘terra di mezzo’ è la
presenza che troviamo in un contemporaneo di Cirillo, Eusebio di Cesarea.
Nel commentare la benedizione che Giacobbe dà a Giuda (Gen 49,9 LXX):
«Un cucciolo di leone, Giuda, sei sorto, figlio mio, da un germoglio; dopo
esserti accovacciato ti sei addormentato (ekoiméthes) come un leone e come
un cucciolo; chi lo sveglierà?»,
il nostro santo Padre infatti scrive:
«Poiché occorreva che nella profezioa si facesse un riferimento anche ai mi-
steri relativi alla sua (i.e. di Cristo) nascita ed alla sua morte, dopo aver pro-
fetizzato le cose che abbiamo riferito è naturale che Giacobbe aggiunga an-
che (Gen 49,9 LXX): “Un cucciolo di leone, Giuda, sei sorto, figlio mio, da
un germoglio; dopo esserti accovacciato ti sei addormentato come un leone
e come un cucciolo; chi lo sveglierà?” Lo chiama ‘cucciolo di leone’ in
quanto che Egli è nato da una tribù regale. Egli era, infatti, “della stirpe di
Davide secondo la carne” (Rm 1,3); poi aggiunge: “Sei sorto, figlio mio, da
un germoglio”, perché è nato dalla tirpe e dalla radice di Giacobbe, che è co-
lui che pronunzia queste parole, mentre prima era Dio Logos e successiva-
mente è divenuto Figlio dell’uomo mediante quell’economia che assunse
per causa nostra. È altresì possibile che si riferiscano alla sua morte anche le
parole “Dopo essersi accovacciato ti sei addormentato come un leone e co-
me un cucciolo”, dato che, per una sua particolare concezione, anche in
molteplici altri passi la Scrittura solitamente chiama la morte ‘sonno’. La
espressione “Chi lo sveglierà?”, poi, contiene uno straordinario riferimento
alla resurrezione dai morti: infatti colui che dice “Chi lo sveglierà” sapeva
con certezza che egli si sarebbe ‘risvegliato’. È poi stupefacente che egli si
chieda chi sarà l’autore di ciò e chi sarà colui che lo resusciterà, stimolando-
ci ad indagare chi sarà colui che resusciterà il Signore nostro Gesù, che ha
accettato la morte per causa nostra. E chi altro potrebbe essere costui, se non
il Dio supremo e Padre suo, al quale soltanto va attribuita la resurrezione del
nostro Salvatore secondo quanto dice la Scrittura (1Tess 1,10): “Colui che
3
<il Padre> ha resuscitato dai morti”?» .

_____________________________
3
EUSEBIO DI CESAREA, Demonstratio evangelica, VIII, 1, 63-66 (PG 22, 592; CTP
203, 26s). Eusebio, subito dopo il commento, riporta (VIII, 1, 67ss; CTP 203, 27) le
due versioni dall’ebraico di Aquila e di Simmaco: «Invece di “Un cucciolo di leone,
Giuda, sei sorto, figlio mio, da un germoglio, dopo esserti accovacciato”, Aquila tra-
duce, in maniera più efficace, “Un piccolo di leone, Giuda, dalla rovina, figlio mio,
sei sorto; dopo esserti piegato giacesti”, mentre Simmaco, a sua volta, dice: “Cuccio-
lo di leone, Giuda, da una trappola, figlio mio, sei sorto; dopo aver piegato le ginoc-
chia, fosti ristabilito”: parole, queste, che mostrano con chiarezza che il Salvatore no-
stro è risorto dai morti ed è sfuggito all’Ade come ad una trappola». CEI08 traduce
(segue)

93
Abbiamo letto uno stralcio più ampio del necessario perché fosse chiaro
in che modo Eusebio applichi a Cristo l’idea della dormitio: non vi è dub-
bio che, al di là della condivisibilità dell’esegesi di Genesi 49, per Eusebio
è pacifico che per la Scrittura la morte possa essere descritta come dormi-
tio. Tuttavia qui non riusciamo ad avere più di una mera affermazione; ed
Eusebio è anche più brachilogico commentando il Salmo 149,5:
«(v.5: “Esulteranno nei loro giacigli”)
Talvolta si intende anche parlare della morte dei santi alludendo ai loro ‘gia-
cigli’. La Scrittura chiama infatti ‘sonno’ la morte, e Paolo dice (1Tess
4,13): “Riguardo a quelli che si sono addormentati, non vogliamo che siate
nell’ignoranza, fratelli” e l’Antico Testamento dice (1Re 2,10): “Davide si
4
addormentò con i suoi padri”» .
In altri Padri i passi paolini cruciali per la teologia della dormitio addirit-
tura sono riportati senza che lo spunto venga colto. È ad esempio il caso di
Tertulliano, che nel De resurrectione scrive:
«Insegnando loro (i.e. ai Tessalonicesi) a non rattristarsi troppo per la mor-
te, coglie l’occasione per esporre i tempi della resurrezione (1Tess 4,14-17
itala): “Se infatti crediamo che Gesù è morto ed è risorto, così Dio condurrà
insieme a lui anche coloro che si sono addormentati in Cristo. Questo infatti
vi diciamo parlando in nome del Signore: noi che siamo vivi, che rimaniamo
fino alla venuta del Signore risorto, non precederemo coloro che sono morti,
perché il Signore stesso, al comando ed alla voce dell’arcangelo ed al suono
della tromba di Dio, discenderà dal cielo; e per primi risorgeranno coloro
che sono morti in Cristo, poi noi, che viviamo, insieme a loro saremo solle-
vati sulle nubi, nell’aria, incontro al Signore, e così saremo sempre con il
Signore”. Quale voce dell’arcangelo, quale tromba di Dio è già stata uita, se
non forse nelle camere degli eretici? Anche se è possibile, infatti, definire la
parola del Vangelo come la tromba di Dio, che li ha già chiamati, tuttavia i
casi sono due: o sono già morti nel corpo, così da poter essere risorti (ma in
tal caso dove vivono?), oppure sono stati rapiti sulle nuvole (ma allora come
possono trovarsi qui?) Sono veramente i più miseri di tutti, come ha dichia-

______________________________
Gen 49,9 così: «Un giovane leone è Giuda: dalla preda, figlio mio, sei tornato; si è
sdraiato, si è accovacciato». Impossibile fondare su questo testo il commento di Eu-
sebio, ma è difficile sostenere che il TM tradotto da CEI08 sia quello che circola nel
sec.IV o che traducono Aquila e Simmaco; siamo quindi di fronte all’ennesimo indi-
zio che il TM che oggi leggiamo non è né quello tradotto dalla LXX né quello che cir-
colava dopo Jamnia. L’odierna idea di hebraica veritas è quindi decisamente fragile,
dal punto di vista filologico prima e soprattutto che da quello teologico: per i dettagli
cf. A. ARA, “Scrivi in un libro quel che ti dirò”. La Rivelazione come Ispirazione,
Beau Bassin 2018, cap.9, per totum.
4
EUSEBIO DI CESAREA, Expositio in psalmos, V, sul Sal 149,5 (PG 24, 72; CTP 177,
490).

94
rato l’Apostolo, coloro che avranno speranza solo in questa vita, in quanto
escludono, proprio mentre cercano di impadronirsene prima del tempo, ciò
che è promesso al di là di essa; si ingannano, a riguardo della verità, non
5
meno di Figello e di Ermogene» .
Interrompiamo la lettura perché è ormai chiaro quel che ci preme. Anche
se diversa dalla Vulgata, la versione latina citata conserva l’idea della dor-
mitio; Tertulliano però la ignora del tutto nel suo discorso sui tempi della
resurrezione, a dispetto del contesto non certo inadatto ad approfondirla. E
che a sfuggire sia la fruibilità stessa dell’idea di dormitio lo prova quel che
afferma più avanti:
«L’Apostolo opera una divisione allorchè soggiunge (2Cor 5,2s): “In questo
tempo ci lamentiamo della nostra abitazione, desiderando di rivestirci di ciò
che proviene dal cielo, giacchè anche dopo esserci spogliati non saremo tro-
vati nudi”. Il senso è questo: noi vogliamo indossare la potenza celeste della
eternità prima di spogliarci della carne. Il privilegio di questo dono, infatti,
attende coloro che saranno colti dall’avvento del Signore mentre si trove-
ranno ancora nella carne e che meriteranno, per aver sopportato la crudeltà
del tempo dell’Anticristo, di unirsi alla schiera dei risorti dopo aver subito,
attraverso la trasformazione, una sorta di istantaneo morire. È così che l’A-
postolo scrive ai Tessalonicesi (1Tess 4,15ss): “Questo infatti vi diciamo
parlando in nome del Signore: noi che siamo vivi, che rimaniamo fino alla
venuta del Signore risorto, non precederemo coloro che sono morti (dormie-
runt), perché il Signore stesso, al comando ed alla voce dell’arcangelo ed al
suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo; e per primi risorgeranno co-
loro che sono morti in Cristo, poi noi, che viviamo, insieme a loro saremo
sollevati sulle nubi, nell’aria, incontro al Signore, e così saremo sempre con
6
il Signore”» .
Il capitolo termina qui, e con esso il commento: che non fa alcun cenno
alla dormitio. Eppure ciò avrebbe fornito ottimi appoggi alla tesi di Tertul-
liano, perché descrivere la morte come dormitio significa ammettere la po-
sitività del corpo, affermarne la resurrezione (scopo del trattato) senza ri-
nunciare al complesso di idee che ruotano intorno all’opposizione paolina
tra ‘carne’ e ‘spirito’: perché ‘dormire’ indica il sonno del corpo, non quel-
lo dell’anima. Ma, lo si deve ammettere, questo è un vano argomentare: de
7
facto Tertulliano non dice niente del genere . Se qualcuno facesse osservare
_____________________________
5
TERTULLIANO, De resurrectione mortuorum, 24, 3-8 (CCsl 2, 951; CTP 87, 100s).
6
TERTULLIANO, De resurrectione mortuorum, 41,5s (CCsl 2, 976; CTP 87, 145).
7
Stupisce quindi ciò che si legge in L.F. PIZZOLATO, «Il ‘grande problema’ della mor-
te nel pensiero dei Padri della Chiesa», in AAVV, Morte-Resurrezione nei Padri,
DSBP 45, Brescia 2007, 49-168, 159: «Ambrogio rende esplicito il tema della morte
come sonno, che era già sviluppato in Tertulliano», affermazione integrata in n.474
(159s): «Cf. de pat., 9,1; (SCh 310,90); contra Marc., III,8,7 (SCh 399,100); de re-
(segue)

95
che la cosa non deve stupire, dato che Tertulliano è un autore sui generis e
si muove agli albori della riflessione dogmatica, dovremmo rilevare che un
8 9
analogo atteggiamento si trova anche nell’Ambrosiaster , in Agostino ed in
______________________________
surr., 24,3; 41,6s (CCL 2, 951.976); de monog., 11,10s (SCh 343,184-186); cf. Sa-
xer, Mort, martyrs, reliques, 62s». Per quel che riguarda Ambrogio, Pizzolato argo-
menta da un inciso dal De excessu fratris, II, 93, passo che leggeremo per intero più
avanti e nel quale, come si vedrà, non vi è nessun cenno al ‘tema della morte come
sonno’. Per quel che riguarda Tertulliano, i testi cui Pizzolato rinvia sono mere cita-
zioni dei passi paolini che contengono l’idea della dormitio, senza che questa sia mai
messa a tema, come si è letto in De resurrectione, 24, 3 e 41,6s. Quanto al rinvio a
V. SAXER, Morts, martyrs reliques en Afrique chrétienne aux premiers siècles. Les
témoignages de Tertullien, Cyprien et Augustin à la lumière de l’archéologie afri-
caine, Paris 1980, questi afferma (62): «Il est souvent question chez lui (i.e. Tertul-
lien) de la mort comme d’un sommeil. Je met à part les nombreuses citations scriptu-
raire, qui montrent à quelle source Tertullien a surtout puisé: Pat. 9, 1; Marc. 3, 8, 7;
Res. mort. 24, 3 et 4; 41, 6 et 7; 48, 3 et 9; Monog. 11, 10 et 11. Les plus fréquentes
sont celles de 1Cor 15, 12-18, et de 1Thess 4, 13-17, à propos de la mort et de la ré-
surrection du chrétien. Dans ces passages, Paul parle de ceux qui sont “mort dans le
Christ”, qui “dorment dans” ou “par le Christ”, ou qui “dorment dans la paix”». Co-
me si vede, Pizzolato mutua da Saxer persino l’ordine dei rinvii, senza far caso, però,
che è Saxer stesso a dirci che si tratta solo di mere citazioni bibliche, tant’è che pre-
mette un “Je mets à part...”. Ma lo studioso francese non ha esaurito quel che ha da
dire, e prosegue (ibidem): «La mort est y comparée à un sommeil avant la résurrec-
tion qui est le réveil définitif. C’est pourquoi, Tertullien emploie le mot dans le mê-
me sens eschatologique, même en dehors de toute citation biblique. Il le fait sans
scrupule en traitant, soit de la mort du Christ: Christi dormituri in mortem (An 43,
10, p. 847, 63); domino per patientiam uelut dormiente (Bapt. 12, 7, p. 288, 41); soit
de la mort du chrétien: cum in pace dormisset (An 51, 6, p. 857, 33-35); in aethere
dormitio nostra?... immo in paradiso (ibid. 55, 4, p. 862, 25, 27); de quorum (= sanc-
torum) dormitione... simul et tempora resurrectionis exponit (Res. mort. 24, 3, p.
951, 8-9); annuis diebus dormitionis suae (Monog. 10, 4, p. 1245, 25). On le voit,
Tertullien ne se préoccupe pas de localiser le lieu de ce sommeil eschatologique.
Mais il en vient è considérer le sommeil corporel comme une initiation au sommeil
eschatologique dans l’attente de la résurrection finale: discis mori et vivere, discis ui-
gilare dum dormis (An. 43, 12, p. 848, 88-89)». Questa seconda serie di rinvii, sem-
pre a giudizio di Saxer, provano solo l’impiego della dormitio come immagine della
morte; lo studioso francese è attento a non trasformare questi scarni incisi in ‘svilup-
pi del tema della morte come sonno’, tantomeno in una ‘teologia della morte come
sonno’. Tertulliano (non Ambrogio) in realtà ha una sua riflessione ma, come vedre-
mo, si legge in altri testi e con direttrici diverse da quelle indicate da Pizzolato.
8
Nel suo sistematico commento ad 1Cor 15 l’Ambrosiaster ha mere occorrenze mate-
riali, che non approfondisce. Tuttavia è vero che questo è il suo stile: l’Ambrosiaster
di solito si limita a parafrasare i versetti biblici, aggiungendo poche glosse.
9
Cf. p.es. AGOSTINO, De civitate Dei, XX, 20, 1 (CCsl 48, 733s; trad. it. 1243), che in
pratica consiste nella sola citazione di 1Tess 4,13-17, senza commento. Che Agostino
non abbia problemi ad identificare dormitio e morte appare più avanti, in XX, 20, 3
(segue)

96
10
Cirillo di Alessandria : i testi del NT sono riportati senza difficoltà ma an-
che senza commentare l’idea della morte come dormitio. E dovremmo an-
che ricordare che, prima di Tertulliano, un’idea precisa della morte come
dormitio è già in Ireneo di Lione:
«Davide tratta così della morte e della resurrezione di Cristo (Sal 3,6): “Io
mi sono coricato ed addormentato; mi sono svegliato, perché il Signore mi
ha preso”. Davide non dice questo di se stesso, perché non resuscitò dopo
morte; ma lo Spirito di Cristo, che così parlò nei profeti, ora dice per bocca
di Davide: “Io mi sono coricato ed addormentato; mi sono svegliato, perché
11
il Signore mi ha preso”. Definisce la morte ‘sonno’ perché resuscitò» .
Questo passo, se posto in relazione con i tanti altri commenti patristici al
Salmo 3,6, ci porterebbe subito nel mezzo di un mare di suggerimenti, os-
servazioni, insegnamenti spirituali molto belli, stimolanti e, spesso, non co-
sì noti. Ma, per non perderci in quello stesso mare, conviene limitare le no-
stre ricerche ai passi neotestamentari; e poiché, a nostra conoscenza, Ireneo
non sfrutta quei testi, dobbiamo fermarci qui.
Come si è visto, Ireneo interpreta la dormitio in modo abbastanza piano;
in altri Padri invece il senso pare, se non frainteso, almeno molto curioso. È

______________________________
(CCsl 48, 734s; trad. it. 1245): «Ma sorge un’altra difficoltà dalle parole dell’Aposto-
lo a proposito della resurrezione dei corpi (1Cor 15,51): “Tutti risorgeremo” o, come
riportato in altri codici, “Tutti dormiremo”. Se dunque non vi può essere resurrezione
senza morte, e se in questo passo ‘dormire’ significa il sonno della morte, come dor-
miranno o risorgeranno tutti, se coloro che Cristo troverà ancora vivi non dormiranno
né risorgeranno?» Come si vede, il problema per Agostino non è indicare la morte
come dormitio ma una resurrezione senza morte/dormitio; stessa indifferenza per la
doppia lezione è anche in AGOSTINO, De octo Dulcitii quaestionibus, q.3, 4 (CCsl
44A, 227s); Epistulae, ep.205 ad Consentius, 2, 14 (CSEL 58, 324s). La soluzione
non viene da un’analisi della dormitio ma supponendo una morte/dormitio brevissi-
ma, ‘un batter d’occhio’, come dice Paolo. Che la dormitio sia immagine della morte
‘trasparente’ agli occhi di Agostino lo si ricava anche dal già riportato passo di In Io-
hannis evangelium tractatus, tr.49, 11 (CCsl 36, 425s; trad. it. 780), sulla resurrezio-
ne di Lazzaro, nel quale non vi è alcun cenno alla dormitio. Non è quindi questione
di esegesi di questo o quel passo ma proprio di non cogliere la rilevanza teologica e
spirituale di un’immagine (o di non ritenerla tale, se si vuole).
10
Cf. p.es. CIRILLO D’ALESSANDRIA, In Iohannem commentaria, II, 1; IV, 2; XII, 1 (PG
73, 223.569; PG 74, 704; CTP 111, 214.495; CTP 113, 388.452), dove 1Cor 15,20 è
riportato senza commenti ma in maniera assolutamente organica, come se l’idea della
morte come dormitio, pur riferita al solo Cristo, fosse del tutto pacifica. Lo stesso ac-
cade a 1Tess 4,15ss in IX, 1 (PG 74, 185; CTP 113, 68), mentre in IV, 7 (PG 74, 696;
CTP 111, 599) Cirillo omette il termine koímêsis (dormitio) da 1Tess 4,14.
11
IRENEO DI LIONE, Demonstratio apostolicae praedicationis, 73 (SCh 406, 186ss; Bel-
lini, 518).

97
il caso, ad esempio, di Ambrogio di Milano che, in un passo un po’ confuso
che necessita di essere letto per intero, fornisce tutta una serie di note che
sconvolgono il quadro fin qui emerso. Nel discorso tenuto in occasione del-
la morte del fratello Satiro, infatti, Ambrogio scrive:
«Siccome Dio non poteva morire, non poteva morire la Sapienza e, d’altra
parte, non poteva risorgere ciò che non era morto, viene assunto un corpo
che possa morire, affinchè, mentre muore, come suole accadere, ciò che era
morto risorgesse. Non poteva infatti esserci resurrezione se non per mezzo
di un uomo, poiché (1Cor 15,21): “come per colpa di un uomo la morte, co-
sì anche per mezzo di un uomo la resurrezione dei morti”. Dunque l’uomo è
risorto perché l’uomo è morto, è stato resuscitato come uomo ma (At 2,32)
“ha resuscitato se stesso come Dio”; allora uomo secondo la carne, ora “Dio
in tutto” (cf. Rm 9,25); ora infatti (2Cor 5,16): “Non conosciamo più Cristo
secondo la carne” ma abbiamo il dono della sua carne per conoscere in Lui
(1Cor 15,20) “le primizie di quelli che dormono (primitias quiescentium)”,
lo stesso “primogenito dei morti” (cf. Col 1,18). Le primizie sono certamen-
te dello stesso genre e della stessa natura dei rimanenti frtti, ma vengono of-
ferte quale dono a Dio in ringraziamento di un prodotto particolamente ab-
bondante, dono sacro per tutti i benefici ricevuti e quasi libagione per la na-
tura rinnovata. Dunque Cristo è la primizia di coloro che dormono (primitia
quiescentium). Ma dei suoi che dormono, i quali, come esenti dalla morte,
sono per così dire immersi in un dolce sonno (dulci quaedam sopore), o di
tutti i morti? Ma (1Cor 15,22): “Come in Adamo tutti muoiono, così in Cri-
sto tutti ritornano in vita”. Perciò, come in Adamo abbiamo le primizie della
morte, così in Cristo abbiamo quelle della resurrezione.
Tutti risorgono, ma nessuno perda la speranza né il giusto si dolga che tutti
partecipino alla resurrezione, attendendosi una particolare ricompensa per la
sua virtù. Tutti risorgono, è vero, ma come dice l’Apostolo (1Cor 15,23):
“Ciascuno nel suo proprio ordine”. È comune la ricompensa della clemenza
divina, ma è distinto l’ordine dei meriti. Il giorno splende per tutti, il sole ri-
scalda tutti i popoli, la pioggia feconda con abbondanti acquazzoni i poderi
di tutti; tutti nasciamo, tutti risorgiamo, ma sia nel vivere che nel rivivere
differente è la grazia, diversa la condizione. (1Cor 15,52): “In un batter
d’occhio, infatti, al suono della ultima tromba, sia i morti risorgeranno in-
corrotti sia noi saremo mutati”. Anzi, nella stessa morte alcuni dormono, al-
tri vivono (quiescunt alii, vivunt alii). Buono è il sonno (quies), ma la vita è
migliore. Perciò Paolo esorta chi dorme a vivere, dicendo (Ef 5,14): “Sve-
gliati, tu che dormi, e risorgi dai morti e Cristo ti illuminerà”. Costui dunque
è incitato a vivere, ad essere del tutto simile a Paolo per poter dire (1Tess
4,15): “Perché noi che viviamo non avremo alcun vantaggio su quelli che si
sono addormentati”. Non parla infatti del senso comune ed abituale del vi-
vere e del respirare, ma del merito del risorgere. Infatti, dopo aver detto
(1Tess 4,17): “Ed i morti che sono in Cristo risorgono per primi”, aggiunse:
“Poi anche noi, che siamo vivi, saremo rapiti insieme con loro sulle nubi in-
contro a Cristo nell’aria”. Certamente anche Paolo è morto, e con un marti-
rio degno di venerazione ha cambiato la vita del corpo con una gloria im-
mortale. Non si è sbagliato, lui che aveva scritto che doveva essere rapito

98
ancora vivente sulle nubi incontro a Cristo. La stessa cosa leggiamo infatti
di Enoch e di Elia. Ma anche tu sarai rapito in spirito. Ecco il carro di Elia,
ecco i fuochi: anche se non si vedono, sono preparati perchè chi è giusto
salga al cielo, chi è senza colpa cambi dimora. Anche la tua vita ignora la
morte; quindi gli apostoli ignorarono la morte e perciò fu loro detto (Mt
16,28): “In verità, in verità vi dico, molti di questi che sono presenti non gu-
steranno la morte, in attesa di vedere il Figlio dell’uomo giungere nel suo
regno”. Vive infatti chi non ha elementi che in lui possano morire, chi non
12
ha un sandalo proveniente dall’Egitto come legame ma se l’è tolto prima
di lasciare il compito di questo corpo. Non vive dunque il solo Enoch, che
13
non fu il solo ad essere rapito; viene rapito anche Paolo incontro a Cristo» .
Non vi è alcun dubbio che Ambrogio conosce l’idea della dormitio come
immagine della morte, anzi, afferma chiaramente che Cristo è la ‘primizia
di coloro dormono’. Tuttavia è indeciso se tale immagine sia da applicare a
tutti gli uomini o solo ai discepoli fedeli, e poco prima addirittura afferma
che, nella morte, ‘alcuni dormono, altri vivono, e il vivere è meglio del dor-
mire’. È evidente che Ambrogio non ha le idee chiare sul senso della dor-
mitio come immagine della morte: che per lui sia immagine sostenibile ed
abbia un suo senso anche importante non ci pare dubbio, da quel che si è
letto, ma come ed a chi convenga applicarla e, più in generale, che cosa es-
sa significhi davvero, questo il vescovo di Milano non l’ha approfondito.
Con tutta evidenza poi alcuni dei passi paolini che esprimono questa idea,
pur riportati, sono interpretati in un modo che, oltre che curioso, non pare
neanche in accordo con quel che di essi affermano ad esempio i Padri che
abbiamo citato sopra. Se poi aggiungiamo a queste non piccole lacune la
ulteriore confusione che (ci pare) sorge dall’accostamento di temi e figure
piuttosto distanti (Enoch ed Elia, per esempio), otteniamo una riflessione
sulla morte poco coerente. Di sicuro, non molto utile all’approfondimento
_____________________________
12
Ambrogio qui allude ad ORIGENE, In Genesim homiliae, hom.8, 7 (SCh 7bis, 224;
CTP 14, 145): «(Gen 22,8s): “Proseguirono dunque entrambi (i.e. Abramo ed Isac-
co), e giunsero al luogo che Dio gli aveva detto”. A Mosè, giunto al luogo che il Si-
gnore gli aveva mostrato, non è consentito di salire ma prima gli viene detto (Es 3,5):
“Sciogli il legaccio dei calzari dai tuoi piedi”; ad Abrahamo ed Isacco non è detto
nulla di simile ma salgono e non depongono i calzari. Di ciò, forse, il motivo è che
Mosè, benchè fosse grande, tuttavia veniva dall’Egitto e vi erano alcuni legami di
mortalità annodati ai suoi piedi; invece Abrahamo ed Isacco non hanno nulla di ciò,
ma giungono al luogo. Abrahamo edifica l’altare, pone sopra l’altare la legna, lega il
fanciullo, si prepara a scannare».
13
AMBROGIO, De excessu fratris, II, 90-94 (CSEL 73/I, 300; SAEMO 18/1, 129ss, rivi-
sta). En passant, si noti come riportare solo l’inciso in cui Ambrogio effettivamente
parla della dormitio (“nella stessa morte alcuni dormono, altri vivono”) sia fuorviante
rispetto al contesto in cui è contenuto. Ed è evidente che in questo brano non c’è al-
cuna ‘teologia della morte come sonno’, come invece vuole Pizzolato.

99
14
della dormitio come immagine della morte .
Ancor meno utili sono le molte omelie che Crisostomo dedica ai passi di
Paolo che hanno l’idea della dormitio, un silenzio quasi disarmante per la
15
sua sistematicità . Con una eccezione, questa:
«(1Tess 4,12): “Non voglio però che ignoriate, fratelli, riguardo ai dormien-
ti, perché non vi contristiate come gli altri che non hanno speranza”.
Molte cose ci risultano fastidiose soltanto a causa dell’ignoranza: se le cono-
scessimo rettamente, scacceremmo il dolore. Anche Paolo, riferendosi a
questo, diceva: “Non voglio che ignoriate perché non vi contristiate come
gli altri che non hanno speranza”. Che cosa non vuoi che ignorino? Il di-
scorso sulla resurrezione - dice. E perché non dici il supplizio che è riposto e
preparato per chi ignora il verbo della resurrezione? Perché questo è eviden-
te da quello, ed è nella testimonianza: nel frattempo però anche da questo ci
sarà non poco guadagno. Infatti, poiché alcuni avevano fede nella resurre-
zione e tuttavia si lamentavano, per questo motivo dice così. In un modo in-
fatti si parla con i non credenti ed in un altro con questi: ed è evidente che
coloro che chiedevano dei tempi (della resurrezione) sapevano questo. “Se
infatti crediamo - dice (1Tess 4,14) - che Gesù è morto ed è risorto e (ri)vis-
se, così Dio porterà con sé anche coloro che si sono addormentati per mezzo
di Gesù (per Iesum)” Dove sono coloro che rimproverano e rifiutano la car-
_____________________________
14
In realtà Ambrogio pare avere idee piuttosto originali su tutta l’escatologia. Cf. p.es. i
risultati cui giunge L.F. Pizzolato in AMBROGIO, Expositio in XII psalmos davidicos,
sul Sal.1, n.56 (SAEMO 7/1, 109, n.66; cors. orig.): «Si conclude qui (i.e. con il
n.56) il lungo discorso sulla resurrezione e sul giudizio iniziato al cap.51. La posi-
zione ambrosiana sembra, schematicamente, la seguente. Ci sono due tipi di resurre-
zione (c.54): 1) senza giudizio, per i giusti e per gli empi; 2) con il giudizio a) per
quelli che hanno dovuto scontare nel fuoco un periodo di attesa tra la prima resurre-
zione e questa (purgatorio); b) per quelli che non hanno colmato l’attesa. Un posto a
parte ha la resurrezione operata da Cristo dopo la sua morte, che ha aperto agli anti-
chi giusti le porte della Gerusalemme celeste (c.54). Per quanto riguarda il giudizio,
si dànno questi casi: 1) i giusti risorgono non al giudizio ma alla vita (cc.53.56); 2)
quelli che hanno agito male risorgono per il giudizio (c.53); 3) i senza fede ed i sacri-
leghi risorgono ma non per il giudizio perché sono già giudicati (c.51): la loro puni-
zione è quella delle tenebre (c.56) Sull’atteggiamento di Dio nei confronti della cate-
goria dei peccatores cf. H. DE LAVALETTE, «L’interprétation du Ps 1,5 chez les Pères
“Miséricordieux” latins», in Recherches de Science Religieuse 48 (1960) 552-554».
Anche se nel sec.IV non vi è certo uniformità di opinioni riguardo all’aldilà e della
visione di Ambrogio forse si dovrebbe approfondire questo o quel dettaglio, il quadro
generale è comunque lontano da quel che è il sentitus comune del tempo.
15
P.es., delle occorrenze in 1Cor 15,6.8.20 e 51, GIOVANNI CRISOSTOMO, In epistulam
primam ad Corinthiois, hom.39, 18.20 (PG 61, 335s), ritiene solo le prime due, men-
zionate del tutto en passant, e nelle successive omelie omette addirittura i rinvii. Tra
le otto omelie dedicate a 1Tess 4, solo quella che leggeremo tra poco tocca il tema
della dormitio, e nei termini che vedremo; per il resto, silenzio assoluto. E tra i Padri
Giovanni è il commentatore più sistematico di san Paolo.

100
ne? Infatti, se (Cristo) non avesse preso la carne non sarebbe neanche morto;
se non fosse morto, non sarebbe nemmeno risorto. In qual modo dunque sa-
remo noi esortati alla fede da costoro? Forse che, riguardo alla loro opinio-
ne, non è piuttosto sciocca e menzognera? Infatti, se essere morto è (conse-
guenza) del peccato, dato che Cristo non peccò, in che modo noi ora saremo
esortati? A quale scopo poi dice anche: “Come gli altri che non hanno spe-
ranza”? Come se avesse detto: ‘Chi piangete, o uomini? Per chi vi affliggete
con tristezza? Per i peccatori o solamente per quelli che sono morti? Chi
dunque sono coloro che piangete?’ Sicuramente queste loro sono tutte scioc-
chezze. “(Cristo è) primogenito - dice (Col 1,18) - dei morti”: cioè, della
primizia. Perciò è necessario che lo siano anche gli altri. Guarda però come
qui non costruisca con ragionamenti, perché (i Tessalonicesi) erano miti e
placidi: invece, scrivendo ai Corinzi, propose molti argomenti, ed infine ag-
giunse (1Cor 15,36): “Insipiente, quel che semini non è vivo”. Questo (mo-
do di fare) è infatti più sicuro ed adatto, ma quando si disputa con dei fedeli;
presso chi non lo è (externi) infatti quale forza avrebbe? “Così Dio porterà
con sé anche coloro che si addormentarono per mezzo di Gesù” (1Tess
4,14). Di nuovo ‘coloro che si addormentarono’; mai dice: ‘che sono morti’.
Ma di Cristo Paolo (quidem) disse ‘è morto’ perché poi disse anche che era
risorto; qui invece (scrive): ‘coloro che si addormentarono per mezzo di Cri-
sto’. O forse dice questo perché sono morti nella fede in Gesù; o che per
mezzo di Gesù saranno portati (a Dio) coloro che si addormentarono, cioè i
fedeli. Gli eretici dicono che questo significa ‘coloro che sono battezzati’.
Ma (se così fosse) in che modo si regge quel ‘così’? Gesù infatti non si è
addormentato per mezzo del battesimo. Perché dunque dice “Coloro che si
addormentarono”? Perché (Paolo) non parla della resurrezione generale ma
di quella singolare o particolare. “Porterà coloro che si addormentarono per
mezzo di Gesù”, dice: e dice così in molti luoghi. (1Tess 4,15): “Questo in-
fatti vi diciamo parlando in nome del Signore: noi che siamo vivi, che rima-
niamo fino alla venuta del Signore risorto, non precederemo coloro che sono
addormentati”. Parlando dei fedeli dice ‘coloro che si sono addormentati’; e
poi (1Tess 4,16): ‘i morti risorgeranno’. Quindi non tratta solo della resurre-
zione ma della resurrezione e dell’onore nella gloria. E di quella resurrezio-
ne della quale tutti fruiscono dice (1Tess 4,17): non tutti saranno nella gloria
ma “Coloro che sono in Cristo”. Poiché dunque vuole consolarli, (Paolo)
non solo li consola per mezzo di queste parole ma anche (menzionando) il
molto onore e la rapidità (della resurrezione), perché (i Tessalonicesi) sape-
vano queste cose. Infatti, volendo consolarli per mezzo dell’onore, procede
dicendo (1Tess 4,17): “E saremo sempre con il Signore” e “saremo rapiti
sulle nubi”. In che modo però i fedeli ‘dormono per mezzo di Gesù’? Aven-
do Cristo in sé. Quel che invece (è scritto) (1Tess 4,14): “Porterà con sé”
mostra che saranno portati da molti luoghi. (1Tess 4,15): “Questo infatti -
afferma - vi diciamo parlando in nome del Signore”: quel che stava per dire
era in effetti nuovo ed inaudito: per questo premette che è degno di fede.
“Parlando in nome del Signore”, cioè: non da noi stessi ma istruiti dal Si-
gnore diciamo (quel che diciamo). (1Tess 4,15s): “Noi che siamo vivi, che
rimaniamo fino alla venuta del Signore risorto, non precederemo coloro che
sono morti”. È quel dice nella lettera ai Corinzi (1Cor 15,52): “in un batter

101
d’occhio”; qui mostra come degna di fede la resurrezione anche dal modo
16
(in cui avverrà)» .
Questa prima parte dell’omelia settima sul quarto capitolo della prima
lettera ai Tessalonicesi è chiaramente un commento al passo che più di altri
illumina sul senso della dormitio. Ma è evidente, anche ad una lectura cur-
siva, che Giovanni praticamente non sviluppa il tema della dormitio come
immagine della morte. A parte un analogo tono generalmente interlocuto-
rio, in questo passo ritroviamo un’idea già letta in Ambrogio, o meglio un
identico dubbio: la dormitio si riferisce alla morte dei fedeli o a quella di
tutti gli uomini? Poiché questa oscillazione, oltre che curiosa, a nostra co-
noscenza non si legge in altri autori, si potrebbe pensare a qualcosa di più
di una coincidenza. Ambrogio è eletto vescovo di Milano alla fine del 374,
e la sua fama di campione antiariano si diffonde subito; il De excessu fra-
tris risale al 378, l’omelia di Giovanni che abbiamo letto risale al suo pe-
riodo episcopale, il 386-397. Si potrebbe pensare, quindi, ad un influsso di
Ambrogio sul Crisostomo, un dato piuttosto originale (di solito le influenze
vanno in direzione opposta, dall’Oriente all’Occidente) la cui particolarità è
accentuata dal fatto che il De excessu fratris è un’operetta certo non tra le
più importanti del vescovo di Milano. Ma è noto che Basilio, nella sua lotta
contro gli ariani, non esitò a coinvolgere i vescovi dell’Occidente, Ambro-
gio compreso: che conoscesse le sue opere quindi è più che plausibile; per
quel che ci interessa qui, però, basta rilevare la sintonia. A differenza del
vescovo di Milano, però, per il Crisostomo la dormitio indica solo la morte
dei fedeli, non quella di tutti gli uomini, mentre per Ambrogio la dormitio
pare indicare uno status meno positivo, meno elevato del ‘vivere’ che com-
pete ai fedeli di Cristo. Poiché poi Giovanni la descrive come un ‘avere
Cristo in sé’, sembra difficile poter prendere la dormitio nel suo senso lette-
rale; quasi si è costretti a leggerla come metafora: ma di che? della morte
fisica, che quindi sarebbe non assimilabile in modo reale al sonno? Forse
Crisostomo intende dire che, poiché tutti gli uomini muoiono, la dormitio
non può essere estesa a tutti ma solo a coloro che muoiono in Cristo; ma
Paolo non scrive questo, come lui stesso rileva, anzi, questa interpretazione
il nostro santo Padre la rimprovera agli eretici (chi?). In conclusione, in
questo che a nostra conoscenza è il solo commento ad uno dei passi paolini
in cui figuri l’idea della dormitio come immagine della morte, non si riesce
ad avere una idea coerente (si badi: non ‘condivisibile’, ma semplicemente
‘coerente’) di cosa sia la dormitio.
Qualche barlume in più Giovanni ce l’offre commentando Eb 10,7:
_____________________________
16
GIOVANNI CRISOSTOMO, In epistulam primam ad Thessalonicenses homiliae, IV,
hom.7, 1 (PG 62, 455s; trad. nostra).

102
«(Eb 10,7): “Ora, Egli è comparso una volta sola nella pienezza dei tempi,
per togliere il peccato con il sacrificio di se stesso. Come è stabilito che gli
uomini muoiano una volta sola e dopo la morte venga il giudizio”.
(L’autore della Lettera agli Ebrei) ha mostrato che Cristo, come ogni altro
uomo, non può morire molte volte; adesso spiega perché è morto una volta
sola: perché bastava una sola morte a pagare il prezzo della nostra redenzio-
ne: “È stabilito che gli uomini muoiano una volta sola”. Ora, questa morte
unica è avvenuta per tutti gli uomini. Ma forse non moriamo anche noi?
Certamente moriamo, ma non restiamo nella morte: quindi è come se non
morissimo. Infatti la tirannide della morte e la morte vera è quella per la
quale chi muore non ha più la possibilità di tornare in vita; ma se, dopo es-
sere morto, vive e anzi di una vita migliore, questa non è più morte ma un
17
sonno» .
Crisostomo rileva che, essendo la morte fisica una parentesi provvisoria
che finirà con la resurrezione della carne, propriamente parlando essa non
deve essere chiamata ‘morte’, perché non è uno status definitivo, ma ‘son-
no’ (koimêsis) temporaneo. Quindi, sembra di poter commentare, per Gio-
vanni la dormitio è l’immagine più corretta per indicare la morte in ragione
della provvisorietà che evoca, analoga a quella della separazione tra anima
immortale e corpo mortale che descrive la morte fisica. Propriamente par-
lando, ‘morte’ è nome da riservare esclusivamente alla ‘morte seconda’,
quella causata dal peccato e che non ha più rimedio: in altri termini, la dan-
nazione eterna. Ma come conciliare questa affermazione con quelle che si
sono lette riguardo 1Tess 4,12ss?
È ormai evidente che proseguire la ricognizione fra le opere dei Padri
imperniandola sull’esegesi dei versetti del NT che contengono l’idea della
dormitio come immagine della morte non porterebbe a risultati più solidi o
sviluppabili di quelli fin qui trovati. Questo però non esaurisce le piste di
ricerca, anzi, stimola a cercarne altre. Non sempre infatti i nostri santi Padri
prendono le mosse da dove partiremmo noi, né argomentano al modo o nei
termini che a noi sembrano più congeniali o convenienti: è questa la ragio-
ne per cui non di rado i loro testi ci riservano sorprese non piccole.

3.1.2. La ‘dormitio’ come immagine della morte


in altri contesti

Per prima cosa, dobbiamo rendere giustizia a Tertulliano. Infatti, quando


ricercavamo le esegesi dei passi neotestamentari sulla dormitio, dovemmo
_____________________________
17
GIOVANNI CRISOSTOMO, In epistulam ad Hebreos homiliae, hom.17, 2 (PG 63, 129s;
trad. it. 266).

103
prendere atto che da essi Tertulliano non traeva nessuno spunto utile alla
nostra ricerca. Ma da questo mancato sfruttamento non si può dedurre che
per lui la dormitio non sia un’immagine della morte, tutt’altro. Ecco ad e-
sempio quanto scrive nel De anima:
«Se Adamo presentava l’aspetto di Cristo, il sonno di Adamo era l’imma-
gine della morte, come pure dalla ferita del suo fianco aveva origine la
Chiesa, vera madre dei viventi. Così anche il sonno tanto salutare e tanto ra-
zionale viene concepito in senso più lato come immagine della morte che ci
riguarda tutti. Perché Dio, anche altrove non avendo fatto nulla nel suo di-
segno provvidenziale senza queste immagini, volle, più chiaramente di Pla-
tone con il suo mondo ideale, tracciare con noi ogni giorno sopra ogni altra
cosa i termini dell’inizio e della fine della vita umana, porgendoci la sua
mano per aiutare la nostra fede con immagini e parabole costituite sia di di-
scorsi che di fatti. Ti presenta dunque il corpo vinto dalla forza amica del
sonno, travolto dalla dolce necessità del riposo, immobile, quale giacque
prima della vita e quale giacerà dopo la vita, come testimonianza di com’era
quando fu fatto e di com’era quando fu sepolto; che attende l’anima come se
non gli fosse stata ancora affidata e come se gli fosse stata già tolta. Ma an-
che l’anima vive il sonno in modo tale che sembra che se ne stia da un’altra
parte, preparando con la dissimulazione della sua presenza la sua assenza
futura (...), e tuttavia nel frattempo sogna: da dove le provengono i sogni?
Non si riposa, non si impigrisce del tutto, non svende al sonno la sua natura
immortale. Si mostra invece sempre mobile, vaga per terra e per mare, traf-
fica, si agita, si affatica, gioca, soffre, gioisce, persegue il lecito e l’illecito,
mostra che anche senza il corpo può molto, che essa è stata dotata di mem-
bra sue proprie ma che ha bisogno ugualmente di mettere ancora in movi-
mento il corpo. Così, quando il corpo si sveglia, tornato alle sue funzioni ri-
trae davanti ai tuoi occhi la resurrezione dei morti. Questa sarà dunque la
ratio naturale e la natura razionale del sonno. Così anche attraverso l’imma-
gine della morte sei iniziato alla fede, ti eserciti alla speranza, impari a mori-
18
re ed a vivere, impari a stare sveglio pur dormendo» .
Tertulliano si serve della distinzione tra sonno del corpo ed incessante at-
tività dell’anima per dimostrare l’immortalità di questa, ma il passo è utile
anche per i nostri scopi: la dormitio è una ottima immagine della morte, sia
metafisicamente che spiritualmente. È vero che in Tertulliano poi ciò non si
traduce in una coerente concezione della resurrezione, ma questo è proble-
ma tipico del suo pensiero, che appunto talvolta fatica a tenere insieme tutte
le tessere del puzzle. Non ci dimentichiamo però che si sta parlando di un
autore degli inizi del sec.III: non possiamo pretendere da lui una perfetta e
compiuta elaborazione di dottrine che anche noi, nel secolo XXI, fatichia-
mo a padroneggiare appieno.
_____________________________
18
TERTULLIANO, De anima, 43, 10s (CCsl 2, 847s; trad. it. 175ss).

104
Il nostro santo Padre Basilio il Grande invece si serve della dormitio co-
me immagine della morte in tutt’altro contesto. In una lunga ed amareggia-
ta lettera indirizzata ad una monaca caduta in adulterio, egli la invita a rav-
vedersi ed a far penitenza, tra l’altro, con queste parole:
«Prova a raffigurare nella tua mente, ti prego, l’ultimo rivolgimento della vi-
ta dell’universo, quando il Figlio di Dio verrà nella sua gloria, insieme con i
suoi angeli. (Sal 49, 3 LXX): “Verrà infatti e non tacerà” quando verrà a giu-
dicare i vivi ed i morti ed a rendere a ciascuno secondo il suo operato; quan-
do quella tromba, che fa echeggiare un suono alto e terribile, risveglierà
quelli che dormono sin dall’inizio dei secoli, quando quelli che hanno bene
operato passeranno alla resurrezione della vita, mentre quelli che hanno agi-
19
to male passeranno alla resurrezione del giudizio» .
Qui l’immagine della dormitio è adoperata in modo piano, quasi scontato
ma anche di passaggio e privo di ogni approfondimento.
Molto simile è quel leggiamo nel secondo discorso che Ambrogio scrive
per commemorare la morte del fratello Satiro (378 d.C.):
«Perciò proponiamo, fratelli carissimi (...) che la morte non sia da rimpian-
gere: primo, perché è comune a tutti, ed a tutti dovuta; poi, perché ci libera
dagli affanni di questo secolo; infine, perché è come una specie di sonno nel
quale ci si riposa dalla fatica di questo mondo, ed il vigore ci è ridato più vi-
20
vace» .
Tono analogo si ritrova anche in Agostino, che nel 395 scrive a Sapida:
«Tuo fratello, cara figliuola, dorme nel corpo ma vive nello spirito; “Forse
che uno che dorme non si ridesterà mai più?” (Sal 40,9). Dio, che ha accolto
il suo spirito, gli restituirà il corpo che gli ha tolto non già perché andasse
21
perduto ma perché è rinviato il tempo in cui gli sarà restituito» .
In verità entrambi presentano anche silenzi piuttosto importanti, come ad
_____________________________
19
BASILIO MAGNO, Epistulae, ep.46, 5 (PG 32, 378; trad. it. 186s).
20
AMBROGIO, De excessu fratris, II, 3 (SAEMO 18, 76; trad. nostra). In altre occasioni
però Ambrogio non adopera l’immagine della dormitio: cf. p.es. AMBROGIO, De obi-
tu Theodosii, 54s, quando consola il piccolo Onorio per la morte del padre, o De obi-
tu Valentiniani, 41s, quando fa lo stesso con le sorelle di Valentiniano, o 76ss, quan-
do ne narra l’incontro con il fratello Graziano, già defunto. Vero è però che queste
sono opere ‘ufficiali’ con forti sporgenze politiche.
21
AGOSTINO, Epistulae, ep.263 ad Sapidam, 4 (CSEL 57, 633s; NBA 23, 925). Stesso
tono in AGOSTINO, Sermones, sermo 93, 5, 6 (PL 38, 576; NBA 30/2, 143ss); sermo
98, 2 (PL 38, 592; NBA 30/2, 201ss); Enarrationes in psalmos, su Sal 40, 10 (CCsl
38, 456; NBA 25, 995); Enarrationes in psalmos, su Sal 120, 7 (CCsl 40, 1792s;
NBA 27, 1441). In realtà Agostino non usa quasi mai la dormitio come immagine
della morte, neanche quando commenta 1Tess 4,12s (cf. p.es. Sermo 172).

105
esempio riguardo a 1Tess 4,12s o 1Cor 15,5. Tuttavia, mentre queste note
de facto esauriscono la posizione di Ambrogio, quella di Agostino presenta
diversi spunti in più. Così, nei Tractatus super Iohannem leggiamo:
«(Gv 11,11): “Così parlò, poi soggiunse: Lazzaro, l’amico nostro, dorme;
ma io vado a svegliarlo”. Era la verità. Per le sorelle lazzaro eera morto, ma
per il Signore egli dormiva. Per gli uomini, che non potevano resuscitarlo,
era morto, ma il Signore poteva farlo uscire dal sepolcro più facilmente di
quanto tu non possa svegliare e far scendere dal letto uno che dorme. Te-
nendo dunque conto della sua potenza disse che Lazzaro stava dormendo.
Spesso, del resto, nella Scrittura si parla di tutti gli altri morti come di colo-
ro che dormono, come quando l’Apostolo dice (1Tess 4,13): “Noi non vo-
gliamo, frtaelli, che siate nell’ignoranza riguardo a quelli che dormono, on-
de non vi rattristiate alla maniera degli altri che non hanno speranza”. Parla
dei morti come di coloro che dormono, in ordine alla resurrezione che Egli
annunzia. Dormono tutti i morti, tanto i buoni come i cattivi. Ma, allo stesso
modo in cui, in coloro che ogni giorno si addormentano e si svegliano, diffe-
risce quel che ognuno vede in sogno (alcuni fanno sogni lieti, altri così tor-
mentati che, da svegli, temono di addormentarsi per non riviverli), così o-
gnuno con la sua causa si addormenta e con la sua causa si sveglia. E vi è
differenza nel modo in cui ognuno è preso in custodia prima di essere porta-
to davanti al giudice. Infatti il tipo di custodia è proporzionato ai meriti delle
cause: i littori sono incaricati di custodirne alcuni, in modo umano, mite e
civile; altri sono affidati alle guardie, altri ancora sono mandati in carcere: e
non tutti nello stesso tipo di celle, ma a causa dei meriti delle colpe più gravi
alcuni vengono rinchiusi nelle più profonde. Come in questo mondo i generi
di detenzione differiscono secondo la sorveglianza, così differiscono pure
22
per i morti, come differiscono le retribuzioni per i risorti» .
Chiaramente qui Agostino non ha affatto in mente un sonno inconsape-
vole come quello di Lutero: la dormitio agostiniana è invece profondamen-
te vicina a quella che noi cattolici chiamiamo ‘purificazione’ post mortem,
23
o purgatorio . Non è perciò neppure un semplice ‘ponte’, collegamento
neutro tra la vita terrena e quella post resurrectionem, poiché in essa già i-
nizia lo status definitivo. Naturalmente non è questa la sede adatta per valu-
tare le ricadute di questo ed altri passi analoghi sulla dottrina del purificato-
rio. A noi preme capire se e come la dormitio possa essere immagine della
morte, ed è evidente che questo passo in parte la legittima (nella misura in
cui non è inconsapevole assopimento) ed in parte no (le retribuzione perso-
nale post mortem, reale, non è paragonabile al sogno, irreale).
_____________________________
22
AGOSTINO, In Iohannis evangelium tractatus, tr.49, 9 (CCsl 36, 424s; trad. it. 778s,
corretta). Vedremo meglio la visione agostiniana della morte nei capp.9 e 10.
23
Dormitio e dormire ricorrono 331 volte nel corpus augustinianum, quindi non è pos-
sibile esaminare tutte le occorrenze: ci limiteremo alle più significative.

106
Dunque la dormitio può essere considerata una buona ‘immagine’ della
morte: ma che tipo di immagine è? Si può avere qualche particolare in più?
Naturalmente sì. Eccone una bella descrizione tratta da una consolatio di
Paolino di Nola, scritta con ogni probabilità nel 393-96:
«Dio, ora, rivela le sue promesse agli occhi del corpo, ed a questi purificati
mostra i suoi segreti. Tutte le creature in ogni corpo aspirano ad una forma
di resurrezione, sia i germi sulla terra sia gli astri nel cielo. Le notti ed i
giorni, le nascite e le morti a vicenda si alternano; muoio di notte, risorgo di
giorno. Dormo assopito con l’apparenza della morte corporea, sono sveglia-
to dal sonno come dalla morte. E che cosa fanno i campi seminati, che cosa
le fronde dei boschi, che cosa le stagioni? Certamente secondo queste leggi
le cose tutte muoiono e ritornano. Al sorgere della primavera un aspetto
nuovo ritorna in tutte le cose vivificate dopo la morte dell’inverno. Tutte le
cose che sono sotto il cielo frequentemente ripetono ciò che una volta sola
24
farà l’uomo, a cui sono soggette tutte le creature del mondo» .
La consolatio è un genere letterario che abbraccia composizioni scritte in
occasione di eventi luttuosi o comunque tristi, con l’evidente scopo di ‘con-
25
solare’ le persone coinvolte . Chiaramente in scritti di questo tipo non pos-
siamo aspettarci approfondimenti teorici notevoli, però, per lo stesso moti-
vo, è più che lecito supporre che non abbiano spazio nemmeno innovazioni
ardite. E poiché in questo quadro Paolino riprende e sintetizze tutti gli ele-
menti incontrati finora, si può dedurre che, a dispetto dello scarso rilievo
dogmatico, l’uso pastorale della dormitio come immagine della morte non
fosse desueto. Infatti in un altro carme, il 21, Paolino scrive (407 d.C.):
«I defunti in Cristo, vivi nelle loro tombe, dormono nei corpi un placido
26
sonno per un tempo determinato» ,
dove il rinvio ai battezzati non è da interpretare come una restrizione della
resurrezione ai soli giusti poiché prima, nel carme 31, Paolino afferma:
«Quando tutti rivivranno nella carne in cui vissero, non tutti saranno luce
mutando corpo. Infatti risorgeremo, ma non tutti saremo trasformati; questa
sarà la differenza per i Gentili dinanzi a Dio. Sorgeranno dalle tombe intatti
anche i corpi degli empi, destinati ad essere dati in pascolo ad un lungo sup-
27
plizio» .

_____________________________
24
PAOLINO DI NOLA, Carmina, carm.31, 229-243 (PL 61, 681; CTP 85, 432).
25
Cf. p.es. A. QUACQUARELLI, s.v. consolatio, in A. DI BERARDINO (ed.), DPAC, I,
Casale Monferrato 1983, 767-770; IDEM, «Una consolatio cristiana (Paul. Nol. carm.
31)», Vetera christianorum 25 (1988) 43-66.
26
PAOLINO DI NOLA, Carmina, carm.21, 632ss (PL 61, 596s; CTP 85, 294).
27
PAOLINO DI NOLA, Carmina, carm.31, 565-572 (PL 61, 688; CTP 85, 443).

107
Contemporaneo di Paolino di Nola, ma vivente in Spagna, Aurelio Pru-
denzio Clemente, più noto semplicemente come ‘Prudenzio’, in una delle
sue opere più famose, il Cathemerinon liber, Libro della quotidianità, de-
dica uno dei dodici inni in esso contenuti alla celebrazione delle esequie di
un defunto. E l’idea della morte come dormitio qui è presente in modo più
ricco che non in Paolino; scrive infatti Prudenzio:
«Se la nostra volontà terrestre prende gusto al fango ed aspira a ciò che è vi-
le, anche l’anima è vinta dal peso e segue il corpo nelle sue bassezze;
se invece non dimentica di venire dal fuoco e respinge con fermezza il con-
tagio, (allora) essa solleva con sé la carne che la ospita e la innalza così fino
alle stelle;
Infatti il corpo vuoto senza anima che noi vediamo dormire rimane così solo
per poco, perché va in cerca della sua nobile compagna;
verrà presto un tempo in cui nelle ossa tornerà il calore, ed il sangue vivo
abiterà e rianimerà le antiche dimore.
Quei corpi che prima giacevano nelle tombe immobili, disfatti, si scuoteran-
no e voleranno per l’aria, accompagnandosi con le loro anime di un tempo.
Per questo ai sepolcri si dedica la massima cura, per questo alle salme si
rendono gli estremi onori e si allestiscono per loro le cerimonie funebri, e si
usa stendere (sul defunto) lenzuola di lino che brillano di candore, e si con-
serva con unguento d’Arabia il corpo asperso di mirra.
C’è un solo motivo per cui scaviamo (sepolcri) nella roccia e vogliamo belle
tombe: perché il corpo affidato a quelle non è morto ma dorme.
Se la previdente pietà dei cristiani si prodiga (in questo modo) è perché essi
credono che tornerà sicuramente a vivere tutto quello che ora è oppresso dal
28
gelo del sonno» .
Questo bel carme, impossibile da rendere in italiano in modo adeguato,
testimonia non solo che l’idea della morte come dormitio è del tutto pacifi-
ca nel sec.V, ma viene messa in relazione con tutta la prassi esequiale e so-
prattutto la prospettiva escatologica della resurrezione.
Ottimo esempio di questo atteggiamento è Gerolamo: le sue lettere con-
solatorie offrono molti spunti che conviene cogliere. Ecco il primo:
«Che farò dunque? Unirò le mie alle tue lacrime? Ma l’Apostolo lo proibi-
sce, chiamando i morti cristiani ‘dormienti’ (cf. 1Tess 4,13). Ed il Signore,
nel vangelo, (dice) (Mc 5,39; Lc 8,52): “La fanciulla non è morta, dorme”.
Anche Lazzaro è resuscitato perché dormiva (cf. Gv 11). Mi rallegrerò e
gioirò perché (Sap 4,11.14) “è stato rapito affinchè la malizia non mutasse
29
la sua mente”, perché “la sua anima piacque a Dio”» .

_____________________________
28
PRUDENZIO, Cathemerinon liber, hymn.10, 7-15 (CCsl 126, 54s; CTP 209, 117s).
29
GEROLAMO, Epistulae, ep.60 ad Heliodorum epitaphium Nepotiani, 2 (PL 22, 590;
trad. nostra). A causa della presenza di molti temi pagani, questa lettera è un unicum:
(segue)

108
In questa lettera del 396 Gerolamo elenca i fondamenti biblici che sugge-
riscono di indicare la morte con l’immagine della dormitio, ma non li svi-
luppa. Quasi identico è quel che scrive nel 399:
«Contro la durezza e la crudelissima necessità della morte erigiamo questa
consolazione: tra breve vedremo coloro dei quali ora lamentiamo l’assenza.
Noi infatti non la chiamiamo ‘morte’ ma dormitio e sonno. Per questo anche
il beato Apostolo vieta di contristarsi riguardo a chi dorme (cf. 1Tess 4,13s):
perché quelli che sappiamo dormire crediamo saranno resuscitati e, dopo
aver terminato il sopore, veglieranno con i santi e diranno con gli angeli (Lc
2,14): “Gloria a Dio nei cieli, e pace in terra agli uomini di buona volon-
30
tà”» .
Come si vede, non si va molto al di là della mera attestazione del dato
biblico. Se però questo consiste non 1Tess ma in 1Cor 15,5,
«Di tutti coloro che dormono, non tutti saranno trasformati»,
passo che per di più è attestato in una duplice e differente versione, le cose
cambiano sensibilmente. Gerolamo offre l’esegesi di questo versetto, nelle
due varianti, nell’ep.119 (406 d.C.); ovviamente a noi interessa quel (poco)
che scrive riguardo alla dormitio come immagine della morte:
«Se in Adamo tutti muoiono, e la morte è dormitio (in morte dormitio est),
allora tutti dormiremo o moriremo. Secondo quanto dicono le Scritture, pe-
rò, dorme chi è morto nella speranza della resurrezione futura. Chiunque
dorme si sveglia senz’altro: se però non l’opprimerà la forza di una morte
repentina, e la morte non sarà unita al sonno. Sebbene tutti dormano così se-
condo la legge di natura, solo i santi saranno trasfomati in meglio nell’anima
e nel corpo, così che l’incorruttibilità sia di tutti i risorti ma la gloria e la tra-
31
sformazione propria dei santi» .
A questa conoscenza non sfruttata dei fondamenti biblici della dormitio,
comune a molti altri Padri, si affianca un uso meno tecnico ma più chiaro.
Ecco ad esempio come chiude l’epitaffio dell’amica Paola (404 d.C.):

______________________________
cf. p.es. J. SCOURFIELD, Consoling Heliodorus. A commentary on Jerome letter 60,
Oxford 1993, 32s.
30
GEROLAMO, Epistulae, ep.75 ad Theodoram viduam, 1 (PL 22, 686; trad. nostra).
31
GEROLAMO, Epistulae, ep.119 ad Minervinum et Alexandros monachos, 5 (PL 22,
968; trad. nostra). La dormitio figura 3 volte anche al n.7: La prima (PL 22, 971), un
commento a 1Tess 4,14ss, è banale. La seconda (PL 22, 972) dipende dalla prima re-
censione di 1Cor 15,5: in essa la dormitio è equiparata al peccato. Nella terza (PL 22,
973), che segue l’altra recensione, la dormitio simboleggia la vigilanza. Questa indif-
ferenza nel proporre interpretazioni anche opposte significa che Gerolamo, in realtà,
non sposa davvero nessuna di esse.

109
«La santa e beata Paola si addormentò il settimo giorno delle calende di feb-
32
braio, la terza ora dopo il tramonto del sole» .
33
Analoga chiusura nell’epitaffio della sua amica Marcella , mentre nella
delicata consolatio dedicata a Giuliano, che in solo giorno perde la moglie,
due figlie e gran parte del patrimonio, Gerolamo sa essere quasi intimo:
«Rifugiamoci dal peso (del dolore) nelle sacre Scritture, ov’è vera medicina
per le ferite, ov’è certo rimendio ai dolori; dove si narra della madre che ha
il suo figlio nella bara (cf. Lc 7,11-17); dove alla folla intorno è detto (Mc
5,39): “Non è morta ma dorme”; dove un morto da quattro giorni esce lega-
34
to (dal sepolcro) alla voce del Signore che chiama (cf. Gv 11,44)» .
Questo breve inciso non rende giustizia al tenore del contesto prossimo e
di quello remoto, ma gli accostamenti biblici lasciano intuire una probabile
ragione dell’atteggiamento di molti Padri verso la dormitio. Questa imma-
gine, che tutti conoscono e nessuno contesta, è considerata come un ‘ponte’
tra ciò che passa, la vita terrena, e quel che resta, la vita eterna. E di questo
‘ponte’, poi, il punto più importante è chiaramente la fine, cioè la resurre-
zione, perché con essa inizia lo status definitivo della persona. L’inizio del
‘ponte’, ossia il momento della morte, in quanto factum istantaneo è privo
di rilievo. La campata del ‘ponte’, vale a dire l’arco temporale che separa la
vita terrena da quella post resurrectionem, può essere descritta come ‘son-
no’, dato che questo implica il risveglio come quello la resurrezione, ma ha
poco senso soffermarcisi più di tanto: quel che conta davvero è il post re-
surrectionem, tempo di gioia eterna e senza limiti per i beati, tempo di sof-
ferenza eterna e senza limite per i dannati.
Questa importanza relativa della dormitio come immagine della morte ci
aiuta a capire perché Gerolamo (ma non solo lui, come sappiamo) in più di
35
un’occasione sia molto parco nell’usarla, quando non la omette del tutto .
_____________________________
32
GEROLAMO, Epistulae, ep.108 Ad Eustochium epitaphium Paulae matris, 34 (PL 22,
906; trad. nostra). Questa lettera è in realtà un misto di orazione funebre, agiografia e
consolatio, con non piccole punte esegetiche: cf. p.es. A. CAIN, Jerome’s Epitaph on
Paula. A commentary on the Epitaphium sanctae Paulae with an introduction, text
and translation, Oxford 2013; C. BURINI DE LORENZI, «La Peregrinatio di Paola: a-
giografia ed esegesi (Girolamo, ep.108)», Augustinianum 55 (2015) 87-112.
33
Cf. GEROLAMO, Epistulae, ep.127 ad Principiam virginem epitaphium Marcellae,
n.14 (PL 22, 1095). L’epistola è del 412 d.C.
34
GEROLAMO, Epistulae, ep.118 ad Iulianum, 1 (PL 22, 961; trad. nostra). La dormitio
figura en passant anche al n.2 (ibidem) ed al n.4 (PL 22, 963).
35
Cf. p.es. GEROLAMO, Epistulae, ep.39 ad Paulinam super obitu Blesillae filiae, 2 (PL
22, 469; a.384), dove si legge solo un laconico pro dormientibus, ed ep.77 ad Ocea-
num de morte Fabiolae, 11 (PL 22, 697; a.400), dove abbiamo un dormivit illa. Il si-
(segue)

110
Tale silenzio diventa però particolarmente importante se si verifica in occa-
sioni molto delicate come, ad esempio, la pestilenza del 252-54: Cipriano
di Cartagine dedica il De mortalitate a spiegare il senso cristiano della mor-
te, ma in tutta questa ampia consolatio l’immagine della dormitio non figu-
36
ra mai, neanche laddove commenta proprio 1Tess 4,13s . Ad una presenza
importante si affianca quindi un’assenza altrettanto importante: la prima of-
fre spunti utili, la seconda invita a non sopravvalutarli.
Non così è invece per alcuni passi del nostro santo Padre Giovanni Cri-
sostomo, che ce ne offre molti in una delle sue prime Omelie da presbitero
(387), dedicata alla parabola lucana del ricco ‘mangione’ e Lazzaro:
«Per prima cosa è opportuno soffermarsi ed indagare il motivo per cui (Pao-
lo), quando parla di Cristo, chiami ‘morte’ (thânatos) la sua morte mentre,
quando parla della nostra fine, non la chiami ‘morte’ ma ‘dormizione’ (koí-
mêsis). Infatti non ha detto ‘Circa quelli che sono morti’ ma cosa? (1Tess
4,13): “Circa quelli che si sono addormentati”. Ed ancora (1Tess 4,14): “Co-
sì anche quelli che si sono addormentati, Dio li radunerà per mezzo di Gesù
insieme con lui”, e non ‘quelli che sono morti’. E ancora (1Tess 4,15): “Noi
che viviamo e saremo ancora in vita per la venuta del Signore, non avremo
alcun vantaggio su quelli che si sono addormentati”. Nemmeno qui ha detto
‘quelli che sono morti’ ma, ricordandolo per tre volte, per tre volte ha chia-
mato ‘dormizione’ la loro morte. Riguardo al Cristo invece non è così, ma
come? (1Tess 4,13): “Noi crediamo che Gesù è morto”. E non ha detto ‘si è
addormentato’ ma “è morto”. Perché ha chiamato ‘morte’ quella di Cristo e
‘dormizione’ la nostra? Infatti non si è servito in modo casuale o superficia-
le della corretta espressione dei termini, ma per preparare qualcosa di grande
e di sapiente. Mentre nel caso di Cristo l’ha chiamata ‘morte’ per dare fede
alla passione, nel caso nostro l’ha chiamata ‘dormizione’ per confortare la
sofferenza. Infatti, dove è già avvenuta la resurrezione, con fiducia la chia-
ma ‘morte’; dove la cosa è solo sperata la chiama invece ‘dormizione’, con-
fortandoci con questo appellativo e suggerendo buone speranze. Infatti colui
che dorme sicuramente si sveglierà e la morte altro non è che un lungo son-
no. Non dirmi che chi è morto non ascolta, non parla, non vede e non sente:
non lo fa neanche chi riposa. Del resto, se si deve dire una cosa singolare,
anche l’anima di chi riposa, in un certo senso, riposa; al contrario, l’anima
di chi è defunto non è così, ma veglia. ‘Eppure il defunto imputridisce e si
corrompe - dici - e diventa polvere e cenere’. E con ciò, carissimo? Proprio
per questo dobbiamo rallegrarci. Infatti, chi si accinge a ricostruire una casa
fatiscente e vecchia prima allontana gli inquilini, per poter demolire la casa
e ricostruirla più bella. E ciò non addolora gli sfrattati, anzi li allieta ancor
più: infatti non badano alla demolizione che si vede ma immaginano la co-
______________________________
lenzio è invece totale in ep.23 ad Marcellam de exitu Leae (a.384); ep.66 ad Pamma-
chium (a.398); ep.79 ad Salvinam de obitu Nebridii (a.401). Si notino le date: la so-
vrapposizione di atteggiamenti anche opposti rivela l’assenza di un percorso.
36
Cf. CIPRIANO DI CARTAGINE, De mortalitate, 21 (CCsl 3A, 28; CTP 175, 77s).

111
struzione futura che non si vede. Anche Dio distrugge il nostro corpo con
questa intenzione, e prima fa uscire l’anima che abita in esso come da una
casa, per poi ricostruirla più splendida e farvela rientrare con gloria maggio-
37
re. Quindi non badiamo alla distruzione ma allo splendore futuro» .
Il passo offre diverse indicazioni che suggeriscono come, nella prospet-
tiva del Crisostomo, la dormitio sia più che una semplice immagine della
morte ma, piuttosto, il suo alter ego, una sua versione completa ed perfetta.
Infatti l’uso proprio ed adeguato del termine ‘morte’ è per lui collegato con
la resurrezione, nella quale soltanto - aggiungiamo noi - è possibile capire
la reale portata metafisica (definitiva liberazione dal poter mutare) e spiri-
tuale (defintiva liberazione dal poter peccare) di tale accadimento, così co-
me comprendere il perché della sua universalità. Giovanni rinvia solo a Pa-
olo, ma le sue osservazioni si possono estendere senza difficoltà anche alla
resurrezione di Lazzaro. Poi, sempre dal punto di vista del nostro santo Pa-
dre, ‘morte’ e dormitio stanno tra loro come significante e significato, ossia
in un rapporto specularmente opposto a quello in cui la dormitio è immagi-
ne (cioè significante) della morte (il significato), il rapporto da noi indagato
(e trovato) fin qui.
Non è difficile intuire la radicale diversità di questa impostazione.
Infatti, l’obiettivo di immagini di questo genere è rendere più conosciuto
un quid ignoto in tutto o in parte (il significato) per mezzo di un altro quid
più noto (il significante). Ora, se nel significato sono compresi più elementi
che nel significante, questo potrà svolgere il suo ruolo solo in misura ridot-
ta: di solito questa deficienza spinge a cambiare significante, a meno di non
ritenere impossibile esprimere ciò che il significante non rivela. Di solito si
preferisce cambiare significante anche quando il significato possiede meno
elementi del significante, per evitare illecite introduzioni: talvolta però ba-
sta una clausola restrittiva. In entrambi i casi, il quid in più o in meno deve
essere conoscibile per altre vie, altrimenti la deficienza dell’immagine non
sarà percepibile. Può accadere però che tale mancanza sia ritenuta irrilevan-
te per il fine in vista di cui si è deciso di porre la relazione: questa rimane
mal formata, ma il difetto non ha conseguenze. Come si vede, il servirsi di
immagini è molto meno banale di quel che sembri. Stabilire in che rapporto
stanno i lessemi ha conseguenze molto importanti, specie qui per noi.

_____________________________
37
GIOVANNI CRISOSTOMO, De Lazaro homiliae, hom.5, 1 (PG 48, 1018; CTP 205,
125s, rivista). In verità quest’omelia non riguarda l’episodio di Lazzaro ma commen-
ta 1Tess 4,12: «Riguardo a coloro che dormono, poi, non voglio che ignoriate...»; ed
infatti in PG 48, 1015, è chiamata De dormientibus. Poiché però qui interessa il tema
della dormitio e non l’esegesi della parabola, per comodità manteniamo la denomi-
nazione che si legge nell’indice di PG 48, e così la chiamiamo ‘hom.5 de Lazaro’.

112
Se il significato è la morte, il fatto che il sonno implichi il risveglio non è
necessario alla tenuta della relazione, perché quel che conta è che il lesse-
ma del significato sia reso per intero. Ora, chi non crede alla resurrezione lo
può escludere senza mutilare il significato, perché per lui la morte è senza
risveglio; chi crede alla resurrezione invece può includerlo, perché per lui
la morte è con risveglio. Dal punto di vista logico, perciò, dire ‘la dormitio
è immagine della morte’ è espressione ambigua: da un lato conserva il suo
senso anche senza supporre un risveglio, dall’altro questa esclusione non è
accettabile perché il termine dormitio implica necessariamente il risveglio.
Se invece diciamo ‘la morte è immagine della dormitio’, allora il signifi-
cato è la dormitio: e siccome il sonno implica il risveglio, la morte esige la
resurrezione. Escludere il risveglio è mutilare esizialmente il lessema della
dormitio, e pregiudica il mantenimento del senso della relazione. In termini
più semplici, quando afferma che è la morte ad essere immagine della dor-
mitio, il Crisostomo rende necessaria la resurrezione, per la stessa ragione
per la quale il sonno implica il risveglio. Quale sia la corretta relazione tra
morte e dormitio dipende quindi dalla nostra adesione o meno alla fede.
Una terza serie di spunti ruota intorno all’idea, inespressa, di condescen-
dentia: per mezzo di Paolo, lo Spirito indica l’identica situazione metafisica
e spirituale con due termini diversi, da un lato per esaltare la libera azione
dell’uomo-Dio Gesù Cristo, dall’altro per confortare chi è nella tristezza
della separazione. Questa serie di note, che chiude il nostro passo, suppone
la inversione di ruoli tra morte e dormitio sopra esposta, ragion per cui pos-
siamo affermare che in questo brano il nostro santo Padre Giovanni offre i
primi elementi basilari per una teologia della morte come dormitio (e non
della dormitio come immagine della morte).
Non meno istruttivo è quanto si legge poco più avanti nella stessa quinta
Omelia De Lazaro:
«La morte è un riposo, una liberazione dalle fatiche e dagli affanni di questo
mondo. Dunque, quando vedi uno dei tuoi parenti andarsene da questa vita
non ti avvilire, ma compungiti, rientra in te stesso, esamina la coscienza e
considera che ti attende tra poco la stessa fine. Diventa più moderato, acco-
gli un senso di timore dalla morte di un altro, elimina ogni pigrizia, analizza
le tue azioni, correggi i tuoi peccati, compi un cambiamento perfetto. Ci di-
stinguiamo dai pagani proprio nei criteri di giudizio che abbiamo sulla real-
tà. Il pagano guarda il cielo e lo adora: infatti lo considera un dio. Guarda la
terra e contempla a bocca aperta i fenomeni della natura. Noi no. Guardiamo
il cielo ed ammiriamo il suo Creatore: infatti non crediamo che sia un dio
ma opera di Dio. Vedo tutta la creazione e per suo tramite sono condotto per
mano al suo Creatore. Il pagano vede la ricchezza e la contempla avido e
sbigottito; io la vedo e la disprezzo. Il pagano vede la povertà e geme: io la
vedo ed esulto. Io vedo la realtà in un modo, il pagano in un altro. Allo stes-
so modo ci comportiamo riguardo alla morte: quello vede un morto e ritiene

113
che sia morto; lo vedo io e vedo il sonno invece della morte. E come avvie-
ne per le lettere dell’alfabeto, le vediamo con gli stessi occhi sia noi che le
conosciamo sia quelli che non le conoscono, ma non con la stessa mente: in-
fatti, mentre gli analfabeti vedono solo i segni, gli altri raccolgono con peri-
zia il senso in esse contenuto. Allo stesso modo, anche riguardo alla realtà,
vediamo con gli stessi occhi gli avvenimenti, ma non con la stessa mente e
discernimento. Pertanto, come potremmo aderire alle loro idee della morte,
38
noi che ci distinguiamo da loro in tutto il resto?»
Da questo bel passo ricaviamo che per Giovanni, propriamente parlando,
la dormitio può essere immagine della morte solo per un pagano, poiché e-
gli, che non crede alla resurrezione, toglie dalla dormitio il risveglio. Per un
cristiano invece, e sempre propriamente parlando, è la morte ad essere im-
magine della dormitio, poiché tutto ciò che in essa (la morte) è indicato è
reperibile anche nella dormitio, la quale però contiene in più l’idea del ri-
sveglio, nozione che il cristiano conosce non per sentito dire o dai libri che
ha letto ma in virtù del suo personale rapporto di amore con Gesù Cristo,
una relazione esistenziale che gli rivela la Sua morte e resurrezione.
Un altro passo di Giovanni Crisostomo, appartenente ad una Omelia sul
Venerdi santo tenuta nel cimitero (martyrium) fuori della città di Antiochia,
ci offre un’altra serie di spunti interessanti. Eccolo:
«Per quale motivo i nostri Padri vollero che noi ci riunissimo qui e non in
un’altra chiesa? Perché qui vi è una moltitudine di morti. Poiché dunque og-
gi il Signore discese fra i morti, per questo motivo qui ci siamo riuniti e per
questa stessa ragione questo luogo è detto ‘cimitero’: come se tu dicessi che
i morti che qui sono posti non sono morti ma addormentati insieme nel son-
no, e che dormono.
Infatti prima di Cristo la morte aveva il nome di ‘morte’. “In qualunque
giorno voi mangiaste dell’albero - dice (Gen 2,17) - morirete di morte”. Ed
anche (Ez 18,20): “L’anima che pecca, quella morirà”. E Davide (Sal
33,22): “La morte dei peccatori è cattiva”; poi (Sal 115,15): “Preziosa al co-
spetto di Dio è la morte dei suoi santi”. E Giobbe (3,23; 17,16): “La morte è
riposo per l’uomo”. E la nostra dipartita non era chiamata solo ‘morte’, ma
anche ‘inferi’. Ascolta Davide che dice (Sal 48,16): “Ma Dio ha sradicato
l’anima mia dagli inferi quando mi accolse”; e Giacobbe (Gen 42,38): “Con
la tristezza porterete la mia vecchiaia agli inferi”. Questi nomi aveva la no-
stra dipartita nei tempi che furono: ma dopo che Cristo venne e subì la mor-
te per il mondo, la morte non fu più chiamata ‘morte’ (thânatos) ma ‘sonno’
(ypnos) e dormitio (koímêsis). Questo nome di dormitio è testimoniato dalle
parole del Signore (Gv 11,11): “Il nostro amico Lazzaro dorme”. Non disse
infatti ‘È morto’ nonostante fosse veramente morto. E perché tu capisca che
il nome di dormitio era inusitato, considera in che modo i discepoli si turba-
_____________________________
38
GIOVANNI CRISOSTOMO, De Lazaro homiliae, hom.5, 2 (PG 48, 1020; CTP 205,
129s).

114
no dopo aver sentito questo nome (Gv 11,12): “Signore, se dorme sarà sal-
vo”. A tal punto non avevano capito quel che significava quella parola. Ed
ancora Paolo dirà ad alcuni (1Cor 15,18): “Dunque anche quelli che dormo-
no moriranno”. E poi, parlando altrove dei defunti, dice (1Tess 4,14): “Noi
che viviamo non saremo avvantaggiati rispetto a coloro che dormono”. Ed
altrove (Ef 5,14): “Alzati (egheirai), o tu che dormi!” E per mostrare che sta
parlando dei morti aggiunge (ibidem): “E risorgi (kai anásta) dai morti”.
Vedi come ovunque la morte è chiamata ‘sonno’: per questo motivo anche il
luogo (dove sono i morti) prende il nome di ‘cimitero’, come se tu dicessi
39
‘dormitorio’ (koimêtêrion)”» .
Siamo di fronte alla prima vera e propria riflessione sul tema della morte
come dormitio; e gli spunti interessanti non mancano. In generale, questa
omelia, proprio in quanto tale, dimostra che l’immagine della morte come
dormitio è nota al pubblico più ampio, anche se non dobbiamo commettere
l’ingenuità di credere che le omelie dell’epoca patristica avessero lo stesso
uditorio e la stessa funzione che hanno oggi. A questo riguardo giova nota-
re come Crisostomo, all’inizio, argomenti come se l’idea della morte come
dormitio sia immagine ormai tanto pacifica nella Chiesa che il luogo dove
sono sepolti i defunti prende il nome proprio dalla dormitio: ‘dormitorio’ in
greco infatti si dice koemeterion, che diventa ‘cimitirion’ se letto con pro-
nuncia itacista. E questa pacifica accettazione è forse un’altra ragione per la
quale i Padri non la approfondiscono dogmaticamente.
L’interesse maggiore di questo passo però è nei dettagli. In primis, con-
viene rilevare che Giovanni è conscio della ascendenza anticotestamentaria
dell’idea. Lui l’accenna, noi purtroppo non possiamo neanche sviluppare i
suoi rinvii, ma è chiaro che una tale ricognizione fornirebbe integrazioni di
notevole importanza. In secundis, Crisostomo rileva il cambiamento che su
tale immagine innesta il Nuovo Testamento: la morte, che prima di Cristo
ha molti nomi, dopo la Sua resurrezione rivela la sua vera natura, quella di
‘sonno’ destinato ad un risveglio senza fine; la sintonia con Paolino di Nola
è lampante. In tertiis, Giovanni fa notare che tale novità è dapprima frainte-
sa dai discepoli, poi compresa alla luce delle lettere di Paolo e infine, con la
redazione dei vangeli, resa nota come tale a tutti i credenti. Questo punto,
lo si vedrà, torna a favore della posizione di Agostino riguardo alla ‘natura-
lità’ della paura di morire; ma per ora ci si limiti a prenderne nota.
È difficile sottovalutare l’importanza di questo passo, ma nessuna delle
piste che suggerisce ha degli sviluppi, tranne qualche accenno en passant in

_____________________________
39
GIOVANNI CRISOSTOMO, Homilia in coemeterii appellationem, 1 (PG 49, 393s; trad.
nostra). I rinvii all’AT, dalla LXX, spesso sono assai diversi in TM e vulg., oltre che in
CEI; per semplicità omettiamo il confronto. Su quelli al NT ci siamo già soffermati.

115
40
un’omelia attribuita ad Epifanio di Salamina . Questo atteggiamento verso
la dormitio, che ormai sappiamo essere comune nei sec.IV-V, continua poi
in Gregorio il Grande, che nelle Omelie su Ezechiele afferma:
«(1Cor 15,20): “Cristo è la primizia della resurrezione dei morti”. Se noi
non sorgiamo dal sonno della morte, come possiamo avere la resurrezione
41
del Signore come primizia?»
Legare la resurrezione di Cristo come primizia all’immagine della morte
come dormitio in questo modo non è privo di conseguenze: anche se si può
leggere in modo piano (‘se non moriamo, come potremo risorgere?’), dal
testo di Gregorio si potrebbe supporre l’esistenza di una differenza tra ri-
sveglio dal sonno della morte (che vale per tutti) e avere la resurrezione di
Cristo come primizia (che vale solo per i giusti). La prima è lectio facilior,
ma cercheremmo invano, sia prima che dopo quest’inciso, un indizio qua-
lunque per ratificare o approfondire una o l’altra interpretazione.
Se a questo quadro aggiungiamo il silenzio totale di Padri come Origene,
Atanasio, il Nisseno, il Nazianzeno, l’Ambrosiaster, Cirillo d’Alessandria,
42
un silenzio non ostile e però ostinato , sembra di poter concludere che, se
la possibilità di descrivere o indicare la morte servendosi dell’immagine
della dormitio è nota e pacifica per i Padri, che la trovano anche nell’An-
tico Testamento oltre che nel Nuovo (la riduzione in tal senso dell’indagine
è imputabile solo a noi, e per pure esigenze di semplicità), altrettanto sicuro
è che non la sviluppano, quando non la fraintendono o addirittura scelgono
di non servirsene. La piena conoscenza dell’immagine ci è testimoniata da
Paolino di Nola e Gerolamo ma non solo: almeno il Crisostomo è consape-
vole sia delle radici veterotestamentarie sia della ‘novità’ che la vicenda
umana del Cristo apporta a tale retroterra, ed Agostino ci offre interessanti
lumi sulla purificazione post mortem. Ma anche in loro l’attenzione è quasi
_____________________________
40
Cf. pseudo-EPIFANIO DI SALAMINA, Homilia in sabbato magno, 1 (PG 43, 440; trad.
nostra): «Che cosa è questo? Oggi c’è un grande silenzio sulla terra; un grande silen-
zio e per il resto quiete; silenzio grande, perché il Re si è addormenatto (ypnoî); la
terra si è spaventata e tace, perché il Dio incarnato si è addormentato (ypnôse) e colo-
ro che dalla eternità dormivano (ypnountas) sono risorti. Il Dio incarnato è morto e
l’Ade ha tremato. Dio si è addormentato (ypnôse) per poco tempo e quelli che erano
nell’Ade sono risorti». Tutto qui: dopo questo, nell’incipit, non vi è altro cenno.
41
GREGORIO MAGNO, In Ezechielem homiliae, II, hom.8,6 (CCsl 142, 341; CTP 18,
188).
42
A parte il silenzio nei tanti commenti ai passi paolini che riportano l’idea della dor-
mitio, già sondato, cf. p.es. anche GREGORIO DI NISSA, Oratio quod “Non esse do-
lendum ob eorum qui in fide obdormierunt” (PG 46, 497-538): nonostante il titolo, in
questa lunga oratio non ricorre mai una sola volta il termine dormitio né l’idea.

116
esclusivamente concentrata sulla resurrezione come fine della morte. Il che
va chiaramente a detrimento della riflessione sulla dormitio in sé.
Esaurito il contributo patristico è il momento di esaminare quello della
Liturgia. Ed il salto cronologico sarà non meno forte di quello teorico.

3.2. La Liturgia della Chiesa


e l’immagine della ‘dormitio’

Lex orandi lex credendi, recita un adagio medievale: “la legge della pre-
ghiera è la legge del credere”, si potrebbe tradurre. Ciò significa che, se una
data affermazione è oggetto di preghiera o è contenuta in una formula litur-
gica rilevante, la si deve considerare come appartenente al depositum fidei.
Infatti non si può ammettere che la Chiesa si sbagli nel pregare, perché sa-
rebbe come dire che può sbagliare nel credere. Ora, in una formula liturgica
bisogna saper distinguere ciò è essenziale da ciò che è accessorio: ad esem-
pio, la lingua è un elemento accessorio, anche se talvolta può avere un peso
notevole, mentre la presenza o l’assenza di determinati cenni o parti può fa-
re la differenza tra una celebrazione valida ed una invalida. Qui limiteremo
l’analisi agli elementi liturgici essenziali, presentandoli in lingua italiana e
non in latino, come dovremmo in un contesto scientifico. Similmente, la ri-
costruzione storica del percorso che ha portato alle attuali formulazioni sarà
confinata allo stretto indispensabile, data la complessità e vastità di questo
ambito storico-teologico. I testi che esamineremo saranno quindi i Rituali
Cattolici in lingua italiana promulgati dopo il Concilio Vaticano II.

3.2.1. L’immagine della ‘dormitio’


nei testi della Liturgia

Poiché stiamo indagando il modo in cui la Chiesa si serve della dormitio


come immagine della morte, conviene prendere le mosse dal Rituale delle
Esequie: essendo dedicato alla celebrazione dell’ultimo saluto al defunto, il
Rituale contiene il maggior numero di spunti direttamente dedicati al modo
cristiano di vivere la morte ed al senso cristiano della morte. Dal momento
poi che, delle tre possibili modalità di Esequie, la prima è quella tipica, os-
sia la più ampia e completa, sonderemo solo quest’ultima.
Il tema della dormitio si incontra già tra le Orazioni che introducono la
prima delle tre sezioni in cui si divide la prima modalità delle Esequie, cioè
la Veglia in casa del defunto. Tra le nove formule a disposizione, infatti, la
seconda recita (in questa come nelle altre citazioni i corsivi sono nostri):

117
«Dio, Padre misericordioso,
tu ci doni la certezza che nei fedeli defunti
si compie il mistero del tuo Figlio
morto e risorto;
per questa fede che noi professiamo
concedi al nostro fratello N.,
che si è addormentato in Cristo,
di risvegliarsi con lui nella gioia della risurrezione.
43
Per Cristo nostro Signore» .
Questa Orazione si recita anche all’inizio della Celebrazione esequiale
44
senza la Messa , di gran lunga modalità più diffusa della Veglia dato che si
applica alle persone defunte in ospedali o case di riposo. In questa stessa
Celebrazione l’idea della dormitio ricorre anche nella preghiera dei fedeli,
primo formulario, sezione ‘per un sacerdote’, terza intercessione:
«Per i fedeli che si sono addormentati nella speranza della resurrezione,
45
perché li accolga la luce del tuo volto, preghiamo» .
Ma l’occorrenza più pregnante è contenuta nella seguente Orazione:
«Il nostro fratello N. si è addormentato nella pace di Cristo.
uniti nella fede e nella speranza della vita eterna,
lo raccomandiamo all’amore misericordioso del Padre,
accompagnandolo con la nostra fraterna preghiera:
egli che nel Battesimo è divenuto Figlio di Dio
e tante volte si è nutrito alla mensa del Signore,
possa ora partecipare al convito dei santi nel cielo,
e sia erede dei beni eterni
promessi da Dio ai suoi servi fedeli.
Ed anche per noi
che sentiamo la tristezza di questo distacco,
supplichiamo il Signore,
perché possiamo un giorno, insieme con i nostri morti,
andare incontro al Cristo,
46
quando Egli, che è la nostra vita, apparirà nella gloria» .
È l’Ultima raccomandazione e commiato al defunto, prima di incensare
ed aspergere la bara con l’acqua benedetta. Questa Orazione si adopera an-
47
che nel Rito delle Esequie senza la Messa nella cappella del cimitero .

_____________________________
43
RITUALE DELLE ESEQUIE, n.30, formula 2 (LEV 1989, 33).
44
Cf. RITUALE DELLE ESEQUIE, n.68, formula 1 (LEV 1989, 71).
45
RITUALE DELLE ESEQUIE, n.70, n.1, per un sacerdote, intercess.3 (LEV 1989, 74).
46
RITUALE DELLE ESEQUIE, n.73, formula 2 (LEV 1989, 77).
47
Cf. RITUALE DELLE ESEQUIE, n.96, formula 2 (LEV 1989, 104).

118
Il contributo del Rituale delle Esequie finisce qui. Anche se non è molto
nutrito in termini di varietà di formule, l’idea della dormitio come immagi-
ne della morte è assolutamente presente: particolarmente importante è la
sua presenza sia nell’Orazione che inizia la Veglia in casa del defunto che
nell’Orazione di commiato, poiché queste costituiscono l’inizio e la fine del
Rito nella sua forma normale. Come dire che l’intera Celebrazione funebre
è incorniciata dall’idea della morte come dormitio.
* * *
Altra grande fonte liturgica da indagare è il Messale Romano.
Se è vero che nei tre formulari della Commemorazione dei defunti e nei
cinque Prefazi per i defunti l’idea della dormitio non figura, è anche vero
che compare nella Memento etiam del Canone Romano o Preghiera Eucari-
stica prima, la più antica e anche la più nobile delle dieci Preghiere Eucari-
stiche, dato che per secoli è stata l’unica. La Memento etiam recita:
«Ricordati, o Signore, dei tuoi fedeli | che ci hanno preceduto
48
con il segno della fede | e dormono il sonno della pace» .
Ancora più chiaro ed esplicito è l’analogo ricordo contenuto nella Pre-
ghiera Eucaristica seconda:
«Ricordati dei nostri fratelli | che si sono addormentati
nella speranza della resurrezione, | e di tutti i defunti
che si affidano alla tua clemenza: | ammettili a godere la luce del tuo vol-
49
to» .
Molto chiara è anche la formula presente nella Preghiera Eucaristica del-
la Riconciliazione seconda:
«Accogli nel tuo regno i nostri fratelli | che si sono addormentati nel Signo-
re,
50
e tutti i defunti | dei quali tu solo hai conosciuto la fede» .
Poiché il Messale Romano esaurisce qui il suo contributo, il bilancio non
è agevole. Da un lato, l’assenza dell’idea della morte come dormitio in tutte
le parti esplicitamente dedicate al culto dei defunti è un fatto rilevante.
Dall’altro, la sua presenza nel cuore di tre Preghiere Eucaristiche su dieci,
tra cui la più antica (il Canone) e la più usata (la seconda), non può essere
_____________________________
48
MESSALE ROMANO, Rito della Messa, Preghiera Eucaristica I, or.Memento etiam
(Marietti, 731; contiene il testo edito dalla Libreria Editrice Vaticana 1984).
49
MESSALE ROMANO, Rito della Messa, Preghiera Eucaristica II (Marietti, 738).
50
MESSALE ROMANO, Rito della Messa, Preghiera Eucaristica della Riconciliazione II
(Marietti 1984, 782).

119
sottovalutata. E poiché queste Preghiere Eucaristiche si possono adoperare
nelle Celebrazioni dei defunti (la seconda lo sarà quasi certamente), l’idea
della morte come dormitio comunque affiorerà in obliquo anche in quelle
occasioni dalle quali la Liturgia l’ha invece esclusa in recto.
* * *
Ultima fonte è la Liturgia delle Ore, più nota come ‘Breviario’.
Il proprio della Commemorazione di tutti i fedeli defunti riporta, nell’Uf-
ficio delle Letture, il seguente responsorio alla seconda lettura (propria; la
prima è tratta dall’Ufficio dei defunti):
«Coloro che si addormentano nella morte con la fede dei Padri* avranno
una magnifica ricompensa |
Allora i giusti splenderanno come il sole nel Regno del Padre loro* avranno
51
una magnifica ricompensa» .
Il primo versetto del responsorio è tratto da 2Maccabei 12,45, che fa par-
te di un passo (12,38-45) fondamentale per la dottrina cattolica del Purifi-
catorio. Limitiamoci a leggere la parte che ci riguarda più da vicino:
«Egli (i.e. Giuda Maccabeo) considerava la magnifica ricompensa riservata
a coloro che si addormentano nella morte con sentimenti di pietà».
Come si vede, non solo l’AT possiede l’idea della dormitio come imma-
gine della morte ma ne offre letture a dir poco interessanti. Tuttavia, come
si è già detto nel capitolo precedente, qui non possiamo sondarla. Prendia-
mo invece atto che questo versetto è stato scelto dalla Liturgia delle Ore a
commento della lettura patristica dell’Ufficio delle Letture della Comme-
morazione dei fedeli defunti, una lettura che, in realtà, è un centone di passi
dal De excessu fratris di Ambrogio nei quali non figura l’idea della dormi-
tio. Il versetto quindi è de facto un’esegesi del passo di Ambrogio: convie-
ne però limitarci a prendere atto della incontestabile presenza del responso-
rio senza entrare nel controverso regno delle ipotesi eziologiche.
Ancor più interessante è il responsorio che l’Ufficio dei Defunti fa segui-
re alla prima delle letture patristiche, tratta dal quinto Discorso di Atanasio
d’Alessandria, responsorio che recita:
«Tutti quelli che dormono nelle tombe udranno la voce del Figlio di Dio; chi
ha fatto il male risorgerà per la condanna* e chi ha fatto il bene risorgerà per
la vita | In un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba, i
52
morti risorgeranno* e chi ha fatto il bene risorgerà per la vita» .

_____________________________
51
LITURGIA DELLE ORE, sub locum (LEV 1985, IV, 1432).
52
LITURGIA DELLE ORE, sub locum (LEV 1985, IV, 1784).

120
Il responsorio è tratto da Giovanni 5,28s, che però recita:
«Verrà l’ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce e
ne usciranno: quanti fecero il bene per una risurrezione di vita e quanti fece-
ro il male per una risurrezione di condanna»;
l’idea della dormitio non figura in Giovanni, neanche negli originali e nep-
pure in una variante testuale. Si è di fronte ad una vera e propria correzione
del testo biblico da parte della Liturgia, che ha sicuramente la potestà di
farlo ed il cui significato e valore è difficile da sottovalutare. È indubbia in-
fatti la positiva volontà di introdurre l’idea della dormitio in un passo che
non la contiene, anche se ovviamente non le si oppone, e quindi è indubbia
anche l’importanza che ad essa viene attribuita dalla Liturgia.
Ulteriore conferma di questo risultato si legge subito dopo. La seconda
lettura patristica, offerta in alternativa alla prima dall’Ufficio dei Defunti e
tratta dalla ep.19 di Braulione vescovo di Saragozza, infatti inizia così;
«La speranza di tutti credenti, Cristo, chiama i trapassati ‘dormienti’, non
‘morti’; dice infatti (Gv 11,11): “Il nostro amico Lazzaro si è addormenta-
to”. Ma anche il santo Apostolo non vuole che ci rattristiamo su quelli che si
53
sono addormentati (cf. 1Tess 4,12) e quindi, se teniamo per fede...» .
Nel resto del passo l’idea della dormitio scompare, ma la lettera di Brau-
lione ci rivela che già nell’Alto Medioevo la si era notata. Poiché nelle altre
Ore (Lodi mattutine, Ora media, Vespri) la dormitio non figura, il contribu-
to della Liturgia delle Ore si esaurisce qui, e con essa la ricognizione sui
Rituali odierni.
Ulteriore elemento da considerare, e non certo accessorio, è quello della
successione cronologica con la quale i vari contributi hanno iniziato a far
parte della Liturgia.

3.2.2. La successione storica dei testi liturgici


sull’immagine della ‘dormitio’

È chiaro che aggiungere o togliere un elemento da una formula o un Ri-


tuale significa considerarlo adatto o non più adatto a quel contesto o a come
esso è ora percepito dalla Chiesa. E questa valutazione è atto magisteriale,
dato che solo il Magistero ha il potere di introdurre modifiche ai Rituali.
Naturalmente qui non potremo entrare nei dettagli della storia delle singole
formule; ci limiteremo solo a cenni generali, basati sugli elementi più sicuri
_____________________________
53
LITURGIA DELLE ORE, sub locum (LEV 1985, IV, 1784; l’ep.19 è in PL 80, 655).

121
54
offerti da quella complessa disciplina che è la Storia della Liturgia .
* * *
Per quel che riguarda il Rito delle Esequie, i sacramentari del sec.VIII,
detti ‘gelasiani’ dal loro promulgatore, papa Gelasio I, e costituiti da mate-
riale liturgico di origine romana risalente più o meno al sec.IV, questi sa-
cramentari, si diceva, riportano una sola orazione sulla morte, quella di rac-
comandazione o di commiato; eccola:
«O Dio, presso il quale vivono tutte le cose mortali,
per il quale i nostri corpi, morendo, non periscono
ma sono trasformati in una condizione migliore,
ti supplichiamo con insistenza
di voler accogliere l’anima del tuo servo.
Essa deve essere trasportata dalle mani dei santi angeli nel seno del tuo ami-
co, il patriarca Abramo;
essa deve resuscitare nell’ultimo giorno del grande giudizio.
Nella tua bontà, lava, perdonandole,
_____________________________
54
Questa presentazione riflette la percezione attuale del rapporto tra Liturgia e Magi-
stero, rapporto che è il punto di arrivo di un percorso storico ben più complesso. Se
nel sec.I vi è una grande libertà ‘carismatica’ da parte del celebrante, pur entro i limi-
ti di una traccia condivisa da tutte le Chiese che riporta i contenuti essenziali, se le
prime formule appaiono nei sec.II-III e nei sec.IV-V nascono le prime anafore com-
plete (quelle di Basilio e del Nazianzeno in Oriente, il Canone Romano in Occiden-
te), il primo ‘intervento’ Magisteriale non si ha prima dei sec.V-VII, con la compila-
zione di raccolte di formulari cui si dà il nome di Sacramentaria: il Gelasiano (libro
ufficiale della Chiesa di Roma, compilato forse da papa Gelasio I; sec.IV), il Leonia-
no (Roma, sec.V, di papa Leone I), il Paduense (forse ricavato da un originale di pa-
pa Gregorio Magno; sec.VII), il Gregoriano (compilazione forse di papa Adriano I;
sec.VIII). Nel sec.X l’uso dei Sacramentaria decade anche se continuano a circolare
fino ai sec.XIII-XIV; la ragione sta nel fatto che le parti omogenee cominciano ad es-
sere raggruppate a sé: nascono così i Lezionari (per le pericopi non evangeliche), gli
Evangeliari (per i passi evangelici), i Rituali (per le benedizioni e la celebrazione dei
vari sacramenti eccetto l’Eucarestia), i Messali plenari (per le celebrazioni eucaristi-
che) ed i Pontificali (per le formule e le cerimonie riservate ai vescovi). Chiaramente
a questo livello il Magistero ha ormai un peso di rilievo, ma ancora lontano da quello
odierno, poiché nel Medioevo il senso dell’auctoritas è ben diverso da quello di oggi.
Simile ai Sacramentaria, ma profondamente diversi nella sostanza, restano i Brevia-
ri, libri per la preghiera personale che dal sec.XIII in poi gli Ordini Mendicanti dif-
fondono al posto del Salterio monastico: i Breviari contengono inni, salmi, orazioni,
intercessioni, letture in uno solo volume, e sono approvati prima dal Capitolo genera-
le dell’Ordine e poi dalla santa Sede. Con la Controriforma questo panorama viene
profondamente ripensato: il Magistero assume almeno dal 1570 in poi un ruolo assai
simile a quello odierno, emanando nuovi Messali, Rituali e Breviari e privando di au-
torità quelli antecedenti, anche se prima del Concilio Vaticano II non si era mai assi-
stito ad un ripensamento così radicale ed a tutto campo della Liturgia.

122
quel che per istigazione del diavolo ha potuto contrarre
e che ti sia contrario nel suo soggiorno nella regione mortale.
55
Per Gesù Cristo...» .
A differenza dell’Ultima raccomandazione del Rituale odierno, qui l’idea
della dormitio è assente, né figura in nessuna parte del rituale Gelasiano dei
defunti. Lo stesso si può dire per i Rituali dell’Alto Medioevo e dei secoli
56
successivi . Le rielaborazioni concepite al tempo della Controriforma inse-
riscono un pò confusamente i contributi delle spiritualità succedutesi nel
tempo ma, a nostra conoscenza, non introducono novità riguardo al tema
della dormitio. È il Concilio Vaticano II (1963) che prescrive una profonda
rivisitazione del Rito delle Esequie, con gli esiti che abbiamo visto.
La storia della Liturgia Eucaristica è incomparabilmente più complessa,
ma per nostra fortuna non la dobbiamo seguire nel dettaglio.
Senza ombra di dubbio il contributo offerto alla nostra ricerca dal Cano-
ne Romano è il più antico, anche se non può essere collocato con sicurezza
57
a prima del 1570 . Tuttavia sappiamo che la dormitio come immagine del-
_____________________________
55
Liber sacramentorum Gellonensis, n.2895 (CCsl 159, 461; trad. nostra).
56
Cf. C. TREFFORT, L’Eglise caroligienne et la mort: christianisme, rites funéraires et
pratiques commemoratives, Lyon 1996; AAVV, La mort au Moyen Âge. Colloque de
la Société des historiens médiéviste français (Strasbourg juin 1975), Strasbourg
1977. L’ambito monastico non fa eccezione: cf. p.es. J. LECLERQ, «La mort d’après
la tradition monastique du Moyen Âge», Studia missionalia 31 (1982) 71-77.
57
In realtà il 1570 è la data in cui Pio V promulga il Messale Romano tridentino, met-
tendo fine ad un proliferare di testi tanto incontrollato quanto di scarsa qualità, fonte
di confusione e non di arricchimento. Il testo della Preghiera Eucaristica recepito da
Pio V risentiva però delle molte interpolazioni medievali (tipica l’aggiunta della for-
mula ‘per Gesù Cristo nostro Signore’ alla fine di ogni sezione della Preghiera) inse-
rite su una struttura molto più antica, con grande probabilità nata in Egitto, nella tra-
dizione alessandrina ma con venature antiochene, e poi recepita in Occidente, segna-
tamente a Roma, come provano alcune citazioni risalenti alla fine del sec.IV. I primi
manoscritti contenenti il Canone Romano risalgono al sec.VIII.
Teologicamente, a parte la menzione della dormitio, il Canone Romano presenta
alcune caratteristiche che lo differenziano profondamente dalle altre Preghiere Euca-
ristiche, tutte innegabilmente più ‘moderne’. Per prima cosa, risalta l’assenza dello
Spirito santo in quella che si può considerare l’epiclesi: l’Eucarestia è consacrata dal-
la ‘potenza della benedizione’ di Dio. Il che rivela anche una stretta parentela del
Canone con le preghiere ebraiche di benedizione, tanto più che risulta costituito da
una serie di parti abbastanza slegate tra di loro la cui singolarità nel Medioevo era
accentuata dall’antifona ‘Per Cristo nostro Signore’ alla fine di ognuna di esse. Inol-
tre, la gestualità è accentuata: inchini, segni di croce, colpi sul petto, movimenti delle
braccia (apertura e chiusura) ne fanno un vero esempio di ritualità. La spiritualità eu-
caristica è tutta centrata sull’idea di ‘sacrificio’, e probabilmente questa è stata la ra-
gione per cui il Concilio Vaticano II, volendo dare dell’Eucarestia una visione più se-
(segue)

123
la morte figura nella Preghiera Eucaristica molto prima; lo attesta il nostro
santo Padre Cirillo vescovo di Gerusalemme, nella sua Catechesi 23:
«Facciamo poi ricordo di tutti coloro che si sono addormentati: a partire dai
Patriarchi e dai profeti, dagli apostoli e dai martiri, perché Dio accolga le
nostre preghiere attraverso le loro e con il loro patrocinio; per finire con i
santi che ci sono stati Padri, con i vescovi defunti e con gli altri che ci hanno
58
preceduto nel sonno della morte» .
Il contributo contenuto nella Preghiera Eucaristica seconda è invece frut-
to di uno dei forti rimaneggiamenti conciliari su testi talora molto antichi:
in questo caso l’anafora dello pseudo-Ippolito. In effetti la misura di questi
interventi è tale che non temiamo di sbagliare affermando che la Preghiera
Eucaristica II de facto è nuova, pur ispirandosi all’anafora dello pseudo-
59
Ippolito che però non fa alcun cenno alla dormitio . La Preghiera della Ri-
conciliazione seconda invece è opera di san Paolo VI papa, quindi recente.
Per quel che riguarda la Liturgia delle Ore, le vicende storiche di questo
insieme di Salmi, responsori, orazioni e letture è complessa: non è sempre
possibile ricostruire le vicende dei singoli elementi, tantomeno inquadrarli
in un contesto quanto mai mutevole. Per esempio, la lettera di Braunilone è
una aggiunta post-conciliare, così come molti responsori e tutte le interces-
sioni: però è probabile che elementi analoghi figurassero in qualche liturgia
particolare precedente, come prova proprio la lettera di Braunilone.
In definitiva, si può affermare che storicamente l’idea che la dormitio sia
fruibile come immagine della morte è presente da sempre nella Liturgia, e
nella sua espressione più alta, la Preghiera Eucaristica. Questa presenza,
forse in sordina ma certo quotidiana (specie in ambito monastico) resta tale
______________________________
rena e amorosa, ha affiancato al Canone le altre Preghiere Eucaristiche. La spirituali-
tà ecclesiale è invece fortemente marcata non solo dall’elenco dei primi papi della
Chiesa ma anche dal ricordo dei vivi e dei ‘dormienti’, nonché dei santi, di Maria,
degli angeli: insomma, la Chiesa è presente nella sua interezza. Questo contesto con-
ferisce alla presenza della dormitio un valore teologico non piccolo: significa che
l’assenza dovuta alla morte è solo passeggera, come il sonno, e come il sonno prelu-
de ad un risveglio, la resurrezione finale.
58
CIRILLO DI GERUSALEMME, Catecheses, cat.23, 9 (PL 33, 1116; CTP 103, 464).
59
Basta porre in sinossi l’anafora dello pseudo-Ippolito ed il testo della Preghiera Eu-
caristica II per accorgersene: cf. PSEUDO-IPPOLITO, Traditio apostolica, 4; SCh 11bis,
48-52; CTP 133, 109ss; MESSALE ROMANO, Rito della Messa, Preghiera Eucaristica
II; Marietti, 733ss. Alcune differenze sono dovute semplicemente all’evoluzione li-
turgica, come la non distinzione tra prefazio ed anafora e l’assenza del Sanctus in Ip-
polito. Ma la Preghiera Eucaristica II non ha molto a che vedere con quella di Ippoli-
to: il prefazio è molto diverso, come altra è pure l’epiclesi ed il seguito della Preghie-
ra Eucaristica; le poche parti comuni spesso sono tali solo per il senso.

124
fino al Concilio Vaticano II, la cui riforma liturgica se ne serve ampiamente
per insegnare una accezione meno triste e ‘funebre’ della morte.
* * *
Questo stato di cose consiglia di non sopravvalutare l’oggettiva ratifica
da parte della Liturgia della dormitio come immagine della morte. Che tale
ratifica ci sia sempre stata ed ai massimi livelli (Preghiere Eucaristiche) è
indubbio, ma è chiaro che permangono perplessità o, almeno, che tale idea
non è ancora percepita come immagine ottimale della concezione cristiana
della morte. Se così non fosse, non si spiegherebbe il silenzio del Messale
Romano nei Prefazi per i defunti e nel proprio della Commemorazione di
tutti i defunti. D’altro canto, l’idea della dormitio incornicia l’intero Rito
delle Esequie, e non si può certo dire che qui la concezione cristiana della
morte non sia al centro. Lo stesso accade nell’Ufficio dei Defunti, nel quale
la presenza della dormitio non è affatto accessoria, anzi, la correzione ap-
portata a Gv 5,28 indica una positiva volontà di introdurla nella Liturgia.
In conclusione, si può dire che servirsi della dormitio come immagine
della morte è sicuramente corretto dal punto di vista liturgico, e forse anche
auspicabile in vista di una maggior coerenza nell’affrontare certe situazioni
e presentare gli stessi temi di vita spirituale. Di certo si rispetta ciò che è si
è verificato nella storia. La presenza la dormitio come immagine della mor-
te è minima nella Liturgia dell’antichità ma in seguito cresce sempre più,
giungendo all’importanza che assume nella ritualità odierna.
Esaurito il contributo della Liturgia, passiamo a quello del Magistero.

3.3. La ‘dormitio’ immagine della morte


nei documenti del Magistero

Se il dato liturgico è oscillante, quello magisteriale lo è ancor più. Infatti,


se da un lato i pochi pronunciamenti magisteriali sulla morte sono collegati
strettamente alla resurrezione, il che farebbe sembrare ovvio servirsi della
immagine della dormitio, dall’altro questa non figura mai. Buon esempio di
questa situazione è il Catechismo della Chiesa Cattolica, dove si legge:
«La visione cristiana della morte (cf 1Tess 4,13s NdA) è espressa in modo
impareggiabile nella Liturgia della Chiesa:
“Ai tuoi fedeli, Signore, la vita non è tolta ma trasformata; e, mentre si di-

125
strugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata un’abitazione e-
60
terna nel cielo”» .
Da un lato il Catechismo afferma che la visione cristiana della morte è
quella della Liturgia, della quale riporta un testo che non menziona la dor-
mitio, dall’altro rinvia in nota solo e proprio a 1Tess 4,13s, l’attestazione
più netta e forte dell’immagine della dormitio. Sembrerebbe una contraddi-
zione ma in realtà i due corni non sono sullo stesso piano: quello vincolante
è il testo esplicito, la nota a piè di pagina è solo esplicativa. Quindi, il Ca-
techismo preferisce non servirsi della dormitio, anche se non l’esclude.
In verità bisogna ricordare che ogni documento magisteriale ha alle spal-
le un determinato retroterra storico-teologico, si rivolge a destinatari precisi
ed intende affrontare soprattutto alcuni aspetti. Non è quindi corretto ‘tira-
re’ qua e là un testo, senza rispettarne origine, scopo e contesto. Qui, si de-
ve ricordare che l’idea di dormitio non è univoca: la versione di Lutero non
è compatibile con quella cattolica, come si è visto nel punto 1.2.2.; per ser-
virsene bisogna dunque distinguere. Ma il Catechismo ha intento pastorale
più che dogmatico, quindi risolve la questione altrimenti: rinvia ad 1Tess 4,
ed all’idea della dormitio, ma nel testo l’omette; afferma che la visione cri-
stiana della morte è espressa al meglio nella Liturgia, che usa la dormitio, e
però cita un Prefazio che non la menziona.
Se si trattasse di votazioni, questa si direbbe una ratifica iuxta modum.
Siccome però non si sta parlando di votazioni, questa non è una ratifica.
Tuttavia non è neppure una non-ratifica e tantomeno un rifiuto, perché il
testo del Catechismo contempla anche le note esplicative, e nel nostro caso
in esse figura il rinvio a 1Tess 4,13s, anzi, è il solo rimando biblico.
Con tutta evidenza però stiamo spremendo troppo un testo molto povero.
Il rischio di sovradeterminarne il senso e la portata è davvero forte, ma non
61
si può contare sull’appoggio di altri passi . Il Magistero, come si è detto, si
è pronunciato poche volte riguardo alla morte, e sempre riguardo alla sua
62
relazione con la resurrezione . Un altro ambito nel quale è possibile reperi-
re qualche documento riguarda l’immortalità dell’anima, o meglio il rifiuto
di questa o quella sua interpretazione, fondazione o applicazione: ma sono
aspetti inafferenti alla posizione e comprensione della dormitio. Imitando il
Catechismo non rimane che rinviare alla Liturgia, il cui contributo si è però
_____________________________
60
CCC n.1012. Il testo liturgico citato è tratto dal Prefazio per i defunti I.
61
In verità CCC, n.966, menziona la dormitio Mariae, “anticipazione della resurrezio-
ne degli altri cristiani”. Sul passo diremo però qualcosa in sede di conclusioni.
62
Cf. p.es. G. CANOBBIO, «Morte ed immortalità. Elementi per una considerazione del-
l’aspetto dogmatico», Vivens homo 17 (2006) 307-320. La ricognizione fra gli indici
di DS è desolante: difficile persino rintracciare i testi menzionati da Canobbio.

126
già sondato al punto 3.2. L’esame del Magistero quindi termina qui.
Esaurita la ricerca e l’analisi dei materiali, tiriamo le somme.

3.4. Conclusioni: è la ‘dormitio’ immagine della morte


o il contrario?

Come si è detto all’inizio del capitolo, qui intendevamo approfondire so-


lo alcuni aspetti della dormitio come immagine della morte. Per fare il pun-
to su una determinata questione teologica conviene infatti indagare i loci
theologici nella quale figura: Scrittura, Tradizione, Magistero, Liturgia e ri-
flessione teologica. Alla prima si è dedicato il capitolo precedente, in que-
sto abbiamo sondato il contributo del Magistero, della Liturgia ed iniziato a
conoscere quello della Tradizione, che per noi significa consultare i Padri
della Chiesa. Riassumiamo ora e riflettiamo su quanto emerso.
* * *
Mettendo da parte i testi liturgici, il Magistero de facto non ratifica l’uso
della dormitio come immagine della morte, anche se de iure non lo esclude
e tantomeno condanna. È però conclusione che poggia su basi testuali fra-
gili e ridotte. È dunque più prudente affermare che, fuori della Liturgia, il
Magistero non si pronuncia sulla dormitio come immagine della morte.
* * *
Per quel che riguarda la Liturgia, ciò che è emerso non è univoco.
Da un lato infatti è quanto mai evidente che la morte è presentata molto
spesso come dormitio: questo avviene soprattutto nella Liturgia dei Defunti
ma anche in diverse Preghiere Eucaristiche, tra le quali il Canone Romano
spicca per la sua antichità ed autorevolezza. Il dato testuale non è ambiguo,
ed è molto significativo che l’immagine della dormitio domini proprio i Ri-
tuali preposti ad accompagnare il saluto finale al defunto.
Tuttavia non conviene concludere che, allora, la dormitio sia l’immagine
che la Liturgia sceglie per presentare la morte ai credenti in preghiera. Pri-
ma di tutto perché la dormitio non è sempre presente al momento in cui la
Liturgia parla della morte: in realtà i silenzi sono molto più numerosi delle
attestazioni e spesso in contesti cruciali (ad esempio nei Prefazi dei defunti,
o in otto Orazioni delle nove disponibili per introdurre il Rito delle Ese-
quie), anche se è vero che da quelli non si può ricavare nessun’altra imma-
gine della morte. Poi, perché tale presenza è talvolta en passant o in parti
accessorie, come responsori o versetti: talvolta una stessa formula figura o
è fruibile in più contesti, ed è difficile capire se sia vera e propria opzione
teologica o mera semplificazione. Infine, non bisogna sottovalutare il fatto

127
che i Rituali esaminati sono recenti, quasi tutti post-conciliari: questo signi-
fica che servirsi della dormitio come immagine della morte non appartiene
al più antico depositum fidei. Questa obiezione è la più seria.
Da un lato infatti non si può ignorare un silenzio secolare e di tempi non
sospetti di ‘contaminazioni’ polemiche, presente in Rituali antichi e recenti,
della più disparata origine: indubbiamente significa qualcosa, a livello dog-
matico ma anche spirituale. D’altro lato però si deve anche dire che non ha
senso indagare Rituali in disuso, perché non esprimono più la lex orandi:
qualunque sia il significato di quel silenzio, oggi la Liturgia lo affianca alla
dormitio. Dal punto di vista storico questa non è affatto novità: anche se i
‘nostalgici’ dei bei tempi che (mai) furono amano presentare la Liturgia
pre-conciliare come la cristallizzazione perfetta dell’opus Dei, nella realtà
dei fatti formule, gesti, paramenti, segni e sacramentali mutano spesso. An-
che il numero dei sacramenti è cambiato. Questo accade perché il succeder-
si degli avvenimenti influenza la percezione che l’uomo ha di sé, e questo
si riflette sul suo rapporto d’amore con Dio. La Liturgia, che non è una re-
cita in costume ma esprime questo sempre cangiante rapporto d’amore, non
può rimanere immutabile: di conseguenza, è l’odierna lex orandi che dob-
biamo considerare lex credendi, non quella di cento o trecento anni fa.
Non è quindi scandaloso, dal punto di vista spirituale, constatare che ser-
virsi della dormitio come immagine del senso cristiano della morte è gua-
dagno del secolo scorso. Un guadagno vero, condivisibile e soprattutto au-
tentico, perché la Liturgia è atto magisteriale al più alto grado. Un guada-
gno che però si è appena affacciato, quindi non è ancora la chiave di lettura
principale o privilegiata del senso cristiano del morire. Ed in verità nessuno
può dire che con certezza sia destinata a divenirlo, oppure che sia caduca.
Dal punto di vista dogmatico questa conclusione non è problematica. La
fedeltà alla Tradizione è infatti cosa diversa dall’archeologia teologica. Se
non è lecito contraddirla, è però sommamente utile trarne quegli spunti che,
qui ed ora, smbrino più adatti ad annunziare il Vangelo agli uomini di que-
sto tempo. Come è scritto (Mt 13,43):
«Ogni scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di
casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche».
L’archeologia teologica invece rimane confinata e vuole costringere gli
altri a rimanere entro categorie di pensiero passate, servendosi di mezzi non
più adeguati. Si spaccia per fedeltà ma in realtà è esattamente l’opposto: è
il frutto più maturo della morte spirituale.
Quindi si può affermare che la Liturgia legittima l’uso della dormitio co-
me immagine della morte ma, visti i molti silenzi, non in modo esclusivo e
con una certa prudenza, sebbene non offra alcuna alternativa ad essa.

128
* * *
L’ultimo ambito indagato è stata la concezione dei Padri.
Il primo dato che colpisce è il diffuso, dominante silenzio sulla dormitio
nei commenti ai passi nei quali è presente: a quanto ci consta, Padri del ca-
libro di Origene, Atanasio, i Cappadoci, il Nazianzeno, Ambrosiaster, Ago-
stino, Cirillo d’Alessandria non usano mai l’immagine della dormitio. Ri-
portano con grande frequenza i versetti nei quali figura, anche non in com-
menti biblici, ma l’immagine non è mai colta.
Stesso risultato anche dal punto di vista filosofico: Tertulliano offre nel
De anima una ampia e dettagliata trattazione della dormitio come immagi-
ne della morte, ma è un unicum. Trattandosi poi di opera montanista, non la
si può annoverare tra le opere patristiche; però la riflessione è acuta.
Il secondo elemento interessante è che in altri contesti, o da altri punti di
vista, i Padri si servono spesso e con acume della dormitio: Basilio lo fa in
una lettera ad una monaca, Paolino di Nola e Prudenzio in componimenti
ad intento consolatorio, Gerolamo più volte nelle sue epistole, Crisostomo
in diverse omelie dedicate a vari argomenti. È perciò ragionevole supporre
che la dormitio come immagine della morte ha per i Padri un ruolo preva-
lentemente pastorale. Con una eccezione.
In una Omelia dedicata all’esegesi di 1Tess 4,12, nel quale la morte è de-
scritta come dormitio, Giovanni Crisostomo opera una inversione che, seb-
bene non ci consta figuri in altri autori, offre però una ragionevole spiega-
zione di questo silenzio e, al contempo, una interessante lettura spirituale e
63
dogmatica . Il Crisostomo infatti rileva che, dal punto di vista della fede
cristiana nella resurezione, non è la dormitio ad essere immagine della mor-
te bensì l’opposto: è la morte ad essere immagine della dormitio, la quale, a
sua volta, è figura del destino complessivo di ogni uomo, dato che tutti ri-
sorgeremo nel Giorno del Giudizio. L’inversione non poggia sulla retorica
ma su una solida considerazione logica riguardo al rapporto tra significante
e significato in una metafora. Siccome si tratta di considerazione estrema-
mente importante a sul piano dogmatico ma soprattutto su quello spirituale,
è bene riprendere ed integrare le osservazioni già fatte a suo luogo.
La metafora ideale è ovviamente quella in cui ad ogni elemento del do-
minio di un termine corrisponde univocamente uno ed un solo elemento del
dominio dell’altro, ma chiaramente è caso raro. Le ragioni della imperfetta
corrispondenza possono essere molte, però qui: basta prendere atto del fatto
che il dominio di un termine è più ampio dell’altro, e che, di conseguenza,
alcune note del primo non sono rappresentabili dal secondo. Ora, siccome
_____________________________
63
Cf. GIOVANNI CRISOSTOMO, De Lazaro homiliae, hom.5, 1 (PG 48, 1018; CTP 205,
125s, cit.). Non a caso, in PG 48, 1015, quest’omelia è chiamata De dormientibus.

129
una metafora intende illustrare il significato, se il dominio del significante è
più ristretto è chiaro che si perdono informazioni; se invece è più ampio, ta-
64
le eccedenza si può neutralizzare con clausole restrittive ad hoc .
La correttezza della nostra metafora dipende da ciò che è ‘significato’.
Se il significato è la morte, dell’immagine della dormitio interessa solo il
sonno, non quel che accade dopo: la metafora dunque regge sia che si tenga
conto del risveglio sia che lo si trascuri. La dormitio può essere immagine
della morte sia per chi non crede alla resurrezione che per chi ci crede.
Se il significato è la dormitio, poiché il sonno implica il risveglio, davan-
ti a noi si aprono due scenari. Se il significante rimane la morte, allora que-
sta dovrà supporre la resurrezione, opzione pacifica per il cristiano. Se ri-
fiutiamo di supporre la resurrezione, opzione obbligata per chi non crede,
allora dovremo rinunciare alla morte come significante della dormitio.
Se uniamo questi due risultati, si ha che la dormitio è immagine ambigua
della morte, poiché può essere adoperata sia dal credente, che inserisce nel-
la morte la resurrezione, sia dal non credente, che invece la esclude. Questa
conclusione non depone a favore dell’uso dell’immagine. Né è consigliabi-
le servirsene assumendo tacitamente una o l’altra opzione, perché dall’altra
parte si potrebbe tacitamente assumere l’opposto. In definitiva, il senso del-
la immagine dipende dalla nostra adesione o meno alla fede.
Dal punto di vista dogmatico ciò spiega bene le esitazioni dei teologi, da-
to che i loro libri vanno in mano ai credenti come ai non credenti, e non è
detto (purtroppo) che i primi (teologi compresi) non abbiano difficoltà ana-
loghe a quelle dei secondi. Meno comprensibili sono invece le esitazioni li-
65
turgiche, dato che il contesto non è sicuramente ambiguo .
Dal punto di vista spirituale invece l’immagine della dormitio è certo la
più efficace ed edificante metafora della morte. Per questo, ci pare, la Li-

_____________________________
64
P.es., poniamo di rappresentare A per mezzo di B: A è il significato, B il significante.
Poniamo ora che A consti dei numeri 1, 2 e 3, e B delle lettere a, b e c: se ad 1 corri-
sponde solo a, a 2 solo b ed a 3 solo c, la metafora è perfetta. Di solito però o A pos-
siede più numeri di B (1, 2, 3, 4) o B ha più lettere di A (a, b, c, d). In questo ultimo
caso, poiché i tre numeri di A sono tutti rappresentati da B, per ottenere una metafora
perfetta basta escludere d. Ma nel primo caso B è incapace di esprimere 4, dato che
ha solo tre elementi: di conseguenza B non può significare A, a meno che, per qual-
che altra strada, non si sappia che A include anche 4. Ma la metafora è comunque
sbagliata: conviene cambiare significante e scegliere, p.es. C, che ha f, g, h ed i.
65
Indicativo, al riguardo, ci pare il silenzio sulla dormitio in V. MAURO, «Morte e pro-
messa di vita. Un esempio di linguaggio liturgico», in AAVV, Morte ed immortalità.
Seminario dei docenti della Facoltà Teologica dell’Italia Centrale (Lecceto 3-6 giu-
gno 2006), Vivens Homo 17 (2006) 345-364. Ma la dormitio non figura neanche ne-
gli altri interventi di questo Seminario.

130
turgia della Compieta sceglie come responsorio al Cantico di Simeone quel
che dice il salmista (Sal 4,9):
«In pace mi corico e subito mi addormento:
tu solo, Signore, al sicuro mi fai riposare».
Purtroppo, a dispetto della quotidiana ripetizione di questo versetto, non
ci pare che l’educazione a percepire la propria morte come dormitio nel Si-
gnore abbia ottenuto grande successo. Né si deve pensare che ciò sia con-
seguenza del secolarismo del sec.XX: come vedremo in diversi dei prossi-
mi capitoli, questa difficoltà è sempre esistita, dall’epoca dei Padri fino ad
oggi. Certo, qualche contesto può acuirla più di altri, ma è solo questione di
accento, non di sostanza. La radice di questa difficoltà infatti è tutta interio-
re, o meglio è insita nelle dinamiche della vita spirituale, ed è legata al mo-
do ed alla misura in cui amiamo (o non amiamo) nostro Signore. Ma non è
il caso di anticipare l’oggetto del prossimo capitolo.
* * *
Come si vede, un’autentica ricerca sulla dormitio come immagine della
morte porta a risultati ben diversi da quelli di Lutero; rinunciarvi per timore
di riproporre quelli sembra quindi opzione poco informata, dettata più dalla
paura dell’errore che non dall’amore per la vera e sana dottrina. Ancor me-
no accettabile è tacere per timore di re-suscitare vecchie polemiche o dan-
neggiare il dialogo ecumenico: non è la verità a far danni ma l’ipocrisia di
chi tace le difficoltà. Se poi qualcuno, nel sec.XXI, ancora legge e ragiona
come nel XVI (e ce ne sono...), ebbene questo è problema suo che non deve
diventare nostro, tantomeno di tutta la comunità dei credenti.
Per la verità qualche spunto in più si sarebbe potuto reperire se avessimo
allargato la ricerca alla santissima Vergine Maria, la cui dormitio è celebra-
ta da molti Padri, in specie Giovanni di Damasco e Andrea di Creta. Senza
dubbio avremmo reperito note importanti, che specie in ambito ortodosso si
estendono con grande immediatezza a tutti gli uomini: essendo Maria icona
66
della Chiesa, la dormitio Mariae diventa icona della dormitio hominis . Su
questa falsariga è anche il Catechismo della Chiesa Cattolica: quella di
Maria è l’unica dormitio di cui fa menzione, considerata “anticipazione del-
67
la resurrezione degli altri cristiani” . Ma, se si va al di là delle metafore, lo
_____________________________
66
Cf. p.es. C. ANDRONIKOF, «La Dormition comme type de mort chrétienne», in A. PI-
STOIA - A.M. TRIACCA (edd.), La maladie et la mort du chrétien dans la Liturgie. Ac-
tes de la XXIe semaine d’ètudes liturgiques (Paris 1-4 juillet 1974), Roma 1975, 13-
29, p.es. in 23: «À l’example de la Dormition, tout office funèbre est une îcone de
l’Eglise, où la joie l’emporte sur l’affliction, car c’est la Pâque a l’œuvre».
67
Cf. CCC, n.966, che cita il Tropario della Festa della Dormizione (15 agosto).

131
status antropologico e spirituale di Maria Santissima è decisamente partico-
lare. Infatti, pur essendo sicuramente tutta e solo umana, le grazie irripetibi-
li con le quali al nostro Signore è piaciuto adornarla la rendono decisamen-
te unica tra gli esseri umani. Ciò rende almeno delicato estendere tout court
la sua situazione all’intero genere umano, se non sconsiglia del tutto il ten-
68
tarlo . Si è dovuto perciò rinunciare a questa pista di ricerca. Però non è
l’ultima, anzi: se ci muoviamo un po’ al di fuori dagli schemi abituali per
simili ricerche, è possibile sondare un itinerario alternativo molto stimolan-
te, quello della mistica.

_____________________________
68
Per giustificare questa affermazione cf. PIO XII, cost. ap. Munificentissimus Deus
(AAS 42 [1950] 770; DS n.3903; trad. nostra): «A gloria di Dio onnipotente, che e-
largì la sua peculiare benevolenza a Maria Vergine, ad onore del suo Figlio, immor-
tale Re dei secoli e vincitore del peccato e della morte, per aumentare la gloria della
stessa Maria augusta ed a gioia ed esultazione di tutta la Chiesa, con l’autorità del
Signore nostro Gesù Cristo, dei beati Apostoli Pietro e Paolo e nostra, pronunciamo,
dichiariamo e definiamo che è dogma divinamente rivelato: l’Immacolata Madre di
Dio sempre Vergine Maria, completato il corso della sua vita terrena, è stata assunta
alla gloria celeste in corpo ed anima». Dato che il suo corpo è in cielo, è chiaro che la
dormitio Mariae non è identica alla dormitio degli altri uomini: senza contare poi che
il suo non-rapporto con il peccato è ben diverso dal nostro e così via. Esplicitare que-
sti ed altri contatti e differenze avrebbe complicato l’esposizione a fronte di guadagni
dogmatici e spirituali tutto sommato poco rilevanti.

132
Capitolo 4

LA DORMITIO
COME IMMAGINE DELLA UNIO MYSTICA:
UN LEGAME POCO NOTO

Se usciamo dai confini abituali della teologia, se non arricciamo il naso a


priori di fronte a quel che non è ‘accademico’ o ‘scientifico’, allora si sco-
prirà che nella letteratura dell’antichità spesso la dormitio è ben più che una
immagine della morte: essa è icona anche della contemplazione mistica. E
siccome questa seconda immagine è particolarmente frequente a partire da
Plotino (sec.III d.C.) e in generale presso i neoplatonici, si può comprende-
re la diffusione di questo accostamento nella tarda antichità cristiana.
Con una grande differenza: Plotino, Proclo ed i neoplatonici insegnano e
cercano una unio mystica confinata entro la vita terrena, in prospettiva cri-
stiana la dormitio come immagine della contemplazione affianca e prolun-
ga quella della dormitio come immagine della morte. In altri termini, per i
cristiani la dormitio è icona di ogni tempo e modo di contemplazione, sia in
statu viae che post mortem. Naturalmente qui non è possibile esporre tutti i
termini della questione, né esaurire i legami spirituali tra le immagini o stu-
diare la dormitio/contemplatio in statu viae come anticipazione della dor-
mitio/contemplatio in patria. Nell’intento di stuzzicare la curiosità del let-
1
tore ci limiteremo a cogliere gli spunti offertici da alcuni grandi mistici .

4.1. La ‘dormitio’ e la mistica:


posizione di un rapporto

Ogni volta che ci serviamo di espressioni come ‘raffigura’, ‘è immagine


di’ e simili, rischiamo di suggerire che il legame significato-significante sia
se non arbitrario certo evanescente, se non irreale: una convenzione lingui-

_____________________________
1
Per i necessari ulteriori approfondimenti cf. B. GAIN, «Sommeil et vie spirituelle», in
DSAM, XIV, Paris 1985, coll.1033-1045, ed ai testi e saggi ivi menzionati.

133
stica, uno strumento dialettico più o meno efficace al quale però non corri-
sponde niente di oggettivo, di (per così dire) tangibile. In molti casi è così,
ed il rifiorire di una retorica un po’ casereccia moltiplica gli accostamenti
improvvisati e di fantasia. Ma in quelli ponderati l’accostamento è ‘dettato’
da una realtà terza rispetto alla coppia significato-significante, realtà che in
molti casi ‘decide’ uno o anche entrambi i membri della coppia. Ad esem-
pio, quando si raffigura la volontà di pace o dialogo come una colomba che
porta un ramoscello d’ulivo, si trae l’immagine dal racconto biblico della
fine del diluvio universale (Gen 8,11), ma la si sceglie perché nella cultura
occidentale prevale l’idea che la pace consista nella fine o nell’assenza del
dolore. Se la realtà terza fosse la cultura giapponese, allora dovremmo ri-
correre all’immagine del crisantemo, perché ‘pace’, in Giappone, è sinoni-
mo di ‘armonia’. Questa, una volta, era garantita dall’imperatore il cui ruo-
lo era simboleggiato, appunto, da un crisantemo: oggi il ruolo non c’è più
ma il simbolo è rimasto. Prescindere dalla realtà terza nella interpretazione
di immagini del genere è condannarsi a non capir niente. Ad esempio, per
mantenere l’esempio del crisantemo, questo è, in Italia, il fiore dei morti, in
Inghilterra il fiore delle nascite, in Cina e Corea quello delle spose, negli
Stati Uniti quello delle riunioni di famiglia e delle feste, in Oriente in gene-
rale è il fiore della vita e della felicità. Ovviamente nessuno di questi sim-
bolismi ha a che fare con la natura del crisantemo, ragion per cui o si li ap-
prende dalla realtà terza o non li si potrà mai dedurre da quella, tantomeno
distinguerli da quelli falsi o inventati. Last but not least, qui ci si è serviti di
esempi nei quali la ‘realtà terza’ è la cultura di un popolo, ma di solito non
è così: gran parte delle immagini dipende dall’ambito cui si rivolgono, altre
dipendono dalla cultura di chi le conia, altre infine dalle dinamiche che in-
tendono esprimere. Così, le immagini botaniche non sono tali in zoologia o
chimica, la loro evocatività dipende dalla cultura di chi le conia e le fruisce,
la comprensione delle dinamiche che esprimono è proporzionale alla cono-
scenza che si ha delle stesse.
Anche il porre la dormitio a immagine della morte o, se si preferisce la
versione più corretta del Crisostomo, la morte a immagine della dormitio,
dipende totalmente da una realtà terza. Ma quale? Nel nostro caso, trattan-
dosi di un’immagine biblica, la domanda sembrerà stupida: “È la Rivela-
zione!” si dirà. Ma al punto 1.2.2. si è visto che non è così immediato capi-
re cosa sia stato rivelato, e abbiamo dovuto dedicare l’intero secondo capi-
tolo a chiarire il significato dei passi biblici. Se la risposta non è banale, al-
lora la domanda non è poi così stupida. Vediamo fino a che punto.
Sicuramente la realtà terza dalla quale dipende l’immagine della dormi-
tio mortis non è la fisiologia del sonno, ossia lo Spirito non ha ispirato quei
passi biblici in ragione di una particolare sintonia tra la fisiologia del sonno

134
e ciò che Egli intendeva rivelare. Infatti, la presentazione della dormitio di
Lutero è all’opposto di ogni risultanza clinica, quindi, ammesso per ipotesi
che sia corretta, è evidente che non è per la fisiologia del sonno che lo Spi-
rio ha ispirato quell’immagine. L’interpretazione cattolica è molto più vici-
na al dato clinico, ma in primis non lo è tanto da trovare in essa qualcosa di
analogo alla purificazione post mortem (il nodo del contendere con Lutero),
in secundis si è sviluppata prescindendo completamente da essa. Persino la
definizione dogmatica del purificatorio, la bolla Benedictus Deus del 1336,
ignora completamente l’immagine della dormitio mortis, quindi questa non
ha niente a che fare con la posizione cattolica sul purificatorio. Anche se ci
liberiamo da questa connessione falsa e capziosa le cose non cambiano: né
i Padri né i medievali fondano sulla fisiologia del sonno il loro uso (o non
2
uso) dell’immagine della dormitio .
La realtà terza dalla quale dipende l’immagine della dormitio mortis non
è neanche la lettura escatologica della storia, ossia constatare che ogni uo-
mo muore per risorgere. È assolutamente vero che i nostri Padri, e dopo di
loro tutti i teologi, protestanti compresi, vedono la morte in funzione della
resurrezione, ma questa riguarda solo il corpo. È infatti il corpo che perde
la vita ed è il corpo che risorge, non l’io personale, che non muore mai: nel
Simbolo di fede proclamiamo “credo la resurrezione della carne”, anche se
3
sistematicamente mal tradotto con ‘la resurrezione dei morti” . Ora, la mia
resurrezione è l’estremità distale di un ‘ponte’ metafisico-spirituale alla cui
_____________________________
2
Per quel che riguarda i Padri, lo si è visto ad abundantiam. Tra i medievali l’uso del-
la dormitio come immagine della morte non è frequente e, a nostra conoscenza, il so-
lo che collega la dormitio mortis e la fisiologia del sonno è ALBERTO MAGNO, Super
Iohannem, c.11, su Gv 11,11ss (Borgnet 24, 442b): ma, oltre che servirsi di una fisio-
logia oggi improponibile, Alberto si limita a stabilire dei paralleli senza approfondi-
re. Il silenzio è totale anche in ALBERTO MAGNO, De morte et vita: l’unica occorren-
za di dormitio (tr.2, c.9; Borgnet 9, 366) è insignificante. Questo su centinaia e centi-
naia di occorrenze, che in Tommaso d’Aquino si riducono a 10, tutte inafferenti seb-
bene l’immagine sia nota ed accettata: cf. TOMMASO D’AQUINO, Super Iohannem, su
Gv 11, lectio 3, n.1495 (testo corpusthomisticum.org; trad. nostra): «La morte è detta
‘sonno’ a causa della speranza della resurrezione; e perciò si è soliti chiamare dormi-
tio la morte». Su quel che Tommaso scrive poco prima dovremo però tornare.
3
A questo riguardo è istruttiva (o avvilente) la lettura della nota della CONGREGAZIO-
NE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, «Traduzione dell’articolo “carnis resurrectionem”
del Simbolo Apostolico», Notitiae 20 (1984) 180-181: in nota sono riportate le tradu-
zioni dei Messali italiano, francese, inglese, portoghese, spagnolo, tedesco, e non una
è corretta. Possibile che nessuno in quelle Chiese si sia mai reso conto che dire ‘re-
surrezione della carne’ è incredibilmente diverso dal dire ‘resurrezione dei morti’? E
perché la stessa Congregazione si limita a raccomandare la correzione di quelle ver-
sioni mentre vieta di adottare il lemma ‘dei morti’ nelle nuove?

135
estremità prossimale è la mia morte personale; la dormitio coincide con la
campata-durata di questo ‘ponte’, ma nessuna delle due estremità mi dice
qualcosa su di essa. So quando e come inizia (con la separazione tra me ed
il mio corpo che avviene alla mia morte), so quando e come finisce (con il
ricongiungimento al mio corpo nella resurrezione), ma da ciò non ho alcu-
na informazione su quel che accade tra l’inizio e la fine. Quindi non è dalla
fede nella resurrezione della carne che posso capire perché lo Spirito ha vo-
luto descrivere la morte servendosi dell’immagine della dormitio.
Ma, si dirà, se la realtà che ‘detta’ l’immagine della dormitio mortis non
è né a parte naturae, perché la fisiologia del sonno non ha niente a che ve-
dere con la dormitio metafisico-spirituale, né a parte supranaturae, perché
dalla resurrezione della carne non apprendiamo nulla su quel che prima ac-
cade allo spirito, allora che realtà è? In effetti tra natura e sopranatura vi è
un terzo status, che de iure appartiene alla prima ma de facto porta alla se-
conda con l’aiuto preponderante della grazia di Dio: si tratta della vita spi-
rituale e delle sue dinamiche.
Le dinamiche spirituali sono numerose, complesse, variano ad personam
e soprattutto sono poco note ai più. Se Dio vuole e ce ne darà forze e capa-
cità, dedicheremo un saggio a sé alla loro descrizione. Qui però non vi è bi-
sogno di entrare nei dettagli: è sufficiente cogliere la misura in cui quelle
dinamiche ci aiutano a capire la ragione spirituale per la quale lo Spirito ha
scelto di descrivere la morte proprio come dormitio. Naturalmente dovremo
avvicinarci ad esse gradualmente.
* * *
Il primo passo è scoprire se ed in che misura veramente tra dormitio e vi-
ta spirituale esista un legame non retorico ma reale. Un primo indizio lo si
può reperire in un inciso nell’Adversos iudaeos di Agostino:
«Non vogliamo spronarvi, voi che dormite un sonno profondo e grave, verso
le cose spirituali che non capite; né intendiamo ora persuadere voi, che nella
vista e nell’udito delle cose spirituali siete sordi e ciechi e non capite come
4
queste cose siano da intendere in modo spirituale» .
Il Doctor gratiae sta commentando alcuni passi dell’AT, il cui significa-
to è diverso per cristiani ed ebrei. Agostino equipara il sonno dell’anima al-
la sordità e cecità spirituali; queste però non consistono tanto nel non capire
il senso spirituale di questo o quel passo biblico quanto, ed ancor prima, nel
non intuire l’esistenza di tal significato. Il finale del brano è chiaro: la dor-
mitio spirituale è in primis ignoranza della stessa dimensione spirituale.
Tuttavia il contesto polemico di questo che in fondo è solo un inciso non
_____________________________
4
AGOSTINO, Adversus iudaeos tractatus, 8, 11 (PL 42, 59; NBA 12/1, 427).

136
ci garantisce che questa sia davvero l’opinione di Agostino. Ecco però cosa
si legge altrove, stavolta rivolto a dei cristiani:
«Durante la lettura del Vangelo hai ascoltato che si scatenò una violenta
tempesta e la barca era sbattuta e ricoperta dalle onde (cf. Mt 8,24). Perché?
Perché Cristo dormiva. Non è solo quando dimentichi la tua fede che Cristo
dorme nel tuo cuore? La fede di Cristo nel tuo cuore è come Cristo nella
barca. Ascolti insulti, ti affatichi, sei sconvolto: Cristo dorme. Desta Cristo,
desta la tua fede! Persino nel turbamento sei in grado di fare qualcosa. Sve-
5
glia la tua fede» .
In questo passo Agostino menziona due ‘sonni’: Cristo che dorme nella
barca è figura della fede che dorme nel cuore del cristiano quando questi si
sente oppresso dalle difficoltà della fedeltà. In parallelo menziona anche
due risvegli: quello di Cristo che placa la tempesta è figura di quello del fe-
dele che capisce il senso delle sue sofferenze alla luce della sua fede risve-
gliata. Così anche qui la dormitio significa ignoranza della dimensione spi-
rituale, stavolta non della Scrittura ma di quel che ci accade. E siamo fuori
di ogni polemica, in uno schietto contesto parenetico.
Ma, per fugare ogni dubbio residuo, leggiamo un ultimo testo:
«(Sal 62,2): “Dio, Dio mio, presso di te veglio fin dall’alba”. Che significa
‘vegliare’? Significa ‘non dormire’. E ‘dormire’ che cosa significa? C’è un
sonno dell'anima e c'è un sonno del corpo. Tutti dobbiamo avere il sonno del
corpo perché, se non si avesse il sonno del corpo, l’uomo non reggerebbe e
il corpo verrebbe meno. Il nostro fragile corpo non può infatti sostenere a
lungo l’anima perennemente vigile e intenta ad agire. Se l’anima sarà a lun-
go intenta alle sue azioni, il corpo, fragile e terreno, non la potrà reggere,
non riuscirà a sostenerla nel suo perpetuo agire: verrà meno e soccomberà.
Per questo Dio ha accordato al corpo il dono del sonno con il quale vengono
ristorate le membra, in modo che possano reggere l’anima vigile.
Quello che dobbiamo evitare è il sonno dell’anima nostra. Brutta cosa è il
sonno dell’anima! Tanto brutta quanto bello è il sonno del corpo, con il qua-
le si ristora la salute. Sonno dell’anima è dimenticare Dio; e ogni anima che
dimentica il suo Dio dorme. Per questo l’Apostolo si rivolge a certuni che
avevano dimenticato il loro Dio e, come in preda al sonno, si abbandonava-
no ai vaneggiamenti del culto idolatrico. Così infatti si comportano coloro
che adorano gli idoli: come coloro che nel sonno vedono fantasmi. Se inve-
ce la loro anima si svegliasse, comprenderebbe da chi è stata creata e non
adorerebbe ciò che essa stessa si è costruito. Dice dunque l’Apostolo (Ef
_____________________________
5
AGOSTINO, Sermones, sermo 163b, 6 (CCsl 41/2b, 254s; trad. nostra). Parallelo è
AGOSTINO, Enarrationes in psalmos, sul Sal 34, sermo 1, 3 (CCsl 38, 301s: NBA 25;
673), ma cf. anche AGOSTINO, Sermones, sermo 47, 3 (CCsl 41, 573; NBA 29, 865);
sermo 81, 8 (PL 38, 504; NBA 30/1, 607); sermo 361, 7, 7 (PL 39, 1062; NBA 34,
353ss); Enarrationes in psalmos, sul Sal 93, 25 (CCsl 39, 1326; NBA 27, 295).

137
5,14): “Sorgi, tu che dormi, e lèvati di tra i morti; e Cristo ti illuminerà”.
Voleva forse l’Apostolo svegliare uno che fosse solo materialmente addor-
mentato? No, svegliava l’anima addormentata spingendola a farsi illuminare
da Cristo. Orbene, riferendosi alla veglia dell’anima, questi (i.e. il salmista)
dice: “Dio, Dio mio, presso di te veglio fin dall’alba”. Non veglieresti spiri-
tualmente se non fosse sorta la tua luce, la quale ti ha svegliato dal sonno.
Perché è Cristo che illumina le anime e le rende deste. Se egli ritirasse la sua
luce, esse si addormenterebbero. Per questo a lui è detto in un altro salmo
(Sal 12,4): “Illumina i miei occhi, affinché mai mi addormenti nella morte”.
Anche se certe anime, distogliendo da lui lo sguardo, si sono addormentate,
la luce è ugualmente presente a loro; solo che esse non la possono vedere
perché dormono. È come quando uno dorme di giorno. Il sole è già sorto, il
giorno è caldo, ma per quel tale è come se fosse notte: non essendo sveglio,
non può vedere che è già spuntato il giorno. Così è per alcuni. Cristo è già
presente, la verità è stata predicata, ma le loro anime dormono ancora. Eb-
bene, a costoro voi, se siete svegli, dite ogni giorno: “Sorgi, tu che dormi, e
lèvati di tra i morti; e Cristo ti illuminerà”. Perché la vostra condotta, i vostri
costumi debbono in Cristo essere cosa viva, desta, affinché li notino gli altri,
i pagani che dormono, al rumore della vostra alacrità si sveglino e, scuoten-
dosi di dosso il sonno, comincino a dire insieme con voi in Cristo: “Dio, Dio
6
mio, presso di te veglio fin dall’alba”» .
Agostino è chiaro. Esiste un sonno del corpo ed un sonno dell’anima. Il
primo consiste nel riposo del corpo, il secondo nella dimenticanza di Dio. Il
primo è indispensabile per vivere, il secondo porta alla morte eterna. Per la
verità Agostino qui non arriva a tanto, ma è conclusione facile a ricavarsi
da altri brani. Rispetto ai passi precedenti questo è perciò molto più netto
nell’affemare l’esistenza di una dormitio spirituale.
Per reperire altri passi, magari in altri Padri, sarebbe sufficiente indagare
le esegesi dei molti versetti evangelici che invitano alla vigilanza, come per
esempio Matteo 26,41:
«Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione»,
ma sarebbe lavoro eccedente ed anche inutile. Stabilito infatti che la veglia
è lo status opposto alla dormitio, se per non cadere in tentazione bisogna
vegliare è ovvio che chi dorme non potrà evitarla, come del resto Agostino
ci ha già spiegato. Dunque, invece di attardarci a mostrare quel che ormai
già si può dare per acquisito, ossia il lato negativo della dormitio spirituale,
conviene sondare un altro versante della dormitio spirituale, meno noto e
più complesso ma assai importante perché positivo. Ci riferiamo al signifi-
cato mistico della dormitio.

_____________________________
6
AGOSTINO, Enarrationes in psalmos, sul Sal 62, 4 (CCsl 39, 79ss; NBA 26, 393ss).

138
4.2. La ‘dormitio’ immagine della ‘unio mystica’:
le linee di fondo

Come sempre accade quando si coinvolge la mistica, scegliere il punto di


partenza non è facile. Il migliore ci pare quel che Gregorio Magno scrive
commentando un oscuro passo di Giobbe; ecco il testo (Gb 4,12s vulg.):
«Mi fu detto un verbo nascosto e come furtivamente l’orecchio mio accolse
le vene del suo sussurrare nell’orrore della visione notturna, quando il sopo-
7
re suole dominare gli uomini» .
Chi parla qui è Elifaz, amico di Giobbe che pronuncia queste parole do-
po averlo invitato a fare un esame di coscienza per cercare in sé la causa
dei mali che lo affliggono. Se però Elifaz intendeva dire di aver ricevuto al
riguardo una qualche rivelazione personale, certo lo fa in termini oscuri.
Commentando la prima parte del passo, il nostro santo Padre Gregorio
identifica il “verbo nascosto” con il Verbo di Dio invisibile, e spiega la sua
accoglienza furtiva con il fatto che «La mente, sotto l’ispirazione, conosce
8
solo per un istante ed in modo occulto le parole interiori» . Abbiamo dedi-
9
cato un intero saggio alle modalità d’ispirazione della Scrittura , perciò qui
si accantonano le osservazioni che suscitano le parole di Gregorio; vediamo
invece come interpreta la seconda parte:
«L’orrore della visione notturna è il timore che nasce dall’occulta contem-
plazione. Infatti la mente umana, quanto più viene elevata a considerare le
cose terrene, tanto più trema di paura per le opere temporali. Si sente infatti
realmente tanto più colpevole quanto più si rende conto di essere stata lonta-
_____________________________
7
Il passo è irriconoscibile in CEI08: «A me fu recata, furtiva, una parola e il mio orec-
chio ne percepì il lieve sussurro. Negli incubi delle visioni notturne [CEI73 nei fanta-
smi, tra visioni notturne], quando grava sugli uomini il torpore [CEI73 sonno]». CEI
ha qualche vicinanza con TM: «A me fu portata di nascosto una parola, percepì il mio
orecchio il bisbiglio assegnato (?); nei pensieri, nelle visioni/rivelazioni della notte,
nel cadere del sonno profondo sopra gli uomini», ma come si vede non è da esaltare
più di tanto, soprattutto perché separa i due versetti. Lontanissima è la LXX: «Se una
qualche parola vera (rêma alêthinòn) è sorta nei miei discorsi (logoi), certamente a te
di queste cose male non sarebbe giunto; forse non riceve il mio orecchio cose fuori
dall’ordinario da lui? Cose spaventose (phoboi) infatti e fragori notturni stanno get-
tando paura fra gli uomini». Poiché vulg. è così lontana da LXX e TM, è evidente che
Gerolamo non legge nessuna delle due, né l’ebraico alla base di LXX.
8
Cf. GREGORIO MAGNO, Moralia in Iob, V, 51 (PL 75, 706; trad. it. I, 178).
9
Cf. A. ARA, “Scrivi in un libro quel che ti dirò”. La Rivelazione come Ispirazione,
Beau Bassin 2018.

139
na da quella luce che l’illumina dall’alto. Più luce riceve e più teme, veden-
do in quante cose sia discordante dalla regola della verità; il suo stesso pro-
gresso la fa tremare di paura, mentre prima si riteneva sicura di sé, appunto
perché non vedeva niente. Anzi, per quanto grande sia il suo progresso, non
arriva a farsi un’idea chiara dell’eternità, ma vede ancora come avvolta nella
nebbia dell’immaginazione. E questa è appunto la “visione notturna”. Di
notte infatti si vedono le cose incerte, di giorno invece ben distinte. Così,
quando contempliamo il sole dell’anima, si frappongono le nubi della nostra
corruzione, e quella luce immutabile non può giungere tale e quale ai deboli
occhi della nostra mente; così vediamo Dio come in una visione notturna,
perché ci troviamo all’oscuro in una contemplazione indistinta. Ma, per po-
co che sia quel che la mente arriva ad intendere di Lui, pure si sente atterrita
a considerare la sua grandezza, e teme ancora di più nel sentirsi inadeguata
persino alla più elementare contemplazione e, ricadendo su di sé, sente di
amare più vivamente Lui, di cui non è in grado di sopportare la meravigliosa
dolcezza, anche se gustata solo in incerta visione. Siccome non si giunge a
questa sublime altezza se prima non si reprime lo strepito importuno dei
molti desideri carnali, (Giobbe) dice a proposito “Quando il sonno suole do-
minare gli uomini”.
Chiunque desidera occuparsi delle cose del mondo, è come se stesse sve-
glio; ma chi cerca la quiete interiore, e perciò fugge lo strepito del mondo, è
come uno che si addormenta. Prima però è necessario sapere che nella sacra
Scrittura il sonno si prende in tre diversi sensi figurativi: o come moto della
carne, o come torpore di negligenza e finalmente come quiete dell’anima
dopo che ha calpestato i desideri terreni. In quest’ultimo senso dice il Canti-
co dei cantici (ubi?): ‘Io dormo, ma il mio cuore vigila’; poiché la mente di
un santo più si libera dallo strepito della contemplazione temporale, con tan-
to maggior verità conosce le cose interiori, e con tanto più verità vigila sulla
sua vita intima quanto più si sottrae alla inquietitudine interiore (...).
Ci sono quelli che fuggono sì le azioni del mondo, ma non si esercitano in
nessuna virtù: essi dormono per torpore e non per ardore (...) e spesso loro
avviene che quanto più si astengono dall’attività interiore, tanto più con il
loro ozio si attirano addosso lo strepito dei pensieri immondi (...), gli spiriti
maligni fanno servire ad illecite immaginazioni il suo tempo libero: si crede
che quell’anima segregata da ogni attività di mondo pensi solo a servire Dio,
ed invece con i suoi pensieri illeciti si fa schiava del tiranno infernale. Inve-
ce i santi, addormentati al mondo non per pigrizia ma per virtù, lavorano di
più in questo sonno spirituale che non quando erano svegli nell’attività mon-
dana. Infatti, dopo averla abbandonata e vinta, ogni giorno combattono du-
ramente contro se stessi, perché la mente non si intorpidisca per negligenza,
perché non si raffreddi nel fervore dandosi all’ozio e perdendosi in desideri
immondi, ed anche perché negli stessi buoni desideri non s’infervori ecces-
sivamente, o si tratti con troppo riguardo con il pretesto della discrezione, e
così illanguidisca la sua ricerca di perfezione. Così fa l’anima, e si sottrae
completamente all’inquieta concupiscenza di questo mondo, abbandona lo

140
strepito dell’attività terrena e nella calma attende con impegno all’acquisto
10
delle virtàù: così essa dorme e veglia» .
Il brano è piuttosto denso, e si presterebbe ad osservazioni di molti gene-
ri: qui ci limitiamo solo a quelle più afferenti al nostro tema, indagare la
dormitio come immagine della morte. Nei capitoli precedenti ci si è occu-
pati di quella dormitio che Gregorio chiama ‘della carne’, anche se lui si ri-
ferisce al sonno e non alla morte; nel punto appena concluso si è appresa la
esistenza di una dormitio spirituale che qui Gregorio chiama ‘negligenza’ e
che porta alla morte seconda o dannazione. Ma la seconda dormitio spiri-
tuale che qui Gregorio introduce è un tipo di ‘morte’, quella al mondo, ben
diversa dalla separazione dell’anima dal corpo, e però tutt’altro che simbo-
lica o metaforica. Poiché non è punto semplice da esporre e tuttavia molto
importante, andiamo per gradi.
Partendo dalla Scrittura ed esaminando il contributo dei nostri santi Pa-
dri, abbiamo assodato che la morte, intesa come separazione dell’anima dal
corpo, può essere rappresentata come dormitio, un ‘sonno’ che però è ben
distinto, anche terminologicamente, da quello quotidiano. Tuttavia, sin dal-
la prima posizione della questione, si è dovuto constatare che la dormitio
come immagine della morte non ha in sè l’idea di passività o inattività: non
è mai mera attesa. Questa concezione, luterana, comporta il rifiuto o alme-
no lo sconvolgimento della dottrina cattolica del purificatorio, cosa gradita
ai riformati ma priva di ogni appoggio nella Scrittura, nei Padri e nel Magi-
stero, del tutto estranea alla fisiologia del sonno e persino alla banale espe-
rienza quotidiana. In termini semplici, è del tutto campata per aria.
Ora, questa che è la pars destruens la si è già esaminata ed esaurita a suo
luogo, ma senza una adeguata pars costruens il lavoro rimane a metà e non
vi è alcuna edificazione, né spirituale né dogmatica. Da sola quindi non è a
favore di nostro Signore ma piuttosto a quella del nostro nemico, poiché si
limita ad alimentare la divisione. Questo excursus sulla valenza spirituale
della dormitio ha come obiettivo mostrare che la dormitio come immagine
della morte non è affatto sinonimo di passività, inattività o quant’altro Lu-
tero vi ha voluto vedere, ma al contrario esprime il culmine dell’attività di
vigilanza spirituale che inizia qui, in statu viae, e continua post mortem fi-
no a perfezionarsi in patria. È tempo di contemplazione sia in statu viae
che in patria. E Gregorio qui spiega come e perché. Dato che in statu viae
siamo presi da molte e spesso inevitabili occupazioni, la nostra contempla-
zione non può che essere momentanea, mescolata ad oscurità e timore. Pe-
rò, nella misura in cui il santo si stacca da tale strepito (come direbbe Gre-

_____________________________
10
GREGORIO MAGNO, Moralia in Iob, V, 53ss (PL 75, 707ss; trad. it. 179ss).

141
gorio), ossia nella misura in cui spiritualmente ‘muore al mondo’, egli rag-
giunge livelli contemplativi sempre più alti: questo crescente distacco Gre-
gorio lo indica con il termine ‘sonno’. Quindi, la dormitio spirituale della
mistica è anch’essa una ‘morte’ come la dormitio fisica, solo che questa si
riferisce ad un distacco materiale, quella ad uno spirituale che però ha pure
lui inevitabili ed essenziali risvolti materiali.
Ma vi è molto di più. Se poniamo mente alla prima parte del passo, quel-
la nella quale Gregorio illustra il senso dell’espressione “Orrore della vi-
sione notturna”, scopriamo che la radice di quel timore/orrore è duplice: la
percezione del proprio peccato e la consapevolezza della propria piccolez-
za. Questo duplice atteggiamento di fronte all’immensità di Dio è provoca-
to dall’amore che si prova per Lui e provoca a sua volta quella che Grego-
rio chiama dormitio spirituale. Ora, questo è esattamente l’atteggiamento e
lo status spirituale di coloro che sono purificati post mortem, così come lo
descrivono tutti i santi mistici che hanno ricevuto il dono di assistere a tale
meravigliosa operazione: invincibilmente attratti dall’irresistibile amore per
Dio che cresce nei loro cuori per dono della grazia, queste anime soffrono
per la lontananza dall’Amato imposta loro da imperfezioni e piccolezze che
però l’amore di Dio incessantemente lima e smussa e sminuzza e riduce a
11
niente . Ma, se questo stesso atteggiamento e status spirituale in statu viae
_____________________________
11
Cf. p.es. CATERINA DA GENOVA, Trattato sul Purgatorio (Lovison, 248s): «Per que-
sto non credo davvero che si possa trovare contentezza paragonabile a quella di una
anima del Purgatorio - se non nel caso di quella dei santi del Paradiso - che cresce di
giorno in giorno grazie all’influsso di Dio, tanto più forte quanto più consuma gli
impedimenti che gli si oppongono. Ed è la ruggine del peccato l’impedimento che il
fuoco va consumando, permettendo così sempre più all’anima di aprirsi all’influsso
divino. Potrebbe essere pertanto paragonata ad un oggetto che, una volta coperto, non
può più ricevere i raggi del sole, non per colpa sua naturalmente, dato che in conti-
nuazione gli dà luce, ma per quell’ostacolo costituito dalla sua copertura. Una volta
che quest’ultima si consumerà, allora sì potrà esporsi al sole, ricevendo tanto meglio
i suoi raggi quanto più essa diminuirà. In tal modo la ruggine, cioè il peccato, che è
la copertura delle anime, grazie al fuoco del Purgatorio a poco a poco si consuma e,
quanto più si consuma, tanto più l’anima si sente in grado ci corrispondere al solo ve-
ro Dio. Per questo motivo, fino a che il tempo non sia terminato, al diminuire della
ruggine ed al suo scoprirsi ai raggi divini, l’anima vede crescere la sua contentezza.
Non per questo però le viene a mancare la pena, ma solo il tempo di rimanerci, ben-
chè mai esse possano dire che quelle pene siano tali, tanto si accontentano dell’ordi-
nazione di Dio a cui uniscono la loro volontà nella pura carità. D’altra parte, poi, por-
tano una pena così estrema che a parole non può essere narrata, né se ne potrebbe
comprendere una minima parte se non fosse mostrata da Dio con una grazia speciale
che, per grazia, Egli mostrò alla mia anima. Anche se a parole non la posso esprime-
re, questa visione non l’ho più dimenticata e vi dirò quello che potrò, affinchè ne in-
tendano coloro ai quali il Signore vorrà illuminare la mente». In questa sede è impos-
(segue)

142
è detto ‘dormitio spirituale’, allora la dormitio spirituale è metafisicamente
e spiritualmente sinonima della purificazione post mortem, se non altro nel-
la misura in cui entrambe implicano una certa ‘morte’ al mondo. E poiché
la dormitio spirituale comporta una ‘morte’ al mondo così come la dormitio
fisica, allora tra la dormitio come immagine della morte, la dormitio come
immagine della contemplazione e la purificazione post mortem vi sono affi-
nità metafisiche e spirituali molto forti. Vediamole nei dettagli.
Tutte in primis esigono una ‘morte’: quella della dormitio fisica consiste
nella separazione del corpo dall’anima, quella della dormitio spirituale con-
siste nel separare se stessi dal mondo, quella della purificazione post mor-
tem consiste nell’essere separati da ciò che Caterina da Genova chiama la
‘ruggine del peccato’, quel che di esso rimane nello spirito dopo la morte.
Tutte, in secundis, implicano una ‘sofferenza’: quella della dormitio fisi-
ca nasce dalla rottura dell’unità metafisica essenziale della persona umana,
quella della dormitio spirituale nasce dalla fatica del combattere l’incessan-
te ‘guerra dei pensieri’, quella della purificazione post mortem nasce dalla
ricerca, individuazione ed eliminazione in noi, da parte dello Spirito di fuo-
co, di ogni e qualunque traccia di impurità e imperfezione.
Tutte, in tertiis, comportano una ‘dilatazione’: quella della dormitio fisi-
12
ca consiste nel superamento delle limitazioni legate al corpo , quella della
dormitio spirituale consiste nella dilatatio cordis che lo Spirito opera nella
anima dei suoi santi, quella della purificazione post mortem consiste nel di-
venire per grazia come Dio è per natura.
Tutte, infine, vedono preponderante l’azione della grazia, che inizia, per-
feziona e conclude le tre ‘separazioni’-‘dilatazioni’ dando al fedele la forza
di sopportare le inevitabili ‘doglie del parto’, come direbbe Paolo.
Come si vede, le dinamiche spirituali e metafisiche sono profondamente
affini, e tutt’altro che statiche, passive o inattive. Si potrebbe anzi supporre
che vi sia un’unica dinamica spirituale e metafisica, la dormitio spirituale,
che inizia in statu viae e prosegue nella purificazione post mortem, ed alla
quale si sovrappone, per un certo tempo, la dormitio fisica. Questa termine-
rà con la resurrezione della carne, quella, la dormitio spirituale, invece può
raggiungere il suo culmine anche prima, come insegna e definisce la costi-
13
tuzione Benedictus Deus di Benedetto XII (1336) .
______________________________
sibile dir di più. Dedicheremo al Purificatorio un saggio a sé.
12
Il fatto che l’escatologia odierna quasi ignori le questione delle doti del corpo risorto,
oltre che mutilare gravemente la dottrina cristiana, impedisce la consapevolezza della
differenza tra la visione cristiana del corpo e quella ateo-pagana.
13
Questa definizione è tanto importante in escatologia quanto poco nota; cf. BENEDET-
TO XII, cost. dogm. Benedictus Deus (DS n.1000; trad. it. CCC, n.954, rivista ed in-
(segue)

143
A queste osservazioni si potrebbe però obiettare che vanno ben al di là di
quanto si legge nella lettera del passo di Gregorio, e quindi, condivisibili o
no, de facto sovradeterminano il brano in modi e misure inaccettabili.
Ora, se avessimo inteso dedurre queste osservazioni dal passo di Grego-
rio, certamente l’obiezione coglierebbe nel segno, e dovremmo ammettere
che le nostre note sono di gran lunga al di là di ciò che si legge nel testo.
Tuttavia, come già anticipato all’inizio di questo punto, il procedimento so-
litamente adottato in queste pagine (si riporta un testo e commentandolo se
ne traggono elementi che vengono sviluppati leggendo altri passi) qui non è
applicabile: non solo richiederebbe la lettura di molti altri testi ma solleve-
rebbe questioni assai lontane da ciò che ci interessa. I nostri scopi sono più
limitati: in primis, dimostrare che la dormitio è fisica ma anche spirituale,
in secundis, illustrarne la dinamica profonda, in tertiis, mostrare la conti-
nuità escatologica della dormitio spirituale. In altri termini, ci preme riabili-
tare la dormitio come immagine della morte, screditata dalla angusta acce-
zione luterana, e proporla come chiave di lettura spirituale: il passo di Gre-
gorio, così come quelli che leggeremo tra poco, ha solo la funzione di pre-
testo per fornire alcune note in tal senso e con tale scopo.
Con ciò, è comunque vero che le osservazioni sopra proposte non devo-
no sembrare farina del nostro sacco e giustapposte a questo o quel passo
______________________________
tegrata): «Con la nostra apostolica autorità definiamo che, per disposizione generale
di Dio, le anime di tutti i santi morti prima della passione di Cristo, nonché dei santi
Apostoli, martiri, confessori vergini e quelle di tutti gli altri fedeli defunti morti dopo
aver ricevuto il santo Battesimo di Cristo, nelle quali non vi fu niente da purificare o,
per quelle che moriranno in futuro, non ci sarà (niente da purificare), oppure, se in
esse ci sarà stato o ci sarà qualcosa da purificare, quando si saranno purificate dopo
la morte, (...) anche prima della resurrezione dei loro corpi e del Giudizio Universale,
dopo l’Ascensione di nostro Signore Gesù Cristo in cielo, sono state, sono e saranno
in cielo, nel regno dei cieli e in paradiso celeste con Cristo, associate all’assemblea
dei santi angeli, e che, dopo la passione e la morte del nostro Signore Gesù Cristo,
esse hanno visto e vedono la divina essenza con una visione intuitiva e faccia a fac-
cia, senza la mediazione di alcuna cosa creata come oggetto visto; la divina essenza
si mostra loro immediatamente, nudamente, chiaramente ed apertamente. E le anime
di quelli che ormai sono morti, avendo tale visione, godono della medesima divina
essenza e, in virtù di tale visione e godimento, sono veramente beate ed hanno la vita
e la pace eterna. Ed anche le anime di quelli che moriranno in seguito vedranno la
medesima divina essenza e godranno della stessa prima del Giudizio Universale. La
visione di tale natura, dell’essenza divina ed il suo godimento, fanno cessare in loro
l’atto della fede e della speranza, in quanto la fede e la speranza sono virtù propria-
mente teologali. Dal momento in cui, in loro, tale visione intuitiva e faccia a faccia
ed il suo godimento sono iniziati, la medesima visione ed il godimento esistono sen-
za alcuna interruzione o diminuzione (sine aliqua intercisione seu evacuatione), e
continuerà fino al giudizio finale e da allora in sempiterno».

144
biblico o patristico per ammantarle di una autorità che di per sé non hanno.
Al contrario, devono rivelare la loro origine nella Scrittura, nella Tradizio-
ne o nel Magistero: nel nostro caso specifico, negli scritti di qualche misti-
co la cui autorevolezza non sia discutibile.

4.3. La ‘dormitio mystica’:


il contributo medievale

Per quanto stimolante, l’uso dogmatico delle opere di mistica non è sem-
plice: richiede competenze di un genere particolare, contestualizzazioni che
14
vanno al di là dell’aspetto storiografico, sensibilità che non tutti hanno .
Poiché qui non possiamo ricostruire l’accumularsi delle molte accezioni
mistiche di dormitio maturate in secoli di meditazione e preghiera, iniziamo
con il presentare come ne parla un autore molto importante del sec.XIII,
Tommaso d’Aquino. Nella sua lectura su Giovanni leggiamo:
«Il termine ‘sonno’ si può intendere in vari modi. Talvolta si prende per il
sonno naturale, come nei seguenti passi della Scrittura (1Re 3,15): “Samuele
dormì fino al mattino”, (Gb 11,18) “Ti sentirai fiducioso e dormirai tranquil-
lo. Altre volte sta ad indicare il sonno della morte, come in quel passo pao-
lino (1Tess 4,13): “Non vogliamo che voi siate nell’ignoranza circa quelli
che si sono addormentati, affinchè non vi rattristiate come gli altri che non
hanno speranza”. Talora indica la negligenza, come nella frase del salmista
(Sal 120,4): “Ecco non si addormenterà né dormirà chi protegge Israele”, o
il sonno della colpa, come in quel passo della lettera agli Efesini (Ef 5,14):
“Svegliati, o tu che dormi, e risorgi dai morti”. Talora indica la quiete della
contemplazione, come nella frase (Ct 5,2): “Io dormo ma il mio cuore ve-
glia”. Ed altrove indica la quiete della gloria futura, come in quelle parole
dei salmi (Sal 4,9): “In pace, in lui stesso, mi corico e mi addormento”. La
morte viene denominata ‘sonno’ per la speranza della resurrezione; perciò si
cominciò a chiamarla dormitio da quando Cristo è morto ed è resuscitato,
secondo le parole profetiche del salmista (Sal 3,6): “Mi coricai e mi addor-
15
mentai, ed ecco sono risorto”» .
Chiaramente qui Tommaso sintetizza l’insegnamento di Agostino e Gre-
gorio; purtroppo però nel testo si perde l’afflato mistico di entrambi, anche
se certo l’Aquinate lo percepiva bene.
_____________________________
14
Ottima introduzione a questa problematica è in J.-P. ALBERT, «L’écriture des mysti-
ques: affirmation ou effacement du sujet?», in A. IUSO (ed.), Scritture di donne. Uno
sguardo europeo. Atti del convegno del 12 e 13 marzo 1999, Arezzo 1999, 22-32.
15
TOMMASO D’AQUINO, Super Iohannem, su Gv 11, lectio 3, n.1495 (testo da corpus-
thomisticum.org; trad. it. II, 249). Si è già letta la parte finale al punto 4.1.

145
In effetti il passo è un esempio di quella che i tecnici chiamano ‘mistica
intellettuale’, ossia l’esposizione sistematica di ciò che il mistico apprende
esperienzialmente (mistica affettiva). In verità un purista potrebbe contesta-
re con ottime ragioni la nostra distinzione, perché le cose stanno in termini
16
diversi da più di un punto di vista . La nostra però è solo una distinzione di
lavoro, finalizzata agli scopi ridotti di questo breve punto. Stabilito dunque
di chiamare ‘mistica intellettuale’ la ri-dizione sistematica di quel che si è
appreso esperienzialmente in prima persona, per semplicità limiteremo il
nostro excursus a passi di questo tenore.
Il primo brano utile ce lo fornisce Bernardo di Chiaravalle (1090-1153),
santo, vescovo e Dottore della Chiesa, in questo splendido Sermone:
«(Ct 2,7): “Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, per le gazzelle o per le
cerve dei campi: non destate, non scuotete dal sonno l’amata, finché essa
non lo voglia”.
Si proibisce alle giovinette, queste infatti chiama ‘figlie di Gerusalemme’,
perché anche se delicate e molli e quasi ancora inferme per gli affetti e le a-
zioni femminee, aderiscono tuttavia alla sposa con la speranza di progredire
e di andare a Gerusalemme. Si vieta dunque loro di disturbare la sposa che
dorme, perché contro la sua volontà non osino affatto svegliarla. Per questo
infatti il dolcissimo sposo ha posto la mano sinistra sotto il capo, secondo
quanto è stato già detto (cf. sermo 51, su Ct 2,6), per farla riposare e dormire
nel suo seno. Ed ora, come prosegue la Scrittura, Egli stesso come suo cu-
stode, con somma degnazione e benevolenza veglia su di lei, perché non sia
costretta a svegliarsi disturbata dalle frequenti e minute necessità delle gio-
vinette. Questo è il decorso letterale del testo. Tuttavia quello scongiuro fat-
to “per le gazzelle e le cerve dei campi” non sembra affatto avere una ragio-
ne di star lì secondo il filo letterale del discorso: perciò tutto il motivo di
queste parole sta nel loro senso spirituale. Ma, qualunque esso sia, intanto “è
cosa buona per noi stare qui” (Mt 17,4) e scrutare un poco la bontà della di-
vina natura, la sua soavità, la sua degnazione. Che cosa mai infatti tu, uomo,
hai sperimentato negli umani affetti di più dolce di quello che ora ti viene
espresso del cuore dell’Altissimo? E ti viene espresso da Colui che scruta le
profondità di Dio e non può ignorare ciò che vi è in Lui, perché è il suo Spi-
rito, né può affatto dire se non quel che ha visto presso di Lui, perché è lo
Spirito di verità.

_____________________________
16
Infatti, dal punto di vista odierno, quello di Tommaso pare più un saggio di mistica
che non un’opera mistica, conclusione che i tomisti condividono perché il passo è
tratto da una lectura, ossia è una lezione biblica. In realtà, a nostro parere, la linearità
e chiarezza del testo nasce dal fatto che Tommaso sperimenta lui stesso la polisemia
della dormitio spirituale: per questo cita la Scrittura e non, p.es., Gregorio o Agosti-
no, auctoritates cui abitualmente si ricorre quando si propone un’interpretazione del-
la Scrittura. Ma si lasci pure in sospeso la cosa: non è questo il luogo adatto per in-
trodurre il tema della misticità di Tommaso e dei modi per reperirla.

146
E poi non mancano neanche tra di noi quei felici che hanno meritato di esse-
re rallegrati di questo dono, e così in se stessi hanno fatto esperienza di que-
sto soavissimo arcano: ma non screditiamo il passo della Scrittura che ab-
biamo tra le mani, dove apertamente viene descritto lo Sposo celeste oltre-
modo zelante per il riposo di una certa sua diletta, sollecito nel tenerla ad-
dormentata tra le sue braccia perché non sia disturbata da qualche molestia o
inquietitudine nel suo dolcissimo sonno. Non sto in me stesso dalla gioia per
il fatto che quella maestà non disdegna di chinarsi sulla nostra infermità con
un’unione così familiare e dlce, e la superna Deità non ha difficoltà a stabili-
re un connubio con un’anima ancora esule ed a manifestarle l’affetto di uno
Sposo preso da ardentissimo amore. Così, così non dubito che sia in cielo
come leggo sulla terra, e sentirà certamente l’anima ciò che contiene la pa-
gina, e però questa non è in grado di esprimere totalmente quanto quella al-
lora potrà comprendere e neppure ora può capire. Che cosa pensi che potrà
allora ricevere quella che fin da quaggiù è favorita da tanta familiarità da
sentirsi stretta dalle braccia di Dio, riscaldata dal seno di Dio, custodita dalla
cura e dall’amore di Dio perché nel sonno non sia disturbata da qualcuno fi-
no a che si risvegli?
Ma sù, è tempo che diciamo, se possiamo, di che specie sia quel sonno di
cui lo Sposo vuole che la sua delicata diletta dorma, e dal quale non soppor-
ta che sia riscossa se non quando essa lo vuole; perché non accada che qual-
cuno, leggendo quanto scrive l’Apostolo (Rm 13,11): “È ormai tempo di
svegliarvi dal sonno”, o la preghiera che fa il profeta perché Dio illumini i
suoi occhi perché non si addormenti mai nella morte (cf. Sal 12,4: “Guarda,
rispondimi, Signore mio Dio, conserva la luce ai miei occhi, perché non mi
sorprenda il sonno della morte”), resti turbato dall’equivoco dei nomi e non
sappia come pensare degnamente del sonno della sposa di cui si parla in
questo passo. E non è simile a questo neppure quello di cui parla il Signore
nel vangelo a proposito di Lazzaro (Gv 11,11): “Lazzaro, il nostro amico,
dorme; andiamo a svegliarlo dal sonno”. Questo infatti diceva della sua
morte corporale, mentre i discepoli lo intendevano del sonno naturale. Ora,
questo della sposa non è un sonno consistente nel dormire, o placido, dove i
sensi carnali restano soavemente assopiti per un certo tempo, oppure orrido,
che distrugge totalmente la vita; e molto di più differisce il sonno della spo-
sa da quel dormire per cui ci si addormenta nella morte, quando si persevera
irrevocabilmente nel peccato mortale. Ma piuttosto il vitale e vigile sopore
di costei illumina il senso interiore e, cacciata la morte, dona la vita sempi-
terna. È in realtà un sonno che tuttavia non assopisce i sensi, ma li rende as-
senti. È anche una morte, e non esito a dirlo perché l’Apostolo, lodando al-
cuni che ancora vivevano nella carne, così dice loro (Col 3,3): “Voi siete
morti, e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio”.
Pertanto, anch’io chiamerei non a torto l’estasi della sposa una morte, che
non strappa alla vita ma ai lacci della vita, perché possa dire (Sal 123,7):
“La nostra anima è stata liberata come un uccello dai lacci dei cacciatori”. In
questa vita, infatti, si cammina in mezzo ai lacci, dei quali non si ha timore
tutte le volte che l’anima viene come strappata a se stessa da qualche santo e
forte pensiero, se tuttavia la mente a tal punto si assenti o si elevi da oltre-
passare questo nostro comune ed usuale modo di pensare; difatti (Prv 1,17):

147
“Invano si tende la rete sotto gli occhi di chi è fornito di ali”. Come si teme-
rebbe la lussuria dove non si sente neppure la vita? Andando in vero l’anima
in estasi esce, se non dalla vita, dai sensi della vita, per cui è inevitabile che
non senta neppure le tentazioni della vita. “Chi mi darà ali come di colomba
per volare e trovare riposo?” (Sal 54,7). Voglia Iddio che io muoia spesso di
questa morte perché io sfugga ai lacci di morte, perché io non senta gli allet-
tamenti mortiferi di una vita lussuriosa, perché sia insensibile al senso della
libidine, all’ardore dell’avarizia, alla pressione delle sollecitudini, alla mole-
stia degli affari! Muoia l’anima mia della morte dei giusti, affinchè non resti
irretito da qualche ingiustizia, affascinato da qualche iniquità. Buona morte
quella che non toglie la vita ma la trasferisce in meglio: buona morte quella
per cui non cade il corpo ma l’anima viene sollevata.
Ma questo riguarda gli uomini. Muoia anche l’anima mia, se così si può di-
re, della morte degli angeli perché, elevandosi al di sopra della memoria del-
le cose presenti, si spogli non solo della cupidigia delle cose inferiori a sé e
corporee ma anche delle loro immagini, e così si trattenga puramente con
essi, dei quali imita la purezza.
Tale estasi, penso, sola o soprattutto si chiama contemplazione. Non sentirsi
legato dalle cupidigie nella vita appartiene all’umana virtù; nel meditare il
non essere avvolto da immagini corporali appartiene all’angelica purità. Ma
è dono di Dio l’uno e l’altro. L’uno e l’altro è essere rapito, trascendere se
stesso, ma uno lontano, l’altro non molto. Beato chi può dire: “Ecco mi sono
allontanato fuggendo, e mi fermai nella solitudine” (Sal 54,8). Non si con-
tentò di uscire ma volle fuggire lontano da sé per poter riposare. Hai oltre-
passato le lusinghe della carne per non obbedire più ormai alle sue concupi-
scenze, né essere impastoiato dalle lusinghe delle passioni; hai progredito, ti
sei separato da te, ma non sei ancora andato lontano se non riesci a trasvola-
re con una mente pura i fantasmi delle immagini corporee che irrompono da
ogni parte. Fino a qui non ti promettere il riposo. Sbagli se pensi di trovare
al di qua un luogo di riposo, una solitudine segreta, una luce serena, una di-
mora di pace. Ma dammi uno che sia arrivato là: subito lo vedo riposare, ta-
le da poter dire (Sal 114,7): “Ritorna, anima mia, alla tua pace, perché il Si-
gnore ti ha beneficato”. Qui veramente è il posto della solitudine e l’abita-
zione nella luce, davvero, secondo il profeta, tabernacolo per il giorno che
ripara dal caldo, e ripara con sicurezza dal turbine e dalla pioggia, del quale
anche il santo Davide dice (Sal 26,5): “Mi ha nascosto nella sua tenda nel
giorno della sventura, mi ha nascosto nel segreto della sua dimora”.
Pensa dunque che la sposa si sia ritrovata in questa solitudine e qui, per la
amenità del posto, si sia dolcemente addormentata tra gli abbracci dello
Sposo; in altre parole, sia andata in estasi. Perciò le giovinette hanno avuto
17
l’ordine di non svegliarla fino a che essa non lo voglia» .
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17
BERNARDO DI CLAIRVAUX, Sermones in Cantica canticorum, sermo 52, 1,1-3,6 (SCh
472, 60-70; trad. it. II, 76-81). Il traduttore sostituisce sistematicamente i testi biblici
della Vulgata con quelli di CEI73, che sono sempre diversi. Poiché qui il commento
resiste a queste violenze, non si è ripristinato il testo latino; però questo procedimen-
to danneggia Bernardo ed è scientificamente inaccettabile.

148
Chiediamo venia per la lunghezza del passo, ma la sua bellezza, chiarez-
za ed afferenza non ci hanno permesso di ritagliarne una parte più breve.
Soltanto alcune note, per sottolineare elementi utili al nostro discorso e che
certo i lettori avranno già colto. Innanzitutto è opportuno registrare la netta
sintonia tra Bernardo e Gregorio nell’identificare la dormitio spirituale con
la contemplazione, ed anche l’indicazione di alcuni testi paolini a supporto
di tale identificazione, elementi dei quali qui possiamo solo prendere atto
18
senza approfondirli . Nei dettagli, si noti, in primis, che Bernardo chiama
_____________________________
18
Per avere un’idea di quanto complesso sarebbe affrontare il tema della dormitio spiri-
tuale nella Scrittura e nell’AT in particolare, leggiamo Ct 2,7 LXX: «Io vi scongiuro,
figlie di Gerusalemme, per le virtù (dinamis) e per le forze del campo, destate e ride-
state (eghéirête kai exeghéirête) e fate sorgere la carità (agapè), finchè non voglia».
La vulg. invece segue TM e recita: «Vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, per le capre
ed i cervi dei campi, non suscitate e non svegliate la diletta fin quando essa non vo-
glia». La differenza della LXX da vulg. e TM è palese ma non inspiegabile: l’ebraico
zebaôt, reso sempre da LXX con dinameos, ‘virtù’ o ‘potenze’, di solito sta per ‘eser-
citi’ ma può anche voler dire ‘capretti’; l’ebraico ‘êlôt può essere letto ‘montone’ ma
anche ‘principe’ o ‘uomo forte’, come fa la LXX; invece i ‘cervi’ di vulg. suppongono
o una variante nell’ebraico tradotto da Gerolamo o un suo errore.
Ciò detto, è facile intuire che i commenti patristici a Ct 2,7, saranno lontani da
quelli di Bernardo. Cf. p.es. ORIGENE, In Canticum canticorum homiliae, hom.2, 9
(SCh 37bis, 136; CTP 83, 84s): «“Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, per le virtù
e per le forze del campo” (Ct 2,7 LXX). Di che cosa la Sposa scongiura le figlie di
Gerusalemme? Di ridestare e far sorgere la carità. Da quanto tempo dorme in voi, o
figlie di Gerusalemme, o giovinette, quella carità che non dorme in me, poiché io so-
no ferita dalla carità? Ma in voi, che siete molte e giovinette, e figlie di Gerusalem-
me, la carità dello Sposo dorme. Io vi scongiuro, dunque, figlie di Gerusalemme, di
ridestare, e non solo ridestare ma anche far sorgere la carità che è in voi. Il Creatore
dell’universo, quando vi ha creato, ha piantato nei vostri cuori dei semi di carità; ma
ora, come è detto altrove (Is 1,21): “La giustizioa si è addormentata in lei”, così in
voi l’amore sonnecchia, secondo quel che è detto in un altro passo (Nm 24,9): “Lo
Sposo si è riposato come il leone ed il leoncello”. Il Verbo divino sonnecchia ancora
negli infedeli ed in coloro che hanno il dubbio nel cuore, ma veglia nei santi; dorme
in quelli che sono sballottati dalle tempeste (cf. Mt 8,23ss), ma sorge alle grida di co-
loro che desiderano essere salvati dallo Sposo svegliato. Ed appena Egli si è sveglia-
to, viene la calma, si placano le grandi onde, sono repressi i venti contrari, tace la
rabbia dei flutti: quando egli dorme, è la tempesta, la morte, la disperazione. “Io vi
scongiuro, figlie di Gerusalemme, per le virtù e per le forze del capo”: di quale cam-
po? Di quello il cui “odore è di un campo pieno e che il Sifgnore ha benedetto” (Gen
27,27)». In nota (85, n.123) la traduttrice osserva acutamente che «Il Cristo è chia-
mato Tranquillator, colui che placa le tempeste, da san Gaudenzio di Brescia, Trac-
tatus paschales, VIII, 3 (A. Gluech, CSEL 18, Leipzig 1936, 61). “Tranquillus Deus
tranquillat omnia” (san Bernardo, Sermones super Cantica, XXIII, 16; ed. cit., I, 149
[la trad. it. qui adoperata])». Come si vede, il tema della dormitio spirituale condensa
un mare magnum di dinamiche e dottrine spirituali, i cui capisaldi biblici potrebbero
(segue)

149
tale contemplazione ‘morte’: quindi la dormitio spirituale altro non è se non
una ‘morte’ spirituale. In secundis, che tale ‘morte’ non deve essere intesa
in senso figurato ma reale, sia pure di un genere di realtà diverso da quello
della morte fisica: come questa comporta la separazione tra anima e corpo,
così quella comporta la separazione tra il modo di vivere secondo natura e
19
quello contro natura . E perché non paiano eccessi retorici attribuibili solo
a Bernardo, ecco un passo di Origene forse poco noto:
«Come gli incantesimi possiedono una potenza naturale e chi viene amma-
liato, anche senza accorgersene, subisce un qualche effetto dell’incantesimo
sulla base della natura dei suoni dell’incantesimo, pronunciati o per procura-
re danno o per procurare guarigione al suo corpo o alla sua anima, così, cre-
dimi, più potente di ogni incantesimo è la semplice pronuncia dei nomi che
si trovano nelle divine Scritture. Esistono infatti in noi alcune potenze (dy-
námeis), delle quali le migliori vengono nutrite attraverso queste specie di
incantesimi (i.e. la pronuncia dei nomi in lingua originale) perché hanno
connaturalità con essi e, anche se non ce ne accorgiamo, tali potenze, che
avvertono invece ciò che viene detto, diventano in noi più potenti per soste-
nere la nostra vita. (...). Comprendi allora che, anche se accada che in noi la
mente rimanga senza frutto, le potenze, che cooperano alla nostra anima, al-
la nostra mente ed a tutto ciò che è in noi, vengono nutrite da un nutrimento
spirituale (logikê trophê), proveniente dalle sacre Scritture e da questi nomi
e, così nutrite, diventano più potenti per cooperare con noi. E come le mi-
gliori potenze vengono in certo modo ammaliate e ne trovano giovamento e
diventano più potenti sotto l’azione di scritti e nomi di questo genere, così le
potenze avverse (ai antikeímenai dynámeis) che sono in noi vengono in cer-
to modo abbattute e vinte dagli incantesimi di Dio e, una volta abbattute, si
20
assopiscono» .
Il passo si riferisce in recto alla opportunità di leggere tutta la Scrittura,
anche le lunghe liste di nomi, di luoghi o di cose, e di farlo in lingua origi-
nale. Ciò qui non interessa, ma è molto importante l’esito di tale lettura: un
‘assopimento’ delle potenze avverse, il quale altro non è che la ‘morte’ spi-
rituale cui si riferisce Bernardo di Clairvaux.

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essere individuati, in prima battuta, nel torpore di Gen 2,21, quando Dio trae Eva dal
costato di Adamo (la LXX ha ekstasis), e nel racconto della tempesta sedata di Mt
8,23-26 e/o paralleli; ma in realtà i passi biblici coinvolti e coinvolgibili sarebbero
moltissimi, dell’AT come del NT, ed più ancora quelli dei Padri.
19
Ossia esige lo scegliere di fare o di non fare, dire o non dire, tacere o non tacere, sen-
tire o non sentire certe cose, comportarsi o non comportarsi in un certo modo, ecc.
Tutte cose, queste, assolutamente concrete e reali.
20
ORIGENE, Philocalia, 12, 1 (SCh 302, 388ss; trad. nostra). Stessa idea l’Adamantino
esprime, più ampiamente, in In Iosue homiliae, hom.20, 1s (SCh 71, 404-412; CTP
108, 257-263): però qui l’uso dei verbi ‘assopire’ o ‘dormire’ è più diluito.

150
Per tornare al nostro brano, è opportuno notare, in tertiis, che tale con-
templazione è descritta come ‘estasi’: non solo come un comune ‘rapimen-
to’ al di fuori di sé, ma anche come un ‘non sentire la vita’, sensazione che
al massimo grado si ha post mortem. Con tutta evidenza, Bernardo amplifi-
ca quel che Gregorio il Grande ha detto in breve; esprime a chiare lettere
ciò che il nostro santo Padre ha solo accennato. E ci piace rilevare che, co-
me Gregorio fu costretto a lasciare l’amata vita monastica per essere prima
mandato a Costantinopoli come legato papale e poi addirittura a succedere
a Pietro guidando la Chiesa in un tempo di sofferenza immensa (basti pen-
sare a come chiude le Omelie su Ezechiele per rendersene conto), così an-
che Bernardo fu costretto ad immergersi continuamente nelle vicende poli-
tiche, religiose e spirituali del suo tempo, tanto da poter essere considerato
a buon diritto l’anima del sec.XII. Entrambi quindi sanno molto bene cosa
significa avere nostalgia per la dormitio spirituale. Ma Bernardo non è né il
solo né il più acuto investigatore di questa dinamica spirituale.
Praticamente contemporaneo di Bernardo, ma molto meno conosciuto al-
la gran parte dei nostri fratelli pur essendo un maestro spirituale non meno
acuto e delicato, è il canonico Riccardo di san Vittore (1100-1173), detto
Doctor caritatis per la profondità delle sue riflessione sull’amore, sia quel-
lo mistico per Dio che quello essenziale che è la Persona divina dello Spiri-
to santo. In una delle sue opere più tecniche e precise, il De gratia contem-
plationis, meglio conosciuto come Benjamin maior, Riccardo ci regala una
delle più lucide sistemazioni dell’esperienza mistica, un affresco mentale le
cui radici invano si cerchererebbero in questo o quel predecessore, sebbene
Riccardo si serva della cultura del suo tempo. La grande tecnicità del passo
(lo riportiamo proprio per questo) esige però alcune note introduttorie.
Per prima cosa bisogna dire che la vita spirituale conosce diverse moda-
lità, la cui successione scandisce l’elevazione mistica. Riccardo le descrive
così (lasciamo in latino i termini tecnici):
«Ecco in quali gradi di progresso è elevata l’anima umana. Perfezionatasi
nella meditatio, giunge alla contemplatio, (poi passa) dalla contemplatio alla
21
admiratio, (infine) dall’admiratio all’alterazione (alienatio) della mente» .
A questi quattro gradi deve essere però premessa la cogitatio, che consi-
ste nel genere di riflessione accessibile a chiunque cerchi Dio. La dinamica
dell’elevazione spirituale dell’anima si snoda dunque in cinque tappe: cogi-
tatio, meditatio, contemplatio, admiratio, alienatio. Riccardo ordina tale di-
namica secondo la struttura noetica così come la si concepiva nel sec.XII:
_____________________________
21
RICCARDO DI SAN VITTORE, De gratia contemplationis, V, 12 (PL 196, 181; trad. no-
stra).

151
seguendo Boezio, e partendo dall’inferiore, sensus, imaginatio, ratio ed in-
22
tellectus . Nella cognitio la percezione sensoriale (sensus) viene organizza-
ta ed armonizzata (imago) ma non ha ordine né fine. Nella meditatio questo
dato è composto in uno schema (ratio) ed un insegnamento superiore (intel-
lectus), che trascendono il dato fisico (un po’ come in matematica). Nella
contemplatio l’anima osserva questi elementi ed altri ancora di genere simi-
le con distacco, come dall’alto. Nella admiratio questa visione muove allo
stupore per la potenza, la bontà e la sapienza del Creatore, ma non per co-
me ha fatto questo o quello bensì per il disegno provvidenziale che il misti-
co ormai inizia a cogliere. Infine, nella alienatio mentis (che si è reso con
‘alterazione’ per non suggerire cose fuori luogo), tale ammirazione sfocia
in un vero e proprio rapimento dell’anima fuori di sé ed in Dio, in un ‘ec-
cesso d’amore’ per Colui che è capace di tanta tenerezza e potenza.
In questo quadro, c’è posto per la dormitio? E se sì, qual è? Se quella di
Riccardo fosse una sistemazione ‘a tavolino’, la risposta sarebbe in un certo
senso facile, perché ‘semplicemente’ logica. Ma Riccardo parla per espe-
rienza, e non è facile comunicare (ordinatamente per di più) un’esperienza
a chi non l’ha; il passo che ci attende perciò è lungo e delicato:
«Sebbene sia familiare e sembri quasi proprio a questi due ultimi generi di
contemplazione vedere per mezzo dell’uscita da sé della mente (excessus
mentis), mentre al contrario ai primi quattro è come familiare e praticamente
come (loro) particolare assurgere alla contemplazione senza nessuna altera-
zione (alienatio) dell’animo, tutti però possono e sono soliti convergere in
uno. Infatti, da ciò che soggiace ai primi generi di contemplazione possiamo
conoscere qualcosa per divina rivelazione, e per mezzo dell’uscita da sé del-
la mente scorgere con l’occhio della contemplazione, anche quelle cose che
spettano ai due ultimi generi di contemplazione noi siamo soliti, nella misu-
ra in cui conosciamo e siamo capaci secondo il comune stato dell’animo,
prendere in considerazione e vedere per mezzo della contemplazione. Ma,
poiché le cose che spettano alle ultime due eccedono sempre la perspicacia
della mente umana, quando prende in considerazione quelle cose secondo lo
stato d’animo consueto a tutti o, al contrario, per poter discernere in esse
qualcosa più perspicacemente e più limpidamente, (allora) la mente umana
eccede se stessa e nella misura conveniente (apte) passa in alterazione (alie-
natio), (perché) deve esprimere misticamente quelle stesse cose non tanto in
umana effige quanto in forma angelica. Che poi tutti questi generi di con-
templazione possano essere distinti per mezzo delle estasi (extasis), lo sap-
piamo attraverso il mistico esempio di Mosè. Che invece si possa giungere
portati alla contemplazione anche senza alcuna uscita della mente da se stes-
sa (excessus mentis), lo si ha dall’opera, tipica, di Beseleel. Infatti, perché
potesse vedere l’arca ed entrambi i cherubini, Mosè salì il monte ed entrò

_____________________________
22
Cf. RICCARDO DI SAN VITTORE, De gratia contemplationis (Beniamin maior), I, 3s.

152
sotto la nube (cf. Es 24,40). Perché (anche) Beseleel facesse o intuisse quel-
la stessa opera mistica, invece, non si legge che abbia salito il monte o sia
entrato sotto la nuvola. Ma cosa è l’andare sotto il monte, se non, secondo la
sentenza profetica, elevarsi di cuore (ad cor altum ascendere)? In tale modo
la nube toccò il monte, allor quando la memoria di tutte le cose esteriori su-
però (excidit) la mente. In questo monte Mosè dimora sei giorni, ed al setti-
mo, dal mezzo della nube, è chiamato a colloquio con Dio (cf. Es 24,16).
Sei giorni, com’è noto, compiamo il nostro lavoro, e nel settimo riposiamo:
dunque, è come se trascorressimo sei giorni su quel monte quando, con mol-
ta fatica e grande sforzo dell’animo, ci abituiamo a rimanere a lungo in un
simile stato di sublimità. Ma giungiamo come al settimo giorno allor quando
tanta elevazione della mente viene mutata in piacere della mente, e (questo)
subentra senza alcuno sforzo. Giungiamo già come al settimo giorno quando
finalmente, in quello stato di sublimità, l’animo viene composto in una som-
ma tranquillità, così che non solo deponga ogni preoccupazione e sollecitu-
dine, ma anche ecceda quasi tutti gli scopi di ogni umana passibilità.
A colloquio con il Signore, quando il Signore chiama, si è ammessi quando
si è introdotti dalla divina ispirazione e rivelazione nell’abisso dei pensieri
(iudicium) divini. Mosè entra nel mezzo della nube quando la mente umana,
assorbita dalla immensità della luce divina, si addormenta in una somma
23
dimenticanza di sé, così da riuscire ad ammirare ; e giustamente deve am-
mirare in qual modo si accordi qui la nube con il fuoco (cf. Es 24,17 vulg.:
“Era l’immagine della gloria del Signore come fuoco ardente”) ed il fuoco
con la nube: la nube dell’ignoranza con la nube della intelligenza illuminata.
Ignoranza e dimenticanza delle cose (ora) conosciute e sperimentate, con ri-
velazione ed intelligenza, (ma) prima ignote e fino ad allora non sperimenta-
te. Infatti in uno ed identico tempo l’intelligenza umana viene illuminata fi-
no a (giungere) alle cose divine e (insieme) obnubilata da quelle umane. Il
salmista compendia in poche parole questa pace, questo obnubilamento ed
illuminazione dell’animo elevato, quando dice (Sal 4,9 vulg.): “In pace in
lui stesso dormirò e riposerò”. Veramente allora l’anima trova la pace, quan-
do non sente assolutamente più posta sopra di sé la molestia dell’umana pas-
sibilità. In questa pace si addormenta quando, con-assopitasi (rivolta) verso
la somma tranquillità, abituatasi a meditare qualunque cosa sobria, si dimen-
tica di se stessa. Chi dorme infatti non solo non conosce ciò che è intorno a
lui ma (ignora) anche totalmente se stesso. Dunque giustamente per mezzo
della (immagine del) sonno si esprime la alterazione (alienatio) della mente,
attraverso la quale (essa) si assenta dalle cose abituali e, come presa dal son-
no, (anche) dalle cose umane, peregrinando nella contemplazione delle cose
divine. Ed uno “si addormenta in Lui” allor quando, per mezzo della con-
templazione ed attraverso l’ammirazione, riposa in Lui, Colui nel quale, so-
lo, è identico l’essere e ciò che è, e solamente del quale si può dire con veri-
tà (Es 3,14): “Io sono Colui che è”. Quel che dunque Mosè dice ‘settimo
giorno’, più apertamente Davide lo chiama ‘pace’; ciò che in quello è ‘entra-
_____________________________
23
Questa admiratio è il penultimo grado di contemplazione. In questo schema, la dor-
mitio spirituale si colloca quindi tra la contemplatio e l’admiratio.

153
re nel mezzo della nube’, in questo è ‘dormire’; e quel che uno dice ‘riposa
in Lui stesso’, è ciò che nell’altro è chiamato ‘salì e dimorò presso il Signo-
re’. Così, salendo al vertice del monte come a somiglianza di Mosè, (l’ani-
ma) entra nel mezzo della nube e, per rivelazione del Signore, vede e con-
templa sia l’arca di cui abbiamo già parlato che i cherubini descritti, quando
uno, attraverso l’elevazione e l’alterazione (alienatio) della mente, viene ra-
pito verso le cose sublimi, e dalla divina ispirazione è fatto avanzare verso
quei sei generi di contemplazione che abbiamo descritto. Infatti di Mosè è
detto (Es 25,40): “Guarda, per fare ogni cosa come a te sono state mostrate
sul monte”; se dunque gli sono state mostrate tutte le cose, allora (vide) non
24
solo i cherubini ma anche l’arca .
Questo è ciò che dissi in precedenza, che cioè tutto ciò che spetta a qualun-
que genere di contemplazione può essere visto, per rivelazione di Dio, attra-
verso l’uscita della mente da se stessa (excessus mentis). Ma dal lavoro di
Beseleel possiamo non di meno apprendere che ognuna di loro può ed è so-
lita essere portata alla contemplazione senza alcuna uscita della mente da se
stessa (excessus mentis). Che cosa è infatti, mi chiedo, fabbricare l’arca, ri-
vestirla di oro, e cingerla con la corona, ricoprire il propiziatorio, aggiunge-
re i cherubini, se non paragonare tale arte, gradatamente, ai generi di con-
templazione sopra esposti, e con molta attenzione e fatica imparare una cosa
dopo l’altra, e apprendere ad usarle, teminare finalmente l’opera e, all’ulti-
mo, essere perfetto in ogni cosa? Ma, per tacere dell’arca, cosa dirò dei che-
rubini? Forse che, per dare loro una foma, sta scritto che (Beseleel) li vide
gìà formati, o che salì al monte, o che sia entrato nella nube? Da ciò è dato
di comprendere chiaramente che anche i due ultimi generi di contemplazio-
ne, nei quali sembra caratteristico l’essere esercitati (exerceri) attraverso l’u-
scita della mente da se stessa (excessus mentis), talvolta sono invece tratte-
nuti entro i limiti (meta) dell’umana comprensibilità. Ogni genere di con-
templazione può essere vissuto (exerceri) in entrambi i modi, sia attraverso
l’uscita della mente da se stessa (excessus mentis) che senza alcuna uscita
25
della mente da se stessa (excessus mentis)» .

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24
L’insistenza di Riccardo sull’arca dell’Alleanza ed i cherubini esprime uno dei cardi-
ni della concezione mistica della Scuola Vittorina: l’intero De gratia contemplationis
è infatti un commento allegorico-spirituale alla descrizione dell’arca dell’Alleanza
(Es 37,1-10), ed è la trattazione sistematica della contemplazione forse più importan-
te del sec.XII. Anche se nel fluire del tempo il rinvio alla descrizione dell’arca passa
progressivamente in secondo piano, le dottrine permangono: conservano grande ri-
lievo nel XIII, specie in Bonaventura ed i Francescani (ma anche presso l’autore del-
la Nube della non conoscenza), fruttano echi importanti presso i mistici tedeschi del
sec.XIV (Eckhart, Tauler, Suso) e persino nei mistici spagnoli e fiamminghi del ‘500
(Ruusbroeck, Teresa d’Avila, Giovanni della Croce). È impossibile entrare nei detta-
gli, che però confermerebbero ad abundantiam quanto qui accenniamo soltanto.
25
RICCARDO DI SAN VITTORE, De gratia contemplationis (Beniamin maior), IV, 22 (PL
196, 164ss; trad. nostra). Il testo di Riccardo è piuttosto stringato, ragion per cui (se-
gnalandolo) ci siamo permessi di introdurre qua e là qualche termine.

154
L’ultimo periodo, che pare contraddire tutto il lungo passo che lo prece-
de, illustra bene il perché i teologi accademici non amino gli scritti mistici:
abituati alla linearità della ragione (anche se tradurre in logica formale certi
saggi sarebbe divertente...), questi rovesciamenti di fronte spiazzano, non si
sa più come vadano le cose, cosa sia vero e cosa no. Soprattutto, sembrano
del tutto gratuiti, e perciò inaccettabili. In realtà il mondo del sentire ha una
logica che il mondo del pensare non conosce; e se tradurre questa in quella
è facile, il contrario è possibile soltanto se chi ascolta vive (non ‘sa’, si badi
bene) di che si parla. Riccardo non si contraddice: semplicemente, la mens
che inizia quel percorso non è la mens che lo termina. Nel progredire della
rivelazione lo Spirito la trasforma (dilatatio cordis), e così alla fine non è
più quella che era all’inizio: quel che allora conosceva per excessus adesso
gli è accessibile senza sforzo. Il risultato ad extra di questo progresso ad
intra, cioè quel che scrive Riccardo (e tutti i mistici come lui), lo si può pa-
ragonare al file scritto con un dato programma (la mens): chi lo possiede in
quella versione o una superiore può leggerlo, chi ha una versione inferiore
no o al limite può farlo solo in misura incompleta, spesso errata.
Descrivere le caratteristiche spirituali e teoriche della mistica della Scuo-
la di san Vittore va al di là dei nostri obiettivi, tuttavia alcune note sono ne-
cessarie per comprendere quel che si è letto. In primis, bisogna notare che,
mentre in Esodo 24 e 25, i capitoli ai quali qui si riferisce Riccardo, l’arca
ed i cherubini sono costruiti da Mosè, in Esodo 31,1-6 vulg. è scritto:
«Parlò dunque il Signore a Mosè dicendogli: “Ecco, ho chiamato per nome
Beselehel, figlio di Uri figlio di Hur della tribù di Giuda, e l’ho riempito con
lo spirito di Dio, sapienza, intelligenza e scienza in ogni opera, per escogita-
re come fare artisticamente qualunque cosa debba essere fatta d’oro, d’ar-
gento e di bronzo, di marmo, di gemme e della diversità dei legni, e gli diedi
come compagno Hooliab figlio di Achisamech della tribù di Dan, e nel cuo-
re di ogni erudito posi sapienza, perché facciano tutte le cose che ho ordina-
to a te».
Quindi, è vero che Beseleel non fu insieme a Mosè sul monte, né entrò
con lui sotto la nube, però è anche vero che è stato riempito da Dio dello
spirito di sapienza, intelligenza e scienza; Salomone, ad esempio, ebbe solo
quello di sapienza (cf. Sap 7). Poi, ci piace notare che il nome Beselehel in
ebraico suona bezal’el, che significa ‘nella’ (be) ‘ombra’ (zal) ‘di Dio’ (‘el),
e che l’angelo dice a Maria (Lc 1,35): «Lo Spirito Santo scenderà su di te,
su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo»: se vive nell’ombra
di Dio, allora Besaleel non è proprio un uomo qualsiasi, cosa che invece si
potrebbe dire del suo assistente Hooliab. Infine, e di conseguenza, bisogna
rilevare che questa peculiarità di Besaleel non è sfuggita ai maestri ebrei;
nel Talmud, trattato Berachot (Benedizioni), infatti si legge:

155
«Disse rav Johanàn: “Tre cose proclama il Santo, Egli sia benedetto, Egli
stesso, e queste sono: fame, sazietà, ed un buon amministratore della comu-
nità. La fame, secondo quanto è scritto (2Re, 8,1 TM): ‘Infatti chiamò il Si-
gnore la fame’. La sazietà, secondo quanto sta scritto (Ez 36,39 TM): ‘Chia-
merò il grano e lo moltiplicherò’. Un buon amministratore della comunità,
secondo quanto sta scritto (Es 31,1ss TM): ‘Disse il Signore a Mosè: Vedi, io
ho proclamato il nome di Besalehel’.”.
Disse rav Yishàq: “Non si insedia un amministratore della comunità senza
consultarla, secondo quanto fu detto: ‘Vedete, il Signore ha proclamato il
nome di Besalehel’. Disse il Santo, Egli sia benedetto, a Mosè: ‘O Mosè, ti è
accetto Besalehel?’ Rispose Mosè: ‘Signore del mondo, se è accetto a Te,
non lo sarà tanto più a me?’ Allora il Signore gli disse: ‘Anche se è così, vai
e dillo loro’. Mosè andò e disse ad Israele: ‘Vi è accetto Besalehel?’ Essi
dissero: ‘Se è accetto al Santo, Egli sia benedetto, ed a te, non lo sarà tanto
più anche a noi?’
Disse rav Shemuèl bar Nahmàn, a nome di rav Johanàn: “Besalehel fu chia-
mato così a causa della sua sapienza. Quando il Santo, Egli sia benedetto,
disse a Mosè: ‘Và, e dì a Besalehel: Fammi una tenda, un’arca e gli arredi’,
Mosè andò, ma cambiò l’ordine delle parole e gli disse: ‘Fa un’arca, gli ar-
redi ed un tabernacolo’. Questi gli rispose: ‘O Mosè, nostro maestro, l’uso
del mondo è che un uomo costruisca prima la casa e dopo di ciò vi introduca
gli arredi, mentre tu dici: Fammi un’arca, gli arredi ed un tabernacolo. Que-
gli arredi che avrò fatto, dove li introdurrò? Forse così ti ha detto il Santo,
Egli sia benedetto: Prepara un tabernacolo, un’arca e gli arredi’. (Mosè) ri-
spose: ‘Forse sei stato all’ombra di Dio (bezal’el), e così hai saputo?’
Disse rav Jehudàh, a nome di Rav (Hillel): “Besalehel sapeva combinare le
lettere con cui furono creati i cieli e la terra. Infatti qui sta scritto (Es 35,31
TM): ‘(Dio) lo riempì di sapienza, di intelligenza e di sapere’, ed in un altro
passo sta scritto (Prv 3,19 TM): ‘Il Signore con sapienza fondò la terra, e
stabilì i cieli con intelligenza’, ed inoltre sta scritto (Prv 3,20 TM): ‘In segui-
to alla Sua conoscenza, gli abissi furono dischiusi’.”
Disse rav Johanàn: “Il Santo, Egli sia benedetto, non dà sapienza se non a
chi già possiede sapienza, secondo quanto fu detto (Dan 2,21 TM): ‘Egli dà
sapienza ai sapienti, e conoscenza a chi possiede intelligenza’. Rav Tahlifà
dell’Occidente (i.e. della Palestina) sentì (questa sentenza) e disse in pre-
senza di rav Abahu: “Voi lo rilevate da questo testo e noi da quest’altro, se-
condo ciò che è scritto (Es 31,6 TM): ‘E nel cuore di ogni uomo intelligente
26
ho dato sapienza’.”» .
L’andamento dei testi rabbinici, rapsodico, con giochi di parole ed intes-
_____________________________
26
Talmud bablì, tr. Berakhôt, 55a (trad. it. 360ss). Il testo originale del Talmud è diffi-
cile da reperire ed ancor più tradurre; le versioni italiane sono pochissime e di singoli
trattati o parti di trattati. In particolare questa versione, l’unica di Berakhôt, è infesta-
ta dagli errori di stampa, alcuni dei quali banali (qui, il rinvio ad Es 31,1ss era invece
ad ‘Ez’), altri meno (qui, poiché si legge ‘consultarlo’ invece di ‘consultarla’, si ha
che rav Yishàq raccomanda di consultare l’amministratore e non la comunità).

156
suto di piccoli racconti edificanti, è piuttosto lontano da quelli a noi fami-
liari; ma, ancora una volta, si ha che Besaleel non è propriamente il primo
che passa, bensì un uomo che, anche se non ha i doni mistici di Mosè e di
Giosuè, tuttavia è sicuramente un pio e fedele osservante della volontà di
Dio, il quale da parte sua lo riempie di doni spirituali. Né conviene sottova-
lutare la provenienza ebraica di queste osservazioni: la Scuola di san Vitto-
re infatti fu promotrice, nel sec.XII, di un fecondissimo e quanto mai ricco
dialogo con le comunità ebraiche del tempo, dialogo che fruttò le esegesi
interessanti e (allora) rivoluzionarie di Andrea di san Vittore e la familiarità
con gli scritti di Maimonide e di altri filosofi e teologi ebrei. Tale innova-
zione fu così dirompente che, per fermarla, nel 1215, a Parigi, fu decretato
il rogo dei manoscritti del Talmud, delle bibbie ebraiche e di moltissime
opere ebraiche. Riccardo, priore di san Vittore nel 1162-73, quando Andrea
avvia e sviluppa i suoi contatti, è certamente al corrente sia di quanto inse-
gna il Talmud sia del significato di Besaleel in ebraico; e comunque legge
nella Scrittura i doni non comuni dati a Besaleel. Eppure è evidente che si
distanza in modo significativo da essi: basti rilevare da un lato l’equipara-
zione tra dormitio spirituale e contemplazione, dall’altro l’insistenza con la
quale Riccardo, Doctor caritatis, afferma che non è indispensabile l’uscita
della mente da se stessa (excessus mentis) per contemplare le cose divine.
Quindi, nella concezione mistica di Riccardo (ma si può dire dell’intera
Scuola di san Vittore), la dormitio spirituale non richiede doni mistici ecce-
zionali ma, come Besaleel, ‘semplicemente’ compiere l’opera affidataci da
nostro Signore facendo buon uso dei doni spirituali elargitici per questo. È
evidente l’importanza di questa nota per confermare l’idea che ci siamo fat-
ti dello status spirituale e metafisico della dormitio spirituale. Se infatti non
sono necessari doni particolari per vivere tale dormitio, allora essa può es-
sere assunta in ogni uomo a dinamica-ponte tra la sua vita spirituale in statu
viae e quella post mortem: sulla terra essa coincide con la ‘guerra dei pen-
sieri’ e culmina nell’ascesa contemplativa, post mortem essa coincide con
la purificazione operata dallo Spirito di fuoco e culmina con la deificazione
per grazia. La dormitio come immagine della morte fisica ha così soltanto
la valenza di cesura, spirituale ma soprattutto metafisica, tra i due momenti
dell’unica dormitio spirituale, che inizia con la nascita e non ha termine.
Questa continuità-perennità pare confermata da Riccardo in un’altra ope-
ra, ancor meno nota della precedente: si tratta delle Adnotationes mysticae
in psalmos, dove, a proposito del salmo 30, si legge:
«(Sal 4,9): «In pace in Lui mi addormenterò e riposerò”. Questa pace è quel-
la nella quale e per mezzo della quale l’anima si addormenta, attraverso cui
per un certo tempo perde il ricordo di tutte le cose esteriori, per mezzo della
quale essa si dimentica di se stessa, nella quale è elevata sopra se stessa e

157
tutta passa in Dio. Quella pace, dico, cos’altro sembra essere se non quel ve-
ro interiore e gaudio pieno, quella certa super-affluenza di delizie spirituali,
cioè quella mirabile ed ineffabile sazietà di deisideri celesti? In verità la pa-
ce autentica e piena si otterrà solo allor quando ogni suo desiderio di quella
sovrabbondanza di interiore dolcezza verrà completamente assorbito. (...)
Cosa può infatti turbare la tranquillità di una tale mente, che nessun stimolo
di cupidigia inquieta, che nessun aculeo di timore agita? Questa è quella
tranquillità che a lungo parlando abbiamo indagato, per la quale abbiamo sa-
lito a fatica tanti gradini (spirituali). Questa è quella pace nella quale l’ani-
ma si addormenta, pace che rapisce la mente verso l’interiorità; pace che fa
cadere il ricordo di tutte le cose esteriori, che supera l’acume dell’ingegno,
che riverbera la luce della ragione, che riempie il desiderio del cuore, che
assorbe tutto l’intelletto. Questa quiete Giovanni la dice ‘silenzio’ (Ap 8,1),
il Salmista la chiama ‘sonno’ (cf. Sal 4,9 vulg.), dall’Apostolo è detta ‘pace
di Dio che supera ogni sensazione (cf. Fil 4,7 vulg.). Oh, quanto giustamen-
te (è detta) ‘silenzio’! Oh, quanto veramente la possiamo dire ‘sonno’, se ec-
cede ogni senso! Cosa infatti si può dire degnamente di ciò che eccede ogni
sensazione? “Si fece silenzio in cielo - dice - quasi per mezz’ora” (Ap 8,1).
Abbiamo sentito quanto a ragione (quella pace) sia detta ‘silenzio’, ma in
qual modo sarà anche ‘sonno? Pensa a cosa fa il sonno esteriore all’uomo
esteriore, e quella stessa cosa fa un tale sonno all’uomo interiore. Il sonno
corporeo ha il sopravvento sulla sensazione corporea, elimina infatti il lavo-
ro degli occhi, il lavoro delle orecchie e quello di tutti gli altri sensi e mem-
bra. Come però per mezzo del sonno esteriore si addormentano tutti i sensi
del corpo, così per mezzo di quel sonno dell’uomo interiore, del quale par-
liamo, si ha il sopravvento su tutti i sensi della mente. Contemporaneamente
infatti assorbe il pensiero, l’immaginazione, la ragione, la memoria e l’intel-
27
ligenza , come consta che scrisse l’Apostolo (cf. Fil 4,7), che “supera ogni
sensazione”. L’anima prende un simile sonno nell’abbraccio del (suo) vero
sposo, quando riposa nel suo seno. Per questo dice anche (Ct 8,3): “La sua
_____________________________
27
Questa sequenza, cogitatio, imaginatio, ratio, memoria, intelligentia, è la stessa che
scandisce l’ascesa spirituale dell’anima: come se Riccardo volesse dire che la dormi-
tio spirituale è il vertice di tale ascesa. Invece altrove (De gratia contemplationis, IV,
22, citato), la colloca tra la contemplatio e la admiratio. Tuttavia, poiché la contem-
platio segna il punto in cui l’ascesa metafisica eccede le facoltà naturali (quelle sopra
elencate), non vi è contraddizione: qui, nelle Adnotationes mysticae, la dormitio spi-
rituale è il vertice dell’ascesa mistica per mezzo delle facoltà naturali, là, nel De gra-
tia, la dormitio spirituale è il punto di partenza dell’ascesa mistica aldilà delle facoltà
naturali. E questo suo essere cerniera è molto interessante. Infatti le facoltà naturali
sono legate in qualche modo e misura al corpo, quindi l’ascesa mistica che si serve di
esse termina al momento in cui l’anima si separa dal corpo: la dormitio spirituale, da
questo versante, è il culmine della vita spirituale in statu viae. Invece l’ascesa mistica
che trascende tali facoltà non è legata al corpo, anche se suppone la dormitio spiritua-
le: in statu viae è difficile da raggiungere perché è difficile separarsi a tal punto dal
corpo, ma nella purificazione post mortem no, anzi, costituisce tale status spirituale e
metafisico.

158
sinistra è sotto il mio capo, e la sua destra mi abbraccia”. Di questa quiete,
in un simile reclinarsi, già aveva concepito ferma speranza colui che con
tanta fiducia salmeggiava (Sal 4,9): “In pace in lui mi addormento, e mi ri-
28
poso”» .
Quindi la dormitio spirituale è sì anch’essa una separazione, come quella
fisica, ma questa si esaurisce in tale separazione mentre la dormitio spiri-
tuale culmina in un vero abbraccio mistico, in un ‘reclinarsi’ dell’amata fra
le braccia dell’amato. Ed anche se questa terminologia suona un po’ strana
per un uomo, che forse preferirebbe sentir parlare del ‘reclinarsi dell’amato
fra le braccia dell’amata’, è chiaro che questo culmine non è né può essere
estraneo alla dimensione escatologica, nella quale l’unione con Dio è per
sempre e senza limiti. Ma, per non dare l’impressione che la dormitio spiri-
tuale sia concetto se non esclusivo almeno molto caro alla sola Scuola Vit-
torina, proseguiamo nella nostra carrellata di passi.
Dopo Gregorio il Grande e Bernardo di Clairvaux, ritroviamo il concetto
di dormitio spirituale negli opuscoli di un altro santo e Dottore della Chie-
sa: Bonaventura da Bagnoregio. In verità, eccetto l’Itinerarium mentis in
Deum, le sue opere spirituali non sono molto conosciute ed apprezzate al di
fuori di una cerchia piuttosto ristretta, ma ciò non toglie niente al loro valo-
re. Le testimonianze spirituale, per nostra fortuna e per decreto divino, non
valgono tanto quanto sono conosciute o apprezzate dalla gran folla, ma per
se stesse; se ora sono stimate poco o punto, certo verrà il momento in cui le
si cercherà e studierà con assiduità. Questo vale anche per la riflessione mi-
stica di Bonaventura, almeno quella contenuta nei suoi opuscoli minori; il
passo che stiamo per leggere è infatti tratto dal De triplici via, il cui conte-
nuto è ben illustrato dall’altro titolo: Incendium amoris. Leggiamo dunque
il paragrafo secondo del capitolo terzo di questo Incendium amoris:
«I gradini per giungere al ‘sonno della pace’ (sopor pacis) sono sette.
In primo luogo occorre il pudore nel ricordo delle azioni turpi, e questo ri-
guardo a quattro aspetti, ossia quanto alla grandezza, alla moltitudine, alla
turpitudine ed alla ingratitudine.
In secondo luogo, (è necessario) il timore nella circospezione del giudizio, e
questo in quadruplice modo, (riguardo a) lo spreco delle azioni, l’acceca-
mento della ragione, l’indurimento della volontà e la condanna finale.
Terzo, (occorre) il dolore nella stima del danno, e questo secondo quattro
aspetti, cioè quanto alla perdita della divina amicizia, alla perdita dell’inno-
cenza, al ferimento della natura e allo sperpero della vita precedente.
Quarto, (è necessario) il clamore nell’implorazione dell’aiuto, secondo quat-
_____________________________
28
RICCARDO DI SAN VITTORE, Adnotationes mysticae in psalmos, sul Sal 30 (PL 196,
273.276; trad. nostra). Nell’ampio passo qui omesso Riccardo fornisce molte altre
note sulla pace spirituale, che però sono ridondanti per la dormitio.

159
tro modi, ossia (implorando l’aiuto) di Dio Padre, (quello) del Cristo Reden-
tore, (quello) della Vergine Maria e (quello) della Chiesa trionfante.
Quinto, (occorre) il rigore nell’estinzione degli incentivi o delle cause (delle
azioni turpi), (rigore) quadruplice e cioè dell’aridità, che è (radice della) pi-
grizia, della perversità, che è (radice della) malizia, della voluttà, che è (ra-
dice della) concupiscenza, e della vanità, che è (radice della) superbia.
Sesto, (è necessario) l’ardore nel desiderio del martirio, e questo a causa di
quattro (motivi), e cioè a causa della perfezione della remissione dell’offesa,
a causa della perfezione della purificazione della macchia, a causa della per-
fezione dellla soddisfazione della pena, ed a causa della perfezione della
santificazione in grazia.
In settimo luogo, segue il sonno (sopor) in adombrazione di Cristo, dove lo
status è di quiete, quando l’uomo si sente protetto dalle ali divine, così che
non viene bruciato dall’ardore della concupiscenza né dal timore della pena;
(stato) al quale (però) non può pervenire se non per mezzo del desiderio del
martirio; né può giungere al desiderio del martirio se non ha estinto gli in-
centivi (al peccato); né potrà arrivare a questo se non avrà implorato l’aiuto;
né a questo, se non deplora il suo danno, né a questo se non teme il giudizio
divino, né (giunge) a questo se non ricorda e non arrossisce delle sue azioni
cattive. Chi dunque vuole avere il ‘sonno della pace’ proceda secondo l’or-
29
dine sopra assegnato» .
Il testo è molto scarno, quasi un indice o una serie di appunti, e da solo
non risulta molto illustrativo. È necessario contestualizzarlo prima di fare
qualche osservazione. Il capitolo terzo del De triplici via, dal quale questo
passo è tratto, descrive il percorso spirituale che porta alla sapienza: questo
terzo paragrafo, dedicato alla dormitio spirituale, è preceduto dal secondo,
che si occupa di come raggiungere lo splendore della verità, e seguito da un
quarto, che illustra come pervenire alla dolcezza della carità. Il precedente
capitolo, il secondo, si era occupato della preghiera (oratio), per mezzo del-
la quale l’anima deplora le sue colpe, implora pietà per esse e mostra la sua
pietas, mentre il primo era stato dedicato alla meditazione (meditatio), con
la quale l’anima viene purificata, illuminata e perfezionata. Quindi la dor-
mitio spirituale è il settimo di nove gradini spirituali, divisi in tre terne (me-
ditatio, oratio, contemplatio), a loro volta ulteriormente suddivisi: tre gra-
dini per la purificazione, tre per l’illuminazione e tre per il perfezionamen-
to, quindi altri tre per la deplorazione, tre per l’implorazione e tre per la la-
trìa, ma ben sette per la dormitio, sette per la verità ed altri sette per la cari-
tà. In totale, abbiamo nove gradini per la meditatio, nove per l’oratio e ben
ventuno per la contemplatio. È questo un esempio di quanto accurata possa
essere la sistemazione del dato esperienziale che viene portata a termine nel
_____________________________
29
BONAVENTURA DA BAGNOREGIO, De triplici via, c.3, § 2 (Quaracchi, VIII, 12; trad.
nostra).

160
sec.XIII. Né è l’unica: nel De triplici via, dopo aver completato l’esposizio-
ne di questa struttura, Bonaventura afferma che questi gradi potrebbero es-
sere distinti diversamente (cap.3, § 5) oppure organizzati in un’altra struttu-
ra (cap.3, § 6), a riprova del fatto che, al di là delle apparenze, è l’esperien-
za personale a dettar legge: l’ansia sistematizzante e coortatrice degli otto-
centeschi per fortuna è ancora ben lontana, lei ed i suoi danni.
Ma, per il nostro discorso, questi rilievi sono eccedenti, così come non è
molto importante entrare nei dettagli della settuplice distinzione del percor-
so verso la dormitio spirituale. Per i nostri scopi, molto limitati, è sufficien-
te notare in primis che Bonaventura ha grande stima del concetto di sopor
pacis o dormitio spirituale, tanto da inserirlo nel terzo grado dell’Incendium
amoris. Poi, che lo descrive in modo tale da poter essere considerato un
sunto di quella che i Padri chiamano ‘guerra dei pensieri’. Infine, che si
scosta da Riccardo di san Vittore per due aspetti non accessori: 1 - non po-
ne la dormitio spirituale all’inizio dell’ascesa mistica che eccede le facoltà
umane ma, al contrario, la descrive in termini che sottolineano l’impegno
dell’uomo, 2 - introduce un accenno al martirio che, se sarebbe stato curio-
so in Riccardo, è invece comprensibilissimo in chi, come lui, fu attaccato
dai preti secolari di Parigi non solo a parole ma anche con frecce e coltelli,
o in chi, come altri suoi fratelli, furono martirizzati non solo dai musulmani
ma anche dai cristiani in molti paesi europei, per i quali la predicazione e la
30
vita dei Mendicanti era come il fumo negli occhi .
Questi resoconti però, i recenti più di quelli antichi, e quelli di scuola so-
prattutto, oggi danno l’impressione di costruzioni tutte mentali, e la dottrina
che esprimono suona artificiale alle nostre orecchie perché fin troppo preci-
sa, minuziosa, meticolosa, ordinata. In realtà associare questi aggettivi alla
artificiosità o peggio ancora alla falsità non rispecchia un dato di fatto ma è
costume invalso dal Romanticismo in poi. Però non si può negare, e certo i
medievali lo volevano, che in questi resoconti la personalizzazione è a dir
poco scarsa e sistematicamente sacrificata a favore di una oggettività rite-
nuta, allora come oggi, garanzia di ‘scientificità’. Anche questa associazio-
ne non esprime un dato di fatto, ma facciamo epoché di ogni considerazio-
ne al riguardo e mostriamo invece che quei resoconti implicano e sottendo-
no vere e proprie esperienze di vita spirituale personale. Questa rivelazione
però non si ha nelle opere medievali ma in quelle di scrittori mistici poste-
riori: qui ci limiteremo al contributo di Teresa d’Avila (1515-82).
_____________________________
30
Questa distanza è ancor più rimarchevole se si pensa che Riccardo è il punto di rife-
rimento non del solo Bonaventura ma della Parigi della prima metà del sec.XIII. E se
a partire dal sec.XIV il rilievo dogmatico comincia a diminuire, dal lato spirituale la
riflessione di Riccardo è molto utile ancor oggi; mutatis mutandis, è ovvio.

161
4.4. La ‘dormitio mystica’:
il contributo di santa Teresa d’Avila

Nella sua più importante opera, il Castello interiore, Teresa scrive:


«Vi voglio avvertire di un pericolo (benchè ve ne abbia già parlato altrove)
in cui ho visto cadere varie persone d’orazione, specialmente donne, perché,
essendo noi più deboli, abbiamo più occasione di incorrere in quanto sto per
dire. Ed è che alcune, a causa dell’eccesso di penitenza, orazione, vigilie, ed
anche senza questo, solo perché di debole complessione, non possono avere
qualche diletto spirituale senza che la loro natura ne resti soggiogata. Per-
tanto, sentendo una certa gioia interiore, mentre esteriormente soggiacciono
a grande spossatezza e sfinimento, specie se si trovano nel cosiddetto ‘sonno
spirituale’, che è un po’ più intenso di quello di cui si è parlato, sembra loro
che siano la stessa cosa e si lasciano assorbire. Più si abbandonano più re-
stano assorbite, perché la natura s’indebolisce sempre più; nel loro cervello
credono che si tratti di un rapimento, mentre io lo chiamo instupidimento,
non facendo esse altro, allora, che perder tempo e rovinarsi la salute.
Ad una persona accadeva di rimanere in questo stato otto ore, senza che
vengano loro meno i sensi né abbiano alcun pensiero di Dio. Con il dormire,
mangiare e non far tanta penitenza, la persona anzidetta cessò d’essere in
questo stato, perché ci fu chi la capì, mentre, senza volerlo, aveva tratto in
inganno il suo confessore, varie persone e se stessa. Sono convinta che il de-
monio vi aveva contribuito la sua parte per trarne vantaggio, e non poco già
31
a ricavarne» .
Il tono è chiaramente molto diverso da quello fin qui incontrato. Teresa è
molto attenta ai risvolti psicologici, più personale, quasi intima nel riferire
la sue sensazioni (è lei che rimaneva ‘instupidita’ otto ore). Ma non è meno
tecnica. Da questo passo infatti apprendiamo che non vi è una sola dormitio
spirituale ma due, una più forte ed una più debole. Quest’ultima non è esen-
ta dall’influsso del nemico, che trasforma il ‘sonno spirituale’ in una specie
di catalessi consapevole ma senza ricordo di Dio. Dal punto di vista delle
dinamiche spirituali è scoperta che non stupisce, anzi, a rigori era il contra-
rio a farlo. Sempre infatti il nemico agisce imitando l’azione dello Spirito,
per ingannare gli ingenui e/o i poco colti ed ottenere gli effetti opposti, per-
ciò, se esiste la dormitio spirituale secondo natura, allora esiste necessaria-

_____________________________
31
TERESA D’AVILA, Castillo interior, mor.IV, cc.11s (Bettetini 1216ss; Falzone 330s).
Scegliamo la trad. di Falzone perché quella di Bettetini è davvero troppo libera ri-
spetto allo spagnolo, spesso introduce frasi o glosse inesistenti nell’originale e talvol-
ta non coglie neppure la tecnicità di alcuni termini-chiave.

162
mente anche la dormitio ‘spirituale’ contro natura. E mentre la prima, come
si è appreso, è frutto dell’unio mystica e genera gioia profonda, la seconda
è frutto della dimenticanza di Dio e genera accidia. Questa dimenticanza,
unita alla spossatezza, sono il campanello d’allarme sulla vera origine di ta-
le stato, come subito dopo spiega Teresa:
«È bene sapere che quando questo stato proviene da Dio, pur essendoci
spossatezza interiore ed esteriore, l’anima resta forte e prova grande gioia
nel vedersi così vicina a Lui. Del resto non si protrae a lungo, anzi dura ben
poco spazio di tempo, anche se l’anima torni a restare assorta; ma nel corso
di questa orazione, tranne in quei casi di debolezza naturale di cui ho parla-
to, la sospensione non arriva al punto di abbattere il corpo né produce alcu-
na sensazione esterna. State dunque sull’avviso e, se qualcuna si sentirà in
questo stato, ne avverta la superiora e si distragga come può. La superiora
non le consenta di avere troppe ore di ricreazone ma ben poche, e faccia in
modo che mangi e dorma bene fino a che cominciano a ritornarle le forze
32
naturali, nal caso che le abbia perdute a causa di privazioni (...)» .
Il passo prosegue con altre indicazioni pratiche sui comportamenti da te-
nere nei confronti delle monache che subiscono simili attacchi, indicazioni
che, se confermano l’attenzione per le persone e l’interesse psicologico di
Teresa, sono però eccedenti i nostri scopi. Per questi basta la descrizione di
quel che avviene durante una dormitio spirituale secondo natura, la quale si
rivela poi più frequente e ‘normale’ di quanto non si deducesse dalla lettura
di Riccardo o Bonaventura. Poco più avanti Teresa però è davvero prodiga
di informazioni che, tra l’altro, pongono esplicitamente la dormitio mystica
come immagine della morte:
«Ho detto ‘forze dell’anima’ affinchè intendiate che (per l’orazione) non
sono necessarie quelle del corpo, se Dio nostro Signore non le dà. Egli non
impedisce a nessuno di acquisire le Sue ricchezze: gli basta che ciascuno gli
dia quel che ha. Sia benedetto un così gran Dio! Ma badate, figlie mie, che
per l’acquisto di cui parliamo non vuole che teniate nulla per voi: poco o
molto, vuole tutto per sé, ed in conformità di quello che voi vedrete di aver
dato, riceverete maggiori o minori grazie. Non v’è prova migliore per sapere
se la nostra orazione arrivi o no all’unione. Non pensate che si tratti di cosa
sognata, come la precedente. Dico ‘sognata’ perché lì sembra che l’anima
sia mezzo assopita: né appare del tutto addormentata né si sente del tutto
sveglia. Qui, essendo proprio addormentata, e profondamente addormentata
alle cose del mondo ed a se stessa (perché è un fatto reale che l’anima resta
come fuori di sé per la breve durata di questo fenomeno, tanto che non si
riesce a pensare pur volendolo), non occorre far ricorso ad alcun artificio per
sospendere il pensiero.
Perfino quanto all’amare - se ama - non sa come né cosa ami, né ciò che vo-
_____________________________
32
TERESA D’AVILA, Castillo interior, mor.IV, c.13 (Bettetini 1218s; Falzone 331s).

163
glia; insomma è come essere assolutamente morti al mondo per più vivere in
Dio. Proprio così: una morte dilettosa, uno sradicarsi dell’anima da tutte le
operazioni che può avere stando nel corpo; dilettosa perché, pur stando in
esso, sembra invero che l’anima se ne separi per meglio vivere in Dio, in
modo che io non so se gli resti tanto di vita da poter respirare. Ci stavo pen-
sando or ora, e mi sembra proprio di no; perlomeno, se respira, non lo a-
verte. L’intelletto vorrebbe tutto occuparsi ad intendere qualcosa di ciò che
l’anima sente e, poiché le sue forze non giungono a tanto, rimane così stupi-
to che, pur non perdendosi del tutto, non muove piedi né mani, come si dice
33
di una persona che resta priva di sensi in modo tale da sembrarci morta» .
L’idea di desiderare la morte per essere riuniti a Dio non è certo origina-
le; si legge già in Paolo (Fil 1,21-24):
«Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno. Ma se il vivere nel
corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa debba scegliere.
Sono messo alle strette infatti tra queste due cose: da una parte il desiderio
di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio;
d’altra parte, è più necessario per voi che io rimanga nella carne»,
l’abbiamo incontrata più volte in Ambrogio e (meno) in Agostino, ma qui,
in Teresa, perde ogni connotazione intellettuale per testimoniare un sentitus
personale. Non per niente Teresa altrove scrive:
34
«Io dico, secondo quanto mi è stato ordinato, quel che è accaduto a me» .
Impostare le cose dal punto di vista esperienziale cambia le carte in tavo-
la in maniera radicale, ma questo lo si esaminerà più avanti, al punto 12.4.
Qui dobbiamo concentrarci sulla dormitio spirituale come anticipazione sui
generis della morte, e questi passi ci confermano che è tappa spiritualmente
rilevante. Per i dettagli di una dormitio secondo natura dobbiamo però ri-
volgerci ad un altro scritto, l’autobiografia di Teresa, dove si legge:
«C’è un sonno delle potenze (dell’anima): esse non si perdono del tutto ma
non capiscono in che modo operino. Il piacere, la dolcezza, il diletto sono
incomparabilmente maggiori di quelli dello stato precedente, perché l’acqua
della grazia arriva alla gola, tanto che l’anima non può né sa come andare
avanti né tornare indietro; vorrebbe godere dell’eccelsa gloria. È come uno
con la candela in mano, a cui manca poco per morire della morte tanto desi-
derata. In quell’agonia sta godendo con il maggior diletto che si possa dire:
mi sembra che non sia altro se non un morire quasi completamente a tutte le
cose del mondo e star già godendo di Dio. E non so quali altri termini usare
per dire e spiegare questo; l’anima non sa in tale stato che cosa fare, se par-
lare o tacere, se ridere o piangere; è un glorioso delirio, una celeste follia, da
_____________________________
33
TERESA D’AVILA, Castillo interior, mor.V, cc.3s (Bettetini 1226ss; Falzone 334s).
34
TERESA D’AVILA, Libro de mi vida, c.10, n.7 (Bettetini 132; Falzone 99).

164
cui si desume la vera sapienza, ed è, per l’anima, un modo di godere delizio-
sissimo. Questa orazione il Signore me l’ha data abbondantemente, credo
cinque o sei anni fa, molte volte, ma io non la capivo né la sapevo esprime-
35
re» .
Con queste parole Teresa inizia a parlare del terzo grado dell’orazione,
ed è interessante che, per descrivere lo stato dell’anima, usi l’immagine di
un uomo con una candela in mano, perché al suo tempo questo era quel che
un moribondo faceva mentre, a casa, riceveva l’estrema unzione. Altrettan-
to interessante è la frequenza con la quale Teresa usa il verbo ‘godere’ e
parla di ‘piacere’ e ‘godimento’, perché sono azioni e sensazioni che mal si
attagliano ad un sonno analogo al nostro. Per salvare questa distanza senza
perdere la somiglianza noi ci serviamo del latino dormitio, ma Teresa parla
di un ‘sonno delle potenze (dell’anima)’. Che tipo di sonno è, allora?
«Qui le potenze non possono far altro che occuparsi tutte di Dio. Sembra
che nessuna osi muoversi né potremmo smuoverle noi, a meno che con mol-
to sforzo non volessimo distrarci, ma credo che neanche in tal caso potrem-
mo riuscirci. Si dicono molte parole in onore di Dio, ma senza ordine (se il
Signore stesso non vi pone ordine, perché l’intelletto qui non serve a nulla);
l’anima vorrebbe gridare le Sue lodi, e scoppia di gioia; è in preda ad una
inquietitudine dilettosa. (...) L’anima vorrebbe che tutti la vedessero e si ac-
corgessero della sua gioia, per lodare Dio ed aitarla a glorificarlo, e per ren-
36
derli partecipi del suo gaudio, incapace di sopportarlo da sola» .
Questa descrizione è quella alla quale rinvia il passo iniziale: là si legge
la descrizione di una dormitio contro natura, qui quella di una dormitio se-
condo natura. Il termine ‘sonno’ sembrerebbe più adatto alla prima che non
a questa, perché quella è più letargica mentre questa è decisamente più reat-
tiva, ma ciò deriva dall’assumere a metro di misura l’accezione fisiologica.
Si potrebbe notare che l’incipit ricorda da vicino certe esperienze notturne,
nelle quali ci svegliamo ma non riusciamo a muovere nessuna delle nostre
membra, un’esperienza non piacevole, in verità, ma è da dimostrare che ciò
che vale in ambito fisiologico sia valido anche in ambito spirituale. In ogni
caso rischiamo di fare questione di parole, dato che Teresa stessa ci ha det-
to di non sapere quali altri termini usare.
Molto più importante, perché non soggetto a clausole restrittive e soprat-
tutto perché inserito organicamente in quadro coerente e completo, è il fatto
_____________________________
35
TERESA D’AVILA, Libro de mi vida, c.16, 1s (Bettetini 222; Falzone 142s). Traducia-
mo l’incipit direttamente dallo spagnolo perché sia Falzone che Bettetini introducono
un ‘come’ (c’è come un sonno...) inesistente in originale. Ed è chiaro che un conto è
dire “C’è un sonno” ed un altro dire “C’è come un sonno”.
36
TERESA D’AVILA, Libro de mi vida, c.16, 3 (Bettetini 224; Falzone 143s).

165
che questo ‘sonno delle potenze’ è il terzo grado di orazione. Teresa infatti
organizza la sua esposizione paragonando l’anima ad un giardino: il giardi-
niere (il Signore) strappa via le erbacce e pianta i fiori, però questi devono
essere innaffiati. Ecco i modi che enumera Teresa:
«Vediamo ora in che modo si può innaffiare un giardino, per capire che cosa
dobbiamo fare, se la fatica che ci costerà il nostro impegno sarà maggiore
del guadagno e fino a quanto tempo essa durerà. A me sembra che un giar-
dino si possa innaffiare in quattro modi:
o con l’attingere acqua da un pozzo, il che comporta per noi una gran fatica
(è il primo grado d’orazione);
o con noria e tubi (io l’ho girata alcune volte), il che è di minor fatica del
primo e fa estrarre più acqua (è il secondo grado d’orazione);
oppure derivandola da un fiume o da un ruscello: con questo sistema si irri-
ga molto meglio, perché la terra resta più impregnata d’acqua, non occorre
innaffiarla tanto spesso ed il giardiniere ha molto meno da faticare (è il terzo
grado d’orazione);
infine a causa di un’abbondante pioggia, in cui è il Signore ad innaffiarla
senza alcuna nostra fatica, sistema senza confronto migliore di tutti quelli
37
che ho detto (è il quarto grado d’orazione)» .
Questo quadro d’insieme colloca il ‘sonno delle potenze’, o dormitio spi-
rituale, in un contesto di ordinarietà, mentre fin qui pareva fosse più un do-
no d’eccezione o comunque frutto di sforzi intensi, quasi pelagiani. Questo
non significa che, per Teresa, chiunque inizi il percorso dell’orazione giun-
ga necessariamente a questo stadio o che non vi siano sforzi per restarvi: è,
più semplicemente, una delle tappe comprese nel percorso spirituale predi-
sposto da Dio per tutti. Ma il libero arbitrio è sempre padrone del campo.
Poiché quel che premeva apprendere lo si è ormai acquisito, conviene
fermare qui la ricognizione e tirare le fila dell’indagine.

4.5. La ‘dormitio’ e la mistica:


una relazione vitale

Senza alcun dubbio il primo elemento che emerge da questa ricognizione


è che indagare il lato mistico di una questione dogmatica richiede pazienza,
competenza e conoscenze non molto frequenti nei teologi sistematici. Ne è
la prova la lunghezza e complicazione dei passi riportati, che sebbene nu-
mericamente pochi hanno comunque richiesto un buon numero di pagine
per lasciarci intuire la loro ricchezza (e non si è davvero fatto di più!).
_____________________________
37
TERESA D’AVILA, Libro de mi vida, c.11, n.7 (Bettetini 144; Falzone 104s).

166
Ciò detto, la dimensione mistica contestualizza l’immagine della dormi-
tio in modi e misure straordinari e di importanza spirituale assoluta.
In primis, la dormitio della morte si è rivelata essere solo la cesura fisica
tra la dormitio spirituale in statu viae e la dormitio spirituale post mortem,
da dividere poi, a rigori, in ante e post resurrectionem.
In secundis, e di conseguenza, la dormitio della morte fisica si è rivelata
essere l’epifenomeno visibile di quel distacco interiore ed invisibile che è la
dormitio spirituale (nella sua accezione più generale e generica).
In tertiis, dal punto di vista per così dire sistematico, tra la dormitio spiri-
tuale in statu viae, la dormitio fisica e quella spirituale post mortem vi sono
evidenti, numerosi e forti punti di contatto:
1. tutte esigono una ‘morte’: quella della dormitio fisica consiste nella se-
parazione del corpo dall’anima, quella della dormitio spirituale consiste
nel separare se stessi dal mondo, quella della purificazione post mortem
consiste nell’essere separati da ciò che Caterina da Genova chiama la
‘ruggine del peccato’, quel che di esseo reste nell’anima dopo la morte;
2. tutte implicano una ‘sofferenza’: quella della dormitio fisica nasce dalla
rottura dell’unità metafisica essenziale della persona umana, quella della
dormitio spirituale nasce dalla fatica del combattere l’incessante ‘guerra
dei pensieri’, quella della purificazione post mortem nasce dalla ricerca,
individuazione ed eliminazione in noi, da parte dello Spirito di fuoco, di
ogni e qualunque traccia di impurità e imperfezione;
3. tutte comportano una ‘dilatazione’: quella della dormitio fisica consiste
nel superamento delle limitazioni legate al corpo, quella della dormitio
spirituale consiste nella dilatatio cordis che lo Spirito opera nella anima
dei suoi santi, quella della purificazione post mortem consiste nel dive-
nire per grazia come Dio è per natura;
4. tutte infine vedono preponderante l’azione della grazia, che inizia, conti-
nua e perfeziona le tre ‘separazioni’-‘dilatazioni’ dando al fedele la for-
za di sopportare le inevitabili ‘doglie del parto’, come direbbe Paolo.
L’esperienza personale di questa dormitio spirituale può essere ri-detta in
più modi: la tecnicità di Bonaventura è maggiore di quella di Riccardo di
san Vittore, e questa è maggiore di quella di Agostino o Gregorio, ma le li-
nee di fondo restano le medesime, perché uno è l’Amato ed uno è l’amore
con il quale lo si ama. Ognuno poi ama a suo modo, ma l’amore e l’Amato
restano sempre gli stessi. Ieri, oggi e sempre. Senza dubbio però le parole
di Teresa d’Avila colpiscono il cuore assai più che non le dotte sistemazio-
ni dei maestri medievali, sebbene siano più difficili ad intendersi delle loro
perché suppongono non solo una certa cultura (come quelle) ma soprattutto
il vivere un’esperienza personale almeno simile. Teresa più di altri infatti

167
rivela quanto profondo sia il legame tra il modo gestire la vita terrena ed il
modo in cui si affronta la morte, la profondità esperienziale di tale legame e
la insufficienza dell’esposizione intellettuale, sebbene questa sia necessaria
per chiarire quella ed indirizzarla. Ma in questo campo, come Bonaventura
ci ha mostrato, non ci sono regole vincolanti per tutti se non l’amore, per
Dio e per gli uomini; come ebbe a dire Agostino,
«Ama, e fa quel che vuoi.
Se taci, taci per amore; se parli, parla per amore; se correggi, correggi per
amore; se perdoni, perdona per amore.
Sia in te la radice dell’amore, (perché) da questa radice non può esistere se
38
non il bene» .
Con un quadro così completo non rimane altro che tratteggiare il bilancio
più generale della validità della dormitio come immagine della morte.

_____________________________
38
AGOSTINO, In epistolam Iohannis ad Parthos sermones, hom.7, 8 (PL 35, 2053; Rea-
le 349, ritoccata).

168
Capitolo 5

LA MORTE COME DORMITIO:


VALIDITÀ
DI UN’IMMAGINE

Giunti alla fine di questa lunga e poliedrica analisi della dormitio come
immagine della morte, restano da trarre le conclusioni sulla sua effettiva
fruibilità dogmatica, dato che su quella spirituale non vi sono dubbi di sor-
ta. Ora, il tipo di analisi condotta e soprattutto il genere di risultati emersi
impone per prima cosa chiarire che cosa si deve intendere per ‘fruibilità
dogmatica’. Solo dopo questa premessa sarà conveniente valutare la portata
e la consistenza degli elementi emersi per tentare, infine, una visione com-
plessiva da un punto di vista più teoretico ed in prospettiva.
* * *
Chiunque compia studi teologici anche di livello iniziale (baccalaureato)
si rende subito conto che il termine ‘dogmatica’ indica un insieme di disci-
pline le quali, a prescindere dal loro oggetto formale, sono accomunate da
un analogo se non identico modus exponendi et inquirendi, ossia: nei limiti
imposti dal loro singolo oggetto formale e secondo i contenuti ad esso pro-
pri, l’insegnamento della Chiesa cattolica viene esposto, spiegato e giustifi-
cato mediante argomenti tra loro razionalmente coordinati, sia che abbiano
provenienza biblica che Magisteriale o di semplice convenienza. Lo stesso
accade anche alla ricerca: le singole questioni vengono indagate, approfon-
dite e chiarite mediante un’analoga coordinazione razionale, ed i risultati
così ottenuti sono valutati sempre in base a tale accordo. La misura in cui
questo o quel dato elemento, nuovo o meno che sia, contribuisce o comun-
que si accorda a tale modus exponendi et inquirendi è anche la misura della
sua ‘fruibilità dogmatica’.
Se questa è l’accezione più comune di ‘fruibilità dogmatica’, e lo è, allo-
ra è evidente che non solo i risultati della nostra ricerca ma il modo stesso
in cui la si è condotta non sono molto ‘fruibili dogmaticamente’. Non certo
perché il metodo seguito sia privo di ‘coordinamento razionale’ o perché il
modo in cui si è sviluppata la ricerca non abbia rispettato gli standard ri-
chiesti ad una ricerca che voglia essere scientifica; almeno, così ci sembra:

169
1
ma i nostri lettori sapranno giudicare meglio . Noi crediamo che la ‘fruibili-
tà dogmatica’ di questa ricerca sia ridotta perché riteniamo che sia ridotta la
possibilità di inserirla a pieno titolo nel novero di quelle impostate in ma-
niera oggettivamente diversa. Con tutta evidenza, il modus exponendi et in-
quirendi qui seguito non è stato, né sarà, il modus exponendi et inquirendi
di solito adottato nei manuali di teologia dogmatica, quindi i risultati cui ha
portato non sono compatibili con quelli delle altre discipline se non in mi-
sura, appunto, ridotta. Cioè: nella misura in cui sia quelli che questi hanno
preso le mosse dalla Scrittura, dalla Tradizione e dal Magistero senza con-
traddire nessuna delle affermazioni in essi contenute, è ovvio che quelli e
questi sono compatibili. Ma, nella misura in cui quelle stesse fonti sono sta-
te sollecitate in modi diversi, è altrettanto ovvio che tale compatibilità si ri-
duce, ed in misura proporzionale alla diversità di fruizione. Naturalmente, è
bene dirlo a chiare lettere, con ‘contraddizione’ e ‘diversità’ non si intende
né si vuole suggerire l’esistenza di un contrasto aperto o un affermare altro
rispetto a ciò che Scrittura, Magistero e Tradizione insegnano apertis ver-
bis. Si tratta invece, ad esempio, di tacere sistematicamente la forma mentis
con la quale e nella quale nascono quei testi (teologia in qua), di silenziare
totalmente l’intero ambito e valore spirituale delle questioni, di dire ‘spiri-
tuale’ ciò che, al più, può passare per ‘psicologico’, ma solo se ci si ferma
al lato più spicciolo e badando bene di seguire la moda del momento. Que-
sti rilievi sono pensati per la riflessione sulla morte, ma li si può estendere,
mutatis mutandis, anche all’esegesi, alla trinitaria, alla cristologia ed a mol-
ti altri ancora. In realtà, ma non è certo questa la sede adatta per entrare nei
dettagli, ci pare che la teologia odierna abbia bisogno di un radicale ripen-
samento, non tanto nella strumentazione quanto nell’uso che se ne fa.
In termini più semplici e meno tecnici, se con ‘dogmatica’ si intende la
esposizione dell’insegnamento della Chiesa cattolica su un dato argomento,
è fuor di dubbio che anche queste pagine sono ‘teologia dogmatica’. Se in-
vece per ‘dogmatica’ si intende anche il farlo in un certo modo e con un da-
to sentire, allora sono ‘dogmatiche’ solo in parte.
* * *
Come si vede, la ‘fruibilità dogmatica’ dei risultati della nostra indagine
sulla dormitio come immagine della morte dipende tutta dall’idea di ‘dog-
matica’ che abbiamo e che intendiamo mantenere. A parte la fedeltà al Ma-
gistero della Chiesa, criterio sulla cui essenzialità nessuno ha dubbi e sul
_____________________________
1
Il teologo professionista (sic) lamenterà invece almeno la scarsità di bibliografia nel-
le note a piè di pagina. Ma, oltre a rinviare a quanto già anticipato nell’Introduzione,
qui facciamo notare che l’originalità dell’impostazione seguita comporta ipso facto la
scarsità di studi analoghi. Altrimenti non sarebbe più ‘originale’ ma à la page.

170
quale quindi non è necessario soffermarci, noi non crediamo che la coordi-
nazione razionale debba essere il criterio principale per valutare la ‘dogma-
ticità’ o meno di una ricerca o di una esposizione. Per quel che conta la no-
stra opinione di teologi di periferia, riteniamo che il criterio principale deb-
ba essere la fruibilità spirituale di tale esposizione. A nostro giudizio, la
dogmatica ha come fine non la sistematizzazione di una dottrina quanto la
illustrazione della sua indispensabilità per la crescita personale nella fede.
Se la teologia nasce dalla contemplazione di Dio e non dalle ricerche in bi-
blioteche, allora il suo frutto deve essere un aumento della capacità, nostra
ed altrui, di contemplare Dio, e non un mero incremento dell’erudizione. Se
è vero, come è vero perché così è scritto (1Cor 8,2), che
«la scienza gonfia, mentre la carità edifica»,
allora la teologia deve insegnare ad amare Dio sempre più e sempre me-
glio, non a coordinare razionalmente le singole dottrine sempre più e sem-
pre meglio. Questo non significa, va da sé, che tale organicità debba essere
bandita, tutt’altro: ma non se ne deve fare né l’obiettivo principale né il me-
tro di misura. Non significa nemmeno che l’attuale impostazione dogmati-
ca impedisca de iure di crescere nell’amore per Dio: però tale impedimento
è de facto, se non altro perché nei manuali di dogmatica vi è poco o niente
di pertinente all’ambito spirituale. Se poi teniamo presente che questo co-
ordinamento razionale riguarda dottrine transeunti, che nascono, crescono e
muoiono insieme al sentitus del tempo e del luogo, diventa lampante che la
teologia odierna ha abdicato alla sua funzione di aiuto-guida alla crescita di
2
fede per inseguire i fantasmi di una modernità sempre cangiante .
_____________________________
2
A questo riguardo è quanto mai istruttiva la lettura del poderoso tomo di R. GIBELLI-
7
NI, La teologia del XX secolo, Brescia 2014 : informatissimo ed accurato, l’autore
individua ben sedici (16) indirizzi, ai quali dedica un capitolo. E con ‘indirizzi’ si in-
tende movimenti come, p.es., la teologia dialettica (cap.1) o della secolarizzazione
(cap.6), la teologia della speranza (cap.9) o della politica (cap.10). Sarebbe ingiusto
ironizzare sul fatto che molti di questi sono morti e sepolti da tempo: è vero, ma lo è
anche il fatto che altri, come la teologia della liberazione (cap.12) o la teologia nera
(cap.13), sono ben vitali e si sono profondamente rinnovati, come la teologia ecume-
nica (cap.16). In realtà le piaghe della teologia qui enunciate valgono soprattutto per
il mondo occidentale (Europa e Stati Uniti): la prova sta nelle sette edizioni del sag-
gio citato (orig.1992), che dimostrano l’oggettiva difficoltà odierna ad orientarsi in
un mare magnum di riflessioni sparse e senza filo conduttore. Perché, eccetto alcuni,
si deve riconoscere che molti di questi indirizzi hanno ancora molto da dire: ma, privi
di un polo orientatore, ossia una vera e solida dimensione spirituale, sono de facto ri-
dotti a mero esercizio di sociologia teologica. Naturalmente ora il problema diventa
stabilire cosa sia ‘vera e solida dimensione spirituale’: qui possiamo solo dire che, da
un lato, è cosa ben diversa dalla storia della spiritualità alla quale è ridotta nella ratio
(segue)

171
In questa diversa prospettiva, la ‘fruibilità dogmatica’ della nostra analisi
non ci pare scarsa. Vi sono evidenti limiti di approfondimento e documen-
tazione, ma perché si tratta di un tentativo iniziale che non tocca tutti i pun-
ti che sarebbe bene affrontare e non intende esaurire le questioni. Comun-
que il punto cruciale qui non è davvero la difesa del nostro lavoro quanto la
comprensione e la condivisione degli scopi che ci si è prefissi nell’impo-
starlo e nell’eseguirlo. Se altri saranno capaci di far meglio (e ciò è sicuro)
saremo ben felici di cedere loro il passo.
* * *
Ciò detto, il materiale fondativo emerso a favore dell’uso della dormitio
come immagine della morte è di spessore e fruibilità piuttosto variabile.
A livello scritturistico, premesso che la restrizione al solo Nuovo Testa-
mento dell’ambito di ricerca è del tutto arbitraria ed accettabile solo in que-
sta che è una presentazione, non uno studio esaustivo, e premesso pure che
l’esame dei molti passi veterotestamentari nei quali figura l’idea della mor-
te come dormitio potrebbe comportare anche profondi rivolgimenti dei ri-
sultati ottenuti dalla sola prospettiva neotestamentaria, premesso tutto ciò,
si diceva, la fondazione biblica della dormitio come immagine della morte
è solida e compaginata in modo organico.
I lessemi dei due verbi greci con i quali il NT indica l’azione del ‘dormi-
re’ sono infatti ben distinti: mentre katheúdô, in 19 occorrenze su 22, indica
il ‘dormire del sonno’, ad eccezione della triplice attestazione della resurre-
zione della figlia di Giairo (Mt 9,24), non vi è dubbio che koimô indichi il
‘dormire della morte’, non solo perché ciò accade in 15 occorrenze su 17
ma anche perché koimô è impiegato nelle uniche due trattazioni per così di-
re ‘tecniche’ del tema della morte e resurrezione, che per di più sono anche
le più antiche dal punto di vista redazionale (1Cor 15; 1Tess 4). Tale preci-
sa ed accurata distinzione non può che essere espressione di una percezione
teologica precisa: l’ispirazione dello Spirito non agisce a caso (che ispira-
zione sarebbe, allora?). In base a questi elementi si può quindi affermare
che è assolutamente lecito, diremmo quasi doveroso, distinguere tra il ‘dor-
mire del sonno’, che il NT indica sempre e solo con katheúdô, ed il ‘dormi-
re della morte’, che il NT indica sempre e solo con koimô.
Purtroppo questa limpidità neotestamentaria non ha uguale riscontro nei
Padri. Con nostro stupore si è constatato che, se l’idea della dormitio come
immagine della morte è certo presente, altrettanto chiaro è che i Padri non
l’hanno affatto sviluppata, anzi, spesso non la colgono nemmeno commen-
tando i passi paolini nei quali è assolutamente centrale; molti di loro, poi,
______________________________
studiorum teologica, dall’altro è ben lontana dallo psicologismo che domina le poche
trattazioni sistematiche. La vita spirituale è tutt’altra cosa, sed de hoc satis.

172
tra i quali i più importanti, semplicemente la ignora. Non resta che conclu-
dere che, per i Padri, è lecito servirsi della dormitio come immagine della
3
morte, però nel farlo conviene adottare una certa prudenza .
Analoga perplessità può sorgere dal lato della fruizione liturgica della
dormitio. Come attesta Cirillo di Gerusalemme, in quanto espressione della
morte essa è presente nella Preghiera eucaristica sin dal sec.IV (ma certo da
molto prima, dato che Cirillo non è l’inventor dell’anafora), tuttavia è pre-
senza in sordina, non ripresa in altri rituali o momenti liturgici, insomma è
chiaramente accessoria. Analogo silenzio si deve registrare nei sacramenta-
ri medievali, che riprendono l’uso tardo-antico e lo sviluppano. È però op-
_____________________________
3
Interessante esempio delle ragioni di questa prudenza ci pare quel che scrive TOM-
MASO D’AQUINO, In III Sent., d.22, q.2 a.1, q.la 2, arg.3 (Moos, I, 668; se Cristo di-
scese all’inferno dei dannati; trad. nostra): «È scritto (Sir 24,45 vulg.): “Penetrerò
tutte le parti inferiori della terra ed osserverò tutti i dormienti”. Ma le parti inferiori
della terra sono l’inferno dei dannati, nel quale stanno alcuni dei dormienti, cioè dei
morti. Quindi pare che Cristo discese agli inferi»; per l’argumentum è pacifico che
‘dormienti’ e ‘morti’ siano sinonimi, dato che specifica che all’inferno dei dannati
stanno solo ‘alcuni’ dei dormienti e non tutti. Non altrettanto invece si può dire per
l’Aquinate, che nell’ad 3 (Moos, I, 671; trad. nostra), scrive: «Al terzo (argumentum)
si deve dire che ‘parti inferiori della terra’ sono detti anche quei luoghi nei quali era-
no i santi Padri (i.e. patriarchi, profeti e i santi dell’AT); e coloro che erano là conte-
nuti erano detti ‘dormienti’ a causa della speranza della gloriosa resurrezione; non
invece quelli che, dannati, erano all’Inferno». Ora, nell’originale latino, quel ‘non in-
vece’ si può riferire alla sola collocazione spaziale, come l’aggiunta ‘erano all’infer-
no’ sembra confermare: in questo caso, nella responsio Tommaso vorrebbe soltanto
dire che Cristo scese sì nelle parti inferiori della terra ma non all’inferno dei dannati.
Ma è lectio difficilior che, per di più, non garantisce pienamente il risultato che pre-
me ottenere a Tommaso. Ad una lectura cursiva quel ‘non invece’ va riferito al so-
stantivo ‘dormienti’, e così questa responsio ridimensiona l’universalità della dormi-
tio come immagine della morte: secondo Tommaso infatti solo i beati o i purificandi
possono essere detti ‘dormienti’, dato che solo essi possono attendere una resurrezio-
ne gloriosa. Anche Sir 24,45 vulg., se letto nella sua interezza, va in questa direzione:
“Penetrerò le parti inferiori della terra e osserverò tutti i dormienti ed illuminerò co-
loro che sperano in Dio”; poiché nell’inferno dei dannati non vi è speranza in Dio, è
ovvio che la Sapienza (è lei che parla) non è discesa là ma in un’altra ‘parte inferiore
della terra’. Questo passo e l’esegesi dell’Aquinate sembrerebbero suggerire dunque
che la dormitio come immagine della morte sia applicabile solo ai beati ed ai purifi-
candi, poiché solo essi attendono una resurrezione gloriosa; ed in effetti l’idea di una
non resurrezione degli empi è frequente nell’AT: cf. p.es. Sal 1,5 TM, LXX e vulg.
«Perciò non risorgeranno gli empi nel giudizio, né i peccatori nel consiglio dei giu-
sti». Tuttavia gli altri passi biblici esaminati, provenienti dal NT, non ci pare permet-
tano di distinguere tra morti ‘dormienti’ e morti ‘non dormienti’ perché già dannati.
La necessità di studiare a fondo la base anticotestamentaria della dormitio come im-
magine della morte è quindi una buona ragione per servirsi con prudenza (per ora)
della dormitio come immagine della morte.

173
portuno ricordare che nella vita monastica (dove tra l’altro l’eucarestia, con
annesso rinvio alla dormitio, è molto più frequente che non al di fuori) ogni
notte, prima di addormentarsi, al monaco viene ricordato che il suo sonno
potrebbe essere quello della morte. Non è certamente un elemento probante
e dogmaticamente cogente, però è indizio del permanere sotterraneo di una
percezione al di là e nonostante la sua non traduzione in formule liturgiche.
Forse è proprio questo fluire sotterraneo che, con il Concilio Vaticano II,
porta ad un completo rovesciamento di prospettiva. Se l’idea della dormitio
come immagine della morte è ancora percepita come non ottimale per e-
sprimere la concezione cristiana della morte, come dimostra l’assoluto si-
lenzio del Messale Romano nei Prefazi per i defunti e nel Proprio della
Commemorazione di tutti i defunti, è anche vero che nell’Ufficio dei De-
funti della Liturgia delle Ore la presenza della dormitio non è accessoria,
anzi, la correzione apportata a Giovanni 5,28 indica la positiva volontà di
introdurla nella Liturgia. Ancora. La presenza della dormitio nelle Preghie-
re Eucaristiche non si limita più al Canone Romano ma si estende alla Pre-
ghiera Eucaristica seconda, oggi la più usata in assoluto, ed a quella della
Riconciliazione seconda, entrambe frutto della riforma liturgica voluta dal
Concilio. L’idea della dormitio incornicia poi l’intero Rito delle Esequie, e
non si può certo dire che la concezione cristiana della morte qui non sia al
centro della pastorale, oltre che della Liturgia.
* * *
Accanto a questi che sono i loci theologici, i fondamenti solidi sui quali
poggia ogni teologia che vuol essere guida sicura alla crescita nella fede e
non mera esposizione delle proprie opinioni (per quanto ben fondate), ac-
canto a questi, si diceva, vi è il contributo dei santi mistici.
Queste persone hanno un ruolo molto particolare nel corpo della Chiesa.
Mentre ai successori degli apostoli è dato di custodire la rettitudine della
fede, il compito dei santi consiste nel custodire la vitalità della fede, quello
dei santi mistici in particolare consiste nell’adattare tale vitalità alle mutate
condizioni esistenziali dei fedeli. Poiché si muovono in un ambito e con ca-
tegorie meno oggettive dei successori degli apostoli, è necessario distingue-
re i veri dai falsi mistici, e notevole attenzione nel servirsi dei loro scritti.
Ma, al momento in cui la Chiesa ne proclama la santità ed addirittura eleg-
ge alcuni a ‘dottori’, tali precauzioni possono essere allentate: l’uso delle
loro opere rimane comunque delicato, però con la proclamazione la Chiesa
garantisce la verità delle loro affermazioni. Se tra queste vi sono delle dot-
trine che figurano in molti lungo il fluire dei secoli, e la dormitio spirituale
è una di queste, allora si deve concludere che si è di fronte ad un elemento
importante per la vitalità della fede della Chiesa.
Naturalmente, come tutte le opere, anche gli scriti dei mistici devono es-

174
sere contestualizzati ed interpretati correttamente per non mettere in bocca
ai loro autori cose che non hanno mai detto o pensato. Ma contestualizzare
è diverso da ostracizzare. Interpretare non significa negare. Ora, è sotto gli
occhi di tutti che la dormitio spirituale, benchè attestata sin dai Padri della
Chiesa fino ai nostri giorni (sebbene la nostra ricognizione si sia fermata al
sec.XVI) è stata oggetto di una epoché tanto feroce quanto infondata: pochi
i cenni in rari manuali, sempre sulla versione luterana e mai sulla cattolica,
nulla a livello più divulgativo. Senza dubbio la polemica contro la Riforma,
che si serve dell’immagine della dormitio per negare ciò che essa ritiene er-
rato, ha un ruolo importante. Ma questo non è motivo sufficiente per giusti-
ficare il silenzio totale su di essa, tanto più che diversi mistici della Rifor-
ma cattolica se ne servono abbondantemente. In realtà la dormitio spirituale
è molto importante per esporre la fede cristiana, come avremo modo di ve-
dere meglio nella prosecuzione dell’indagine. Si indicheranno anche alcune
vie per un recupero pastorale della dormitio spirituale: per quello dogmati-
co, le ragioni in parte sono già state esposte, in parte lo saranno nella pros-
sima sezione.
* * *
In definitiva, è chiaro che, se per ‘fruibilità dogmatica’ si intende la ri-
cerca o il perfezionamento di una costruzione armonica e sistematica della
dottrina, servirsi della dormitio come immagine della morte è poco utile,
anzi, la sua disomogenea fondazione lo sconsiglia. Se invece con ‘fruibilità
dogmatica’ si intende la possibilità di incrementare la vita spirituale dei no-
stri fratelli, seguendo quel che è il cammino storico della progressiva rive-
lazione della verità che lo Spirito opera nella Chiesa, allora non si può i-
gnorare da un lato l’assoluta chiarezza del fondamento biblico di tale im-
magine, dall’altro l’inequivocabile volontà del Vaticano II di ripensare la
teologia della morte, servendosi proprio di questa immagine e diffondendo-
la soprattutto attraverso la Liturgia. E lex orandi lex credendi.
Giunti alla fine di questo percorso, proseguiamo la nostra ricerca. Che
prevede l’approfondimento di un punto esistenzialmente centrale nell’atteg-
giamento verso la morte, indispensabile alla corretta posizione della propo-
sta di una teologia della morte in prospettiva della deificazione. Ci riferia-
mo alla paura di morire, sentimento tanto profondo quanto intimamente le-
gato alla reale vita spirituale della singola persona. Ed a questo riguardo la
storia della teologia ha molto da dirci.

175
PARTE SECONDA

UNA SVOLTA SPIRITUALE


FONDAMENTALE:

il senso
della paura
della morte
Capitolo 6

UNA SVOLTA SPIRITUALE


FONDAMENTALE:
IL SENSO DELLA PAURA DELLA MORTE

Il percorso fin qui compiuto ha ‘inseguito’ l’immagine della morte come


dormitio per esplicitare il rovesciamento implicitamente posto dal Concilio
Vaticano II e per aprire più di una porta alla presentazione e comprensione
corretta di quella che è la nostra personale proposta. Come abbiamo visto,
l’immagine della morte come dormitio ha fondamenti biblici solidi, riferi-
menti patristici di rispetto ed anche un certo appoggio nella Liturgia odier-
na. Dal punto di vista spirituale suppone però che chi si prepara alla morte
la viva non come un dramma ma, se non proprio come una grazia, almeno
senza paura. Questo, come si vide al punto 1.1., è l’atteggiamento di chi si
sforza di essere cristiano. Tuttavia, alcuni Padri leggono con accenti diversi
il senso spirituale della paura della morte; e siccome è diversità importante,
non possiamo tralasciare di analizzare quella che potrebbe rivelarsi un pos-
sibile, serio punto di debolezza della nostra proposta.

6.1. Il senso della paura della morte:


la posizione della questione

Le linee di fondo di questa differenza emergono con grande chiarezza se


accostiamo tre passi patristici. Il primo è di Ambrogio di Milano, che nel
De bono mortis (390 d.C.) scrive:
«Sebbene sia considerata terribile dai viventi, non è terribile la morte in sé
ma l’opinione (che si ha) della morte, che ciascuno interpreta al modo del
suo sentire (affectu) o che ciascuno ha in orrore secondo la sua coscienza.
Ognuno perciò accusi la debolezza della propria coscienza e non l’asprezza
1
della morte» .
_____________________________
1
AMBROGIO, De bono mortis, 8, 31 (SAEMO VI, 174; trad. nostra).

179
Il secondo è del suo discepolo Agostino, che lo contraddice:
2
«(Quel che) aborrisce la morte non è l’opinione ma la natura» .
Nel terzo, sempre dell’Ipponate e sempre del 420-424 d.C., si legge:
«In ogni modo la natura rifugge la morte. Esamina ogni genere animale: non
troverai nessuno che non voglia vivere, che non tema di morire. (Anche) il
3
genere umano ha questo sentimento» .
La distanza è netta: Ambrogio ritiene che la morte faccia paura perché se
ne ha un’idea errata, Agostino afferma che ciò avviene perché è estranea,
anzi opposta alla nostra natura. L’opposizione pare incomponibile: Ambro-
gio ha una visione culturale del problema e Agostino una metafisica, oppu-
re, se si vuole, Ambrogio muove da una prospettiva filosofica e Agostino
da una teologica. Anche se di per sè si potrebbe optare per una o per l’altra,
l’esperienza ci dice che la gran parte dei nostri fratelli è molto più in sinto-
nia con Agostino che non con Ambrogio, il quale pare esprimere più il ‘do-
ver essere’ che non l’essere così come si dà qui ed ora.
Certamente vi è del vero in queste osservazioni, anche se non poi molto
(fino a che punto, in un Padre della Chiesa, è corretto separare cultura, filo-
sofia, teologia e spiritualità?), però esse non colgono il cuore del problema,
o almeno ci pare che ne esprimano solo un versante, quello della differen-
za, per di più radicalizzandolo. Ma fino a che punto è lecito vedere in una
differenza un’opposizione, se i protagonisti invece non la scorsero? Non è
forse una sovradeterminazione delle reali intenzioni dei due? Se si rileggo-
no con attenzione i testi, ci si rende conto che è così: forse Ambrogio dice
che la morte appartiene alla natura umana? No. Se lo avesse fatto avrebbe
contraddetto la Scrittura, ad esempio Sapienza, 1,14 (“Egli ha creato tutto
per l’esistenza; le creature del mondo sono sane, in esse non c’è veleno di
morte”) e 2,24 (“La morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo”).
4
Quindi Agostino, quando scrive quel che si è letto, non pensa a lui . D’altro
_____________________________
2
AGOSTINO, Sermones, sermo 172, 1 (PL 38, 936; trad. nostra). Siamo debitori di que-
sto accostamento a E. REBILLARD, In hora mortis. Évolution de la pastorale chré-
tienne de la mort aux IV e V siècles dans l’Occident latin, Rome 1994, 9, saggio che
ci ha mostrato la necessità di scrivere questa intera sezione. Più avanti avremo modo
di leggere in uno stralcio più ampio il contesto di questo inciso così tranchant.
3
AGOSTINO, Sermones, sermo 297, 2 (PL 38, 1360; trad. nostra).
4
Non siamo quindi d’accordo con REBILLARD, Hora mortis, op. cit., 40ss, che suppo-
ne un ‘imbarazzo’ di Agostino di fronte alle idee del suo maestro, come se l’Ipponate
credesse che le tesi di Ambrogio potessero avallare le posizioni di Giuliano d’Eclano.
In realtà, lo ammette l’autore stesso, né Agostino né Giuliano menzionano Ambro-
gio; l’Ipponate replica alle tesi pelagiane non contraddicendo ma riportando con cura
(segue)

180
canto, forse Agostino dice che tutti hanno un’idea corretta della morte? No.
Quei Sermoni polemizzano con i pelagiani, ai quali ribatte che la morte è
conseguenza del peccato originale, che quelli negano, e perciò non fa parte
della natura umana come l’ha creata Dio, come invece quelli affermano.
In definitiva, è vero che tra le due visioni la differenza esiste e non è pic-
cola, ma altrettanto vero è che vi è un solido terreno comune, che dovremo
sondare. Per quel che riguarda la dormitio come immagine della morte, non
vi è dubbio che la prospettiva di Ambrogio ne è almeno il presupposto spi-
rituale, e comunque può esserne considerata l’esito diretto. Viceversa, nella
(pretesa) prospettiva di Agostino, parlare della morte come dormitio è poco
sensato se non errato del tutto: perché il sonno è operazione della natura e
morire invece no. Tuttavia non si può pensare di poter esaurire la comples-
sità della questione esaminando tre passi fuori contesto: l’accenno all’eresia
pelagiana ne è un indizio. Entriamo dunque nei dettagli, esaminando quella
che qui si è presentata come ‘posizione di Ambrogio’.

6.2. La paura della morte prima


della ‘querelle’ pelagiana

Innanzitutto due brevi glosse per spiegare il titoletto. Il riferimento alla


controversia pelagiana non è arbitrario, ma esprime un dato di fatto: prima
che il Concilio di Cartagine del 418 condanni le dottrine di Pelagio e Cele-
______________________________
il pensiero di Ambrogio, e di questo respinge solo l’interpretazione eretica. A favore
dell’ipotesi di ‘imbarazzo agostiniano’ Rebillard ricorda che l’Ipponate non menzio-
na apertis verbis Ambrogio (cf. 40, n.77), e che rifiuta il De bono mortis, non come
titolo bensì come inciso (de bono mortis = ‘il bene della morte’ o ‘il beneficio della
morte’; cf. 41, n.84). Francamente paiono appigli fragili, specie se devono provare la
tesi di un’opposizione tra Ambrogio ed Agostino. Nel prossimo punto leggeremo di-
versi passi, da più di un’opera agostiniana, nei quali Ambrogio è auctoritas di riferi-
mento, menzionata esplicitamente e con abbondanti citazioni di diverse opere, tra le
quali il De bono mortis. Che poi Giuliano e Agostino si ‘disputino’ l’autorità di Am-
brogio (cf. 41) non significa che ciò che scrive sia ‘ambiguo’ (cf. 26) ma solo che il
pelagiano legge quel che vuole come vuole; lo fa anche con il Crisostomo (del quale
Agostino riporta una quantità di ampi brani) e molti altri Padri. Se talvolta Agostino
non riporta i passi di Ambrogio è perché, come ammette Rebillard (cf. 40) neanche
Giuliano lo fa, quindi non può replicare a quel che Giuliano non ha detto. Infine, ri-
guardo ai ‘taciti rinvii’, Agostino ne fa uno ad un passo del De fide di Rufino il Siro
che Celestio ‘tacitamente’ rilegge; di questo passo Rebillard scrive (33): «Les thèses
sur la mortalitè rèfutèes par Augustin ne sont pas celles de Rufin». Vero, ma perché
questi ‘taciti rinvii’ sono un’opposizione se riguardano Ambrogio e non se riguarda-
no Rufino, nel cui caso tra l’altro è coinvolto persino il Concilio di Cartagine?

181
stio, Agostino condivide in tutto la posizione del suo antico maestro e ami-
co Ambrogio; è nella polemica contro costoro che alcuni studiosi vedono le
‘prove’ di un mutamento di opinione. Quindi è giusto porre l’inizio della
querelle pelagiana come termine ante quem della prima fase. Ugualmente
corretto è non menzionare Ambrogio, perché il vescovo di Milano fa parte
di una ben nutrita serie di Padri con la medesima idea di morte; compreso
l’Agostino antecedente al 418. Così, in questo primo punto non si trattegge-
rà un orientamento spirituale contrapposto o anche solo diverso da un altro,
bensì un milieu teologico e spirituale condiviso e pacifico per tutti. Che poi
è quel che interessa e serve a noi, che non stiamo facendo patrologia ma te-
ologia fondamentale, seppur sui generis e con una sensibilità tutta partico-
lare per le dinamiche della vita spirituale.
Ciò detto, per renderci conto di questa affinità e soprattutto del gran nu-
mero di questioni esegetiche, dogmatiche e spirituali coinvolte, dobbiamo
cercare nella Scrittura quando, come e perché la morte entra nella creazio-
ne. E poiché i passi di Sapienza (1,24; 2,24) già indicati ci dicono solo che
in qualche misura è opera del demonio, per avere altre informazioni dob-
biamo ricorrere (come già fecero i nostri Padri) a Gen 3,19 (originali):
«Con il sudore del tuo volto mangerai il pane,
fino a quando non ritornerai alla terra dalla quale sei stato tratto:
perché polvere tu sei e polvere tornerai».

È la reazione di Dio alla violazione del suo comando da parte di Eva e di


Adamo: Eva è condannata ai dolori del parto ed alla sottomissione al mari-
to, ad Adamo viene inflitta la fatica del lavoro appunto ‘fino a quando non
ritornerà alla polvere’. Questo ‘ritorno’ fa da contrappasso alla sua creazio-
ne, che Dio compie modellando del fango: però i nostri santi Padri notano
che, mentre il serpente ed il suolo vengono maledetti, Adamo ed Eva non lo
sono. Sta scritto infatti (Gen 3,14):
«Allora il Signore Dio disse al serpente: “Poiché tu hai fatto questo, sii tu
maledetto più di tutto il bestiame e più di tutte le bestie selvatiche”»;
e poco dopo (Gen 3,17a):
«All’uomo disse: “Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato
dell’albero, di cui ti avevo comandato: Non ne devi mangiare, maledetto sia
il suolo per causa tua!”»
Al riguardo, per esempio, ecco come si esprime Ireneo di Lione:
«Dio non è né debole né ingiusto: egli venne in soccorso all’uomo e gli re-
stituì la sua libertà. Per questo all’inizio, in occasione della trasgressione di
Adamo, come riferisce la Scrittura, Dio non maledì Adamo ma la terra da
lui lavorata. Come si esprime uno dei presbiteri, Dio trasferì la maledizione

182
alla terra perché non rimanesse nell’uomo. Come pena della trasgressione,
invece, l’uomo ebbe la tristezza e la fatrica nel lavoro della terra ed il dover
mangiare il pane guadagnandoselo con il sudore della fronte e l’esser dissol-
to nella terra dalla quale era stato tratto; la donna, a sua volta, ebbe in pena
la tristezza, la fatica, i gemiti ed i dolori del parto ed il servizio, cioè il servi-
re al marito. In questo modo non perirono completamente per la maledizio-
ne di Dio ma neppure poterono far poco conto di Dio per aver evitato ogni
rimprovero. Tutta la maledizione passa nel serpente che li aveva sedotti
(Gen 3,14): “E Dio disse al serpente: Poiché hai fatto ciò, sei maledetto fra
tutti gli animali domestici e selvatici della terra”. La stessa maledizione pro-
nuncia nel vangelo il Signore verso quelli che si trovano a sinistra (nel gior-
no del giudizio universale) (Mt 25,41): “Andatevene, maledetti, nel fuoco
eterno che il Padre mio preparò per il diavolo e per i suoi angeli”, signifi-
cando che il fuoco eterno non fu preparato per l’uomo ma per colui che se-
dusse e fece peccare l’uomo, cioè per il capo dell’apostasia, ossia della se-
cessione, e per gli angeli che si ribellarono con lui. Ma giustamente lo a-
vranno anche coloro che, come quelli, perseverano nelle opere del male sen-
5
za pentirsi e senza ravvedersi» .
Si noti come Ireneo parli sì della morte come pena, ma non in senso as-
soluto bensì, per così dire, in modo ‘medicinale’: invece di essere maledet-
to, Adamo riceve come punizione il morire, che però è anche limite al suo
poter peccare e quindi al suo poter finire nell’inferno come i demoni, che
invece tale limite non hanno. Tuttavia non si può negare che punire il suo-
lo, innocente, al posto di Adamo, colpevole, ha almeno l’apparenza di in-
giustizia, ed a poco serve sottolineare il fatto che il terreno non è vivo men-
tre Adamo (che in ebraico significa ‘terra’) invece sì. A questa impressione
il nostro santo Padre Ambrogio offre questa spiegazione:
«Simile è la situazione del suolo a quella dell’anima, perché è di nobile a-
spetto quell’anima che è feconda di meriti e di consigli, mentre è turpe quel-
la sterile. Perché la sterilità e la materia costituiscono le debolezze dell’ani-
ma: la sterilità la defrauda del frutto, le arreca la povertà, le incute il timore,
fa crescere i desideri e le vane opinioni: in tal modo l’anima cade. Che cosa
è dunque la malvagità se non la mancanza del bene? L’anima infatti viene
ad essere defraudata di ciò che è suo ed abbisogna di quello che è di altri, si
svuota e viene riempita senza alcuna misura ed alcuna moderazione. Ed i di-
6
fetti materiali riempiono d’ombra la grazia dell’anima» .
Tra la terra e l’uomo, afferma Ambrogio, vi è un quid metafisico comu-
ne, la materia, che comporta identici svantaggi anche se i soggetti sono di-
versi: ad esempio la sterilità, che priva del frutto dei loro sforzi sia i campi
che l’anima, oppure la bruttura, dei campi come dell’anima, che segue dalla
_____________________________
5
IRENEO DI LIONE, Adversus haereses, III, 23, 3 (SCh 211, 450-454; trad. it. I, 334s).
6
AMBROGIO, De Isaac, 7, 60 (SAEMO 3, 102s).

183
loro sterilità, e così via. Punendo la terra perciò Dio punisce indirettamente
anche l’uomo, e non solo con la fatica della fronte. Ma, se le cose stanno
così, allora che senso ha imporre la morte ad Adamo ed Eva? Dalla risposta
a questa domanda si diparte l’atteggiamento spirituale che ci interessa.

6.2.1. Il ‘courant théologique’


di un atteggiamento spirituale

Ecco come, nel 180 d.C., Teofilo vescovo d’Antiochia commenta il pas-
so del Genesi appena letto:
«Per la prima creatura, la disobbedienza fece sì che egli fosse cacciato dal
paradiso: non perché l’albero della scienza possedesse qualcosa di male, ma
a causa della disobbedienza l’uomo sopportò fatica, dolore, afflizione ed al-
la fine cadde in preda alla morte. E ciò perché Dio concedeva all’uomo un
grande beneficio: di non restare per sempre in stato di peccato. E lo cacciò
dal paradiso come se si trattasse di un esilio affinchè, mediante la punizione
per un tempo determinato, potesse espiare il peccato e, una volta corretto,
7
fosse di nuovo chiamato» .
Per Teofilo la morte non è una punizione ma un beneficio (bonum), che
Dio escogita per impedire ad Adamo ed Eva di vivere in eterno nel pecca-
8
to . Quindi già due secoli prima di Ambrogio è pacifico che la morte è con-
seguenza della caduta di Adamo: la tesi opposta, che appartenesse alla na-
tura umana così come l’ha creata Dio, già allora era al di fuori della Tradi-
zione. Ed il nostro santo Padre Teofilo, come se avesse previsto l’eresia so-
stenuta da Celestio più che da Pelagio, poco dopo scrive:
«Ma qualcuno si chiederà: “L’uomo fu creato di natura mortale?” Assoluta-
mente no! “Allora è immortale?” Non diciamo neppure questo. Ma qualcu-
no dirà: “E non era niente di tutto questo?” Neppure ciò affermiamo. Per na-
tura infatti l’uomo non era né mortale né immortale. Se infatti (Dio) lo aves-
se creato immortale fin dal principio, lo avrebbe creato (come) Dio, se poi lo
avesse creato mortale, sembrerebbe che Dio fosse la causa della sua morte.
Non lo fece dunque né immortale né mortale ma, come abbiamo detto sopra
(cap.24) in grado di ricevere l’una e l’altra natura, affinchè, se si fosse volto
verso la immortalità osservando il comandamento di Dio, come ricompensa
avrebbe ottenuto da lui la immortalità e sarebbe divenuto Dio; se invece si
fosse volto alle opere della morte, disobbedendo a Dio, egli stesso sarebbe

_____________________________
7
TEOFILO DI ANTIOCHIA, Ad Autolicum, II, 25s (SCh 20, 162; CTP 59, 410s).
8
Per un inquadramento generale cf. PIZZOLATO, «Il grande problema della morte», op.
cit., 89-96 (“La morte come rimedio”).

184
per sé causa di morte.
Dio creò l’uomo libero ed indipendente. E ciò che l’uomo aveva procurato a
se stesso mediante la negligenza e la disobbedienza, ora Dio glielo offre gra-
zie al suo amore ed alla sua misericordia, se però l’uomo si sottomette a Lui.
Come l’uomo, avendo disobbedito, procurò a se stesso la morte, così obbe-
dendo alla volontà di Dio, chiunque lo voglia può procurare a se stesso la vi-
ta eterna. Dio ci ha dato la Legge ed i santi comandamenti: chiunque li met-
te in pratica può salvarsi e mediante la resurrezione ereditare l’immortali-
9
tà» .
Il ragionamento di Teofilo, all’apparenza contorto, in realtà è molto sem-
plice: basta ricordare che in greco psychè significa ‘vita’ oltre che ‘anima’,
e che la natura umana consiste nell’unione di corpo ed anima. Tenendo pre-
senti queste note, è ovvio che l’uomo non è mortale per natura, poiché di
questa fa parte anche l’anima (= vita), che non muore, ed altrettanto ovvio è
che non è immortale per natura, poiché questa comprende anche il corpo,
10
che non è la vita (= psychè = anima) . Quindi è corretto dire che l’uomo, in
quanto unione di anima e corpo, per natura non è né mortale né immorta-
11
le . La morte infatti è la separazione del corpo dalla vita (= anima); questa
_____________________________
9
TEOFILO DI ANTIOCHIA, Ad Autolicum, II, 27 (SCh 20, 164ss; CTP 59, 411s).
10
Cf. il di poco anteriore ATENAGORA, De resurrectione mortuorum, 15, 2 (SCh 379,
272ss; CTP 59, 329s): «Se ogni natura umana in genere è costituita dall’anima im-
mortale e dal corpo che a questa fu unito fin dalla sua origine, se Dio stabilì di dare
questa origine, la vita e l’esistenza intera non per la natura dell’anima in se stessa né
per la natura del corpo separato ma per gli uomini composti da tutti e due, affinchè,
dopo aver vissuto con quegli elementi da cui hanno origine e vita, conseguano un fi-
ne comune, allora è necessario che ogni concatenazione sia ricondotta ad un unico
scopo, dal momento che l’essere vivente composto di due elementi è uno solo: soffre
tutte le passioni dell’anima e tutte quele del corpo, agisce e compie tutto ciò che è
sottoposto al giudizio sensibile e razionale. E ciò affinchè tutto e dappertutto concor-
di verso una sola armonia e verso uno stesso modo di sentire: l’origine dell’uomo, le
azioni dell’uomo, la natura dell’uomo, le sue passioni, la sua esistenza ed il fine che
spetta alla sua natura». Quindi l’unità essenziale del composto umano di anima e
corpo, nel quale la prima è datrice di vita ed il secondo il vivificato, non è un assunto
proprio di Teofilo né un semplice prestito dalla filosofia aristotelica; in Atenagora,
p.es., è parte essenziale della dimostrazione dellla resurrezione della carne: ciò che
Dio ha creato per essere unito, anche se provvisoriamente separato, sarà comunque
riunito perché questo è il fine in vista del quale è stato creato.
11
Cf. però GAUDENZIO DI BRESCIA, Tractatus, tr.8, 34 (Hoste, 322; CTP 129, 82): «Ti
mostrerò, carissimo, che anche lo stesso Adamo, il primo ad essere creato, fu asse-
gnato alla familiarità con Dio, dopo aver ricevuto dallo sposo in persona i contrasse-
gni di sapienza e di intelletto dell’immagine di Dio e gli ornamenti della vita eterna.
Ma dopo che, per la seduzione del diavolo, tradì la fedeltà al comandamento, gli fu
tolta l’immortalità insieme con la libertà di amare Dio. Ci fu tuttavia da parte di al-
cuni giusti un risorto amore verso Dio fino al diluvio e fino alla Legge stessa, e ci fu
(segue)

185
però a sua volta non può morire, perché non può separarsi da se stessa: così
12
l’uomo permane dopo la morte, seppur dimezzato nella sua essenza . L’in-
tento di Teofilo nello scrivere queste cose è combattere il razionalismo di
Apelle e Marcione, ma la radice filoniana di questo passo ha permesso ad
Ambrogio di riprendere le due obiezioni nel suo De paradiso (375-378),
13
stavolta contro gnostici, manichei ed ariani . Si noti il parallelo anche con
quanto afferma Gregorio il Teologo:
«(Il Padre disse): “Mi piace ora creare una specie composita, un uomo dota-
to di intelligenza, a mezzo tra i mortali e gli immortali, che possa compia-
cersi delle mie opere, contemplatore assennato dei misteri celesti, dotato di
grande potere sulle cose terestri, un altro angelo che provenga dalla terra,
14
cantore della mia volontà e sapienza» .
A noi però piace far notare che qualcosa di analogo vi è anche in Agosti-
no, che nel terzo libro del De Genesi ad litteram (401 d.C.) osserva:
«Come mai l’uomo, sebbene fosse stato creato immortale, ricevette ciono-
nostante per alimento, come gli altri animali, l’erba dei campi produttrice di
seme, i frutti degli alberi e l’erba verdeggiante, è difficile a dirsi. Se infatti
______________________________
una rinnovata unione di Dio nei confronti di pochi santi». Gaudenzio si ripete poi in
tr.Ad Benivolum, 13 (Hoste, 234; CTP 129, 23). Come si vede, questo discepolo di
Ambrogio, che scrive tra il 390 ed il 410, afferma che la ‘punizione’ di Adamo fu la
perdita dell’immortalità: proprie loquendo, ciò significherebbe che l’anima avrebbe
perso la sua essenza di ‘vita’, dato che il corpo ‘vive’ in virtù dell’unione con l’ani-
ma. A prescindere dall’imprecisione, è chiaro che la distinzione di Teofilo è sconfes-
sata: e in realtà essa non avrà molto successo al di fuori del contesto polemico.
12
Cf. ATENAGORA, De resurrectione mortuorum, 16, 1 (SCh 379, 278; CTP 59, 331):
«Nessuno si stupisca se noi chiamiamo ‘permanenza’ la vita spezzata dalla morte e
dalla corruzione, e rifletta che non è una sola la ragione della denominazione né uno
solo il modo del perdurare, poiché non è una sola neppure la natura delle cose che
perdurano». Naturalmente qui non interessa approfondire queste ragioni, mentre ci
piace notare che qualcosa del genere si legge anche nello pseudo-ANTONIO ABATE,
Avvisi sull’indole umana e la vita buona, c.93 (trad. it. La Filocalia, I, 74): «La vita è
l’unione e la congiunzione dell’intelletto, dell’anima e del corpo. Invece la morte non
è la distruzione delle realtà congiunte ma il dissolversi della loro reciproca relazione:
per Dio tutte le cose sono salve anche dopo questo dissolversi».
13
Con ‘radice filoniana’ intendiamo sottolineare la vicinanza tra la seconda parte del
De opificio mundi di Filone, dedicata appunto alla creazione dell’uomo, sia al com-
mento di Teofilo sia al De paradiso ambrosiano, anche se le differenze sono altret-
tanto evidenti. REBILLARD, Hora mortis, op cit., 17, fa notare che nel De paradiso
compare per la prima volta la distinzione origeniana di tre significati del termine
‘mors’, il che fa dell’Adamantino l’ispiratore prossimo di questa opera.
14
GREGORIO DI NAZIANZO, Carmina, I, 2, carm.1 de virginitate, vv.85-90 (PG 37,
528s; CTP 115, 74).

186
l’uomo divenne mortale a causa del peccato, non aveva certamente bisogno
di cibi siffatti prima del peccato, poiché il suo corpo non sarebbe potuto mo-
rire di fame. In realtà, benché sembri che l’ordine (Gen 1,28): “Crescete e
moltiplicatevi e riempite la terra”, supponga che ciò non potesse avvenire
senza l’amplesso coniugale del maschio e della femmina - cosa che sarebbe
un altro indizio che i corpi erano mortali - si potrebbe tuttavia affermare che
ci potesse essere un altro modo d’unione nei corpi mortali. In tal caso i figli
sarebbero nati da un fervido sentimento d’amore di benevolenza, privo di
qualsiasi sensualità del corpo corruttibile, ed i genitori, senza morire, avreb-
bero avuto come successori i figli non destinati neppure essi a morire, fino a
quando la terra non sarebbe stata ripiena d’uomini immortali: in tal modo,
dopo essersi formato un popolo giusto e santo, come quello che speriamo
sarà dopo la risurrezione, sarebbe stato messo anche un termine alle nascite.
Una simile ipotesi potrebbe essere avanzata, ma in qual modo possa essere
sostenuta è un’altra faccenda. Nessuno però oserà affermare neppure che so-
15
lo i corpi mortali hanno bisogno di mangiare per ristorare le loro forze» .
Quindi anche il Doctor gratiae non sa dire se Adamo ed Eva sono creati
mortali o immortali, poiché se da un lato la morte entra nel creato solo do-
po la caduta, dall’altro si cibano e possono riprodursi come i mortali, anzi,
fare queste cose è un comando di Dio. È interessante notare che quella sul
cibo è quasi accessoria rispetto alle osservazioni sulla procreazione, pro-
porzione che riprenderà venticinque anni dopo, nel 426, prima nell’Opus
contra Iulianum e poi nel De civitate Dei, nel pieno della lotta contro i pe-
16
lagiani , e che non ci risulta sia stata mutuata su o imitata da qualche altro
Padre. Quindi Agostino non ripete un locus commune ma fa una riflessione
autonoma che lo porta e lo mantiene in sintonia con quella precedente e con
se stesso, anche mentre combatte i plagi di Celestio. Si potrebbe obiettare
che ‘non sapere se’ è cosa diversa dal dire ‘né... né...’ come Teofilo; è vero,
ma il risultato è lo stesso: dal racconto della creazione non si può derivare
17
logicamente né la mortalità né l’immortalità della natura umana .
_____________________________
15
AGOSTINO, De Genesi ad litteram, III, 21, 33 (CSEL 28/2, 88; NBA 9/2, 151).
16
Cf. AGOSTINO, De civitate Dei, XIII, 23 (CCsl 48, 405-408; trad. it. 797; l’idea, ori-
ginale, è sviluppata nei cc.16-26 per totum e ripresa in Contra Iulianum, IV, 11, 57.
17
Cf. infatti AGOSTINO, De Genesi ad litteram, VI, 25 (CSEL 28/2, 197; NBA 9/2,
231): «Il corpo di Adamo infatti, prima che peccasse poteva chiamarsi mortale per un
verso e immortale per un altro: cioè mortale perché poteva morire, immortale invece
perché poteva non morire. Una cosa è infatti non poter morire (non posse mori), co-
me è il caso di certe nature create immortali da Dio; un’altra cosa è invece poter non
morire (posse non mori), nel senso in cui fu creato immortale il primo uomo; questa
immortalità gli era data non dalla costituzione della sua natura ma dall’albero della
vita. Dopo che ebbe peccato, Adamo fu allontanato dall’albero della vita con la con-
seguenza di poter morire, mentre, se non avesse peccato, avrebbe potuto non morire.
Mortale era dunque Adamo per la costituzione del suo corpo naturale, immortale per
(segue)

187
18
Però questa riflessione filosofica alla fede non basta : essa ha bisogno in
primis della istruzione che le viene dalla Scrittura, per capire il nesso che lo
Spirito, e non la ragione, pone tra gli elementi dell’essenza umana, anima e
corpo. Rileggiamo dunque il racconto della creazione dell’uomo (Gen 2,7):
«Il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue nari-
ci un alito di vita (gr. pnoèn zôês; lat. spiraculum vitae) e l’uomo divenne un
essere vivente (gr. psychên zôsan; lat. animam viventem)».
______________________________
un dono concessogli dal Creatore. Se infatti il corpo era naturale, era certamente
mortale poiché poteva anche morire, sebbene fosse nello stesso tempo immortale
poiché poteva anche non morire. In realtà solo un essere spirituale è immortale per il
fatto che non potrà assolutamente morire, e questa qualità ci è promessa solo per il
futuro, vale a dire nella risurrezione. Per conseguenza il corpo naturale, e perciò mor-
tale di Adamo - che in virtù della giustizia sarebbe divenuto spirituale e perciò del
tutto immortale - non divenne mortale a causa del peccato essendo tale anche prima,
ma una cosa morta; ciò sarebbe potuto non accadere, se l’uomo non avesse peccato».
L’incipit è inequivocabile: per un verso Adamo è immortale, per un altro no. Si noti
però che Agostino parla solo del corpo: la natura spirituale, angelica e non, per natu-
ra è immortale, seppur di una immortalità creata. Invece l’idea che l’anima sia im-
mortale sub condicione (i.e. ad nutum Dei), non figura quasi mai tra i Padri.
18
Cf. p.es. l’argomentazione contro l’immortalità per natura dell’anima avanzata nel
284-305 d.C. da ARNOBIO IL VECCHIO, Adversus nationes, II, 27 (PL 5, 854 ; trad. it.
B. Amata, CTP 153, Roma 2000, 170s): «Se le anime, strette dai lacci corporei, per-
dono la memoria di tutto quello che sapevano, ne deriva che esse necessariamente
subiscono qualcosa che le fa avvolgere nelle tenebre dell’oblio. Infatti, se non hanno
sofferto assolutamente nulla oppure se conservano la propria integrità, non possono
perdere la loro personale conoscenza delle cose o passare, senza un mutamento del
proprio essere, in altri stati. Ma noi pensiamo che quello che è uno, quello che è im-
mortale, quello che è semplice, in qualsiasi realtà venga a trovarsi conserva sempre
necessariamente la sua natura, e non deve né può patire alcunchè, se ritiene davvero
di essere eterno e di rimanere nei limiti della propria immortalità. Ogni patimento in-
fatti è la porta della rovina e della distruzione, è la via che conduce alla morte, che
reca alle cose la dissoluzione inevitabile: e se le anime sono ad essa soggette, se ce-
dono al suo contatto ed ai suoi assalti, hanno la vita in usufrutto, non l’hanno ricevuta
in proprietà, sebbene altri concludano diversamente ed in una questione tanto impor-
tante fermamente credano alle loro argomentazioni». Quindi la non separabilità della
anima da se stessa non deve essere considerata una impossibilità di perire o una eter-
nità per natura, seppur post creationem. Ogni creatura, per se e proprie loquendo, e-
siste se e solo fin quando è conservata in essere dalla Provvidenza divina. Tale pro-
spettiva metafisica comporta significati di ‘morte’ diversi da quelli abituali, e la sepa-
razione tra corpo ed anima, in senso stretto, non si può dire ‘morte’, dato che l’anima
rimane com’è ed il corpo si dissolve in componenti che rimangono anch’essi. Questa
concezione apre interessanti orizzonti alla riflessione sulla morte, ma qui possiamo
solo prenderne atto. D’altro canto, il pessimismo di Arnobio è isolato: p.es. GREGO-
RIO DI NISSA, De anima et resurrectione, per totum, muove da una prospettiva antite-
tica, ed i Padri dànno per filosoficamente dimostrata l’immortalità dell’anima.

188
È evidente il notevole accordo tra questo passo della Scrittura e quel che
insegna la filosofia aristotelica sul composto umano; persino l’equivalenza
tra psychè, vita ed anima viene ratificata. Il corpo e le sue esigenze appar-
tengono certo alla natura umana, da qualunque punto di vista la si indaghi,
ma di per sé il corpo non è vivo, appunto perché non è ‘anima’. Questa, a
sua volta, altro non è se non la vita del corpo, quindi appartiene anch’essa
alla natura umana. Perciò, quando si parla di ‘morte’, proprie loquendo ci
si riferisce alla separazione dell’anima dal corpo; ma, allora, si chiede Ago-
stino (ancora nel 401, dunque ben prima della diatriba pelagiana),
«Come mai l’Apostolo afferma che il nostro corpo è morto parlando di per-
sone ancora viventi, se non perché ormai la condizione di dover morire a
causa del peccato dei progenitori è inerente nei loro discendenti? Poiché è
naturale anche il nostro corpo come quello del primo uomo, ma anche nella
sua condizione di corpo naturale il nostro è molto inferiore a quello di Ada-
mo in quanto non può evitare la morte, mentre quello poteva evitarla. Infatti,
sebbene il corpo di Adamo dovesse aspettare ancora la trasformazione per
divenire spirituale e ricevere la piena e perfetta immortalità in cui non a-
vrebbe avuto bisogno di un nutrimento corruttibile, se tuttavia fosse vissuto
santamente il suo corpo sarebbe stato trasformato nello stato di corpo spiri-
tuale, non sarebbe andato incontro alla morte. Quanto a noi invece, anche se
viviamo santamente, il nostro corpo è destinato a morire. A causa di questa
ineluttabilità, proveniente dal peccato del primo uomo, l’Apostolo non dice
che il nostro corpo è mortale ma che esso è morto poiché tutti noi moriamo
in quanto siamo tutti solidali con Adamo. L’Apostolo dice anche (Ef 4,22):
“Come esige la verità che è in Gesù, voi dovete spogliarvi dell’uomo vec-
chio vivente secondo la condotta precedente, l’uomo che si corrompe dietro
le passioni ingannatrici”, vale a dire (dovete spogliarvi) di ciò che divenne
Adamo a causa del peccato. Osserva quindi ciò che segue (Ef 4,23s): “Do-
vete inoltre rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestirvi dell’uomo
nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella verità della santità”. Ecco
19
ciò che Adamo perse a causa del peccato» .
Dunque, se è vero che con ‘morte’ si deve intendere in recto la separa-
zione tra anima e corpo, il suo essere contro natura (ossia non voluta da Dio
al momento della creazione) implica un peccato. Così, nella misura in cui
la morte è ancora presente, in quella stessa misura è presente anche il pec-
cato, il quale affligge la natura ma è contro natura e quindi non appartiene
alla natura. Per questo non è sbagliato indicare con ‘morte’ anche il pecca-
to: ma è possibile farlo solo in obliquo, cioè solamente in virtù dei passaggi
or ora compiuti. Per Agostino quindi non ha senso parlare di ‘natura uma-
na’ in senso antelapsario, poiché ormai questa non esiste più: di fatto, dopo
la caduta di Adamo esiste solo la natura umana afflitta dal peccato origina-
_____________________________
19
AGOSTINO, De Genesi ad litteram, VI, 26, 37 (CSEL 28/II, 198; NBA 9/2, 331ss).

189
le, infezione che si manifesta con l’universale ed inevitabile separazione tra
anima e corpo, cioè la ‘morte’. Prescindere da questo dato di fatto è lavora-
re su vuote astrazioni razionaliste: quelle di Apelle e Marcione al tempo di
Teofilo, quelle di Celestio e Pelagio quindici anni dopo questo passo.
Precisamente a questo punto scatta quella differenza d’accento tra Ago-
stino e gli altri Padri che è la ragion d’essere di questa sezione. Vediamola.

6.2.2. I termini teologici


di una differenziazione spirituale

Per il vescovo di Ippona, essendo la descrizione sopra enunciata ormai di


portata universale e valida per tutti, il rifiuto che la natura umana ha di tutto
ciò che la sminuisce giustifica la paura di morire che ogni uomo ha, perché
l’anima per natura rifiuta la separazione dal corpo al quale è unita sin dalla
creazione, separazione che adesso le è imposta dal peccato originale ma,
specifica sempre Agostino (altrimenti concorderebbe con Celestio) non ap-
partiene al modus creandi di Dio.
Per gli altri Padri, invece, tale rifiuto della natura umana è in primis il ri-
fiuto del peccato (originale ma anche attuale) che ha causato tale separa-
zione, un ‘rifiuto del rifiuto’ del volere di Dio che genera l’accettazione se-
rena di una separazione ‘a termine’, dolorosa certo ma che libera dalla al-
trimenti eterna schiavitù del peccato, un distacco subìto ma pacifico che, e
qui ritroviamo la nostra questione, è ben espresso nella sua provvisorietà
dall’immagine della dormitio.
Così, se per Agostino la paura della morte è naturale, sebbene di una na-
tura afflitta dal peccato originale, per gli altri Padri rivela l’essere ancora
nella logica del peccato, logica che invece la croce di Cristo ha annientato
per tutti gli uomini. Per l’Ipponate l’attuale status della natura umana giu-
stifica la paura della morte, per gli altri Padri il suo essere infetta dal pecca-
to originale è solo la spiegazione di tale paura. Tutti concordano sul fatto
che la morte e la paura che ispira sono strettamente legate al peccato, e che
20
senza di questo quelle non sarebbero . Entro questo terreno comune, che li
_____________________________
20
Questa idea è molto antica. Cf. p.es. TAZIANO, Oratio ad graecos, 15 (Marcowich,
23; CTP 59, 202s; 155-170 d.C.): «Gli uomini, dopo la perdita della immortalità, nel-
la morte per fede hanno vinto la morte e grazie alla conversione è stata donata loro la
vocazione secondo la parola che era stata pronunciata, “poiché per breve tempo sono
stati inferiori agli angeli” (Sal 8,6 LXX) ed è possibile ad ogni vinto di vincere di
nuovo se rinnega la causa della morte; quale essa sia sarà evidente per gli uomini che
bramano di essere immortali». La brama dell’immortalità cui si riferisce l’ultimo in-
(segue)

190
separa irrimediabilmente dai pelagiani, vi è poi una differenza, e non picco-
la. Ma non la si può trasformare in opposizione, né vedervi una vera evolu-
zione: Agostino accentua lo stato di fatto in misura e ragione di una pole-
mica che, nonostante la sua non novità, al suo tempo possiede una virulen-
za ignota all’epoca di Teofilo, Ireneo, Cipriano o Ambrogio.
Questi ultimi passaggi vanno ben al di là della lettera del testo di Teofilo,
è vero, ma non per questo sono estranei alla sua prospettiva. Tutt’altro. In
quegli stessi anni infatti il grande Ireneo di Lione afferma:
«Dio ebbe in odio colui che sedusse l’uomo, mentre di questo, che era stato
sedotto, poco a poco ebbe compassione. Ecco allora perché (Gen 3,23s) “lo
cacciò dal paradiso” e lo portò lontano “dall’albero di vita”: non per gelosia
dell’albero di vita, come osano sostenere alcuni, ma per compassione di lui,
perché l’uomo non rimanesse eternamente colpevole ed il peccato che era in
lui non divenisse un male interminabile ed insanabile. Arrestò dunque la sua
trasgressione interponendo la morte e facendo cessare il peccato con il por-
gli un termine nella dissoluzione della carne in terra, in modo che, cessando
una buona volta di vivere al peccato e morendo ad esso, l’uomo cominciasse
21
a vivere in Dio (Rm 6,2.10)» .
Ireneo qui non usa il termine ‘beneficio’ (bonum), ma la sua idea teolo-
gica e spirituale di morte è chiaramente la stessa di Teofilo. Di più: servirsi
del concetto di ‘compassione’ per spiegare l’introduzione della morte apre
______________________________
ciso la si può riferire sia alla conversione al cristianesimo, ed allora la causa della
morte è il peccato (originale), sia all’adesione alla filosofia platonica o stoica, ed al-
lora la causa della morte potrà essere più di una. La medesima ambiguità si legge an-
che in GIUSTINO MARTIRE, Apologia secunda, 11, 8 (Wartelle, 212; CTP 59, 163):
«Coloro che hanno compreso quello che realmente è bene sono anche immortali gra-
zie alla virtù; bisogna dunque che ogni persona saggia comprenda ciò riguardo ai cri-
stiani, a coloro che che vengono dall’atletica ed agli uomini che hanno compiuto
quelle stesse azioni che i poeti descrissero a proposito di coloro che sono ritenuti dèi,
e tragga il ragionamento dal fatto che noi disprezziamo la morte (da tutti invece) te-
muta». In verità qui Giustino sembra propendere più per una comprensione universa-
le che non per una a seguito della conversione, ma è comunque evidente, ai fini delle
nostre osservazioni, che anche il benchè minimo spiraglio sarebbe esiziale per quella
che alcuni studiosi vorrebbero fosse la posizione di Agostino. Infatti, se ogni uomo
può capire ‘quel che realmente è bene’ anche riguardo alla morte, come dice Giusti-
no e forse anche Taziano, allora il fatto che egli abbia paura della morte non è più
giustificato dalla natura ma solo spiegato dall’essere questa nel peccato (originale),
ed il fatto che egli la provi rivela non aver ancora capito quel che è realmente bene.
Questa disponibilità verso le potenzialità della filosofia spiegherebbe bene il tono u-
niversale delle parole di Teofilo e darebbe a quelle di Ambrogio il senso di un accen-
to dovuto all’uditorio, composto di soli cristiani.
21
IRENEO DI LIONE, Adversus haereses, III, 23, 6 (SCh 211, 460ss; trad. it. I, 336s). Cf.
anche III, 23, 3, già riportato in nota.

191
la strada ad accostamenti molto stimolanti dal punto di vista spirituale. Ne
accenniamo solo uno per non divagare troppo. È scritto (Gen 6,5s TM):
«E vide il Signore che grande era la malvagità dell’uomo sulla terra, e ogni pensie-
ro che sorgeva nel loro cuore era solo male, tutto il giorno. E si pentì (wayyinna-
chem) il Signore di aver fatto l’uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor
suo»,
versetti che precedono di poco lo sterminio dell’umanità per mezzo del di-
luvio universale. Ma la LXX ha un testo significativamente diverso:
«E vide il Signore Dio che i mali degli uomini riempivano la terra, e qua-
lunque pensiero nel loro cuore si occupava di cose cattive, tutto il giorno. E
rifletteva Dio nell’animo (enethymêthê o Theòs), che aveva fatto l’uomo sul-
la terra, e ponderava (le cose)».
La distanza più marcata è quella in v.6a, tra il ‘pentimento’ del TM ed il
‘riflettere’ della LXX, ‘riflessione’ che, in v.6b, rimpiazza anche lo ‘addolo-
rarsi in cuor suo’ del TM, anche se i termini originali son diversi. Quelli e-
braici però li ritroviamo nella Vulgata:
«Vedendo però Dio che molta malizia degli uomini era sulla terra ed ogni
pensiero del cuore (loro) era intento al male in ogni tempo, si pentì (paeni-
tuit) di aver fatto l’uomo sulla terra, e fu toccato da un dolore di cuore inter-
no».
Al solito, si è sacrificata la forma italiana a favore della fedeltà alla lette-
ra, perché fosse chiara la vicinanza di Gerolamo al TM e la lontananza dalla
LXX. Ma è davvero così? In realtà la LXX non suppone un altro verbo, ma
legge la forma niphal del verbo ebraico nacham non nel primo ma nel se-
condo significato riportato nei dizionari, e cioè ‘aver compassione’; il dolo-
re che sorge nel cuore di Dio è così di compassione e non di pentimento. La
vicinanza con la ‘compassione’ di cui parla Ireneo è palese, ma a noi serve
di più: ‘aver compassione’ infatti non è la stessa cosa di ‘riflettere nell’ani-
mo’. Dizionari e concordanze però non offrono nessuna via di uscita: il ni-
phal di nacham, in ogni suo significato o sfumatura, resta sempre distante
dal greco enethyméomai, e non vi è modo di ridure lo iato tra ‘aver com-
passione’ e ‘riflettere nell’animo’. Ci viene però in aiuto la tradizione ese-
getica rabbinica, e precisamente il Commento al Genesi di rav Shlomo ben
Itzhaq (Rashì), grande studioso medievale che, a questo riguardo, compen-
dia la tradizione a lui anteriore in questo modo:
«Il Signore si pentì di avere fatto l’uomo sulla terra. - Fu una consolazione
per Dio il fatto di aver creato l’uomo tra gli esseri terrestri perché, se egli
fosse stato uno degli esseri celesti, avrebbe indotto anch’essi a ribellarsi
contro di lui.
Se ne addolorò in cuor suo. - Il Targum Onqelos interpreta: l’uomo divenne

192
oggetto di dolore nel cuore di Dio; venne così in animo a Dio di addolorarlo.
Altra interpretazione di Il Signore si pentì: l’animo di Dio si volse dalla leg-
ge della misericordia alla legge della giustizia, ed Egli riconsiderò che cosa
fare con l’uomo che aveva fatto sulla terra. Allo stesso modo, tutte le volte
che il verbo ‘pentirsi’ ricorre nella Scrittura significa ‘riconsiderare cosa
conviene fare’. Esempi sono (Nm 23,19): “Non è un figlio dell’uomo che
possa riconsiderare”; (Dt 32,36): “Riconsiderò riguardo ai suoi servi”; (Es
32,14): “Il signore riconsiderò riguardo al male; (1Sam 15,11): “Sto riconsi-
derando il fatto di aver costituito Saul re”. Tutti questi passi indicano un
22
mutamento di pensiero» .
23
Quindi, secondo Rashì ‘pentirsi’ significa ‘riconsiderare il da farsi’, che
altro non è se non ‘riflettere nell’animo’. Naturalmente si può dubitare del-
la correttezza di questa esegesi, se non altro perché Rashì ama queste origi-
nalità, ma per fugare (o confermare) i dubbi basta consultare i passi sugge-
riti. Ecco Numeri 23,19:
«Dio non è un uomo da potersi smentire, non è un figlio dell’uomo da poter-
si pentire (wayitnecham; apeilêthênai; mutetur). Forse Egli dice e poi non
fa? Promette una cosa che poi non adempie?»
Qui il verbo nacham figura non nella forma niphal ma in quella hitpa’el,
ma il suo significato non cambia: CEI lo traduce correttamente con ‘pentir-
si’, mentre LXX e vulgata si scostano un poco. Il passo impedisce di ritenere
che nostro Signore si ‘penta’ al modo in cui lo facciamo noi, perché nella
Sua onniscenza niente gli è ignoto, quindi ogni sua azione è voluta e com-
piuta nella più assoluta e completa consapevolezza delle conseguenze. Del
nostro ‘pentirsi’ conviene perciò ritenere solo il lato per così dire ‘neutro’
di tale azione, cioè il ‘riflettere’, il ‘ponderare nell’animo’ quel che è acca-
duto in seguito ad una certa azione. Vediamo ora Deuteronomio 32,36:
«Perché il Signore farà giustizia al suo popolo e dei suoi servi avrà compas-
sione (yitnacham; paraklêthêsetai; miserebitur) quando vedrà che ogni forza
è svanita e non è rimasto né schiavo, né libero».
_____________________________
22
RASHÌ, Commento al Genesi, VI, su Gen 6,6 (trad. it. L. Cattani, Casale Monferrato
1985, 46).
23
In verità Rashì dice ‘Altra interpretazione’, e non ‘questa è la mia esegesi’. Ma la re-
gola rabbinica del citare esige sempre l’indicazione dell’autore del passo riportato:
per questo prima menziona il Targum Onqelos. Se non c’è alcun nome, si deve sup-
porre che l’autore sia lo stesso che lo riporta: qui, Rashì. In nota (46, n.18) il curatore
rinvia a «Genesi Rabbah XXVII, 4. Il verbo ‘pentirsi’ è qui interpretato nel suo pos-
sibile significato di ‘consolarsi’», ma né l’edizione inglese (London 1939) né quella
italiana (Torino 1978) accennano a tale significato. È vero che il curatore rinvia alla
edizione ebraica (Tel Aviv 1977-823), che non abbiamo consultato, ma ci pare molto
improbabile supporre una duplice omissione di simile portata.

193
Qui non c’è molto da dire: CEI rende con ‘aver compassione’ l’hitpa’el
di naham, che in latino è ‘aver misericordia’ ed in greco ‘venire in aiuto’.
Niente a che fare con il ‘pentirsi’, e ratifica dell’uso del secondo significato
di nacham. Meno lineare è invece Esodo 32,14:
«TM: Wayyinachem il Signore riguardo al male che aveva detto fare al suo
popolo;
LXX: E si placò (ilásthê) il Signore riguardo al male che disse avrebbe fatto
al popolo suo;
Vulg.: E fu placato (placatus est) il Signore e non fece il male che aveva
detto contro il popolo suo».
Abbiamo lasciato in ebraico il verbo nacham perché fosse evidente come
la sua traduzione dipenda completamente da quel che di Dio sa chi traduce.
Se infatti questi ha un rapporto con Lui improntato alla volubilità, preferirà
renderlo con ‘pentirsi’, come CEI08, o ‘abbandonò il proposito’, come leg-
geva CEI73. Se invece ne ha uno consapevole della inamovibile fedeltà di
Dio all’amore che nutre per i suoi figli, opterà per ‘aver compassione’. Se
vorrà tenere insieme questo indefettibile amore con la giusta irritazione di
Dio per la condotta irriconoscente che questi hanno nei Suoi confronti, se-
guirà LXX e Vulgata, che hanno ‘essere placato’. La prima opzione è ratifi-
cata dalla CEI, quindi non si può etichettarla di superficialità. La seconda
non figura in nessuna versione, antica o moderna: può anche piacere, ma è
scelta del tutto personale. La terza possibilità può sembrare un po’ contorta,
ma è quella seguita dai LXX, che per i Padri è il testo originale ispirato dallo
24
Spirito , ed è anche l’opzione di Gerolamo, che qui segue il greco
nonostante il suo disprezzo per la LXX.
Situazione analoga si ha in 1Sam 15,11a; chi parla è Dio:
«TM: Nichamty perché ho incoronato Saul come re;
LXX: Ho compassione (parakeklêmai) perché ho fatto regnare Saul come re;
_____________________________
24
Per questa affermazione, centrale, cf. P. AUVRAY, «Comme se pose le problème de
l’inspiration des Septante», Revue biblique 59 (1952) 321-336; G. JOUASSARD, «Ré-
flexion sur la position de saint Augustin relativement aux Septante dans sa discussion
avec Jerome», Revue des Etudes Augustinnienes 2 (1956) 93-97; P. GRELOT, «Sur
l’inspiration et la canonicité de la Septante», Sciences ecclésiastiques 16 (1964) 387-
418; P. BENOIT, «L’ispirazione dei Settanta secondo i Padri», in L’uomo davanti a
Dio. Scritti in onore di p. Henri de Lubac, Roma 1966, 233-262; B. SESBOUÉ, «La
canonisation des Écritures et la reconnaissance de leur inspiration», Recherches de
sciences religieuse 92 (2004) 13-44. A questi ci permettiamo di aggiungere anche il
nostro A.ARA, “Scrivi in un libro quel che ti dirò”. La Rivelazione come Ispirazione,
Beau Bassin 2018, spec. 207-254. Stante il dimorfismo testuale, è chiaro che non è la
stessa cosa dare la precedenza al TM piuttosto che alla LXX, anche se nessuno afferma
che solo il primo è ispirato dallo Spirito.

194
Vulg.: Mi pento (paenitet me) perché ho costituito Saul re;
CEI73,08: Mi pento di aver costituito Saul re».
A questo punto la situazione testuale è chiara. Rashì non ha torto quando
interpreta nacham non come ‘pentirsi’ ma come ‘riconsiderare’; è la stessa
opzione di Ireneo, che più correttamente parla di ‘aver compassione’. Nien-
te permette di supporre che tra le due esegesi vi sia un legame: certo Rashì
ignora Ireneo, né questi si cura dell’esegesi ebraica, anche ammesso che ta-
le opinione esistesse già al suo tempo.
Il nesso tra queste due esegesi è tutto spirituale.
Un autentico, vero rapporto d’amore con Dio ci impedisce di pensare di
Lui qualunque cosa che sia men che nobile, bella e buona. ‘Pentirsi’ ha in
sé una connotazione negativa che non si addice a Dio, a quel che prova per
quei figli che crea pur sapendo che avrebbero peccato.
I rabbini pongono tale consapevolezza già al momento della creazione,
ad esempio quando notano che Dio ‘chiama’ la luce ma non le tenebre, o
che distingue sera e mattina prima di aver creato sole e luna: questi, per lo-
ro, sono tutti indizi della pre-consapevolezza del Creatore della caduta della
sua creazione. E, si noti bene, questo accade prima della creazione degli
angeli, posta da alcuni al secondo, da altri al quinto giorno, ma mai e da
nessuno al primo. A fianco di questa prescienza vi è poi la indeffettibile vo-
lontà d’amore di Dio, che crea comunque ma ponendo tutto sotto la lettera
bet, iniziale di berakah, ‘benedizione’, e nonsotto la lettera aleph, iniziale
di ‘arirah, ‘maledizione, oppure chiamando il primo giorno non ‘primo’
ma ‘uno’ o ‘unico’ (‘echad), così come Lui vuole essere detto ‘uno’ o ‘uni-
co’ in Deuteronomio 6,4: “Ascolta Israele: il Signore è il tuo Dio, il Signo-
re è ‘echad”. Di più. Questa ‘benedizione’ si traduce in una incessante ope-
ra di riavvicinamento in risposta all’incessante allontamento dell’uomo:
«Rav Shimon ben Johai disse: “Cosa che c’era, e poi venne meno, e ritorna
com’era. Difatti tu trovi che dall’inizio la Dimora (shekinàh) abitò sulla ter-
ra, come è scritto (Gen 3,8): ‘E udirono la voce del Signore Dio che cam-
minva nel giardino’. E poiché la Dimora si allontanò quando l’uomo peccò,
25
non scese di nuovo finchè non fu eretta la tenda (shekinàh)”» .
Facile notare che la prima Dimora è Dio stesso, e che la seconda dimora
della quale parla rav Shimon, di stoffa, è creata allo stesso modo in cui an-
_____________________________
25
Numeri rabbà, XII, 6 (trad. it. G.P. TASINI, In principio. Interpretazioni ebraiche del
racconto della creazione. I. Il Midrash, Roma 88, 72, in nota). Da questa breve col-
lazione di commenti al racconto della creazione è possibile farsi un’idea precisa sul
concetto ebraico di ‘peccato’ e sul suo inscindibile legame con il disegno salvifico di
nostro Signore, in un quadro assai stimolante dal punto di vista spirituale. Senza con-
tare che diverse espressioni midrashiche echeggiano frasi evangeliche o paoline.

195
che l’uomo Gesù fu creato, di carne, nel seno della santa Madre Maria. Ed
è facile capire anche perché, compiuta la sua missione redentrice, la dimora
di stoffa viene squarciata (non a caso, dall’alto in basso) e quella di carne
assunta in cielo (non a caso, dal basso in alto). Ma volendo vi è di più:
«Disse rav Abba bar Kahana: “La base della Dimora era sulla terra. Quando
il primo uomo peccò, la Dimora si trasferì al primo firmamento; peccò Cai-
no: si trasferì al secondo firmamento; la generazione di Enosh: al terzo; la
generazione del diluvio: al quarto; la generazione della divisione (cioè quel-
la della Torre di Babele): al quinto; i Sodomiti: al sesto; e gli Egiziani al
tempo di Abramo: al settimo (cioè al punto più lontano). E rispetto a ciò
sorsero i sette giusti, che sono questi: Abramo, Isacco, Giacobbe, Levi, Qe-
hat, Amram, Mosè. Sorse Abramo, e la fece scendere al sesto; sorse Isacco,
e la fece scendere dal sesto al quinto; sorse Giacobbe, e la fece scendere dal
quinto al quarto; sorse Levi, e la fce scendere dal quarto al terzo; sorse Qe-
hat, e la fece scendere dal terzo al secondo; sorse Amram, e la fece scendere
dal secondo al primo; sorse Mosè e la fece scendere dall’alto in basso (cioè
26
sulla terra)» .
Senza dilungarci oltre, è quanto mai chiaro che a questa ineffabile, dol-
cissima, meravigliosa opera d’amore, ben nota a chiunque ami Dio, non si
addice affatto l’idea di ‘pentimento’, mentre è assolutamente conveniente,
forse quasi necessaria quella di una ‘compassione’, con la quale il Padre in-
tende comunque preservare i suoi piccoli, sciocchi ma amatissimi figli dalle
conseguenze delle loro scelte avventate se non stupide. Ora dovrebbe esse-
re chiaro anche come e perché Paolo scriva (Rm 5,6ss):
«Mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo
stabilito. Ora, a stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto; forse
ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. Ma Dio
dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori,
Cristo è morto per noi».
In questa prospettiva, la morte altro non è che il primo atto di questa di-
namica per così dire ‘arginatrice’ del peccato che nostro Signore mette in-
cessantemente in atto, anche oggi, anche per noi. Ma fermiamoci qui.
A distanza di quasi un secolo da Ireneo di Lione, ecco quel che scrive il
nostro santo Padre Cipriano vescovo di Cartagine:
«Fratelli carissimi, il regno di Dio inizia ad essere vicino: mentre il mondo
passa, ormai giungono la ricompensa della vita, la gioia della salvezza che
_____________________________
26
Genesi rabbà, XIX, 7, in G.P. TASINI, In principio. Interpretazioni ebraiche del rac-
conto della creazione. I. Il Midrash, Roma 88, 72, in nota. In verità il testo originale
di Bereshit rabbà è un po’ diverso: cf. p.es. l’ed. a cura di T. Federici, Torino 1978,
151. Ma per i nostri scopi la versione di Tasini è sufficiente, anche se un po’ libera.

196
mai finisce, l’eterna letizia, il possesso del paradiso perduto tempo fa: ormai
i beni celesti succedono a quelli terreni, le grandi cose alle piccole, le realtà
eterne alle effimere. Chi, qui, nel mondo, ha spazio nel suo animo per ansia
ed angoscia? Tra questi eventi (la pestilenza che divampò in Africa nel 252-
54) chi è tremante e triste se non colui al quale manca la fede e la speranza?
Infatti temere la morte è proprio di colui che non vuole andare da Cristo.
Non volere andare da Cristo è proprio di colui che non crede di iniziare a
27
regnare con Cristo» .
Il passo è chiarissimo. Nel 252-54, in mezzo alle persecuzioni e nel pie-
no di una pestilenza che non lascia scampo, Cipriano non qualifica la paura
della morte come ‘naturale’ ma, al contrario, la attribuisce alla poca fede. E
non è cosa eccezionale; immediatamente dopo infatti prosegue così:
«È scritto (Rm 1,17): “Il giusto vive di fede”. Se sei giusto e vivi di fede, se
credi veramente in Dio, perché, tu che sei destinato ad essere con Cristo e
sei sicuro della promessa del Signore, non accetti con gioia di essere chia-
mato da Cristo, e perché non ti rallegri di essere privato delle tentazioni del
diavolo? Infatti Simeone, detto il Giusto, che fu giusto nel vero senso della
parola perché osservò con fede piena i comandamenti di Dio, poiché gli era
stato vaticinato per ispirazione di Dio che non sarebbe morto prima di avere
visto il Cristo, nel momento in cui Cristo bambino si era recato al tempio in-
sieme alla madre, allora riconobbe, grazie allo Spirito dal quale in preceden-
za ciò gli era stato predetto, che Cristo era già nato: dopo avere visto il
bambino seppe con certezza che presto sarebbe morto. Perciò, felice per la
morte ormai vicina e sicuro della prossima chiamata, prese in braccio il
bambino e benedicendo Dio gridò ad alta voce (Lc 2,29s): “O Signore, ora
lascia andare il tuo servo secondo la tua parola, in pace, poiché i miei occhi
hanno visto la tua salvezza”; evidentemente mostra e testimonia che per i
servi di Dio ci sarebbe stata la pace, che ci sarebbe stato un riposo tranquillo
e libero da preoccupazioni solo quando, sottratti alle follie di questo mondo,
tutti noi giungeremo al porto ed alla dimora della nostra eterna sicurezza,
solo quando anche noi, dopo aver vinto questa morte terrena, giungeremo
alla immortalità. Infatti quella è la nostra pace, quella la tranquillità del cre-
28
dente, quella la fermezza salda, stabile ed eterna» .
Anche questo passo non richiede spiegazioni. Ci limitiamo a notare co-
me la sintonia con Teofilo e Ireneo prescinda dal racconto della ‘punizione’
di Adamo, sia fondata esclusivamente sul piano spirituale e come Cipriano,
parlando della morte come di un ‘riposo tranquillo’, sia oggettivamente vi-
cino a descriverla come dormitio, anche se il termine non figura. Queste ca-
ratteristiche rivelano tutta la loro forza un poco più avanti:

_____________________________
27
CIPRIANO DI CARTAGINE, De mortalitate, 2 (CCsl 3A, 171; CTP 175, 63s).
28
CIPRIANO DI CARTAGINE, De mortalitate, 14 (CCsl 3A, 24 ; CTP 175, 72s).

197
«Tema pure di morire colui che non è nato a nuova vita grazie all’acqua ed
allo spirito, e che è assegnato ai fuochi eterni della Gehenna. Tema di mori-
re colui che non è contrassegnato dal sigillo della croce e della passione di
Cristo. Tema di morire colui che passerà da questa morte direttamente alla
seconda. Tema di morire colui che allontanatosi dal mondo sarà tormentato
dalla fiamma eterna degli eterni castighi. Tema di morire colui al quale è
stata inflitta l’angoscia di un’attesa più lunga, perché il suo tormento ed il
29
suo lamento sono soltanto rinviati nel tempo» .
Difficile trovare un testo altrettanto chiaro: la paura della morte è frutto
di poca o punta fede, è tipica di chi si sente condannato all’inferno. Questa
concezione è agli antipodi di quella (pelagiana) per la quale invece essa sa-
rebbe ‘per natura’: è antipelagiana prima ancora che Pelagio nascesse.
Tuttavia si deve rilevare che questi brani sono rivolti ai cristiani mentre
Agostino, quando afferma che la paura della morte è naturale (ma di una
natura afflitta dal peccato originale) pensa a tutti gli uomini, dei quali i cre-
denti sono solo una parte. Quindi, a rigori, non vi è opposizione tra Cipria-
no ed Agostino né un’evoluzione teologica dal primo al secondo, ma solo
diversità d’accento. Cipriano, come prima di lui Teofilo ed in seguito Cro-
mazio, Ambrogio ed anche l’Agostino ante 415, non nega che l’uomo, in
seguito alla caduta di Adamo e prima della conversione, abbia per natura
paura di morire: non ammette però che continui ad averla dopo la conver-
sione. Similmente, Agostino non afferma che, dopo la conversione, il cri-
stiano fa bene ad aver paura della morte: non accetta però di considerarla
ugualmente peccaminosa anche prima, poiché allora la natura umana era
ancora schiava del peccato (originale). Ma sui dettagli della posizione ago-
stiniana ci soffermeremo nel capitolo nono. Per ora continuiamo a seguire
lo sviluppo cronologico di questo plesso di concezioni.
Una cinquantina d’anni dopo Cipriano, Lattanzio, nel suo La creazione
di Dio, scrive:
«(I pagani) si lamentano (del fatto) che l’uomo è soggetto alle malattie ed a
morte precoce. Si indignano cioè di non essere nati dèi. “Tutto all’opposto; -
dicono - però da ciò dimostriamo che l’uomo non è fatto da nessuna provvi-
denza, perché altrimenti avrebbe dovuto farlo altrimenti”. E se mostro che
molto ragionevolmente era stato previsto che delle malattie avrebbero potu-
to affliggerlo e che spesso la sua vita sarebbe stata spezzata a metà della sua
corsa? Dio sapeva, in effetti, che l’animale che aveva fatto sarebbe caduto di
sua spontanea volontà nella morte; perché potesse ricevere la morte, che è la
dissoluzione della natura, gli diede quella fragilità che apre la via alla morte
per dissolvere l’animale. Perché, se la sua forza fosse stata tale che né la

_____________________________
29
CIPRIANO DI CARTAGINE, De mortalitate, 3 (CCsl 3A, 18; CTP 175, 64).

198
malattia né il dolore avesse potuto intaccarla, non avrebbe potuto farlo ne-
30
anche la morte, dato che la morte è una conseguenza delle malattie» .
Anche se l’andamento del passo non lo lascia intendere, vista la sua scar-
sa linearità e cogenza, tuttavia l’opera di Lattanzio cerca di dare credibilità
razionale al più alto numero possibile di insegnamenti biblici. Da questo
punto di vista è decisamente schierata sul versante filosofico, pur con limiti
consistenti ed evidenti. Ma non è per questo che si è riportato questo passo,
bensì per evidenziare che, persino dalla prospettiva assai particolare di Lat-
tanzio, la morte non è avvenimento che irrompe imprevisto ed inaspettato,
che manda all’aria il piano di Dio. “Dio sapeva, in effetti, che l’animale che
aveva fatto sarebbe caduto di sua spontanea volontà”, in virtù della sua on-
niscenza, è ovvio; “perché potesse ricevere la morte, che è la dissoluzione
della natura, gli diede quella fragilità che apre la via alla morte”, da un lato
per accondiscendere alla libera scelta dell’uomo (che Lattanzio indica sem-
pre come ‘animal’), dall’altro porvi un limite ed un fine: “perché, se la sua
forza fosse stata tale che né la malattia né il dolore avesse potuto intaccarla,
non avrebbe potuto farlo neanche la morte, dato che la morte è una conse-
guenza delle malattie”. Quindi il demonio, con il suo agire, non fa niente
che Dio non avesse già previsto e per il quale Egli non abbia già disposto
un rimedio. Non che da queste considerazioni si possa derivare la non licei-
tà della paura di morire, e neanche la semplice non convenienza: questi ar-
gomenti a parte hominis sono estranei alla prospettiva di Lattanzio, che è
interessato solo a quella a parte Dei. E da questo punto di vista la morte
non può essere considerata una novitas, perché tutto ciò che accade è noto a
Dio prima ancora che persino la sua causa inizi ad essere, né è opposta a
Dio in modo vero e proprio, perché tutto quel che avviene accade o perché
Dio lo vuole o perché Egli lo permette, come diranno Agostino prima ed
31
Anselmo d’Aosta poi . Difficile concludere, con queste premesse, che la
morte sia un male aborrito dalla natura, dato che Dio non agisce mai per di-
_____________________________
30
LATTANZIO, De opificio Dei, 4, 2 (SCh 213, 124; trad. nostra).
31
Cf. AGOSTINO, De Trinitate, III, 4, 9 (CCsl 50, 136; trad. it. 153s): «Niente di visibile
e sensibile accade senza che dal profondo del suo palazzo invisibile ed intelligibile il
supremo Sovrano l’abbia comandato o l’abbia permesso, in conformità alla ineffabile
ripartizione dei premi e delle pene, delle grazie e delle ricompense in questo vastis-
simo e immenso Stato, che è l’intera creazione». ANSELMO D’AOSTA, De casu diabo-
li, 20 (Schmitt, 265; trad. it. 139): «Quando dunque il diavolo volse la sua volontà a
ciò che non doveva, il suo stesso volere e lo stesso volgersi della volontà furono
qualcosa, e tuttavia egli non ebbe alcunchè se non da Dio, poiché non poteva volere
alcunchè né volgere la sua volontà se con il permesso di Colui che ha creato tutte le
nature sostanziali ed accidentali». Anselmo riprende questa concezione più volte in
contesti diversi: De libertate arbitrii, Proslogion, Monologion.

199
struggere ciò che ha creato ma solo per migliorarlo. Difficile anche sottrarsi
all’idea che, di conseguenza, la morte sia un certo beneficio (bonum).
Tuttavia queste sono solo deduzioni: Lattanzio non scrive niente del ge-
nere. Soprattutto, non si può sottovalutare l’impressione che, così argomen-
tata ed esposta, la morte finisca con il somigliare molto ad un dato di natu-
ra, quindi con un certo retrogusto filopelagiano in anticipo di più di un se-
colo. È vero che Lattanzio menziona la caduta e il suo essere in qualche
misura cagione della mortalità umana ma, quanto a chiarezza e precisione
teologica e spirituale, è indubbio che si esprime in modo insufficiente.
La diffusione delle concezioni di Cipriano ci è confermata molto più au-
torevolmente e chiaramente da un sermone di Cromazio, consacrato vesco-
vo di Aquileia (388-408) da Ambrogio di Milano:
«La Scrittura aggiunge ancora questo (Gen 3,22s): “Dio cacciò Adamo dal
paradiso perché non potesse allungare la mano all’albero della vita e, man-
giandone, vivere eternamente”. Non senza una misteriosa ragione Dio impe-
dì all’uomo, che aveva disprezzato i comandamenti della salvezza eterna a
lui affidati, di vivere in eterno; per questo Dio gli proibì di toccare l’albero
della vita, perché non vivesse per una sofferenza senza fine. Se l’uomo a-
vesse mangiato dell’albero della vita senza essere stato redento dal peccato
sarebbe certo vissuto per sempre, ma come destinato ad un castigo eterno e
non già alla gloria. Perciò era necessario che gli uomini fossero prima con-
dannati a morire per aver trasgredito il comandamento, e (poi) per tale via
fossero richiamati alla grazia. Così ciò che l’albero della vita non potè pro-
curare all’uomo nel paradiso, glielo ha procurato la passione di Cristo: gra-
zie all’albero della croce egli ha riacquistato la grazia perduta, che allora
32
non aveva potuto recuperare con l’albero della vita...» .
Il passo finisce così perché questo sermone ci è pervenuto frammentario,
ma è chiaro che, per Cromazio, il senso della morte è lo stesso che per Teo-
filo ed Ireneo: un rimedio alla caduta originale. Così come è evidente che
l’universalità della redenzione operata dalla croce di Cristo svuota di signi-
ficati negativi il morire, come ben dice l’Apostolo (Fil 1,21):
«Per me il vivere è Cristo ed il morire un guadagno».
Sull’interpretazione di questo passo si svilupperà una tacita diatriba a di-
stanza, oltre a quella sul senso di Gen 3,19 che stiamo sintetizzando, sulla
quale però scegliamo di glissare nonostante il suo evidente interesse per la
nostra questione. Ci piace invece riportare le parole con le quali, riguardo
alla paura della morte, si esprime un amico personale di Agostino, Paolino
di Nola, che ha avuto modo di riflettere più volte su questo tema delicato:

_____________________________
32
CROMAZIO DI AQUILEIA, Sermones, serm.38, 2 (CCsl 9A, 167; CTP 20, 230).

200
«O fratelli miei, mia sollecitudine e mio cuore, sollevate con questa fede i
cuori rattristati; docili cacciate via la tristezza con la pietà della fede, e con-
fidando in Dio rivestitevi di gioia. Il lutto infelice ed il dolore insensato
convengono a quelli a cui non resta alcuna speranza perché non hanno fede,
e per i quali tutto il bene sta soltanto nel vivere in questo mndo, non sperare
33
in Dio, confidare nei beni materiali» .
Se pensiamo che il carme 31, dal quale è tratto questo brano, è del 393-
396, si ha la conferma che, dopo un secolo e mezzo, le idee di Cipriano so-
no ormai diventate comuni; le si sono lette in Lattanzio, Cromazio, in Pao-
lino, ma hanno la loro origine in Teofilo ed Ireneo, e sono anche quelle di
Atenagora, Giustino ed altri Padri ancora, che vedremo più avanti. I passi
dell’Ipponate già riportati bastano a confutare l’accusa di opporsi a tutti co-
storo (accusa che, per se, odora di Giuliano d’Eclano...), poiché dimostrano
che tra Agostino e gli altri Padri vi è sintonia. Che però questi autori, com-
preso l’Agostino ante 415, scrivano prima di Pelagio lascia aperta la porta
all’ipotesi di un ‘mutamento’ nel pensiero di Agostino: l’obiezione è infon-
data, però è utile sondarla per rivelarne un vulnus molto serio.
Lo faremo chiudendo questo denso capitolo.

6.3. Il senso della morte prima di Pelagio:


conclusioni teologico-spirituali

La pretesa opposizione sul senso della paura della morte tra Agostino ed
i Padri a lui anteriori, in primis ad Ambrogio, viene spiegata con la necessi-
tà, da parte dell’Ipponate, di confutare l’eresia di Celestio e Pelagio. Ciò si-
gnifica che la cronologia relativa delle opere è importante al fine di valuta-
re le concezioni che contengono; soprattutto è indispensabile per dimostra-
re che vi è un mutamento, poiché questo esige che vi sia un prima ed un
dopo diversi uno dall’altro.
Ma la cronologia dimostra invece l’esatto opposto, poiché Celestio e Pe-
lagio non sono dei novatores. Teofilo di Antiochia solleva nel 180 quelle
tesi e le respinge. La loro confutazione è ripresa nel 373-76 da Ambrogio,
nel De paradiso, e poi, prima del 411, dal De fide di Rufino il Siro, disce-
polo di Gerolamo certo ortodosso nonostante l’amicizia con Pelagio: molte
tesi di Celestio sono in effetti distorsioni di quel che legge nel De fide di
Rufino Siro, al quale forse si rifà lo stesso Agostino nei libri sesto e settimo

_____________________________
33
PAOLINO DI NOLA, Carmina, carm.31 ad Celsum, 380-389 (PL 61, 684; CTP 85,
436s).

201
34
del De Genesi ad litteram, risalenti a poco dopo il 401 . Come si vede, non
bisogna attendere l’esplosione della querelle pelagiana per sentire certe af-
fermazioni o conoscerne la confutazione. Né vi è qualcosa di davvero nuo-
vo che tale controversia introduca se non una mal riposta insistenza su certi
elementi (già individuati e condannati), la quale esige, questo sì, una conte-
stuale ed opposta accentuazione degli elementi contrari (dato che le prime
confutazioni non avevano sortito l’effetto voluto). Così, quando a Cartagine
i vescovi dell’Africa condannano nel 418 Pelagio e Celestio, non hanno bi-
sogno di introdurre elementi dogmatici nuovi ma si limitano ad evidenzia-
re, all’interno del patrimonio della Tradizione, ciò che serve a ri-confutare
la vecchia eresia. Nihil novum sub sole.
A questa imprecisione cronologica la pretesa opposizione somma quella
filologica. Infatti, anche l’idea che Agostino ‘distorca’ il pensiero altrui è
tutt’altro che nuova: al contrario è uno dei cavalli di battaglia di Giuliano di
Eclano ed è già confutata da Agostino stesso, che in diverse opere riporta
numerosi ed ampi brani di Crisostomo, Ambrogio, Basilio, Cipriano, Gre-
gorio Nazianzeno e tanti altri. Qui tale difesa si è appena intravista, aven-
_____________________________
34
Volutamente ci siamo serviti degli elementi testuali che Rebillard porta a favore della
sua ipotesi di «une nouvelle anthropologie» agostiniana (cf. Hora mortis, op. cit.,
63), per provare che la sua lettura non è convincente. Si avrà modo più avanti di indi-
care altri passi dai quali apparirà che tale ‘novità’ è una questione d’accento. Ci per-
mettiamo solo una glossa sul ruolo di Rufino il Siro. Rufino, discepolo di Gerolamo,
lo imita nella lotta contro l’origenismo: nella sezione del De fide che affronta la pro-
tologia, respinge la tesi della preesistenza delle anime e quindi anche l’esistenza di
un peccato spirituale che le avrebbe ‘precipitate’ giù nel mondo corporeo. I destinata-
ri di questa opera verosimilmente sono encratiti anteriori ad Agostino: quando questi
dovrà a sua volta controbattere le loro esegesi, ricorrerà alle stesse affermazioni di
Rufino (cf. REBILLARD, Hora mortis, op. cit., 33). A giudicare dalle date (il De Ge-
nesi ad litteram, VI -VII è di poco posteriore al 401, il De fide anteriore al 411; cf.
però REBILLARD, Hora mortis, op. cit., 33, n.32, per il quale potrebbero essere anche
contemporanei), si potrebbe supporre sia che Agostino si ispiri a Rufino sia che que-
sti mutui i suoi argomenti da lui. Se si accetta quest’ultima ipotesi, intrigante e quasi
suggerita dalla cronologia, de facto però Agostino sarebbe l’ispiratore occulto del pe-
lagianesimo via Rufino, una conclusione rivoluzionaria ma assai poco convincente.
Ci è sembrato molto più prudente supporre che Agostino abbia letto il De fide. È co-
munque sicuro che nessuno dei due ha in mente la caduta di Adamo ed Eva. È molto
probabile che tale identificazione sia stata invece compiuta da Celestio, il quale re-
spinge il peccato originale di Adamo ed Eva con le stesse argomentazioni con le qua-
li Rufino rifiuta quello primigenio delle anime: ciò spiega anche perché il De fide di
Rufino non sia stato condannato né nel 418 né prima, mentre le analoghe tesi di Ce-
lestio sì. Ma anche queste vicende dimostrano che la querelle pelagiana non produce
une nouvelle anthropologie ma solo una diversa accentuazione entro uno stesso ed
immutato insieme di elementi.

202
done noi demandato l’illustrazione al capitolo nono. Tuttavia si sono ripor-
tati diversi passi, di gran lunga anteriori alla querelle pelagiana, nei quali si
leggono le stesse idee di quei Padri ai quali si vorrebbe che il Doctor gra-
tiae si opponesse: il che dimostra che la tesi di Giuliano è falsa, e che sba-
glia chi oggi la riprende.
Vi è infine l’aspetto che a noi più preme: il risvolto spirituale.
Volutamente abbiamo riportato alcuni passi della tradizione ebraica per-
chè fosse chiaro che il nostro rapporto con la morte non nasce da una certa
riflessione filosofica o teologica ma, esistenzialmente, dalla misura e quali-
tà della affinità spirituale che abbiamo con Dio.
Se questi non è l’Amato del nostro cuore ma, al più, una specie di Gran-
de architetto dell’universo che agisce senza saper bene quel che fa, se ne
pente e fa pagare i suoi errori agli altri, la morte non potrà che far paura.
I testi rabbinici invece, pur del tutto al di fuori del contesto cristiano per
dottrina, epoca e mentalità, sono oggettivamente in sintonia con il sentitus
dei passi patristici riportati. Quel sentitus, dunque, non dipende da una cer-
ta riflessione o da un dato contesto ma da qualcosa di più profondo e co-
mune ad ebrei e cristiani. Questo qualcosa è il personale rapporto d’amore
con Dio. Infatti tutti, Padri e rabbini, cristiani ed ebrei, parlano della morte
muovendo dall’amore indefettibile che il nostro amato Signore ha per noi.
E questo vale anche per l’Islam. Tutti lo intravedono in ogni accadimento,
seppur in modi e misure proporzionate ai doni spirituali ricevuti. L’amore
di Dio, la percezione esistenzialmente incontrovertibile della sua vicinanza
sono la fonte dell’atteggiamento verso la morte. In questa visione, la morte
è il primo dei tanti ‘argini’ posti dalla Sua benevolenza alle conseguenze in
noi dell’errore di Adamo ed Eva: un ‘argine’ doloroso, nessuno lo nega, ma
anche molto utile, in definitiva, indispensabile. Chiunque ami Dio, qualun-
que fede Dio gli abbia dato di vivere, sa che Lui è buono e non farebbe mai
niente di male ai suoi amati figli, che adora fino alla follia. Figurarsi farli
morire per un Suo errore di valutazione.
Per comprendere il risvolto spirituale bisogna però aggiungere anche una
nota di carattere ermeneutico.
Quando leggiamo passi di santi, a fortiori se si tratta di Padri della Chie-
sa, bisogna considerare il loro versante intellettuale come espressione, fun-
zione, quasi un sottoprodotto della tensione mistica di chi li scrive. Questa
fornisce il quid, quello il quomodo loquendum. Se non si rispetta questa ge-
rarchia, o peggio ancora la si nega o ignora, il versante intellettuale diventa
tutto ciò che abbiamo e niente lo difende dall’essere ridotto al nostro modo
di vivere il rapporto con Dio; il risultato pratico di questa costrizione spiri-
tuale lo si è visto nella traduzione del verbo nacham. Se invece in noi vi è
amore per Dio, allora sappiamo che quel che fa è sempre buono, perché lo

203
conosciamo così. Chi dice il contrario sbaglia: non serve una etichetta per
35
capirlo, basta la nostra esperienza personale . Per questo la condanna di
certe tesi ‘pelagiane’ si legge tre secoli prima di lui: perché già allora vi era
chi pretendeva di parlare di Dio senza conoscerlo e soprattutto senza amar-
lo. La percezione dell’infondatezza di questa pretesa rivela a Teofilo
l’errore insito in quelle affermazioni, senza che altri, men che meno un ine-
sistente Magistero, glielo etichetti come contraffazione. In realtà, il nome di
un eresiarca aiuta ad individuare certi errori tra i molti succedutisi nella sto-
ria della salvezza, ma non sempre è anche quello di colui che per primo (o
pubblicamente) ne ha parlato: ad esempio, le tesi di Ario sono già condan-
36
nate del De principiis di Origene .
Naturalmente, a questo punto la domanda ineludibile diventa capire cosa
si intenda con ‘tensione mistica’. Rispondere esaustivamente qui va al di là
dei nostri scopi, però qualcosa lo si è già anticipato ed altro ancora si dirà
in seguito. Ma si vada per gradi: dobbiamo ancora terminare di tratteggiare
la posizione dell’esponente più blasonato della prospettiva anteriore alla
querelle pelagiana, Ambrogio vescovo di Milano.

_____________________________
35
Questa dinamica è comunissima: p.es., chiunque ha figli e ne parla capisce subito se
li ha anche chi lo ascolta o no. Il punto è che, se ci si riferisce a esperienze di questo
tipo, di solito non si ha problemi ad ammettere la propria ignoranza; ma se si parla di
Dio ecco che tutti pretendono di sapere tutto più e meglio degli altri...
36
Cf. p.es. ORIGENE, De principiis, IV, 4, 1 (SCh 268, 402; Simonetti, 543s): «Se (il
Figlio) è immagine di Dio invisibile, è immagine invisibile. E io oserei aggiungere
che, in quanto somiglianza del Padre, non c’è stato tempo in cui non esisteva. Quan-
do mai infatti Dio, che secondo Giovanni è luce - infatti Dio è luce (cf. 1Gv 1,5) - ,
non ebbe il riflesso della sua gloria, sì che uno potrebbe osare di attribuire un princi-
pio al Figlio quasi prima non esistente? Quando mai non esistette l’immagine della
sostanza ineffabile, innominabile ed inesprimibile del Padre, la sua impronta, la Pa-
rola che conosce il Padre (Gv 10,15)? Chi osa dire: ‘C’era un tempo in cui il Figlio
non esisteva’, consideri che così egli afferma: ‘Un tempo non esisteva la sapienza,
non esisteva la parola, non esisteva la vita’, poiché tutte queste determinazioni defi-
niscono perfettamente la sostanza di Dio Padre». Questa condanna dell’arianesimo
ante Arium è chiaramente del tutto analoga a quella, in Teofilo di Antiochia, del pe-
lagianesimo ante Pelagium. Semmai la questione è capire perché tesi già condannate
siano riproposte, e con forza tale da dover essere infine respinte magisterialmente. Il
lato storico offre una risposta vera ma insufficiente: certamente la ripresa sorge dal
considerare la condanna una mera opinione personale, ma lo si crede perché non se
ne capisce la radice spirituale. Né ci si illuda che un pronunciamento magisteriale ri-
solva la questione: p.es., a dispetto della condanna, vi sono teologi di chiara fama che
oggi pensano ad una ‘riabilitazione pastorale’ di Pelagio...

204
Capitolo 7

AMBROGIO DI MILANO
E LA MORTE
COME BENEFICIUM

La cronologia ormai ci ha portati dinanzi a quella che, in ambito latino, è


la personalità più autorevole prima di Agostino: Ambrogio, vescovo di Mi-
lano. Questi affronta a più riprese la questione della liceità dell’aver paura
della morte e in generale il tema della morte. Di solito lo fa in circostanze
occasionali: la morte del fratello (De excessu fratris; 378), quella dell’im-
peratore Valentiniano III (De obitu Valentiniani; 392), la scomparsa di Te-
odosio (De obitu Theodosii; 395). Vi è però anche una riflessione più mira-
ta, il De bono mortis (390), nella quale Ambrogio riprende l’idea di morte
come rimedio, già incontrata in Teofilo, e la sviluppa considerandola come
un beneficio (bonum). Questo insieme di scritti, unito ad una serie di altri
spunti sparsi, costituiscono un patrimonio rilevante che dovremo analizzare
1
nel dettaglio . Ed il primo passo, ovviamente, è indagarne le radici.

7.1. Ambrogio e la riflessione anteriore


sul senso della morte

De bono mortis: già il titolo di quest’opera rivela che Ambrogio si pone


in rapporto diretto con le fonti dell’atteggiamento spirituale e teologico che
_____________________________
1
Per una inquadratura generale, oltre al datato L.P. MCCAULEY et alii, Funeral ora-
tions by saint Gregory Nazianzen and saint Ambrose, New York 1953, cf. p.es. Y.M.
DUVAL, «Formes profanes et formes bibliques dans les oraisons funèbres de saint
Ambroise», in A. CAMERON (ed.), Christianisme et formes litteraires de l’Antiquité
tardive en Occident, Genève 1977, 235-302; F.E. CONSOLINO, «Il discorso funebre
tra Oriente ed Occidente: Gregorio di Nazianzo, Gregorio di Nissa, Ambrogio», in F.
CONCA et alii (edd.), Politica, cultura e religione nell’Impero romano (secc.IV.VI).
Atti del II Convegno dell’Associazione di Studi Tardoantichi, Napoli 1983, 171-184;
M. BIERMANN, Die Leichenrede des Ambrosius von Mailand. Rhetorik, Predigt,
Politik, Stuttgart 1995. Noi però qui ci muoveremo da un’altra prospettiva.

205
in parte si è già delineato: ‘bonum’ è infatti termine proprio di Teofilo di
Antiochia, il cui scritto Ad Autolico il vescovo di Milano usa in altre occa-
sioni e con altri scopi. Ma anche il concetto espresso dal titolo è fondamen-
tale: riprende infatti il pensiero di Ireneo di Lione e dei Padri Apologisti.
Teoreticamente e cronologicamente, però, non conviene partire dal De bo-
no mortis. Infatti, l’atteggiamento spirituale che stiamo illustrando ruota in-
torno a e dipende da un concetto centrale che non è nel De bono mortis ma
si legge in una opera anteriore e di tutt’altro genere, il grande Commento al
salmo 118. Qui, illustrando il v.123 (itala):
«I miei occhi si sono consumati nella tua salvezza e nell’eloquio della tua
giustizia»,
Ambrogio compie osservazioni che conviene riportare per intero:
«Rifletti quali siano questi occhi che si consumano per Cristo, nell’attesa
della sua venuta. Naturalmente non sono gli occhi del corpo ma quelli
dell’anima, che fissano con tutta la loro intensità di fede: tutta la nostra vita
è presa dalla persona amata e non ci diletta vedere nient’altro. Così può par-
lare solo chi ha distolto ogni tensione del suo spirito dalle preoccupazioni
secolari e dai piaceri di questo mondo. Come infatti potrebbe parlare così
chi è occupato nei ludibrii del teatro? Questo invece lo dice chi prima ha
detto (Sal 118, 37; itala): “Distogli i miei occhi, perché non vedano la vani-
tà”. Quali sono poi gli occhi che si consumano per ‘l’eloquio’ del Signore se
non gli occhi dell’uomo interiore e la vista dell’anima, che stanno tesi per
scorgere la Parola di Dio e nella grande tensione ed attesa si consumano, a-
spettando la salvezza di Dio, disposti a consumare se stessi pur di appro-
priarsi di ciò che è della Parola?
E siccome “eloquio di Dio” può creare difficoltà a parecchi, ecco che ha ag-
giunto “eloquio di giustizia”, per non creare più difficoltà. Avrebbero però
creato delle difficoltà anche “Il maggiore serve il minore” (Gen 25,23) - in-
fatti, se non è riferita ai misteri, è ingiuria alla natura - e “Diedi a voi precet-
ti non buoni” (Ez 20,25) o “Io sono il Signore che creo cose cattive (mala)”
(Is 45,7). Ma riguardo a questi comandi (le difficoltà) si risolvono così: ai
deboli non si devono dare comandi perfetti, che non possono sopportare.
Quando l’Ebreo si sentirà dire (Mt 19,21): “Abbandona tutto ciò che è tuo e
seguimi”? Quando l’Ebreo si sentirà dire (Mt 10,38): “Chi non prende la sua
croce e non mi segue, non è degno di me”? Ma questi precetti, più perfetti,
sono riservati al vangelo. Ancora: Dio non ha creato cose cattive (mala),
bensì alcune che ci sembrano dure, come le frustate, la morte ed altre simili,
le quali ci sono state prescritte per la correzione dei peccati. La Legge infatti
è posta non per i giusti ma per gli ingiusti; perché, se i colpevoli non temes-
2
sero nulla, sarebbero gli innocenti a dover sempre aver paura» .
_____________________________
2
AMBROGIO, Expositio psalmi CXVIII, 17s (SAEMO 8/2, 187ss, rivista). Si sono ri-
tradotte le citazioni bibliche dal latino perché la versione di SAEMO le ritraduce dal
(segue)

206
In primis, è da sottolineare che l’auditorio al quale Ambrogio si rivolge è
fatto da quei cristiani che intendono comportarsi esteriormente ed interior-
mente come tali. Di chi invece è in altre faccende affaccendato il vescovo
di Milano dice: “Come potrebbe parlare così chi è occupato nei ludibrii del
teatro?”; e ‘ludibrio’ non è esagerazione retorica ma rispecchia la prassi te-
atrale del tempo. Quindi, se si vuol criticare ciò che afferma, lo si deve fare
tenendo presente a chi Ambrogio le rivolge, altrimenti gli mettiamo in boc-
3
ca cose che non solo non pensa ma contraddice expressis verbis .
In secundis, quando Ambrogio afferma che frustate e morte ci sembrano
dure, non dice che, in realtà, non lo sono, perché anche questa sarebbe stata
una ‘ingiuria alla natura’; intende solo ricordare che è scritto (Prv 3,12):
«Il Signore corregge chi ama, come un padre il figlio prediletto»,
verso del quale il senso più profondo, per Ambrogio come per tutta la tradi-
zione spirituale monastica, è espresso da questi altri (Sir 30,1ss):
«Chi ama il proprio figlio usa spesso la frusta, per gioire di lui alla fine.
Chi corregge il proprio figlio ne trarrà vantaggio e se ne potrà vantare con i
suoi conoscenti.
Chi ammaestra il proprio figlio renderà geloso il nemico, mentre davanti a-
gli amici potrà gioire».
La correzione di un errore è inevitabilmente legata alla sopportazione del
dolore che comporta il ripristino dello status spirituale: più lo squilibrio è
grave, più doloroso sarà lo sforzo necessario per correggerlo. In questa pro-
spettiva, malattie e morte altro non sono che serie, gravi e dolorose corre-
zioni di altrettanto seri, gravi e dolorosi errori. Ecco perché Ambrogio af-
ferma che la morte non è cattiva; anzi, se è permessa da Dio allora deve in
qualche misura essere addirittura buona, sebbene così non sembri:
«La morte in effetti non esisteva in natura, ma è stata trasformata in natura
(conversa in naturam): infatti in principio Dio non istituì la morte ma la die-
de come rimedio. Ma consideriamo se invece non sia vero il contrario. Infat-

______________________________
TM, e di conseguenza risulta talvolta poco congruente con l’originale. Per capire la
distanza tra la nostra prospettiva e quella corrente cf. l’ottimo studio di K. GURDA, Il
concetto di speranza nell’Expositio psalmi CXVII di s. Ambrogio, Roma 1988.
3
Questo vale anche se l’intento non è polemico: cf. p.es. M. BALLARINI, «Il De exces-
su fratris sui Satyri di Ambrogio e la consolatio ad mortem nelle lettere del Petrar-
ca», Studi petrarcheschi 21 (2008) 105-129. L’autore ha diverse pubblicazioni di te-
nore analogo: il suo saggio non è una boutade in terra ignota, ma gli sfugge che die-
tro l’oggettiva somiglianza dal lato intellettuale non vi è un’analoga origine spiritua-
le. Purtroppo non possiamo soffermarci su questa distanza non facile da cogliere, né
si può pretendere che il non credente conosca dinamiche proprie della vita di fede.

207
ti, se la morte è un bene, perché sta scritto (Sap 2,24): “Dio non ha creato la
morte” ma per la malvagità degli uomini “la morte entrà nel mondo”? In re-
altà la morte non sarebbe stata necessaria all’opera divina, poiché coloro che
erano stati collocati nel paradiso terrestre abbondavano del continuo succe-
dersi d’ogni bene. Ma, dopo la condanna della prevaricazione (di Adamo ed
Eva), la vita degli uomini cominciò ad essere miserabile, nella fatica conti-
nua e nei lamenti intollerabili. Si doveva porre un termine alle sofferenze,
così che la morte restituisse quel che la vita aveva perduto. L’immortalità
infatti è più un peso che un vantaggio, se non la ispira la grazia.
E se tu esaminassi bene, vedresti che questa non è la morte della natura ma
quella della malvagità: la natura rimane, la malvagità muore. Risorge quel
che esisteva prima, e magari risorgesse libero dalle colpe commesse com’è
ormai incapace di peccare! Ma questo stesso fatto è una prova che la morte
non riguarda la natura, perché saremo quei medesimi che eravamo. Pertanto,
o subiremo la pena dei nostri peccati o conseguiremo la ricompensa del be-
ne compiuto. Risorge infatti la medesima natura, ormai più degna di onore
perché ha pagato il suo tributo alla morte. “Perciò i morti che sono in Cristo
risorgono per primi, poi anche noi che viviamo” - dice l’Apostolo (1Tess
4,16s) - “insieme con essi saremo rapiti tra le nubi incontro a Cristo nell’aria
e così saremo sempre con il Signore”. Quelli per primi, per secondi i viven-
ti; quelli con Gesù, i viventi per mezzo di Gesù; quelli avranno una vita più
dolce dopo il riposo, i viventi godranno bensì di graditi benefici, ma do-
vranno sottostare a rimedi sconosciuti.
Non c’è nulla, dunque, che dobbiamo temere nella morte, nulla di cui dob-
biamo dolerci se alla natura, che la reclama, viene resa la vita ricevuta a suo
tempo, o se viene concessa a chi la chiede mediante l’adempimento del pro-
4
prio dovere, che comprende il culto della religione e la pratica della virtù» .
_____________________________
4
AMBROGIO, De excessu fratris, II, 47ss (SAEMO 18, 101ss, rivista). Ci piace notare
che l’idea del ‘convertire in natura’ è anche in ORIGENE, Commentarium in Iohannis
evangelium, XXI, 174 (SCh 290, 242), dove però esprime lo status spirituale del de-
monio. Supponendo che Ambrogio conosca questo passo (come è probabile), allora
questo semplice inciso en passant nasconderebbe un parallelo coerente e spiritual-
mente molto stimolante; Ambrogio infatti lascerebbe pensare che, come il peccato,
non creato da Dio, è ‘divenuto come una seconda natura’ per il demonio, così la mor-
te, anch’essa non creata da Dio, è ‘divenuta come una seconda natura’ per l’uomo.
Approfondiremo questo parallelo più avanti: per ora si noti che Ambrogio ribadisce
più volte che la morte non ha niente a che fare con la natura umana, e che questo
concetto, espresso con questi stessi termini sin dal 397 (cioè vent’anni dopo che Am-
brogio lo ha formulato) è anche in AGOSTINO, De diversis quaestionibus ad Simpli-
cianum, I, 1, 11 (CCsl 44, 16s; NBA 6/2, 38): «(Paolo scrive [Rm 7,18]): “C’è in me
infatti il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo”. A quanti non intendono
rettamente sembra, con queste parole, quasi sopprimere il libero arbitrio. Ma come lo
elimina quando dice: “Il volere è alla mia portata”? Certamente lo stesso volere è in
nostro potere, perché è alla nostra portata; però il non poter fare il bene è conseguen-
za del peccato originale. Questa non è infatti la natura originaria dell'uomo ma la pe-
na del peccato: da essa è derivata la stessa mortalità come una seconda natura, dalla
(segue)

208
Il passo è denso di spunti; ne evidenziamo solo alcuni: 1 - la morte è data
da Dio come rimedio, in linea con quanto insegnano Teofilo, Ireneo e tutti i
Padri già incontrati; 2 - la morte non fa parte della natura ma è ‘trasforma-
ta’ in natura, a causa del peccato originale; 3 - poiché la morte non appar-
tiene alla natura, questa non è toccata dalla morte, anzi, essa la libera dal
peso del peccato; 4 - in conseguenza di tutto ciò, non ha senso aver paura
della morte, poiché questa è un dono di Dio che ci libera dalle catene di una
vita altrimenti eternamente immersa nel peccato, originale ed attuale. La in-
tensità e la importanza spirituale di queste osservazioni è evidente, specie
per noi che cerchiamo di tratteggiare una teologia della morte in prospettiva
della deificazione che non ha molto a che fare con una ‘paura della morte
per natura’. Ma è chiaro che questi spunti pongono pure delle domande.
In primis, bisogna cercare con attenzione cosa significhi davvero dire ‘la
morte è entrata nella creazione a causa del peccato’. Al riguardo la Scrittura
è precisa; prima insegna che (Sap 1,14):
«Egli ha creato tutto per l’esistenza; le creature del mondo sono sane, in es-
se non c’è veleno di morte»,
ed è chiaro che con ‘veleno di morte’ Ambrogio intende il peccato; poi la
Scrittura spiega che (Sap 2,24):
«La morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo”»,
il che significa che l’invidia del diavolo ed il peccato non sono la stessa co-
sa (se non nel demonio stesso, va da sé), allo stesso modo in cui la causa
(l’invidia) non è l’effetto (il peccato). Capire e mantenere bene questa di-
stinzione è un punto capitale, non solo per il nostro discorso ma e soprattut-
to per capire il nesso autentico tra tentazione, peccato e caduta da un lato, e
pena, penitenza e redenzione dall’altro.
Nella prospettiva spirituale e teologica tradizionale, che noi abbiamo già
tratteggiato per sommi capi e che Ambrogio sintetizza ed esprime in modo
organico, nel giardino dell’Eden le cose sarebbero andate così: 1 - il demo-
nio tenta Adamo ed Eva (o, se si vuol essere fedeli alla Scrittura, solo Eva;
lei poi seduce Adamo, che non si oppone); 2 - il libero arbitrio dei progeni-
______________________________
quale ci libera la grazia del Creatore, quando ci sottomettiamo a lui mediante la fede.
Ma queste sono parole dell'uomo posto sotto la legge e non ancora sotto la grazia. In-
fatti chi non è ancora sotto la grazia non compie il bene, ma fa il male che non vuole
sotto la tirannia della concupiscenza, rafforzata non solo dal vincolo della mortalità
ma anche dal peso dell’abitudine. Ora se fa ciò che non vuole, non è piú lui a farlo
ma il peccato che abita in lui, come si è detto e spiegato precedentemente». Vedremo
che questa idea si ripresenta quasi in questi termini anche in AGOSTINO, De civitate
Dei, XIII, 3 (CCsl 48, 386s; trad. it. 706), e che però la si legge in senso opposto.

209
tori accetta la tentazione e, così peccando, 3 - essi decadono dal loro stato
originario di purezza (la ‘nudità’ senza vergogna); 4 - poiché questo stato
di peccato sarebbe durato in eterno e non aveva possibilità di remissione
(pena), 5 - Dio dona ai progenitori la possibilità di morire, ossia di spezzare
il ciclo di peccato nel quale si sono liberamente e stoltamente cacciati (pe-
nitenza); se faranno buon uso di questa possibilità, 6 - il peccato è rimesso,
la pena annullata e tutto è reintegrato nella situazione iniziale (redenzione).
Di questi sei passaggi, la Scrittura non menziona l’ultimo, la ‘redenzione’
di Adamo ed Eva, ma dogmaticamente non è né corretto né ortodosso dubi-
tarne, come insegna il nostro santo Padre Ireneo di Lione:
«Adamo era stato vinto ed era stato privato di ogni vita; per questo, vinto il
nemico (con la resurrezione di Cristo), Adamo riceve di nuovo la vita, per-
ché (1Cor 15,26): “Per ultima è annientata la morte, la nemica” che prima
teneva l’uomo in suo potere. Allora, liberato l’uomo (1Cor 15,54s), “si av-
vererà ciò che sta scritto: la morte è stata assorbita nella vittoria: dov’è, o
morte, la tua vittoria? dov’è, o morte, il tuo pungiglione?”, il che non si sa-
rebbe potuto dire se non fosse stato liberato anche colui che per primo fu
dominato dalla morte, poiché l’annientamento della morte suppone la sal-
vezza di lui e la morte è stata annientata in quanto il Signore ha ridato la vita
all’uomo, cioè ad Adamo (cf. 1Cor 15,26).
È falso, perciò, quanto affermano coloro che negano la sua salvezza: essi
escludono se stessi per sempre dalla vita perché non credono che sia stata ri-
trovata la pecorella perduta. Ma se essa non è stata trovata, (allora) sono an-
cora in potere della perdizione tutte le generazioni umane. Mendace, perciò,
chi introdusse per primo questa dottrina, o piuttosto ignoranza e cecità: vo-
glio dire Taziano. Questi, dopo aver raccolto da tutti gli eretici, come abbia-
mo esposto, inventò di sua testa, in modo che, apportando qualche cosa di
originale nei suoi vani discorsi, potesse trovare alcuni uditori vuoti di fede
davanti ai quali si atteggia a maestro. A questo scopo cerca di usare parole
di questo genere, molto frequenti in Paolo, (come) “In Adamo tutti moria-
mo” (1Cor 15,22), ignorando che (Rm 5,20): “la grazia sovrabbondò dove
aveva abbondato il peccato”.
Chiarito questo punto, arrossiscano tutti i suoi seguaci, che mettono in dub-
bio la salvezza di Adamo come se avessero da far guadagno provando che
egli non fu salvato, mentre piuttosto ci perdono, come il serpente nulla gua-
dagnò consigliando male l’uomo se non di farlo apparire colpevole con il
trattare l’uomo come primo strumento di apostasia; ma non vinse Dio. Così
quelli che negano la salvezza di Adamo nulla guadagnano se non questo,
che si rendono eretici e ribelli alla verità, e si mostrano avvocati del serpente
5
e della morte» .
Quindi, è vero che la morte entra nel mondo per invidia del diavolo, ma
non perché l’abbia creata lui: il nostro nemico non ha tale potere, per nostra
_____________________________
5
IRENEO DI LIONE, Adversus haereses, III, 23, 7s (SCh 211, 462-466; trad. it. I, 337s).

210
fortuna. Ottenuta con l’inganno la complicità di Eva ed Adamo, la sua invi-
dia ha solo spinto Dio a fare ciò di cui la creazione di per sé non aveva bi-
sogno ma del quale ora, dopo la loro caduta, non potrà più fare a meno: la
morte. E non l’ha neanche costretto, perché nostro Signore, nella sua onni-
scenza ed onnipotenza, già sapeva che l’uomo sarebbe caduto (come inse-
gna Lattanzio). Avrebbe potuto impedirlo o crearlo in modo che non potes-
se peccare ma, per potergli mostrare chi quanto amore Lui avesse per la sua
creatura, perché lei potesse amarlo liberamente e non seguirlo per forza o
per ignoranza, nostro Signore ha scelto di fare quel che ha fatto.
In altri termini, la morte entra sì nel mondo per invidia del diavolo ma al-
lo stesso titolo e ragione per cui, ad esempio, vi entrano la Legge, il Batte-
simo, l’Eucarestia: sono le contromosse divine opposte ad altrettante mosse
demoniache. La morte è la risposta di Dio al primo tentativo demoniaco di
impedire il disegno divino di far diventare l’uomo, per grazia, come Lui è
per natura, tentativo rintuzzato ponendo un limite a quella caduta che il ne-
mico sperava/voleva definitiva. Al secondo tentativo demoniaco, far dege-
nerare l’uomo mortale al modo di Lamech, la risposta divina è il dono della
Legge, che indirizza l’agire terreno degli uomini ed insegna loro come pia-
cere a Dio. Al terzo tentativo demoniaco, far credere che la Legge annulli il
peccato, Dio risponde con l’Incarnazione: assumendo la natura umana, la
libera dal punto di forza del nemico, il peccato originale, e rivela l’intero
suo disegno: farci divenire per grazia come Lui è per natura. All’ultimo
tentativo demoniaco, far credere che i peccati attuali allontanino defnitiva-
mente da Dio, Egli replica istituendo i sacramenti: con il Battesimo elimina
il peccato originale originato, con la Riconciliazione toglie i peccati attuali,
con l’Eucarestia inizia a realizzare in statu viae quel suo disegno deificante
che perfezionerà in patria. Niente di tutto questo era necessario all’inizio
della creazione, e tutto questo è entrato nel mondo a causa della invidia del
diavolo, ma non perché fosse questo l’obiettivo del Suo agire, bensì grazie
alla volontà salvifica del nostro amato Signore, che non cessa di inventarsi
modi sempre nuovi per portare dalla sua tutti coloro che lo vogliono. Unica
differenza, la morte separa ciò che per natura deve essere unito, e perciò è
oggettivamente ‘contro natura’, mentre la Legge ed i sacramenti sono solo
‘secondo natura’. È distinzione da maneggiare con cautela, perché sono tut-
ti doni di Dio ed il Signore non fa nulla ‘contro natura’: però è innegabile
che la morte causi un movimento contrario a quello della nascita. Tuttavia,
da qui ad affermare, come talvolta Agostino farà, che la morte sia un male
in sé, il percorso è lungo e scabroso: certo l’Ipponate non vuol dire che Dio
fa il male però, dato che la morte la infligge Lui, se la morte è un male allo-
ra Dio fa il male. Come si vede, la cautela è d’obbligo: prima di servirsi di
questa o quella espressione è bene valutarne le ricadute in altri ambiti.

211
Questi sviluppi però ci hanno portato troppo avanti; conviene tornare ad
Ambrogio ed al suo pensiero sulla morte.

7.2. Il contributo di Ambrogio:


il ‘De excessu fratris sui Satyri’

Dunque, la morte è un bonum; ma, allora, perché Dio la dà all’uomo co-


me se fosse una pena?
«Secondo le Scritture, apprendiamo che la morte è di tre tipi. Uno è quando
moriamo al peccato e viviamo per Dio: felice è dunque questa morte che, ri-
fuggendo dalla colpa e tutta rivolta a Dio, ci separa da ciò che è mortale e ci
consacra a ciò che è immortale. La seconda morte è la partenza da questa vi-
ta, per cui morirono il patriarca Abramo, il patriarca Davide, e furono sepol-
ti con i loro padri: quando cioè l’anima si libera dai vincoli del corpo. La
terza morte è quella di cui fu detto (Mt 8,22): “Lascia che i morti seppelli-
scano i loro morti”. Per tale morte muore non solo il corpo ma anche l’ani-
ma (Ez 18,4): “Infatti l’anima che pecca morirà senz’altro”. Muore al Signo-
re non per la debolezza della natura ma per quella della colpa. Ma tale morte
non è il compimento di questa vita, bensì la caduta provocata dal peccato.
Una dunque è la morte spirituale, un’altra quella naturale e la terza (quella)
punitiva. Ma la morte naturale non è allo stesso tempo anche punitiva: il Si-
gnore non ci ha dato la morte come pena ma come rimedio. Per questo ad
Adamo peccatore una cosa è prescritta come pena ed un’altra come rimedio;
come pena, quando dice (Gen 3,17ss): “Poiché hai dato retta alla voce della
tua donna ed hai mangiato dell’albero riguardo al quale ti avevo ordinato di
non mangiarne, unico tra tutti, sia maledetto il suolo per causa tua; ti nutrirai
dei suoi prodotti tutti i giorni della tua vita, esso ti germoglierà spine e cardi
e tu mangerai la pastura del tuo campo, con il sudore della tua fronte mange-
rai il tuo pane, finchè ritornerai alla terra dalla quale sei stato tratto”. Hai
una tregua alle tue pene, perché contro le spine di questo mondo e le preoc-
cupazioni di quaggiù ed i piaceri delle ricchezze, che escludono la Parola e
racchiudono in sé la punizione, la morte è stata data come rimedio, come
termine dei mali. Non ha detto infatti: ‘Poiché hai ascoltato la voce della
donna, ritornerai alla terra’; questa sarebbe stata una sentenza punitiva, co-
me è quella: “Sia maledetto il suolo, esso ti germoglierà spine e cardi”, ma
ha detto “Mangerai il tuo pane con il sudore finchè ritornerai alla terra”. Tu
vedi che la morte è piuttosto il termine delle nostre pene, che tronca il corso
6
di questa vita» .
Il triplice significato del termine ‘mors’ Ambrogio lo trae dal Commento
alla lettera ai Romani di Origene, cui affianca quello al Vangelo di Mat-

_____________________________
6
AMBROGIO, De excessu fratris, II, 36ss (SAEMO 18, 95ss).

212
7
teo . Il primo senso, nettamente spirituale, qui non è coinvolto, ma il secon-
do ed il terzo, che i pelagiani uniscono, sono invece ben distinti da Ambro-
gio: il secondo è detto ‘naturale’ ed è un rimedio al peccato, il terzo, puni-
tivo, è la pena per quel medesimo peccato. Non vi è quindi dubbio alcuno
che, già dal 378, ben quaranta anni prima della querelle pelagiana, Ambro-
gio non possa essere accomunato alle loro posizioni, come farà ben notare
Agostino. Ma questo accordo poggia sulla visione di mors naturalis come
rimedio, ossia come bonum; e poiché anche l’Ipponate insegna che la morte
come punizione suppone una natura inficiata dal peccato, allora anche per
lui vi è una mors naturalis che è un certo bonum.
Ma ogni cosa al suo tempo.
Per ora limitiamoci ad osservare che, nel racconto del Genesi, Ambrogio
non vede affatto un ostacolo alla sua concezione di mors come bonum, an-
zi, la sua interpretazione risulta essere assai letterale ed in piena coerenza
con quelle di Teofilo ed Ireneo. Secondo la Tradizione, quel ‘finchè’ è letto
in senso temporale, come fosse l’indicazione di una scadenza, ed è perciò
quasi scontato che il vescovo di Milano poi prosegua così:
«Dunque non solo la morte non è un male ma è anzi un bonum. Per questo è
ricercata come un bene, come sta scritto (Ap 9,6): “Gli uomini cercheranno
la morte e non la troveranno”. La cercheranno quelli che (Lc 23,30) “diran-
no ai monti ‘Cadete sopra di noi’ ed ai colli ‘Copriteci’”. La cercherà anche
“l’anima che pecca” (Ez 18,4), la cercherà quel ricco collocato all’inferno e
che vuole che la sua lingua sia rinfrescata dal dito di Lazzaro (cf. Lc 16,24).
Vedranno dunque che questa morte è un guadagno e la vita una sofferenza.
Perciò anche Paolo dice (Fil 1,21): “Per me il vivere è Cristo ed il morire un
guadagno”. Cosa è Cristo se non la morte del corpo, il soffio della vita? Per-
ciò moriamo con Lui per vivere con Lui. Esiste in noi ogni giorno come una
dimestichezza e una propensione verso la morte affinchè, per mezzo di quel
appartarsi dalle passioni corporee di cui abbiamo parlato, la nostra anima
impari a trarsene fuori e, come collocata in un luogo elevato ove non posso-
no giungere le voglie terrene per invischiarla a sé, assuma l’apparenza della
morte per non incappare nella pena della morte. La legge della carne si op-
pone infatti alla legge della mente e l’asservisce alla legge dell’errore, come
ha rivelato l’Apostolo dicendo (cf. Rm 7,23): “Vedo infatti la legge della
mia carne opporsi alla legge della mia mente e rendermi schiavo della legge
del peccato”. Tutti siamo assaliti, tutti sentiamo, ma non tutti sono liberati.
Perciò, me infelice se non troverò il rimedio. Ma quale rimedio (Rm 7,24s):
“Chi mi libererà da questo corpo di morte? La grazia di Dio per mezzo di
Gesù Cristo nostro Signore”. Abbiamo il medico, usiamo il rimedio. Il no-

_____________________________
7
Cf. ORIGENE, In epistulam ad Romanos commentarii, VI, 6 (PG 14, 1067ss; Cocchi-
ni, I, 318ss); Commentariorum in Mattheum series, XIII, 9 (PG 13, 1116-1120; CTP
151, 41). Leggeremo questi passi più avanti.

213
stro rimedio è la grazia di Cristo ed il corpo di morte è il nostro corpo. An-
diamo dunque esuli dal corpo per non andare esuli da Cristo. Pur essendo
nel corpo, non seguiamone le passioni; non trascuriamo i diritti di natura ma
8
anteponiamo i doni della grazia» .
Dal nostro punto di vista il passo non ha bisogno di commenti. È bello
però evidenziare il profondo anelito spirituale e pastorale di Ambrogio: egli
non fa della teologia ‘da tavolino’ bensì cerca di insegnare quale sia il retto
sentire di chi ama Cristo, in modo che chi ancora non lo prova sappia dove
e cosa cercare, e chi invece già lo sperimenta non si senta per questo diver-
so o in errore ma consolato e spinto a continuare sulla medesima bella stra-
da. Certo, per chi è in tutt’altre faccende affaccendato e pone attenzione al-
le sirene del successo, del denaro, del piacere e del potere, queste parole so-
no semplicemente stupide. Ai tiepidi, che si illudono di poter tenere i piedi
in due staffe, suonano esaltate, fondamentaliste. Ai filosofi, dai quali tanto
volentieri i teologi cercano ispirazione, sembrano antiquate, ingenue se non
ridicole. E senza dubbio anche non pochi teologi condivideranno molti di
questi giudizi. Per noi queste parole esprimono la pura e semplice verità.
Per sminuire la portata di questa divergenza spesso si sfrutta il forte ac-
cento sulla negatività della corporeità: chi dice quelle cose - si afferma - lo
fa solo perché disprezza il corpo, e tale disprezzo - si aggiunge - nasce dalla
frustrazione di non riuscire a goderne come si vorrebbe. La non negatività
della morte - si conclude - sorge non da un fantomatico cammino spirituale
ma dalla liberazione di un peso, e lo dice Ambrogio stesso. Ora, se si legge
con un minimo di attenzione il testo appare subito che chi subisce/accetta la
tentazione non è il corpo bensì l’anima, cioè me stesso; la disciplina corpo-
rea è del tutto inutile se non io non guido me stesso verso il bene. Chiunque
viva una vita spirituale autentica e consapevole sa che il corpo è solo il mi-
sero esecutore di quel che io gli ordino di fare. Ogni azione, prima di essere
compiuta, è voluta, e questa scelta opera su un’alternativa presentatagli dal
pensiero: in una certa situazione, io scelgo di insultare Tizio, quindi io pec-
co, non la lingua che pronuncia le parole. Più si cresce spiritualmente più le
alternative diventano allettanti: la morte fisica ci libera dalla fatica di dover
continuamente scegliere, e per questo è un bonum, non perché ci separa dal
corpo fisico. Purtroppo non è affatto raro sentire affermazioni di tenore di-
verso se non opposto: e non tanto in contesti tutto sommato elitari come le-
zioni o manuali quanto in occasioni delicate ed importanti come i funerali.
Sed de hoc satis. A questo punto conviene esaminare l’opera che Ambro-
gio dedica esplicitamente alla illustrazione della morte come bonum.

_____________________________
8
AMBROGIO, De excessu fratris, II, 39ss (SAEMO 18, 97ss).

214
7.3. Il contributo di Ambrogio:
il ‘De bono mortis’

Il fatto che il De bono mortis nasca ‘cucendo’ tra loro due omelie tenute
in altre occasioni è senza dubbio indicativo del fatto che non si tratta di un
concetto facile, non tanto riguardo alla fondazione biblica e teologica o alla
esposizione quanto alla inculcazione spirituale nella sua comunità. Perché
altro è apprendere una verità intellettualmente, cioè per mezzo di libri, o di-
scorsi o discussioni, ed altro è apprenderla per esperienza personale; altro è
seguire un ragionamento ed altro è riuscire a guidare il proprio sentire in
una certa direzione. La preghiera sicuramente aiuta la buona volontà, ma è
necessario anche un aiuto sistematico, mirato e ben preparato, così come la
consulenza di un direttore spirituale capace.
Per prima cosa, conviene rileggere, contestualizzato, quell’inciso che nel
capitolo sesto aveva un po’ rozzamente sintetizzato la concezione ambro-
siana. Se infatti si amplia lo sguardo otteniamo questo passo:
«Se la morte è considerata spaventosa da coloro che sono in vita, non è la
morte ad essere spaventosa ma l’opinione che si ha della morte, che ciascu-
no interpreta a seconda dei propri sentimenti o teme a seconda della propria
coscienza. Ciascuno accusi dunque la ferita della propria coscienza, non la
infelicità della morte. Infatti per i giusti la morte è il porto della tranquillità,
mentre per i colpevoli è considerata un naufragio. Certo, per coloro i quali è
terribile il timore della morte, non è terribile il morire ma il vivere sotto il
timore della morte. Ma il timore riguarda la nostra opinione e l’opinione di-
pende dalla nostra debolezza, che è contraria alla verità: infatti, dalla verità
deriva la virtù, dalla opinione la debolezza; e l’opnione, sicuramente, non
appartiene alla morte ma alla vita. Ne risulta che la morte è terribile soprat-
tutto per la vita. È chiaro dunque che il timore della morte non deve essere
riportato alla morte in sé ma alla vita, perché noi non abbiamo niente da te-
mere nella morte, una volta che la vita nostra non abbia commesso niente da
temersi. Infatti, alle persone assennate fanno paura le punizioni per le colpe
che commettono, ma le colpe non sono azioni dei morti bensì dei vivi. Ri-
guarda noi, dunque, la vita, e le sue azioni sono in nostro potere, mentre la
morte non ci riguarda, perché è la separazione dell’anima dal corpo: l’anima
è liberata ed il corpo si dissolve. L’anima, che è liberata, ne gode, mentre
quello che è dissolto nella sua terra non sente niente. Ciò che niente sente
9
non ci riguarda» .
Il contesto più ampio annulla ogni sensazione di intellettualismo: l’inciso
iniziale suppone, per la sua corretta comprensione, la descrizione del per-
_____________________________
9
AMBROGIO, De bono mortis, 8, 31 (SAEMO 3, 175).

215
corso spirituale già letta in precedenza; la ‘opinione’ di cui Ambrogio parla
non è la doxa platonica o aristotelica ma il sentitus dell’uomo che non si
cura di Dio; ed è una ‘opinione’ perché non è il verum, che consiste nella
assenza di paura della morte in ragione di una impostazione opposta della
propria vita. Questa panoramica rende anche assai meno agevole contrap-
porre Ambrogio ad Agostino, il quale, su questi temi, pensa e scrive le stes-
se cose, come vedremo. Ma è bene procedere con ordine, poiché il De bono
mortis è opera sistematica a dispetto della sua nascita composita.
Innanzitutto, Ambrogio inaugura la sua esposizione con quello che, dopo
l’esegesi di Gen 3,19, è forse il punto più stimolante di questo atteggiamen-
to spirituale; scrive dunque Ambrogio.
«Poiché nel libro precedente (il De Isaac) abbiamo intessuto un discorso
sull’anima, pensiamo sia più agevole cammino comporre qualcosa riguardo
al bene della morte.
Se la morte arrecasse un danno all’anima, allora sì che potrebbe sembrare un
male; ma se non danneggia l’anima, non è neppure un male. Ora, ciò che
non è un male è perciò un bene, poiché è un male quel che è moralmente
cattivo, mentre quello che è privo di male morale è un bene. Per questo mo-
tivo le cose buone sono contrarie alle cattive e le cattive alle buone. In veri-
tà, si trova l’innocenza là dove non c’è la volontà di nuocere, e si dice col-
pevole colui che non è innocente, misericordioso chi perdona, spietato colui
10
che non ha pietà e non si commuove» .
Questo è il punto spiritualmente ed esistenzialmente cruciale. Se si vuole
smettere di ragionare in teoria parlando in generale senza pensare a nessu-
no, bisogna chiedere a se stessi: la morte, la mia morte, arreca (a me) un
danno alla mia vita? Se mi rispondo ‘sì’, direbbe Ambrogio, è perché sono
(ancora?) attaccato a questo mondo, alle sue gioie ed ai suoi dolori, e per-
derli mi dà sofferenza e dispiacere. Se invece rispondo ‘no’ è perché, pur
apprezzando il bonum che il mondo è, mi preme più ricongiungermi al mio
Amato, al mio Signore, che è ormai l’unica ragione e la sola guida del mio
11
vivere . Ecco che riaffiora il tema della ‘opinione’ sopra accennato, ma che
nel De bono mortis si legge ben più avanti.
È vero però che il ‘danno’ arrecato all’anima potrebbe essere interpretato
in senso più filosofico, ed si potrebbe (classicamente) individuare nella for-
zata separazione dell’anima dal corpo al quale Dio l’ha unita creandola.
Ma, a ben vedere, questa separazione non danneggia l’essenza dell’anima,
_____________________________
10
AMBROGIO, De bono mortis, 1, 1 (SAEMO 3, 129; rivista).
11
Cf. D. DOUCET, «L’époux des âmes. Porphyre, Ambroise et Augustin: De bono mor-
tis 14-20; De ordine I, 8, 24», Revue des Études augustinienne 41 (1995) 231-252,
che illustra la profonda sintonia tra Agostino ed Ambrogio su questo punto.

216
dato che il corpo è una sostanza completamente diversa da essa, oltre che
distinta: come separare il cerchione dallo pneumatico non danneggia nes-
sun dei due anche se entrambi diventano inutili.
Si può supporre che tale separazione influisca in qualche modo sulle fa-
coltà dell’anima (ad esempio la capacità di provare sensazioni), ma una ca-
pacità non è ciò a cui essa, come capacità, inerisce. Così, provare sensazio-
ni è una facoltà dell’anima, ma non è l’anima tout court, altrimenti ciechi e
sordomuti o non avrebbero l’anima o ne avrebbero una dimezzata, e questa,
prima ancora che un’eresia, è una colossale sciocchezza. Volendo potrem-
mo anche andare oltre fino a negare la biunivocità di tale influenza già qui
12
in statu viae . L’esperienza dei sogni infatti ci dice che possiamo percepire
suoni, colori, odori, sapori ed ogni genere di sensazioni tattili pur nella tota-
le assenza di stimoli fisici. Se qualcuno obiettasse che non sono ‘vere’ sen-
sazioni potremmo replicare in primis che la paura generata dagli incubi è
clinicamente provabile (tachicardia, sudorazione, stato di agitazione diffu-
sa), quindi reale; in secundis, che attrezzature come simulatori di volo o di
guida, monitor per interventi clinici ecc., addestrano piloti e medici serven-
dosi di sensazioni di questo genere; in tertiis, che l’assumere sostanze stu-
pefacenti attrae proprio in ragione delle sensazioni che generano nell’ence-
falo, sensazioni talvolta più forti persino dell’istinto di conservazione; infi-
ne, e di conseguenza, che l’obiezione predica l’aggettivo ‘vero’ a priori e
non dopo un’analisi oggettiva, quindi non è corretto dire ‘vere’ solo le sen-
sazioni nate dagli organi fisici deputati alla ricezione dell’esterno.
Queste osservazioni devono certamente essere approfondite e valutate
con più attenzione di quanto non sia possibile qui a noi, ma sulla reale con-
figurazione di questa influenza vi sono stati e vi sono tutt’ora forti dubbi: vi
è chi afferma che, essendo le sensazioni impossibili senza gli organi corpo-
rei, l’anima priva di corpo si troverebbe ad avere facoltà inutilizzabili e
quindi, in una certa misura, in uno status di incompletezza, e vi è chi invece
sostiene che il non adoperare una certa facoltà non comporta alcuna incom-
pletezza ma solo una perfezione di grado diverso rispetto a quello che im-
plica il servirsi di tale facoltà. Oggi si tace quasi del tutto la questione dello
status di quella che si chiama ‘anima separata’, ma nel sec.XIII si discusse
molto se tale anima fosse ancora ‘persona’ o no. E siccome in teologia dire
_____________________________
12
‘Biunivocità’ significa, come in matematica, che una data relazione tra due elementi
vale in entrambe le direzioni: qui, che si dà ‘sensazione’ solo quando il dato fisico è
interpretato dalla mente e questa elabora solo dati fisici. ‘Non biunivocità’ significa
quindi che la mente può generare ‘sensazioni’ anche elaborando dati non fisici ma di
altra origine, p.es. chimica o psicologia o informatica, come vedremo negli esempi. È
invece banale rilevare che non si dà ‘non biunivocità’ a livello di organi di senso: un
dato sensoriale non elaborato dalla mente è infatti ignoto al soggetto.

217
‘persona’ corrisponde più o meno a quel che al di fuori si dice ‘essere uma-
13
no’, l’importanza della questione è evidente . Naturalmente Ambrogio sta
14
con chi ritiene in nessun modo inficiata l’anima priva di corpo .
Una volta stabilito che la separazione dal corpo non arreca alcun danno
all’anima, per Ambrogio tale separazione è da ritenersi un bonum, perché
quel che non è male è bene: tertium non datur. Non vi è dubbio che, per la
prospettiva morale dei nostri giorni, questa conclusione suoni rigida e sem-
plicistica, ma l’odierna morale è molto influenzata dal diritto: e per la leg-
ge, oltre alle azioni cattive (i reati) e quelle buone (gli obblighi di legge) vi
è una gamma infinitamente vasta e varia di azioni legalmente neutre. Per i
Padri, invece, la morale segue direttamente dalla spiritualità: buono e giu-
sto è ciò che Dio comanda, ed è tale perché Egli lo vuole (si ricordi Gen 22,
il quasi-sacrificio di Isacco), cattivo e sbagliato è non fare ciò che Dio vuo-
le; fare ciò che Egli vieta è solo un caso particolare di questo comporta-
mento ‘contro natura’. Capire ciò che qui ed ora è per me ‘secondo natura’
non è agevole, e richiede un discernimento spirituale complesso nel quale il
precetto ha un ruolo importante ma non sempre decisivo, e talvolta non ne
ha alcuno (si pensi ad esempio alla questione: “mi devo sposare o no?”).
Per quel che riguarda la paura della morte, dato che è Dio ad introdurre
nell’uomo la separazione tra anima e corpo, è chiaro che avere paura di una
decisione di Dio non è sentire ‘secondo natura’, perciò non è cosa buona; a
fortiori se si ricorda che Dio lo fa per porre un fine ad una vita di peccati.
Poco più avanti, Ambrogio ripropone la tripartizione del significato del
termine mors già incontrata nel De excessu fratris, di vent’anni anteriore al
De bono mortis, ma con alcune differenze:
«Esistono tre generi di morte. Una è la morte del peccato, della quale è stato
scritto (Ez 18,4): “L’anima che pecca morirà”. Un’altra morte è quella mi-
stica, quando uno muore al peccato e vive in Dio, della quale ugualmente
dice l’Apostolo (Rm 6,2): “Siamo stati sepolti, infatti, insieme con Lui per
mezzo del battesimo, nella sua morte”. Una terza morte è quella per cui ter-
miniamo il corso ed il compito di questa vita, vale a dire quando avviene la
separazione dell’anima dal corpo. Comprendiamo quindi che una sola morte
è male, e cioè quando moriamo per colpa dei nostri peccati; un’altra morte
invece è un bene, in quanto colui che muore di quella morte viene giustifica-
to (liberandolo) dal peccato. Il terzo genere di morte è intermedio: infatti,
sembra un bene ai giusti ma alla maggior parte della gente appare spavento-
_____________________________
13
Per un primo inquadramento del dibattito e delle sue ricadute antropologiche e sote-
riologiche cf. M. BIENIAK, The soul-body problem at Paris ca 1200-1250. Hugh of
St.-Cher and his contemporaries, Leuwen 2010. Affronteremo in recto la questione
nel saggio dedicato al Purificatorio che speriamo di pubblicare a breve.
14
Chiaro a questo riguardo è AMBROGIO, De bono mortis, 3, 14 (SAEMO 3, 147ss).

218
sa perché, mentre libera tutti, rallegra solo pochi. Questo però non è un di-
fetto della morte bensì della nostra debolezza, poiché siamo assorbiti dai
piaceri del corpo e dai diletti di questa vita ed abbiamo paura di portare alla
conclusione questo corso in cui, comunque, si trovano più amarezze che pia-
ceri. Ma tale non era il pensiero degli uomini santi e sapienti, che gemevano
per la lunghezza di questo peregrinare sulla terra e consideravano più bello
essere sciolti dal corpo ed essere con Cristo (cf. Fil 1,23), ed infine maledi-
cevano il giorno della loro nascita come colui che disse (Gb 3,3): “Sia ma-
15
ledetto il giorno in cui sono nato”» .
Il brano ha un tono analogo a quello nel De excessu fratris, però Ambro-
gio non parla più di una morte ‘naturale’; e siamo nel 390, quindi ogni pos-
sibile appiglio per farne un antesignano del pelagianesimo (come Giuliano
d’Eclano) è ormai definitivamente svanito (Ambrogio muore nel 396 senza
più tornare sulla questione). Al posto di questa ‘morte naturale’ troviamo
una morte ‘intermedia’ tra quella cattiva dovuta al peccato e quella buona
dovuta alla virtù; tale ‘medietà’ però, ed Ambrogio è ben attento a specifi-
carlo, è apparente ed è dovuta solo alla diversità tra gli uomini: in realtà,
per il singolo la morte o è buona (per i giusti) o è cattiva (per gli altri).
Tralasciamo l’accenno alla maledizione del giorno della propria nascita
16
(anche nel De excessu fratris si legge qualcosa del genere ) e cerchiamo di
capire meglio cosa intenda Ambrogio con ‘morte come bene’; perché un
conto è affermare una cosa ed un’altro è motivarla. Ed ecco quel che il ve-
scovo di Milano offre come descrizione del bonum mortis:
«Che altro fanno, dunque, i giusti in questa vita se non spogliarsi del conta-
gio di questo corpo che ci stringe come le catene e cercare di separarsi da
queste molestie, rinunciare ai piaceri ed alla lussuria, fuggire le fiamme del-
le libidini? Non è forse vero che chiunque si trova in una simile vita imita
un aspetto della morte, quando egli si comporta in modo tale che per lui
muoiono tutti i diletti del corpo ed anch’egli muore ai desideri tutti ed alle
attrattive del mondo com’era morto Paolo quando disse (Gal 6,14): “Per me
il mondo è stato crocifisso, ed io per il mondo”? Infine, perché sappiamo
che in questa vita si trova la morte, ed una buona morte (bona mors), l’Apo-
stolo ci esorta a portare nel nostro corpo la morte di Gesù; infatti, colui che

_____________________________
15
AMBROGIO, De bono mortis, 2, 3 (SAEMO 3, 131ss; rivista).
16
Cf. AMBROGIO, De excessu fratris, II, 30 (SAEMO 18, 93): «La cosa di gran lunga
migliore sarebbe stata non nascere, secondo il parere del santo Salomone (cf. Qo
4,2ss LXX)». Un’idea analoga si legge anche in GREGORIO DI NAZIANZO, Carmina, I,
2, carm.15 de exteriori hominis vilitate, vv.100-104 (PG 37, 773; CTP 115, 179):
«Meglio se tu, o sciagurato, non avessi varcato le porte della esistenza o se, una volta
varcatele, tutto ti fossi dissolto come capita alle fiere: meglio sarebbe stato delle af-
flizioni che quaggiù hai a patire e della pena futura, ancora peggiore di quelle». Però
il Teologo si riferisce solo al malvagio, Ambrogio invece ad ogni uomo.

219
avrà avuto entro di sé la morte di Gesù avrà nel suo corpo anche la vita del
Signore Gesù. Operi dunque in noi la morte perché operi anche la vita - la
buona vita che verrà dopo la morte, cioè la buona vita dopo la vittoria, la
buona vita dopo che sarà finita la gara - affinchè la legge della carne non
sappia più opporsi alla legge dell’anima, affinchè non abbiamo più nessuna
lotta con un corpo di morte ma abbiamo una vittoria sul corpo di morte. E
non so se questa morte non possegga un valore maggiore della vita (terrena).
Certo sono mosso dall’autorità dell’Apostolo che dice (2Cor 4,12): “Dun-
que la morte opera in noi, ma la vita in voi”. La morte di uno solo, di quanti
popoli stava edificando la vita! Perciò insegna che, quando ci troviamo in
questa vita, noi dobbiamo desiderare quella morte, perché la morte di Cristo
risplenda nel nostro corpo; e dobbiamo desiderare anche quella beata morte
mediante la quale si distrugge il nostro uomo esterno perché si rinnovi il no-
stro muomo interno e venga dissolta la nostra casa terrestre, perché ci venga
aperta la dimora nei cieli. Imita dunque la morte colui che si stacca dal con-
tatto con questa carne e si scioglie da quelle catene delle quali il Signore ti
dice per bocca di Isaia (58,6): “Sciogli ogni legame dell’ingiustizia, sciogli i
lacci degli scambi ingiusti, lascia andare liberi gli oppressi e spezza ogni in-
17
ganno iniquo”» .
Quindi, in definitiva, la ‘buona morte’ per Ambrogio altro non è che una
vita ascetica e spirituale seria che porta ad un amore per Dio profondo e
quindi ad un altrettanto serio e profondo distacco dalle altre cose. Un disin-
teresse volontario del tutto analogo a quello imposto dalla morte, che quin-
di non fa più paura non solo perché apre le porte dell’incontro finale con
l’Amato ma anche perché quel poco che toglie è già stato respinto volonta-
18
riamente (seppur non altrettanto radicalmente e definitivamente) . La ‘buo-
na morte’ quindi è solo la prosecuzione lineare di un percorso spirituale, e
nella misura in cui porta sollievo e fine alla incessante guerra dei pensieri la
si può anche descrivere come dormitio. Peccato che Ambrogio non si serva
di questa immagine; però la conosce e l’approva, dato che scrive:

_____________________________
17
AMBROGIO, De bono mortis, 3, 9 (SAEMO 3, 141s; rivista).
18
Anche questo passo può servire da esemplificazione della profonda differenza che vi
è tra una lettura solo intellettuale ed una primariamente spirituale. Per la prima, l’in-
sistenza di Ambrogio sulla negatività del corpo, oltre che frutto del tempo, esprime il
suo disprezzo per la dimensione fisica, in pieno accordo con il platonismo delle sue
fonti e con la diffusa, gnostica idea di ‘spiritualità’. Se si prendono le mosse dal livel-
lo spirituale invece si capisce che Ambrogio non parla del corpo fisico perché il pec-
cato nasce dall’anima, come è scritto (Mt 15,19): «Dal cuore provengono i propositi
malvagi, gli omicidi, gli adultèri, le prostituzioni, i furti, le false testimonianze, le be-
stemmie». Gli esegeti colgono (intellettualmente) questa distanza spiegando il senso
paolino di sarx, ma non vi è bisogno di consultarli: in realtà è una delle prime ‘rego-
le’ che si apprende iniziando a coltivare la propria vita spirituale.

220
«Bella è la definizione dei greci, secondo la quale la morte è una fine. Essi
infatti chiamano la morte teleutên, in quanto è la fine di questa vita. Ma la
Scrittura denomina la morte anche ‘sonno’, come quando dice (Gv 11,11):
“Lazzaro, il nostro amico, dorme, ma vado a destarlo”. Ora, il sonno è una
buona cosa perché è un riposo, come sta scritto (Sal 3,6): “Io dormii e mi ri-
posai e mi alzai, poiché il Signore mi accoglierà”. Dolce dunque è il riposo
della morte. E così il Signore desta coloro che riposano, perché il Signore è
19
la resurrezione» .
Con queste parole possiamo chiudere la presentazione del pensiero di
Ambrogio e della sua opinione sulla paura della morte. Per il vescovo di
Milano, che si rivela in piena sintonia con la Tradizione anteriore, essa de-
nuncia in primis il permanere dell’attaccamento a questo mondo, dal quale
la morte invece ci strappa; in secundis, rivela un atteggiamento due volte
‘contro natura’ nei confronti di Dio, il quale introduce la morte per porre
fine ad una vita che altrimenti sarebbe rimasta nel peccato. Se perciò la
morte non appartiene alla natura umana così come l’ha creata Dio (contro i
pelagiani trenta anni prima del loro manifestarsi), la paura della morte è in-
vece strettamente legata al peccato, tanto quanto il non temerla è effetto
della virtù e di una vita spirituale sana ed amante di Dio. Come si vede, i
punti di contatto con Agostino sono decisamente molti di più e più forti
delle differenze, che sono solamente l’effetto di accenti che l’Ipponate è
obbligato a porre per sottolineare questi stessi aspetti appena esposti.
Ma prima di passare all’esame della posizione del Doctor gratiae manca
ancora un importante tassello.

_____________________________
19
AMBROGIO, De bono mortis, 8, 34 (SAEMO 3, 179).

221
Capitolo 8

I PADRI GRECI
E
LA PAURA DELLA MORTE

Fin qui siamo rimasti praticamente solo entro l’ambito latino, ma una ve-
rifica scientifica e teologicamente seria non può prescindare dalla ricogni-
zione in ambito greco, tanto più che in questo periodo i Padri di lingua gre-
ca solo decisamente più numerosi, attivi e produttivi che non quelli di lin-
gua latina. Per non moltiplicare i testi, che già non sono pochi, rinviamo la
lettura dei brani di Basilio il Grande e Giovanni Crisostomo rispettivamen-
te ai capitoli quattordici e tredici; questi grandi Padri sono ben noti ad Ago-
stino, che nei due scritti Contra Iulianum cita abbondantemente le loro ope-
re: là vedremo come anch’essi si collochino nella falsariga fin qui esamina-
ta. Quella che presentiamo qui è perciò solo una carrellata di passi, al fine
di mostrare che l’Oriente non è lontano dal pensiero dell’Occidente latino e
in particolare da quello del Doctor gratiae, sia prima che dopo la querelle
pelagiana, e che perciò non si può parlare di ‘opposizione’ neanche a loro
riguardo. Cureremo i paralleli tra le concezioni senza entrare nei dettagli.

8.1. I fondamenti della riflessione:


Origene e Metodio di Olimpo

Una prima e fondamentale distinzione ce la fornisce Origene, il quale nel


suo commento a Romani 5,12 (greco):
«Come per un uomo il peccato è entrato in (vulg. add. questo) mondo e per
mezzo del peccato la morte, così ha attraversato tutti gli uomini anche la
1
morte, nel quale (eph’ô) tutti hanno peccato» ,
_____________________________
1
La stranezza di quell’eph’ô, lett. ‘nel quale’, riferito alla morte è dovuta al fatto che
in italiano ‘morte’ è femminile come il latino mors; ma in greco thanatos è maschile,
quindi è ovvio riferire eph’ô alla morte. La traduzione corretta dell’inciso dovrebbe
(segue)

223
scrive queste parole:
«Notiamo come Paolo abbia detto che il peccato è entrato non in tutti gli uo-
mini ma ‘nel mondo’ e che invece la morte, anziché essere entrata è ‘passata
attraverso’, e non ‘nel mondo’ ma ‘in tutti gli uomini’: non credo che aver
fatto uso di tali differenze sia avvenuto senza motivo. Ritengo che Paolo in-
dichi con ‘mondo’ tutti gli uomini terreni e quanti persistono in un genere di
vita terreno; definisca invece ‘uomini’ quelli che ormai cominciano a cono-
scersi ed a sapere che sono fatti ad immagine di Dio. In quelli dunque che
sono chiamati ‘mondo’, cioè nei terreni, dice che il peccato è entrato e non
pone da nessuna parte la sua uscita. Di quelli invece che vuole siano ormai
considerati ‘uomini’ dice che il peccato passò attraverso di essi, cioè che fu
in loro ma, mediante la penitenza frutto della conversione, fu cacciato via, e
che li attraversò senza rimanere più a lungo in essi. Da tutto ciò risulta chia-
ro come nelle lettere di Paolo neppure una sillaba si debba ritenere priva di
2
misteri» .
Quindi, per Origene, il peccato ‘entra’ in tutti gli uomini e porta con sé la
morte, ma per chi lo rifiuta esso ‘esce’ insieme alla morte, che perciò li ‘at-
traversa’ solamente. Egli si riferisce in primis alla morte spirituale, ma non
pare azzardato applicare il ‘passare’ della morte anche alla separazione tra
anima e corpo. Non nel senso che il corpo dei giusti sia immortale, è ovvio,
bensì che in loro questo ‘passare’ comporti la non paura di tale separazione,
dato che il peccato che la causa è ormai respinto ed essi già cominciano “a
sapere che sono fatti ad immagine di Dio”. Sono illazioni, dato che Origene
non scrive niente del genere; ma distinguere tra l’entrare del peccato ed il
passare della morte suggerisce un atteggiamento diversificato verso queste
realtà: e questa differenza non può che riguardare innanzitutto la morte.
Anche se in modo non perfettamente parallelo, questa distinzione di at-
teggiamento si legge anche in Agostino, che ne esplicita apertis verbis an-
che le conseguenze nei giusti:
«Se uno chiedesse perché subiscano la morte, castigo del peccato, anche co-
loro il cui peccato è cancellato dalla grazia, risponderemmo che tale questio-

______________________________
essere dunque ‘tutti hanno peccato nella morte’. Ma questa affermazione non ha sen-
so, poiché la morte segue e non precede il peccato, tantomeno lo causa; ecco perché
di solito si riferisce all’altro sostantivo maschile, ‘uomo’. E siccome l’uomo al quale
in precedenza Paolo si riferisce è Adamo, l’inciso finale diventa ‘tutti hanno peccato
in Adamo’. Grammaticalmente non è l’optimum, perché ‘uomo’ è un pò lontano da
eph’ô ed il nome di Adamo non c’è, ma è certo migliore della soluzione di CEI73,08,
“perché tutti hanno peccato”, che semplicemente ‘taglia’ l’eph’ô. Al lettore immagi-
nare cosa accadrebbe alla Sacra Scrittura se si ‘tagliasse’ ogni punto difficile...
2
ORIGENE, In epistula ad Romanos commentarii, V, 1 (PG 14, 1012s; Cocchini, 244;
leggermente modificata).

224
ne è stata trattata e risolta in un’altra opera nostra, “Il battesimo dei fanciul-
li”. In essa abbiamo detto che è lasciato all’anima di sperimentare la separa-
zione dal corpo anche dopo la liberazione dai legami del peccato, perché se
il sacramento della rigenerazione fosse immediatamente seguito dall’immor-
talità del corpo ne sarebbe svuotata la fede, la quale è realmente tale allorchè
spera ciò che ancora non possiede.
Con una fede vigorosa e combattiva, nell’età matura si sarebbe dovuto supe-
rare anche il timore della morte, il che si manifestò grandemente nei santi.
Essi non avrebbero potuto riportare alcuna vittoria né alcuna gloria (poiché
non ci sarebbe neanche la lotta) se, appena usciti dal lavacro rigenerante, già
santi, fossero stati affrancati dalla morte del corpo. Chi, per fuggire la mor-
te, non correrebbe alla grazia di Cristo con i bambini da battezzare? In tal
modo la fede non sarebbe più provata dall’attesa di una ricompensa invisibi-
le, anzi, non sarebbe più neppure fede, cercando e ricevendo subito la mer-
cede dell’opera sua.
Ora però, con una più grande e mirabile grazia del Salvatore, la pena del
peccato è convertita in opera di giustizia. Poiché in principio fu detto all’uo-
mo (Gen 2,17): “Se peccherai, morirai”; ora al martire è detto: “Muori per
non peccare”. Allora fu detto: “Se disobbedirete, morirete”; ora si dice: “Se
ricuserete la morte trasgredirete il comando”. Ciò che allora si doveva teme-
re per evitare il peccato si deve ora accettare per timore di peccare. Così, per
l’ineffabile misericordia di Dio, la stessa pena del vizio diventa arma di vir-
tù ed il supplizio del peccatore si trasforma in ricompensa del giusto. Allora
la morte fu meritata peccando, ora si compie la giustizia morendo. E questo
si verifica nei santi martiri, ai quali dal persecutore viene proposta l’alterna-
tiva: o rinunziare alla fede o accettare la morte. Ed ora i giusti preferiscono
offrire per la fede ciò che i primi peccatori soffrirono per non aver creduto.
Se questi non avessero peccato non sarebbero morti; quelli invece pecche-
rebbero se non morissero. I progenitori dunque sono morti perché peccaro-
no, i martiri non peccano perché muoiono. Il peccato di quelli ha causato la
pena; è per la pena di questi che si evita il peccato. E questo non perché la
morte, che prima era un male, sia divenuta un bene, ma perché Dio ha con-
cesso questa grazia alla fede, cioè che la morte, nemica della vita, sia diven-
3
tata un mezzo per passare alla vita» .
Anche se in modo imperfetto, come già detto, questa descrizione agosti-
niana, specie nella prima parte, corrisponde a ciò che Origene ha definito il
‘passare’ della morte. Anzi, in Agostino il ‘passare’ della morte diventa an-
che il ‘passare’ della paura della morte, esattamente come affermano Am-
brogio e tutti i Padri anteriori: e lo scrive nel 426, cioè nel pieno della con-
troversia pelagiana. Nella seconda parte del passo, applicato ai martiri ma
non solo, dato che prima l’Ipponate argomenta in generale, leggiamo poi un
rovesciamento del tutto analogo a quello già incontrato in Ambrogio e negli
altri Padri: la morte, inflitta come pena ‘medicinale’ (secondo l’espressione
_____________________________
3
AGOSTINO, De civitate Dei, XIII, 4 (CCsl 48, 387s; trad. it. 707s; ritoccata).

225
di Ireneo), si trasforma in un bonum nella misura in cui permette al martire
di conquistarsi la gloria del paradiso morendo per il suo Signore.
Agostino specifica bene: ciò accade “non perché la morte, che prima era
un male, sia divenuta un bene, ma perché Dio ha concesso questa grazia al-
la fede”. Ma, a rigori, è precisazione superflua. In primis perché è ovvio
che la grazia divina non muti l’essenza di niente: se lo facesse, quel qualco-
sa cesserebbe di essere quel che è e diventerebbe altro. In secundis, perché
nessuno ha mai detto che la morte è un bonum in senso assoluto, ma che lo
è solo in casi particolari: per i giusti è un beneficio ma per i malvagi è una
dannazione, insegna Ambrogio, ed è per questo che i primi non temono la
morte mentre i secondi sì. In tertiis, perché il fatto che il bonum mortis sia
opera della grazia non è una eccezione ma la regola: tutto è grazia, come
scriverà molti secoli dopo George Bernanos, e tutto ciò che è buono lo è
per partecipazione a quel Bene che è Dio; parimenti, tutto quel che si sepa-
ra o solo discosta da Lui è per questo stesso fatto male, e cattivo.
L’insistenza sul rifiuto di considerare la morte un bonum per se è com-
prensibile in Agostino: una simile affermazione potrebbe avvalorare la tesi
pelagiana della morte come dato di natura. Ma tutti i Padri antecedenti alla
querelle pelagiana, lo si è letto ad abundantiam, sono quanto mai chiari ed
univoci: rifiutano l’idea che la morte appartenga alla natura umana antelap-
saria e la imputano al peccato originale compiuto da Adamo ed Eva. Per
nessuno di loro la morte è un bonum per se, ed Agostino lo sa benissimo.
Di conseguenza, la sua insistenza non ha come destinatari i Padri ortodossi
bensì gli eretici pelagiani, e Celestio sopra tutti gli altri. I Padri, tutti, inse-
gnano che la morte entra nel mondo dopo ed a causa del peccato, ed è un ri-
medio ad essa: Agostino non accetta il termine ma condivide l’idea, come
si è letto. Afferma che avviene per grazia, ma non nega che ciò accada. Ri-
badisce che in sé la morte è un male, perché si oppone alla natura umana
così come Dio l’ha creata, ma insegna è indispensabile alla sua reintegra-
zione, anzi, se ora i santi la rifuggissero non sarebbero più tali. In definiti-
va, il parallelo con quanto letto in Origene non è certo perfetto, dato che i
contesti sono diversi e lo sono anche gli obiettivi ed i soggetti: tuttavia non
vi è dubbio che, per quanto riguarda il nostro discorso, tra i due vi è una
notevole sintonia. E nel bel mezzo della querelle pelagiana.
Paradossalmente, data la forte e notoria opposizione tra i due, il più effi-
cace chiarimento della idea origeniana ce la offre Metodio di Olimpo. An-
che se è difficile collocarlo con precisione, certo Metodio scrive dopo Ci-
priano di Cartagine e all’incirca nello stesso periodo di Cromazio e Paoli-
no, quindi alla fine del quarto secolo. Ignora però le loro opere, e di conse-
guenza quel che stiamo per leggere è molto significativo:

226
«La morte e la distruzione vennero impiegate come antidoto dal nostro vero
protettore e medico, Dio, per sradicare il peccato. Altrimenti il male sarebbe
rimasto eternamente in noi, come una cosa immortale che cresce negli im-
mortali, e noi stessi avremmo vissuto al modo di malati, mutilati e privati
della nostra virtù originaria, come persone che ospitano il grave male del
peccato in corpi eterni ed immortali. È una cosa buona, quindi, che Dio ab-
bia concepito la morte, questa cura, come una medicina purgativa di entram-
4
bi, anima e corpo, per lasciarci del tutto immacolati ed illesi» .
Questo brano è di grande importanza sia per capire l’atmosfera spirituale
nei confronti della morte in Oriente prima della querelle pelagiana, sia per
la fruibilità dogmatica della dormitio come immagine della morte. In primis
illustra benissimo la visione greca di peccato, originale o meno non fa mol-
ta differenza: il peccato è una malattia, una menomazione dello spirito alla
quale si rimedia per mezzo di una medicina. Non vi è nessuna idea di ‘cor-
ruzione della natura’, ma, al più, di indebolimento, di ‘infezione’. Ma, lo si
è già visto in parte e più avanti lo vedremo meglio, questa è anche l’idea di
Agostino, sebbene la communis opinio affermi cose diverse e lo stesso Ip-
5
ponate talvolta sembri scriverlo . In secundis, il brano rivela piena sintonia
non solo con Teofilo, Ireneo e gli altri Padri greci, ma anche con Cipriano e
gli altri latini: e se certo Metodio conosce i primi, di sicuro ignora i secon-
_____________________________
4
METODIO DI OLIMPO, De resurrectione, I, 43, 3 (CTP 216, 132). Rinviamo alla sola
trad. it. perché l’originale greco, inedito, è quasi tutto perso e le lacune sono colmate
ricorrendo ad una versione paleoslava inedita e comunque a noi inaccessibile.
5
Cf. p.es. AGOSTINO, De civitate Dei, XIII, 3 (CCsl 48, 386; trad. it. 706): «La gravità
di quel peccato provocò una sanzione (damnatio, ‘condanna’) che corruppe profon-
damente la natura (naturam mutavit in peius, ‘mutò in peggio la natura’); e ciò che fu
una pena (penaliter praecessit, ‘precedette come pena’) per i primi uomini peccatori
diventò una condizione naturale (naturaliter sequeretur, ‘seguì come natura’) per tut-
ti i loro discendenti». Una lectura cursiva o poco attenta giustifica la nota del curato-
re (706, n.2): «Molto chiaramente sant’Agostino afferma che la natura umana è stata
ferita e corrotta dal peccato originale», che esprime la communis opinio in base alla
quale prende forma l’idea di una opposizione tra Agostino ed i Padri greci. Ma que-
sta affermazione è sbagliata: Agostino scrive che la sanzione ha corrotto la natura,
non il peccato. Ed è vero: la morte, in quanto separazione dell’anima dal corpo, muta
in peggio (l’italiano ‘corrompe’ ha significato tecnico diverso dal ‘mutare’ usato da
Agostino) la natura umana, poiché questa comporta l’unione di anima e corpo. Ma la
morte è la pena del peccato, non il peccato, ancor meno la natura del peccatore: per
questo Agostino scrive che la morte prima venne come ‘pena’ e poi come ‘natura’. E
nella misura in cui tale pena è data da Dio, è necessario anche evitare di connotarla in
modo solo negativo, come si è già detto. Ma quel che importa rilevare qui è la facilità
con la quale, passando da una lettura superficiale all’altra, si finisca con il mettere in
bocca ad Agostino quel che non ha detto, forzando i testi e creando nella Tradizione
fratture ingiustificate ed inesistenti. Admodum pelagianorum.

227
di. Ci si può chiedere se ed in che misura Metodio rispecchi il sentitus com-
mune del tempo, ma riguardo alla nostra questione non vi possono essere
dubbi che ne è un testimone fedele. In tertiis, ci piace sottolineare che Me-
todio sostituisce al generico ‘beneficio’ di Teofilo ed Ireneo una descrizio-
ne molto dettagliata del bonum mortis: è una cosa buona, come il resto del-
la creazione; è un antidoto, cioè si oppone al veleno (il peccato); è una cu-
ra, ossia rimedia al danno inflitto dalla malattia (il peccato); è una medicina
purgativa, cioè aiuta ad espellere quel che di contrario alla natura è stato in-
trodotto in essa (il peccato). Certo, di primo acchito non è facile vedere la
sintonia tra questo quadro e l’abituale descrizione della visione agostiniana.
Senza pretendere di poter risolvere ogni difficoltà, vedremo come le distan-
ze siano di gran lunga minori di quel che sembri. Un indizio però lo antici-
piamo. In un’opera del 412, quindi prima dello scoppio dell’eresia pelagia-
na, che però già scorge, Agostino scrive:
«(Cristo) avrebbe potuto donare ai credenti anche questo: di non provare la
morte di questo corpo. Però, se l’avesse fatto, la carne riceverebbe un certo
aumento di felicità ma la fede subirebbe un abbassamento di fortezza. Gli
uomini infatti temono tanto questa morte che riporrebbero tutta la felicità
dei cristiani solo nella loro assoluta impossibilità di morire. E cosi nessuno
si affretterebbe, attraverso anche la virtù del disprezzo di questa morte, alla
grazia del Cristo per ottenere quella vita che sarà beata dopo questa morte,
ma si crederebbe con fede troppo molle nel Cristo per allontanare l’orrore
della morte. Ha dunque concesso più grazia, ha senza dubbio donato qualco-
sa di più ai suoi fedeli. Che ci sarebbe stato infatti di grande per un cristiano
a credersi non morituro, vedendo che i credenti non morivano? Quanto è più
grande, quanto più forte, quanto più lodevole per un cristiano morituro cre-
dere cosi da sperare di vivere senza fine! Ad alcuni inoltre alla fine dei tem-
pi sarà concesso di non sentire questa morte, per una trasformazione repen-
tina, ma di essere rapiti insieme ai risorti tra le nuvole per andare incontro al
Cristo nell’aria e di vivere sempre cosi con il Signore (cf. 1Tess 4,16). E
giustamente sarà concesso ad essi, perché allora non ci saranno più posteri
da indurre a credere in forza di questo motivo: non la speranza di ciò che
non vedono, ma l’amore di ciò che vedono. E una fede siffatta sarebbe fiac-
ca e debole, nemmeno degna d'esser chiamata fede, dal momento che la fede
è stata definita così (Eb 11,1): “La fede è il fondamento di coloro che spera-
no, è la prova delle realtà che non si vedono” Tanto che la stessa Lettera a-
gli Ebrei, dove ciò sta scritto, dice, dopo aver enumerato alcuni che piacque-
ro a Dio per la loro fede (Eb 11,13): “Nella fede morirono tutti costoro, pur
non avendo conseguito i beni promessi, ma avendoli solo veduti e salutati da
lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sopra la terra”. E poco
dopo conclude lo stesso elogio della fede così (Eb 11,39s): “Eppure tutti co-
storo, pur avendo ricevuto per la loro fede una buona testimonianza, non
conseguirono la promessa di Dio. Dio aveva in vista qualcosa di meglio per
noi, perché essi non ottenessero la perfezione senza di noi”. Questo elogio
della fede non ci sarebbe né ci sarebbe la fede stessa, come ho già detto, se

228
gli uomini nel credere tenessero dietro a premi visibili, cioè se ai credenti
fosse pagata per ricompensa l’immortalità in questo secolo.
Perciò il Signore stesso volle morire, com’è scritto (Eb 2,14s), “per ridurre
all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il
diavolo, e liberare così quelli che per timore della morte erano soggetti a
schiavitù per tutta la vita”. Questo testo insegna bene che l’attuale morte
corporale è cominciata per iniziativa e istigazione del diavolo, cioè per il
peccato a cui egli persuase Adamo: non per altro potrebbe dirsi con tutta ve-
rità che abbia il potere della morte. Perciò colui che moriva senza alcun pec-
cato, né originale né proprio, disse, come ho ricordato sopra (Gv 14,30):
“Ecco, viene il principe di questo mondo - ossia il diavolo che aveva il pote-
re della morte - e in me non trova nulla”, ossia nulla del peccato per il quale
ha fatto morire gli uomini. E quasi gli si chiedesse: ‘Perché dunque tu muo-
ri?’, risponde (Gv 14,31): “Perché tutti sappiano che io faccio la volontà del
Padre mio, alzatevi e andiamo via di qui”, cioè ‘perché io muoia non a causa
del peccato sotto l’istigatore del peccato, ma a causa dell’obbedienza e della
giustizia, essendomi fatto obbediente fino alla morte’ (cf. Fil 2,8). E questo
dunque insegna tale testimonianza: anche la vittoria dei credenti sulla paura
della morte fa parte dello stesso combattimento della fede, che sarebbe certo
6
mancato se ai credenti fosse stata concessa immediatamente l’immortalità» .
Agostino qui è molto chiaro: la morte fisica è una prova che fortifica la
fede, posta da Dio come strumento per il perfezionamento dei credenti; non
usa termini come ‘medicina’, ‘cura’ o ‘rimedio’, ma l’idea è forse diversa?
In questo ampio passo, la morte non è descritta de facto come un ‘benefi-
cio’? E lo è non perché voluta da Dio (come invece insegnano i pelagiani)
ma perché permessa da Dio. Si noti poi come alla fine del brano Agostino
respinga apertis verbis la liceità della paura della morte, il che non avrebbe
potuto se essa inerisse alla natura umana, prima o dopo essere stata ‘infetta-
ta’ dal peccato, poiché ogni uomo, finchè vive, pecca. E comunque parla di
un ‘combattimento della fede’, il che vale solo per la natura postlapsaria. In
queste affermazioni ci pare di scorgere anche un certo accordo con quanto
abbiamo letto in Origene riguardo al ‘passare’ della morte nei giusti. Come
si vede, opporre Agostino agli altri Padri è operazione piuttosto difficile se
si legge quel che scrivono. Ma proseguiamo nella nostra panoramica.
A conferma di questa sintonia leggiamo un testo di Gregorio il Teologo,
che descrive così le conseguenze della caduta di Adamo ed Eva:
«Poiché, per l’invidia del diavolo e per la tentazione della donna, che da una
parte ella subì perché era più debole dell’uomo, dall’altra gli inflisse perché
più convincente di lui - ahi, quanto sono debole! mia, infatti, è la debolezza
del mio primogenitore! - l’uomo si dimenticò dell’ordine che aveva ricevuto
_____________________________
6
AGOSTINO, De peccatorum meritis et remissione, II, 31, 50s (CSEL 60, 120s; NBA
17/1, 193s; ritoccata).

229
da Dio e non potè trattenersi dal gustare l’amaro frutto: allora nello stesso
tempo fu bandito sia dall’albero della vita sia dal paradiso sia da Dio, a cau-
sa della sua malvagità. Allora si vestì di tuniche di pelle, che sono forse que-
sta carne più spessa che portiamo, che è mortale e resistente, e conobbe per
prima cosa la propria vergogna e si nascose agli occhi di Dio. Anche in que-
sto caso guadagnò qualcosa, vale a dire la morte ed il fatto che pose un ter-
mine al suo peccato, affinchè il male non fosse immortale: così la punizione
divenne un beneficio (philanthrôpía). Infatti sono convinto che questo è il
7
modo in cui Dio punisce» .
Qui troviamo tutti gli elementi caratteristici dell’atteggiamento spirituale
verso la morte che figurano anche nei Padri latini: la morte pone termine ad
uno stato di peccato altrimenti senza fine, e per questo de facto si configura
come beneficio nonostante de iure sia una punizione. Gregorio ammette poi
l’esistenza del peccato originale originato, contro Pelagio e Celestio, e vede
la morte come conseguenza della caduta dei progenitori (ancora contro Ce-
lestio e Pelagio). Non si capisce dunque come alcuni possano affermare che
il pelagianesimo abbia avuto ‘accoglienza positiva’ in Oriente: l’oratio 45,
che si è letta, è infatti del 9 aprile 383, trentacinque anni prima dello scop-
pio della querelle. In realtà non il pelagianesimo ma i pelagiani ebbero per
breve tempo il beneficio del dubbio, perché dissimularono il loro pensiero:
scoperto questo, la condanna fu rapida e senza appello. Merita poi rilevare
che il termine greco reso con ‘beneficio’ è philanthrôpía: non è sinonimo
di bonum o beneficium ma neanche un loro opposto, anzi, esalta l’idea di
una morte donata per amore (philia) e non inflitta come punizione. In que-
sta prospettiva, la paura della morte non può essere positiva né naturale.

8.2. Gli sviluppi della riflessione 1:


Gregorio di Nazianzo

Contro questo quadro sintetico (e in generale contro questo atteggiamen-


to verso la morte) non di rado si riporta questo inciso di Agostino:
_____________________________
7
GREGORIO DI NAZIANZO, Orationes, or.45, 8 (PG 36, 632; Sani-Vincelli, 1143). Cf.
anche or.38, 12 (PG 36, 324s; Sani-Vincelli, 891; un parallelo ad litteram); or.40, 36
(PG 36, 412; Sani-Vincelli, 965). Che la morte non sia negativa dunque nasce da una
idea di ‘punizione’ volta non a ‘risarcire il danno’ o a ‘punire’ ma a ‘ri-orientare’ il
peccatore verso il bene. È posizione già di ORIGENE, De principiis, I, 6, 3 (SCh 252,
200-204; Simonetti, 205s); II, 5, 3 (SCh 252, 298ss; Simonetti, 277); Contra Celsum,
IV, 99 (SCh 136, 430-434; Ressa, 370s); V, 31 (SCh 147, 90-94; Ressa, 398s), che
culmina in Isacco di Ninive: cf. la collazione di testi in I. ALFEEV, La forza dell’amo-
re. L’universo spirituale di Isacco il Siro, Magnano (BI) 2003, 37-72.

230
«La morte non deve essere considerata un bene perché essa è stata piegata
ad essere un vantaggio così grande non per sua forza ma per l’aiuto divi-
8
no» .
A parte la sua brevità decontestualizzata, il passo ha comunque già in sé
la replica. Eccetto Pelagio e Celestio, infatti, nessuno ha mai sostenuto che
la morte fosse un bonum per se; tutti i Padri fin qui citati insegnano sempre
e solo che è stata data da Dio come rimedio ad un male, quindi è sì da con-
siderare un bonum ma in quanto dono di Dio e in quanto rimedio. Si metta-
no però da parte queste che forse ad alcuni sembreranno sottigliezze pole-
mizzanti, e leggiamo il contesto dell’inciso; eccolo:
«La morte preziosa dei santi, che la morte ha prevenuto con tale efficacia di
grazia da non lasciarli esitare ad accettare la morte per unirsi a lui, ha dimo-
strato che quanto era stato decretato in castigo del peccato era diventato ca-
pace di produrre un frutto più abbondante di giustizia. La morte pertanto
non deve essere considerata un bene in sé, poiché divenne tanto utile non
per virtù sua ma per la grazia di Dio. Presentata un tempo come oggetto di
timore per evitare il peccato, si deve ora accettare per non commetterlo, per
cancellare quello commesso e per dare alla giustizia la dovuta palma della
9
sua grande vittoria» .
Dopo questa lettura, ci si chiede: ma quel che afferma Agostino all’inizio
non è identico a quel che si è letta in Gregorio di Nazianzo? Quando dice
che la morte non è un bene in sé (quindi non rientra nella natura umana an-
10
telapsaria) in cosa l’Ipponate si oppone, ad esempio, ad Ambrogio? Ed il
fatto che la morte diviene utile per grazia in cosa la distingue da ogni altro
dono di grazia? O si vorrà sostenere che il Battesimo giova per sua natura e
non per grazia? O che la Scrittura insegna, corregge ed edifica in quanto li-
bro e non in quanto Parola di Dio? Quando Agostino dice che la morte ‘un
tempo’ era oggetto di timore ma ora ‘la si deve accettare’, non insegna for-
se che della morte non si deve avere paura? E non echeggia questo ciò che
11
si è letto nel De bono mortis di Ambrogio? Come si vede, è facile far dire
_____________________________
8
AGOSTINO, De civitate Dei, XIII, 7 (CCsl 48, 390; trad. it. 712). Riportiamo l’inciso
come si legge in PIZZOLATO, «Il ‘grande probema della morte’», op. cit., 64.
9
AGOSTINO, De civitate Dei, XIII, 7 (CCsl 48, 390; trad. it. 712). L’intero capitolo va
in questa stessa direzione. Si noti la forte distanza tra questa versione, che non lascia
spazio all’ipotesi di una polemica con Ambrogio, e quella di Pizzolato, che quasi la
esige. Ci si metta poi nei panni di chi non è in grado di consultare l’originale latino, e
non sarà difficile capire perché insistiamo così spesso sulla letteralità delle versioni.
10
Ci si potrebbe al contrario chiedere come questa affermazione possa stare insieme a
quella di un corpo naturaliter mortale e per grazia immortale che si legge in AGO-
STINO, De Genesi ad litteram, VI, 25 (cap.6, n.17). Ma soprassediamo.
11
Cf. p.es. AGOSTINO, De civitate Dei, XIII, 8 (CCsl 48, 390; trad. it. 712): «Se ben
(segue)

231
a qualcuno quel che non ha detto: basta ritagliare una frase fuori dal conte-
sto, ‘dimenticare’ una piccola glossa ed il gioco è fatto; gioco che, qui, è ra-
tificare la communis opinio di una contrapposizione tra Agostino e gli altri
12
Padri della Chiesa .
A nostro avviso, se si vuole trovare una qualche opposizione al quadro
sintetico espresso da Gregorio di Nazianzo nell’oratio 45 conviene vederla
in ciò che lo stesso Teologo scrive altrove:
«Polvere, fango e poi di nuovo polvere. La terra si unisce di nuovo alla terra
e si avvolge, come una fascia, sulla fascia di terra, e poi di nuovo, come ce-
nere, torna ad essere polvere come quella che il violento contorcimento dei
venti solleva in alto e comprime poi al suolo. Così infatti i turbini di malvagi
venti sollevano in alto, verso una falsa gloria, la nostra volubile vita; ma es-
sa di nuovo come polvere scende giù e resta in basso, finchè la parola del
Creatore (non) unisce ciò che era congiunto e fu separato dalla inevitabile
dissoluzione (della morte). Ma ora, come chinandosi dall’alto di un abisso,
la polvere, spiritualizzata dalla divina immagine impressa in essa, grida le
13
terrene tragedie e compiange quella vita che sembra arridere» .

______________________________
consideriamo, coloro che, per mantenersi fedeli alla virtù, affrontano una morte glo-
riosa si mettono al sicuro contro la morte. Infatti ne accettano una parte per non su-
birla tutta intera e così scongiurano la seconda morte che non finisce mai. Accettano
cioè la separazione dell’anima dal corpo affinchè non accada che, separandosi l’ani-
ma da Dio, anche questa si separi dal corpo e così, dopo la prima morte, tutto l’uomo
cada nella seconda morte, che è eterna. La morte quindi, come ho detto (cf. XIII, 6),
in quanto è sofferenza e forza distruttrice, non è buona per nessuno, ma è lodevole
sopportarla per acquistare e possedere il bene. Quando essa però colpisce coloro che
sono già nella morte, allora non è assurdo dire che è un male per i cattivi ed un bene
per i buoni. Infatti le anime dei giusti, separate dai loro corpi, entrano nel riposo e
quelle degli empi nei tormenti, fino a che i corpi dei giusti risorgeranno alla vita e-
terna e quelli dei cattivi alla morte eterna, detta pure ‘seconda morte’». La vicinanza
teorica con quanto insegna Ambrogio ci pare lampante, anche se i modi di esprimersi
sono diversi. Comunque la sintonia tra Agostino ed il De bono mortis di Ambrogio è
molto più profonda e antica, poiché risale addirittura al periodo di Cassiciaco: cf. D.
DOUCET, «L’époux des âmes. Porphyre, Ambroise et Augustin: De bono mortis 14-
20; De ordine I, 8, 24», Revue des Études augustinienne 41 (1995) 231-252.
12
Tale contrapposizione è più plausibile se riferita al concetto di ‘pena’, esplicitamente
medicinale nel Padri greci, (in apparenza) più ‘legale’ in Agostino. Ma svanisce se si
pone in primo piano il versante mistico. Da questo punto di vista, per tutti i Padri la
morte è un dono che Dio fa all’uomo perché lo ama e vuole limitare i danni della ca-
duta. Se si vuol fare questioni di parole, è vero che, p.es., Agostino contesta il termi-
ne bonum: ma cosa cambia se lo si chiama remedium? Una rosa non è una rosa per-
ché la chiamo ‘rosa’, né diventa un pesce se la chiamo ‘trota’...
13
GREGORIO DI NAZIANZO, Carmina, I, 2, carm.18 de vita humana (PG 37, 786s; CTP
115, 184s).

232
L’interesse di questo passo per noi è tutto nell’aggettivo ‘inevitabile’ che
descrive la ‘dissoluzione’: poiché la caduta di Adamo era evitabile, questo
aggettivo non può che riferirsi alla dissoluzione conseguente alla morte; e
lo si specificato tra parentesi. Non vi è bisogno di spiegare come e perché
questa affermazione contraddica quel che si è letto nell’oratio 45, anche se
non è prudente parlare di ‘contraddizione’ quando si è di fronte ad autori
del calibro di Gregorio: il nostro non vedere la conciliazione non significa
che non ci sia e lui l’abbia scorta. È invece più opportuno far notare che, se
la morte è inevitabile, ciò significa che non ha alcun legame con il peccato,
che evitabile lo è, il che da un lato farebbe del Nazianzeno un pelagiano e
14
dall’altro urterebbe contro la lettera di Gen 3,19 . In realtà, come dimostra
non solo questo passo ma tutto l’insieme dei carmi che lo precede, Grego-
rio non si riferisce alla natura antelapsaria ma sempre e solamente a quella
postlapsaria: ed in questo caso è indubbio che morire sia inevitabile. Quindi
qui non si è letta una professione di fede pelagiana ma semmai l’opposto,
in linea con quanto insegna anche Agostino e non solo, come ormai si sa.
Quello stesso contesto rivela poi una insistenza quanto mai marcata sulla
scarsa attrattiva della vita terrena, non solo agli occhi di chi ha scelto Dio
(come insegna Ambrogio e tutta la tradizione latina qui esposta) ma a quelli
di chiunque osservi il vivere umano senza illusioni. E non è un pessimismo
esistenziale; non è forse scritto (Sal 90, 10):
«Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti
ma quasi tutti sono fatica, dolore; passano presto e noi ci dileguiamo»?
Ciò rende almeno poco coerente ritenere la paura della morte un sentire
lecito se non addirittura naturale (sia pur di una natura postlapsaria) per il
cristiano che sa di vivere in eterno, anche se Gregorio considera comunque
la morte come una disgrazia, una pena. È vero che vi è una certa differenza
tra questo passo di Gregorio e in generale l’atmosfera assai poco simpateti-
ca con la vita terrena da un lato, e la prospettiva dei Padri latini e di Ago-
stino in particolare dall’altro. Altrettanto vero è anche che tale distanza ruo-
ta intorno ad una differente concezione del ruolo metafisico della materia,
fortemente negativo e foriero di dissoluzione per Gregorio ed in generale i
Padri greci, meno negativo e talvolta positivo per quelli latini. Ma, credia-
mo sia evidente già nei pochi testi riportati, si tratta di accentuazioni diver-
se dei medesimi elementi: nei Padri greci mai la ‘radicale’ negatività della
_____________________________
14
Se infatti si replicasse che la morte è inevitabile perché è inevitabile la punizione del
peccato, è facile replicare che la morte non è l’unica pena possibile, dato che la bene-
fica fantasia di Dio avrebbe potuto inventarne infinite altre: ergo la morte non è la ‘i-
nevitabile’ punizione del peccato originale ma solo la sua pena de facto.

233
materia assume venature gnostiche, così come, nei Padri latini, mai la posi-
tività va oltre il riconoscimento del suo essere creata da Dio e quindi, per
questa ragione, la ammissione della sua bontà. Né bisogna mai dimenticare,
infine, che l’Oriente ha una simpatia, una tensione, una brama escatologica
che in Occidente sente molto meno: è ovvio che, se il pensiero corre spesso
e volentieri verso l’aldilà, l’aldiqua interessi meno, e viceversa. Non è un
giudizio di merito: si tratta di sensibilità diverse e complementari; per usare
un’immagine di moda tra noi cattolici, dei ‘due polmoni’ della Chiesa che
respirano insieme.
Quanto al peccato originale, sicuramente Agostino lo indaga più a fondo
ed in modo diverso dai contemporanei greci, ma solo perché Pelagio inizia
la sua predicazione in Africa dopo essere stato costretto a lasciare Roma.
Altrettanto indubbio è che i Padri greci furono rapidamente convinti dalle
posizioni dell’Ipponate, e che riconobbero da un lato che Celestio e Pelagio
contraddicevano la Tradizione anteriore, dall’altro che Agostino ed i vesco-
vi occidentali la difendevano. Efeso docet. Insistere quindi nel parlare di
frattura tra Padri greci e latini è voler sovradeterminare una differenza che i
protagonisti riconobbero ma valutarono diversamente, per di più scomuni-
cando chi la volle interpretare in tal modo: Celestio, Pelagio e Giuliano di
Eclano lo furono al Concilio di Efeso, Diodoro di Tarso e Teodoro di Mop-
15
suestia dopo . Ma continuiamo la nostra ricognizione.
_____________________________
15
In contrario cf. p.es. quanto scrive PIZZOLATO, «Il grande problema», op. cit., 78s
(cors. orig.): «In parte dobbiamo rassegnarci a registrare la separazione di queste due
linee dentro il pensiero degli autori cristiani antichi, perché esse dipendono da diver-
se antropologie e da diverse concezioni della corporeità. Una si basa sul collegamen-
to della natura, anche fisica, con la perfezione assoluta di Dio, che la rende perciò in-
corrotta qualora non intervengano fatti (colpe) che volontariamente la corrompano.
L’altra parte del legame ontologico, indissolubile e perfino evidente, del corpo con la
materia (di cui partecipa o in cui addirittura si esaurisce), e perciò con il divenire; e
quindi con la morte. Una variante di questo secondo caso parte dalla visione della
morte come manifestazione della natura mista dell’uomo, partecipe di due universi,
celeste e terreste:
“Il Logos crea l’uomo come animale partecipe di entrambe le nature, quella invi-
sibile e quella visibile [...] terrestre e celeste, temporaneo ed immortale, visibile ed
intelligibile, a metà strada tra grandezza e bessezza, nel medesimo tempo spirito e
carne”; Dio creò l’uomo “come animale soggetto quaggiù ad un progetto e in pas-
saggio verso un altro luogo e come termine del mistero, perché è divinizzato dalla
inclinazione verso Dio”.
(GREGORIO DI NAZIANZO, Orationes, or.45, 7; PG 36, 632AB).
Qui la morte non è termine ma situazione di transito che permette lo scambio tra
mondo terreno e celeste, scavalcando la linea di frontiera. In ogni caso restano per
tutti indiscutibili sia il ruolo del peccato di origine, il quale o produce tutta la morte
(segue)

234
8.3. Gli sviluppi della riflessione 2:
Gregorio di Nissa

Poiché abbiamo stabilito, per non appesantire una ricognizione già abba-
stanza complessa, di rinviare la lettura delle posizioni di Basilio e del Cri-
sostomo, sondiamo adesso la visione di Gregorio di Nissa. Il nostro santo
Padre ripensa a fondo l’intera vicenda della caduta di Adamo:
«Quando, con un libero movimento della nostra volontà, ci siamo assunti la
partecipazione al male, facendo penetrare per un certo diletto il male nella
nostra natura come un veleno mescolato al miele, decadendo perciò dalla fe-
licità intesa come assenza di passioni, abbiamo subìto una trasformazione
verso il male: per tutto questo l’uomo si decompone e torna alla terra come
un vaso di creta, allo scopo però, una volta gettata via l’impurità che porta
con sé, di essere ricostituito mediante la resurrezione nella sua forma origi-
naria.
È questa la dottrina che ci presenta Mosè come verità storica ed insieme sot-
to il velo della allegoria. Del resto le stesse allegorie contengono un inse-
gnamento chiarissimo. Dopo che, come è detto, i primi uomini s’implicaro-
no in ciò che era proibito e furono privati della loro felicità, il Signore impo-
se loro delle tuniche di pelle, ma il vero senso del racconto non mi sembra
riferirsi a pelli comunemente intese: di che specie infatti erano gli animali
uccisi e scorticati dai quali si pensa fosse ricavato quell’indumento? Ma poi-
ché ogni pelle separata dall’animale è cosa morta, sono pienamente convinto
che la condizione mortale, prima riservata alla natura irrazionale (i.e. piante
ed animali), sia stata poi inflitta agli uomini da colui che è il medico della
nostra malvagità, ma non perché rimanesse per sempre: in realtà l’indumen-
to fa parte delle cose che ci vengono applicate dall’esterno e all’occasione
fornisce al corpo la sua utilità senza appartenere alla natura.
La condizione mortale, per analogia con la natura degli esseri irrazionali, fu
conferita secondo il piano della Provvidenza alla natura creata per l’immor-
talità: essa ne involge la parte esterna, non l’interiore, afferra la parte sensi-
bile dell’uomo senza però toccare l’immagine divina. Ma la parte sensibile
si dissolve, non è distrutta. Perché, mentre la distruzione è il passaggio al
nulla, la dissoluzione è il ritorno agli elementi del cosmo dai quali fu costi-
______________________________
(compresa quella fisica) o introduce nell’uomo-spirito l’estraniamento dalla sua par-
tecipazione al divino; sia il ruolo tragico della morte: della morte fisica come solu-
zione del processo di vita e della morte del peccato come distacco dalla fonte del-
l’Essere». Quel che noi contestiamo di questa ricostruzione non è il dato testuale, ben
esposto da Pizzolato, ma il leggerlo come ‘separazione’; ed il farlo nonostante il ri-
conoscimento esplicito e corretto di un ampio terreno comune dogmaticamente fon-
dante, a fronte di una differenza solo filosofica. Fraintendimenti di questo genere so-
no possibili solo a causa di una mancata percezione del sentitus spirituale.

235
tuita. Ma ciò che viene ad essere in questo stato non perisce, anche se sfug-
16
ge alla nostra percezione sensibile» .
Stabilito per prima cosa che con ‘passioni’ Gregorio intende in senso fi-
losoficamente tecnico tutto ciò che viene subito senza potersi opporre (pa-
tere in latino significa ‘subire’, ‘patire’, e passio è il patimento), da questo
brano ricaviamo molte note interessanti.
In primis, il peccato genera una trasformazione che inclina al male, non
la morte; in questo Gregorio segue tutta la Tradizione, latina e greca.
In secundis, la morte è descritta non come punizione ma come un quid
che viene sì ‘inflitto’, ma dal medico, e non per sempre: tutti gli studiosi ri-
conoscono in questa idea il rapporto di Gregorio con Metodio di Olimpo e,
aggiungiamo noi, anche la deformazione operata da coloro che vi vedono
un disprezzo per la corporeità, qui coinvolta non in quanto tale ma soltanto
come (sop)portatrice della morte.
In tertiis, per Gregorio l’uomo antelapsario era immortale, sembrerebbe
addirittura per natura dato che non menziona alcuna azione della grazia al
17
riguardo ; a causa della trasformazione introdotta dal peccato diviene mor-
tale, ma tale ‘indumento’, per quanto negativo, «fa parte delle cose che ci
vengono applicate dall’esterno», perciò «non appartiene alla natura».
Come si vede, la vicinanza di Gregorio ad Agostino è notevole, almeno
pari a quella con gli altri Padri, latini e greci. È vero che, riguardo alla pau-
ra della morte, qui il Nisseno non dice niente, però, immediatamente prima
_____________________________
16
GREGORIO DI NISSA, Oratio catechetica magna, 8, 3ss (SCh 453, 188ss; CTP 34,
68s).
17
Cf. anche, p.es., GREGORIO DI NISSA, In Canticum canticorum homiliae, hom.12 (PG
44, 1019; CTP 72, 270; rivista): «Tutte le cose che Dio ha creato sono molto belle,
come attesta la parola della Genesi (1,31). Una delle cose molto belle era l’uomo, an-
zi, egli era adorno della bellezza ancor più di tutte le altre. Che cos’altro infatti a-
vrebbe potuto essere bello quanto la somiglianza con la Bellezza perfetta (cf. Gen
1,26s)? Dunque, se tutte le cose erano molto belle e se, in mezzo a tutte o anche pri-
ma di tutte, vi era l’uomo, senza dubbio nell’uomo non c’era la morte; altrimenti
l’uomo non sarebbe stato una ‘cosa bella’, se avesse avuto dentro di sé la triste im-
pronta dell’afflizione della morte. Ma siccome l’uomo era immagine e somiglianza
dell’eterna Vita, egli era veramente bello, e molto bello, abbellito da quella splendida
impronta che la Vita aveva lasciato in lui. Egli possedeva anche il divino paradiso,
che con la fertilità dei suoi alberi pullulava di vita, ed il comando di Dio era legge di
vita, poiché prescriveva all’uomo di non morire (cf. Gen 2,16s)». Ad una lettura cur-
siva sembra evidente che per Gregorio l’uomo è immortale per natura; però è anche
vero che, volendo, si potrebbe considerare l’impronta divina come un dono particola-
re di grazia, quel posse non mori del corpo di cui spesso parla Agostino. Ma, a rigo-
ri, dal silenzio di Gregorio su questa ‘grazia’ non si può dedurre niente, perciò è più
prudente concludere per un’immortalità ‘naturale’ di Adamo, in anima e corpo.

236
di questo passo, egli scrive:
«Chi partecipa alla vita vi si attacca mediante il godimento dei piaceri. Per
chi invece si trovi a trascorrere la vita nelle sofferenze vale molto di più, in
18
tale condizione, non esistere in mezzo al dolore» .
Come letto già più volte, anche per Gregorio la paura della morte sorge
innanzitutto dal voler continuare a gustare i piaceri della vita terrena; il do-
lore inflitto dalle sofferenze invece rende ben accetto ciò che porta alla loro
fine. L’Ipponate però, riguardo a questo stesso problema, osserva che anche
chi soffre desidera ugualmente e fortemente vivere, perciò questo argomen-
to non è conclusivo, anzi dobbiamo riconoscere che serve ad entrambe le
interpretazioni sul senso e liceità della paura della morte.
Altrove però Gregorio sa essere più chiaro; all’inizio del Dialogo sull’a-
nima e la resurrezione infatti riprende quasi alla lettera le argomentazioni
di Agostino a favore della naturalità della paura di morire, scrivendo:
«Mentre il cuore mi ribolliva ancora tutto per il dolore (della morte di Basi-
lio) dissi: “Come si può tra gli uomini ottenere questo risultato (i.e. non af-
fliggersi per i defunti), dato che in ciascuno è così insita un’avversione natu-
rale rispetto alla morte (physikou tinos pros thánaton) e neppure quanti ve-
dono morire delle persone sopportano facilmente tale spettacolo, e coloro ai
quali la morte viene incontro cercano di rifuggirla, per quanto possibile?
Anzi, poiché le leggi che ci governano considerano la morte come il più gra-
ve tra i crimini che si possano commettere e la più grave tra le pene che si
possano infliggere, quale stratagemma potrà consentire di non dare alcun
peso all’abbandono della vita, anche nel caso di qualche estraneo, tanto più
dei nostri cari, qualora cessino di vivere? Vediamo piuttosto che tutta la sol-
19
lecitudine umana si rivolge a questo: che possiamo rimanere in vita» .
E dopo aver elencato quante e quali cose gli uomini facciano per restare
in vita, Gregorio conclude:
«Dato che per natura (physikôs) la morte fa così spavento, come si potrebbe
obbedire facilmente a chi prescrive a quanti sopravvivono di rimanere im-
20
muni da ogni dolore per i defunti?»
A rigori si potrebbe rilevare che un conto è aver paura della morte ed un
altro provare dolore per la perdita di una persona cara, e con ragione: per
questo dedicheremo a questo aspetto il capitolo 13, nel quale esamineremo
_____________________________
18
GREGORIO DI NISSA, Oratio catechetica magna, 8, 2 (SCh 453, 186; CTP 34, 68; ri-
toccata).
19
GREGORIO DI NISSA, De anima et resurrectione, 1 (PG 46, 13; Ramelli, 347ss). L’in-
ciso finale è parallelo a AGOSTINO, Sermones, sermo 297, 2 (cit. in 6.1).
20
GREGORIO DI NISSA, De anima et resurrectione, 1 (PG 46, 16; Ramelli, 349).

237
la concezione di Giovanni Crisostomo. Ma Gregorio qui è chiaro: il dolore
per la perdita di una persona cara è strettamente legato alla paura della mor-
te, quindi almeno per un verso le due questioni si sovrappongono. Ora, il
Dialogo sull’anima e la resurrezione è impostato secondo il modello dei
dialoghi platonici, ed il ruolo maieutico che là è svolto da Socrate qui è ri-
coperto dalla sorella di Gregorio, Macrina, la quale replica così alla conclu-
sione del fratello:
«Ma perché - disse la maestra - l’esperienza della morte ti sembra di per se
stessa luttuosa in massimo grado? Per accusarla infatti non è sufficiente il
comportamento abituale di quelle persone che meno si avvalgono della ra-
gione. (...) Ti sconvolge forse ed angustia la tua mente un tale timore, come
se l’anima non fosse destinata a permanere in eterno, bensì venisse a cessare
21
anch’essa con la dissoluzione del corpo?»
In seguito Macrina afferma più volte che la paura della morte è dovuta
ad un attaccamento ai piaceri della vita, così come si è letto nell’Oratio ca-
techetica. La novità rispetto a quelle osservazioni sta nel fatto che qui Ma-
crina (cioè Gregorio) afferma che la paura della morte nasce in primis dalla
ignoranza (filosofica? teologica? spirituale?) del fatto che l’anima è immor-
tale e quindi che, morendo, è solo il corpo a dissolversi. Il senso profondo
di questa affermazione si trova, a nostro avviso, in una altra opera di Gre-
gorio, le Omelie sul Cantico dei cantici; in una di esse infatti leggiamo:
«La Scrittura dice (Gen 2,9) che si trovavano nel mezzo del Paradiso sia
l’uno che l’altro albero - e sì che essi possedevano una forza contraria l’uno
all’altro perché uno era l’albero della vita e l’altro era quello il cui frutto è la
morte, un frutto che Paolo chiamò ‘peccato’ quando disse (Rm 6,23): “Il
frutto del peccato è la morte”. Bisogna dunque considerare questo insegna-
mento alla luce della filosofia racchiusa in quanto è stato detto finora, e cioè
che l’interno esatto della piantagione di Dio è la vita, mentre la morte di per
sé non è stata piantata e non ha radici, perché non possiede un suo luogo da
nessuna parte; essa è piantata grazie alla privazione della vita, allorquando
si indebolisce nell’essere vivente la partecipazione alla sostanza migliore.
Poiché dunque la vita si trova nel mezzo delle piante divine, e con la rovina
della vita sorge la morte, per questo motivo anche l’albero portatore di mor-
te avrà un frutto la cui essenza è formata da elementi contrari: questo si rica-
va se consideriamo filosoficamente il simbolo secondo la dottrina che l’al-
bero era (Gen 2,9) “nel mezzo del Paradiso”. La Scrittura precisò infatti che
la medesima cosa può essere bella e malvagia: in questo modo essa voleva
22
alludere, io penso, al peccato» .
_____________________________
21
GREGORIO DI NISSA, De anima et resurrectione, 1 (PG 46, 16.17; Ramelli, 349.351;
rivista).
22
GREGORIO DI NISSA, In Canticum canticorum homiliae, hom.12 (PG 44, 1021; CTP
(segue)

238
Per prima cosa è necessario ricordare che, per molti Padri, ‘filosofia’ non
è lo studio di Platone o Aristotele, bensì, ed in senso letterale, ‘amore della
sapienza’, sapienza che per loro altri non è che Cristo. Quindi ‘filosofia’ è
‘amore per Cristo’, e la ‘filosofia’ racchiusa nella Scrittura è il modo e la
misura in cui noi riusciamo ad imparare da essa ad amare Cristo. In defini-
tiva è il modo e la misura in cui noi siamo cresciuti spiritualmente, come ci
insegna il nostro santo Padre Gregorio il Grande:
«Nella misura in cui ciascun santo progredisce personalmente, in quella mi-
sura la Sacra Scrittura stessa progredisce con lui (...), perché gli oracoli di-
23
vini crescono insieme a chi li legge» .
Chiarito quale ‘filosofia’ sia racchiusa nella descrizione dell’Eden, è e-
vidente che per Gregorio non solo la morte inizia ad essere soltanto dopo la
caduta, in accordo con tutti i Padri fin qui incontrati, ma addirittura, proprie
loquendo, essa non esiste veramente, poiché sorge «solo con la rovina della
vita». Questo è un punto centrale nella teologia del Nisseno: il male è solo
assenza del bene; il nostro santo Padre lo afferma apertis verbis all’inizio
delle sue Omelie sul Cantico dei cantici:
24
«La sussistenza del male non è altro che l’allontanamento dal meglio» .
Questo concetto fondamentale dell’intera teologia cristiana, e non solo di
25
quella particolare del Nisseno, ha origini lontane, poiché è già in Origene ;
qui però interessa far notare che, dopo almeno 25 anni, è ripresa nel 412 da
26
Agostino, nell’Enchiridion ad Laurentium . Ciò significa che anche per lui
______________________________
72, 271).
23
GREGORIO MAGNO, In Ezechielem prophetam homiliae, I, hom.7, 8 (CCsl 142, 87;
CTP 17, 132).
24
GREGORIO DI NISSA, In Canticum canticorum homiliae, hom.2 (PG 44, 797; CTP 72,
71).
25
Cf. p.es. ORIGENE, Commentarium in Iohannis evangelium, II, 13; XX, 22, e tanti al-
tri passi ancora.
26
Cf. AGOSTINO, Enchiridion de fide, spe et caritate, 3, 11 (CCsl 46, 53s; trad. it. 51):
«Cos’altro è quello che viene chiamato male se non privazione di bene?» In realtà
Agostino si serve di questo concetto molte altre volte e ben prima dell’Enchiridion,
p.es. nel De natura boni o nel De libero arbitrio. Si rinvia a quest’opera perché è po-
steriore all’inizio della querelle pelagiana e perciò, secondo l’opinione che contestia-
mo, dovrebbe essere attenta a non fornire armi agli avversari. Il che, con tutta evi-
denza, questa affermazione invece può fare. Ma non è solo il tipo di relazione ad es-
sere in questione: spesso è la stessa sua esistenza. P.es., G. REALE, «Un breve trattato
di alta metafisica del platonismo cristiano. Analisi dei concetti basilari ed interpreta-
zione storico-filosofica del “De natura boni” di Agostino», saggio introduttivo a G.
REALE (ed.), Agostino. La natura del bene, Milano 2001, 11-103, e l’appendice di W.
(segue)

239
la morte non può essere un male in sé perché ‘in sé’ il male non è. Poiché
la morte invece esiste indubitabilmente, essa deve in qualche misura essere
un bene. E questo è ormai il terzo argomento a favore di questa concezione,
al fianco di quelli che rilevano che 1 - la morte è data da Dio e Dio non fa il
male, e 2 - la morte spezza una vita di peccato altrimenti eterna, argomenti
tutti ratificati da Agostino sia prima che dopo l’inizio della querelle pela-
giana. Se poi qualcuno volesse obiettare che anche il peccato esiste ma non
è un bene, sarebbe facile replicare che 1 - si adopera il termine ‘esistere’ in
maniera ambigua, poiché la morte è la reale separazione tra anima e corpo
mentre il peccato non è una reale separazione del peccatore da Dio, come è
scritto (Lam 3,31s):
«Il Signore non rigetta mai, ma, se affligge, avrà anche pietà,
secondo la sua grande misericordia»;
2 - il peccato è o segue un atto di volontà, il morire invece no; 3 - il peccato
è l’uso contro natura di un quid pensato, voluto e creato da Dio per essere
adoperato secondo natura, mentre la morte è ed agisce in un modo soltanto,
quello voluto da nostro Signore, come è detto (1Sam 2,6):
«Il Signore fa morire e fa vivere, scendere agli inferi e risalire».
In definitiva si può affermare che anche il più ‘originale’ tra i Padri greci
non è affatto incline a vedere la paura della morte in senso positivo. E se è
vero che il Nisseno sottolinea molto le ragioni più intellettuali, è anche vero
che a questo riguardo vanta fortissimi legami con Metodio di Olimpo, forse
l’esponente più vicino al milieu latino, una vicinanza ancor più significativa
se ricordiamo che Metodio è l’anti-Origene per eccellenza mentre il Nisse-
no difende l’Adamantino persino a proposito dell’apocatastasi.
Per chiudere non resta ormai che tratteggiare l’aspetto spirituale.

8.4. I Padri neptici ed


il senso della paura della morte

Per non perdere l’afflato spirituale delle questioni, che tanto ci sta a cuo-
re, leggiamo cosa scrive riguardo alla paura della morte Giovanni il Clima-
co, in un passo molto bello che riportiamo per intero:
______________________________
BEIERWALTES, «L’interpretazione di Agostino di Sap 11,21», ibidem, 243-262, stu-
diano a fondo l’idea agostiniana di bene e le sue ascendenze filosofiche ma ignorano
del tutto l’apporto degli altri Padri, come se Agostino non facesse parte (e che parte!)
di una Chiesa storicamente attiva ed unita.

240
«Chi vuol trattenere sempre nel cuore il ricordo della morte e del divino giu-
dizio e nello stesso tempo concedersi quei pensieri e sollecitudini terrene so-
miglia a quel tale che voleva nuotare senza usare le braccia in tutta libertà. Il
ricordo vivo della morte intercetta quello dei viveri; e se tu umilmente te li
tagli, recidi insieme le passioni. L’abbondanza dei cibi inaridisce alle fonti
lo spirito, come l’indurisce il cuore insensibile al dolore. La sete e la veglia
tormentano il cuore, ma dal cuore afflitto sgorgano abbondanti le lacrime.
Questo è duro per gli schiavi del ventre, né possono crederlo quelli che si
dànno al buontempo, ma volentieri lo stimerà suo traguardo chi è impegnato
nell’ascesi, e fattane l’esperienza infine se ne riderà, poiché chi si ferma al
desiderio ne rimarrà frustrato e triste.
Come i Padri dicono fonte inesauribile di pace la perfetta carità, così io ti
dimostrerò che il perfetto modo di pensare la morte non comporta paura di
sorta. In molti modi opera lo spirito impegnato nell’ascesi: riflettendo sulla
carità verso Dio, risvegliando il ricordo della dipartita, tenendo Dio presente
nella memoria, richiamando alla mente il Regno, emulando la santità dei
martiri, rinnovando la esperienza della presenza di Dio secondo quanto sta
scritto (unde?): “Vedevo Dio sempre davanti a Dio”, riconoscendo la pre-
senza delle sante ed incorporee potestà, richiamando alla mente le verità del-
la tua morte e del tuo incontro con Dio, dei suoi castighi e del suo giudizio.
Ho cominciato dai pensieri più elevati per finire con quelli che ci debbono
27
allontanare dalle cadute» .
Il brano ha bisogno solo di notare che è di poco anteriore al 649. Troppo
lontano dal periodo che ci interessa per essere coinvolto, rivela però la soli-
dità di un insegnamento spirituale che, come ogni intuizione vera, viene so-
lo scalfito dalle tempeste della storia.
Ancor più chiaro e sintetico è quanto si legge in un trattatello attribuito
Antonio abate e per questo inserito nella Filocalia. In esso si legge:
«La morte, per gli uomini che la comprendono, è immortalità, mentre per la
gente rozza che non la comprende essa è morte. Ma non è questa morte che
bisogna temere, bensì la perdizione dell’anima, che consiste nella ignoranza
28
di Dio. Questo è veramente terribile per l’anima» .
Poco più avanti lo pseudo-Antonio amplia questa che ormai si sa essere
_____________________________
27
GIOVANNI CLIMACO, Scala paradisi, or.6, 59 (PG 88, 796; CTP 80, 136s). Le lacrime
di cui parla Giovanni non sono di dolore ma un dono dello Spirito; cf. p.es. MARCO
L’ASCETA, De lege spirituali, c.12 (SCh 445, 76; trad. it. La Filocalia, I, 173): «Non
innalzarti quando versi lacrime durante la preghiera: è Cristo che ha toccato i tuoi
occhi e tu hai riacquistato la vista spirituale».
28
pseudo-ANTONIO ABATE, Avvisi sull’indole umana e la vita buona, c.49 (trad. it. 66).
Cf. anche EVAGRIO PONTICO, Capita practica, c.95 (SCh 171, 700; CTP 100, 109):
«Fu data ad uno dei monaci la notizia della morte del padre. Egli allora diede questa
risposta a colui che gli aveva riferito quella notizia: “Cessa di bestemmmiare: mio
padre è immortale”».

241
concezione comune a tutti i Padri, greci e latini, con queste belle parole:
«È impossibile né vi è alcuna via per sfuggire alla morte. Sapendo questo,
gli uomini veramente ragionevoli, esercitati nelle virtù, con pensiero amante
di Dio accettano la morte senza gemiti, senza timore e senza lutto. Perché
29
pensano che essa è inevitabile e che ci libera dai mali di questa vita» .
Bisogna però stare attenti a non cadere nel laccio opposto a quello della
paura, ossia una sicurezza che sbocci dalla presunzione di esser giusti. Ciò
è ben illustrato dal racconto che Isaia di Gaza (?) fa della morte di Agatone:
«(Abba Agatone) diceva: “È necessario che incessantemente l’uomo presti
attenzione al giudizio di Dio”. Nel momento della sua morte passò tre giorni
con gli occhi aperti, senza muoversi. I fratelli lo scossero dicendo: “Abba
Agatone, dove sei?”, ed egli rispose: “Sono davanti al tribunale di Dio”. Es-
si chiesero: “Hai paura?” Egli rispose: “Fino a questo momento ho fatto il
possibile per osservare i comandamenti, ma sono un uomo; come sapere se
la mia opera piace a Dio?” Ed i fratelli gli dissero: “Non hai fiducia che la
tua opera venga da Dio?” “Io non mi fido di me stesso prima di aver incon-
trato Dio. Poiché una cosa è il giudizio di Dio, un’altra il giudizio degli uo-
mini”. Ed in questo modo terminò la sua vita nella gioia; si accomiatò dai
30
fratelli come uno che saluta i suoi amici» .
Talvolta però la non paura della morte deriva dalla stanchezza di soppor-
tare molte sofferenze; di essa scrive Doroteo di Gaza:
«Un fratello molto provato interrogò un Anziano dicendo: “La mia anima
desidera la morte”. L’Anziano gli rispose: “Perché rifugge dall’afflizione e
31
non sa che l’afflizione futura è molto peggio di questa”» .
Entrambe queste non-paure della morte, quella che nasce dalla troppa si-
curezza e quella che proviene dalla stanchezza, sono in realtà contro natura,
non solo per la loro origine ma anche perché privano la morte della sua va-
lenza medicinale, come si legge in Evagrio Pontico:
«Chi è pieno di passioni e prega perché la sua dipartita da questo mondo av-
venga rapidamente somiglia ad un uomo malato che, prima ancora di essere
32
guarito, chiede al falegname di rompere subito il suo letto» .
Questa valenza, già chiara nell’ultimo passo dello pseudo-Antonio, appa-
_____________________________
29
pseudo-ANTONIO ABATE, Avvisi sull’indole umana e la vita buona, c.82 (trad. it. 72).
30
ISAIA DI GAZA, Asceticon, logos 30 (trad. it. 239). Citiamo il passo per la sua bellezza
e perché ne leggeremo uno simile nel De praeparatione ad mortem di Erasmo, ma
non è in PG 40 né tra gli Apophtegmata né sappiamo da dove sia stato tradotto.
31
DOROTEO DI GAZA, Praecepta spiritualia, 125 (SCh 92, 382; CTP 21, 180).
32
EVAGRIO PONTICO, Capita gnostica, cent.IV, c.72 (PO 28/1, 356; trad. nostra).

242
re nettamente in quest’altro brano di Evagrio Pontico:
«Diceva quel santo ed espertissimo nostro maestro (Macario l’Egiziano):
“Occorre che il monaco sia sempre ben disposto, come se dovesse morire il
giorno seguente; d’altra parte, egli deve servirsi del proprio corpo come se
dovesse vivere ancora per molti anni. Quel primo criterio, egli soggiungeva,
reprime i pensieri dell’accidia e rende il monaco circospetto; l’altro conser-
33
va il corpo in buona salute e mantiene sempre uguale l’astinenza”» .
Stavolta il passo è cronologicamente afferente, perché Evagrio è istituito
lettore da Basilio Magno ed ordinato diacono da Gregorio di Nazianzo, che
accompagna al Concilio di Costantinopoli del 381. Ed è abbastanza eviden-
te che, per Evagrio come per lo pseudo-Antonio, Climaco, Isaia e Doroteo,
la morte ha almeno una forte valenza medicinale. Da ciò sembrerebbe che
l’idea agostiniana di morte come remedium, e forse anche quella di bonum,
non sia difficile accettare per l’Oriente anche più spirituale. In realtà non è
bene ipotizzare una simile facile sintonia: i termine della questione sono in-
fatti assai più complessi, e proprio dal versante spirituale. Per capire quanto
sfumata sia questa pur reale ed effettiva armonia bisogna conoscere come i
Padri greci (ma non solo loro) concepiscono la creazione della natura uma-
na e la sua caduta. Ce lo facciamo illustrare da Doroteo di Gaza:
«In principio, quando Dio creò l’uomo, “lo pose nel paradiso terrestre”, co-
me dice la Scrittura (Gen 2,15), lo adornò di ogni virtù e gli diede il coman-
damento di non mangiar dell’albero che si trovava in mezzo al paradiso. E-
gli viveva nel diletto del paradiso, nella preghiera, nella contemplazione, in
ogni gloria ed onore, mantenendo intatte le sue facoltà e trovandosi in quello
stato secondo natura in cui appunto era stato creato. Dio infatti “ha creato
l’uomo ad immagine di Dio” (Gen 1,27), cioè immortale, dotato di dominio
su se stesso ed ornato di ogni virtù.
Ma quando egli trasgredì il comandamento e mangiò dell’albero di cui Dio
gli aveva ordinato di non mangiare, fu cacciato fuori dal paradiso, decadde
dallo stato secondo natura e si venne a trovare in quello contro natura, cioè
nel peccato, nell’amore per la gloria e del piacere di questa vita e delle altre
passioni che spadroneggiano su di lui: con la sua trasgressione l’uomo si è
fatto loro schiavo. Allora il male è andato crescendo sempre più e “la morte
34
ha cominciato a regnare” (Rm 5,14)» .

_____________________________
33
EVAGRIO PONTICO, Capita practica, c.29 (SCh 171, 566ss; CTP 100, 79). Cf. DORO-
TEO DI GAZA, Praecepta spiritualia, 52 (SCh 92, 230ss; CTP 21, 94s): «I Padri hanno
detto che l’uomo acquista il timor di Dio con il ricordo della morte e con il ricordo
delle punizioni, con l’esaminarsi ogni sera su come ha passato la giornata ed ancora
ogni mattina esaminando come ha passato la notte ed infine anche non lasciandosi
andare alla sfrontatezza ed invece attaccandosi ad un uomo che teme Dio».
34
DOROTEO DI GAZA, Praecepta spiritualia, 1 (SCh 92, 146s; CTP 21, 39ss).

243
Il brano si presterebbe a molte osservazioni ma noi ci limiteremo a quel-
le strettamente necessarie. Innanzitutto si noti che descrivere come ‘secon-
do natura’ lo stato antelapsario e ‘contro natura’ quello postlapsario ci dice
che Doroteo si muove in prospettiva spirituale e non in una morale o meta-
fisica. A lui preme lo status spirituale dei nostri progenitori e non sapere se
il peccato ‘mutila’, ‘corrompe’, ‘deforma’ la natura umana. In secondo luo-
go, si noti che l’effetto del peccato sull’uomo è descritto come se fosse una
dipendenza: l’uomo peccatore è ‘peccato-dipendente’. Questa descrizione è
molto precisa a livello spirituale ma ha due ricadute importanti sulla prima
osservazione. In primis che, come il tossicodipendente non è meno umano
di chi non lo è, così il peccatore non è meno umano del non peccatore. In
secundis che, come la droga non fa parte della natura umana del tossicodi-
pendente né la cambia, così il peccato non fa parte della natura umana del
peccatore né la cambia. Di conseguenza, in questa prospettiva spirituale-
metafisica il peccato impone sì una schiavitù analoga a quella della droga
sul tossicodipendente, ma non ‘muta’ la sua natura umana così come creata
da Dio, tantomeno la ‘mutila’ o la ‘corrompe’. Altri Padri descrivono que-
sta dipendenza con il termine ‘malattia’, e spesso le tendenze spiritualmen-
35
te ‘contro natura’ sono dette ‘malattie dell’anima’ .
Questa descrizione sembra accordarsi all’idea di morte come remedium
alla ‘peccato-dipendenza’ dell’uomo ma opporsi a quella di bonum. In real-
tà non è così perché, lo si è letto molte volte, nessun Padre insegna che la
morte sia stata creata da Dio e posta nella natura umana prima della sua ca-
duta. Al contrario, Doroteo dice che l’uomo antelapsario era “immortale e
dotato di dominio su se stesso”. La morte non è perciò un bonum in se e per
sé ma solo nella misura in cui è remedium alla ‘peccato-dipendenza’. Per
questo né i Padri greci né Agostino vedono nelle rispettive posizioni con-
trasto o opposizione ma solo una questione di termini. Sono invece i pela-
giani a giocare sui termini per dividere gli ortodossi e difendere così la loro
idea di morte come parte della natura umana così come Dio l’ha creata, i-
dea che, a sua volta, segue dal loro rifiuto del peccato originale. Niente ca-
duta, niente remedium; niente remedium, morte naturale.
_____________________________
35
Per approfondire questa prospettiva cf. J.C. LARCHET, Terapia della malattie spiri-
tuali. Un’introduzione alla tradizione ascetica della Chiesa ortodossa, Cinisello Bal-
samo 2003, ed il più tecnico IDEM, L’inconscio spirituale. Malattie psichiche e ma-
lattie spirituali, Cinisello Balsamo 2006, entrambi con moltissimi testi patristici. A
chi obietta che questa prospettiva ortodossa sia da maneggiare con cautela dai catto-
lici suggeriamo di rileggersi i molti passi di Padri latini riportati nei capp.6 e 7, dai
quali emerge che anche loro hanno un’idea analoga di peccato, e poi di riflettere se
questo loro dividere Padri greci e latini non sia de facto dar ragione al pelagiano Giu-
liano d’Eclano ed andar contro Agostino, che insegna sempre il contrario.

244
Questo quadro diventa quanto mai chiaro se ci lasciamo descrivere, an-
cora da Doroteo, come avvenne ed in cosa consistette la redenzione:
«Venne dunque il Signore nostro, fatto uomo per noi “per guarire - come di-
ce san Gregorio (Nazianzeno) - il simile con il simile, con la sua anima la
nostra anima, con la carne la nostra carne. In tutto infatti è diventato uomo
tranne che nel peccato”. Egli ha assunto la nostra stessa natura, la primizia
della nostra stessa pasta, ed è divenuto un nuovo Adamo “secondo l’imma-
gine di Colui che lo ha creato” (Col 3,10): Egli rinnova la natura e rende le
facoltà di nuovo sane come erano in principio; diventando uomo ha rinnova-
to l’uomo caduto; da schiavo che era del peccato, e trascinato da esso con
violenza, lo ha reso libero. L’uomo era trascinato dal nemico con violenza e
tiranneggiato, ed anche quelli che non volevano peccare erano quasi costret-
ti a peccare, come dice l’Apostolo parlando a nome nostro (Rm 7,19): “Il
36
bene che voglio non lo faccio; ma il male che non voglio lo compio”» .
Il rinvio all’oratio 38,13 di Gregorio Nazianzeno prova che quella che si
sta tratteggiando non è opinione del solo Doroteo ma communis opinio tra i
Padri greci contemporanei di Agostino, che certo la conosce visto che cita i
37
loro scritti . Doroteo-Gregorio poi descrivono la redenzione avvenuta con
_____________________________
36
DOROTEO DI GAZA, Praecepta spiritualia, 4 (SCh 92, 150ss; CTP 21, 43s). Doroteo
cita GREGORIO DI NAZIANZO, Orationes, or.38, 12 (SCh 358, 132; Sani-Vincelli 891).
37
Ma cf. p.es. anche MASSIMO IL CONFESSORE, Disputatio cum Pyrrho (PG 91, 309C-
D; trad. nostra): «L’ascesi e le fatiche che esige furono escogitate dagli uomini vir-
tuosi non per acquisire nuove virtù da fuori ma per liberarsi dagli errori provocati dai
sensi nell’anima. Le virtù sono intrinseche all’anima fin dalla creazione. Perciò, una
volta tolto l’errore, l’anima subito risplende della virtù propria della natura. Infatti
chi non è stolto è saggio, chi non è pauroso o temerario è coraggioso, chi non è disso-
luto è temperante, chi non è ingiusto è giusto. La ragione secondo natura è saggezza;
il metro di giudizio [è] giustizia; l’ira [secondo natura è] coraggio; la concupiscenza
[secondo natura è] temperanza. Dunque, se si toglie ciò che è contro natura brillerà
ciò che secondo natura ed esso soltanto, così come togliendo la ruggine [appare] la
lucentezza e lo splendore secondo natura del ferro»; GIOVANNI DAMASCENO, De fide
orthodoxa, III, 14 (SCh 540, 90ss; CTP 142, 203): «In verità, le virtù sono naturali e
sono insite in tutti naturalmente ed ugualmente, anche se non operiamo tutti ugual-
mente ciò che è proprio della natura. Ma noi, a causa della trasgressione siamo passa-
ti da ciò che è secondo natura a ciò che è contro natura. Ed invece il Signore ci ha ri-
condotti da ciò che è contro natura a ciò che è conforme alla natura: infatti questo è il
“secondo l’immagine e la somiglianza” (Gen 1,26). E l’ascesi e le sue fatiche sono
state escogitate non per acquistare in aggiunta la virtù proveniente dall’esterno ma
per respingere la malizia introdotta da fuori e contro natura: proprio così come noi
rendiamo visibile lo splendore naturale del ferro quando rimuoviamo la sua ruggine,
che non è naturale ma si aggiunge per nostra incuria».
L’immagine del peccato come ruggine è anche in CATERINA DA GENOVA, Trattato
sul Purgatorio (Lovison, 248s): «Per questo non credo davvero che si possa trovare
contentezza paragonabile a quella di un’anima del Purgatorio - se non nel caso di
(segue)

245
la Incarnazione adoperando il termine ‘guarire’, il che implica non solo che
l’uomo non redento è malato ma anche l’uso di un qualche farmaco: certo il
più efficace è appunto l’Incarnazione, ma si può dire ‘farmaco’ anche ogni
altra azione posta in essere da Dio con il medesimo scopo.
Proseguire su questa falsariga sarebbe illuminante ma ci porterebbe lon-
tano. Conviene perciò ritornare a quanto ci diceva Evagrio ed ai suoi testi,
il cui guadagno principale è proprio dal lato... pratico. Vediamo perché.
La spiritualità non è fatta da né consiste in pistolotti edificanti, aforismi
pungenti od ossimori ad effetto; se e quando ci sono, questi sono tutt’al più
il rivestimento intellettuale di un vissuto esperienziale. Chi ce l’ha non fati-
ca a scorgerlo dietro quelle espressioni, chi non ce l’ha ne può cogliere solo
il versante letterario. Per questo gli scritti più profondi sono poco apprezza-
ti mentre quelli più ‘semplici’ affascinano molti. Ma alcuni Padri hanno ri-
cevuto dallo Spirito il dono di unire profondità a chiarezza ed utilità. Qui, il
non aver paura della morte perde quell’aura un po’ moralistica che traspa-
______________________________
quella dei santi del Paradiso - che cresce di giorno in giorno grazie all’influsso di
Dio, tanto più forte quanto più consuma gli impedimenti che gli si oppongono. Ed è
la ruggine del peccato l’impedimento che il fuoco va consumando, permettendo così
sempre più all’anima di aprirsi all’influsso divino. Potrebbe essere pertanto parago-
nata ad un oggetto che, una volta coperto, non può più ricevere i raggi del sole, non
per colpa sua naturalmente, dato che in continuazione gli dà luce, ma per quell’osta-
colo costituito dalla sua copertura. Ma una volta che quest’ultima si consumerà, allo-
ra sì potrà esporsi al sole, ricevendo tanto meglio i suoi raggi quanto più essa dimi-
nuirà. In tal modo la ruggine, cioè il peccato, che è la copertura delle anime, grazie al
fuoco del Purgatorio a poco a poco si consuma e, quanto più si consuma, tanto più
l’anima si sente in grado di corrispondere al solo vero Dio. Per questo motivo, fino a
che il tempo non sia terminato, al diminuire della ruggine ed al suo scoprirsi ai raggi
divini, l’anima vede crescere la sua contentezza». E Caterina parla del peccato come
‘ruggine’ più volte (cf. p.es. Lovison 251).
Analoga idea, anche se non parla di ruggine, è in GIOVANNI DELLA CROCE, Subida
del Monte Carmelo, II, 5, 6 (Obras, II, 83; trad. it. 81s): «Se un raggio di sole colpi-
sce una vetrata appannata da nebbia ed offuscata da macchie, questa non potrà essere
completamente rischiarata e trasformata in luce, come avverrebbe se fosse tersa e
monda da quelle macchie. Anzi, tantomeno verrà illuminata quanto meno sarà libera
da quei veli e da quelle macchie, ed al contrario quanto più sarà priva di queste, tanto
maggior luce riceverà. Ciò accade non a causa del raggio ma della vetrata; se infatti
questa fosse completamente pura e tersa, il raggio l’attraverserebbe e la illuminereb-
be in modo tale da farla sembrare una cosa sola con esso e da farle emanare la sua
stessa luce. Se è vero che la vetrata, benchè sembri identificarsi con il raggio, ne è
diversa per natura, però si può dire che ella sia raggio o luce per partecipazione.
L’anima, come questa vetrata, è sempre investita dalla luce di Dio, o meglio, come
ho detto, questa dimora in lei per natura». Come si vede, opporre la prospettiva orto-
dossa a quella cattolica è operazione discutibile sul piano intellettuale, del tutto falsa
su quello spirituale.

246
riva qua e là in questo o quel passo e rivela la sua radice spirituale. Qui si
mostra tutta la ‘medicinalità’ del bonum mortis; che, a questo punto, si può
anche chiamare remedium, se si ama far questione di parole. Senza alcuna
pretesa, proviamo a chiosare quanto appreso in tutti questi brani.
Il retto pensare della morte la concepisce come una scadenza.
Il retto sentire riguardo alla morte la percepisce come uno stimolo.
Il retto uso della morte se ne serve come di un’arma contro gli ostacoli.
Il primo passo è duro per chi è ancora attaccato a cose che dovrà comun-
que lasciare, prima o poi, volente o nolente. A queste persone tale pensiero
fa anche paura, perché sanno quel che lasciano ma non quel che trovano. E
lo ignorano perché non amano Dio. Ma per chi ama Dio, lo si è letto ormai
molte volte, la morte è un evento inevitabile, un passo necessario per giun-
gere all’Amato e coloro che si ammira, i santi e la Gerusalemme celeste.
Il secondo passo è possibile anche per chi non ama Dio, ma in questo ca-
so lo stimolo consiste nel voler sempre più denaro, sempre più potere, sem-
pre più piacere, sempre più successo, per scacciare una paura che invece si
fa sempre più forte. Ma chi si muove verso Dio è stimolato ad agire in dire-
zione opposta: capisce che inseguire quei fantasmi è tempo perso, che con-
ta solo crescere nell’amore per Dio e per i fratelli, e che non si finisce mai
di farlo, che rimane sempre qualcosa da togliere, correggere, affinare.
Il terzo passo è concepibile e possibile soltanto se si è compiuto il secon-
do. È infatti conseguenza di questo adoperare l’inevitabilità ed imprevedi-
bilità della morte come scudo contro attrattive che in realtà sono distrazio-
ni, deviazioni dal cammino verso ciò che ci rende felici oltre ogni sentire
qui in statu viae. È in questo contesto, spirituale, non filosofico, è con que-
ste esperienze interiormente vissute e condivise con i propri fratelli, che ha
senso, si può e si deve affermare che il fedele non ha paura della morte.

8.5. I Padri greci e la paura della morte:


conclusioni

Giunti alla fine di questa ricognizione, è chiaro che, seppur bisognoso di


essere approfondita in qualche dettaglio, il risultato è quello di una sintonia
forte e completa tra i Padri greci e quelli latini. In verità ci saremmo stupiti
molto se fosse emerso il contrario. Infatti, lungi dall’essere coesi in virtù di
un richiamo alle medesime fonti letterarie o filosofiche, i Padri difendono e
approfondiscono il depositum fidei in virtù di un’identica tensione spiritua-
le verso il loro Amato. È da questa tensione condivisa che scaturiscono gli
identici risultati spirituali, poi tradotti e comunicati per mezzo di un patri-
monio culturale comune. Chi non coglie la radice profonda di questa sinto-

247
nia l’attribuisce alla sua veste culturale. Però è come dire che un muro sta
in piedi perché si presenta omogeneo alla vista: è vero che quel che si vede
è omogeneo, ma è solo intonaco imbiancato; un muro sta in piedi e fa il suo
lavoro in virtù dei mattoni saldati tra loro con la calce, mattoni e calce che
si vedono solo se si toglie via l’arriccio che li copre, li protegge e li rende
38
anche gradevoli alla vista .
Ora, se proviamo a far questo con i passi riportati, abbiamo che in pratica
tutti i Padri sembrano dire la stessa cosa: la paura della morte è causata dal
peccato originale, che indebolisce la nostra natura umana ma, una volta che
la conversione ed il battesimo rimuovono tale ‘accidente’ (per dirla con il
39
Crisologo ), tale paura non ha più scusanti. Ovviamente non lo si pretende
dai neofiti, ma da coloro che si professano cristiani da un certo tempo sì. È
vero, e lo si letto niente di meno che in Agostino, che tale perdita di paura è
frutto di un cammino spirituale, ma ogni cristiano che intenda essere fedele
40
e non solo credente sente il bisogno di iniziarne uno .
_____________________________
38
Non possiamo soffermarci sulla valenza spirituale della protezione offerta al sentitus
spirituale dalla omogeneità culturale nella quale è tradotto. Rinviamo (in prima istan-
za) a ciò che si è già scritto in ARA, Scrivi in un libro, op. cit., cap.14, Il significato
dell’ispirazione in molte lingue (433-466).
39
Cf. PIER CRISOLOGO, Sermones, serm.111, 2 (CCsl 24A, 680s; trad. nostra): «(Rm
5,12a): “Il peccato entrò in questo mondo”. ‘In questo mondo’. Guarda come dan-
neggiò i posteri colui che con il suo fare dannò il mondo. Ma dici: ‘In che modo en-
trò? Per mezzo di chi entrò?’ In qual modo? Attraverso la colpa. Per mezzo di chi?
Attraverso l’uomo. E cosa (è entrato)? Il peccato è (forse) una natura e una sostanza?
Né natura né sostanza, ma accidente; e (nostra) nemica è questa potestà che si vede
nelle opere, si sente nelle pene, che combatte l’anima, ferisce la mente, viola e con-
fonde la stessa natura. E cosa di più, fratelli? Questo è il peccato per la natura, quello
che è il fumo per l’occhio, la febbre per il corpo, l’amara salsedine per le dolcissime
fonti. Sebbene per natura l’occhio sia puro e limpido, tuttavia a causa dell’ingiuria
(arrecatagli) dal fumo diviene turbato ed oscurato. Anche il corpo è vigoroso nelle
membra e nei suoi sensi per il fatto di essere stato creato (così) da Dio, ma quando
inizia l’attacco delle febbri e viene dominato dal (loro) assalto, viene ridotto comple-
tamente inerte e debole». Si noti quanto forte è, in questo Padre latino, l’idea di pec-
cato come malattia ed infermità: non è quindi appannaggio dei soli Padri greci.
40
La differenza spirituale tra ‘credente’ e ‘fedele’ è tanto importante quanto ignorata,
oltre che contraddetta dal linguaggio comune. Il verbo ‘credere’, infatti, reca sempre
in sé una traccia di incertezza, seppur minima: cf. p.es. la frase “Credo che Carlo ver-
rà alle cinque”, nella quale si afferma qualcosa della quale si è ragionevolmente sicu-
ri ma non certi, altrimenti avremmo detto “Carlo verrà alle cinque”. Questa incertez-
za piace tanto alla sensibilità moderna, ormai assuefatta ad un dubbio sistematico sì
ma a-scientifico (il fisico non dubita in eterno delle teorie che formula...), dubbio che
gli fa etichettare come ‘ingenuo’ o ‘fondamentalista’ chi non ne ha. Il normale non
ha certezze ma solo dubbi, credenze che sfumano nelle opinioni. Ma io non ‘credo’
(segue)

248
Di fronte a questa unanimità, è corretto affermare che solo Agostino so-
stenga cose diverse? E anche supponendo in lui una così scarsa coscienza
dell’importanza di parlare una lingua sola di fronte all’eresia (ma il Contra
Iulianum dice il contrario...), è corretto affermare che nessuno dei suoi con-
temporanei o tra i posteri si rese conto di tale divergenza? È vero che Dio-
doro di Tarso e Teodoro di Mopsuestia polemizzano con molte tesi agosti-
niane, ma è anche vero, in primis, che quelle polemiche non riguardano la
nostra questione, in secundis, che ad essere esclusi dalla comunione eccle-
siale furono loro, non l’Ipponate; perciò le sue affermazioni non furono mai
considerate divergenti dal depositum fidei. Per l’Ortodossia Agostino è san-
to a tutti gli effetti, e nessuno lo ha mai considerato eretico.
Semmai, e questo è vero, l’Oriente considerò discutibile il modo agosti-
niano di presentare alcune dottrine di fede, ed ancor oggi l’Ortodossia non
ne condivide molti. Questo vale anche per l’atteggiamento da tenere verso
la morte e la paura che di essa molti hanno? È giunto il momento di passare
a leggere ciò che scrive Agostino, e di renderci finalmente conto anche noi,
in prima persona, del fondamento effettivo di questa pretesa divergenza.

______________________________
che mia moglie esista, né ‘dubito’ della sua esistenza: sono certo che c’è, e non per-
ché sono ingenuo o fondamentalista ma perché sono sposato con lei da vent’anni ed è
la madre dei miei figli. Siccome non si ha un analogo rapporto con Dio, cioè non lo
si conosce, non si parla con Lui né si decide insieme se fare questo o quello, allora,
ed al più, si ‘crede’ che esista. Ma chi tale rapporto ce l’ha non lo crede affatto: lo sa
con certezza assoluta, ed è per questo che l’ama. Chi ama un altro può pensarne quel
che vuole ma certo non ‘dubita’ che esista. In questa visione, la ‘scommessa’ di Pa-
scal è né più né meno che una bestemmia: io non scommetto sull’esistenza di mia
moglie... Se poi non pare conveniente chiamare ‘fedele’ chi ha tale rapporto d’amore
con Dio, si adotti pure un altro termine: noi non ne abbiamo trovato uno migliore, ma
ciò non significa che non esista e che altri non lo possano trovare.

249
Capitolo 9

LA PAURA DELLA MORTE,


AGOSTINO
E LA QUERELLE PELAGIANA

In molti dei passi riportati nelle pagine precedenti la paura della morte è
posta in stretta relazione con l’origine della morte stessa, ossia alla ragione,
al modo ed al momento in cui entra nella creazione. Questa relazione è pre-
sente quasi da subito, ma diventa particolarmente importante nella contro-
versia pelagiana, controversi, si dice, che avrebbe dato origine ad una frat-
tura tra Agostino e gli altri Padri riguardo al senso della paura della morte.
Ora, come si è detto nel capitolo sesto, questa sezione nasce per dimostrare
che tale ipotesi è infondata. Nei capitoli sesto e settimo abbiamo cercato di
farlo riferendoci ai Padri latini e greci, anteriori ma anche contemporanei di
Agostino, prima ma anche durante la querelle pelagiana. Adesso è giunto il
momento di esporre sistematicamente la visione dell’Ipponate.

9.1. La concezione agostiniana


fuori del contesto polemico

Il quadro delineato nei capitoli precedenti è senza dubbio imponente.


Tutti i Padri della Chiesa, latini e greci, Agostino compreso, affermano
che: 1 - che la morte non appartiene alla natura umana, 2 - è donata da Dio
dopo il peccato originale; 3 - ha lo scopo di limitare la possibilità di pecca-
re; 4 - riguardando ogni uomo, è divenuta come una seconda natura. Tutti,
stavolta meno Agostino, ritengono poi che sia un bonum, in virtù dei punti
2 e 3, perciò non approvano che i credenti ne abbiano paura. L’Ipponate è
d’accordo sul fatto che un autentico cammino spirituale porta a non temere
la morte, però preferisce il termine remedium e, in virtù del punto 4, ritiene
che averne paura sia ‘naturale’. Ma, specifica sempre, della natura ‘infetta-
ta’ dal peccato, non della natura così come fu creata da Dio.
Il dibattito tra Pelagio ed i suoi discepoli da un lato, Agostino ed i Padri
della Chiesa dall’altro, verte sul senso degli aggettivi ‘naturale’ ed ‘infetta-

251
ta’ ma, per sua stessa natura, la polemica distorce l’equilibrio degli elemen-
ti di una dottrina e le opinioni di chi è coinvolto. Per rimediare alla (vera o
presunta) eccessiva accettuazione di certi dati se ne sottolineano altri ten-
tando di ristabilire l’equilibrio, ma in realtà non avviene mai: si ottiene al
più un’opposizione di eccessi il cui stallo è ben altra cosa dall’armonico
equilibrio originale. Di conseguenza, anche se la visione di Agostino ci pa-
re chiara dai passi già letti, è innegabile che, se si resta nell’ambito della
polemica, non sarà mai possibile averne la certezza. Per verificare la corret-
tezza di una qualunque delle due letture, la nostra o quella della communis
opinio, conviene quindi iniziare la nostra ricostruzione da quel che scrive
l’Agostino non polemista.
* * *
Ben prima che Pelagio giungesse in Africa, profugo dalla Roma invasa
dai Goti nel 410, Agostino si sofferma sul peccato originale in un’opera va-
sta e complessa, il De Genesi ad litteram (401), dove scrive:
«Il corpo di Adamo, prima che peccasse, poteva chiamarsi mortale per un
verso e immortale per un altro: cioè mortale perché poteva morire, immorta-
le invece perché poteva non morire. Una cosa è infatti non poter morire (non
posse mori), come è il caso di certe nature create immortali da Dio; un’altra
cosa è invece poter non morire (posse non mori), nel senso in cui fu creato
immortale il primo uomo; questa immortalità gli era data non dalla costitu-
zione della sua natura ma dall’albero della vita. Dopo che ebbe peccato, A-
damo fu allontanato dall’albero della vita con la conseguenza di poter mori-
re, mentre, se non avesse peccato, avrebbe potuto non morire. Mortale era
dunque Adamo per la costituzione del suo corpo naturale, immortale per un
dono concessogli dal Creatore. Se infatti il corpo era naturale, era certamen-
te mortale poiché poteva anche morire, sebbene fosse nello stesso tempo
immortale poiché poteva anche non morire. In realtà solo un essere spiritua-
le è immortale per il fatto che non potrà assolutamente morire, e questa qua-
lità ci è promessa solo per il futuro, vale a dire nella risurrezione. Per conse-
guenza il corpo naturale, e perciò mortale di Adamo - che in virtù della giu-
stizia sarebbe divenuto spirituale e perciò del tutto immortale - non divenne
mortale a causa del peccato essendo tale anche prima, ma una cosa morta;
1
ciò sarebbe potuto non accadere, se l’uomo non avesse peccato» .
Illustrando la posizione di Teofilo d’Antiochia (180 d.C.) abbiamo letto
un passo delle sue Epistulae ad Autolicum dove si legge un esatto parallelo
del primo periodo agostiniano: prima della caduta originale l’uomo si pote-
2
va dire immortale per un verso e mortale per un altro . Là facemmo notare
_____________________________
1
AGOSTINO, De Genesi ad litteram, VI, 25 (CSEL 28/2, 197; NBA 9/2, 33s), già cit.
in cap.6, punto 6.2.1., n.17. Riassumiamo qui quanto emerso in quel punto.
2
Cf. TEOFILO DI ANTIOCHIA, Ad Autolicum, II, 27 (SCh 20, 164ss; CTP 59, 411s), cit.

252
che, in verità, quel testo non esprime un’opinione comune: il quasi contem-
poraneo Atenagora è meno netto, Gregorio il Teologo la riprende, Gauden-
3
zio di Brescia la sconfessa . Qui non interessa ‘pesare’ l’autorevolezza dei
Padri pro aut contra: preme solo rilevare che de facto Agostino approfon-
disce quel che afferma Teofilo due secoli e mezzo prima e Gregorio il Teo-
logo quasi al suo tempo. Da un certo punto di vista assolutamente non pe-
lagiano, quindi, l’idea di un uomo mortale prima della caduta è sostenibile.
Ma, lo si noti, né Agostino né nessuno dei Padri ricordati menziona la pau-
ra della morte: prima del peccato originale l’uomo è mortale ma non teme
la morte perché, aggiunge l’Ipponate rispetto agli altri, può non morire.
Agostino aveva già affrontato il rapporto tra mortalità antelapsaria ed al-
tre questioni pelagianamente sensibili come nutrimento e riproduzione:
«Come mai l’uomo, sebbene fosse stato creato immortale, ciononostante ri-
cevette per alimento, come gli altri animali, l’erba dei campi produttrice di
seme, i frutti degli alberi e l’erba verdeggiante, è difficile a dirsi. Se infatti
l’uomo divenne mortale a causa del peccato, non aveva certamente bisogno
di cibi siffatti prima del peccato, poiché il suo corpo non sarebbe potuto mo-
rire di fame. In realtà, benché sembri che l’ordine (Gen 1,28): “Crescete e
moltiplicatevi e riempite la terra”, supponga che ciò non potesse avvenire
senza l’amplesso coniugale del maschio e della femmina - cosa che sarebbe
un altro indizio che i corpi erano mortali - si potrebbe tuttavia affermare che
ci potesse essere un altro modo d’unione nei corpi mortali. In tal caso i figli
sarebbero nati da un fervido sentimento d’amore di benevolenza, privo di
qualsiasi sensualità del corpo corruttibile, ed i genitori, senza morire, avreb-
bero avuto come successori i figli non destinati neppure essi a morire, fino a
quando la terra non sarebbe stata ripiena d’uomini immortali: in tal modo,
dopo essersi formato un popolo giusto e santo, come quello che speriamo
sarà dopo la risurrezione, sarebbe stato messo anche un termine alle nascite.
Una simile ipotesi potrebbe essere avanzata, ma in qual modo possa essere
sostenuta è un’altra faccenda. Nessuno però oserà affermare neppure che so-
4
lo i corpi mortali hanno bisogno di mangiare per ristorare le loro forze» .
Spiace doverci ripetere, ma non troviamo parole migliori di quelle a suo
luogo già adoperate per commentare questo passo: “Quindi anche il Doctor
gratiae non sa dire se Adamo ed Eva sono creati mortali o immortali, poi-
ché se da un lato la morte entra nel creato solo dopo la caduta, dall’altro si
cibano e possono riprodursi come i mortali, anzi, fare queste cose è un co-
mando di Dio. È interessante notare che quella sul cibo è quasi accessoria
_____________________________
3
Cf. ATENAGORA, De resurrectione mortuorum, 15, 2 (SCh 379, 272ss; CTP 59,
329s); GREGORIO DI NAZIANZO, Carmina, I, 2, carm.1 de virginitate, vv.85-90 (PG
37, 528s; CTP 115, 74); GAUDENZIO DI BRESCIA, Tractatus, tr.8, 34 (Hoste, 322;
CTP 129, 82). Questi passi sono stati riportati e commentati al punto 6.2.1.
4
AGOSTINO, De Genesi ad litteram, III, 21, 33 (CSEL 28/2, 88; NBA 9/2, 151).

253
rispetto alle osservazioni sulla procreazione, proporzione che riprenderà
venticinque anni dopo, nel 426, prima nell’Opus contra Iulianum e poi nel
5
De civitate Dei, nel pieno della lotta contro i pelagiani , e che non ci risulta
sia stata mutuata su o imitata da qualche altro Padre. Quindi Agostino non
ripete un locus commune ma fa una riflessione autonoma che lo porta e lo
mantiene in sintonia con quella precedente e con se stesso, anche mentre
combatte i plagi di Celestio. Si potrebbe obiettare che ‘non sapere se’ è co-
sa diversa dal dire ‘né... né...’ come Teofilo; è vero, ma il risultato è lo stes-
so: dal racconto della creazione non si può derivare logicamente né la mor-
talità né l’immortalità della natura umana”.
Ma da questi passi del 401 possiamo trarre anche conclusioni nuove.
Se infatti è sostenibile la tesi di un uomo insieme mortale ed immortale,
allora è sostenibile anche l’ipotesi di chi afferma che la morte non è un ma-
lum per se. Certo non è la stessa cosa che dirla un bonum, seppur dopo la
caduta originale, ma comunque ridimensiona molto la ‘naturalità’ del timo-
re che ispira. O forse sarebbe meglio dire ‘che dopo la caduta ispira’, dato
che poco dopo Agostino scrive:
«Come mai l’Apostolo afferma che il nostro corpo è morto parlando di per-
sone ancora viventi, se non perché ormai la condizione di dover morire a
causa del peccato dei progenitori è inerente nei loro discendenti? Poiché è
naturale anche il nostro corpo come quello del primo uomo, ma anche nella
sua condizione di corpo naturale il nostro è molto inferiore a quello di Ada-
mo in quanto non può evitare la morte, mentre quello poteva evitarla. Infatti,
sebbene il corpo di Adamo dovesse aspettare ancora la trasformazione per
divenire spirituale e ricevere la piena e perfetta immortalità in cui non a-
vrebbe avuto bisogno di un nutrimento corruttibile, se tuttavia fosse vissuto
santamente il suo corpo sarebbe stato trasformato nello stato di corpo spiri-
tuale, non sarebbe andato incontro alla morte. Quanto a noi invece, anche se
viviamo santamente, il nostro corpo è destinato a morire. A causa di questa
ineluttabilità, proveniente dal peccato del primo uomo, l’Apostolo non dice
che il nostro corpo è mortale ma che esso è morto poiché tutti noi moriamo
in quanto siamo tutti solidali con Adamo. L’Apostolo dice anche (Ef 4,22):
“Come esige la verità che è in Gesù, voi dovete spogliarvi dell’uomo vec-
chio vivente secondo la condotta precedente, l’uomo che si corrompe dietro
le passioni ingannatrici”, vale a dire (dovete spogliarvi) di ciò che divenne
Adamo a causa del peccato. Osserva quindi ciò che segue (Ef 4,23s): “Do-
vete inoltre rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestirvi dell’uomo
nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella verità della santità”. Ecco
6
ciò che Adamo perse a causa del peccato» .
_____________________________
5
Cf. AGOSTINO, De civitate Dei, XIII, 23 (CCsl 48, 405-408; trad. it. 797; l’idea, ori-
ginale, è sviluppata nei cc.16-26 per totum e ripresa in Contra Iulianum, IV, 11, 57.
6
AGOSTINO, De Genesi ad litteram, VI, 26, 37 (CSEL 28/2, 198; NBA 9/2, 331ss). La
(segue)

254
In questo brano, anch’esso già letto e commentato, Agostino afferma che
prima del peccato originale il morire era una possibilità che il non peccare
però rendeva puramente teorica; per usare categorie metafisiche aristoteli-
che, la morte era in potenza nella natura umana. E naturalmente nessuno ha
paura di una pura possibilità. Ora però, dopo la caduta, la mera possibilità è
divenuta condizione universale ed ineludibile; la potenza è passata all’atto,
si potrebbe chiosare, ma ancora una volta Agostino non parla di paura della
morte. Perché? Perché nella seconda parte del brano, dove parla della uma-
nità decaduta, egli si riferisce solo e soltanto ai santi, che ‘si sono spogliati
dell’uomo vecchio’, di quella parte dell’Adamo peccatore che è in loro. Per
questo essere stati ‘rinnovati’, seppur mortali, i santi non temono la morte.,
Dal canto suo questa è sì ‘naturale’ ma solo come mera possibilità che non
si realizza prima del peccato, quindi proprie loquendo non è ‘naturale’ per-
7
ché una possibilità non appartiene alla natura umana . Ogni lettura pelagia-
na ante litteram di questo passo agostiniano è quindi scongiurata in nuce.
______________________________
chiusura del passo di Agostino ricalca ad litteram quel che scrive IRENEO DI LIONE,
Adversus haereses, III, 18, 1 (SCh 211, 344; trad. it. I, 309), mentre l’idea di Adamo
che attende per ricevere spiritualità ed immortalità è assai vicina a GREGORIO DI NA-
ZIANZO, Orationes, or.38, 12 (SCh 358, 132; Sani-Vincelli, 891): «Ciò da cui doveva
astenersi (Adamo) era l’albero della conoscenza, che all’origine non era stato pianta-
to per malvagità né era stato proibito per invidia (...), ma perché quel frutto sarebbe
stato buono se fosse stato colto a tempo debito: l’albero infatti rappresentava la con-
templazione, secondo il mio ragionamento, perché alla contemplazione possono ac-
cedere senza pericolo solo quelli che sono più perfetti interiormente; al contrario, es-
sa non è cosa buona per coloro che sono troppo semplici». L’oratio 38 risale al Nata-
le del 379 o 380, quindi ben in tempo per essere conosciuta da Agostino nel 401.
7
Per le categorie aristoteliche, la struttura metafisica di un ente è piuttosto diversa dal-
la versione semplificata nota ai più. Dai manuali infatti si apprende che un ente con-
sta di materia e forma, ma questo vale solo a livello del visibile ed a prescindere da
ogni mutamento o dinamica fisica. Se consideriamo anche questi e li sintetizziamo
nel fine, cioè nello scopo dell’esistere di un ente, abbiamo l’essenza dell’ente, che è
l’unione di materia e forma in vista di un certo fine. Ma, ancora, questo vale solo se
si prescinde dalle dinamiche con le quali l’ente raggiunge tali fini: queste dinamiche
suppongono delle capacità e queste, se unite all’essenza, costituiscono la natura di
un ente. Ora, se la morte fosse una capacità, o è in atto, e così Adamo muore prima di
peccare, oppure no, ed allora si parla di essenza, non di natura. Ma le essenze, come
le capacità, sono enti di ragione, non esistono nel mondo reale: quindi, se la si consi-
dera una capacità, la morte non fa parte della natura umana. E questo per tacere che
la morte non sta alla natura umana come, p.es., la capacità di tagliare alla natura del
coltello, perché tagliare non annulla l’essere coltello del coltello ma la morte annulla
l’ente al quale inerisce come capacità. Agostino però non argomenta così, non perché
non sia capace di questi ragionamenti elementari o ignori nozioni metafisiche sem-
plici come queste, bensì perché gli interessa solo il lato spirituale della questione, che
traduce in note soteriologiche e cristologiche.

255
Il brano sembrerebbe aver risolto ogni questione, ma quando a domande
complesse troviamo risposte semplici bisogna sempre stare attenti ai detta-
gli. Qui, alla difficoltà, rimasta insoluta, di definire la morte come malum
in se o come bonum; in realtà, pensarla come mera possibilità rende diffici-
le ogni descrizione anteriore alla sua realizzazione, ossia dopo la caduta.
In effetti questo passo segue ad altri che rivelano la difficoltà di Agosti-
no nel procedere, difficoltà che gli vengono da altri ambiti; ecco il primo:
«Qui si affaccia un’altra questione: in qual modo saremo rinnovati se per
mezzo di Cristo non saremo richiamati a ciò che all’origine eravamo in A-
damo? Sebbene infatti molte cose siano rinnovate in uno stato migliore sen-
za essere restituite nella condizione originaria, tuttavia il loro rinnovamento
avviene passando da uno stato inferiore a quello ch’esse avevano prima del
rinnovamento. Come mai dunque quel figlio [prodigo] era morto eppure tor-
nò in vita, era perduto eppure fu ritrovato (cf. Lc 15,32)? E come mai gli
viene portato il vestito migliore se non riceve l’immortalità che Adamo ave-
va perduta? Ma in che modo Adamo perse l’immortalità, se aveva un corpo
naturale? Il corpo infatti non sarà più naturale ma spirituale quando l’attuale
nostra natura corruttibile si vestirà dell’incorruttibilità e l’attuale nostra na-
tura mortale si rivestirà dell’immortalità (cf. 1Cor 15,53).
Molti esegeti, messi alle strette da queste difficoltà, hanno cercato, da un la-
to, di sostenere la verità dell’asserzione dell’Apostolo in cui porta l’esempio
del corpo naturale a proposito di questo argomento dicendo (1Cor 15,45):
“Il primo uomo, Adamo, fu fatto una creatura vivente”, dall’altro hanno cer-
cato di mostrare che non è illogico affermare che l’uomo sarà rinnovato e
riavrà l’immortalità allo stato originario, cioè in quello perduto da Adamo.
Costoro perciò hanno pensato che all’origine l’uomo aveva un corpo natura-
le (i.e. mortale), ma fu cambiato quando egli fu messo nel paradiso, come
saremo cambiati anche noi nella risurrezione. Questo cambiamento - è vero
- non è menzionato nel libro della Genesi, ma per mettere d’accordo i testi
della Scrittura riguardanti tutte e due le affermazioni, cioè quella sul corpo
naturale [di Adamo] e quella sul rinnovamento dei nostri corpi ricorrente in
moltissimi testi della sacra Scrittura, quegli esegeti hanno creduto che la lo-
8
ro opinione sia una conclusione necessaria» .
_____________________________
8
AGOSTINO, De Genesi ad litteram, VI, 20, 31 (CSEL 28/2, 194; NBA 9/2, 325ss). Se
il passo fosse posteriore al 410, anno in cui Pelagio giunge in Africa, potremmo dire
che questi ‘esegeti’ sono pelagiani. Nel 401 lo si può solo ipotizzare. Infatti AGOSTI-
NO, De gratia Christi et de peccato originali, I, 35, 38 (CSEL 42, 154; NBA 17/2,
183) scrive: «(Pelagio) dice: “Leggano quella lettera che io scrissi al santo vescovo
Paolino quasi dodici anni fa e che in circa trecento righe non confessa niente altro se
non la grazia di Dio e il suo aiuto, e riconosce che noi senza Dio non possiamo fare
assolutamente nulla di buono”». Agostino scrive nel 418: togliendo (più o meno) 12
anni si arriva (più o meno) al 406, quindi Pelagio avrebbe scritto a Paolino da Roma
e questi poi ad Agostino. Se ricordiamo che nel 417, a controversia quasi risolta,
Paolino ancora stima Pelagio (cf. AGOSTINO, Epistulae, ep.186,1,1) e ne scrive spes-
(segue)

256
______________________________
so ad Agostino (cf. ep.186,12,39), è molto probabile che lo abbia fatto prima del 410:
essendo però informazioni di seconda mano non prende posizioni nette. In contrario
vi sono diversi elementi: 1 - non abbiamo la lettera di Paolino, che quindi potrebbe
anche non esistere, 2 - non abbiamo la lettera di Pelagio, che quindi potrebbe essere
posteriore al 401, 3 - se questa fosse più o meno del 400 egli avrebbe detto ‘quasi 20
anni fa’, non ‘quasi 12’, 4 - anche ammesso che nel 406 Agostino conosca le dottrine
di Pelagio, si è ancora lontani dal 401. L’ipotesi è dunque filologicamente debole: de
facto questi ‘esegeti’ sono in sintonia con Pelagio ma non si può dimostrare che A-
gostino lo sapesse.
In verità si potrebbe anche andare oltre. Scrive infatti AGOSTINO, Retractationes,
II, 33 (CCsl 57, 117s; NBA 2, 201ss): «Mi accadde anche di essere costretto per ne-
cessità a scrivere in polemica con la nuova eresia di Pelagio contro la quale, in pre-
cedenza, ci eravamo all’occorrenza mossi non con opere scritte, ma con sermoni e
conferenze secondo la possibilità e il dovere di ognuno di noi. Mi avevano inviato da
Cartagine le questioni ch’essi ponevano perché le confutassi con le mie risposte. (...)
In questi libri avevo ancora ritenuto di dover passare sotto silenzio i loro nomi, nella
speranza che potessero correggersi. Nel terzo libro, poi, (...) ho fatto il nome dello
stesso Pelagio, e l’ho fatto non senza qualche positivo apprezzamento, visto che mol-
ti mostravano di apprezzarne la condotta di vita». Agostino qui narra la genesi del De
peccatorum meritis e remissione, del 412, e ci dà due informazioni cruciali: 1 - prima
non vi sono scritti antipelagiani, né suoi né di altri; 2 - riceve le sue informazioni da
Cartagine. Quanto ai ‘sermoni e conferenze’ anteriori al De peccatorum meritis, i cu-
ratori rinviano (ibidem, n.118) a Sermones 26, 27, 131, 153, 155, 156, 158, 165, 169,
174, 176, 181, ma risalgono tutti al 416-418. Inoltre AGOSTINO, De peccatorum me-
ritis et remissione, III, 6, 12, scrive (CSEL 60, 139; NBA 17/1, 221): «Poco tempo
fa, trovandomi a Cartagine, le mie orecchie furono colpite di sfuggita da queste paro-
le di certe persone che conversavano occasionalmente: “I bambini si battezzano non
perché ricevano la remissione dei peccati, ma perché vengano santificati nel Cristo”.
Fui turbato da questa novità, ma (...) con facilità misi l’accaduto tra le cose passate e
dimenticate». Sembrerebbe perciò che Agostino venga a sapere delle dottrine di Pe-
lagio poco prima del 412, in modo informale, e non dà loro peso, cosa improbabile se
le conoscesse dal 406. In considerazione di questi elementi, l’ipotesi che nel 401, nel
De Genesi ad litteram, si riferisca ad esegesi pelagiane va cassata tout court.
In contrario cf. però AGOSTINO, De gestis Pelagii, 22, 46 (CSEL 62, 100s; NBA
17/2, 91): «Per parlare di me stesso, io conobbi per la prima volta il nome di Pelagio,
accompagnato da grandi elogi, mentre egli era lontano e dimorava a Roma. In segui-
to la fama cominciò a portarci la voce che egli combattesse contro la grazia di Dio».
Agostino afferma di sapere dell’esistenza di Pelagio prima del 410 ed a fortiori del
412; quel ‘in seguito’, a rigori, si riferisce a questa conoscenza, quindi non si può e-
scludere che prima del 410 Agostino ne conosca anche l’eterodossia. Se letto così, il
De gestis avvalorebbe l’ipotesi di una consapevolezza maturata intorno al 406 (data
che si ricava dal De gratia Christi), ma non risolve i dubbi che questa data solleva in
relazione al De Genesi ad litteram, del 401.
In considerazione di questa situazione incerta, prendiamo atto dell’oggettiva sin-
tonia tra questi ‘esegeti’ e le dottrine pelagiane ma consideriamo il De Genesi ad lit-
teram come opera anteriore alla controversia e quindi fuori del contesto polemico.

257
La domanda che si pone Agostino riguarda il rapporto tra lo status ante-
lapsario e quello dei beati in Cristo: assodato che questo è superiore a quel-
lo e che l’immortalità ne è una nota fondamentale, l’Ipponate si chiede co-
me Adamo abbia potuto perdere la sua immortalità. Che questa fosse per-
dibile non fa problema: sta (anche) lì la ragione della sua inferiorità rispetto
a quella, definitiva, che dona Cristo. Il punto non è ‘se’ ma ‘perché’.
Agostino riferisce che alcuni esegeti credono di risolvere la questione fa-
cendo leva sulla distinzione tra la creazione dell’uomo e la sua collocazione
nell’Eden. In effetti la (seconda) creazione dell’uomo si legge in Gen 2,7:
«Il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue nari-
ci un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente»,
mentre quella dell’Eden e la collocazione in esso dell’uomo è in Gen 2,8:
«Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uo-
mo che aveva plasmato»,
ma a questo iato temporale quegli interpreti danno anche valore metafisico:
prima di essere posto nell’Eden l’uomo è ‘naturalmente’ mortale, dopo ri-
ceve il dono di una immortalità, perdibile, è vero, ma anche conservabile se
e fino a quando non avesse peccato. Ed in effetti così fu fino alla caduta.
Il secondo passo, che si legge subito dopo, contesta questa soluzione:
«Ma se è valida la suddetta conclusione, invano ci sforziamo d’intendere in
senso anzitutto letterale, come cioè cose realmente storiche, il paradiso con i
suoi alberi e i loro frutti prescindendo dal senso figurato. Chi infatti potreb-
be credere che cibi di quella specie, ossia i frutti degli alberi, potessero esse-
re già necessari a corpi immortali e spirituali? Se, tuttavia, non si può trova-
re un’altra soluzione, noi preferiamo intendere il paradiso [terrestre] in sen-
so spirituale anziché pensare che l’uomo non si rinnovi, poiché il suo rinno-
vamento è ricordato tante volte dalla Scrittura, o credere che riceverà uno
stato che non si può dimostrare essere stato perduto da lui.
Oltre a ciò vi è la realtà della morte: molti passi della Scrittura sono concor-
di nell’affermare che Adamo si meritò la morte a causa del peccato, dimo-
strando così che l’uomo non sarebbe stato soggetto alla morte se non avesse
peccato. In qual modo dunque sarebbe potuto essere mortale, se non doveva
morire? O in qual modo non sarebbe potuto essere mortale, se il corpo era
9
naturale?»
Ritroviamo qui la questione del nutrimento, cui poi si aggiungerà quella
ancor più cruciale della riproduzione: se nell’Eden Adamo è ormai immor-
tale, seppur per grazia e non per natura, chiosiamo noi, perché cibarsi? E se
la morte è frutto del peccato come poteva esistere, seppur come mera pos-
_____________________________
9
AGOSTINO, De Genesi ad litteram, VI, 21, 32 (CSEL 28/2, 194s; NBA 9/2, 327).

258
sibilità, chiosiamo noi, addirittura prima di essere posto nell’Eden? Forse è
allora che comincia ad esistere? Ma quegli esegeti non dicono questo, ed in
ogni caso non si capisce perché Dio, Padre buono, dovrebbe mutare così in
peggio la natura dei suoi figli ancora innocenti da permettere, seppur solo
come possibilità, che possano perdersi nel peccato originale.
A questi rilievi ne aggiungiamo altri, non agostiniani ma nostri. Il primo
è che questa esegesi ignora del tutto la prima narrazione, nella quale la cre-
azione dell’uomo e la sua collocazione nell’Eden sono contemporanee. Il
secondo è che questa (non condivisibile) opposizione tra passi della Scrittu-
ra diventa un vero rifiuto al momento in cui si ricerca l’origine della morte:
quegli esegeti scartano ciò che dice la Scrittura, ossia che è il peccato, a fa-
10
vore di una non meglio precisata né attestata motivazione .
Dopo questi rilievi Agostino cerca una sua soluzione; e l’imposta così:
«Ecco perché alcuni interpreti pensano che l’uomo meritò, a causa del pec-
cato, non la morte del corpo ma quella dell’anima, procurata dal suo pecca-
to. Costoro infatti credono che l’uomo, poiché aveva un corpo naturale, sa-
rebbe uscito da questo corpo per giungere alla pace che adesso godono i fe-
deli servi di Dio già morti e, alla fine del mondo, avrebbe riavuto le medesi-
me membra rivestite d’immortalità. In tal modo la morte del corpo sembre-
rebbe non effetto del peccato, ma un fatto naturale come la morte degli altri
animali.
A costoro però si oppone un’altra affermazione dell’Apostolo che dice (Rm
8,10s): “Il corpo è, sì, una cosa morta a causa del peccato, ma lo Spirito è
vita a causa della giustificazione. E se lo Spirito di Colui che ha risuscitato
Cristo dai morti abita in voi, Colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la
vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi”.
Per conseguenza anche la morte del corpo deriva dal peccato. Se dunque
Adamo non avesse peccato, non sarebbe stato soggetto neppure alla morte
del corpo e perciò avrebbe avuto anche un corpo immortale. Come dunque
11
quel corpo sarebbe potuto essere immortale se era un corpo naturale?»
La prima parte del passo ci interessa perché qui (siamo nel 401), Agosti-
no presenta uno dei cavalli di battaglia dei pelagiani, ossia la tesi per cui la
morte è parte della natura umana sin dalla sua creazione. Il peccato origina-
le non ha altre conseguenze che farla apparire. La morte che è conseguenza
del peccato è solo la morte dell’anima, cioè la perdizione. Ma più di questo
è interessante notare la domanda con la quale Agostino chiude il passo: se
il corpo naturale è mortale, come avrebbe potuto essere immortale? Questo
a prima vista potrebbe sembrare un abbandono della posizione di Teofilo,
ma in realtà non lo è. Teofilo infatti parla di ‘uomo’, Agostino solo di ‘cor-
_____________________________
10
Come si vede, la sintonia de facto tra questi esegeti e Pelagio è davvero consistente.
11
AGOSTINO, De Genesi ad litteram, VI, 22, 33 (CSEL 28/2, 195; NBA 9/2, 327ss).

259
po’. Ora il corpo, in se stesso, è non vivente, cioè morto; a fortiori non è
immortale. Soltanto l’anima è viva in se stessa, perché è psyché, cioè ‘vita’,
ed al momento in cui si unisce al corpo lo vivifica. E si noti che Agostino,
con Paolo, non parla di ‘anima’ ma solamente di ‘corpo’.
Il quarto ed ultimo brano è l’immediata prosecuzione del terzo:
«D’altra parte coloro i quali pensano che il corpo di Adamo fu cambiato da
naturale in spirituale quand’era nel paradiso, non si avvedono che non ci sa-
rebbe stato nulla in contrario a che Adamo, qualora non avesse peccato, do-
po aver vissuto nel paradiso una vita in santità ed obbedienza, ricevesse la
medesima trasformazione nella vita eterna, dove non avrebbe avuto più bi-
sogno d’alimenti corporali. Quale mai necessità dunque ci obbligherebbe a
intendere il paradiso in senso figurato anziché in senso proprio per sostenere
che il corpo non sarebbe potuto morire se non a causa del peccato? La verità
è che l’uomo non sarebbe morto neppure quanto al corpo, se non avesse
peccato. Lo afferma chiaramente l’Apostolo (1Cor 15,45): “Il corpo è morto
a causa del peccato”; ciononostante prima del peccato il corpo poteva essere
un corpo naturale e dopo una vita santa poteva diventare un corpo spirituale
12
quando l’avesse voluto Dio» .
Qui Agostino avanza un’ipotesi interessante (in verità ne avanza molte a
proposito della vita nell’Eden, sia qui che nel De civitate Dei, ma non pos-
siamo seguirle tutte). Secondo lui, se non avesse peccato e dopo un tempo
conveniente, Adamo avrebbe ricevuto comunque da Dio il dono di uno sta-
tus identico a quello dei beati. Forse lo scrive pensando a quel che insegna-
13
va Ireneo di Lione due secoli e mezzo prima, nell’Adversus haereses , ma
_____________________________
12
AGOSTINO, De Genesi ad litteram, VI, 23, 34 (CSEL 28/2, 196; NBA 9/2, 329).
13
Cf. IRENEO DI LIONE, Adversus haereses, III, 23, 7s (SCh 211, 462-466; trad. it. I,
337s): «Adamo era stato vinto ed era stato privato di ogni vita; per questo, vinto il
nemico (il demonio), Adamo riceve di nuovo la vita, perché (1Cor 15,26): “Per ulti-
ma è annientata la morte, la nemica” che prima teneva l’uomo in suo potere. Allora,
liberato l’uomo (1Cor 15,54s): “si avvererà ciò che sta scritto: la morte è stata assor-
bita nella vittoria: dov’è, o morte, la tua vittoria? dov’è, o morte, il tuo pungiglio-
ne?”, il che non si sarebbe potuto dire se non fosse stato liberato anche colui che per
primo fu dominato dalla morte, poiché l’annientamento della morte suppone la sal-
vezza di lui e la morte è stata annientata in quanto il Signore ha ridato la vita all’uo-
mo, cioè ad Adamo (cf. 1Cor 15,26). È falso perciò quanto affermano coloro che ne-
gano la sua salvezza: essi escludono se stessi per sempre dalla vita perché non credo-
no che sia stata ritrovata la pecorella perduta. Ma se essa non è stata trovata, (allora)
sono ancora in potere della perdizione tutte le generazioni umane. Mendace, perciò,
chi introdusse per primo questa dottrina, o piuttosto ignoranza e cecità: voglio dire
Taziano. Questi, dopo aver raccolto da tutti gli eretici, come abbiamo esposto, inven-
tò di sua testa, in modo che, apportando qualche cosa di originale nei suoi vani di-
scorsi, potesse trovare alcuni uditori vuoti di fede davanti ai quali si atteggia a mae-
stro. A questo scopo cerca di usare parole di questo genere, molto frequenti in Paolo,
(segue)

260
quel che a noi preme di più è evidenziare che qui la morte è definitivamen-
te esclusa dalla natura umana e fa la sua comparsa solo dopo il peccato. Si
noti bene, poi, come l’Ipponate né qui né mai negli altri passi descrive que-
sto ingresso come una ‘deformazione’, una ‘menomazione’ o solo una ‘ma-
lattia’ della natura umana. Con il peccato la morte entra nella esperienza di
vita dell’uomo decaduto ma, a quel che appare in questi passi, non deforma
in nessun modo o misura la natura che Dio gli ha dato creandolo umano.
Il numero e la lunghezza di questi brani consiglia di riassumerli, per ave-
re un’idea complessiva di quella che è la visione dell’Agostino del 401:
III, 21, 33: la questione del nutrimento e della procreazione nell’Eden non
implica né esclude una certa qual mortalità; sintonia con Teofi-
lo d’Antiochia, ma nessuno dei due corni è dimostrabile;
VI, 20, 31: se l’immortalità spetta al corpo spirituale risorto, non è chiaro
come potesse esserlo quello nell’Eden né perché poi abbia per-
so l’immortalità; ipotesi 1: Dio crea l’uomo mortale ma lo fa
immortale quando lo pone nell’Eden;
VI, 21, 32: obiezione: poiché il corpo immortale né si nutre né si riprodu-
ce, l’ipotesi nega il senso letterale, né spiega perché fosse mor-
tale prima del peccato, mentre la Scrittura insegna l’opposto;
VI, 22, 33: ipotesi 2: la morte di cui parla la Scrittura è quella dell’anima,
quella del corpo è un fatto naturale; obiezione: ciò non spiega
come il corpo mortale possa divenire immortale, né perché Pa-
olo insegni che anche la morte del corpo segue dal peccato.
VI, 23, 34: ipotesi 3: dopo una vita santa, l’uomo mortale riceve nell’Eden
la grazia dell’immortalità; ciò salva anche il senso letterale;
VI, 25: prima del peccato, il corpo di Adamo è mortale ed immortale,
nel senso di ‘poter non morire’; l’immortalità di Cristo è ‘non
poter morire’; piena sintonia con Teofilo e molti altri Padri;
VI, 26, 37: peccando, Adamo perde il ‘poter non morire’, e con lui tutti gli
uomini, come insegna Paolo; una vita santa non toglie la morte
fisica ma solo il peccato che l’ha introdotta.
______________________________
(come) “In Adamo tutti moriamo” (1Cor 15,22), ignorando che (Rm 5,20): “la grazia
sovrabbondò dove aveva abbondato il peccato”. Chiarito questo punto arrossiscano
tutti i suoi seguaci, che mettono in dubbio la salvezza di Adamo come se avessero da
far guadagno provando ch’egli non fu salvato, mentre piuttosto ci perdono, come il
serpente nulla guadagnò mal consigliando l’uomo se non di farlo apparire colpevole
con il trattare l’uomo come primo strumento di apostasia; ma non vinse Dio. Così
quelli che negano la salvezza di Adamo nulla guadagnano se non questo, che si ren-
dono eretici e ribelli alla verità, e si mostrano avvocati del serpente e della morte».
Se questo è il destino dell’Adamo decaduto, come pensare che sarebbe stato diverso
se non avesse peccato? Ma si tratta, evidentemente, di un’illazione non provabile.

261
Da questo quadro emerge una netta e forte sintonia con i Padri anteriori,
specie Teofilo d’Antiochia, dalla quale si ha che prima della caduta la mor-
te esiste come mera possibilità, che passa all’atto solo dopo la caduta. Ciò
rende facile descriverla come remedium, anche se la sua presenza prima del
peccato non impedisce di considerarla anche un bonum. Invece è del tutto
assente la paura della morte, della quale non si fa mai menzione.
A distanza di venticinque anni, nella sezione del De civitate Dei che re-
dige nel 426, Agostino riprende e sviluppa ampiamente la descrizione dello
status antelapsario qui letta. Poiché questa ripresa occupa di una decina di
capitoli del libro tredicesimo, preferiamo lasciarli alla curiosità dei lettori
(che vi troveranno interessanti spunti sulla sessualità, tanto per fare qualche
accenno), e optiamo per un quadro cronologicamente più vicino al De Ge-
nesi ad litteram. Nel 421, su sua richiesta, Agostino invia all’amico Lau-
renzio il suo Enchiridion de fide, spe et caritate, nel quale scrive:
«Dio avrebbe voluto conservare il primo uomo nella condizione di integrità
in cui era stato costituito, conducendolo al momento giusto ad uno stato mi-
gliore, dopo aver generato dei figli, se nella sua prescienza avesse saputo
che avrebbe voluto restare per sempre senza peccato, così com’era stato cre-
ato; in tale stato non gli sarebbe stato possibile non solo commettere pecca-
to, ma neanche averne la volontà. Dato però che Dio già sapeva che l’uomo
avrebbe usato male il suo libero arbitrio, cioè che avrebbe peccato, si accin-
se piuttosto a voler trarre il bene anche da colui che faceva il male, in modo
che non venisse svuotata la cattiva volontà dell’uomo ma fosse nondimeno
portata a compimento la buona volontà dell’Onnipotente.
Perciò l’uomo doveva anzitutto esser posto nella condizione di volere sia il
bene che il male, in modo che non restasse senza ricompensa nel primo caso
e senza punizione nel secondo. Successivamente però sarà in condizione di
non poter volere il male, senza per questo essere privato del libero arbitrio.
In realtà tale arbitrio sarà ben più libero, in quanto non potrà assolutamente
essere asservito al peccato. Né del resto la volontà è da condannare, o inesi-
stente o da giudicare non libera quando ci fa perseguire la felicità, in modo
non soltanto da non volere l’infelicità ma da non avere più assolutamente la
possibilità di volerla. Come dunque anche ora la nostra anima è in condizio-
ne di non volere l’infelicità, così sarà sempre in condizione di non volere la
ingiustizia. Non si doveva però sospendere l’ordine (delle cose) in base al
quale Dio volle mostrare il grado di bontà di un animale razionale che aves-
se anche la possibilità di non peccare (posse non peccari), pur essendo pre-
feribile essere nella impossibilità di peccare (non posse peccari). Allo stesso
modo fu inferiore, ma pur sempre tale, la immortalità consistente nella pos-
sibilità di non poter morire (posse non mori), restando superiore quella che
consisterà nell’impossibilità di morire (non posse mori).
La natura umana perse la sua (prima) condizione per mezzo del libero arbi-
trio, mentre per mezzo della grazia guadagnerà questa (i.e. non posse mori),
che pure era stata sul punto di guadagnare per proprio merito se non avesse

262
peccato. Neppure allora, in verità, senza grazia avrebbe potuto esserci alcun
merito, poiché, pur essendo il peccato fondato solo sul libero arbitrio, tutta-
via quest’ultimo non bastava a perseverare nella giustizia se dalla partecipa-
14
zione al bene immutabile non provenisse l’offerta dell’aiuto divino» .
La data, il 421, ci dice che siamo nel bel mezzo della querelle pelagiana,
ma le osservazioni di Agostino non sembrano risentirne. Perché non si cre-
da che sia una nostra interpretazione abbiamo riportato l’intero capitolo.
In primis, ritroviamo la distinzione tra la possibilità di non morire (posse
non mori) e l’impossibilità di morire (non posse mori), esposta quasi negli
15
stessi termini in cui la si è letta nel De Genesi ad Litteram del 401 : se si
eccettua un lieve ed iniziale maggior accento sulla procreazione, a distanza
di venti anni vi è una perfetta continuità di pensiero.
In secundis, questa distinzione è sviluppata in quella tra una immortalitas
inferior (posse non mori) ed una superior (non posse mori). Ora, che prima
della caduta Adamo, per grazia, potesse non morire implica che per natura
è mortale, quindi che la morte, in sé e per sè, come minimo non è un male;
a meno che non si voglia far dire ad Agostino che Dio crea l’uomo con un
difetto di questa portata. Ma pure Ambrogio e tutti gli altri Padri insegnano
che, prima della caduta, in Adamo c’è solo il bene, anzi, si è letto che per
Doroteo di Gaza l’immortalità appartiene addirittura allo status secondo na-
tura: e Doroteo è l’exemplum della visione greca. Quindi questa posizione
di Agostino non è nuova, né per lui né i Padri a lui contemporanei.
In tertiis, Agostino afferma che Dio dona all’uomo la grazia di non mo-
rire, e quindi l’immortalità, in modi diversi prima del peccato e dopo la re-
surrezione. Il posse non mori non fa problema, perché Adamo muore dopo
la caduta, ma non così il non posse mori, perché ciò significa che la grazia
o elimina la possibilità della morte oppure la rende nulla. La prima ipotesi è
da scartare, poiché la grazia, che è Dio, non toglie quel che Dio ha donato.
La seconda ipotesi non elimina la possibilità della morte, quindi delle due
l’una: o Dio mantiene la possibilità di un male anche dopo la resurrezione,
oppure si deve concludere che la morte non è un male e perciò la immorta-
litas superior differisce per essenza da quella inferior. Questa è la sola so-
luzione accettabile dal punto di vista dogmatico: la beatitudine non è la me-
ra reintegrazione nello stato antelapsario ma qualcosa di infinitamente mi-
gliore e metafisicamente superiore. Lo status antelapsario consiste nell’ob-
bedire a Dio, la beatitudine consiste nell’amare, ricambiati, Dio.
Agostino non si è spinto fin qui, nell’Enchiridion. Ma, se prima di cadere
_____________________________
14
AGOSTINO, Enchiridion de fide, spe et caritate, 28, 104ss (CCsl 46, 106; trad. it.
164ss; rivista).
15
Cf. AGOSTINO, De Genesi ad litteram, VI, 25 (CSEL 28/2, 197; NBA 9/2, 33s), cit.

263
Adamo è immortale per grazia e mortale per natura, allora la morte fa parte
della natura umana antelapsaria, perciò Agostino non la considera un male
in sé (infatti non lo scrive mai) ma solo per i peccatori. Questo lo afferma-
no anche Ambrogio e gli altri Padri, ma, se si legge al contrario, questa sin-
tonia si trasforma in opposizione, e radicale. Infatti, se la morte è parte del-
la natura antelapsaria allora la caduta si limita a rivelare quel che prima la
grazia occultava. La morte non è donata da Dio dopo la caduta, né la si può
dire remedium, dato che prima di quella non esiste un peccato da curare. La
vicinanza tesi pelagiane è davvero marcata, cosa ancor più stupefacente se
si ricorda che Agostino scrive questo nel 421, non vent’anni prima. Ma, in-
sieme alle difficoltà, il passo fornisce anche la soluzione: la prescienza di-
vina. Poiché Dio conosce ogni cosa, passata, presente e futura, dice Agosti-
no, Egli sa che il libero arbitrio (che deve dare all’uomo, se vuole essere
amato e non solo obbedito) prima o poi sarà usato contro di Lui; così predi-
spone nella natura umana lo strumento atto a neutralizzare tale futura eve-
nienza, strumento che è la morte. Posta la cosa in questi termini, non vi è
difficoltà a descrivere la morte come remedium, anzi, si può anche dire che
sia un bonum, in quanto voluta da Dio ed in quanto remedium al male. La
sintonia con Ambrogio e gli altri Padri è così recuperata e rafforzata.
Per quanto stimolante, questo brano dell’Enchiridion però non dice nien-
te sulla paura della morte. Non che la cosa stupisca poi molto: se le analisi
ampie e fini del De Genesi ad litteram non hanno fruttato nulla, potevamo
aspettarci qualcosa di più da quelle più rapide dell’Enchiridion? Ma la vera
ragione, quella decisiva, è spirituale: se la morte è posta da Dio in noi come
limite alla nostra possibilità di peccare, perché averne paura? Se questo ac-
cade è solo perché non la si percepisce così ma come la perdita definitiva di
ciò che davvero ci sta a cuore, cioè il mondo e non Dio. Come si vede, an-
cora nel 421 l’accordo tra Agostino, Ambrogio ed i tanti altri Padri che si
pongono sulla scia del vescovo di Milano è molto forte su tutti i temi che ci
interessano: spiegano allo stesso modo l’origine della morte, concepiscono
in maniera identica la relazione con la natura umana ed il peccato originale,
la descrivono in termini quasi identici. La sola differenza è proprio nei ter-
mini usati: Ambrogio e gli altri Padri parlano di bonum e, in second’ordine,
di remedium, Agostino non si serve di bonum ed è parco anche nell’uso di
remedium, anche se condivide ciò che esprimono in relazione alla morte.
Con questo passo fermiamo la ricognizione nelle opere di Agostino non
coinvolte nella polemica con i pelagiani.
* * *
Alla fine di questa ricerca emerge una forte vicinanza tra Agostino, Am-
brogio e gli altri Padri. Ma, si dirà, questo non è un dato molto interessante:
l’ipotesi di una frattura tra Agostino e gli altri Padri la colloca in concomi-

264
tanza con la querelle pelagiana, non prima; rafforzare la sintonia anteriore
accentua il peso della discordanza successiva. In verità il passo dell’Enchi-
ridion suggerisce che, forse, tale discordanza non esiste neanche durante la
polemica pelagiana, ma una rondine sola non fa primavera. Bisogna esami-
nare i passi che sembrano attestare tale pretesa discordanza, e prima ancora
capire bene cosa insegna Pelagio sulla morte.

9.2. I rapporti tra l’antropologia pelagiana


e la paura della morte

Abbiamo spesso affermato che i soli ad insegnare che la morte è natura-


le e non frutto del peccato sono i pelagiani. Questi infatti negano che il pec-
cato originale abbia avuto conseguenze universali, perciò devono affermare
che la morte rientra nella natura umana così come l’ha creata Dio. Da ciò
però non segue che, per loro, sia un bonum in se: senza il peccato di Adamo
l’umanità non vivrebbe la morte, anche se fa parte della sua natura. Essen-
do frutto del peccato, non la si deve temere: la morte fisica non ha rilievo
spirituale, e se non si pecca la morte dell’anima non sopraggiungerà mai.
Come si vede, il risultato finale è molto vicino alla communis opinio del
tempo, ma nasce da distorsioni profonde: della qualità del creato, degli ef-
fetti dell’Incarnazione e, in definitiva, di quel che Dio ci rivela di Se stesso.
Una distorsione, bisogna specificare, non rimediabile dal lato intellettuale.
La divergenza infatti non nasce da una disputa dotta (gli esiti sono quasi gli
stessi) ma da un grave deficit esperienziale: solo se si sperimenta personal-
mente la bontà di Dio si capisce quel che fa e perché; se così non è, il suo
agire ed il suo intento restano misteriosi, e la Scrittura, che lo Spirito ispira
per aiutarci a vederli, diventa invece profondamente ambigua, nebbiosa. Le
divergenze sembrano così meri scostamenti esegetici, mentre in realtà sono
la ri-dizione intellettuale di vissuti interiori lontanissimi, quasi opposti.
Bisogna però dare ragione di tutti e singoli questi passaggi fondamentali,
ed il modo migliore è leggere quel che al riguardo scrivono i pelagiani.
* * *
Non è molto facile riportare passi autentici dai quali la dottrina pelagiana
emerga chiaramente.
Innanzitutto c’è un problema filologico: di Pelagio ci sono giunte solo tre
opere complete, delle altre abbiamo frammenti sparsi, degli scritti dei suoi
16
discepoli rimangono quasi solo citazioni di seconda mano .
_____________________________
16
Gli studiosi considerano autentici le Expositiones XIII epistularum Pauli (405-09), la
(segue)

265
Il secondo problema è contenutistico: disponendo di poche opere, e solo
di Pelagio, è impossibile sapere se, su cosa ed in che misura i suoi discepoli
si scostassero da lui. Nel passato tali divergenze, quando le si ammetteva, si
ritenevano accessorie; oggi si tende ad attribuire loro un peso maggiore, in
considerazione di molti fattori, e non tutti filologici. A noi piace sottolinea-
re il fatto che, dopo la definitiva scomunica nel 418, Pelagio tace e, dopo il
420-21, fa perdere le sue tracce, mentre i suoi discepoli continuano per anni
a difendere ostinatamente dottrine ormai riconosciute come sbagliate. Dal
punto di vista spirituale la differenza è davvero grande. Pur non convinto di
essere nel torto, Pelagio accetta comunque la valutazione della Chiesa, non
insegna più quel che essa respinge e sceglie il silenzio, l’ombra. Ci piace
pensare che si sia affidato allo Spirito: se ha ragione, Egli farà apparire la
verità, se no, è meglio tacere. Giuliano invece si ostina nell’errore, respinge
il giudizio della Chiesa, coinvolge e fomenta altri, tenta di tutto per aver ra-
17
gione: anche lui, alla fine, sarà costretto a tacere, ma obtorto collo .
______________________________
Epistula ad Demetriadem (414) ed il Libellus fidei (417), più una serie di frammenti
dal De libero arbitrio (415). Le opere attribuite a Pelagio sono però una ventina, tra
le quali alcune complete (p.es. il De induratione cordis Pharaonis), altre frammenta-
rie (p.es. il De fide Trinitatis), altre ancora giunte sotto lo pseudo-Girolamo (p.es. il
De divina lege o il De virginitate). Tra gli studiosi però non vi accordo sulla autenti-
cità di molte di queste, e le opinioni sono in continuo divenire. Stante questo quadro
fluido, limiteremo la ricognizione ai soli scritti completi e sicuramente autentici.
17
Cogliamo l’occasione per chiarire un punto centrale. Più volte, in queste pagine co-
me in altri saggi (p.es. nel nostro All’incrocio tra teologia e spiritualità: il caso del
peccato originale), si è criticato con forza chi ‘ripensa’ positivamente il ‘contributo’
di questa o quell’eresia, atteggiamento in questi decenni diffuso tra i teologi. Riguar-
do a Pelagio, quest’orientamento è ben espresso da G. DE PLINVAL, «L’heure est-elle
venue de rédecouvrir Pélage?», Revue des études augustinienne 19 (1973) 148-162,
158: «Le moment ne serait-il pas venu d’interroger Pélage et sans prétendre à une ré-
habilitation illusoire, de remettre à jour la part de vérité qu’enrobait sa docrine?» La
competenza dell’autore, un pioniere degli studi su Pelagio (cf. p.es. G. DE PLINVAL,
Pelage. Ses écrits, sa vie et sa réforme. Étude d’histoire litteraire et religieuse, Lau-
sanne 1943), è fuori discussione: cf. p.es. «Le lotte del pelagianesimo», in A. FLICHE
- V. MARTIN, Storia della Chiesa, IV, Torino 1961, 95-157. Per i dettagli storici e te-
orici dell’accettazione e diffusione dell’idea di ‘riabilitazione’ di Pelagio cf. D. O-
GLIARI, «Introduzione» a Pelagio. Epistola a Demetriade, CTP 213, Roma 2010, 5-
62; S. MATTEOLI, «Introduzione» a Pelagio. Commento all’epistola ai Romani. Com-
mento alle epistole ai Corinzi, CTP 221, Roma 2012, 5-54, con annesse bibliografie.
E de Plinval non argomenta solo dal lato storico ma anche da quello contenutistico:
in ogni errore c’è sempre del vero, scrive. Ora, stante l’unanimità ed il buon senso di
questa posizione, perché attaccarla? Non sarà forse per ignoranza di quegli studi, o
presunzione di saperne più di quegli autori, o addirittura incapacità di capire quel che
scrivono? Naturalmente il lettore è libero di ritenere che dietro le nostre parole ci sia
una o anche tutte e tre quelle spinte; in tal caso speriamo di non incorrere in quella
(segue)

266
______________________________
‘santa ferocia’ spesso elargita a chi canta fuori del coro. Tuttavia ci sia concesso di
dire che le nostre critiche muovono da altro, per la precisione da una mancata distin-
zione tra lato storico-critico e lato spirituale.
Dal lato storico-critico apprezziamo moltissimo gli sforzi di recuperare l’autentico
pensiero di Pelagio, come in esegesi siamo entusiasti ammiratori dell’acribia filologi-
ca che ricostruisce testi e contesti. Ci siamo formati in ambito medievistico, dove la
distorsione polemica è ovunque e raggiunge modi e misure ignoti (per fortuna) tra i
Padri, quindi non è certo da questo lato che ci pare di cogliere un serio problema.
La difficoltà sorge al momento in cui interpretiamo quel che si è scoperto.
Il medievista non ha a che fare con autori di rilievo paragonabile a quello dei Pa-
dri della Chiesa; dal suo punto di vista, il dato storico-critico quasi esaurisce quel che
si deve sapere. Tranne in rari e ben circoscritti casi, di solito ha di fronte opinioni,
autorevoli, stimate quanto si vuole, ma sempre discutibili ed anche rifiutabili. Quasi
mai la sua libera opzione compromette il depositum fidei, perché questo i suoi autori,
e non lui, lo recepiscono come già formato, anche se non cristallizzato, come solido e
sicuro, anche se ancora da chiarire qua e là. Generalizzare è molto pericoloso quando
si parla di un periodo che abbraccia mille anni, però si può osar dire che, nel Medio-
evo, il lato spirituale è abbastanza distinto da quello accessibile dal lato solo storico-
critico. Mai assente, è tuttavia abbastanza in secondo piano.
Per chi studia la Scrittura ed i Padri della Chiesa invece vale l’opposto. Il lato spi-
rituale prevale di gran lunga su quello storico-critico. In questi ambiti, il disporre di
edizioni critiche eccellenti è conditio sine qua non per fare studi scientificamente af-
fidabili. Ma la comprensione vera e profonda viene dal lato spirituale. Riguardo alla
Scrittura ci siamo già espressi ampiamente in A. ARA, Scrivi in un libro, op. cit.. Per
quel che riguarda i Padri, alcune cose si sono già dette sia là che in queste pagine; ora
riteniamo opportuno aggiungerne altre, prendendoci anche un po’ di spazio.
Dal punto di vista spirituale, un’eresia non è tale perché è detta da Tizio né perché
condannata ufficialmente; non importa neanche se Tizio l’ha davvero insegnata. Per
capire cosa intendiamo si pensi alla frase ‘2+2=5’: questa ‘eresia’ è tale non perché
la sostengo io o perché il professore la sottolinea in rosso; è un’eresia anche se io non
l’ho detta ed il professore non l’ha rilevata. Un’eresia è tale in se stessa. Un’eresia è
tale perché nasce da un errato rapporto con Dio. Un’eresia è tale per ciò che inse-
gna, non per chi lo fa o come. Un’eresia è tale per le conseguenze che può provoca-
re, non per le intenzioni di chi la diffonde. Se criticamente si appura che Tizio non ha
detto certe cose si fa un passo in avanti dal lato storico, ma spiritualmente l’eresia ri-
mane tale. Chi insegna un errore e poi lo riconosce come tale viene assolto, ma quel
che insegnava resta condannato: Eusebio di Cesarea docet. La Chiesa condanna mol-
te opinioni ma solo Dio giudica le persone. Per questo la Chiesa non ha mai mandato
nessuno all’inferno. Agostino non nega una certa buona fede in Pelagio (pur con dei
dubbi: cf. p.es. De gestis Pelagii, passim) ma ciò non significa condividerne le tesi:
cf. p.es. AGOSTINO, I, ep.186, 1 (CSEL 57, 45s; NBA 23, 79ss). Quindi non vi è bi-
sogno di ‘riabilitare’ Pelagio perché ad essere condannate sono le affermazioni, non
l’uomo; distinzioni come tra pelagisch (‘pelagico’) e pelagianisch (‘pelagiano’) sono
criticamente utili, ma spiritualmente irrilevanti. Altra cosa sarebbe se, oltre all’uomo,
si intendesse ‘riabilitare’ anche le tesi condannate: su questo non ci può essere tratta-
tiva, ed ogni ‘riabilitazione’ del genere è eretica. Ma ci piace pensare che niente del
(segue)

267
Il terzo problema è esegetico: Pelagio ed i suoi discepoli non affermano
mai chiaramente le opinioni sopra esposte. Ne pongono le premesse ma la-
sciano agli altri trarne le conseguenze. Argomentano come se lo avessero
fatto ma, se li si accusa di ciò, affermano di non averlo mai scritto. Ed è ve-
ro. Questo continuo dire senza dire, insinuare senza affermare, onnipresen-
te nei testi pelagiani, a suo tempo suscitò l’ira di Agostino e degli altri Pa-
dri; oggi invece motiva velate accuse di parzialità all’Ipponate.
Per completezza ed anteriorità l’opera più affidabile è il Commento alle
lettere di Paolo che Pelagio redige nel 405-409, quindi dopo il De Genesi
ad litteram di Agostino (401). Il passo più utile è il commento a Rm 5,12:
«(Rm 5,12) “Quindi, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato in
questo mondo e con il peccato la morte”. Per esempio o modello. Come il
peccato, quando ancora non esisteva, giunse tramite Adamo, così anche la
giustizia, quando ormai non sopravviveva quasi più in nessuno, fu ristabilita
tramite Cristo; e come la morte entrò nel mondo per il peccato del primo,
18
così la vita è riacquistata per la giustizia del secondo» .

______________________________
genere sia mai passato nella mente di nessuno; è facile infatti leggere dure critiche a
simili tesi anche da studiosi del tutto laici.
Si potrebbe replicare, non senza ragione, che ciò che chiamiamo ‘spirituale’ in ef-
fetti è solo ‘teologico’, e quindi stiamo lamentando solo una insufficiente distinzione
tra letteratura cristiana antica (patrologia) da un lato e patristica dall’altro. Ora, che si
condanni sempre il peccato e mai il peccatore è realmente un dato teologico; che poi
sia dimenticato o non se ne tenga conto è altra faccenda. Ma un dato teologico non è
un ulteriore elemento letterario o un diverso modo di leggere il dato storico-critico.
Alla base del ‘teologico’ vi è (o dovrebbe essere) qualcosa di più e soprattutto altro.
Il ‘teologico’ in effetti è lo ‘spirituale’ prima riflettuto e poi, nella misura del possibi-
le, ri-detto agli altri in modo razionalmente comprensibile. Senza lo ‘spirituale’, del
‘teologico’ rimane solo il lato letterario-filosofico, senza la ricostruzione storico-cri-
tica di quel lato la ri-dizione dello ‘spirituale’ diventa incomprensibile, ma per passa-
re dal lato letterario a quello ‘teologico’ è necessario un sentitus che faccia da ponte
‘spirituale’ tra chi scrive e chi legge. Lo ‘spirituale’ è poi il portato dell’esperienza di
amore per Dio che, mutatis mutandis, è in e di tutti i fedeli (e non solo ‘credenti’): il
testo esprime non solo quel che l’autore pensa ma anche ciò che sente. Cercare lo
‘spirituale’ al di là del letterario non è perciò una panacea per tutti i problemi, al con-
trario li aumenta, poiché somma alle difficoltà letterarie quelle che sorgono dalla di-
versa intensità e profondità di vita spirituale. Senza contare che cercare lo ‘spirituale’
non significa trovarlo, o rendersi conto di averlo fatto, o averlo fatto bene.
Per tradurre queste osservazioni in elementi utili a questa ricerca ci si chieda: tra
Agostino e gli altri Padri vi è frattura ‘spirituale’ o di ri-dizione? Quando si polemiz-
za si distorce la ri-dizione o lo ‘spirituale’? Una frattura di ri-dizione è davvero tale o
solo una questione di parole? La risposta a queste domande dipende tutta dall’avere o
no un sentitus personale in sintonia con chi scrive.
18
PELAGIO, Expositio in Romanos, 5,12 (PLsuppl. 1, 356; CTP 221, 105).

268
Per Pelagio la caduta di Adamo è ‘esempio’ o ‘modello’ per i peccatori,
senza alcuna conseguenza sul genere umano; la morte perciò non è imputa-
bile ad essa ma soltanto al libero arbitrio del singolo. Parimenti, e Pelagio è
netto nell’affermarlo, Cristo è un ‘esempio’ o ‘modello’ per i giusti: la sua
Incarnazione, morte e resurrezione non hanno perciò nessuna conseguenza
sul genere umano. Però anche i giusti muoiono, quindi la morte non si può
imputare al peccato. Pelagio infatti subito dopo prosegue così:
«“Così la morte raggiunse tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato”. Fin-
chè così peccano, ugualmente muoiono. Infatti la morte non si estese ad A-
bramo, Isacco e Giacobbe, dei quali il Signore dice (Lc 20,38): “Tutti loro
vivono”. Ma qui dice che tutti sono morti perché nella moltitudine dei pec-
catori non viene fatta eccezione per pochi giusti, come in quel passo (Sal
13,1): “Non c’è chi compia il bene, non ce n’è neppure uno” e (Rm 3,4):
“Ogni uomo è mentitore”. Oppure: si estese su tutti coloro che vivevano in
19
modo umano e non celeste» .
Nel passo paolino riportato, con ‘perché (quia)’ Pelagio traduce il greco
eph’ô, che nelle versioni latine invece è reso con ‘nel quale (in quo)’. Que-
sta opzione ha precursori illustri ed ortodossi (p.es. Origene), quindi non è
l’esegesi a generare la dottrina di Pelagio, al contrario è il rifiuto del pecca-
to originale a cooptare l’esegesi. Come si vede, se si resta sul lato intellet-
tuale tutto si riduce ad una diversa scelta tra due opzioni esegetiche lecite;
solo se si prende in considerazione il lato spirituale si coglie la ragione per
20
la quale Origene è ortodosso e Pelagio no . Ma, mettendo da parte questa
_____________________________
19
PELAGIO, Expositio in Romanos, 5,12 (PLsuppl. 1, 356; CTP 221, 105).
20
Volutamente insistiamo sulla distanza da Origene perché spesso l’Adamantino è ac-
cusato di essere un pelagiano ante litteram, o si afferma che Pelagio avrebbe matura-
to le sue convizioni leggendo il De principiis nella traduzione di Rufino. I limiti della
visione origeniana sono noti (pre-esistenza delle anime; in-corporazione come effetto
di una colpa anteriore ecc.), ma non portano affatto a posizioni pelagiane, che anzi
sono respinte expressis verbis e dopo ragionamenti di ampio respiro. Cf. ORIGENE,
De principiis, III, 1, 15 (SCh 268, 88-92; trad. nostra dal greco): «Vediamo ora il te-
sto di Ezechiele (Ez 11,19s): “Toglierò i loro cuori di pietra e metterò loro dei cuori
di carne, perché camminino nei miei comandi e custodiscano le mie prescrizioni”. Se
è Dio che, quando vuole, toglie i cuori di pietra e che mette i cuori di carne per per-
metterci di custodire le sue prescrizioni e osservare i suoi precetti, allora non è in no-
stro potere abbandonare la malvagità. Che i cuori di pietra siano tolti non è altro che
dire che, da colui che Dio vuole, viene eliminata la malvagità che indurisce qualcu-
no; e che siano messi [al loro posto] dei cuori di carne perché qualcuno cammini nel-
le sue prescrizioni e custodisca i suoi precetti, che cosa altro significa se non divenire
docile e non disobbediente (antítypon) alla verità, e praticare la virtù? Se Dio
promette di fare lui queste cose, e se prima che lui tolga i cuori di pietra noi non
possiamo toglierceli, è evidente che non è in nostro potere abbandonare la malvagità;
e se non siamo noi che agiamo nel mettere in noi stessi un cuore di carne (segue) ma è

269
______________________________
non siamo noi che agiamo nel mettere in noi stessi un cuore di carne ma è l’opera di
Dio, non dipende da noi vivere virtuosamente ma sarà interamente una grazia di Dio.
Ecco ciò che dirà colui che sopprime il libero arbitrio a partire dal senso letterale. Ma
noi rispondiamo che lo si deve intendere nel modo seguente: quando qualcuno, pur
nella sua ignoranza e mancanza di cultura, percepisce i propri gravi difetti e, o per la
esortazione di un maestro o per qualche suo ragionamento personale, si affida a colui
che, a suo avviso, può guidarlo alla conoscenza ed alla virtù, se si affida a questo
maestro che gli promette di liberarlo dalla ignoranza e di dargli una cultura, questi
non potrà dire che colui che gli si affida non dovrà fare altro, per essere istruito e la-
sciare l’ignoranza, che presentarsi ed essere accontentato, ma potrà solo promettere
che migliorerà ciò che lui desidera (Origene intende dire che per eliminare i difetti
non basta percepirli né individuarne il rimedio, così come il maestro non può fare
tutto ma solo migliorare la buona disposizione dell’allievo, senza la quale niente si
ottiene). Allo stesso modo la parola di Dio promette di togliere la malvagità, che
chiama ‘cuori di pietra’, non a coloro che le si oppongono ma a quelli che si affidano
da se stessi al medico dei malati». Si noti il grande equilibrio di Origene: non respin-
ge la prima interpretazione ma la integra così che non si possa imputare a Dio il male
senza però togliere la Sua assoluta preminenza nel nostro compiere il bene.
Ancor più netto è ORIGENE, De principiis, III, 1, 19 (SCh 268, 114-124; trad. no-
stra dal greco): «Io credo che noi possiamo spiegare (apologían êgoûmai) così il ver-
setto (Rm 9,16): “Non di chi vuole né di chi corre [è il merito], ma di Dio che è mise-
ricordioso”. Salomone dice nel libro dei Salmi - è suo quel Canto delle Ascensioni
del quale stiamo per presentare le parole - (Sal 126,1): “Se il Signore non costruisce
la città, invano hanno lavorato i costruttori; se il Signore non custodisce la città, in-
vano ha vegliato il guardiano”. Non ci consiglia di non costruire, né impariamo a non
vigilare per custodire la città che si trova nelle nostre anime, ma insegna che ciò che
è costruito senza Dio e ciò che non è sotto la sua vigilanza è costruito invano e sor-
vegliato senza risultato, perché bene è descritto il Signore come il maestro della co-
struzione di Dio, capo della guardia della città e governatore di tutte le cose. Come se
dicesse ‘Non del costruttore ma di Dio è opera questa costruzione’, e ‘Se la città non
ha subìto alcun danno, il merito non è di chi vigila ma di Dio Signore di ogni cosa’.
Non avremmo torto se sottintendessimo comunque che l’uomo ha fatto qualche cosa,
ma la riuscita dell’impresa deve essere attribuita, ringraziando, a Dio che ha compiu-
to tutto. Allo stesso modo, poiché il volere umano non è sufficiente a raggiungere lo
scopo [della salvezza], né il correre come atleti per ottenere il premio della chiamata
dall’alto (cf. Gv 3,7s) che viene da Dio in Cristo Gesù - è infatti con l’aiuto di Dio
che queste cose si compiono - giustamente è scritto (Rm 9,16): “Non di chi vuole né
di chi corre [è il merito], ma di Dio che è misericordioso”. Come se fosse un lavoro
agricolo, è scritto (1Cor 3,6): “Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma Dio ha fatto cre-
scere; così né chi pianta né chi irriga è qualcosa, ma solo Dio che fa crescere”; la ma-
turazione dei frutti non è avvenuta, come empiamente dicono, per la fatica dell’agri-
coltore o per il lavoro dell’irrigatore, ma per opera di Dio. Allo stesso modo, per ciò
che riguarda la nostra perfezione non si può dire che non abbiamo fatto niente, però
non noi la abbiamo completata ma Dio che ne ha fatto la più gran parte. E perché si
possa prestare fede con più sicurezza a quanto andiamo dicendo, si prenda ad esem-
pio l’arte del pilota. [...] I piloti sono molto prudenti e non si permettono di attribuire
(segue)

270
pur cruciale questione, qui preme sottolineare che Pelagio rifiuta di ammet-
tere la morte dei Patriarchi. Evidentemente non pensa alla morte fisica; o
sì? In effetti prosegue così:
«(Rm 5,13) “Fino alla Legge, infatti, c’era peccato nel mondo”. La Legge
giunse per punire il peccato; prima del suo avvento i peccatori godevano
della lunghezza della vita presente con meno restrizioni. Certo prima della
Legge esisteva il peccato, ma non era riconosciuto come tale, perché era già
quasi caduta in dimenticanza la conoscenza naturale. “Ma il peccato non
viene imputato quando manca la Legge”. Allora come regnò la morte, se il
peccato non veniva imputato? A meno che tu non intenda: non veniva impu-
21
tato ‘per il momento’» .
Quando Pelagio dice ‘godere della lunghezza della vita con meno restri-
zioni’ forse non si riferisce a vite lunghe come quella di Matusalemme, da-
to che parla di peccatori, ma certo quel ‘quasi’ significa che, dopo Adamo,
non tutti hanno dimenticato la legge naturale, così come prima il ‘quasi’ si-

______________________________
a se stessi di aver salvato la nave, ma riportano tutto alla misericordia di Dio; questo
non vuol dire che non abbiano fatto niente, ma che la parte della Provvidenza è infi-
nitamente più grande di quella della [loro] tecnica. In ciò che concerne la nostra sal-
vezza, la parte di Dio è infinitamente più grande di quella del nostro libero arbitrio. È
per questo che, a mio avviso, è detto “Non di chi vuole né di chi corre [è il merito],
ma di Dio che è misericordioso”: se, come fanno i nostri oppositori, si sbaglia a capi-
re quel che significa “Non di chi vuole né di chi corre [è il merito], ma di Dio che è
misericordioso”, i comandamenti saranno superflui e invano Paolo distribuisce la
condanna a coloro che son caduti e la lode a quelli che si comportano bene, e legifera
per la Chiesa; invano noi ci applichiamo a volere i beni migliori, invano a correre.
Ma no, non è invano che Paolo consiglia questo, condanna gli uni e approva gli altri,
non è invano che noi ci consacriamo a volere le cose migliori e ad innalzarci verso i
beni più alti. I nostri oppositori non hanno ben capito ciò che significa quel passo».
La conclusione del brano è assai vicina a ciò che il Concilio di Cartagine del 411 in-
dicherà come le conseguenze della dottrina pelagiana, condannandola. Leggeremo
come Agostino faccia sue queste parole di Origene senza menzionarlo, mentre l’idea
di ‘Dio che fa la maggior parte del lavoro’ ricorre spesso nel Crisostomo. Il passo è
fondamentale per capire la posizione di Origene e di tutti i Padri anteriori a Pelagio.
Origene infatti parla costantemente della creatura razionale (uomo ed angelo) come
capace di decidere della loro salvezza e perdizione: cf. De principiis, I, 3,6; 5,2; 8,3;
II, 1,2; 9,2.6; III, 2,3; In Romanos commentarii, I, 18; III, 6. Ciò ha suggerito letture
pelagiane o semipelagiane del pensiero suo e di altri, ma questo e il precedente sono
passi inequivocabili: alla salvezza dell’uomo sono necessari sia la scelta del libero
arbitrio sia la grazia (contro Pelagio), e la grazia ha un ruolo assolutamente prepon-
derante (contro i semipelagiani); cf. anche III, 1,24; 2,4. Quindi, se Pelagio ha letto il
De principiis, certo non l’ha capito per niente. E si noti che noi, disponendone, si è
tradotto dal greco; la versione di Rufino è talvolta ancor più netta in questo senso.
21
PELAGIO, Expositio in Romanos, 5,13 (PLsuppl. 1, 357; CTP 221, 105s).

271
gnificava che, dopo Adamo, non tutti sono rinchiusi nel peccato. Qui Pela-
gio non dice solo che la caduta di Adamo non ha conseguenze sull’umanità
posteriore; afferma che alcuni di quegli uomini mantengono la ‘conoscenza
naturale’ e per questo vivono più a lungo degli altri; di fronte al fatto che
anche loro muoiono, suggerisce che ciò avvenga per una non meglio preci-
sata ‘dilazione’ dell’imputazione. Ma, se i giusti non peccano, non c’è nulla
da imputare e non serve alcuna dilazione. Se invece una dilazione c’è, allo-
ra anche i giusti peccano e perciò, seppur alla fine di una vita molto lunga,
muoiono anch’essi come i peccatori. Non è possibile sapere interpretazione
sposi Pelagio, ma ciò che scrive è comunque incoerente. A meno che, però
questo non lo si legge né qui né nei passi precedenti, la morte dei giusti se-
gua non dal peccato, che in essi non c’è perché ‘non era riconosciuto come
tale’, ma dalla loro natura umana. Se così fosse, ma, lo ripetiamo, non lo si
è letto, allora la morte sarebbe sopraggiunta comunque: la giustizia di alcu-
ni l’ha ‘dilazionata’ più o meno a lungo, ma non eliminata.
Anche questa soluzione però ha vita breve; altrove infatti Pelagio scrive:
«(1Cor 15,26) “L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte”. Il dia-
volo, che nell’Apocalisse è detto ‘peccato’ e ‘morte’ perché è autore della
22
morte e del peccato» .
Se la morte è il diavolo o, come è meglio dire, frutto dell’azione del dia-
volo, allora non fa parte della natura umana così come l’ha creata Dio. Cer-
to Ambrogio, Agostino e gli altri Padri approverebbero, ma è conclusione
che implica l’universalità delle conseguenze della caduta di Adamo, ciò che
Pelagio non è assolutamente disposto ad ammettere, a costo di arrampicarsi
sugli specchi come lo abbiamo visto fare a proposito dei Patriarchi. Il risul-
tato complessivo è una visione della morte tutto sommato incoerente, inte-
23
stardita nel negare ma incapace di spiegare .
_____________________________
22
PELAGIO, Expositio in prima Corinthiois, 15, 26 (PLsuppl 1, 586; CTP 221, 261).
23
Questa incoerenza è talvolta aggravata dalla situazione testuale. P.es., nel commento
a Rm 9, 16, “Dunque (il buon esito) non dipende né da chi vuole né da chi si sforza,
ma da Dio che usa misericordia” (CTP 221, 139), Pelagio afferma che qui Paolo non
nega ma domanda (? forse perché legge un testo che, come riporta anche CTP, chiu-
de con un punto interrogativo?). Ma uno dei due codici alla base del testo aggiunge
una seconda interpretazione, per la quale ‘Dio usa misericordia’ vuol dire ‘Dio offre
il suo aiuto’, mentre l’altro ne inserisce una terza a commento di quella riportata e la
pone in bocca a ‘Giudei’. La confusione giunge al culmine se si consulta il commen-
to a 1Cor 2,6 “Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma è Dio che ha fatto crescere”, do-
ve Pelagio scrive (Expositio in prima Corinthiois, 2, 6; CTP 221, 197ss): «Non di-
pende da noi ma è un dono di Dio che, tramite le mie mani, avvenissero prodigi che
vi spingessero alla fede e che Apollo vi rafforzasse con il suo insegnamento; perché,
come la pianta langue senza l’acqua, così la fede senza insegnamento. Se pertanto la
(segue)

272
Le altre menzioni della morte non mutano questo qudro generale; sicco-
me poi l’Epistola a Demetriade ha tutt’altri intenti ed il Libellus fidei non si
addentra in questioni così di dettaglio, la ricognizione negli scritti autentici
di Pelagio si chiude qui. Vediamo ora come la pensano i suoi discepoli.
* * *
In effetti è bene distinguere le idee di Pelagio da quelle dei discepoli: nel
Concilio di Cartagine del 411 si accusa Celestio, non Pelagio, in quello di
Diospoli (415) sono entrambi imputati ma Pelagio è assolto. Poiché si tratta
di sentenze decisive, e dato che l’altro famoso discepolo di Pelagio, Giulia-
no d’Eclano, entra in scena più tardi, iniziamo la ricognizione da Celestio.
Celestio, giurista romano, è discepolo di Pelagio fin dai primi tempi, e lo
segue in Africa dopo il sacco di Roma del 410; a differenza di lui però è in-
cline alla polemica. Delle sue opere purtroppo sono rimasti solo frammenti,
proposizioni estratte da non si sa bene da quali scritti. Fa eccezione il Libel-
lus fidei, che Celestio invia a papa Zosimo nel 417, nel quale nega il pecca-
to originale originato ma tace su molte questioni cruciali, tra le quali anche
24
quella sulla morte e la sua relazione con la natura umana .
Con tutti i limiti che comporta disporre solo di questo poco e povero ma-
teriale, siamo comunque in grado di fare qualche passo in avanti. Agostino,
infatti, riferendo nel De gestis Pelagii al vescovo Aurelio di Cartagine lo
svolgimento del Sinodo di Diospoli, riporta una serie di tesi già condannate
nel 411 a Cartagine ma riproposte in Palestina. Scrive dunque Agostino:
«Ecco le affermazioni che successivamente furono rimproverate a Pelagio e
che si dicono rinvenute nella dottrina del suo discepolo Celestio:
1 - “Adamo fu creato mortale e sarebbe morto, sia che peccasse, sia che non
peccasse”.
______________________________
piantagione e la fonte appartengono a Dio, perché li ascrivete a noi, come se avessi-
mo fatto qualcosa con le nostre forze?» Questo è un bell’esempio di Pelagio... antipe-
lagiano! Però tutt’altro che raro, cf. p.es. PELAGIO, Expositio in Romanos, 8, 23 (CTP
221, 115s), e prima ancora i commenti a Rm 3,21.24; 5,1.17; 6,23, o, dopo, quelli a
Gal 1,3 ed Ef 1,11. Si può supporre che nel 405-409 Pelagio sia meno rigido di quan-
to diverrà in seguito e soprattutto dei suoi discepoli: in effetti AGOSTINO, De gestis
Pelagii, 14,37-16,39 (CSEL 62, 93ss; NBA 17/2, 81ss), riporta la testimonianza in
tal senso di Giovanni di Gerusalemme a Diospoli. Però riporta anche le affermazioni
contrarie di Pelagio, che quindi si contraddice. In ogni caso niente del genere si può
dire riguardo alla morte ed alla sua relazione con la natura umana.
24
Cf. CELESTIO, Libellus fidei, n.19 (PL 48, 503). Nell’ed. della Patrologia il Libellus
di Celestio è posto in parallelo con quello di Pelagio, ed emergono due differenze si-
gnificative: 1 - l’omissione del n.19 nel Libellus di Pelagio e 2 - la presenza in questo
(ma non in quello di Celestio) di una protesta di sottomissione che, alla luce del suo
comportamento successivo, non possiamo ritenere solo formale.

273
2 - “Il peccato di Adamo danneggiò lui soltanto e non il genere umano”.
3 - “La Legge conduce al regno nella stessa maniera del Vangelo”.
4 - “Prima della venuta del Cristo ci furono uomini senza peccato”.
5 - “I neonati si trovano nel medesimo stato in cui era Adamo prima della
sua prevaricazione”.
6 - “Né per la morte, né per la prevaricazione di Adamo muore tutto il gene-
re umano; né per la risurrezione del Cristo risorge tutto il genere umano”.
Queste affermazioni furono obiettate come già udite e condannate a Carta-
25
gine dalla tua santità e da altri vescovi assieme a te» .
Chiaramente la prima, la seconda e l’ultima proposizione ci interessano.
La seconda, pur costituendo la base teorica della sesta, è però meno legata
ai nostri scopi delle altre due, ragion per cui l’accantoniamo. La prima è in-
vece molto netta nel porre la morte come un dato di creazione e quindi par-
te della natura umana antelapsaria: morire è un evento tutto ‘naturale’. La
sesta, se si trascura l’accenno alla resurrezione, trae le conseguenze di quel
che affermano la prima e la seconda proposizione: se morire è ‘naturale’ ed
il peccato di Adamo è solo affar suo, allora l’umanità posteriore muore per-
ché è insito nella sua ‘natura’. Sulla paura della morte non una parola.
Non abbiamo letto niente del genere negli scritti di Pelagio, ed in verità
neanche nulla che permetta di giungere a queste conclusioni, il che giustifi-
ca sia il separare Pelagio dai suoi adepti, sia quel che egli replica:
«A queste obiezioni, come attestano gli Atti, Pelagio rispose così:
“Della possibilità dell’uomo d’esser senza peccato è stato detto sopra. Della
esistenza di uomini senza peccato prima della venuta del Signore, anche noi
diciamo che prima dell’avvento del Cristo certuni vissero in santità e giusti-
zia, secondo la tradizione delle Scritture sante. Quanto alle altre affermazio-
ni, anche secondo la testimonianza di costoro, non sono state fatte da me e
di esse non mi devo giustificare, ma, ciò nonostante, per la tranquillità del
santo Sinodo anatematizzo coloro che ritengono o che hanno ritenuto così”.
Dopo questa sua risposta il Sinodo disse:
“Relativamente alle suddette imputazioni il qui presente Pelagio ha dato suf-
ficiente e retta soddisfazione, anatematizzando quelle che non erano sue”.
Noi dunque costatiamo e riteniamo che non solo da Pelagio, ma anche dai
santi vescovi che presiedevano a quel giudizio furono condannati gli errori
perniciosissimi di questa eresia. Eccoli:
a - “Adamo fu creato mortale”, e per spiegarne meglio il senso fu aggiunto:
“Egli sarebbe morto, sia che peccasse, sia che non peccasse”.
b - “Il peccato di Adamo danneggiò lui soltanto e non il genere umano”.
c - “La Legge conduce al regno nella stessa maniera del Vangelo”.
d - “I neonati si trovano nel medesimo stato in cui era Adamo prima della
sua prevaricazione”.
e - “Né per la morte, né per la prevaricazione di Adamo muore tutto il gene-
_____________________________
25
AGOSTINO, De gestis Pelagii, 11, 23 (CSEL 62, 76s; NBA 17/2, 59).

274
re umano; né per la risurrezione del Cristo risorge tutto il genere umano”.
f - “I bambini, anche se non sono battezzati, hanno la vita eterna”.
g - “Ai ricchi dopo il battesimo, se non rinunziano a tutto, non giova a nulla
il bene che sembra a loro di fare e non possono ricevere il regno di Dio”.
Tutti questi errori risultano condannati da quel tribunale ecclesiastico per gli
26
interventi verbali dei vescovi e per l’anatema di Pelagio» .
La lista delle proposizioni condannate non coincide con la lista di quelle
imputate: da questa infatti manca la 4 (“Prima della venuta del Cristo ci fu-
rono uomini senza peccato”), quella invece ne aggiunge due (la ‘f’ e la ‘g’).
Ma sono varianti senza peso per la nostra ricerca. Più interessante, dal pun-
to di vista storico-critico, è riuscire a capire se davvero Celestio è più pela-
giano di Pelagio o solo più ingenuo, se questi è stato coinvolto senza colpa
o invece rinnega il discepolo nel momento del pericolo. Ma dal punto di vi-
sta dogmatico non è rilevante chi sostiene una certa tesi, e neppure se l’ha
mai davvero sostenuta. Quel che conta è ciò che la tesi afferma, ed a questo
riguardo le cose sono ben chiare: il Sinodo di Diospoli (415) condanna la
tesi che la morte faccia parte della natura umana così come creata da Dio e,
di conseguenza, che morire sia un evento ‘naturale’. È bene prenderne nota,
perché per molti nostri fratelli oggi questo è pacifico, mentre è falso, e lo si
sa ufficialmente almeno dal 415, se non dal 411. Che poi sia idea di Cele-
stio o di Pelagio, di entrambi o di nessun dei due, non è rilevante: non è per
questo che sono condannate, ma perché distorcono il depositum fidei.
La condanna di Diospoli è confermata da papa Innocenzo I, dal Concilio
di Cartagine del 418 e dall’Epistula Tractoria di papa Zosimo. Stavolta in-
sieme a Celestio è scomunicato anche Pelagio, ma questo non chiude la vi-
cenda: Giuliano d’Eclano impugna la Tractoria che, insieme ad altri 18 ve-
scovi, rifiuta di sottoscrivere, ed attacca frontalmente Agostino.
Purtroppo delle opere di Giuliano abbiamo solo le parti che Agostino ri-
porta per confutarne le tesi; per fortuna di tratta di passi ampi, che permet-
tono di farci un’idea abbastanza precisa delle sue opinioni. Quel che stiamo
per leggere è un brano tratto dalla seconda delle due repliche dell’Ipponate
alle opinioni di Giuliano (Contra Iulianum opus imperfectum; 426 d.C.):
«Poiché infatti (Dio) aveva prima menzionato i dolori, i lavori, i sudori, dei
quali la natura aveva ricevuto l’esperienza e la persona l’eccedenza, perché
non sembrasse che ciò si sarebbe esteso in eterno, l’indicazione del termine
mitiga la tristezza, come se dicesse: ‘Non sempre però patirai cotesti mali,
ma (Gen 3,19) “finché ritornerai alla terra dalla quale sei stato preso, perché
- dice - sei terra e andrai nella terra”. Per quale ragione dopo aver detto:
“Finché ritornerai alla terra dalla quale sei stato preso”, non soggiunse: ‘Per-

_____________________________
26
AGOSTINO, De gestis Pelagii, 11, 24 (CSEL 62, 77s; NBA 17/2, 59ss).

275
ché hai peccato e hai trasgredito i miei precetti’? Questo infatti si doveva di-
re, se la dissoluzione dei corpi apparteneva ai crimini. Che cosa disse inve-
ce? “Perché sei terra - disse - e andrai nella terra”. La causa per cui sarebbe
ritornato alla terra la indica con le parole: “Perché sei terra”. Se dunque que-
sta disse Dio essere la ragione di ritornare alla terra, perché l’uomo era stato
assunto dalla terra, e se d’altra parte non poté riferirsi ad una iniquità il fatto
che l’uomo fosse assunto dalla terra, senza dubbio la causa per cui l’uomo,
il quale non era eterno, si dissolvesse nella sua parte corporale, non fu una
sua iniquità, ma fu la sua natura mortale. Dunque quella sterilità degli alberi,
quella ubertosità delle spine, quella calamità maggiorata di un parto doloro-
27
so, furono inferte alle persone umane, non al genere umano» .
Questo passo ben riassume le posizioni pelagiane riguardo al rapporto tra
natura umana, peccato originale e morte. Sin dalla creazione, afferma Giu-
liano, la natura umana vive nel dolore, Adamo lavora con fatica ed Eva par-
torisce con sofferenza; anche la morte rientra in questa natura originaria. Il
peccato di Adamo ed Eva, che è solo una colpa personale, non ha e non può
avere alcuna ricaduta sul genere umano, che ancora non esiste. In realtà tale
caduta ha avuto solo l’effetto di inasprire lo status iniziale: la fatica del la-
voro aumenta, i dolori subìti anche, e si accentuano pure le doglie del parto.
Quanto alla morte, non esistendo una caduta cui imputarla, è solo il natura-
le ritorno del corpo alla fonte dalla quale proviene, la terra: Adamo ed Eva
sarebbero morti anche se fossero rimasti nel giardino dell’Eden e così, pa-
radossalmente, il solo aspetto a non peggiorare dopo la caduta è proprio la
mortalità. Celestius docet. Anche qui, non una parola sulla paura della mor-
te, che quindi possiamo considerare come questione estranea alla querelle,
almeno a parte pelagianorum.
Non c’è bisogno di mostrare che la ricostruzione dello status antelapsa-
rio fatta da Giuliano è ben lontana da quel che si legge nella Scrittura: non
a torto l’Ipponate, nella replica, lo chiama ‘nemico del paradiso’. Per con-
futare questa distorsione Agostino deve accentuare ruolo e conseguenze del
peccato originale, e questo determina un’ulteriore, opposta distorsione della
originaria armonia della dottrina. Qui, all’idea giulianea di una natura ante-
lapsaria sofferente e mortale Agostino opporrà quella di una umanità felice
ed immortale, anche se pochi anni prima (Enchiridion, 421) lo abbiamo let-
to affermare che che è insieme mortale ed immortale. Ma non lo fa solo per
rintuzzare le tesi di Giuliano o perché Ambrogio, sull’esempio dell’oratio
_____________________________
27
AGOSTINO, Contra Iulianum op. imp., VI, 27 (PL 45, 1352; NBA 19/2, 1161). Per un
quadro storico-dogmatico sulla questione del peccato originale in prospettiva diversa
dal solito cf. A.ARA, All’incrocio tra teologia e spiritualità: il caso del peccato ori-
ginale. Note di antropologia fondamentale e spiritualità fondamentale nell’ambito di
una Teologia Fondamentale, Beau Bassin 2017.

276
38 di Gregorio Nazianzeno, gli insegna che la morte è un bonum donato da
28
Dio per limitare il peccato . Lo scrive soprattutto perché sa che il suo Dio
non fa il male. E questo l’ha imparato non leggendo libri ma sulla sua stes-
29
sa pelle; la Scrittura glielo ha semplicemente confermato .
Ma quel che appare più chiaramente di altro, dal passo di Giuliano, è che
ormai il pelagianesimo ha perso la sua verve propositiva. Giuliano amplifi-
ca, commenta, glossa ma non innova: de facto quel che scrive non va oltre
le tesi di Celestio. Neanche riguardo alla paura della morte, che continua a
non figurare da nessuna parte. Conviene dunque abbandonare gli scritti pe-
lagiani sulla morte ed indagare quel che ne pensa Agostino.

9.3. Agostino e la querelle pelagiana:


la messa a punto della catholica

Come si è già detto all’inizio del capitolo sesto, alcuni studiosi ritengono
che la controversia pelagiana abbia fatto cambiare idea ad Agostino riguar-
do alla (paura della) morte: se prima era in linea con il courant théologique,
la querelle spingerebbe l’Ipponate su posizioni più negative. Ora, polemiz-
zare significa sbilanciare la retta proporzione tra gli argomenti in direzione
opposta a quella che si vuol neutralizzare: non è quindi il contesto ottimale
per farsi un’idea equilibrata della reale opinione di qualcuno. Inoltre, alcuni
passi di quel periodo conservano innegabili e forti sintonie con testi addirit-
tura di vent’anni prima, quindi l’ipotesi finisce con l’insinuare non un cam-
bio di idee ma un’incoerenza nel pensiero dell’Ipponate. Il dato più interes-
sante è però che nessun pelagiano parla della paura della morte. Della mor-
te sì, ma della paura della morte no; e sappiamo che non sono due facce di
una sola medaglia. Ma potrebbe essere che, pur parlando di una, ad Agosti-
no capiti di dire qualcosa anche dell’altra, e questo qualcosa sia diverso da
ciò che diceva prima. Bisogna dunque consultare i testi coinvolti nella con-
troversia pelagiana, anche se non sempre di facile comprensione.
Ad esempio, replicando alle lettere che Giuliano d’Eclano e altri vescovi
siciliani indirizzano a papa Bonifacio per spiegare perché non hanno ratifi-
_____________________________
28
Cf. GREGORIO DI NAZIANZO, Orationes, or.38, 12 (SCh 358, 134; Sani-Vincelli,
891): «Anche in questo caso (Adamo) guadagnò qualcosa, vale a dire la morte ed il
fatto che pose un termine al suo peccato, affinchè il male non fosse immortale: così
la punizione di Dio divenne un atto d’amore per l’uomo (philanthrôpia). Infatti sono
convinto che questo è il modo in cui Dio punisce».
29
Su questo ruolo della Scrittura, fondamentale nelle dinamiche della vita spirituale, cf.
p.es. ARA, Scrivi in un libro, op. cit., 27-32.

277
cato la lettera Tractoria di papa Zosimo (Contra duas litteras pelagiano-
rum), Agostino scrive (420 d.C.):
«Certamente i pelagiani non hanno come avversari i manichei nel dire: “At-
traverso Adamo è passata a noi la morte e non sono passati i peccati”, per-
ché nemmeno i manichei sostengono l’esistenza del peccato originale come
un peccato che sia passato e passi in tutti gli uomini insieme con la morte
dal primo uomo, puro e retto all’inizio nel corpo e nello spirito e poi depra-
vato a causa del libero arbitrio.
Quanto alla carne (infatti) i manichei dicono che all’inizio fu tratta per crea-
zione da un corpo cattivo per opera di uno spirito cattivo e unita con uno
spirito cattivo; l’anima invece, buona perché particella di Dio, dicono che
viene nell’uomo secondo i meriti del suo inquinamento contratto attraverso
le vivande e le bevande alle quali è stata avvinta antecedentemente, e così
mediante la copula è avvinta ancora dal vincolo della carne. E per questo i
manichei concordano con i pelagiani nel dire che il peccato del primo uomo
non è passato nel genere umano, né per mezzo della carne che secondo loro
non è mai stata buona né per mezzo dell’anima che fanno venire nella carne
dell'uomo con i meriti dei suoi inquinamenti già contratti da lei prima che
fosse nella carne.
Ma come fanno i pelagiani a dire: “Solo la morte è passata a noi attraverso
Adamo”? Se per questo infatti noi moriamo, perché egli morì, e se egli morì
perché peccò, allora vengono a dire che passa la pena senza la colpa e che
gli innocenti bambini sono puniti con un castigo ingiusto, contraendo la
morte senza i meriti della morte. Il che la fede cattolica lo sa dell’unico e so-
lo Mediatore tra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù (cf. 1Tim 2,5), il qua-
le si è degnato di subire la morte per noi, cioè la pena del peccato, senza il
peccato. Come infatti egli solo fu fatto figlio dell’uomo proprio perché noi
fossimo fatti per mezzo di lui figli di Dio, così egli solo prese per noi la pe-
na senza meriti cattivi, perché noi senza meriti buoni conseguissimo per
mezzo di lui la grazia. Come a noi infatti non era dovuto nessun bene, così a
lui non era dovuto nessun male. Per mostrare dunque il suo amore verso co-
loro ai quali era disposto a dare una vita non dovuta ha voluto patire per loro
una morte non dovuta. Questa singolare prerogativa del Mediatore i pela-
giani tentano di svuotarla, di modo che, atteso che Adamo patì a causa della
colpa una morte dovuta, essa non sia più un’eccezione unica nel Signore ma
(anche) i bambini patiscano una morte non dovuta, non contraendo essi da
lui nessuna colpa. Benché infatti ai buoni si conferisca attraverso la morte
moltissimo bene, tanto che alcuni hanno opportunamente disquisito pure
sulla bontà della morte (de bono mortis disputaverunt), tuttavia, anche per il
fatto che la pena del peccato viene convertita a buoni risultati, che altro si
30
deve esaltare se non la misericordia di Dio?»
Come si vede, il passo non è lineare; la fatica del seguire il ragionamento
_____________________________
30
AGOSTINO, Contra duas litteras pelagianorum, IV, 4, 6 (CSEL 60, 526; NBA 18,
339ss, con lievi ritocchi di stile).

278
tenta il lettore a cercare ‘scorciatoie’ semplificatrici che però spesso distor-
cono. Diventa così necessario parafrasare il testo. Nel primo paragrafo, in
modo contorto, Agostino espone il depositum fidei riguardo al peccato ori-
ginale, e dice che i pelagiani hanno come compagni i manichei, la dottrina
dei quali illustra nel secondo paragrafo. La sua descrizione non differisce in
niente da quel che si legge nei Padri precedenti, ma è bene constatare tale
sintonia nei testi. Iniziamo dunque da quel che scrive Ambrogio, al quale lo
stesso Agostino rinvia alla fine del passo. Ecco un inciso a noi già noto:
«La morte non esiste in natura, ma è come trasformata in natura: in princi-
31
pio infatti Dio non istituì la morte ma la diede come rimedio» .
In Origene questa ‘trasformazione in una quasi-natura’ descrive il pecca-
to del demonio, quindi non solo è negativa ma traduce bene ciò che Agosti-
no intende qui con ‘spirito depravato dal libero arbitrio’ (altra possibile de-
32
scrizione del demonio) . Ed Agostino ben conosce Origene.
Nel secondo paragrafo l’Ipponate descrive rapidamente l’opinione mani-
chea e ne mostra la vicinanza alle tesi pelagiane e di questi, aggiungiamo, a
certi aspetti discutibili della dottrina di Origene (la caduta delle anime pree-
sistenti), anche se l’Adamantino non ha mai negato l’universalità delle con-
seguenze della colpa di Adamo. In verità però l’accostamento tra manichei
e pelagiani è forzato, dato che l’identico rifiuto di una colpa originale nasce
in, è spiegato da ed è inserito in contesti metafisici e protologici distanti.
Ma il paragrafo per noi più interessante è il terzo.
_____________________________
31
AMBROGIO, De excessu fratris, II, 47 (SAEMO 18, 101, rivista; trad. nostra). Si è ri-
portato tutto il passo al cap.7, punto 7.1.
32
Cf. ORIGENE, Commentarium in Iohannis evangelium, XXI, 174 (SCh 290, 242; trad.
nostra): «Forse qualcuno si offenderà se (si dice) che l’Anticristo è la menzogna, se
nella sua ipostasi non foss’altro che menzogna (cioè non-essere; ossia: qualcuno si
offenderebbe se dicessimo che l’Anticristo è per natura qualcosa che propriamente
non è, come la menzogna, perché sarebbe come dire che l’Anticristo non è). Ma ri-
cordando a costui quanto è detto (Ez 28,29): “Tu sei divenuto perdizione e non sussi-
sterai (ypárxeis) per l’eternità”, che si trova in Ezechiele riferita ad un personaggio
che, per la sua perversione, è stato trasformato al punto da divenire perdizione, per
similitudine tu spiegherai sia la possibilità d’essere menzogna, ma non nella ipostasi
creata, sia l’essere (divenuto tale) a causa di un mutamento e di una libera scelta e di
essere stato in tal maniera ‘naturificato’, per dirla in maniera nuova». Il passo non è
lineare, quindi vediamo di scioglierlo. Origene intende dire che una creatura è libera
di decidere di pervertirsi e di ostinarsi in tale decisione. Dio rispetta la scelta del suo
libero arbitrio e così questa diventa per lui come una seconda natura. A rigori la per-
versione non esiste, perché è solo privatio boni, ma al momento in cui diventa la
seconda natura della creatura finisce con l’esistere anch’essa, perché quella esiste
nella sua prima natura, creata da Dio.

279
In primis si ponga attenzione all’ultimo periodo: Agostino non nega af-
fatto che la morte sia un bene per i giusti né sostiene che esageri e tantome-
no sbagli chi in tal senso ha disputato De bono mortis (vale a dire Ambro-
gio). Se Agostino lo avesse fatto, a Giuliano sarebbe stato facile confutarlo,
data la diffusione del De bono mortis in Italia, ed anche molto utile, vista la
posta in gioco. Ma non fu sollevata nessuna contestazione del genere, quin-
di chi suppone uno iato tra Ambrogio ed Agostino è più abile di Giuliano.
Ma se ricordiamo che tra un anno appena, nell’Enchiridion del 421, Agosti-
no riprende addirittura Teofilo d’Antiochia, è chiaro che non c’è frattura.
In secundis, è bene rilevare che la descrizione dell’unicità della morte di
Cristo è una parafrasi del De excessu fratris, II, 46s, di Ambrogio (378), il
cui nocciolo teorico ricorre nel De bono mortis, 4, 15 (390): Cristo muore
perché, facendosi uomo come noi, sceglie liberamente di sopportare questa
33
conseguenza del peccato pur essendo senza peccato .
_____________________________
33
Stupisce l’esegesi che REBILLARD, Hora mortis, op. cit., 14, offre di AMBROGIO, De
bono mortis, 4, 15: «Passus est igitur dominus subintrare mortem, ut culpa cessaret»,
che traduce con «Le Signeur voulut bien souffrir que la mort se glissât dans l’univers
pour que la faute cessât», ampliando un pò, ma che poi commenta (ivi): «L’emploi
du verbe pati reflète l’ambiguïte de la position adoptée par Ambroise: Dieu semble
s’être laissé imposer la mort. Ambroise doit de fait concilier deux prémisses a priori
peu compatibles, comme il le fait remarquer lui-même dans le second traité du De
excessu fratris (segue De excessu fratris, II, 47, sopra riportato). Les deux prémisses
à concilier sont les suivantes: d’une part, la mort est un bien auquel les justes aspi-
rent; d’autre part, la mort n’est pas naturelle (Dieu n’en est pas l’auteur), mais appa-
raît après la faute». Segue il testo della prosecuzione di De excessu fratris, II, 47,
prima riportato, dove Ambrogio spiega in che senso la morte sia un rimedio, in ac-
cordo con Teofilo d’Antiochia. Non si capisce 1 - da dove venga quel ‘lasciarsi im-
porre’ e 2 - in cosa e perché il De bono mortis sia ambiguo; Ambrogio ci pare invece
molto chiaro: poiché nostro Signore non vuole che Adamo viva nel peccato in eterno,
gli dona la morte; e poiché non vuole che i suoi discendenti restino nella sua colpa,
sceglie di morire anch’Egli, addossandosela e quindi annullandola in Se stesso. Non
vi è alcuna ambiguità e sono le stesse cose che Agostino scrive nel 420. Ma Rebillard
deve provare l’assunto a priori che i due stanno su sponde diverse, quindi introduce
quel ‘lasciarsi imporre’ (cioè fa dire ad Ambrogio che qualcuno può imporre qualco-
sa a Dio), parla di ‘ambiguità’ e ‘contraddizioni’ per poi ammettere che tali non sono
(15): «La mort, sans être nécessaire dans l’économie de la Création, devient indi-
spensable par la faute de l’homme. La seule conclusion possible est que la mort est
un remède que Dieu, dans sa miséricorde, a donné à l’homme pour ne pas le condam-
ner à une vie de péchés éternelle». Rebillard dimentica di dire che anche AGOSTINO,
Contra duas litteras pelagianorum, IV, 4, 6, afferma lo stesso, riportando questo pas-
so altrove (41, n.83, solo in latino) e senza il rinvio ad Ambrogio. Queste note sono
pedanti ma mostrano la perniciosità di queste esegesi ‘a tema’: si parte da un assunto
e lo si dimostra ad ogni costo. Senza contare che per un teologo (ma Rebillard non
afferma di esserlo) opporre un Padre ad un altro non è mai buona teologia.

280
In tertiis, si faccia caso all’argomento della morte dei bambini innocenti:
per i pelagiani prova che la morte è per natura e non conseguenza del pec-
cato (che nei piccoli non c’è), per Agostino conferma il dato biblico, per il
quale un solo uomo è senza peccato per natura, l’uomo-Dio Gesù Cristo.
Come per il concetto di ‘massa dannata’, anche qui Agostino non parte dal-
la esegesi a priori di Gen 3,19, ma da Cristo: come dalla universalità della
redenzione si deduce l’anteriore universalità della caduta, così dalla unicità
della Sua impeccantia si deduce l’universalità del peccato degli altri uomi-
ni. In questo contesto, la morte indica la ‘infezione’ della natura umana allo
stesso modo in cui assumere le medicine indica l’essere malati: è un bene,
ma solo in quanto limite alla possibilità di peccare. E nel 420 questo Ago-
stino lo legge ovunque, in Ambrogio, in Ireneo, in Teofilo, in Gregorio di
Nazianzo. La morte dei bambini è però questione psicologicamente e spiri-
tualmente delicata, ragion per cui le dedicheremo l’intero capitolo 14.
L’ultimo elemento da evidenziare non si legge nel passo del Contra duas
litteras ma dall’insieme dei rinvii che Agostino fa nell’opera: oltre alle 166
citazioni bibliche ve ne sono 25 da sei scritti di Cipriano di Cartagine, delle
quali 4 dal De mortalitate, e 17 da ben nove opere di Ambrogio, tra le quali
2 dal De bono mortis. Non vi sono altre auctoritates patristiche nel Contra
duas litteras pelagianorum, i Padri sono menzionati per nome, le citazioni
consistono in ampi brani ed occupano l’intera seconda metà del quarto libro
34
(quindici pagine dell’edizione critica ). Conosciamo poi le posizioni di Ci-
priano ed Ambrogio: non è corretto perciò affermare che tra Agostino e lo-
ro vi sia qualche divergenza se non quelle dovute alla accentuazione richie-
sta dalla diversità di contesto.
Ottimo esempio della necessità di tener conto di questa diversità lo si ha
leggendo la replica agostiniana alla descrizione dell’Eden fatta da Giuliano
d’Eclano nel passo riportato nel punto precedente. Dal suo Contra Iulianum
opus imperfectum (426) infatti emerge chiaramente che l’Ipponate né ha bi-
sogno di mutare la sua idea di ‘natura umana’ per respingere le osservazio-
ni di Giuliano né in effetti l’ha mai fatto. Poiché però la cosa non è imme-
diata, conviene andare per gradi. Ecco dunque l’incipit della replica:
«Evidentemente non ottiene nulla la tua tanto diuturna e operosissima di-
scussione sulla pena del primo uomo se non che, dopo aver attenuato questa
punizione, sia attenuata anche la stessa colpa che fu condannata con questa
punizione. E tu lo fai a causa delle parole che ti sei proposto di confutare dal
mio libro, al quale stai rispondendo. Ivi ho detto: “Quel peccato dunque che
nel paradiso mutò in peggio l’uomo stesso, poiché è ben più grande di quan-
_____________________________
34
Cf. AGOSTINO, Contra duas litteras pelagianorum, IV, 8,21-12,32 (CSEL 60, 543-
568; NBA 18, 365-395).

281
35
to possiamo giudicare noi, è contratto da ogni nascente” . Perché dunque
non sembri un peccato (così) grande da aver potuto la natura per esso mutar-
si in peggio, tu sostieni che è leggero e quasi nullo il castigo che meritò.
Da qui viene che la maledizione della terra nelle opere del prevaricatore tu
la distorci secondo la pravità del tuo dogma: da qui viene che delle spine e
dei triboli asserisci fatta la istituzione anche prima che l’uomo peccasse,
benché Dio non li nomini tra le sue primordiali istituzioni, ma li commini
nella punizione del peccatore; da qui viene che il sudore del lavoro, perché
sembrasse non abbastanza pertinente alla pena, lo hai detto anche un giova-
mento naturale, volto cioè a ricreare con il sudore le membra di coloro che
lavorano, come se dicendo quelle parole Dio non irrogasse una pena per il
peccato ma desse per giunta un premio. Sebbene diremmo giustamente que-
sto, se tu lodassi il sudore della fatica così da dirla istituita allora.
Ma affermi ora che, anche prima del peccato, l’uomo fu collocato nel para-
diso in condizione da non essere senza fatica nel lavorare la terra, quasi che
non potesse quella fermezza del corpo e quella assenza di ogni infermità
compiere, non solo senza fatica ma anche con la voluttà dell’animo, un la-
voro che poteva dilettare l’uomo. Ma per quale ragione tu lo abbia detto non
lo hai potuto occultare. Parli appunto apertissimamente quando aggiungi:
“Quale novità diciamo che sia accaduta, se sentiva il sudore chi sperimenta-
va la fatica del lavoro?”
Ma è proprio vero che ti è piaciuto così tanto introdurre nel luogo quietissi-
mo dei beati non solo le tristezze del parto delle donne, ma anche il sudore
della fatica degli uomini, da dire che, condannando Dio l’uomo, non succes-
se nulla di nuovo all’uomo condannato?
Ma è proprio vero che tu schernisca e disprezzi così tanto la severità di Dio
da asserire donato naturaliter ciò che egli irrogò penaliter? Se dici che “nul-
la di nuovo accadde” all’uomo al quale Dio intimò: “Con il sudore del tuo
volto mangerai il tuo pane”, nega che Dio abbia detto questo nell'atto di
condannare l’uomo. Dirai forse: sì, Dio condannò con queste parole l’uomo,
ma all’uomo non accadde per questo nulla di nuovo? Dunque Dio condannò
l’uomo, ma l’uomo non fu condannato? Andò a vuoto l’impeto della vendet-
ta, come se Dio abbia scagliato il dardo e non abbia potuto ferire l’uomo che
volle ferire? Anzi tu dici: Fu condannato e non gli capitò nulla di nuovo!
Qui è difficile trattenere il riso.
Se infatti fu condannato e non gli capitò nulla di nuovo, soleva dunque esse-
re condannato e perciò soleva anche peccare: infatti non sarebbe stato con-
dannato ingiustamente. O, poiché nessuno dubita che sia stato quello il pri-
mo peccato di Adamo, soleva forse prima di allora essere condannato ingiu-
stamente? Tu infatti non hai confessato che all’uomo, come hai detto della
partoriente, successe almeno questo di nuovo: gli fu accresciuto il sudore
della fatica, così come alla donna il dolore del parto. In questo modo infatti,
con questa addizione che prima non ci fu, concederesti che all’uomo sia ac-
caduto qualcosa di nuovo. Ma quando dici: “Che cosa gli successe di nuo-
_____________________________
35
Cf. AGOSTINO, De nuptiis et concupiscentia, I, 23, 26 (CSEL 42/2, 238s; NBA 18,
58; rivista).

282
vo?”, parlando di uno che tuttavia riconosci essere stato condannato, cosa
altro affermi se non che soleva essere condannato così? O se non diciamo
solito ad accadere se non ciò che conosciamo accaduto frequentemente, è
certo necessario che tu conceda che almeno una volta sia stato precedente-
mente condannato così l’uomo a cui asserisci che non accadde nulla di nuo-
vo con l’esser condannato così. Dove tu vedi in quali precipizi ti sia spinto.
Ritorna dunque indietro dal precipizio della tua laboriosa discussione e non
voler introdurre le fatiche e i dolori nelle sedi dei felici gaudi e nel luogo
36
della quiete ineffabile» .
Alle nostre orecchie questa prosa non è delle più lineari; si è preferito
non correggerla perché i nostri venticinque lettori potessero gustare in parte
la retorica della tarda latinità ma, a parte questa difficoltà, il senso del passo
è chiarissimo: per sminuire la gravità del peccato originale Giuliano sceglie
di sminuire le conseguenze, nell’assunto che conseguenze lievi non posso-
no che seguire a colpe lievi. Ora, a parte il fatto che tale assunto è opinabile
(si possono punire lievemente anche colpe gravi, così come si possono pu-
nire severamente anche colpe lievi), è evidente che da esso seguono conse-
guenze molto serie, per l’appunto quelle elencate da Agostino ma ammesse
apertis verbis anche da Giuliano, e che trasformano il paradiso in qualcosa
di ben diverso da quel che si insegna solitamente, tanto che Agostino poco
dopo chiamerà Giuliano ‘nemico del paradiso’. Ma a noi interessano altre
due note: la prima è che l’Ipponate è sferzante nel negare che della natura
antelapsaria facessero parte sofferenze, fatiche e, ci pare a fortiori, la mor-
te; la seconda è che, nell’incipit, Agostino ammette di aver menzionato un
‘mutamento in peggio’ della natura, introdotto dalla caduta originale.
La prima nota non ha bisogno di commenti e sappiamo già cosa compor-
ta: che la caduta di Adamo ed Eva frutta, a loro ed all’intera umanità, una
deformazione della natura umana così come Dio l’ha creata. Che però que-
sta deformazione possa essere detta a ragione e con precisione terminologi-
ca anche ‘mutamento’, così come afferma Agostino (seconda nota), è cosa
da indagare con maggior attenzione, poiché è il cuore del nostro problema.
Se infatti è vero che la nostra natura di uomini nati dopo il peccato origina-
le è mutata in peggio, allora la paura della morte è del tutto comprensibile,
la dormitio non è più immagine adeguata ad esprimere l’atteggiamento cor-
retto o comunque più accettabile nei confronti di tale ultimo momento ed in
definitiva cade tutta la nostra impostazione spirituale della teologia della
morte. Senza contare, poi, che questo significherebbe porre se non una con-
traddizione almeno un salto teoretico notevole nel pensiero dell’Ipponate, il
che ci pare, a priori, poco probabile o, al limite, da considerare l’extrema

_____________________________
36
AGOSTINO, Contra Iulianum op. imp., VI, 27 (PL 45, 1569s; NBA 19/2, 1163ss).

283
ratio di fronte ad aporie invincibili. Però, prima di porci il problema in que-
sti termini radicali, è necessario compiere diversi passi intermedi.
In primis bisogna appurare se questa idea di ‘mutamento della natura’
appartiene davvero al pensiero di Agostino o se invece non sia un semplice
inciso en passant. Ora, il capitolo citato si chiude così:
«Se (tu, Giuliano) dici: “Qualora nessuno avesse peccato, nel paradiso gli
uomini sarebbero morti senza tormento”, almeno per il fatto che fuori del
paradiso non muore quasi nessuno senza tormento, finalmente, sconfitto e
sconvolto, confessa che la natura umana è stata mutata in peggio dal peccato
37
del primo uomo» .
Agostino ribadisce l’idea di un ‘mutamento in peggio’ della natura uma-
na, idea che perciò non è en passant ma fa davvero parte del suo pensiero;
e non in modo accessorio, poiché figura sia all’inizio che alla fine di un ca-
pitolo lunghissimo nel quale l’Ipponate ‘distrugge’ la concezione giulianea
di natura antelapsaria. Il concetto di ‘natura mutata dal peccato’ perciò in-
clude la protologia agostiniana come la espone in chiave antipelagiana.
Dal punto di vista teoretico e metodologico questo elemento è molto im-
portante: spesso infatti, di fronte a incisi ‘sgradevoli’ come questo, si ricor-
re all’idea che Agostino cada in ‘eccessi verbali’, come se un retore, per di
più della sua abilità, non fosse in grado di controllare il suo stile. A nostro
avviso, ciò è più una mancanza di rispetto per l’Ipponate che non una solu-
zione a difficoltà che, per quanto le si comprenda e condivida, sono però
tutte nostre, non sue. Altra cosa è invece cercare di capire se il senso primo
ed immediato di quel che si è letto è davvero ciò che intende Agostino.
In secundis, bisogna stabilire se l’estensione alla morte di quanto afferma
Agostino è un nostro abuso o rispecchia realmente ciò che lui intende; ed a
questo riguardo, nello stesso capitolo, si legge:
«Che combini poi tentando di mettere dentro al paradiso anche la morte cor-
porale così da dirla promessa o piuttosto indicata al prevaricatore come un
beneficio nelle parole di Dio: “Sei terra e andrai nella terra”, quasi che l’uo-
mo ignorasse di esser stato creato così da esser morituro, sia che peccasse,
sia che non peccasse, e quasi che Dio abbia donato all’uomo questa scienza
quando lo condannò per l’iniquità commessa?
Esaminando appunto queste parole di Dio dove dice (Gen 3,29): “Con il su-
dore del tuo volto mangerai il tuo pane, finché tornerai alla terra dalla quale
sei stato preso; poiché sei terra e andrai nella terra”, tu commenti: “Sicura-
mente questa ultima parte della sentenza, come la sentenza della donna, ser-
ve da notificazione, non da punizione; anzi, come indica il contesto, essa
consola l’uomo. Poiché infatti, - tu prosegui, - aveva menzionato prima i do-
_____________________________
37
AGOSTINO, Contra Iulianum op. imp., VI, 27 (PL 45, 1572; NBA 19/2, 1169ss).

284
lori, i lavori, i sudori, dei quali la natura aveva ricevuto l’esperienza e la
persona l’eccedenza, perché non sembrasse che ciò si sarebbe esteso in eter-
no, l’indicazione di un termine mitiga la tristezza, come se dicesse: Non
sempre però patirai cotesti mali, ma finché ritornerai alla terra dalla quale
sei stato preso; perché ‘sei terra e andrai nella terra’”.
Dicendo queste parole ti sforzi di persuadere che l’uomo fu certamente crea-
to tale che, se anche fosse rimasto nella rettitudine di vita in cui fu creato,
tuttavia, per la necessità della sua natura mortale, un giorno sarebbe morto;
ma ciò non gli fu indicato se non nel momento della sua condanna, perché la
sua punizione, non reputandosi eterna, ricevesse un sollievo dalla promessa
della sua fine. Avrebbe dunque reputato Adamo di non esser morituro, se
non glielo avesse indicato Dio; ma Dio non glielo avrebbe indicato, se non
ci fosse stata la necessità di condannarlo come peccatore. Sarebbe rimasto
dunque in questo errore di credersi eterno o non mai morituro, se per merito
del peccato non fosse giunto alla sapienza con la quale l’uomo conosce se
stesso. Senti o non senti che cosa tu dici?
Prendi un altro punto. Senza dubbio Adamo, non sapendo di essere moritu-
ro, e certamente non lo avrebbe saputo se non avesse peccato, tuttavia, se
non avesse voluto peccare, sarebbe stato beato anche non sapendo di esser
morituro, e pur credendo il contrario della verità non sarebbe stato misero.
Ascolti o non ascolti che cosa tu dici?
Prendi anche un terzo punto. Se durante il periodo della sua giustizia Adamo
credette di non essere morituro nemmeno corporalmente, qualora non aves-
se minimamente violato il precetto di Dio, ma venne a sapere di essere mo-
rituro quando lo violò, noi crediamo ciò che Adamo credeva quando era
giusto, ma voi credete ciò che Adamo non meritò di conoscere se non quan-
do divenne ingiusto. Il nostro errore sta dunque dalla parte della giustizia di
Adamo e la vostra sapienza sta dalla parte della iniquità di Adamo. Capisci
o non capisci che cosa tu dici?
Prendi anche un quarto punto. Se a quell’uomo beato e giusto Dio non indi-
cò la morte futura del suo corpo, ma la indicò a lui quando egli diventò mi-
sero e peccatore, è più congruo credere che Dio abbia voluto affliggere Ada-
mo anche con il timore della morte, giudicandolo evidentemente degno pure
di questo castigo. Come infatti grida la natura stessa, si teme più la morte
delle fatiche: faticano appunto tutti gli uomini per non morire, se ad essi si
propone tale opzione di morire subito se non faticano: ma quanto è raro chi
preferisce morire piuttosto che faticare! Inoltre lo stesso Adamo preferì fati-
care per tanti anni, piuttosto che non faticando e morendo di fame terminare
38
insieme la vita e la fatica» .
Chiaramente la questione della morte è la punta di diamante nella replica
di Agostino. Per l’Ipponate la morte non appartiene alla natura umana; pe-
rò, spiega, si tratta della morte fisica, poiché - aggiungiamo noi - quella spi-
rituale (il peccato) invece era presente: in potenza prima della caduta, in at-
_____________________________
38
AGOSTINO, Contra Iulianum op. imp., VI, 27 (PL 45, 1570s; NBA 19/2, 1165-1169,
ritoccata). Si noti, nell’incipit, l’eco della tesi-principe di Celestio.

285
to dopo. La morte fisica, intesa come separazione del corpo dall’anima (va-
le a dire dalla vita) interverrà dopo la caduta, intesa come morte spirituale,
quindi non è conseguenza immediata del peccato, o meglio lo è in potenza
al momento della caduta, potenza che passa in atto solo molto tempo dopo.
Questa presentazione non è in contraddizione con quel che si è letto nel
De Genesi ad litteram (401) e nell’Enchiridion (421), che Adamo era mor-
39
tale per natura ed immortale per grazia . Ma, se la paura della morte è dav-
vero una afflizione data penaliter da Dio all’uomo, allora Agostino non do-
vrebbe dire che la paura della morte è comprensibile perché la natura rifiuta
ciò che le è contrario, dato che ora la natura è mutata in peggio e il morire
dovrebbe rientrare nei suoi orizzonti metafisici. Eppure lo si è letto. Di più:
se la paura di morire è una pena, non un dato di natura, allora la natura do-
vrebbe rifiutare questa, che non le appartiene, e non la morte, che invece le
appartiene in quanto mutata in peggio. Invece si legge l’opposto. È chiaro
che sfugge qualcosa di fondamentale, poiché è impossibile che l’Ipponate
non abbia visto queste aporie. È necessario ampliare la visuale.
Il Contra Iulianum opus imperfectum è del 426 ma in quello stesso pe-
riodo se non poco dopo, Agostino chiude la sua opera più famose, il De ci-
vitate Dei. Ora, in un passo riportato in nota al capitolo ottavo, si legge:
«La gravità di quel peccato provocò una sanzione (damnatio, condanna) che
corruppe profondamente la natura (naturam mutavit in peius, mutò in peg-
gio la natura); e ciò che fu una pena (penaliter praecessit, precedette come

_____________________________
39
Cf. p.es. AGOSTINO, De Genesi ad litteram, VI, 25 (CSEL 28/II, 197; NBA 9/2, 33s):
«Il corpo di Adamo infatti, prima che peccasse poteva chiamarsi mortale per un ver-
so e immortale per un altro: cioè mortale perché poteva morire, immortale invece
perché poteva non morire. Una cosa è infatti non poter morire (non posse mori), co-
me è il caso di certe nature create immortali da Dio; un’altra cosa è invece poter non
morire (posse non mori), nel senso in cui fu creato immortale il primo uomo; questa
immortalità gli era data non dalla costituzione della sua natura ma dall’albero della
vita. Dopo che ebbe peccato, Adamo fu allontanato dall’albero della vita con la con-
seguenza di poter morire, mentre, se non avesse peccato, avrebbe potuto non morire.
Mortale era dunque Adamo per la costituzione del suo corpo naturale, immortale per
un dono concessogli dal Creatore. Se infatti il corpo era naturale, era certo mortale
poiché poteva anche morire, sebbene fosse nello stesso tempo immortale poiché po-
teva anche non morire. In realtà solo un essere spirituale è immortale per il fatto che
non potrà assolutamente morire, e questa qualità ci è promessa solo per il futuro, vale
a dire nella risurrezione. Per conseguenza il corpo naturale, e perciò mortale di Ada-
mo - che in virtù della giustizia sarebbe divenuto spirituale e perciò del tutto immor-
tale - non divenne mortale a causa del peccato essendo tale anche prima, ma una cosa
morta; ciò sarebbe potuto non accadere, se l’uomo non avesse peccato».

286
pena) per i primi uomini peccatori diventò una condizione naturale (natura-
40
liter sequeretur, seguì come natura) per tutti i loro discendenti» .
Una lectura cursiva o ignara dell’originale leggerebbe in questo passo la
ratifica della communis opinio per la quale Agostino insegna che la natura
umana è stata corrotta dal peccato originale, idea sulla quale poggia l’idea
di una opposizione tra Agostino ed i Padri greci, tanto diffusa tra i Cattolici
41
quanto tra i nostri fratelli ortodossi . Ma è lettura due volte sbagliata: una
perché Agostino scrive che la sanzione ha corrotto la natura, non il peccato,
l’altra perché in latino la sanzione muta in peggio, non ‘corrompe’ la natu-
ra. E dire ‘la sanzione ha mutato in peggio la natura’ è ben diverso dal dire
‘il peccato ha corrotto la natura’. Infatti, nella fisica aristotelica, ‘mutare’ è
sia positivo che negativo, più spesso la semplice presa d’atto del cambia-
mento (il bambino ‘muta’ in adulto); ‘corrompere’ invece indica sempre la
irreversibile dissoluzione di un ente nei suoi componenti. Ora, una sanzione
ha effetti negativi (la pena) ma anche positivi (la correzione), quindi è cor-
retto dire che ‘muti’, perché si mantengono entrambe le accezioni. Non così
invece il peccato, che non è mai positivo e non ha mai conseguenze positi-
ve: per questo si dice che ‘corrompe’.
Da queste osservazioni deriva che, quando Agostino dice ‘la sanzione ha
mutato in peggio la natura umana’, afferma sì la negatività del mutamento
ma non esclude una certa positività, in virtù della quale può diventare una
‘seconda natura’, seppur peggiore della prima (ammesso che sia lecito tra-
durre quel naturaliter con ‘come natura’; ma si lasci cadere la cosa). Invece
una corruptio non è mai natura, né prima né seconda, perché dissolve l’ente
che corrompe: la cenere ed il fumo non sono le ‘seconde nature’ del legno
bruciato dal fuoco. Se Agostino avesse pensato la sanzione come corruptio
non avrebbe mai potuto scrivere naturaliter sequeretur, mentre non fa pro-
blema se la intende come mutatio. Quanto alle aporie prima evidenziate, si
capisce ora perché Agostino scriva che la natura umana rifiuta la morte e ne
ha timore: perché la natura umana postlapsaria non è divenuta altro rispetto
a quella antelapsaria, e perciò la morte le è estranea come lo era a quella. In
quanto pena del peccato, due realtà che non fanno parte della natura ante-
lapsaria, la morte non appartiene neppure alla natura mutata in peggio, per-
ché resta sempre umana. Quando Agostino scrive che la natura umana mu-
tata in peggio rifiuta la morte non cade in aporie ma afferma la continuità
tra natura ante e postlapsaria. È aver equiparato mutatio a corruptio ad aver
_____________________________
40
AGOSTINO, De civitate Dei, XIII, 3 (CCsl 48, 386; trad. it. 706).
41
Cf. p.es. I.S. ROMANIDIS, Un virus mortale. Il peccato originale secondo san Paolo,
Trieste 2006 (orig. Atene 1989): IDEM, Il peccato originale. Chi è l’uomo? Qual è la
sua storia, Trieste 2008.

287
generato l’equivoco. È leggere cursivamente testi complessi a mantenerlo
vivo. È la tendenza ad interpretare i brani secondo la communis opinio che
rende spesso difficile rendere giustizia a quel che affermano. Con quale fa-
cilità, passando da un lieve slittamento all’altro, si finisce con il mettere in
bocca ad Agostino quel che non ha detto, forzando poi i testi per difendere
quel risultato e creando nella Tradizione fratture inesistenti!
Ma andiamo oltre il dato filologico.
La morte è la pena del peccato, non il peccato, ancor meno la natura del
peccatore: per questo Agostino scrive che la morte prima venne come ‘pe-
na’ e poi come ‘natura’. Ora, una pena è data al colpevole perché capisca di
aver sbagliato, faccia ammenda e, nella misura del possibile, rimedi. La let-
tura meramente punitiva non è solo parziale, è giuridicamente errata. Se ciò
è vero per il giudice umano, quanto più lo sarà se è Dio a dare la pena, una
pena così grave come la morte ed estesa a tutti i discendenti del colpevole.
È assolutamente necessario evitare di connotarla in modo solo negativo. Ed
infatti subito dopo Agostino prosegue così:
«Ora però, con una più grande e mirabile grazia del Salvatore, la pena del
peccato è convertita in opera di giustizia. Poiché in principio fu detto all’uo-
mo (Gen 2,17): “Se peccherai, morirai”; ora al martire è detto: “Muori per
non peccare”. Allora fu detto: “Se disobbedirete, morirete”; ora si dice: “Se
ricuserete la morte trasgredirete il comando”. Ciò che allora si doveva teme-
re per evitare il peccato si deve ora accettare per timore di peccare. Così, per
l’ineffabile misericordia di Dio, la stessa pena del vizio diventa arma di vir-
tù ed il supplizio del peccatore si trasforma in ricompensa del giusto. Allora
la morte fu meritata peccando, ora si compie la giustizia morendo. E questo
si verifica nei santi martiri, ai quali dal persecutore viene proposta l’alterna-
tiva: o rinunziare alla fede o accettare la morte. Ed ora i giusti preferiscono
offrire per la fede ciò che i primi peccatori soffrirono per non aver creduto.
Se questi non avessero peccato non sarebbero morti; quelli invece pecche-
rebbero se non morissero. I progenitori dunque sono morti perché peccaro-
no, i martiri non peccano perché muoiono. Il peccato di quelli ha causato la
pena; è per la pena di questi che si evita il peccato. E questo non perché la
morte, che prima era un male, sia divenuta un bene, ma perché Dio ha con-
cesso questa grazia alla fede, cioè che la morte, nemica della vita, sia diven-
42
tata un mezzo per passare alla vita» .
Che cosa è mai questo passo se non una ripresentazione della concezione
di Ambrogio e del courant théologique? Il contrasto che alcuni studiosi ve-
dono tra questo brano e ciò che si legge in quegli autori poggia solo sul fat-
to che, non trovando le stesse parole, non li accostano, e non trovando tutte
e singole le precisazioni che l’Ipponate ha fatto in altre occasioni, lo leggo-
_____________________________
42
AGOSTINO, De civitate Dei, XIII, 4 (CCsl 48, 387s; trad. it. 707s; ritoccata).

288
no come se fosse il primo. Invece siamo nel 426, ed Agostino parla di que-
sti argomenti da ben venticinque anni, come sappiamo.
Ma, perché non si pensi che vogliamo evitare le difficoltà, leggiamo cosa
scrive Agostino mezza pagina dopo:
«Perché abbiamo voluto ricordare questo? Perché, come la legge non è un
male quando accresce la concupiscenza del peccatore, così la morte non di-
venta un bene quando aumenta la gloria di chi la subisce, sia che la si eviti
per iniquità e formi dei prevaricatori, sia che la si accetti per la verità e for-
mi dei martiri. Per questo la Legge è buona, perché è la proibizione del pec-
cato; la morte è cattiva perché è il prezzo del peccato (cf. Rm 6,23). E come
gli iniqui usano male non solo delle cose cattive ma anche delle buone, così
i giusti usano bene non solo delle cose buone ma anche delle cattive. Ne se-
gue che i cattivi usano male della Legge, quantunque essa sia un bene, ed i
43
buoni usano bene della morte, quantunque essa sia un male» .
La chiusura sembra apodittica: la morte è un male. Il resto del brano non
lascia poi adito a dubbi: che i buoni usino bene della morte deriva dal fatto
che loro sono buoni, non perché lo sia la morte. Come dice Paolo, la morte
è il salario del peccato, quindi non può essere buona. Davanti a queste pa-
role, dove finisce la sintonia con Ambrogio ed il courant théologique?
Sarebbe facile replicare che nessuno ha mai inteso il bonum della morte
come assoluto ma, al contrario, tutti ritengono che sia tale solo per i buoni,
come si legge qui, o che il rigore logico del passo è solo apparente, perché
la cogenza di queste costruzioni poggia non sulla solidità di qualche figura
44
sillogistica ma su questioni di merito . Sarebbe facile ma sarebbe anche un
evitare il cuore del problema, espresso nell’ultimo inciso.
Molto più importante è notare che il testo latino del penultimo periodo è
«Quemadmodum iniustitia male utitur non tantum malis, verum etiam bonis,
ita iustitia bene non tantum bonis, sed etiam malis»,
che si potrebbe rendere con
«Allo stesso modo in cui l’ingiustizia è mal adoperata non solo dai cattivi
ma anche dai buoni, così anche la giustizia è bene (adoperata) non solo dai
buoni ma anche dai cattivi».
_____________________________
43
AGOSTINO, De civitate Dei, XIII, 5 (CCsl 48, 389; trad. it. 709s).
44
Non è ovviamente questa la sede per entrare nei dettagli logici, ma sarebbe opportu-
no notare che Agostino non usa sillogismi ma paralleli, talvolta antitetici. La coeren-
za e cogenza di questi paralleli sta tutta in primis nella coerenza e cogenza delle sin-
gole proposizioni, in secundis in quella del parallelo. Se poi si tratta di un parallelo
antitetico, prima bisogna verificare anche la coerenza e cogenza della negazione. La
forza del ragionamento di Agostino dipende quindi dalla condivisione o meno di quel
che dice e non nel modo in cui l’argomenta. Sed de hoc satis.

289
Agostino afferma qui due cose tanto semplici quanto incontestabili: l’in-
giustizia è sempre mal usata, non importa chi se ne serve o per quale scopo,
perché è ingiusta; invece la giustizia è sempre ben usata, non importa chi se
ne serve o per quale scopo, perché è giusta. La prima segue dal principio
morale per il quale il fine non giustifica mai i mezzi, e quindi non è mai le-
cito fare il male, neanche in vista del bene. La seconda si può considerare
una generalizzazione di quanto è scritto (Lc 11,13a):
«Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli...»,
dal quale si ha che pure i cattivi sono capaci di azioni buone, principio che
l’Ambrosiaster codifica in un inciso importantissimo nel Medioevo:
45
«Qualsiasi cosa vera, da chiunque sia detta, è detta dallo Spirito santo» .
Che cosa segue per noi da queste osservazioni? Che né i cattivi né i buo-
ni non potrebbero mai servirsi bene della morte, se questa fosse ingiusta o
un male in se stessa; ma se non lo è, allora non solo i buoni ma anche i cat-
tivi potrebbero servirsene bene. E siccome Agostino dice che i buoni usano
bene la morte, allora questa non è né ingiusta né un male in sé.
Questa conclusione ribadisce che, nel 426, l’Ipponate mantiene una netta
sintonia con Ambrogio ed il courant théologique; certo sarebbe stato prefe-
ribile se alla fine del periodo avesse aggiunto un ‘per se’, ma tant’è: non si
può pretendere che un uomo preveda ogni possibile interpretazione di quel
che scrive o dice. Non altrettanto giustificabile è la versione italiana: questa
non solo stravolge la grammatica latina ma perverte radicalmente il senso
del testo. Assunto a priori il valore assoluto dell’inciso finale, ciò che pre-
cede viene distorto in modo da ratificare questa precomprensione. Il danno
arrecato a chi non può consultare l’originale è tanto chiaro quanto grave.
A questo punto però dobbiamo affrontare frontalmente la questione del
preteso cambio di prospettiva.

9.4. Agostino e la querelle pelagiana:


c’è davvero un cambio di prospettiva?

Il miglior punto di partenza ci pare l’idea di un Adamo mortale per natu-


ra ed immortale per grazia. Noi si è letta in due passi del De Genesi ad lit-
teram (401) e nell’Enchiridion (421), ma è anche nell’Opus imperfectum
contra Iulianum (426), poco prima dei passi citati; eccola:
_____________________________
45
AMBROSIASTER, In primam ad Corinthiois, XII, 3, 2 (PL 17, 258; CTP 78, 169).

290
«Dio imputò come peccato al primo Adamo ciò da cui gli fu libero astener-
si, ma lo stesso primo Adamo fu di una natura così eccellente, perché fu
senza vizio, da essere il suo peccato di gran lunga tanto più grande dei pec-
cati di tutti gli altri, quanto egli era di gran lunga migliore di tutti gli altri;
onde anche la sua punizione, seguita immediatamente al suo peccato, appar-
ve tanto grande da essere egli subito preso anche dalla necessità di morire,
mentre prima aveva il potere di non morire (posse non mori), e da essere su-
bito messo fuori dal luogo di tanta felicità ed escluso sull'istante dall’albero
46
della vita» .
Quindi Adamo non è immortale per natura ma solo per grazia; peccando,
egli perde il dono di grazia ma non muta di natura, né questa cambia meta-
fisicamente: infatti essa continua a consistere di un corpo, che non possiede
di per sé la vita, e di un’anima che è la vita di quel corpo, anima che, in vir-
tù del libero arbitrio, può servirsi dei doni di Dio o secondo natura o contro
natura, e tra questi si devono necessariamente annoverare anche quei mali
che, a seguito della caduta originale, Dio ha inflitto a tutta l’umanità. Però
non si deve ritenere che Agostino crede ad un Adamo creato mortale, come
poco dopo questo passo l’Ipponate si premura di ribadire con forza:
«Mai io ho sentito, mai assolutamente io ho detto, come dite voi, che Ada-
mo fu creato mortale e che, peccasse o non peccasse, sarebbe stato morituro.
Queste precise parole furono rinfacciate a Celestio nel giudizio episcopale
di Cartagine. Queste parole furono rinfacciate anche a Pelagio nel giudizio
episcopale di Palestina. Questa è appunto la questione che su questo tema si
dibatte tra noi e voi: se Adamo fosse morituro, sia che peccasse sia che non
peccasse. Chi ignora infatti che, secondo la definizione per cui si dice im-
mortale chi non può morire e si dice viceversa mortale chi può morire, A-
damo poté morire perché poté peccare e quindi poté morire per merito di
una colpa, non per la necessità della sua natura? Ma secondo quella defini-
zione per cui si dice immortale anche chi ha la possibilità di non morire, chi
negherà che Adamo sia stato creato in possesso di tale possibilità? Perché
Adamo che aveva la possibilità di non peccare mai, certamente aveva la
possibilità di non morire mai. Questo è dunque quello che si dice contro di
voi: questo vostro dogma con il quale reputate che Adamo, sia che peccasse
sia che non peccasse, sarebbe stato morituro, è falsissimo su tutta la linea.
Stando così le cose, in che modo avrei io potuto dire ciò che tu mentendo mi
fai dire: ‘Adamo fu costituito mortale secondo la sua natura’, quasi fosse
pressato dalla necessità di morire, mentre non poteva essere pressato a mori-
re se non a causa del peccato? O in che modo io dichiaro che egli non poté
morire, quando so che è morto, e certamente non sarebbe morto se non a-
vesse potuto morire? Ma io dichiaro apertamente che Adamo poté non mori-
re. Altro è però non poter morire, altro è poter non morire: il primo è proprio
di una immortalità maggiore, il secondo di una immortalità minore. Se tu di-

_____________________________
46
AGOSTINO, Contra Iulianum op. imp., VI, 22 (PL 45, 1153; NBA 19/2, 1129).

291
scerni queste due verità, discerni sia ciò che dite voi di Adamo sia ciò che
diciamo noi contro di voi. Voi dite infatti: ‘Sia che peccasse sia che non
peccasse, sarebbe stato morituro’. Noi diciamo al contrario: ‘Finché non a-
vesse peccato, non sarebbe stato morituro; e se non avesse peccato mai, non
47
sarebbe morto (mai)’» .
Abbiamo letto un ampio stralcio del capitolo 25 del sesto libro dell’Opus
imperfectum contra Iulianum, e quel che vi scopriamo è una marcata sinto-
nia non solo con Ambrogio ma con tutti i Padri menzionati nei capitoli pre-
cedenti, specie Teofilo di Antiochia. Scopriamo cioè che, appena due capi-
toli prima dei passi che tanti problemi ci fanno, l’Ipponate è assolutamente
limpido e deciso nello schierarsi al fianco di coloro che non considerano la
morte un male se non per chi non la coglie per quel che è: un remedium alla
caduta, che nostro Signore ci dona per aiutarci ad aiutarlo a redimerci. La
morte entra nella creazione come pena di una colpa: senza la colpa, non ha
senso infliggere la pena, ancor meno infliggerla ma non renderla operativa.
Quindi, come insegna Teofilo e come Agostino ripete dal 401, Adamo non
è né immortale né mortale. A riprova di questo, ecco come, nel capitolo 27
e poche righe dopo i passi letti, Agostino illustra sia questo concetto che il
senso che lui dà all’espressione ‘la morte è un male’:
«A lode della morte credi di aver trovato qualcosa di grande da dire, cioè:
“Alla prima occasione si rese chiaro che non è un male la morte, perché ne
fece la dedicazione per primo tra tutti un giusto”. Renditi conto dunque che
il giusto Abele non avrebbe avuto da dedicare la morte, se l’ingiusto Caino
non avesse costruito l’edificio della morte. Iniziatore appunto ed esecutore
di quella morte fu Caino, non Abele. Dedicò dunque la morte colui che la
fabbricò. La morte infatti di quell’uomo buono fu un’opera mala di un uomo
malo. Quanto ad Abele, che sopportò il male per il bene, egli non dedicò la
morte, ma il martirio, portando l’immagine di Gesù che fu ucciso dal popolo
dei Giudei come da un suo cattivo fratello carnale. Glorioso pertanto Abele,
non perché prese dal fratello qualcosa di buono, ma perché morendo pazien-
temente per la giustizia fece un uso buono del male di Caino. Infatti come
per l’uso cattivo che fanno del bene della legge sono puniti i prevaricatori,
così all’opposto per l’uso buono che fanno del male della morte sono coro-
nati i martiri. Perciò, se non disdegni di affermare ciò che ti vedo ignorare,
la morte è mala per tutti i morenti, ma tra i morti per alcuni è mala, per al-
cuni è buona. Seguirono questa dottrina anche coloro che misero in scritto
lodevoli discussioni sulla bontà della morte. La morte dunque del giusto
Abele che abita nella requie non solo non è mala, ma è anche buona. Invece
tu non hai introdotto nel paradiso la requie dei buoni che sono morti, ma i
tormenti dei morenti, perché nel paradiso non ci fosse la requie dei buoni.
Se dici: ‘Qualora nessuno avesse peccato, nel paradiso gli uomini sarebbero

_____________________________
47
AGOSTINO, Contra Iulianum op. imp., VI, 25 (PL 45, 1559; NBA 19/2, 1143).

292
morti senza tormento’, almeno per il fatto che fuori del paradiso non muore
quasi nessuno senza tormento, finalmente, sconfitto e sconvolto, confessa
che la natura umana è stata mutata in peggio dal peccato del primo uomo (in
deterius commutatam peccato primi hominis humanam confitere natu-
48
ram)» .
Si sarà certo riconosciuto l’inciso finale del capitolo, già riportato; ma si
sarà anche capito che il suo significato è ben diverso da quello che pareva
avere in precedenza, fuori del contesto. “Coloro che misero in scritto lode-
voli discussioni sulla bontà della morte” altri non sono che Ambrogio e Ci-
priano di Cartagine, ed Agostino concorda con loro effettivamente, non in
apparenza. La morte è mala, cioè ‘cattiva’, per tutti perché introduce per
tutti una separazione tra anima e corpo che per natura non dovrebbe essere;
ma essa non muta la natura umana: non più di quanto la cambi la vecchiaia,
ad esempio, che pure toglie forze, intelletto, salute, coraggio; non più della
malattia, che ha gli stessi inconvenienti della vecchiaia, o dell’infanzia, in-
capace anch’essa di quelle azioni. La separazione forzaya tra anima e corpo
introdotta dalla morte è mala per tutti; ma allo stesso tempo è mala solo per
alcuni, perché i buoni sanno trarne del bene, il che non potrebbe essere se
essa fosse cattiva in sé e se la natura umana, comune agli uomini buoni ed
agli uomini cattivi, fosse stata davvero mutata in peggio. Per questo la mor-
te di Abele, scrive Agostino, non solo non è mala ma è buona.
Ciò che dice della morte vale per ogni farmaco: preso nelle dosi giuste,
al momento ed al modo giusto, guarisce; in ogni altro modo, danneggia o
uccide. E come il farmaco non muta la natura del malato, così la morte non
muta la natura del morituro. Per servirci di un esempio classico, privare un
uomo della vista non ne muta la natura: e, già dal De natura boni, per Ago-
stino il peccato altro non è che privatio boni. Resta da capire perché si leg-
ga due volte nello stesso capitolo che ‘la natura è mutata in peggio’. Di so-
lito si ricorre all’escamotage di supporre un eccesso verbale ma, come si è
detto, è poco rispettoso. Conviene invece ricordare la profonda differenza
metafisica tra ‘mutare’ e ‘corrompere’ sulla quale ci siamo già soffermati.
Questa ci pare l’interpretazione più fedele alla globalità del pensiero di
Agostino che si possa dare a questi passi del Contra Iulianum opus imper-
fectum, forse i più facili a leggersi nella direzione di un mutamento di natu-
ra ad opera del peccato. Questa esegesi rivela che l’Ipponate è fedele a se
stesso e mantiene ben saldi i debiti ed i legami con la Tradizione dei Padri
anteriori: non vi è alcuna ‘nuova antropologia’ a seguito della querelle pe-
lagiana ma solo, ed al più, diverse sottolineature di questo o quell’elemento
appartenente ad un insieme dogmatico immutato, accentuazione funzionale
_____________________________
48
AGOSTINO, Contra Iulianum op. imp., VI, 27 (PL 45, 1575; NBA 19/2, 1177ss).

293
alla difesa del depositum fidei. E questo anche se l’ultimo passo riportato ci
permetterebbe persino di eliminare questa clausola prudenziale.
Si può dunque concludere che, per tutti i Padri, la temporanea separazio-
ne dell’anima dal corpo non è un bene in assoluto e per se, perché entrambi
sono stati creati per essere e restare uniti. La morte è la pena di una colpa,
la caduta di Adamo; e siccome tuti gli uomini oggi muoiono, questa colpa è
universale. Questa pena però non è solo punitiva; è un dono di Dio, che po-
ne un limite alla nostra capacità di peccare. La morte, in quanto pena, non
comporta alcun mutamento di natura, né in male né in bene. Questo invece
segue dal peccato ereditato da Adamo, e significa una maggior tendenza al
male: rispetto alla natura antelapsaria, questa tendenza è un peggioramento.
Ma il peccato non è dato da Dio né appartiene alla nostra natura. Come per
ogni altro dono di Dio, fare buon uso della morte dipende dal nostro libero
arbitrio: siamo a noi a decidere di servircene secondo natura o contro natu-
ra. Di conseguenza, anche se in se stessa non è un bene, la morte può risul-
tare vantaggiosa per coloro che sanno servirsene come nostro Signore vo-
leva quando la diede ai nostri progenitori.
Quanto alla paura della morte, in questo contesto dogmatico e spirituale
essa non può mai essere un sentire positivo, per quanto diffusa sia; e se tale
negatività è in certa misura ridotta ed anche scusabile in chi ancora non si è
convertito, certo diviene assai grave e peccaminosa in chi afferma di essere
cristiano. Questo quadro globale, praticamente immutato sin dal tempo del
nostro santo Padre Ireneo di Lione e, come si è ormai dimostrato, condiviso
pienamente anche dall’Agostino più tardo, questo quadro, dicevamo, aiuta
a capire perché in Oriente, nonostante i ripetuti tentativi dei pelagiani là ri-
fugiatisi, ben pochi furono coloro che si opposero all’Ipponate, finendo essi
stessi scomunicati insieme a Celestio, Pelagio e Giuliano d’Eclano, mentre
l’ortodossia, espressa dal Concilio di Efeso del 431, si schierava senza esi-
tazione al fianco di Agostino e dei vescovi occidentali.

9.5. Agostino e la paura della morte:


conclusioni

La difficoltà di questo percorso, spirituale prima ancora che filologico e


che ha richiesto una gran mole di letture e delucidazioni, suggerisce una fa-
cilità di fraintendimento da non sottovalutare: perché, come insegna Plato-
ne nel Fedro, una volta che si è scritto qualcosa, questo rimane da solo a di-
fendersi, e l’autore non può aiutarne la retta comprensione. Però in teologia
le cose stanno in maniera diversa: è vero che un testo resta sempre uguale a
se stesso, ma lo Spirito suggerisce al Magistero come interpretarlo in ma-

294
niera corretta e rispettosa del depositum fidei.
Per chiarire il senso da dare alle espressioni ortodosse dopo che nel 431
l’eresia pelagiana esaurisce la sua spinta a seguito della scomunica inflittale
dal Concilio di Efeso, ci piace riportare quel che scrive un Padre oggi poco
conosciuto ma importante al suo tempo in quanto arcivescovo di Ravenna,
l’ultima capitale dell’Impero romano d’Occidente: Pier Crisologo (380 c/a-
450). Egli parla così del rapporto tra la natura umana ed il peccato (origina-
le) che causa la morte degli uomini:
«(Rm 5,12a): “Il peccato entrò in questo mondo”. “In questo mondo”. Guar-
da come danneggiò i posteri colui che con il suo fare dannò il mondo. Ma
dici: “In che modo entrò? Per mezzo di chi entrò?” In qual modo? Attraver-
so la colpa. Per mezzo di chi? Attraverso l’uomo. E cosa (è entrato)? Il pec-
cato è (forse) una natura e una sostanza? Né natura né sostanza, ma acciden-
te; e (nostra) nemica è questa potestà che si vede nelle opere, si sente nelle
pene, che combatte l’anima, ferisce la mente, viola e confonde la stessa na-
tura. E cosa di più, fratelli? Questo è il peccato per la natura, quello che è il
fumo per l’occhio, la febbre per il corpo, l’amara salsedine per le dolcissime
fonti. Sebbene per natura l’occhio sia puro e limpido, tuttavia a causa della
ingiuria (arrecatagli) dal fumo diviene turbato ed oscurato. Anche il corpo è
vigoroso nelle membra e nei suoi sensi per il fatto di essere stato creato (co-
sì) da Dio, ma quando inizia l’attacco delle febbri e viene dominato dal (lo-
49
ro) assalto, viene ridotto completamente inerte e debole» .
Quindi, quando si parla di paura della morte ‘per natura’ non si deve in-
tendere la natura creata da Dio ma quella indebolita (‘violata’, scrive il Cri-
sologo) dal peccato originale: una volta che il battesimo rimuove tale affe-
zione, la paura della morte non ha più appigli se non nel libero arbitrio e
nella maggiore o minore fedeltà alla scelta per Cristo. Perciò, se prima del-
la conversione la paura della morte è da imputare al peccato originale e do-
po a quello attuale, la paura della morte è sempre frutto del peccato. Infatti
in un’altra omelia, commentando la morte di Cristo, il Crisologo afferma:
50
«Non voler morire è proprio della paura umana» .
Si noti: della paura, non della natura umana. E senza concessioni a Pela-
51
gio e Celestio . Quanto all’idea che il peccato muti la natura umana, il fatto
_____________________________
49
PIER CRISOLOGO, Sermones, serm.111, 2 (CCsl 24A, 680s; trad. nostra).
50
PIER CRISOLOGO, Sermones, serm.61, 6 (CCsl 24, 343; CTP 12, 213).
51
Ancor più chiaro, in questa direzione, era ARNOBIO IL VECCHIO, Adversus nationes,
II, 33 (PL 5, 861s; CTP 153, 175s: 255-327 d.C.): «E che facciamo quando si presen-
ta il timore della morte e cioè la fine delle anime? (questo è il senso che Arnobio dà
al termine) Non è quell’istintivo egoismo per cui tutti amiamo noi stessi a farci acco-
gliere ed abbracciare colui che ci promette di liberarci da questo pericolo e preferire
(segue)

295
che il Crisologo lo definisca un ‘accidente’ è risolutivo; per definizione in-
fatti l’accidente inerisce alla sostanza, che dal canto suo è quel che è a cau-
sa della natura, non degli accidenti. Quindi il peccato, in quanto accidente,
non può mutare la natura dell’uomo: per questo il peccatore è umano come
il santo. A conferma di questo, più avanti il Crisologo scrive:
«(Rm 5,12) “Come per mezzo di un solo uomo il peccato entrò in questo
mondo ed attraverso il peccato la morte, così anche giunse a tutti gli uomini,
in esso tutti peccarono”. O nell’uomo o nel peccato, per mezzo di lui ed in
lui tutti peccarono. Dunque non è il peccato ad essere stato rivolto contro la
natura ma, mentre il peccato introduce la morte, esige attraverso la natura la
pena a sé dovuta. Dio fece la natura in modo da creare gli uomini per la vita,
la quale (natura) tuttavia, mentre genera controvoglia dei morti, denuncia la
52
colpevolezza di costoro e la pena del peccato che servirono in vita» .
La prosa non è molto lineare, ma quel che intende il Crisologo è chiaro:
il peccato non è rivolto contro la natura, quindi non può averla modificata.
L’ha invece costretta ad agire in modo diverso da quello previsto da Dio, e
così denuncia il cattivo uso del libero arbitrio da parte dell’uomo: ma non il
mutamento in peggio dell’opera di Dio, che non esiste.
Come si vede, quel che Agostino scrisse non fu mai equivocato dai suoi
contemporanei, ed il fatto che Crisologo descriva il peccato come malattia
o menomazione testimonia una sintonia amnche con la concezione e la sen-
sibilità dell’Oriente greco che andrebbe recuperata nella percezione odierna
delle vicende e delle questioni teologiche. Da entrambi i lati.

______________________________
lui alle nostre stesse anime, ammesso che sia giusto tale scambio? Voi riponete in voi
stessi la salvezza dell’anima vostra ed avete fiducia di divenire dèi con il vostro sfor-
zo personale: noi invece non ci ripromettiamo niente dalla nostra debolezza, com-
prendendo bene che la nostra natura non ha nessun vigore e che in ogni tentativo per
raggiungere qualcosa rimane sempre vinta dalle passioni. Voi invece pensate che,
non appena sarete sciolti dai lacci del corpo e vi allontanerete (dalla terra), vi saranno
messe le ali con cui potervi spingere verso il cielo e volare verso le stelle. Noi temia-
mo tanta audacia e non crediamo sia in nostro potere dirigerci verso l’alto, dato che
non sappiamo di sicuro neppure se meritiamo di ricevere la vita e di essere sottratti
alla legge di morte. Voi presumete di poter tornare spontaneamente, senza che alcuno
vi si opponga, nella reggia del Signore come nella vostra propria sede, mentre noi
non speriamo che ciò possa avvenire senza l’aiuto del Signore dell’universo, e rite-
niamo che a nessun uomo sia stato concesso tanto potere e tanto privilegio». Quindi,
per Arnobio il timore della morte è universale perché nasce da un universale amore
per se stessi, e porta ad un’altrettanto universale presunzione di auto-salvezza.
52
PIER CRISOLOGO, Sermones, serm.111, 5 (CCsl 24A, 682; trad. nostra). L’ultimo inci-
so è molto oscuro e forse corrotto.

296
Capitolo 10

LA RILEVANZA SPIRITUALE
DELLA
PAURA DELLA MORTE

Più volte, in precedenza, ci si è soffermati su questo o quell’aspetto spiri-


tuale legato ad un certo risvolto dell’accadimento della morte: al punto 4.4.
si è sondata la relazione tra la dormitio come immagine della morte e la
dormitio mistica, ante e post mortem; nel punto 6.2.2. si è studiata l’origine
spirituale della paura della morte, anche con l’aiuto della riflessione ebrai-
ca; nel punto 8.4. si è sondata la visione dei Padri neptici, o ‘vigilanti’, la
quale costituisce l’ossatura delle dinamiche della vita spirituale. Senza con-
tare poi le molte osservazioni sparse qui e là in tutte queste pagine.
Da queste note ci pare ormai acquisito che l’atteggiamento verso la mor-
te non è una questione intellettuale, né è determinabile leggendo un numero
più o meno ampio di testi di questo o quell’autore. Come ogni atteggiamen-
to, anzi molto più che in tutti gli altri, quello verso la morte esprime un sen-
tire psicologico che, a sua volta, ha le sue radici in un percorso spirituale.
In realtà questa connessione vale per ogni ambito, affettivo, intellettivo, re-
lazionale, ma è particolarmente importante in questo caso, sia che con ‘spi-
1
rituale’ si intenda un percorso religioso che uno non religioso .
Scopo di questo capitolo non è ovviamente ripetere quanto già detto, ma
fornire un quadro semplice e globale della dinamica spirituale che sta dietro
ad ognuna di quelle note, e nel quale inserirli come approfondimenti.
* * *
Sappiamo che che è scritto (Mt 6,21; Lc 12,34):
«Là dove è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore».
_____________________________
1
Intendiamo dire che anche l’ateo consapevole compie un percorso spirituale: di esito
opposto a quello del credente, ma comunque frutto del libero arbitrio e perciò stesso
rispettabile anche se non condivisibile. Non altrettanto invece si può e si deve dire di
chi non si pone il problema e, finchè gli riesce, si accontenta di soddisfare il ventre e
quel che sta sotto al ventre, come direbbe Gregorio il Teologo.

297
Riguardo a questo versetto Agostino afferma in modo lapidario:
2
«Ciascuno è ciò che ama» ,
mentre Gregorio di Nissa è un po’ più didascalico:
«L’amore è l’inclinazione spontanea verso ciò che è desiderabile, la quale si
esplica attraverso il piacere e la passione; l’odio invece è l’avversione verso
ciò che è sgradito e la ripulsa di ciò che è molesto. È possibile usare di cia-
scuna di queste due affezioni dell’animo o in modo da trarne utilità o, al
contrario, in modo dannoso, e per lo più la vita virtuosa e quella dedita al
vizio dipendono e traggono origine proprio da questo. Aderiamo infatti
strettamente con l’anima a ciò che amiamo, e ci allontaniamo invece da ciò
che suscita in noi un sentimento di odio. Sia che l’anima si volga al bene sia
che si rivolga al male, ciò che è amato si attacca all’anima e ciò invece è
oggetto d’odio provoca in lei ripulsa e allontanamento, sia che si tratti di co-
3
sa buona o di cosa cattiva» .
Il quadro spirituale delineato da questi passi è chiaro, e lo si può conside-
rare sintetizzato da un altro, ancor più noto (Mt 6,24; Lc 16,13; CEI08):
«Nessun servo può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro op-
pure si affezionerà (Mt: ‘preferirà’) all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete
servire a Dio ed il denaro».
Naturalmente nostro Signore sa che non si passa da un padrone all’altro
in un istante, e che farlo esige un cammino lungo, faticoso ed anche doloro-
so; che bisogna vigilare senza sosta sull’andamento di questa che è una ve-
ra battaglia interiore, la ‘guerra dei pensieri’. Non possiamo entrare nei det-
tagli delle dinamiche di questa guerra: qui interessa scoprire, se così si può
dire, il suo culmine, l’acme ed insieme il suo scopo ultimo e definitivo.
Per raggiungere questo delicato obiettivo preferiamo lasciare per il mo-
mento da parte i nostri santi Padri e consultare un capolavoro della spiritua-
lità medievale, il De imitatione Christi; quest’operetta del sec.XIII dedica
un capitolo all’atteggiamento verso la morte, ed inizia così:
«Ben presto la morte sarà qui, presso di te. Considera, del resto, la tua con-
dizione: l’uomo oggi c’è e domani è scomparso, e quando è sottratto alla vi-
sta, presto esce anche dalla memoria.
_____________________________
2
AGOSTINO, In epistolam Iohannis ad Parthos, sermo II, 14 (PL 35, 1997; Reale,
167). Il latino recita: «Talis est quisque, qualis eius dilectio est»; a seconda del senso
di quel ‘qualis’, l’identificazione è o tra amato e amante o tra l’amante e il grado del
suo amore per l’amato. A noi piace ricordare un famoso sonetto di Leonardo da Vin-
ci: «Muovesi l’amante alla cosa amata; se l’amato è vile, l’amante si fa vile».
3
GREGORIO DI NISSA, In Ecclesiasten homiliae, hom.8, 1 (SCh 416, 390; CTP 86,
161).

298
Quanto sono grandi la stoltezza e la durezza di cuore dell’uomo: egli pensa
solo alle cose di oggi e non piuttosto alle cose future. In ogni azione, in ogni
pensiero, dovresti comportarti come se tu dovessi morire oggi stesso: per-
ché, se avrai retta la coscienza, non avrai molta paura di morire.
Sarebbe meglio star lontano dal peccato che sfuggire alla morte. Se oggi non
sei preparato a morire, come lo sarai domani? Il domani è cosa non sicura:
che ne sai, tu, se avrai un domani? A che giova vivere a lungo, se correggia-
mo così poco noi stessi? Purtroppo non sempre una lunga vita corregge i di-
fetti, anzi, spesso accresce maggiormente le colpe. Magari potessimo passa-
re santamente anche una sola giornata in questo mondo!
Molti fanno il conto degli anni trascorsi dalla loro conversione a Dio; ma so-
vente scarso è il frutto della loro emendazione. Certamente morire è cosa
che mette paura, ma forse è più pericoloso vivere a lungo.
Beato colui che ha sempre davanti agli occhi l’ora della sua morte ed ogni
giorno è pronto a morire. Se qualche volta hai visto uno morire, pensa che
anche tu dovrai passare per la stessa strada. La mattina fa conto di non arri-
vare alla sera, e quando poi si farà sera non osare sperare nel domani. Sii
dunque sempre pronto, e vivi in modo tale che, in qualunque momento, la
4
morte non ti trovi impreparato» .
Anche uno stoico (non ricco, però!) potrebbe sottoscrivere queste parole;
che riesca pure a viverle è altra cosa, però senza dubbio sarebbe d’accordo
in linea di principio quasi su tutto. Quel che fa la differenza è il perché.
Lo stoico cerca di vivere in questo modo perché è convinto che il mondo
sia, nel suo insieme, un tutto unico e vivente; il buddhista per evitare il do-
lore; un appartenente alla New Age riterrà di non temere la morte perché es-
sa è solo il mezzo per riunirsi a Gaia (la Terra) ed a tutti i viventi; il cristia-
no davvero tale non teme la morte perché per lui è semplicemente il mezzo
per ri-unirsi a Colui che ama. Lo stoico non ama questo mondo perché ben
coglie la sua pesante futilità; il buddhista lo considera un’apparenza ingan-
nevole; il New Age lo ama perché se ne sente parte integrante; il cristiano
ama questo mondo perché è opera di Colui che ama, non lo ama perché lo
tiene lontano da Colui che ama, lo odia nella misura in cui si oppone al suo
amore per Dio. Per lo stoico la morte è fine dei dolori; anche per il buddhi-
sta è così; per il New Age è la riunificazione con il cosmo; per il cristiano è
5
il ‘ritorno in patria’, anche se a rigori prima non ne è uscito .
Queste differenze non compaiono nel testo della Imitatio Christi, è vero,
ma l’opera dà per scontata la fede di chi legge (cosa che noi non si è fatto),
suppone poi che voglia proseguire di bene in meglio nella via di Dio (il che
_____________________________
4
De imitatione Christi, c.23, 1 (Nicolini, 80s, con lievi ritocchi di stile).
5
In effetti, il termine ‘ritorno’ suggerisce l’idea di una ‘partenza’ anteriore, il che non
è perché l’anima non pre-esiste alla nascita nel corpo. Ma se ci limitiamo ad adopera-
re il lemma ‘in patria’, allora niente offusca la limpidezza del concetto.

299
è bene non dare per scontato), crede che desideri una vita spirituale adegua-
ta alla grandezza della chiamata di Dio (altra cosa su cui è bene non conta-
re) e, ultimo nell’elenco ma primo per importanza, che tutto ciò si compen-
di nell’amore per Dio. Infatti il De imitatione inizia così:
«Senza l’amore per Dio e senza la sua grazia, a che ti gioverebbe una cono-
scenza esteriore di tutta la Bibbia e delle dottrine di tutti i filosofi? “Vanità
delle vanità, tutto è vanità” (Qo 1,2) fuorchè amare Dio e servire a Lui solo.
Questa è la massima sapienza: tendere ai regni celesti disprezzando questo
6
mondo» .
Come si è letto in Ambrogio ed in tanti altri Padri, la paura della morte è
direttamente proporzionale all’attaccamento a questa vita, e l’attaccamento
a questa vita è inversamente proporzionale all’amore per Dio: perciò, meno
amiamo Dio più amiamo il mondo, e più amiamo il mondo più temiamo di
morire. Il cammino spirituale del cristiano non è volto ad eliminare la paura
della morte né a giustificarla: questo lo dice chi non è cristiano, o lo è solo
sulla carta. La vita spirituale del cristiano mira solo ad amare sempre più e
sempre meglio il suo Signore; e siccome più ama Dio meno è interessato al
resto, non lo preoccupa molto perdere ciò che offre questo mondo. Chi non
crede vede solo questo distacco e, ignorando o non volendo ammetterne la
ragione, prende l’effetto per la causa, per di più confondendo spesso distac-
co e disprezzo. Ma sbaglia. È vero che nel Medioevo vi è questo disprezzo,
7
codificato nel De contemptu mundi (il termine è anche alla fine del passo)
ed è vero che questo atteggiamento va ben oltre il Medioevo ed ha epigoni
ancor oggi. Ma si rilegga l’incipit del passo: al primo posto vi è l’amore per
Dio. Questo perché il De imitatione è un’opera per monaci del sec.XIII, e
da sempre in monastero si entra non per fuggire il mondo ma perché si ama
Dio più di ogni altra cosa e perché Dio ti chiede di amarlo così. Che spesso
sia accaduto il contrario, come dimostrano le tante riforme degli ordini mo-
nastici, significa poco: il furto o l’omicidio non diventano leciti o giusti per
il fatto che da sempre vi è chi ruba o uccide. Un amore è vinto solo da un
amore più grande. Per il mondo un cristiano spirituale non ha disprezzo ma
amore: meno forte di quello che ha per il suo Amante ma pur sempre amo-
re. Come ogni amante respinta, il mondo considera questo ‘amore minore’
né più né meno che disprezzo, ma è problema suo, non del cristiano: nessu-
no può imporre all’altro se e come amarlo.
_____________________________
6
De imitatione Christi, c.1, 1 (Nicolini, 28).
7
Il suo autore, Lotario di Segni, diverràpapa Innocenzo III, persona certo non disinte-
ressata alle vicende terrene. Il suo slancio riformatore, che frutta p.es. l’approvazione
degli ordini Mendicanti (Predicatori e Minori) ed il Concilio Lateranense IV (1215),
mostra in che modo il cristiano disprezza il mondo: cercando di migliorarlo.

300
Dunque, visti dall’esterno, la differenza più evidente tra il cristiano spiri-
tuale e gli altri è il diverso modo in cui si rapportano con le cose belle che
sono in questo mondo, differenza che si traduce in primis in un diverso uso
del tempo. Tornando al capitolo sulla morte infatti si legge:
«Sono molti coloro che muoiono in un istante, all’improvviso, giacchè (Mt
24,44): “Il Figlio dell’Uomo verrà nell’ora in cui non si pensa che possa ve-
nire”; quando sarà giunto quel momento estremo, comincerai a giudicare
ben diversamente tutta la tua vita passata, e molto ti dorrai di esser stato tan-
to negligente e tanto fiacco.
Quanto è saggio e prudente l’uomo che, durante la vita, si sforza di essere
quale desidera esser trovato al momento della morte! Ora, una piena fiducia
di morire santamente la daranno il completo disprezzo del mondo, l’ardente
desiderio di progredire nelle virtù, l’amore del sacrificio, il fervore nella pe-
nitenza, la rinuncia a se stesso ed il saper sopportare ogni avversità per amo-
8
re di Cristo» .
Difficile trovare una sintesi più chiara, semplice e completa della tensio-
ne spirituale del cristiano. Il pensiero della morte, lungi dal suscitare paura
o ansia, dà forza per vincere le continue battaglie dei ‘pensieri’, prima che
si tramutino in battaglie contro le parole o peggio ancora contro le azioni. E
conviene servirsene senza esitare, non solo perché, da sole, le buone inten-
zioni suggeriscono vanagloria e quindi diventano ambigue se non pericolo-
se, ma perché il punto non è averle ma mantenerle, non è iniziare ma finire,
non è fare singoli atti eroici ma essere fedeli nel tempo e nelle piccole cose.
Pensare spesso alla nostra morte non è atto eroico ma semplice buon senso,
banale esperienza interiore. Per questo il De imitatione prosegue così:
«Mentre sei in buona salute, molto puoi lavorare nel bene; non so invece co-
sa potrai fare quando sarai ammalato. Giacchè sono pochi quelli che diven-
tano più buoni per il fatto di essere malati, così come sono pochi quelli che
diventano più santi per il fatto di andare spesso in pellegrinaggio.
Non credere di poter rimandare ad un tempo futuro la tua salvezza facendo
affidamento sui suffragi degli amici e dei parenti: tutti costoro ti dimentiche-
ranno più presto di quanto tu non creda. Perciò, più che sperare nell’aiuto di
altri è bene provvedere ora, fin che si è in tempo, mettendo avanti un po’ di
bene. Perché, se tu non ti prendi cura di te stesso ora, chi si prenderà cura di
te poi?
Questo è il tempo veramente prezioso! Questi sono i giorni della salvezza!
Questo è il tempo che il Signore gradisce (2Cor 6,2). Purtroppo, invece,
questo tempo tu non lo spendi utilmente in cose meritorie per la vita eterna.
Verrà il momento nel quale chiederai almeno un giorno o un’ora per emen-
darti: e non so se l’otterrai. Ecco dunque, mio caro, da quale pericolo ti po-
trai liberare, a quale pericolo ti potrai sottrarre se sarai stato sempre nel ti-
_____________________________
8
De imitatione Christi, c.23, 2 (Nicolini, 82).

301
more di Dio, in vista della morte.
Procura di vivere ora in modo tale che, nell’ora della morte, tu possa avere
letizia anziché paura; impara a morire al mondo affinchè tu cominci allora a
vivere con Cristo; impara ora a disprezzare ogni cosa affinchè tu possa allo-
ra andare liberamente a Cristo, mortifica ora il tuo corpo con la penitenza
9
affinchè tu possa allora essere pieno di fiducia» .
Queste parole invitano ad un uso del tempo quasi scomparso ormai tra i
nostri fratelli europei ma drammaticamente vivo in quelli del Medio Orien-
te, dell’India, dell’Asia, dell’Africa. Mentre qui molte coscienze dormono
sonni dettati da una pace perniciosa, della quale bene è detto (Sal 48,13):
«L’uomo nella prosperità non comprende, è come gli animali che perisco-
no»,
là guerre e persecuzioni obbligano a ri-scegliere di continuo il proprio esse-
re cristiani. Come puoi infatti non vendicarti del vicino che a tradimento ti
ha ucciso moglie e figli, se non perché il tuo Dio ha detto a te (Dt 32,35):
«Mia sarà la vendetta e il castigo»?
Come puoi, disperato, non imbracciare le armi sperando di morire in bat-
taglia, se non perché il tuo Dio ha detto a te (Mt 26,51):
«Tutti quelli che mettono mano alla spada periranno di spada»?
Come puoi pregare un Dio che non vedi tra il fumo delle chiese in fiam-
me o dei missili che distruggono le città, se non perché quello stesso Dio ha
detto a te (Ger 15,20s):
«Io sarò con te per salvarti e per liberarti. Oracolo del Signore. Ti libererò
10
dalle mani dei malvagi e ti riscatterò dalle mani dei violenti»?

_____________________________
9
De imitatione Christi, c.23, 2 (Nicolini, 82s, lievemente modificata).
10
Uno dei modi più efficaci per addormentare le coscienze è non dar voce ai tanti no-
stri fratelli che vivono situazioni drammatiche come quelle qui accennate. In Siria ed
Iraq a perseguitare i cristiani sono gli wahhabiti dell’ISIS, amici dell’Arabia Saudita,
amica degli USA: cf. p.es. F. SCAGLIONE, Bye bye Baghdad. Luoghi, storie e persone
della pax americana, Milano 2003; IDEM, I cristiani ed il Medio Oriente. La grande
fuga, Milano 2008; IDEM, Il patto con il diavolo. Come abbiamo consegnato il Medio
Oriente al fondamentalismo ed all’ISIS, Milano 2016; IDEM, Siria. I cristiani nella
guerra. Da Assad al futuro, Milano 2019. Nell’Orissa (India) a perseguitare i cristia-
ni sono i fondamentalisti indù, sostenitori di un governo anch’esso amico degli USA.
Nel Sahel (Africa subsahariana) i cristiani sono perseguitati da un insieme di gruppi
islamisti che si rifanno all’ISIS, anche se in modo strumentale. In tutti questi Paesi le
Chiese hanno proibito il ricorso alle armi, anche se è innegabile che qualcuno non ha
resistito di fronte al dolore ed alla rabbia.

302
Cosa trasforma questi versetti da parole scritte in un libro in scelte che ti
possono costare la vita? La fede, si dirà. Vero. Ma cosa rende tanto forte la
fede? La continua vigilanza su di sé, per respingere sin dall’inizio i pensieri
d’odio, per non lasciar penetrare lo sconforto, per restare fedeli al proprio
Signore. Che certo non lascia senza consolazione chi cerca di consolare chi
soffre come lui. Che non lesina l’aiuto a chi cerca di aiutare chi sta peggio
di lui. Che dà forza e speranza a chi cerca di dare forza e speranza in mezzo
a dolori che sembrano senza fine e senza rimedio. Questi santi, perché que-
sti altro non sono se non santi viventi, sono tali perché, con l’aiuto di Dio,
mettono in pratica ciò che, meno drammaticamente, si è letto nel De imita-
tione. Meno drammaticamente... Mah. In realtà il passo prosegue così:
«Stolto, perché vai pensando di vivere a lungo mentre non sei sicuro di ave-
re neppure una giornata?
Quante persone sono state ingannate, inaspettatamente tolte da questa vita!
Quante volte hai sentito dire che uno è morto di ferite ed un altro è annega-
to? che uno si è rotto la testa cadendo dall’alto? che uno si è soffocato men-
tre mangiava e un altro è morto mentre stava giocando? Chi muore per fuo-
co, chi muore per spada; chi per una pestilenza, chi per un assalto dei pre-
doni. Insomma, comune destino è la morte, e passa rapidamente come om-
bra la vita umana.
Chi si ricorderà di te dopo che sarai scomparso, e chi pregherà per te? Fai,
mio caro, fai ora tutto quel che sei in grado di fare, perché non conosci il
giorno della tua morte, né sai che cosa sarà di te dopo. Accumula ora ric-
chezze eterne, mentre sei in tempo. Non pensare a nient’altro che alla tua
salvezza; preoccupati solo delle cose di Dio. Fatti ora degli amici venerando
i santi di Dio ed imitando le loro azioni, “affinchè ti ricevano nei luoghi e-
terni quando avrai lasciato questa vita” (Lc 16,9).
Mantieniti su questa terra come uno che è di passaggio, come un ospite che
non ha a che fare con le faccende di questo mondo. Mantieni libero il tuo
cuore, e rivolto al cielo, perché non hai stabile dimora quaggiù (Eb 13,14).
Al cielo rivolgi continue preghiere e sospiri e lacrime affinchè, dopo la mor-
11
te, la tua anima sia degna di passare felicemente al Signore. Amen» .
Il brano risente dell’atmosfera in cui è scritto, della grande insicurezza di
vita dei secc.XII-XIII: predoni, pestilenze, incidenti, guerre erano ovunque,
e non si poteva mai essere sicuri di vedere l’indomani, non importa chi si
fosse o cosa si facesse. Ma non è difficile ‘aggiornare’ quella descrizione.
Qui, nell’Occidente ricco e benestante, morire di tumore è davvero molto
frequente e spesso anche rapido, oltre che doloroso; per fortuna questa ma-
lattia non è più considerata ‘infamante’, però se ne parla con un ritegno ben
più forte di quello che riserviamo, ad esempio, agli infartuati o a coloro che

_____________________________
11
De imitatione Christi, c.23, 3 (Nicolini, 84s).

303
subiscono degli ictus cerebrali. Sarebbe poi interessante vedere anche come
si è evoluta la nostra società ‘civile’: madri che gettano i figli nei cassonetti
o li fanno prostituire, padri che li ammazzano di botte o semplicemente non
li educano, figli che abbandonano i genitori nel bisogno, la ‘liberalizzazio-
ne’ di droghe, la diffusione dell’alcool. Tutta questa felicità frutta un tasso
di suicidi che non ha paragoni nel mondo povero ed arretrato, e più il Paese
è benestante più la gente si uccide. Decisamente questo amore per il mondo
uccide più del suo disprezzo.
Ma mettiamo da parte i nostri Paesi ed anche le vicende politico-
religiose cui abbiamo accennato sopra. Prendiamo in considerazione i Paesi
africani, e della loro situazione solo il lato sanitario: l’AIDS è ancora un
flagello che miete migliaia di vittime, i mass media tacciono sulle epidemie
a ripetizione e le multinazionali farmaceutiche ci speculano sopra. Questo
per tacere della malaria, delle parassitosi più varie che affliggono chi abita
in prossimità di laghi e fiumi, della malnutrizione, della cronica mancanza
di acqua potabile. Sicuramente, se non vogliamo sapere o vedere queste co-
se e preferiamo pensare solo a comprare, divertirci, fare una vita da ricchi
senza pensieri né responsabilità (e senza senso), allora la vita è bella. È un
benessere che altri pagano con il sangue, si pensi ad esempio a quanto de-
naro incassano le tante fabbriche di armi vendute nelle tante guerre provo-
cate dai governi occidentali, ma che importa? Quelle fabbriche danno posti
di lavoro. Se si vive così, certo che la morte fa paura. Ma, allora, non siamo
più dei cristiani, perché sappiamo che è scritto (Mt 6,21; Lc 12,34):
«Là dove è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore»,
e se il mio tesoro sono denaro, potere, fama e piacere, allora non amo Dio.
Ma tant’è. Bisognerebbe prendere coscienza una volta per tutte che la fede
cristiana non è più di casa in Occidente né negli USA. Viviamo in mezzo a
popoli del tutto e felicemente (o quasi) pagani, che hanno liberamente scel-
to di esserlo e che democraticamente scelgono di essere guidati da persone
che li portano sempre più in quella direzione. Come nei primi secoli, da-
vanti a questa libera scelta non ci resta altra possibilità che testimoniare con
la nostra vita, ma soprattutto con il nostro modo di affrontare la morte, che
si può amare anche qualcun altro oltre che noi stessi: si può amare Dio.
Sed de hoc satis. Chiarito se e in che modo l’atteggiamento verso la mor-
te può essere una cartina di tornasole per vedere a che punto è la nostra vita
spirituale e se e quanto amiamo Dio, ora si deve mettere a punto una visio-
ne più generale dell’evento-morte dal lato dogmatico.

304
PARTE TERZA

LA TEOLOGIA
DELLA MORTE

sistematica
generale e speciale
Capitolo 11

L’EVOLUZIONE
DELLA
TEOLOGIA DELLA MORTE I

Abbiamo dedicato la prima sezione di questo studio a descrivere la morte


con un’immagine che fosse fondata biblicamente e dogmaticamente ma an-
che, allo stesso tempo, spiritualmente stimolante. Nella seconda ci si è con-
centrati sull’atteggiamento da sempre dominante nei confronti della morte,
la paura: attraverso lo studio della controversia pelagiana si sono reperiti gli
elementi dogmatici e spirituali atti a costruire una percezione se non diver-
sa almeno più consapevole delle radici di tale atteggiamento.
In questa terza sezione tratteggeremo una proposta dogmatica di lettura
complessiva dell’evento-morte. Lo faremo in due momenti: prima faremo il
punto sulla riflessione teologica passata ed odierna, cercando di vederne i
punti deboli e di forza (capp.11-13), poi illustreremo la nostra prospettiva
(cap.14), da integrare con quanto diremo nel capitolo quindicesimo.
Prima di inziare però dobbiamo fare una premessa di portata generale.

11.1. Premessa storico-


metodologica

Non è facile reperire nei dizionari di teologia o nei manuali di escatolo-


1
gia un ‘riassunto delle puntate precedenti’ riguardo al tema della morte , e
certo questo è dovuto al fatto che la manualistica ottocentesca, protestante e
cattolica, ritiene che all’escatologia competa trattare solo degli eventi finali,
cioè resurrezione dei morti e Giudizio, e degli stati finali, ossia beatitudine
2
e dannazione . La morte del singolo, anteriore alla parusia, è solo il passag-
_____________________________
1
Cf. BRANCATO, La questione della morte, op. cit., 25-33: “La neoscolastica ed il trat-
tato de novissimis”.
2
Per un quadro storico del trattato escatologico cf. POZO, Teologia dell’aldilà, op. cit.,
37-47; NITROLA, Trattato di escatologia, I, 28-34.

307
gio da questa vita all’altra, come una porta tra due stanze. E come l’arreda-
tore poco si cura delle porte perché non è lì che si vive, così la manualistica
ottocentesca poco si cura della morte perché è transito di un istante. A metà
del sec.XX però questo silenzio diventa insostenibile: i 14 milioni di morti
della prima guerra mondiale, i 60 della seconda, i 27 dell’influenza spagno-
la e soprattutto l’inaccettabile orrore dei campi di sterminio esigevano delle
risposte e soprattutto più rispetto per così tanto dolore sparso in appena 40
anni. Ma la manualistica, che ragiona per categorie ‘perenni’, è incapace di
cogliere ed interpretare il fluire della realtà storica. Così, a partire dagli an-
ni precedenti il Vaticano II, in un contesto di generale aspirazione al muta-
mento e stimolata da impulsi sociologici, filosofici, culturali di varia estra-
zione e consistenza, inizia una produzione ricca e un po’ disordinata di stu-
di e ricerche sulla morte che continua ancor oggi.
Nel primo quarto del sec.XXI la letteratura teologica sulla morte è ormai
così vasta che padroneggiarla è quasi impossibile, e così varia da insinuare
il dubbio che regni più la confusione che la pluralità. Rincorrere le opinioni
di questo o quel teologo non conviene: è meglio tentare di individuare delle
correnti di pensiero (se ci sono) ed esporle nel loro reciproco influenzarsi.
È però assolutamente necessario prendere coscienza che queste opinioni ri-
sentono di una grave distorsione della realtà storica.
* * *
Per i cattolici, rifiutare la manualistica significa rifiutare la neoscolastica
che l’ha concepita. E siccome la neoscolastica sintetizza la teologia anterio-
re, si respinge anche quella, perché ancor più incapace di cogliere un pre-
3
sente distante secoli . Così, mentre il Vaticano II è preceduto e preparato da
una fioritura di studi patristici e medievisti, nel post-concilio si ha un lento
ma continuo abbandono di entrambi gli ambiti, con i quali oggi de facto ci
si comporta proprio come la manualistica preconciliare. Ma è storicamente
del tutto falso che il patrimonio medievale (mille anni!) sia riassunto dalla
4
neoscolastica, e persino che questa coincida con il tomismo . Del tutto illu-
_____________________________
3
In realtà, che la neoscolastica sintetizzi la teologia precedente è affermazione neosco-
lastica, contro la quale però nessuno può opporsi perché fino agli inizi del sec.XX gli
studi di medievistica sono tutti condotti in quella prospettiva. Dopo i saggi di Gilson,
però, questo monopolio si spezza ed è possibile scoprire il gioco neoscolastico.
4
P.es. esiste anche l’indirizzo scotista, così diverso da quello tomista da creare scontri
forti: p.es., i padri dell’ed. Quaracchi lamentano che esporre la dottrina bonaventu-
riana sulla materia spiritualis è presa per ratifica del materialismo (cf. BONAVENTU-
RA, Commentaria in quattruor libros Sententiarum Petri Lombardi, ed. Quaracchi,
II, Grottaferrata 1883, 92, scholion; si noti la data). Nell’alveo domenicano vi è poi
la Scuola di Alberto Magno, dalla quale sboccia la mistica renana e fiamminga.
Ma anche il tomismo è tutt’altro che omogeneo cf. p.es. G. PROUVOST, Thomas
(segue)

308
sorio è anche credere di potersene liberare riassumendola ad hoc con tono
5
un po’ supponente ; senza elaborare strumenti almeno equipollenti si fini-
sce con il riesumare cadaveri teorici come la ricreazione ex novo dell’uomo
6
o la sopravvivenza larvale dell’anima separata . Questa distorsione è certo
7
frutto di grande ignoranza, non sempre ma spesso incolpevole , tuttavia non
si può negare che alimentarla oggi torna comodo un po’ a tutti.
Fa comodo ai Riformati perché, facendo piazza pulita di tutto quel che la
Chiesa insegna prima di Lutero, de facto si assicurano il punto centrale del-
______________________________
d’Aquin et les thomismes, Paris 1996, che, nel solo sec.XX, distingue almeno tre in-
dirizzi diversi. Né fare il nome di Tommaso implica fedeltà al suo pensiero: p.es. É.
GILSON, «Cajetan et l’humanisme théologique», Archive d’Histoire Doctrinale et Lit-
teraire du Moyen Age 22 (1955) 113-136 (si noti la data), afferma che il Caietano
(Tommaso de Vio, 1469-1534) è ‘il maggior corruttore di Tommaso’.
Il Medioevo poi non coincide davvero con il sec.XIII. Vi è anche l’immenso patri-
monio dei sec.XII e XIV, molto diversi tra loro e da quello del sec.XIII. In realtà al
medievista si accappona la pelle quando legge che la ‘neoscolastica riassume il Me-
dioevo’, ma come spiegarlo agli altri? Non solo non vi sono cattedre di ‘teologia me-
dievale’ ma oggi è in gioco la stessa sopravvivenza della ‘filosofia medievale’. Le
Università cattoliche potrebbero avere un ruolo fondamentale per invertire la tenden-
za ma per i Consigli di Ateneo questo non pare un problema.
5
Cf. p.es. BRANCATO, La questione della morte, op. cit., 16, che leggeremo più avanti.
6
Cf. p.es. P. ALTHAUS, Die letzen Dingen. Lehrbuch der Eschatologie, Gütersloh
1957; O. CULLMANN, Immortalité de l’âme ou résurrection des morts? Le téimogna-
ge du Nouveau Testament, Neuchâtel-Paris 1956. Su queste opinioni, la loro origine
ed il loro immediato rifiuto da parte Riformata ci si è soffermati al punto 1.2.2. È be-
ne notare che l’idea della sopravvivenza larvata è ancor oggi insegnata dai valdesi.
7
Per il passato basta ricordare che i testi originali dei Padri raggiungono il grande pub-
blico solo dopo il 1942, con la collana delle Sources chrétiennes fondata da de Lubac
e Danielou. Ma non mancano altre collane e tantomeno gli studi patristici, quindi non
è difficile aver un contatto personale, se lo si vuole. Tutt’altra storia per il Medioevo.
Le opere ante sec.XII sono consultabili quasi tutte solo nella Patrologia, disponibile
in internet ma di non facile accesso e poco affidabile. Di quelle del sec.XIII abbiamo
molte (ma rare) edizioni del sec.XX ma i fondi sono quasi esauriti: il corpus thomi-
sticum e quello albertinum sono arenati e molte opere resteranno manoscritte a lun-
go. Quanto al sec.XIV, se si eccettua il corpus scotisticum e poche altre edizioni, re-
sta anch’esso in gran parte allo stato manoscritto. Non stupisce dunque che la medie-
vistica, dopo gli studi pioneristici di Gilson (inizi sec.XX) e una ricca ma breve fiori-
tura successiva, sia oggi nello stato semi-comatoso di cui si è già detto.
Per il presente basta consultare la ratio studiorum degli studi teologici per rendersi
conto che il contatto con le fonti è ottimo per la Scrittura, molto lacunoso riguardo ai
Padri, avvilente per il Medioevo. Si potrebbe rimediare con una manualistica meno...
scolastica, ma per costruirla ci vuole tempo per leggere e riflettere: invece i neodotto-
ri (spesso anche parroci) sono subito messi ad insegnare. Poi si deve sentire il biso-
gno di farlo, e questo solo dei maestri possono trasmetterlo, da persona a persona: ma
oggi si preferisce fare ‘formazione a distanza’...

309
la loro ecclesiologia. E, se si riesce a ridurre la teologia cattolica alla neo-
scolastica, una volta liquidata questa si è vinta la secolar tenzone. La ridu-
zione poi è facile: gli stessi cattolici la sponsorizzano.
Infatti, che lo facciano i pochi neoscolastici ancora attivi è ovvio, ma an-
che agli altri teologi cattolici conviene ridurre alla neoscolastica l’immenso
patrimonio anteriore al Vaticano II, per diverse ragioni. Chi si oppone alle
riforme conciliari lo fa in base a quelle categorie: eliminarle toglie il terre-
no sotto i loro piedi. Poi, non dover fare i conti con un patrimonio comples-
so e delicato come quello permette di pensare, proporre, interpretare senza
troppi vincoli. Soprattutto non si è obbligati ad armonizzare quella teologia
con i diversi indirizzi post-conciliari. Se aggiungiamo la gradevole sintonia
con i Riformati, spesso scambiata per dialogo ecumenico, come resistere
alla tentazione di far di tutta l’erba un fascio?
È chiaro che questa falsa riduzione ha radici profonde, e certo non saran-
no queste povere pagine a svellerle (se mai saranno lette). Però bisogna de-
nunciarla, perché dà un’immagine falsa del passato e del suo valore. Ci li-
mitiamo a notare che, se si leggono i testi dei Padri e dei Medievali (i testi,
si badi, non antologie o riassunti), non dei soliti due o tre ma di molti, sarà
chiara non solo la falsità della cristallizzazione neoscolastica ma anche la
fluidità incredibile di un mare immenso di opinioni. Se poi leggiamo quelle
parole come rivolte a noi, senza cercarvi soluzioni preconfezionate, magari
su come usare internet o il cellulare, allora si scoprirà che ogni situazione
odierna può essere affiancata ad una di quelle incontrate da loro, e le loro
valutazioni adattate alle nostre esigenze. Non copiate, adattate. Con intelli-
genza. Così si rende viva la Tradizione: aprendo lo scrigno e traendone co-
se vecchie e cose nuove, non portandolo in soffitta e rifacendo tutto ex no-
vo come se il mondo fosse nato ieri. Per far questo però i teologi dovrebbe-
ro star meno in biblioteca e più tra la gente, curare meno le note a piè di
pagina e più la scelta delle letture, pensare meno a pubblicare e più alla loro
vita spirituale. Ma c’è, oggi, chi insegna a far questo?
Oltre alla denuncia ed al cahier de doléance è però necessario dare anche
spunti in positivo. Lamentarsi infatti è facile, il difficile è costruire. Non ci
illudiamo certo di correggere una situazione così delicata: più modestamen-
te cercheremo di riequilibrare la proporzione tra le informazioni. E siccome
quella attualmente più diffusa è sbilanciata in una certa direzione, la nostra
presentazione lo sarà nell’altro. Chi legge tenga dunque presente che si cer-
ca di integrare i lavori di altri: se consulta solo quelli o solo il nostro avrà
un quadro distorto. Poiché il periodo dal ‘900 ad oggi è il più studiato, de-
dicheremo poco spazio ai testi e faremo molti rinvii a studi e saggi generali.
Investiremo di più sui testi nella parte dedicata ai tre secoli antecedenti per-
ché è vero che gli studi non mancano, però tendono ad accentuare alcuni

310
elementi a scapito di altri, specie per il sec.XV. La lettura dei testi sarà in-
vece centrale nella parte dedicata al Medioevo, la più ampia per le ragioni
già esposte. Mancherà invece una parte dedicata ai Padri della Chiesa, per-
ché già ampiamente sondati nei capitoli precedenti.
Sed de hoc satis. È il momento di iniziare la nostra ricognizione.

11.2. Le teologie della morte


nei secoli VIII-XIV

Dopo l’epoca patristica (sec.VIII) la distanza tra la porzione Occidentale


e quella Orientale della Chiesa diventa un solco sempre più profondo, ed il
diverso atteggiamento verso la morte ne è un indizio inequivocabile.
In Oriente l’Impero romano subisce forti ridimensionamenti ad opera del
nascente dominio musulmano: all’inizio è solo questione politica, poi, con
il tempo, diventa cambiamento religioso. È vero che l’interiorizzazione del-
8
le conversioni, anche quelle non forzate , richiederà secoli, ma, è bene dir-
lo, tra Cristianesimo ed Islam vi sono poche differenze nell’atteggiamento
verso la morte. Se per i cristiani la vita virtuosa porta ad una morte santa,
altrettanto vale per i musulmani. La Chiesa tiene in grande onore i martiri,
ma lo fa anche l’Islam. In realtà il buon musulmano non teme la morte così
9
come non la teme il buon cristiano, e per le stesse ragioni . Di conseguenza,
anche se semplificare non è mai bene, si può dire che, in Oriente, i cristiani
riescono a mantenere verso la morte l’atteggiamento ereditato dai Padri.
In Occidente le cose invece cambiano sin dal sec.V, e molto. La nascita
dei Regni romano barbarici prima e l’avvento di Longobardi e Franchi poi
appannano la cristianità dell’Europa. Non scompare né diventa eretica, co-
me vogliono alcuni teologi ortodossi, ma certo risente di culture pagane ri-
coperte di una patina cristiana fresca, talvolta persino ariana. È poi tempo
di profondo ed incessante impoverimento sociale, economico e culturale, di
insicurezza radicale che intacca la fede di molti e rende difficile conservare
il patrimonio del passato. Ci si riesce, sia chiaro. Lo provano Gregorio Ma-
gno, Beda il Venerabile e altri. Ma i frutti compaiono solo nel sec.X, quan-
do il contesto socio-economico migliora (la paura del Millennio è un mito
_____________________________
8
Per l’Islam Ebrei e Cristiani sono ‘popoli del Libro’, ossia fedeli a Dio anche se non
in modo perfetto: per questo non è necessario che diventino musulmani, il che invece
vale per politesti, animisti, buddhisti ecc. Ciò non significa che non vi siano mai state
conversioni forzate, al contrario. Ma si tratta di violazioni del Corano.
9
Cf. p.es. W.C. CHITTICK, «Muslim eschatology», in J.L. WALLS (ed.), The Oxford
handbook of eschatology, Oxford 2008, 132-150.

311
che gli storici hanno sfatato da cinquant’anni), e comunque vi è un prezzo
da pagare. O forse è lo strumento voluto dallo Spirito perché la sua Chiesa
non rimanesse rinchiusa entro categorie destinate a tramontare. In ogni ca-
10
so, è dell’evoluzione in Occidente che qui ci occuperemo .

11.2.1. Le teologie della morte


nei secoli VIII-XI

I secc.VIII-XI sono quelli nei quali le difficoltà sono più forti. Dal punto
di vista ecclesiale le energie disponibili sono molto poche, e sono investite
in due direzioni fondamentali: preservare fisicamente il patrimonio del pas-
sato e cercare di fare sintesi. I commentari alla Scrittura di Rabano Mauro
(780-856) o Floro di Lione (800-860) sono grandi collage di testi patristici,
11
non privi di ogni originalità , scritti da uomini con non poca sensibilità spi-
rituale: il Veni creator Spiritus, il cui canto scioglie il cuore, è di Rabano,
ancora allo Spirito Notker di san Gallo (840-912) dedica il Veni sancte Spi-
_____________________________
10
Per un quadro globale dell’evoluzione del pensiero escatologico dal sec.VII al XIII
cf. POZO, Teologia dell’aldilà, op. cit., 21-34; purtroppo sulla morte non vi è niente.
Per un’inquadratura rapida ma completa sui secc.VIII-XV cf. B. MONDIN, Storia del-
la teologia, II (Epoca scolastica), Bologna 1996, 7-11; l’indice (539-549) rivela co-
me i neoscolastici leggono il Medioevo, anche se Mondin non lo è.
11
P.es., Rabano Mauro (780-856) vuol commentare tutta la Scrittura, e lo fa per gran
parte dell’AT e quasi tutto il NT. I 22 libri del suo De universo, mutuato sulle Etymo-
logiae di Isidoro di Siviglia ma senza rinvii classici ed integrato da passi biblici e pa-
tristici, sono un ‘dizionario biblico’ ante litteram. Originalissimo è poi il De laudibus
sanctae crucis: ai carmina in onore della croce, in scrittura continua, sono sovrappo-
sti disegni che ‘selezionano’ lettere e parole per formare carmi nei carmi: è la prima
opera di Rabano (813). Per capire la poliedricità di Rabano cf. C. LEONARDI, «L’en-
ciclopedia di Rabano», in F. SANTI (ed.), Medioevo latino. La cultura dell’Europa
cristiana, Firenze, 2004, 289-306; F. GASTI, «Il corpo umano: estratti isidoriani nella
Enciclopedia di Rabano Mauro», in C. CODOÑER - P.F. ALBERTO (edd.), Wisigothica.
After M.C. Díaz y Díaz, Firenze 2014, 503-520; R. GAMBERINI, «Rabano Mauro,
maestro di esegesi e uomo di potere. Il difficile rapporto tra due dimensioni della sua
esistenza», in I. PAGANI - F. SANTI (edd.), Il secolo di Carlo Magno. Istituzioni, lette-
rature e cultura del tempo carolingio, Firenze 2016, 273-296.
Ovviamente non tutti hanno queste caratteristiche: p.es., Floro di Lione è compila-
tore meno abile di Rabano ma teologo più fine e più coinvolto nelle dispute teologi-
che, Incmaro di Reims (806-882) più politico che vescovo e teologo, Remigio di Au-
xerre (840-901) un magister che vive solo per la scuola. In ogni caso, eccetto appun-
to Rabano e pochi altri, nel sec.IX tutto ruota intorno alla Scrittura: cf. S. CANTELLI,
«L’esegesi della Rinascita caroligia», in G. CREMASCOLI - C. LEONARDI, La Bibbia
nel Medioevo, Bologna 1996, 167-198.

312
ritus, e si potrebbero fare altri esempi. Riguardo all’atteggiamento verso la
morte, il clima di questi secoli, intriso di paura e sofferenza, spinge in due
direzioni: da un lato il dolore è così forte da divenire insopportabile, ragion
per cui si preferisce tacerlo invece di lamentarlo, da un altro convince che è
meglio preoccuparsi dell’aldilà, eterno e felice, che non dell’aldiqua, breve
e ben poco attraente. Quando poi si pensa che quegli uomini leggono questi
stessi atteggiamenti negli scritti dei Padri, che consultanto sperando di rice-
vere lumi, forza e conforto, non dovrebbe stupire se in quei secoli la morte
è vista come la liberazione da un incubo, l’agognato ingresso in una libertà,
serenità e sicurezza che non vedono intorno a loro. È reazione umanamente
comprensibile ma oggi spesso fraintesa, o meglio colta fuori del suo conte-
sto esistenziale, sia psicologico che spirituale. Ma su questo aspetto avremo
modo di tornare con agio al punto 11.3. Preferiamo invece leggere un passo
dal Commento al Cantico dei cantici di Haimo di Auxerre († 865) perché,
sebbene ispirata a Beda il Venerabile, questa opera è stata attribuita a lungo
niente di meno che a... Tommaso d’Aquino! Scrive dunque Haimo:
«A ragione il sonno è chiamato ‘amore’, perché, come chi dorme chiude gli
occhi alle cose visibili e contempla le invisibili, così chi insiste nella con-
templazione divina diventa come alieno, e dorme riguardo alle cose esteriori
vedendo solo le spirituali e celesti. Né fa meraviglia se l’amore è chiamato
12
‘sonno’, perché in seguito è chiamato (anche) ‘morte’ (cf. Ct 8,6)» .
Si è già esaminata l’idea della dormitio mistica nel capitolo quarto, e qui,
in questo commento del sec.IX, si coglie il trait d’union tra l’origine patri-
stica ed i testi del sec.XII letti al punto 4.3. In realtà i commenti al Cantico
sono il locus privilegiato per osservazioni di questo genere, anche se non in
tutti si trovano: per esempio, Angelom di Luxeuil († 855) non ne fa parola,
così come tace Guglielmo di saint-Thierry (1075-1148), mentre il suo ami-
13
co Bernardo di Clairvaux è molto sensibile a questa immagine .
Con ciò non si deve credere che l’esegesi di questo periodo sia sempre e
comunque allegorica. Per esempio, e proprio a proposito dell’ingresso della
morte nella natura umana, Angelom di Luxeuil scrive:
_____________________________
12
HAIMO DI AUXERRE, In Cantica canticorum enarratio, c.3 (PL 117, 310; trad. no-
stra). Su questo autore poco noto e la sua bella opera cf. R. SAVIGNI, «Il Commenta-
rio di Aimone di Auxerre e le sue fonti», in R. GUGLIELMETTI (ed.), Il Cantico dei
Cantici nel Medioevo. Atti del Convegno internazionale (Gargnano sul Garda, 22-24
maggio 2006), Firenze 2008, 189-225. La falsa attribuzione a Tommaso, autore mol-
to posteriore ad Haimo e certo assai diverso da lui sotto ogni aspetto, fa pensare: cosa
ha mai potuto suggerire un simile accostamento?
13
Cf. BERNARDO DI CLAIRVAUX, Sermones in Cantica canticorum, sermo 52, 1,1-3,6
(SCh 472, 60-70; trad. it. II, 76-81; cit.).

313
«(Gen 3,19): “Polvere sei ed in polvere tornerai”. Questo un’altra versione
lo rende più chiaro: “Terra sei ed in terra andrai”. Il primo uomo fu creato in
modo tale che, se fosse rimasto in quello (status), il tempo si sarebbe ritratto
(da lui) (decederent tempora) così che lui non passasse (via) con lui. Mentre
i momenti scorrevano, infatti, lui rimaneva, perché non tendeva al termine
della vita attraverso l’aumento (degli anni). Ma, quando sopraggiunse il vi-
zio, subito il Signore, offeso, venne con il tempo, e così lo sentì (dire): “Ter-
ra sei ed in terra tornerai”. Perso lo stato di immortalità, fu assorbito dal cor-
so della mortalità e fu portato dalla gioventù alla vecchiaia e dalla vecchiaia
14
alla morte, e in questo passare imparò in quale status era vissuto» .
L’immortalità di Adamo consiste dunque nella semplice immunità dallo
scorrere del tempo, senza coinvolgere la sua costituzione metafisica e senza
alcun risvolto morale. Angelom sembra anticipare quel che leggeremo più
avanti, ossia che lo status naturale di Adamo era quello immortale: e lo si
leggerà in... Tommaso d’Aquino! Ma queste assonanze non sono da pren-
dere sul serio; conviene invece lasciare l’ambito dei dotti e cercare di sco-
prire come, in concreto, si vive in questi secoli la morte.
Non potendo compiere una ricognizione in prima persona sui documenti
del tempo, ci lasciamo descrivere dagli studiosi il momento cruciale, la di-
15
partita, mettendo ovviamente da parte il caso di morte improvvisa .
* * *
Per tutti i secc.VIII-XII il modo di congedarsi da un defunto, meglio, da
una persona che sta per morire, è profondamente diverso dal nostro.
La prima cosa da evidenziare è che non vi è quasi nessuna differenza tra
il povero ed il ricco: naturalmente siamo più e meglio informati su quel che
accade al secondo che non al primo, ma il quadro descritto è essenzialmen-
te il medesimo. Il moribondo chiede perdono ad amici e parenti che si tro-
vano intorno al suo letto, quindi dichiara a voce alta come intende provve-
dere alle cose che deve sistemare. Quindi, a mani giunte levate verso l’alto,
chiede perdono a Dio e recita una preghiera che, in non pochi casi, sarà in
un latino malamente storpiato. Se il moribondo è persona di un qualche ri-
lievo, il prete presente gli dà l’assoluzione, lo benedice e l’asperge con ac-
qua benedetta; a partire dal sec.XII riceve anche il viatico, l’eucarestia por-
tata appositamente dalla chiesa. Fin qui non vi sono molte differenze con il
_____________________________
14
ANGELOM DI LUXEUIL, Commentarius in Genesim, c.3 su Gen 3,19 (PL 115, 143;
trad. nostra).
15
Seguiremo PH. ARIÈS, Essais sur l’histoire de la mort en Occident. Du Moyen Âge à
nos jours, Paris 1975, 79-97, qui 79ss; IDEM, L’homme devant la mort. I. Le temps
des gisant, Paris 1977, 141-200. La morte improvvisa (‘mala morte’) è molto temuta
perché impedisce di pentirsi e confessarsi, ma è ovvio che di incidenti, rapine et simi-
lia non si può dare resoconto, né storico né filosofico-teologico.

314
rituale odierno, eccetto il conferimento dell’Estrema Unzione; le distanze si
fanno invece marcate nella prosecuzione.
Nella bara il defunto è steso con il volto rivolto ad est, da dove sorge il
sole ma anche da dove tornerà il Messia. Intorno a lui il dolore si manifesta
in modi e misure che oggi vediamo solo nei paesi del Medio Oriente e, in
alcune occasioni, nell’Italia meridionale: le donne urlano e si stracciano le
vesti, talvolta si gettano a terra mentre gli uomini si strappano barba e ca-
pelli. Quindi il prete ripete i gesti assolutori già compiuti in casa: nel caso
di una persona di rilievo vi sono anche ministranti, croce a stilo, incenso e
candele. Terminata questa parte, e calmatesi le anime, il corteo funebre par-
te e si avvia verso il cimitero, in silenzio, seguendo un percorso stabilito ed
uguale per tutti, dove il defunto sarà inumato rapidamente e senza solenni-
tà. Naturalmente il povero sarà sepolto nella nuda terra con una semplice
croce ad indicarne il luogo, mentre il ricco sarà stato accompagnato da per-
sone ben vestite (il nero non è ancora il colore del lutto), avrà una sepoltura
più ricercata, in alcuni casi in una tomba di famiglia o nel pavimento di una
chiesa quando non addirittura in un sarcofago in marmo e scolpito. Si tratta
però di dettagli che non modificano il quadro di fondo né la comune inten-
zione di sdrammatizzare l’evento, anche senza negarne la dolorosità.
Gli studiosi ritengono che questa omogeneità di fondo sia una eredità del
tempo pagano-romano, al quale appartengono anche i nuovi padroni, quelli
che allora erano genericamente ‘barbari’ e ora invece si chiamano Franchi,
Longobardi, Burgundi, Sassoni, Angli, Scoti... Senza dubbio dietro la sotti-
le patina di una fresca conversione sono ancora solide molte usanze e cre-
16
denze del passato , ma è anche vero che gli uomini di allora sono assai di-
versi da noi. Le conversioni sono spesso recenti, è vero, ma, se non forzate
o interessate, sono anche profondamente sentite e sincere. Così si spiega la
diffusione incredibile della pratica del pellegrinaggio, che per moltissime
persone significa mettersi in cammino per mesi o anni, rischiare la vita ogni
giorno su strade ignote per raggiungere paesi sconosciuti dei quali non si
capisce la lingua. Talvolta la meta è abbastanza vicina (non troppo, però...),
ma di solito se ne sceglie una lontana: Roma, il Gargano, Santiago di Com-
postela, persino Gerusalemme... E prima di partire si fa pace con i nemici,
si saldano i debiti, si fa testamento e ci si confessa: in pratica, partire è co-
_____________________________
16
Per un’idea della lentezza con la quale l’Europa diventa cristiana cf. p.es. R. FLET-
CHER, La conversione dell’Europa dal paganesimo al cristianesimo: 371-1386 d.C.,
Roma 2000. Ma il 1386 è termine di comodo: l’autore riporta (ibid., 617) lo stralcio
di una lettera del vescovo di Salzburg all’imperatore Massimiliano I nella quale scri-
ve: «L’uomo comune non è in grado neppure di recitare il Padre Nostro o l’Ave Mria
con le parole giuste, e non conosce il Credo degli Apostoli per non parlare dei dieci
comandamenti». E siamo nel cuore della Baviera cattolica nel... 1608.

315
me morire, solo non a sorpresa. Chiaramente tutto ciò suppone un rapporto
con Dio di una forza oggi davvero molto rara, e così molti studiosi, che non
credono possibile amare Dio fino a tal punto, preferiscono attribuirlo ad al-
tro: superstizione, paura, ignoranza e via dicendo. Ma sfugge loro (perché
non stanno fra la gente di carne ed ossa ma in biblioteca) che chi è davvero
pauroso non rischia la pelle per mesi o anni, che all’ignorante fa più paura
il pericolo che vede di quello che non vede, che il superstizioso vuole sem-
plificarsi la vita, non complicarla fino a morire.
Con questo non si vuol dire che i pellegrini fossero tutti santi come Fran-
cesco o Domenico, ma solo che la percezione della transitorietà corporea è
forte e sentita tanto quanto la convizione dell’eternità dell’anima. La morte
rimane spaventosa e dolorosa ma non è la fine, perché si spera in Dio.

11.2.2. Le teologie della morte


nel secolo XII

Nel sec.XII i cambiamenti iniziati a metà del sec.XI cominciano a porta-


17
re frutti e l’atmosfera cambia radicalmente . Questa diversità è descritta in
molti modi da molti autori ma, per quel che ci riguarda, gli studi sono anco-
ra pochi. Ad exemplum di questo nuovo sentire prenderemo un autore tra i
18
più importanti di quel secolo, Bernardo di Chiaravalle (1090-1153) .
* * *
Bernardo ripresenta, quasi identica, la prospettiva di Ambrogio, anche se
non lo nomina mai. Nel primo dei Sermones ad diversa infatti si legge:
«È bene, per colui che continua ad operare il male, che almeno la necessità
ponga una fine alle sue malefatte, alle quali la sua volontà non sa porre una
misura. È una cosa buona, per colui che sempre ha la morte nell’anima, che
muoia presto nel corpo; anzi, “Sarebbe stato bene per lui che non fosse mai
nato” (Mt 26,24). Ed il ricordo poi della brevità della vita avrebbe dovuto
essere un rimedio più che un incentivo di peccato, come sta scritto (Sir 7,40
19
vulg.): “Ricorda i tuoi novissimi e non peccherai giammai”» .
_____________________________
17
Cf. il classico C.H. HASKINS, La rinascita del XII secolo, Bologna 1972 (orig. 1927).
18
Per una inquadratura del tempo e della figura di Bernardo cf. J. LECLERQ, Bernard de
Clairvaux, Paris 1989; per un’attenzione maggiore al suo lato mistico cf. IDEM, Saint
Bernard mystique, Paris 1948.
19
BERNARDO DI CLAIRVAUX, Sermones ad diversa, sermo 1,1 (SCh 496, 64; trad. it. 29,
rivista). La trad. it. non è condotta sull’ed. critica. La cit. di Sir in CEI (7,36) è: “In
tutte le tue opere ricordati della tua fine e non cadrai mai nel peccato”. I novissimi di
vulg. sono un chiaro rinvio escatologico che invece CEI appiattisce su una ‘fine’ che
(segue)

316
Altrove questa sintonia è ancor più netta:
«Vi sono di quelli per i quali Cristo non ha ancora subito la passione: fug-
gono le fatiche (della vita spirituale), hanno ancora timore della morte, co-
20
me se Egli, sopportando fatiche e morendo, non avesse vinto la morte» .
Se davvero esistesse una frattura tra Agostino ed Ambrogio, dal passo si
dovrebbe supporre che Bernardo replichi simile iato. Ma queste contrappo-
sizioni tra Padri sono quanto mai lontane dalla forma mentis medievale, che
cerca sempre ed in ogni modo la conciliazione. Se poi lo scontro non si può
evitare, di solito si risolve a favore di Agostino. Ma ci stiamo addentrando
senza motivo nel periglioso regno delle ipotesi. Leggiamo infatti cosa dice
Bernardo a riguardo di un tema caro ad Agostino, la morte dei santi:
«Che la morte dei santi sia preziosa al cospetto del Signore dipende talvolta
dalla loro vita, talvolta dalla causa della loro morte, talvolta da una e dall’al-
tra. Nei confessori “che muoiono nel Signore” (Ap 14,13) è la vita che rende
preziosa la morte. Nei martiri che muoiono per il Signore, rende preziosa la
morte talvolta la sola causa, talvolta la vita e la causa insieme. È già prezio-
sa quella morte che è preceduta da una buona vita; più preziosa è quella che
è subita per una causa santa; preziosissima poi è quella che è preceduta da
21
una santa vita ed incontratata per una causa santa» .
Come si vede, d’accordo con Ambrogio, Bernardo insegna che la buona
morte è frutto di una buona vita ma, stavolta in accordo con Agostino, può
venire anche dal solo martirio. Bernardo chiude il Sermo in positivo:
«Tre cose rendono preziosa la morte dei santi: il riposo dalla fatica, il gau-
22
dio per la novità (novitas), la sicurezza per l’eternità» ,
dove la novitas significa il rinnovamento spirituale, la beatitudine.
Ma queste note non rendono giustizia alla poliedricità del sentire di Ber-
nardo, il quale è poi per noi l’exemplum del sentire del suo tempo. Infatti, a
fianco della continuità con il passato or ora presentata, il Doctor mellifluus
(ed il suo tempo) offrono due grandi novità. La prima la si è già presentata
al punto 4.3. ed è l’uso della dormitio come immagine dell’estasi mistica:
la dormitio dei sensi che questa provoca è del tutto analoga alla dormitio
______________________________
non può esser altro se non la morte. Certo è più facile spiegare questo che non il testo
latino, ma il compito di esegeti e presbiteri è questo, non modificare la Scrittura.
20
BERNARDO DI CLAIRVAUX, Sermones per annum, sermo IV de resurrectione, 1 (SBO,
V, 110; trad. it. 279, rivista).
21
BERNARDO DI CLAIRVAUX, Sermones ad diversa, sermo 64, 1 (SCh 518, 420; trad. it.
327, rivista).
22
BERNARDO DI CLAIRVAUX, Sermones ad diversa, sermo 64, 2 (SCh 518, 422; trad. it.
328, rivista).

317
23
della morte . Su questo parallelo ci siamo già soffermati e quindi non è ne-
cessario approfondirlo adesso. Non così invece la seconda novità.
In uno dei Sermones sul Cantico dei Cantici infatti Bernardo afferma:
«Io, essendo peccatore, non desidero la mia dissoluzione ma la temo, ben
sapendo che “pessima è la morte dei peccatori” (Sal 33,22a Vulg.). Come
non sarebbe pessima la morte, quando non viene incontro la Vita? Temo di
uscire e nello stesso ingresso del porto io sono preso da timore, mentre non
ho fiducia che vi sia di là chi mi riceve quando uscirò. Come potrei infatti
uscire sicuro se il Signore non custodisce la mia uscita (cf. Sal 121,8)? A-
himè! Sarò lo scherno di demoni che mi arresteranno, se non mi assiste Co-
24
lui che mi redime e mi salva» .
Qui il Doctor mellifluus, uno degli uomini più influenti del sec.XII, in un
sermone veramente predicato e non scritto a tavolino per i posteri, davanti a
monaci e non a gente comune o spiritualmente incolta, afferma di non voler
morire, anzi, di averne timore. Per i parametri precedenti, specie l’opzione
pro-ambrosiana, questa è un’ammissione di poca fede, di arretratezza spiri-
tuale, confessione ancor più sconcertante in quanto assolutamente pubblica
e fatta davanti a persone che, come i monaci cistercensi, amano poco simili
debolezze. Né si deve pensare che sia un’eccezione. Nel Sermo 26 sul Can-
tico, nel quale piange la morte del fratello Gerardo, monaco come lui e con
lui, Bernardo arriva a dire:
«Non sono insensibile, lo confesso, al dolore: ho orrore della mia morte e di
25
quella dei miei» .
Forse Bernardo è impazzito? Oppure getta la maschera, scoprendo l’ipo-
crisia di ciò che diceva prima? Né uno né l’altro. In realtà questi sentimenti,
in generale il rifiuto della sofferenza propria ed altrui, non sono mai scom-
parsi, né mai li si è rifiutati o repressi. Sono umani, perciò si leggono anche
in Ambrogio, Agostino, Gregorio, per questa ragione o per quella, espressi
come si usava fare al loro tempo. Spiace doverlo dire, ma non è vero che
«La filosofia contemporanea ha smascherato le lacune della riflessione clas-
sica, evidenziandone i limiti (...) ed ha avuto il coraggio di parlare del carat-
_____________________________
23
Cf. BERNARDO DI CLAIRVAUX, Sermones in Cantica canticorum, sermo 52, 1,1-3,6
(SCh 472, 60-70; trad. it. II, 76-81). Questa trad. it. segue l’ed. critica.
24
BERNARDO DI CLAIRVAUX, Sermones in Cantica canticorum, sermo 56, 5 (SCh 472,
44ss; trad. it. II, 115). Sal 34,22a CEI recita: «Il male fa morire il malvagio», contro
TM (“il male porterà l’empio alla morte”), Vulg. (in testo) e LXX (“la morte dei pecca-
tori è cattiva”). Sul testo CEI il Sermo semplicemente non sta in piedi.
25
BERNARDO DI CLAIRVAUX, Sermones in Cantica canticorum, sermo 26, 9 (SCh 431,
300ss; trad. it. I, 293).

318
tere drammatico e tragico della morte e del morire proprio perché ne ha par-
26
lato soprattutto dal loro profondo significato umano» .
Questo è un buon esempio del comodo che fa la ‘riduzione’ di cui si par-
lava all’inizio e delle conseguenze che comporta. Chi scrive così, è chiaro,
ha letto poco o nulla degli autori che critica, e si lascia raccontare da altri le
loro visioni, presumendo che siano informati. Certo, leggere scritti dei quali
niente ci piace e nulla condiviamo è un’ingrata fatica, e forte è la tentazione
di servirci di comodi e magari anche recenti abrégée... Ma bisogna resiste-
re, perché il relata refero non è scientificamente corretto. È necessario ave-
27
re contatti di prima mano con le opinioni che si vuol criticare . Ora, se ci si
prende la briga di leggere ‘classici’ come il nostro Bernardo, scopriamo sia
forti appigli alle critiche che contraltari di non poco conto e l’inaffidabilità
28
di certi se-dicenti esperti . Si legga il Sermo 26 di Bernardo per intero e lo
si capirà. Si scopra come e perché Gregorio smette di commentare Ezechie-
le e lo si capirà. E si ricordi che si tratta sempre di orazioni pubbliche, tenu-
te davanti a gente che sa a cosa si riferiscono e che perciò condivide quei
sentimenti. Più avanti leggeremo lettere personali di Basilio che rivelano lo
stesso dolore di Bernardo per la morte di amici, bambini, disastri naturali.
Non sono saggi di abilità letteraria ma sincera comunicazione affettiva, che
si inserisce a pieno titolo in quell’atmosfera più generale descritta alla fine
del punto precedente.
Il punto, semmai, è un altro. Perché questi sentimenti affiorano ora, nel
sec.XII, quando le cose vanno meglio, e non prima, quando andavano peg-
gio? Anche qui, come in precedenza, non vi è bisogno di fini analisi psico-
logiche per capire la ragione di questa novitas. Terminata l’era di un dolore
ubiquitario, per contrastare il quale era necessario un altrettanto ubiquitario
contraltare, in un tempo nel quale la ritrovata pace e prosperità sembra an-
cor più allettante di prima, diventa opportuno ricordare che esistono anche
il dolore e la morte. Senza infingimenti ma anche senza dimenticare ciò che
ha insegnato il passato. Bernardo testimonia entrambe queste tensioni: può
_____________________________
26
Cf. BRANCATO, La questione della morte, op. cit., 16, che rinvia a “E. MORIN, L’uo-
mo e la morte, Roma 1980, 224”. È communis opinio la cui falsità sarà presto palese.
27
Questo ovviamente non significa dover leggere tutto: in primis perché occhi esperti
distinguono subito l’opera valida dalle altre, poi perché, in ogni tempo, gli autori e
gli scritti davvero importanti da studiare non sono mai molti.
28
In realtà il ‘comodo’ della ‘riduzione’ ha sempre più facce. Oltre a quella esposta nel
testo vi è anche il ‘comodo’ del potersi gabellare per ‘difensori’ di un’umanità vera e
completa, opposta a quella rinsecchita e anaffettiva del cristianesimo, o quello di chi,
sul versante opposto, tace il versante affettivo del cristianesimo perché, graffiando le
coscienze, distruggerebbe la tenuta di un sistema dogmatico-morale costruito a tavo-
lino. Per tutti il vantaggio è trovare una scusa valida per fare quel che si vuole.

319
piacere o meno il modo in cui li esprime (ogni tempo ha i suoi gusti), ma de
facto convivono nello stesso autore e nello stesso uditorio.
Di fronte alla propria morte dunque il cristiano spiritualmente consape-
vole non vive né uno spiritualismo anaffettivo, imputatogli da critici poco e
mal informati e sognato da fratelli interiormente rozzi, né una paura nuda e
cruda, che qualche critico gabella per ‘vera umanità’ ma in realtà è solo po-
ca o punta fede. Di fronte alla propria morte il cristiano spiritualmente con-
sapevole è da un lato sereno perché, come scrive Bernardo, significa ripo-
so, gioia e incontro con l’Amato, da un altro timoroso, perché, lo si è letto
in Bernardo ma anche in Doroteo di Gaza, ha il dubbio di non essere fedele
come potrebbe e dovrebbe. E ci pare un sentitus molto equilibrato.
In verità nel sec.XII inizia però anche un percorso molto diverso da quel-
lo fin qui descritto e che giungerà a maturità nel sec.XIII. Il mutato clima,
politico, sociale ed economico dell’Europa occidentale libera più tempo ed
energie per lo studio, e la tensione alla sistematizzazione armonizzante del-
le fonti porta alla redazione delle prime summae e alla nascita della Prima
29
Scolastica . Impossibile qui esporre l’organizzazione e le relazioni recipro-
che di queste compilazioni, tanto più che a noi interessa solo la questione
della morte. Basti dire che l’intero versante spirituale è messo da parte, non
perché se ne disconosca valore ed importanza ma perché si sente forte il bi-
sogno di una sistematicità che il rinvio alla Scrittura o ai Padri, da solo,
30
rende difficile ottenere . Le summae scolastiche, quelle del sec.XII ma so-
_____________________________
29
Le più avvincenti inquadrature generali sono ancora i saggi di M.D. CHENU, La teo-
logia nel XII secolo, Milano 1992 (or. Paris 1976), e IDEM, La teologia nel XIII seco-
lo, Milano 19953 (or. Paris 1957). Gli anni però passano per tutti, e per un quadro più
aggiornato cf. G. D’ONOFRIO (ed.), Storia della teologia nel Medioevo, Casale Mon-
ferrato 1996; IDEM (ed.), Storia della teologia, II (età medievale), e III (l’età della ri-
nascita), Casale Monferrato 1995 e 2003.
30
Cf. p.es. H. CLOES, «La systémation théologique pendant la première moitié du XII
siècle», Ephemeridae theologicae lovanienses 34 (1958) 277-329; M. COLISH, «Sys-
tematic theology during the twelfth century», Journal of medieval and renaissance
studies 18 (1988) 135-156. Questa affermazione va spiegata. È ovvio che la teologia
non si fa senza la Scrittura ed i Padri, almeno per cattolici ed ortodossi, e, se non li si
usa come serbatoi di citazioni ad hoc per puntellare sistemi partoriti con altri criteri
(metodo neoscolastico comune a molti Riformati), è chiaro che nella teologia vi sarà
una sporgenza spirituale. Questa implica però un certo adattamento al progresso spi-
rituale: la teologia adatta ai principianti è più semplice di quella per chi è più progre-
dito. Ciò fa sì che la teologia monastica, egemone fino a metà sec.XII, sia (forse) edi-
ficante ma (certo) non sistematica. Quando riprende il contatto diretto con le fonti,
ciò fa problema: cf. F. GASTALDELLI, «Teologia monastica, teologia scolastica e lec-
tio divina», Analecta cistercensia 46 (1990) 25-63.
A partire dal Sic et non di Abelardo (1120-30) le fonti vengono ‘schierate’ pro aut
(segue)

320
prattutto quelle del XIII, sono opere molto lontane dalle omelie patristiche
o dagli scritti ascetico-mistici diffusi nei monasteri. Nascono in contesti ac-
cademici, per o durante le lezioni; spesso sono riviste a tavolino dal magi-
31
ster che poi le pubblica perché diventino libri di testo, non di edificazione .
Questa diversità però non implica separazione né oblio: le opere patristiche
32
e spirituali sono cercate, lette, meditate sempre . Le lecturae, i commenti
ad interi libri della Scrittura che costituiscono il nerbo delle lezioni di teo-
33
logia, spesso riportano dottrine spirituali tratte da quegli scritti . In realtà le
summae scolastiche si affiancano alle omelie patristiche ed agli scritti asce-
tici e mistici, perché il compito di ogni dottore in teologia è legere, disputa-
34
re et praedicare . Ora, se si consultano solo le opere di scuola è inevitabile
______________________________
contra questa o quella tesi, la coeva Summa sententiarum (che non è di Ugo di san
Vittore, cf. F. GASTALDELLI, «La Summa sententiarum di Ottone di Lucca. Conclu-
sione di un dibattito secolare», Salesianum 42 (1980) 537-546) le determina in base a
ragionamenti filosofici e teologici, le Sententiae di magister Bandinus, Roberto Pul-
lo, Pietro Lombardo, Pietro di Poitiers, Nicola di Amiens le ordinano secondo schemi
logici variabili. Queste opere si rivolgono a studenti distinti per competenza, non per
progresso spirituale. Le fonti, bibliche, patristiche e filosofiche vengono sintetizzate
in brevi incisi (auctoritas) il cui uso è standardizzato da apposite raccolte (p.es. le
Distinctiones monasticae, ed. J.-B. Pitra, Paris 1852; il Liber Florum ed il Liber Pan-
crisis, inediti; le Auctoritates Aristotelis, ed. J. Hamesse, Louvain-Paris 1974), il che
le rende univoche ma prive di fruibilità spirituale. Questo atteggiamento però convi-
ve al fianco di quello più spirituale, nella stessa Scuola e talvolta persino nello stesso
autore (p.es. Riccardo di san Vittore o Bonaventura da Bagnoregio).
31
Cf. p.es. H. BERNDT, «La théologie comme système du monde. Sur l’évolution des
sommes théologiques de Hugues de Saint-Victor a saint Thomas d’Aquin», Revue
des sciences philosophiques et théologiques 78 (1994) 555-572. Per capire quanto
cambi il rapporto tra magister e discipuli nel sec.XIII rispetto al XII cf. il classico P.
GLORIEUX, «L’enseignement au Moyen Age. Techniques et méthodes en usage à la
Faculté de Théologie de Paris au XIII siècle», AHDLMA 35 (1968) 65-186.
32
Cf. le ‘catene’ di passi patristici su questo o quel libro: cf. C.G. CONTICELLO, «San
Tommaso e i Padri: la Catena aurea super Ioannem», AHDLMA 65 (1990) 31-92. È
importante poi ricordare che in monasteri, conventi e canonicati la lettura di opere
spirituali (patristiche, atti di martiri, omelie) è obbligatoria durante i pasti.
33
Questo perché nei secc.XII-XIII l’approccio alla Scrittura in fondo è ancora quello
patristico, pur con differenze di rilievo: si metta in parallelo quanto scrive G. BENDI-
NELLI, Il commentario a Matteo di Origene. L’ambito della metodologia scolastica
dell’antichità, Roma 1997, con quel che dice P. ZERAFA, «Il commento di s.Tomma-
so al libro di Giobbe tra esegesi antica ed esegesi contemporanea», Angelicum 71
(1994) 481-571. Per un quadro generale cf. il classico H. DE LUBAC, Exégèse médié-
vale. Les quatre sens de l’Écriture, 4 voll., Paris 1959-64.
34
Cf. PIETRO CANTORE, Verbum abbreviatum, c.1 (PL 205, 25; trad. nostra): «In tre co-
se consiste l’esercizio della sacra Scrittura, cioè la lectio, la disputa e la predicazione.
(...) La lectio è il fondamento ed il sostrato di ciò che segue, perché per mezzo di essa
(segue)

321
concludere che in questi secoli si perda ogni dimensione affettiva riguardo
alla questione della morte, ma è errore in certa misura anch’esso inevitabi-
le, perché citare una summa è riportare il testo di quella: e lì l’afflato spiri-
tuale è volutamente minimo. Bisognerebbe affiancargli ogni volta un passo
‘spirituale’, il che è improponibile, oltre che arbitrario. Di conseguenza, an-
che i passi che riporteremo daranno l’impressione di un’atmosfera molto
diversa dalla precedente, ma è solo una (voluta) illusione prospettica.
Quando parliamo di ‘prospettiva’ lo facciamo in senso proprio. In effetti
le prime summae (che spesso si chiamano Sententiae) organizzano il mate-
riale seguendo un criterio storico: la teologia è la narrazione della manife-
stazione di Dio agli uomini, che oggi chiamiamo ‘storia della salvezza’. Il
principale esponente di questa corrente è Ugo di san Vittore (1095-1141).
* * *
Ugo è uno degli autori più importanti del sec.XII: la sua opera più signi-
ficativa, il De sacramentis christianae fidei, divide la storia in due parti e
35
dedica ad ognuna di esse un libro . Ugo parla della morte nel secondo, che
illustra l’opus restaurationis (il primo tratta dell’opus conditionis), per la
precisione dopo aver esposto l’ultimo sacramento, l’unzione degli infermi.
A riguardo della morte dunque Ugo scrive:
«Chi può essere sicuro quando si affaccia sull’incerto? Questo solo però non
deve essere incerto, ossia che ad una buona vita non può seguire una cattiva
morte. La cattiva morte infatti è solo per chi segue solo cose cattive. Chi
dunque vuol morire bene viva bene, perché le cose che vengono dopo la
morte sono disposte davanti a lei (i.e. la vita), e secondo essa vengono re-
tribuite le cose che l’hanno preceduta in vita, prima della morte. Fino alla
36
morte c’è il merito; dopo la morte c’è il premio» .

______________________________
viene valutata l’utilità delle altre. La disputa è come le pareti di questo esercizio ed
edificio, perché nulla può essere pienamente compreso e fedelmente predicato se non
è prima spezzato con il dente della disputa. La predicazione infine, alla quale servono
le precedenti, è il tetto che protegge i fedeli dal caldo e dal turbine dei vizi. Dunque,
dopo la lectio della sacra Scrittura e la risoluzione dei dubbi per mezzo della disputa,
e non prima, si deve predicare». La lectio non consiste solo nel leggere il testo e nella
comprensione delle singole parole ma anche nella ricerca del loro senso spirituale.
35
Impossibile descrivere qui la complessa prospettiva teologica e spirituale della Scuo-
la di san Vittore. Ricordiamo solo che i suoi due maggiori esponenti, Ugo e Riccar-
do, sono autori di trattati di un rigore dogmatico assoluto e di opuscoli mistici di rara
profondità. Di Riccardo abbiamo già letto diversi passi al punto 4.3. Per alcuni detta-
gli in più su Ugo cf. F. MANDREOLI, La teologia della fede nel De sacramentis chri-
stianae fidei di Ugo di san Vittore, Münster 2011.
36
UGO DI SAN VITTORE, De sacramentis christiane fidei, II, pars 16, c.2 (PL 176, 580;
trad. nostra). Il testo di PL non è limpido: traduciamo a senso il penultimo periodo.

322
Nihil novum sub sole: la sintonia con Ambrogio ed Agostino è netta, an-
che se il rinvio ad una buona vita è piuttosto pallido. Tutto il resto di questo
lungo capitolo è dedicato a spiegare il ‘come’ della morte, meno un raccon-
to edificante (san Giacomo appare ad un pellegrino per esortarlo ad una vi-
ta santa), i successivi trattano degli stati post mortem: in effetti nel resto del
37
De sacramentis Ugo non parla più della morte . Senza dubbio è contributo
ben povero, ma è più di quel che offre un altro e più famoso esponente del
sec.XII, Pietro Lombardo (1100-1160).
* * *
Se si mette da parte la morte di Cristo perché troppo sui generis, nelle
Sententiae del Lombardo vi è molto poco su quella dell’uomo. Si legge che
38
è conseguenza del peccato di Adamo ed Eva ma en passant ; nega che sia
39
opera di Dio, ma non dà spiegazioni . Banale il versante filosofico: la mor-
40
te è la separazione di anima e corpo . Appena più interessante la descrizio-
ne dello stato antelapsario: fedele alla tradizione con capostipite Teofilo, il
Lombardo dice che l’uomo è creato mortale ed insieme immortale, ma si li-
41
mita a parafrasare Agostino, aggiungendo solo le suture indispensabili . In
effetti leggendo le Sententiae si capisce subito che non brillano per genio o
novità: Pietro giustappone il De sacramentis di Ugo alla Summa sententia-
rum (ante 1141), espungendo i Padri greci; di Agostino legge (forse) il De
doctrina christiana e l’Enchiridion, cita le altre da Floro di Lione e trae le
42
restanti autorictates dalle inaffidabili Glossae ordinariae . Non è neppure
_____________________________
37
A questo riguardo è interessante quanto si legge in UGO DI SAN VITTORE, De sacra-
mentis christiane fidei, I, pars 6, c.11; dovendo esporre quale fosse lo stato antelap-
sario, e quindi se l’uomo fosse mortale o immortale, Ugo afferma (PL 176, 270; trad.
nostra): «In questioni tanto lontane dalla nostra intelligenza e capacità è necessario
che moderiamo le nostre risposte, e distinguiamo le cose che non dubbie da quelle
che si dicono solo con probabilità. Così sarà nullo il pericolo nella diligente ricerca,
se non vi sarà la presunzione di asserzioni temerarie». Ugo dunque sceglie di non af-
frontare la questione, una netta presa di distanza da Agostino ancor più rilevante per-
ché fatta da uno dei più importanti autori del sec.XII.
38
Cf. PIETRO LOMBARDO, Sententiae, II, dist.30, c.7 (Quaracchi, I, 499).
39
Cf. PIETRO LOMBARDO, Sententiae, II, dist.37, c.2 (Quaracchi, I, 546s).
40
Cf. PIETRO LOMBARDO, Sententiae, III, dist.21, c.1 resp. (Quaracchi, I, 499).
41
Cf. PIETRO LOMBARDO, Sententiae, II, dist.19 per totum (Quaracchi, I, 421-427).
42
Cf. Sententiae, I, prolegomena, c.7 (Quaracchi, I, 117-122). CHENU, La teologia nel
XII secolo, op. cit., 9, lo dice «geniale manualista» ma in 57 parla di «debolezze del-
l’agostiniano Pietro Lombardo» che gli pare (65) «sempre un po’ fiacco e passivo»
fino ad affermare (253) che «in Pietro Lombardo la tradizione agostiniana si appe-
santisce in un pessimismo poco intelligente» e che l’‘incapacità’ di «presentire il sot-
tosuolo greco del suo avversario [Gilberto di Poitiers]» (323) sia la ragione del rifiuto
(segue)

323
43
buon copista: è bene controllare sempre i suoi rinvii . Il suo quasi silenzio
sulla morte sembrerebbe una superficialità tra le tante: in realtà è qualcosa
di più, perché nelle sue fonti il Lombardo legge ben altro. Ugo infatti parla
della morte dopo la trattazione dei sacramenti: invece le Sententiae passano
subito al de resurgentibus. Si potrebbe credere che segua la Summa senten-
44
tiarum, che in effetti dopo la estrema unzione non parla della morte . Ma là
si legge addirittura che
«Se (la caduta) non fosse stata punita con quella pena, cioè la morte, sarebbe
stata punita più gravemente, perché mai sarebbero finite le miserie che fini-
45
scono con la morte, come le miserie del diavolo che non terminano mai» ,

______________________________
dei Padri greci (324). Più positivo è I. BRADY, s.v. Pierre Lombard, in DSAM, XII,
Paris 1986, 1604-1612, 1610: «Pour conclure, nous faisons nôtre le jugement de J. de
Ghellinck: “Ce modéré, ce traditionnel, ce timide, cet indecise, ce ‘plagiaire’, si l’on
veut, est au fond un progressiste... Esprit clair, qui voit les choses avec justesse, pru-
dent et judicieux, Pierre Lombard sait démêler les tendances et leurs aboutissement,
comme les moyens de les utiliser ou de les modeler. Son livre est une mosaïque où
trovent place toutes les doctrines, toutes les questions et toutes les explications pré-
sentées par le maîtres contemporains... Dire que durant des siècles la théologie a vé-
cu de ce manuel, c’est dire que son auteur, malgré quelque opinion attaquable, avait
habituellement fait, entre les divers avis, une sélection qui honore son sens théologi-
que (DTC, t.12, col. 1885-86 [refuso per ‘1985-86’]”». Ancor più celebrativa è M.
COLISH, Peter Lombard, Leiden-Köln 1994, passim; J.P. TORRELL, Tommaso d’A-
quino. L’uomo e il teologo, Casale Monferrato 1994, 57s, ammette pregi e difetti, pur
inclinando per i primi. Per ciò che ci riguarda, questi giudizi sono molto benevoli.
43
P.es. PIETRO LOMBARDO, Sententiae, II, dist.8, c.1 §3 (Quaracchi, I, 366s), ribadisce
seccato la correttezza della citazione di AGOSTINO, De Genesi ad litteram, III, 10, la-
sciando intendere che sia di prima mano. Invece l’ha copiata dalla Glossa ordinaria,
notoriamente inaffidabile; Pietro non controlla e riporta un testo errato: quando glielo
fanno notare, pensa bene di dar dell’ignorante a chi lo avvisa. Oltre che presuntuoso
è anche sprovveduto: p.es. PIETRO LOMBARDO, Sententiae, II, dist.19, c.6, §1 (Qua-
racchi, I, 425), scrive (trad. nostra): «Su di che tipo fosse l’immortalità umana Ago-
stino, Sulla Genesi, sollevando la questione, così dice: “Si ricerca in che modo l’uo-
mo fu fatto immortale in superiorità degli altri animati, ed in che modo si alimenti,
come quelli». In un sol colpo lo stolto Pietro rivela di non aver mai letto il De Genesi
ad litteram di Agostino (che non solleva quaestiones), di non capire che cita Beda (e
la Glossa ordinaria glielo dice) e di non riconoscere lo stile accademico del suo tem-
po: davvero un “esprit clair, qui voit les choses avec justesse”...
44
In verità il testo della Summa sententiarum che possediamo è mutilo, quindi la morte
avrebbe potuto essere trattata altrove. Però Pietro non riporta passi della Summa non
pervenutici, perciò a rigori in essa non vi è più di quanto stiamo per leggere.
45
Summa sententiarum, tr.III, c.8 (PL 176, 101; trad. nostra). Non conosciamo l’autore
di questa opera: attualmente (cf. GASTALDELLI, «La Summa sententiarum», op. cit.;
BRADY, s.v. Pierre Lombard, op. cit., 1605), si fa il nome del magister Ottone, che
(segue)

324
il che è una splendida ripresa del De bono mortis di Ambrogio. Il Lombar-
do però non riporta né questo inciso né quello di Ugo: sceglie di non parla-
re della morte dell’uomo se non nella misura teologicamente indispensabi-
le. Non sappiamo perché Pietro opti per questa soluzione: certo non è spec-
chio fedele del sec.XII. Non si deve dimenticare infatti che in questo perio-
do scrivono anche Bernardo di Clairvaux e Riccardo di san Vittore, già in-
contrati, ed altri dei quali non si è detto né letto niente ma tutt’altro che se-
condari (Ruperto di Deutz, Alano di Lilla, Pietro Abelardo, Gilberto di Poi-
tiers, tanto per far dei nomi). Traspare qui quanto sia fallace ritenere che la
teologia del sec.XII sia riassunta dalle Sententiae di Pietro Lombardo.

11.2.3. Le teologie della morte


nel secolo XIII

Tra le moltissime opere del sec.XIII quella che meglio di altre esprime il
sentitus verso la morte è il De imitatione Christi, ampiamente commentato
nel capitolo decimo. Oltre a quelle note possiamo qui aggiungere che quel-
lo scritto espone in modo tecnico le dinamiche spirituali di ciò che i Padri
dicono in sintesi. E questa tensione a capire e spiegare per insegnare e gui-
dare è tipica del sec.XIII. Al De imitatione però dobbiamo affiancare opere
di tutt’altro tenore ma certo più conosciute e studiate: gli scritti di scuola.
Se infatti entriamo nel sec.XIII incontriamo un panorama complesso, più
di quanto creda chi prende a modello l’Università di Parigi. Dal punto di
vista culturale infatti bisogna tener presente che, per i primi decenni, il pa-
trimonio di gran parte dell’Europa è ancora quello del sec.XII. È vero che
le traduzioni dall’arabo e le nuove versioni di Aristotele circolano già dagli
46
anni ’20, ma sono studiate solo nelle grandi Università e non da tutti . Dal-
______________________________
avrebbe insegnato a Lucca durante l’episcopato di Uberto (1128-37). La Summa sa-
rebbe giunta in Francia grazie al Lombardo (cf. BRADY, op. cit., 1605: «Pierre suivit
à Lucques les leçons d’Otton et prit même copie de la Summa, rédigée peut-être des
cette époque»): raccomandato da Uberto a Bernardo di Clairvaux, prima soggiorna a
Reims poi, raccomandato da Bernardo a Gilduino di san Vittore (1136), va a Parigi;
cf. BRADY, op. cit., 1605: «Pierre pensait ne faire qu’un bref séjour à Paris. Mais il
décida d’y rester plus longuement comme hôte à la table des étudiants pauvre de
Saint-Victor, probablement sur les instances d’Hugues de saint-Victor et de l’abbé
Gilduin. En effet, les Sentences révélent un usage constant du De sacramentis chri-
stianae fidei de Hugues et font quelques références à ses ouvres plus cortes». Quindi
la Summa giunge a Parigi come minimo nel 1136 se non dopo.
46
Esemplare è il caso di Alexander Nequam (1157-1217), il cui Speculum speculatio-
num (1201-17) cita le Sententiae del Lombardo (magna cum libertate) ma anche altre
(segue)

325
la seconda metà del secolo le cose cambiano ma, ancora, non si deve crede-
re che quel che accade a Parigi ed Oxford avvenga sempre anche altrove: al
contrario, spesso gli altri istituti hanno attività intermittenti, magistri di le-
47
vatura scarsa e non pochi chiudono . Si può decidere di considerare questi
istituti semplici scholae diocesane e riservare il titolo di universitas a quelli
più ricchi e longevi ma, de facto, questa instabilità ostacola la diffusione di
una forma mentis diversa da quella del sec.XII. I monasteri giocano un ruo-
lo importante nel difendere questa continuità: lo prova il De imitatione, del
sec.XIII se non posteriore. Ma nei primi decenni del secolo la resistenza è
anche in ambito scolastico, seppur ad opera di una ristretta minoranza im-
48
pegnata in una battaglia di retroguardia ormai persa .
Ciò detto per completezza di descrizione, è innegabile che, a partire dagli
anni ’40, nelle Università più importanti il milieu teologico-filosofico muta
in modo radicale. Riguardo a questa svolta sono stati versati i classici fiumi
di inchiostro: noi ci limiteremo a leggere i testi più significativi degli autori
più rilevanti al fine di mostrare se e come questa abbia avuto effetti (e qua-
li) sul modo di concepire e soprattutto sentire la morte.
* * *
Cronologicamente ed intellettualmente il primo novator è Alessandro di
Hales (1183-1245), che nel 1224-25 commenta per primo le Sententiae del
49
Lombardo . È opera per più versi interessante: in primis, perché Alessan-
dro intuisce che il pregio delle Sententiae è quasi solo nell’indice, in secun-
______________________________
(Roberto di Melun, Pietro di Poitiers); riporta ampi brani patristici tratti dai florilegi,
ed Aristotele è ancora soprattutto un logico. Insomma, nell’Inghilterra degli inizi del
sec.XIII l’atmosfera è ancora quella del XII: cf. R.M. THOMSON, Alexander Nequam.
Speculum speculationum, Oxford 1988, ix-xix.
47
P.es. l’Università di Palencia (Spagna), fondata nel 1208 ed importante nella storia di
Domenico di Guzman, viene soppressa nel 1268. Ad Arezzo l’Università fondata nel
1215 non riesce mai a decollare ed alla fine è soppressa agli inizi del sec.XIV. Ancor
meno fortunate sono le Università di Vicenza (1208-1209) e Vercelli (1228-1240).
48
Cf. ALEXANDER NEQUAM, Speculum speculationum, II, cc.7-16 (Thomson 208-212),
che parla della morte entro il de providentia e dal punto di vista della prescienza di-
vina, senza sfiorare la questione della mortalità di Adamo ante lapsum né alcuna del-
le altre emerse. Però lo Speculum è incompleto e Nequam non rappresenta lo stan-
dard delle concezioni dell’inizio del sec.XIII, anche di quelle più conservatrici.
49
Cf. ALESSANDRO DI HALES, Glossa in IV Sententiarum libros, II, prolegomena c.3
(Quaracchi, II, 20s). Trascureremo le Quaestiones disputatae antequam esset frater
(ante 1236) perché non dicono nulla di nuovo rispetto alla Glossa. Il materiale della
Summa theologica è più rilevante ma è impossibile stabilirne l’autore: alcune sezioni
sono di Jean de la Rochelle, altre di Odo Rigaldi, ma le singole attribuzioni non sono
certe. Per di più anche il materiale originale è stato interpolato, ma non è facile capire
dove e come. Si è dunque preferito limitarci a ciò che è sicuramente di Alessandro.

326
dis perché riesamina ex novo le questioni, in tertiis perché va oltre il sem-
plice elenco delle auctoritates ma le organizza in schemi, si pone domande,
tenta risposte, insomma fa teologia e non compilazione. Per quel che ci ri-
guarda, ovviamente Alessandro mantiene il dato ormai tradizionale dell’uo-
mo creato insieme mortale ed immortale (anche se Teofilo dice ‘né... né’, il
che non è proprio lo stesso) ed attribuisce la mortalità al corpo perché non
50
vive per se . Fatto salvo ciò che è dogmaticamente obbligato, ad esempio
51 52
attribuire la morte alla caduta originale e non al volere positivo di Dio , o
53
descrizioni scontate (la morte come separazione di anima e corpo ), Ales-
sandro sa anche andare oltre, come quando scrive che
«La morte si dice in un modo come pena del peccato originale ed in un altro
54
come esercizio per meritare (ad exercitium merendi)» ,
inciso che rivela una curiosa sintonia con Ambrogio. Però conosce bene la
vera posizione di Agostino, come ad esempio quando afferma:
«Non morire è un bene di natura, ma morire per la redenzione degli uomini
è un bene della grazia. Però, di per sé, morire non è bene ma un male per la
55
natura» .
Alessandro qui si riferisce in recto alla morte del Cristo, ma quel che di-
ce si può estendere in obliquo al caso dei martiri, la cui morte è buona non
per se stessa ma per ciò che la causa, la fedeltà a Dio, in piena sintonia con
56
Agostino . Questa sporgenza sul versante spirituale è più chiara in un inci-
so che precedentemente Alessandro aveva tratto dal De civitate Dei:

_____________________________
50
Cf. p.es. ALESSANDRO DI HALES, Glossa in IV Sententiarum libros, II, dist.19, n.3c
(Quaracchi, II, 169).
51
Cf. ALESSANDRO DI HALES, Glossa in IV Sententiarum libros, II, dist.25, n.12 (Qua-
racchi, II, 230s).
52
Cf. ALESSANDRO DI HALES, Glossa in IV Sententiarum libros, II, dist.37, n.4 (Qua-
racchi, II, 365).
53
Cf. p.es. ALESSANDRO DI HALES, Glossa in IV Sententiarum libros, III, dist.15,
nn.9.12.31 (Quaracchi, III, 153.155.160s).
54
ALESSANDRO DI HALES, Glossa in IV Sententiarum libros, II, dist.25, n.8 (Quaracchi,
II, 228s).
55
ALESSANDRO DI HALES, Glossa in IV Sententiarum libros, III, dist.17, n.23 (Quarac-
chi, III, 181; trad. nostra).
56
Cf. AGOSTINO, Epistulae, ep.204, 4 (CSEL 57, 329; NBA 23, 451): «Non so più in
quante discussioni e in quanti scritti abbiamo dimostrato che essi (i.e. i donatisti) non
possono morire da martiri poiché non vivono da cristiani, dal momento che non è il
supplizio a fare d’uno un martire, ma la causa per cui soffre».

327
«Niente è più prezioso della morte, per mezzo della quale tutti i debiti sono
57
rimessi ed i meriti cumulati» .
Anche se si tratta solo di un cenno, qui Alessandro lascia intendere che è
ben consapevole che la morte assume significato profondamente diverso a
seconda del tipo di vita che si è gestita, una consapevolezza la cui profondi-
58
tà è inconoscibile dai suoi testi ma lampante dalla sua vita .
La Glossa di Alessandro ha forti eco in opere importanti nel primo terzo
del sec.XIII, come la Summa de bono di Filippo il Cancelliere o la Summa
aurea di Guglielmo d’Auxerre, tanto che di alcune parti della Glossa esiste
una seconda redazione interpolata da brani ispirati da quelle. Ma le fortune
teoretiche della Glossa di Alessandro finiscono quando compare sulla sce-
na il secondo e ben più importante novator: Alberto Magno (1206-80).
* * *
Il Doctor universalis (il titolo medievale di Alberto) deve questo sopran-
nome alla sua immensa scienza. Basta leggere un qualunque suo scritto per
rendersi conto delle tantissime letture di Alberto, davvero a trecentosessan-
ta gradi, e della sua incredibile capacità di ‘digerire’ tanti elementi dispara-
ti. Certo, non sempre molti ingredienti fruttano ottime pietanze, così alcuni
studiosi gli rimproverano una certa superficialità ed incoerenza. Per la veri-
tà cogenza e coerenza non hanno lo stesso significato e valore per noi e per
un medievale, però è vero che in più di un caso Alberto sembra dimenticare
quel che ha scritto altrove. Con ciò, per quel che riguarda la morte, forse il
suo contributo di maggior rilievo sta in tre ‘spostamenti’ teoretici.
Il primo avviene abbastanza presto, nel 1242-48. In quel tempo Alberto è
a Parigi dove, da baccelliere, commenta le Sententiae del Lombardo (1246-
48) e redige molti trattati teologici: nell’ordine, De sacramentis, De incar-
_____________________________
57
ALESSANDRO DI HALES, Glossa in IV Sententiarum libros, II, dist.37, n.4 (Quaracchi,
II, 365; trad. nostra). Alessandro cita AGOSTINO, De civitate Dei, XIII, 7.
58
Nato nel 1180-86 ad Hales (Anglia) da una famiglia non nobile ma agiata, Alessan-
dro studia a Parigi, dove diventa magister artium nel 1210 e magister theologiae actu
regens (cioè ordinario) al più nel 1226. Nel 1226-29, pur insegnando a Parigi, diven-
ta canonico di s.Paolo in Londra, con le annesse prebende. Gode di tale stima che,
nei moti che nel 1229-31 oppongono magistri e studenti dell’Università al legato pa-
pale, al re ed alla regina madre, Alessandro è designato a rappresentare i primi da-
vanti al papa. Premiato da Gregorio IX con l’arcidiaconato di Coventry ed il canoni-
cato di Lichenfeld, rientra in Inghilterra ma dopo un anno torna in Francia. Nel 1235,
memore della missione nel 1231, il re di Inghilterra incarica Alessandro di trattare
una tregua con il re di Francia. Questo uomo ricco e famoso, stimato da umili e po-
tenti, nel 1236 diventa frate Minore: a 50 anni compiuti rinuncia a titoli, cariche, pre-
bende, amicizie importanti e si chiude nel convento di Cordeliers. Mantiene solo la
cattedra di teologia, che però cede nel 1238 a Jean de la Rochelle, altro Minore.

328
natione, De resurrectione, De IV coaequaevis, De homine, De bono. Que-
sto, che Alberto completa intorno al 1242 e di fatto è un De virtutibus car-
dinalibus, parla a lungo della morte, in riferimento alla fortezza. Il punto di
vista è quello dell’etica filosofica, non quello della teologia, ma, a differen-
za di quanto avviene ai nostri giorni, questa diversità non significa opposi-
zione. Infatti, rispondendo ad un’obiezione riguardanti i pericoli sui quali si
esercita la fortezza, Alberto afferma:
«La morte è l’estremo pericolo, ma non sarà materia di virtù se non a segui-
59
to di una scelta» ,
dove la ‘scelta’ può essere quella di morire da eroi in una guerra ‘giusta’ o
da martiri per il Signore. L’introduzione del versante filosofico al fianco di
quello teologico è palese nella determinatio dell’aricolo successivo:
«La fortezza riguarda le passioni provocate da un altro o comunque prove-
nienti dall’esterno. Siccome poi ogni virtù, in quanto virtù, è l’estremo della
60
potenza in una cosa, ogni virtù riguarda qualcosa di estremo . Poiché la
passione provocata è al suo estremo nel pericolo di morte provocata, la for-
tezza riguarderà questo tipo di morte come suo oggetto principale. Se poi si
ricerca perché la fortezza riguardi la morte provocata piuttosto che quella
naturale, bisogna dire che nei confronti della morte provocata c’è un atto di
scelta e di volontà, perché una morte simile è nella nostra volontà come fu
nella volontà dei martiri morire o non morire, in quanto potevano negare o
non negare la fede. Non è così invece per la morte naturale, perché questo
tipo di morte bisogna subirla per la lotta degli elementi contrari, che costi-
tuiscono la complessione anche dell’uomo forte. E per questo, secondo il Fi-
losofo (i.e. Aristotele), vera materia della fortezza, tale cioè su cui si può e-
61
sercitare questa virtù, è la morte provocata» .
Questo passo è un buon esempio di quel che accade nel sec.XIII: ciò che
in precedenza pareva frutto ed oggetto solo della teologia, specie spirituale,
ora si rivela frutto ed oggetto anche della filosofia. Una filosofia ad hoc,
però. Infatti, l’atteggiamento dei martiri nei confronti della morte è virtuoso
_____________________________
59
ALBERTO MAGNO, Summa de bono, tr.II, q.1, a.1, ad 4 (ed. Coloniense 28, 151; trad.
it. 423).
60
Alberto qui riprende ARISTOTELE, De caelo, I, 11, 281a 10-15 (trad. nostra): «La po-
tenza va definita in rapporto alla perfezione (télos) ed al massimo. Necessariamente
infatti quel che è capace del massimo è capace anche di quel che è compreso in esso:
se si portano cento talenti, (se ne portano) anche due, e se si percorrono cento stadi
(se ne percorrono) anche due. La potenza dunque è del massimo». Dunque, per Ari-
stotele ogni potenza va da un minimo ad un massimo: quando raggiunge questo livel-
lo, dice Alberto, prende il nome di ‘virtù’.
61
ALBERTO MAGNO, Summa de bono, tr.II, q.1, a.2, resp. (ed. Coloniense 28, 153; trad.
it. 428).

329
perché frutto di una scelta per Dio; ma sarebbe ancora virtuoso se la scelta
fosse per denaro, potere o piacere? Il pagano che sceglie di morire per non
diventare cristiano è un martire? A questa domanda Aristotele (come Ipazia
d’Alessandria) avrebbe certo risposto ‘sì’, alla precedente forse ‘no’ (prima
si dovrebbe stabilire in che relazione stanno piacere, denaro e potere con la
felicità, che per Aristotele è il fine dell’agire morale), ma per un cristiano la
risposta è sempre ‘no’, e senza esitazione. Quindi è sbagliato sovrapporre
teologia e filosofia, come la neoscolastica cercava di far credere possibile,
perché partendo dalla fede non si arriva allo stesso risultato cui si giunge se
si parte dalla ragione; non può esistere una ‘filosofia cristiana’, o meglio sì,
62
esiste: si chiama ‘teologia’ . Altra cosa invece è mostrare la ragionevolez-
za di ciò che insegna la fede, dove ‘ragionevole’ però significa solo rendere
chiaro e comprensibile, non convincere o convertire, tantomeno paragonare
il risultato razionale alla rivelazione dello Spirito.
Se mostrare la ragionevolezza di un atteggiamento spirituale è il pregio
della impostazione di Alberto, il limite è quello di escludere de facto gran
parte delle persone dalla possibilità di vivere la morte in modo virtuoso, ed
è un limite coevo alla nascita di questo passo. Già allora infatti erano finiti i
tempi delle persecuzioni di massa dei cristiani: è vero che qua e là, specie
nel Baltico, talvolta poteva ancora accadere, ma la maggior parte dei casi di
morte provocata era dovuta a guerre o rapine, quindi non scelta. In realtà la
concezione patristica è diversa da quella albertina: la buona morte segue da
una buona vita, come ancora si legge in Alessandro di Hales, se questa non
c’è di solito non basta una unica buona scelta, foss’anche l’ultima.
_____________________________
62
Alberto intuisce la grande diversità del partire da uno o l’altro punto, ma la sua cultu-
ra gli impedisce di vedere la inconciliabilità dei risultati. Cf. p.es. ALBERTO MAGNO,
Summa de bono, tr.II, q.1, a.2, ad 3 (ed. Coloniense 28, 154; trad. it. 431): «Aristote-
le dice che, dopo la morte, per il forte non c’è più nulla né di bene né di male per
quel che riguarda questa vita, non la vita futura, e tuttavia, accettando una bella mor-
te (i.e. per una giusta causa), l’uomo forte acquista ancora qualcosa, cioè la perseve-
ranza, di cui più avanti diremo che non si acquista come completamento se non nello
estremo istante della vita. Se per caso si dicesse che questa risposta viene data consi-
derando la fortezza una virtù teologale e non civile bisogna replicare che ciò è falso,
perché anche nel ‘Sonno di Scipione’ è chiaro che, a chi si comporta bene e decoro-
samente nel vivere civile, spetterà una ricompensa dopo la morte». Anche se lo fa di-
re ad un ipotetico obiciens, Alberto si rende conto di essere su un limite. Ma per lui è
ovvio che Aristotele creda alla ricompensa ultraterrena di un’anima immortale, che il
Somnum Scipionis di Cicerone sia cristiano e che ad entrambi possa affiancare il De
dono perseverantiae di Agostino. In realtà, davanti a sé Alberto vede solo una linea
divisoria, non un confine. Ma questo effetto causato dalle conoscenze e dalla cultura
del sec.XIII non può essere riproposto di peso oggi, né per ratificarlo né per condan-
narlo. Ogni testo va letto nel suo contesto e, se è il caso, adattato al nostro.

330
Il secondo ‘spostamento’ teoretico è praticamente contemporaneo al pri-
mo, poiché figura nel commento al secondo libro delle Sententiae, che Al-
berto redige nel 1246. Lo ‘spostamento’ consiste nel ridurre la dottrina pa-
tristica della mortalità-immortalità dell’Adamo antelapsario a quella della
immortalità dell’anima. L’idea di per sé non è nuova: per restare vicini nel
tempo, anche il Lombardo ed Alessandro attribuiscono la mortalità al corpo
e l’immortalità all’anima. Quel che fa Alberto è però diverso. In primis di-
mostra che l’anima è immortale: Alberto la determina con un sarcasmo cu-
63
rioso , ma il risultato è ovvio. Il secondo passo è chiedersi se anche il cor-
po di Adamo fosse immortale. Già il farlo è una novità, ma pallida rispetto
a come risponde Alberto; dopo aver riportato auctoritates bibliche, patristi-
che e filosofiche sia per il ‘sì’ che per il ‘no’, infatti, egli scrive:
«Poiché però questi argomenti non valgono niente, per il fatto che i Filosofi
64
non conobbero mai nulla di questo stato di natura...» ,
ed enuncia il titolo della quaestio successiva, se Adamo, prima della cadu-
ta, avesse un’anima passibile o un corpo passibile. Non vi è chi non veda
quanto rilevante sia affermare che la Scrittura (Alberto cita Sap 1,13: “Dio
non ha creato la morte”) ed i Padri (Alberto rinvia ad Isidoro ed Agostino)
non sanno niente dello stato antelapsario. E le sorprese non sono finite. La
quaestio successiva si chiede se l’anima o il corpo di Adamo fossero passi-
bili, ed Alberto porta argumenta dai quali si evince che Adamo, prima della
caduta, conosceva, si nutriva, insomma parafrasa il racconto genesiaco. La
determinatio però inizia così:
65
«Disputare su questa cosa con questi argomenti non serve a niente...» .
Ora, chiedersi se Adamo avesse un corpo per se immortale è speculazio-
ne della cui fondatezza ed utilità si può anche dubitare (noi; che anche Al-
berto possa è meno scontato), ma dire che parafrasare il Genesi è inutile per
_____________________________
63
Cf. ALBERTO MAGNO, in II Sent., dist.19, a.1, resp. (Borgnet 27, 329; trad. nostra):
«Non c’è da dubitare che l’anima sia immortale, né vi è chi dubiti se non chi ama la
vita dei pidocchi».
64
ALBERTO MAGNO, in II Sent., dist.19, a.2, q.1, resp. (Borgnet 27, 330; trad. nostra).
65
ALBERTO MAGNO, in II Sent., dist.19, a.2, q.2, resp. (Borgnet 27, 331; trad. nostra). È
improbabile che l’inciso si riferisca all’impostazione generale della quaestio: il ter-
mine ‘argumentum’, tecnico, indica le ‘pezze d’appoggio’ pro aut contra una tesi, ed
è normale che, determinando una quaestio, il magister approvi una serie e reinterpre-
ti l’altra. Ma Alberto rifiuta di discutere tutti gli argumenta del primo e del secondo
articolo: quel che ‘non serve a niente’ perciò sono ‘pezze’ di questo genere, non co-
me le si usa. Va da sé che ciò comporta anche la reimpostazione della quaestio, ma
adoperare ‘pezze’ diverse è tutt’altra cosa che usare in altro modo i soliti elementi.

331
disputare sulla passibilità antelapsaria del corpo di Adamo è ben altro. Nel-
la Scrittura si legge che Dio dà in cibo ad Adamo ed Eva ogni vegetale (cf.
Gen 1,29), che l’uomo vede e dà il nome ad ogni creatura (cf. Gen 2,19s),
donna compresa (cf. Gen 2,23): quindi vede, parla, mangia, conosce, ascol-
ta il serpente (cf. Gen 3,1). Come si può dire che sono elementi inutili per
sapere se prima della caduta il corpo era passibile o no? Il senso letterale
non lascia alternative, ma il punto è che, metafisicamente, se si ammette la
passibilità antelapsaria allora si ammette pure la mortalità. È la strada per-
corsa fino ad allora, ma Alberto la rifiuta. Cosa ha in mente nel fare affer-
mazioni tanto innovative quanto tranchantes? Scopriamolo:
«Mi pare che, quando si chiede se nel primo stato l’uomo fosse mortale o
immortale, si debba distinguere.
Quando si dice ‘immortale’, può essere per la privazione dell’atto della mor-
te: ed in questo senso è ammesso da tutti che, se fosse rimasto nel primo sta-
to, sarebbe stato immortale.
Potrebbe esserlo però anche per la privazione della potenza di morire, e ciò
potrebbe accadere in due modi:
o (per la privazione) della potenza preposta a far morire, per mezzo dell’ha-
bitus dell’immortalità, ed in questo senso si ammette che fosse immortale
perché non ha la potenza di morire, o piuttosto (ha) la disposizione contraria
alla morte;
oppure per la privazione di quella potenza che è detta materiale e che esiste
solo nelle cose materiali e nei principi naturali: da questo punto di vista non
pare che fosse immortale ma piuttosto mortale, poiché aveva la potenza ma-
teriale e naturale di morire, seppur legata dall’habitus contrario. E ciò è co-
me la potenza ad aprirsi in una porta che può girare sui cardini ma è chiusa
con un paletto fermissimo perché non sia aperta. A questo riguardo possono
66
essere addotte infinite auctoritates» .
Il fulcro teoretico di questo passo è il concetto di habitus, che al tempo di
Alberto indica l’effetto, di per sé non appartenente ad una certa cosa, che in
essa è causato dal prolungarsi nel tempo di un’azione. Qui Alberto afferma
che l’azione continua della grazia genera nel corpo l’effetto di una immor-
talità prolungata, effetto che comporta l’annullamento della potenza di mo-
rire. La soluzione è sottile, perché in un ente le potenze non sono reali e la
67
privazione di ciò che non esiste non comporta nessuna menomazione . Ma
_____________________________
66
ALBERTO MAGNO, in II Sent., dist.19, a.2, q.2, resp. (Borgnet 27, 331; trad. nostra).
67
‘Rileggere’ teoreticamente ad hoc questo o quel termine è abituale in Alberto: cf. H.
ANZULEWICZ, «Der Denkstruktur des Albertus Magnus. Ihre Dekodierung und ihre
Relevanz für die Begrifflichkeit und Terminologie», in J. HAMESSE - C. STEEL (edd.),
L’élaboration du vocabulaire philosophique au Moyen Âge. Actes du Colloque inter-
nationale de Louvain la Neuve et Louven (12-14 septembre 1998) organisé par la
Société Internationale pour l’Étude de la Philosophie Médiévale, Turnhout 2000,
(segue)

332
la potenza, senza ciò che l’annulla, potrebbe passare all’atto nel modo e nel
tempo che conviene, e così il corpo di Adamo è immortale per grazia senza
danno per la natura, e mortale per natura senza opporsi alla grazia. Si noti
______________________________
369-396. Quando si incontra un termine-chiave è quindi molto importante non dargli
il senso che ha in altri autori e, talvolta, persino in altre opere di Alberto. P.es. qui,
passando dalla fisica, Alberto dà valenza metafisica ad un concetto, quello di habitus,
che prima ed anche dopo ha quasi esclusivamente valenza morale.
Una seconda chiave di lettura, nota ma spesso ignorata, è la prospettiva escatolo-
gica. Alberto l’ha sempre in mente, quando scrive, e la cosa è ancor più importante in
quanto è un’escatologia della deificazione: cf. H. ANZULEWICZ - C. RIGO, «Reductio
ad esse divinum. Zur Vollendung des Menschen nach Albertus Magnus», in M. PI-
CKAVÉ - J.A. AERTSEN (edd.), Ende und Vollendung. Eschatologische Perspektiven
im Mittelalter (Miscellanea mediaevalia, Band 29), Berlin-New York 2002, 388-416.
Qui, descrivere l’azione della grazia con habitus significa attribuire ad essa una stabi-
lità che va oltre l’effetto di un’azione puntuale e rinvia alla definitività post mortem:
si rimane in vita in statu viae allo stesso modo e per la stessa ragione per la quale lo
si resterà post mortem. Come effettivamente è. O per una predicazione insufficiente o
per poca fede spesso infatti dimentichiamo che una volta nati si vive in eterno; la vita
ci è data una volta per sempre: il punto è ‘come’ viviamo post mortem, non ‘se’.
La terza chiave di lettura, anch’essa nota, che regge e conferma la precedente ma
quanto mai negletta, è l’angelologia. Nel Medioevo, specie nel sec.XIII, si parla mol-
to degli angeli. ALBERTO MAGNO, Summa de creaturis, I (de IV coaequaevis), tr.IV
de angelis, gli dedica ben 50 quaestiones (Borgnet 34, 453-721), ma, p.es. in A. ZIM-
MERMANN - G. VUILLEMIN-DIEM (edd.), Mensura. Mass, Zahl, Zahlensymbolik im
Mittelalters (Miscellanea mediaevalia, Band 16/2), Berlin-New York 1984, H. VON
KÜMMERLING, «Mensura hominis quae est angeli. Die Massenheit des Hauses Got-
tes», 455-458, scrive solo 3 pagine, e in A. ZIMMERMANN - A. SPEER (edd.), Mensch
und Natur im Mittelalters (Miscellanea mediaevalia, Band 21/1), Berlin-New York
1991, A. BLANCO, «The influence of faith in angels on the medieval vision of nature
and man», 456-467, arriva addirittura a...10! Eppure il materiale non manca; basta
cercarlo, come p.es. B. BRODERER-EICHBERG, Les neuf choeurs angéliques. Origines
et évolution du théme dans l’art du Moyen Age, Poitiers 1998. L’importanza per la
nostra questione è nel fatto che Alberto, come vedremo, definisce la morte come pri-
vatio vitae, il che prescinde dall’avere o no un corpo: uomo ed angelo dunque sono
eterni in virtù dello stesso habitus. È vero che l’angelo non ha corpo ma, per Alberto
e per moltissimi altri nel sec.XIII, ha un sostrato: p.es. ALBERTO MAGNO, Summa de
creaturis, I (de IV coaequaevis), tr.IV, q.21, per totum (Borgnet, 34, 461-65); in II
Sent., dist.3, a.4, per totum (Borgnet, 27, 67ss); Super Caelestem hierarchiam, c.14,
a.1, resp. (ed. Colon. 36/I, 215), chiama il sostrato angelico fundamentum, ma ne usa
diversi: cf. p.es. ALBERTO MAGNO, De causis et processu universitatis a prima cau-
sa, II, tr.2, c.18 (ed. Colon. 17/II, 111; aliquid individuans loco materiae); Summa de
creaturis, II (de homine), q.58, a.1, resp. (Borgnet 35, 502; materia quae dicitur ‘id
quod est’) e altri ancora. Quindi il parallelo angelo-uomo è meno peregrino di quanto
vuol far credere chi appiattisce il milieu del sec.XIII su Tommaso. Su di esso poggia
il parallelo tra eternità umana ed angelica, e questo, a sua volta, spiega l’uso di habi-
tus per descrivere l’identico effetto della grazia su entrambi.

333
che, così descritto, non si può sapere se il corpo di Adamo, prima della ca-
duta, fosse de iure mortale o immortale, poiché l’esistenza di una potenza è
nota solo se e quando passa all’atto. Possiamo solo sapere come era de fac-
to. Finchè non pecca la grazia annulla la potenza preposta alla morte, e se
questa non passa all’atto Adamo de facto è immortale. Quando però, dopo
la caduta, Dio lo priva della grazia, al tempo opportuno la potenza preposta
alla morte passa all’atto, e così Adamo de facto è mortale. Questa sequenza
temporale è però inversa rispetto a quella noetica. Da questo punto di vista,
l’esistenza di una potenza preposta alla morte si rivela dopo la caduta, pri-
ma niente lasciava pensare che ci fosse.
Come si vede, Alberto non ha stravolto il dato tradizionale, né ci si pote-
va aspettare che lo facesse perché questo atteggiamento mentale non appar-
tiene agli uomini del Medioevo. Quel che fa è tradurre in termini metafisici
ciò che apprende da Agostino, il cui posse ricorda molto la potentia aristo-
telica. Ma, dal punto di vista della logica medievale, la cogenza di quanto
insegna Agostino è solo dialettica, cioè implica il previo assenso ad una se-
rie di premesse che però l’obiciens potrebbe anche rifiutare. Questa è la ra-
gione per cui Alberto respinge le auctoritates bibliche e patristiche: vuole
una cogenza superiore, apodittica, che poggi sulla metafisica e, rendendolo
ragionevole, liberi il dato di fede dall’aleatorietà di concessioni ad nutum
obicientis. Capire come avvenga questo passaggio è importante per noi.
Che nella natura umana vi sia una potenza preposta alla morte è sotto gli
occhi di tutti, ma cosa impedisce che passi all’atto appena nati? Evidente-
mente un’azione contraria, prolungata tanto quanto basta a generare l’habi-
tus a vivere. Siccome la potenza di morire è parte della natura umana ma il
vivere a piacimento no, tale azione contraria non può che essere una grazia
di Dio. Ed infatti Alberto legge nella Scrittura che (Sap 16,13):
«Tu hai potere sulla vita e sulla morte; conduci giù alle porte degli inferi e
fai risalire».
Una volta individuata quale azione si oppone ad una certa potenza, non è
difficile applicare gli strumenti della Metafisica aristotelica e tradurre il da-
to biblico e patristico in quelle categorie, dando loro una cogenza apodittica
e non solo dialettica. Lo stesso Dio che ci fa nascere vivi ci conserva in vi-
ta, e se Adamo non avesse peccato ciò sarebbe continuato senza fine, per-
ché la grazia avrebbe continuato a bloccare la potenza preposta alla morte.
È con questo ragionamento che Alberto ribadisce il suo rifiuto degli argu-
68
menta nelle risposte che dà ad essi chiudendo la discussione .

_____________________________
68
Cf. ALBERTO MAGNO, in II Sent., dist.19, a.2, q.2, ad rationes (Borgnet 27, 331).

334
Il terzo ‘spostamento’ teorico è consequenziale al secondo, anche se non
è per questo che Alberto lo compie. In effetti, dopo essersi formato ed aver
insegnato per sei anni a Parigi (1242-48), il Maestro generale dei Predicato-
ri invia Alberto a Colonia, la città più importante della Teutonia, provincia
in prima linea nella diffusione del Cristianesimo nell’Europa dell’est. Qui i
suoi confratelli lo pregano di esporre Aristotele e così, terminati i commen-
ti al corpus dionysiacum iniziati a Parigi (1249-50), dal 1251 Alberto inizia
quelli a tutte le opere aristoteliche: con qualche pausa (ad esempio per spo-
starsi a Ratisbona nel 1258 o per commentare Luca nel 1260-61), terminerà
69
nel 1264, anche se crede di continuare fino al 1268 . Di questo immane la-
70
voro a noi interessa ciò che scrive nel De morte et vita (1256) .
Alberto forse ricorda ciò che ha scritto dieci anni prima, forse no; di fatto
al commento premette tre interessanti capitoli. Così inizia il primo:
«Alla fine del De caelo et mundi si è provato che nessuna virtus di una cosa
generata muove per un tempo infinito. Di questo tipo sono senza dubbio le
virtutes caratteristiche dei vegetali e degli (esseri) sensibili: essendo questi
animati mortali, (le loro) sono virtutes generate. Da ciò segue che in nessun
modo esse possono muovere per un tempo infinito: per questa ragione i loro
moti hanno un termine secondo natura, termine che è quando l’animato non
71
può più essere mosso dall’anima. Questo termine è la morte naturale» .
Si ricorderà che nella De bono ‘virtus’ indicava il massimo raggiungibile
da una potenza, mentre qui significa ‘forza che muove’, ‘movente’, ciò che
dà inizio al moto. È un esempio di quella fluidità terminologica che a molti
studiosi pare confusione: che lo sia davvero non crediamo, ma certo com-
plica la comprensione. Il punto che interessa però è teoretico, e qui Alberto
_____________________________
69
Nel 1264-68 infatti commenta il De causis, che crede aristotelico ma non lo è.
70
De morte et vita è il titolo che Alberto dà al suo commento a uno scritto di Aristotele
compreso in una collezione dedicata alla fisiologia umana e nota come Parva natura-
lia. Si tratta di una decina di brevi trattatelli: il De longitudine et brevitate vitae oc-
cupa solo 7 pagine nell’ed. Ross (Oxford 1955). Breve non significa però superficia-
le, anzi, la biologia aristotelica è per certi tratti assai moderna: cf. p.es. D.M. BALME,
«Aristotle’s biology was not essentialist», in G. GOTTHELF - J.G. LENNOX (ed.), Phi-
losophical issues in Aristotle’s biology, Cambridge 1987, 291-312; J.M. COOPER,
«Metaphysics in Aristotle’s embriology», in D. DEVEREAUX-P. PELLEGRIN (edd.),
Biologie, logique et metaphysique chez Aristote, Séminaire du CNRS-NSF 1987, Pa-
ris 1990, 55-84; G.E.R. LLOYD, «Aristotle’s zoology and his metaphysics: the status
quaestionis and a critical review of some recent theories», ibidem, 7-35.
71
ALBERTO MAGNO, De morte et vita, tr.I, c.1 (Borgnet 9, 345; trad. nostra). Il testo pa-
re corrotto, quindi traduciamo a senso. Il De caelo et mundo è il commento albertino
al De caelo aristotelico, nella versione conosciuta nel sec.XIII: il rinvio è ad ALBER-
TO MAGNO, De caelo et mundo, I, tr.1, c.5 (Borgnet 4, 19).

335
è chiarissimo: ogni ente generato è mortale per natura, perché è nella natura
delle cose generate avere moti a termine, e la fine di ogni moto è la morte.
Quindi la potenza preposta alla morte, che nel Commento alle Sentenze po-
teva essere conosciuta solo a posteriori, dopo la caduta, ora sembra inerire
non ad una natura ammalata, decaduta per il peccato originale ma alla sua
stessa qualità di natura creata. In questa sua fedeltà alla lettera dello Stagiri-
ta, che, è bene ricordarlo, non solo è pagano ma dubita anche della vita post
72
mortem , Alberto sembra andare ben al di là di quanto afferma Agostino,
ed opporsi decisamente ad Ambrogio ed ai tanti altri Padri che la pensano
come lui. Forse anche alla Scrittura, per la quale, come si sa, la morte entra
nel creato con il peccato e non con la creazione. In realtà non è così.
In primis non bisogna confondere la generazione aristotelica con la crea-
zione ebraico-cristiana. Alberto questo lo apprende sin dal Simbolo di fede,
nel quale il Figlio è detto generato dal Padre e non creato. Il Figlio è increa-
to perché non ha inizio nel tempo, mentre ogni ente creato ce l’ha. È in vir-
tù di questo inizio, che per lo Stagirita invece non esiste, che Alberto crede
di poter far sua la teoria aristotelica del moto e, servendosi di essa, di poter
spiegare in cosa consista, dal punto di vista fisico, la potenza preposta alla
morte. Non intende invece spiegare teologicamente perché le cose stiano
così, quale fosse la fisica antelapsaria, tantomeno negare che Dio possa im-
primere alla creatura un moto eterno così da renderla de facto immortale.
In secundis, bisogna notare che Aristotele descrive la morte in modo di-
verso da Alberto. Lo Stagirita non dà una definizione, per cui dovremo leg-
gere alcuni passi; il primo è tratto dal De longitudine et brevitate vitae:

_____________________________
72
Riguardo alla vita post mortem cf. ARISTOTELE, De anima, II, 2, 413b 25ss (trad. it.
125): «Riguardo all’intelletto ed alla facoltà teoretica (...) sembra che sia un genere
diverso di anima, e che esso solo possa essere separato, come l’eterno dal corruttibi-
le», ma anche 414a 19ss (ibidem, 127): «È esatta l’opinione di coloro i quali ritengo-
no che l’anima non esista senza il corpo». Questi passi rivelano che lo Stagirita non è
in grado di dire se l’anima esiste post mortem o no, anche se ritiene molto probabile
che almeno la vegetativa e la sensitiva scompaiano con il corpo (opinione che Alber-
to e più di un magister del sec.XIII condivideranno). Questo incerto quadro sul post
mortem dell’uomo va poi inserito nel suo contesto religioso. Ora, la divinità pagana è
capricciosa, spesso agisce in modo turpe e, essendo in competizione con le altre, non
sempre può fare ciò che vuole. È descrizione che rispecchia l’amara esperienza di chi
cerca aiuto nei parti della loro fantasia: non ricevendo nulla, per loro la morte è solo
un inevitabile, pauroso salto verso l’ignoto. Invece quel che ebrei e cristiani intendo-
no con ‘provvidenza’ nasce dall’esperienza personale dell’amore di Dio, che si rivela
onnipotente, buono, premuroso: per loro la morte, come ha detto Bernardo, è il tanto
atteso momento dell’incontro, l’inizio della gioia e della serenità senza fine. Ma sen-
za questo contatto personale sono nella stessa situazione di pagani ed atei.

336
«La vecchiaia è fredda e secca, come la morte. (...) Chi invecchia quindi ne-
73
cessariamente si dissecca» .
Il passare degli anni qui è descritto come il progressivo disseccamento di
un uomo, insieme al suo raffreddarsi. In effetti è vero che spesso gli anziani
sono più magri di quando erano giovani e soffrono di più il freddo, ma non
è raro il caso di anziani pingui, e tutti soffrono anche il caldo. In ogni caso,
la morte qui è l’esito ultimo e prevedibile di un processo iniziato da tempo,
come appare anche nel secondo testo, tratto dal De iuventute et senectute:
«Tutte le parti e tutto il corpo degli esseri viventi hanno un congenito calore
naturale: perciò, finchè sono in vita appaiono caldi mentre, morti e privi di
74
vita, il contrario» .
Prima la caratteristica della morte era la secchezza, qui la freddezza, ma
quel che conta è che questo processo di disseccamento-raffreddamento por-
ta alla morte, come appare da questa silloge tratta dal De respiratione:
«Nascita e morte sono comuni a tutti i viventi (...) La distruzione (phtorá)
infatti non è indifferenziata, ma ha (però) qualcosa di comune. La morte è o
violenta o secondo natura: violenta quando la causa è esterna, secondo natu-
ra quando è interna al vivente. (...)
Il principio della vita abbandona quelli che lo possiedono quando il calore
che ad esso è congiunto non è più refrigerato, (...) per questo, in vecchiaia,
anche un piccolo disturbo uccide velocemente. (...)
Per questo la morte in vecchiaia è senza dolore, perché allora i viventi muo-
iono senza che siano state colpite da alcuna affezione violenta, anzi, la dis-
soluzione dell’anima (apólysis tês psychês) è del tutto inavvertita (avaísthê-
tos). (...) Alla fine, quando non possono più esser mossi, esalando lo spirito
75
muoiono» .
Il passo, specie nel finale, rivela perché Alberto abbia pensato di servirsi
della dottrina aristotelica del moto finito per spiegare quella della potenza
preposta alla morte. Unito ai precedenti, permette anche di tentare una defi-
nizione ‘aristotelica’ della morte, che potrebbe essere la seguente:
La morte è la dissoluzione dell’anima causata dal raffreddamento, per cause
esterne o per cause interne, del calore innato.
Conviene poi notare che Aristotele parla solo della morte naturale, ossia
di quella che, non essendo soggetta a scelta, Bernardo (ma non solo) ritiene
_____________________________
73
ARISTOTELE, De longitudine et brevitate vitae, 5, 466a 19s.21s (trad. it. 293).
74
ARISTOTELE, De iuventute et senectute, 4, 469b 6-9 (trad. it. 302). La versione è un
po’ libera ma per i nostri scopi non è necessario correggerla.
75
ARISTOTELE, De respiratione, 17, 478b 22-26; 479a 7ss.15s.20-23.27s (trad. it. 325s,
rivista). Si sono omessi i molti esempi che Aristotele introduce tra i passaggi.

337
spiritualmente poco o punto rilevante. Perciò opporre Aristotele ed Alberto
a Bernardo o Riccardo di san Vittore è fuori luogo, perché parlano di morti
diverse. Ma è poi corretto accomunare Aristotele ed Alberto?
Abbiamo già letto che il Doctor universalis, all’inizio del primo dei tre
capitoli che premette all’esposizione di Aristotele, afferma che la morte è il
termine naturale del moto impresso dall’anima. Sembrerebbe una parafrasi
del De respiratione, ma leggere ‘anima’ e non ‘calore’ rivela la distanza da
76
Aristotele: l’anima è data da Dio, il calore dalla natura . Tuttavia, per non
dare l’impressione che tutto consista nel giocare con le parole, si metta tra
parentesi questa nota. All’inizio del terzo capitolo si legge:
«La morte è la privazione della vita causata dalla corruzione della propor-
77
zione esistente tra vivificato e vivificante» .
Affianchiamo ora questa definizione alla nostra pseudo-aristotelica:
La morte è la dissoluzione dell’anima causata dal raffreddamento, per cause
esterne o per cause interne, del calore innato.
Le differenze sono nette. Alberto parla di corpo, Aristotele di anima. Al-
berto parla di privazione, Aristotele di dissoluzione (apólysis). Alberto par-
la di proporzione tra datore e recettore di vita, Aristotele di calore. Se la
morte di Aristotele è la dissoluzione di tutto, corpo ed anima, quella di Al-
berto è una semplice privazione, del corpo che non ha più in sé la vita. E la
identificazione tra anima, vita e vivere tout court la fa lo stesso Alberto, nel
capitolo precedente, il secondo:
«Come ‘luce’, ‘lume’ e ‘illuminare’ indicano la medesima natura ma in mo-
do differente, perché ‘luce’ la indica in se stessa, ‘lume’ in quanto diffusa in
ciò che è luminoso o illuminato e ‘illuminare’ il suo agire essenziale, così
‘anima’, ‘vita’ e ‘vivere’ dicono una sola natura: ma ‘anima’ la indica in se
stessa, ‘vita’ la sua diffusione in ciò che è animato e ‘vivere’ dice il suo atto

_____________________________
76
È vero che ARISTOTELE, De generatione animalium, II, 3, 736b 28ss, afferma che il
nous, la parte (forse) immortale dell’anima, «viene da fuori (thyrathen) dell’uomo» e
che il calore vitale consiste nello «pneuma racchiuso nella parte spumosa del seme e
di quella natura di origine divina in esso racchiusa, (natura) analoga a ciò di cui sono
fatti gli astri», ma dice solo questo e solo là, così come solo in De caelo, II, 12, 292a
18-22, postula che gli astri siano animati, e solo in II, 2, 285a 29s, afferma che i cieli
hanno un principio interno di moto. Ora, se si trasforma questa serie di hapax lego-
menon in ‘prove’ (molti l’han fatto), allora Aristotele ed Alberto vanno a braccetto.
Ma è evidentemente una forzatura per entrambi. E che dire del famoso detto “l’uomo
ed il sole generano l’uomo” (Physica, II, 2, 194b 13)? In realtà Aristotele non dice
quasi nulla sull’origine dell’anima così come sul suo destino post mortem.
77
ALBERTO MAGNO, De morte et vita, tr.I, c.3 (Borgnet 9, 348; trad. nostra).

338
essenziale: perché l’anima non è un atto tra tanti ma è sempre diffusa nel vi-
vente. Però l’anima non si definisce in se stessa ma piuttosto come vita,
(come) quando si dice che è l’atto di quel che vive in potenza (cf. ARISTO-
TELE, De anima, II, 1 412a 20). Meglio però è detto che è causa o principio
78
di tale vita, come si è fatto nel (nostro) De anima» .
A questo punto è bene rileggere l’incipit del terzo capitolo nel contesto:
«Descritta così la vita, sarà facile capire cosa sia la morte. La morte infatti è
la privazione della vita causata dalla corruzione della proporzione esistente
tra vivificato e vivificante. Infatti la vita, secondo quel che si è detto prima,
sebbene non sia separata riguardo a niente, tuttavia è conosciuta implicita-
mente nella causa della vita: ma questa è l’anima, ed a questa vita la morte
non si oppone. Ed (è conosciuta anche) dalla vita che è nel flusso (che pro-
viene) dall’anima: e neppure a questa vita la morte si oppone direttamente,
poiché essa appartiene più all’anima che non al corpo, come il flusso della
luce è più del sole che non dell’aria che lo recepisce. Ma vi è una terza vita
partecipata dal corpo, che gli aderisce come la forma a ciò che è informato:
ed è a questa che la morte si oppone; di questa lo priva e assolutamente di
79
nessun’altra» .
Questa terza vita è quella che gestisce la facoltà nutritiva, sensitiva e ri-
produttiva, che per Alberto sono potenze che scompaiono con il corpo. Ma
ragione, memoria e volontà no: come dice Alberto, ‘a queste la morte non
si oppone’, quindi sono eterne. E siccome sono queste a distinguere l’uomo
dall’animale, ciò che rende umano un uomo non muore mai. Metafisica-
mente. Ma dal punto di vista teologico? E da quello spirituale?
Naturalmente il commento ad un corpus filosofico come quello aristote-
lico non si pone domande di questo genere, e sarebbe esegeticamente scor-
retto sollecitare i testi in tal direzione. Siamo rinviati a quanto già letto. E
80
siccome conviene fermare qui la ricognizione , non è esagerato concludere
che, a confronto di quanto letto in Alessandro di Hales, Alberto faccia dav-
vero un triplo salto in avanti. Il primo è affiancare alla prospettiva teologi-
ca quella filosofica (1242; De bono). Il secondo è ridurre la questione dello
stato antelapsario, teologica, a quella dell’immortalità dell’anima, filosofica
(1246; secondo libro del Commento alle Sentenze). Il terzo è l’introduzione
del dato teologico nella prospettiva filosofica (1256; De morte et vita). Non
_____________________________
78
ALBERTO MAGNO, De morte et vita, tr.I, c.2 (Borgnet 9, 347; trad. nostra). il rinvio
finale è ad ALBERTO MAGNO, De anima, II, tr.2, c.2 per totum (Borgnet 5, 216s).
79
ALBERTO MAGNO, De morte et vita, tr.I, c.3 (Borgnet 9, 348; trad. nostra).
80
Il corpus albertinum è molto ampio, ma gran parte delle opere sono commenti ad A-
ristotele. Naturalmente altrove vi sono spunti utili, ma de facto si limitano a chiarire
questo o quel dettaglio di quanto già emerso. E siccome abbiamo già dedicato molto
spazio ad Alberto, preferiamo lasciarli alla curiosità del lettore.

339
vi è dubbio che, a metà del sec.XIII, si vede la morte in modo molto diver-
so rispetto al sec.XII. Ma è diversità sinonima di complementarietà. Alber-
to vuole mostrare che la fede non contraddice la ragione, né questa quella.
Opportunamente interpretate, dicono entrambe la stessa cosa.
La morte è sì un dato naturale, ed Aristotele ci dice come e perché, ma
non è l’ultima parola sull’uomo, e la teologia ci dice come e perché.
Non possiamo sapere con certezza se prima del peccato originale la mor-
te esistesse o no, ma la filosofia ci dice come può essere fermata e la teolo-
gia perché de facto la grazia lo fa, incessantemente.
La dimensione spirituale è ricondotta a quella morale: filosoficamente la
morte buona è quella scelta in vista di un bene superiore, che la teologia ci
dice essere la fede, sull’esempio dei martiri. Ma questo non significa che la
prospettiva più classica sia scomparsa, tutt’altro: basta pensare a come, nei
conventi domenicani del sec.XIII, si accompagna un frate moribondo:
«O dolce fratello, se te ne andrai non deve dispiacertene; deve infatti piacere
anche a te ciò che credi essere piaciuto a Dio. Chi mai si rammaricherebbe
di aver scampato troppo presto l’uragano? O qual naufrago, aggrappato ad
un relitto, preferirebbe che la terra ferma si allontanasse? Tanti tuoi fratelli,
riuniti intorno a san Domenico, al vederti si rallegreranno e, venendoti subi-
to incontro, si feliciteranno con te perché, scampato al naufragio, hai potuto
81
riunirti alla loro felice compagnia» .
Questo è Bernardo di Clairvaux, limpido e puro.... Spiritualmente, l’idea
che guida questo processionale è perfetta. La morte giunge al momento op-
portuno, non prima, perché Dio non ci priva di quel che avremmo potuto
meritare anticipandola, né dopo, perché nostro Signore non vuole che per-
diamo quel che avevamo guadagnato posticipandola. Metafisicamente ciò è
possibile perché la grazia ‘modula’ l’habitus opposto alla potenza preposta
alla morte, così la proporzione tra vivificato (il corpo) e vivificante (l’ani-
82
ma) diminuisce gradualmente fino al punto di non ritorno . Come si vede,
_____________________________
81
Cf. P. LIPPINI, La vita quotidiana di un convento medievale. Gli ambienti, le regole,
l’orario e le mansioni dei Frati Domenicani del tredicesimo secolo, Bologna 2003,
298s, che riporta e traduce il testo di un processionale del sec.XIII citato da D.A.
MORTIER, Histoire des maîtres généraux de l’Ordre des Frères Prêcheurs, I, c.9 (Pa-
ris 1905, 595s).
82
Cf. ALBERTO MAGNO, in II Sent., dist.19, a.4, resp. (Borgnet 27, 334; trad. nostra):
«L’immortalità di Adamo era per grazia e non per natura. E nota che, come per noi,
anche per l’immortalità di Adamo erano necessarie cinque cose. Di queste, la prima è
la continuazione dell’ordine (delle cose stabilito) come causa perpetua di vita: e que-
sto era che l’anima fosse sottomessa a Dio, il corpo all’anima, il mondo al corpo. E
questo avvenne: (Dio) attinse dal perpetuo fonte di vita e diffuse nel corpo la perpe-
tua vita. Il secondo è un habitus creato che conserva la proporzione corporea (...), co-
(segue)

340
sperare di poter riassumere una visione così complessa citando una defini-
zione è non solo vano ma decisamente fuorviante.
Contemporaneamente ad Alberto però scrive anche un altro grande pro-
tagonista del sec.XIII: Bonaventura da Bagnoregio (1217/21-74)
* * *
Bonaventura, italiano di nascita, francese d’adozione, europeo per voca-
zione, non è un intellettuale nel senso moderno: ha una cultura vasta, la usa
con intelligenza ed abilità, ma in primis è un frate, ed un Minore, che non è
lo stesso d’essere Predicatore, Premostratense o magister secolare. Poi è un
uomo di comunità. Inviato (1235) a Parigi, nel convento di saint-Germain
ha confratelli rinomati e discussi, con un passato importante, entusiasti del-
la loro professione religiosa, impegnati a ripensare a fondo la dottrina della
loro fede. Facile immagine l’ascendente esercitato su un giovane ragazzo di
quattordici, diciotto anni; naturale che fra loro nasca una calda, accogliente,
83
stimolante, sintonia di vita e di pensiero, che supera l’ambito intellettuale .
Così la descrive uno studioso francese:
«L’atmosfera del convento di saint-Germain è molto fraterna: Alessandro di
Hales, Giovanni de la Rochelle, Odo Rigaud e Roberto de la Bassée sono
maestri di Bonaventura come, per altri versi, tutti i suoi confratelli dal 1243
84
al 1257» .
È in questa prospettiva umana e spirituale che nasce quel che scrive Bo-
naventura, ed è da quel punto di vista che lo si deve leggere.
Completato il corso di Arti, Bonaventura segue le lezioni della Facoltà di
Teologia tenute da Alessandro, Giovanni, Odo. Divenuto baccelliere bibli-
co commenta Sapienza (ante 1248) e Luca (1248-49) e, da baccellere sen-
______________________________
sì che, rimanendo sempre in quell’habitudo, sempre viva. Il terzo è l’albero della vita
(...) che rimuove dal corpo la causa della vecchiaia e dell’indurimento delle membra.
(...). Quarto è il nutrimento (tratto) dagli altri vegetali (...). Quinto è Dio che protegge
dall’esterno (...). Da ciò è chiaro che l’immortalità, propriamente, riguarda il primo e
il secondo, in quanto cause: il primo come causa efficiente, il secondo come causa
abituale e formale, la quale è dalla grazia e non dalla natura. Le altre tre infatti non
fanno immortali se non come disposizioni naturali». Non vi è dunque dubbio sul fat-
to che la morte consista in un mutamento dell’azione della grazia che si traduce in
cambiamento della proporzione corporea.
83
La profonda sintonia intellettuale tra i frati di saint-Germain è tanto notoria che papa
Alessandro IV, nel 1256, ordina loro di completarne la Summa theologica. Per questa
stessa ragione si è scelto di non servirci di quest’opera tratteggiando la posizione di
Alessandro. En passant, oltre Guglielmo di Melitona, Jean de la Rochelle ed Odo
Rigaldi, tra i compilatori forse vi è anche Bonaventura.
84
J.G. BOUGEROL, «Fisionomia spirituale di san Bonaventura», Doctor seraphicus 23
(1976) 75-82, 78s.

341
85
tenziario, le Sentenze del Lombardo (1250-51) . Qui, come è ormai abitua-
le, l’indagine sullo stato antelapsario di Adamo ci fornisce indizi utili.
Il primo è nella struttura del commento, chiaramente ispirata da quello di
Alberto ma anche diversa. Alberto infatti, dopo i due articoli qui esaminati,
chiude la questione della mortalità antelapsaria e si dedica ad altri risvolti,
il tutto piuttosto rapidamente. Bonaventura spende molto di più: ad esem-
pio, l’articulum dedicato all’immortalità dell’anima si sdoppia in due quae-
stiones per un totale di sei dense pagine, mentre in Alberto la questione è
risolta in una sola, ed al modo visto.
Ma è chiaro che lo spessore teoretico non si misura dal numero delle pa-
gine. Ed infatti il modo in cui Bonaventura spiega l’immortalità antelapsa-
ria del corpo di Adamo comporta una distanza ben più importante:
«A ciò che viene obiettato per primo, ossia che ogni cosa corruttibile (prima
o poi) di necessità si corrompe, si deve dire che il Filosofo (Aristotele) parla
di quel corruttibile il cui regimen non soggiace alla volontà ma solo alla vir-
tù naturale; e quello di necessità si corrompe, perché ha in se stesso la causa
della corruzione. Ma il corpo di Adamo, sebbene fosse mortale e corruttibi-
le, soggiaceva alla volontà per ordine della giustizia divina; perciò, se la vo-
86
lontà non avesse derogato da tale ordine, il corpo mai si sarebbe corrotto» .
Nel merito niente di nuovo: Bonaventura non può certo negare che alla
radice della mortalità postlapsaria vi sia il peccato originale né che questo
sia effetto del cattivo uso del libero arbitrio. Il Doctor seraphicus (questo è
il soprannome medievale di Bonaventura) non può negare neppure che, se è
87
morto, il corpo di Adamo aveva la potenza di farlo . Dove sta allora la di-
stanza da Alberto? Nell’accento sulla volontà, che qui è molto più forte che
nel Doctor universalis. Per Alberto infatti la potenza preposta alla morte è
‘bloccata’ dalla grazia divina, certo finchè Adamo non pecca; ma Bonaven-
tura va oltre: sembra che la grazia sia a sua volta ‘bloccata’ dal libero arbi-
trio di Adamo, che le lascia campo libero finchè rimane ‘ordinato’ ma dopo
‘blocca’ il ‘blocco’ e la potenza preposta alla morte può passare all’atto.
_____________________________
85
Cf. J.F. QUINN, «Chronology of st. Bonaventure (1217-1257)», Franciscan studies
32 (1972) 168-186. È la cronologia più diffusa, ma non indiscussa; p.es. R. TONONI,
Attesa umana e salvezza di Cristo. Una rilettura dell’opera bonaventuriana, Brescia
1983, 13s, sposta il Commento alle Sentenze al 1250-52 e quelli a Sapientia e Luca al
1254-57; B. DISTELBRINK, «De ordine chronologico IV librorum commentarii in
Sententias s. Bonaventurae», Collectanea franciscana 41 (1971) 287-314, dimostra
che lo Scriptum segue l’ordine: I, II, IV e III. Non entreremo in dettagli così fini.
86
BONAVENTURA, in II Sent., dist.19, a.2, q.1, ad 1 (Quaracchi, II, 465; trad. nostra).
87
Cf. BONAVENTURA, in II Sent., dist.19, a.2, q.1, resp. (Quaracchi, II, 465; trad. no-
stra): «Adamo, mentre era nello stato d’innocenza, aveva il posse che il suo corpo si
dissolvesse». ‘Posse’ non è sinonimo perfetto di potentia, perché sporge sul volere.

342
Questa diversità d’accento rivela la sua portata se ricordiamo ciò che si è
letto nella De bono la morte spiritualmente rilevante è quella scelta, e Al-
berto fa l’esempio dei martiri; quella subita, ad esempio per malattia o vec-
chiaia, è irrilevante. Accentuando il peso della volontà Bonaventura de fac-
to ne estende la portata, allargando l’oggetto della morale anche ad eventi
‘naturali’ come malattia o vecchiaia. Naturalmente ciò non si legge apertis
verbis qui, dove si parla del corpo antelapsario di Adamo e non di quello
postlapsario di un uomo qualunque, ed è variazione assai sottile entro una
cornice per molti versi ormai fissa. Ma dare il primato alla voluntas è tipico
della scuola Francescana, mentre quella Domenicana privilegia la ratio.
Il terzo indizio è in un aspetto che Alberto trascura: Bonaventura infatti
si chiede se quanto affermato riguardo all’anima ed al corpo separatamente
valga anche quando sono uniti, il che, detto per inciso, è quel che interessa,
visto che Adamo non aveva anima e corpo separati. Ma quel che è davvero
importante è come risolve la questione.
Il Doctor seraphicus divide la ricerca in due, se l’immortalità di Adamo
è per grazia o per natura e se sia identica a quella dopo la resurrezione. Che
sia per grazia sembrerebbe ovvio, ed invece Bonaventura scrive:
«Bisogna dire, come il Maestro nel testo (PIETRO LOMBARDO, Sententiae, II,
dist.19), che al riguardo le opinioni furono molte e varie. Alcuni infatti vol-
lero dire che l’immortalità era per natura (la prima serie di argumenta va in
questa direzione), altri che era per grazia (la seconda serie va in questo sen-
so). Entrambe queste opinioni sono mosse da una qualche ragione efficace,
ed entrambe hanno una parte di verità, sebbene una più dell’altra.
Come infatti, quando si dice ‘l’uomo è beatificabile’, si toccano due (aspet-
ti), l’attitudine (aptitudo) e la disposizione (dispositio), così anche quando si
dice ‘l’uomo è immortale’. Perciò, come l’uomo in certo modo può essere
detto beatificabile per natura ed in certo modo per grazia, così anche nel no-
stro caso. Nella misura infatti in cui ‘beatificabile’ implica attitudine, questa
inerisce all’uomo per natura: l’uomo infatti ha per sua natura l’attitudine alla
beatitudine. Nella misura in cui invece comporta una disposizione sufficien-
te, per mezzo della quale qualcuno giunge alla beatitudine, o un ordine suf-
ficiente (per giungere) all’atto, questa non inerisce all’uomo per natura ma
per grazia, per mezzo della quale viene sufficientemente disposto alla gloria,
né senza di essa la natura può disporlo.
Così, nello stato d’innocenza, l’uomo poteva essere detto immortale per na-
tura ed immortale per grazia, perché dalla natura aveva l’attitudine e dalla
88
grazia il completamento (completio)» .
Bonaventura dimostra questa conclusione distinguendo tre possibili cau-
se di morte naturale, e che, prima del peccato, per ognuna di esse la aptitu-
_____________________________
88
BONAVENTURA, in II Sent., dist.19, a.3, q.1, resp. (Quaracchi, II, 469; trad. nostra).

343
do all’immortalità è realizzata dalla dispositio della grazia. Ma nell’articolo
precedente Bonaventura ammette l’esistenza di una naturale potenza prepo-
sta alla morte, che si oppone alla naturale attitudine all’immortalità scoper-
ta qui; a cosa inclina dunque la natura umana? La cosa si complica se leg-
giamo quel che Bonaventura scrive determinando la quaestio successiva, se
l’immortalità di Adamo sia identica a quella dei beati:
«Poiché si dice ‘immortale’ quel che è nato atto o capace di non morire (ap-
tum vel potens non mori), la ‘immortalità’ è la potenza o attitudine a non
morire. Questa potenza a non morire altro non è che la potenza dell’anima a
reggere e tenere il corpo affinchè non venga mai meno né sia separato da lei.
Come dunque, nello stato d’innocenza, l’uomo poteva peccare e non pecca-
re, così l’anima poteva tenere o non tenere il corpo, e l’uomo poteva morire
e non morire. Poiché però, nello stato di gloria, è impossibile che il libero
arbitrio pecchi, è impossibile pure che l’anima abbandoni il corpo. Siccome
invece nello stato di miseria necessariamente avviene di peccare e restare in
peccato per qualche tempo, talvolta anche nella sua origine (i.e. nel peccato
originale), è di conseguenza impossibile che l’anima continui a dare la vita
al corpo (per sempre). Dunque la potenza del libero arbitrio è per essenza la
medesima nello stato d’innocenza ed in quello di gloria, differendo solo per
89
lo stato e la disposizione sovraggiuntagli (dalla grazia)» .
Il ruolo del libero arbitrio qui è assolutamente netto e decisivo: è lui che
fa passare all’atto la potenza/attitudine a non morire o a morire, anche se il
perfezionamento di questo atto è dovuto alla grazia. L’estensione raggiunge
persino il livello più alto, quello della ‘gloria’ o ‘beatitudine’, e la cura del
proprio libero arbitrio si riveste di un manto che va ben al di là del morale e
raggiunge il culmine dello spirituale. In definitiva, anche se i loro nomi non
figurano, non è esagerato dire che Bonaventura è in sintonia con Ambrogio
ed i Padri che lo seguono nel concepire la morte, anche naturale, come una
occasione per ben adoperare il nostro libero arbitrio.
Naturalmente, chi vorrebbe che questa tensione fosse espressa in termini
drammatici, come in Bernardo, oppure a chiare lettere, come in Ambrogio,
resterà deluso da questi che paiono giochi in punta di fioretto. Senza dubbio
questa sottigliezza è dovuta anche al fatto che, non lo si dimentichi, stiamo
sondando manuali di scuola e non scritti ascetici: se e quando serve, Bona-
ventura sa essere ben più ‘caldo’, lo dimostra il passo del suo Incendium
amoris letto nel punto 4.3. In effetti, a differenza di Alberto e Tommaso, la
_____________________________
89
BONAVENTURA, in II Sent., dist.19, a.3, q.2, resp. (Quaracchi, II, 472; trad. nostra).
Sull’escatologia del sec.XIII cf. T. GREGORY, «L’escatologia cristiana nell’aristoteli-
smo latino del XIII secolo», Ricerche di storia religiosa 1 (1954) 108-119, ed IDEM,
«Sull’escatologia di Bonaventura e Tommaso d’Aquino», Studi medievali 6 (1965)
79-94. Sono lavori molto datati ma il tema è davvero di nicchia tra i medievisti.

344
dimensione mistica di Bonaventura è esplicita e ben nota; talvolta qualcuno
se ne dimentica, ma esiste ed è ben solida. In realtà, però, qui la posta è più
alta della semplice attestazione di questo versante: si tratta di rivelarne la
dinamica e l’ossatura metafisica per estrarlo dal contesto ascetico, nel quale
90
rischia ormai di soffocare , dove ‘estrarre’ significa offrire spazi di fruibili-
tà altrimenti non accessibili o ritenuti non appropriati (la teologia iniziava
proprio allora a dividersi in compartimenti stagni).
Avendo ormai acquisito il guadagno fondamentale di Bonaventura, e per
non moltiplicare inutilmente i testi, ci piace concludere riportando un passo
tratto da un insieme poco frequentato, i Sermoni. Si tratta di uno stralcio dal
primo sermone per il Sabato santo, che Bonaventura paragona al giorno in
cui il Signore, dopo la creazione, si riposò:
«Quattro sono le cose per mezzo delle quali l’uomo giunge a quella requie
(santa): per l’esercizio delle operazioni virtuose, per il gemito di una com-
punzione amara, per l’ozio di una contemplazione devota e per il premio
della retribuzione eterna. Nel primo la requie inizia, nel secondo prosegue,
nel terzo si perfeziona e nel quarto si perpetua. (...) (Nel terzo) è necessario
che l’uomo fatichi per sette anni prima di ottenere la requie. Questi sette an-
ni sono i sette gradi della contemplazione, che il beato Bernardo descrive in
un modo, Riccardo di san Vittore in un altro e gli altri santi chi in un modo
chi in un altro. Ma un frate laico, che per trent’anni ebbe la grazia di estasi
(excessus mentalis) e che fu purissimo, vergine e terzo fratello dopo il beato
Francesco, disse così, che i sette gradi della contemplazione sono: fuoco,
unzione, estasi, contemplazione, gusto, abbraccio (amplexus) e requie. (...)
91
Dopo l’abbraccio gli viene data la requie, e quindi si addormenta» .
La morte, qui indicata come dormitio, è quindi il culmine di un percorso
spirituale di grande levatura ed impegno, un percorso che, è bene ribadirlo,
non è riservato a pochi eletti (magari da se stessi...) ma aperto a chiunque lo
voglia seguire, con l’aiuto della grazia di Dio, anche se ovviamente non tut-
ti arriveranno agli stessi vertici.

_____________________________
90
Esempio di questo ‘soffocamento ascetico’ è BONAVENTURA, Sermones, sermo I in
resurrectione (Quaracchi, IX, 273; trad. nostra): «La prima ed immediata causa della
morte non è Dio, ente sommo e di niente mancante mentre la morte è la massima tra
tutte le mancanze causate dalle pene, bensì la volontà, che cade dalla perpetuità e ret-
titudine della giustizia, come è detto nel primo della Sapienza (Sap 1,13)». Come si
può immaginare che dietro un inciso così banale vi sia la ricchezza che sappiamo?
91
BONAVENTURA, Sermones, sermo I in sabbato sancto, n.3 (Quaracchi, IX, 267.269;
trad. nostra). Bonaventura predicava sempre ‘a braccio’: non vi è dunque alcun ‘testo
originale’ dei suoi sermoni, tranne forse uno. Di solito però vi era sempre chi, in si-
mili occasioni, ingaggiava gli stenografi dell’Università per avere dei resoconti affi-
dabili. E sono questi quelli di cui disponiamo oggi.

345
L’ultimo protagonista che seguiremo, anche se ve ne sarebbero altri, è un
buon amico di Bonaventura: si chiama Tommaso d’Aquino (1225-74).
* * *
Tommaso d’Aquino è senza dubbio l’autore medievale più noto e studia-
to: i neoscolastici lo considerano il culmine del suo tempo e la guida della
dogmatica, valutazione questa condivisa dal Concilio Vaticano II, anche se
92
non in senso neoscolastico . Ma gli scritti di Tommaso sono molti, ampi e
complessi, e vanno letti in ordine cronologico perché l’Aquinate sviluppa
ed integra il suo pensiero, che perciò risulta molto articolato. Sin dalla fine
del sec.XIII ciò ha invogliato molti a ‘riassumerlo’ in tesi più o meno fede-
93
li, che la storia ha poi trasformato ne ‘il pensiero di san Tommaso’ .
_____________________________
92
Cf. CONCILIUM VATICANUM II, decr. Optatam totius, n.16 (EV I, n. 807): «Nell’inse-
gnamento della teologia dogmatica, prima vengano proposti i temi biblici; si illustri
poi agli alunni il contributo dei Padri della Chiesa orientale ed occidentale nella fede-
le trasmissione ed enunciazione delle singole verità rivelate, nonché l’ulteriore storia
del dogma (...) avendo san Tommaso per maestro (s. Thoma magistro)». Ma ‘avere
qualcuno come maestro’ non significa ripeterne le opinioni,sempre e comunque, ben-
sì adottarne l’habitus mentale ed il metodo di lavoro. In realtà la neoscolastica non
segue Tommaso ma la versione ridotta, semplificata e modificata che inizia a circola-
re già alla fine del sec.XIII: cf. É. GILSON, «Caietan», op. cit., per totum; IDEM, «Sur
la problématique thomiste de la vision béatifique», AHDLMA 31(1964), 67-88, 88:
«L’histoire du thomisme n’est pas toujours celle de saint Thomas d’Aquin».
93
È bene però avere almeno un’idea di quel che sottintende il sostantivo ‘storia’.
Dopo il 1273-74, anni della morte di Tommaso e Bonaventura, tra Minori e Predi-
catori esplode un forte contrasto, ‘la controversia dei Correctoria’, che radicalizza le
posizioni e genera stereotipi: cf. M.D. JORDAN, «The controversy of the Correctoria
and the limits of metaphysics», Speculum 57 (1982) 292-314. I Minori si stringono a
cerchio intorno alle posizioni di Agostino, pur con sfumature di rilievo; tra i Predica-
tori l’appoggio all’Aquinate è vario: alcuni gli sono fedeli (Tommaso di Sutton), ma i
conservatori (Kilwardby) lo rifiutano; chi si ispira a lui (Giovanni Quidort, Goffredo
di Fontaines, Egidio Romano) gli è poco fedele; altri infine seguono tutt’altre strade,
come la Scuola albertina di Freiberg o Durando di san Porciano. Per capire il livello
di scontro basti pensare che si tenta un primo processo a Tommaso nel 1277 (cf. R.
WIELOCKX, «Autour du procès de Thomas d’Aquin», in A. ZIMMERMANN - C. KOPP
(ed.), Thomas von Aquin. Werk und Wirkung im licht neuer Forschungen (Miscella-
nea mediaevalia, Band 19), Berlin-New York 1988, 413-438) e un secondo nel 1285,
addirittura nove anni dopo la sua morte. Ma l’Aquinate è già il ‘teologo ufficiale’ dei
Predicatori, e così papa Martino IV cassa l’idea (si noti che, al secolo, Martino IV è
quel Simon de Brion che nel marzo 1277 cerca di processare Tommaso...).
Nel sec.XIV, fra i Predicatori diviene obbligatoria la versione del tomismo nata in
quei decenni: cf. M. BURBACH, «Early dominican and franciscan legislation regar-
ding st. Thomas», Mediaeval studies 4 (1942) 139-158. Le opere di Tommaso sono
sostituite da compendi, sempre più schematici; persino i commenti se ne scostano, cf.
GILSON, «Cajetan», op. cit., 134: «On y voit Cajétan a l’œuvre, stérilisant la méta-
(segue)

346
Per fortuna il nostro intento è solo didascalico (anche se dover riequili-
brare un quadro sbilanciato richiede molte più pagine di quanto sarebbe be-
ne dedicargli), quindi non saremo costretti a sondare l’intero corpus thomi-
94
sticum . Da quanto emerso in precedenza sappiamo ormai che il locus nel
quale si concentrano le discussioni più interessanti per noi sono quelle sullo
stato antelapsario, poiché in nuce contiene anche le altre. Negli autori della
seconda metà del sec.XIII questa indagine inizia di norma commentando la
distinctio 19 del secondo libro delle Sententiae del Lombardo, sebbene ci si
95
curi poco di quanto dice Pietro .
L’Aquinate organizza il suo commento su cinque soli articula, riuniti in
una sola quaestio, di lunghezza standard per lo Scriptum ma molto più bre-
ve di quel che offre Bonaventura. Di questi articula il più ampio è il primo,
che indaga non l’immortalità dell’anima ma se questa si corrompa o no con
la corruzione del corpo. Non è proprio la stessa cosa. Leggendo il De morte
et vita di Alberto abbiamo letto che per lui le facoltà vegetativa, nutritiva e
96
riproduttiva scompaiono con il corpo . Questo perché per il Doctor univer-
salis l’anima umana non è un tutto unico ma consta di potenze distinte, che
si aggiungono una all’altra nella generazione intrauterina: dapprima il feto
ha solo la facoltà vegetativa, poi riceve quella sensitiva, quindi la riprodut-
tiva; la razionale, quella che lo costituisce essere umano, si aggiunge più o
meno due settimane prima del parto. Ed è questa, come si è letto, quella che
si oppone alla morte ed è eterna. Per Tommaso invece l’anima, in quanto è
forma del corpo, non è composta ma semplice; quelle che Alberto chiama
‘potenze’ sono in realtà ‘facoltà’, e non sono distinte ma tutte riassunte nel
loro vertice, la razionale. Evidentemente non è indifferente per il nostro ri-
manere umani conservare o perdere la sensibilità, la capacità di crescere e
di riprodurci dopo la morte. Ma altrettanto evidente è che queste sono pro-
blematiche eccedenti la nostra ricerca. Basti solo evidenziare il grande iato
che, su questo punto, esiste tra Alberto ed il suo discepolo Tommaso, iato
97
che avrà conseguenze serie già durante la loro vita ed ancor più dopo .
______________________________
physique de saint Thomas (...), la réduisant à une ontologie où le substances n’ont
plus d’acte d’exister». Su queste radici storiche e teoriche si innestano poi gli influssi
e gli scontri con il dualismo di Descartes, l’empirismo di Locke e l’Illuminismo.
94
Sarebbe stata impresa titanica; l’index thomisticum infatti dà ben 5843 occorrenze di
‘morte’: anche scartando quelle banali o ridondanti ne resterebbero davvero troppe.
95
In verità questo vale soprattutto per Alessandro ed Alberto. Bonaventura e Tommaso
sono un po’ più attenti: dopo ogni distinzione, il primo espone e risolve diversi dubia
riguardo a quel che scrive Pietro, il secondo lo ‘espone’ criticamente. Ma basta leg-
gere quelle note per capire che sono atti dovuti, al più chiarimenti spesso critici.
96
Cf. ALBERTO MAGNO, De morte et vita, tr.I, c.3 (Borgnet 9, 348; cit. sub locum).
97
Nata come disputa accademica de pluralitate formarum e diventata subito controver-
(segue)

347
Anche il secondo articulum pone la questione dell’immortalità corporea
di Adamo in modo leggermente diverso da quello fin qui visto: Tommaso
infatti si chiede non se avesse la possibilità di morire ma la necessità, ossia
se dovesse necessariamente morire. Non è la stessa cosa. La potenza infatti
non deve necessariamente passare all’atto, se non altro perché prima di far-
lo non esiste realmente nella cosa. Ma il corpo, in prospettiva fisica, è frut-
to di un equilibrio quanto mai precario tra elementi che ambiscono a sepa-
rarsi: tale disequilibrio è assolutamente reale (per esempio nella malattia o
nell’invecchiare) e, come si è letto, alla fine uccide. Soltanto l’azione di un
quid esterno, l’anima, mantiene questa proporzione e fa vivere.
Dunque, quando Tommaso si chiede se il corpo di Adamo deve necessa-
riamente morire sposta la prospettiva, da metafisica a fisica; ma perché?
«Rispondo dicendo che, come è detto nel secondo (libro) della Fisica (ARI-
STOTELE, Physica, II, 2), le cose che hanno un fine sono istituite secondo la
ratio di quel fine, come appare eminentemente nelle cose artificiali. Essendo
stato l’uomo istituito per il fine della beatitudine, che è al di là di ogni facol-
tà dell’umana natura, era necessario che nella sua istituzione fosse posto an-
che un qualcosa al di sopra delle facoltà dei principi naturali. Ma dai princi-
pi naturali non può avere un essere perpetuo perché compongono da contra-
ri, il che è causa di corruzione nelle cose nonostante la forma perfezioni la
materia secondo le sue capacità. Perciò, sopra la condizione della sua natura
gli fu anche posto che l’anima, ordinata a tale nobile fine, comunicasse alla
materia l’essere in perpetuo, secondo la sua potestà e secondo un ordine su-
periore alla natura comune con la quale la materia riceve l’essere secondo la
sua condizione. E poiché questo potere dell’anima sul corpo è conseguito in
virtù del suo essere ordinata al fine, il suo effetto non poteva essere impedi-
to se non per un suo disordine al fine, il che non poteva darsi senza il pecca-
to. E siccome (Adamo) poteva peccare, il libero arbitrio, non più confermato
nella giustizia, poteva impedire quell’effetto, e la morte interrompere l’esse-
re in perpetuo. Così, in un certo modo era mortale, in quanto poteva morire,
ed in un certo modo immortale, perché poteva non morire. Ma la potenza di
morire non poteva passare subito all’atto se non preceduta prima dal muta-
mento dell’anima secondo l’atto del peccato. Perciò si può dire che in quello
stato (d’innocenza) l’uomo era simpliciter immortale, e mortale solo secun-

______________________________
sia dogmatica de gradibus formarum, questa divergenza è la madre di tutti gli scontri
dei secc.XIII-XIV e ne sconvolge il gotha intellettuale. Nessuno si salva: Riccardo di
Mediavilla, Ruggero Bacone, Matteo d’Acquasparta, Kilwardby, Peckham, Marston,
Egidio Romano, Tommaso di Sutton, Goffredo di Fontaines, Enrico di Gand, Gio-
vanni Quidort, Pietro di Falco, Duns Scoto, tutti debbono schierarsi pro o contra. Né
è disputa libresca: fioccano processi, destituzioni, detenzioni, esili, scomuniche, an-
che ai morti, come si tenta due volte con Tommaso. Chi ignora la storia di quei tempi
forse coglie lo slittamento da ‘potenza’ a ‘facoltà’ ma, nel Medioevo, più è grande il
mare di questioni che si sollevano, più è neutro l’enunciato con il quale lo si fa.

348
dum quid, cioè se avesse peccato: perché, come è detto nel nono (libro) della
Metafisica (ARISTOTELE, Metaphysica, IX, 5), si dice ‘simpliciter in poten-
98
za’ ciò che può essere portato subito all’atto da un solo agente» .
Anche se il passo è un po’ lungo e tecnico, quel che Tommaso intende è
chiaro: l’uomo è creato per la beatitudine, e siccome questa non è a termi-
ne, è creato anche immortale. Questo primato della condizione di immorta-
lità su quella di mortalità è il primo guadagno teoretico che il Doctor com-
munis (titolo medievale di Tommaso) ci regala. Tecnicamente è sintetizzata
dall’avverbio simpliciter, che si può tradurre alla lettera con ‘semplicemen-
te’. Ma l’italiano non rende il senso e la forza originale. Nella forma mentis
medievale, infatti, il semplice viene prima del complesso, è migliore perché
meno soggetto a distruzione, ne esprime le qualità più alte. Così, quando si
legge che Adamo è ‘semplicemente’ immortale, significa che per Tommaso
quello è il suo status normale, nel quale tutto è al suo posto, come dovrebbe
essere. Non sempre però le cose sono nella loro forma ottimale: questi sco-
stamenti sono indicati dal lemma secundum quid, alla lettera ‘secondo qual-
cosa’, a senso ‘da un certo punto di vista’. Così, leggere che Adamo è mor-
tale secundum quid significa che per Tommaso la mortalità subentra all’im-
mortalità solo da un certo punto vista, quello della peccabilità, non da tutte
le altre possibili prospettive dalle quali si può considerare Adamo.
In definitiva, qui l’Aquinate rompe con la tradizione che poneva mortali-
tà ed immortalità antelapsaria sullo stesso piano ed opta decisamente per la
seconda. La morte esiste ed è frutto del peccato, ma coinvolge solo una del-
le prospettive dalle quali si può guardare all’uomo. E siccome questi è crea-
to in vista della beatitudine, Tommaso respinge anche ciò che più colpiva
in Teofilo d’Antiochia, l’apofatismo. L’Aquinate afferma un fine positivo,
che genera uno status fisicamente e metafisicamente positivo.
Il terzo articolo si chiede se il corpo di Adamo fosse passibile, ed anche
qui è netta la distanza da Alberto, per il quale, si ricorderà, questi argomen-
ti sono inutili. Tommaso non è d’accordo, e rimodula il senso di ‘passibile’
in modo che, oltre all’accezione fisica, possa contenere anche quella spiri-
tuale. E conclude in un modo per noi interessante:
«Preso nel primo modo, il corpo di Adamo era ‘passibile’. Ma, preso nel se-
condo modo, si deve dire che era ‘passibile’ secundum quid, ossia se avesse
peccato, ed ‘impassibile’ simpliciter, come sopra si è detto del mortale ed
99
immortale» .

_____________________________
98
TOMMASO D’AQUINO, in II Sent., dist.19, q.unica, a.2, resp. (cit. da corpusthomisti-
cum.org; trad. nostra). Omettiamo l’esempio finale.
99
TOMMASO D’AQUINO, in II Sent., dist.19, q.unica, a.3, resp. (testo corpusthomisti-
(segue)

349
Poiché ormai sappiamo leggere le formule tecniche, il passo è chiaro: in
più vi è l’equiparazione tra immortalità ed impassibilità da un lato, mortali-
tà e passibilità dall’altro, ma la ragione la conosciamo già dal De morte et
vita di Alberto. Però l’impassibilità di per sé implica che Adamo non pren-
da cibo per fame, mentre altrove Tommaso dice qualcosa di diverso:
«Adamo fu immortale così che poteva non morire se non avesse peccato, e
poteva morire se avesse peccato; e poteva conservare la sua immortalità non
perché niente si liberasse (resolvetur) dal suo corpo ma perché poteva rime-
diare alla perdita (resolutio) del suo umido naturale con l’assunzione del ci-
100
bo, così che il suo corpo non giungesse mai alla corruzione» .
L’immortalità di Adamo è dunque piuttosto particolare. Da un lato infatti
l’anima dà al suo corpo un essere eterno, dall’altra questo, per rimanere vi-
vo, ha bisogno di reintegrare l’umidità naturale persa. Ma, allora, il corpo
antelapsario di Adamo è immortale o mortale? Si potrebbe rispondere che
Tommaso già ha detto che, per un certo verso, il corpo di Adamo è passibi-
le, ossia poteva sentir fame. Ma questo vale dopo la caduta. Prima è impas-
sibile, quindi a rigori non avrebbe dovuto aver bisogno di ripristinare nes-
suna diminuzione. La questione è di grande importanza per capire lo stato
dei corpi risorti, una delle più neglette e irrisa dalle escatologie odierne, an-
che a causa della piega stoltamente materialista datagli dalla neoscolastica.
Dedicheremo ad essa un saggio, se nostro Signore ce ne darà tempo e forze,
ma è chiaramente al di là degli scopi di questo lavoro affrontarla qui. Tanto
più che il testo appena citato si legge nella Contra Gentiles, opera posterio-
101
re allo Scriptum nella quale non esiste una protologia vera e propria .

______________________________
cum.org; trad. nostra). Parallelo quasi ad litteram è TOMMASO D’AQUINO, in II Sent.,
dist.23, q.2, a.3, resp.; in Summa theologiae, I, q.97, a.2, resp. (Paoline 468) Tomma-
so si limita ad invertire l’ordine delle due qualità.
100
TOMMASO D’AQUINO, Contra Gentiles, IV, c.83, n.4188 b (Marietti, III, 401; trad.
nostra). L’opera è del 1259-64, il passo presumibilmente del 1263-64.
101
Merita però almeno accennare ad un punto assai importante. In Gen 2, 8 vulg. si leg-
ge (cors. nostro): «Il Signore Dio piantò un paradiso di piacere», il che significa che
le attività che si svolgono in esso danno piacere e non soddisfano bisogni di alcun ti-
po. Adamo perciò avrebbe assunto cibo, dormito e fatto qualunque altra cosa sempli-
cemente perché gli dava piacere farlo. Ciò sanerebbe in radice la spinosa questione
del cibarsi, e stupisce che quest’inciso di Vulgata sia sfuggito a tanti (ma, p.es., non a
ANGELOM DI LUXEUIL, Commentarium in Genesim, c.2 su Gen 2,8; PL 115, 128s).
Sed contra factum nihil est argumentum. Notiamo solo che LXX ha “in Eden” e che il
TM si può tradurre sia “giardino in Eden” che “giardino di delizie” perché ‘aden (sta-
to costrutto, come in Gen 2,8, ‘eden) significa ‘delizia’, amenità’, ed il verbo ‘adan
(cf. p.es. Nee 9,15) significa ‘vivere nelle delizie’.

350
Nel quarto e quinto articolo Tommaso ha invece presente lo Scriptum di
Bonaventura: ne riprende infatti la distinzione di diversi tipi di morte (a.4)
e della beatitudine in patria rispetto a quella antelapsaria. Ma Tommaso si
limita a ribadire, adattandolo, quel che si è già letto. Se poi omettiamo le
note ormai standard (causa della morte è il peccato originale; anima immor-
tale versus corpo mortale ecc.) lo Scriptum ha esaurito il suo contributo.
102
Le altre opere dell’Aquinate non forniscono molti altri spunti utili . Il
più interessante ce l’offre la Summa theologica. Chiedendosi, come al soli-
to, se l’Adamo antelapsario fosse immortale, Tommaso infatti afferma
«Rispondo dicendo che qualcosa si può dire incorruttibile in tre modi. In un
modo dal lato della materia, o perché non ha materia, come l’angelo, o per-
ché ha una materia che è in potenza rispetto una sola forma, come il corpo
celeste. E questo si dice incorruttibile secondo natura. In altro modo qualco-
sa è detto ‘incorruttibile’ dal lato della forma, perché alla cosa per natura
corruttibile inerisce una qualche disposizione per mezzo della quale gli è to-
talmente proibito di corrompersi. E ciò si dice incorruttibile per gloria (...).
Nel terzo modo qualcosa è detto incorruttibile per mezzo di una causa effi-
ciente; ed in questo modo l’uomo in stato d’innocenza fu incorruttibile ed
immortale. (...) Infatti il suo corpo non era indissolubile per mezzo di un
qualche vigore immortale esistente in lui, ma all’anima ineriva un certa for-
za soprannaturale data da Dio, per mezzo della quale poteva preservare il
103
corpo da ogni corruzione finchè fosse rimasta sottomessa a Dio» .
Come si vede, a distanza di dodici-quindici anni dallo Scriptum Tomma-
104
so mantiene la sua concezione di fondo . Non intatta, però. La prima novi-
105
tà è che quella che nello Scriptum era causa finale qui diventa efficiente:
non che la cosa generi effetti diversi, però è chiaro che l’efficiente non ha
con il fine lo stesso immediato rapporto della causa finale. Diciamo che,
nella Summa, il fine dell’immortalità è raggiunto in modo meno diretto che
non nello Scriptum. La sensazione di un indebolimento si rafforza se si nota
_____________________________
102
Su 381 occorrenze di ‘immortalis’, 83 sono nello Scriptum; 47 nella Summa theolo-
gica; la Contra Gentiles ne ha 22, solo 13 le Quaestiones de malo ed appena 6 le De
veritate. E le afferenti alla nostra ricerca sono davvero poche: la stragrande maggio-
ranza infatti si riferisce all’immortalità di Dio, dell’anima o a quella post mortem.
103
TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, I, q.97, a.1, resp. (Paoline, 467; trad. no-
stra). Tra parentesi una citazione di Agostino ed una dell’Ambrosiaster. La q.97 com-
prende 16 delle 47 occorrenze di ‘immortalis’ nell’intera Summa.
104
Mentre lo Scriptum è del 1252-56, e l’in II Sent. forse del 1254, la Contra Gentiles è
redatta nel 1259-65, ed il libro IV forse nel 1264-65. La Summa theologica, I, è del
1266-68, la q.97, una delle ultima, forse è del 1268. Questo quadro è importante per
capire da un lato probabilità e significato delle note che faremo tra poco, da un altro
che l’Aquinate può mutare di accento anche a distanza di appena tre anni.
105
Cf. p.es. TOMMASO D’AQUINO, in III Sent., dist.10, q.1, a.1, q.la 1, resp.

351
che la quaestio riguarda l’immortalità antelapsaria e la determinatio parla
di incorruttibilità, così come nello Scriptum era sinonimo di impassibilità.
Ma è sinonimia tutt’altro che perfetta: nella Contra Gentiles infatti si è letto
che Adamo assume cibo per contrastare (contro l’impassibilità) la diminu-
zione dell’umido naturale, un evento che va contro l’incorruttibilità. Quindi
l’Adamo antelapsario non sembrerebbe impassibile né incorruttibile, perciò
neanche immortale, se si accetta la pretesa sinonimia.
Il nostro insistere sullo stato antelapsario è dovuto al fatto che la pretesa
divergenza tra Agostino ed Ambrogio sul senso spirituale della morte è im-
putata alla querelle pelagiana, per la precisione alla tesi (di Pelagio? Cele-
stio? Giuliano?) di un Adamo mortale già prima di peccare. La pericolosità
di questa ipotesi è lampante per tutti, Padri e medievali, ma ciò non signifi-
ca che liberarsene sia semplice. Ciò che si è letto in Tommaso rivela che, se
si continua ad impostarla così, invece di risolversi la questione si avvita su
se stessa sempre più strettamente.
Per tagliare questo nodo gordiano ed anche chiudere la presentazione del
pensiero di Tommaso riportiamo come determina la quaestio ‘Se la morte e
difetti simili siano naturali nell’uomo’. L’Aquinate conclude così:
«Morte e corruzione sono naturali per l’uomo secondo la necessità della ma-
teria; ma secondo la ratio della forma gli è propria (conveniens) l’immorta-
lità. Per raggiungerla non bastano i principi della natura, ma nell’uomo vi è
(convenit) una qualche attitudine naturale verso di essa, secondo (la natura)
dell’anima. Il compimento di questa viene però da una forza soprannaturale
(...). Ed in quanto l’immortalità è in noi per natura, morte e corruzione sono
106
in noi contro natura» .
Come si vede, questo passo del 1270-72 mantiene la prospettiva di venti
anni prima, e questa continuità ha suggerito a molti studiosi che il pensiero
di Tommaso fosse riassumibile in poche formule sintetiche. In realtà, dietro
la continuità vi è più di uno slittamento, e questo quadro finale nasconde un
percorso piuttosto accidentato, come si è visto.
Quel che invece non si può dimostrare è il permanere nell’Aquinate, ri-
guardo alla morte, della dimensione spirituale classica. Che vi sia è certo.
Predicatore come Alberto e suo allievo, spesso in convento insieme a lui,
Tommaso vive la stessa atmosfera, che non è quella di un’arida biblioteca
107
ma piuttosto di preghiera intensa . Purtroppo i luoghi dove di solito questo
_____________________________
106
TOMMASO D’AQUINO, Quaestiones disputatae de malo, q.5, a.5, resp. (ed. Leon. 23,
142; trad. nostra). Tra parentesi una citazione dell’Etica nicomachea di Aristotele.
107
Su questo afflato si soffermano poco anche i medievisti, ma dalle opere traspare uno
scambio intenso che supera i confini e le polemiche tra gli Ordini. Cf. p.es. il caso di
Helvicus Teutonicus (Helwic de Germar, †1263): la seconda parte del suo De dilec-
(segue)

352
sentitus è più evidente (commenti biblici, omelie) non sono ricchi di spunti,
e quelli che si trovano non sono molto empatici. Riportiamo come esempio
un passo già letto nel capitolo quarto, punto 4.3.:
«Il termine ‘sonno’ si può intendere in vari modi. Talvolta si prende per il
sonno naturale, come nei seguenti passi della Scrittura (1Re 3,15): “Samuele
dormì fino al mattino”, (Gb 11,18) “Ti sentirai fiducioso e dormirai tranquil-
lo. Altre volte sta ad indicare il sonno della morte, come in quel passo pao-
lino (1Tess 4,13): “Non vogliamo che voi siate nell’ignoranza circa quelli
che si sono addormentati, affinchè non vi rattristiate come gli altri che non
hanno speranza”. Talora indica la negligenza, come nella frase del salmista
(Sal 120,4): “Ecco non si addormenterà né dormirà chi protegge Israele”, o
il sonno della colpa, come in quel passo della lettera agli Efesini (Ef 5,14):
“Svegliati, o tu che dormi, e risorgi dai morti”. Talora indica la quiete della
contemplazione, come nella frase (Ct 5,2): “Io dormo ma il mio cuore ve-
glia”. Ed altrove indica la quiete della gloria futura, come in quelle parole
dei salmi (Sal 4,9): “In pace, in lui stesso, mi corico e mi addormento”. La
morte viene denominata ‘sonno’ per la speranza della resurrezione; perciò si
cominciò a chiamarla dormitio da quando Cristo è morto ed è resuscitato,
secondo le parole profetiche del salmista (Sal 3,6): “Mi coricai e mi addor-
108
mentai, ed ecco sono risorto”» .

______________________________
tione Dei et proximi si intitola de decem gradibus amoris secundum Bernardum, ma
questi ne enumera solo 4 in De diligendo Deo, VIII, 23, e 12 nel De gradibus humili-
tatis; per di più, quel che Helwich scrive è più vicino a Bonaventura, al De sex alis
Seraphim, che però ha 6 gradi, o, se si preferisce, al De triplici via, c.3 de contempla-
tione, che ne ha 7. Quindi, il De dilectione è scritto prima del 1263 da un Domenica-
no tedesco che rinvia a Bernardo ma pensa a Bonaventura, ed è così apprezzato che
persino GIOVANNI DELLA CROCE, La notte oscura, II, cc.19-20, riassume la sua scan-
sione in dieci gradi. Se poniamo mente poi che a Colonia, in quegli anni, fiorisce una
Scuola il cui magister più famoso si chiama Eckhart (1260-1328), e che un altro Do-
menicano, Iacopo di Benevento (fl. 1255-71) scrive un Tractatus de antichristo ed un
De adventu antichristi, è ovvio supporre che, a metà sec.XIII, tra i Predicatori vi sia
una diffusa tensione mistica. Che spiegherebbe anche l’attribuzione a Tommaso del
De dilectione: è di un Domenicano, è del periodo giusto, rafforza l’immagine mistica
di Tommaso, utile in un tempo di duri scontri... Purtroppo però sono solo ipotesi: su
Helwich conosciamo solo il vestusto saggio di M. GRABMANN, Mittelalterliches Gei-
steslebens. Abhandlungen zur Geschichte der Scholastik und Mystik, II, München
1936, c.5 («Helwicus Teutonicus, l’autore dello scritto pseudotomistico De dilectio-
ne Dei et proximi»), su Iacopo da Benevento neppure quello.
Questi contatti però non coinvolgono il nostro tema: p.es., la dozzina di occorren-
ze del termine ‘morte’ nel De dilectione sono banali, e nelle 4 che offrono le due o-
pere di Iacopo la ‘morte’ o è ‘privazione di vita’ o ‘scioglimento dell’anima dal cor-
po’. Decisamente poco, ma assai utile per capire l’atteggiamento dell’apocalittica nei
confronti della morte, de facto appiattita o sul martirio o sulla ‘morte seconda’.
108
TOMMASO D’AQUINO, Super Iohannem, su Gv 11 lectio 3, n.1495 (testo da corpus-
(segue)

353
A suo luogo abbiamo già rilevato che qui Tommaso sintetizza ciò che in-
segnano Agostino e Gregorio Magno, così come traspare la sua conoscenza
delle dottrine mistiche di Bernardo e dei Vittorini. ‘Trasparire’ conviene ad
una lectio biblica (come questa), invece noi avremmo gradito qualcosa di
più personale. Ma tant’è. Fermiamo qui la ricognizione negli autori più ri-
levanti del sec.XIII e passiamo a quelli del sec.XIV.

11.2.4. Le teologie della morte


nel secolo XIV

In verità i primi autori che sonderemo non scrivono nel sec.XIV ma alla
fine del XIII. Non è un errore. È la conseguenza del fatto che nell’ultimo
quarto del secolo il modo di scrivere cambia profondamente: i commenti
alle Sentenze diventano spropositatamente lunghi, predomina il genere del-
le quaestiones quodlibetales (il magister risponde alle domande fattegli dai
suoi allievi e non solo), anch’esse spesso e volentieri debordanti. Cambiano
i problemi ed i termini nei quali li si affronta: la distinctio 19 del secondo
libro delle Sentenze ed il tema stesso della morte sono praticamente ignora-
ti. Insomma, de facto il sec.XIII finisce ben prima del 1300.
Senza dubbio ciò accade anche perché si fa sentire con forza crescente la
querelle riguardo alla povertà. Ma si commetterebbe un errore se pensassi-
mo che nasca allora: in realtà Bonaventura ebbe a che fare per tutta la vita
con i prodromi di tale drammatico scontro; pagando un prezzo molto salato
109
riuscì a rinviarne l’esplosione, ma non a disinnescarlo . Dopo la sua morte
scoppiò con forza dirompente e, essendo intriso di tensioni apocalittiche, il
110
modo di vivere e sentire la morte ne fu profondamente influenzato . Ma in
modo diverso da quello che forse ci si aspetterebbe: la morte fisica infatti è
come ‘annegata’ dentro la morte spirituale, la ‘morte seconda’, ed il marti-
rio viene esaltato come il modo migliore vivere.
______________________________
thomisticum.org; trad. it. II, 249).
109
Con ‘prezzo’ intendiamo, p.es., la scrittura di una biografia di Francesco e la messa
al bando delle altre, la redazione di Costituzioni che fanno del movimento minorita
un Ordine; la rilettura ad hoc di singoli episodi della vita di Francesco per disinne-
scare gli influssi gioachimiti. Non a caso Bonaventura è detto ‘il secondo fondatore’
dei Minori. È ‘salato’ perché ad ogni passo si fa nuovi nemici e soprattutto acuisce le
fratture: il carisma personale gli permette, seppur con fatica crescente, di porre un ar-
gine, ma non si ferma il mare con le mani... Pur se datato, il miglior quadro resta J.
RATZINGER, San Bonaventura. La teologia della storia, Fiesole 1991 (or. 1959).
110
Per una panoramica generale cf. D. BURR, The Spiritual franciscans. From protest to
persecution in the century after saint Francis, Philadelphia 2003.

354
Questa ripresa del versante spirituale della morte è particolarmente evi-
dente nel primo autore che esaminiamo, Pietro di Giovanni Olivi (1248-
1298). Commentando il racconto genesiaco dell’Eden infatti scrive:
«(Gen 2,17 vulg: “Dell’albero della scienza del bene e del male non mange-
rai; infatti, in qualunque giorno ne mangiassi, per quello di morte morirai”).
Qui si ripete, ma per sé dal primo (termine già) si capisce la necessità di mo-
rire. Per questo la traduzione di Simmaco, più propriamente, al posto di ‘di
morte morirai’ ha ‘sarai mortale’. Veniva qui inclusa anche la morte della
dannazione eterna, cioè la carenza della visione divina nella quale (Adamo)
incorse a causa di quella trasgressione che gli chiuse la porta del paradiso.
Di questa morte però nel testo non si tratta apertamente ma solo in modo na-
scosto, secondo Agostino, nel libro De civitate Dei, perché la spiegazione di
questa morte spettava ed apparteneva al Nuovo Testamento, dove la ‘morte
seconda’ è illustrata molto chiaramente. E così con ‘morte’ si intende tutta
111
la infezione (causata) dal peccato originale» .
Stessa tensione si registrava già prima, riguardo all’immortalità, quando
Pietro spiega cosa fosse l’albero della vita e perché desse la vita:
«L’albero della vita è chiamato (così), secondo Agostino, libro tredicesimo
del De civitate Dei, capitolo venti, perché gli altri alberi nutrivano gli uomi-
ni perché non sentissero il fastidio della sete o della fame, mentre gustavano
l’albero della vita perché la morte non giungesse mai. Il che accadeva non
per una sua qualità assoluta ma per disposizione divina, così come vedremo
che ai sacramenti della Legge nuova inerisce una forza divina che conferisce
la grazia sebbene in essi non vi sia alcuna forza assoluta. Questo sembra di-
re Agostino nel De Genesi ad litteram, libro 11, capitolo 18, quando afferma
che (Adamo) doveva lo stato della sua immortalità alla virtù mistica dell’al-
112
bero della vita» .
Non vi è alcun dubbio che il vero agente dell’immortalità antelapsaria sia
la grazia divina e l’albero della vita solo il tramite fisico di tale azione, ma
Pietro si disinteressa totalmente delle ricadute corporee. Né si deve pensare
che ciò sia in qualche modo collegato al fatto che, dopo, Adamo comunque
cade. Un disinteresse quasi identico si nota infatti anche nel contesto oppo-
sto, quello nel quale invece l’anima (non tutto l’uomo, si noti) si dedica in-
_____________________________
111
PIETRO DI GIOVANNI OLIVI, Lectura super Genesim, c.2 (testo corpusthomisticum;
trad. nostra). Riguardo alla dannazione, preferiamo non rendere il latino carentia con
il più scorrevole ‘privazione’ perché questo è termine più tecnico. Per inquadrare la
complessa figura dell’Olivi cf. A. BOUREAU - S. PIRON (edd.), Pierre de Jean Olivi
(1248-1298). Pensée scolastique, dissidence spirituelle et société. Actes du colloque
de Narbonne (mars 1998), Paris 1999.
112
PIETRO DI GIOVANNI OLIVI, Lectura super Genesim, c.2 (testo corpusthomisticum;
trad. nostra).

355
teramente a Dio e lo sposa; commentando infatti Cantico 8,6c, “L’amore è
forte come la morte”, Pietro scrive:
«Riguardo al primo aspetto (i.e. quello divisivo) dice che (l’amore) “è forte
come la morte”. La morte infatti all’improvviso ed in un istante divide tre
cose unite molto fortemente e strettamente, e cioè l’anima dal suo corpo, i
sensi dai loro sensibili e tutto l’uomo che muore dai suoi amici e parenti. E,
per sé, fa tutto questo per tutta l’eternità futura. Allo stesso modo l’amore
per Dio, quando è acceso con forza, separa l’uomo da se stesso, così che in
alcun modo si ami per se stesso ed in modo vizioso, ma solo per Dio ed a
causa di Dio. Separa infatti da tutto ciò che è desiderabile e dagli amici nella
113
misura in cui sono contrari al divino amore o lo impediscono» .
Pietro certo ignora che qualcosa di simile è anche in Massimo il Confes-
114
sore , ma non è questo il punto. Quel che conta è che Pietro, del parallelo
espresso da quel ‘come’, accenna al lato fisico solo nella misura indispen-
115
sabile per dare fondamento all’altro, quello spirituale , mentre il testo, ad
litteram, insegna anche il coinvolgimento corporeo. Però la cosa ha una sua
logica, dato che il Cantico è da sempre luogo di letture simili, perciò si la-
sci pure cadere la questione.
Più interessante è quel che l’Olivi scrive commentando le Sententiae del
Lombardo. Qui infatti, in una quaestio sul peccato originale, si legge:
«La morte si deve dire simpliciter innaturale per l’uomo, perché è contraria
alla naturale esigenza non solo dell’appetito naturale ma anche (di quello)
della sua forma sostanziale e principale, cioè l’anima razionale. La quale, di
per sé, esige sempre un corpo come sua materia, come naturale organo per
le sue molte operazioni e come coadiuvante per il completamento della sua
esistenza. È vero che, se si considera il corpo come lasciato a sé e come pri-
vo della debita guida dell’anima, in tal modo gli spetta di essere mortale, e
da questo punto di vista la morte può esser detta naturale. Ma ciò non pre-
116
giudica quanto detto in precedenza» .

_____________________________
113
PIETRO DI GIOVANNI OLIVI, Expositio in Canticum canticorum, c.8, n.338 (Quarac-
chi, 314; trad. nostra).
114
Cf. MASSIMO IL CONFESSORE, In psalmum 59 expositio, vv.7s (CCsg 23, 12ss; trad.
it. 13-17): l’amore per Dio comporta divisioni anche non del tipo ricordato da Pietro,
cf. Mt 10,35s: «Sono venuto per separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la
nuora dalla suocera, ed i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa».
115
P.es. EGIDIO ROMANO, In Canticum canticorum, c.8 (testo in corpusthomisticum), va
anche oltre: l’amore di Ct 8,6, è solo quello di Cristo per la Chiesa (e la Sinagoga), il
suo commento è quasi solo ecclesiologico e sulla morte fisica neanche una parola. Se
si chiede perché scegliere il Cantico per dare queste letture, bisogna rispondere che
l’amore per Dio va di pari passo con quello per la Chiesa ed i fratelli; ergo...
116
PIETRO DI GIOVANNI OLIVI, Quaestiones in II Sent., q.115 (Quaracchi, III, 380; trad.
(segue)

356
Qui l’immortalità dell’uomo, che in Tommaso è postulata in ragione del
fine, la beatitudine eterna, è da Pietro postulata in ragione del bisogno che
l’anima ha di un corpo per poter esercitare le sue facoltà. In apparenza è un
argomento meno teologico di quello dell’Aquinate, ma in realtà non è così:
se Tommaso assume a priori il fine dell’uomo, Pietro assume a priori che
post mortem l’anima abbia tutte le facoltà che aveva prima. E questo è dare
una risposta ben precisa alla quaestio dell’unicità della forma sostanziale,
la forma assunta alla fine del sec.XIII da quella già incontrata sulle potenze
o facoltà dell’anima, e in generale se l’anima separata dal corpo sia ancora
117
‘persona’ o no . Quest’ultimo risvolto è di estremo interesse (inutile dire
che le escatologie odierne neanche si pongono il problema...) perché, a sua
volta, suppone di aver chiara la differenza tra ‘individuo’ e ‘persona’, il che
invece non è, a dispetto delle innumerevoli volte in cui si usa il termine
‘persona’. Ma, ancora, non è qui che possiamo affrontare questo tema.
Considerando che, alla fine del sec.XIII, quelle da noi dette ‘assunzioni a
priori’ sono invece punti fermi e indiscutibili (specie la prima), ciò che si è
letto in Pietro rafforza non poco la posizione dell’Aquinate. Ma con questo
ha anche esaurito il suo contributo: come dire che la tensione apocalittica e
spirituale delle sue opere, innegabile e con ricadute importanti nella vita di
118
molti del suo tempo, de facto è ininfluente sulla visione della morte . Se
______________________________
nostra). L’intrico del testo è tale da rendere difficile indicare una sottodivisione.
117
Questo è un esempio di quanto decettivo sia equiparare il rapporto anima-corpo nei
medievali a quello forma-materia di Aristotele. Lo Stagirita non deve far i conti con
la deificazione, l’escatologia, intermedia e definitiva, l’essere ‘persona’ ed altro an-
cora; i medievali sì, e così le cose si complicano a dismisura. Per loro e per chi, oggi,
fatica a leggere i testi con gli occhi di chi li scrive e li interpreta in base a pre-assun-
zioni esegeticamente fuorvianti. D’altra parte, farlo significa fronteggiare una biblio-
grafia sterminata ed in continua crescita: cf. p.es. quella della tesi di J. SRKZYPEK, A
hylemorphic account of personal identity, University of Saskatchewan, Saskatoon
2011, 118-124, elenca 149 saggi ed articoli, senza quelli menzionati qui di seguito.
De facto, è impossibile tenere il polso dello status quaestionis. Per limitarci a lavori
qui afferenti cf. C. TROTTMANN, «Sulla funzione dell’anima e del corpo nella beati-
tudine. Elementi di riflessione nella Scolastica», in C. CASAGRANDE-S. VECCHIO, A-
nima e corpo nella cultura medievale. Atti del V Congresso di studi della SISMEL
(Venezia 25-28 settembre 1995), 139-155: anche tutti gli altri studi sono afferenti; M.
LENZI, «Alberto e Tommaso sullo statuto dell’anima umana», AHDLMA 74 (2007)
27-58; M. BIENIAK, The soul-body problem at Paris ca 1200-1250. Hugh of St.-Cher
and his contemporaries, Leuwen 2010; E. MITEVA, «The soul between body and
immortality: the 13th centuy debate on the definition of the human rational soul as
form and substance», Philosophia 4 (2012) 63-67.
118
Sul rilievo di Olivi a cavallo dei sec.XIII e XIV cf. D. BURR, Olivi and franciscan
poverty: the origins of the usus pauper controversy, Philadelphia 1989; IDEM, «Olivi
on prophecy», Cristianesimo nella storia 17 (1996) 369-391; IDEM, «Did the Be-
(segue)

357
però ampliamo la prospettiva scopriamo che gli scritti di Pietro hanno una
certa affinità con il sentitus di Bernardo di Chiaravalle. Non che tra i due vi
sia un rapporto diretto e tantomeno di dipendenza, però non si può scrivere
un De 12 gradibus humilitatis senza almeno tener conto del quasi omonimo
lavoro del Doctor mellifluus; non nel sec.XIII, specie se lo si fa seguire da
119
un De 14 gradibus amoris . E senza contare i rinvii a Bernardo nel Com-
mento alle Sentenze. La principale differenza sta nell’uditorio: Pietro non si
rivolge più (solo) a religiosi ma (soprattutto) a laici devoti, ai quali parla in
modo discorsivo ed amicale pur mantenendo una cornice classica (come ad
120
esempio la distinzione di ‘gradi’) . Senza dubbio questo nuovo modo si
sarà riverberato in qualche modo e misura anche sulla visione della morte,
ma non possiamo dire di più: nei testi non vi è praticamente altro, e l’Olivi
è studiato soprattutto dal lato socio-politico-economico o da quello della
polemica con il papato. Sono aspetti certo molto importanti ma di nessuna
afferenza per la nostra ricerca, ragion per cui dobbiamo lasciare Pietro.
* * *
Il secondo autore che sondiamo è Giovanni Duns Scoto (1266-1308). Tra
i Minori ha lo stesso ruolo ed autorità di Tommaso tra i Predicatori, ma le
sue opere testimoniano che in cinquant’anni l’atteggiamento verso la nostra
questione è cambiato radicalmente.
Giovanni inizia a scrivere di teologia nel 1300, come baccelliere senten-
ziario; prima, da magister artium, si dedica al commento di Aristotele. Del
suo Commento alle Sentenze esistono due redazioni, entrambe autentiche:
della prima, iniziata ad Oxford e nota come Lectura, non abbiamo il quarto
libro, della seconda, revisione parigina della prima e nota come Ordinatio,
______________________________
guins understand Olivi?», in BOUREAU - PIRON, Pierre de Jean Olivi, op. cit., 309-
318; IDEM, The Spiritual franciscans, op. cit.; IDEM, «Olivi, fra Dolcino and the be-
ast», Franciscan studies 72 (2014) 411-432.
119
Questi due opuscoli, solo in latino a differenza di altri che hanno anche una redazio-
ne in provenzale, non sono oggetto di grande attenzione, per usare un eufemismo: di
recente il solo ad occuparsene ci risulta A. MONTEFUSCO, «Per l’edizione degli opu-
scula di Pierre de Jean Olivi: sul corpus e la cronologia», Oliviana 4 (2012) 1-19; in
particolare le pp.7ss tratteggiano il nuovo ‘modello’ di ‘opera spirituale’ che Pietro è
il primo a proporre e che diverrà egemone in seguito. Riguardo ai nostri due opusco-
li, l’autore evidenzia (p.6) che l’Olivi ‘spirituale’ si ispira a Bonaventura, tanto che il
De gradibus humilitatis fu inserito tra le opere di questi. Non possediamo competen-
ze tali da poter replicare: facciamo solo notare che Bonaventura si ispira a Bernardo,
e perciò il contatto con questi può essere stato mediato da quello con Bonaventura,
anche se con un risultato incontestabilmente diverso da entrambi.
120
Cf. MONTEFUSCO, «Per l’edizione», op. cit., 10s. Il saggio fornisce ampia bibliogra-
fia al riguardo.

358
abbiamo tutti i libri ma con un testo talvolta diverso da quello di Lectura. È
normale che una revisione modifichi anche a fondo il materiale di partenza:
ad esempio, questo capitolo ed il successivo non esistevano nella prima ste-
sura di questo saggio. Ora, in Lectura, Duns Scoto affronta la questione del
corpo immortale di Adamo al solito posto, ossia nella distinctio 19 del libro
secondo: lo fa con una rapidità che, per chiunque lo conosca, denuncia sen-
za ombra di dubbio che la cosa non gli interessa, ma lo fa. In Ordinatio cas-
sa tutte le distinctiones 15-25, quindi anche la 19. È vero che già in Lectura
omette le distinctiones 16-17, accorpa 21-22 liquidandole in 7 pagine ed al-
la nostra ne dedica solo 5, ma ometterle del tutto è dire che non sono utili o
interessanti. E si noti che sono testi praticamente contemporanei: Lectura è
al più del 1301, al più del 1302 l’Ordinatio.
Dati gli scopi solo didascalici di queste note non entriamo nelle molte ed
121
intricate questioni che questo ed altri più significativi casi sollevano : ci
limitiamo a prendere atto della cosa. Leggiamo dunque come Scoto impo-
sta la questione dell’immortalità del corpo antelapsario di Adamo:
«Sembrerebbe che non (fosse immortale):
in quello stato infatti aveva bisogno di alimento, come si ha da Gen 2
(vv.16s) dove Dio dice di cosa nutrirsi e di cosa no; dunque aveva un corpo
nutribile. Ma in un corpo nutribile si perde qualcosa che non viene reinte-
grato con la conversione dell’alimento; altrimenti, infatti, se niente andasse
perduto si avrebbe che (il corpo) aumenterebbe all’infinito. Ma il tutto e la
parte sono dello stesso genere (AVERROÈ, De caelo, III, comm.67), dunque,
se fu corruttibile secondo le parti (ossia secondo la carne e le ossa), allora lo
fu anche secondo il tutto.
In contrario
Rom 5 (v.12): “Per mezzo di un solo uomo la morte entrò nel mondo”, e ciò
avvenne per mezzo del peccato; dunque, se il peccato non fosse stato, il cor-
122
po non sarebbe stato corruttibile» .
Questo modo di difendere le ragioni del pro e del contra è davvero molto
rapido: certo offre gli argumenta più solidi di entrambi, poiché de facto op-
pone la Scrittura (Gen 2,16ss) alla Scrittura (Rm 5,12), ma questo ragionare
solo per auctoritates è notoriamente il più debole tra i molti possibili.
Scoto premette alla propria opinione l’esposizione di quella di altri auto-
ri. La prima equipara ‘mortale’ a ‘poter morire’, e così, prima della caduta,
_____________________________
121
Cf. L. MODRIC, «I lavori in corso per l’edizione delle opere di Giovanni Duns Scoto
(1973-1981)», in C. BÉRUBÉ (ed.) Homo et mundus. Acta V Congressus scotistici in-
ternationalis (Salmanticae 21-22 septembris 1981), Roma 1984, 551-558.
122
GIOVANNI DUNS SCOTO, Lectura in II sent., dist.19, q.unica, argumenta (ed. Vat., 19,
181, nn.1ss; trad. nostra). Si noti la vicinanza a quanto letto in TOMMASO D’AQUINO,
Contra Gentiles, IV, c.83, n.4188 b (Marietti, III, 401; cit.).

359
Adamo è immortale perché non può morire: la conosciamo, è communis
123
opinio la cui trattazione più ampia è in Bonaventura . Ma perché Adamo
non può morire? Scoto ricorda che per alcuni ciò avviene perché senza col-
pa non c’è pena, e quindi prima di peccare non vi è morte, ma menziona
anche altre due spiegazioni: una dice che ciò avviene per la retta sottomis-
sione del corpo all’anima e di questa a Dio, l’altra che avviene per un dono
124
soprannaturale . Giovanni non fa nomi, ma sappiamo che la prima tesi è
125
di Bonaventura, la seconda di Alberto e Tommaso , la terza di tutti. Gli
editori però notano che, nell’enunciare la seconda, Scoto si rifà ad Enrico
di Gand, suo grande oppositore anche se morto nel 1293; dal canto suo, En-
126
rico duella con Tommaso: curioso vederli d’accordo .
A queste soluzioni Scoto oppone tre ragioni. La seconda e la terza si ri-
fanno all’argomento contro l’immortalità, una riferendosi alla respirazione
(senza aria Adamo sarebbe morto), l’altra all’impassibilità in genere (Ada-
127
mo ha sensazioni, quindi subisce dai contrari) : si tratta di variazioni su
temi ormai ben noti. Invece la prima è originale: Scoto immagina che i figli
che Adamo avrebbe potuto avere in stato di innocenza avrebbero potuto
128
peccare, perfino ucciderlo: perciò Adamo non è immortale . La dimostra-
zione dell’ipotesi è rinviata alla distinzione successiva, che in effetti tratta
della possibilità che i figli di Adamo potessero peccare: ma Scoto la deter-
mina dicendo che di fatto non lo fecero, quindi sconfessa l’ipotesi invece di
dimostrarla. Ma la decettività del ragionamento è più profonda. In entrambi
i passi Scoto assume che Adamo abbia avuto figli prima della caduta, però
non lo si legge nella Scrittura: solo Agostino ne pone la possibilità, per af-
129
fermare, contro Giuliano, che nell’Eden non vi era concupiscenza . Torne-
_____________________________
123
Cf. GIOVANNI DUNS SCOTO, Lectura in II sent., dist.19, resp. (ed. Vat., 19, 181s, n.4).
124
Cf. GIOVANNI DUNS SCOTO, Lectura in II sent., dist.19, resp. (ed. Vat., 19, 182, n.5).
125
Cf. ALBERTO MAGNO, in II Sent., dist.19, a.4, resp. (Borgnet 27, 334; cit.); TOMMA-
SO D’AQUINO, Summa theologiae, I, q.97, a.1, resp. (Paoline, 467, cit.).
126
Cf. ENRICO DI GAND, Quodlibet VI, q.11, ad argumenta (Wilson, 137s): «In stato di
innocenza il corpo ebbe per sé, dall’anima, che non si corrompesse mai, perché per
mezzo della naturale rettitudine della naturale giustizia il corpo era in obbedienza
piena verso l’anima». In verità Tommaso non insiste sulla ‘naturalità’: è vero che il
fine dell’uomo è nella sua natura ed è la beatitudine, ma Tommaso è molto chiaro nel
dire che questa è al di là della natura, anche antelapsaria, ed è solo dono di Dio.
127
Cf. GIOVANNI DUNS SCOTO, Lectura in II sent., dist.19, resp. (ed. Vat., 19, 183,
nn.7s).
128
Cf. GIOVANNI DUNS SCOTO, Lectura in II sent., dist.19, resp. (ed. Vat., 19, 183, n.6).
129
Cf. AGOSTINO, De civitate Dei, XIV, 26 (CCsl 48, 449s; trad. it. 803s). Ma Scoto sa
tutto questo: cf. GIOVANNI DUNS SCOTO, Ordinatio, II, dist.30-32, ad arg q.3, ad 4
(ed. Vat. 8, 356, n.87; trad. nostra): «Se ci fosse stata procreazione nello stato di in-
(segue)

360
remo su questo più avanti, ma l’impressione di una certa confusione cresce
se si nota che queste ragioni non contestano le spiegazioni del ‘posse non
mori’ ma dimostrano il ‘posse mori’ di Adamo, che nessuno nega.
Questa inconcludenza sembra peggiorare al momento in cui Scoto difen-
de la propria opinione, che enuncia così:
«Il primo uomo in stato d’innocenza poteva morire e non morire. Il poter
130
morire però non sarebbe mai passato all’atto se non avesse peccato» .
Nihil novum sub sole. Ovviamente ora Scoto deve spiegare perché tale
potenza non passi all’atto, e così, imitando Bonaventura, enumera diverse
cause di morte. La diminuzione del calore naturale è la principale, ma Sco-
to afferma che il cibo e l’albero della vita lo ripristinano. Vi sono malattie,
vecchiaia e violenza, ma Scoto rileva che queste subentrano dopo il peccato
e non prima. Riguardo alle prime afferma che l’ordine perfetto di anima e
corpo le impedisce, che la vecchiaia non sopravviene perché l’Eden è luogo
molto temperato ed infine che la violenza, di uomini o animali, non esiste
131
ancora . Scoto qui usa argomenti prima respinti, ad esempio quel rapporto
ordinato tra corpo ed anima che ha criticato in Alberto, Tommaso ed Enri-
co: però forse Scoto non intendeva rifiutarli ma solo opporli l’un l’altro: in
132
tal caso sarebbe ammissibile che poi li adotti anche lui .
Comunque sia, Scoto chiude la sua determinatio così:
«Perciò dico che è possibile che nel primo uomo vi fossero insieme morte e
innocenza, così che nello stato di innocenza vi fosse la morte, anche se de
133
facto non esistettero mai nello stesso tempo» .
L’opposizione a Bonaventura è chiara, ma Giovanni va oltre, e dedica un
intero paragrafo, l’ultimo della distinctio, a respingerne la tesi:
______________________________
nocenza, non ci sarebbe stato peccato originale contratto e ogni procreazione sarebbe
ora del tutto senza libidine». Il motivo dell’ipotesi è un altro, come vedremo.
130
GIOVANNI DUNS SCOTO, Lectura in II sent., dist.19, resp. (ed. Vat., 19, 183, n.9; trad.
nostra).
131
Cf. GIOVANNI DUNS SCOTO, Lectura in II sent., dist.19, resp. (ed. Vat., 19, 183ss,
nn.10-15).
132
In effetti è così: cf. GIOVANNI DUNS SCOTO, Ordinatio, II, dist.29, q.unica, resp. (ed.
Vat. 8, n.19; trad. nostra): «Dell’altro effetto che si attribuisce alla giustizia originale,
cioè l’immortalità, non è necessario discutere perché questa immortalità, come è det-
to nella dist.19, non fu impossibilità di morire (anche in quello stato) ma possibilità
di non morire, possibilità che passò all’atto di ‘non morire’ per mezzo dei molti aiuti
che là sono ricordati: il mangiare dell’albero della vita, la custodia degli angeli, il re-
gime di vita buono, anche per la protezione divina ed altri ancora».
133
GIOVANNI DUNS SCOTO, Lectura in II sent., dist.19, resp. (ed. Vat., 19, 185, n.16;
trad. nostra).

361
«Alle ragioni dell’altra opinione (i.e. quella di Bonaventura) si deve dire
che la morte ora è pena, ma allora poteva essere una condizione naturale, se
davvero allora sia esistita (senza doni di grazia), così come ora per la pecora
non è una pena che muoia (al modo in cui ora parliamo di pena) ma è condi-
zione che segue dalla sua natura. Perciò la morte poteva essere non una pena
ma la condizione naturale di quel corpo: la pena infatti non è inflitta se non
per punire, mentre la morte è naturale. E ciò si ha da Agostino, nel III (libro
del) De libero arbitrio: se Dio avesse creato la natura nelle miserie nelle
quali ora è, anche allora sarebbe da lodare. Dal ciò si ha che, se allora fosse
134
esistite la morte, non sarebbe stata una pena» .
L’opposizione al Doctor seraphicus è frontale: la morte antelapsaria non
può essere una pena, perché non si dà pena prima della colpa: quindi è la
morte è compossibile con l’innocenza. E se non è una pena, allora la morte
fa parte della natura umana. La posizione di Scoto poggia su due elementi:
l’ipotesi che, nello stato d’innocenza, la natura di Adamo fosse priva di do-
ni di grazia, ed il testo di Agostino. Ma l’ipotesi è solo teorica, gratia di-
sputationis, direbbe un logico medievale; poco dopo, infatti, di questa ‘ret-
titudine naturale’ (per dirla con Enrico) Scoto scrive:
«Tuttavia, di fatto, se i loro genitori (i.e. Adamo ed Eva) fossero rimasti (fe-
deli a Dio), sarebbe stata data loro (i.e. ai figli) da Dio la giustizia originale,
ed è verosimile che quelli l’avrebbero usata bene; ma il figlio, che così re-
135
cepisce la giustizia originale, avrebbe potuto peccare...» .
Quindi, anche nell’ipotesi che Adamo avesse dei figli prima della caduta,
questi avrebbero ricevuto da Dio la stessa giustizia originale che ebbero i
136
loro genitori . Da Dio: quindi anche in quest’ipotesi la giustizia originale
_____________________________
134
GIOVANNI DUNS SCOTO, Lectura in II sent., dist.19, resp. (ed. Vat., 19, 186, n.19).
135
GIOVANNI DUNS SCOTO, Lectura in II sent., dist.20, q.1, ad arg. (ed. Vat., 19, 190,
n.8; trad. nostra).
136
Questo inciso è tutto quel che ci interessa della dist.20, ma il tema che affronta di per
sé sarebbe interessante: Scoto infatti si chiede se i figli procreati in stato d’innocenza
furono confermati in giustizia (naturale) o in grazia. La dist.20 è l’ultima tappa della
complessa storia di una questione delicata: conoscerne almeno le linee di fondo sarà
di aiuto per capire la portata di quel che si è letto. Tutto nasce da una tesi di Agosti-
no: alla fine dei tempi, per ripristinare l’iniziale perfezione del Regno di Dio, i santi
sostituiranno gli angeli caduti; cf. AGOSTINO, De civitate Dei, XXII, 1, 2 (CCsl 48,
507); IDEM, Enarrationes in psalmos, 126, 3 (CCsl 40, 1858) e molti altri. Ma i santi
sono uomini, non angeli; Agostino ricorda Lc 20,36: «(I santi) saranno uguali agli an-
geli». Commentando la parabola della dracma perduta, GREGORIO MAGNO, XL homi-
liae in evangelia, hom.34, 6.11 (CCsl 141, 304.309), afferma che i santi apparterran-
no ad un ordine angelico a sé: il loro numero però non è quello degli angeli caduti
bensì quello degli angeli fedeli. La questione del numero diventa cruciale nel sec.XII,
quando angelologia ed antropologia iniziano a separarsi, e nel sec.XIII si aggiunge la
(segue)

362
è al di là della natura umana. A maggior ragione questo dono di grazia deve
essere supposto nello stato di fatto reale. Ma non è il caso di inseguire le
ipotesi che Scoto ama avanzare sempre su tutto. Concentriamoci invece sul
testo di Agostino; che non è quello da lui riportato,
«Agostino, nel III (libro del) De libero arbitrio: se Dio avesse creato la na-
tura nelle miserie nelle quali ora è, anche allora sarebbe da lodare»,
bensì questo:
«Quanto a ciò che ponesti in terzo luogo, (ossia) in qual modo non sia da
imputare al Creatore qualunque cosa che avviene nella sua creatura per ne-
cessità, (ciò) non smuoverà facilmente la regola della pietà per laci quale,
conviene ricordarlo, noi dobbiamo rendere grazie al Creatore nostro. Per
questa ragione assai giustamente si dovrà lodare la grandissima sua bontà,
137
anche se ci avesse creato nel grado di qualche creatura inferiore» .
Chiaramente sono due cose diverse. E nel De libero arbitrio, III, non ce
n’è uno più vicino di questo, anzi, ve n’è uno opposto all’intentio di Scoto:
«Il dolore che provano gli animali manifesta che anche nelle loro anime vi è
una certa forza, che è degna di lode ed ammirazione nel suo genere. Da ciò
risulta evidente in che misura cerchino l’unità nel reggere ed animare il pro-
prio corpo. Infatti il dolore che altro è se non l’istinto che si oppone alla di-
visione ed alla corruzione? È dunque chiaro più della luce quanto l’anima
sia avida e tenace nel mantenere l’unità di tutto il proprio corpo, che non di
buon animo o indifferentemente vive in se stessa la sofferenza del suo cor-
po, ma con resistenza e riluttanza, perché percepisce con dolore che ne mi-
naccia l’integrità. Se non vi fosse il dolore degli animali non apparirebbe
quanto (forte sia) il desiderio dell’unità anche in queste creature inferiori. E
se ciò non si manifestasse, sarebbe men chiaro del necessario che tutte que-
ste cose sono state costituite dalla somma e sublime ed ineffabile unità del
138
Creatore» .
Con tutta evidenza questo Agostino non avrebbe accettato che Scoto gli
mettesse in bocca le parole che gli fa dire. Ma il problema che questo passo
______________________________
resistenza all’idea di un uomo angelificato: così, mentre alcuni reputano indecidibile
la questione, altri suggeriscono che i santi siano pari al numero dei figli che Adamo
avrebbe avuto prima del peccato (si ricordi che la caduta angelica segue subito la lo-
ro creazione, quindi ben prima di Adamo). Al tempo in cui scrive Scoto, la questione
dell’immortalità non riguarda più solo Adamo ma un numero ben più grande di per-
sone. E quel che Scoto stabilisce per i figli vale, a fortiori, per i progenitori. Ma, for-
se per le ragioni addotte in Ordinatio, II, dist.30-32, n.87 cit., si rende conto che è in-
sensato supporre una figliazione antelapsaria, e così sopprime la dist.20.
137
AGOSTINO, De libero arbitrio, III, 5, 12 (CCsl 29, 282; trad. nostra).
138
AGOSTINO, De libero arbitrio, III, 23, 69 (CCsl 29, 316; trad. it. 375, rivista).

363
solleva è molto più serio della correttezza di un rinvio o della fedeltà ad un
pensiero. Qui si tratta di far fronte ad un dato di fatto esperienziale: Agosti-
no cerca di gestirlo, Scoto invece lo nega. Certo non scrive che gli animali
siano felici di morire perché così realizzano la loro natura, ma (a lui piace
tanto, facciamolo anche noi) si potrebbe ipotizzare che, se non ci fosse sta-
to il peccato di Adamo, le pecore sarebbero state felici di morire assecon-
dando la loro natura pura... Scoto dice che per gli animali la morte è natura-
le perché nessuno imputa loro la pena del peccato originale: però la vivono
in modo davvero molto, molto simile a quello degli umani peccatori... Per-
ché questo sarebbe ‘negare’? Perché anche nel sec.XIV le galline scappano
per l’aia per non farsi torcere il collo, ed i maiali strillano e piangono prima
di essere scannati. Né si creda che siano rumori, odori sconosciuti ai frati:
ognuno di loro, almeno da novizio, passa del buon tempo in cucina. Quindi
Scoto sa bene che la morte è dolore e sofferenza per ogni vivente; sa bene,
perché è nella Scrittura, che ogni vivente è punito per la colpa di Adamo;
non sa invece come conciliare questo dato di fatto con la sua opinione, così
non trova di meglio che inventarsi una ‘condizione naturale’ che non esiste
ma ha la gradevolissima qualità di risolvergli tutti i problemi... In ogni ca-
so, Scoto si lascia due porte aperte: non scrive che la morte ‘fa parte’ della
natura ma solo che (facendo un’ipotesi) ‘avrebbe potuto’ inerire a quella
natura antelapsaria alla quale il Creatore dona solo l’esistenza: nell’ipotesi
che tale natura esista, è chiaro... In definitiva, la sua opposizione a Bona-
ventura si riduce ad un’ipotesi (la ‘condizione naturale’) poggiata su un’al-
tra ipotesi (la ‘natura umana’ senza grazia), sostenute da un testo agostinia-
no inesistente. Chiunque si rende conto che è ragionamento assolutamente
fallace, figurarsi un logico sottile come Scoto. Non meraviglia, perciò, che
nell’Ordinatio queste distinctiones scompaiano.
Non altrettanto però si può dire dell’idea di fondo, ossia che la morte non
è una pena ma una condizione naturale. Infatti, chiedendosi se alla ‘giusti-
zia naturale’ di Adamo debba aggiungersi un qualche dono di grazia (rispo-
sta: sì), Scoto replica al primo argumentum così:
«Quando si prova che (la ribellione a Dio e la morte) sono pene, dico che
no, sono condizioni naturali, perché per l’uomo il morire non è una pena ma
naturale; come il suo desiderio lo porta verso quel che desidera, per il fatto
che l’uomo è composto di molte parti organiche e quindi in lui vi sono molti
desideri, ed è naturale che ognuno di loro lo porti verso ciò che desidera, co-
sì anche il corpo si può consumare, se non vi sono rimedi che suppliscano
139
abbondantemente in modo che che quella consunzione non vinca» .
_____________________________
139
GIOVANNI DUNS SCOTO, Ordinatio, II, dist.29, q.unica, ad 1 (ed. Vat. 8, 315, n.21;
trad. nostra).

364
Rispetto a quel si legge in Lectura, qui, nell’Ordinatio, cade l’ipoteticità:
là Scoto riserva questa apoditticità alla pecora, qui la estende non solo ad
Adamo ma ad ogni uomo. “Per l’uomo morire non è una pena ma è natura-
le”: ma, se non è morire, quali sono le conseguenze del peccato originale?
Scoto risponde così:
«Adamo non corruppe questa natura nella sua singolarità, o questa persona
nella sua singolarità, ma corruppe se stesso con un peccato personale, ed in
140
questo demeritò l’intera sua posterità» .
Tocchiamo con mano la distanza tra l’approccio albertino-tommasiano e
quello bonaventuriano-scotista: letto con le lenti del primo, il passo è quasi
incomprensibile, letto con quelle del secondo rivela l’uso della distinzione,
nel peccato, tra l’elemento formale e quello materiale. Senza entrare troppo
nei dettagli, ciò significa che il peccato di Adamo non comporta per noi le
stesse conseguenze che ebbe per lui. Formalmente infatti il peccato è iden-
tico, perché consta della identica perdita della giustizia originale donata da
141
Dio . Materialmente invece è diverso, perché quella giustizia fu persa da
Adamo, non da noi, quindi la morte è pena per lui ma non per noi. Resta un
peccato, perché manca la giustizia originale, ma, non essendoci volontarie-
142
tà (come invece vi fu in Adamo) quel che comporta non è una pena .
_____________________________
140
GIOVANNI DUNS SCOTO, Ordinatio, II, dist.30-32, ad argumenta, ad 5 (ed. Vat. 8,
352, n.75; trad. nostra).
141
Cf. GIOVANNI DUNS SCOTO, Ordinatio, II, dist.30-32, resp. (ed. Vat. 8, 341, n.53;
trad. nostra): «Così si risolve la seconda questione, dove si chiede cosa sia il peccato
originale: formalmente è la carenza della giustizia originale debita, ma non debita in
un modo qualunque ma debita perché presente nel primo parente ed in lui persa».
142
Sciogliamo qui un po’ ad hoc quel che più tecnicamente si legge in GIOVANNI DUNS
SCOTO, Ordinatio, II, dist.30-32, ad argumenta, ad 3 (ed. Vat. 8, 351, n.72; trad. no-
stra): «A quel peccato (i.e. originale) concorrono due (elementi), vale a dire la caren-
za di giustizia (come formale) e il debito del doverla avere (come materiale), come
nelle altre privazioni concorrono la privazione e l’attitudine all’avere (ciò di cui si è
privi). Questo debito viene da Dio, che stabilisce questa legge: “Dando la giustizia a
te, Adamo, la do anche a tutti i tuoi figli naturali, con il medesimo atto e per quanto è
da parte mia”; e perciò tutti, per questa dazione, sono tenuti ad averla (i.e. la giustizia
originale), ed attraverso la propagatione del padre, per l’azione del quale uno è figlio
di Adamo. Dunque questo debito non entra attraverso nessun ‘conto nascosto’, bensì
inerisce (all’uomo) per queste due cause positive. Ma quella carenza non ha causa se
non in senso negativo, cioè nel non dare la giustizia originale». In termini albertino-
tommasiani, quella di Scoto è l’enunciazione contorta della distinzione tra peccatum
originale originans, quello di Adamo, e peccatum originale originatum, il nostro. In
realtà non è contorsione ma diversità. Nella prospettiva tommasiana infatti la morte è
naturale: in Adamo emerge come pena, in noi come tale. Per Scoto la morte è sempre
naturale: in Adamo emerge come pena, in noi come debito.

365
Ora è più chiaro come e perché, secondo Scoto, la morte sia compossibi-
le con la giustizia o, come si è letto in Lectura, con l’innocenza. La morte
esiste in quanto possibilità insita per sé nell’essere creati o, se si preferisce,
come impossibilità della creatura di esistere per sé in eterno. Nello stato di
innocenza, nel quale Dio crea l’uomo perché non può crearlo in uno di col-
pevolezza, questa possibilità esiste ma è continuamente annullata dalla gra-
zia per mezzo di aiuti vari. Quindi la giustizia originale non dipende dalla
grazia ma non esiste senza di essa, e non impedisce la finitudine dell’uomo
143
anche se la sua perdita la rende inevitabile . In definitiva, per Scoto mori-
re è insito nella natura umana in quanto creata, anche se di fatto si muore a
causa della caduta di Adamo. In apparenza è posizione molto simile a quel-
la di tutti gli altri, ma in realtà segue da una concezione della natura umana,
144
ante e postlapsaria, e del peccato, originale e non, assai diversa .
Sed de hoc satis.
Conviene lasciare la produzione di scuola alle sue ipotesi e riprendere i
contatti con la vita quotidiana delle persone del tempo.
* * *
Quando, chiudendo il punto 11.2.1., abbiamo tratteggiato rapidamente il
modo in cui nei secc-VIII-XI si affronta la morte quotidiana, abbiamo fatto
due opzioni: mettere da parte le morti improvvise e concentrarci sul mo-
mento finale, il funerale. La ragione è semplice: per descrivere la normalità
bisogna trascurare quel che normale non è. Si sono poi aggiunte brevi note
sul pellegrinaggio perché, oltre che frequente, di fatto è vissuto come una
morte anticipata e programmata. In verità il sec.XII è punto di svolta inizia-
le, deciso e soprattutto irreversibile: il clima più sereno comporta maggior
attaccamento alla vita ed a quel che di gradevole porta con sé, e così Ber-
nardo di Clairvaux è costretto a ricordare ciò che qualche decennio prima si
cercava di dimenticare. Nel sec.XIII e soprattutto nel XIV questa svolta si
intensifica e, per certi aspetti, ritorna una profonda incertezza. Ma ripren-
diamo il discorso là dove lo si è interrotto, alla fine del punto 11.2.1.

_____________________________
143
Tutto ciò si legge in GIOVANNI DUNS SCOTO, Ordinatio, II, dist.30-32, ad arg. q.4, ad
2 (ed. Vat. 8, 357, n.90).
144
Cf. B. KOROSAK, «De homine ante et post lapsum doctrina Ioannis Duns Scoti», in
AAVV, De doctrina Ioannis Duns Scoti. Acta Congressus Scotistici Internationalis
Oxonii et Edimburgi 11-17 sept. 1966 celebrati, V, Roma 1968, 550-556. Questa sin-
tesi, sebbene assai datata, ha il pregio della rapidità: affianca le opinioni di Scoto una
all’altra, e così il lettore ha (finalmente) un’idea chiara degli scostamenti dalla com-
munis opinio, di solito invece immersi in un mare di distinzioni, notule e glosse che
finiscono con il rendere ancor più contorto un pensiero già non lineare di suo.

366
Quando si legge, e noi stessi l’abbiamo detto, che nel sec.XII il clima si
rasserena, non si deve pensare che tutto ciò che è male scompaia d’un tratto
e dal nulla sboccino pace e prosperità. Guerre, carestie, epidemie continua-
no come prima, solo che ora il bicchiere non sembra solo mezzo vuoto ma
anche mezzo pieno. Il sec.XIII non è da meno: la battaglia di Bouvines, che
decide la sopravvivenza del regno di Francia, si combatte nel 1214. Di do-
menica. Nel giorno dedicato al Signore, nel giorno di tregua per eccellenza,
si combatte una delle battaglie più importanti del Medioevo. Chiaramente è
cambiato qualcosa nel rapporto tra potere e religione, qualcosa che lavora
da tempo e non solo ai vertici della società, se a rivelarcelo è una battaglia
145
che non solo i cavalieri ma anche i fanti combattono di domenica .
È vero che pochi anni dopo, nel 1222, cominciando a sentirsi male, re Fi-
lippo si spoglia delle sue ricchezze, donandole ai poveri di Parigi o ai cava-
lieri di Terrasanta, e che comunque lui e la sua corte non vivevano certo nel
146
lusso . È vero che nascono movimenti penitenziali molto diffusi, come ad
esempio quello dei flagellanti, apparso nel 1260 in Italia: nobili, cavalieri e
popolani si spogliano delle loro vesti e si frustano, sfilando in processione
preceduti da vescovi e religiosi, «ed al loro passaggio si faceva da ogni par-
147
te la pace e si restituiva alla gente il maltolto» . Ma dietro queste manife-
stazioni in realtà vi è la crescente insoddisfazione per la condotta morale di
gran parte del clero, la inadeguatezza dei modelli spirituali che propone, la
feroce lotta tra papato ed impero. La (in)credibilità della Chiesa diventa per
molti la (in)credibilità della fede. La reazione va in quattro direzioni. Una,
_____________________________
145
Cf. p.es. G. DUBY, La domenica di Bouvines. 27 luglio 1214, Torino 1977. In quel
giorno va ufficialmente in frantumi tutto un modo di concepire i rapporti tra Dio, che
vuole il bene, ed il libero arbitrio umano, che porta al male. Soprattutto va in pezzi lo
strumento con il quale si cercava tale equilibrio, la ‘tregua di Dio’, che consisteva nel
sospendere ogni attività bellica in occasione di solennità o di accordi stipulati con la
mediazione della Chiesa; cf. p.es.; G. SICARD, «Paix et guerre dans le droit canon du
XII siècle», in AAVV, Paix de Dieu et guerre sainte en Languedoc au XIII siècle,
Tolouse 1969, 72-89, 75: «La Trêve de Dieu oblige les belligérantes à s’abstenir de
combattre durant les jours de la semaine ou de l’année liturgique qui divent être spé-
cialement dédiés au Seigneur: du mercredi soir au lundi matin de chaque semaine, du
début de l’Avent à la fin de l’octave de l’Epiphanie, du dèbut du câreme à la fin de
l’octave de Pentecôte; en outre, pour le fêtes du Christ, de la Vierge, des Apôtres et
les vigiles qui les précèdent». Cf. anche E. DELARUELLE, «Pax de Dieu et croisade
dans la chrétienté du XII siècle», in Pax de Dieu, op. cit., 51-71; G. DUBY, «Les laïcs
et la paix de Dieu», in AAVV, Laici nella societas christiana dei secoli XI e XII. Atti
del convegno della Mendola, Milano 1968, 448-461;
146
Cf. p.es. G. DUBY, Il Medioevo. Da Ugo Capeto a Giovanna d’Arco (987-1460), Ba-
ri 1993, 303-335, spec.331s.
147
Cf. SALIMBENE DE ADAM, La cronaca, ed. G. Tonna, Milano 1964, 303.

367
minoritaria, è quella violenta di gruppi come quello di Dolcino, assimilabili
148
a quelli terroristi odierni ; isolata e repressa, non ha per noi alcun rilievo.
Un’altra, pacifica, è quella dei movimenti penitenziali; ripropone, aggiorna-
to, lo spirito del sec.XII, e lo stesso Filippo Augusto, non solo in fin di vita,
149
è su questa linea . La terza, più intimista, è quella dei beghini, quasi sem-
pre persone buone che cercano di vivere la povertà francescana senza entra-
re nell’Ordine e che si rifanno (bene o male) alle idee degli Spirituali come
150
Pietro di Giovanni Olivi . A questa si può affiancare l’azione di una Cate-
rina da Siena (1347-80), che assilla i papi avignonesi perché tornino a Ro-
ma, o di una Brigida di Svezia (1303-73), mistica che mostra come si possa
vivere cristianamente il ruolo di guida di un intero popolo. L’ultima reazio-
ne, forse non la più diffusa ma di certo la meno studiata, è l’abbandono de
facto della fede: la (in)credibilità della Chiesa diventa davvero, per molti, la
(in)credibilità della fede.
Questo aspetto è poco studiato perché si crede analogo a quello odierno,
ma in realtà è molto più aspro, incattivito, perché frutto di una delusione. Il
ricco, il nobile, l’usuraio ma anche molti fra il popolo minuto non temono
più il castigo divino perché la Chiesa, che lo promette, non è più affidabile:
perché rifiutarsi i piaceri terreni? Il Decameron di Boccaccio è lo specchio
fedele di questo cambiamento, che ha ricadute fortissime su come si vive la
morte e specialmente il momento finale. Ottimo esempio di questo è il ruo-
lo del testamento, che fino al sec.XII è solo un modo per morire in pace con
tutti ma, a partire dal sec.XIII, diventa garanzia di un aldilà sereno. Il ricco,
il nobile, in vita fanno quel che più gli aggrada, senza rispetto per nessuno
e nella più crassa ricerca di denaro, potere, piacere e soprattutto gloria; ma
si premurano sempre di scrivere un testamento con abbondanti lasciti alla
Chiesa, perché siano celebrate messe su messe in suffragio, perché si reci-
tino migliaia di giaculatorie per loro... Ed una parte importante della gerar-
chia ecclesiale vede di buon occhio questo cambiamento: i funerali dei ric-
chi diventano sempre più cerimoniosi, le sepolture sempre più fastose, ma
per i poveri non cambia niente. È chiaro l’uso strumentale della dottrina del

_____________________________
148
Cf. p.es. R. ORIOLI, Venit perfidus heresiarcha. Il movimento apostolico-dolciniano
dal 1260 al 1307, Roma 1988.
149
Cf. p.es. A. BARTOLOMEI ROMAGNOLI, «I movimenti penitenziali alla fine del Me-
dioevo come problema storiografico», Chiesa e storia 6-7 (2016-17), 23-56. Giova
ricordare che, dopo la breve parentesi di Luigi VIII (1223-26), diventa re di Francia
Luigi IX (1226-70), il ‘re santo’ canonizzato nel 1297 da Bonifacio VIII.
150
Oltre al saggio di BURR, «Did the beguins», op. cit., cf. p.es. D. DUFRASNE, Donne
moderne del Medioevo. Il movimento delle beghine, Milano 2009; S. PANCIERA, Le
Beghine. Una storia di donne per la libertà, Verona 2011.

368
Purificatorio; è chiaro che ormai si ha paura di morire perché si ha paura di
151
lasciare quel che si ama: denaro, potere, gloria, piaceri .
Il contesto socio-politico di certo non rasserena. Dal 1337 al 1453 inglesi
e francesi combattono la Guerra dei cent’anni, di rara ferocia; nel 1307-77
il papa è ad Avignone, prova della sua sudditanza ai re francesi; nel 1315-
20 le campagne di Francia e Spagna sono infestate dalle orde dei ‘pastorel-
li’, crociati a parole, briganti nei fatti; i contadini si rivoltano nelle Fiandre,
in Francia (la jacquerie del 1356-58), Inghilterra (1381), Italia (i Ciompi a
Firenze nel 1378, ma poi anche a Perugia e Siena).
La complessità di questo quadro viene aggravata enormemente dalla pe-
ste del 1300. Boccaccio, nel suo Decameron, ci rivela le strategie psicolo-
giche con le quali si cerca di esorcizzare la paura di una morte incombente:
grandi abbuffate, sbronze, sesso, storielle piccanti. Niente di nuovo. D’altra
parte non si parla di una delle ‘solite’ epidemie di vaiolo, lebbra, colera, ti-
fo o malaria, ormai endemiche in una Europa falcidiata in modo sistemati-
152
co . Ci riferiamo ad un flagello che, tra il 1347 ed il 1352, stermina venti,
venticinque milioni di persone: un terzo della popolazione, a Firenze persi-
no i quattro quinti. Tra i religiosi le cose vanno anche peggio: a Montpellier
muoiono 133 francescani su 140, a Maguelon 153 su 160, a Carcassonne e
Marsiglia tutti e 150. Ad Avignone muoiono tutti gli agostiniani ed un terzo
153
dei cardinali . Per capire quale peso abbiano ormai le parole di Tommaso
o Scoto ci si immagini di essere uno dei frati scampati e, davanti ai cadave-
ri di tutti i nostri confratelli e le narici piene del lezzo loro e delle centinaia
e centinaia di altri che ammorbano l’aria, si provi a dire a noi stessi che la
morte è naturale oppure che è debita: qualcuno si meraviglia se invece si
urlerà a Dio ‘perché stermini i tuoi figli per colpe di altri?’, ‘perché fai mo-
rire tante brave persone di una morte così maledetta da impedirgli di con-
fessarsi, persino di pentirsi?’ ‘perché li ha creati con una natura così feroce
154
e tanto fragile?’ Non è un mero esercizio di fantasia: si ricordi quale fu la
_____________________________
151
Cf. ARIÈS, Essays, op. cit., 84-97; IDEM, L’homme, I, op. cit., 141-200.
152
Si stima che, sommando anche varicella, morbillo, tubercolosi, parotite e meningite,
nel 1326-1400 in Germania vi siano state 32 epidemie (una ogni due anni), 30 in In-
ghilterra tra il 1351 ed il 1485 (una ogni quattro anni) e 37 in Italia tra il 1361 ed il
1501 (una ogni tre anni e mezzo).
153
Cf. il monumentale studio di J.N. BIRABEN, Les hommes et la peste en France et
dans les pays européens, 2 voll., Paris-Leiden 1975. Più recenti sono K. BERGDOLT,
La peste nera in Europa, Casale Monferrato 1997; S. CUNHA UJVARI, Storia delle
epidemie, Bologna 2011 (spec. c.3).
154
J. HATCHER, The black death: a personal history, Philadelphia 2008, è un interessan-
te esperimento in questa direzione: l’autore, storico affermato, infonde un solido qua-
dro storico in una fiction, drammatizzandolo e personalizzandolo.

369
reazione di molti davanti ai campi di sterminio e si constaterà che fu simile.
In questi casi la fede sembra (in)credibile per colpa di Dio stesso...
Ma non tutti reagiscono con lo scetticismo o l’abbandono. Ad esempio,
si accentua il culto di certi santi: contro la peste si invoca sant’Antonio aba-
te (il perché ci sfugge), san Sebastiano, le cui frecce feriscono al modo dei
bubboni e la cui guarigione prefigua quella di chi si rivolge a lui, soprattut-
to san Rocco, nato in Francia agli inizi della pestilenza, ammalatosi mentre
curava altri appestati, guarito miracolosamente e tornato ad aiutare nei laz-
zeretti. Si moltiplicano anche i pellegrinaggi penitenziali, con san Cristofo-
ro come protettore. Senza dubbio la paura unita alla constatazione che non
si dispone di rimedi efficaci gioca un ruolo non indifferente in questo feno-
meno, né si dimentica che il solo rapporto spiritualmente giusto e costrutti-
vo con Dio è quello d’amore, non quello del timore. Tuttavia non è bene far
di tutta l’erba un fascio: senza negare l’apporto di paura e superstizione, in
gran parte questa rinascita è la continuazione degli analoghi sentimenti an-
teriori, quelli che, ad esempio, fanno nascere i flagellanti.
A questo punto il quadro alla fine del sec.XIV è chiaro.
A differenza del periodo precedente, a partire dal sec.XIII si comincia ad
aver paura della morte. Molta. Nessuno si sente più sicuro della salvezza.
Le ragioni di questo mutamento sono molte, ma quelle esteriori (guerre,
epidemie) sono meno influenti di quelle interiori. La perdita di autorevolez-
za della Chiesa trascina con sé ciò che insegna, il che devasta la percezione
di sé di tutti ma colpisce soprattutto le persone povere e semplici. Queste
infatti non hanno nient’altro cui aggrapparsi, mentre gli altri possono rivol-
gersi verso la cultura profana o la ricchezza, la cui attrattiva non è controbi-
lanciata da un insegnamento spirituale datato e uno scolastico avulso dalla
realtà. La dottrina del Purificatorio si presta bene alle distorsioni, sia quelle
di chierici arrivisti e profittatori sia quelle di nobili e ricchi che credono di
cavarsela con lasciti post mortem tanto generosi quanto indolori.
Di fronte a questo quadro sconsolante, alcuni cercano rifugio nelle prati-
che penitenziali più esasperate, se non nella convinzione certo nella speran-
za che Dio li perdonerà e salverà. Ma la peste si porta via le sicurezze degli
uni e degli altri, anche perché poi è seguita da un’epidemia di vaiolo tra il
1360-63 e da molte altre ancora.
Le opere di scuola hanno un bel dire ed insegnare: ormai la percezione di
quel che accade non passa più attraverso di loro. Oltre all’esperienza, ci si
serve di quegli scritti che possono lenire il dolore, spiegare che non è volu-
to da Dio, né dovuto alla sua vendetta. Alla fine del sec.XIV si consuma la
spaccatura tra la morte vissuta ed intesa in senso spirituale e la morte come
oggetto filosofico-teologico; rivolgersi alle opere di scuola per sapere come
si vive la morte ormai è come chiedere ad un pesce cosa si prova a volare.

370
Da questa rottura nascerà tra breve anche quella tra la morte dei credenti e
la morte di atei e/o agnostici, che per molto tempo dopo il sec.XIV dovran-
no fingere una fede che non hanno. Ma questo è un altro discorso.

11.3. L’evoluzione della teologia della morte I:


una valutazione dogmatico-spirituale

Il percorso appena concluso è, come si è detto all’inizio, la prima parte di


uno in tre tappe: le altre due saranno più rapide e semplici perché, a diffe-
renza di questa, non avranno il compito di fungere da contraltare alle molte
semplificazioni sulla percezione medievale della morte. Infatti questa è una
delle molte tessere che compongono un mosaico complesso: senza consul-
tare anche il versante sociologico, quello storico, il mistico e altri ancora, il
quadro sarà sempre sbilanciato, tanto più quanto più ristretto sarà il bacino
di ricerca. Ciò detto, e per non ripeterci, riassumiamo quanto emerso.
* * *
Per prima cosa ci pare di poter dire che da sempre, anche se qui si è ini-
ziato dal sec.VIII, il factum della morte sia vissuto su due binari. Il primo è
quello dell’esperienza concreta, il secondo è quello della riflessione colta e,
nella fase finale, di scuola. Entrambi questi binari si declinano dal versante
collettivo ma anche da quello personale: contesto storico, strumenti cultura-
li, categorie mentali, aspettative variano nei secoli ma, dentro il singolo pe-
riodo, variano da persona a persona. Il primo limite che ci sembra di coglie-
re nella attuale riflessione sulla morte è che non suppone nel passato la me-
desima varietà che constata esistere nel presente. Per ovviare a questo stra-
bismo si è dovuto spendere un numero di pagine maggiore di quanto sareb-
be stato conveniente nell’economia generale del saggio. Chiediamo venia.
Il secondo elemento che si pare emerga con chiarezza dalla ricognizione
è che questi binari non sono mai paralleli: iniziano il loro percorso uniti in
modo assai stretto, finiscono praticamente divergenti. Ma quel che colpisce
ancor più è che la ragione per la quale si uniscono è la stessa per la quale si
dividono: un giudizio negativo sulle vicende storiche. Fino al sec.XII, se ci
si passa una periodizzazione che ormai sappiamo rozza ed insufficiente, si
può dire che tale negatività nasce da elementi oggettivi: guerre, deliquenza,
carestie, epidemie non fanno certo venir voglia di vivere cent’anni, né a chi
subisce tutto questo né a chi, per un verso o per l’altro, può sfuggirgli. Do-
po il sec.XII quegli elementi oggettivi rimangono, ma ad essi si aggiunge la
forte perdita di autorevolezza della Chiesa gerarchica, che si riverbera sulla
credibilità della fede: la negatività aumenta decisamente, e la pestilenza del

371
1300 taglia le radici di molte fedi. Non tutte, è vero, ma quel che vedremo
nei secc.XV-XVIII è impensabile senza la frattura del sec.XIV.
Sempre restando dal lato dell’evidenza storica, questa identica negatività
spiega sia l’evoluzione del modo per così dire quotidiano di vivere la morte
sia l’evoluzione del modo di interpretarla e spiegarla, filosoficamente e teo-
logicamente. Fino al sec.XII, infatti, un aldiqua senza attrattive ed incerto,
anzi molto minaccioso, favorisce una percezione del morire se non proprio
serena certo non molto drammatica. Monaci ed intellettuali sentono la mor-
te come liberazione allo stesso modo di poveri ed incolti; qualche resisten-
za in più la fanno nobili e ricchi, com’è ovvio, ma anch’essi percepiscono
con forza la transitorietà della loro situazione. Nei secc.XIII e XIV il punto
cruciale non è più l’aldiqua ma l’aldilà: l’uso distorto della dottrina del Pu-
rificatorio e la scarsa credibilità della Chiesa gerarchica instillano il germe
di un aldilà ‘a tariffa’, l’insegnamento di scuola instilla quello di una morte
‘naturale’, non più legata al peccato. Così, mentre ricchi e nobili ormai non
temono più di tanto la morte, naturale fine di un tempo che sfocia in una e-
ternità gestibile, deboli e poveri si trovano soli ed abbandonati qui e dopo:
la morte ora fa paura, perché chiude un tempo tragico e ne apre uno incerto
per l’eternità. La peste del 1300 è il colpo di grazia: ricchi e nobili si acca-
parrano i beni abbandonati dai morti, rendendosi così ancor più facile gesti-
re l’aldilà, deboli e poveri perdono anche il sostegno delle famiglie e delle
comunità, decimate dall’epidemia. L’esodo dalle campagne alle città crea
masse di diseredati senza radici sociali, culturali ma ormai anche religiose.
L’ultimo elemento da rilevare riguarda l’evoluzione della riflessione teo-
logica. Fino al sec.XII escluso è chiaro che questa segue non solo i modelli
monastici ma prima ancora quelli patristici. In questa prospettiva, come per
ogni altro sviluppo del resto, di quel che si dice sulla morte è centrale la sua
utilità per la crescita della fede, anche se ciò comporta da un lato una gra-
dazione a seconda dell’uditorio, da un altro una certa disomogeneità negli
sviluppi. Nel sec.XII, per l’apporto di opere non cristiane e per il nascere di
altre esigenze, la prospettiva di fondo diventa più sistematica: ma il discor-
so sulla morte non se ne giova, anzi perde di peso, le trattazioni si riducono
alla protologia e, ci si permetta, diventano anche più banali. Il sec.XIII ere-
dita questo depotenziamento ma deve in più fare i conti con la rinascita di
un pensiero filosofico che ambisce all’indipendenza dalla teologia. Per quel
che riguarda l’indagine sulla morte, ciò porta da un lato a considerarla un
evento insito nella natura umana e da un altro a cercare un sempre più dif-
ficile compromesso con la dogmatica. Se poi si tiene presente qual è la pra-
tica quotidiana di fronte alla morte, non è difficile concludere che alla fine
del sec.XIII, a fortiori nel XIV, l’insegnamento di scuola è del tutto avulso

372
dal mondo reale, autoreferenziale e in contrasto forte con quel che gli stessi
frati magistri celebrano nella Liturgia, nei conventi ma non solo.
* * *
Dare una valutazione di questo quadro storico è molto delicato.
In primis, è bene rinunciare all’idea, astratta ma soprattutto falsa, che lo
si possa fare in modo ‘scientifico’, ossia privo degli influssi derivanti dalle
proprie personali opzioni. Spesso si dice che questo è un modo ‘oggettivo’
di vedere le cose, a noi ‘spersonalizzato’ pare più corretto, ma non è questo
il luogo adatto ad intraprendere questioni di epistemologia.
Il dato storico dice, senza ombra di dubbio, che situazioni identiche, co-
me guerre, carestie, epidemie, sono di fatto vissute in modo diverso perché
le persone sentono in modo diverso, le valutano in modo diverso, si atten-
dono da esse cose diverse. Il contadino che muore di vaiolo nel sec.X non è
felice ma aspetta il premio celeste e sa che Dio provvederà ai suoi cari. Nel
sec.XII il contadino muore ancora di vaiolo ma è più infelice, perché lascia
una mucca e l’orticello; aspetta la ricompensa celeste, sa che Dio provvede-
rà ai suoi, ma teme che siano derubati dal signorotto locale o dall’usuraio
del villaggio. Il contadino che muore di vaiolo nel sec.XIII non è affatto fe-
lice perché non sa più se andrà davvero in cielo, dato che non può pagare le
indulgenze; Dio provvederà ai suoi, è vero, ma signorotti ed usurai si sono
fatti arditi e pericolosi. Nel sec.XIV il contadino muore di peste, non solo
di vaiolo, e prima di lui moglie, figli, parenti, amici, l’intero villaggio: è fe-
lice, ma perché non vuol più vivere, e dei suoi beni non gli importa proprio
nulla; quanto alla ricompensa celeste (se c’è), arriverà insieme ad un dolore
così grande che non sarà poi così bella. Chi ha torto? Chi ha ragione?
Identica variabilità esiste nella valutazione, in quella di allora e in quella
a posteriori. Al contadino che muore di vaiolo nel sec.X si dice di non du-
bitare della salvezza perché, come Lazzaro, qui ha ricevuto i tormenti e, co-
me Lazzaro, dopo avrà la ricompensa; quanto ai suoi cari, Dio provvede ai
passeri del cielo: forse non si curerà di coloro che Lui ha privato del padre
e del marito? Ad Angelom di Luxeuil o Ruperto di Deutz queste sembre-
ranno parole di buon senso prima ancora che vere, ma gli odierni studiosi
non saranno d’accordo. Per i non credenti è un esempio di ‘oppio del popo-
lo’, gli agnostici vi vedranno l’esito di un percorso socio-culturale secolare,
i credenti un’attualizzazione un po’ ingenua delle parabole lucane. I timori
del contadino del sec.XII, ancor più quelli del contadino del sec.XIII, forse
parranno ragionevoli a non credenti ed agnostici, però lo studioso credente
potrebbe scorgervi l’ombra di una incredulità crescente. Ma potrà dirlo an-
che del contadino del sec.XIV senza provare compassione per lui?
Quindi, per onestà intellettuale, per prima cosa è necessario prendere atto
che le valutazioni dei dati oggettivi sono sempre soggettive, una soggettivi-

373
tà che, nel caso della morte, è funzione della propria opzione di fede. Come
ben scrive Giovanni Crisostomo parlando di Lazzaro,
«Ci distinguiamo dai pagani proprio nei criteri di giudizio che abbiamo sulla
realtà. (...) Io vedo la realtà in un modo, il pagano in un altro.
Allo stesso modo ci comportiamo riguardo alla morte: quello vede un morto
e ritiene che sia morto; lo vedo io e vedo il sonno invece della morte. (...)
Vediamo con gli stessi occhi gli avvenimenti, ma non con la stessa mente e
155
discernimento» .
Questo punto è cruciale. Essere credenti non è uguale a non esserlo. Una
volta ricostruito e presentato il dato storico nella sua interezza, è ovvio che
il non credente o l’agnostico lo interpreteranno con le loro chiavi di lettura
ed il credente con le sue: alcune saranno le stesse, altre più o meno diver-
genti, altre ancora opposte. Ognuno ha il diritto di leggere il dato come me-
glio crede, alla sola condizione di tenerne conto nella sua interezza.
Per il non credente la morte è la fine di tutto: chi dice il contrario sbaglia
o è in malafede. L’idea scolastica di una morte ‘naturale’ glielo conferma, e
non farà fatica a separarla da quella di peccato originale perché l’hanno già
fatto gli scolastici. L’evoluzione emersa dalla ricognizione è solo la prova
di una progressiva presa di coscienza. Il resto è commento su dettagli.
Per l’agnostico il quadro emerso è semplicemente il dato di fatto, de iure
incapace di dire quale sia la verità perché de facto si ferma al momento del-
la morte. Se qualcuno vuol pensare che esista un post mortem, magari nella
forma insegnata dalla Chiesa cattolica, sia pure. Ma è supposizione di co-
genza identica a quella di nega tale post mortem, o lo crede diverso da quel
ache insegna la Chiesa cattolica. Il resto è ancora commento su dettagli.
Per il credente che non intenda annacquare la propria identità, il quadro
emerso tratteggia un’evidente diminuzione dell’adesione di fede. Le ragioni
storiche si sono già viste, ma ve ne sono altre, più profonde. Il punto è assai
delicato e soprattutto controverso, ragion per cui ci soffermiamo un po’.
Oggi i credenti sono una minoranza. Questo significa che il credente stu-
dioso è di fronte ad un dilemma: sa che ciò implica leggere e dire certe cose
in un certo modo (nel bene e nel male), ma sa che, se lo fa, il suo lavoro sa-
rà emarginato e resterà ininfluente. Così, sfuma certi dettagli, glissa su altri,
insiste sul terreno comune. Dall’altra parte, constatato che non si vuol fare
polemica, non credenti ed agnostici adottano un analogo stile diplomatico,
con il risultato che oggi è difficile distinguere lo studioso credente dal non
credente o dall’agnostico. Questa indistinguibilità è positiva quasi per tutti;
chi non è d’accordo di solito lo è per fedeltà allo stile appreso in gioventù,
_____________________________
155
GIOVANNI CRISOSTOMO, De Lazaro homiliae, hom.5,2 (PG 48, 1020; CTP 205, 129).

374
senza il quale teme perde la propria identità. Nel nostro caso, questa sinto-
nia si traduce in una lettura dell’evoluzione storica che vede come concause
paritarie sia il contesto storico-sociale che una minor adesione di fede.
Lungi da noi il criticare scelte di questo genere. Sappiamo per esperienza
personale quanti dubbi, quanta fatica costi lavorare nella certezza quasi as-
soluta che il risultato non sarà letto da nessuno. Come criticare chi si ribella
al senso di frustrazione e di inutilità che ciò provoca? Se qualche aggiusta-
mento, qualche variazione d’accento serve ad essere ascoltati e forse anche
a far passare qualche idea, rifiutarsi sembra proprio sciocca presunzione. A
maggior ragione se, come nel nostro caso, tutto lo scarto si riduce davvero
e solo ad una questione d’accenti.
Tuttavia, siccome ci preme anche tentare di offrire una chiave di lettura
spirituale del dato storico e filosofico-teologico, la lettura ‘sinfonica’ non è
sufficente. È vera ma anche parziale, perché non scende in profondità.
A nostro avviso (qui esponiamo solo le nostre personali valutazioni), per
spiegare tale diminuzione bisogna prima capire cosa significhi ‘Chiesa’ e
quale sia il suo ruolo nel mondo e nella storia. L’inequivocabile invio degli
apostoli a predicare il vangelo, che nostro Signore fa ancor prima di essere
crocefisso, è stato per secoli e secoli inteso come invio per la conversione;
non è scritto forse (Mt 28,19s):
«Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del
Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto
ciò che vi ho comandato»?
Questo sforzo missionario ha lo scopo di impiantare la Chiesa ovunque:
ma siamo sicuri che nostro Signore volesse questo? Siamo sicuri che il ruo-
lo della Chiesa sia quello di convertire tutti al cristianesimo? È così che si
prepara il ritorno del Messia? Senza dubbio moltissimi cristiani, oggi come
ieri, diranno ‘sì’, e un mondo totalmente cristiano è certo il sogno di molti
sinceri credenti. In questa prospettiva l’evoluzione dei secc.VIII-XIV nella
percezione della morte non può essere interpretata se non come il lento de-
clino della fede. Però a noi quest’idea pare in contrasto con quel che si leg-
ge altrove (Mt 13,33):
«Il regno dei cieli si può paragonare al lievito, che una donna ha preso e im-
pastato con tre misure di farina perché tutta si fermenti»,
ed anche (Mt 5,13a):
«Voi siete il sale della terra».
Se la minestra fosse tutto sale, la mangerebbero solo le capre; e se il pane
fosse tutto lievito, forse nemmeno loro. In realtà sale e lievito fanno il loro
lavoro al meglio solo se sono in misura ridotta, proporzionata al resto della

375
pasta e, soprattutto, se mantengono la loro qualità, come si legge nei conte-
sti dei due versetti riportati. Ora, la storia ci insegna che tale qualità decade
nella misura in cui la Chiesa si espande. Nel caso delle conversioni forzate
o interessate questo è ovvio, ma contro questi limiti sappiamo che agisce lo
Spirito, che difende la sua Chiesa dagli attacchi del nemico. Il punto è che i
cammini spirituali delle persone non sono tutti uguali, quindi non possono
portare tutti allo stesso livello: questo sarà sempre il massimo raggiungibile
da ognuno, ma un bicchiere pieno contiene meno acqua di una botte piena,
anche se tutti e due non possono contenerne di più. In questo senso, non in
uno moralistico e tantomeno in uno spiritualista alla Pietro Olivi, diciamo
che la qualità della Chiesa decade nella misura in cui si espande.
Se accettiamo questa prospettiva (ma molti non lo faranno, e con ottime
ragioni supportate anche da esegeti molto più blasonati di noi), se accettia-
mo questa prospettiva, si diceva, allora diventa quasi scontato che la Chiesa
ubiquitaria del Medioevo dovesse finire. Diventa quasi ovvio che al passare
del tempo si registri un declino di fede, ma non perché il contadino, il ricco
e l’usuraio diventino colpevolmente miscredenti (questo può senz’altro es-
ser vero a livello personale: però solo Dio conosce i cuori dei singoli), ben-
sì perché la Chiesa assume allora dimensioni e ruoli che non gli competo-
no. Un eccesso di sale ha reso immangiabile l’impasto, e nei secc.XIII-XIV
si comincia a storcere la bocca. Fuor di metafora, un’eccessiva vicinanza a
denaro e potere indebolisce la credibilità della Chiesa e così molti si allon-
tanano, prima lentamente e di nascosto, poi velocemente ed apertamente.
Ma lo Spirito vigila, ed ecco sorgere santi come Francesco, Domenico e
tanti, tanti altri ancora, che però si distinguono tutti per un netto scostamen-
to da denaro e potere; la qualità della Chiesa è ripristinata nonostante per-
mangano i suoi limiti. Il culmine di questa dinamica, se ci si concede un
salto in avanti di secoli, è la fine dello Stato della Chiesa nel 1870: denaro,
potere e vanagloria continuano ad esercitare il loro fascino perverso, ma il
tempo dei papi-re ormai è finito, ed i santi più amati oggi sono Teresa di
Calcutta, l’angelo dei poveri, ed Oscar Romero, il paladino della giustizia.
Con papa Francesco, poi, il sogno di una Chiesa povera entra a pieno titolo
nel Magistero della Chiesa.
Sed de hoc satis.
Avremo modo di riprendere queste note nel prossimo capitolo.

376
Capitolo 12

L’EVOLUZIONE
DELLA
TEOLOGIA DELLA MORTE II

Questa seconda parte della ricognizione storico-teologica è ovviamente


la prosecuzione della precedente, ma ciò che incontreremo sarà molto, mol-
to diverso. Non solo perché, com’è logico, i movimenti interiori ed esteriori
con le quali quella si chiudeva maturano e fruttano in questa, ma soprattutto
perché avvengono due rivolgimenti epocali.
Il primo, inizialmente di natura solo dogmatica ed intraecclesiale, acqui-
sta quasi subito anche una dimensione socio-politica e giunge infine a radi-
carsi così a fondo nella forma mentale di milioni di persone da essere ancor
oggi ben marcata. Ci riferiamo, lo si sarà capito, alla Riforma luterana. Che
però non si può ridurre tutta all’azione del solo Lutero, sia prima che dopo
il suo scoppio per così dire ‘ufficiale’ (1517).
Anche il secondo rivolgimento epocale, la Riforma cattolica, consiste di
un ampio numero di eventi, sebbene sia vero che il Concilio di Trento è un
punto di svolta. In realtà, come è impensabile Lutero senza il sarcasmo an-
tipapale di Erasmo da Rotterdam, così è impensabile un Concilio di Trento
a prescindere dalle forti spinte riformatrici anteriori. Ed entrambi poi sono i
punti di riferimento per sviluppi successivi talvolta anche molto originali.
Trattandosi di avvenimenti molto ben studiati, la loro contestualizzazio-
ne generale avverrà attraverso gli studi di specialisti ed il ricorso ai testi sa-
rà limitato all’esposizione delle diverse concezioni, laddove esse si scostino
da quella che, nel flusso delle idee, è al momento la communis opinio.

12.1. Le teologie della morte


nei secoli XV-XVIII: il contesto

La panoramica storica del capitolo precedente si è chiusa con il desolante


quadro dell’epidemia di peste del 1348, contornata da altre meno virulente,
e da un susseguirsi di rivolte, guerre, disordini di ogni tipo che infieriscono

377
su popoli martoriati fisicamente e moralmente. Nei secoli successivi le cose
purtroppo non cambiano granchè. In Italia, ad esempio, ogni due anni riap-
pare la peste, che diventa epidemia prima nel 1528, poi nel 1630 (è la peste
dei Promessi sposi), nel 1656 ed infine nel 1749, quando l’ultima epidemia
colpisce Messina e Reggio. Né sono flagelli ‘in tono minore’: diffusione ed
effetti di quella del 1630 sono descritti dal Manzoni, quella del 1656 porta
via 70.000 genovesi su 100.000, ed il 90% della plebe. Oltre alle malattie vi
sono poi le guerre: nel 1453 finisce quella franco-inglese dei Cent’anni, nel
1494-1559 vi è quella franco-spagnola per la supremazia in Europa, poca
cosa entrambe rispetto alla Guerra dei Trent’anni (1618-48), che costa alla
1
Germania 12 milioni di morti , e moltissime altre ‘minori’, specie nel ‘700.
La tratta degli schiavi, che inizia nel sec.XVI e termina nel XIX, riguarda
12 milioni di persone. Completano il quadro le rivolte contadine (1524-26
in Germania, 1624-43 in Francia) e le rivoluzioni: la nordamericana (1776),
la francese (1789) e l’haitiana (1791), nella quale gli schiavi si liberano per
la prima volta dei loro padroni. L’ordine socio-politico del Medioevo crolla
con la caduta di Costantinopoli (1453), la decadenza dell’Impero e la dege-
nerazione della pietà in superstizione. L’ordine moderno inizia con l’Uma-
nesimo (cristiano e non), le Riforme (cattolica, luterana) e gli Stati assoluti,
matura con le scoperte geografiche (Americhe, Estremo Oriente), scientifi-
che (Newton, Galilei, Boyle) e tecnologiche (Rivoluzione industriale), per
giungere ad una certa sintesi con l’Illuminismo (metà sec.XVIII).
In questo contesto l’autorevolezza della Chiesa subisce duri colpi: simo-
nia e nepotismo portano al soglio papale Alessandro VI (1492) e Giulio II
(1503), lo scisma luterano separa da Roma l’Europa settentrionale, il ter-
remoto di Lisbona del 1755 incrina la fiducia in un Dio buono. Ma vi sono
anche forti momenti positivi: il Concilio di Trento avvia la riforma cattoli-
ca, nascono Ordini religiosi come la Compagnia di Gesù, che mette al cen-
tro la missione, esteriore ed interiore, molti santi ravvivano un sincero amo-
re per Dio (devotio moderna) e ridimensionano il clericalismo.
Naturalmente vi sono anche altri avvenimenti importanti: questa carrella-
ta vuole solo rendere evidente quanto diverso sia il contesto di questo capi-
tolo rispetto a quello precedente. Ciò detto, iniziamo la ricognizione.
_____________________________
1
Cf. p.es. N. MERKER, La Germania. Storia di una cultura da Lutero a Weimar, Roma
2016, 92s, che afferma sia stato il peggior disastro vissuto sulla Germania. In effetti,
tra civili e militari, la Germania ha 2,5 milioni di vittime nella Prima guerra mondiale
e 7,5 nella Seconda, assai meno dei 12 di cui parla Merker. Ma, anche se qualcuno li
contesta (p.es. G. PARKER, La Guerra dei Trent’anni, Milano 1994, 336, parla di 3-4
milioni), i numeri non bastano a descrivere la realtà: prima della guerra, la popola-
zione tedesca dell’Impero è stimata a 20 milioni, perciò questa, con il seguito di ca-
restie ed epidemie, ne avrebbe ucciso il 60%, contro il 30% della Grande peste.

378
12.2. La percezione della morte
prima di Martin Luther

Tra la fine del sec.XIV e l’inizio pubblico dell’azione di Lutero (1517) vi


è appena più di un secolo. In così poco tempo, e dopo il quadro storico ap-
pena visto, è facile supporre che non ci siano grandi variazioni rispetto a
quanto riscontrato alla fine del capitolo precedente. A grandi linee in effetti
2
è così, ma più di un dettaglio cambia, e spesso i dettagli sono illuminanti .
Il primo elemento interessante è il rapporto con il corpo del morto. Fino
alla metà del sec.XIV questo, soprattutto il suo viso, restano visibili sino al
momento dell’inumazione: può essere poggiato su una bara di legno coper-
ta da stoffe preziose o su una tavola con una pezza di lino, ma il corpo ed il
viso sono sempre bene in vista. Chiaramente ciò non è più possibile durante
la Grande peste: nobili e ricchi talvolta riescono a mantenere l’usanza, ma
il numero dei morti e la paura del contagio impongono inumazioni rapide e
comuni; i bubboni poi deformano i corpi, il dolore sfigura i volti, così li si
copre con quel che capita. Quanto alla bara, solo i ricchi possono permet-
tersene una propria, e comunque ne son rimaste poche: i poveri ed i morti
nei lazzeretti sono portati al cimitero in bare comuni, dalle quali vengono
scaricati nelle fosse. Quando l’emergenza termina, meglio si attenua, il rap-
porto con il corpo del defunto è ormai cambiato: lo si pone nella bara già in
3
casa, avvolto in un lenzuolo, ed il trasporto avviene a cassa chiusa .
Anche il corteo funebre non è proprio quello del sec.XIV. Esteriormente
pare lo stesso, ma oltre a parenti ed amici ora il feretro è accompagnato an-
che dai ‘piagnoni’, persone che di mestiere piangono defunti che non cono-
4
scono e la cui paga è disposta dal defunto per testamento . Un testamento
obbligatorio, senza il quale la Chiesa rifiuta esequie e sepoltura e che deve
includere un lascito per le messe d’intercessione affidate ad un chierico.
Ulteriore differenza dal sec.XIV riguarda la liturgia. Innanzitutto, questa
non consiste più nella sola celebrazione eucaristica al cimitero seguita dalla
benedizione della salma e l’inumazione, ma inizia in chiesa con il feretro in
casa, talvolta persino durante l’agonia del moribondo, prosegue per tutto il
giorno successivo e termina con la celebrazione eucaristica e la benedizio-
ne al cimitero il giorno dell’inumazione. Poi, cambia il tipo delle interces-
_____________________________
2
Per capire le radici antiche di questo cambiamento cf. W. VERBEKE et alii (edd.), The
use and abuse of eschatology in Middle Ages, Leuven 1988.
3
Cf. ARIÈS, L’homme, op. cit., I, 168-172.
4
Cf. ARIÈS, Essays, op. cit., 93s.

379
sioni: non sono più semplici orazioni ma vere e proprie celebrazioni eucari-
stiche. In serie di 30, 100, 1000 (mille!) funzioni o anche più, a piacimento,
da celebrarsi in uno o più giorni dalla sepoltura, in una o più chiese prescel-
te, da preti conosciuti o comunque indicati (solitamente quelli che non han-
5
no altri introiti per vivere) . Anche il senso di ‘intercessione’ cambia: ora si
‘intercede’ anche per moribondi che non sono neanche in agonia, con fun-
zioni estremamente rapide perché il prete deve ‘celebrarne’ decine al gior-
6
no e l’altare non è a sua disposizione . Il tutto a pagamento. Si paga la bara,
si paga il catafalco (il supporto della bara in casa ed in chiesa), si pagano
candele, ‘piagnoni’, il noleggio del carro funebre con relativo fiacchiere, gli
addobbi, prete, ministranti, le celebrazioni esequiali, quelle d’intercessione.
Tariffe a scelta. Se il defunto o la sua famiglia sono troppo poveri per per-
mettersi tutto questo, provvedono le Confraternite di Misericordia; e il caso
è così frequente che è in questo periodo che alle sei opere di misericordia
7
elencate in Matteo 25, 35, si aggiunge la settima: seppellire i morti .
_____________________________
5
Per rendersi conto di cosa questo comporti leggiamo ciò che scrive ARIÈS, L’homme,
op. cit., I, 174 (trad. nostra): «Solitamente si prevedevano 30, 100, 1000 messe. Tren-
ta messe, ‘il gregoriano’, in ricordo del suo lontano fondatore, il papa della morte,
Gregorio il Grande (...): “Appena il mio corpo sarà in terra siano dette 33 messe bas-
se (‘l’età di Cristo’ NdA)”; tre al giorno: 3 della Natività, 3 della Circoncisione, 3
della Passione, 3 dell’Ascensione, 3 della Pentecoste, 3 della Trinità ecc. “Il più ve-
locemente possibile”, precauzione che si rivolge sia al Giudice Sovrano che al clero
della parrocchia, sospettato di negligenza. Cento messe: “Il giorno del mio decesso o
l’indomani, in due chiese, vale a dire conquanta messe al giorno per chiesa. “Il gior-
no del decesso se possibile o l’indomani (‘a causa dell’ingorgo delle chiese’ NdA),
un gregoriano di 33 messe più 100 messe da Requiem, il più velocemente possibile”.
Lo stesso testatore poteva prevedere più serie di 100 messe ognuna, una ai Capucins,
l’altra ai Cordeliers (...). Mille era un numero usuale; “Che il giorno delle mie ese-
quie e l’indomani (‘si è nel 1394, ma si troverà il medesimo modo d’accumulazione
nel 1780’ NdA) si facciano dire e celebrare mille messe da cappellani poveri (‘preti
che vivono delle entrate delle cappelle, vale a dire di fondazioni pie ed in generale
funebri’ NdA), che le si cerchi nelle chiese di Parigi (‘500 messe al giorno!’ NdA; e
nella Parigi del 1394, aggiungiamo noi) e che ad ogni cappellano siano pagati per la
sua messa 2 soldi”». In questi resoconti l’autore unisce documenti del sec.XIV ad al-
tri del sec.XVI: il passare del tempo e gli attacchi di Lutero non mutano la prassi.
6
A questo riguardo ARIÈS, L’homme, op. cit., I, 173-178, fornisce tanti e tali dettagli
da rimanere francamente scandalizzati di questo vero e proprio mercato di messe.
7
Cf. ARIÈS, L’homme, op. cit., I, 173-197. Istruttiva quanto gustosa è, nei Colloquia di
Erasmo da Rotterdam, la lettura de I funerali (1526), Caronte (1529), Esequie serafi-
che (1531), molti particolari dei quali, alla luce degli studi di Ariès, non paiono più
licenze letterarie ma testimonianze affidabili. È poi opportuno notare le date: siamo
in piena controversia luterana, ed Erasmo è il campione cattolico. Ma, come vedre-
mo, difendere il papato non è lo stesso che difendere, p.es., Giulio II.

380
Questo enorme proliferare di funzioni porta a creare, nelle chiese, nuove
cappelle con tre o quattro altari, ai quali si avvicendano diversi preti in un
susseguirsi di riti ai quali spesso non partecipa nessun altro. Un’immagine
descriverà meglio di molte parole la distanza dal sec.XIV:
«Quel che doveva colpire il visitatore di una chiesa, allora, più che gli scavi
dei becchini nel pavimento, era la sequela ininterrotta di messe dette, al mat-
tino, a tutti gli altari, da preti per i quali era sovente l’unica entrata, e la pre-
senza ormai frequente, ai servizi del mattino ed agli uffici della sera, di cata-
8
falchi illuminati» .
Il parroco celebra la messa parrocchiale durante lo svolgimento di decine
di queste funzioni di intercessione, il cui canto si sovrappone al suo ed alle
parole dei vicari che nel frattempo confessano i fedeli, tra il fumo di decine
e decine di candele sugli altari e sui catafalchi che intasano la navata...
In questo quadro quanto mai desolante e spiritualmente avvilente, non ha
senso parlare di ‘teologia’ della morte: la morte è ormai soltanto un lucroso
ed ambìto affare, il sostentamento di una pletora di persone senza il benchè
minimo interesse teologico o sentore spirituale. La morte è fonte di denaro
per alcuni, apportatrice di debiti ed umiliazioni per altri, di gran lunga i più.
Quanto all’insegnamento di scuola, si ripensi a ciò che si è letto in Scoto o
Tommaso, lo si affianchi mentalmente all’immagine appena letta e sarà su-
bito chiaro quanto effettivamente incida sul vissuto quotidiano.
È il trionfo della distorsione del senso dell’indulgenza, legittimato e sol-
lecitato all’inverosimile dalla sete di denaro di papi megalomani come Giu-
lio II (1503-13), che invece di annunziare il vangelo imita Nerone, Leone X
(1513-21) e Clemente VII (1523-34), due Medici che dalla loro famiglia di
usurai (pardon, ora sono ‘banchieri’...) ereditano l’amore per denaro, lusso,
intrighi. Come stupirsi? Nel 1413, grazie a Giovanni XXIII antipapa, i Me-
dici hanno l’appalto della riscossione delle decime, che nel 1420 Martino V
conferma; con quelle percentuali da favola i Medici acquistano (sic) prezio-
si cardinalati (Giovanni e Giulio, figlio e nipote del Magnifico, Ippolito, al-
tro nipote di Lorenzo, Giovanni e Ferdinando, figli di Cosimo, Alessandro,
figlio di Ottaviano; 18 in tutto) che fruttano tre papati (Leone X, Clemente
VII, Leone XI) e sfiorano il quarto con Ippolito. Con questi parenti e simili
9
‘vocazioni’ , è ovvio che Leone X Medici non colga l’inizio della crisi te-
_____________________________
8
PH. ARIÈS, L’homme, op. cit., I, 173 (trad. nostra).
9
Qualche data chiarirà molte idee. Ippolito dè Medici è creato cardinale dallo zio Cle-
mente VII nel 1589, a 17 anni. Nel 1489 Giovanni dè Medici, futuro papa Leone X, è
creato cardinale alla veneranda età di... 13 anni, la stessa di Ferdinando di Cosimo I,
nato nel 1549 e cardinale nel 1562. Se questa non è simonia... Ma - si dirà - ‘cardina-
le’ è titolo onorifico, ed al tempo si poteva divenire cardinali anche solo con gli ordi-
(segue)

381
desca e Clemente VII Medici trascuri quella anglicana: hanno cose più im-
portanti cui badare, ad esempio trovare il modo di aumentare la vendita di
messe per pagarsi zibellini, ritratti, giardini...
Questo è il terreno in cui nascono, crescono e prosperano le Riforme, lu-
terana e cattolica. Cominciamo dalla prima.

12.3. La teologia della morte in Lutero


e negli Riformatori

Di fronte alle migliaia di chiese riempite di catafalchi e dell’eco dei canti


di decine di messe d’intercessione per pagare Buonarroti o Raffaello invece
che soccorrere i poveri, piovono critiche e satire, non pochi sono scandaliz-
zati profondamente, alcuni arrivano a contestare l’autorità di chi agisce in
10
modo così chiaramente non evangelico . Fra di loro vi è anche Martin Lu-
11
tero, monaco agostiniano di una certa levatura .
Non c’è bisogno di riassumere vicende biografiche arcinote. Notiamo so-
lo che, finchè rimane frate, Lutero vive in prima persona la kermesse pseu-
do-liturgica generata dalla distorsione della dottrina delle indulgenze. Meno
dei preti secolari, perché inserito in un Ordine religioso e vive in convento,
ma certo non è esente da quella che dal sec.XIV è ormai la regola.
______________________________
ni minori. Vero. Ma fino al sec.XIV non era così: chi separa cardinalato ed ordine? E
perché a 13 anni si può scegliere il papa senza essere diacono? Chi autorizza il rinvio
sine die dell’ordinazione? Non a caso Sisto V, nella costituzione Postquam verus del
1586, impone che i cardinali abbiano almeno 22 anni, siano ordinati e senza figli.
10
Il teologo professionista a questo punto farebbe notare che una cosa è l’autorità ed un
altra l’autorevolezza. Distinzione corretta e di buon senso ma in pratica inutile. Cosa
significa infatti ‘autorevole’? P.es. per molti papa Francesco è un santo ma per altri è
un eretico, quel che il cardinal Ottaviani diceva di san Giovanni XXIII. Né è cosa che
dipenda dal tempo o dalla politica: p.es., Alessandro VI (1492-1503) è per Savonaro-
la (1452-98) il concentrato della depravazione, Pio II (1458-64) lo pensa quando an-
cora è cardinale (e non fa niente), ma non è così per il riformatore Sisto V (1585-90)
ed il lassista Urbano VIII (1623-44). Tot capita tot sententiae. L’autorità invece è
oggettiva: o sei papa o non lo sei; se lo sei, esiste il diritto-dovere di trattarti come ta-
le. Ma per quanto tempo si può riuscire ad imporsi di trattare da papa chi non rite-
niamo autorevole? E quanto vale un’obbedienza forzosa? Così si ritorna al punto di
partenza, circolo vizioso che un discernimento spirituale profondo può dirimere ma,
si badi, solo a livello personale: io posso decidere solo per me stesso.
11
Naturalmente Lutero e la sua vicenda è solo una tra le tante cui ci si potrebbe riferire;
per un quadro più ampio cf. p.es. G.M. JUHÁSZ, Translating resurrection. The debate
between William Tyndale and George Joye and its historical and theological context,
Leiden 2014, 125-286 (Post-mortem existence in the early reformation period).

382
Ora, è chiaro a tutti che la causa di questa deformazione è l’azione a-cri-
stiana di gruppi di potere infiltratisi ai livelli più alti della Chiesa, ed altret-
tanto evidente è che lo strumento del quale si servono è la dottrina delle in-
dulgenze. Per fermare quell’azione si deve quindi neutralizzare quello stru-
mento, ma come? Per Erasmo da Rotterdam ed altri ciò è possibile recupe-
rando la dottrina originale, per Lutero ed altri l’unica strada è ‘abbandona-
re’ tutto. Una volta deciso in quale direzione andare, il resto vien di conse-
guenza, a livello intellettuale come esistenziale. Erasmo vivrà una vita fatta
di equilibri delicati, Lutero una di scontri epocali. Anche con Erasmo.
Come si è già avuto modo di dire nel punto 1.2.2., il rischio più grande di
questo saggio è cedere alla tentazione di affrontare questioni di escatologia
intermedia: dobbiamo invece limitarci a chiarire le ricadute che hanno sulla
idea di morte. Sempre nel punto 1.2.2. se ne è illustrata una di tutto rispetto,
quella sul significato della dormitio come immagine della morte. Lutero vi
accenna in diversi contesti, ad esempio nel breve commento all’ultimo arti-
colo del Simbolo che offre nel suo Enchiridion (1529):
«Nell’ultimo giorno risveglierà me e tutti i morti e mi darà, insieme a tutti i
12
credenti, una vita eterna in Cristo» .
Quel ‘risveglierà’ chiaramente rinvia al greco egheírô, ed il contesto sug-
gerisce che sia il risveglio da un sonno come il nostro: non lo si legge aper-
tamente, ma è lectio facilior. Ora, per Lutero, sia il sonno che la morte im-
plicano completa incoscienza; lo afferma in una lettera scritta nel 1522:
«Sono incline a (proclive) concordare con te (Nicolaus von Amsdorf) sulla
sententia che le anime dei giusti dormano e fino al giorno del giudizio non
sappiano dove siano. A questa sententia mi porta la parola della Scrittura
(2Sam 7,12): “Dormono con il loro padri”. Ed i morti resuscitati da Cristo e
gli apostoli testimoniano la stessa cosa quando, svegliati come da un sonno,
ignorano dove fossero (unde?). Concordano anche le estasi di molti santi.
13
Né ho (argomenti) con i quali possa demolire questa sententia» .
Di conseguenza, se il morto dorme un sonno incosciente non ha senso af-
fermare che possa dare aiuto ai vivi o ne riceva dalla loro intercessione.
È molto importante capire però il senso esatto di quel ‘di conseguenza’.
Di per sé indica che ciò che vien prima (qui, l’idea di morte come sonno) è
il fondamento, la giustificazione di quel che vien dopo (qui, il rifiuto della
_____________________________
12
MARTIN LUTERO, Enchiridion o Piccolo catechismo per pastori e predicatori indotti,
a.3, in V. VINAY (ed.), Lutero. Scritti religiosi, Milano 2009, 684.
13
MARTIN LUTERO, Briefewechsel, Brief an Amsdorf, Wartburg 13 gennaio1522 (WA
BW, II, 422; trad. nostra). Lasciamo sententia perché significa sia ‘conclusione’ che
‘opinione’: tradurre implica dire quanto Lutero aderisca all’idea di Amsdorf.

383
intercessione). Ma nel nostro caso è vero l’opposto. Lutero non parte da ciò
che pensa della morte ma dal rifiuto delle indulgenze: la sua idea di morte è
funzione della sua dottrina della giustificazione o, se si preferisce, della sua
escatologia. Certamente il passo dell’Enchiridion, solo un inciso, non regge
il peso di conclusioni così forti, però quel che vi si legge, l’accenno ad un
‘risveglio’ indistinto dai nostri in statu viae, fa da pendant a ciò che non si
legge a proposito della discesa agli inferi di Cristo. Commentando la sezio-
ne cristologica del Simbolo, infatti, Lutero si limita dire:
«Io credo che Gesù Cristo, vero Dio generato dal Padre, ed anche uomo, na-
to da Maria Vergine, sia il mio Signore, che me, perduto e annato, ha reden-
to, acquistato, guadagnato da tutti i peccati, dalla morte e dalla potenza del
diavolo, non con oro ed argento ma con il suo santo prezioso sangue e con
la sofferenza innocente e con la sua morte, affinchè io gli appartenga e viva
nel suo regno e gli serva in eterna giustizia, innocenza e beatitudine, come
14
Egli è resuscitato dalla morte, vive e regna in eterno» .
Come si vede, non c’è nulla sull’inciso “discese agli inferi”, che pure fi-
gura nell’enunciato dell’articolo ed è ben tradotto dal latino: Lutero dunque
crede alla discesa agli inferi di Cristo, ma non spiega come possa accadere
in stato d’incoscienza. Si può supporre che, data l’impronta assai semplifi-
cata dell’Enchiridion, Lutero eviti le note tecniche. Può essere, e comunque
gli argomenti e silentio non valgono. Però resta il fatto che, se la morte im-
plica incoscienza, allora o Cristo non è davvero disceso agli inferi o non è
davvero morto: in entrambi i casi si finisce con il contraddire il Simbolo, e
15
questa debolezza è molto, molto seria .
Dagli argomenti e silentio non è lecito trarre conclusioni ma, se una tesi
segue da un’altra, questa si può affermare senza accennare alla prima: qui,
ciò significa che il rifiuto delle indulgenze può essere affermato senza fare
menzione dell’idea di una morte incosciente. E questo lo si può provare da
ciò che Lutero scrive in una lettera del 1530. In essa risponde a due que-
stioni, una sul modo di tradurre la Scrittura e l’altra se davvero i santi de-
funti preghino per noi. Riguardo a quest’ultima Lutero scrive:
«Se i santi defunti preghino per noi, risponderò ora brevemente, perché pen-
so di pubblicare una predica sugli angeli in cui (se Dio vuole) tratterò questo
argomento con maggiore ampiezza. Anzitutto sapete che i papisti non solo
insegnano che i santi in cielo pregano per noi, cosa che del resto non possia-
mo sapere perché la Scrittura non ne parla, ma persino li divinizzano, affin-
_____________________________
14
MARTIN LUTERO, Enchiridion o Piccolo catechismo per pastori e predicatori indotti,
a.2, in Scritti religiosi, op. cit., 683.
15
Ci piace notare che identico silenzio si registra anche nelle due Prediche sul primo
giorno di Pasqua riportate in Scritti religiosi, op. cit., 584-600.

384
chè siano nostri patroni e noi li si debba invocare. Vi sono anche dei santi
che non sono mai esistiti. A ciascun santo viene attribuita una forza ed un
potere particolari: all’uno sul fuoco, ad un altro sull’acqua, ad un altro anco-
ra sulla peste, la febbre e su ogni genere di flagell, talchè Dio stesso deve
rimanere del tutto ozioso e lasciare che i santi operino e creino in vece sua.
Ora i papisti comprendono bene quale abominio sia tutto ciò e se ne stanno
cheti, si puliscono e si adornano con l’intercessione dei santi. Ma voglio ora
lasciare quest’argomento per un’altra volta. (...)
Siccome nel servizio divino non conviene intraprendere nulla senza il co-
mandamento di Dio, e quando qualcuno lo fa tenta Dio, non si deve consi-
gliare né tollerare che i santi defunti vengano invocati per ottenerne l’inter-
cessione; bisogna piuttosto condannare una tale forma di culto ed insegnare
ad evitarla. Perciò io non la consiglio né voglio aggravare la mia coscienza
con una colpa altrui. (...)
Inoltre è in se stesso un culto pericoloso e scandaloso, perché la gente si abi-
tua ad allontanarsi troppo facilmente da Cristo ed a riporre maggiore fiducia
16
nei santi che in lui» .
Al solito, non entriamo nel merito: rileviamo solo che l’essere morti dei
17
santi è nota semplicemente assente . Ora, se il santo, in quanto morto, fos-
se anche incosciente, non potrebbe intercedere per i vivi né esercitare alcun
potere. Sarebbe argomento molto potente contro il culto dei santi e le indul-
genze, ma Lutero non lo usa, quindi rifiuta le indulgenze senza menzionare
l’incoscienza della morte. Di più. Invece di dire ‘è falso’ che i santi preghi-
no per noi’ Lutero scrive ‘non possiamo sapere, perché la Scrittura non ne
parla’: qui vi è molto di più dell’accessorietà, questo è agnosticismo.
Non si tratta di una sovradeterminazione del testo né di un cambiamento
di opinione. Al contrario, Lutero è fedele a se stesso, poiché già nella lette-
ra ad Amsdorf del gennaio 1522, dopo il brano riportato, egli scrive:
«Ma che questo (i.e. il dormire incoscientemente) avvenga universalmente a
tutte le anime non oso asserirlo, a causa del rapimento di Paolo (cf. 2Cor
12,2), di Elia (cf. 2Re 2,11) e Mosè (cf. Dt 34,5), che non per finzione ap-
parvero al monte Tabor (cf. Mt 17,3). Chi infatti sa in qual modo agisca Dio
con le anime separate? Non può forse far dormire alcuni (sopire alternis) fin
quando vuole, come addormenta chi vive nella carne? Infatti quel che (si
legge) in Luca 16 (vv.23ss) di Abramo e Lazzaro, anche se non necessaria-
mente vale per tutti, certo vale per Abramo e Lazzaro, ed è difficile rinviarlo
_____________________________
16
MARTIN LUTERO, Werke, Brief an Wenceslaw Linck, Coburg 15 settembre 1530 (WA
30/2, 643s; trad. it. Scritti religiosi, op. cit., Epistola sull’arte del tradurre, 717s).
17
Identica assenza è anche, p.es., nel commento alla quinta richiesta del Padre nostro,
“e rimetti a noi i nostri debiti” (cf. MARTIN LUTERO, Il ‘Padre nostro’ spiegato nella
lingua volgare ai semplici laici, in Scritti religiosi, op. cit., 257-266), e nel resoconto
della fondamentale Disputa di Heidelberg (cf. MARTIN LUTERO, La disputa di Hei-
delberg, in Scritti religiosi, op. cit., 179-203).

385
fino al giorno del Giudizio.
La stessa cosa ritengo riguardo ai dannati: che possano sentire qualche pena
subito dopo la morte ed altre siano riservate (separari) a quel giorno. Infatti
il mangione tormentato invoca (cf. Lc 16,24) e il Salmo dice (139,12 vulg.):
“Il male darà la caccia all’uomo ingiusto fino alla perdizione”, a meno che
tu non riservi anche questo al giorno del Giudizio o alle angustie passeggere
della morte corporale. Dunque la mia sententia è che queste cose sono incer-
te, tuttavia è verosimile che, eccetto alcuni, tutti dormano insensibili. Guar-
da: chi furono quegli spiriti in carcere, dei quali Pietro scrive che fu predica-
to Cristo (1Pt 3,19), se non quelli che poterono dormire in lui fino a (quel)
giorno? E Giuda dice dei Sodomiti (Gd 7): “Subiscono le pene di un fuoco
18
eterno”, parlando al presente» .
Questo è forse il passo più ampio che Lutero dedichi alla nostra questio-
ne. Egli afferma chiaramente di non sapere come Dio si comporti con colo-
ro che sono morti. Suppone che dormano, ma non sa se lo fanno tutti e se il
sonno duri fino al giorno del Giudizio; è certo che alcuni sono svegli alme-
no in certi momenti (Elia e Mosè), ma non sa se anche altri lo siano; è sicu-
ro anche che almeno alcuni soffrano già le pene dell’inferno, ma non se ciò
accada ad altri e se dopo il Giudizio le pene aumentino. Quello di Lutero è
insomma un agnosticismo davvero sui generis: sa e non sa, afferma ma non
è sicuro, ritiene probabile ma porta inoppugnabili esempi in contrario...
Commentando Genesi 25 (1538-42) Lutero usa un tono più apodittico:
«Il sonno ed il riposo di questa vita differiscono da quelle future. In questa
vita infatti l’uomo, affaticato dal molto lavoro, di notte entra nella sua stan-
za, come in quiete, per dormirvi, ed in quella notte gode della quiete né sa
qualcosa di qualche male o incendio o omicidio. L’anima però non dorme in
questo modo, ma vigila e riceve (patitur) visioni, rivelazioni (da parte) di
angeli o di Dio. Perciò nella vita futura il sonno sarà più profondo che in
questa vita e tuttavia l’anima vive davanti a Dio. (...) Così l’anima, dopo la
morte, entra nella sua stanza e pace, dormendo non sente il suo sonno e però
Dio mantiene vigile l’anima che dorme. Così Dio potè svegliare Elia e Mo-
sè, e far sì che vivessero. In che modo? Non lo sappiamo. Ci basti la simili-
tudine del sonno corporale e che Dio afferma che è sonno, quiete e pace.
Chi dorme il sonno naturale non sa niente di quel che accade nella casa vi-
cina, e tuttavia vive, sebbene contro la natura della vita non senta nulla; lo
19
stesso accadrà in quella vita (futura), ma in altra e migliore maniera» .
In linea generale, qui Lutero afferma quasi le stesse cose scritte sedici
anni prima ad Amsdorf, anzi, là era per certi versi più rigoroso perché non
si limitava, come qui, a sviluppare l’immagine della dormitio ma ne faceva
_____________________________
18
MARTIN LUTERO, Briefewechsel, Brief 449 an Nicolaus Amsdorf, Wartburg 13 gen-
naio1522 (WA BW, II, 422; trad. nostra).
19
MARTIN LUTERO, Genesisvorlesungen, su Gen 25,7-10 (WA 43, 360; trad. nostra).

386
anche una certa critica. Qui manca questa valutazione, ma in cambio è assai
netta l’affermazione che post mortem l’anima vive un ‘sonno vigile’, unita
alla conferma di un agnosticismo sostanziale. Non è chiaro come le due tesi
siano compossibili, ma non vi è dubbio che ciò ridimensiona drasticamente
l’idea di una morte incosciente.
Questa infatti, come si è evidenziato nei dettagli nel punto 1.2.2., a causa
della sua natura di postulato soffre di una rigidità semantica che costringe
Lutero ad ignorare i molti fatti che la contraddicono. Di per sé questa è una
debolezza molto consistente, alla quale si deve aggiungere il vulnus che re-
ca alla dottrina della discesa agli inferi del Cristo morto. Si può concedere
che in qualche modo, seppur misterioso, queste siano risolte finchè il nesso
con il rifiuto delle indulgenze rimane forte e diretto. Quando questo però si
dissolve nell’agnosticismo appena letto, la pretesa di una tenuta ‘sempre e
comunque’ diventa insostenibile. Come si è già detto a suo luogo, molti fat-
ti suggeriscono che in realtà il sonno sia cosciente, seppur non al modo del-
la veglia, mentre dal punto di vista logico (prima ancora che dogmatico) il
rifiuto delle indulgenze non implica affatto l’incoscienza del sonno: Lutero
stesso lo ha dimostrato in diversi passi. Il fondamento di tale rifiuto infatti
sta in un rapporto tra comunità e singolo diverso da quello cattolico, diver-
sità che, nella sua genesi storica, è prima ecclesiologica, poi diventa antro-
pologica, si quindi estende all’esegesi e infine coinvolge la sacramentaria,
un ordine storico sistematicamente invertito dalle presentazioni manualisti-
20
che, spesso più luterane di Lutero specie riguardo all’idea di morte . Sed
de hoc satis. Sull’iperluteranesimo dei Riformati del sec.XX avremo modo
di soffermarci a suo tempo. Quel che ora importa è che l’idea di una morte
21
incosciente non è certa neppure per chi la propone, ossia Lutero .
* * *
Le incoerenze, le incertezze e soprattutto i rischi per l’integrità della fede
che la visione di morti incoscienti reca con sé fanno sì che molti Riformato-
_____________________________
20
Cf. p.es. MARTIN LUTERO, Le buone opere (Scritti religiosi, op. cit., 323-430), pub-
blicato nel 1520, dalla quale emerge sia il profondo afflato spirituale che l’irrilevanza
dell’esegesi: la Scrittura è infatti citata in modo del tutto analogo alle altre opere del
tempo, pacifica anche l’esistenza di una purificazione post mortem. Forte è invece il
rifiuto della prassi ecclesiale dell’indulgenza e delle giustificazioni addotte (radice
ecclesiologica: sola fide), che comporta l’accentuazione del lato spirituale (ricaduta
antropologica: sola gratia), dal quale (ma non in quest’opera) segue la diversificazio-
ne esegetica (sola Scriptura, che implica anche la revisione del canone biblico).
21
Per maggiori particolari sulla visione di Lutero cf. JUHÁSZ, Translating, op. cit., 164-
179, che conclude così (179): «It would be false, however, to claim that Luther used
the idea of soul sleep in order to reject the existence of Purgatory». L’autore purtrop-
po, qui come riguardo ad altri Riformati, spesso tace testi fondamentali.

387
ri prendano le distanze da Lutero. Per la verità il loro è un ritorno alle ori-
gini, dato che più di un precursore della Riforma critica aspramente la pras-
si delle indulgenze, talvolta anche il loro fondamento dottrinale, senza però
negare, anzi affermando la consapevolezza post mortem dei defunti. Alcuni
rimasero nell’alveo cattolico (Cusano, Erasmo, Lefèvre d’Étaples), altri in-
vece migrarono nelle file luterane: qui ricostruiremo questo versante, dedi-
cando particolare attenzione ai contemporanei di Lutero.
In ordine cronologico, il primo a distinguere i due corni della questione è
Jan Wessel Gansfort (1410-89). Tecnicamente non è un Riformatore perché
muore 28 anni prima che Lutero affiggesse le sue tesi a Wittenberg (1517;
nell’ipotesi che davvero lo siano state), ma di fatto molte delle sue idee non
convenzionali sono riprese dai primi Riformatori, anche se fraintese e radi-
22
calizzate . Gansfort ha una visione del Purificatorio del tutto cattolica: luo-
go spirituale e non fisico, dove le anime crescono gradualmente nell’amore
per Dio, in proporzione alla liberazione da quel che del peccato resta in es-
se dopo la morte fisica. Le anime sono pienamente coscienti di questo pro-
23
cesso, che può essere facilitato dall’intercessione sincera dei vivi ma (qui
inizia la critica) non da quella selvaggia e ipocrita fomentata da una gerar-
chia simoniaca amante del piacere e non di Dio. Gansfort descrive lo stato
post mortem come ‘sonno’ solo due volte, e mai lo dice incosciente.
Su tutt’altre posizioni, almeno inizialmente, è un altro importante Rifor-
24
matore, Andreas Karlstadt (1480-1541) , che in una serie di 48 tesi pubbli-
cate in un’anonima compilazione del 1522 descrive un aldilà ricalcato sul
racconto di Luca 16: dopo la morte vi sono solo il paradiso o l’inferno, sen-
za alcun iato temporale o spirituale. La morte quindi è solo la cesura tra lo
stato in cui si merita e quello in cui si è ricompensati,e non può perciò esse-
re assolutamente considerata un ‘sonno’. Karlstadt però cambia idea già nel
1523, in un brevissimo pamphlet dedicato a 1Tess 4,13-18. Influenzato da-
_____________________________
22
Per un quadro di queste influenze cf. JUHÁSZ, Translating, op. cit., 126-132; F. AK-
KERMAN et alii (edd.), Wessel Gansdorf (1419-1489) and northern humanism, Leiden
1993, evidenziano anche le relazioni con influenti ambienti romani.
23
Molto interessanti sono a questo riguardo le assonanze tra il Purificatorio di Gansfort
e la descrizione di CATERINA DA GENOVA, Trattato sul Purgatorio (Lovison, 248s) o
quella della purificazione di GIOVANNI DELLA CROCE, Salita al Monte Carmelo, II, 5,
6 (trad. it. 81s). Sono da escludere influenze reciproche, mentre sarebbe da sondare il
comune rinvio (p.es.) a GIOVANNI DAMASCENO, De fide orthodoxa, III, 14 (SCh 540,
90ss; CTP 142, 203), se non altro perché tutti e tre descrivono con il termine ‘ruggi-
ne’quel che del peccato resta post mortem.
24
Su Andreas Karlstadt cf. JUHÁSZ, Translating, op. cit., 180-183. La vita di Karlstadt
è emblematica dell’atmosfera elettrica del sec.XVI: cf. la ancor insuperata biografia
di H. BARGE, Andreas Bodenstein von Karlstadt, Leipzig 19682.

388
gli scritti di Gansfort, pubblicati a Wittenberg giusto l’anno prima, ammette
ora un Purificatorio simile a quello di Gansdorf, ossia un luogo non di tor-
menti spirituali bensì di progressiva gioia e felicità, destinato a sfociare nel
paradiso. Il successo dell’operetta, notevole, fa il paio con la chiara distan-
za da Lutero: sia la prima (fine 1522) che la seconda posizione (1523) sono
posteriori alla lettera di Lutero ad Amsdorf, dell’inizio 1522; Karlstadt però
concorda con lui sul fatto che i morti dormono, in base al senso letterale di
25
1Tess 4 . Come concili questa affermazione con quel che dice del Purifica-
torio non è chiaro, ancor meno la soluzione di problemi come la discesa di
Cristo agli inferi ed i molti altri dei quali Lutero è invece ben consapevole.
Ma, al solito, non è compito di questo saggio valutare le tesi sull’aldilà ma
solo quelle sulla morte: e nella nuova concezione di Karlstadt la morte non
è più una mera cesura ma un vero e proprio addormentarsi.
Analoga posizione, ma più e meglio argomentata, ha suo cugino Gerhard
26
Westerburg (1486-1558) : alle incertezze ed oscillazioni di Lutero, per al-
tro espresse piuttosto di rado, si sostituiscono affermazioni tranchantes, che
paiono più coerenti e cogenti ma in realtà creano ulteriori problemi. In ogni
caso, gli scritti di Karlstadt e Westerburg esauriscono 13 edizioni nel 1523-
24 a riprova di una diffusione enorme sia tra le persone semplici, alle quali
arriva Karlstadt, sia tra le colte, raggiunte da Westerburg, il cui primo scrit-
to (in latino) vende più di 3000 copie. In realtà solo le opere di Lutero sono
più diffuse di quelle di Karlstadt, i cui circa 90 scritti hanno addirittura 213
edizioni nel 1518-25. La dormitio è ormai l’immagine comune per descri-
vere sia il post mortem che il momento della dipartita.
Contemporaneo di Karlstadt e Westerburg, forse meno noto ai più ma di
molto più influente di loro nell’elaborare la prima teologia della Riforma, è
27
Philip Melanchton (1497-1560) . Di grande cultura e levatura intellettuale,
intimo amico di Lutero che chiama ‘padre spirituale’, nel 1521 Melanchton
scrive il Loci communes rerum theologicarum, prima esposizione sistemati-
ca della dottrina riformata che poi rivedrà un centinaio di volte. L’affetto
per Lutero non comporta però l’adesione a tutte le sue idee, e per non incri-
nare la loro amicizia Melachton evita le occasioni di contrasto. Questa reti-
_____________________________
25
In contrario cf. JUHÁSZ, Translating, op. cit., 183: «Karlstadt was the first Protestant
- preceding even Luther - to openly defend the idea of soul sleep».
26
Su Gerhard Westerburg cf. JUHÁSZ, Translating, op. cit., 183-188. Gli anabattisti lo
soprannominano ‘dottor Purgatorio’ perché negano il Purificatorio: cf. R.S. WOOD-
BRIDGE, «Dr. Purgatory under fire. A summary of Gerhard Westerburg’s doctrine of
Purgatory», in M.B. YARNELL (ed.), The anabaptists and contemporary baptists. Re-
storing New Testament christianity, Nashville 2013, 261-266.
27
Per Philip Melanchton cf. JUHÁSZ, Translating, op. cit., 188-193, che riporta anche i
testi cui qui ci riferiamo e molti altri ancora nella stessa direzione.

389
cenza è netta. Nel suo primo scritto (1523), il Commento a Matteo, riduce
la polemica tra Gesù ed i Sadducei alla sola questione della resurrezione, e
parlando del buon ladrone (Lc 23,43) tace sullo status della sua anima dopo
la morte. Nella revisione del 1535 dei Loci communes, la prima nella quale
accenna al tema della morte (dopo un silenzio di ben 14 anni), lo riconduce
a quello della resurrezione e de facto parla solo di questa. Né menziona mai
28
la dormitio . In definitiva, è evidente che Melanchton evita di parlare della
morte, un silenzio pesante perché viene da parte di chi accompagna Lutero
alla disputa con Eck a Leipzig e ne dà il resoconto ufficiale (1519), scrive e
rivede senza sosta un’opera come i Loci communes (1521), addirittura redi-
ge i 17 articoli della Confessio Augustana (1530).
Il panorama delle opinioni dei primi Riformatori sulla morte si arricchi-
29
sce molto con il contributo di Huldrych Zwingli (1484-1531) . All’opposto
di Melanchton, Zwingli dedica molta attenzione alla morte perché è uno dei
punti di scontro con gli anabattisti, movimento anch’esso riformatore ma in
misure e modalità assai più radicali di Lutero. Qui interessa come Zwingli
critica la loro concezione di morte come dormitio, in effetti del tutto analo-
ga a quella di Lutero: per gli anabattisti infatti i morti ‘dormono’, in anima
e corpo, fino al giorno del Giudizio, quando saranno ‘risvegliati’ da Cristo.
Già da questi primi elementi traspare una indiretta ma netta opposizione tra
Lutero e Zwingli, che diventa ancor più forte se consideriamo gli argomenti
di quest’ultimo. Zwingli infatti, seguendo Aristotele e Tertulliano, nega che
l’anima ‘dorma’ perché è entelechia, ed un atto non può cessare di agire. Se
si vuol comunque parlare di ‘sonno’ si deve però sottolineare che è vigile,
non incosciente. Zwingli poi rileva che il greco egheirô traduce l’ebraico
qûm, perciò non si può riservare solo alla resurrezione finale, e lo dimostra
citando in ebraico numerosi passi dell’AT. All’opposto di Melanchton, nota
che la polemica con i Sadducei riguarda soprattutto lo status delle anime
prima della resurrezione, la cui consapevolezza dimostra citando passi che
stavolta trae dal NT. Purtroppo non possiamo seguire le analisi filologiche
che Zwingli fa comparando LXX, TM e Vulgata, ma da esse ricava non solo
_____________________________
28
Cf. JUHÁSZ, Translating, op. cit., 193: «There is nothing to suggest that he would ha-
ve shared Luther’s idea about soul sleep». Ma la dormitio è anche idea di Gansfort,
Karlstadt e Werterburg, e soprattutto è ormai communis opinio tra il popolo.
29
Su Zwingli cf. JUHÁSZ, Translating, op. cit., 193-207. È curioso notare che, mentre in
vita Zwingli combatte gli anabattisti con penna e spada, i loro eredi, i battisti, tendo-
no a presentarsi come suoi discepoli: cf. p.es. F. SCHMIDT-CLAUSING, Zwingli. Rifor-
matore, teologo e statista della Svizzera tedesca, Torino 1978. Certo, condivide il lo-
ro rifiuto del Purificatorio, ma basta ad annullare le tante, aspre divergenze? P.es. nel
1531 Zwingli scrive all’Imperatore che gli anabattisti si limitano a resuscitare le vec-
chie eresie già denunciate da Ireneo (cf. JUHÁSZ, Translating, op. cit., 207)...

390
la coscienza post mortem ma anche l’immortalità dell’anima, il tutto com-
mentando proprio quei passi che per Lutero insegnano tutt’altro. Anche sul
Purificatorio l’opposizione è radicale: per Lutero vi è spazio per una purifi-
30
cazione post mortem , per Zwingli si tratta invece di una ‘invenzione papi-
sta’; ed è facile immaginare cosa pensasse delle idee di Gansfort, Karlstadt
31
o Werterburg . In ogni caso, ed è questo che conta per noi, Zwingli respin-
ge nettamente l’uso della dormitio come immagine della morte, e con lui si
32
schierano diversi teologi svizzeri .
Per completare il quadro, pur nei ristretti limiti impostici dall’economia
di questo saggio, ricordiamo il contributo di Jehan Cauvin (1509-64), noto
come Calvino. Questi pubblica nel 1545 un saggio scritto già nel 1534 e dal
titolo curioso: Psycopannychia, qua refellitur quorundam imperitorum er-
ror, qui animas post mortem usque ad ultimum judicium dormire putant; è
chiaramente una confutazione dell’idea della dormitio, ma nella sua versio-
ne più rigida, quella cioè per la quale l’anima dorme un sonno senza sogni,
del tutto incosciente. I destinatari di tale refutazione sono gli anabattisti, un
gruppo che i Riformatori considerano non solo radicale ma anche pericolo-
so per l’ordine sociale data la sua vicinanza alle posizioni di Thomas Munt-
zer ed alle rivolte contadine. La strage di Frankenhausen (1525) e la morte
33
di Muntzer spingono gli anabattisti a disperdersi in tutta Europa .
In verità non sono originali né gli argomenti degli anabattisti né le repli-
che di Calvino, che de facto semplifica e divulga quelle di Zwingli. Ciò che
a noi interessa di questa ennesima disputa interna alla Riforma è la sua sto-
ria, la quale si riflette sulla diffusione dell’idea di dormitio come ‘sonno in-
cosciente’, dal quale saremo destati nel giorno del Giudizio. Nato in Sviz-

_____________________________
30
Cf. p.es. MARTIN LUTERO, Genesisvorlesungen, su Gen 25,7-10 (WA 43, 360; cit.).
31
Quest’opposizione però si diluisce molto in seguito. P.es., l’importante teologo lute-
rano Johann Gerhard (1582-1637), in un’opera fondamentale come i Loci theologici
(Jena 1610ss, 9 voll.), sposa le tesi zwingliane e rifiuta la dormitio come immagine
della morte (De novissimis in genere, passim). Poi scrive (Jena 1683) le Disputatio-
nes in quibus dogmata Calvinianorum expeduntur, dove attacca le tesi di Calvino che
però sono le stesse di Zwingli. D’altra parte, già a metà del 1500 l’idea di dormitio
scivola nel mortalismo, versione radicale dell’incoscienza post mortem che nel ‘600
si diffonderà in Inghilterra. Alle volte poi queste divergenze hanno origini ben poco
teologiche: p.es. JUHÁSZ, Translating, op. cit., 208-226, narra come i plagi e le ambi-
guità di Martin Bucer (1491-1551) causino profonde divisioni tra i Riformati, anche
se poi lo dice (226): «One of the major exegetes of the early Reformation period».
32
P.es. H. Bullinger (1504-75), B. Westheimer (1499-1567) e O. Brunfels (1488-1534),
sui quali cf. JUHÁSZ, Translating, op. cit., 226-244.
33
Per una presentazione generale della visione anabattista e degli autori che la svilup-
pano cf. JUHÁSZ, Translating, op. cit., 276-282.

391
zera e poi estesosi a tutta la Germania, il movimento anabattista raggiunge
le Fiandre, la Francia e persino l’Inghilterra; prima tollerato e poi contesta-
to, è infine combattuto, con la penna e la spada, da tutti, cattolici e Rifor-
mati, ricchi e borghesi, colti ed ignoranti. Ma l’idea di morte come ‘sonno’
che reca con sé, anche se in secondo piano rispetto alle altre concezioni, ri-
34
scuote approvazioni e condivisioni che vanno al di là del movimento .
* * *
Il bilancio di questa rapida carrellata di idee non può ignorare il contesto
storico più ampio delle vicende della prima Riforma. Della rivolta contadi-
na del 1524-25 capeggiata da Müntzer ed appoggiata dagli anabattisti si è
già detto. Ma anche Karlstadt e Werterburg lo fanno, e così nel 1524 Lutero
vieta a Karlstadt di stampare senza il suo imprimatur e lo denuncia al prin-
cipe di Sassonia come sovversivo; Karlstadt fa ammenda, ma poi si unisce
agli anabattisti (1529). Questi, dal canto loro, sono espulsi dall’alveo della
Riforma da Zwingli e Cauvin, anch’essi però in forte dissidio con Lutero su
molte questioni dottrinali. Queste divergenze poi sfociano spesso in scontri
violenti, anche dentro la medesima città, molto difficili a ricomporsi.
Le ambiguità poi generano fraintendimenti e calunnie. Così, ad esempio,
l’ex-calvinista divenuto poi cardinale Du Perron (1558-1618) afferma che
per Lutero corpo ed anima muoiono nello stesso istante e risorgono insieme
nel giorno del Giudizio, come fosse un anabattista; lo stesso farà, secoli do-
po, l’anglicano Blackburne (1705-87). Ma, e questo è oggettivo, non è faci-
le districarsi tra il mare di opinioni dei primi Riformati, per di più fondate
sui medesimi testi biblici, tirati qua e là come una coperta troppo corta.
Resta ora da sondare l’idea di morte della Riforma cattolica.

12.4. La teologia della morte


della Riforma cattolica

Al punto 12.2. abbiamo descritto l’avvilente situazione nella quale versa


la Chiesa a causa del dilagare di simonia, corruzioni di ogni genere, diffuso
disinteresse se non dileggio per l’aspetto spirituale della fede. Ma, all’inizio
del punto 12.3., abbiamo accennato anche all’esistenza di una reazione, che
è all’origine della Riforma luterana ma agisce anche in campo Cattolico.

_____________________________
34
Cf. D. PFANNER, «Psicopannichismo e tnetopsichismo: breve analisi della controver-
sia sul destino dell'anima dall’epoca tardo-antica all'età moderna», in A. PROSPERI
(ed.), Salvezza delle anime, disciplina dei corpi. Un seminario sulla storia del batte-
simo, Pisa 2006, 573-588.

392
Perché una cosa è da sottolineare con forza, e cioè che quella di Lutero,
Zwingli, Calvino ed altri non è l’unica soluzione possibile, anzi, rompere la
comunione con la Chiesa è per certi versi darla vinta ai simoniaci servi del
nemico. Questi infatti suscita senza sosta individui di tal misera fatta per-
ché il loro agire disgustoso scandalizzi chi non è come loro e, a forza di ve-
derne sorgere sempre di nuovi, finiscano con il disperare ed abbandonare la
lotta. Ora, per prima cosa bisogna sapere che questo non è dovuto al potere
del nemico (che non ne ha alcuno) ma ad un preciso disegno di Dio, che ci
è stato rivelato per mezzo dell’apostolo Paolo (1Cor 11,19):
«È necessario infatti che avvengano divisioni tra voi, perché si manifestino
quelli che sono i veri credenti in mezzo a voi».
Quindi nostro Signore permette che il nemico susciti in seno alla Chiesa
individui pervertiti e traditori perché il loro agire riveli chi davvero lo ama.
In secondo luogo, bisogna sapere che, in mezzo alle iatture ed alle male-
fatte che ieri come oggi infettano il corpo santo della Chiesa, i veri credenti
non sono soli, come è scritto (Sal 125,3):
«Egli non lascerà pesare lo scettro degli empi sul possesso dei giusti,
perché i giusti non stendano le mani a compiere il male».
Nostro Signore infatti sa che, di fronte a cose disgustose come la pedofi-
lia o la connivenza con mafiosi o dittatori, viene spontaneo il desiderio di
ripagare il male con il male. Ma così non saremmo più diversi da quelli, un
risultato che il nemico ambisce tanto da arrivare a mettere i suoi uno contro
l’altro. Poiché il nemico fa leva sulla debolezza umana, reale, Dio pone un
freno al suo agire, come si legge nel Salmo; e Paolo spiega (1Cor 10,13):
«Nessuna tentazione vi ha finora sorpresi se non umana; infatti Dio è fedele
e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione
vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla».
Gli scandali sono ciò con cui il nemico tenta di farci abbandonare la par-
tita; ma il disgusto, l’avvilimento, la rabbia che suscitano non sono invinci-
bili. Insieme ad essi Dio fa giungere la forza per sopportarli ed il modo per
capirli ed usarli a vantaggio nostro e di tutta la Chiesa. Ognuno poi viene a
contatto solo con quella parte di perversioni che è in grado di gestire: è ve-
ro che si ha notizia di moltissime cose, ma quelle con le quali ci dobbiamo
confrontare quotidianamente sono molto meno e, spesso, più lievi. Questo è
un dato di fatto esperienziale per chi vive in un rapporto personale d’amore
per Dio; ma se così non è, allora può succedere di tutto e di più.
Queste note servono a capire com’è possibile che quel Lutero che scrive
Le opere buone, opera del tutto condivisibile e con diverse sottigliezze spi-
rituali, sia lo stesso che, in quello stesso anno, il 1520, scrive il De captivi-

393
tate babylonica ecclesiae, dove annulla il suo rapporto con la Chiesa stra-
volgendone completamente l’insegnamento. E come quell’Erasmo da Rot-
terdam che scrive il dialogo Giulio escluso dal cielo, nel quale papa Giulio
II, descritto come ubriacone omosessuale e sifilitico, è cacciato dal paradi-
35
so da un san Pietro schifato , sia lo stesso che scrive il De libero arbitrio
dell’uomo, contro la tesi luterana del ‘servo arbitrio’, contro di lui difenda a
spada tratta la reale presenza di Cristo nell’Eucarestia, e che ribadisce sen-
za sosta che oggetto delle sue satire non è la Chiesa in quanto tale bensì chi
36
ne corrompe la purezza e santità . Ma, se bisogna guardarsi dall’affrontare
questioni di escatologia, in questo saggio si deve anche evitare di inseguire
questa o quella diatriba. L’oggetto formale di questa indagine è infatti solo
e soltanto la teologia della morte.
Ora, Erasmo da Rotterdam (1466-1536) nel 1534, appena due anni prima
di morire, redige un’opera su questo tema, il De praeparatione ad mortem,
scritto che stupisce chi è abituato all’Erasmo filologo o autore di dialoghi e
satire pungenti. È infatti un opuscoletto, il primo dedicato soltanto a questo
tema, il cui tono ricorda analoghe opere del sec.XII (sic) e che si muove in
prospettiva schiettamente ambrosiana. Così, ad esempio, leggiamo:
«Bisogna dunque esercitare per tutta la vita questa meditazione sulla morte,
e subito eccitare la scintilla della fede perché cresca e si rafforzi, ed unita al-
la carità alimenti la speranza che ci dà coraggio. Nessuna di esse possiamo
ottenerla da noi stessi: sono doni di Dio, cui aspirare con assidue preghiere e
voti se mancano, e, se ci sono, da alimentare perché crescano. Quanto più la
fede, alimentata dalla carità e dalla speranza, è ferma, tanto minore è il timo-
re. Che la maggior parte di noi aborrisca l’idea della morte, infatti, dipende
37
per lo più, come abbiamo detto, dalla debolezza della fede» ,
ed l’idea espressa dall’inciso finale appare più volte sino dalle prime righe
dello scritto erasmiano, mentre invano cercheremmo in esso l’affermazione
_____________________________
35
Cf. ERASMO DA ROTTERDAM, Iulius exclusus e caelis, testo latino e trad. it. a cura di
S. Seidel Menchi, Torino 2014.
36
Per un quadro dettagliato di questa opposizione cf. F. DE MICHELIS PINTACUDA, Tra
Erasmo e Lutero, Roma 2001. Per una prospettiva più ampia cf. i saggi in E. BALDINI
- M. FIRPO (edd.), Religione e politica in Erasmo da Rotterdam, Roma 2012.
37
ERASMO DA ROTTERDAM, De praeparatione ad mortem (ASD V-1, 297s; trad. it.
439s). Si può supporre che, avendo pubblicato nel 1527 l’Opera omnia di Ambrogio
e, nel 1528, la Explanatio in Psalmos di Haymo di Halberstadt (†853), Erasmo abbia
risentito della atmosfera di quegli scritti: però la loro oggettiva lontananza dal senti-
tus del sec.XVI ed il fatto che il De praeparatione li segue di almeno sei anni, rende
più probabile una meditata opzione. Erasmo sceglie consapevolmente di parlare della
morte da una prospettiva diversa da quella del suo tempo, un distacco che forse inizia
ben prima, nel 1521, con la pubblicazione del De contemptu mundi.

394
agostiniana che il timore della morte è invece naturale, seppur di una natura
indebolita dal peccato. Ma l’opposizione non può essere descritta in termini
così netti, né Erasmo nega il dato di fatto da cui parte Agostino:
«A questo punto (i.e. dopo che Cristo ha vinto il mondo) quali tentazioni
rimangono? La morte: quella morte alla cui menzione, dicevo, ogni cosa si
rattrista. Essa non può essere scacciata con la forza né evitata con la fuga o
elusa con l’inganno. Il primo istinto naturale di qualsiasi cosa è di preserva-
re il proprio stato. Ma la morte, contro questo istinto naturale, minaccia la
distruzione, tanto più detestabile in quanto divide due cose strettissimamen-
te unite: non c’è infatti unione più forte di quella tra corpo ed anima.
La clemenza del Signore per noi allevia anche questo orrore. Prima di tutto,
perché Egli stesso ha volentieri preso su di sé l’orrore della morte e la morte
stessa, per di più una morte ignominiosa ed amara. E non ha voluto che fos-
se immune da essa nessuno dei santi, anche i più insigni: non il fedele A-
bramo, non Mosè amato come un amico, non Davide “uomo secondo il mio
cuore” (1Sam 13,14), nessuno dei profeti, non Giovanni Battista, del quale
ci rimane una grandiosa testimonianza divina (cf. Mt 11,7-11), non la madre
amatissima e neanche quelle dei suoi discepoli che ha amato sopra tutti gli
altri. Fin dal primo uomo fino alla consumazione del mondo è stabilito che
38
tutti una volta devono morire (cf. Eb 9,27)» .
In apparenza questa sembrerebbe una ratifica della posizione agostiniana
ma, a parte il fatto che sappiamo quanto sottile sia la distanza tra l’Ipponate
ed Ambrogio, all’inizio del passo Erasmo chiama la morte ‘tentazione’: ed
è difficile pensare che la tentazione sia ‘naturale’, anche se la natura inde-
bolita dal peccato è molto più sensibile alla tentazione. Tuttavia è anche ve-
ro che Erasmo parla di ‘istinto naturale’, ed un istinto è più ‘naturale’ della
tentazione. Ma, per Erasmo e per noi, il punto non è stabilire se la morte sia
coeva alla creazione o meno, se post lapsum sia ‘naturale’ o no e così via:
non viviamo al tempo di Adamo ed Eva, per noi il punto cruciale è come
affrontiamo la nostra mortalità. E siccome la si può vivere in un modo che
porta al peccato o al modo dei santi, giustamente Erasmo la chiama ‘tenta-
zione’: perché questa è suggerita dal nemico per la nostra perdizione ma è
39
permessa da Dio per la nostra salvezza . Come è scritto (Rm 5,3s):
_____________________________
38
ERASMO DA ROTTERDAM, De praeparatione ad mortem (ASD V-1, 302s; trad. it.
444s).
39
Cf. ERASMO DA ROTTERDAM, De praeparatione ad mortem (ASD V-1, 318; trad. it.
460): «Ci sono varie forme di tentazione, con le quali Dio mette alla prova i suoi sol-
dati, ma la tentazione più pesante di tutte è la morte. In quel momento infatti la bat-
taglia si svolge corpo a corpo, senza scaramucce: ci si batte da entrambe le parti con
tutte le forze per un risultato definitivo. A questa battaglia dunque bisogna sempre
tenere pronto l’animo. Cosa può fare infatti il soldato inesperto della guerra, che non
ha mai visto il nemico, che non ha mai sperimentato né le forze, gli inganni, le arti, le
(segue)

395
«Ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce
40
pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza» .
Questo parlare di ‘tentazione’ riferendosi alla morte dice perciò che Era-
smo si sta muovendo non con intento morale, ad esempio come Bernardo di
Chiaravalle, bensì in prospettiva ‘spirituale’, al modo dei Padri della Chie-
sa. Erasmo stesso, raggruppando i suoi scritti, inserisce il De praeparatione
tra le opere ‘spirituali’ ed in essa non si riferisce mai alla fede con il termi-
ne religio ma sempre e solo con pietas, che in latino indica una tensione in-
teriore forte ma priva di compatimenti o commiserazione, a differenza del
nostro ‘pietà’. Però Erasmo non entra mai nei dettagli delle dinamiche spi-
rituali, quindi, come nei Padri, non è facile distinguere la sua idea di ‘spiri-
tuale’ da quella di ‘morale’, anche se al suo tempo i moralisti non erano af-
41
fatto come quelli odierni ed era facilissimo capire la differenza .
Subito dopo queste considerazioni Erasmo ne aggiunge un’altra:
«Indignarsi perché dobbiamo morire non è più dignitoso che indignarsi per-
42
ché siamo stati creati uomini e non angeli» .
Questo inciso è asciutto ma molto denso. Se la morte è la traduzione me-
tafisica dell’essere creati e non eterni, allora non vi è differenza tra angelo
ed uomo: entrambi esistono solo perché Dio continua a mantenerli in esse-
re. Da questo punto di vista la morte è certo ‘naturale’ ma non più commi-
nabile all’uomo come pena, il che suona pericolosamente vicino a Pelagio.
Se invece la morte esprime solo la separazione tra i due componenti umani,
allora paragonare uomo ed angelo non è più sensato del paragonare sassi ed
uomini. I sassi non muoiono perché non hanno anima, gli angeli perché non
hanno corpo, ma l’uomo consta di due elementi, uniti ma separabili, e muo-
______________________________
insidie di quello, né il proprio valore? Gran parte della vittoria sta nel combattere un
nemico noto. Così dice infatti quel gran soldato, o meglio comandante, che è san Pa-
olo (2Cor 2,11): “Acciocchè noi non siamo soverchiati da satana. Perciò che noi non
ignoriamo le sue macchinazioni”. Che c’è di strano se egli conosce le strategie di co-
lui con il quale tante volte si è battuto, misurandosi con ogni genere di pericolo? Poi
verrà il fuoco, che proverà di che natura siano le opere di ciascuno, e su quali basi
siano fondate (cf. 1Cor 3,13)». Quest’idea della battaglia finale, in punto di morte, è
ben sviluppata in Erasmo (cf. trad. it. 471-75), che dà molti dettagli.
40
In verità ‘tribolazione’ (thlípsis) e ‘tentazione’ (peirasmós) non sono sinonimi: Dio
non ‘tenta’ mai, cf. Gc 1,13ss gr. Ma talvolta pare di sì, cf. p.es. Gen 22,1, Dio ‘mise
alla prova’, nissah, Abramo, che vulg. legge temptavit e LXX epeírazen, ‘tentò’.
41
Per chiarire meglio la religiosità particolare di Erasmo cf. A. PROSPERI, Introduzione
a Erasmo da Rotterdam. Opere, Milano 2008, II Scritti religiosi e morali, 7-46.
42
ERASMO DA ROTTERDAM, De praeparatione ad mortem (ASD V-1, 303; trad. it.
445).

396
re se lo fanno. In questa prospettiva poter morire è ‘naturale’, il morire può
essere comminato come pena e di fatto lo è per gli uomini post lapsum.
Questo ragionamento metafisico assume però sapore e colore ben diversi
al momento in cui gli unisce una valutazione non morale (buono/cattivo) o
etica (bene/male) ma un’altra non facile da aggettivare: Erasmo infatti parla
di ‘indignarsi’, ‘dignitoso’, e la dignitas è categoria che ha sì sporgenze eti-
co-morali ma ne ha almeno altrettante sul lato metafisico. In realtà la digni-
tas è la cifra dell’intero ripensamento dell’Umanesimo sull’uomo, e questo
rinvio ci dice molto sulla morte. Infatti, se per l’uomo mortale non è ‘digni-
toso’ ‘indignarsi’ per la propria mortalità, allora la morte rientra nella di-
gnitas humana. Se così è, allora gli innegabili risvolti etico-morali, dei qua-
li Erasmo parla in tutto il De praeparatione, hanno un fondamento che non
è più solo la traduzione metafisica del suo essere creato (anche) né la mera
pena di colpe ancestrali (anche), ma una nota distintiva della sua ‘natura’,
che né angeli né sassi hanno. Non vi è dubbio che si tratti di una visione di-
versa da quelle anteriori e contemporanee (fatta epoché della Riforma, sin-
tonizzata su altre frequenze), ma è altrettanto certo che assolutizza uno sta-
tus, quello terreno, destinato ad essere sostituito da uno eternamente privo
43
di morte. Il beato, identico agli angeli , ha forse dignitas meno umana per-
ché non muore? Se si risponde ‘no, perché è per grazia come Dio è per na-
tura’, che si dirà del dannato? Ma si tratta di incursioni nell’escatologia, per
di più con una base fragile: anche se Erasmo non menziona altrove la digni-
tas, l’inciso è comunque troppo breve. Limitiamoci dunque a prendere nota
che Erasmo sembra dare alla morte un rilievo diverso da quelli incontrati.
Più in sintonia con lo standard è quel che Erasmo scrive più avanti:
«Da quanto si è detto è possibile ricavare che ci sono quattro tipi di morte:
spirituale, naturale, trasformatoria ed eterna.
Quella naturale è la separazione dell’anima dal corpo.
Quella spirituale è la separazione di Dio dall’anima: come infatti l’anima è
la vita del corpo, così Dio è la vita dell’anima. È questa che, quanto alla ne-
cessità, genera la morte naturale, secondo la pia opinione degli antichi teo-
logi.
Da entrambe deriva la morte della gehenna, se morte spirituale e morte na-
turale si uniscono: infatti, dopo la morte del corpo non c’è spazio per la pe-
nitenza.
Rimane la morte tramite la quale ci trasformiamo dall’immagine del vecchio
Adamo nell’immagine del nuovo Adamo, che è Cristo Signore. Questa è la
separazione della carne dallo spirito. Qui la lotta non è facile, e non c’è spe-
ranza di vittoria se lo spirito di Cristo non sostiene la debolezza della nostra
carne. (...) Questo tipo di morte va sommamente desiderato e meditato con
_____________________________
43
Cf. Lc 20,36: i figli della resurrezione sono isoangeloi, ‘identici agli angeli’.

397
grande impegno per tutta la vita. Come san Paolo scrive ai Corinzi (2Cor
4,10): “Portando del continuo nel nostro corpo la mortificazione del Signor
Iesu: acciocchè ancora si manifesti la vita di Iesu nel nostro corpo”. Allo
stesso modo esorta i Colossesi (3,5): “Mortificate adunque le vostre membra
che son sopra la terra”. Non ci ordina di strapparci gli occhi, di amputarci le
mani o tagliarci i genitali. Ed allora di quali membra parla? Aggiunge: “For-
nicazione, immondizia, lussuria nefanda, mala concupiscenza ed avarizia,
che è idolatria”. La gente comune piange i morti, ma san Paolo, nella lettera
ai Colossesi (3,3), si congratula di questa morte: “Voi siete morti - dice - e
la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio”. Questa morte è la madre della
vita spirituale, così come il peccato è il padre della morte spirituale ed anche
44
della gehenna» .
Ritroveremo l’idea di ‘morte trasformante’ nel capitolo quattordici dove,
con il nome di ‘alter-azione (sic)’, assurgerà al ruolo di categoria ermeneu-
tica e descrittiva dell’evento-morte. Adesso però esaminiamo il passo di
Erasmo e quel che ha da dirci. In primis, è chiara la sintonia tra lui e molti
autori del passato, un accordo cosciente, tanto che Erasmo rinvia a loro in
blocco chiamandoli ‘antichi teologi’, e dice ‘pie’ le loro opinioni. In secun-
dis, la morte ‘eterna’ è descritta come (o sostituita da) la morte nella ge-
henna, e quindi la si può considerare sinonima della ‘morte seconda’ dei
Padri e dell’inferno degli Scolastici dei secc.XII e XIII. In tertiis, è netta la
equazione tra vita spirituale e morte spirituale, dove la prima è sinonima di
ascesi e la seconda di rinuncia al mondo. Da un punto di vista strettamente
spirituale è un’equazione discutibile, o meglio incompleta, poiché presenta
solo il lato destruens mentre quello costruens è di gran lunga il più impor-
tante ed impegnativo, senza il quale il primo è impossibile perché un amore
si vince solo con un amore più forte. Ma tant’è: Erasmo la pensa così. Più
interessante è la descrizione della ‘morte trasformante’. Con tutta evidenza
Erasmo ha in mente quel che scrive Paolo nella prima ai Corinzi (15,51):
«Ecco io vi annunzio un mistero: non tutti, certo, moriremo, ma tutti saremo
trasformati»,
ma soprattutto nella seconda (2Cor 3,18):
«Noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Si-
gnore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in glo-
ria, secondo l’azione dello Spirito del Signore»,
passi nei quali Paolo si riferisce a chi muore in grazia di Dio. Paolo, specie
nel secondo passo, è molto chiaro: chi muore in grazia di Dio è trasformato
_____________________________
44
ERASMO DA ROTTERDAM, De praeparatione ad mortem (ASD V-1, 307s; trad. it.
449s). Ovviamente Erasmo cita dalla Vulgata, ma il trad. it., invece di rendere il lati-
no, ha preferito (perché?) sostituirla con la (nuova) versione del Diodati.

398
ad immagine del Cristo, che a sua volta è immagine del Padre. I santi sono
45
dunque immagine del Cristo ed immagine dell’immagine del Padre . Ciò è
utile anche per capire perché la morte appartenga alla dignitas humana: se
infatti, in quanto ‘trasformante’, la morte è la nota della natura umana gra-
zie alla quale, a parte hominis, essa può divenire per grazia come Dio è per
natura, allora è giusto inserirla nella sua dignitas. Ma, ancora, conclusioni
di questa portata esigono fondamenti più solidi di questi.
In effetti, poco dopo questo passo, Erasmo ci dà qualche spunto in più:
«Chiunque durante la vita ha meditato assiduamente sulla morte trasforma-
toria ha un immenso orrore della morte spirituale e della gehenna, inorridirà
di meno all’avvicinarsi della morte del corpo, che non separa da Dio ma u-
nisce più strettamente a Lui e pone fine a tutte le afflizioni dalle quali tutta
questa vita è cinta, e porta alla quiete eterna. Mi dirai: “Porta alla quiete e-
terna, ma solo le anime dei pii”. Hai ragione: infatti la morte è la cosa peg-
46
giore per i peccatori» .
Qui il diritto della ‘morte trasformante’ a far parte della dignitas humana
è ancor più chiaro, però affermarlo in questi termini solleva due problemi,
lo status dei dannati ed il rapporto tra morte eterna e trasformante. Per quel
che riguarda i primi, questi sono umani come i beati, quindi hanno la mede-
sima dignitas: però vivono una morte eterna, mentre i beati una trasforman-
te. Da qui il problema della relazione tra le due morti: l’eterna deve essere
considerata come una trasformante mancata oppure ha una propria autono-
mia? Senza dubbio ricordare che entrambe sono frutto di libera scelta può
aiutare a capire meglio, così come anche immaginare che ‘morte’ sia solo il
nome comune di molti generi di morte, quattro ci dice Erasmo, ognuno dei
quali gode di peculiare autonomia rispetto alle altre. Però Erasmo non ci dà
elementi per rispondere definitivamente, e quindi sorge il sospetto che forse
stiamo sollecitando troppo (o in direzione errata) testi che hanno intenti più
semplici, quelli espressi dal senso più lineare e letterale.
Mettendo tra parentesi questi risvolti, ci piace chiudere questa ricogni-
zione con un passo che rammenta da vicino uno già letto; scrive Erasmo:
«Dalle storie degli uomini sappiamo con quanta esultanza sant’Andrea andò
sulla croce. Ma sappiamo, al contrario, che non pochi uomini, molto stimati
per la loro pietas, in punto di morte sono stati turbati da una grande paura,
_____________________________
45
In realtà questi due passi sono centrali per comprendere l’intera visione escatologica
di Erasmo, per la quale cf. JUHÁSZ, Translating, op. cit., 132-152, e la versione che
ne diede fu occasione di critiche assai aspre, cf. 133-143. L’autore si sofferma a lun-
go su diversi articoli di fede escatologici, ma non menziona il De praeparatione.
46
ERASMO DA ROTTERDAM, De praeparatione ad mortem (ASD V-1, 309; trad. it.
451).

399
pensando con terrore al giudizio di Dio e con esecrazione a tutta la propria
vita. Si racconta di uno al quale, in punto di morte, vistolo intimorito, i con-
fratelli chiesero: “Perché mai sei così spaventato, tu che sei stato pio per tut-
ta la vita?”, e lui rispose: “Fratelli, molto diversi sono i giudizi degli uomini
da quelli di Dio!”. Si dice che abbiano detto cose del genere Benedetto, Ber-
nardo ed Agostino. La medesima fede dunque incute paura e la vince: la in-
cute, mostrandoci quanto sia grande Colui che in molte cose abbiamo offe-
so, la vince mostrandoci Cristo, la cui carità purifica i nostri peccati, la cui
47
grazia compensa le nostre imperfezioni» .
Il racconto è davvero molto simile a quello della morte di abba Agatone,
del quale però ignoriamo la fonte e che Erasmo stesso riporta sotto un pru-
denziale ‘si racconta’. Ma, a parte questo, è chiaro che il passo di Erasmo è
una splendida conciliazione tra Ambrogio ed Agostino: è vero, come vuole
il primo, che la morte non fa paura a chi rammenta Cristo, ma è altrettanto
vero che, se si rammenta dei suoi peccati, incute timore. E con questo chiu-
diamo la ricognizione nel De praeparatione ad mortem di Erasmo.
Data la notevole mole di spunti ed il fatto che questo opuscolo è il primo
che incontriamo ad essere solo al tema della morte, è bene riassumere ciò
che è emerso. Per prima cosa, è rilevante il fatto che, in piena controversia
luterana, Erasmo riprenda temi, prospettive e anche toni molto più antichi.
Senza dubbio è atteggiamento comune in Erasmo, ma è importante che av-
venga riguardo ad un ambito, quello della morte e ciò che la circonda, che è
cambiato moltissimo, e da almeno tre secoli. In secondo luogo è interessan-
te rilevare che, in un contesto che vede protagonista della scena Agostino,
nel bene e nel male, Erasmo scelga a guida Ambrogio. Non che si contrap-
ponga all’Ipponate, anzi, l’ultimo passo concilia de facto le due posizioni,
però è importante che Erasmo metta al centro del sentitus verso la morte il
rapporto personale con Dio più che il portato della ‘natura’. In terzo luogo
è da evidenziare che Erasmo pone un nesso originale tra la morte e la digni-
tas humana. I passi dove ciò avviene purtroppo sono pochi e brachilogici,
ragion per cui non è possibile in questa sede far più che prendere atto della
cosa, però si può affermare con certezza che il concetto di ‘morte trasfor-
mante’ ha sporgenze rilevanti sulla dignitas humana. Per il resto, quel che
Erasmo scrive è un sunto equilibrato di quel che si è letto nei capitoli dedi-
cati ai Padri o nel precedente. L’impostazione è ‘spirituale’ ma al modo dei
Padri, ossia oggi non semplice a distinguersi da una ‘morale’ per chi non sa
dove guardare, ma allora quanto mai palese: la morale del tempo, casuisti-
ca, era infatti profondamente diversa da quella odierna. Molto più facile per
_____________________________
47
ERASMO DA ROTTERDAM, De praeparatione ad mortem (ASD V-1, 322; trad. it.
464). Palese la vicinanza ad ISAIA DI GAZA, Asceticon, logos 30 (trad. it. 239, cit.), la
cui origine però ci è ignota (non è in Pg 40 né negli Apoftegmata Patrum).

400
noi è definire ‘spirituali’ le parole di altre persone, oggi stimatissime per la
loro santità e proclamati Dottori della chiesa per la sicurezza della loro dot-
trina, ma che al tempo non ispirarono certo analoghi sentimenti, a giudicare
da come furono trattate. Vediamo il contributo di alcune di loro.
* * *
Il panorama della santità nei secc.XVI-XVII è di una ricchezza sconvol-
gente: basterà fare qualche nome per rendersene subito conto. Conoscenti,
anzi amici sono Teresa d’Avila, Giovanni d’Avila, Giovanni della Croce e
Pietro d’Alcantara, tutti Dottori della Chiesa. Amici sono anche Ignazio di
Loyola, Filippo Neri e Francesca Romana, dei quali il primo è Dottore in
pectore. Tutti vivono nel sec.XVI come un altro Dottore, Pietro Canisio. A
distanza di pochi decenni troviamo altri Dottori, Francesco di Sales, Rober-
to Bellarmino, Lorenzo da Brindisi. E questo per limitarci ai più famosi e
con il maggior riconoscimento d’autorevolezza: ma come tacere i nomi di
Caterina da Genova, Francesco da Paola, Carlo Borromeo, Maria Maddale-
na dè Pazzi, Thomas More, Francesco Saverio? E potremmo continuare...
È ovvio che non è possibile qui sondare tutte queste personalità.
Una scelta si impone, e come tutte le scelte, per quanto ponderate siano,
sarà parziale: consapevoli di ciò, qui sonderemo solo la teologia della mor-
te di Teresa d’Avila e quella di Giovanni della Croce.
Abbiamo già incontrato Teresa nel capitolo quarto, al punto 4.4, dove si
è indagata la sua concezione di dormitio spirituale. In effetti queste note si
possono considerare la prosecuzione di quelle, e così il primo passo utile (o
meglio quello con il quale ci pare più conveniente iniziare) è uno già letto e
commentato, seppur da altre angolazioni; eccolo:
«Ho detto ‘forze dell’anima’ affinchè intendiate che (per l’orazione) non
sono necessarie quelle del corpo, se Dio nostro Signore non le dà. Egli non
impedisce a nessuno di acquisire le Sue ricchezze: gli basta che ciascuno gli
dia quel che ha. Sia benedetto un così gran Dio! Ma badate, figlie mie, che
per l’acquisto di cui parliamo non vuole che teniate nulla per voi: poco o
molto, vuole tutto per sé, ed in conformità di quello che voi vedrete di aver
dato, riceverete maggiori o minori grazie. Non v’è prova migliore per sapere
se la nostra orazione arrivi o no all’unione. Non pensate che si tratti di cosa
sognata, come la precedente. Dico ‘sognata’ perché lì pare che l’anima sia
mezzo assopita: né appare del tutto addormentata né si sente del tutto sve-
glia. Qui, essendo proprio addormentata, e profondamente addormentata alle
cose del mondo ed a se stessa, (perché è un fatto reale che l’anima resta co-
me fuori di sé per la breve durata di questo fenomeno, tanto che non si rie-
sce a pensare pur volendolo), non occorre far ricorso ad alcun artificio per
sospendere il pensiero.
Perfino quanto all’amare - se ama - non sa come né cosa ami, né ciò che vo-
glia; insomma è come essere assolutamente morti al mondo per più vivere in
Dio. Proprio così: una morte dilettosa, uno sradicarsi dell’anima da tutte le

401
operazioni che può avere stando nel corpo; dilettosa perché, pur stando in
esso, sembra invero che l’anima se ne separi per meglio vivere in Dio, in
modo che io non so se gli resti tanto di vita da poter respirare. Ci stavo pen-
sando or ora, e mi sembra proprio di no; perlomeno, se respira, non lo av-
verte. L’intelletto vorrebbe tutto occuparsi ad intendere qualcosa di ciò che
l’anima sente e, poiché le sue forze non giungono a tanto, rimane così stupi-
to che, pur non perdendosi del tutto, non muove piedi né mani, come si dice
48
di una persona che resta priva di sensi in modo tale da sembrarci morta» .
Nel punto 4.4. si è rilevato che in questo brano Teresa è davvero prodiga
di informazioni che, tra l’altro, pongono esplicitamente la dormitio mystica
come immagine della morte. Si è notato poi che il desiderio di morire per
riunirsi a Dio è già in un passo giustamente famoso di Paolo (Fil 1,21-24):
«Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno. Ma se il vivere nel
corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa debba scegliere.
Sono messo alle strette infatti tra queste due cose: da una parte il desiderio
di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio;
d’altra parte, è più necessario per voi che io rimanga nella carne»,
un desiderio incontrato più volte in Ambrogio, Agostino (meno), Bernardo,
Erasmo, insomma un po’ in tutti. Ma, come sappiamo, in Teresa perde ogni
connotazione intellettuale per testimoniare un’esperienza personale:
49
«Io dico, secondo quanto mi è stato ordinato, quel che è accaduto a me» .
Ora, impostare le cose dal punto di vista esperienziale invece che da uno
intellettuale cambia le carte in tavola in maniera radicale.
Una elaborazione intellettuale poggia infatti su elementi oggettivi (come
ad esempio dei testi) sui quali si lavora con criteri anch’essi oggettivi (co-
me ipotesi e deduzioni) che portano a conclusioni pure oggettive (come tesi
o leggi). L’oggettività di cui stiamo parlando non ha niente a che vedere
con la condivisibilità ed ancor meno con la verità: significa semplicemente
‘possibilità di constatare l’esistenza di’. Così, si è detto ‘oggettivo’ un testo
perché o c’è o non c’è, non perché dica questo invece di quello. Si è detto
‘oggettivo’ il criterio di indagine perché o è questo o è quello, non perché il
primo sia corretto e l’altro no. Ed anche le conclusioni sono ‘oggettive’ allo
stesso modo: perché o le trai o non le trai, non perché una sia vera e l’altra
falsa. In definitiva, un’elaborazione intellettuale è verificabile e contestabi-
le in ogni suo passaggio da chiunque voglia o possa farlo. Per calare queste
osservazioni nel nostro discorso, la sistemazione di Bonaventura è ‘oggetti-
va’ perché lo sono i testi su cui lavora (li cita), i criteri di analisi (la noetica
_____________________________
48
TERESA D’AVILA, Castillo interior, mor.V, c.1, n.3s (Bettetini 1226ss; Falzone 334s).
49
TERESA D’AVILA, Libro de mi vida, c.10, n.7 (Bettetini 132; Falzone 99).

402
del tempo) e le conclusioni che trae: basta leggere. Questa sistemazione poi
è accostabile a quella di Riccardo (ad esempio), ‘oggettiva’ allo stesso mo-
do: l’accostamento è la meta-base ‘oggettiva’ dalla quale, mediante meta-
criteri anch’essi ‘oggettivi’, trarre ulteriori meta-conclusioni ‘oggettive’. A
livello intellettuale, la condivisione di una o l’altra sistemazione è propor-
zionale alla misura in cui consideriamo validi i criteri d’analisi e cogenti le
conclusioni. Quanto alla verità, l’elaborazione intellettuale la fa coincidere
con la condivisibilità, ed ecco le communes opiniones, oppure, più spesso,
si astiene dal pronunciarsi. Così, la visione di dormitio di Riccardo si può
ritenere più ‘vera’ di quella di Bonaventura se molte più persone la credono
tale oppure prendere atto della preferenza senza andare oltre. Come si vede,
la ‘oggettività’ di un’elaborazione intellettuale è la sua forza ma, allo stesso
tempo, ne è anche la debolezza. Infatti questa sua natura la rende incapace
di cogliere ed elaborare ogni elemento non ‘oggettivo’, ossia ‘non consta-
tabile da tutti’, un genere però onnipresente e tutt’altro che inifluente.
A questo punto è facile capire quanto profonda sia la distanza tra ciò che
si dice intellettualmente e quel che si dice esperienzialmente.
Il resoconto di un’esperienza, ad esempio una gita in montagna, è ‘ogget-
tivo’ perché chiunque lo può leggere ed interpretare, ma quando comunica
le sensazioni interiori di chi scrive non lo è più. Le ragioni di questa perdita
di ‘oggettività’ possono essere le più varie. Un primo insieme ruota intorno
al fatto che chi legge non ama la montagna, nel nostro caso non è interessa-
to a Dio: nel migliore e più benevolo dei casi quel che scrive Teresa parrà
sciocco e le sistemazioni di Riccardo o Bonaventura giochini di parole sul
nulla. Un secondo genere di cause è quello di chi ama la montagna ma non
conosce quella di cui parla il resoconto, nel nostro caso ha un rapporto con
Dio ma non quello di Teresa. In effetti, come le Apuane suscitano sensazio-
ni diverse dalle Alpi, e solo chi ha camminato sui sentieri di entrambe lo sa,
così i rapporti con Dio possono essere molto diversi tra loro: chi ha una vita
autentica passa da uno all’altro e sa dire ciò che li unisce e distingue, gli al-
tri possono solo prendere atto di una diversità che però ancora sfugge alla
loro comprensione. Un terzo genere di cause, il più radicale, ruota intorno
alla negazione che una gita in montagna possa dare simili sensazioni, nel
nostro caso che Teresa possa parlare sinceramente di una ‘morte dilettosa’.
Qui la ‘oggettività’ si perde non perché non la si coglie ma perché si nega
che esista quel che non tutti colgono. Di conseguenza, chi l’afferma mente:
per questo si è detto che Teresa non può parlare sinceramente di ‘morte di-
lettosa’. Il primo genere poggia sull’indifferenza, il secondo sulla ignoran-
za, questo terzo sulla presunzione. L’esempio della montagna è incapace di
render conto della gravità di questa presunzione: nessun zoppo pensa di of-
frirsi come maestro di salto in alto, mentre questi ignoranti presuntuosi non

403
solo lo fanno ma vengono anche creduti affidabili, con il risultato di trovar-
si nella situazione di cui parla nostro Signore (Mt 15,14):
«Sono ciechi e guide di ciechi. E quando un cieco guida un altro cieco, tutti
e due cadranno in un fosso!»
Com’è possibile che un cieco prenda a sua guida un altro cieco? Solo se
non si rende conto che lo è. E come può non rendersene conto, dato che lui
stesso è cieco? Perché in realtà non sa di esserlo. Il cieco che si fa guidare
da un altro cieco ritiene che non lo sia, quindi non sa distinguere tra cieco e
vedente. Il cieco guidato erra per ignoranza. Invece il cieco che guida erra
per presunzione, perché ritiene di vedere, anzi, addirittura di conoscere la
strada. Spiritualmente, la presunzione nasce così: una ignoranza superabile,
invece di essere accettata e quindi superata, è negata e trasformata in cono-
scienza, che però è falsa (para-noesis, paranoia), mentre nel primo caso si
giunge ad una conoscenza vera (gnosis). Chi non le sa distiguere le confon-
de, e così abbiamo ciechi presuntuosi che guidano ciechi ignoranti. Questo
esempio ha il limite di essere molto improbabile (chi ha mai visto un cieco
guidarne un altro?) ma, se lo si prende per quel che è, una metafora, descri-
ve una situazione purtroppo molto frequente nella vita spirituale.
Ora, se quella della morte fosse una questione solo intellettuale, tutto ciò
semplicemente non si darebbe: qualcuno avrebbe scritto dei libri, altri leg-
gendoli avrebbero capito, e il problema sarebbe svanito da tempo. Ma non
è così; ‘studiare’ è una falsa soluzione, come scrive Teresa:
«Difficilmente potrà aborrire i beni di quaggiù con effettivo, assoluto di-
stacco chi non comprende di avere un pegno di quelli celesti. Questi doni,
infatti, sono il mezzo di cui si serve il Signore per darci la forza che noi, per
i nostri peccati, poi perdiamo. E difficilmente riuscirà a desiderare d’essere
malvisto ed aborrito da tutti, ed a praticare le altre grandi virtù proprie delle
anime perfette, chi non avrà qualche pegno dell’amore di Dio e, insieme,
50
una viva fede» .
Quindi alla base dell’esperienza vi è un ‘pegno’ donato da Dio, che alcu-
ni ricevono ed altri sanno riconoscere.
In verità è impossibile che Paolo o Teresa, oppure Bernardo o Riccardo,
possano scrivere quel che scrivono senza sentirlo, perché è cosa tanto al di
là del normale modo di concepire il rapporto con la morte che un simile ec-
cesso retorico li avrebbe reso ridicoli invece che credibili. Ma se si tratta di
vera esperienza interiore, allora non solo si può, ma si deve dire che vivere
lontani dall’Amato è peggio che morire e ritrovarLo. In patria si sta molto
meglio che in esilio, come Teresa scrive nelle sue poesie:
_____________________________
50
TERESA D’AVILA, Libro de mi vida, c.10, n.6 (Bettetini 132; Falzone 98s).

404
«Vivo senza vivere in me
e spero una tanto alta vita
che muoio perché non muoio.
(...)
Vivo solo con la fiducia
che ho di morire,
perché morendo il vivere
mi assicura la mia speranza;
morte, dove il vivere arriva,
non tardare, perché ti spero,
51
che muoio perché non muoio» .
ed anche:
«Chi è colui che teme
la morte del corpo,
se con quella guadagna
un piacere immenso?
Oh! Sì, quello di amarti,
Dio mio, senza fine.
Ansiosa di vederti,
52
desidero morire» .
Naturalmente chi non sente queste cose prende il loro resoconto per frot-
tole, Teresa per una schizofrenica con crisi catalettiche e chi dice di sentire
come lei per altrettanti bugiardi o pazzi. In effetti non di rado i mistici sono
etichettati così, ed i più aggressivi spesso vengono dalle fila di coloro che si
dicono ‘credenti’ (non amanti...): le biografie di Teresa e di Giovanni della
53
Croce sono esempi più che illuminanti . Ma lo Spirito, che suscita quelle
persone per i Suoi disegni, sa bene come difendere loro e ciò che gli rivela,
ragion per cui non è il caso di soffermarsi oltre su questi aspetti: basta affi-
dare tutto a Lui. È invece utile evidenziare, nella seconda lirica, un sostan-
tivo che rischia di passare inosservato: Teresa dice che la morte del corpo
fa guadagnare un piacere immenso. Ora, questo sostantivo lo avevamo già
notato là dove Teresa, nella sua autobiografia, parla del ‘sonno delle poten-
ze dell’anima, dove diverse occorrenze di ‘piacere’ si uniscono a quelle del

_____________________________
51
TERESA D’AVILA, Poesias, Vivo sin vivir en mi (Bettetini 1997s; trad. nostra).
52
TERESA D’AVILA, Poesias, Ayes del destierro (Bettetini 2021; trad. nostra).
53
Per avere un’idea di quanti siano stati e siano i modi in cui si distorce la esperienza di
Teresa cf. il rapido resoconto di L. SCARAFFIA, «Teresa d’Avila, una santa ancora
tutta da scoprire», Vita e Pensiero 1 (2015) 98-103. Talvolta invece la si scarnifica in
maniera impressionante, cf. p.es. A. SICARI, L’itinerario di santa Teresa d’Avila. La
contemplazione nella Chiesa, Milano 1994, dal quale mai si potrebbe indovinare che
esistono testi forti, caldi e commoventi come quelli poetici letti o le Relaciones.

405
54
verbo ‘godere’ e di ‘godimento’ ; poiché là interessava l’idea di dormitio
spirituale, ci limitammo a rilevare che sono azioni e sensazioni che mal si
attagliano ad un sonno come il nostro. Qui però Teresa ne parla riferendosi
alla morte fisica e beata, della quale la dormitio spirituale è immagine. Ora,
se tali sensazioni sono poco attinenti ad una dormitio, come possono essere
convenienti alla morte fisica, seppur beata? La risposta viene da quel che la
Chiesa insegna essere lo status spirituale dei beati; e siccome è un sentitus
ben lontano da quel che i più immaginano o credono di sapere, ce lo faccia-
mo illustrare da papa Benedetto XVI, nell’enciclica Deus caritas est:
«L’eros ebbro ed indisciplinato non è ascesa, ‘estasi’ verso il Divino (a-
dversus divinam naturam), ma caduta, degradazione dell’uomo. Così diven-
ta evidente che l’eros ha bisogno di disciplina, di purificazione per donare
all’uomo non il piacere di un momento ma un certo pregustamento (sic) del
vertice della esistenza, di quella beatitudine a cui tutto il nostro essere ten-
55
de» .
Quindi l’eros disciplinato dona un piacere che è un anticipo di quello che
godremo nella beatitudine; e poco dopo Benedetto XVI lo ribadisce:
«Sì, l’eros vuole sollevarci ‘in estasi’ verso il Divino, condurci al di là di
noi stessi, ma proprio per questo richiede un cammino di ascesa, di rinunce,
56
di purificazioni e di guarigioni» .
Come si vede, quando Teresa parla di ‘piacere’, godimento, ‘godere’, sia
nella dormitio spirituale che nella morte fisica, non fa altro che anticipare
57
quel che secoli dopo dirà il Magistero . Ma, al solito, le questioni escatolo-
giche qui possono essere solo accennate, ragion per cui conviene lasciar
_____________________________
54
Cf. TERESA D’AVILA, Libro de mi vida, c.16, 1s (Bettetini 222; Falzone 142s), cit. e
commentato al punto 4.4.
55
BENEDETTO XVI, litt. enc. Deus caritas est, n.4 (AAS 98 [2006] 220).
56
BENEDETTO XVI, litt. enc. Deus caritas est, n.5 (AAS 98 [2006] 221s).
57
Più avanti BENEDETTO XVI, litt. enc. Deus caritas est, n.10 (AAS 98 [2006] 226)
addirittura afferma: «L’eros di Dio per l’uomo - come abbiamo detto - è insieme to-
talmente agape. Non soltanto perché viene donato del tutto gratuitamente, senza al-
cun merito precedente, ma anche perché è amore che perdona. (...) Dio è in assoluto
la sorgente originaria di ogni essere; ma questo principio creativo di tutte le cose - il
Logos, la ragione primordiale - è al contempo un amante con tutta la passione di un
vero amore. In questo modo l’eros è nobilitato al massimo, ma contemporaneamente
così purificato da fondersi con l’agape». Ci pare che parlare di un eros di Dio per noi
uomini sia nota da tenere ben presente. Tutta l’enciclica è ricca di immagini similari,
tratte dalla mistica medievale, e testimonia la vera posizione cristiana nei confronti
dell’eros, ben lontana dal criptognosticismo delle versioni moderne. Un eros che ha
il suo culmine nella beatitudine post mortem, come si è letto in Teresa.

406
cadere questi spunti ed evidenziare un altro lato di questa nuova teologia
della morte, che Teresa espone nel Castello interiore; eccolo:
«Io so di una persona la quale, prescindendo dal fatto che voleva morire per
vedere Dio, lo desiderava anche per non sentire continuamente la pena pro-
curatale dalla consapevolezza di essere stata tanto ingrata verso Colui al
quale doveva ed avrebbe dovuto sempre moltissimo. Le sembrava infatti che
le iniquità di nessuno potessero equiparare le sue, convinta che non vi fosse
alcuna creatura che Dio avesse sopportato così a lungo e che avesse favorito
di tante grazie come lei. Per quanto riguarda la paura dell’inferno, queste a-
nime non ne hanno affatto. Quella di perdere Dio a volte dà loro grande an-
goscia, ma sopravviene di rado. Tutto il loro timore è che Dio ritiri da esse
la sua mano, così che abbiano ad offenderlo e ricadano in quello stato mise-
rabile in cui si sono viste per qualche tempo. Della propria pena come della
propria beatitudine nessuna preoccupazione, e se desiderano di non stare
molto in Purgatorio è più per non essere allora lontane da Dio che per le pe-
58
ne che si dovranno sopportare» .
Il tono ricorda quello con il quale Agostino racconta di come, da ragaz-
59
zo, rubò delle pere . Sia quello che questo passo suonano, esagerati, spro-
porzionati rispetto alla realtà dei fatti: davvero non esiste nessuno che abbia
commesso peccati più gravi di una monaca di clausura? Il punto, al solito, è
che questi passi suppongono esperienze che chi li legge non ha e soprattut-
to non crede possibili. Ora, l’esperienza in quanto tale non si può comuni-
care: o se ne vive una analoga, ed allora si capisce, oppure si può contare
solo sul tentativo di ri-dirla razionalmente, che però costerà una inevitabile,
forte perdita di pregnanza e precisione. Qui, per capire non quel che sente
Teresa ma ciò che di esso lei riesce a dirci, dobbiamo immaginarci il moto
di un pendolo. Questi, oscillando, genera archi di circonferenza con il me-
desimo angolo ma di lunghezza crescente nella misura in cui ci si allontana
dal fulcro. Se ora immaginiamo che questo corrisponda all’azione in quanto
tale e l’asta del pendolo alla profondità della vita spirituale, allora lo stesso
movimento pare poco rilevante a una vita spirituale superficiale ma molto
più serio ad una più profonda. Questa diversità può darsi anche nella mede-
sima persona: da giovane Agostino ride del furto, da adulto spende tre pagi-
ne per mostrarne la perversità.
Semplificando un po’ le cose, questo passo di Teresa ci pare voglia dire
che, per vivere la morte in un certo modo, non è necessario temere l’inferno
né desiderare la beatitudine, bensì amare Dio. Questo ricorda da vicino ciò
che scrive il nostro santo Padre Basilio il Grande:

_____________________________
58
TERESA D’AVILA, Castillo interior, mor.VI, c.7, n.3 (Bettetini 1368; Falzone 422).
59
Cf. AGOSTINO, Confessiones, II, 4,9-6,12 (CCsl 27, 21ss; Carena 49-53).

407
«Vedo queste tre diverse disposizioni d’animo di fronte all’assoluta necessi-
tà della obbedienza: o ci allontaniamo dal male per timore del castigo, e ci
troviamo allora nella disposizione d’animo propria degli schiavi, oppure,
aspirando ai guadagni della ricompensa, osserviamo i comandamenti per il
vantaggio che ne ricaviamo, e siamo così simili ai mercenari, o ancora ope-
riamo per il bene in se stesso e per amore di Colui che ci ha dato la Legge,
lieti di essere stati trovati degni di servire un Dio talmente glorioso e buono,
60
e ci troviamo così nella disposizione d’animo dei figli» .
E Basilio illustra bene anche la dinamica profonda del passo di Teresa:
«L’amore per Dio non lo si può insegnare. Non abbiamo imparato da altri,
infatti, né a rallegrarci della luce né ad avere cara la vita, né altri ci hanno
insegnato ad amare chi ci ha generato o allevato. Così dunque, anzi a mag-
gior ragione, non è qualcosa di esterno che ci può insegnare il desiderio di
Dio. Ma nella formazione stessa dell’essere vivente, intendo dire dell’uomo,
viene immerso dentro di noi un qualche germe del logos, che contiene in se
stesso la predisposizione alla familiarità con il bene. Spetta alla scuola dei
comandamenti di Dio, una volta accolto questo germe, coltivarlo con cura,
nutrirlo con sapienza e portarlo a compimento mediante la grazia di Dio.
(...) È necessario sapere comunque che quest’opera è unica, ma che in po-
tenza porta a compimento e comprende in se stessa ciascun comandamento.
Dice il Signore: Chi mi ama osserverà [gr. têrêsei; lat. servabit; custodirà] i
miei comandamenti (cf. Gv 14,23); ed ancora (Mt 22,40): “Da questi due
comandamenti dipendono tutta la Legge ed i Profeti”. (...) E diciamo innan-
zitutto che per tutti i comandamenti che ci sono stati dati da Dio abbiamo ri-
cevuto in anticipo da lui anche le forze necessarie per compierli e quindi
non dobbiamo né inquietarci, come se ci fosse chiesto qualcosa di inaudito,
né inorgorglirci, come se il nostro apporto fosse maggiore di quanto ci è sta-
to dato. Se mediante queste forze ci comportiamo rettamente e come si con-
viene, vivremo una vita santa, secondo virtù; se invece ne roviniamo l’azio-
ne, veniamo trascinati al male. E questa è la definizione del male: l’uso mal-
vagio e contrario al comandamento del Signore di quanto ci è stato dato da
61
Dio in vista del bene» .
Come si è letto poco sopra in Teresa, e come già insegnava Ambrogio,
una buona morte è frutto di una buona vita. Dove però ‘buona vita’ non ha
più solo senso morale (come è scritto nel Salmo 34,15 vulg.: “Fa il bene ed
evita il male”) ma soprattutto significato affettivo (come è detto in Deute-
ronomio 6,5 TM: “Amerai il Signore Dio tuo in/con tutto il tuo cuore, in/con
tutta la tua anima/vita, in/con tutte le tue forze/capacità”, ed anche in Levi-
tico 19,34: “Amerai il forestiero dimorante presso di voi come te stesso”).
Ma l’esperienza, quella vera, non finisce mai di stupire...

_____________________________
60
BASILIO MAGNO, Regulae fusius tractatae, prol., 3 (PG 31, 896; trad. it. 67).
61
BASILIO MAGNO, Regulae fusius tractatae, reg.2, 1 (PG 31, 889; trad. it. 78s).

408
«Ciò che più di tutto mi sorprende è questo. Voi avere visto i travagli e le
afflizioni causati a queste anime dal desiderio di morire per andare a godere
di nostro Signore. Adesso invece è così grande l’ansia ch’esse hanno di ser-
virlo, di lodarlo e di giovare, potendo, a qualche anima, che non solo non si
augurano di morire ma desiderano di vivere lunghi anni, anche in mezzo ad
enormi travagli, nel tentativo di far sì che il Signore venga glorificato a cau-
sa del loro sacrificio, sia pure solo di poco. E se anche avessero la certezza
che, appena uscite dal corpo, andranno a godere di Dio, non se ne curereb-
bero, come non si curano di pensare alla beatitudine dei santi: in quel mo-
mento non la desiderano. La loro beatitudine consiste nel tentar di aiutare in
qualche modo il nostro Dio crocefisso, specialmente quando vedono fino a
che punto sia offeso e ome pochi cerchino davvero la sua gloria, staccati da
tutto il resto.
È vero che a volte, dimentiche di ciò, sono riprese dall’amoroso desiderio di
godere di Dio e sospirano di uscire da quest’esilio, soprattutto considerando
quanto lo servano poco, ma non tardano a tornare nello stato di prima e,
consaevoli di aver sempre Dio con sé, si sentono soddisfatte ed offrono a
Sua Maestà l’accettazione della vita come il dono più costoso ch’esse gli
possano fare. Non hanno alcun timore della morte, non più che di un soave
rapimento. Ciò perché Colui che dava prima quei desideri accompagnati da
estremo tormento dà ora questi altri di cui ho parlato. Sia per sempre bene-
62
detto e lodato!»
Siamo al capitolo terzo delle settime dimore, a poche pagine dalla fine
del Castello interiore, quindi davvero al culmine del percorso spirituale che
Teresa ha vissuto. E siamo di fronte allo stravolgimento completo di quanto
letto fin qui. Una buona morte è frutto di una buona vita, si diceva prima; a
quanto pare, però, una buona vita non porta a desiderare la morte ma la vita
perché il Signore sia più lodato. È cosa diversa da quel che scrive Paolo in
Filippesi: l’apostolo preferirebbe morire, ma il vivere tornerebbe a vantag-
gio dei fratelli e così non sa cosa scegliere; invece Teresa lo sa, vuole vive-
re, e non per il vantaggio dei fratelli ma ad maiorem Dei gloriam. In questa
prospettiva, la morte non è più un beneficium ma un ostaculum, perché non
permette al santo di far sì che Dio venga lodato maggiormente. È curioso,
perché è Dio che fa morire e quindi sembrerebbe che ostacoli la Sua stessa
opera. È coerente, perché non l’uomo ma Dio converte i cuori, quindi, se fa
morire il santo, significa che tenerlo in vita non sarebbe servito a niente.
La ricognizione potrebbe proseguire a lungo, perché molti sono i dettagli
non riferiti, che potrebbero dare sapore diverso ad un quadro che però non
verrebbe modificato nelle sue linee di fondo. E siccome lo spazio dedicato
a Teresa non è stato poco, conviene riassumere quel che è emerso.

_____________________________
62
TERESA D’AVILA, Castillo interior, mor.VII, c.3, nn.6s (Bettetini 1464ss; Falzone
482s).

409
Dopo Teresa la mistica non sarà più la stessa. L’afflato esperienziale, di
per sé sempre presente ma finora piuttosto sottotraccia, ne diventerà la cifra
fondamentale. Per quel che ci riguarda, ciò ha diverse conseguenze. In pri-
mis, la buona morte ritorna prepotentemente ad essere frutto di una buona
vita, anche se questa però non tende ad essa. In secundis, la morte diventa
addirittura fonte di piacere, godimento, un’idea che, se per certi versi ricor-
da l’epéktasis di Gregorio di Nissa o certi Sermones di Bernardo di Chiara-
valle, non era però mai stata espressa in termini così forti (da qui una serie
infinita di distorsioni facilmente immaginabili). Infine, che l’atteggiamento
più corretto verso la morte non è né temerla né desiderarla, bensì subordi-
narla al volere di Dio ed al bene dei fratelli, un atteggiamento dal quale tra-
spare l’ignaziana indifferentia e quindi l’influenza dei direttori gesuiti. Da
notare che la novitas tracciata da questi elementi è in realtà del tutto in li-
nea con il passato: Ambrogio traspare quasi ovunque, così come Agostino
o Basilio. Questo non in virtù di erudizione bensì di una esperienza analoga
e condivisa, una comunione spirituale che è l’anima della mistica.
Ciò detto, non ci resta che passare a quel che insegna il più grande amico
spirituale di Teresa, Giovanni della Croce.
Come Teresa, anche Giovanni si muove in una cornice del tutto tradizio-
nale come mostra, tra i tanti, questo brano della Salita al Monte Carmelo:
«Quando san Giovanni dice (Gv 1,13): “Costoro non dal sangue, non dalla
volontà della carne né dalla volontà dell’uomo ma da Dio sono nati”, è co-
me se dicesse: Dio dette il potere di divenire suoi figli, cioè di trasformarsi
in Lui, solo a coloro che non sono nati dal sangue, vale a dire dall’unione e
composizione di elementi naturali, e che non sono generati dalla volontà
della carne, cioè dal capriccio delle abilità e delle capacità della natura, né
dalla volontà dell’uomo, espressioni nelle quali viene incluso ogni modo di
giudicare e di comprendere con l’intelletto. A nessuno dunque di costoro
Dio ha dato il potere di essere suoi, ma a quelli che sono nati da Lui, a colo-
ro cioè che, morendo prima a tutto ciò che è proprio dell’uomo vecchio e ri-
nascendo per mezzo della grazia, si sollevarono al di sopra di se stessi fino
al soprannaturale, ricevendo dal Signore questa rinascita e filiazione supe-
riore a tutto ciò che si può concepire. Perciò il medesimo san Giovanni dice
in un’altra parte (Gv 3,5): “Nessuno che non sia rinato da acqua e Spirito
santo può vedere il regno di Dio”, cioè: Colui che non rinascerà nello Spiri-
to santo non potrà vedere questo regno di Dio che è lo stato di perfezione.
Rinascere nello spirito, in questa vita, vuol dire avere un’anima somiglian-
tissima a Dio in purezza, senza alcuna mescolanza di imperfezione. In tal
modo si può giungere per partecipazione di unione a trasformarsi puramente
63
in Dio, sebbene ciò non avvenga essenzialmente» ,

_____________________________
63
GIOVANNI DELLA CROCE, Subida del Monte Carmelo, II, 5, 5 (Obras, II, 82s; trad. it.
(segue)

410
passo che prosegue immediatamente con un’immagine che descrive la puri-
ficazione post mortem in termini del tutto analoghi a quelli del Damasceno
o di Massimo il Confessore:
«Se un raggio di sole colpisce una vetrata appannata da nebbia ed offuscata
da macchie, questa non potrà essere completamente rischiarata e trasformata
in luce, come avverrebbe se fosse tersa e monda da quelle macchie. Anzi,
tantomeno verrà illuminata quanto meno sarà libera da quei veli e da quelle
macchie, ed al contrario quanto più sarà priva di queste, tanto maggior luce
riceverà. Ciò accade non a causa del raggio ma della vetrata; se infatti que-
sta fosse completamente pura e tersa, il raggio l’attraverserebbe e la illumi-
nerebbe in modo tale da farla sembrare una cosa sola con esso e da farle
emanare la sua stessa luce. Se è vero che la vetrata, benchè sembri identifi-
carsi con il raggio, ne è diversa per natura, però si può dire che ella sia rag-
gio o luce per partecipazione. L’anima, come questa vetrata, è sempre inve-
stita dalla luce di Dio, o meglio, come ho detto, questa dimora in lei per na-
64
tura» .
Al solito, dobbiamo ignorare le derive escatologiche, ma non si può tace-
re che in questi passi Giovanni afferma esplicitamente la dottrina della dei-
ficazione per grazia dell’uomo, biblicamente descritta come ‘trasformazio-
ne’ ed ammessa non solo post mortem ma anche in statu viae, pur in misura
minore ed in modo transitorio. Né che l’accostamento tra la purificazione
65
in statu viae e quella post mortem è usuale in Giovanni . Ma, se l’ascesi
porta o coincide con la dormitio spirituale, se questa può essere detta ‘mor-
te’ e se, a sua volta, porta o coincide con la deificazione, allora la morte
spirituale è il frutto o la deificazione stessa dell’uomo (per grazia). Ora, i
primi due passi sono del tutto tradizionali, ma (almeno) ciò a cui conduce
no, dato che la dottrina della deificazione non è certo il cuore della dottrina
spirituale di allora. Sed de hoc satis. A noi preme scoprire qual è il pensiero
di Giovanni sulla morte fisica, come evento terreno finale.
______________________________
80s). Modifichiamo leggermente l’incipit per poter estrarre il passo dal contesto.
64
GIOVANNI DELLA CROCE, Subida del Monte Carmelo, II, 5, 6 (Obras, II, 83; trad. it.
81s). Si sono già letti il passo ed i suoi antecedenti patristici al punto 8.4.
65
Cf. p.es. GIOVANNI DELLA CROCE, Llama de amor viva B, str.1, n.24 (Obras, IV,
123; trad. it. 746): «Poche sono le anime in cui la purificazione avviene con tale in-
tensità; sono solo quelle che il Signore vuole elevare ad un superirore grado di unio-
ne. Egli infatti le dispone tutte con purificazione più o meno intensa a seconda del
grado al quale vuole elevarle e della loro impurità e perfezione. Le pene di cui stiamo
parlando sono simili a quelle del Purgatori, poiché come in questo regno gli spiritu si
purificano, così anche ora, in quanto permette lo stato presente, le anime vengono
sottoposte a purificazione perché possano diventare capaci di trasformarsi in Dio per
amore». Si noti quanto siano intrecciati i temi della purificazione e della deificazio-
ne, e come entrambe si diano sia in vita che dopo, mutatis mutandis, è ovvio.

411
Un primo spunto si può reperire nel secondo Cantico spirituale di Gio-
vanni. Queste composizioni poetiche (due) sono modellate sul Cantico dei
Cantici biblico: tra sposo e sposa vi è uno scambio che, al di là del senso
letterale, contengono profondi insegnamenti mistici. A noi interessa ciò che
Giovanni dice riguardo alla strofa 11 del secondo Cantico; eccola:
«Scopri la tua presenza, | mi uccida tua vista e tua bellezza,
sai che la sofferenza | di amore non si cura
66
se non con la presenza e la figura» .
Anche se nel prologo Giovanni promette brevità, il commento di questa
come delle altre strofe non è certo stringato; delle molte cose che vi si leg-
gono a noi interessa questo passaggio:
«Due sono i generi di vista che uccidono l’uomo, perché non può sopportar-
ne la forza e l’efficacia: quella del basilisco, alla cui vista dicono che si
muoia subito, e quella di Dio. Le cause però della morte sono molto diverse,
giacchè l’una uccide a motivo del grande veleno e l’altra per la immensa sa-
lute e per il bene di gloria. Non bisogna quindi meravigliarsi se l’anima vuo-
le morire alla vista della bellezza di Dio, onde goderne in eterno. Infatti, se
ella avesse solo un presentimento dell’altezza e della bellezza divina, per ve-
derla per sempre non desidererebbe soltanto una morte ma ne affronterebbe
con gioia mille, ed acerbissime, per goderla solo un istante; in seguito vor-
rebbe affrontarne altrettante per vederla un altro poco.
Onde spiegare meglio questo verso è necessario sapere che l’anima parla
condizionatamente quando dice ‘Mi uccida tua vista e tua bellezza’, cioè, se
non può vederla senza morire; in caso contrario non desidererebbe di essere
uccisa. La morte è una imperfezione naturale ma, dato che questa vita cor-
ruttibile dell’uomo non può stare insieme con quella incorruttibile di Dio,
67
l’anima dice ‘Mi uccida’» .
La seconda parte è molto interessante. In primis, ripresenta l’idea agosti-
niana della morte ‘naturale’: Giovanni la dice ‘imperfezione’, è vero, ma di
certo Agostino non avrebbe avuto niente da obiettare, anzi. In secundis, si
noti che non si parla genericamente di ‘morte’ ma di ‘essere uccisi’: ora, la
morte è problematica già di per sé, quando è ‘naturale’, a maggior ragione
se è provocata, ma lo diventa sommamente se chi la infligge è Dio, e per di
più ad un’anima amante. Qui l’ascesi pare orientata non ad una morte inte-
riore figurata ma a spingere l’Amato a commettere un vero e proprio omi-
cidio. Si rilegga l’inciso della strofa e si capirà che non si tratta di una no-
stra sovradeterminazione: l’amante chiede all’Amato di essere uccisa per-
_____________________________
66
GIOVANNI DELLA CROCE, Cantico espiritual B, str.11 (Obras, III, 189; trad. it. 494).
67
GIOVANNI DELLA CROCE, Cantico espiritual B, str.11, nn.7s (Obras, III, 248; trad. it.
557).

412
ché solo così lei potrà vederlo e gustarlo. Ed in questo senso va il commen-
to di Giovanni. Ora, una cosa è dire che l’ascesi porta alla morte ed un’altra
dire che si chiede a Dio di ucciderci. Si potrebbe pernsare che, in entrambi i
casi, si sia di fronte ad un’immagine reorica, la seconda forse un po’ esage-
rata ma comunque sempre figurata. Certo, Dio non uccide per farsi meglio
contemplare, è vero, però questo sforzo di ridurre lo ‘scandalo’ di una così
forte espressione rischia di non cogliere appieno il testo. Giovanni infatti ci
dice che l’altra causa di morte immediata è il veleno del basilisco, ed anche
se nessuno lo ha mai visto (per forza: non esiste...) lui crede che sia un a-
nimale vero e proprio. Anche i due generi di morte immediata sono dunque
reali, perché il basilisco uccide realmente e non per figura (nella prospetti-
va culturale di Giovanni, è ovvio).
Senza dubbio parlare di ‘essere uccisi’ da Dio lascia come minimo per-
plessi, e l’espressione è a dir poco ambigua. Ma, se si mette da parte il con-
tenente e ci si concentra sul contenuto, in realtà questo non è affatto nuovo
né sconvolgente. Non sta scritto forse (1Sam 2,6):
«Il Signore fa morire e fa vivere, scendere agli inferi e risalire»?
ed anche (Sal 104,29):
«Se nascondi il tuo volto, vengono meno, togli loro il respiro, muoiono e ri-
tornano nella loro polvere»?
Quindi, senza dubbio ‘essere uccisi da Dio’ è espressione mal formata e
da evitare, ma è assolutamente vero che Dio fa morire, e soltanto Lui. Né si
può dedurre da questo un’arbitrarietà, come se Dio ‘faccia morire’ a casac-
cio o per capriccio. L’amante di Dio sa che il suo Amato lo farà morire nel
momento esatto in cui raggiungerà il culmen del suo cammino spirituale,
per potergli attribuire il massimo dei meriti e poterlo ricoprire dei doni più
grandi. Non lo farà prima, per non privarlo di qualcosa che avrebbe potuto
raggiungere. Non lo farà dopo, per non privarlo di qualcosa che aveva rag-
giunto. Il giusto muore al momento giusto, nel modo giusto, nel luogo giu-
sto. Perché il suo Amato, il Signore, sa e può far tutto questo. Quando Gio-
vanni dice che l’anima chiede al suo Amato di ‘essere uccisa’, quindi, dice
semplicemente il vero. Se così non pare, forse è il caso di chiedersi a che
punto sia la nostra vita spirituale e quale il nostro rapporto con Dio.
Giovanni però aggiunge che l’anima parla così ‘condizionatamente’, vale
a dire ‘sotto condizione’, e spiega che questa condizione è il non poter ve-
dere Dio in statu viae. Se fosse possibile, il desiderio di ‘essere uccisa’ non
avrebbe ragion d’essere. Ora, anche se i nostri fratelli Ortodossi non sono
d’accordo, per noi cattolici poter vedere Dio così com’Egli è è un altro mo-
do di descrivere la deificazione, come è scritto (1Gv 3,2):

413
«Quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo
così come egli è»,
e siccome abbiamo già letto che per Giovanni la deificazione è possibile in
statu viae, pur in misura ridotta e transeunte, allora la condizione si riduce
in proporzione. E con essa anche il voler ‘essere uccisi’ da Dio.
La differenza tra Giovanni e Teresa è dunque forte, non solo perché lei è
più attenta al risvolto personale mentre lui recupera una certa ‘oggettività’,
ma anche perché Giovanni scrive cose che non troviamo in Teresa. Dob-
biamo però riconoscere che la brevità e rapsodicità della nostra esposizione
accentua una distanza che c’è ma in realtà non è poi così rilevante.
In questa direzione va, ad esempio, quel che Giovanni scrive poco dopo:
«All’anima amante la morte non può essere amara, poiché in essa trova ogni
sua dolcezza e diletto d’amore, non le può essere triste il ricordo, giacchè vi
trova ogni sua gioia, e non ne può sentire il peso e la pena, poiché essa è il
termine di tutti i suoi affanni e di tutte le sue pene, ed il principio di ogni
bene. La tiene per amica e sposa, e si rallegra al ricordo come se si trattasse
del giorno delle sue nozze. Desidera poi l’ora della sua morte più di quanto i
re della terra desiderano i regni ed i principati. Di tal genere di morte dice il
saggio (Sir 41,3): “O morte! il tuo giudizio è buono per l’uomo che si trova
in necessità”. Se è buona per l’uomo che ha bisogno delle cose di questa vi-
ta, quantunque essa non lo soccorra ma anzi lo spogli anche di quanto pos-
siede, quanto migliore sarà la sua sentenza per l’anima bramosa di amore,
come la presente, la quale grida per averne di più? Infatti la morte non solo
non la spoglierà di quanto possiede, ma le darà il compimento dell’amore
che desidera e la renderà soddisfatta in tutte le sue necessità.
A ragione dunque ella ardisce dire senza paura ‘Mi uccida la tua vista e tua
bellezza’, ben sapendo che, nel momento stesso in cui vedrà la divina pre-
senza, sarà in essa rapita, assorta e trasformata diventando bella, abbondante
di beni ed arricchita, come la stessa bellezza di Dio. Per tale ragione David
dice che (Sal 115,15): “La morte dei santi è preziosa agli occhi del Signore”.
Ciò non sarebbe possibile se essi non partecipassero alla sua stessa grandez-
za, poiché davanti a Dio niente è più prezioso se non ciò che Egli è in se ste-
so. Perciò l’anima, quando ama, non teme di morire, anzi lo desidera, men-
tre il peccatore ha sempre paura della morte, prevedendo che questa lo pri-
verà di tutti i beni e gli darà tutti i mali. David quindi dice che (Sal 33,22):
“La morte dei peccatori è pessima”, per cui, come afferma il saggio (Sir
41,1): “Per loro ne è amaro il ricordo”, poiché, amando molto la vita di que-
sto mondo e poco quella dell’altro, temono grandemente la morte. Ma l’ani-
ma che ama Dio vive più nell’altra vita che in questa, giacchè ella vive più
dove ama che dove anima (sic) e quindi tiene in poco conto la vita tempora-
68
le. Perciò dice ‘Mi uccida la tua vista ecc.’» .

_____________________________
68
GIOVANNI DELLA CROCE, Cantico espiritual B, str.11, n.10 (Obras, III, 249s; trad. it.
558s).

414
L’intera prima metà del passo è del tutto in linea con l’orientamento più
diffuso e, se ci si permette di dirlo, anche più ‘facile’ a dirsi e capirsi: per i
giusti la morte non è nemica perché elimina dolori e sofferenze ed introdu-
ce alla gioia eterna. La seconda parte offre anche l’altro versante: per i pec-
catori non può che essere cattiva, perché priva dei beni mondani e anticipa
le pene infernali. Come si diceva sopra, la distanza di Giovanni dal filone
principale della riflessione sulla morte non è poi così evidente: Agostino ed
Ambrogio, per esempio, avrebbero condiviso queste affermazioni. Ciò però
non significa che gli scostamenti non siano decisamente marcati.
Innanzitutto Giovanni (come già Teresa) non parla di anime ‘giuste’ ma
‘amanti’: le anime che non temono la morte, anzi la desiderano, sono quelle
che amano Dio e non le anime che seguono pratiche ascetiche mortificanti.
Non che queste siano inutili, tutt’altro, hanno un ruolo importante agli inizi
del cammino spirituale; ma si arriva a desiderare la morte non per le molte
flagellazioni, veglie e digiuni ma per amore per Dio. Perché questo, come
scrive Basilio, non si impara studiando né acquista con questa o quella pra-
tica: è un dono di Dio, che attiva una capacità naturale insita nell’uomo. In-
vece le regole, le pratiche e le finalità dell’ascesi sono facili a spiegarsi e
capirsi: tutti possono farlo, praticarle un po’ meno, ma in fondo è questione
di costanza e volontà. Quindi possiamo dire che per Giovanni vi sono tre
modi di vivere la morte: quello dei peccatori, quello dei ‘giusti’ asceti e
quello degli amanti. Il primo frutta paura pura e semplice, il secondo porta
timore mescolato a sollievo, il terzo è gioia e felicità.
Quest’ultimo passaggio lo si può ricavare da quel che nel brano si legge
riguardo alla deificazione. Accanto all’ormai familiare ma un po’ vago ‘tra-
sformata’ Giovanni qui descrive l’anima deificata come ‘assorta’, ‘rapita’,
‘bella’, ‘arricchita’, ‘abbondante di beni’, e questo perché ‘partecipa’, vale
a dire condivide, fruisce delle analoghe qualità di Dio. Purtroppo dobbiamo
guardarci dalle questioni antropologiche come da quelle escatologiche, per-
ciò non possiamo andare oltre. È però del tutto evidente che questa prospet-
tiva è molto lontana da quella ‘meritoria’ più diffusa, anzi, nella misura in
cui la deificazione è fuori della nostra portata (ossia completamente), non è
sensato parlare di ‘merito’ tout court; come insegna Massimo Confessore:
«La grazia della deificazione (tês théseôs) è in realtà senza relazione, poiché
nella natura (umana) non esiste una potenza capace capace di essa (dektikê
eautês), altrimenti essa non sarebbe più una grazia ma la manifestazione di
una facoltà (energheías) secondo la sua potenza naturale. In tal modo, se la
deificazione avvenisse secondo una potenza naturale, non sarebbe miracolo-
so (parádoxon) ciò a cui si arriva. Come un’opera (ergon) conseguente alla
sua natura, la deificazione non sarebbe più un dono di Dio e si potrebbe giu-
stamente chiamare l’uomo Dio per natura, e lo sarebbe. Perché questo altro

415
non sarebbe che la potenza naturale di ciascun essere, o meglio movimento
69
irreprensibile della sua natura verso la (sua) pienezza» .
Qui emerge con estrema chiarezza e precisione quanto sia diverso (e po-
co fondato) ritenere di raggiungere la beatitudine per ascesi invece che per
grazia; e perciò anche quanto lontano sia l’atteggiamento verso la morte nel
primo caso o nel secondo. Sono questioni alle quali dedicheremo il capitolo
quattordicesimo, quindi adesso non conviene approfondirle più di tanto, pe-
rò da questa (ovvia) differenza Giovanni trae conclusioni che invece è op-
portuno esaminare qui. In un’altra opera infatti scrive:
«Bisogna ricordare come la morte naturale delle persone giunte a tale stato
(di purificazione), benchè apparentemente sia simile a quella delle altre, ne è
però molto diversa per le cause che la producono e per il modo in cui avvie-
ne.Infatti, se le altre muoiono per malattia o vecchiaia, esse, pur morendo
durante una malattia o nel pienezza degli anni, non sono strappate alla vita
se non da qualche impeto o incontro amoroso più sublime, potente e forte
dei precedenti, quindi capace di rompere la tela e di portarsi via il gioiello
dell’anima.
E così la morte di costoro è dolce e soave più di quanto non sia stata la loro
vita spirituale, poiché essi muoiono a causa di rapimenti sublimi ed incontri
gustosi maggiori di quelli avuti in passato, giacchè sono come il cigno che
vicino a morte canta più dolcemente. Perciò David dice (Sal 115,15) che:
“Preziosa è agli occhi di Dio la morte dei sui giusti”, poiché in essa si con-
centrano tutte le ricchezze dell’anima, i cui fiumi di amore sboccano nel ma-
re, fiumi che sono tanto larghi e spaziosi da sembrare il mare. Ora si riuni-
scono i primi e gli ultimi tesori per accompagnare il giusto che parte per il
suo regno, mentre dai confini della terra riecheggiano, come dice Isaia, le
70
lodi in suo onore (cf. Is 24,16)» .
In questo brano Giovanni non si limita (se ci si passa l’espressione) a di-
re che la stessa morte è dolce per i giusti e (aggiungiamo noi) amara per gli
altri: si tratta di due morti diverse perché hanno due cause diverse. Quella
di chi non è giusto è fisiologica, quella di chi è santo è un eccesso d’amore.
Quest’eccesso si riverbera sul corpo e genera effetti analoghi a quelli fisio-
logici, ma è solo un’apparenza: come dice Giovanni, ‘apparentemente’ so-
no simili. Non è il caso di stringere troppo questo spunto, però non possia-
mo tacere che offre una bella spiegazione alla morte di bambini innocenti o
di giovani nel fiore dell’età, evento questo a cui si riferisce Giovanni stes-
so. La ragione ultima di queste morti ‘innaturali’ sta nella tempistica con la
_____________________________
69
MASSIMO IL CONFESSORE, Ambigua, 15 (PG 91, 1237 A-B; trad. it. nostra).
70
GIOVANNI DELLA CROCE, Llama de amor viva B, str.1, n.30 (Obras, IV, 127s; trad. it.
750s). Come il Cantico espiritual, anche quest’opera è in forma di commento ad una
poesia: in questo caso però non è necessario leggere la strofa.

416
quale Dio dà a ciascuno la sua morte, ossia il momento in cui raggiunge il
culmen della propria vita spirituale o, se si preferisce, il massimo ottenibile
dalle scelte compiute. Ma si tratta di questioni alle quali dedicheremo il ca-
pitolo sedicesimo. Qui conviene limitarci al fatto che, per i santi ancora in
statu viae, la morte fisiologica è solo un riverbero di quella spirituale, ed è
questa che permette loro di vivere quella fisica come una liberazione. Non
è difficile, anche qui, capire quanto questo status interiore sia diverso da
quello di chi invece centra la sua vita spirituale sulla rinuncia o, peggio, sul
disprezzo della vita fisica, come in tanti criptognosticismi odierni.
Che in effetti si tratti di due morti diverse è definitivamente confermato
da un altro passo, tratto stavolta dal Cantico spirituale; prima però dobbia-
mo leggere la strofa della quale è parziale commento:
«Tutti color che vagano | mille grazie di Te mi van narrando
e tutti più mi piagano | mi fa quasi morire,
71
un non so che che dicon balbettando» .
Giovanni inizia il commento rilevando che l’amore porta delle sofferen-
ze, proporzionate al genere di ‘notizia’ che l’amante ha dell’Amato. Distin-
gue tre tipi di sofferenza. La prima è assimilabile ad una ferita, dolorosa ma
che passa presto. La seconda è come una piaga, una ferita infetta il cui do-
lore, oltre ad essere più intenso, ha anche una durata decisamente più lun-
72
ga . La terza Giovanni la descrive così:
«La terza specie di pena nell’amore è simile alla morte, il che equivale ora
ad avere come una piaga infistolita, anzi, l’anima stessa è divenuta una pia-
ga purulenta, e vive morendo finchè l’amore, uccidendola, non le faccia vi-
vere vita d’amore, trasformandola in amore. Questa morte di amore è causa-
ta da un sublime tocco di notizia sulla divinità, la quale è quel ‘non so che’
di cui si parla in questa strofa e di cui ‘dicon balbettando’. Il tocco non è
continuo né grande, poiché altrimenti l’anima si separerebbe dal corpo, ma
dura poco; e l’anima sta sul punto di morire d’amore, e tanto più muore
quanto più si accorge che non finisce di morire per amore. Questo di chiama
‘amore impaziente’; se ne parla nel Genesi, dove si legge che in Rachele il
desiderio di aver figli fu tanto da spingerla a dire al suo sposo Giacodde
(Gen 30,1 vulg.): “Dammi dei figli, altrimenti morirò”. Ed il profeta Giobbe
dice (Gb 6,9 vulg.): “Chi mi darà che colui che ha cominciato l’opera la
73
conduca a termine?”»

_____________________________
71
GIOVANNI DELLA CROCE, Cantico espiritual B, str.7 (Obras, III, 188; trad. it. 494).
72
Cf. GIOVANNI DELLA CROCE, Cantico espiritual B, str.7, nn.2s (Obras, III, 229s; trad.
it. 539).
73
GIOVANNI DELLA CROCE, Cantico espiritual B, str.7, n.4 (Obras, III, 230s; trad. it.
539s). Abbiamo omesso il testo latino delle citazioni bibliche.

417
L’amore impaziente di Giovanni ricorda da vicino il ‘muoio perché non
muoio’ di Teresa, e i due amici avranno certo parlato tra loro di questo sen-
74
tire . Ma per capire questo passo bisogna ricordare che è scritto (Qo 1,18):
«Molta sapienza, molto affanno; chi accresce il sapere, aumenta il dolore»,
dal che si capisce il significato di ‘notizia’ ma soprattutto la dinamica pro-
fonda che unisce i versanti spirituale e fisiologico di questa morte sui gene-
ris. In statu viae il tocco di Dio, sperimentato in misura ridotta e tempora-
nea, aumenta la nostra conoscenza saporosa di Lui e quindi l’amore (nihil
amatum nisi cognitum): questa è la morte o dormitio spirituale. Ma se tale
tocco si fa appena più forte e/o prolungato provoca un così forte desiderio
di uscita da sé per entrare in Lui da causare la morte fisica. All’esterno ciò
non appare, perché gli effetti corporei sono gli stessi della comune morte
fisiologica, ma è solo apparenza. Naturalmente il santo che muore in questo
modo, ossia d’amore, non rimpiange la vita né si lamenta di morire, ma non
perché odi la prima o desideri la seconda. L’amante vuole solo l’Amato.
Poiché gli spunti emersi sono ormai molti, conviene fermare qui l’analisi
e sintetizzare i risultati raggiunti. In primis, è da evidenziare che, forse più
ancora di Teresa, Giovanni è ben saldo nella visione più tradizionale e dif-
fusa della morte: talvolta la sintonia con Ambrogio ed Agostino è davvero
notevole. In secundis, come ad integrazione di quella concezione, Giovanni
pone il discorso sulla morte in strettissima correlazione con la purificazione
(ante e post mortem) da un lato e con la deificazione per grazia dall’altro:
questa è sicuramente una novitas sia nel contesto prossimo che in quello
remoto. In tertiis, e stavolta come contraltare, Giovanni distingue due cause
di morte fisica, una ‘naturale’, meramente fisiologica, ed una spirituale, che
è provocata da un eccesso d’amore dell’anima per Dio, il quale, a sua volta,
la tocca in modo molto profondo: esteriormente non distinguibili, perché di
effetto analogo, hanno ovviamente radici e ripercussioni interiori profon-
damente diverse. Infine, si deve ricordare il linguaggio di Giovanni che, se
da un lato è del tutto comune e classico, da un altro veicola spesso concetti
originali e talvolta non esita a coniare espressioni nuove, come ad esempio
‘essere uccisi’ da Dio. Senza dubbio tutto questo risente molto di un afflato
spirituale assai profondo, ma bisogna guardarci dal considerare quel che si

_____________________________
74
Cf. p.es. GIOVANNI DELLA CROCE, Poesias, Vivo sin vivir en mi (Obras, IV, 320ss;
trad. it. 1043s), che già dal titolo rivela la grande affinità spirituale con Teresa. In ve-
rità tutte le Poesias di Giovanni confermano questa sintonia, ed in più ne mostrano la
immensa sensibilità: cf. pes. (uno tra i tanti) GIOVANNI DELLA CROCE, Poesias, Super
flumina Babylonis (Obras, IV, 336ss; trad. it. 1057ss), dolcissima parafrasi persona-
lizzata del Sal 137.

418
è letto semplicemente il contributo di una persona rara a favore di persone
ugualmente rare. È vero che non ce ne sono state molti Giovanni della Cro-
ce o Teresa d’Avila nella storia della Chiesa, ma certo nostro Signore non li
ha suscitati per il gusto di farci vedere quanto è bravo. Come si è già detto
al capitolo cinque, ai successori degli apostoli è dato di custodire la rettitu-
dine della fede, ai santi in generale di custodire la vitalità della fede, ai san-
ti mistici in particolare di adattare tale vitalità alle mutevoli condizioni esi-
stenziali dei fedeli. Quindi, è vero che Teresa e Giovanni prospettano mete
alte, ma solo con aspettative simili si può progredire nella fede. Se qualcu-
no obietta che queste son cose da eroi e non da persone normali, si rispon-
derà che, se non si vuol fare gli eroi, allora non si può fare i cristiani.
Volendo poi riassumere quanto è emerso in tutto questo punto, dobbiamo
rilevare che la polemica suscitata da Lutero ed in genere dai Riformati si è
rivelata irrilevante. Non solo Teresa e Giovanni, ma persino chi si confron-
ta apertamente con loro, Erasmo, non ritiene rilevante il loro contributo sul-
la teologia della morte. Di tale polemica in effetti traspare solo un’esigenza
forte, a tratti quasi feroce, di una serietà spirituale rara allora come oggi.
Per capire la portata di quel che si è letto in Teresa o Giovanni bisogna ri-
cordare che in ogni loro chiesa vi sono ancora decine e decine di cappelle
dove si celebrano in contemporanea decine e decine di funzioni, spesso con
catafalchi e bare. Affianchiamo quest’immagine all’idea di morte ‘per amo-
re’ e sarà chiaro il senso della Riforma cattolica. Affianchiamo le loro paro-
le agli orrori della Guerra dei Trent’anni e ne scopriremo l’alterità sconvol-
gente, exemplum dell’opposizione tra chi serve Dio e chi il nemico.
* * *
Questi capitoli ‘storici’ hanno il compito di descrivere l’evoluzione della
teologia della morte e per questo qui ci si è concentrati su Erasmo, Teresa e
Giovanni, ma non si può assolutamente tacere che il courant théologique e
popolare è su tutt’altre posizioni. Per quel che riguarda la riflessione teolo-
gica di scuola, essa si rivela molto sensibile alle ricadute della scoperta del-
le Americhe e delle guerre di religione. Francisco de Vitoria (1486-1546) è
molto influenzato della situazione degli amerindi e, nella sua riflessione po-
litica, sostituisce l’idea medievale di christianitas con quella di ‘comunità
universale del genere umano’, dalla quale deriva l’idea di un diritto ‘delle
genti’ embrione dell’odierno diritto internazionale. Ma la sua teologia della
morte è ancora quella del sec.XIII, così come quella di Domingo de Soto
(1494-1560), Francisco Suarez (1548-1617) e Roberto Bellarmino (1542-
1621): quest’ultimo in verità polemizza molto con i Riformati ma, anche a
prescindere da qualche difetto di informazione, lo fa da posizioni assoluta-
mente classiche. Non è quindi esagerato concludere che, nel sec.XVII, si è
ancora fermi alle concezioni del sec.XIII, e nonostante una bufera non pic-

419
cola come la Riforma. Né è situazione che riguardi solo la teologia. La pre-
dicazione, gli scritti divulgativi, persino le opere di alcuni santi (ad esempio
Francesco di Sales) echeggiano fedelmente ciò che scrive Lotario di Segni
(1161-1216) nel De miseria humanae conditionis, più noti come Innocenzo
III e De contemptu mundi, un atteggiamento che troveremo anche molto
75
dopo, ad esempio in san Luigi Grignion de Monfort (1673-1716) .
Ora, mantenere la continuità con il passato è cosa positiva, ma bisogna
saperla distinguere dalla ripetitività; ricordare l’imminenza della morte e la
necessità di essere sempre pronti ad incontrarla è una cosa, insistere sul di-
sprezzo per tutto ciò che è terreno per evitare l’ira di Dio e le pene infernali
è un’altra; farlo nel sec.XII ha un senso, farlo nel sec.XVI tutt’un altro. So-
prattutto, dire questo a persone in grado di gestirle in modo spiritualmente
corretto, come i monaci del sec.XII ed i chierici del XIII, è profondamente
diverso dal ripeterlo in ogni modo ed occasione alle orecchie di chiunque,
colto o ignorante, capace o incapace di capire, magari per scritto e quindi
senza poter spiegare, mediare, adattare. Questo moderno ‘gettare le perle ai
porci’, dove al posto dei porci però ci sono solo ignoranti incolpevoli, non
può che generare profonde e pericolose distorsioni, che si aggiungono ed
alimentano quella causata dalla Riforma. Così, nonostante le parole di Te-
resa e Giovanni, nel sec.XVI cresce la già presente ossessione per la morte.
76
E nessuna ossessione è mai stata spiritualmente sana o utile .
Ma è giunto il momento di vedere cosa succede dopo.

12.5. La teologia della morte nelle sistemazioni


fino al sec.XVIII

Rispetto a quanto appena detto, in conseguenza delle vicende storiche e


sociali, i secc.XVII-XVIII apportano forti novità. Trattandosi di eventi ben
noti, non entreremo nei dettagli se non nella misura indispensabile ad affer-
rare senso e portata delle loro ricadute sull’atteggiamento verso la morte.
Il più eclatante è quel movimento intellettuale che va sotto il nome di ‘Il-
77
luminismo’ . Caratterizzato da un’estrema ed anche un po’ ingenua fiducia
nel potere della ragione, l’Illuminismo confina la fede entro la sfera delle
emozioni e dell’affettività, che considera aspetti inferiori dello spirito uma-
_____________________________
75
Molto significativa è la ricca panoramica di testi in M. VOVELLE, Mourir autrefois,
Paris 1974, 57-78.
76
Cf. VOVELLE, Mourir, op. cit., 41ss, che riporta lettere molto significative.
77
Per un primo, ben informato quadro cf. A. TAGLIAPIETRA, Che cos’è l’illuminismo: i
testi e la genealogia del concetto, Milano 2000.

420
no, da tollerare se resta nel privato ma da combattere speculativamente e da
78
reprimere se diventa azione pubblica . Verso la morte gli Illuministi hanno
di solito un atteggiamento riduttivo: fanno di tutto per liberarla dalle ‘impo-
sture dei preti’ e trasformarla in un passaggio naturale, obbligato, sgradevo-
le ma di fronte al quale è bene chinare il capo con accettazione. In verità è
opportuno distinguere tra gli Illuministi che restano in qualche misura cre-
denti e quelli che invece abbandonano la fede o addirittura l’attaccano. Per
l’Illuminista credente, vivere bene la morte non significa pensare alla sua
imminenza, tantomeno predisporre pratiche funebri, bensì purificare i pro-
pri sensi, rinunciare a se stessi, coltivare le virtù insomma, secondo le loro
parole, vuol dire vivere la ‘morte mistica’. Però per lui ‘dio’ non è una per-
sona vivente e senziente, tantomeno un redentore, ma il semplice postulato
della ragione, il Grande Architetto dei massoni, il meccanico dell’universo
di Newton, insomma tutt’altra cosa dal Dio ebraico, cristiano e musulmano.
Per l’Illuminista non credente o ateo (come ad esempio d’Holbach), invece,
la morte è semplicemente la fine di tutto, ed alle ‘fole dei preti’ si può solo
replicare con l’ironia o la derisione: l’inferno esiste solo per chi ci crede, il
79
paradiso, se c’è, è d’una noia mortale... .
_____________________________
78
Cf. J.E. ROMILLY, s.v. Tolérance, nn.4.5, in AAVV, Encyclopédie, vol.16 (Neuchatel
1766, 394s; trad. nostra): «Da queste parole (i.e. una lunga citazione da “Il Contratto
sociale” di J.J. Rousseau) si possono trarre conseguenze legittime. La prima è che i
sovrani non devono assolutamente tollerare quei dogmi che sono opposti alla società
civile; essi non hanno, è vero, alcun diritto d’ispezione sulle coscienze, ma devono
reprimere quei discorsi temerari che potrebbero portare nei cuori la licenza ed il di-
sgusto per i doveri. Gli atei in particolare, che tolgono ai potenti il solo freno che li
trattiene ed ai deboli la loro unica speranza (...). Riguardo a coloro che, sotto il prete-
sto della religione, non cercano altro che creare problemi alla società, fomentare se-
dizioni e scuotersi via il giogo delle leggi: reprimeteli con severità, noi non siamo af-
fatto loro difensori. Ma non confondete quei colpevoli con coloro che non vi doman-
dano altro che la libertà di pensiero, di professare la credenza che ritengono migliore
e che vivono per altri versi come fedeli soggetti dello Stato. (...) Noi predichiamo la
tolleranza pratica e nient’affatto quella speculativa; e si capisce bene la differenza
che esiste tra tollerare una religione ed approvarla». Su questa voce cf. il commento
storico-filosofico di TAGLIAPIETRA, Che cos’è l’illuminismo, op. cit., 270-276. Da
una prospettiva teologico-spirituale, allora come oggi, il punto è che non si può esse-
re cristiani solo entro casa o solo quando non si crea problemi all’ordine costituito. I
martiri, di ieri e di oggi, ce lo insegnano: e per questo sono santi.
79
Cf. VOVELLE, Mourir, op. cit., 163-180, capitolo dal titolo significativo: Eliminer la
mort: la grande attaque du siècle des Lumières. In effetti i documenti che Vovelle
porta dimostrano che questo è l’intento dei Lumi. L’invito alla ‘morte mistica’ si leg-
ge in 164s, passo tratto dal Manuale delle anime interiori di Jean Nicolas Grou, cioè
un’opera scritta da un chierico per l’edificazione della fede. Superfluo indicare dove
Diderot, D’Alembert, Voltaire o D’Holbach abbiano espresso le loro tesi.

421
In effetti gli Illuministi rifiutano l’idea di un Dio rivelato ma non negano
l’esistenza di un Essere supremo, e per un complesso di argomenti razionali
di non piccola forza. In filosofia questa posizione è nota come ‘deismo’, o
prova razionale dell’esistenza di un ente supremo, che alcuni spingono sino
al ‘teismo’, o prova razionale dell’esistenza di un ente supremo personale e
creatore. La distinzione è di R. Cudworth (1617-1688), la sistemazione teo-
80
rica definitiva di I. Kant (1724-1804) , la capillare diffusione è opera della
Massoneria, nata alla fine del sec.XVIII per ‘mettere in pratica’ i principi
regolatori dell’Illuminismo. Il deismo è comune a quasi tutte le Obbedienze
81
massoniche , alcune giungono fino al teismo, ma nessuna insegna ad ama-
re quel che chiamano ‘Grande Architetto Dell’Universo’ né che questi ami
gli uomini o che li abbia redenti. Ciò ha ricadute importanti sulla concezio-
ne della morte e la sua manifestazione pubblica: i funerali non si tengono in
Chiesa ma in un’altra aula, seguono un rituale proprio, la salma è sepolta in
terra sconsacrata insieme agli atei, sulla tomba sono incisi solo la squadra e
il compasso, i segni della appartenenza alla Massoneria. Dunque, a partire
dal sec.XVIII non si è più di fronte ad un semplice distacco interiore o al
più delicato dissenso intellettuale ma ad una vera e propria gestione alterna-
tiva dell’evento-morte. Nel 1738 Clemente XII scomunica gli aderenti alla
Massoneria, ed il can.2335 del Codex Iuris Canonici del 1917 la ribadisce;
nel Codex del 1983, can.1374, non vi è più tale menzione, e si parla generi-
camente di ‘giusta pena’, ma il giudizio sulla Massoneria rimane a tutt’oggi
82
fortemente negativo .
_____________________________
80
Cf. p.es. I. KANT, Critica della ragion pura, Dialettica trascendentale, II, c.3, sez.7
(testo e trad. it. 910-925).
81
La massoneria è organizzazione rigidamente gerarchica. Un gruppo di ‘fratelli’ costi-
tuisce una Loggia, un gruppo di Logge un Oriente (solitamente uno per Stato), più
Orienti un’Obbedienza. Ogni Obbedienza è indipendente dalle altre ed è caratterizza-
ta da rituali propri, anche se affini. Un massone è ‘fratello’ soltanto se ‘lavora’ in una
Loggia, che è tale solo se riconosciuta da un Oriente, che è legittimo solo se gli altri
lo accettano come loro pari. La vita e le opinioni di ogni ‘fratello’ sono monitorati in
segreto, riferiti al Gran Maestro della Loggia e, nel caso, sanzionati; nel caso di scel-
te importanti il Gran Maestro dà qualcosa che è più di un consiglio... Come si vede,
gli aderenti alla se-dicente ‘Libera Muratoria’ non sono poi così... liberi.
82
In effetti l’omologazione sull’ateismo oggi è contestata: se alcune Obbedienze consi-
derano un ‘martire’ Giordano Bruno, altre lasciano libertà di fede ai loro membri ed
altre ancora iniziano le loro riunioni (‘tornate’) leggendo Gv 1,1-18, inno inequivoca-
bilmente cristologico. Sulle prospettive di un dialogo dal punto di vista massonico cf.
E. LAUDICINA, Il cappuccio e la tiara. Impossibile il dialogo tra Chiesa e Massone-
ria?, Foggia 2000, che però esprime opinioni minoritarie. Per il punto di vista eccle-
siale cf. lo status quaestionis tracciato da Z. SUCHECKI, La massoneria nelle disposi-
zioni del ‘Codex Iuris Canonici’ del 1917 e del 1983, Città del Vaticano 1997: non
(segue)

422
Una contrapposizione così forte e decisa però non può nascere dal nulla
e soprattutto non in poco tempo. In effetti, alla radice dell’Illuminismo vi è
almeno un altro movimento, non meno importante ma assai meno sotto i ri-
flettori dello storico: il rovesciamento della prospettiva dalla quale si guar-
da alla morte. Uno dei pochi studiosi di questo aspetto descrive questo ro-
vesciamento così: mentre nel sec.XII si può dire che l’atteggiamento verso
la morte è centrato sulla propria morte (‘morte di sé’), dal sec.XVIII in poi
83
il centro diventa la altrui morte (‘morte di te’) . Questo però è l’esito finale
di un percorso in due tappe che ci interessa seguire da vicino.
La prima inizia a far mostra di sé a partire dalla fine del sec.XVI, quindi
appena dopo Erasmo ed in contemporanea a Teresa e Giovanni. La morte è
ora rivestita di un fascino erotico. Se nelle danze macabre anteriori la morte
entra in contatto con il vivo per metterlo in guardia sull’approssimarsi della
sua venuta, ora danza per sedurlo, anzi violentarlo. L’amore di cui parliamo
è quello appreso nella Guerra dei Trent’anni, dove violentare le donne è un
diritto del soldato: e certo non è affare dolce o romantico. L’accostamento
tra amore e morte è onnipresente: quadri, sculture, pièces teatrali, ogni oc-
casione è buona per suggerire che la morte, come l’atto sessuale, è una tra-
sgressione, nel senso che rompe la serena e comprensibile quotidianità per
gettare l’uomo in un mondo irrazionale, incontrollato: il piacere per breve
tempo, la morte per sempre. La percezione che piacere e dolore sono sepa-
rati da un limite molto sottile ‘normalizza’ in molti l’esperienza brutale del-
la guerra, e così vita, piacere, erotismo, dolore e morte sembrano solo tappe
diverse di un unico percorso esistenziale e sensoriale che si può percorrere
avanti o indietro, a piacere. È collegamento valido ancor oggi: la produzio-
ne horror (cioè ‘orrore’) comprende fumetti, film, romanzi, videogames, e
frutta molti soldi e molta notorietà; per incrementare l’effetto si sono inven-
tati orchi, vampiri, zombie, di tutto insomma, purchè le scene siano sempre
più raccapriccianti. Il nesso diretto con il sesso è invece venuto meno, ma
soltanto perché il consumatore di questa ‘produzione’ ormai trae il suo pia-
cere direttamente dalle scene di violenza e di sangue.
Senza dubbio in questo vi è del patologico, se non altro perché innesca
effetti imitatorii ben noti alle polizie criminali. Ma su questo torneremo più
______________________________
solo l’ateismo, ovviamente, ma anche teismo e deismo sono incompatibili con la fede
cristiana, perciò o la Massoneria li rigetta o la censura rimane. A livello di singoli il
discorso è naturalmente più delicato, ma il CIC, can. 1374, si rivolge proprio a loro, e
l’interdetto che commina è molto vicino alla scomunica. Per i dettagli sulla storia e la
dottrina della massoneria cf. A. MOLA, Storia della massoneria italiana dalle origini
ai giorni nostri, Milano 1992.
83
Cf. ARIÈS, Essays, op. cit., 46-60. Si è cercato di rendere in italiano il gioco di parole
francese: “la mort de soi” è sostituita da “la mort de toi”.

423
avanti, quando avremo più elementi: ora dobbiamo esporre la seconda tap-
pa, che consiste nel mutamento del rapporto tra il moribondo e la famiglia.
Fin qui tutto è regolato dal testamento, con il quale il morente dispone che,
per la sua salvezza della sua propria anima, si pongano in essere una serie
di iniziative dal costo spesso esorbitante. La famiglia non si oppone, ma è
chiaro che, specie se non ricca, subisce un danno economico non irrilevan-
te. A partire dalla metà del sec.XVI le disposizioni funebri diventano sem-
pre meno invasive e sono affiancate da altre volte a regolare i lasciti, dispo-
sizioni che alla fine diventano praticamente le sole. Naturalmente non man-
cano le eccezioni, ma de facto quell’ossessione per la morte imperante nel
sec.XVI si allenta nel XVII e scompare nel sec.XVIII. Sulla causa di questo
slittamento ‘laicizzante’ le opinioni principali sono due. La prima la vede
nella progressiva decristianizzazione dell’Europa, e crede di poterlo prova-
84
re facendo notare che il fenomeno riguarda parimenti riformati e cattolici .
La seconda l’individua invece in una separazione: il testatore mette nero su
bianco la devoluzione delle sue fortune per evitare liti future, ma comunica
a voce le volontà sulla sua persona perché sa che sarano comunque rispetta-
te; a riprova, si nota che le pratiche ‘classiche’ non scompaiono nei fatti ma
85
solo nei testi . Sine praeiudicio melioris sententiae, ci pare che in entrambe
le ipotesi vi sia del vero. Di certo l’osceno spettacolo di massacri compiuti
in nome di Dio spinge molte persone ad allontanarsi dalla fede, ed il perpe-
tuarsi dei comportamenti che hanno portato alla Riforma non aiuta a restare
fedeli alla Chiesa: i fedeli preferiscono dunque tutelare i propri cari che non
investire in un’istituzione la cui autorevolezza diminuisce sempre più. Per
quel che ci riguarda, pur con le dovute eccezioni, non è difficile capire che
86
l’atteggiamento verso la morte non può che mutare .
Se uniamo questo quadro sociologico all’assalto frontale mosso alla fede
dagli Illuministi sarà subito chiara la diversità del contesto di questo punto
rispetto a quello precedente. Ma la misura esatta di questo scostamento, e la
_____________________________
84
È la tesi di VOVELLE, Mourir, op. cit., per totum, che offre molti documenti in ap-
poggio. Cf. anche IDEM, Piété baroque et déchristianisation en Provence au XVIII
siècle. Les attitudes devant la mort d’après les clauses des testaments, Paris 1973,
nel quale l’autore passa in rassegna ben 20.000 testamenti. Ci si può chiedere se tale
atteggiamento sia ugualmente diffuso nelle altre regioni della Francia, e se, a sua vol-
ta, questa sia exemplum del resto dell’Europa. Per motivi storici, sociali e religiosi, ci
pare di poter dire sommessamente di no. Ma non siamo davvero in grado di provare
questa sensazione, specie di fronte a documentazioni come quelle di Vovelle.
85
È la tesi di ARIÈS, Essays, op. cit., 51, ma soprattutto IDEM, L’homme devant la mort,
op. cit., II. La mort ensauvagée, per totum, anche questo con ricca documentazione.
86
Questo per tacere dell’immarcescibile tendenza magica verso la morte, per la quale
cf. p.es. i documenti riportati in VOVELLE, Mourir, op.cit., 43-46.

424
sua sanzione definitiva, viene da un accadimento oggi poco noto ma che al
tempo ebbe ricadute estremamente serie: il terremoto di Lisbona del 1755.
Il Portogallo è una nazione cattolica, molto, pari alla cattolicissima Spa-
gna. I suoi sovrani sono personalmente devoti, incoraggiano e proteggono
in ogni modo la Chiesa e le sue iniziative missionarie, specie dei gesuiti, in
patria, in Europa, nelle colonie. La mattina del 1 novembre 1755, Festa di
Ognisanti, quando tutti i cattolicissimi abitanti di Lisbona vanno a messa, la
terra sobbalza. Un violento terremoto di 8,5-8,7 gradi della scala Richter
distrugge in un lampo metà della città: case, chiese, palazzi zeppi di perso-
ne si accartocciano uno sull’altro. Dopo 6 eterni minuti gli scuotimenti ces-
sano, ma non è finita. Un’onda mostruosa, alta 15 metri, si rovescia sulle
macerie di una Lisbona devastata, abbatte quel che resta in piedi e ritiran-
dosi porta via migliaia di cadaveri. Ne viene un’altra, meno forte ma non
meno impietosa, una terza, appena più debole... E dopo l’acqua, il fuoco.
Tra le macerie scampate all’acqua scoppiano centinaia di incendi, con tem-
perature solari che vaporizzano migliaia di cadaveri e bruciano per cinque
giorni, ammorbando l’aria di fumo, di cenere, di lezzo di carne bruciata...
Quanti furono i morti? Nessuno lo sa. Lisbona contava allora circa 270.000
abitanti, si ritiene che ne siano scomparsi tra 60.000 e 90.000; a questi si
devono aggiungere gli almeno 10.000 morti in Marocco, le cui coste furono
devastate e danneggiate città interne come Fès e Meknès: Algeri fu distrutta
quasi del tutto. Lo shock fu tale che il re e moltissimi altri non riuscirono
più ad entrare in Lisbona, i danni economici così ingenti che l’espansione
coloniale portoghese finì quel giorno.
Allora come oggi, davanti a distruzioni di questa portata, dolori così im-
mensi e così senza rimedio, le domande esplodono, le risposte non bastano.
Perché lei è morto e lui no? Erano nella stessa casa, sotto lo stesso tetto,
crollato nello stesso momento... Perché quel vecchio si è salvato, lui che la
vita l’ha vissuta, e quel piccolo di pochi mesi, che appena ha visto la luce,
lui no? Il miscredente muore come il fedele, nello stesso momento e tra gli
stessi dolori: è così che ‘dio’ ripaga chi lo serve e adora? L’avvoltoio Vol-
taire si avventa su questa sciagura e tra un bicchiere di Porto ed un cosciot-
to di pollo coraggiosamente irride gli affranti credenti portoghesi nel Can-
dide. Che splendido esempio di ‘illuminata’ comprensione! Molto più uma-
no, Rousseau gli fa notare la mancanza di rispetto per il dolore altrui ed an-
che il contributo dell’uomo: palazzi troppo alti, troppo vicini, mal costruiti
ecc. La reazione è scontata: Voltaire vomita il suo fiele sull’ex-amico, che
replica con pari durezza. Si consuma così la rottura tra un Illuminismo ‘du-
ro’ da salotto ed uno più pragmatico e concreto. Ma a noi non interessano
queste polemiche bensì le ricadute che il disastro di Lisbona ha sulla visio-
ne della morte della fine del sec.XVIII: vediamole.

425
I teologi si chiedono quale sia la ragione teologica di quel che si è visto a
Lisbona: perché allora i disastri erano considerati manifestazione della col-
lera divina. In cosa i poveri portoghesi hanno mancato? In niente, si replica.
Ma può Dio trattare i giusti come gli ingiusti? No. Ed allora qual è il senso
di una tale disgrazia? Lo squallore voltairiano si commenta da solo, ma non
vi è dubbio che la teodicea leibniziana (‘questo è il miglior mondo possibi-
le perché altrimenti Dio, che è buono, lo avrebbe creato diverso’) non è in
grado di spiegare perché un Dio buono permetta tanto male. E se vien me-
no la corrispondenza tra buona azione e ricompensa, vien meno anche quel-
la tra vita buona e beatitudine, e con essa la visione classica del rapporto tra
87
vita e morte ed il significato spirituale di quest’ultima . Si noti che non è di
alcun aiuto, in questa ricerca, la prospettiva mistica di Teresa o Giovanni o
di tanti altri santi non menzionati, perché quella si muove in ambito perso-
nale mentre qui si cerca una risposta collettiva. Per la stessa ragione è poco
utile anche la Scrittura: il libro di Giobbe, ad esempio, è una risposta per-
sonale, non collettiva, come Qoelet, Siracide, Proverbi. Molti passi poi in-
segnano che Dio ripaga il bene con il bene ed il male con il male, l’opposto
di quel che si è constatato a Lisbona. Mescoliamo a queste profonde inquie-
titudini la scarsa autorevolezza del clero del tempo, gli attacchi di Riforma-
ti ed Illuministi e sarà facile capire la difficoltà della Chiesa. L’Europa del-
la fine del sec.XVIII è profondamente diversa da quella del sec.XVI.
Ma se si entra nei dettagli il quadro cambia, e talvolta non poco.
* * *
L’insieme dei credenti possiede altre dimensioni oltre a quella sociologi-
ca. Naturalmente questa non può essere ignorata, e talvolta può anche avere
un peso preponderante, ma in altri casi è vero il contrario, e comunque resta
sempre un aspetto tra molti, anche se di solito ci si ferma ad esso. Una delle
caratteristiche più interessanti di questa pluridimensionalità è che spesso le
_____________________________
87
Qui interessano le ricadute sulla visione della morte, ma è bene sapere che almeno un
gesuita, Gabriele Malagrida, nel 1756 attribuisce la colpa del disastro di Lisbona alla
monarchia portoghese. Nel 1757 Malagrida è espulso da corte con tutti gli altri gesui-
ti. Nel 1758 Malagrida ed altri gesuiti sono accusati di complottare contro il re ed ar-
restati: Malagrida è condannato (come eretico) nel 1759, strangolato e poi bruciato,
mentre altri gesuiti sono deportati in Brasile. Nello stesso 1759 la Compagnia è cac-
ciata dai domini portoghesi, 5 anni prima che in Francia (1764), 8 prima che in Spa-
gna (1767), 9 prima che a Parma (1768), 10 prima che a Malta (1769) e ben 15 anni
prima della soppressione ufficiale da parte di Clemente XIV (1773). Le coincidenze
esistono, è vero, ma anche le probabilità... In effetti il pamphlet di Malagrida è il pre-
testo per iniziare una politica progettata da tempo: seppur indirettamente, il disastro
di Lisbona è coinvolto nella soppressione della Compagnia di Gesù, cf. W.V. BAN-
GERT, Storia della Compagnia di Gesù, Genova 1990, 387-396, specie 391.

426
differenze confessionali sono poco rilevanti. La pastorale, ad esempio, deve
far fronte a problemi che sono più o meno gli stessi per cattolici, riformati
ed ortodossi: per questo l’ecumenismo funziona bene a questo livello e non
a quello teologico. Questa trasversalità è nota particolarmente evidente nel
caso della tensione mistica: l’Oriente ha senza dubbio una sensibilità parti-
colare per questa dimensione, ma anche tra i Cattolici non è affatto neglet-
ta. Verrebbe da dirlo riguardo all’ambiente della Riforma ma, pur senza ne-
gare diffidenze e distorsioni, si farebbe torto ad un movimento non piccolo
88
e non debole, che già soffre dell’esser poco e mal studiato . Per una serie
di ragioni, non ultima l’economia di questo saggio, dovremo limitare la ri-
cognizione a pochi autori cattolici tra i più esemplificativi.
Il primo di questi ci pare sia Johannes Scheffler (1624-77), che prende il
nome di Angelus a 29 anni, in occasione del passaggio dal luteranesimo al
cattolicesimo; ed essendo di Breslaw, capitale della Slesia, pubblica i suoi
89
scritti sotto il nome di Angelus Silesius . Leggeremo passi tratti dalla più
_____________________________
88
Il razionalismo dei Riformatori diffida fortemente di ogni tensione spirituale ed ancor
più dell’incontrollabile mistica; considera entrambe Schwärmerei, esaltazione fanati-
ca, termine che in Kant indica addirittura lo spiritismo di Swedenborg: cf. I. KANT, I
sogni di un visionario spiegati con i sogni della metafisica, II, c.1, Bari 1990, 386ss,
che poco prima (ibidem, I, c.3; trad. it. 380) scrive: «Se imperversa un vento ipocon-
driaco negli intestini, tutto sta nella direzione che prende: se va in giù, ecco un p...;
sale invece in su, eccone un’apparizione o una santa ispirazione». Ma, con buona pa-
ce di Kant e di chi la pensa come lui, ogni sincero credente vive un’altrettanto since-
ra vita spirituale, che talvolta comporta irresistibili spinte interiori; anche i Riformati,
ad un certo punto, hanno avuto bisogno di confrontarsi su queste esperienze. Cf. p.es.
lo studio di J. MALURA, «The reception of German contemplative literature in prote-
stant circles of late humanist Bohemia», Acta Comeniana 27 (2013) 75-102, che mo-
stra come dal sec.XVI in poi vi sia stata un’autentica esplosione della letteratura ‘spi-
rituale’, prima nei Paesi protestanti di lingua tedesca, poi in quelli di lingua ceca, in-
fine in Ungheria. Alcuni nomi per avere un’idea. Martin Moller (1547-1606) è attivo
nella bassa Slesia, scrive diverse opere e dei bellissimi inni, tutt’oggi in uso, musicati
da Bach: cf. E. AXMACHER, Praxis Evangeliorum: Theologie und Frömmigkeit bei
Martin Moller (1547-1606), Göttingen 19892. Johann Gerhard (1582-1637) è un teo-
logo luterano importante che insegna a Jena, le cui Meditationes sacrae sono apprez-
zate quanto i Commentari biblici o i più famosi e già ricordati Loci theologici. Le re-
lazioni tra questi autori ed il retroterra mistico cattolico sono purtroppo poco studiate,
mentre lo sono quelle di Gottfried Arnold (1666-1714), per il quale cf. P.C. ERB, Pie-
tist, protestants and mysticism. The use of late mediaeval spiritual texts in Gottfried
Arnold (1666-1714), Metuchen (NJ) 1989. Ma Arnold non ha nulla a che vedere con
Moller o Gerhard: p.es., una delle sue tesi è che il vero cristianesimo non si trova nel-
le grandi confessioni storiche ma tra eretici, scismatici, settari e mistici, accostamen-
to che la dice lunga su se e cosa abbia capito dei testi mistici che pure cita.
89
La bibliografia su Silesius è vastissima ed in continuo aumento; ottima introduzione,
seppur molto breve, è quella di M. VANNINI, Introduzione a Silesius, Fiesole 1992.

427
nota, Il Pellegrino cherubico, opera in versi nella quale l’atteggiamento di
Silesius verso la morte è molto chiaro:
«La morte è pur un bene: potesse averla un cane dannato | all’istante si fa-
rebbe seppellire ancor vivo.
Ci si augura la morte eppur la si fugge: | quello fa l’impazienza, questo il
timore.
Nessuna morte più gloriosa d’una che vita reca; | nessuna vita più nobile che
nascente da morte.
È la morte dei santi molto da Dio apprezzata: | dimmi, se lo sai, che tipo è di
morte?
Tal bene è morte per chi muore nel Signore, | tal male per chi, fuori da Lui,
rovina.
Poco si scrive sulle vite dei martiri, | ma le virtù manifeste nella loro passio-
ne | son lodate, apprezate e restano in lor vece,| poiché una bella morte orna
tutta la vita.
Pensa alla morte, cristiano! Perché tutt’altro pensi? | Nulla si pensa più util-
90
mente di come si morirà» .
Dopo aver letto così tanti testi, di Bernardo, di Teresa, di Giovanni, non
è difficile scorgere anche in Silesius una profonda continuità con il sentitus
non solo loro ma anche di Ambrogio o Agostino. Parimenti è facile coglie-
re l’assoluta irrilevanza, a questo livello, di molti dibattiti dogmatici. Però
in Silesius vi sono anche elementi nuovi. Ad esempio, l’identificazione tra
il mistico e Dio è decisamente più forte e, se così si può dire, abituale che
non in Teresa o Giovanni. Non è status transitorio, estatico, ma quotidiano,
quasi normale, che frutta un atteggiamento verso la morte stabilmente posi-
tivo, una ‘normalità’ che meglio appare in un’altra serie di versi:
«È cosa santa la morte: quanto più essa è forte | tanto più gloriosa ne diviene
la vita.
Mentre l’uomo sapiente muore anche mille volte | ottiene mille vite attraver-
so la verità.
Nessuna morte più santa che morire nel Signore | perdersi corpo ed anima
per aver bene eterno.
Morte da cui nessuna vita nuova rifiorisca | è più di tutte quella che la mia
anima fugge.
Non credo a morte alcuna: se muoio ad ogni ora | ogni volta ho trovato una
vita migliore.
Io muoio e vivo Dio: se eterno voglio vivere in Lui | devo anche in eterno
per Lui render lo spirito.
Non muoio e vivo io: Dio stesso muore in me | e ciò ch’io debbo vivere,
anch’Egli sempre vive.
_____________________________
90
ANGELUS SILESIUS, Il pellegrino cherubico, IV, 101-106 (trad. it. 270s). Purtroppo la
pur ottima versione non riesce a rendere la forza e la sonorità dei versi in tedesco.

428
Anche Dio deve morire se vuol vivere per te! | Come pensi senza morte
d’ereditar la Sua vita?
Quando tu sei morto e Dio è la tua vita | solo allora entri nell’alto ordine di-
vino.
Dico, poiché la morte soltanto mi fa libero, | ch’essa soltanto è la cosa mi-
91
gliore» .
Da questi versi si intuisce pure che alla base di questa ‘normalità’ per Si-
lesius non vi è una vita spirituale profonda (anche) o un retto distacco verso
il mondo (anche), ma un’autentica ‘unione con Dio’, come si legge altrove:
«Dio è in me il fuoco, ed io in Lui la luce | Non siamo noi del tutto profon-
92
damente uniti?» ,
dal che si deduce che, come tra fuoco e luce l’unione non è accessoria né
transeunte, così deve essere quella dell’amante con l’Amato. E Silesius va
oltre (anche se in realtà questi versi sono anteriori):
«Io so che, senza di me Dio non può vivere un istante | Se io divento nulla,
93
Lui deve di necessità rimettere lo spirito» ,
fino al punto di dire, nel distico immediatamente successivo,
«D’esser Dio così beato e di viver senza brama | l’ha da me ricevuto quanto
94
io l’ho da Lui ,
in un crescendo tipico della mistica tedesca, di Eckhart soprattutto ma pure
95
di Tauler e Ruusbroec, ai quali Silesius si ispira . La sintonia tra questi au-
tori, il loro essere radicati in un’atmosfera spirituale che nasce con Alberto
Magno e si diffonde in l’Europa settentrionale dal sec.XIV in poi, testimo-
nia un sentitus diverso da quello spagnolo esposto nel punto 12.4. Entrambi
si focalizzano sull’unione mistica tra Dio e l’anima, ed entrambi deducono
da questa unione il medesimo atteggiamento verso il mondo e verso il mo-
rire. Gli spagnoli sottolineano l’eccezionalità di questa unione, i tedeschi ne
_____________________________
91
ANGELUS SILESIUS, Il pellegrino cherubico, I, 26-36 (trad. it. 112ss).
92
ANGELUS SILESIUS, Il pellegrino cherubico, I, 11 (trad. nostra). L’originale tedesco è
troppo bello per non offrirlo a chi può apprezzarlo: «Gott ist in kir das Feur, und ich
in ihm der Schein | Sind wir einander nicht ganz inniglich gemein?»
93
ANGELUS SILESIUS, Il pellegrino cherubico, I, 8 (trad. nostra). Anche qui il tedesco è
incomparabilmente più bello della versione: «Ich weiβ daβ ohne mich Gott nicht ein
Nu kann leben; | Werd ich zunicht, er muβ von Not den Geist aufgeben».
94
ANGELUS SILESIUS, Il pellegrino cherubico, I, 9 (trad. it. 44).
95
Su questi rapporti, oltre a VANNINI, Introduzione, op. cit., passim, cf. anche G. FOZ-
ZER - M. VANNINI, saggio introduttivo a Angelus Silesius. Il pellegrino cherubico,
Cinisello Balsamo 1989, 5-74.

429
evidenziano la ‘normalità’, ma sono le due facce della medesima medaglia.
Purtroppo in questo saggio spesso non possiamo approfondire le questioni
96
e, come in questo caso, dobbiamo limitarci a rinvii bibliografici . Comun-
que, come già a proposito di Teresa d’Avila e Giovanni della Croce, è ov-
vio che non è possibile considerare Silesius come specchio fedele della vita
di fede dei contemporanei, se non altro perché il Pellegrino è del 1653-75,
subito dopo la Guerra dei Trent’anni, e l’odio è certo il sentimento più dif-
fuso. Ma, lo si è detto, l’insieme dei credenti non ha solo dimensione stori-
co-sociologica; per questo uno studioso di molti anni fa poteva dire:
«A tutti parve sempre che molto di quanto l’anima tedesca ha saputo sentire
di più alto e fervido nel desiderio di Dio abbia qui trovato la sua più rapida,
97
più felice, più avvincente formulazione» .
Il sentire dei mistici, conta poco se spagnoli, tedeschi o italiani, riflette il
più profondo fiume spirituale che, come un wadi nel deserto, affiora qua e
là, ora in un modo ora in un altro, portando ora questi frutti ora questi altri.
Ed è così che lo Spirito guida il mistico ad adattare la vitalità della fede al-
le mutate circostanze storico-sociali, così che questa possa mantenere la sua
rettitudine rispetto al volere del Figlio che ha voluto salvare gli uomini pas-
sando per la Chiesa. Questo significa, anzi implica che, per lo più, il misti-
co si muove in modi e direzioni diverse da quelle del courant théologique
e, a fortiori, da quello storico-sociologico.
Di tutt’altra impostazione è il secondo contributo, quello di Alfonso Ma-
ria dè Liguori (1696-1787), santo e Dottore della Chiesa che si è occupato
più volte della morte, ed anzi scrisse una famosa opera sul miglior modo di
affrontarla, l’Apparecchio alla morte. Poiché intendiamo servirci di questa
opera per illustrare, nel capitolo 15, alcuni aspetti spiritualmente interessan-
ti, qui non la esaminiamo. È invece interessante notare che in sant’Alfonso
l’evento-morte assume dimensioni ed è osservato in contesti fin qui poco o
punto considerati. Ad esempio, nell’assistenza di un condannato a morte al
momento dell’esecuzione, occasione nella quale, scrive sant’Alfonso,
«Primieramente (il sacerdote) avverta di astenersi di parlare al condannato
del rigore della divina giustizia, e di simili cose di terrore; gli ponga dinanzi
gli occhi la divina misericordia, e la volontà che ha Dio, che tutti si salvino.
Onde dal principio in cui si abbocca col condannato gli dica chiamandolo
_____________________________
96
Consigliamo perciò la lettura di K. RUH, Meister Eckhart. Teologo, predicatore, mi-
stico, Brescia 1989; P. VERDEYEN, Introduzione a Ruysbroec, Fiesole 1990; L. GNÄ-
DINGER, Giovanni Taulero. Ambiente, vita e dottrina mistica, Cinisello Balsamo
1997; A.M. HAAS, Introduzione a meister Eckhart, Fiesole 1997.
97
L. VINCENTI, Angelo Silesio, Torino 1932, 47 (cit. in FOZZER-VANNINI, op. cit., 13).

430
col suo nome: “N. (allegramente), Iddio ti vuol salvo; ti chiama a lasciar
questa vita di miserie, per condurti all’altro mondo, dove ti vuol rendere fe-
lice per tutta l’eternità. Or fatti una bella confessione; basta che tu ti penta
delle offese che hai fatte a Dio, ed egli sta colle braccia aperte per abbrac-
98
ciarti, e farti per sempre contento nel paradiso”» .
Come vedremo, i riferimenti di Alfonso sono assolutamente tradizionali,
addirittura medievali; eppure al centro di questo passo vi è l’amore di Dio,
la ricerca di un pentimento ultimo sì ma non da schiavo, come direbbe Ba-
silio, bensì da figlio. Il tono di questo passo è quello di tutto l’opuscoletto,
così come l’attenzione alla misericordia di Dio è al centro di tutti gli scritti
di Alfonso dè Liguori, quelli che parlano della morte e quelli dedicati ai più
svariati argomenti, comprese le sue canzoni (Alfonso ne scrisse molte). La
impostazione di Alfonso Maria dè Liguori segna un punto di svolta nella ri-
flessione morale proprio perché mette al centro la misericordia di Dio, a di-
spetto delle impostazioni del tempo, che cercano ed offrono soluzioni ra-
zionalmente pre-confezionate a tutte le situazioni pre-vedibili. Agli attacchi
filosofici degli Illuministi e religiosi dei Riformati Alfonso oppone dunque
non dotte disquisizioni dogmatiche (ne scrive solo una, contro i Riformati)
ma l’amore misericordioso di Dio. Così facendo, mistica e pastorale si tro-
vano dallo stesso lato nella difesa della Chiesa. E la teologia?
* * *
Poiché lo scopo di queste ricognizioni storiche non è scoprire cosa pensa
Tizio o come vede il mondo Caio ma reperire spunti che possano essere uti-
li oggi sebbene siano nati in tempi e contesti anche molto lontani dai nostri,
tra un passaggio ed un altro vi possono essere sproporzioni anche notevoli.
Questa è una di quelle occasioni.
In effetti la teologia sistematica dei secc.XVII-XVIII è drammaticamente
povera dal nostro punto di vista. Dal versante Riformato infatti, terminata
la bufera della Guerra dei Trent’anni, giunge il momento della sistemazio-
ne. Ma è difficile capire cosa ciò significhi esattamente perché, lo si è visto
nel punto 12.3., in realtà i Riformati non hanno una concezione della morte
ma molte, tutte diverse ed in contrasto una con l’altra. Tot capita tot senten-
tiae. Così nei Loci theologici, opera fondamentale per la sistematica Rifor-
mata, il teologo luterano Johann Gerhard (1582-1637) rifiuta la dormitio di
Lutero e sposa le tesi di Zwingli. Poi attacca quelle di Calvino che però so-
no le stesse di Zwingli. D’altra parte, già a metà del sec.XVI l’idea di dor-
mitio scivola nel mortalismo: dopo la morte Dio annulla l’anima umana per
poi ricrearla al momento della resurrezione. Questa versione radicale della
_____________________________
98
ALFONSO MARIA DÈ LIGUORI, Avvertimenti ai sacerdoti che assistono i condannati a
morte, in Opere, XI, Torino 1880, 872.

431
luterana incoscienza post mortem è in realtà un’eresia addirittura del sec.III
contro la quale già si scagliano i Padri: solo l’ignoranza abissale, unita alla
presunzione di poter scoprire tutto da soli ed alle brighe politiche di Enrico
VIII, fa sì che nel ‘600 si diffonda a macchia d’olio in Inghilterra. In defini-
tiva la sistemazione Riformata dei secc.XVII si limita a cristallizzare le po-
sizioni esposte nella seconda parte del punto 12.3., con qualche slittamento.
Dopo, l’attenzione dei teologi Riformati si focalizza sulla polemica anticat-
tolica da un lato ed anti-Illuminista dall’altro.
Dal lato cattolico, sarebbe interessante scoprire se e come l’antropologia
dei ‘due fini’ influisca sulla visione della morte. Questa concezione, nata
nel sec.XVI, suppone che la beatitudine dell’uomo, attualmente solo dono
di grazia, non possa anche essere ‘per natura’, ossia dovuta al fatto di esse-
re stato creato da Dio. Dio, si argomenta, è buono e crea l’uomo perfetto e
felice (primo fine); il cattivo uso che questi fa del libero arbitrio lo priva di
quella beatitudine e così ora questa è possibile solo per grazia (secondo fi-
ne). L’ipotesi che ante lapsum l’uomo fosse beato per natura domina l’an-
tropologia teologica cattolica fino a metà del secolo XX, ma gli studi con-
trocorrente di H. de Lubac ne hanno rivelato la totale mancanza di fonda-
mento in Scrittura e Padri, l’assoluta inutilità in ogni ambito teologico e so-
99
prattutto la forte e pericolosa affinità con Pelagio . I suoi pochi attuali di-
100
fensori in realtà ne modificano sostanzialmente i termini , ma l’ipotesi che
l’uomo possa ‘per natura’ essere beato solleva comunque molti interrogati-
vi riguardo al perché della morte. Tentare di rispondere richiederebbe però
una ricerca di prima mano sulle fonti del tutto impossibile qui e per di più
_____________________________
99
Cf. p.es. H. DE LUBAC, Surnaturel, Paris 1946; IDEM, «Duplex hominis beatitudo
(saint Thomas, I-II, q.62, a.1)», Recherches de sicences religieuse 35 (1948) 290-
299; IDEM, Augustinisme et théologie moderne, Paris 1965; IDEM, Il mistero del so-
prannaturale, Milano 1979 (orig. Paris 1965). Sul dibattito sollevato da questi studi
cf. p.es. S. LONG, «On the loss, and the recovery, of nature as a theonomic principle:
reflections on the nature/grace controversy», Nova et vetera 5 (2007) 133-183; N.J.
HEALY, «Henri de Lubac on nature and grace: a note on some recent contributions to
the debate», Communio 35 (2008) 535-564.
100
Le più recenti difese dell’antropologia dei ‘due fini’ sono quella di L. FEINGOLD, The
natural desire to see God according to st. Thomas Aquinas and his interpreters, Ro-
ma 2001; S. LONG, Natura pura: on the recovery of nature in the doctrine of grace,
New York 2010; M.B. MULCAHY, Not everything is grace. Aquinas’ notion of ‘pure
nature’ and the christian integralism of Henri de Lubac and of radical orthodoxy,
New York 2011. Fondamentalmente questi autori argomentano che, poichè nell’uo-
mo vi è un naturale desiderio di vedere Dio, che equivale ad un naturale desiderio di
essere beato, Dio, che lo ha posto nell’uomo, non può averlo lasciato senza almeno la
possibilità di essere realizzato. Ad essi replica L. DUPRÈ, «On the natural desire of
seeing God», Radical orthodoxy: theology, philosophy, politics, 1 (2014) 81-94.

432
inutile: sappiamo che l’antropologia dei ‘due fini’ non ha ricadute sul senti-
tus comune verso la morte né sulle elaborazioni di scuola più diffuse. Per il
resto, l’attenzione dei teologi cattolici si concentra da un lato sulla polemi-
ca contro i Riformati e contro il razionalismo Illuminista dall’altro.
Poiché non resta altro da esaminare, chiudiamo la ricognizione sulle vi-
sioni della morte nei secoli XV-XVIII e tratteggiamone il quadro globale.

12.6. L’evoluzione della teologia della morte II:


una valutazione dogmatico-spirituale

La centralità di questo capitolo per il nostro studio è evidente.


Nel punto 12.1 si sono elencate alcune delle molte e complesse vicende
storiche dei secc.XV-XVIII, ed è naturale supporre che abbiano avuto delle
ricadute sul modo di vivere la fede da parte di quegli uomini. Però, quando
all’inizio del punto 12.2. è venuto il momento di descriverle, si è constatato
che in realtà si è ancora fermi al sec.XIV. Al punto 12.3. abbiamo sondato
il contributo di Lutero e dei primi Riformati ma, oltre a registrare notevoli
incertezze ed oscillazioni, nessuna delle proposte è risultata davvero nuova
e convincente. L’indagine sulla Riforma cattolica del punto 12.4. non è sta-
ta più costruttiva: i teologi di scuola, in altri ambiti molto attenti e sensibili,
riguardo alla morte restano fermi su posizioni sorpassate, i mistici (Teresa,
Giovanni), a dispetto della loro forza e novità, non riescono ad influenzare
la gran parte dei fratelli. Questa situazione bloccata conosce il suo epilogo
nel sec.XVIII. Come si è visto nel punto 12.5., l’avvento dell’Illuminismo
ed il terremoto di Lisbona del 1755 rivelano l’incapacità dei teologi, che
continuano a ripetere i soliti clichè, mentre i mistici (Silesius) approfondi-
scono la linea intrapresa nel sec.XVI e la pastorale (Alfonso de Liguori) si
muove in direzione analoga. Per entrambi, parlare della morte significa or-
mai mettere al centro l’amore misericordioso di Dio e non la teologia.
Dal punto di vista puramente teoretico questo quadro è significativo.
È vero che le due Riforme introducono forti novità, ma quella luterana
consiste nella rottura e quindi nel rifiuto tout court, quella cattolica è tutta
sul lato mistico e quindi non raggiunge la gran parte dei fratelli.
Ciò significa che la Riforma luterana non è un ponte tra la mutata realtà
storica e la realtà della fede: di fronte alle distorsioni della prima reagisce
distorcendo la seconda in modo proporzionale. La Riforma luterana non ri-
sponde perciò né alla sfida della storia, perché non riesce ad uscire da essa
guardandola da una prospettiva più alta, né a quella della fede, perché non
riesce a ripensarla dall’interno cogliendone il germe vitale. Ecco perché, in
definitiva, non si riesce ad avere una visione Riformata della morte ma solo

433
un panoplia di posizioni, una contro l’altra, ed esponenti che avrebbero di-
vuto sostenerne una si schierano invece con altre. Il che dura fino ad oggi.
La Riforma cattolica, dal canto suo, è sì un ponte tra la mutata realtà sto-
rica e la realtà della fede, ma non è chiaro come ed in che senso si muova.
Da un lato coglie e risponde alla sfida storica, intellettualmente (Erasmo) e
spiritualmente (Teresa, Giovanni, Silesius), ma gran parte dei cattolici del
101
tempo non è in grado di seguire né l’uno né gli altri : da questo punto di
vista la Riforma cattolica è sì un ponte, ma non si sa dove porti. D’altro lato
non coglie, e tantomeno risponde, né la sfida storica né quella di fede: Era-
smo è isolato, Teresa e Giovanni combattuti, l’aberrante prassi liturgica ri-
mane invariata, la teologia di scuola ignora tout court la questione. Da que-
sto punto di vista anche la Riforma cattolica non è assolutamente un ponte.
Fa eccezione la figura di Alfonso de Liguori, che traduce in azione pastora-
le ed in teologia morale la spinta affettiva della mistica: ma, appunto, è una
eccezione entro un quadro decisamente su altre (e vecchie) posizioni.
Dal punto di vista spirituale il discorso è più complesso.
Dal punto di vista della Riforma, che non è il nostro e del quale perciò
non parliamo per esperienza diretta, ci pare di poter dire che quello della ri-
cerca sia esito quasi inevitabile. Dati i presupposti di partenza, sola fide, so-
la gratia e sola Scriptura, ed il conseguente rifiuto del ruolo di aiuto e veri-
fica della Chiesa, è impossibile che il singolo credente, che per quanto fer-
vente dispone solo della propria esperienza, giunga a qualcosa di più di una
semplice opinione personale. La fede ha sempre dinamiche ad personam, la
_____________________________
101
Ma in realtà dire così non è giusto né vero, cf. p.es. VOVELLE, Mourir, op. cit., 20ss,
che riporta il ‘bilancio familiare’ di Valérie Origet e Joseph Bastide, che in quindici
anni hanno 10 figli, dei quali 7 muoiono prima dei sei anni e 2 prima dei quindici ma,
in tutto il loro tragico resoconto, non leggiamo una sola parola di recriminazione o di
lamento, solo il ritornello ‘Sia lode a Dio in tutto e per tutto’. Questa è santità fulgen-
te e splendida! Chissà quanti altri esempi simili ha visto la storia e lo Spirito di Dio, e
noi non ne sappiamo niente! Sicuramente post mortem avremo delle belle sorprese...
Si deve trovare il modo di rendere giustizia alla santità anonima di milioni di nostri
fratelli, di oggi come dei secoli passati: e se questo anonimato non piace a Balthasar,
peggio per lui. Invece che in biblioteca doveva stare in mezzo alla gente, perché lì
opera lo Spirito. Nel merito, certo Valérie e Joseph non sanno chi è Erasmo né cono-
scono la mistica di Teresa, ma la loro bellissima santità non ha nulla da invidiare a
quella di nessun altro. In realtà la dimensione spirituale sta a quella intellettuale co-
me il volare al nuotare: sono entrambe azioni indispensabili a questo o quell’animale,
ma valutare i pesci in base a quel che fanno le aquile è profondamente sbagliato... Vi
sarà poi senz’altro chi irriderà i nostri coniugi, considerando le loro parole frutto non
di santità ma di crassa ignoranza unita a stolta acquiescenza ai dettami preteschi: be-
ne, in tal caso preferiamo essere ignoranti come Valérie che saggi come il nostro de-
trattore. E se questi risponderà ‘Che Dio vi accontenti!’, diremo ‘Speriamo di sì’.

434
grazia è donata anch’essa in modi e misure ad personam: se ci priva a prio-
ri di ogni criterio ulteriore chi potrà mai dire se quel che mi pare ispirato da
Dio lo è davvero o no? Quanto alla Scrittura, poverina, da sola è incapace
di difendersi: chi la tira di qua, chi la tira di là, le fanno dire tutto ed il con-
trario di tutto; senza criteri comunitari come distinguere le interpretazioni
vere da quelle false? L’agnosticismo di Lutero nella lettera ad Amsdorf del
gennaio del 1522 è in realtà il massimo cui un uomo onesto possa giungere
102
partendo dai presupposti della Riforma . Se altri ritengono di poter trarre
conclusioni diverse, in base a quei presupposti non li si potrà contestare ma
solo, ed al più, affermare che la nostra opinione ci pare migliore della loro.
Ma, appunto, soltanto ‘ci pare’, mai ‘è certamente’.
Dal versante cattolico bisogna notare che, da un lato, non è possibile ab-
bandonare la visione di morte tradizionale, non solo perché è radicata nella
Scrittura e nei Padri (anche) ma semplicemente perché è vera. Un cristiano
sincero sente la propria morte come scrivono Ambrogio, Agostino, Bernar-
do, Erasmo. E questo sentire nasce da un atteggiamento interiore verso quel
che Giovanni chiama ‘mondo’, atteggiamento proporzionale all’amore che
si ha per Dio. La distanza dai mistici è soltanto frutto di prospettiva: Tere-
sa, Giovanni, Silesius esprimono apertis verbis quel che anche Ambrogio,
Agostino, Bernardo, Erasmo provano, ma che comunicano in modi diversi.
Quindi, per il cattolico certi elementi esprimono la sua esperienza di fede, e
così li ripresenta continuamente. D’altro lato bisogna anche notare che Te-
resa, Giovanni e Silesius hanno doni che la gran parte dei credenti non ha.
Giustamente, perché nella Chiesa le mansioni sono molte ed ognuna richie-
de una capacità diverse, però questo determina anche una vita spirituale di-
versa. Quindi, la spinta innovativa dei mistici non può estendersi sic et sim-
pliciter a tutta la Chiesa, e pretenderlo è sbagliato. Si deve perciò conclude-
re che dal punto di vista spirituale l’unica possibilità è la ripetezione di ciò
che si è sempre detto? Assolutamente no. È vero che per alcuni è così, ma
sono persone la cui vita spirituale è immobile, e tale ritengono anche quella
altrui. Lo Spirito però non agisce così, come è scritto (Is 43,18ss):
«Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche!
Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?
Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa»,
e perciò non è immobile chi da Lui è mosso, come è detto (Mt 13,52):
«Ogni scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di
casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche».
_____________________________
102
Cf. MARTIN LUTERO, Briefewechsel, Brief 449 an Nicolaus Amsdorf, Wartburg 13
gennaio1522 (WA BW, II, 422; trad. nostra), riportato in 12.3.

435
L’esempio di sant’Alfonso Maria de Liguori è molto istruttivo riguardo
al tipo di sintesi spirituale al quale stiamo pensando. Questa non consiste né
nella ripetizione di formule nate secoli fa, come avviene spesso nella pasto-
rale e nella manualistica teologica, né nell’imposizione forzata di categorie
spirituali, come in certi gruppi di preghiera ben intenzionati ma poco edotti.
La sintesi spirituale consiste nel cogliere l’indirizzo che lo Spirito vuole da-
re, qui ed ora, all’azione ed al sentire della Chiesa, direzione che rivela in
primis ai mistici, poi estende e trasforma in santità diffusa ed infine sotto-
pone al vaglio dei successori degli apostoli. Sant’Alfonso capì che lo Spiri-
to puntava sulla misericordia, e si comportò conseguentemente. Ed oggi?
Un esempio aiuterà a capire meglio quel che intendiamo.
Il nostro Occidente ricco e godereccio è sempre più pagano e meno cri-
stiano. Da decenni parroci, teologi e vescovi cercano la soluzione guardan-
do al suo interno, ma inutilmente: ogni iniziativa promettente si sgonfia in
men che non si dica. Questo perché lo Spirito ci sta indicando un’altra dire-
zione, per la precisione l’Oriente. Là molti nostri fratelli vivono una vita di
fede intrisa di tanti piccoli miracoli quotidiani, a dispetto o a causa del pic-
colo numero che li obbliga a scegliere tra abiurare o divenire più forti inte-
riormente. Là i dibattiti teologici stanno a zero: non conta se sei ortodosso,
cattolico o riformato, ma se sai amare i fratelli che soffrono (quasi sempre
musulmani), non a parole ma nei fatti, cioè restando nelle città bombardate,
condividendo il poco che si ha, pregando per loro quando sono malati, sen-
za nascondere la propria fede o cedere alla tentazione di impugnare un ka-
lashnikov, parlando con tutti, cercando sempre la pace. A costo di rimetter-
ci la vita; che poi significa essere martirizzati, cioè andare in paradiso: per-
ciò è ‘guadagnare’, non ‘rimettere’. In Occidente queste parole suonano da
fanatici; in Siria, Irak, Turchia, India, Cina descrivono il quotidiano. Là i
nostri fratelli hanno superato la fase ‘mistica’: i loro ‘amanti di Dio’, che
hanno nomi, cognomi ed indirizzi, già hanno mostrato cosa vuole da loro lo
Spirito. Ora attraversano la fase della santità ‘diffusa’, fatta di piccole, quo-
tidiane, nascoste testimonianze date da adulti e bambini, giovani studenti e
contadini incolti, in città ed in campagna, in Paesi in guerra ed in Paesi in
pace. Non sono degne, per fortuna, di arrivare sui santini, e così non sono
oggetto di mercimonio. Non sappiamo come e quando la Chiesa universale
coglierà questo segno dei tempi: i successori degli apostoli in loco lo hanno
fatto da tempo, e in modi assolutamente pubblici.
Da noi non ci sono guerre, o meglio la guerra ce la fanno i soldi ed il po-
tere: lasciamoli agli altri. Da noi si ama il piacere e la notorietà sui social:
lasciamoli agli altri. Da noi regna la paura del futuro: amiamo Dio e non si
avrà più paura. Ma per amare Dio bisogna rifiutare i compromessi...

436
Capitolo 13

L’EVOLUZIONE
DELLA
TEOLOGIA DELLA MORTE III

Questo terzo capitolo dedicato alla ricostruzione storica dell’evoluzione


della teologia sulla morte è l’ultimo della serie e, in proporzione, anche il
più breve. Di per sé l’arco temporale che abbraccia, i secc.XIX-XXI, è cer-
to ricchissimo di cambiamenti: inizia con l’estinzione formale del Sacro
Romano Impero (1806) dopo la battaglia di Austerlitz, vinta da Napoleone
(1805), ed arriva fino ad oggi, quindi (per avere qualche riferimento) alla
bomba atomica ed all’esplorazione di Marte. Nel mezzo accade veramente
di tutto. Con queste premesse, il capitolo dovrebbe essere il più ampio, non
il più breve, anzi non ne basterebbe uno ma ce ne vorrebbero diversi.
In realtà, per la nostra ricerca è vero l’esatto contrario.
Poiché in pratica l’arco temporale coincide con la storia contemporanea,
si può limitare la descrizione del contesto storico-sociale agli elementi più
rilevanti: il resto, se utile, si può accennare in nota oppure, e sarà frequente,
semplicemente darlo per noto. Poi, a dispetto dei forti cambiamenti storici,
le ricadute sulla percezione della morte sono abbastanza uniformi nel tem-
po, ragion per cui non sarà necessario ricostruire tutti i dettagli di ogni va-
riazione: e questo glissement a volte riguarderà passaggi per altri versi cru-
ciali. Infine, particolare pratico molto importante, disponiamo di sintesi ben
curate ed efficaci del pensiero filosofico e teologico di quei secoli, il che ci
permetterà di ridurre quasi a zero il ricorso all’esegesi testuale, responsabi-
le principale delle molte pagine dei capitoli precedenti. Come si vede, i fat-
tori che conducono ad una riduzione non sono pochi né da poco.
Ciò detto, sarebbe affrettato concludere che la panoramica che ci attende
sarà rapida e semplice. Molto più dei precedenti, l’arco temporale di questo
capitolo è soggetto a condizionamenti ermeneutici tanto forti quanto più vi-
cini ai nostri giorni. Se, alla fine di quello precedente, qualcuno si è mera-
vigliato per la puntata nell’odierno e il modo in cui la si è fatta, in questo si
dovrà abituare. La storia è sempre questione di interpretazione, ma in questi
ultimi tempi i termini si sono fatti così radicali, il sangue così tanto, il dolo-

437
re così crudo, l’egoismo così tracotante che, parafrasando Aristotele, “è tur-
pe tacere quando il peccato parla”. I teologi occidentali preferiscono visuali
più astratte perché sanno che dietro queste situazioni vi è l’Occidente dove
1
vivono . La teologia latinoamericana ha parlato, ma con categorie di pen-
siero passeggere e così ora ne cerca di nuove. La teologia africana ha molto
da dire ma ancora non lo fa. Schiacciata tra oppressione e fragilità, la teo-
2
logia dell’Asia brilla in silenzio per santità . Non ci illudiamo sull’esito del-
le nostre letture: noi siamo teologi di periferia che si occupano di temi dé-
modée. Ma, davanti a Dio e per gli uomini, dobbiamo comunque tentare di
interpretare in modo diverso i dati storico-sociologici, provarne una lettura
spirituale che spinga all’azione. Un primo passo è integrare le presentazioni
standard con aspetti e dati meno usuali. Il secondo sbilanciarci in valuta-
zioni politicamente scorrette ma, alla luce del poco che i nostri occhi hanno
visto nei molti nostri viaggi, come minimo doverose per il rispetto della ve-
rità. Prudenza ed umiltà però consigliano di valutare le nostre valutazioni in
base ai loro fondamenti ed al modo in cui sono gestiti: se il vecchio non è
buono di per sé, non lo è neppure il nuovo. Omnia cum grano salis.
Ciò detto, è il momento di iniziare la nostra fatica.

13.1. Il contesto socio-politico


dei secoli XIX-XXI

Molti rivolgimenti epocali dei secc.XIX-XXI non consistono in singoli


eventi, seppur poliedrici, bensì in una serie di mutamenti a tutto campo an-
_____________________________
1
Cf. il quadro di GIBELLINI, La teologia, op. cit., per totum. Ma è atteggiamento a tut-
to campo: cf. p.es. E. MORIN, L’homme et la mort, Paris 20022, saggio molto quotato
che ignora totalmente gli accadimenti extra-europei; comprensibile nel ’70, quando
viene redatto, ma non nel 2002. Cf. anche ARIÈS, Essays, op. cit., e IDEM, L’homme
devant la mort, II, op., cit., saggi dei quali qui ci si è serviti nei capitoli precedenti. È
uno dei condizionamenti cui si accennava nel testo: finchè si è abbastanza lontani nel
tempo si riesce ad essere obiettivi, man mano che ci si avvicina all’oggi si tende a
non vedere più certi aspetti e ad enfatizzarne altri (magari quelli à la mode...).
2
Naturalmente non intendiamo fare di tutta l’erba un fascio. La teologia occidentale è
certo restia ad impegnarsi in economia come contro l’aborto o la malavita organizza-
ta ma non ignora né nega le responsabilità dell’Occidente. Quella latinoamericana si
spende ancora molto, come provano le reazioni del presidente brasiliano Bolsonaro.
La teologia africana in realtà parla, anche se poco e sottovoce perché il clero si forma
in Occidente, le comunità sono spesso piccole e la formazione scarsa, così come per
tutte le Chiese dell’Oriente. Il silenzio di quelle cinese, indù, pakistana è dovuto al
costante martirio: qui, come in Medio Oriente, a parlare non sono i libri ma il sangue,
anche se accanto vi è la fuga di molti e la demoralizzazione di chi resta.

438
cor oggi in fieri. Ad esempio, il riverbero della conoscenza scientifica sulle
capacità tecniche, delle rivoluzioni industriali su quelle scientifiche, di en-
trambe sulla percezione di se stessi degli uomini lungo questi secoli, questo
riverbero, si diceva, per convenzione degli storici si fa iniziare nel sec.XIX
ma siamo nel XXI ed è ancora ben lontano dall’essere esaurito: si pensi so-
lo al potenziale incredibile della realtà virtuale e della stampa-3D. Agli ini-
zi del sec.XX nel cielo si vedevano solo uccelli, a metà del XXI gli aereo-
plani ci portano ovunque a mille kilometri l’ora, le navette spaziali fanno la
spola tra il nostro pianeta e la stazione orbitale, progettiamo di colonizzare
la Luna, di visitare Marte. Poi vi è internet, con il fluire continuo di notizie
da ogni dove, di ogni tipo, su ogni cosa, vere e false, la possibilità di colle-
garsi con tutto il mondo con piccoli dispositivi tascabili, i cellulari.
Noi Occidentali di solito ci concentriamo su questi aspetti, importanti sì
ma di seconda istanza, e che a noi invece paiono di prima perché abbiamo
già soddisfatto i bisogni fondamentali. Altrove sottolineerebbero altri aspet-
ti, rivelando più di un’ombra nel quadro precedente. Vediamone alcuni.
In primis, i farmaci. Nel sec.XIX, ogni anno, la tubercolosi uccide da 6 a
12 persone su 1000, e prima era peggio: nel 1750, a Londra, 1 abitante su 5
3
muore di TBC . Non è difficile capire quanto importante sia stata, nel 1928,
la scoperta della penicillina da parte di Fleming; peccato che solo nel 1941
la si sia applicata alle infezioni batteriche, e solo dal 1943 prodotta su scala
industriale. Noi siamo abituati ad assumere anche troppi antibiotici, così da
aver ormai sviluppato ceppi batterici resistenti, ma in Africa e in molti altri
Paesi, specie quelli in guerra, sono merce rara, preziosa, costosa.
In secundis, i vaccini. L’influenza spagnola, nel 1918-20, fa tra 50 e 100
4
milioni di morti, in tutto il mondo . Come vaiolo, morbillo, varicella e altre
malattie, l’influenza è causata da virus: non essendo vivi, gli antibiotici so-
no inutili. Jenner scopre il rimedio nel 1796: è la vaccinazione, che mette il
sistema immunitario in grado di riconoscere l’agente patogeno, virus o bat-
terio. Perfezionati ed estesi a molte malattie da Pasteur (1822-95), i vaccini
si affermano quando Sabin (1957) ne mette a punto uno contro la poliomie-
lite che allora devastava gli Stati Uniti. Anche i vaccini sono merce rara in
moltissimi Paesi, specie quelli contro AIDS ed Ebola, malattie che solo in
_____________________________
3
Cf. p.es. H.D. CHALKE, «Some historical aspects of tubercolosis», Public health 74
(1959), 83-95.
4
Cf. C.W. POTTER, «A history of influenza», Journal of applied microbiology 91
(2001) 572-279, 575s: «The influenza pandemic of 1918-20 is one of the most dra-
matic events of medical history (...). No figures exist for many parts of the world, but
the pandemic is estimated to have infected 50% of the world’s population, 25% suf-
fered a clinical infection and the total mortality was 40-50 million: the often quoted
figure of 20 million deaths is palpably too low».

439
Africa mietono migliaia di morti l’anno. La vaccinazione ha estirpato il va-
iolo, virus tra i più letali, annullata la mortalità di morbillo e varicella, qua-
si del tutto quella dell’influenza, eppure vi sono oggi molti occidentali che
5
li rifiutano, passando per ‘intelligenti’...
In tertiis, i progressi della medicina clinica, che riguardano l’anestesia, la
6
prassi antiseptica e la tecnica chirurgica . Nel 1846 Morton somministra ad
un paziente dell’etere e Warren gli estrae un tumore mascellare senza che
dia un lamento: è nata la chirurgia indolore. La seconda si deve a Sommel-
weiss, che nel 1847 impone a medici e paramedici del suo reparto l’uso del
cloro, poi sostituito da Lister con l’acido fenico; Neuber nel 1883 introduce
in sala operatoria camice e cappellino, Halsted i guanti (1888) e Mikulicz la
mascherina (1889): nasce la chirurgia pulita. La tecnica operatoria conosce
poi sviluppi così grandi e distribuiti su così tanti campi da non potersi rias-
sumere: diciamo che oggi si amputa infinitamente meno di prima e comun-
que non più con la sega a mano... L’impianto di protesi ed i trapianti di or-
gani sono di routine in Occidente, ma meno in America Latina e Vicino O-
riente, rari in Africa, anche se la situazione varia da paese a Paese.
Non possiamo poi ignorare l’istruzione. Mancano dati aggregati affidabi-
li ma è noto che, nel sec.XIX, gran parte degli europei sono analfabeti, più
le donne degli uomini; in USA le cose vanno meglio, nel resto del mondo
peggio, anche molto. Nel sec.XX in Occidente si è fatto tanto per migliora-
re la situazione, con ottimi risultati; in Africa ed in Asia resta ancora molto
da fare, specie per le donne, eccetto che in Giappone e Cina. Il sec.XXI co-
nosce però due fenomeni preoccupanti. Il primo è che le competenze effet-
_____________________________
5
Ad onor del vero le cose sono un po’ più complesse. A fianco di irresponsabili cam-
pagne contrarie a priori alla vaccinazione vi sono anche disfunzioni oggettive, come
p.es. le vaccinazioni imprudenti denunciate nel 2019 da associazioni francesi assolu-
tamente serie. Le informazioni poi non sono neutrali: p.es., si dice che i morti di in-
fluenza aviaria (H5N1) sono il 60% dei contagiati, ma non che in tutto il mondo, dal
1997 ad oggi, sono poche centinaia, contro p.es. i 2 milioni di malaria o dissenteria, i
10 di morbillo o polmonite. Nel 2017-18 i mass media italiani ci hanno informato dei
764 casi di influenza con 173 decessi, ma non dei 3400 nuovi contagi da HIV, né sui
deceduti per HIV. Questo strabismo porta a spese ingenti ed inutili (cf. p.es. i 14 mi-
lioni di dosi acquistate nel 1997 dal Regno Unito) che rivelano un ampio problema di
corruzione: il caso Poggiolini, in Italia, non dovrebbe essere dimenticato perché non
è il primo né l’ultimo. Ma, se si resta a livello personale, queste patologie del sistema
si sconfiggono facilmente con un mix di buon senso e informazione. Certo non è be-
ne far pubblicità a medicinali ed integratori: visto il livello infimo della cultura me-
dia, de facto è un incitamento ad autoavvelenarsi. Ma bandire i vaccini non è più sen-
sato del bandire le forchette perché qualcuno le infila nelle orecchie...
6
Cf. E. SANTORO-L. RAGNO, Cento anni di chirurgia. Storia e cronache della chirur-
gia italiana nel XX secolo, Roma 2000, 15-24. Tutto il saggio è però istruttivo.

440
tive non corrispondono più al titolo di studio conseguito, un divario che, in
Europa, vede l’Italia al primo posto. Il secondo è l’analfabetismo funziona-
le o di ritorno. Persone anche laureate perdono progressivamente le compe-
tenze acquisite a causa della scarsa o assente cura della propria cultura, con
il risultato di perdere capacità, senso critico e contatto con la realtà storica.
Le ricadute sulle scelte politiche sono facili ad intuire.
Infine, ultime nell’elenco ma, specie se fuori dell’Occidente, prime nella
vita quotidiana, vi sono la disponibilità di cibo, acqua potabile, elettricità e
carburanti. Per noi sono quasi scontate, ma per moltissime persone è vero il
contrario: il divario tra l’Occidente ed il resto del mondo si misura sulla di-
sponibilità di queste risorse primarie, un divario enorme scavato proprio nei
secc.XIX-XX. Sulla penuria di cibo fuori dell’Occidente ormai si sa molto;
meno nota è quella dell’acqua potabile. Amman, capitale della Giordania,
ha acqua un solo pomeriggio a settimana. Nei Balcani ed in Europa orienta-
le l’acqua c’è ma non sempre è potabile. Anche il sud Italia fatica ad avere
acqua potabile, grazie ad una classe digerente (non dirigente) supportata dai
mafiosi. L’elettricità fa funzionare frigoriferi ed ospedali ma soprattutto le
fabbriche. Senza elettricità un Paese non progredisce, ed è scarsa in Africa,
gran parte dell’Estremo Oriente e dell’America latina oltre, è ovvio, ai Pae-
si in guerra. I carburanti servono per spostare persone e merci ma anche per
generare energia elettrica: costo ed approvvigionamento sono problemi seri
in Africa, nei Paesi in guerra e, con differenze importanti, nel Vicino ed E-
stremo Oriente. Purtroppo, riguardo a queste disparità, oggi assistiamo alla
sistematica ‘dis-trazione’ dei popoli ricchi unita ad un’altrettanto sistemati-
ca ‘dis-truzione’ di quelli poveri, attraverso una conflittualità armata diffu-
sa, incessante e di crescente brutalità.
Se tiriamo le somme, al netto di qualche défaillance, il bilancio di questi
secoli è assai positivo per l’Occidente, meno per altre zone del mondo, ne-
gativo per Africa e Paesi in guerra da molti anni. Ovviamente ciò influenza
profondamente il modo di percepire la morte, assai diversificatosi nel tem-
po e nello spazio. In generale, chi vive una vita con poche difficoltà tende a
non pensare alla morte: quando lo fa, si riempie di terrore. Gli altri ci pen-
sano di più e con meno paura, anche se il dolore è maggiore. Però su questo
aspetto influiscono anche altri elementi, che è doveroso ricordare.
* * *
Nella sezione precedente abbiamo menzionato spesso le guerre. Anche
questa attività si è molto evoluta in questi secoli. Ad Austerlitz, il 2 dicem-
bre 1805, 73.000 francesi sconfiggono 85.000 russi ed austriaci, con 36.000
tra morti e feriti: Napoleone è il signore d’Europa. Sulla Somme (Francia,
1/07-19/11/1916) 1.000.000 di anglo-francesi attacca 650.000 tedeschi; tra
morti e feriti, i primi perdono 624.000 uomini, i secondi 465.000; analogo

441
massacro a Verdun (Francia, 21/2-19/12/1916): più di 1.200.000 tra morti e
feriti, in entrambi i casi per nulla. Nella prima guerra mondiale (1914-17)
muoiono in 14 milioni, quasi tutti soldati; nella seconda (1939-45) in 60,
quasi tutti civili, e l’umanità scopre la bomba atomica. Poi vi sono i 36 mi-
lioni di morti nella Russia staliniana (1924-53), i 2,5 della guerra in Corea
(1950-53), i 40 nella Cina del Grande Balzo di Mao (1958-61), i 7,5 milio-
ni delle guerre in Vietnam (1955-75), i 3 degli khmer cambogiani (1975-
79), l’1,5 della guerra tra Iraq ed Iran (1980-88) ed infine centinaia e centi-
naia di migliaia di morti in tantissimi conflitti locali. Le ricadute sul modo
di rapportarsi con la morte sono state ovviamente rilevantissime.
Questi eventi sono noti, le cifre meno, ma pochi in Occidente si rendono
conto che, ad esempio, la guerra contro l’Iraq (2003), dichiarata con prete-
sti falsi e cinicamente mal gestita, non ha fatto solo morti e distruzioni ma
ha innescato una spirale di violenza ed incertezza tale che dopo 16 anni è
ormai quasi impossibile vivere in quel Paese. Molti parlano della instabilità
politica ma chi di quella mentale? Eppure è facile intuire che non si può re-
stare psicologicamente equilibrati se una guerra uccide e distrugge per anni
ed anni, come i 15 in Libano (1975-90), senza speranza di pace, come in
Siria (dal 2011), Libia (dal 2014), Yemen (dal 2015). Il disastro afghano,
iniziato nel 1975 e ancora lontano dall’essere finito dopo 34 anni, si com-
menta da solo, ma chi si ricorda degli infiniti conflitti africani, sobillati dal-
le potenze occidentali per i loro interessi economici? Per il musulmano de-
siderare la morte, e tanto più darsela, è sbagliato (l’Islam non ha il concetto
di peccato), ma chi si meraviglierà se a molti di loro parrà un sollievo? E
non è questo quel che scriveva Bernardo di Clairvaux nel sec.XII?
Queste informazioni sono essenziali per capire con che occhi il resto del
mondo vede quelli che diciamo essere i nostri valori. Ma il quadro di fondo
è ancora incompleto. Per non perderci nel mare magnum dei tanti aspetti
fin qui taciuti, limitiamoci a seguirne uno nel fluire del tempo.
Tutti ricordiamo l’orrore dei campi di concentramento nazisti, e credia-
mo che l’abbiano anche inventato. Non è vero. I nazisti hanno perfezionato
un sistema copiato da altri. Da chi? I maestri sono stati molti... Per primi gli
spagnoli, che nel 1896-98 usano i campi di concentramento per reprimere
7
la rivolta a Cuba, facendo 100.000 vittime . La crudeltà di questa repres-
sione è il pretesto per la guerra ispano-americana (1898), ma nelle Filippine
ex-spagnole, per stroncare la resistenza, nel 1899-1902 l’esercito america-
no usa sistematicamente deportazione, concentrazione e sterminio.
_____________________________
7
Cf. B. BIANCHI, «I primi campi di concentramento. Testimonianze femminili da Cu-
ba, dalle Filippine e dal Sud Africa», DEP. Deportate, esuli, profughe. Rivista tele-
matica di studi sulla memoria femminile, 1 (2004) 1-21, 3ss.

442
«Se decidiamo di restare (nelle Filippine) dobbiamo seppellire ogni scrupolo
ed ogni senso di repulsione verso la crudeltà weyleriana (Weyler era il ge-
nerale spagnolo inventore dei campi). (...) Abbiamo sterminato gli indiani
d’America e penso che molti di noi ne vadano orgogliosi, o almeno credono
che il fine giustifichi i mezzi; noi non dobbiamo avere scrupoli nello stermi-
nare anche questa razza, se necessario, stando dalla parte della civiltà e del
8
progresso» .
Ecco quel che scriveva allora un ufficiale americani, e moltissime lettere
dei soldati esprimono gli stessi giudizi, in termini meno forbiti ma del tutto
simili a quelli in uso negli stadi del sec.XXI. Non sono solo parole: i morti
si contano a centinaia di migliaia. Negli stessi anni, nella guerra contro i
9
Boeri, i campi di concentramento compaiono in Sud Africa (1900-02) . Qui
gli inglesi fanno fare alla tecnica un salto di qualità: viene deportato e ster-
minato il 50% dei Boeri, dedicando particolare attenzione ai bambini. Ma i
Boeri sono immigrati di origine olandese, cioè bianchi, e cristiani. Il nume-
ro dei morti oscilla tra i 30 ed i 50.000, la durissima resistenza boera stron-
cata, la difficile guerra vinta. Come resistere al fascino di tanta efficienza? I
tedeschi, che nel 1904-08 devono far fronte ad una rivolta di ottentotti nella
vicina Namibia, loro colonia, non ci riescono, e così, oltre ai campi di con-
centramento, ecco Shark Island, il primo campo ufficialmente destinato allo
10
sterminio . Viene massacrato l’80% degli Herero ed una percentuale di po-
co inferiore dei Nama, le due tribù protagoniste della rivolta, per un totale
(stimato) di 150.000 morti; i Nama però sono indigeni dalla pelle in pratica
bianca a causa del forte meticciato con i portoghesi: e sono cristiani. Quan-
_____________________________
8
Citazione tratta da BIANCHI, «I primi campi», op. cit., 6. È una delle molte testimo-
nianze delle atrocità commesse dalle truppe USA raccolte e pubblicate nel 1902 da
Codman e Storey, membri della New England anti imperialist League.
9
Cf. BIANCHI, «I primi campi», op. cit., 8-17; L. WEISS, «Exceptional space. Concen-
tration camps and labour compounds in late nineteenth-century South-Africa», in A.
MYERS-G. MOSHENSKA (edd.), Archeologies of internment, Stanford (CA) 2011, 21-
32, prova l’instaurazione britannica del nesso tra concentramento e lavoro forzato.
10
Cf. J. ZIMMERER, «Annihilation in Africa. The ‘race war’ in German south-west A-
frica (1904-1908) and its signifiance for a global history of genocide», German hi-
storical Institute bulletin 37 (2005) 51-57. La brevità del saggio non ne rivela la pro-
fondità. Per i dettagli cf. p.es. H. DRECHSLER, Let us die fighting: the struggle of the
Herero and Nama against German Imperialism, 1884-1915, London 1980. En pas-
sant, l’inglese annihilation in tedesco si traduce Vernichtung, il termine con il quale i
nazisti descrivono la loro politica verso ebrei, comunisti, minorati: annientamento. A
re Leopoldo II del Belgio si deve invece lo sterminio attraverso il lavoro: in Zaire,
suo proprietà privata, tra il 1885 ed il 1908 riesce a fare 10.000.000 di morti, metà
della popolazione. Agli inizi del sec.XX dunque abbiamo tutti gli ingredienti della ri-
cetta: prima concentrazione, poi sterminio attraverso il lavoro forzato.

443
do si viene a sapere in Germania, il fiorente commercio delle teste di Here-
ro e Nama rimpicciolite ed imbalsamate crolla: un disastro... Dopo la prima
guerra mondiale, anche i greci pensano bene di entrare nella partita: dagli
anni ’20 aprono nelle loro isole centinaia di piccoli campi, tra i quali il più
11
noto è quello di Ai Stratis, nel nord Egeo . Gli spagnoli, che hanno inven-
tato la tecnica, non ci stanno ad essere surclassati: così nel 1936-52 Franco
replica il modello di Cuba e apre centinaia di campi di internamento in tutta
12
la Spagna . Imitato quasi subito da Stalin in URSS. I nazisti, dal canto lo-
ro, nel 1933 inaugurano Dachau, a pochi kilometri da Monaco di Baviera, e
altri piccoli campi, ma il salto di qualità (se si può dir così) lo fanno prima
nel 1938, con il campo di Mauthausen, e poi nel 1940, con Auschwitz e
centinaia di altri. Come si vede, lungi dall’essere i primi i nazisti arrivano
quasi ultimi: ma recuperano bene lo svantaggio...
Potremmo proseguire descrivendo come, dopo la fine della guerra fedda,
al concentramento ‘classico’ (Guantanamo, Abu Ghraib) se ne affianchino
altri (profughi di guerra, immigrati economici), o che lo sterminio non rien-
13
tra più nei programmi di nessun Paese . Ma è meglio fermarci qui.
_____________________________
11
Cf. N. PANTZOU, «Materialities and traumatic memories of a twentieth-century greek
exile island», in MYERS-G. MOSHENSKA, Archeologies, op. cit., 191-205.
12
Cf. A. GONZALEZ-RUIBAL, «The archeology of internment in Francoist Spain (1936-
1952)», in MYERS-G. MOSHENSKA, Archeologies, op. cit., 53-73.
13
Ufficialmente. Ma tutti sanno che la Birmania già procede alla Vernichtung dei Ro-
hinga, che la Turchia vuol fare altrettanto con i Curdi, che gli wahhabiti si prodigano
per realizzare quella degli sciiti, che in Burundi gli hutu pianificano quella dei tutsi e
i serbi quella dei kosovari... Ma, finchè non accade niente, si finge di non sapere.
Quando qualcosa succede, pesi e misure sono diversi. Le malefatte della Birmania
non giovano a nessuno, e le si denuncia. Quelle della Turchia fanno comodo a molti,
perciò si minimizzano. L’Arabia Saudita ha tanti denari ed ‘amici’ da insabbiare per-
sino i documenti governativi più espliciti: cf. p.es. EU - DIRECTORATE-GENERAL FOR
EXTERNAL POLICIES OF THE UNION - POLICY DEPARTMENT, The involvement of sala-
fism/wahhabism in the support and supply of arms to rebel groups around the world,
23 june 2013 (http://www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/etudes/join/2013/4571
37/EXPO-AFET_ET(2013)457137_EN.pdf), 5: «Saudi Arabia has been a major
source of financing to rebel and terrorist organizations since the 1970’. These were
some of the conclusions of a 2006 report issued by the US Department of State titled
International narcotics control strategy report - Money laundering and financial cri-
mes (US Department of State, 2006)». Lo studio, chiesto dal Parlamento Europeo, fa
nomi, date, luoghi, cifre distinte per Paesi, esemplifica impieghi, prevede sviluppi
poi avveratisi. La bibliografia (7 pagine su 35) mostra poi che tutto questo è noto già
dagli anni ’70. Solo un mix di ipocrisia e giochi politici fa sì che questo e altri docu-
menti di analoghi tenore ed autorevolezza, pur liberamente consultabili in rete, siano
del tutto ignoti. Ma chiunque (come noi) si fosse recato nel sud della Turchia prima
del crollo dell’ISIS non avrebbe faticato a vedere come e da chi otteneva le armi...

444
Ora, se la teologia non è esercizio letterario di studiosi di biblioteca ma,
come ci insegnano i nostri santi Padri, contemplazione di Dio, questi avve-
nimenti sono estremamente importanti. Non solo perché, è scritto in Gene-
si, il sangue innocente grida vendetta al cospetto di Dio per il quale, inse-
gna Osea, l’amore vale molto più di tante messe liturgicamente perfette, ma
soprattutto perché ci dicono dove e come agire se intendiamo servirLo. Noi
ci siamo ritagliati un ambito davvero di nicchia dove scoprirlo, però anche
avere un certo atteggiamento verso la morte è servire Dio.
Ma lasciamo le osservazioni generali ed entriamo nei dettagli.

13.2. Il neo-scolasticismo cattolico e riformato


sulla morte (secolo XIX)

Innanzitutto due parole per spiegare il titolo del paragrafo. Com’è ovvio,
il termine ‘neo-scolasticismo’ suppone la pre-esistenza di uno ‘scolastici-
smo’ anteriore, ma questo non significa la stessa cosa se riferito al Cattoli-
cesimo o alla Riforma. Bisogna dunque distinguere e spiegare.
Dal versante cattolico, ‘scolastica’ è termine che indica la teologia che si
insegna nelle Facoltà universitarie: ‘Prima Scolastica’ nel sec.XII, ‘Grande
Scolastica’ nel sec.XIII, ‘Tarda Scolastica’ nel sec.XIV: su di esse ci siamo
14
soffermati nel capitolo undicesimo . Per i secc.XV-XVIII alcuni parlano di
‘Teologia barocca’, altri di ‘Teologia’ moderna’: il primo non conviene alla
teologia del sec.XVIII, il secondo a quella dei secc.XV-XVI, ma, a fronte
di una ufficiale ‘fedeltà’ a Tommaso d’Aquino, tutte se ne scostano molto,
nel merito e nel metodo. Per recuperare questo contatto san Leone XIII pa-
pa decide di pubblicare le opere di Tommaso in edizione critica (editio Le-
onina, non ancora terminata) e di basare su di esse un nuovo modo di fare
teologia: questa è quella che si chiama ‘neo-scolastica’, che nasce quindi
15
nel sec.XIX ed ha il suo apogeo nella prima metà del sec.XX .

_____________________________
14
Le differenze all’interno di questi periodi sono però immense: cf. G. D’ONOFRIO
(ed.), Storia della teologia nel Medioevo, Casale Monferrato 1996 (3 voll.).
15
In realtà sarebbe bene distinguere tra ‘neo-scolastica’, interessata a tutto il Medioevo,
e ‘neotomismo’, concentrato su Tommaso. L’enciclica Aeterni Patris (1879) di san
Leone XIII si riferisce solo all’Aquinate, e lo stesso farà il Concilio Vaticano II, ma è
evidente l’impossibilità di studiare Tommaso senza conoscere il suo maestro Alberto,
e questi, a sua volta, suppone la conoscenza di molti altri prima di lui. Né è possibile
capire quel che pensa Tommaso se non lo si distingue dai contemporanei e posteri. In
definitiva, dallo studio dell’intero medioevo. I singolari poi occultano la pluralità del-
le voci: cf. G. PROUVOST, Thomas d’Aquin et les thomismes, Paris 1996.

445
Dal versante Riformato, ‘scolastica’ indica il movimento di sistemazione
che inizia nel sec.XVII. Dopo Lutero infatti la reazione cattolica non è solo
militare, anzi, è principalmente teologica: e siccome lo stile di allora è ‘sco-
lastico’ (seppur sui generis), i Riformati creano la loro ‘scolastica’. Ovvia-
mente la modellano secondo le loro esigenze, riferendosi a Lutero o Calvi-
no a seconda che si parli di luterani o di calvinisti, ed è processo che dura
16
fino al sec.XVIII . Solitamente si distinguono tre periodi: ortodossia bassa
(1560-1620), ortodossia alta (1620-1700) e ortodossia tarda (1700-90). Da-
ta la diversità dottrinale tra luterani e calvinisti, la ‘scolastica’ Riformata è
poliedrica almeno quanto quella cattolica. Agli inizi del sec.XIX, questa or-
todossia dottrinale è attaccata dai Pietisti, che vogliono più attenzione allo
17
slancio interiore, un ‘ritorno alle origini’ . Questo ‘Risveglio’, biblico, so-
ciale e missionario, dà nuovo slancio alla riflessione teologica, comprese le
prime aperture ecumeniche. Questo è, se si conviene di chiamarlo così, il
‘neo-scolasticismo’ Riformato. Altri dettagli li vedremo tra poco.
_____________________________
16
Magistrale la sintesi di G. BOF, Storia della teologia protestante. Da Lutero al secolo
XIX, Brescia 2000. Dal punto di vista riformato cf. P. BOLOGNESI, Tra credere e sa-
pere. Dalla Riforma protestante all’Ortodossia riformata, Caltanissetta 2011.
17
In realtà il Pietismo è tensione spirituale presente da sempre nella Riforma e con forti
influssi in molti ambiti. Ad un pietismo per così dire ‘iniziale’, testimoniato p.es. da
J. Gerhard (1582-1637), autore delle Meditationes sacrae, ne segue uno ‘trasversale’
che si diffonde per mezzo di gruppi di preghiera detti Collegia pietatis. Ph.J. Spener
(1635-1705) è il primo ad esporre i principi pietisti nei suoi Pia desideria (1675). Gli
si affiancano A.H. Francke (1663-1727), docente di filologia ad Halle, pedagogo ed
educatore, il primo a sollevare la questione della missionarietà in ambito Riformato,
G. Arnold (1666-1714), spirito radicale con idee piuttosto curiose, N.L. Zinzendorf
(1700-60), che esalta l’a-confessionalità pietista, fonda il ‘movimento di Herrhut’ e
dà al Pietismo dimensione mondiale raggiungendo l’Inghilterra e le sue colonie ame-
ricane. Fulcro del Pietismo è l’accento sul sentimento: la religione è del cuore, inse-
gna Spener, e ciò lo avvicina ad Illuministi e Romantici. Con i primi la sintonia sva-
nisce presto: ad Halle, i duri scontri tra Francke e Ch. Wolff, esponente illuminista,
terminano con l’espulsione di questi. Inizia il cosiddetto ‘pietismo tardo’ (1780-
1820), che si oppone anche al Romanticismo: pure questo movimento infatti chiude
la fede nel cuore dell’uomo ed ha idee non cristiane, p.es. sull’immortalità. Questo
Pietismo, che porta i suoi frutti più duraturi, è quello cui ci si riferisce nel testo: dopo
il Romanticismo infatti il Pietismo perde forza e si annacqua in tendenze sempre più
intimiste. Per i dettagli, oltre ovviamente a AAVV, Geschichte des Pietismus, Göt-
tingen 1993-2004 (4 voll.), cf. anche R.G. SATTLER, God’s glory, neighbour’s good.
A brief introduction to the life and writings of August Hermann Francke, Chicago
1982; R. BREYMAYER, «Der Vater des deutschen Pietismus und seine Bücher. Zur
Privatbibliothek Philipp Jakob Speners», in E. CANONE (ed.), Bibliothecae selectae
da Cusano a Leopardi, Firenze 1993, 299-331; P.W. WAENTIG, «Il pietismo illumi-
nato di Nikolaus Ludwig von Zinzendorf», Atti dell’Accademia Roveretana degli A-
giati 256 (2006) 443-459.

446
Entro questo quadro generale va adesso recuperata la nostra prospettiva.
* * *
Per descrivere la percezione della morte nel sec.XIX e la teologia della
morte che ne segue ed ispira (perché ormai si è capito che l’influsso è reci-
proco), dobbiamo mettere da parte molto di quanto detto nel punto prece-
dente: la seconda sezione è infatti quasi tutta di là da venire ed anche molto
della prima si realizza solo a partire dalla seconda metà del secolo. In buo-
na sostanza, la riflessione sulla fede in generale ed in particolare quella sul-
la morte mantengono l’atteggiamento adottato nel sec.XVIII. E questa con-
tinuità, più che comprensibile se ricordiamo che l’Illuminismo è movimen-
to della seconda metà del sec.XVIII ed il terremoto di Lisbona del 1755, è
destinata a durare a lungo.
In effetti, dopo la Benedictus Deus di Benedetto XIII (1336), che risolve
definitivamente fondamentali questioni sulla purificazione e sulla beatitudi-
ne ante resurrectionem, la teologia cattolica non ha più molto interesse per
l’escatologia, e tantomeno per la morte. Difesa l’esistenza del Purificatorio
contro Riformati ed Ortodossi, siccome questi non contestano quella di In-
ferno e Paradiso, prima del Concilio Vaticano II ci si concentra sulla ricer-
ca di illustrazioni ed apologie sempre migliori. La dogmatica diventa così
sorella dell’apologetica, che le chiede di esprimersi e concentrarsi in propo-
sizioni sintetiche che si incarica di difendere logicamente e in generale con
argomenti filosofici. È in questo periodo che nasce il detto “Senza filosofia
non c’è teologia”. Sulle cause di questo atteggiamento molti hanno scritto
tante cose, alcune giuste, altre meno: a noi interessa solo che, in quel pano-
rama, la morte non è che l’istantaneo passaggio da questa vita all’altra, co-
me una porta attraverso la quale si passa da una stanza all’altra. E siccome
le stanze sono così ricche e belle, ovviamente pochi si curano della porta.
Questa visione oggi è spesso esposta con rapidità se non con sufficienza,
ma, a ben vedere, non è del tutto errata: se non altro perché eterno, ciò che
18
accade post mortem è molto più importante di quel che viene prima . Certo
questo non autorizza a disprezzare la vita terrena, ma questo si sa (se inte-
ressa saperlo, è ovvio), sin dalla polemica patristica contro gli gnostici. Né
si può affermare che questo disprezzo fosse cercato e voluto dai teologi: la
Rerum novarum, che san Leone XIII scrive nel 1891, è il frutto più bello, e
per certi versi non ancora esaurito, di un’attenzione non improvvisata. Sa-
rebbe buona cosa investigare teologicamente i molti pronunciamenti contro
_____________________________
18
Poiché BRANCATO, La questione della morte, op. cit., 25-33, ben riassume e docu-
menta questo atteggiamento, per altro noto, non è necessario riportare passi che lo te-
stimonino. Però la bibliografia di supporto è troppo esigua e, come evidenzieremo
nel testo, un pò troppo rapida nelle sue valutazioni.

447
il prestito ad interesse (non ad usura, si badi, ma ad interesse tout court), la
introduzione di molte tipologie di contratti economici, tra i quali il mutuo è
19
il più aborrito, ed in generale in ambito economico-finanziario . Purtroppo,
per ragioni storiche note e comprensibili (ma non per questo giustificanti),
del patrimonio di questi secoli oggi si evidenzia l’attenzione all’ambito ses-
suale, nata in seguito alle polemiche post-tridentine su cosa fosse ‘concupi-
scenza’ e tutt’ora ben forte, si mette in secondo piano quello sociale e si ta-
20
ce del tutto sui pronunciamenti in ambito economico-finanziario . Che pe-
rò esistono e provano che in questi secoli la ‘stanza’ terrena’ non è trascu-
rata ad esclusivo vantaggio di quella ‘celeste’.
Ma l’odierna rapidità di giudizio si rivela piuttosto perniciosa anche per
la comprensione dell’atteggiamento teologico profondo dei nostri giorni.
Infatti, poiché il post mortem dipende da come si è gestito l’ante mortem
(perché il giudizio di Dio è imperscrutabile ma non arbitrario), la corretta
gestione della vita terrena diventa il centro dell’attenzione dei teologi. Quel
_____________________________
19
Cf. p.es. BENEDETTO XIV, litt.enc. Vix pervenit (1 novembre 1745), prol.: «Non ap-
pena pervenne alle nostre orecchie che a cagione di una nuova controversia (preci-
samente se un certo contratto si debba giudicare valido) si venivano diffondendo per
l’Italia alcune opinioni che non sembravano conformi ad una saggia dottrina, rite-
nemmo immediatamente che spettasse alla Nostra Apostolica carica apportare un ri-
medio efficace ad impedire che questo guaio, con l’andar del tempo e in silenzio, ac-
quistasse forze maggiori; e bloccargli la strada perché non si estendesse serpeggiando
a corrompere le città d’Italia ancora immuni». Il contratto cui si riferisce Benedetto è
appunto il prestito a mutuo. L’enciclica poi prosegue così (n.3): «Quel genere di pec-
cato che si chiama usura, e che nell’accordo di prestito ha una sua propria collocazio-
ne e un suo proprio posto, consiste in questo: ognuno esige che del prestito (che per
sua propria natura chiede soltanto che sia restituito quanto fu prestato) gli sia reso più
di ciò che fu ricevuto; e quindi pretende che, oltre al capitale, gli sia dovuto un certo
guadagno, in ragione del prestito stesso. Perciò ogni siffatto guadagno che superi il
capitale è illecito ed ha carattere usuraio». Per il testo della Vix pervenit cf. https://
w2.vatican.va/content/benedictus-xiv/it/documents/enciclica--i-vix-pervenit--i---1-
novembre-1745--poiche-e-venuto-.html. Su questo tema cf. il saggio, documentantis-
simo ma, a quanto ci consta, unico sul tema, di P. VISMARA, Oltre l’usura. La Chiesa
moderna ed il prestito ad interesse, Soveria Mannelli (CZ) 2004. En passant, in que-
gli anni il pietista von Zinzendorf è sulla stessa sintonia, cf. p.es. WAENTIG, «Il pieti-
smo illuminato», op. cit., passim. Non è quindi atteggiamento solo cattolico.
20
Dietro la soppressione della Compagnia di Gesù infatti vi è precisamente l’intento di
contrastare questa visione, da teorica diventata pericolosamente reale nelle 33 reduc-
ciones gesuite in Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay, funzionanti per molti anni:
cf. p.es. A. ARMANI, Città di Dio e Città del sole. Lo Stato gesuita dei Guarani 1609-
1768, Roma 1977; L.A. MURATORI, Il cristianesimo felice dei padri della Compa-
gnia di Gesù nel Paraguai, Palermo 1985; G. ROMANATO, Gesuiti guaranì ed emi-
granti nelle Riduzioni del Paraguay, Ravenna, 2008; C. VOGEL, The suppression of
the Society of Jesus (1758-1773), Mainz 2011.

448
che accade post mortem segue necessariamente da ciò che si è fatto ante
mortem. Ciò spiega molto bene il poco interesse per l’escatologia nella sua
interezza fino a metà del sec.XX e il successivo proliferare di letture scoor-
dinate ed un po’ effimere, entrambi uniti ad un forte interesse per l’ambito
morale, seppur ovviamente in modalità e con sensibilità diverse. Ora, se la
morale la si fonda sulla legge può anche fare a meno della vita spirituale; è
quel che è accaduto in questi secoli. Però ormai si è compreso, i moralisti
più di tutti, che questa non è morale, al più filosofia. Ma se la morale non si
fonda sulla legge su cosa potrà mai fondarsi? Solo su una vita spirituale vi-
va ed educata. Come dicevano i medievali, agi sequitur esse: se dentro sei
cristiano, fuori ti comporterai da cristano. Oggi però l’attenzione alle dina-
miche spirituali è molto ridotta, non solo in Occidente ma ovunque, e ciò si
riverbera fortemente sulla qualità e l’incisività della riflessione teologica.
Con ciò però non si è ridotta la difficoltà teologica e spirituale del consi-
derare la morte mero passaggio dall’aldiqua all’aldilà, anzi, in conseguenza
di quel che si è rilevato diventa ancor meno coerente. Se infatti il contesto
teologico non va in direzione di una sottovalutazione del mondo terreno, al-
lora la ‘stanza’ dell’aldiqua non è qualcosa di disprezzabile, da abbandona-
re in ogni modo, a qualunque prezzo. E perciò quel che la mette in comuni-
cazione con la ‘stanza’ dell’aldilà è non più un mero ‘pertugio’ attraverso il
quale sfuggire nella ‘stanza’ dell’aldilà. Eppure è questo quel che si legge
nei De novissimis, cattolici e riformati, dal sec.XVII al XIX. Esiste perciò
una dicotomia: da un lato ci si comporta nei riguardi della vita terrena in un
modo che lasciarla dovrebbe essere vissuto in una certa maniera, dall’altro
si presenta questo abbandono in termini che suppongono una valutazione di
quella stessa vita molto diversa.

13.3. I fermenti del secolo XX e la teologia della morte


post-conciliare cattolica e riformata (cenni)

La conclusione cui è giunto il punto precedente è confermata da quel che


accade nel sec.XX. Come scrive uno studioso,
«La riflessione esistenzialista ha aiutato la teologia a riappropriarsi della
21
morte come evento carico di un significato umano oltre che teologico» .
Questo inciso riassume l’intero capitolo da cui è tratto, intitolato ‘Istanze
22
di rinnovamento per la teologia’ , e rivela che tra la teologia e la realtà, più

_____________________________
21
BRANCATO, La questione della morte, op. cit., 42.

449
che dicotomia, esiste una vera e propria ‘schizofrenia’. L’autore, diplomati-
camente, scrive ‘aiuta a riappropriarsi’, ma se si legge il capitolo si capisce
che, se la filosofia non avesse avuto la svolta che ebbe, la teologia avrebbe
continuato a parlare del nulla a nessuno per chissà quanto tempo. E non è
affatto una valutazione solo nostra:
«Sfortunatamente, precisa Ruiz de la Peña, il più delle volte si è trattato di
interscambio unidirezionale, perché nella maggior parte dei casi è stata la ri-
flessione filosofica a fornire ed a indicare alla teologia delle vie di compren-
sione del mistero della morte, mente la seconda, purtroppo non sufficiente-
mente attenta a quanto poteva ricavare soprattutto dalla testimonianza della
Scrittura e della ricca tradizione patristica, non ha saputo trovare granchè di
23
stimolante e di vivo da offrire alla prima .
A questo va aggiunto quanto fa notare Greshake, il quale, non volendo esa-
sperare il ruolo svolto dell’esistenzialismo a favore della teologia contempo-
ranea, afferma che dalla prospettiva teologica che è derivata dall’incontro
del pensiero credente con la riflessione esistenzialista
“a stento fu preso in considerazione l’uomo concreto che muore. La mor-
te, non il morire, il momento della fine, non quanto nel tempo precede
immediatamente la fine fu l’oggetto proprio dell’interesse, In realtà -
continua il teologo - morire e morte sono l’un l’altra strettamente connes-
si ed in questo senso nei diversi progetti per una ‘teologia della morte’ si
24
trovano anche notevoli indicazioni per una teologia del morire”» .
Il tono di questo passo insegna molto sulla forma mentis che intendiamo
evidenziare. Ottimo esempio di ‘universitese’, smussa tutto ciò che potreb-
be urtare la suscettibilità di chiunque, foss’anche nella più infima misura, a
prescindere dall’oggetto e dalle responsabilità. Da qui il fiorire di congiun-
tivi, degli ‘sfortunatamente’, ‘purtroppo’, di espressioni come ‘per lo più’,
‘nella maggior parte dei casi’ e così via; il culmine di questo atteggiamento
si raggiunge con locuzioni tipo ‘coltivatore diretto’ o ‘operatore ecologico’
per non dire ‘contadino’ o ‘spazzino’ et similia. Presentato come forma di
rispetto per il pensiero altrui e gabellato come bon ton, in realtà questo mo-
do di esprimersi lascia aperta la porta a chi non vuole capire e non aiuta chi
vorrebbe farlo. Questo continuo sminuire ciò che si è detto si traduce in un
riduzionismo metodico che minimizza perniciosamente gli elementi negati-
vi ed impedisce di prendere coscienza dell’esatta portata dei danni o anche
di coglierli come tali. Uscendo da quest’ipocrisia linguistica, gli autori so-
pra menzionati dicono che la teologia non è stata in grado di dialogare con
______________________________
22
Cf. BRANCATO, La questione della morte, op. cit., 35-44.
23
“Cfr. J.L. RUIZ DE LA PEÑA, El hombre y su muerte, cit., 388” (NdA).
24
BRANCATO, La questione della morte, op. cit., 41s. La citazione è tratta da G. GRE-
SHAKE, «Ricerche per una teologia del morire», Concilium 4 (1974) 103-122, 103s.

450
la filosofia perché ha perso i contatti con la Scrittura, la riflessione patristi-
ca e la vita delle persone reali. Se la descriviamo così, non sarà difficile ri-
levare che questa unidirezionalità è ancora attuale, perché molti teologi di
oggi sembrano non aver occhi per vedere quel che accade intorno a loro, né
orecchi per udire quel che la gente dice, non andar mai a far la spesa né vi-
sitare malati in ospedale. Figurarsi viaggiare per il mondo per vedere cosa
accade in altri Paesi e come là si vive la nostra stessa fede cristiana.
Noi chiamiamo questa ‘teologia da biblioteca’, ed il suo limite più gran-
de non è aver perso contatto con la Scrittura ed i Padri ma non voler ritro-
varlo. Perché solo contemplando il Dio vivente si può fare teologia, e per
contemplare il Dio vivente bisogna stare tra le persone viventi. Ma se si sta
con le persone viventi prima o poi si dovrà dire che questo o quello è sba-
gliato, il che ci porterà a scontri, ci faremo dei nemici, la nostra vita non sa-
rà più tranquilla. Meglio lasciar perdere e scrivere in modo da non infastidi-
re nessuno; e, come ci sono intellettuali organici al potere, così ci sono pure
gli oppositori à la page, pubblicati, letti, rinomati...
Siffatta ‘teologia da banco’ è sempre esistita; il suo valore ce lo lasciamo
descrivere da Gregorio di Nazianzo (non a caso detto ‘il Teologo’):
«Quando io vedo l’attuale prurito delle lingue, i saggi fattisi in un solo gior-
no, i teologi eletti per alzata di mano, ai quali basta volere per essere saggi,
io bramo la filosofia che viene dall’alto, cerco la mia ultima dimora, come
25
dice Geremia, e voglio restare solo come me stesso» .
Ma soprattutto bisognerebbe ricordarsi che è scritto (Lc 6,26):
«Guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi.
Allo stesso modo infatti facevano i loro padri con i falsi profeti»,
ed anche (Mt 5,11):
«Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno
ogni sorta di male contro di voi per causa mia»,
dove l’attenzione più grande deve essere rivolta al fatto che le accuse siano
false, non vere né verosimili, e che la ragione di tali attacchi sia l’amore per
Cristo, non per noi stessi o per l’immagine che vogliamo dare.
Cercare di essere in qualche misura con le persone viventi è ciò che ci ha
spinto a redarre il punto 13.1. in quei termini, ma sicuramente altri saranno
capaci di farlo meglio e con più precisione. Tuttavia non basta menzionare
accadimenti o atteggiamenti fin qui trascurati per mantenere pura anche la
intenzione del nostro agire. Questo infatti è il risultato, sempre provvisorio,
_____________________________
25
GREGORIO DI NAZIANZO, Orationes, or.20, 1 (SCh 270, 56; trad. it. 495).

451
di una ben più complessa serie di dinamiche spirituali tutta interna al nostro
essere, che solo in parte risulterà visibile e soltanto a chi ne vive di simili.
Perché la teologia si fa innanzitutto per aiutare se stessi a capire sempre più
e meglio quel che avviene dentro e fuori di noi. Se poi nostro Signore vuo-
le, allora ci sarà data anche occasione di comunicare agli altri quel che ab-
biamo capito per noi. Come è scritto (Sir 37,22):
«C’è chi è saggio solo per se stesso, i frutti della sua scienza sono sicuri».
Ma questo avverrà secondo con i tempi ed i modi che Lui preferirà, di soli-
to ben diversi da quelli che noi supponiamo ed ancor più da quelli che pre-
feriscono gli altri. Sed de hoc satis.
Per tornare al versante storico della nostra ricerca, si deve rilevare che,
ovviamente, questa dipendenza ha avuto delle conseguenze importanti sulla
teologia della morte. La prima è quella di un plurale: nel sec.XX conviene
parlare di ‘teologie della morte’, perché le filosofie sono più di una e perciò
si potrebbe dire tot philosophiae tot theologiae. La seconda è che riaffiora
una certa distinzione tra riformati e cattolici: questi, legati a pronunciamen-
ti dogmatici cui non possono abdicare, in qualche misura riescono a mante-
nere una certa identità, i primi invece si trovano in una situazione più deli-
cata; poiché descriverla è più semplice, cominciamo da loro.
* * *
Agli inizi del sec.XIX, in Germania, alcuni filosofi iniziano a ripensare il
rapporto anima-corpo in termini nuovi rispetto a quelli classici: alcuni non
sono soddisfatti dell’identificazione tra anima e vita del corpo, per altri è la
descrizione dell’anima ad essere un po’ troppo rapida, altri ancora suggeri-
26
scono un’unione molto più stretta . Tra di loro spicca il filosofo, teologo e
pastore protestante tedesco Friedrich Schleiermacher (1768-1834): per lui il
corpo e l’anima non sono del tutto separati ma, come il primo non può stare
senza la seconda, così questa non può sussistere senza il corpo. A questa re-
plica del mortalismo anglicano (sec.XVI), Schleiermacher unisce l’idea che
la morte dell’uomo è naturale, dovuta al fatto che è una creatura finita. Per
un lungo periodo la filosofia di Hegel (1770-1831) mette in ombra quella di
Schleiermacher, ma la sua fine ne segna la rivincita: intrisa di cristianesi-
_____________________________
26
Per un primo, ben documentato quadro su questo che è un punto di svolta nella storia
della psicologia razionale cf. O. BRINO, «La tematica del corpo nelle psicologie filo-
sofiche ‘realistiche’ del primo Ottocento tedesco: Herbart, Fries, Schleiermacher»,
Etica e politica, 13 (2011) 111-138. Per ulteriori dettagli su questa sezione cf. BRAN-
CATO, La questione della morte, op. cit., 55-61, troppo vicino però a G. GOZZELINO,
Nell’attesa della beata speranza. Saggio sulle ultime realtà cristiane, Torino 1993.
Anche l’interpretazione del dato magisteriale ci trova in disaccordo, come vedremo.

452
mo, anzi di un riformismo pietista, ben lontana dal razionalismo ortodosso,
è adottata a guida dalla gran parte dei teologi riformati del sec.XX.
Naturalmente la tesi della naturalità della morte non è facile da accettare.
A parte la oggettiva ed intollerabile vicinanza a Pelagio, eretico anche per i
Riformati, la testimonianza della Scrittura, come si è visto nella prima parte
di questo saggio, almeno prima facie va in direzione opposta. Per leggerla
in altro modo è necessario introdurre distinzioni che, se per il cattolico pos-
sono avere radice nella Tradizione dei Padri, non è altrettanto facile giusti-
ficare dal punto di vista di chi non accetta quel contributo o ne riduce molto
fortemente la cogenza. Le difficoltà sono dunque oggettive.
I teologi riformati aggirano il problema distinguendo: la morte ‘naturale’
è espressione della finitudine creaturale, e come tale non ha nulla a che fare
con il peccato, la morte ‘giudiziale’ è la qualità assunta dalla morte ‘natura-
le’ dopo la caduta originale. Questa distinzione echeggia quella cattolica tra
morte come ‘trasformazione’, che i progenitori avrebbero sperimentato se
fossero rimasti nello stato di natura pura, e morte come ‘punizione’, ad essa
subentrata dopo la caduta. Questa distinzione però segue da un’ipotesi non
ratificata dal Magistero, quella della natura pura, mentre la distinzione dei
Riformati, entro il loro sistema, si configura quasi come una dottrina.
Questa evoluzione ha diversi padri. Più vicino nel tempo vi è quel rap-
porto di sudditanza teorica della teologia rispetto alla filosofia di cui si par-
lava prima: Scheleiermacher, filosofo-teologo ma anche pastore, Riformato
e non cattolico, appare senza dubbio guida più affidabile di molte altre voci
di allora. Un po’ meno vicino nel tempo ma di influenza non trascurabile vi
è poi la tendenza mortalista, per la quale dopo la morte fisica l’uomo tutto
intero si dissolve per essere ricreato istantaneamente e tutto intero alla re-
surrezione, concezione diffusa tra gli anglicani ma anche in altre ramifica-
zioni Riformate. Alla radice vi è l’incertezza di Lutero, che non riesce a di-
re con sicurezza ed una volta per tutte se, dopo la caduta originale, la morte
entra nella creazione o manifesta la sua pre-esistenza. Ma tutto ciò non ba-
sta a spiegare il successo, meglio la ripresa dell’idea della morte come ele-
mento della natura umana a prescindere dal peccato. A questo esito concor-
rono anche altri fattori, come l’incertezza su quel che accade post mortem
ma ante resurrectionem. Il mortalismo è un’ipotesi, ma non maggioritaria.
Lutero propende per un dormire ma, al solito, non sa decidersi se cosciente
o incosciente. Così alcuni teologi riformati si rifugiano in un comodo ma
poco costruttivo agnosticismo, altri rileggono questa o quella soluzione del
27
passato, i più difendono le tesi che considerano migliori . In questa che per
_____________________________
27
P.es. P. ALTHAUS, Die letzen Dingen. Lehrbuch der Eschatologie, Gütersloh 1957,
ripropone la ricreazione ex novo dell’uomo (mortalismo). O. CULLMANN, Immortalité
(segue)

453
alcuni è libertà di pensiero ma a noi sembra più confusione, la tesi di Sche-
leiermacher appare un salvagente importante, un criterio-guida che, pur non
risolvendo tutti i problemi, almeno mette ordine. Fare altrettanto in ambito
cattolico, seppur mutatis mutandis, è però tutt’altro che semplice. E per ca-
pirlo bisogna allargare la prospettiva e partire un po’ più da lontano.
* * *
Non vi è dubbio che uno dei frutti più importanti del sec.XX, e segnata-
mente del magistero di san Giovanni XXIII papa, sia il dialogo ecumenico:
finalmente Cattolici, Riformati ed Ortodossi ricominciano a parlare tra loro,
finalmente è possibile sbarazzarsi di tante frottole nate per aizzare uno con-
tro l’altro, finalmente ci si può conoscere per quel che si è veramente. Ma è
altrettanto vero che ‘ecumenismo’ non è sinonimo di ‘irenismo’, cioè non è
accettare e ritenere buono e vero tutto quel che l’altro dice solo perché pri-
ma facevamo l’esatto contrario. I nostri fratelli Riformati l’hanno capito ve-
locemente, i nostri fratelli Ortodossi l’hanno sempre saputo, i cattolici sten-
tano a distinguere le due cose e soprattutto faticano a farlo. Chi palesa per-
plessità su questa o quella tesi non cattolica, anche chi, più semplicemente,
legge i testi Riformati o Ortodossi come gli altri, senza incensarli o condan-
narli a priori, de facto è catalogato come anti-ecumenico. Vista la montante
marea reazionaria, dentro e fuori la Chiesa, è atteggiamento comprensibile,
anche se anteriore a questa situazione. Ma non possiamo lasciare che altri
ci impongano cosa e come pensare, neppure per andare in direzione oppo-
28
sta . Quel che conta è ciò che è scritto, non l’autore. La sua forza è negli
argomenti, non nella fama o nell’abilità con la quale è espresso. Applicare
queste affermazioni di principio alla nostra questione, e specie in questo ar-
29
co temporale, è però tutt’altro che facile per il cattolico .
Ormai abbiamo visto che il dato biblico e patristico ha subito molte e se-
rie distorsioni, le cui cause, oltre che diverse, si sono anche prolungate nel
30
tempo. E, ci insegna Basilio, sradicare un’abitudine è molto difficile . Ma
______________________________
de l’âme ou résurrection des morts? Le téimognage du Nouveau Testament, Neuchâ-
tel-Paris 1956, insegna una sopravvivenza larvale dell’anima, sulla scia dell’ep.22 di
Lutero ad Amsdorf, ancor oggi insegnata dai valdesi. Per una panoramica anche cri-
tica dal versante riformato cf. W. PANNENBERG, Teologia sistematica, III, Brescia
1996, 585ss. La nascita di queste opinioni si è esposta e documentata al punto 12.3.,
il loro immediato rifiuto da parte di alcuni Riformati al punto 1.2.2.
28
Perché sarebbe l’opposto di qualcosa che vien da altri, quindi anch’esso dipendereb-
be da fuori. È l’estrapolazione di una tecnica ben nota ai genitori di adolescenti: se
vuoi che tuo figlio faccia qualcosa, vietagliela.
29
Riprendiamo, approfondendolo, ciò che si è già anticipato al punto 11.1, passim.
30
Cf. p.es. BASILIO MAGNO, Homiliae morales, hom.5 in Iulittam martyrem, 4 (PG 31,
245; CTP 147, 59): «La separazione dall’abitudine è più che intollerabile persino per
(segue)

454
il tempo è galantuomo e così, prima o poi, in un modo o nell’altro, volenti
o nolenti, le distorsioni si rivelano per quel che sono: falsità incapaci di star
dietro all’agire dello Spirito nella storia. I disastri esposti nel punto iniziale
sono così orrendi e così grandi da pretendere risposte serie, da tutti e non
solo dai cattolici, è ovvio, ed anche rapidamente. Ora, i Riformati possono
muoversi con più agilità nella ricerca di soluzioni, anche se con i forti limiti
già evidenziati. Per i cattolici abbandonare la manualistica significa abban-
donare la neoscolastica, che non è solo teologia dogmatica ma anche filoso-
fia, medievale soprattutto, è morale (o etica), è esegesi, insomma è una vera
e propria forma mentis. È vero che la neoscolastica è tutt’altro che monoli-
tica e la sua pretesa di essere fedele al passato è infondata, ma è chiaro che
la costruzione di un’alternativa richiede tempo e soprattutto individuare una
direzione verso la quale andare. Questa viene indicata dal Concilio Vatica-
no II, che però non la impone (appunto per andare in altra direzione rispetto
a Trento) e così facendo dilata i tempi della sua affermazione. Ma il tempo
è precisamente quello che manca ai teologi, ai quali si chiede di rispondere
senza però dar loro il tempo di raccogliere i dati ed elaborarli, di rifletterci
sopra, di tentare soluzioni provvisorie per arrivare ad altre più solide.
Ora, siccome questa situazione riguarda tutti, Cattolici, Riformati ed Or-
todossi, e gli eventi si susseguono con velocità pari solo alla loro gravità (il
Concilio inizia nell’ottobre 1962, stesso mese della crisi di Cuba che porta
il mondo ad un passo dalla terza guerra mondiale, quella atomica), è com-
prensibile che i cattolici si siano rivolti verso le soluzioni Riformate, già di-
sponibili, incoraggiati anche dal nuovo clima di dialogo ecumenico. Ciò si
riverbera sull’intera teologia cattolica, che trova in quella Riformata spunti
di riflessione ampi e ricchi, ma soprattutto una libertà di pensiero e ricerca
ad essa ignota fino allora. Da qui l’odierno proliferare di studi, un po’ cao-
tico ed un po’ à la page, cui si è accennato altrove, che echeggia l’analoga
situazione in ambito Riformato. Ora, in tale prospettiva siffatta pluralità è
certo positiva (sine praeiudicio melioris sententiae) ma non altrettanto da
quella cattolica. Per esempio, siamo davvero sicuri che la morte possa esse-
re detta ‘naturale’ da un punto di vista cattolico? Non sarà necessario, al-
meno, specificare che si parla della natura post-lapsaria? O il riferimento al
peccato originale non c’è più? A giudicare da come uno studioso presenta il
panorama della teologia cattolica del sec.XX sembrerebbe proprio così:
«La teologia ha dunque distinto chiaramente la morte come fine naturale
della vita dalla morte come frutto e risultato del peccato e della lontananza

______________________________
gli animali: io stesso talora ho visto un bue versare lacrime nella mangiatoia per la
morte del suo compagno di giogo e di pascolo». Al cap.16 leggeremo il contesto.

455
31
da Dio, come segno dello stato kenotico dell’esistenza dell’uomo .
Per questo stato di cose, secondo alcuni teologi l’uomo posto in un ipotetico
stato di natura pura avrebbe sperimentato la morte non come separazione del
corpo dall’anima, come rottura, ma come trasformazione (trasposizione di
tutto l’uomo - corpo ed anima - nella gloria).
32
La teologia più recente, suffragata anche da alcuni interventi magisteriali ,
afferma che il peccato non ha introdoto un diverso tipo di morte organica,
quanto piuttosto ha determinato una diversa interiorizzazione della stessa,
per cui anche in uno stato di natura pura la morte biologica sarebbe soprav-
venuta, ma sarebbe stata saggiata dall’uomo innocente come un evento di
compimento gioioso e trasfigurante. La morte, anche quando viene intesa
come separazione dell’anima dal corpo, risulta essere l’abbandono di un
modo d’esistere corporeo in cui predomina la legge biologica della carne, e
l’introduzione della persona in un modo d’esistenza in cui si attua la piena
33
realizzazione del predominio dello Spirito .
Gozzelino sottoscrive la posizione più recente della teologia su questo pun-
to, anche perché a suo giudizio non esaspera la differenza tra la condizione
previa al peccato e quella che attualmente e storicamente l’uomo conosce,
sebbene sia anche convinto che neppure alcune indirette prese di posizione
del recente Magistero della Chiesa dirimano definitivamente la questione.
Per queste ragioni egli è dell’idea che il problema, molto dibattuto nella sto-
ria della teologia e che ha delle indubbie ripercussioni anche sull’antropolo-

_____________________________
31
“Cfr. G. COLZANI, La vita eterna, cit., 191-192. Si veda anche J.J. TAMAYO-ACOSTA,
L’escatologia cristiana, cit., 343; P. GIANNONI, La morte salario del peccato e scan-
dalo della creazione, in Vita monastica 194 (1993) 54-67. Sommariamente si può
aggiungere che anche già i Padri generalmente erano concordi nell’ammettere una di-
stinzione tra una morte ‘buona’, un morte ‘cattiva’ e una morte si potrebbe dire ‘in-
differente’; o, il che è lo stesso, tra una morte ‘mistica’ (rinuncia al peccato), una
morte ‘spirituale’ (prodotta dal peccato) e una morte fisica e naturale. Per quanto
concerne la morte naturale essi pensano che si tratti innanzitutto di una chiara mani-
festazione dello sfacelo introdotto dal peccato, anche se escludono che si possa parla-
re in questo caso di male assoluto e profondo proprio per il fatto che colpisce unica-
mente il corpo ed anzi è ciò che permette allo spirito di essere definitivamente con il
Signore per sempre. Per questa ragione, pur mantenendo le dovute distinzioni tra le
varie accezioni della morte umana, essi parleranno sempre più diffusamente della
morte come del vero dies natalis dell’uomo nuovo e di ‘guadagno’, in quanto inau-
gurazione di un essere con Cristo più profondo e più intenso di quello terreno (cfr. G.
GOZZELINO, Nell’attesa della beata speranza, cit., 192-193)”. (NdA).
32
“Si pensi a questo proposito alla posizione assunta dall’episcopato olandese nel suo
Catechismo per gli adulti, in cui si afferma che l’uomo paradisiaco, anche se non a-
vesse peccato, non sarebbe vissuto ugualmente all’infinito, perché nel nostro mondo
limitato una vita senza morte non è biologicamente possibile (cfr. CONFERENZA EPI-
SCOPALE OLANDESE, Catechismo cattolico degli adulti. La confessione della fede
della Chiesa, Cinisello Balsamo 1989, 437-438).” (NdA)
33
“Cfr. M. BORDONI, Dimensioni antropologiche della morte, cit., 60-61.” (NdA)

456
gia oltre che sull’escatologia, rimanga ancora aperto ed oggetto di indagine
34 35
ed approfondimento teologici » .
Abbiamo riportato questo ampio brano, note comprese, per tre ragioni.
La prima è che è una sintesi ottima, migliore di quella che avremmo po-
tuto fare noi, e non vi è ragione per non usufruire del buon lavoro altrui. Lo
studioso approfondisce il quadro per altre cinque pagine e moltiplica riferi-
menti e dettagli, ma per i nostri scopi quel che si è letto è sufficiente.
La seconda è che ci evita di passare in rassegna molte opinioni, il che si
sarebbe tradotto inevitabilmente in uno sgradevolissimo ‘dare la pagella’ a
Tizio e Caio. Già in più di un’occasione il tono di queste pagine sarà certo
sembrato saccente, davvero non sentiamo il bisogno di rafforzare tale anti-
patica impressione senza esservi costretti.
La terza è che, cogliendo bene i nodi teoretici centrali, ci permette di non
annegare nel mare magnum di tesi, opinioni, visioni odierne e concentrarci
sull’essenziale. Ciò detto, sfruttiamo i molti spunti che il passo offre sia nel
testo che nelle note a piè di pagina.
Iniziando dal testo, rileviamo innanzitutto che il primo paragrafo parla di
‘teologia’ senza distinguere tra riformata e protestante: infatti prima vi è so-
lo l’esposizione della visione di W. Pannenberg, teologo Riformato, perciò
‘teologia’ si può solo riferire a quelle opinioni. All’inizio del terzo paragra-
fo vi è la seconda occorrenza del termine ‘teologia’, stavolta riferita invece
a quella cattolica poiché menziona il Magistero. L’incipit del quarto para-
grafo riporta la terza occorrenza, ma a questo punto non è possibile capire
se si riferisce alla teologia cattolica o a quella riformata. È chiaro che, per
l’autore, la ‘teologia’ è una e la medesima, non importa se chi scrive sia un
cattolico o un riformato. Senza dubbio ciò sembrerà agli occhi di molti un
guadagno del dialogo ecumenico, ma in realtà non è così: ‘teologia’ non ha
lo stesso significato per Riformati e Cattolici, e nessuno dei due può rinun-
ciarvi senza abdicare alla sua natura di Riformato o Cattolico. Quel che si è
(intra)visto è indifferentismo, non ecumenismo. E lo si è solo ‘intra’ e non
‘visto’ sic et simpliciter perché non è affermato apertamente ma lasciato fil-
trare di soppiatto, omettendo di aggettivare il sostantivo ‘teologia’, che così
rimane indeterminato come se al suo interno non vi fossero differenze.
Questo esempio di appiattimento su tesi elaborate altrove èl primo ma
non il solo. Subito dopo infatti il primo afo prosegue affermando che la ‘te-
ologia’ ha “chiaramente (?) distinto tra la morte come frutto del peccato e
morte naturale”. Sicuramente siamo noi a non aver capito, ma quel ‘chiara-

_____________________________
34
“Cfr. G. GOZZELINO, Nell’attesa della beata speranza, cit., 431-432”. (NdA)
35
BRANCATO, La questione della morte, op. cit., 56s.

457
mente’ non ci pare fondato. La distinzione, quella sì che è chiara, ma il suo
fondamento non altrettanto. Forse però l’avverbio si riferiva solo a quella.
Assai meno ambiguo è invece dire che “la morte è il fine naturale della vi-
ta”. Questo è il fulcro della teologia riformata-cattolica odierna sulla morte:
l’uomo sarebbe morto anche se non avesse peccato. Che sia proprio questo
l’intento di questa teologia trasversale si legge nel primo periodo del quarto
paragrafo: “Gozzelino sottoscrive... perché non esaspera la differenza tra la
condizione previa al peccato e quella che attualmente e storicamente l’uo-
mo conosce”. Dunque questo è quel che deve fare il teologo che vuol pre-
sentare un’immagine della morte moderna, aggiornata, recente, come di-
ciamo noi con un lemma meno simpatico, à la mode: minimizzare le conse-
guenze del peccato originale, non esasperare le differenze tra il prima ed il
dopo. E poi, per non correre alcun rischio, minimizzare pure la minimizza-
zione, come si legge nell’ultima parte del paragrafo.
Quindi il peccato originale non avrebbe poi avuto chissà quali drammati-
che conseguenze sull’uomo. Il lettore non faticherà ad immaginare la nostra
reazione nello scoprire, in nota a piè di pagina, che anche i nostri santi Pa-
dri la pensavano così. Incredibile! Dopo aver letto tutti quei passi di così
tanti adri non ce ne eravamo accorti! In effetti c’è un (solo) passo nel quale
si parla di una morte ‘indifferente’, e lo leggeremo, ma il significato che gli
attribuisce il nostro studioso è opposto a quello del suo autore (Origene). In
realtà l’idea che il peccato originale non sia stato così grave è ignota ai Pa-
dri e contraria alla loro visione di vita spirituale e di azione morale, come il
lettore può facilmente verificare rileggendosi i capitoli dal sei al nove. ui si
è di fronte ad un perfetto esempio di quella che noi chiamaiamo ‘esegesi a
tema’. Questa consiste nell’assumere la verità a priori di una tesi, qui che il
peccato originale è poco rilevante, e forzare i testi perché la provino o, se
l’impresa risulta troppo ardua (come con certi brani dell’Agostino antipela-
giano), mostrare che non la contraddicono. Ma è serio pretendere che Ago-
stino smentisca tesi che saranno formulate quindici secoli dopo di lui? È se-
rio ritenere che, se un passo non smentisce una certa tesi, allora questa è
vera? Senza dubbio il lettore penserà che siamo troppo duri, ma non è così:
è quel che si legge nel secondo paragrafo.
Il secondo paragrafo infatti sintetizza brutalmente la cosiddetta ‘antropo-
logia dei due fini’, che ha dominato la teologia cattolica nella prima metà
del sec.XX. Il punto di partenza è una domanda seria: oggi, dopo la caduta,
la beatitudine è raggiungibile solo per grazia e post mortem, ma come la si
raggiungeva prima del peccato e prima di morire? Evidentemente si posso-
no fare solo ipotesi, come si è letto più volte in Agostino, ma anche così il
risultato non è quello presentato. In quel periodo infatti, come sappiamo, la
morte è concepita come il varcare una porta tra due stanze, privo di valore e

458
interesse. Oggi, dopo il peccato, per essere trasformati nella gloria bisogna
prima varcare quella soglia, ma senza il peccato non ce ne sarebbe stato bi-
sogno: la trasformazione avrebbe potuto avvenire altrimenti. ‘Avrebbe po-
tuto’, si badi, perché queste sono soltanto delle ipotesi, e comunque la tra-
sformazione gloriosa non è la morte: i sostenitori dell’antropologia dei due
fini infatti si guardano bene dal dire ‘morte’ la trasformazione beatificante.
Come si può dunque scrivere che “(l’uomo) in un ipotetico stato di natura
pura avrebbe sperimentato la morte”? Facendo una ‘esegesi a tema’: assun-
to a priori che riguardo alla morte la caduta è irrilevante, l’unico candidato
possibile per quel ruolo è la trasformazione. Non importa se ciò implica che
de facto morte e beatitudine diventino sinonimi. Non importa se ciò implica
che, dato che la finitudine creaturale rimane post mortem, allora si può mo-
rire anche da beati. Non importa se questa ‘naturalità’ della morte va contro
tutto quel che dice la Scrittura, i Padri che ne hanno scoperto l’erroneità, i
Medievali che he hanno studiato l’innaturalità ed i santi che hanno insegna-
to il solo modo per giovarsene. Tutto ciò non conta. La morte appartiene al-
la natura umana sin dalla creazione e basta. L’assunto è vero a priori per-
ché noi siamo i primi a capire come stanno davvero le cose. Una tale cecità
36
di fronte a conseguenze francamente banali ammutolisce .
A questo punto viene da chiedersi che valore hanno i cenni al Magistero:
forse che la Chiesa si è espressa nel senso di una morte presente nella natu-
ra umana sin dalla creazione? L’autore, in nota, rinvia a due pagine del Ca-
techismo olandese, pubblicato nel 1989, nel quale si affermerebbe che, an-
_____________________________
36
Dal punto di vista spirituale le cose però sono più complesse. La panoramica di Bran-
cato rivela un courant théologique praticamente omogeneo nell’affermare quel che si
è definito ‘assunto a priori’. Ora, fermo restando che crediamo alla validità di quanto
si è osservato (altrimenti non lo avremmo scritto), non possiamo non chiederci come
sia possibile che nessuna di queste belle menti si sia accorto delle sue conseguenze.
La malafede va esclusa a priori. Qualcuno diceva che a pensar male si fa peccato ma
spesso ci si azzecca: ebbene, preferiamo non peccare all’aver ragione. E se fossimo
noi a sbagliare? È certo possibile che uno solo veda bene e tutti gli altri no, perché la
verità non si decide a maggioranza, però oltre alla possibilità vi è anche la probabili-
tà: e non è molto probabile che tutti si sbaglino per anni ed anni, meno uno, che per
di più è solo un teologucolo di periferia. Accanto a questi che potrebbero essere sia
rimorsi di coscienza che una tentazione di scrupoli (non è facile distinguere...) vi è
poi il factum della impossibilità a pubblicare: è il nemico che l’ostacola o è lo Spirito
che non vuole? Nel primo caso possiamo confidare nell’aiuto di Dio, ma nel secondo
è bene che le nostre false opinioni restino confinate nel nostro computer. In coscien-
za sentiamo il dovere di scrivere quel che ci sembra vero in modo che sia ben chiaro,
ma non faremo assolutamente niente per renderlo noto. Se Dio vorrà, accadrà. Con i
suoi tempi ed i suoi modi. Solo così sapremo se le nostre sono verità o falsità.

459
che senza peccare, l’uomo sarebbe morto comunque perché una vita senza
fine è biologicamente impossibile. Oggi, cioè dopo il peccato. Prima, si può
ipotizzare di sì. Agostino si fermerebbe qui, Ambrogio come sappiamo va
oltre e con lui tutti i Padri greci; ma limitiamoci al Magistero cattolico.
Nel 1981 la Conferenza Episcopale Italiana promulga il suo Catechismo
per gli adulti, nel quale, a proposito della morte, si legge:
«La morte, frutto e segno del peccato, lacerazione dell’unità spirituale-cor-
porale dell’uomo, nella sua angosciosa drammaticità spinge molti alla rivol-
37
ta contro Dio» .
Ora, a meno di non voler ammettere che il peccato è nella natura umana
sin dalla creazione (lo si esclude apertis verbis per evitare ‘esegesi a tema’
anche delle nostre parole), è chiaro che questo testo attribuisce la morte non
alla natura umana, e tantomeno a quella ante lapsum, ma solo al peccato. E
siccome è promulgato da una Conferenza Episcopale, ha la stessa qualifica
teologica di quello menzionato (ma non riportato) dall’autore. Ma la partita
non si chiude certo in parità. Poco dopo questo brano infatti il Catechismo
italiano rinvia a questo passo:
«Se qualsiasi immaginazione vien meno di fronte alla morte, la Chiesa inve-
ce, istruita dalla rivelazione divina, afferma che l’uomo è stato creato da Dio
per un fine di felicità oltre i confini della miseria terrena. Inoltre la morte
corporale, dalla quale l’uomo sarebbe stato esentato se non avesse peccato
(cf. 1Cor 15,56s), insegna la fede cristiana che sarà vinta quando l’uomo sa-
rà restituito allo stato perduto per il peccato, dall’onnipotenza e misericordia
38
del Salvatore» .
Questo brano è tratto dal n.18 della Costituzione pastorale Gaudium et
Spes del Concilio Vaticano II, la cui qualifica teologica è di gran lunga più
importante di quella di una Conferenza Episcopale e per di più anteriore ai
passi tratti dai loro documenti. Ubi maior... Se poi notiamo che la dottrina
conciliare è ribadita più e più volte anche dal Catechismo della Chiesa Cat-
39
tolica, dal punto di vista dogmatico la questione è de facto esaurita . De iu-
_____________________________
37
CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Signore da chi andremo? Il catechismo degli
adulti, Roma 1981, 463.
38
CONCILIUM VATICANUM II, cost. past. Gaudium et spes, n.18 (EV 1, n.1372). Il Ca-
techismo italiano riporta (non solo rinvia) questo testo alle pp.468s.
39
Cf. p.es. Catechismo della Chiesa Cattolica, nn.374.397.400.1006 (come la morte è
entrata nel creato); nn.1008.1019 (la morte è conseguenza del peccato). Naturalmente
qualcuno farà notare che al n.1008 si legge «Sebbene l’uomo possedesse una natura
mortale, Dio lo destinava a non morire», e concluderà quindi che per il Magistero la
morte è ‘naturale’. Ora, è vero che l’aggettivo ‘naturale’ è nel testo, ma non vi è dub-
bio che il resto del numero (e degli altri) non gli dà il senso che ha presso i teologi di
(segue)

460
re no, perché ancora non c’è una definizione irreformabile al riguardo: for-
40
se a qualcuno non basterà neanche quella, ma lasciamo stare . Semmai bi-
sogna chiederci perché, parlando di Magistero, si rinvii al catechismo olan-
dese ma non a quello italiano e soprattutto né al Concilio né al Catechismo.
Un lavoro scientificamente serio deve riportare tutte le voci, d’accordo o no
con il nostro pensiero, anzi, per correttezza dovrebbe curare più le seconde
delle prime, a fortiori se così autorevoli. La ragione di tale silenzio è sem-
plice: quella che si è letta è una ‘esegesi a tema’. Non potendo piegare il te-
sto del Concilio all’assunto a priori della ‘morte naturale’ né neutralizzarlo,
allora si ignora, anzi, neanche se ne menziona l’esistenza. Si legga il passo
riportato alla luce di Gaudium et Spes, 18, e sarà fin troppo chiaro.
Ora, se questo fosse stato compiuto da Pannenberg (per fare un nome), la
cosa ci avrebbe lasciati indifferenti. Pannenberg infatti è un Riformato, per
lui i testi del Magistero cattolico sono documenti come tanti altri, ha tutto il
diritto di scegliere quelli che preferisce. Correttezza vorrebbe che riportasse
anche gli altri, ma se non lo fa, pazienza. Per il cattolico invece il Magiste-
ro, con la Scrittura ed i Padri, è uno dei pilastri sui quali poggia la propria
riflessione, dove ‘poggiare’ non significa ‘limitare a’, tantomeno riproporre
pedissequamente, bensì usarli come un trampolino per saltare in avanti. Ma
se, come si è visto, il dato biblico è accantonato a favore di assunti a priori
e contrari, quello tradizionale che ne insegna l’ereticità è ignorato, e quello
magisteriale, che li sintetizza, è taciuto nonostante si tratti addirittura della
Costituzione di un Concilio Ecumenico, allora è lecito chiedersi cosa signi-
fichi ‘cattolico’ per questi teologi. Noi non lo sappiamo. Quanto all’idea di
teologia come contemplazione di Dio, non è neppure il caso di parlarne.
Naturalmente non si può fare di tutta l’erba un fascio. Il nostro studioso
infatti passa in rassegna con acribia e dovizia di particolari le teologie sulla
______________________________
cui ci stiamo occupando, tant’è che lo stesso n.1008 poi recita: «La morte fu dunque
contraria ai disegni di Dio». Si può invece notare che il Catechismo si contraddice: la
morte prima è ‘naturale’, poi ‘contraria al disegno di Dio’. Questo accade perché il
Catechismo non vuole imporre una linea teologica ma media tra vari orientamenti te-
ologici. L’intenzione è buona ma il risultato meno, in questo come in altri casi.
40
Cf. p.es. i tanti ‘dubbi’ e ‘perplessità’ che suscitò l’esclusione definitiva delle donne
dal presbiterato (cf. GIOVANNI PAOLO II, litt. ap. Ordinatio sacerdotalis, EV 14,
nn.1340-1348), non placatisi neanche dopo che il papa confermò l’intenzione defini-
toria (cf. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Responsum ad dubium ‘U-
trum doctrina’ circa doctrinam in ep. ap. “Ordinatio sacerdotalis” traditam, EV 14,
nn.3271-3282, con commento anonimo). Ora, ai dogmi è richiesto l’assenso di fede e
di ragione. La contestazione fece leva sulla mancanza, nella formula, dell’anatema,
un appiglio formale che al più poteva influire sull’assenso di ragione. Che però segue
l’assenso di fede, un vincolo in coscienza che esiste solo in chi ammette che qualcun
altro gli può insegnre cosa credere ed è disposto a farsi vincolare.

461
morte di vari ambiti linguistici, tedesco, spagnolo ed italiano, esaminando e
41
documentando le posizioni di molti teologi di primo piano . È facile capire
quante sfumature emergano dalla ricognizione: vi è chi chi difende la nuo-
va prospettiva con unghie e denti (Jungel, molti Riformati) e chi resta fede-
le alla visione tradizionale pur aprendosi alla nuova (Guardini, Greshake),
chi cerca di conciliare le due visioni (Schmaus) e chi sposta l’attenzione
per evitare lo scontro (Ratzinger, Forte), chi si lancia in elucubrazioni più o
meno fumose (Rahner, Moltmann) e chi gioca con le parole (Balthasar), chi
tenta nuove strade per uscire dall’impasse (Ruiz de la Peña) e chi crede di
poter ignorare tout court la questione (Müller). Ognuna di queste posizioni
ha punti di forza e di debolezza, ma nel commento all’ultimo passo riporta-
to si è già dovuti essere abbastanza duri per sentire il bisogno di ripeterci
esaminandoli uno per uno, magari per scoprire solo piccole varianti.
Il quadro di fondo resta perciò quello sopra delineato.
Con al centro l’idea che morire fa parte della natura umana sin dalla sua
creazione, e che il peccato originale non ha influito così tanto su questo che
si afferma sia il dato di fatto (senza provarlo).
Prima di passare alle conclusioni però dedichiamo un po’ di attenzione ai
nostri fratelli Ortodossi, fin qui del tutto trascurati.

13.4. La moderna teologia della morte


nelle Chiese ortodosse (secc.XIX-XXI)

Quando si parla di ‘Chiese ortodosse’ di solito la mente pensa a quelle di


lingua greca o russa, ma in effetti l’insieme ne comprende moltissime altre,
nel Vicino Oriente ma anche in Africa. Quasi sempre sono la gran parte dei
cristiani di quei Paesi, in alcuni di essi (Russia, Grecia ma anche Georgia
ed Armenia) anche la stragrande maggioranza degli abitanti. Il nostro silen-
zio dunque non ha riguardato un piccolo numero di fratelli ma uno molto
_____________________________
41
Cf. BRANCATO, La questione della morte, op. cit., cap.VI per totum, ed in particolare
63-103 per i teologi di lingua tedesca, con l’esame delle opinioni di Schmaus, Guar-
dini, Jungel, Rahner, Balthasar, Müller, Greshake, Ratzinger, Moltmann; 104-110
per i teologi di lingua spagnola, con l’esame delle posizioni di Ruiz de la Peña e Ta-
mayo Costa; 110-126 per i teologi italiani, con l’esame delle opinioni di Forte, Cro-
ce, Gozzelino, Bordoni, Biffi, Colzani, Rudoni, Scognamiglio. Dei teologi di lingua
francese manca solo la presentazione organica, dato che al di fuori del cap.VI Bran-
cato esamina le opinioni di Teilhard de Chardin, Martelet, Tilliette, Manigue, Guillet,
Grelot, Boros, insieme a quelle di molti altri, del calibro di Boff, Küng, Cullmann,
Lorizio, Wiederkehr, Breuning, Ancona, Petrini... La valutazioni che daremo nel te-
sto si basano su questa ampia messe di materiale.

462
grande e di ancor più grande importanza, dato il loro ruolo di rappresentan-
za della fede cristiana. E sarebbe stato davvero grave se avessimo pensato
di scrivere una ‘teologia della morte’ senza menzionare le opinioni di così
tanti fratelli, per di più in difficoltà nel loro restare fedeli. Tuttavia tale si-
lenzio ha anche ragioni serie; per spiegarle è però necessario avere prima
un quadro più preciso di cosa sia ‘Ortodossia’.
In primis è necessario intendersi sulle parole. ‘Ortodossia’, letteralmente
‘retta opinione’, è l’aggettivo che le Chiese cristiane d’Oriente non cattoli-
che usano per indicare se stesse, ma in verità non poche di esse si sono se-
parate dalle altre proprio perché le loro opinioni non sono state considerate
affatto ‘rette’: ad esempio, la Chiesa dell’Iraq (o assira) lo fece nel 431, ri-
fiutando il Concilio di Efeso, le Chiese siriache nel 451, non accettando la
dottrina definita nel Concilio di Calcedonia. Non è quindi corretto definirsi
‘ortodossi’ quando all’interno vi sono tali distanze, ed ancor meno conside-
rare ‘non ortodossi’ chi invece riconosce tutti i sette Concili ecumenici. Ma
l’uso ormai è questo, perciò, per non far questione di parole, chiameremo
anche noi ‘Ortodosse’ le Chiese d’Oriente non in comunione con Roma.
Poi bisogna dire che l’Ortodossia è una comunione tra Chiese autocefale
42
(indipendenti) . I territori di solito coincidono con gli Stati, ma, ad esem-
pio, il Patriarcato serbo ha giurisdizione sugli ortodossi della ex-Jugoslavia,
quello di Alessandria sugli ortodossi d’Africa, ma non tutti. Bisogna poi di-
stinguere tra Chiese Ortodosse bizantine e Chiese Ortodosse orientali. Que-
_____________________________
42
Questo è come gli Ortodossi amano descriversi, ma in realtà ‘comunione’ è termine
un po’ forte. I rapporti tra le Chiese Ortodosse subiscono molto gli effetti di questioni
come il primato di giurisdizione, l’autocefalia e simili, perciò non sono idilliaci. Lo
prova il fallimento del Concilio di Creta (2016): i Patriarcati di Antiochia, Bulgaria,
Mosca e Georgia, assenti, hanno disconosciuto il Sinodo; il Patriarcato di Romania e
la Chiesa autocefala greca hanno espresso perplessità sulle conclusioni; al Monte A-
thos si è cessato di ricordare il Patriarca di Costantinopoli (segno di rottura della co-
munione); la reazione monastica e di molti singoli vescovi è stata ancor più negativa.
In generale, poi, si deve dire che l’Ortodossia ha la scomunica ‘facile’ rispetto ai Cat-
tolici (i Riformati non l’hanno), cui però non corrisponde un’analoga facilità di rien-
tro. Molti Ortodossi, specie greci e georgiani, non considerano ‘chiesa’ la Cattolica,
a fortiori le Riformate, perché separate dall’Ortodossia, e dubitano anche delle Chie-
se siriaca, armena, copta, etiope ed eritrea: cf. AAVV, Le Chiese non-calcedonesi
sono ortodosse?, Monte Athos 1995 (in greco); J.C. LARCHET, «La question christo-
logique. À propos du project d’union de l’Église orthodoxe et des Églises non-chal-
cédoniennes: problèmes théologiques et ecclésiologiques en suspens», Le messager
orthodoxe 134 (2000) 3-103. Al Concilio di Creta questo scontro ha rivelato tutta la
sua forza: cf. P. CHIARANZ (ed.), La contestazione ignorata. La critica ortodossa al
concilio di Creta, Venezia 2017. Ovviamente non entreremo in questi dettagli, ma ci
sembra atteggiamento identico a quello cattolico pre-conciliare: la vera Chiesa siamo
noi, sono gli altri a dover rientrare nell’ovile della verità (nostra)...

463
ste sono la Chiesa armena, copta, etiope, eritrea e le tante Chiese siriache,
cui afferiscono anche le indiane, come la siro-malankarese del Kerala. Le
Chiese Ortodosse bizantine sono distinte in Patriarcati antichi (Gerusalem-
me, Antiochia, Alessandria, Costantinopoli), Patriarcati moderni (Mosca,
Sofia, Tblisi, Bucuresti, Beograd), Chiese nazionali autocefale (Cipro, Gre-
cia, Polonia, Albania, Cechia, Slovacchia, America) e Chiese autonome ma
sotto la giurisdizione di un Patriarcato: le Chiese estone, lettone, ucraina,
giapponese e la metropolia dell’Europa occidentale dipendono dal Patriar-
cato di Mosca, le Chiese siriache (Siria, Libano, Iraq, Iran, Kerala) dal Pa-
triarca di Antiochia, la Chiesa finlandese è sotto Costantinopoli, la Chiesa
del Monte Sinai dipende da Gerusalemme. L’elenco rivela la grande varietà
interna all’Ortodossia e lascia indovinare uno dei motivi del rifiuto di ogni
omogeneizzazione simil-Cattolica e della sua repulsione per l’anarchia si-
43
mil-Riformata (così molti Ortodossi vedono gli Occidentali) .
Data questa grande estensione territoriale è facile intuire che ogni Chiesa
Ortodossa ha una sua storia. Noi la esporremo per grandi blocchi.
Il primo blocco, più grande ed anche più semplice da illustrare, consiste
nelle molte Chiese del Vicino Oriente. Sebbene di origine quanto mai varia,
anche se sempre antichissima, la conquista araba del sec.VIII le accomuna
in un solo destino, e le cose cambiano poco quando i turchi subentrano agli
arabi, nel sec.XV. Minoranze tollerate ma talvolta perseguitate, le Chiese
Ortodosse del Vicino Oriente e dei Balcani devono difendere la loro identi-
tà con ogni mezzo, contro i musulmani e contro i Latini; con il tempo, ogni
44
cambiamento finisce con il sembrare pericoloso . Il crollo dell’Impero tur-
_____________________________
43
In realtà gli Ortodossi sanno bene che la Chiesa Cattolica non coincide con quella
romana, perché in ogni Paese vi sono Chiese Cattoliche orientali: A. ELLI, Breve sto-
ria delle Chiese Cattoliche Orientali, Milano 20172, 38, ne elenca ben 23.
44
Semplifichiamo qui un quadro infinitamente più complesso, per il quale cf. p.es. J.
MEYENDORFF, La teologia bizantina. Sviluppi storici e temi dottrinali, Casale Mon-
ferrato 1984; M. TENACE, Il cristianesimo bizantino. Storia, teologia, tradizione mo-
nastica, Roma 2000; Y. SPITERIS, La teologia ortodossa neo-greca, Bologna 2016.
In realtà gli Ortodossi bizantini hanno avuto contatti con i Latini: p.es. nel 1099, a
Gerusalemme, quando i Crociati li massacrano insieme a ebrei e musulmani, o nella
IV crociata, combattuta contro Bisanzio, non contro i musulmani. La presenza catto-
lica nel Vicino Oriente risale al periodo crociato (secc.XI-XIV), nel quale la gerar-
chia ortodossa viene sistematicamente sostituita da una franco-latina. I contatti con la
teologia occidentale sono ugualmente aspri. Dopo che Demetrio Cidone (1324-98) ha
tradotto in greco la Summa theologiae e la Contra Gentiles di Tommaso d’Aquino,
inizia una certa sintonia che culmina con le tesi di Barlaam Calabro (1290-1348), alle
quali si oppone Gregorio Palamas (1269-1359): nel 1341 un sinodo costringe Barla-
am a desistere, e da allora Palamas diventa il teologo bizantino più importante ed il
suo pensiero il cuore spirituale e dogmatico dell’Ortodossia greca.

464
co (1922) muta le condizioni politiche ma la paura di essere ‘colonizzati’,
la tentazione immobilista, la resistenza al dialogo sono ancora forti, più nel-
45
le chiese greca, bulgara e georgiana, meno nelle siriache ed armena .
Un secondo blocco è quello delle Chiese Ortodosse slave, poste in quella
che oggi si chiama Europa dell’Est e delle quali la più grande ed importante
46
è la Chiesa Russa . Nate bizantine, per motivi politici nel sec.IX iniziano a
gravitare nell’orbita occidentale e ci restano fino al sec.XVI, Russia com-
47
presa. Dopo un’iniziale simpatia per la Rifroma , il Patriarcato di Mosca e
le Chiese sotto la sua giurisdizione optano per l’Ortodossia ma, per ragioni
politiche, nel 1721 Pietro il Grande sostituisce il Patriarcato con un collegio
di dieci vescovi, il ‘Santo Sinodo’, e con Caterina II (1729-96) la Chiesa de
facto è parte dell’amministrazione imperiale. Ciò congela la riflessione teo-
logica quasi fino al 1917-18, quando a Mosca si tiene un Concilio innovati-
48
vo ma in ritardo, come rivelano le date . Dopo la caduta del regime sovie-
tico le Chiese Ortodosse slave hanno iniziato percorsi diversi: quelle balti-
che e la rumena sono molto aperte al dialogo, la russa è più cauta, un po’
chiusa la bulgara, molto la bielorussa.
Un ultimo blocco è quello nelle Chiese Ortodosse dell’Africa orientale,
la copta, l’etiope e l’eritrea. Importanti per l’elevato numero di fedeli, le ul-
time due sono però rimaste ai margini di quasi tutti i movimenti storici. La
copta invece, trovandosi essenzialmente in Egitto, è stata coinvolta prima
nelle vicende dell’Impero turco, poi in quelle dell’Impero inglese ed infine
nella lotta contro il fondamentalismo dei Fratelli Musulmani. Oggi il dialo-
go ecumenico con queste Chiese è abbastanza buono, ma la loro distanza
_____________________________
45
Cf. p.es. G.D. PANAGOPOULOS, La theologia occidentale. Panoramica introduttiva in
una prospettiva ortodossa, Trieste 2016, che riprende le tesi di I.S. ROMANIDIS, Un
virus mortale. Il peccato originale secondo san Paolo, Trieste 2006; IDEM, Il peccato
originale. Chi è l’uomo? Qual è la sua storia?, Trieste 2008. Il concetto di fondo di
questi autori è che Carlo Magno e in generale i ‘barbari’ hanno imposto il loro retag-
gio pagano all’indifeso papa latino, dando origine ad un ibrido semi-eretico che viene
detto ‘Chiesa francolatina’, epiteto che ricorre ovunque in questi scritti.
46
La miglior panoramica sulla Chiesa Ortodossa russa è I. ALFEEV, La Chiesa Orto-
dossa, 5 voll., Bologna 2013ss; il vol.1 è dedicato alla parte storica. Per le altre Chie-
se cf. gli studi raccolti in A. PACINI (ed.), L’ortodossia nella nuova Europa. Dinami-
che storiche e prospettive, Torino 2003. Indispensabile però è anche la lettura ‘empa-
tica’ del classico P. EVDOKIMOV, Ortodossia, Bologna 20102 (or.1965).
47
Cf. L. RONCHI DE MICHELIS, «La presenza riformata in Russia nel XXI secolo», Di-
mensioni e problemi della ricerca storica 2 (2010) 189-202.
48
Cf. A. MAINARDI (ed.), Il concilio di Mosca del 1917-1918. Atti del Convegno ecu-
menico internazionale di spiritualità ortodossa (sezione russa), Bose 18-20 settem-
bre 2003, Magnago (BI) 2004; H. DESTIVELLE, Le Concile de Moscou (1917-1918).
La création des institutions conciliaires de l’Église orthodoxe russe, Paris 2006.

465
culturale e teologica dalle altre Chiese ortodosse, oltre che da Cattolici e
49
Riformati, è davvero notevole .
Se si eccettua questo ultimo blocco, che per ragioni storico-geografiche è
vissuto in un isolamento quasi completo per più di dieci secoli, dal punto di
vista teologico l’Ortodossia si caratterizza per una tensione spirituale molto
forte e per un ugualmente radicato attaccamento ai Padri (tra i quali anno-
50
verano però anche autori molto vicini ai nostri giorni) . Fino al sec.XVIII
si può dire che l’Ortodossia nel suo insieme è rimasta sconosciuta in Occi-
dente: i pochi, sporadici, interessati e comunque non empatici contatti spes-
so si sono trasformati in scontri, con i Riformati più per ragioni teologiche,
51
con i Cattolici più per ragioni politiche . È solo all’inizio del sec.XX che si
ha un primo contatto serio e prolungato, ad opera dei tanti intellettuali russi
in fuga prima dalla repressione zarista e poi da quella sovietica; molti scri-
vono in francese, qualcuno in inglese, inizia la traduzione in lingue europee
degli scritti in russo o in greco (magari katharevusa...). Dal Concilio Vati-
cano II in poi si sono aperte le porte anche delle altre Chiese Ortodosse, ed
il flusso di scritti e pensieri ha cominciato a fluire anche in direzione oppo-
sta. In questi ultimi anni si registra però una battutta d’arresto: molte opere
importanti si leggono ancora solo in originale, sono rimaste escluse del tut-
to quelle in georgiano, armeno e soprattutto le moltissime in arabo.
* * *
La nostra ricerca sulla teologia della morte, già di nicchia in ambito eu-
ropeo, è decisamente al di là degli interessi di moltissimi autori Ortodossi,
la gran parte dei quali si limita a riproporre tal quale la posizione dei Padri
greci e, eccezionalmente, qualche Padre latino. In questa ottica non vi sono
differenze sostanziali tra Ortodossi greci o russi, se non che i primi amano
molto poco Agostino, spesso anzi attaccato, ed i secondi sono molto sensi-
bili alla spiritualità monastica, specie filocalica. Data l’enorme stima che in
tutta l’Ortodossia si ha per il monachesimo, è poi molto importante sapere

_____________________________
49
Cf T. ORLANDI, «La letteratura copta e la storia dell’Egitto cristiano», in P. SINI-
SCALCO (ed.), Le antiche Chiese orientali. Storia e letteratura, Roma 2005, 85-117;
A. ELLI, Storia della Chiesa ortodossa Tewahedo d’Etiopia, Milano 2017.
50
Cf. il quadro globale di T. ŠPIDLÍK, La spiritualità dell’Oriente cristiano. Manuale
sistematico, Cinisello Balsamo 1995 (or.1978). Per una descrizione meno tecnica, ma
dalla sola prospettiva russa, cf. P. EVDOKIMOV, La vita spirituale nella città. Il volto
dell’ortodossia nella storia, Magnano (BI) 2011.
51
P.es. il Concilio di Firenze (1417-31) sfrutta le difficoltà dell’imperatore Giovanni
Paleologo per imporgli un’unione che poi rinnega al ritorno a Costantinopoli: cf. J.
GILL, Il Concilio di Firenze, Firenze 1967, datato ma ben documentato. Però è anche
vero che altre unioni (armeni, copti, siriaci, caldei) resistono fino ad oggi.

466
che verso la morte questo si pone, in buona sostanza, nella prospettiva trat-
teggiata nel capitolo ottavo. Ciò significa che la gran parte dei nostri fratelli
Ortodossi, quindi della Chiesa nel mondo non occidentale, si pone in quel
modo nei confronti della morte, una morte poi spesso drammaticamente vi-
cina alla vita quotidiana. Con qualche ovvia integrazione e adattamento.

13.4.1. La teologia della morte


nell’Ortodossia russo-slava (cenni)
52
In ambito russo si può iniziare da Nikolaj Berdjaev (1874-1948) . Ari-
stocratico per nascita, libero pensatore per natura, Berdjaev prima aderisce
al marxismo ma, di fronte alle rigidità leniniste, se ne allontana per volgersi
al cristianesimo. Lasciamo che sia Berdjaev a descrivere questa svolta:
«Nella vita religiosa hanno una grande importanza gli incontri con le perso-
ne. La comunione interpersonale è una via di conoscenza sperimentale. (...)
Subito dopo il mio arrivo a Mosca, attraverso S. Bulgakov, con quale ero
già legato da vecchie relazioni, mi incontrai con i circoli ortodossi più carat-
teristici, che prima mi erano estranei, mi incontrai cioè con il cuore stesso
dell’Ortodossia russa. Ebbi così l’occasione di conoscere l’Ortodossia non
atrraverso dei libri ma per esperienza diretta; e si trattava di un’Ortodossia
53
che si considerava la più vera di tutte» .
L’adesione alla fede di Berdjaev non è dunque frutto di educazione fami-
liare o contesto culturale, bensì la scelta personale di quella che per lui è la
‘religione della libertà dell’uomo’: la sua Autobiografia spirituale, oltre che
testimoniare un cammino personale, è soprattutto un’illustrazione del senti-
tus ortodosso riguardo alla fede. Affermare che sia retaggio della sola cul-
tura russa è gravemente errato, e nasce da una profonda ignoranza. Si vada
in Georgia o in Armenia e si scoprirà il medesimo atteggiamento, negli in-
tellettuali ma soprattutto nella gente comune, di città e di campagna. Muta-
tis mutandis si scoprirà anche in Turchia, Siria e Libano, dove i cristiani vi-
vono un senso di appartenenza che nasce dalla condivisione di esperienze
interiori drammatiche, radicali. Là la grazia non è a buon mercato come in
Occidente, che però etichetta il loro sentire come ‘settarismo’ o addirittura
‘tribalismo’. Non possiamo parlare per esperienza diretta, perché non siamo
_____________________________
52
Per l’atmosfera della Russia di allora cf. p.es. N. ZERNOV, La rinascita religiosa rus-
sa del XX secolo, Milano 1978.
53
N. BERDJAEV, Autobiografia spirituale, Milano 2006, 197. Il passo poi ricorda diver-
si personaggi di rilievo nella Mosca di inizio sec.XX, quasi tutti uccisi dal regime le-
ninista pochi anni dopo. Berdjaev si salva perché nel 1922 viene esiliato a Parigi.

467
mai stati in quei Paesi, ma per ragioni accademiche abbiamo avuto modo di
incontrare più di una persona proveniente dal Pakistan e dall’India, e queste
ci hanno mostrato di avere quello stesso sentitus perché anche là, come in
Cina, le persecuzioni sono all’ordine del giorno. In questi Paesi restare cri-
stiani significa scegliere ogni giorno l’emarginazione, difficoltà spicciole di
ogni genere, impossibilità di superare certi livelli sociali, essere potenziali
capri espiatori di ogni difficoltà, non di rado il martirio. È una scelta quoti-
diana che non ha nulla a che fare con la cultura, perché questa offre in con-
tinuazione una ben più facile e sicura ‘normalità’. Solo l’esperienza perso-
nale dell’amore di Dio spiega tanto coraggio, come nei primi secoli.
Oltre al confinarla in uno spazio geografico-culturale ristretto, il secondo
modo per cercare di neutralizzare questa spinta interiore è descriverla come
‘esistenzialismo religioso’ o ‘escatologismo’. La prima etichetta non ha bi-
sogno di spiegazioni; l’accostamento ai filosofi esistenzialisti denuncia la
radicale impossibilità, per il non credente, di capire cosa e come sente un
54
fedele . Di per sé non sarebbe un problema se il primo non presumesse di
poterlo fare, anzi di riuscirci meglio del secondo; come un celibe senza figli
che vuole insegnare ad uno sposato con prole cosa e come sentire nei con-
fronti di moglie e figli. Curioso... La seconda etichetta, ‘escatologismo’, già
con quell’-ismo rivela la connotazione negativa che si vuol dare alla conce-
zione di Berdjaev. Per lui infatti la persona umana va considerata non ri-
spetto ai pochi anni di questa vita terrena ma riguardo alla sua eternità. La
percezione di questa eternità, a sua volta, non è frutto di qualche prova me-
tafisica (anche se non nega la loro esistenza), ma sorge dall’esperienza per-
sonale del sentirsi inseriti nella azione salvifica di Cristo. Tale azione, non
limitata nel e dal tempo, implica l’analoga non limitazione nel e dal tempo
della persona umana, cui è rivolta. Così la morte non esiste tout court, per-
ché è solo uno tra i tanti accadimenti della nostra esistenza, che si prolunga
55
ben al di là di essa . Ma queste parole possono essere fraintese se non le si
inserisce nel contesto giusto che ci lasciamo illustrare da Berdjaev:
_____________________________
54
In realtà, più che un esistenzialista Berdjaev è un personalista sui generis, cf. pes. M.
ROSSIGNOTTI, Persona e tempo in Berdjaev, Bologna 1993. La radice di queste diffi-
coltà di comprensione è nel voler ‘tradurre’ quei modi di sentire e pensare nei nostri.
Talvolta è possibile, altre volte no, in altre ancora si crede di esserci riusciti mentre si
è fallito, il che è peggio. Certo non si può ‘indossare’ la cultura di ogni popolo, una
qualche ‘interpretazione’ è necessaria per dialogare, ma per questo le etichette servo-
no a poco. Specie se nascono dai libri e non da esperienze reali ed empatiche.
55
Cf. p.es. N. BERDJAEV, Destin de l’homme dans le monde actuel. Pour comprendre
notre temps, Paris 1936, 334.339 (trad. it. ROSSIGNOTTI, Persona, op. cit., 159): «La
vita eterna della persona umana è possibile ed esiste non in ragione della costituzione
naturale della sua anima, ma perché Cristo è resuscitato ed ha vinto le forze mortali
(segue)

468
«Due concezioni del senso dell’esistenza si scontrano costantemente: una ha
come finalità una salvezza del tutto negativa, nel senso che libera dalla per-
dizione, cioè dalla sofferenza nel tempo e nell’eternità; l’altra invece mira
alla realizzazione della persona, alla sua elevazione e perfezione qualitativa,
alla conquista della verità e della bontà, in un parola, alla creazione. La ri-
cerca della salvezza potrebbe essere non altro che una proiezione sovra-na-
turale dell’egoismo terreno, ma non si può negare che possiamo intendere
per salvezza il ragggiungimento della pienezza e della perfezione della vita.
La realizzazione della persona esige coraggio intrepido, vittoria sulla paura
della vita e della morte, sulla paura che proviene dall’utilitarismo, dalla ten-
sione alla felicità, alla prevenzione di ogni male, senza una ricerca esplicita
di libertà e perfezione. Il principio del personalismo si oppone direttamente
al principio dell’utilitarismo individuale e sociale, in quanto esige che, dal
punto di vista sociale, la persona si trovi nelle condizioni umane esistenziali
conformi alla sua dignità di uomo.
La tragicità coessenziale all’esistenza della persona in questo mondo sta nel-
la sua indissolubile unione con la morte. Ciò che è impersonale non conosce
la tragedia della morte così come la prova la persona. Quanto più la persona
è progredita nella sua realizzazione, tanto più la morte la minaccia, poiché la
persona è immortale, eterna, proprio per sua essenza o per la sua stessa ‘ide-
a’. La tragedia della morte in questo mondo colpisce in modo speciale ciò
che è immortale ed eterno. Ora il compito della persona, l’idea che la costi-
tuisce, appartiene all’eternità. Per questo motivo è così tragica la morte di
un uomo che lavora per realizzare la propria persona. Si potrebbe perfino ar-
rivare ad ammettere che il rifiuto totale della persona conferisca un’immor-
56
talità naturale, ma questa immortalità non potrebbe mai essere l’eternità» .
Come si vede, per capire correttamente la visione della morte di Berdja-
ev bisogna prima chiarire il significato di ‘salvezza’, poi quello di ‘perso-
na’ ed infine quello di ‘immortalità’. Vi è poi il silenzio sul peccato origi-
nale ed il suo legame con la morte, silenzio che nasce dalla profonda diver-
genza tra la visione ortodossa di peccato (originale e non) e quella cattolica.
In estrema sintesi, per gli Ortodossi il peccato è essenzialmente una malat-
tia dello spirito che lo indebolisce, lo rende incapace di fare il bene ma non
ne modifica la natura. Di conseguenza risulta poco consona, se non proprio
sgradita, l’idea cattolica per la quale il peccato originale avrebbe menomato
57
la natura dell’uomo . Per gli Ortodossi ‘salvezza’ significa ‘guarigione’,
______________________________
del mondo, perché nel miracolo cosmico della sua Resurrezione il senso ha vinto il
non-senso. (...) (Nell’interiorità spirituale la morte) cessa di essere un fatto naturale
nel tempo per divenire una rivelazione del senso procedente dall’eternità».
56
N. BERDJAEV, Cinque meditazioni sull’esistenza, med.V la persona, la società e la
comunione, n.4 (or. 1936; trad. it. 168s).
57
Questo è punto cruciale del dialogo ecumenico sul quale torneremo più avanti. Per
non moltiplicare i rinvii menzioniamo solo S.M. CAPILUPI, «Il peccato originale nella
tradizione cristiana e nella letteratura russa», in F. DE CRISTOFARO et alii (edd.), East
(segue)

469
per i Cattolici ‘reintegrazione’. La morte dunque non pre-esiste al peccato,
così come, ad esempio, le pustole della varicella non pre-esistono all’insor-
gere della varicella. Per questo Berdjaev è ben attento ad aggiungere sem-
pre il lemma ‘in questo mondo’ ogni volta che parla della morte: per non
suggerire l’idea che la morte sia presente nella natura umana sin dalla crea-
zione. Lo è invece in quella post-lapsaria, ma non come menomazione ben-
sì come debolezza, malattia che Cristo guarisce con l’Incarnazione.
58
Un secondo autore russo importante è Pavel Florenskij (1882-1937) . La
statura intellettuale di questo uomo ha dell’incredibile: è matematico, inge-
gnere, fisico, filosofo, studioso di estetica e di filosofia del linguaggio, epi-
stemologo, teologo. Tra articoli e saggi, pubblicati e non, le sue opere sono
più di un migliaio. Tutte di livello altissimo. La sua biografia parla da sola.
Si laurea in matematica nel 1904 con una tesi rivoluzionaria sul principio di
discontinuità in geometria, che gli frutta una cattedra universitaria da lui ri-
fiutata. Sempre nel 1904 si iscrive all’Accademia Teologica di Mosca ma
non abbandona matematica e geometria, anzi le affianca a molti altri inte-
ressi. Nel 1910 ottiene la licenza in teologia, si sposa, è consacrato presbi-
tero ed inizia la docenza universitaria in... filosofia, per la precisione Storia
delle idee (anche matematiche, è ovvio). Da direttore di una delle riviste
teologiche allora più prestigiose (1911-17) Florenskij si batte per rinnovare
metodo e contenuti delle ricerche teologiche, che spinge a dialogare con le
scienze empiriche, quelle filosofiche e persino con l’arte, ambito che studia
fin dal 1904. Molti suoi scritti meravigliano per la capacità di accostare con
59
competenza ambiti che paiono lontani , ma quel che davvero colpisce è la
statura umana di Florenskij, ignorando la quale non si coglie l’autentico va-

______________________________
and West: themes, genres and images within and beyond Europe. Proceedings from
the annual conference of the Association for the Studies of the Theory and Compara-
tive History of Literature (Naples 13-15 november 2008), Cagliari 2011, 1-16. Da
questo lavoro emerge anche la strettissima compenetrazione tra teologia e letteratura
nella Russia pre-rivoluzionaria, per altro iniziata già a metà nel sec.XIX.
58
La bibliografia su Florenskij è ampia: cf. p.es. N. VALENTINI, La sapienza dell’amo-
re. Teologia della bellezza e linguaggio della verità, Bologna 1997, 321-358, elenco
con più di vent’anni. Ottima introduzione è S. TAGLIAGAMBE et alii (edd.), Il pensie-
ro polifonico di Pavel Florenskij. Una risposta alle sfide del presente. Atti del Con-
vegno per gli 80 anni dalla morte (Cagliari 25-26 ottobre 2017), Cagliari 2018.
59
Cf. p.es. M. SPANO, «Matematica e teologia in Florenskij. Analisi di una complessità
crescente», in TAGLIAGAMBE, Il pensiero polifonico, op. cit., 72-123; S. TAGLIAGAM-
BE, «Rovesciamento e mondo intermedio: l’epistemologia del simbolo in Pavel Flo-
renskij», in P. MANINCHEDDA (ed.), Recensioni e biografie. Libri e maestri. Atti del
II Seminario del Centro di Studi Filologici Sardi (Alghero 19-20 maggio 2006), Ca-
gliari 2007, 105-149.

470
60
lore delle sue opere . Dopo la rivoluzione del 1917, ad esempio, non emi-
gra all’estero ma resta al fianco dei cristiani che iniziano a soffrire pesanti
soprusi e cerca di fare emergere dall’interno le contraddizioni di un movi-
mento che promette felicità e libertà ma elargisce violenza ed atrocità. Do-
po un periodo iniziale di collaborazione con il governo sovietico gli spazi
di manovra si restringono sempre più finchè, nel 1928, Florenskij è arresta-
to. La condanna è annullata subito, ma ormai il dado è tratto. Il secondo ar-
resto (1933) lo porta in Siberia poi alle isole Solovki nel Mar Bianco: nel
1937 è fucilato a Leningrado (oggi san Pietroburgo). Ma la morte giunge
dopo che Florenskij, prima nel 1928 e poi nel 1934, rifiuta più volte di an-
dare in esilio con la famiglia. E lo fa perché, come ha modo di dire più vol-
te, “Quelli che si sentono abbastanza forti da resistere devono restare, quelli
che hanno timore e non si sentono saldi e sicuri possono andare”.
Già queste parole sono una teologia della morte tanto chiara quanto auto-
revole, perché non consiste in parole scritte su libri ma in fatti vissuti e pa-
gati con sofferenze profonde ed infine con la vita. Per Florenskij la morte è
il ‘semplice’ culmine di un percorso di donazione di sé che, nel suo caso, lo
spinge prima a restare in Russia, poi a rifiutare le proposte di esilio, infine a
morire. Quel che conta di questa teologia, che più esperienziale di così non
61
può essere, è però un’altra dimensione, anch’essa tutta esperienziale e che
_____________________________
60
Per la biografia cf. N. VALENTINI, «Pavel A. Florenskij testimone dell’unità della fe-
de in Cristo», Quaderni di studi ecumenici 27 (2014) 27-60, breve ma empatico.
61
Florenskij ha creduto molto in questa ‘teologia esperienziale’, descritta in P.A. FLO-
RENSKIJ, «Dogmatismo e dogmatica», in N. VALENTINI-L. ZAK (ed.), Pavel A. Flo-
renskij. Il cuore cherubico. Scritti teologici e mistici, Casale Monferrato 1999, 131-
168, relazione presentata nel 1906 all’Accademia Teologica di Mosca. Questa ‘espe-
rienzialità’ è così descritta da P.A. FLORENSKIJ, «Il pianto della Madre di Dio», in Il
cuore cherubico, op. cit., 188-196, 189s: «Esistono quelle che sono ‘semplicemente
parole’. L’intelletto le dispone e compone, le pubblicazioni ne sono colme. L’occhio
spirituale è offuscato da questi prodotti mediocri della mente e perciò non è più in
grado di vedere distintamente. L’anima è affaticata, ricoperta dalla polvere di questi
sterili prodotti delle fabbriche letterarie. Queste ‘parole’ si trasferiscono meccanica-
mente da una mente all’altra come da una scatola all’altra, e così, a volte, il principe
di questo mondo, che tiene nella sua mano tutti i regni, sembra sia il grande segreta-
rio di un ufficio mondiale, che sistema i suoi ‘affari’ viziosi come se le menti fossero
degli schedari. Simili ‘parole’ a volte hanno la pretesa di essere meravigliose, ma la
loro meraviglia è solo apparente, simile a fiori di cartapesta sfioriti ed imbrattati dalle
mosche: queste ‘parole’ sono solo mistificazione. Ma esistono anche altre ‘parole’,
nel senso autentico e sublime di loghia, ‘parole’ che nascono dall’anima e che, nel
momento in cui nascono, portano con sé una parte dell’anima, ‘parole’ rivelatrici che
manifestano ciò che in quella si nasconde. Come frutti dorati, esse crescono nell’ani-
ma e si nutrono della sua linfa vitale, fin quando giunge il loro tempo. Dietro queste
‘parole’ si celano le forze nascoste dell’anima, la pienezza dell’anima pulsa in loro
(segue)

471
tentiamo di illustrare riassumendo un piccolo scritto di Florenskij, intitolato
“L’autore della vita” e che è un breve commento a Cantico 2, 10-14. Qui lo
sposo-Cristo chiama a sé la sposa-Chiesa descrivendo la primavera:
«Ma di cosa si rallegra la natura, di cosa noi ci rallegriamo? Forse il volto
del cielo non si offuscherà di nuovo ed il suo turchese non sarà velato da
una coltre disperatamente triste di nuvole? Forse non si inaridiranno ancora i
grembi fecondi della madre terra? Forse non soffierà più il vento d’autunno
e non strapperà dagli alberi il loro triste broccato, il loro manto color porpo-
ra? E l’oro delle foglie appena cadute non si metterà di nuovo a serpeggiare
lungo i sentieri? Gioisce la terra, ma il gelo spietato la coprirà di ghiaccio
fino al cuore. Un lenzuolo funebre, di un bianco senza vita, ricoprirà il suo
petto infreddolito. Sembra che sotto il manto della natura si nascondano
morte e putrefazione, mentre inaspettatamente nella palude spuntano freschi
germogli.
Noi ci rallegriamo della primavera e della vita.
Ma davvero sono state asciugate le lacrime della madre versate per il Figlio
morto? La Sposa ha forse dimenticato lo Sposo, e davvero il suo amico si
consolerà con un’altra? No, la Sposa ancora si scioglie come cera pallida,
un’angoscia senza fine consuma il cuore dell’amico. La madre, priva di for-
ze, non ha cessato di lottare, incanutita dal dolore, stretta alla croce. Ogni
creatura che ha molto sofferto è angosciata nelle catene di una caducità che
riduce tutto in polvere, la Sposa di Cristo non è fuggita dalla torre...
Di che cosa allora ci rallegriamo?
______________________________
fino a traboccare. (...) Incontrando un’altra anima, queste parole-forza scintillano co-
me lampi, rimbombano in loro i tuoni e l’anima incontrata viene interamente compe-
netrata da sentimenti, pensieri, desideri per lei nuovi, come se fosse caricata di nuovi
stati d’animo, come se fosse spogliata dopo aver toccato un’altra anima nuda. (...) Le
parole profetiche ardono, inestinguibili come segni di fuoco: come un lume accende
con la fiamma un altro lume, così l’anima s’infiamma al contatto con la parola infuo-
cata di un’altra anima». Florenskij riesce a dire molto bene e senza acredine quel che
pensiamo noi. Per approfondire cf. Y. SPITERIS, «La conoscenza ‘esperienziale’ di
Dio e la teologia nella prospettiva orientale», Antonianum 3 (1997) 365-426.
È importante notare, a fini ecumenici ma anche di conoscenza della teologia cattoli-
ca, che l’idea che il giusto abbia in statu viae una ‘conoscenza sperimentale’ di Dio è
assolutamente pacifica in Tommaso d’Aquino: cf., p.es., il panorama tracciato da J.F.
DEDEK, Experimental knowledge of the indwelling Trinity. An historical study of the
doctrine of st. Thomas, Mundelein (ILL) 1958, ripreso in IDEM, «Quasi experimenta-
lis cognitio. An historical approach to the meaning of st. Thomas», Theological stu-
dies 22 (1961) 357-390. È vero che questa dottrina è stata distorta (cf. Gardeil, Gar-
rigou-Lagrange), e che lavori più recenti continuano a farlo (cf. p.es. A. PATFOORT,
«Cognitio ista est quasi experimentalis (1Sent., d.14, q.2, a.2, ad3», Angelicum 63
(1986) 3-13; H.R.G. PEREZ-ROBLES, The experimental cognition f the indwelling
Trinity in the just soul. The thought of fr. A. Gardeil in the line of saint Thomas, Ro-
me 1987) ma è anche vero che si sono citati (volutamente) lavori di 60 anni fa: chi ha
orecchi per intendere...

472
La bellezza della natura non ha vinto la morte, l’ha solo resa più orribile,
vestendola con abiti eleganti. La nobiltà dello spirito non ha vinto la morte,
sebbene lo spirito immortale sia sfuggito all’Inesorabile, ritirandosi in re-
gioni che per lei erano inaccesibili. E quando sembrava che ogni battaglia
fosse vana, l’Amore stesso è entrto nel regno della morte, ed il pungiglione
della predatrice si è spezzato contro il suo scudo. I suoi artigli si sono strap-
pati dal corpo del Purissimo, non le è riuscito di tener prigioniero il Giusto.
Cristo ha distrutto l’Inferno ed ha offerto alla sua Sposa il pegno dell’im-
mortalità, risorgendo Egli stesso dai morti. È arrivato il buon pastore ed ha
scacciato la morte implacabile, offrendo Egli stesso la vita per le sue pecore.
(...) Ma è risorto Colui davanti al quale siamo eternamente colpevoli, e Pila-
to e Caifa sono stati coperti d’infamia. La morte che tutto divora è stata di-
vorata dall’immortalità. La verità ha trionfato sulla falsità. Il fuoco del pec-
cato è stato estinto dall’umile amore. È vana ora l’angoscia degli amanti, in-
vano la madre si torce le mani impallidite. Perché Cristo è risorto. Sono vani
gli ultimi assalti della morte. Un fremito di gaudio sconvolge la creatura che
esulta di pura gioia, perché Cristo è risorto e chiama a sé la sua Sposa: “Al-
zati amica mia, mia bella, e vieni” (Ct 2,10). La Sposa è ancora incatenata,
ma la ruggine corrode le sue catene; si compie il grande mistero della sal-
vezza. Oltre lo strato del guscio corruttibile cresce il seme della vita, si rin-
nova misteriosamente il cuore della creatura, si purificano le viscere della
terra. La Sposa e lo Spirito dicono all’Agnello “Vieni!” Ecco, lo Sposo è già
vicino; ecco, guarda attraverso l’inferriata; Ecco che bussa alla porta. La
Sposa non ha ancora potuto sollevare il chiavistello, ma questo, incrinato,
cede ai colpi dello Sposo. (...) Si spezza il chiavistello della torre ove langue
la Sposa e la carceriera, la morte, è ferita e cade esanime. Scende allora nel-
le viscere della terra la Gerusalemme celeste. E Colui che siede sul trono di-
rà “Ecco, io faccio nuove tutte le cose” (Ap 21,5). Allora si staccherà
l’involucro della creatura, l’immagine della sua corruttibilità svanirà nel
volto di Cristo come la nebbiosa caligine si dissolve alla vista del sole che
sorge. Tutto ciò che è inanimato si disperderà, tutta la menzogna sarà lavata
in fiumi di acqua viva e la creatura sarà finalmente liberata dalla schiavitù
della caducità. (...) Come il guscio dell’uovo si stacca dall’uccellino, come il
bozzolo della crisalide dalla farfalla, così cadrà la rozza crosta della terra:
“Allora apparirà la Sposa e, alla sua comparsa, mostrerà quanto è ancora na-
scosto dalla terra” (Ap 20,12). Gloriosa, splendente della sua primordiale
bellezza, la Sposa incontrerà l’Agnello.
Allora “Dio tergerà ogni lacrima dai loro occhi, e non ci sarà più morte, né
lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate” (Ap
21,4). Il nostro corpo rinnovato si trasfigurerà, luminoso per la beatitudine.
Gli intimi ed amanti dell’Agnello si incontreranno vivificati dallo Spirito; si
abbracceranno dopo una separazione durata molti anni, liberandosi dalle an-
guste tombe. E non riuscirano a fissarsi l’un l’altro negli occhi, stringendosi
62
le mani, con un sorriso da bambini, in silenzio» .

_____________________________
62
P.A. FLORENSKIJ, «L’autore della vita», in Il cuore cherubico, op. cit., 169-175.

473
Dal punto meramente contenutistico è netta la vicinanza a Berdjaev, ma
altrettanto evidente è la diversità di afflato interiore. Ognuno ha i suoi doni,
e non sarebbe giusto affermare che uno coglie il vero più dell’altro, anche
se ognuno è libero di preferire chi trova più in sintonia con la propria espe-
rienza. Ciò che è sicuro è che l’atmosfera russo-ortodossa è molto vicina a
quella occidentale del sec.XII e, in fondo, a quella patristica. La radice di
questa sintonia non è però in un’opzione intellettuale ma in una personale,
profonda esperienza, in virtù della quale l’evento-morte, cui ci si prepara in
modo autenticamente e spiritualmente cristiano, fa vibrare le stesse corde
interiori. Naturalmente la melodia non è la medesima, perché il tempo non
passa invano, ma le parole qui sono puri strumenti del dialogo tra anime: ed
anime che sentono allo stesso modo si intendono benissimo tra loro, anche
se parlano in modo diverso lingue diverse in tempi diversi. Per questo, seb-
bene gli autori letti siano tutti del secolo scorso, le loro parole suonano an-
63
cora attuali, e ne leggiamo di quasi uguali nelle opere più vicine a noi .
L’ambiente russo annovera altri autori importanti e ben noti in Occiden-
te: per fare qualche nome, Vladimir Solov’ev, Serghiei Bulgakov, Vladimir
Lossky, Paul Evdokimov, Olivier Clement e molti ancora. Ognuno aggiun-
gerebbe perle preziose al quadro delineato, ma i limiti di un excursus ci ob-
bligano a fermarci qui ed a esporre, altrettanto sinteticamente, il panorama
della riflessione sulla morte in ambito greco.

13.4.2. La teologia della morte


nell’Ortodossia greca (cenni)

Innanzitutto una precisazione: con ‘ambito greco’ intendiamo proprio gli


autori di lingua greca, poiché il resto del mondo bizantino quasi non ha teo-
logi di levatura internazionale (eccetto la Chiesa rumena, con Dumitru Sta-
64
niloe ). Quanto alle Chiese siriache, la tragicità delle loro situazioni certo
non favorisce la riflessione, così come nell’Europa dei secc.VIII-XI.
Con ciò, servirsi della medesima lingua (mettiamo da parte se sia la ‘dot-
ta’ katharevusa o la ‘popolare’ dimotiki) non significa affatto avere identi-
che opinioni, anzi, non sarebbe esagerato dire tot capita tot sententiae. In
effetti tutta l’Ortodossia, ma il mondo greco in particolare, si sente poco le-
_____________________________
63
Cf. p.es. O. CLEMENT, Riflessioni sull’uomo, Milano 1973, che riprende spesso Flo-
renskij, o K. WARE, Rivelazione della persona. Dall’individuo alla comunione, Ro-
ma 2018, per totum. Ma i nomi e le opere si potrebbero moltiplicare a piacere.
64
Cf. CH. MILLER, The gift of the world. An introduction to the theology of Dumitru
Staniloe, Edimburgh 2000.

474
gato a schemi generali, foss’anche dettati dalle circostanze esterne come, in
una certa misura, è accaduto in ambito russo-slavo. Di conseguenza, ogni
autore si sente libero di elaborare la sua propria concezione, ed in effetti lo
è se non contraddice una definizione o (ma questo è già più discutibile) un
65
canone emanato da un Concilio . Per di più, come si è già avuto modo di
anticipare, l’Ortodossia ha concezioni sensibilmente diverse di quelle che
sono le colonne teoriche della riflessione occidentale sulla morte: peccato,
redenzione, salvezza, beatitudine non significano la stessa cosa se a dirle è
un cattolico o un ortodosso. Se poi notiamo che, ad esempio, non esiste una
‘teologia ufficiale’ ortodossa su questi temi perché nessun Concilio, locale
o ecumenico, ha mai affrontato simili questioni, sarà chiaro perché non vi
sono trattazioni sistematiche ma solo cenni sparsi; e si capirà pure la diffi-
66
coltà di tratteggiare la teologia della morte in ambito greco .
Per semplicità distinguiamo due orientamenti generali, anche se tale ‘in-
quadramento’ di comodo andrà sicuramente stretto a tutti gli autori.
Un primo orientamento potrebbe essere descritto come ‘radicale’, in mo-
do impreciso e forse anche ingiusto ma non senza fondamento. È battaglie-
ro, gode del fascino che ha sempre chi combatte battaglie un po’ retrò, usa
67
un linguaggio rude che però non giustifica la distorsione . Ma lasciamo la
parola ad uno dei suoi esponenti più acuti, Ioannis Romanidis:
_____________________________
65
Per avere un’idea di questa fluidità cf. Y. SPITERIS, La teologia ortodossa neogreca,
Bologna 2016, che inizia la sua esposizione dagli ultimi anni dell’Impero turco.
66
Per capire questa distanza non basta conoscere i Padri greci; l’Ortodossia infatti non
ripete stolidamente quanto ereditato ma lo ripensa. Cf. p.es. M. KARDAMAKIS, Spirito
e vita cristiana secondo l’Ortodossia, vol.I Dalla grazia alla libertà, Roma 1997; Y.
SPITERIS, Salvezza e peccato nella tradizione orientale, Bologna 2000, dai quali e-
merge la distanza dal sentitus agostiniano; N.A. MATSOUKAS, Teologia dogmatica e
simbolica ortodossa, vol.I Introduzione alla gnoseologia teologica ortodossa, e
vol.II Esposizione della fede ortodossa in confronto alla cristianità occidentale, Ro-
ma 1996, che pare voler opporre il Damasceno al Cattolicesimo.
67
Cf. G. METALLINOS, «Fabrications about prof. John S. Romanides by Capuchino
priest Ianni Spiteri», Ecclesiastical truth. Official newspaper of the Church of Gree-
ce, April 1995, 14 (http://www.romanity.org/mir/me02en.htm, al 30/11/19). Oggetto
sono le affermazioni di SPITERIS, La teologia, op. cit., 283, secondo le quali Romani-
dis non avrebbe mai esercitato il presbiterato e, avendo collaborato con la dittatura
(1967-74), alla sua caduta sarebbe scomparso dalla scena teologica, seguito ormai da
pochi affezionati. Metallinos smentisce una per una queste affermazioni, specie quel-
la di collaborazionismo, e sottolinea il rilievo intraecclesiale ed ecumenico di Roma-
nidis. Si fatica a credere che Spiteris, per quanto tutt’altro che scientificamente im-
peccabile, possa essersi sbagliato a tal punto, volutamente per di più, ma non è facile
stabilire la verità. P.es. Metallinos afferma che, alla caduta della dittatura, Romanidis
rifiutò di candidarsi con i monarchici, ma P. KALAITZIDIS, «The image of the West in
contemporary greek theology», in G.E. DEMACOPOULOS-A. PAPANIKOLAOU (ed.),
(segue)

475
«L’Occidente non ha la capacità di ridere, la capacità - intuì Aristotele - che
rende l’uomo unico ed irripetibile, diverso dagli animali e altro dagli dèi.
L’uomo occidentale infatti o si sente onnipotente - un super-uomo, anzi un
super-dio - o vive solo d’istinti bestiali: ha dogmatizzato la superiorità della
razza, l’infallibilità dell’uomo, la morte di Dio. Non sa ridere, l’uomo d’Oc-
cidente: forse perché (romanzò Eco) in qualche impenetrabile biblioteca di
un qualche oscuto medioevo è stato nascosto e poi perduto il trattato Sul riso
di Aristotele.
O piuttosto perché l’uomo occidentale è convinto d’essere geneticamente
colpevole, d’essere stato creato proprio difettoso. Non secondo l’immagine
e la somiglianza di Dio, ma programmato - come si usa dire - con un virus:
il Peccato Originale.
Ed infatti l’uomo non posse non peccare, diceva Agostino d’Ippona: Adamo
è stato creato difettoso da Dio, programmato da Dio in modo tale che debba
essere necessariamente peccare, trasmettendo lo stesso virus agli altri uomi-
ni. I figli di Adamo, così, non pensano mai insieme a Dio: si chiamano tutti
o Prometeo (Pensaprima) o Epimeteo (Pensadopo); o sfidano gli dèi o li de-
rubano, e sul mondo versano ogni male. Non c’è scampo: nel vaso di Pando-
ra almeno rimase Speranza, per l’uomo occidentale non è rimasta nessuna
speranza, e Adamo ed Eva hanno trasmesso il virus del Peccato Originale.
Per via sessuale, si immagina, ed infatti, nell’immaginario collettivo, il Pec-
cato originale - il mangiare la mela - è identificato con un furbesco atto ses-
suale (l’uomo occidentale pensa che Dio non abbia ordinato ad Adamo di
‘moltiplicarsi’ quando era ancora nel Paradiso; pensa che Dio lo abbia solo
permesso, e dopo, all’Adamo caduto).
La cultura occidentale, consapevolmente o inconsapevolmente, è tutta fon-
data sulla cupa, disperata teoria del peccato originale: non per niente i nomi
di Adamo ed Eva non appaiono nei Santorali, negli elenchi ufficiali dei san-
ti, anzi nessuno batte ciglio quando sente insultare la propria mamma Eva.
Con il Cinquecento Adamo si riduce solo a scusa per studi anatomici (Mi-
chelangelo, Dürer); con la Controriforma Adamo ed Eva si fanno rarissimi
fino a scomparire del tutto dalla tradizione iconografica dell’Occidente.
Vorrà dire qualcosa se, invece, la Chiesa ortodossa consacra una domenica
per piangere con Adamo (la domenica dopo carnevale) ma anche altre due
domeniche (prima di Natale) per celebrare tutti i santi antenati, da Adamo
in poi. “Onoriamo Adamo, il primo padre, che è stato onorato dalla mano

______________________________
Orthodox constructions of the West, Oxford 2013, 142-160, 149, scrive che fu «a
candidate for the Far Right in the 1977 parliamentary elections in Greece» e G. KA-
RALIS, intr. a ROMANIDIS, Il peccato originale, op. cit., 18, afferma che non fu eletto.
Ciò getta un’ombra sulle altre repliche, specie se unito ad altre ambiguità meno rile-
vanti, p.es. capire se Romanidis va in pensione nel 1984 (come afferma Metallinos) o
nel 1982, come si legge altrove (cui prodest?). Il lettore troverà pedanti questi detta-
gli, ma in ambito greco impuntature e cavillosità simili sono abituali. E non si limita-
no alle parole: chiunque abbia soggiornato un pò nei Luoghi Santi (Betlehem, Jerusa-
lem) sa quanto fisicamente aggressivi possano essere i monaci ortodossi. Per fortuna
praticano la santa esichia, sennò...

476
del Creatore...” si canta, ed anche “Celebriamo con gioia la festa del divino
padre Adamo...” L’iconografia della resurrezione non è (come in Occidente)
un Cristo che esce dalla tomba trionfante, ma un Cristo che scende all’Ade
68
per trovare ed abbracciare Eva ed Adamo» .
Come si vede, Romanidis non scrive in ‘universitese’. Si saranno notate
alcune imprecisioni. Per Aristotele quel che distingue l’uomo dagli animali
è in primis la ragione, solo in seconda battuta il riso: e nessuno paragonerà
l’importanza della prima con quella del secondo. Ben più grave è mettere in
bocca ad Agostino ciò che non pensa: nel capitolo IX si è letto molte volte
e in molte opere che per lui Adamo posse non peccari, l’esatto opposto di
ciò che gli fa dire Romanidis. E poiché, per lui, la situazione dell’uomo oc-
cidentale dipende dalla ineluttabilità della caduta originale, con questa falsa
attribuzione de facto Romanidis la imputa all’Ipponate. In verità basta leg-
gere qualche sua opera per rendersi conto dell’assurdità di ciò che fa dire
ad Agostino: senza contare che, se fosse vero, invece che Padre della Chie-
sa sarebbe stato condannato come eretico. Si dovrebbe imparare a leggere
prima le opere e dopo i commenti, non viceversa, come invece insegnano a
fare le Facoltà per ‘inquadrare’ le capacità critiche degli studenti. Solo così
si può distinguere ciò che scrive un autore (non solo Agostino) da quel che
69
gli fan dire i commentatori . Per fortuna Romanidis non arriva ad imputare
_____________________________
68
I.S. ROMANIDIS, Un virus mortale. Il peccato originale secondo san Paolo, Trieste
2006, 12s (cors. orig.; or. 1955). Capire la portata di questo passo richiede una nota
biografica. Romanidis nasce nel 1928 al Pireo, ma la famiglia emigra subito a New
York: là studia teologia e si sposa nel 1951. Nel 1954 torna ad Atene per un dottorato
in teologia che consegue nel 1956 dopo aver ‘corretto’ la sua tesi, giudicata troppo
radicale. L’ostilità dell’ambiente greco gli consiglia di tornare in USA, dove diventa
ordinario di dogmatica a Boston. Nel 1970 è nominato ordinario di dogmatica a Sa-
lonicco, dove rimane fino al pensionamento, nel 1984. Muore nel 2001. Romanidis è
uomo di due mondi, quindi sa quel che dice quando parla dell’Occidente. Né il suo
tono deriva dall’essere reazionario: Romanidis rappresenta la Chiesa greca nel Con-
siglio Ecumenico delle Chiese per diversi anni, si impegna a fondo nel dialogo con le
Chiese non-calcedonesi, gli Anglicani, l’ebraismo, l’Islam. Il tono brusco dunque pa-
re un esempio della ‘ruvidezza’ delle vere ‘parole’ cui accenna FLORENSKIJ, «Il pian-
to», op. cit., 190, anche se molte sue opinioni sono assai discutibili.
69
In realtà quest’affermazione di Romanidis è parte di una più ampia opinione su Ago-
stino, che ritiene ortodosso nelle intenzioni ma non in quel che scrive, tanto da essere
condannato (a suo dire): cf. I.A. ROMANIDIS, Augustine’s teachings which were con-
demned as those of Barlaam the Calabrian by the ninth Ecumenical Council of 1351
(http://www.romanity.org/htm/rom.18.en.augustine_unknowingly_rejects_the_doctri
ne.01.htm, al 1/12/19). In IDEM, Franks, Romans, feudalism and doctrine. An inter-
play between theology and society, Brookline (MA) 1981, afferma (67) che Agostino
sostituisce la contemplazione con la metafisica pagana. Non è opinione del solo Ro-
manidis: p.es. PANAGOPOULOS, La theologia, op. cit., ‘ricostruisce’ la teologia occi-
(segue)

477
ad Agostino la fobia del sesso, e fa bene: quel che afferma infatti si legge
ad litteram in De civitate Dei, XIII, 16-26, De peccato originali cc.40-43, e
Contra Iulianum opus imperfectum, IV, 11, 57.
Ma, se si elidono queste imprecisioni (anche se per la verità la seconda è
qualcosa di più...), il resto del passo sta comunque in piedi. E si tratta di
una diagnosi che, ad onor del vero, non è poi lontana da quella di un Bene-
detto XVI o di un papa Francesco, anche se discorderebbero sull’eziologia.
Da tale diagnosi si intuisce bene anche l’opinione di Romanidis sulla teolo-
gia della morte dominante oggi in Occidente. Nella stessa opera appena let-
ta, poco più avanti, infatti scrive:
«San Paolo afferma (1Cor 15,26) che la morte è il nemico venuto nel mon-
do e (cf. Rm 5,12) riguarda tutti gli uomini a causa del peccato d’un solo
uomo. La sottomissione alla corruzione non riguarda solo l’umanità ma tutta
la creazione (cf. Rm 8,20s). Tale realtà, sotto il potere del diavolo e della
morte, è stata evidentemente provvisoriamente frustrata rispetto al suo ori-
ginale destino. Nelle asserzioni paoline relative al primo e secondo Adamo è
erroneo rinvenire l’idea che Adamo sarebbe morto anche se non avesse pec-
cato. Questo semplicemente perché il primo Adamo fu fatto eis psychen zo-
san, espressione che nell’uso paolino e nel suo contesto significa chiaramen-
70
te immortale . Adamo avrebbe potuto essere stato creato naturalmente mor-
tale, ma se egli non avesse peccato non sussisterebbe ragione di credere che
71
non sarebbe divenuto immortale per natura . Ciò ha implicato certo gli stra-
72
ordinari poteri che san Paolo attribuisce alla morte ed alla corruzione» .
______________________________
dentale citando e commentando molti testi (Lutero compreso), ma li legge in funzio-
ne della costruzione della Chiesa franco-latina. Né vale solo per l’ambito greco: p.es.
M. TATARYN, The Orthodox theologians of L’Institut Saint Serge, Paris, and their
perception of Augustine’s theology, Toronto 1995, nota opinioni simili, anche se più
sfumate, in diversi autori di un Istituto centrale per l’Ortodossia europea.
70
“Così è anche la resurrezione dei morti. Il corpo si semina in stato di corruzione, ri-
sorge incorruttibile; si semina in disonore, risorge in gloria; si semina malato, risorge
in forza; si semina corpo psichico, risorge corpo spirituale. Esiste il corpo psichico ed
esiste il corpo spirituale. Così anche sta scritto (segue 1Cor 15,42-49)” (NdA).
71
“Sant’Atanasio, De incarnatione Verbi Dei, 4-5” (NdA). Cf. ATANASIO DI ALESSAN-
DRIA, De incarnatione, 4 (SCh 199, 276ss; CTP 2, 44s): «Se una volta la loro natura
era il nulla e furono chiamati all’esistenza grazie alla presenza e benignità del Verbo,
ne seguiva che gli uomini, divenuti privi della conoscenza di Dio e voltisi verso il
nulla - il male infatti non è, mentre il bene è, perché è stato creato da Dio, che è -,
rimanessero privi anche della esistenza eterna. Ecco che cosa significa rimanere nella
morte e nella corruzione dopo la decomposizione. L’uomo è mortale per natura per-
ché è nato dal nulla; ma se avesse conservato la somiglianza con Colui che è, per
mezzo della contemplazione di Lui avrebbe ridotto la sua corruzione naturale e sa-
rebbe rimasto incorruttibile, come dice la Sapienza (6,18): “Il rispetto delle leggi è
garanzia di incorruttibilità”. Essendo incorruttibile, sarebbe vissuto come Dio, secon-
(segue)

478
Qui è battuto in breccia l’assunto centrale di tutta la teologia della morte
occidentale contemporanea, vale a dire che Adamo sarebbe morto anche se
non avesse peccato, e lo si rifiuta ‘senza se e senza ma’. Quasi alla fine del
suo saggio Romanidis è ancor più chiaro:
«San Paolo dice chiaramente che (1Cor 15,56) “il pungiglione della morte è
il peccato”, che (Rm 5,21) “il peccato ha regnato nella morte” e che la morte
è (1Cor 15,56) “l’ultimo nemico ad essere distrutto”. Nelle sue epistole è
particolarmente ispirato quando parla della vittoria di Cristo sulla morte e la
corruzione. Sarebbe veramente illogico cercare di interpretare il pensiero
paolino attraverso i presupposti:
1 - che la morte è normale o che, al più,
2 - è la conseguenza d’una decisione giuridica divina di punire l’intera uma-
nità per un peccato;
3 - che la felicità è l’ultimo destino dell’uomo e che
4 - l’anima è immateriale, naturalmente immortale e direttamente creata e
concepita da Dio. Perciò essa sarebbe normale e scevra da difetti (scolastici-
smo romano).
La dottrina paolina dell’uomo sull’incapacità a fare il bene che la persona è
in grado di riconoscere secondo ‘l’uomo interiore’ può essere capita solo se
si prende seriamente in considerazione il potere della morte e della corru-
zione nella carne, che rende impossibile all’uomo una vita secondo il pro-
prio destino originale.
Il problema moralistico esposto da sant’Agostino riguardo alla trasmissione
della morte a discendenti di Adamo come punizione per una trasgressione
originale è estraneo al pensiero paolino. La morte di ciascun uomo non può
essere considerata la conseguenza d’una colpa personale. San Paolo non
pensa come un filosofo moralista che cerca la causa della caduta dell’umani-
tà e della creazione nella rottura di oggettive regole di buon comportamento,
rottura che esige la punizione di un Dio la cui giustizia è ad immagine della
giustizia di questo mondo. Paolo pensa chiaramente alla caduta nei termini
di una guerra personale tra Dio e satana, nella quale satana non è obbligato a
seguire alcuna sorta di regola morale se può essergli di vantaggio. È per
questa ragione che san Paolo può affermare che (2Cor 11,3) “il serpente ha
ingannato Eva” e che (1Tim 2,14) “non fu Adamo ad essere ingannato, ma
fu la donna che, ingannata, si rese colpevole di trasgressione”. L’uomo non
73
è stato punito da Dio, ma reso prigioniero dal diavolo» .
Il passo non ha bisogno di commenti, solo di prendere nota di quanto sia
profonda la distanza tra la visione greco-ortodossa e quella cattolico-rifor-

______________________________
do quanto dichiara in un certo passo la divina Scrittura dicendo (Sal 81,6s): “Io ho
detto: Voi siete tutti dèi e tutti figli dell’Altissimo; ma morirete come uomini e cadre-
te come uno dei principi».
72
ROMANIDIS, Un virus mortale, op. cit., 46s.
73
ROMANIDIS, Un virus mortale, op. cit., 65s.

479
mata odierna. Poiché in ambito greco non si sono, a nostra conoscenza, al-
74
tre trattazioni così ampie su peccato originale e morte , e siccome fin qui si
è seguita un’esposizione del 1955, vediamo come Romanidis la elabora nel
1957 concludendo la sua tesi dottorale, che è anche il punto definitivo:
«Abbiamo cercato di dimostrare, nel saggio presente, l’errore di quanti so-
stengono che nessuno, prima di Tertulliano e di Agostino, si è occupato se-
riamente del problema del peccato originale, e che nessuno, prima di Ago-
stino, ha compreso in profondità l’apostolo Paolo. Lo sbaglio fondamentale
degli studiosi di questa materia è che, per essi, ci sono soltanto due tipi di
soluzione al problema del peccato originale: quella di Agostino e quella di
Pelagio. In ragione di ciò essi considerano tutti gli altri elementi sulla caduta
che compaiono nel periodo da noi approfondito (i.e. quello biblico-patristi-
co) come primitivi e come residui della mitologia apocalittica ed escatologi-
ca degli Ebrei. Poiché non incontrano il tema, criticamente esaminato, nelle
due forme ad essi familiari, non riescono ad immaginare l’esistenza di una
terza maniera, a sé stante, di trattare l’argomento, che si differenzia radical-
mente dalle concezioni occidentali di Agostino e Pelagio. (...)
La differenza radicale tra tradizione orientale ed occidentale consiste nel fat-
to che l’Occidente considera la morte come un fenomeno proveniente da
Dio, mentre gli scrittori del periodo in esame ed i Padri greci in genere sot-
tolineano che Dio non ha creato la morte.
Tale differenza è la base di molte altre diversità tra Oriente ed Occidente, e
richiede uno studio profondo da parte degli odierni teologi dell’Ortodossia.
Citiamo, nel prosieguo, alcune conseguenze di una simile differenza:
1 - Quando si pone come premessa il fatto che il principio della vera immor-
talità dell’uomo, considerato nella sua completezza, è l’atto vivificante e in-
corruttibilizzante della vivifica Trinità, e che la morte dell’uomo è dovuta al
suo allontanamento dalla fonte della vita, diventa evidente che il cosiddetto
misticismo della Chiesa greca non è un presunto elemento decorativo plato-
nico ma il presupposto medesimo della concezione biblica e patristica
sull’uomo. (...).
2 - Da ciò consegue che la dottrina ortodossa sulla Chiesa come corpo di
Cristo e tempio dello Spirito santo non è un’immagine metaforica priva di
senso ma tutta la base e la premessa della concezione ortodossa della sal-
vezza. La Chiesa è costituita soltanto da quanti partecipano dell’atto vivifi-
cante della Trinità vivifica. (...).
3 - Una teoria errata sulla provenienza della morte non può che causare una
generale distorsione delle concezioni in ordine alla vita morale. I Padri greci
sempre hanno insegnato che Dio non ha fatto la morte e sempre hanno col-
legato strettamente i concetti di morte, stana e peccato: la pietà dell’Orto-
dossia ha sempre avuto, pertanto, un carattere di eroismo e di combattimen-
to, seguendo le tracce dei martiri e dei confessori, nei quali il temere la mor-
te ed il retrocedere dinanzi ad essa significavano cadere nelle mani di satana
ed amputarsi dalla fede. (...) Quando, al contrario, in Occidente ha preso il
_____________________________
74
Per un quadro complessivo cf. SPITERIS, Salvezza e peccato, op. cit.

480
sopravvento la teologia agostiniana, la vita monastica non ha tardato a cono-
scere un declino e la vita ecclesiale in generale un allentamento. C’era da
aspettarselo. Se la destinazione dell’uomo è la felicità propria, se la morte
proviene da Dio e se satana è uno strumento punitivo di Dio, perché concen-
trare tutte le forze nella lotta contro il diavolo che regna nella morte, secon-
do la fede dell’Oriente ortodosso? Così il monachesimo in Occidente è sfug-
gito alla sua destinazione originaria, che è la guerra contro satana ed il pec-
cato imperante nella morte (...) ed è diventato nelle mani dei papi uno stru-
mento sia di civilizzazione sia della politica ecclesistica di volta in volta at-
tuata, avendo sempre, quale principlae caratteristica, l’azione sociale (...).
4 - Come abbiamo visto, l’ignoranza della reale provenienza della morte
non può che portare ad un’idea sbagliata di Dio e del suo rapporto con il
mondo. Quando si ritiene Dio responsabile della morte, automaticamente ci
si allontana dalle concezioni bibliche e patristiche in ordine alla giustizia di-
vina, alla caduta, alla salvezza, a Cristo ed alla Chiesa, e si arriva al punto,
persino, di esaminare le relazioni di Dio con il mondo in termini di necessi-
tà. È assolutamente vero che “a coloro a cui l’autore della morte è ignoto, è
75
ignoto anche il creatore della natura dell’uomo”» .
Anche questo passo è molto chiaro. Netta è anche l’atmosfera tipica de-
gli scritti di Romanidis: il papato come agente politico più che spirituale, il
monachesimo occidentale come deviazione dalle origini, Agostino fonte di
ogni male possibile. Se ignoriamo quest’ultima nota, tanto ingiusta quanto
di fantasia, e prendiamo le altre cum grano salis, quella di Romanidis non è
però una analisi poi così fuori luogo. Ad esempio, parlare di ‘morte natura-
le’, senza neanche prendersi la briga di specificare almeno ‘dopo la caduta’
(come Agostino fa sempre), non è forse dire che Dio ha creato la morte? E
questo non contraddice la Scrittura ed i Padri? Chi poi negherà che il seco-
lare abbraccio tra potere politico e Chiesa, che ha fruttato a questa grandi
ricchezze, non si è tradotto in un crescente declino spirituale? La Riforma
nasce proprio da questa constatazione, salvo poi proseguire su quella stessa
china. E non è forse vero che il Concilio vede in questo declino spirituale la
principale causa dell’ateismo? Quanto al martirio delle Chiese d’Oriente,
ebbene esso è nei fatti, passati e presenti: se i teologi frequentassero meno
le biblioteche e di più le persone ed i fratelli di altri Paesi, lo saprebbero e
ne parlerebbero. Così più di un’osservazione di Romanidis sembrerebbe so-
lo un pò troppo aspra, come un bell’arancio non ancora maturo.
Il secondo orientamento potrebbe essere descritto come ‘moderato’, ma,
per riprendere l’immagine precedente, si tratta sempre di arance: più matu-
re, più dolci, ma non per questo meno ‘aranciose’. Però il modo di porgersi
_____________________________
75
I.S. ROMANIDIS, Il peccato originale. Chi è l’uomo? Qual è la sua storia?, Trieste
2008, 175-179. Il passo si chiude con un inciso dello PSEUDO-GIUSTINO, Cohortatio
ad graecos, 28 (NdA, ma unde? forse n.38, in SCh 528, 268ss, molto ad sensum).

481
è importante, se non altro per evitare polemiche stizzite sulla lana caprina.
76
Il teologo che prendiamo come primo riferimento è Christos Yannaras .
Il cuore della riflessione di Yannaras che attiene alla nostra ricerca (egli
in realtà è un teologo-filosofo molto poliedrico) è la ‘persona’. Non si può
dire ‘nel concetto di persona’ perché sottolineeremmo troppo il lato razio-
nale che, pur presente in modo robusto, non esaurisce il sentitus di Yanna-
ras. Né possiamo dire ‘nell’idea di persona’, perché il termine greco riman-
da all’immagine, mentre per Yannaras la ‘persona’ ha un imprescindibile e
rilevante lato non visibile, perciò non dicibile (apofatico). Di conseguenza,
ciò che si dice della ‘persona’ (ma per Yannaras di tutto il reale) è vero ma
parziale, sia perché esiste una ancor più grande porzione non (ancor) detta,
sia perché la verità (della ‘persona’ e di ogni altra cosa) non la si conosce
ma la si vive. Per Yannarasa la verità è esperienziale più che intellettuale. E
questo significa che la verità è funzione dei presupposti con la quale la si
vive, prima ancora che di quelli con i quali la si pensa ed esprime.
Questo punto è di particolare importanza per noi.
Se si parte da un punto di vista di fede, cioè se si prendono le mosse dal-
la propria esperienza di Dio e dall’amore che nutriamo per lui, quel che si
esprime riguardo al reale sarà colto, elaborato, formulato e valutato giusto o
sbagliato, vero o falso, secondo quel punto di vista. Se invece si parte da un
punto di vista agnostico o ateo, cioè se si prendono le mosse dal non sapere
se e chi sia Dio, o dal negarne l’esistenza, quel che diremo riguardo al reale
sara colto, elaborato, formulato e ritenuto giusto o sbagliato, vero o falso a
partire da quei punti di vista. Epistemologicamente parlando, è chiaro che è
impossibile giungere al medesimo risultato partendo da sistemi diversi. Per
noi ciò significa che la morte non può essere descritta allo stesso modo dal
_____________________________
76
Per la biografia cf. B. PETRÀ, s.v. Yannaras Chrestos, in A. PAVAN (ed.), Enciclope-
dia della persona nel XX secolo, Napoli-Roma 2008, 1127-34; IDEM, «Christos Yan-
naras. Un’introduzione alla sua vita ed al suo pensiero», in CH. YANNARAS, Ontolo-
gia della relazione, Troina 2010, 7-27. Per una introduzione alla sua teologia cf. B.
PETRÀ, Christos Yannaras, Brescia 2015. Che anche Yannaras sia una ‘arancia’ co-
me Romanidis appare dal fatto che la sua tesi di dottorato su Climaco fu addirittura
respinta per le sue critiche all’ambiente ‘universitese’, e questo quando Romanidis è
solo un teologo costretto ad insegnare in USA. Con ciò vi sono anche divergenze im-
portanti: cf. J.L. KELLEY, ‘Romeosyne’ according to protopresbyter John Romanides
and Christos Yannaras: a response to Pantelis Kalaitzidis, Norman (OK) 2016 (ro-
meosyne, lett. romanitas, indica quella che noi diremmo ‘bizantinità’; gli Ortodossi si
considerano però ‘romani’, non ‘bizantini’) che contesta la lettura di KALAITZIDIS,
«The image», op. cit., per il quale Romanides e Yannaras sarebbero sulla stessa barca
dell’anti-occidentalismo. In effetti, Yannaras è vicino a diverse tesi dell’occidente fi-
losofico, come vedremo. In realtà è l’intero sentitus Ortodosso ad esse anti-occiden-
tale, anche se non al modo aspro, distorcente ed un po’ disinformato di Romanidis.

482
credente e dal non credente, perché non è vissuta alla stessa maniera e so-
prattutto perché la descrizione del primo comporta un ‘non-descritto’ total-
mente altro dal ‘non-descritto’ del secondo (ammesso che ci sia). Dal punto
di vista di Yannaras si può dunque dire che la sintonia occidentale tra filo-
77
sofi non credenti e teologi significa solo che questi non conoscono Dio .
La correlazione tra il peccato originale, la morte e la redenzione di una
‘persona’ umana così concepita Yannaras la esprime così:
«La scelta originale del primo essere umano in favore di un autoconteni-
mento individuale (individual self-containedness) fu la prima e definitiva
frammentazione della natura umana, un’universale condanna all’inferno del-
la separazione esistenziale dalla pienezza della vita, che è la comunione con
Dio. Questo inferno è distrutto nella pienezza di Cristo, nell’evento della in-
carnazione di Dio, nell’unione della natura divina con la natura umana.
Il significato di ‘salvezza’ dell’umanità ‘per mezzo di Cristo’ e ‘in Cristo’ si
riferisce alla realtà di una ‘nuova’ natura unita ed indivisibile, una ‘nuova
creazione’ che è ricapitolata primariamente ed inizialmente nella esistenza
personale del Cristo. Nella persona di Cristo il riferimento ék-statico della
natura umana al suo telos esistenziale fu ripristinato (essendo il telos una
_____________________________
77
Riassumiamo qui ad hoc il saggio di CH. YANNARAS, On the absence and unknowa-
bility of God. Heidegger and Areopagite, London-New York 2005 (or. 1967). Non si
sarà faticato, del resto, a cogliere nel nostro abrégée le tracce del primo Heidegger, a
loro volta fondate sull’apofatismo filosofico greco, che Yannaras affianca dal canto
suo a quello neoplatonizzante dell’Areopagita e poi a quello di Giovanni Climaco e
Massimo il Confessore. Questo percorso è ricostruito da Yannaras stesso: «Nei se-
minari, nelle conversazioni, professori e compagni di studio mi provocavano ... Do-
vevo una risposta, principalmente a me stesso. La provocazione mi conduceva all’a-
pofatismo greco. La verità non si esaurisce nella sua formulazione. La formulazione
concettuale, storica, mitica, iconografica è solo una definizione-limite della verità. La
veste per la sua comunicazione sociale, il suo margine di protezione ... L’apofatismo
mi rinviava al realismo della relazione; la relazione, alla sua dinamica di pienezza,
l’eros, alla libertà ed all’alterità esistenziali; l’alterità e la libertà al primato ontologi-
co della persona. Mia prima guida Giovanni Climaco, la guida descritta nella Metafi-
sica del corpo (tesi di dottorato pubblicata nel 1971). Il Climaco mi ha rimandato,
per l’apofatismo, all’Areopagita; frutto della sua guida il libro Heidegger e l’Areopa-
gita (pubblicato nel 1967). L’Areopagita ed il commento di Massimo, Massimo il
Confessore, mi ha affascinato; frutto: La persona e l’eros (pubblicato nel 1976). E
sempre vicino Heidegger la provocazione del realismo ontologico. Tuttavia, i muri di
cinta che Heidegger temeva di saltare Massimo li ha varcati con la facilità di un gi-
gante. Riguardo al realismo senza compromesso, Massimo mi ha condotto a studiarlo
al punto di partenza, nel linguaggio di Aristotele. Creatore questi del linguaggio, mi
ha inebriato. La falsificazione tomista del realismo aristotelico me l’ha illuminata il
continuatore di Massimo, Gregorio Palamas» (B. PETRÀ, prefazione a CH. YANNA-
RAS, Contro la religione, Magnago (BI) 2012, 5-16, 9s, che traduce CH. YANNARAS,
Tà kath’éautón (Memorie personali), Athina 1995, 49s).

483
comunione vivente con la causa increata e la pienezza della vita, con la du-
rata illimitata della vita), e ciò che fu ripristinato fu la immediata ed univer-
sale relazione dell’umanità con Dio e la comunione con Lui. Questa comu-
nione è il logos dell’esistenza, il suo significato, la sua causa e, allo stesso
tempo, l’obiettivo e la pienezza della sua verità. (...)
La possibilità del modo ék-statico di esistenza, la possibilità personale di
una alterità ék-statica rispetto alla natura, la quale, dopo la caduta, era con-
dannata ad esaurirsi entro i limiti della natura stessa come distanzialità (apó-
stasis) individuale - questa personale ék-stasis della natura fuori-della-natu-
ra ora diviene una possibilità naturale entro i limiti della natura teantropica
del Cristo. Ora è la natura ad andare fuori di sé in totale comunione con la
deità, ed è lasciato alla libertà della persona il coordinare se stessa con la sua
ék-stasis naturale, vale a dire negare l’autonomia esistenziale dell’individua-
lità, abrogare la distanzialità dell’autocontenimento individuale, sollevare se
stessa fino alla totalità dell’ék-stasis di natura, che è realizzata esistenzial-
78
mente nella persona di Cristo» .
Il passo non è di semplice lettura, e richiede alcune glosse esplicative. In
primo luogo i termini greci. Ék-stasis letteralmente è composto dalla parti-
cella ék, ‘fuori da’, e dal sostantivo stasis, ‘lo star fermo’ o ‘luogo ove uno
sta’; quindi ék-stasis significa letteralmente ‘star fuori da’, e così tradurla in
italiano con ‘estasi’ eccede il senso greco perché gli aggiunge connotazioni
mistiche. Quando Yannaras parla di ‘modo ék-statico di esistenza’, perciò,
intende dire che un ente esiste in due modi, uno che vediamo, interno al no-
stro mondo, ed uno ‘che sta fuori’; e “questa personale ék-stasis della natu-
ra fuori-della-natura ora diviene una possibilità naturale entro i limiti della
natura teantropica del Cristo”. Apó-stasis risulta invece composto, oltre che
da stasis, anche dalla particella apó, ‘lontano’, ‘via da’; significa dunque lo
‘star lontano da’, lo ‘esser andato via’, da cui l’italiano ‘apostasia’, per in-
dicare l’allontanamento da una certa dottrina, ed ‘apostata’, per indicare chi
si allontana. Quando Yannaras descrive la caduta di Adamo come ‘allonta-
namento, ‘distanzialità’, vuol dire che il suo peccato consiste nel suo esser-
si voluto allontanare, separare da Dio. La redenzione consiste così nel poter
‘uscire da sé’, cioè dal limite autoimpostosi dall’uomo, per ripristinare la
vicinanza originaria spezzata dalla scelta di allontanarsi. Questa possibilità
non è una ipotesi teorica ma un dato di fatto rivelato nella natura teandrica
di Cristo, poiché in Lui la natura umana e la natura divina sono unite in una
sola Persona (divina). Il ripristino della originaria unità tra Creatore e crea-
tura, tra Dio e persona umana, ristabilisce anche il telos di quest’ultima,
dove il greco telos significa ‘compimento’, ‘realizzazione’, ‘fine’; la perso-

_____________________________
78
CH. YANNARAS, Person and Eros, § 87 The ontological content of ‘salvation’ (Rus-
sell, 267ss; trad. nostra).

484
na umana è dunque creata al ‘fine’ di essere unita a Dio, in questo modo
realizza se stessa, si completa ed è completata da Dio.
Ma, si dirà, dov’è la morte in tutto questo?
Non c’è, così come non c’è in Berdjaev. Non perché non esista il factum
del nostro morire fisico, ma perché quel che muore è solo il modo di esiste-
re terreno, visibile, al fianco del quale c’è l’altro, quello ék-statico. Questo
secondo modo di esistere, se ben vissuto, consiste nella comunione con la
fonte della vita, la causa della durata senza limite, dell’immortalità. Se però
è mal vissuto, questo stesso modo ék-statico diventa l’inferno, cioè la pro-
secuzione senza fine della chiusura in se stessi iniziata con la caduta.
Comunque Yannaras ha qualcosa in più da dire sulla morte:
«Noi possiamo comprendere il fatto necessariamente centrale della autoco-
scienza esistenziale-temporale, il fatto della morte, in immediata correlazio-
ne con la consapevolezza della temporalità come decadimento e continuità.
La morte appartiene alla consapevolezza della temporalità come continuità
(synecheia). Essa contiene (synechei) la temporalità come movimento in se
stesso e ‘temporalizzato’ come decadimento. La morte non è la fine della
temporalità, l’interruzione, in un certo momento sopravveniente, della suc-
cessione di ‘prima’ e ‘dopo’. Essa è la realtà permanente della continuità
della temporalità, la coscienza del movimento come finitudine permanente.
Così la successione di ‘prima’ e ‘dopo’, in quanto cambiamento permanen-
te, è esperienza del decadimento (“perché causa cambiamento per mezzo di
aumento e diminuzione”), in quanto continuità temporale, cioè in quanto fi-
79
nitudine permanente, è consapevolezza della mortalità» .
La prosa di Yannaras, lo si sarà intuito, non è di immediata comprensio-
ne. Qui, il concetto di fondo è che la morte fisica è l’interruzione di un solo
aspetto della temporalità, quello del decadimento; ma ve n’è un secondo, la
continuità, e questo non si interrompe appunto perché la sua essenza è quel-
la di continuare. Interpretare la temporalità come ‘dialogo’ tra continuità è
decadimento ha la sua origine ultima, dal passo emerge nettamente, in Ari-
80
stotele, per il quale il tempo è il numero del mutamento . Poiché il ‘prima’
si evolve (o decade) in ‘dopo’, il tempo, in quanto registrazione di questa
evoluzione, è decadimento. Ma, poiché questa evoluzione non cessa mai, in
quanto che tutto ciò che esiste passa da un ‘prima’ ad un ‘dopo’, allora il
mutamento è senza fine; di conseguenza, il tempo è anche continuità. Ciò
implica che la morte che vediamo è solo la manifestazione del lato ‘deca-
dente’ della temporalità, mentre quello ‘continuante’ non è percepito, vale
_____________________________
79
CH. YANNARAS, Person and Eros, § 50 Death as ‘temporal’ continuity and total ec-
static ‘motion’of the individual existence (Russell, 138s; trad. nostra).
80
Cf. ARISTOTELE, Physica, IV, 11, 219b 2 (Ruggiu, 214s): «In effetti il tempo è que-
sto: il numero del movimento secondo ‘prima’ e ‘poi’».

485
a dire si trova in uno stato di esistenza ék-statico rispetto alla nostra perce-
zione. Questo genere di nesso tra essere e temporalità è chiaramente mutua-
to sul pensiero del primo Heidegger.
Nel seguito Yannaras spiega meglio questa ‘continuità’ rifacendosi alla
teologia di Gregorio Palamas, per la precisione alla dottrina delle energie, e
introducendo distinzione tra una temporalità ‘eroticamente divisa’ ed una
81
‘eroticamente autentica’; ma sono spiegazioni eccedenti i nostri scopi . Bi-
sogna invece porre l’ultimo tassello, la chiave di volta dell’intera visione:
«Noi possiamo osare di riassumere interpretazione ecclesiale ortodossa della
‘immagine’ (di Dio nell’uomo) nella seguente formulazione. L’uomo è stato
dotato da Dio del dono di essere persona, con la personalità, il che è esistere
nello stesso modo in cui Dio esiste. Quel che costituisce la divinità di Dio è
la sua esistenza Personale, la Trinità delle Ipostasi Personali, che costituisce
l’Essere divino, la divina Natura o Essenza, in una vita di amore, che è una
vita di libertà da ogni necessità.
Dio è Dio in quanto è Persona, vale a dire in quanto la sua Esistenza non di-
pende da nient’altro, nemmeno dalla sua Natura o Essenza. (...). E Dio ha
impresso questa stessa possibilità di esistenza personale nella natura umana.
La natura umana è creata, data; non è la libertà personale dell’uomo che co-
stituisce il suo essere, che costituisce la sua natura o essenza. Ma questa na-
tura creata esiste solo come una personale ipostasi di vita; ognuno è
un’esistenza personale che può ipostatizzare la vita come amore, cioè come
libertà dalle limitazioni della sua natura creata, come libertà da ogni necessi-
tà - proprio come il Dio increato.
Ancor più schematicamente. Dio è una natura in tre Persone; l’uomo è una
natura in innumerabili persone. Dio è consustanziale in tre ipostasi; l’uomo
è consustanziale in infinite ipostasi. La differenza di natura, la differenza tra
creato ed increato, può essere trascesa al livello del comune modo di esi-
stenza, il modo di esistenza personale - e questa verità è stata rivelata a noi
dall’Incarnazione di Dio, dalla Persona di Gesù Cristo. Il fatto che l’uomo
sia immagine di Dio significa che ognuno può realizzare la sua esistenza co-
me Cristo realizza la vita come amore, come libertà e non come necessità di
natura. Ognuno può realizzare la sua esistenza come persona, come le Per-
sone della Triadica Divinità. Di conseguenza, l’uomo può realizzare la sua
esistenza come eternità ed incorruttibilità, proprio come la divina vita della
82
triadica co-inerenza e comunione è eterna ed incorrutibile» .

_____________________________
81
Cf. CH. YANNARAS, Person and Eros, § 51 The ‘duration’ of personal energy; § 52
The erotic trascendence of temporal ‘continuity’: divided eros and true eros (Rus-
sell, 140-145). Il tema dell’eros è molto importante nella teologia greca, ed è posto in
termine identici a quelli di BENEDETTO XVI, litt. enc. Deus caritas est, nn.4.10; però
qui non potremo neanche accennare alle sue liaisons con il tema della morte.
82
CH. YANNARAS, Elements of faith. An introduction to Orthodox theology, VII Man,
d. person (Schram 58s; trad. nostra).

486
Stavolta Yannaras è molto chiaro, ed il passo ha bisogno solo di due no-
te. La prima è questa: se la persona umana, in quanto tale, ha lo stesso mo-
do di esistenza della Persona divina, allora ad essere immortale è la perso-
na, ed ogni volta che si dice ‘uomo’ dovremmo correggerci in ‘persona’. Si
potrebbe pensare che sia una mera questione di parole, ma in realtà no: sta-
bilire chi sia ‘persona’ è infatti molto più difficile che non stabilire chi sia
‘uomo’, ed ancor più è decidere se ci sia una reale differenza e quale sia. La
seconda nota consiste nel rilevare che, nel paragrafo finale, Yannaras parla
in termini che ricordano da vicino quelli che usa Tommaso d’Aquino quan-
do, nella Summa theologiae, giustifica l’uso del termine ‘persona’ per indi-
83
care Padre, Figlio e Spirito Santo . Lungi dall’essere una mera assonanza,
qui è netta una vicinanza teoretica: Yannaras infatti accenna a quel che la
Scolastica chiama ‘individuo vago’, ossia la persona considerata nella sua
singolarità ma non nelle caratteristiche transeunti che ha qui ed ora. Poiché
il concetto è fondamentale, per noi ma anche per una più coerente presenta-
84
zione del peccatum originale originans, è bene dare qualche lume .
Nell’antichità e nel Medioevo molte volte ci si è chiesti come un concet-
to universale potesse divenire singolare, ossia (ad esempio) come l’idea di
uomo potesse ‘restringersi’ fino a diventare Platone o Callia. Scartata l’idea
che gli universali esistano al di fuori delle cose concrete, si concluse che la
singola cosa aggiunge all’universale un quid che la individua. Ad esempio,
Platone e Callia sono entrambi uomini, ma il primo è più alto del secondo,
che però è più grasso, e così via. La singolarizzazione dell’universale pare-
va opera di queste caratteristiche, ma in seguito si dovette concludere che
in realtà la singolarità di queste note ha un fondamento più profondo e sta-
bile: perché, ad esempio, se Callia dimagrisce non diventa Platone, né que-
_____________________________
83
Cf. TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, I, q.30, a.4, resp. (Paoline, 158): «Nel-
le cose umane questo nome ‘persona’ è comune di una comunanza di ragione ma non
al modo di genere e specie bensì come individuo vago. Infatti i nomi di generi e spe-
cie, come ‘uomo’ o ‘animale’, sono imposti per significare esattamente la natura co-
mune, non però le intenzioni delle nature comuni che sono significate dai nomi ‘ge-
nere’ e ‘specie’. Ma l’individuo vago, come ‘un certo uomo’, significa la natura co-
mune con quel determinato modo di esistere che compete ai singolari, come cioè se
fosse sussistente per sé e distinto dagli altri. Ma nel nome del singolare designato è
significato un determinato distinguente, come nel nome ‘Socrate’ questa carne e que-
sto osso. Tuttavia vi è questa differenza, che ‘un certo uomo’ significa la natura o
l’individuo sotto il rispetto della natura, con il modo di esistere che compete ai singo-
lari, mentre questo nome ‘persona’ non è imposto per significare l’individuo sotto il
rispetto della natura ma per significare la cosa sussistente in tale natura».
84
Per le ricadute del concetto di individuum vagum sulla comprensione del peccato ori-
ginale adamitico ci permettiamo di rinviare al nostro All’incrocio tra teologia e spiri-
tualità: il caso del peccato originale, Beau Bassin 2017, cap.IX per totum.

487
sti diventa Callia se, per l’età, diminuisce di statura. Dunque la singolarità
di Platone non è dovuta a note di questo genere, e se generalizziamo questa
conclusione si ha che è indipendente non solo dal corpo ma anche da molte
note non fisiche, ad esempio la conoscenza, o la memoria, o la volontà. Che
cosa dunque rende singolare Platone? Semplicemente il suo modo di esiste-
re, che è singolare per se stesso. L’esistenza di questa singolarità liberata da
tutto ciò che non è essenziale è nota dal sec.VI, ed ha ricevuto molti nomi:
Boezio la chiama platonitas, Riccardo di san Vittore danielitas, Tommaso
d’Aquino socrateitas e così via. Per coglierla nella sua essenza e non limi-
tarsi al solo essere umano (anche le cose sono singolari) la si è poi indicata
come ‘individuo vago’, e come tale è stata studiata a fondo in Riccardo di
85
Mediavilla e Duns Scoto . Negli uomini invece la si è chiamata ‘persona’,
come si legge da Boezio fino appunto a Tommaso d’Aquino.
Da queste rapide note è chiaro che quel che scrive Yannaras non è affatto
nuovo e tantomeno eversivo: solo l’ignoranza lo fa sembrar tale. Ma non si
cada nella tentazione della polemica e proseguiamo.
Perché non si creda che, per quanto Yannaras sia autore stimato, questa
sia opinione solo sua, leggiamo una breve silloge di passi di un altro teolo-
go greco di assoluto rilievo, Yannis Zizioulas. Ecco il primo:
«Il senso profondo dell’identificazione tra ipostasi e persona - senso il cui
carattere rivoluzionario nel percorso del pensiero greco sembra non aver at-
tirato l’attenzione della storia della filosofia - consiste in una duplice affer-
mazione:
a) - la persona non è più un elemento ‘sovrapposto’, una categoria che noi
aggiungiamo ad un essere concreto, dopo averne attestato in precedenza
l’ipostasi ontologica; è l’ipostasi stessa dell’essere.
b) - gli enti non riferiscono più il loro ‘essere’ ad un ‘essere in sé’ - l’essere
non è più dunque una categoria assoluta in sé - ma alla persona, che costitui-
sce esattamente l’essere, vale a dire che fa sì che gli esseri siano degli esseri.
In altri termini, la persona non è più l’elemento sovrapposto all’entità (una
specie di maschera) ma diviene l’entità in sé e simultaneamente - quel che è
86
capitale - l’elemento costitutivo degli esseri (loro principio o causa)» .
Il passo, abbastanza chiaro, è indispensabile per capire cosa, poco dopo,
Zizioulas scrive sulla morte. Unica nota, spiegare la differenza tra ‘ipostasi’
_____________________________
85
Anche qui, in assenza di altri studi, ci permettiamo di rinviare alla nostra tesi di dot-
torato su Duns Scoto: A. ARA, “An materia sit aliqua entitas positiva an nihil”. La
materia in Giovanni Duns Scoto (Lectura, II, dist.12, a.1), Roma 2011.
86
Y. ZIZIOULAS, «Du personnage à la personne. La notion de la personne et l’hypostase
ecclésial», in IDEM, L’être ecclesial, Genève 1981, 23-55, 32 (trad. nostra; cors. or.).
Per un’introduzione alle concezioni di Zizioulas cf. D.H. KNIGHT (ed.), The theology
of John Zizioulas. Personhood and the Church, London 20162;

488
e ‘persona’. La teologia trinitaria ne esalta sottigliezza e difficoltà, ma se si
ricorda ciò che si è detto sull’individuazione è quasi banale. In quella pro-
spettiva, l’ipostasi è il modo d’esistere singolare delle cose e la persona è il
modo d’esistere singolare di uomo, angelo e, mutatis mutandis, Dio. Poiché
questi non sono ‘cose’ viventi, non si può ritenere che la persona aggiunga
qualcosa all’ipostasi. Non vi è dubbio che la persona, come l’ipostasi, ab-
bia una sporgenza fisica, ma questa si colloca, agisce e subisce ad un livello
diverso da quello cui si pone e vive la persona. Solo a questo punto si può
capire cosa Zizioulas scrive sulla morte:
«La ricerca intensa dell’identità personale è oggi diffusa in tute le forme di
vita sociale. La persona non si lascia relativizzare senza provocare delle re-
azioni. L’impotenza dell’uomo a garantire la sua identità assoluta nel mondo
culmina nella morte. La morte non diventa tragica ed inammissibile se non
perché l’uomo si coglie prima come persona, e soprattutto come ipostasi ed
identità unica. Per la biologia, al contrario, è un fenomeno naturale e benve-
nuto perché così la vita si perpetua. Nel mondo naturale, l’identità ‘persona-
le’ si realizza per mezzo della nascita, della ‘sopravvivenza’ dei genitori nei
figli. Ma questa non è una sopravvivenza di persone. Questa è sopravviven-
za di specie, qualcosa di osservabile ugualmente in tutto il regno animale,
retto dalle dure leggi della selezione naturale. La sopravvivenza della perso-
na in quanto identità unica non si realizza grazie al matrimonio ed alla na-
scita, i quali, in definitiva, si rivelano essere dei fornitori della morte. Poiché
infine, se grazie a tutto ciò l’essere dell’uomo sopravvive, è solo come ‘so-
87
stanza’ e ‘specie’ e non in quanto persona, identità concreta ed unica» .
Il testo è molto limpido. Notiamo solo che, in questa prospettiva, parlare
di ‘morte naturale’ equivale a ridurre l’uomo al solo lato animale; se a farlo
sono dei teologi, significa che, in definitiva, essi non si distinguono più dai
filosofi non credenti, il che spiega bene perché, come si è detto all’inizio, la
teologia si sia fatta dettare agenda, metodo e contenuti dalla filosofia.
«La morte è lo sbocco ‘naturale’ dell’ipostasi biologica, la cessione di ‘spa-
zio’ e ‘tempo’ ad altre ipostasi individuali, il coronamento dell’ipostasi in
quanto individualità. Simultaneamente, essa è la più tragica ‘autonegazione’
di questa ipostasi (dissoluzione e sparizione del corpo e dell’individualità),
poiché quest’ultima, nel provare ad affermarsi come tale, scopre che la sua
‘natura’ l’ha condotta su una falsa strada, che porta alla morte. Questo scac-
co (astokia) della natura, tal quale si esprime nell’identità biologica dell’uo-
mo, svela simultaneamente due cose:
a) - contrariamente all’affermazione del suo slancio biologico, perché l’ipo-
stasi sopravviva effettivamente, ella dovrà esprimersi anche come ék-stasis,
ma simultaneamente e non a posteriori (dunque non prima come essere e
poi come persona).
_____________________________
87
ZIZIOULAS, «Du personnage», op. cit., 40 (trad. nostra).

489
b) - questo scacco (astokia) dell’ipostasi nel sopravvivere non è dovuta ad
una mancanza acquisita di ordine morale (a una trasgressione) ma al modo
di costituzione stesso dell’ipostasi, vale a dire all’atto della perpetuazione
88
della specie . Questo significa che l’uomo, in quanto ipostasi biologica, è
per costituzione una identità tragica: nasce grazie ad un fatto ék-statico -
l’eros - ma questo fatto, andando di pari passo con una necessità naturale, è
privato della libertà ontologica. L’uomo nasce come un fatto ipostatico, il
corpo, ma questo fatto è profondamente legato all’individualità ed alla mor-
te. Egli si sforza di divenire ék-statico per mezzo dell’atto amoroso, che pe-
rò lo conduce all’individualismo. Il suo corpo è lo strumento tragico che
conduce verso la comunione con gli altri tenendo la loro mano, creando il
linguaggio, la parola, il discorso, l’arte, baciandoli. Nello stesso tempo è la
maschera dell’ipostasi, la fortezza dell’individualismo, il veicolo dell’ultima
separazione: la morte.
“Sventurato me! Chi mi libererà da questo corpo di morte?” (Rm 7,24) Quel
che rende tragica l’ipostasi biologica non è il fatto che, per causa sua, l’uo-
mo non è una persona, ma piuttosto che egli cerca di diventarlo per mezzo
suo, e manca il suo obiettivo: il peccato è esattamente questo scacco, e solo
la persona ne possiede il tragico privilegio. Di conseguenza, perché la sal-
vezza divenga possibile, perché l’ipostasi cessi di ‘mancare il suo obiettivo’,
è necessario che l’eros ed il corpo come espressione della ék-stasis e della
89
ipostasi personale cessino di essere veicoli di morte» .
Ma come può la persona umana trascendere se stessa, i suoi limiti?
«Se Cristo è presentato come Salvatore del mondo non è perché Egli abbia
portato un modello di morale, un insegnamento per l’uomo; è perché Egli
incarna in Lui il superamento della morte, poiché, nella sua Persona, ormai
il creato può vivere perennemente. (...)
Nella Persona di Cristo il creato e l’increato sono stati uniti “senza divisio-

_____________________________
88
«San Massimo il Confessore, seguendo san Gregorio di Nissa (De hominis opificio,
16-18, PG 44 passim), pone precisamente il problema dell’esistenza umana nella sua
radice quando considera il modo biologico della nascita come risultato della caduta
(Ambigua 41-42, PG 91, 1309A-1340C. Cf. Quaestiones ad Thalassios, 61, PG 90,
636B). Coloro che attribuiscono questa tesi ad un pregiudizio monastico ed ascetico
ignorano che non si tratta di un pensatore ordinario. Massimo è senza dubbio uno de-
gli spiriti tra i più grandi e tra i più creativi della Storia e non si sarebbe permesso di
tenere un pensiero che non facesse parte organica ed integrante del suo pensiero glo-
bale. La sua posizione qui si ispira al versetto Mt 22,30 (“Alla risurrezione non si pren-
de né moglie né marito, ma si è come angeli nel cielo”), che significa che “l’essere veri-
tiero” dell’uomo risiede nel suo stato escatologico (vedi in seguito). La vittoria sulla
morte e la sopravvivenza della persona sono inconcepibili senza il cambiamento del
modo costitutivo dell’ipostasi umana, senza trascendere l’ipostasi biologica. Questo
non è manicheismo: le due ipostasi (biologica ed escatologica) non si escludono l’un
l’altra (vedi n.51) (i.e. pag.52)» (NdA; tra parentesi in corsivo nostre glosse).
89
ZIZIOULAS, «Du personnage», op. cit., 43ss (trad. nostra; cors. orig.).

490
ne” (in una maniera che non ammette divisione) ma ugualmente “senza me-
scolanza”, cioè senza perdere la loro identità e le loro particolarità. (...)
In altri termini, il creato, per vivere, bisogna che si trovi, si deve trovare in
continua ed ininterrotta relazione (indivisibile) con qualcosa di increato. È
per questo che l’amore, che appunto rappresenta la fuga degli esseri fuori di
se stessi per oltrepassare la creazione e la morte, è un punto essenziale per il
superamento del problema della creazione. Chi non ama, chi cioè non è uni-
to “senza divisione” a qualche cosa fuori di se stesso, muore. Solo l’amore,
vale a dire l’unione “senza divisione” con Dio increato, assicura l’immorta-
lità, poiché tutto ciò che è creato è destinato a perire. Il Cristo incarna esat-
tamente questa libera unione del creato e dell’increato come il solo modo di
90
superamento della morte» .
Quindi la persona umana può trascendere i limiti della sua ipostasi biolo-
gica, primo tra tutti il morire, perché è onticamente (non ontologicamente,
si badi) legata alla Persona di Cristo. Questa, unendo la natura increata di
Dio alla natura creata dell’uomo, per così dire ‘trascina’ questa nel modo di
esistenza di quella, rendendola immortale. Se si dice che la morte non esi-
ste non si intende annullare il factum della dissoluzione biologica ma si af-
ferma invece che limitarsi a questa è rinchiudere la natura umana in un suo
aspetto reale ma transitorio. Per una comprensione metafisica del quomodo
possit stare questa che è una constatazione di fede è fondamentale il con-
cetto di ‘individuo vago’, ma più importante ancora è l’appropriazione esi-
stenziale del processo mentale che l’ha scoperto.
Questa visione dell’uomo, comune a tutta l’Ortodossia e che in Yannaras
ha il suo mentore più filosofico mentre Zizioulas esprime il lato teologico-
spirituale, ha conseguenze di portata enorme. Per rendere l’idea di quanto
radicali siano ne accenniamo solo una, con le parole di Zizioulas:
«La Chiesa non è semplicemente un’istituzione, ma piuttosto un ‘modo di
esistenza’, una maniera d’essere. Il mistero della Chiesa, anche nella sua di-
mensione istituzionale, è profondamente legato all’essere dell’uomo, all’es-
sere del mondo ed all’essere di Dio stesso. (...) L’essere ecclesiale è legato
all’essere stesso di Dio. Per il fatto che l’uomo è membro della Chiesa,
l’uomo diviene ‘immagine di Dio’, perciò esiste come Dio stesso esiste, ac-
quisisce la ‘maniera d’essere’ di Dio. Questa maniera d’essere non è un
comportamento morale, vale a dire qualcosa che l’uomo compie. È una ma-
niera di relazione con il mondo, con l’altro e con Dio, un fatto di comunio-
ne, ed è per questo che non può essere realizzato come exploit individuale
91
ma come solamente fatto ecclesiale» .
_____________________________
90
Y. ZIZIOULAS, «Christologie et existence. La dialectique créé-incréé et le dogme de
Chalcedoine», Contacts. Revue française de l’Orthodoxie 126 (1984) 154-172, 166s.
91
Y. ZIZIOULAS, L’être ecclesial, op. cit., introduction, 21 (trad. nostra; cors. orig.). En
passant, ci piace notare che la prefazione al saggio (9s) è di Yannaras.

491
Difficilmente un cristiano Occidentale potrebbe sottoscrivere questa de-
scrizione, e non solo per ragioni storiche. La sua mente correrebbe invece
subito alle tante, acri impuntature su questioni di giurisdizione, precedenza
e simili, così frequenti nel mondo Ortodosso. In realtà la distanza tra Orto-
dossia e mondo Occidentale è a tutto campo: qui si è potuto accennare solo
ad alcuni elementi e rapidamente, ma spesso sfugge alla nostra percezione,
nascosta com’è dietro le pieghe della lingua, del retroterra culturale, delle
suggestioni mal digerite. ‘Ripulito’ dai toni e dalle distorsioni, con sfuma-
ture rilevanti, si può dire che l’atteggiamento di Romanidis è il più chiaro e
schietto, anche se non il più diffuso ed amato. Comunque, sono valutazioni
che non riguardano il nostro studio, una ricerca che ha esaurito anche l’ulti-
mo ambito da sondare ed attende perciò che si traggano le conclusioni.

13.5. L’evoluzione della teologia della morte III:


una valutazione dogmatico-spirituale

Poiché questo capitolo è l’ultimo dedicato alla ricostruzione storica della


evoluzione della teologia della morte, le sue conclusioni devono in qualche
misura tenere conto anche di quelle dei capitoli precedenti, se non altro per
capire come e perché si sia arrivati alla situzione contemporanea.
La prima tappa, anche se cronoogicamente molto lunga (secc.VIII-XIV),
è in realtà abbastanza omogenea. Il filo conduttore di tutti questi secoli è la
teologia della morte dei Padri, non influenzata più di tanto dalla (presunta)
polemica tra Ambrogio ed Agostino. A sua volta, questa teologia poggia su
due binari: una valutazione negativa della vita terrena, che spinge a consi-
derare la morte fisica come ‘liberazione’ dal dolore, una forte rilevanza del
versante mistico, per il quale con la morte fisica inizia la fase ‘definitiva’ di
un’unione amorosa fino allora ‘transeunte’. Nei secc.XIII-XIV a questi due
elementi si affianca la teologia ‘di scuola’, la quale cerca e trova spiegazio-
ni filosofiche della morte fisica, spiegazioni inizialmente a latere dei ver-
santi suesposti, poi sempre più lontane fino a scostarsene definitivamente.
Nella seconda tappa (secc.XV-XVIII) questo iato si accentua. Da un lato
la non credibilità dell’istituzione-Chiesa si riverbera su ciò che insegna, che
così viene accomunato nel ‘gran rifiuto’ compiuto nel sec.XVI da Lutero e
dai Riformatori. Che però non riescono a fornire spunti alternativi né coe-
renti, si dividono quasi su tutto e talvolta cadono in errori marchiani. Da un
altro lato il versante mistico si rafforza, toccando vertici di una intimità mai
raggiunta: parlare di morte significa parlare dell’amore di Dio, non solo in
convento ma anche in carcere, in ospedale, in parrocchia. La dicotomia tra
il sentitus dei mistici e dei pastori da un lato e l’anaffettività totale ed avul-

492
sa dalla realtà della teologia di scuola dall’altro diventa avvilente, e affligge
i Cattolici come i Riformati, anche se in termini diversi. Non è perciò diffi-
cile capire le radici della nascita dell’Illuminismo non credente e le ragioni
della sua opposizione a quel che sulla morte insegna il Cristianesimo. Alla
fine del sec.XVIII la spaccatura tra quel che i cristiani pregano in chiesa e
quel che fanno fuori è drammatica: un esempio, la riduzione in schiavitù di
milioni e milioni di altri esseri umani, schiavitù mentalmente ancora viva.
La terza tappa (secc.XIX-XXI) non può che essere il frutto coerente di
un percorso nel quale ciò che si pensa, ma soprattutto si vive, riguardo alla
morte approfondisce la spaccatura tra non credenti e credenti e, fra questi,
tra il mondo Occidentale e quello Orientale. Infatti, se mettiamo da parte la
parentesi del sec.XIX, nel quale individui alla Cecil Rhodes esprimono più
e meglio di molte parole la radicale ed insanabile distorsione del Vangelo,
piegato spudoratamente ad indegne ‘dottrine’ schiaviste e razziste, tradotte
in massacri simil-nazisti con il beneplacito di regine, ministri e pastori, se
si mette da parte questo che in fondo continua il percorso anteriore, si dice-
va, il sec.XX segna un cambio di passo. Ma non proprio un progresso.
Per prima cosa, due guerre mondali sanguinosissime obbligano la teolo-
gia ‘di scuola’ a riprendere finalmente contatto con la realtà. E questo è de-
cisamente buono. Meno buono è che, per farlo, i teologi si rivolgano a filo-
sofi e sociologi, e preoccupa che non provino alcun imbarazzo per questo.
Ma come può il filosofo o il sociologo insegnare ad un teologo a leggere la
realtà dal punto di vista di fede? Tra filosofi, sociologi, scienziati e letterati,
oggi essere non credenti è la regola, non l’eccezione; né a costoro interessa
quel che crede la fede. Ciò significa che oggi si può fare buona filosofia o
sociologia ignorando, trascurando o fraintendendo ciò che insegna la fede.
E da questo punto di vista il mondo è mortale di per sé. Se il teologo prende
questa visione come guida significa che vede il mondo come il non creden-
te, quindi (spiace dirlo ma è così) non sa vederlo come il credente. Se que-
sto è il punto di partenza, allora le teologie di Tizio, di Caio o di Sempronio
declinano tutte lo stesso tema, come le danze ungheresi di Bela Bartòk o le
variazioni Goldberg di Bach. E questo tema è che la morte è ‘naturale’, ap-
partiene alla natura umana, alla creazione. Dio ha creato il mondo mortale.
La cosa è tanto più rilevante se si nota che, a questo riguardo, quasi non c’è
differenza tra teologi riformati e cattolici, che pure dovrebbero dividersi sul
senso e le conseguenze del peccato originale (ma c’è stato davvero? forse è
un mito, una figura letteraria... o un’esegesi antica, anzi vecchia...).
Di fronte a questa sintonia l’Oriente reagisce. La nostra esposizione, ra-
pida, insufficiente, parziale, non rende giustizia alla profondità di quei teo-
logi: ne ha fatto le spese soprattutto Florenskij. Ma, per quanto in modalità
da perfezionare, la radice di quella opposizione ci pare comunque emersa.

493
Non vi è dubbio che essa consista anche in una diversa concezione di pec-
cato, quello originale in specie. Certamente anche la diversa percezione di
‘salvezza’ ha un suo ruolo, come anche il non aver gli stessi riferimenti sto-
rici e culturali. Ma, insieme a questi ‘anche’, la reazione dell’Oriente nasce
soprattutto da altro. Essa sorge dal non percepire un’esperienza spirituale
dietro la prospettiva occidentale. Si badi: non si è detto ‘percepire una di-
versa esperienza’, ma ‘non percepire un’esperienza’. Ora, negare che esista
una esperienza spirituale occidentale è giudizio durissimo ed infondato che
non possiamo accettare, ma ci pare che sia proprio questa l’idea che almeno
parte dell’Ortodossia ha dell’Occidente, anche se non figura tal quale negli
92
scritti dei nostri autori . Romanidis, nella sua brutalità, è il più schietto al
riguardo. Berdjaev e Yannaras, con la loro sensibilità per il linguaggio filo-
sofico, sono meno diretti ma non fanno sconti. Il poco che si è potuto leg-
gere di Zizioulas e di Florenskij ce lo mostra in positivo, e quel che ci han-
no detto sul sentitus ortodosso è, da solo, più sconvolgente di tutto il resto:
‘Nei nostri petti batte un cuore caldo, nelle vostre teste lavora un cervello
freddo”. Certo semplifichiamo opinioni più sfumate, né si nega la vita spiri-
tuale della Chiesa d’Occidente, ma resta il fatto che, a fianco di una ogget-
tiva ed anche positiva differenza, si percepisce pure un giudizio di valore.
Nel merito, è difficile credere che, ad esempio nelle tante Chiese Ortodosse
medio-orientali, sia pastoralmente proponibile ciò che scrivono Yannaras o
Zizioulas. Nella nostra esperienza abbiamo visto che là ci si muove in altri
modi, più vicini a quelli cattolici, che là non sono poi così ‘occidentali’.
Ma è il momento di chiudere la sintesi ed iniziare un bilancio spirituale.
In realtà, quel che sentono e scrivono i teologi ortodossi sulla morte e sul
modo in cui ci si prepara ad essa è molto vicino a ciò che tutti in Occidente
sentivano qualche secolo fa, diciamo più o meno fino al sec.XIV, e che poi
è progressivamente divenuto esperienza sempre più minoritaria, ristretta se
non limitata a coloro che noi (ma non gli ortodossi) chiamiamo ‘mistici’. In
effetti, tra ciò che sappiamo dell’atteggiamento di questi riguardo alla mor-
te e quel che si è letto negli autori ortodossi (contemporanei) sondati la sola
grande distanza è quella linguistica. Spiritualmente la sintonia è palese, ed i
_____________________________
92
A questo riguardo bisogna ricordare che, come si è accennato in nota, per non pochi
ortodossi greci Cattolici, Riformati e Siriaci non sono ‘Chiese’, il che implica, nella
loro prospettiva, che in esse non c’è Cristo. Giudizi spirituali di tale portata provano
l’infima statura interiore di questi omuncoli, perciò non bisogna accostarli a persone
di assoluta serietà come gli autori consultati (per Romanidis - cf. KARALIS, prefazio-
ne, op. cit., 19 - i monaci che dicono tali cose non sono mai entrati nello stato di puri-
ficazione, quindi non possono neppure pensare di arrivare all’illuminazione ed alla
divinizzazione; ed è Romanidis...). Però, a parte questi estremi, è comunque chiaro
che nell’Ortodossia vi è la presunzione di una certa superiorità spirituale.

494
teologi occidentali se ne renderebbero conto con facilità se frequentassero i
testi dei loro mistici, non tanto, solo un pochino appena. Né si può insistere
più di tanto sul fatto che, in Occidente, i ‘mistici’ non esprimano il sentitus
comune e più diffuso: è vero, ma anche i nostri autori non rispecchiano cer-
to quello di tutti gli Ortodossi russi o greci. In entrambi i casi si ha a che fa-
re con le ‘avanguardie’ spirituali di Chiese che, come eserciti in marcia, per
lo più sono ancora lontane, e qualche fratello si volge addirittura indietro.
Ma, in ogni caso, questo dare o negare patenti di autenticità o falsità non
è corretto dal punto di vista puramente spirituale, anzi è peccaminoso. Solo
Dio giudica i cuori. Solo Dio conosce i suoi. L’uomo può tentare di giudi-
care i fatti, ed pure questi con fatica, incertezza, grandi margini d’errore.
Dal punto di vista spirituale (qui hanno ragione i nostri fratelli Ortodossi)
quel che conta è l’esperienza personale, sulla quale dopo si riflette.
Ora, i filosofi che ‘scoprono’ la drammaticità della morte lo fanno seduti
alla loro scrivania, davanti ad un computer acceso e tanti bei libri. Ma Pri-
mo Levi non l’ha scoperta così. Molti sopravvissuti ai lager sono rimasti in
silenzio per decenni, incapaci non di raccontare ma persino di ri-pensare a
quelle situazioni. Oggi chi aiuta i profughi nei campi dove vivono, in Iraq,
in Siria, in Turchia, apre scuole per i bambini e gioca a pallone con loro,
cerca medicine, viveri, vestiti. Ogni sforzo mira alla (ri)costruzione di una
certa normalità; la drammaticità della morte se la fa raccontare per esorciz-
zarla, come terapia psicologica. Non c’è bisogno di ricordarla, semmai di
dimenticarla. I filosofi occidentali invece devono ricordarla perché nel loro
mondo si finge che non esista. Per questo la filosofia non può aiutare la teo-
logia a capire la morte: perché l’ha dimenticata esistenzialmente; e scoprir-
la letterariamente è come divinare il sapore di una torta guardandone la fo-
to. Se la teologia si rivolge a lei significa che anch’essa l’ha dimenticata, e
che non contempla più l’agire di Dio nel mondo. In tal caso i teologi sareb-
bero con i poveri, con chi soffre, perché Dio è là, non in biblioteca, ed allo-
ra saprebbero cos’è la morte. Esistenzialmente. Per questo non si deve an-
dare in guerra o in Africa: basta far la spesa al supermercato, aprire occhi e
orecchie, ascoltare cosa dice la gente per scoprire, esistenzialmente, non da
saggi di sociologia, che dolore e morte abitano nel palazzo di fronte.
Quanto alle molte teologie sulla morte incontrate, invece di giudicare si
dovrebbe collocare ogni testo nel suo contesto. Nei sec.VIII-XII non c’è bi-
sogno di scrivere del dolore e della morte, perché è sotto gli occhi di tutti,
ogni giorno. In quei tempi i libri si scrivono non per venderli (a chi? pochi
leggono, pochissimi possono comprarli) ma per aiutare formando i forma-
tori. Il compito di chi vuole aiutare chi vive in quella disperazione è inte-
grare quella percezione con qualcosa che ne equilibri la negatività. Certo
sarà parziale, perché altrettanto parziale è il resto, ma insieme formano un

495
tutto completo. Oggi il dolore è sotto gli occhi di chiunque voglia vedere, e
ce n’è molto più che nei secoli passati, ma il compito di chi vuole aiutare è
lo stesso: equilibrare la negatività. A questo i libri, oggi non più strumenti
di crescita interiore ma oggetti di mercimonio, servono a poco; però narra-
zioni esistenzialmente coinvolte di quel che accade sono indispensabili.
Certamente chi legge solo queste ed ignora l’odore, il sapore, la polvere
delle vite vissute ovviamente affermerà che sono parziali, quelle perché
vecchie di secoli, queste perché politicizzate. Ma questa non è modernità, è
approssimazione. Se ci preme la dimensione psicologica, esistenziale della
morte, allora la si colga negli uomini di oggi, tutti, ed anche negli uomini di
ieri. Il dolore passato non fa meno male di quello odierno, e quello di afri-
cani o arabi è uguale a quello di americani o francesi. Bisogna avere com-
passione per tutti i dolori, non solo per quelli che ci toccano da vicino.
In questa prospettiva, che ci pare l’unica
sensata prima ancora che la sola fedele al Vangelo del Cristo sofferente ac-
canto ai sofferenti, la teologia non può e non deve essere esercizio letterario
ma guida spirituale. La teologia è contemplazione, quindi è indispensabile
per capire come vivere la morte da cristiani. Chi non lo è si regolerà come
vuole, ma certo in altro modo. Perché «a coloro ai quali l’autore della mor-
te è ignoto, è ignoto anche il creatore della natura dell’uomo”», come scri-
93
ve lo pseudo-Giustino .
Ed ora cerchiamo una alternativa positiva di teologia della morte.

_____________________________
93
Accettiamo qui la citazione di Romanidis, anche se non siamo riusciti a verificarla.

496
Capitolo 14

PER UNA TEOLOGIA DELLA MORTE


DAL PUNTO DI VISTA
DELLA DEIFICAZIONE

Le molte pagine dei capitoli precedenti hanno illustrato un’immagine di


morte, alcuni atteggiamenti interiori verso di essa, l’evoluzione di questi, la
odierna percezione. Con luci ed ombre di ogni passaggio. Ma questa carrel-
lata a che serve? Senza dubbio fare il punto sulla situazione è sempre utile,
specie se, come nel nostro caso, il proliferare della letteratura rende quasi
impossibile avere un quadro globale chiaro. Ma questa prospettiva ha in sé
la sua ragion d’essere o il quadro serve a qualcos’altro? Non esiste una sola
risposta a questa domanda, meglio, la risposta che si dà è unica rispetto alla
prospettiva scelta, ma vi sono almeno due possibili opzioni.
La prima possibilità, in pratica la sola nella immensa letteratura occiden-
tale, considera la morte come parte della natura umana. Da questo punto di
vista la ricostruzione offerta non è tanto un quadro storico quanto la fonda-
zione teorica della concezione, che riassume un percorso conoscitivo.
La seconda possibilità, in pratica la sola nella letteratura ortodossa, con-
sidera la morte come un mero passaggio da questa vita all’altra. Da questo
punto di vista la ricostruzione offerta ha solo valore storico, per alcuni può
anche rivelare la distorsione spirituale dell’Occidente.
Ora, noi rappresentiamo solo noi stessi e scriviamo opinioni solo nostre,
ma ci pare che entrambe queste possibilità non siano adeguate. I loro limiti
si sono esposti chiudendo il capitolo precedente: la prima è troppo vicina al
sentitus non credente e pericolosamente lontana da Scrittura, Padri e Litur-
gia, la seconda è troppo lontana dalla realtà concreta e pericolosamente vi-
cina ad uno spiritualismo astratto e gnostico. Non è il caso di approfondirli.
È invece più utile, anzi indispensabile offrire un’alternativa perché la pars
1
costruens è spiritualmente sempre più importante della destruens .
_____________________________
1
È vero però che è scritto (Sal 34,15; 36,27): «Stà lontano dal male e fa il bene», dal
che si potrebbe dedurre che la pars destruens, menzionata per prima, sia più impor-
tante della costruens, ricordata per seconda.

497
14.1. La opportunità spirituale di elaborare
una nuova teologia della morte

Come si evince con facilità dalle pagine delle prime due sezioni, per la
Scrittura ed i Padri la prospettiva antropologica corretta entro la quale pen-
sare la morte è quella della deificazione: Dio crea l’uomo per farlo diventa-
re, per grazia, come Lui è per natura. Lo ha ben sintetizzato Ireneo:
«L’unico e stabile maestro, il Verbo di Dio, Gesù Cristo nostro Signore, nel-
2
la sua immensa carità s’è fatto come noi per elevarci a come Lui è» .
Ora, il moto deificante inizia sì ma certo non ha il culmine in statu viae
bensì post mortem; ma anche l’istante stesso della morte non appartiene più
allo status viae, perciò si rende necessario inquadrare anch’esso in tale pro-
spettiva. Però leggere il factum dogmaticum della morte in vista della deifi-
cazione è due volte pioneristico: perché non vi sono elaborazioni compiute
3
della dottrina della deificazione e perché non vi è nessun’altra teologia del-
la morte pensata da tale prospettiva cui poterci in qualche modo rifare. Ciò
che noi faremo qui sarà quindi aprire la pista per ulteriori e più approfondi-
te ricerche, senza alcuna pretesa di esaustività o definitività.
Specificato questo, perché l’alternativa costruens sia efficace è necessa-
rio porne con cura i fondamenti. Il primo passo sarà mostrare che davvero
lo Spirito (e non noi) vuole che si vada in questa direzione.

14.1.1. Il suggerimenti della mistica per


una nuova teologia della morte

Come si è avuto modo di dire più volte, mentre ai successori degli apo-
stoli è dato di custodire la rettitudine della fede, il compito dei santi consi-
ste nel custodire la vitalità della fede, quello dei santi mistici in particolare
_____________________________
2
IRENEO DI LIONE, Adversus haereses, V, prologus (SCh 153, 14; trad. it. II, 154).
3
In questi ultimi anni la presenza della deificazione, in vari contesti teologici, è andata
aumentando, ma sono per lo più ‘inserzioni’ à la page e non veri e propri ripensa-
menti. Anche il significato reale di ‘deificazione’ spesso è nebuloso o affidato a ge-
nerici rinvii a questo o quel Padre. Con ‘elaborazione compiuta’ si intende invece in
primis la messa a fuoco spirituale ed al contempo (non prima, non dopo) metafisica
di ciò che si intende per ‘deificazione’, in secundis la rielaborazione completa di un
dato plesso teologico alla luce della deificazione così ricostruita.

498
consiste nell’adattare tale vitalità alle mutate condizioni esistenziali dei fe-
deli. Il cammino della Chiesa verso il suo Amato è dunque scandito da una
successione di rivelazioni donate dallo Spirito: ai mistici mostra la direzio-
ne, agli altri santi dà modo di percorrerla esistenzialmente, ai successori de-
gli apostoli di sancirne la correttezza, l’insufficienza o l’errore. E lo stesso
possono fare tutti i santi, ridimensionando o anche scartando nella vita con-
creta le illuminazioni troppo particolari o forti o sospette. Non tutti coloro
che si comportano da mistici infatti lo sono, anzi, solitamente è vero il con-
trario: quel che dicono e fanno ingannano semplici e ignoranti (con o senza
dottorati) ma non i veri amanti di Dio (con o senza dottorati).
Si dirà che questa visione di Chiesa è pericolosa, troppo esposta agli at-
tacchi del nemico che certo non si lascerà sfuggire l’occasione di suscitare
un mare di falsi profeti, falsi mistici, falsi teologi e quant’altro possa sviare
i fedeli. Verissimo. Ma, a parte che falsi profeti, falsi mistici e falsi teologi
ci sono sempre stati e sempre ci saranno, appunto perché il nemico non si
ferma mai, il compito di difendere la Chiesa, di guidarla alla verità tutta in-
tera, per le strade giuste, spetta allo Spirito. È lo Spirito che ci difende, non
la successione apostolica. È lo Spirito che ci guida, non il Magistero. È lo
Spirito che illumina, non i teologi. Lo Spirito fa il suo lavoro servendosi di
uomini che, avendo accettato la Sua proposta, Lui fa santi: alcuni li fa mae-
stri, altri profeti, altri apostoli. Per questo la Chiesa è viva dopo papi come
Giulio II o Alessandro VI, dopo teologi come Ario o Pelagio: perché questi
non sono la Chiesa ma strumenti, rotti, dello Spirito. La nostra quindi non è
una proposta pericolosa. Al contrario, è il solo modo di vivere la Chiesa co-
sì come lo Spirito vuole che si viva, ossia collaborare con Lui.
Questa premessa era necessaria per capire la ragione per la quale inizia-
mo a fondare la nostra alternativa sulla testimonianza di una santa mistica,
4
suor Faustina Kowalska (1905-38 ). Perché proprio lei? Perché suor Fau-
stina ha ricevuto un dono davvero particolare: l’unione spirituale con i mo-
ribondi. E l’ha ricevuto a metà del sec.XX, ossia quando la ‘naturalità’ del-
la morte inizia ad affacciarsi al balcone della teologia occidentale.
_____________________________
4
Maria Faustina Kowalska, suora della Congregazione della Beata Vergine Maria del-
la Misericordia beatificata nel 1993 da san Giovanni Paolo II e proclamata santa nel
2000, è più nota come iniziatrice del culto della Divina Misericordia. La devozione
alla Divina Misericordia è diffusa in tutto il mondo: la Congregazione per il Culto ha
approvato una messa votiva “de Dei misericordia”, è istituita la ‘domenica della Mi-
sericordia divina’ (prima dopo Pasqua), il 17 agosto 2002 san Giovanni Paolo II con-
sacra il mondo alla Divina Misericordia. Faustina dunque, oltre ad essere riconosciu-
ta ufficialmente come santa, è anche una mistica di rilievo mondiale. Quindi quel che
ha da dirci sulla morte e sugli agonizzanti, oltre che affidabile, è anche di uno spesso-
re spirituale non comune, come leggeremo.

499
Ma si vada per gradi. Intanto vediamo cosa ne pensa di tale ‘naturalità’:
«12 agosto 1934. Svenimento improvviso. Sofferenze preagoniche. Non era
la morte, cioè il passaggio alla vera vita, ma un pregustarne le sofferenze.
Pur donandoci la vita eterna, la morte è spaventosa. Mi sentii improvvisa-
mente male: mancanza di respiro, buio davanti agli occhi, sensazione di
mancamento nelle membra. Questo soffocamento è atroce. Un istante di tale
soffocamento è infinitamente lungo... Nonostante la fiducia, sopravviene
pure uno strano senso di paura. Desiderai ricevere gli ultimi Sacramenti, ma
in quello stato la santa Confessione riesce assai difficoltosa, malgrado il de-
siderio di confessarsi. Non si sa quel che si dice: si comincia una cosa senza
finire l’altra. Iddio preservi ciascun’anima dal rinviare la confessione all’ul-
5
tima ora» .
Per essere un fatto ‘naturale’, morire sembra poco... naturale: dolore, sof-
focamento, paura, confusione... E Faustina non è attaccata alla vita:
«27 gennaio 1937. Quanto ho desiderato la morte! Non se se mi capiterà più
nella vita di avere una così grande nostalgia di Dio. Ci sono stati dei mo-
menti nei qauli svenivo per Lui. Oh! Quanto è brutta la terra quando si co-
nosce il cielo! Debbo farmi violenza per vivere. O volontà di Dio, tu sei il
6
mio cibo!»
Né si può pensare che Faustina non si prepari interiormente a morire:
«22 ottobre 1937. Terzo giorno (di esercizi spirituali). Durante la medita-
zione sulla morte mi sono preparata come di fronte alla morte reale. Ho fatto
l’esame di coscienza ed ho vagliato minutamente tutta la mia vita di fronte
alla morte e, per merito della grazia, questa aveva in sé l’impronta del fine
ultimo, il che ha riempito il mio cuore di tanta riconoscenza per Dio. Per
l’avvento ho fatto il proposito di servire il mio Dio ancor più fedelmente. La
prima cosa, far morire completamente l’uomo vecchio ed iniziare una vita
nuova. Dal primo mattino mi sono preparate a ricevere la santa Comunione
come se fosse l’ultima della mia vita e dopo la santa Comunione ho imma-
ginato di morire realmente, prima ho recitato le preghiere degli agonizzanti
e poi il De profundis per la mia anima e dopo il mio corpo è stato messo nel
sepolcro e ho detto alla mia anima: “Guarda che ne è del tuo corpo, un muc-
7
chio di fango ed una gran quantità di vermi, ecco la tua eredità!”»
Si farà notare che il primo passo, che descrive la morte come orrenda, è
il più antico, mentre questo, che la presenta in modo più sereno, è il più re-
cente. Poiché Faustina compie un percorso interiore, non si può affiancare
_____________________________
5
M.F. KOWALSKA, Diario. La misericordia divina nella mia anima, n.321 (trad. it.
245).
6
KOWALSKA, Diario, op. cit., n.899 (trad. it. 530).
7
KOWALSKA, Diario, op. cit., n.1343 (trad. it. 714s).

500
il sentitus dei due passi successivi a quello del primo. Vero. Peccato che nel
novembre del 1937, appena un mese dopo questo brano, Faustina scriva:
«Eseguo ogni azione di fronte alla morte, la eseguo adesso come desidero
vederla nell’ultima ora; pur se la vita vola rapida come un turbine, nessuna
azione intrapresa in Dio andrà perduta. Sento la completa decomposizione
del mio organismo. Benchè io viva e lavori ancora, la morte per me non sarà
una tragedia, poiché la sento da molto tempo. Benchè per la natura sia molto
penoso sentir continuamente il lezzo del proprio cadavere, non è poi così
tremendo se la luce di Dio inonda l’anima, poiché in essa si risveglia la fe-
de, la speranza, l’amore ed il pentimento. Tutti i giorni faccio sforzi di ogni
genere per partecipare alla vita comunitaria, e con ciò impetrare grazie per
la salvezza delle anime, riparandole con i miei sacrifici dal fuoco dell’infer-
8
no» .
Quando parla di decomposizione Faustina non fa della retorica, descrive
il suo essere tisica allo stadio terminale. Quando parla di lezzo si riferisce a
una delle ricadute sull’intestino. Quando dice ‘faccio sforzi di ogni genere’
si riferisce al fatto che la mancanza di ossigeno rende tutto faticoso, diffici-
le. Quando dice che ciò è ‘molto penoso per la natura’ si riferisce alla sua
natura umana reale, concreta, che soffre davvero, mentre chi parla di ‘natu-
ralità’ della morte lo fa seduto davanti al computer con la pipa in bocca.
Ma, anche se constatare l’ennesimo iato tra mistica e teologia accademi-
ca è comunque utile, non è per questo che ci siamo rivolti a Faustina. Come
si è detto, il dono da lei ricevuto dallo Spirito è particolare: l’unione spiri-
tuale con i moribondi. E questa unione ci rivela molte cose sull’istante della
morte, cose che altrimenti non sapremmo mai prima della nostra morte (e
quindi un po’ tardi per scriverle...). All’inizio il contatto è ‘delicato’:
«Una volta che ero andata nell’orto di pomeriggio, l’angelo custode mi dis-
se: “Prega per gli agonizzanti”. Incominciai subito il rosario per gli agoniz-
zanti insieme alle ragazze addette all’orto. Terminato il rosario, recitammo
diverse invocazioni per gli agonizzanti. Finite le preghiere, le educande si
misero a chiaccherare allegramente tra di loro. Nonostante il chiasso che fa-
cevano, udii nel mio intimo queste parole: “Prega per me”. Dato che non
avevo potuto capire bene quelle parole, mi allontanai di qualche passo dalle
educande, riflettendo su chi poteva essere che mi ordinava di pregare. D’un
tratto udii queste parole: “Sono suor...”. Questa suora stava a Varsavia men-
tre io allora ero a Wilno (l’odierna Vilnius, in Lituania). “Prega per me fino
a quando ti dirò di smettere. Sto agonizzando”. Cominciai subito a pregare
con fervore per lei il cuore agonizzante di Gesù e, senza darmi respiro, pre-
gai così dalle tre alle cinque del pomeriggio. Alle cinque udii questa parola:
“Grazie”. Compresi che era già morta. Tuttavia il giorno dopo, durante la

_____________________________
8
KOWALSKA, Diario, op. cit., n.1435 (trad. it. 749s). Il passo originale è in poesia.

501
santa Messa, pregai fervorosamnte per la sua anima. Nel pomeriggio giunse
una cartolina che annunciava che suor... alla tale ora era morta. Mi resi con-
9
to che era la stessa ora nella quale mi aveva detto “Prega per me!»
Con tutta evidenza Faustina non è all’inizio del cammino spirituale: non
solo è in grado di percepire e distinguere la voce dell’angelo custode (che
non è la nostra e tantomeno quella dello Spirito, ma potrebbe essere confu-
sa o confondersi con quella del nemico) ma, di fronte ad un evento spiritua-
le del tutto nuovo, mantiene la calma, agisce in modo giusto, fronteggia con
abilità le difficoltà della situazione. Tutto si può dire di questo accadimento
men che sia un rapimento estatico con trasporti miracolosi in luoghi scono-
sciuti: Faustina riceve una locuzione nel bel mezzo di un orto, tra giovani e
chiassose educande, e non si scompone. Questo dice molto sull’affidabilità
della relazione ma poco sullo status della moribonda, che poi è quel che ci
interessa. Sappiamo solo che fisicamente è molto distante da Faustina (470
km circa), e che tra le due non poteva esserci nessuna comunicazione suffi-
cientemente rapida (niente radio, solo posta). Ora, se un contatto tra perso-
ne è reale ma fisicamente impossibile, allora è spirituale. Quel che Faustina
sente è perciò una richiesta spirituale; due volte, nel modo e nel merito: la
moribonda infatti chiede preghiere. Dunque, sebbene fisicamente a 470 km,
è in grado di fare a Faustina una richiesta del tutto personale (l’angelo glie-
ne fa una generica): può darsi che la morte sia ‘naturale’, ma certo questa
personalizzata comunicazione a distanza no. E vi è di più:
«16 dicembre 1936. L’angelo custode mi ha raccomandato di pregare per
una certa anima e la mattina ho saputo che si trattava di una persona che era
entrata in agonia in quel momento. In maniera sorprendente Gesù mi fa co-
noscere che qualcuno ha bisogno delle mie preghiere. In modo particolare
vengo a conoscerlo quando chi ha bisogno delle mie preghiere è un’anima
10
in agonia. Questo ora si verifica più spesso che in passato» .
Adesso questa comunicazione ‘poco-naturale’ in prossimità o concomi-
tanza con un evento ‘naturale’ come la morte è mediata addirittura da Cri-
sto e non più solo dall’angelo custode. Ed il legame si approfondisce:
«18 dicembre 1936. Questa sera sono venuta a sapere che una certa anima
aveva bisogno delle mie preghiere; ho pregato con fervore ma ho avvertito
che era ancora troppo poco, quindi ho continuato più a lungo. Il giorno dopo
ho saputo che proprio a quell’ora era entrata in agonia una certa anima e

_____________________________
9
KOWALSKA, Diario, op. cit., n.314 (trad. it. 241s). “Era probabilmente sr. Filomena
AndreJko, morta a Varsavia il 13 settembre 1934 alle ore 16,45. Era stata gravemen-
te ammalata di asma per quattro anni. La sua agonia durò 14 ore” (NdR).
10
KOWALSKA, Diario, op. cit., n.820 (trad. it. 491).

502
l’agonia era durata fino a mattino. Ho saputo anche che era passata attraver-
so dure battaglie. In modo misterioso Gesù mi fa conoscere che un’anima
agonizzante ha bisogno delle mie preghiere. Sento quello spirito che mi
chiede in modo vivo e chiaro di pregare. Non sapevo che ci fosse una tale
11
unione tra le anime. Spesso è il mio angelo custode che me lo dice» .
Questa ‘unione tra anime’ non appartiene alla ‘natura’ cui pensano i filo-
sofi, sociologi e teologi quando parlano di ‘morte naturale’. Questa è visibi-
le, sensibile, quadridimensionale, quella è invisibile, in-sensibile, probabil-
mente a-dimensionale. Sull’esistenza della prima nessuno ha dubbi, quella
della seconda è incerta persino per molti ‘teologi’: eppure basta essere ma-
dri per ‘sentire’ i propri figli anche a grande distanza... Ma si metta da parte
questa lacunosa umanità (che però pretende di insegnare agli altri come es-
ser tale) e concentriamoci su questa ‘unione tra anime’.
«19 dicembre 1936. Specialmente ora che sono qui in questo ospedale speri-
mento un’intima unione con gli agonizzanti che, all’inizio della loro agonia,
mi chiedono di pregare. Dio mi ha dato un contatto misterioso con gli ago-
nizzanti. Dato che la cosa succede abbastanza spesso, ho avuto modo di ve-
rificare anche l’ora. Oggi, alle undici di sera, all’improvviso sono stata sve-
gliata ed ho sentito chiaramente che c’era accanto a me uno spirito che chie-
deva preghiere: addirittura una forza sconosciuta mi ha costretta a pregare.
La mia visione è puramente spirituale, per mezzo di una illuminazione im-
provvisa che in quel momento Dio mi trasmette. Prego tanto a lungo, finchè
sento la tranquillità nell’anima. Non dura sempre a lungo nello stesso modo;
capita qualche volta che dopo un’Ave Maria sono già tranquilla ed allora re-
cito il De profundis e non prego oltre, alle volta capita che recito tutta la co-
roncina e solo allora arriva la tranquillità. Ed ho constatato anche che, quan-
do mi sento costretta a pregare per un tempo più lungo e provo un’inquieti-
tudine interiore, l’anima affronta lotte più accanite ed un’agonia più lunga.
Il modo usato per verificare l’ora è il seguente. Ho l’orologio e controllo
l’ora; il giorno dopo mi parlano della morte di quella persona: domando
l’ora, che corrisponde alla lettera, e lo stesso è per l’agonia. Mi dicono:
“Oggi è morta la tal persona, ma così, subito, e si è addormentata tranquil-
lamente”. Capita che la persona morente si trovi nel secondo o nel terzo pa-
diglione, ma per lo spirito lo spazio non esiste. Mi capita di venire a cono-
scere le stesse cose anche a qualche centinaia di chilometri di distanza. Mi è
capitato più di una volta con parenti e familiari ed anche consorelle e con
12
anime che in vita non avevo conosciuto affatto» .
In primis, questa ‘unione’ è frutto di un’illuminazione data da Dio, quin-
di non è ‘naturale’. In secundis, riguarda anche persone fisicamente molto
lontane, il che non è ‘naturalmente’ possibile’. In tertiis, la corrispondenza
_____________________________
11
KOWALSKA, Diario, op. cit., n.828 (trad. it. 494).
12
KOWALSKA, Diario, op. cit., n.835 (trad. it. 496s).

503
temporale unita alla mancanza di mezzi esclude qualsiasi tipo di comunica-
zione ‘naturale’. Infine, queste anime agonizzanti si possono recare da Fau-
stina, il che si configura come una bilocazione soggettiva, ossia senza coin-
volgimento corporeo. In definitiva, questa ‘unione tra anime’ morenti e non
rivela l’esistenza di un livello più profondo di contatto, di com-unione tra le
persone. Morire è dunque il luogo di rivelazione di una dimensione umana
altrimenti poco o punto visibile. Potremmo anche descriverla come ‘natura-
le’ perché non si avviene solo dal lato di Faustina, che gode di doni specia-
13
li, ma anche dal lato di persone comuni , e per usare tale aggettivo avrem-
mo ragioni migliori e più forti di quelle di filosofi e sociologi. Ma il rischio
che questa ‘natura aperta’ agli altri sia confusa con la ‘natura chiusa’ in se
stessa è molto forte. È più utile rimandare la cosa e continuare a leggere ciò
che racconta Faustina. Che ci illustra anche di che tipo sia e cosa comporti
questa ‘unione tra anime’:
«3 febbraio 1938. Quando entrai un momento in cappella, Gesù mi disse:
“Figlia mia, aiutami a salvare un peccatore in agonia; recita per lui la coron-
cina che ti ho insegnato”. Quando cominciai a recitare la coroncina vidi quel
moribondo tra atroci tormenti e lotte. Era difeso dall’angelo custode, il quale
però era come impotente di fronte alla grande miseria di quell’anima. Una
moltitudine di demoni stava in attesa di quell’anima, ma mentre recitavo la
coroncina vidi Gesù nell’aspetto in cui è dipinto nell’immagine (del Gesù
della Divina Misericordia). I raggi che uscirono dal Cuore di Gesù avvolse-
ro il malato e le potenze delle tenebre fuggirono provocando scompiglio. Il
malato spirò serenamente. Quando rientrai in me compresi che questa co-
14
roncina è importante accanto ai moribondi, essa placa l’ira di Dio» .
La scena dell’anima disputata tra angeli e demoni non è rara nella lette-
ratura cristiana, come vedremo al capitolo diciotto. È anche in Giuda, 9:
«L’arcangelo Michele quando, in contesa con il diavolo, disputava per il
corpo di Mosè, non osò accusarlo con parole offensive, ma disse: “Ti con-
danni il Signore!”».
Questo versetto biblico, certo non tra i più frequentati della Scrittura, è il
solo modo, a nostra conoscenza, in cui Faustina poteva sapere di questa di-
sputa post mortem. Dunque la visione è autentica. Ma, prima di commen-
tarla, è opportuno leggerne un’altra di tenore analogo:
_____________________________
13
Cf. p.es. KOWALSKA, Diario, op. cit., n.973 (trad. it. 564): «Oggi (19 febbraio 1937)
ho saputo della morte di una delle nostre suore, che è morta a Plock. Da me però era
venuta prima che mi annunciassero la sua morte». “Il 15 febbraio morì a Plock sr.
Cornelia Trzaska, nata nel 1888. Nella Congregazione aveva lavorato come calzo-
laio” (NdR). Di questa suor Cornelia non è nota alcun dono mistico.
14
KOWALSKA, Diario, op. cit., n.1565 (trad. it. 816s).

504
«Oggi (24 giugno 1938) è venuto da me il Signore ed ha detto: “Figlia mia,
aiutami a salvare le anime. Andrai d aun peccatore agonizzante e reciterai la
coroncina e con ciò gli otterrai la fiducia nella mia Misericordia, poiché è
già nella disperazione”. Improvvisamente mi trovai in una capanna scono-
sciuta, dove stava agonizzando tra dolori tremendi un uomo già avanti negli
anni. Attorno al letto c’era una moltitudine di demoni e la famiglia in lacri-
me. Appena cominciai a pregare, gli spiriti delle tenebre si dispersero con
sibili indirizzando minacce contro di me. Quell’anima si rasserenò e piena
di fiducia si addormentò nel Signore. Nello stesso istante mi ritrovai nella
15
mia stanza. Come ciò avvenga non lo so» .
Con tutta evidenza si tratta di accadimenti assai vicini, ma con differenze
rilevanti. Innanzitutto, questa ‘unione tra anime’ si traduce nell’influenza di
una, in questo caso quella di Faustina, su altre, qui quelle di moribondi con-
tesi, altrove quelle di anime sofferenti o comunque bisognose di interces-
sione. Perciò, lungi dall’essere fine a se stessa o tra esangui essenze metafi-
siche (sempre che esistano), questa ‘unione’ è ‘interattiva’. Frutto di questo
scambio è la ‘alter-azione’ (con il trattino) delle anime coinvolte: la ‘azio-
ne’ di una ‘cambia’ lo status dell’altra, anche se in Faustina l’effetto è di-
verso da quello nelle altre anime. Questa ‘alter-azione’ è indotta da Fausti-
na ma operata da Cristo, ha effetto sui moribondi ma anche sui demoni, con
reazioni assai diverse nei primi rispetto a quelle dei secondi. Questa ‘unio-
ne’ pare dunque generare una serie di effetti ‘a cascata’, dai quali si deduce
l’esistenza di altre analoghe ‘unioni’, ad esempio quella fra demoni.
La portata di queste rivelazioni è semplicemente immensa, tanto più se si
nota che, eccetto il legame con gli agonizzanti, di esperienze simili o anche
più eccezionali i mistici ne vivono molte. E qui ci riferiamo sempre e solo a
mistici la cui santità è proclamata ufficialmente dalla Chiesa che, con ciò,
ratifica anche la veridicità delle loro esperienze. Con ciò, bisogna capire in
che misura queste descrizioni sono proporzionali alla capacità di recezione
e comprensione di Faustina: perché lo Spirito adatta i suoi doni alle capaci-
tà di chi lo riceve. Ora, i dettagli che esulano dal contesto prossimo o remo-
to del veggente, o la cui conoscenza gli è impossibile, necessariamente non
provengono da lui ma da fuori. E questo modo di descrivere l’intercessione
per i defunti ed i suoi effetti di sicuro non appartiene al contesto o alle pos-
sibilità conoscitive di Faustina. La sua origine soprannaturale, oltre alla ve-
ridicità, ci è confermata dalla Chiesa, che ha proclamato Faustina santa.
Se Dio ci darà forza e opportunità studieremo nei dettagli questi elemen-
ti: fin d’ora possiamo anticipare che sono di estrema importanza per capire
_____________________________
15
KOWALSKA, Diario, op. cit., n.1797s (trad. it. 929). En passant, si noti il verbo ‘ad-
dormentarsi’, che riprende l’immagine della dormitio in un contesto storico che però
non la apprezza per il suo legame con la Riforma.

505
meglio la fede cristiana nella resurrezione della carne, da sempre lo scanda-
lo più grande per pagani e gnostici, antichi e moderni. Qui però possiamo e
dobbiamo limitarci alle poche note indispensabili alla nostra ricerca, vale a
dire la presenza dello spirito dell’agonizzante e l’andata e ritorno di Fausti-
na dalla capanna. Gli studiosi di mistica direbbero che queste sono biloca-
zioni soggettive, ossia non coinvolgono il corpo di una persona che però, in
spirito, è realmente altrove. Nei santi la bilocazione è fenomeno miracoloso
frequente e ben studiato, ma qui Faustina parla anche dello spirito di una
persona della quale neanche sappiamo il nome, figurarsi la santità. Forse
che la bilocazione non è appannaggio solo dei mistici ma, almeno in punto
di morte, di ogni essere umano? Siccome i racconti di Faustina testimonia-
no questa estensione anche ad altri elementi oltre alla bilocazione, conviene
non limitarci ad essa ed affrontare la più generale questione della verità di
ciò che si è letto. Delle due l’una: o quel che scrive Faustina è falso oppure
è vero. La prima possibilità non è in contrasto con la santità: dire che un
bastone immerso nell’acqua è piegato è vero soggettivamente, perché è ciò
che davvero si vede, ma non è vero oggettivamente, perché il bastone è di-
ritto. Faustina può dire cose non vere senza mentire. L’influenza della sua
capacità recettiva sul tipo di verità di ciò che afferma non deve essere sot-
tovalutata, ma neppure esaltata al punto di squalificare tutta la sua testimo-
nianza, come fanno filosofi e sociologi non credenti e molti ‘teologi’.
A nostro sommesso avviso, pur tenendo presente la ragionevolezza della
distinzione sopra descritta, nel caso delle visioni mistiche ci si trova in una
situazione diversa. Nell’esempio infatti basta estrarre il bastone dell’acqua
per constatare l’esistenza dei due tipi di verità e capire che uno nasce da li-
miti recettivi e comprensivi. Non disponiamo però dell’analogo spirituale
del bastone asciutto. Nessuno, in statu viae, può dimostrare che tale ‘unio-
ne tra anime’ è vera soggettivamente oppure oggettivamente. Si può presu-
mere di sì come di no. Il non credente si ferma qui. Chi ama Dio può anda-
re oltre. Sa per esperienza che l’amante non inganna l’amato, quindi lo Spi-
rito non dà a Faustina visioni vere solo soggettivamente, perché è come se
le desse visioni oggettivamente false. Per esperienza sa anche che l’amante,
in qualche caso, dà all’amato rivelazioni parziali, per questo o quel motivo,
ma perché far credere a Faustina di essere in una capanna se non è così? O
che uno spirito le è accanto nella stanza se invece non c’è? Altre interces-
sioni si sono verificate senza questi elementi, quindi non sono indispensabi-
li. Se si vuole la prova oggettiva di queste affermazioni, non potremo for-
nirla: si può solo mostrare, e solo a chi già sa per esperienza di che si parla,
che le cose vanno così. Chi tale esperienza non ha, non saprà. Al più potrà
fidarsi di chi gli dice certe cose, ma sarà come credere che una torta è buo-
na perché credi a me che ti dico di averla assaggiata e che è buona.

506
Con tutta evidenza si tratta di questioni estremamente delicate e per que-
sto è necessario dedicargli saggi appositi. Qui conviene fermarci alla con-
statazione che, in base alla testimonianza di santa Faustina Kowalska, certi-
ficata dall’autorità della Chiesa, esiste una ‘unione tra anime’ che supera i
limiti fisici del corpo, ‘unione’ rivelata nel e dall’istante della morte.
Ma è tutto quel che si può dire al riguardo? No.

14.1.2. La possibilità metafisica di


una nuova teologia della morte

Una delle difficoltà sollevate dai teologi riguardo alla fruizione sistema-
tica delle rivelazione mistiche ed in generale dell’apporto dei santi è il fatto
che, di solito, non è facile trovare delle sporgenze in altri ambiti. Così, non
scorgendo subito e facilmente l’eventuale nesso, pur senza negare de iure il
valore di tale apporto, de facto lo si annulla ponendo clausole e condizioni
di ogni tipo. Naturalmente non è questa la sede per affrontare estesamente
la questione: bastino per ora le poche osservazioni precedenti. Per quel che
ci riguarda, invece, possiamo dire che la testimonianza di santa Kowalska
ha una forte risonanza in un aspetto metafisico di assoluto rilievo.
Nel capitolo precedente, al punto 13.4.2., riguardo alla posizione di Yan-
naras si espose rapidamente il concetto Scolastico di ‘individuum vagum’.
Questo lemma esprime la piena individualità di un ente a prescindere dalle
connotazioni, fisiche e non, che ha qui ed ora: da qui l’aggettivo ‘vago’. Il
concetto sotteso nasce dalla constatazione che Platone resta Platone anche
se, poniamo per l’età, la sua statura cala, il peso diminuisce e le sue capaci-
tà mentali declinano. Né ciò riguarda solo gli umani: ad esempio, una mela
marcia resta una, ed una mela, nonostante tutte le sue caratteristiche fisiche
siano mutate. Semmai, e non è cosa da poco, ci si deve chiedere se, a diffe-
renza della mela, l’uomo conservi individualità e personalità anche dopo la
16
completa dissoluzione del cadavere; qui diamo per scontato di sì .
_____________________________
16
Per una migliore messa a punto storico-teorica del concetto di individuum vagum cf.
A. ARA, «Il termine platonitas nell’Avicenna latino: arbitrio del traduttore o indizio
prezioso?», Vivens Homo 25 (2014) 481-495, studio che rivela interessanti sporgenze
sulla metafisica di lingua araba. Sulla questione dell’individualità post mortem, assai
discussa nel sec.XIII, cf. C. TROTTMANN, «Sulla funzione dell’anima e del corpo nel-
la beatitudine. Elementi di riflessione nella Scolastica», in C. CASAGRANDE - S. VEC-
CHIO, Anima e corpo nella cultura medievale. Atti del V Congresso di studi della SIS-
MEL (Venezia 25-28 settembre 1995), Firenze 1999, 139-155; M. LENZI, «Alberto e
Tommaso sullo statuto dell’anima umana», AHDLMA 74 (2007) 27-58; M. BIENIAK,
The soul-body problem at Paris ca 1200-1250. Hugh of St.-Cher and his con-
(segue)

507
In teologia il concetto di ‘individuo vago’ è ancora più importante. Nel
capitolo precedente abbiamo riportato uno stralcio di un testo fondamentale
di Tommaso d’Aquino che ora è opportuno leggere per intero. La domanda
alla quale risponde è ‘a quale titolo si predica il termine persona delle Per-
sone della Trinità’, e la questione è molto importante perché di solito ‘per-
17
sona’ indica un quid aggiunto all’individualità . Ma, se così fosse, allora la
Trinità consisterebbe in tre dèi separati e si negherebbe l’unità d’essenza di
Dio. Quindi si deve trovare il modo di dire persona del Padre, del Figlio e
dello Spirito salvando da un lato la distinzione, dall’altro l’unità.
Ed ecco l’acuta soluzione di Tommaso:
«Si deve dire che, quando diciamo ‘tre Persone’, il modo stesso di dire mo-
stra che questo nome ‘persona’ è comune ai Tre, come quando diciamo ‘tre
uomini’ manifestiamo che ‘uomo’ è comune ai tre. È chiaro però che non è
una comunanza di cose, come un’essenza comune ai Tre, perché così segui-
rebbe che dei Tre ci sarebbe una Persona sola, come l’essenza è una. Su
quale sia questa comunanza però i ricercatori si sono espressi in modi diver-
si. Alcuni dissero che è una comunanza di negazione, perché nella definizio-
18
ne di ‘persona’ si pone ‘incomunicabile’ . Altri dissero che è una comunan-

______________________________
temporaries, Leuwen 2010. La permanenza post mortem dell’individualità è acquisi-
ta agli inizi del sec.XIII, nel dibattito sull’unità dell’intelletto, e segue direttamente
dal dogma della retribuzione personale post mortem. Invece la permanenza della per-
sonalità in assenza del corpo non è altrettanto sicura. All’inizio del sec.XIII vi è un
accordo quasi totale nel ritenere che l’anima separata dal corpo non sia ‘persona’, ma
sul perché questo accada vi sono opinioni diverse e di solidità variabile. Qui però in-
teressa quel che accade al momento della morte, perciò la questione si può dare per
risolta positivamente.
17
Per un primo quadro generale cf. C.J. DE VOGEL, «The concept of personality in
greek and christian thought», in C.J. DE VOGEL (ed.), Studies in philosophy and his-
tory of philosophy, Washington 1963, II, 20-60. Dedicato alle sporgenze teologiche,
anche se datato e talvolta discutibile, è A. MILANO, Persona in teologia, Napoli
1984. Per un primo inquadramento medievale cf. B. WALD, «Rationalis naturae in-
dividua substantia. Aristoteles Boethius und der Begriff der Person im Mittelalter»,
in J.A. AERTSEN-A. SPEER (edd.), Individuum und Individualität im Mittelalter (Mi-
scellanea mediaevalia, Band 24), Berlin-New York 1996, 371-388. Per il punto di
vista dogmatico cf. J. RATZINGER, «Retrieving the Tradition. Concerning the notion
of person in theology», Communio 17 (1990) 439-454.
18
Cf. GUGLIELMO DI AUXERRE, Summa aurea, I, tr.6, c.1, sol. (Ribaillier, 81). Gu-
glielmo afferma questo perché ratifica la definizione di persona data da RICCARDO DI
SAN VITTORE, De Trinitate, IV, 22 (SCh 63, 280): «Persona divina est divinae natu-
rae incommunicabilis existentia (La Persona divina è un’esistenza non comunicabile
di natura divina)». ‘Non comunicabile’ significa ‘non trasferibile’, ‘non condivisibi-
le’, quindi tutta e solo del singolo. Da ciò si può ricavare anche la definizione della
persona umana e angelica: esistenza non comunicabile di natura umana/angelica.
(segue)

508
za d’intenzione, perché nella definizione di ‘persona’ si pone ‘individuo’,
19
come se si dicesse che l’essere specie è comune al cavallo ed al bove .
Ma entrambe queste (soluzioni) sono da escludere, perché il nome ‘persona’
non è un nome di negazione né d’intenzione, ma è un nome di cosa. E per
questo si deve dire che anche nelle cose umane il nome ‘persona’ è comune
di una comunanza di ragione ma non al modo di genere e specie bensì come
individuo vago.
Infatti i nomi di generi e specie, come ‘uomo’ o ‘animale’, sono imposti per
significare esattamente la natura comune, non però le intenzioni delle nature
comuni che sono significate dai nomi ‘genere’ e ‘specie’. Ma l’individuo va-
go, come ‘un certo uomo’, significa la natura comune con quel determinato
modo di esistere che compete ai singolari, come cioè se fosse sussistente per
sé e distinto dagli altri. Ma nel nome del singolare designato è significato un
determinato distinguente, come nel nome ‘Socrate’ questa carne e questo os-
so. Tuttavia vi è questa differenza, che ‘un certo uomo’ significa la natura o
l’individuo sotto il rispetto della natura, con il modo di esistere che compete
ai singolari, mentre questo nome ‘persona’ non è imposto per significare un
individuo sotto il rispetto della natura ma per significare la cosa sussistente
in tale natura. Ma questo è comune, secondo la sua ratio, ad ogni Persona
divina, così che ognuna di esse sussiste nella natura divina distinta dalle al-
tre. E così questo nome ‘persona’, secondo la sua ratio, è comune alle Tre
20
Persone divine» .
Prima di ogni osservazione è bene chiarire il contesto del passo. Innanzi-
tutto si deve notare che siamo in teologia trinitaria: ciò significa che, da un
lato, si hanno molti paletti, invalicabili e serrati, da un altro che non sono
ammissibili ambiguità, imprecisioni o insufficienze, né linguistiche né con-
______________________________
Riccardo però parla solo della Persona divina, mentre Guglielmo va oltre, dedicando
tutto il tr.6 (78-109) al tema della persona, e non limitandosi al solo Riccardo.
19
Cf. ALESSANDRO DI HALES, Summa theologiae, I, p.2, inq.II, tr.2, q.1, c.4, a.2, resp.
(Quaracchi, 146). Secondo Tommaso, Alessandro preferirebbe rifarsi a BOEZIO, Con-
tra Eutychen et Nestorium, c.3 (Stewart-Rand, 84): «Persona est rationalis natura in-
dividua substantia (La persona è una sostanza individuale di natura razionale)», che
è anche la definizione più nota. In realtà non è così: Alessandro (cf. cc.3s per totum),
come tutti nel sec.XIII prima di Tommaso, segue Riccardo, ed a ragion veduta. Boe-
zio infatti vuol coprire l’intero spettro della persona, che (ibidem) «si dice dell’uomo,
di Dio e dell’angelo», ma non ci riesce: ‘razionale’ non conviene ad angeli e Dio, né
‘individuo’ è predicabile di Dio. Nel sec.XII quasi tutti ritengono largamente insuffi-
ciente la definizione di Boezio, così Riccardo ne elabora un’altra. L’impiego massic-
cio delle Sententiae di Pietro Lombardo dopo il 1236 ne permette la sopravvivenza e
spiega perché la percezione del sec.XII sembri rovesciata nel XIII. Ma solo in appa-
renza: de facto la definizione di Boezio è continuamente reinterpretata da molte pro-
spettive. Oggi non si va più oltre tale apparenza: cf. p.es. H.U. VON BALTHASAR, «On
the concept of person», Communio 13 (1986) 18-26; P. SIMPSON, «The definition of
person: Boethius revisited», The new Scholasticism 62 (1988) 210-220.
20
TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, I, q.30, a.4, resp. (Paoline, 158).

509
cettuali. Poi, si deve notare che, qualunque sia la via scelta per giustificare
il termine persona, il risultato può essere solo reale: la TriUnità di Persone
non è infatti una distinzione logica o di nozione, ma un factum rivelato del
quale il dogmatico cerca una spiegazione coerente o, il che è più preciso,
una illustrazione convincente. Da queste premesse, pacifiche per chi lavori
in teologia trinitaria, si ha che ciò che si è letto a riguardo dell’individuum
vagum non può essere preso per una sottigliezza o un escamotage metafisi-
co. Al contrario, è indispensabile per evitare il tritesimo e poter predicare il
termine persona in Dio, termine a sua volta indispensabile per poter collo-
21
care metafisicamente l’unione della natura divina a quella umana .
Ciò detto, si noti che, essendo predicata di Dio, dell’angelo e dell’uomo,
evidentemente la persona ha un legame con il corpo assai particolare. Sic-
come angelo e uomo sono persone in quanto immagini delle Persone divi-
ne, essendo prive di ogni sostrato materiale si potrebbe dedurre che questo
sia irrilevante per l’essere persona. In Dio è sicuramente così. Nell’angelo
si potrebbe dubitare, nella misura in cui è ragionevole supporre che abbia
22
un sostrato non corporeo . Ma di certo non vale per l’uomo, che ha un cor-
po in statu viae, ne riceverà un altro post resurrectionem e solo nello stato
intermedio ne è privo. Si potrebbe replicare, con quasi tutti i medievali del
23
sec.XIII, che in quello stato l’uomo non è persona ma, senza entrare in
questioni tanto sottili quanto eccedenti, facciamo notare che, a parte Dei, è
poco sensato creare l’uomo persona, poi ridurlo a mero individuum e quin-
di ripristinare in eterno la sua personalità, ed a parte hominis ciò impedisce
la retribuzione ante resurrectionem, poiché questa suppone appunto la per-
sona. La retribuzione personale ante resurrectionem è definita da Benedet-
to XII nella costituzione Benedictus Deus, promulgata nel 1336, quindi do-
po i teologi che insegnano l’opposto e la cui tesi non è più stata ripresa.
Se ora proviamo a trasporre nella nostra ricerca quel che Tommaso ci ha
_____________________________
21
Cf. p.es. N. DEN BOK, «More than just an individual. Scotus’s concept of person from
the christological context of Lectura III 1», Franciscan studies 66 (2008) 169-196.
22
La questione della materialità angelica (non corporeità, si badi bene) è tanto impor-
tante quanto negletta in antropologia teologica. Non potendo qui entrare nei dettagli
ci limitiamo a rinviare a B. FAES DE MOTTONI, «Discussioni sul corpo dell’angelo nel
secolo XII», in Parva mediaevalia. Studi in onore di M.E. Reina, Trieste 1993, 1-42;
A. ARA, «A proposito della immaterialità angelica: una ricognizione sui pronuncia-
menti magisteriali», Vivens Homo 17 (2006) 95-128, studio che non si limita a son-
dare il Magistero ma ricostruisce in nuce il contesto biblico, patristico e medievale di
una distinzione, appunto quella tra corporeità e materialità, oggi totalmente persa a
causa di una semplificazione molto frettolosa e superficiale.
23
Cf. p.es. P. TONER, «Personhood and death in st. Thomas Aquinas», History of phi-
losophy quarterly 26 (2009) 121-138.

510
insegnato riguardo all’individuum vagum, se ne ricava che, per definizione,
l’individuum vagum è una persona distinta dalle altre e sussistente come ta-
le a prescindere da ogni nota corporea. Uno stato del tutto analogo a quello
del moribondo, non più pienamente nel corpo ma neppure del tutto fuori di
esso: lo status delle persone che vede santa Kowalska. Nella misura in cui
l’individuum vagum è svincolato dai limiti fisici, questo status è compatibi-
le con la bilocazione ed il colloquio a distanza, pur mantenendo singolarità
e capacità intellettuali, ossia la propria persona. Ora, poiché tutti noi siamo
persone, allora tutti noi siamo in grado, in punto di morte, di sperimentare
questo status; generalizzazione metafisica, questa, misticamente conferma-
ta dal fatto che i moribondi di santa Kowalska sono del tutto comuni, senza
alcun dono mistico, spesso anzi anche senza nome.
Certamente poche persone hanno in vita il dono di conoscere simile sta-
tus e solo post mortem ne avremo tutti consapevolezza, ma quel che conta è
che questo collegamento tra una dottrina teologica sicura ed il nostro status
in punto di morte viene rivelato dallo Spirito proprio agli inizi del sec.XX.
In questo genere di rivelazioni infatti importa non solo il cosa ma anche il
come ed il quando (oltre al chi). Niente infatti avviene a caso nel regno del-
lo spirito, e se nostro Signore si è degnato di agire così in quel momento e
non prima significa che solo allora, non prima, conveniva che ciò accades-
se. Ora, sul cosa e sul come si è già detto molto, ma niente sul quando. Ed a
questo riguardo non possiamo non rilevare una coincidenza di date: proprio
nel momento in cui la teologia inizia a considerare ‘naturale’ la morte, ecco
che lo Spirito ne rivela invece l’eccezionalità, oseremmo dire quasi la irri-
levanza rispetto alla permanenza della persona. È interessante rilevare an-
che l’armonia tra Tommaso, Faustina e Yannaras, i quali, pur ignorandosi,
ci forniscono le tessere necessarie alla costruzione di un unico ed identico
puzzle metafisico-spirituale, coerente e tempisticamente azzeccato.
Confessiamo che questo risultato da un lato ci conforta, perché si tratta
di una concordanza importante e spiritualmente significativa, molto al di là
del contenuto. Se però teniamo a mente quel che abbiamo scoperto nel pun-
to precedente, che cioè esiste una com-unione tra anime, una ‘unione’ spiri-
tuale della quale ora si può anche descrivere la sporgenza o traduzione me-
tafisica, se ci ricordiamo tutto questo, dicevamo, e proviamo ad applicarlo a
situazioni come un incidente, un’alluvione o peggio ancora una battaglia, il
risultato è terrificante. È spaventoso immaginarsi le anime dei moribondi di
un campo di battaglia che si vedono, si colgono nella identica disperazione,
comprendono l’infinita idiozia di quel che hanno fatto. È spaventoso pensa-
re a quelle urla per noi mute, quegli ululati per noi senza suono, non di uno,
non di due, ma di decine, centinia di persone... Pensiamo alle trincee della
Prima guerra mondiale, pensiamo alle gelide steppe russe della Seconda, e

511
proviamo ad immaginare cosa avranno visto, cosa avranno sentito i nostri
fratelli moribondi. O anche no, non proviamoci, sarebbe troppo spaventoso.
Perché sappiamo che non sarebbero invenzioni. La difficoltà di sopportare
la realtà di queste visioni (si provi a pensare non in astratto ma a persone a
noi care, a situazioni a noi conosciute) spiega perché nostro Signore conce-
da a santa Kowalska di contattare solo moribondi per così dire ‘normali’: a
nostra conoscenza, nessun omicida, nessun assassinato, tantomeno vittime
di stragi. A differenza delle menti deviate che fanno soldi con film su orrori
analoghi ma inventati, e comunque diversi da quelli reali (perché il nemico
ed i suoi servi mentono sempre), a differenza di costoro, si diceva, lo Spiri-
to rivela per aiutare, edificare, insegnare. E ogni docente sa che, sì, talvolta
un po’ di paura è utile, ma i frutti più belli e sicuri vengono con la pazien-
za, la dolcezza, la fantasia nel riproporre in modo nuovo cose antiche.
Sed de hoc satis. Conviene fermarci qui e studiare un altro elemento del-
la testimonianza di santa Kowalska, il suo intercedere per i moribondi.

14.1.3. La sintesi antropologico-escatologica


per una nuova teologia della morte

Lo Spirito non elargisce i doni tanto per fare. È vero che alcuni di essi ci
paiono per così dire accessori rispetto ad altri che reputiamo essere quelli
fondamentali, ma è solo apparenza. In realtà la nostra personalità è sinfoni-
ca, e solo armonizzando i nostri molti lati si può ottenere un canto perfetto.
Santa Kowalska ha ricevuto molti doni: è giovane, è bella, è anche innamo-
rata di Dio. Tutto perché il suo contatto con i moribondi fosse perfetto e po-
tesse aiutarli. Con l’intercessione. Ma cosa fa l’intercessione?
Senza addentrarci in dinamiche spirituali sottili e anche utili, ma qui ec-
cedenti, limitiamoci a quel che ci narra santa Kowalska:
«Quando m’immersi in preghiera e mi unii mentalmente a tutte le Messe
che in quel momento si celebravano nel mondo intero, supplicai Iddio, in
forza di tutte quelle sante Messe, di concedere misericordia al mondo e spe-
cialmente ai poveri peccatori che in quel momento si trovavano in agonia.
Nello stesso istante ricevetti interiormente la risposta da Dio, che mille ani-
me avevano ottenuto la grazia in seguito alla preghiera che avevo rivolto a
Dio. Noi non sappiamo quale numero di anime dobbiamo salvare con le no-
stre preghiere e con i nostri sacrifici, per cui è bene che preghiamo sempre
24
per i peccatori» .

_____________________________
24
KOWALSKA, Diario, op. cit., n.1783 (trad. it. 924s).

512
La preghiera d’intercessione dunque funziona così: per l’affetto o la pena
che prova, qualcuno chiede a Dio di cambiare atteggiamento nei confronti
di qualcun altro e nostro Signore, per l’affetto che prova per chi intercede,
lo ascolta. Nel nostro caso, santa Kowalska chiede a Dio di aver misericor-
dia dei peccatori agonizzanti, e Lui la accontenta dando loro la grazia. Vale
a dire imputando loro un numero minore di peccati, e soprattutto mitigando
il dolore che questi infliggono all’anima del morente:
«Questa sera stava morendo un uomo ancor giovane, che soffriva tremenda-
mente. Ho cominciato a recitare per lui la coroncina che mi ha insegnato il
Signore. L’ho recitata tutta ma l’agonia si prolungava. Volevo cominciare le
litanie dei santi, ma improvvisamente udii queste parole: “Recita la coronci-
na”. Ho capito che quell’anima aveva bisogno di tante preghiere e di tanta
misericordia. Mi sono chiusa nella mia stanza e mi sono prostrata davanti al
Signore con le braccia in croce ed ho mendicato misericordia per quell’a-
nima. Ad un tratto ho sentito la grande Maestà di Dio e la grande giustizia di
Dio. Ho tremato per lo spavento ma non ho cessato di implorare da Dio mi-
sericordia per quell’anima. Mi sono tolta dal petto la piccola croce, la croce
dei miei voti, l’ho messa sul petto dell’agonizzante ed ho detto al Signore:
“Gesù, guarda a quell’anima con lo stesso amore con il quale hai guardato al
mio olocausto il giorno dei voti perpetui ed in forza della promessa che hai
fatto per gli agonizzanti a me ed a quelli che invocheranno la Tua miseri-
cordia per loro”. Ed il moribondo ha cessato di soffrire ed è spirato serena-
25
mente» .
Da questo brano riceviamo la conferma di quanto avevamo già scoperto
al punto 14.1.1., ossia che tra santa Kowalska e gli agonizzanti si crea come
una com-unione, una ‘unione tra anime’ che da un lato permette e dall’altro
rende fruttuosa l’intercessione. Questa, a sua volta, consiste in un effetto di
cui si è già parlato sempre in 14.1.1., ossia la ‘alter-azione’ (con il trattino)
delle anime coinvolte: la ‘azione’ di una ‘cambia’ lo status dell’altra, anche
se in Faustina l’effetto è diverso da quello nelle altre anime. Questa ‘alter-
azione’ è indotta dall’intercessione di santa Kowalska ma operata da Cristo,
ed ha effetto sui moribondi ma anche sui demoni, come si è letto in un pas-
so. Un effetto sicuramente positivo, almeno a giudicare dal fatto che gli a-
gonizzanti muoiono soffrendo meno o per niente, anche se tutt’altro che au-
26
tomatico . Dunque si può dire che l’intercessione di santa Kowalska spinge
_____________________________
25
KOWALSKA, Diario, op. cit., n.1035 (trad. it. 588s).
26
Poiché questo studio, anche se con difficoltà, non deve entrare in questioni escatolo-
giche vere e proprie, nel testo dobbiamo limitarci a quanto detto. Non possiamo però
esimerci dal riportare questo racconto di KOWALSKA, Diario, op. cit., n.58 (trad. it.
83s): «Una volta, di notte, venne a trovarmi una delle nostre suore, che era morta due
mesi prima. (“Nell’anno 1933 morirono sr. Cecilia Mieszkowska, il 20 febbraio a
(segue)

513
nostro Signore ad operare una ‘alter-azione’ perfettiva dell’anima del mori-
bondo, il quale, pur non essendo ancora del tutto fuori del corpo, ne è però
già abbastanza separato da cogliersi nella dimensione di individuum vagum,
come dimostrano i dialoghi con santa Kowalska. Ma la semplice riduzione
di sofferenza non può essere il solo fine di questa ‘alter-azione’ perfettiva:
le dinamiche spirituali coinvolte sono sproporzionate rispetto ad essa. Qual
è dunque il fine verso il quale tende la ‘alter-azione’ perfettiva?
Santa Kowalska ci offre molti indizi importanti (corsivi nostri):
«Fa di me, o Gesù, una vittima gradita e pura davanti al Volto del Padre
Tuo. O Gesù, Tu che puoi tutto, trasforma me misera e peccatrice in Te e
27
consegnami al Tuo Eterno Padre» .

«O mio Gesù, ioin verità non saprei vivere senza di Te. Il mio spirito si è fu-
so con il Tuo. Nessuno comprende bene questo: occorre prima vivere di Te,
28
per conoscerTi negli altri» .

«L’anima che sperimenta questa ineffabile grazia dell’unione non può dire
di vedere Dio faccia a faccia, dato che qui c’è il lievissimo velo della fede;
ma così lieve che l’anima può dire che vede Dio e parla con Lui. Essa è di-
vinizzata. Dio fa conoscere all’anima quanto l’ama e l’anima vede che ani-
______________________________
Walendow, e sr. Casimira Kasperowicz, il 21 aprile a Varsavia. Siccome santa Fau-
stina ricorda solo il fatto in sé senza riferimenti più precisi (il luogo e la data), è dif-
ficile stabilire di chi si tratti” NdR) Era una suora del primo coro. La vidi in uno stato
spaventoso: tutta avvolta dalle fiamme, con la faccia dolorosamente stravolta. L’ap-
parizione durò un breve momento e scomparve. I brividi trapassarono la mia anima,
ma pur non sapendo dove soffrisse, se in purgatorio o all’inferno, raddoppiai in ogni
caso le mie preghiere per lei. La notte seguente venne di nuovo ed era in uno stato
ancor più spaventoso, tra fiamme più fitte, sul suo volto era evidnete la disperazione.
Rimasi molto sopresa di vederla in condizioni più orribili dopo le preghiere che ave-
vo offerto per lei e le chiesi: “Non ti hanno giovato per nulla le mie preghiere?” Mi
rispose che le mie preghiere non le erano servite a nulla e che niente poteva aiutarla.
Domandai: “E le preghiere fatte per te da tutta la Congregazione, anche quelle non ti
hanno giovato niente?” Mi rispose: “Niente. Quelle preghiere sono andate a profitto
di altre anime”. E io le dissi: “Se le mie preghiere non le giovano per niente, la prego
di non venire da me”. E scomparve immediatamente. Io però non cessai di pregare.
Dopo un certo tempo venne di nuovo da me di notte, ma in uno stato diverso. Non
era tra le fiamme come prima ed il suo volto era raggiante, gli occhi brillavano di
gioia e mi disse che avevo il vero amore per il prossimo, che molte altre anime ave-
vano avuto giovamento dalle mie preghiere e mi esortò a non cessare di pregare per
le anime sofferenti nel purgatorio e mi disse che essa non sarebbe rimasta a lungo in
purgatorio. I giudizi di Dio sono veramente misteriosi!» Come si vede, l’intercessio-
ne funziona, ma in tempi, modi e misure decisi esclusivamente da nostro Signore.
27
KOWALSKA, Diario, op. cit., n.483 (trad. it. 332).
28
KOWALSKA, Diario, op. cit., n.503 (trad. it.340).

514
me migliori e più sante di lei non hanno ottenuto queste grazie, perciò è ri-
vestita da un sacro stupore, che la mantiene in una profonda umiltà e si spro-
fonda nel suo nulla e nel suo sacro stupore e più essa si umila, tanto più inti-
mamente Dio si unisce a lei e si abbassa fino a lei. L’anima in quel momen-
to è come nascosta; i suoi sensi inattivi; essa in un attimo conosce Dio e si
29
immerge in Lui» .

«Né le grazie, né le rivelazioni, né le estasi né alcun altro dono a lei elargito


la rendono perfetta, ma l’unione intima con Dio. Questi doni sono soltanto
un ornamento dell’anima, ma non ne costituiscono la sostanza né la perfe-
zione. La mia santità e perfezione consiste in una stretta unione della mia
30
volontà con la volontà di Dio» .

«O mio Gesù, penetra in me completamente, affinchè possa rispecchiarTi in


tutta la mia vita. Divinizzami, in modo che le mie azioni abbiano un valore
31
soprannaturale» .

«Amore eterno, fiamma pura, ardi incessantemente nel mio cuore e diviniz-
za tutto il mio essere in forza della Tua eterna predilezione, per la quale mi
32
hai dato l’esistenza, chimandomi a partecipare alla Tua eterna felicità» .
Dunque la ‘alter-azione’ perfettiva altro non è che il movimento spiritua-
le della deificazione. Ovviamente comporta una diminuzione del dolore nel
momento della morte, ma è un dettaglio davvero accessorio in confronto al
fine ultimo. Èpoi, con tutta evidenza, un movimento che non avviene tutto
insieme ma per gradi: si può dunque parlare di una ‘alter-azione’ perfettiva
progressiva, la quale si rivela essere il fine di ogni uomo proprio al mo-
mento della sua morte, quando cioè il legame con il suo corpo si fa sempre
più flebile e comincia a precepire il suo status spirituale.
Ma, per tratteggiare meglio una teologia della morte in vista della deifi-
cazione, è necesssario capire a fondo cosa significa ‘deificazione’.

14.2. La morte dal punto di vista della deificazione:


alcune linee spirituali di fondo

Come si è avuto modo di dire altre volte, in questi ultimi anni l’Occiden-
te sta prendendo coscienza dell’importanza della dottrina della deificazione
per grazia dell’uomo. In verità le luci della ribalta teologica sono sempre un
_____________________________
29
KOWALSKA, Diario, op. cit., n.771 (trad. it.473).
30
KOWALSKA, Diario, op. cit., n.1107 (trad. it.613).
31
KOWALSKA, Diario, op. cit., n.1242 (trad. it.669).
32
KOWALSKA, Diario, op. cit., n.1523 (trad. it.800).

515
po’ pericolose, perché portano con sé quelle del mercimonio ed ipso facto il
rischio serio e forte della banalizzazione e dello snaturamento a la mode. È
però anche vero che molte menti ragionano meglio di poche, che molti oc-
chi vedono più e meglio di pochi, e che non tutti coloro che scrivono di teo-
logia si adeguano alle pretese del mercato editoriale. Quindi non possiamo
33
non rallegrarci della cosa . Per di più, se lo Spirito ci dona la grazia di sco-
prire questo tesoro finora custodito solo dai nostri fratelli Ortodossi, come
si può osare di rifiutare quel che ci offre? Che non ci accada di imitare A-
caz (Is 7,10-13):
«Il Signore parlò ancora ad Acaz: “Chiedi un segno dal Signore tuo Dio, dal
profondo degli inferi oppure lassù in alto”. Ma Acaz rispose: “Non lo chie-
derò, non voglio tentare il Signore”. Allora Isaia disse: “Ascoltate, casa di
Davide! Non vi basta di stancare la pazienza degli uomini, perché ora vo-
gliate stancare anche quella del mio Dio?”»
Ciò detto, bisogna dire che non è affatto semplice né immediato capire la
portata teologica, ad esempio, della formula “divenire per grazia come Dio
è per natura”, con la quale Massimo il Confessore sintetizza appunto la dot-
trina della deificazione. Ma ancor più complesso e delicato è tentare di dare
una lettura esistenzialmente spirituale di quella stessa formula.
Senza alcuna pretesa, qui cercheremo di fare entrambe le cose, scusan-
doci subito per le molte semplificazioni che dovremo compiere.

14.2.1. Dal punto di vista della deificazione:


la prospettiva di Massimo il Confessore

In un passo fondamentale per comprendere la sua dottrina spirituale, ed


in particolare la dinamica della deificazione per grazia così come la conce-
pisce lui, Massimo il Confessore scrive:
«Come il mondo sensibile, nella sua natura, educa le cinque sensazioni, in
quanto cade sotto di esse e ci conduce a comprenderlo, così anche il mondo
della mente educa le virtù, perché, sottomettendosi alle potenze dell’anima,
le educa in vista dello spirito, rendendole uniformi a lui perché fa sì che ruo-
tino solamente attorno allo spirito e si appoggino alle percezioni che hanno
di lui. Ma dicono che anche le stesse sensazioni del corpo, con quella ragio-
ne (logos) divina che in esse risplende, educhino le potenze dell’anima, in
quanto le educano dolcemente ad operare, evidentemente perché percepi-
_____________________________
33
A questo riguardo è con piacere che registriamo lo studio di S. CARLETTO, «Lutero,
la divinizzazione e l’ontologia. Temi e figure della “finnische Lutherforschung”»,
Annali di studi religiosi 2 (2002) 157-197.

516
scono i logoi delle cose mediante i quali, come fossero delle lettere, coloro
che hanno la vista acuta nel vedere leggono Dio il Logos. Per questo motivo
quelle persone chiamarono le sensazioni ‘immagini esemplari delle potenze
dell’anima’, in quanto ciascuna sensazione, con il suo strumento o organo
della sensazione, è stata attribuita per natura in modo preminente con una
ragione (logos) più mistica a ciascuna potenza dell’anima, secondo l’analo-
gia. E quindi la sensazione della vista appartiene alla potenza intelligente
dell’anima, ossia all’intelletto (nous), quella dell’udito alla potenza raziona-
le, ossia alla ragione (logos), quella dell’olfatto alla potenza dell’ira, quella
del gusto alla potenza del desiderio, quella del tatto alla potenza della vita.
E, per dirla semplicemente con maggior chiarezza, la vista, ossia l’occhio, è
immagine dell’intelletto, l’udito, ossia l’orecchio, è immagine della ragione,
l’olfatto, ossia il naso, (immagine) dell’ira, il gusto del desiderio ed il tatto
(immagine) della vita: l’anima, condotta da questi sensi mediante le loro po-
tenze secondo la legge di Dio che con sapienza ha creato l’universo, e muo-
vendosi in vari modi verso le cose sensibili, se si è servita bene delle sensa-
zioni, cioè se ha raccolto i molteplici logoi degli esseri mediante le proprie
potenze, e se è saggiamente riuscita a trasferire a sé tutto quel che ha visto,
nel quale è celato Dio, che è proclamato con il silenzio, allora nella propria
mente ha costruito anch’essa, con la sua libera scelta, un mondo bellissimo e
spirituale, mettendo insieme le quattro virtù generali come fossero elementi,
per compaginare secondo lo spirito il mondo composto intellegibilmente da
esse: la mente forma ciascuna virtù intrecciando alle sensazioni l’atto delle
sue potenze.
Così, la prudenza proviene dall’opera, che possiede gnosi e scienza, della
potenza intelligente e razionale che si intreccia con la sensazione della vista
e dell’udito, a proposito delle cose che essi percepiscono. Ancora: la fortez-
za è formata dall’assoluto equilibrio, nell’ambito dell’operare, dovuto al re-
ciproco intreccio dell’elemento irascibile e dell’olfatto (ossia il naso, nel
quale, a quanto si dice, ristagna il soffio dell’ira), relativamente all’oggetto
sensibile che la riguarda. La temperanza, invece, è formata dall’uso della fa-
coltà concupiscibile commisurata al gusto, la quale si unisce al gusto stesso
e riguarda il suo specifico oggetto sensibile. La giustizia infine deriva da un
uso esercitato del tatto, in tutte le cose ed a proposito di tutte le cose, grazie
ad un’opera di distribuzione uguale, bene ordinata ed armoniosa.
L’anima, ricorrendo alla composizione, apprende a formare da queste quat-
tro virtù generali (i.e. la prudenza, la fortezza, la temperanza e la giustizia,
le quattro virtù cardinali) due virtù ancora più generali, intendo dire la sa-
pienza e la mitezza: la sapienza, in quanto è limite delle cose conosciute,
mentre la mitezza è limite di quelle che sono fatte. Così, dalla prudenza e
dalla giustizia l’anima forma la sapienza, la quale è causa che conserva la
conoscenza relativa alla prudenza ed alla giustizia e per questo motivo, co-
me dicevo, è limite delle cose conosciute. Dalla fortezza e dalla temperanza
invece forma la mitezza, la quale altro non è che l’assoluta immobilità della
ira e della concupiscenza verso quello che è contro natura; alcuni l’hanno
chiamata ‘impassibilità’, e per questo motivo essa è il fine di quello che si
fa. Queste due virtù, a loro volta, l’anima le riunisce in quella che è la più
generale di tutte, cioè l’agape, che allontana l’uomo dalle cose che lo allon-

517
tanano da lei e unifica quelle che hanno avuto inizio e si muovono e cessano
la vista in lei, ed in modo particolare deifica ogni ambito.
Così dunque l’anima, sapientemente muovendosi e operando conformemen-
te a quella che è ed è diventata ragione (lógos) divina, con propria utilità si
attacca alle cose sensibili mediante le sensazioni e, spirituale com’è, si ap-
propria dei loro logoi, mentre le sensazioni stesse, fatte ormai razionali (ló-
gikai) dalla abbondanza della ragione (lógos), essa le accoglie perché sono
veicoli (ochêmai) delle sue potenzialità; congiunge le potenzialità stesse alle
virtù e così per mezzo loro congiunge se stessa ai logoi più divini che si tro-
vano nelle virtù. Ed i logoi più divini che si trovano nelle virtù si uniscono
all’intelletto spirituale (nous pneumátikos) che è nascosto in loro senza che
lo si veda, mentre l’intelletto spirituale (nous pneumátikos) dei logoi più di-
vini che sitrovano in ogni virtù, respingendo ogni rapporto naturale e dovuto
alla libera scelta, (rapporto) che l’anima ha nei confronti della realtà presen-
te, dona l’anima, semplice e tutta intera, a Dio tutto intero, mentre Dio, ab-
bracciandola tutta insieme al corpo a lei connaturato, rende anima e corpo,
secondo quanto conviene a ciascuno, simili a sé, così che attraverso l’anima
tutta intera Dio può apparire tutto intero senza limiti, perché Dio a nessun
34
essere può manifestarsi da sé, in nessun modo, sotto nessun aspetto» .
Il brano, oltre che lungo, è anche piuttosto complesso; capirne il signifi-
cato profondo richiede un po’ di pazienza.
Innanzitutto, è evidente che si tratta di un testo dal respiro amplissimo:
Massimo qui non si limita a descrivere un movimento o due, ma l’intera
dinamica di ricapitolazione di tutto ciò che è proprio di un essere umano in
quello che è il destino preparato per ognuno di noi dal nostro meraviglioso
e amantissimo Signore. E questo significa coinvolgere non solo il momento
spirituale di un uomo ma anche quello psicologico e addirittura quello sen-
sibile. Questa titanica raffigurazione raggiunge il suo obiettivo per mezzo
di due movimenti, allo stesso tempo fisici, metafisici e spirituali; il primo è
quello della ‘educazione’, il secondo quello della ‘composizione’. Vedia-
moli uno alla volta, nell’ordine in cui si vivono.
La ‘educazione’, che si incontra all’inizio del brano, è a sua volta un mo-
to duplice. Ce n’è infatti una operata dal mondo sensibile nei confronti dei
nostri sensi, ed ha come risultato insegnare a noi il come del modo di esi-
stere del mondo (dal lato dell’esperienza fattuale e delle percezioni senso-
riali) ed il come del poterlo usare per i nostri scopi. La seconda ‘educazio-
ne’ è invece operata dallo spirito nei confronti delle potenze dell’anima, le
quali, una volte che la prima ‘educazione’ le ha rese consapevoli delle loro
_____________________________
34
MASSIMO IL CONFESSORE, Ambigua, prob.21 (PL 91, 1248-1249; trad. it. 388-391).
Si è talvolta modificato l’andamento della trad. it. per migliorare la leggibilità, sosti-
tuito ‘deificazione’ a ‘divinizzazione’ per motivi eufonici e lasciato infine in greco
alcune espressioni per facilitare la comprensione dei nessi posti da Massimo.

518
capacità e caratteristiche, possono scegliere di orientarsi tutte verso lo spiri-
to e non verso il mondo (stavolta da intendersi in senso giovanneo, cioè la
‘carne’ paolina). Quest’orientamento delle potenze dell’anima verso lo spi-
rito genera infine le quattro virtù cardinali (prudenza, fortezza, temperanza
e giustizia), le quali si riverberano sulle facoltà che le hanno generate e sui
singoli tipi di sensazioni che ognuna di esse preside e guida, il che è com-
prensibile, perché sono esse che le generano, ma non ovvio, perché il retto
uso di queste facoltà è sempre soggetto al libero arbitrio.
La ‘composizione’, che si incontra a metà del passo, è il movimento spi-
rituale che, nella prospettiva di Massimo, esprime il come della unificazio-
ne interiore dell’uomo che progredisce in Dio, diventando sempre più a mi-
sura di Cristo. Questo progresso spirituale, per il Confessore, si concretizza
in una progressiva integrazione delle diverse spinte in unità sempre più am-
pie, complesse e spiritualmente armoniche pur nella permanente diversità
delle sfaccettature. Queste unificazioni Massimo le chiama ‘composizioni’.
Ognuna di queste ‘composizioni’ successive (si sono omesse quelle che
portano alle quattro virtù cardinali per non dover esporre tutta la dottrina
spirituale di Massimo) colgono le cose, materiali, non materiali e spirituali,
sotto determinati punti di vista, senza esaurire quel che sono in se stesse ma
anzi, proprio perché determinati, costituendo invece ciò che il Confessore
chiama ‘limite’ della cosa stessa. Per capire il ragionamento di Massimo è
bene applicarlo ad un ambito diverso, ad esempio ad un pittore che osserva
un paesaggio: egli lo coglie dal punto di vista del colore e della proporzione
delle parti, ma non da quello della composizione chimica delle rocce oppu-
re da quello della coesione geologica; colore e proporzione sono il ‘limite’
delle cose in quanto raffigurabili. Il geologo, invece, coglierebbe certamen-
te le molte sfumature delle rocce e del terreno ma, con buona probabilità,
ignorerebbe quelle delle foglie o delle nuvole: la composizione chimica del
terreno è il ‘limite’ delle cose in quanto chimicamente composte. Queste
‘composizioni’, nella misura in cui unificano l’uomo, le sue facoltà, le sue
conoscenze ed i suoi desideri, si muovono nella direzione opposta a quella
in cui le spinge il diavolo convincendole a peccare, ossia a dividersi (‘dia-
volo’ infatti viene dal greco diaballô, ‘divido’). Per questo Massimo descri-
ve il movimento metafisico deificante come un ‘mutamento inverso a quel-
lo delle realtà presenti’: perché qui, in statu viae, il movimento che prevale
è quello contro natura del peccato, che divide, mentre in quello futuro, in
patria, vi sarà solo quello secondo natura, che ci rende sempre più ‘uno’,
con noi stessi e con Dio.
Se si vuole cercare un punto debole di questa raffigurazione titanica, a
parte il voler far corrispondere ogni singola facoltà psicologica a questa o
quella parte del volto, lo si può trovare nell’assenza di ogni menzione della

519
grazia. In effetti, Massimo non la ricorda mai; ma si può per questo conclu-
dere che allora la deificazione sia un movimento che inizi, continui e giun-
ga a perfezione senza la grazia? La risposta non è così banale.
Se si resta nella prospettiva teologica e spirituale di Massimo, essa non
può che essere un ‘no’, tassativo e senza alcuna possibilità di alternativa.
Ma se prendiamo questa domanda in senso assoluto, cioè la poniamo non
in riferimento al passo del Confessore ma di per sé, ebbene si può anche ri-
spondere ‘sì’. Secondo Tommaso d’Aquino questo ‘sì’ è la risposta che dà
il demonio, è il ‘sì’ che lo ha costituito come tale (cioè demone) ed è un ‘sì’
che continua a credere sia possibile fare a meno della grazia, ragion per cui
35
resta senza rimedio dannato e lontano da Dio . Questo cercare una deifica-
_____________________________
35
Cf. TOMMASO D’AQUINO, Quaestiones disputatae de malo, q.16, a.3, resp. (Marietti,
II, 667; trad. it. 1153ss; rivista): «Bisogna dire che diverse autorità [cioè passi biblici
o di Padri] sembrano propendere per la tesi secondo cui il diavolo abbia peccato con
il desiderare disordinatamente l’uguaglianza con Dio. Ora, non è possibile che abbia
desiderato l’uguaglianza con Dio in senso assoluto (absolute).
In primo luogo, la ragione di ciò è certo evidente dalla parte di Dio (ex parte Dei), a
cui non solo è impossibile che qualcosa sia uguale, ma ciò sarebbe anche contro la
natura della sua [di Dio] essenza. Infatti Dio, per sua essenza, è lo stesso Essere sus-
sistente [cioè un essere che ha in se stesso ciò che Lo fa esistere] e non è possibile
che ci siano due esseri d’una simile natura, come non sarebbe possibile che ci fossero
due idee di ‘uomo’ o di ‘bianco’ separate e per se sussistenti [se così fosse, sarebbe
impossibile dimostrare o che sono separate o che sono sussistenti]. Perciò, qualsiasi
cosa distinta da Lui è necessariamente qualcosa che partecipa dell’Essere e che non
può essere uguale a ciò che è per essenza l’Essere stesso. Infatti, è naturale ad una in-
telligenza [umana] o ad un intelletto separato [cioè un angelo] intendere la propria
sostanza. E così egli [il demonio] conosceva per natura che il suo essere partecipava
d’un altro Essere superiore e questa conoscenza naturale in Lui certamente non era
stata ancora corrotta dal peccato [perché gli è data all’istante della creazione, prima
della caduta]. Di conseguenza, resta che il suo intelletto non poteva considerare la
propria uguaglianza con Dio come qualcosa di possibile. Ora, nessuno tende verso
ciò che conosce come impossibile [...]. Perciò, in senso assoluto è impossibile che il
moto della volontà del diavolo tenda al desiderio di un’uguaglianza con Dio.
In secondo luogo, ciò è evidente anche dalla parte dello stesso angelo che desidera.
Infatti, la volontà desidera sempre qualche bene o per sé o per un altro. Ora, non si
dice che il diavolo abbia peccato per il fatto che abbia voluto l’uguaglianza con Dio
per un altro - avrebbe potuto, infatti, volere senza peccare che il Figlio fosse uguale
al Padre - ma per il fatto che desiderò per sé l’uguaglianza con Dio, Infatti, il Filoso-
fo dice nel nono libro dell’Etica [ARISTOTELE, Etica Nicomachea, IX, 4, 1166a 19ss:
“Ciascuno vuole per sé il bene, ma nessuno sceglie di avere tutto a condizione di di-
ventare un altro ente”] che ognuno desidera il bene per sé; invece, se uno diventa un
altro ente, non si preoccupa di ciò che potrebbe accadere a quest’altro. Di conseguen-
za è evidente che il diavolo non desiderò una cosa, realizzatasi la quale egli non sa-
rebbe più stato lo stesso. Ora, se [il demonio] diventasse uguale a Dio, ammesso che
(segue)

520
zione senza grazia è esattamente ciò in cui consiste la malvagità demonia-
ca, è quel che danna i dannati (spiriti e uomini) ed è ciò che impedisce la
loro redenzione ultima; come insegna Giovanni di Damasco:
«Bisogna sapere che ciò che per l’uomo è la morte, questo è la caduta per
gli angeli: infatti dopo la caduta per loro non c’è pentimento, così come ne-
36
anche per gli uomini dopo la morte» .
Questo passo ci permette di ricollegare queste note alla nostra ricerca. In
primo luogo pone, o meglio ricorda che esiste un nesso tra antropologia ed
______________________________
ciò sia possibile, egli non sarebbe più lo stesso, poiché la sua specie [di creatura] sa-
rebbe soppressa se egli fosse trasferito nel grado della natura superiore [del Creato-
re]. Perciò non resta che concludere che egli non potè desiderare l’uguaglianza con
Dio in senso assoluto. E per la stessa ragione non potè desiderare, in senso assoluto,
di non essere più sottomesso a Dio, sia perché ciò è impossibile - né ciò potè essere
appreso da lui come cosa possibile, secondo quanto è stato detto sopra -, sia perché
cesserebbe subito di esistere egli stesso, se non fosse totalmente sottomesso a Dio.
E qualsiasi altra cosa si possa menzionare e che appartenga all’ordine della natura, il
male del demonio non potè consistere in essa. Infatti il male non si riscontra in quelle
cose che sono sempre in atto ma solo in quelle la cui potenza può essere separata
dall’atto, come è detto nel libro nono della Metafisica (cf. ARISTOTELE, Metafisica,
IX, 9). Ora, tutti gli angeli sono stati creati in modo tale che essi hanno avuto subito,
sin dal principio della loro creazione, tutto ciò che appartiene alla loro perfezione na-
turale. Tuttavia erano in potenza ai beni soprannaturali, che potevano conseguire per
mezzo della grazia divina. Perciò non resta che concludere che il peccato del diavolo
non fu in qualcosa che riguardava l’ordine naturale, ma l’ordine soprannaturale.
Dunque il primo peccato del diavolo consistette nel fatto che, per conseguire la beati-
tudine soprannaturale, che consiste nella piena visione, non si innalzò verso Dio co-
me uno che desidera la perfezione finale per la grazia di Lui, insieme agli angeli san-
ti, ma volle conseguirla per mezzo della potenza della sua propria natura; non senza
quel Dio che opera nella natura, bensì senza quel Dio che conferisce la grazia [non
tamen sine Deo in natura operante sed sine Deo gratiam conferente]. Perciò Agosti-
no, nel terzo libro del Libero arbitrio (cf. AGOSTINO, De libero arbitrio, III, 25), fa
risiedere il peccato del diavolo nel fatto che si compiacque della sua potenza e nel
quarto libro de La Genesi alla lettera dice (cf. AGOSTINO, De Genesi ad litteram, IV,
24): “Se la natura angelica si rivolgesse verso di sé e l’angelo si compiacesse di se
stesso più che di Colui per la cui partecipazione è beato, tronfio di superbia cadreb-
be”. E poiché possedere la beatitudine finale per virtù della propria natura e non per
grazia d’un altro essere superiore è proprio di Dio, è evidente che, quanto a ciò, il
diavolo ha desiderato l’uguaglianza con Dio. E quanto a ciò, desiderò anche di non
essere sottomesso a Dio, cosicchè, cioè, non avesse bisogno della grazia di Lui oltre
la potenza della propria natura. E questo concorda anche con quanto è stato detto so-
pra: che il diavolo cioè non peccò desiderando un determinato male ma desiderando
un determinato bene, vale a dire la beatitudine finale, ma non secondo l’ordine dovu-
to, cioè da conseguire per mezzo della grazia di Dio».
36
GIOVANNI DAMASCENO, De fide orthodoxa, II, 4 (Kotter, 47; trad. it. 96).

521
angelologia, del tutto assente invece nella dogmatica odierna. Questo ‘pro-
gresso scientifico’ ha consegnato l’angelologia alle stupidaggini New Age e
la demonologia all’occultismo più idiota, ma soprattutto ha privato di ogni
sporgenza ecclesiologica l’escatologia, ridotta quasi ad una faccenda priva-
ta tra Dio ed il singolo, mentre antropologia ed ecclesiologia sono confinate
de facto alla dimensione terrena. E così si spiega perché la ratio studiorum
ritenga sufficiente all’escatologia il medesimo tempo che dedica alla meto-
dologia: in un semestre si può apprendere sia come fare delle buone note a
piè di pagina sia quel che avverrà di noi per l’eternità... Non c’è che dire,
questi ‘teologi’ hanno fatto proprio un bel lavoro: l’odio di Feuerbach non
avrebbe saputo fare di meglio.
Se però ripristiniamo la vera dottrina della Chiesa, il brano del Dama-
sceno rivela la profonda analogia tra ciò che accade all’uomo al momento
della morte e quel che vive il nemico dal momento della sua opzione contro
Dio: si constata che il tempo della scelta e del ripensamento è finito. Perce-
pire l’esistenza di questo punto di non ritorno è di estrema importanza a li-
vello spirituale perché, se si crede che esiste sempre la possibilità di tornare
indietro, non si faranno mai scelte definitive dato che tutte sono provviso-
rie: come recitava il titolo di un film, “L’amore è eterno finchè dura”. Ma il
tempo non torna indietro, e quel che è fatto non si può annullare. Ci si pen-
sa poco finchè i capelli restano neri, quando diventano grigi qualche nuvola
compare, l’arrivo del bianco porta preoccupazione, poi ansia, infine paura.
E la paura è l’opposto dell’amore, l’opposto di ciò che sente chi ama Dio.
Se la percezione di aver valicato un punto di non ritorno è fonte di paura
per chi va di male in peggio, come direbbe Ignazio di Loyola, per chi va di
bene in meglio è invece fonte di gioia. Come bene ha scritto Bernardo di
Clairvaux, è la fine delle fatiche, dei dolori, delle sofferenze, ma soprattutto
è l’inizio della gioia, della serenità, dell’unione spirituale senza fine e senza
limiti con l’Amato. Tutto ciò non si legge nel Damasceno ma lo si è incon-
trato più e più volte negli scritti dei mistici, ultima santa Kowalska.
Ora, i mistici ci hanno insegnato che quest’unione inizia già qui, in statu
viae, e che consiste nella deificazione. Se la dinamica descritta dal Confes-
sore porta alla deificazione, ed è così, allora si deve concludere che questa
doppia dinamica di ‘educazione’ e ‘composizione’ raggiunge il suo scopo,
in parte o transitoriamente, già qui in statu viae. Perciò la morte, eccetto il
suo essere punto di non ritorno, non apporta nessun mutamento in chi ama
Dio, poiché il movimento deificante è già iniziato e, in certa misura anche
completato qui in vita. Un passo di Origene ci può aiutare a capire:
«Scrivendo la prima Lettera ai Corinzi, (Paolo) si trovava certo in una si-
tuazione di grandi progressi, tuttavia dice qualcosa come se fosse insicuro di
sé quando afferma (9,27): “Tratto duramente però il mio corpo e lo tengo

522
sottomesso alla schiavitù, affinchè non accada che, dopo aver predicato agli
altri, io stesso venga squalificato”. Così pure, scrivendo ai Filippesi, quando
dice di conformarsi alla morte di Cristo (3,10s) “se in qualche modo possa
giungere alla resurrezione dei morti” dimostra che manca ancora in lui qual-
cosa di quella perfezione che poi ha conseguito. Infatti non avrebbe detto ‘se
in qualche modo’, qualora la cosa già da allra gli fosse sembrata esente da
dubbi. Ma anche nel seguito della medesima lettera dimostra lo stesso atteg-
giamento quando dice (Fil 3,12s): “Non che io abbia giò ottenuto (il premio)
o già sia perfetto: ma procedo per conquistare in quel modo in cui io pure
sono stato conquistato”. Se qualcuno ritiene che ciò sia stato detto per umil-
tà, osservi in ciò che segue quanto grandi cose egli ricordi riguardo ai suoi
progressi quando dice (Fil 3,13s): “Inseguo secondo il mio proposito una
cosa sola, dimenticando quelle che sono dietro e protendendomi a quelle che
sono avanti, verso il premio della più alta chiamata di Dio in Cristo Gesù”;
dopo questo dice (Fil 3,15): “Quanti dunque siamo perfetti, abbiamo tali
sentimenti”. Con ciò dimostra che esiste una duplice perfezione: una consi-
ste nell’esercizio delle virtù, ed è secondo questa che egli dice di non essere
perfetto, l’altra quando qualcuno progredisce in maniera tale da non poter
più cadere né volgersi indietro, ed è secondo questa maniera che ha detto
37
(Fil 3,15): “Quanti dunque siamo perfetti, abbiamo tali sentimenti”» .
Origene distingue due perfezioni, una descrivibile con le parole di Mas-
simo, specie quelle della prima parte, perfezione autentica ma anche ed an-
cora perdibile (tecnicamente: amissibile), ed un’altra anch’essa descrivibile
con le parole di Massimo, meglio con quelle della seconda parte, perfezio-
ne autentica anch’essa e forse superiore alla prima, ma certo non più perdi-
bile (tecnicamente: inamissibile). Ora, poiché è detto (Sir 11,28a):
«Prima della sua fine non chiamare nessuno beato»,
è evidente che questa seconda perfezione, propriamente parlando, la si rag-
giunge dopo aver superato la morte. Ma, ed in questo l’Adamantino ci pare
chiaro, non c’è differenza sostanziale tra la perfezione che si raggiunge in
statu viae e la perfezione che si comincia a vivere post mortem; l’unica ve-
ra diversità è la sua perdibilità o meno, legata alla mutabilità che caratteriz-
za con la sua presenza lo status viae e con la sua assenza quello in patria.
Integrando i suggerimenti di Massimo e di Origene, si può affermare che
il movimento ‘educatore’ delle singole facoltà umane che le ‘compone’ in
unum nello spirito inizia in statu viae e prosegue gradatamente per tutta la
vita, rischiando però in ogni momento di fermarsi o di andar perduto. Dopo
la morte invece questi rischi cessano definitivamente, anche se, occupando-
ci qui solamente del momento della morte, non possiamo dire se avvenga lo
_____________________________
37
ORIGENE, In epistulam ad Romanos commentarii, praef. Orig. (PG 14, 833s; Coc-
chini, I, 5s).

523
stesso anche alla ‘alter-azione’ perfettiva progressiva. Ma, paradossalmen-
te, questo vale anche per chi si è posto nella direzione opposta, poiché dopo
aver oltrepassato il punto di non ritorno anche lui continuerà a percorrere in
eterno la via spirituale che ha scelto. Dunque la morte è solo l’irrigidimen-
to, la cristallizzazione di scelte antecedenti? E se è così, che legame ha con
il peccato, a fortiori con uno che non ho commesso?
Dal punto di vista metafisico-spirituale la risposta non può che esser ‘sì’,
ma accanto a questa visuale ve n’è anche un’altra, che potremmo chiamare
esistenziale-spirituale, meno sporgente sul versante metafisico ma più vici-
38
na all’ambito composito ed un po’ sfuggente nel quale si pone il peccato .

14.2.2. Dal punto di vista della deificazione:


gustare la morte

Affermare che la morte si inserisce in un cammino precedente e succes-


sivo limitandosi a confermare definitivamente l’orientamento preso in statu
viae non è sufficiente a descriverne la realtà. Il non credente infatti avrebbe
buon gioco nel rilevare che questa descrizione ignora l’immenso dolore che
la morte porta a chi resta; tacere, ad esempio, sull’indicibile sofferenza di
una madre che seppellisce il proprio bambino non è infierire ancor più su di
essa? È forse questo il Dio misericordioso ed amante degli uomini? Ora,
non vi è dubbio che l’esempio addotto sia quello di un dolore senza pari e
senza requie; è anche vero che sperare di consolare tale madre con la nostra
descrizione sarebbe insultarla. Ma solo se quella donna non ha fiducia, non
ama Dio e perciò non sa che è vero quel che accadde al piccolo Eutico ca-
duto dal tetto ascoltando la predicazione di Paolo (At 20,10):
«Paolo allora scese giù, si gettò su di lui, lo abbracciò e disse: “Non vi tur-
bate; è ancora in vita!”»,
e non sa che questo avvenne perché è scritto (Gv 8,51):
«In verità, in verità vi dico: se uno osserva la mia parola, non vedrà mai la
morte»,
_____________________________
38
Un peccato infatti ha sempre molti padri. Senza dubbio quello spirituale è il più im-
portante, ma ogni confessore sa bene quanto conti quello psicologico, l’influenza del
contesto, la tempistica e soprattutto la proporzione con la quale questa miscela si pre-
senta di volta in volta, mai uguale anche nella stessa persona. Dal punto di vista pa-
storale perciò la sola riflessione metafisico-spirituale rischia di essere poco fruttuosa
se non è unita ad una solida competenza umana, esistenziale appunto, così come, da
sola, la competenza umana non fa crescere spiritualmente.

524
passo sul quale dovremo ritornare. Certamente una madre non credente non
sarebbe affatto consolata da queste citazioni, anzi, con grande probabilità il
menzionarle sarebbe preso per una mancanza di rispetto al suo dolore. Que-
sto però è inguaribile solo perché lei non ha speranza, non perché non ce ne
sia alcuna per suo figlio o anche per lei stessa. Perché credere o non credere
una certa cosa non ha alcuna importanza riguardo al suo essere vero o fal-
so, o sul suo esistere o meno: ci creda o non ci creda, suo figlio è vivo. Ma
soffermarsi sull’insanabile distanza tra il modo di vivere e sentire la morte
di un non credente rispetto a quella di un credente non aiuta a tratteggiare
lo stato d’animo di chi invece ha speranza. Ed è invece questo ciò che qui
dobbiamo fare, perché la dottrina spirituale che abbiamo accennato serven-
doci delle parole di Massimo deve potersi tradurre in indicazioni psicologi-
che concrete, chiare ed anche spendibili pastoralmente.
Ora, di fronte a problemi di questo genere, spesso si sceglie la via como-
da dell’invito a porsi nello stato d’animo corretto, atteggiamento enunciato
sì ma non spiegato. Soprattutto, non ci si prende la briga di far vedere come
si possa arrivare a sentire la morte in quel modo. È un atteggiamento ben
esemplificato dalle parole di Cipriano vescovo di Cartagine:
«Il voler restare a lungo nel mondo è proprio di colui che ama il mondo, che
è sedotto e ingannato dalle dolci lusinghe e dalle dolci attrattive del piacere
terreno. D’altra parte, dal momento che il mondo odia il cristiano, perché tu
ami colui che ti odia e non segui piuttosto Cristo, che ti ha redento e ti ama?
Nella sua lettera Giovanni proclama, afferma ed esorta a non seguire il mon-
do ed a non soddisfare i desideri della carne, dicendo (1Gv 2,15ss): “Non
amate il mondo né le cose che sono nel mondo. Se qualcuno ama il mondo
in lui non c’è amore del Padre, perché ogni cosa che è nel mondo è concupi-
scenza della carne, concupiscenza degli occhi e superbia del mondo che vie-
ne non dal Padre ma dalla concupiscenza del mondo. Passerà il mondo e la
sua concupiscenza, ma chi ha fatto la volontà di Dio rimarrà in eterno come
anche Dio rimarrà in eterno”. Piuttosto, fratelli carissimi, con animo fermo,
con fede integra, con saldo coraggio dobbiamo essere pronti ad ogni volere
di Dio, dobbiamo pensare alla immortalità che seguirà, una volta eliminato
il timore della morte. Dimostriamo che questo è ciò che noi crediamo, così
da non piangere la morte dei nostri cari: quando sia giunto il giorno della
partenza di ognuno di noi, senza esitazione e volentieri possiamo giungere
39
da Dio, nel momento in cui Egli ci chiama» .
Impossibile non convidere queste parole, tanto più che Cipriano mostra
con la sua vita come sentire la morte al modo che scrive. L’esperienza però
insegna che così non si fa molta strada, né teoricamente né pastoralmente.
Miglior punto di partenza potrebbe essere Giovanni 8,51, sopra letto:
_____________________________
39
CIPRIANO DI CARTAGINE, De mortalitate, 24 (CCsl 3A, 29s; CTP 175, 79s).

525
«In verità, in verità vi dico: se uno osserva (gr. ‘custodisce’) la mia parola,
non vedrà mai la morte».
È chiaro che l’inciso ‘non vedrà mai la morte’ non può essere inteso co-
me ‘vivranno per sempre così come vivono adesso’, perché gli evangelisti
videro la morte di molti fratelli, Stefano per primo. È possibile però legger-
lo in altri due modi, egualmente corretti ma non alternativi. Filosoficamen-
te, l’inciso si può riferire all’anima, la quale, essendo immortale, non muo-
re mai; però questo vale per tutti gli uomini, non solo per chi ‘custodisce’ la
parola di Cristo. Spiritualmente, l’inciso si può riferire all’unica vera morte
conosciuta dal Nuovo Testamento, quella del peccato: morte che non consi-
ste nell’annichilamento ma nella sofferenza eterna di chi ha scelto di non
amare Dio. L’eternità di questa morte suppone l’eternità dell’anima, e così
il primo significato viene recuperato; senza dubbio chi ‘custodisce’ nel suo
cuore l’insegnamento di Cristo non muore di questa ‘morte’ eterna dell’ani-
ma, ma come vive tale credente la separazione dal proprio corpo?
Sta scritto (Mt 16,28 greco e latino):
«In verità, in verità vi dico che vi sono alcuni tra questi che sono qui i quali
non gusteranno la morte finchè non vedranno il Figlio dell’uomo venire nel
suo regno».
Sia CEI73 che CEI08 rendono l’inciso ‘non gusteranno la morte’ con ‘non
moriranno’, amputazione testualmente gratuita quanto grave spiritualmen-
te; al solito, la radice non è nella difficoltà linguistica bensì nell’assenza di
quel sensus fidei che rende comprensibili al traduttore incisi fondamentali
come questo e molti altri. Purtroppo, per quel che riguarda la Scrittura, co-
noscere la lingua non basta a fare un traduttore. Ora, fatta epoché di questa
spiacevole omissione (ma come rimedieranno coloro che non leggono né il
latino né il greco?), cerchiamo di cogliere alcuni dei frutti di questo inciso
di Matteo; e si può dire subito che ‘gustare la morte’ è espressione che sin-
tetizza un ricchissimo insegnamento dei nostri santi Padri.
Commentando quest’inciso, ad esempio, Ilario di Poitiers scrive:
«Dopo aver esortato a prendere la croce, perdere la vita e sacrificare il mon-
do in cambio della vita eterna, egli (Gesù) si voltò verso i suoi discepoli ed
affermò che ci sarebbero stati alcuni fra di loro che non avrebbero gustato la
morte finchè non avessero visto il Figlio dell’uomo nella gloria del suo re-
gno. Usando il verbo ‘gustare’, egli indica che la morte avrebbe appena sfio-
rato i credenti. Ed ecco come alle parole sono seguiti i fatti (segue il raccon-
40
to della Trasfigurazione)» .

_____________________________
40
ILARIO DI POITIERS, In evangelium Matthaei commentarius, XVII, 1 (SCh 258, 60ss;
CTP 74, 192s).

526
Ilario è assai parco nelle sue note, ma l’idea che la morte ‘sfiori’ soltanto
i credenti, se conferma ciò che ci pareva di poter dire in precedenza, raffor-
za ed esprime quel che prima di lui già diceva Tertulliano:
«L’Apostolo dice (2Cor 5,6s): “Essendo dunque sempre fiduciosi, e sapen-
do che mentre dimoriamo nel corpo noi siamo in pellegrinaggio lontano dal
Signore, perché camminiamo con la fede, non con la visione”. È chiaro che
questo passo non può gettare ombre sulla carne, come se fosse lei a tenerci
lontano dal Signore. (...) L’Apostolo si era forse trovato a corto di parole per
esprimere l’uscita dal corpo, oppure aveva un preciso motivo per parlare in
modo inconsueto? Volendo indicare infatti una temporanea assenza dal cor-
po, ha detto che noi siamo in pellegrinaggio lontano da esso, perché chi è in
41
pellegrinaggio fa anche ritorno alla sua casa» .
Anche se così invertiamo l’ordine cronologico dei passi, Tertulliano ci
spiega che lo ‘sfiorare’ di Ilario va letto come una ‘temporanea assenza’: la
morte è un breve passaggio, un ‘pellegrinaggio’ il cui scopo è il ‘ritorno al-
la casa’, cioè la ricongiunzione ad esso in modo perfetto, senza limiti ed e-
terno. Ma con ciò ancora non abbiamo compreso in che senso si possa ‘gu-
stare’ tale separazione. Origene, in uno dei pochi passi nel quale si possa
apprezzare la ricchezza del suo metodo esegetico, ci può aiutare:
«Poiché è scritto in tutti e tre gli evangelisti (Mt 16,28): “Non gusteranno la
morte”, mentre in altri testi si trovano affermazioni differenti circa la morte,
non sarebbe fuori luogo svolgere anche su quei passi un esame comparativo.
Orbene, mentre nei Salmi è detto (Sal 88,49): “Chi è l’uomo che vivrà e non
vedrà la morte?”, ed in un altro passo (Sal 54,16): “Venga la morte su di lo-
ro e scenderanno vivi negli inferi”, in uno dei profeti sta invece scritto (Is
25,8 LXX): “La morte, prevalendo, li ha divorati”, e nell’Apocalisse (6,8):
“La morte e l’inferno accompagnano” alcuni. A me pare che in questi testi
un conto sia il gustare la morte, un altro vederla, un altro ancora il suo veni-
re su alcuni. Un quarto senso, oltre quelli suddetti, è indicato dall’espressio-
ne ‘la morte prevalendo li ha divorati’, ed un quinto, diverso da questi, risul-
ta dalle parole ‘la morte e l’inferno li accompagnano’. Forse tu, fatta una
raccolta di passi, potresti trovare da te stesso altre differenze oltre a queste
che abbiamo elencate; confrontandole tra loro e facendo una corretta ricerca,
potresti ben trovare il significato di ciascun passo.
In proposito, mi chiedo se non sia un male meno grave il vedere la morte e
più grave il gustarla, e se non sia ancora peggio che la morte accompagni
uno, e non solo l’accompagni ma addirittura venga su di lui ed afferri colui
che prima accompagnava. L’essere poi divorato da essa mi sembra il più
grave dei casi citati. Ma se rifletti a quanto detto ed alla diversità tra i pecca-
ti che si commettono, non esiterai - penso - ad ammettere che è lo Spirito di
_____________________________
41
TERTULLIANO, De resurrectione mortuorum, 43, 1.5 (CCsl 2, 978.979; CTP 87,
149s).

527
Dio l’autore di simili verità, Spirito che le ha fatte mettere per iscritto nelle
42
Scritture» .
L’Adamantino non spiega cosa secondo lui vuol dire ‘gustare la morte’.
Ora, in italiano ‘gustare qualcosa’ è connotato positivamente: quel ‘qualco-
sa’ ha un sapore buono oppure, se è un evento, lo si è apprezzato. Origene è
di altro avviso: ‘gustare la morte’ non è positivo, dato che fa parte di una
serie di ‘casi’ scritturistici ‘gravi’; ma dei cinque casi elencati solo ‘vedere
la morte’ è più lieve, quindi la sua gravità non è eccessiva. Se poi poniamo
il ‘gustare’ in relazione agli altri ‘casi’, otteniamo spunti utili. ‘Gustare’ e
‘subire’ suppongono entrambi il ‘venire’ della morte, un ‘venire’ che però
riguarda ogni vivente, uomo, animale, pianta. Quindi il ‘venire’ della morte
è il male più lieve perché coinvolge tutti. Mettiamo da parte piante ed ani-
mali e concentriamoci sugli uomini. Alcuni ‘gustano’, altri ‘subiscono’ la
morte, che ‘accompagna’ i primi ma ‘afferra’ e poi ‘divora’ i secondi. Dato
che quest’ultima situazione, dice Origene, è la peggiore di tutte, ‘gustare’ e
essere ‘accompagnati’ sono meno gravi, anzi, ricordando quel che insegna
riguardo ai martiri, potremmo pensare che siano relativamente positivi. Ma
conviene lasciare la parola all’Adamantino, che prima aveva affermato:
«Ma si deve capire che cosa significhi “gustare la morte”. La Vita è Colui
che ha detto (Gv 11,25): “Io sono la vita”, e questa vita è certo (Col 3,3s)
“nascosta con Cristo in Dio e quando si manifesterà Cristo, nostra vita, allo-
ra insieme a lui saranno manifestati con lui nella gloria”. Il nemico di questa
vita, che è anche “l’ultimo nemico ad essere annientato” (1Cor 15,26) tra
tutti i suoi nemici, è la morte: quella morte di cui muore l’anima che pecca,
in condizione opposta a quella dell’anima virtuosa, che vive in forza della
sua virtù. E quanto è detto nella Legge (Dt 30,15): “Ho posto davanti al tuo
volto la vita e la morte: scegli la vita”, la Scrittura lo riferisce a Colui che ha
detto “Io sono la Vita”, ed al suo nemico, la morte. Ognuno di noi sceglie
sempre tra questi due, con il suo agire. E quando, pur trovandosi ‘davanti al
nostro volto la vita’, pecchiamo, si verifica per noi la maledizione che dice
(Dt 28,66s): “La tua vita ti sarà sospesa davanti” fino alle parole “a causa
delle visioni che i tuoi occhi vedranno”.
Come dunque la Vita, Colui “che è disceso dal cielo e che dà la vera vita al
mondo” (Gv 6,33) è Pane vivo, così il suo nemico, la morte, è pane morto.
Ogni anima dotata di ragione si nutre o di pane vivo o di pane morto, a se-
conda che accolga dottrine buone o cattive. Dopo, come accade nel caso di
cibi ordinari, che ora ne gustiamo appena, altre volte ne mangiamo di più,
allo stesso modo quando si tratta di questi pani, uno ne mangia poco gustan-
doli appena, un altro invece ne mangia a sazietà; chi è buono, oppure è in
cammino verso la bontà, gusta e si sazia del pane vivo disceso dal cielo; il
_____________________________
42
ORIGENE, Commentariorum in Mattheum series, XII, 35 (PG 13, 1057ss; CTP 145,
348ss).

528
cattivo, invece, gusta e si sazia del pane morto, che è la morte: coloro che
peccano raramente e lievemente, magari gustano appena la morte, mentre
quelli che hanno intrapreso un cammino di virtù non si contentano di gusta-
re ma si nutrono continuamente di pane vivo. Era dunque logico che Pietro,
su cui “le porte degli inferi non prevarranno” (Mt 16,18), non gustasse la
morte, perché uno allora gusta la morte e ne mangia, quando le porte degli
inferi prevalgono su di lui, e gusta appena o mangia la morte, a seconda che
le porte degli inferi più o meno numerose prevalgano assai o poco su di lui.
Ma pure per i ‘Figli del tuono’, nati da voce potente, cioè dal tuono che è
realtà di cielo, era impossibile gustare la morte: la morte è assai lontana dal
tuono che li ha generati.
Ciò il Logos profetizza a coloro che saranno condotti alla perfezione e per il
fatto di stare presso il Logos avranno realizzato un così grande progresso da
‘non gustare la morte’ finchè non vedranno la manifestazione, la gloria, il
regno e la sovraeminenza del Logos di Dio, nella quale Egli è al di sopra di
ogni parola che, sotto parvenza di verità, circuisce ed attira dalla parte oppo-
sta quelli che non sono capaci di rompere i lacci di questa insidia per portar-
43
si in alto, alla altezza della sublimità del Logos di verità» .
In primis, Origene interpreta il verbo ‘gustare’ in senso metaforico: dire
‘gustare la morte’ è lo stesso che dire ‘morire’, come traduce CEI. Ammet-
te anche un senso letterale, come quando parla di ‘gustare’ i cibi ordinari,
ma subito equipara questi al pane vivo o a quello morto, il che è una secon-
da metafora. Infine, parla di un ‘gustare la morte’ contemporaneo alla pa-
rusia del Cristo-Logos, ma non è chiaro se questo ‘gustare’ sia davvero la
ricompensa per i progressi spirituali compiuti, dato che per Origene ‘gusta-
re la morte’ significa morire, ed è ‘gustazione’ che hanno giusti ed empi.
Ma al nostro discorso, ed alla retta intelligenza di quelli di Origene, manca
una distinzione fondamentale, che l’Adamantino enuncia commentando co-
sì le peregrinazioni di Israele nel deserto del Sinai:
«E da Nahaliel giungiamo a Bamot (cf. Nm 21,19), che significa ‘avvento
della morte’. Di quale morte pensiamo qui sia l’avvento, se non della morte
per cui “moriamo con il Cristo” (2Tm 2,11) per “vivere con lui” (1Tess
5,10), e per la quale dobbiamo “mortificare le nostre membra che sono sulla
terra (Col 3,5), e di nuovo (Rm 6,4): “Siamo stati consepolti con lui nella
morte mediante il battesimo”? Dunque: se uno segue l’ordine della via della
salvezza (al quale Origene ha paragonato il peregrinare di Israele nel Si-
nai), deve far strada per tutte queste tappe che abbiamo ricordato e, dopo
molto, giungere a questo luogo che abbiamo detto significare ‘avvento della
morte’. Sono le Scritture poi ad ammaestrarci che c’è una morte nemica ed
una morte amica del Cristo. Non parla dunque di quella morte nemica del
Cristo, della quale è detto (1Cor 15,26): “Ultimo nemico sarà distrutta la
_____________________________
43
ORIGENE, Commentariorum in Mattheum series, XII, 33 (PG 13, 1063ss; CTP 145,
344ss).

529
morte”, che è il diavolo, ma di questa morte, per la quale “moriamo con lui
per vivere con lui”, in ordine alla quale morte Dio dice (Dt 32,39): “Io ucci-
derò e farò vivere”; ‘uccide’, perché ‘moriamo con il Cristo’, e ‘fa vivere’
perché ‘viviamo con lui’. Dobbiamo dunque desiderare di giungere a Bamot
e di accogliere prontamente l’avvento di questa morte beata, per meritare
44
anche di essere vivificati con il Cristo» .
Distinguere tra una ‘morte nemica’ del Cristo ed una ‘morte amica’ del
Cristo rende duplice anche il significato dell’espressione ‘gustare la morte’.
Quelli visti fin qui, infatti, oltre a ricorrere a metafore non sempre adegua-
ta, si attagliano alla ‘morte nemica’ del Cristo, ma poco o punto a quella
‘amica’. Se invece ci riferiamo a quest’ultima, innanzitutto ‘gustare la mor-
te’ non ha bisogno di interpretazioni metaforiche, perché ‘gustare’ si può
prendere nella sua accezione più piana e comune, ossia ‘apprezzare il buon
sapore’. Poi, il senso di Matteo 16,28 diventa più lineare, sia perché il ‘gu-
stare la morte’ alla parusia finale è davvero una ricompensa, sia perché, fi-
no a quel momento, ‘gustare la morte’ come fosse cosa buona o evento fe-
lice è appannaggio di pochi: come è detto, saranno solo ‘alcuni fra i presen-
ti’, non ‘tutti’. Senza contare, poi, che tutto questo si accorda con quanto ci
rivelano i mistici. Il loro ‘gustare la morte’, anche se certo è la morte ‘ami-
ca di Cristo’, è solo un effetto del loro percorso spirituale. Sicuramente per
loro morire è dolce, anzi lo desiderano con tutte le lro forze (“muoio perché
non muoio”, dicono Teresa e Giovanni), ma solo perché è così che possono
ottenere la loro ricompensa. Che poi non è una retribuzione (in amore non
si agisce per un contraccambio!) ma la pienezza dell’unione sponsale, resa
possibile dall’essere divenuti per grazia come lo Sposo è per natura.
Con ciò non si intende scartare le letture precedenti; ma si converrà che
parlare di una ‘morte amica’ del Cristo è pienamente compatibile con l’idea
di un ininterrotto movimento spirituale ante e post mortem di riunificazione
del credente, insegnatoci da Massimo, e quindi di un profondo ridimensio-
namento dell’accezione diffusa del significato e del portato della morte nel-
la nostra vita. E si dovrà anche convenire che, in una prospettiva di fede,
parlare di ‘morte amica’ del Cristo è l’unico modo corretto di parlare della
morte, poiché quella ‘nemica’ è in realtà amica del demonio e frutto del suo
intervento pervertitore nel creato. Come è scritto (Sap 1,13s; 2,23s):
«Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi.
Egli infatti ha creato tutto per l’esistenza;
le creature del mondo sono sane, in esse non c’è veleno di morte, né gli infe-
ri regnano sulla terra. (...)
Dio ha creato l’uomo per l’immortalità; lo fece a immagine della propria na-
_____________________________
44
ORIGENE, In Numeros homiliae, hom.12, 3 (SCh 442, 98; CTP 76, 167).

530
tura. Ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo,
e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono».
Dunque, se davvero viviamo nell’amore per Dio e nell’abbandono a Lui,
allora bene è detto di noi (Is 30,15):
«Nella conversione e nella calma sta la vostra salvezza, nell’abbandono con-
fidente sta la vostra forza»,
perché la morte per noi è solo una ‘amica’ che ci rende stabilmente legati a
Colui che tanto cerchiamo e desideriamo qui ed ora, del quale abbiamo pro-
fonda nostalgia e dal quale tanto ci sentiamo lontani, un sentire complesso
e un po’ contorto ma vero, che i brasiliani conoscono come saudade.
Ciò detto, e prima di concludere, è bene fare due note.
La prima è che non si deve confondere la morte ‘amica del Cristo’ con la
morte solo ‘amica’. La prima è percepita da chi ama nostro Signore, la se-
conda da chiunque viva situazioni di dolore e disperazioni estreme. Anche
se qui, nel nord del mondo, talvolta vi è uno scarto importante tra causa del
dolore e sofferenza percepita, non si intende sminuire la gravità delle situa-
zioni che portano a preferire la morte alla vita. La Scrittura sa che chi vive
autentiche sofferenze, intrise di disperazioni veramente profonde, la morte
è davvero una ‘amica’ (Sir 41,2):
«O morte, è gradita la tua sentenza all’uomo indigente e privo di forze, vec-
chio decrepito e preoccupato di tutto»,
e chiunque si rechi tra i poveri veri, nel sud del mondo o alle mense della
Caritas, in Paesi in guerra o in qualche ospedale, non faticherà a capire il
sollievo che può dare lo smettere di soffrire. Come è detto (Sir 30,17):
«Meglio la morte che una vita amara, il riposo eterno che una malattia cro-
nica».
Però il sollievo per il cessato dolore, per quanto profondo, non è uguale
alla gioia dell’incontro tra amici, anzi, in verità non è paragonabile a quella
come non lo sono i litri ai kilometri. A maggior ragione non può essere ac-
costato alla gioia che provano due innamorati separati da tanto tempo.
La seconda nota riguarda la morte ‘amica del Cristo’.
Non crediamo che sia sentire riservato a pochi eletti, anche se è vero che
lo conosciamo solo in poche persone. Di certo però non si raggiunge in po-
co tempo, né con facilità. Prima bisogna vivere, e vincere, molte prove, il
che richiede tempo, pazienza e preghiera. Molti iniziano questo cammino
ma capita spesso di veder cadere amici cari, o persone che pure hanno vinto
molte altre battaglie. Chi cade per questo, chi per quello. Alcuni subito, al-
tri dopo. Qualcuno se ne va alla chetichella, qualcun altro con rabbia. Altri
ancora nel dolore oppure con tristezza. La santità è davvero una forma di

531
eroismo, e chi non ha voglia o ha paura di far l’eroe è meglio che faccia al-
tro. Se qualcuno pensa che si stia esagerando, mediti sul fatto che il primo
passo verso la proclamazione ufficiale della santità è la dichiarazione della
‘eroicità’ delle virtù. Che non consiste in qualche singola, splendida azione
ma nel quotidiano, incessante combattimento spirituale contro il nemico.
Ma la nostra prospettiva è ormai chiara, perciò fermiamoci qui.
A questo punto, di solito traiamo le conclusioni per percorso effettuato.
Qui però faremo un’eccezione, poiché prima di descrivere un quadro gene-
rale è opportuno affrontare alcune questioni speciali, di dettaglio se si vuole
ma certo non irrilevanti nella vita spirituale e nella pastorale quotidiana.

532
Capitolo 15

LA TEOLOGIA DELLA MORTE:


QUESTIONI DI
SISTEMATICA SPECIALE

L’espressione ‘sistematica speciale’ può sembrare contraddittoria: se si


fa della ‘sistematica’, allora per definizione si prescinde dai casi particolari,
‘speciali’ appunto. Ora, questo significa assumere a priori che tra generale
e particolare tertium non datur, semplificazione sicuramente molto comoda
se vogliamo costruire un sistema logico-teologico a tavolino ma, sfortuna-
tamente, ben poco attinente alla realtà.
Nei fatti, il generale ed il particolare sono gli estremi di un segmento ben
più articolato, le cui molte medietà stanno tra loro e con gli estremi in rela-
zioni spesso diverse e contorte. Se teniamo presente che in questo saggio si
studia il momento più delicato della nostra vita, quello della morte, prima
altrui, nostra poi, tale molteplice diversità sarà autoevidente. E lo sarà pure
il profondo errore di chi si illude di poterne parlare in astratto, partendo da
assunti a priori. Ecco perché, prima di tirare le conclusioni della nostra ri-
cerca, abbiamo deciso di affrontare alcuni temi ‘speciali’: pochi, quelli che
ci sono sembrati più utili e si potessero esaurire in poche pagine.

15.1. La morte degli altri dal punto di vista


di chi resta (nella fede)

Qualcuno potrebbe chiedersi perché ci si ponga solo adesso, dopo un non


facile né breve percorso, il tema di come viene vissuta la morte da parte di
chi resta; di solito è il punto di partenza. Le ragioni di quest’ordine stanno
proprio in quel percorso: perché l’atteggiamento più corretto di fronte alla
morte, specie di una persona cara, è il culmine di un cammino di fede ben
preciso, nel quale la riflessione sul senso della propria morte ha un ruolo
ed un peso tutt’altro che accessorio. Solo se si è compiuto personalmente e
sinceramente tale percorso spirituale ha senso presentare il modo cristiano
di affrontare, vivere e sentire la separazione (temporanea) dai nostri cari e,

533
in generale, la morte degli altri esseri viventi. Senza una tale esperienza le
parole sarebbero state solo frutto di riflessione, prive di calore umano, sen-
za alcuna parte della nostra anima. Era quindi necessario esporre tale per-
corso prima di tentare una descrizione di tale atteggiamento.
Adesso che tale esposizione è stata fatta, soprattutto nei capitoli della se-
conda parte, è possibile affrontare in modo corretto il dolore della separa-
zione. Però con una importante correzione di mira.
Nella seconda sezione si è illustrata una diversità di atteggiamento tra i
Padri riguardo alla paura di morire: per alcuni (Ambrogio ed altri) è indizio
di poca fede, per altri (Agostino) esprime il rifiuto della natura di ciò che le
è contrario. Tutti però trattano la questione in modo generale, per ragioni
contingenti (Cipriano deve fronteggiare una pestilenza ed Agostino l’eresia
di Pelagio) ma soprattutto perché al centro sta la legittimità o meno di avere
‘paura della morte’, e così prevale il versante dogmatico. Qui invece inte-
ressa la legittimità o meno di provare dolore per ‘la morte degli altri’, me-
glio, in quale misura tale sofferenza sia lodevole, solo conveniente o anche
eccessiva; al centro vi è perciò il versante spirituale. Non che tra dogmatica
e spiritualità vi sia opposizione; il nostro lavoro mira a dimostrare proprio
il contrario. Ma è chiaro che, per i Padri e soprattutto per nostro Signore,
prima della scienza viene la coscienza, e più del sapere conta l’amare.
Qui scopriremo questo versante spirituale leggendo diversi passi di Gio-
vanni Crisostomo, un autore che Agostino conosce bene e cita molto spesso
contro Giuliano d’Eclano, che lo accusa di opporsi ai Padri greci; vedremo
come, anche riguardo al tema della morte, quest’accusa sia infondata. Non
procederemo però affiancando Giovanni ad Agostino o Ambrogio o Ilario:
sarebbe bello ma porrebbe in secondo piano il lato spirituale, che invece è
prevalente in Giovanni e che più preme a noi. Leggeremo perciò solamente
quanto lui scrive: i lettori sapranno da soli rilevare ed apprezzare in che re-
lazione sia con quanto affermano Agostino e gli altri Padri.
* * *
Nel vangelo di Luca è raccontato l’episodio della resurrezione della fi-
glia di Giairo (Lc 8,41s.49-56 iuxta CEI73):
«Ecco venne (da Gesù) un uomo di nome Giàiro, che era capo della sinago-
ga [gr. ‘che faceva parte dei capi della sinagoga’]: gettatosi ai piedi di Gesù,
lo pregava di recarsi a casa sua, perché aveva un’unica figlia, di circa dodici
anni, che stava per morire [CEI08, gr. ‘perché la figlia unigenita, di dodici
anni, moriva]. Durante il cammino [CEI08 ‘mentre Gesù vi si recava’; gr.
‘durante il suo andare’], le folle gli si accalcavano attorno. (...) Venne uno
della casa del capo della sinagoga a dirgli: “Tua figlia è morta, non disturba-
re più il maestro”. Ma Gesù che aveva udito rispose: “Non temere, soltanto
abbi fede e sarà salvata”. Giunto alla casa, non lasciò entrare nessuno con
sé, all’infuori di Pietro, Giovanni e Giacomo e il padre e la madre della fan-

534
ciulla. Tutti piangevano e facevano il lamento su di lei. Gesù disse: “Non
piangete, perché non è morta, ma dorme [gr. katheúdei]”. Essi lo derideva-
no, sapendo [gr. ‘vedendo’; CEI08 add. ‘bene’] che era morta, ma [gr. om.]
egli, prendendole la mano, disse ad alta voce: “Fanciulla, alzati!” Il suo spi-
rito [CEI08 ‘vita’] ritornò in lei ed ella si alzò all’istante. Egli ordinò di darle
da mangiare. I genitori ne furono sbalorditi, ma egli raccomandò loro di non
raccontare a nessuno ciò che era accaduto [gr. om.]».
Si è studiato a fondo nella prima sezione l’idea della morte come dormi-
tio e non è il caso di ripeterci né di indagare perché questo dormire non sia
espresso con l’abituale koimô bensì con katheúdô. È invece interessante ri-
cordare come, sia qui in Luca che nel parallelo in Matteo (9,18.26), questo
episodio si intrecci con il racconto della guarigione dell’emorroissa, perché
è un elemento importante in uno dei rari commenti a questi racconti, quello
appunto del Crisostomo. Poiché è anche uno dei pochi testi nei quali il lutto
per la morte di un congiunto non è affrontato retoricamente ma dal punto di
vista spirituale, leggeremo il commento un po’ alla volta. Inizia così:
«Per mezzo di quella donna (Gesù) rimette sulla giusta via il capo della si-
nagoga che stava per perdere la fiducia e così rovinare tutto. Difatti quelli
che erano andati da lui dicevano (Lc 8,49): “Non disturbare il maestro, per-
ché la bambina è morta”, e quelli che erano in casa lo deridevano perché a-
veva detto ‘dorme’; era quindi verosimile che anche il padre provasse qual-
cosa di simile. Per correggere in anticipo questa debolezza (Gesù) presenta
pubblicamente quella donna. A riprova del fatto che il capo della sinagoga
fosse tra quelli assai grossolani, ascolta che cosa gli dice Cristo (Lc 8,50):
“Non temere, soltanto abbi fede e sarà salvata”. Aspettò di proposito che so-
praggiungesse la morte per poi presentarsi, in modo che fosse chiara la di-
mostrazione della resurrezione. Perciò cammina piuttosto lentamente e parla
di più con la donna, per permettere che la bambina morisse ed arrivassero
quelli a riferirlo ed a dire: “Non disturbare il maestro”. Alludendo a questo,
lo indica anche l’evangelista dicendo (Lc 8,49): “Mentre stava ancora par-
lando vennero dalla casa a dirgli: ‘Tua figlia è morta, non disturbare il mae-
stro’”. Voleva che si credesse alla morte perché non si avessero sospetti sul-
la resurrezione. Agisce sempre in questo modo. Così anche nel caso di Laz-
zaro aspettò uno, due, tre giorni. Per tutti questi motivi presenta pubblica-
mente quella donna e dice (Mt 9,22): “Coraggio figlia”, come diceva anche
al paralitico (Mt 9,2): “Coraggio figlio”. Difatti quella donna era molto im-
paurita; perciò dice ‘coraggio’, e la chiama ‘figlia’ perché la fede l’aveva re-
sa figlia. Poi viene anche l’elogio (Mt 9,22): “La tua fede ti ha salvata”. Lu-
ca, riguardo a questa donna, ci riferisce altri particolari più numerosi di que-
sti. Dopo che ella si avvicinò e riacquistò la salute, dice, Cristo non la chia-
mò subito ma prima disse (Lc 8,45): “Chi è che mi ha toccato?” Quindi,
poiché Pietro e quelli che rano con lui dissero: “Maestro, la folla ti circonda
e ti preme e tu dici ‘Chi mi ha toccato’? - e questa era una prova grandissi-
ma del fatto che era rivestito di vera carne e calpestava ogni forma di orgo-
glio, perché non lo seguivano da lontano ma lo premevano da ogni parte -,

535
egli, afferma l’evangelista, insistette dicendo (Lc 8,46): “Qualcuno mi ha
toccato; ho sentito che una forza è uscita da me”, rispondendo in modo al-
quanto approssimativo in rapporto a quanto pensavano i suoi ascoltatori. Lo
diceva per persuadere la donna ad ammettere il fatto da sé. Per questo non la
smascherò subito, per convincerla a dire tutto spontaneamente, dopo aver
dimostrato di conoscere ogni cosa chiaramente e per fare in modo che ella
stessa proclamasse quanto era accaduto, per non apparire degno di sospetto
se l’avesse detto lui.
Hai visto che quella donna fu migliore del capo della sinagoga? Non lo trat-
tenne né lo afferrò, ma lo toccò soltanto con la punta delle dita e, benchè
fosse venuta per ultima, se ne andò via guarita per prima. Quello condusse a
casa sua il medico tutto intero, mentre a questa fu sufficiente il solo contat-
to. Anche se era bloccata dalle sue infermità, la fede però le dava le ali. Os-
serva come la conforti dicendo (Mt 9,22): “La tua fede ti ha salvata”. Cer-
tamente se l’avesse tratta in mezzo alla gente per ostentazione non avrebbe
aggiunto queste parole, ma le dice per insegnare al capo della sinagoga ad
aver fede, sia per esaltare quella donna dandole, con queste parole, una gioia
ed un beneficio non inferiori alla guarigione del corpo. Che egli abbia agito
così perché voleva celebrarla e correggere gli altri e non magnificare se stes-
so è evidente da questo: egli, anche senza questo prodigio, sarebbe stato u-
gualmente ammirevole perché intorno a lui fioccavano i miracoli più della
neve e ne aveva fatti e ne avrebbe fatti molto maggiori di questo; la donna
invece, se questo non fosse avvenuto, se ne sarebbe andata via inosservata,
priva di questi elogi. Perciò la presentò pubblicamente e la esaltò, scacciò il
suo timore perché, dice, si era fatta avanti tremando, le fece coraggio e, in-
sieme alla salute del corpo, le diede anche altri sostegni dicendo (Lc 8,48):
1
“Vai in pace”» .
A prima vista, questa prima parte del commento di Giovanni sembra non
essere afferente alla nostra ricerca, ma non è così. Soffermandocisi, il Cri-
sostomo rende evidente il retroterra comune alla morte della figlia di Giairo
e della guarigione della donna, due eventi storicamente disgiunti ma spiri-
tualmente uniti: il secondo infatti, rafforzando la fede vacillante del padre,
rende possibile il primo e così, in definitiva, la fede solida della donna ren-
de salda anche quella dell’uomo, oltre a suscitare quella di chi assiste al mi-
racolo della guarigione ed a quello della resurrezione. È un bell’esempio di
unità sincronica della Chiesa nella sanctificatio, che rende comprensibile la
ragione più profonda di un altro agire di Cristo, quel ritardare l’intervento
alla morte dell’amico Lazzaro che tante perplessità solleva in Marta.
Questo brano, perciò, sintetizza quel particolare percorso di preparazione
alla morte cui si accennava in precedenza, un cammino di fede che, nel ca-
_____________________________
1
GIOVANNI CRISOSTOMO, In Matthei evangelium homiliae, hom.31, 1s (PG 57, 371s;
CTP 171, 85ss, con lievi correzioni). Giovanni non commenta il passo di Matteo ma
il parallelo in Luca perché, come ha detto, ci riferisce più particolari.

536
so di Giairo e di Marta è breve e semplice perché riguarda morti destinate a
durare poco, ma che in tutti gli altri casi è invece lungo, complesso, delica-
to e difficile perché la separazione sarà molto più duratura. Dimostra che
prepararsi ad affrontare la morte, di chiunque, di un congiunto ed a fortiori
la propria, non è affare privato ma di tutta la comunità, che cresce spiritual-
mente insieme a chi inizia questo percorso, impara da lui e lo ammaestra, lo
2
accompagna nella preghiera e nell’aiuto concreto . Ecco infatti come Gio-
vanni prosegue, in modo più aderente al nostro tema:
«(Mt 9,23s): “Arrivato poi nella casa del capo e visti i flautisti e la gente in
preda all’agitazione, disse: ‘Ritiratevi, perché la fanciulla non è morta, ma
dorme’. E lo deridevano”.
Bei gesti certo dei capi della sinagoga erano quei flauti e quei cembali che
suscitavano il pianto in occasione della morte. Che fece allora Cristo? Scac-
ciò tutti gli altri e fece entrare i genitori, in modo che non si potesse dire che
l’aveva curata in altro modo; prima della resurrezione la resuscita con le sue
parole dicendo: “La fanciulla non è morta, ma dorme”. Agisce così in molte
occasioni. Come, nell’episodio del mare agitato, prima rimprovera i disce-
poli (cf. Mt 8,26), così anche in questo caso scaccia l’agitazione nell’animo
dei presenti, mostrando al tempo stesso che per lui è facile resuscitare i mor-
ti, e questo lo fece anche con Lazzaro dicendo (Gv 11,11): “Il nostro amico
Lazzaro si è addormentato”, ed insieme ammaestrando a non temere la mor-
te, perché non era morte ma era diventata sonno. Tuttavia però lo derideva-
no, ma egli non si irritò per il fatto che non si credeva in lui, in quanto poco
dopo avrebbe compiuto il prodigio, né rimproverò questa loro derisione,
perché essa, i flautisti, i cembali e tutto il resto fossero prova della morte
3
della fanciulla» .
Se non andiamo errati, di solito si suppone tacitamente che il Cristo non
abbia impiegato molto tempo per giungere alla casa di Giairo. Invece, per
quanto possa sembrare banale, non è così. È chiaro che, dal momento della
morte della figlia di Giairo a quello della venuta di Cristo deve essere inter-
corso un periodo di tempo consistente, poiché quando Giairo chiede l’aiuto
di Gesù sua figlia è ancor viva e non è possibile approntare in pochi minuti
un apparato funebre in piena regola, con flautisti, cembalisti e cantrici fu-
_____________________________
2
Ed ecco anche dimostrato che, se aver paura della morte è per natura, come afferma
Agostino, il non averla è per fede, come insegna Ambrogio, che Giovanni conosce di
certo così come Agostino sicuramente conosce questa sua omelia. La quale non nega
che la paura della morte sia per natura, allo stesso modo in cui Agostino non afferma
mai che non è giusto o non meritorio non educarsi per superarla. Come si vede, è
questione d’accenti: Agostino sottolinea la natura perché deve opporsi ai pelagiani,
Ambrogio e Giovanni la fede per edificare quella dei fratelli.
3
GIOVANNI CRISOSTOMO, In Matthei evangelium homiliae, hom.31, 2 (PG 57, 372;
CTP 171, 87).

537
nebri. Il che ci riporta alla osservazione sulla dilazione temporale dell’agire
di Cristo, confermando la ragionevolezza dello scherno di chi vede la figlia
di Giairo morta già da qualche ora. Cristo non se ne irrita perché lui stesso
l’ha voluto, con il suo agire: non approva invece l’agitazione dei presenti,
che Luca non riporta mentre Matteo sì; non l’approva, sebbene comprensi-
bile, ma neanche polemizza: per Matteo si limita a dire “Ritiratevi” ai can-
tori funebri, e (secondo Luca) “Non piangete” a parenti e amici.
Per quel che ci riguarda, l’osservazione del Crisostomo sull’agitazione
dei presenti è centrale: da un lato Giovanni nota che sottolinea la ‘miraco-
losità’ della resurrezione che sta per compiersi, dall’altro ci dice che viene
scacciata dalla parola di Cristo. Ma cosa annuncia Cristo? Che la bambina,
che tutti vedono morta da qualche tempo, in realtà dorme. È quel che la Li-
turgia dei Defunti oggi afferma nella veglia di preghiera (prevista) in casa
del defunto, veglia che, ad esempio, si può iniziare con questa orazione:
«Dio, Padre misericordioso,
tu ci doni la certezza che nei fedeli defunti | si compie il mistero del tuo Fi-
glio | morto e risorto: | per questa fede che noi professiamo | concedi al no-
stro fratello N., | che si è addormentato in Cristo, | di risvegliarsi con lui nel-
4
la gioia della resurrezione. | Per Cristo nostro Signore» ,
oppure con la seguente, ancor più esplicita e bella:
«O Dio, in te vivono i nostri morti | e per te il nostro corpo non è distrutto, |
ma trasformato in una condizione migliore; | ascolta la preghiera di questa
tua famiglia, | e fa che il nostro fratello N. | sia accolto dalle mani degli an-
geli | e condotto in paradiso con il tuo fedele patriarca Abramo, | in attesa
della resurrezione, | nel giorno del Giudizio Universale; | e se da questa vita |
rimane in lui qualche traccia di peccato, | il tuo amore misericordioso lo pu-
5
rifichi e lo perdoni. | Per Cristo nostro Signore» ,
e, dopo una appropriata Liturgia della Parola e dopo aver deposto il defunto
nel feretro, si chiude la veglia pregando così:
«Accogli, Signore, l’anima fedele di N. | che hai chiamato da questo mondo
a te, | e fa che liberato da ogni colpa | sia partecipe della beata pace | e della
luce senza tramonto, | e meriti di unirsi ai santi ed eletti | nella gloria della
6
resurrezione. | Per Cristo nostro Signore» .
_____________________________
4
RITO DELLE ESEQUIE, c.1 Preghiere nella casa del defunto, n.30, formula 2 (Città del
Vaticano 1989, 33). Si è esaminato il contributo della Liturgia al punto 3.2.
5
RITO DELLE ESEQUIE, c.1 Preghiere nella casa del defunto, n.30, formula 6 (Città del
Vaticano 1989, 35).
6
RITO DELLE ESEQUIE, c.1 Preghiere nella casa del defunto, n.38 orazione conclusiva
(Città del Vaticano 1989, 44).

538
Come si è già visto al punto 3.2., la Liturgia delle Esequie prosegue lun-
go questa falsariga in tutta la sua durata e complessità. Ma torniamo al testo
di Crisostomo e cerchiamo di trarne altri indizi utili. Bastano forse le parole
di Cristo a scacciare l’agitazione dei presenti in casa di Giairo? Certo che
no, anzi, gli attirano lo scherno degli altri, allo stesso identico modo in cui,
oggi, lo attirano sui parenti o amici credenti nella resurrezione. Sicuramen-
te impostare la ‘pastorale della morte’ sulla resurrezione della carne sareb-
be l’ottimo; però trova un ostacolo quasi insormontabile nel silenzio totale
delle omelie su quasi tutto l’insegnamento della Chiesa sull’aldilà. E non è
possibile che, in animi sconvolti dalla morte di un caro congiunto, si riesca
ad incrinare il frutto di una prassi pluriennale.
Nessuna meraviglia perciò che in quasi tutti i nostri funerali non vi siano
gioia o anche serenità ma solo tristezza, disperazione, il cieco dolore di chi
non ha speranza; perché di fatto non c’è alcuna speranza. Non ovunque, per
la verità: senza dubbio ad ognuno di noi sarà capitato di partecipare a qual-
che cerimonia meno triste di altre. Però qui non intendiamo riferici a lode-
voli ma sporadiche eccezioni, bensì a qualcosa di più sistematico, ad esem-
pio i funerali degli uomini di colore che si svolgono a Baton Rouge, Loui-
siana (USA). Sono vere e proprie processioni, composte ma allegre e molto
musicali, con bande che suonano jazz; dopo, i partecipanti condividono un
pranzo che, senza essere ridanciano, è però espressione di una comunione e
di una serenità lontana anni luce dal nostro modo di fare. E l’abitudine di
tale pranzo in comune non è caratteristica propria della comunità di colore
del sud degli USA ma appartiene a gran parte dei cristiani di quel paese.
Naturalmente le differenze culturali esistono e, almeno entro certi limiti,
è anche bene mantenerle; ma, da credenti, non possiamo ignorare quel che
Giovanni Crisostomo scrive dopo quanto si è letto:
«Tu poi non considerare solo la resurrezione ma anche che raccomandò di
non dirlo a nessuno. Attraverso tutto ciò ricevi specialmente l’insegnamento
di non essere superbo e vanaglorioso, ed inoltre impara anche che egli scac-
ciò dalla casa quelli che si abbandonavano ad espressioni di lutto e li dichia-
rò indegni di essere spettatori di un simile prodigio. Tu però non andare via
con i flautisti ma rimani con Pietro, Giovanni e Giacomo. Se infatti allora li
scacciò fuori, a maggior ragione ora. Difatti allora non era ancora evidente
che la morte fosse un sonno, mentre ora è più chiaro del sole stesso. Ma for-
se ora non ha resuscitato la tua figlioletta? Però la resusciterà senz’altro e
con maggior gloria. Quella, dopo essere risorta, è morta di nuovo, mentre la
tua, dopo che resusciterà, rimarrà immortale. Nessuno dunque si abbandoni
al lutto né intoni lamenti, né getti il discredito sul trionfo di Cristo, perché
ha vinto la morte. Perché allora ti lamenti inutilmente? L’evento della morte
è divenuto un sonno. Perché gemi e piangi? Se anche lo facessero i pagani,
sarebbero da deridere, ma quando il credente si disonora così, che giustifi-
cazione avrà? Che indulgenza ci sarà per coloro che sono tanto stolti, ben-

539
chè sia passato tanto tempo da quando si è avuta una chiara dimostrazione
della resurrezione? Ma tu, quasi sforzandoti di accrescere l’accusa, ci porti
delle donne pagane che fanno lamenti, acuendo la sofferenza ed attizzando il
fuoco, e non ascolti Paolo che dice (2Cor 6,15): “Quale accordo tra Cristo e
Beliar, o quale collaborazione tra un fedele ed un infedele?” Eppure i paga-
ni, pur non sapendo nulla della resurrezione, tuttavia trovano parole di con-
forto dicendo: ‘Sopporta coraggiosamente, perché non è possibile annullare
quanto è avvenuto né correggerlo con i lamenti’. Ma tu, che ascolti dottrine
più sapienti e più valide di quelle, non ti vergogni a disonorarti più di loro?
Non diciamo infatti ‘Sopporta coraggiosamente, perché non è possibile an-
nullare quanto è accaduto’, ma ‘Sopporta coraggiosamente, perché senz’al-
tro risorgerà; il bambino dorme, non è morto; riposa, non è finito’. Lo acco-
glierà la resurrezione, la vita eterna, l’immortalità, la sorte degli angeli. Non
ascolti il salmo che dice (Sal 116,7): “Ritorna, anima mia, alSignore che ti
ha beneficato”? Dio chiama la morte beneficio e tu gemi? E che cosa potre-
sti fare di più, se fossi nemico ed avversario del defunto? Se ci si deve la-
mentare, si deve lamentare il diavolo. Che si abbandoni al lutto lui, che ge-
ma perché noi ci incamminiamo verso i beni maggiori. Questo lamento è de-
gno della sua malvagità, non di te che sei destinato a ricevere il premio ed il
riposo. Difatti la morte è un porto tranquillo. Considera quanti sono i mali di
cui è piena la vita presente; pensa a quante volte tu stesso hai maledetto la
presente esistenza. Le cose in effetti procedono verso il peggio e fin dal
principio ti è stata assegnata una non piccola condanna. “Con dolore - dice -
partorirai figli” (Gen 3,16), e “Con il sudore del tuo volto mangerai il pane “
(Gen 3,19), e “Avrete tribolazione nel mondo “ (Gv 16,33). Invece della re-
altà di lassù non è stato detto nulla di simile, ma tutto il contrario: “Fuggiro-
no dolore, afflizione e lamento” (Is 35,10), e “Verranno dall’Oriente e
dall’Occidente e siederanno a mensa nel seno di Abramo, Isacco e Giacob-
be” (Mt 8,11) e che lassù ci sarà un talamo spirituale, lampade splendenti e
7
si passerà in cielo» .
Il tono del Crisostomo non è delicato, né il rimprovero velato. Si potreb-
be obiettare che la ‘cacciata’ di Gesù, se tale si può dire, è riportata da Mat-
teo ma non da Luca, è molto delicata (un semplice ‘Ritiratevi’) e riguarda
anche ‘piagnoni’ e flautisti, cioè persone che sono là per lavoro, quindi è
probabilmente intesa solo ad evitare che l’aver troppa gente intorno distol-
ga l’attenzione dal miracolo che sta per compiere. Ma queste sono interpre-
tazioni, lecite come quelle di Giovanni però assai meno autorevoli; a rigori
perciò conviene seguire le sue. Quanto al resto del passo, il tono può forse
sembrare un po’ duro ma è difficile contestare il contenuto: è infatti ovvio
che, se al momento della prova ci si comporta come l’incredulo, si è incre-
duli anche noi. Se non ne avevamo coscienza, se il dolore ci svela la nostra
poca fede, allora ciò torna utile alla nostra conversione. Altrimenti è inevi-
_____________________________
7
GIOVANNI CRISOSTOMO, In Matthei evangelium homiliae, hom.31, 3 (PG 57, 374;
CTP 171, 88s).

540
tabile concludere che la prova smaschera la nostra ipocrisia, ossia il nostro
‘recitare’ la parte dei credenti senza esserlo nel profondo del cuore.
Ed in verità Dio ha permesso che la morte entrasse nella creazione pro-
prio perché svolgesse questo ruolo fondamentale: infatti, di fronte a lei, in-
vincibile, a cosa serve il potere? di fronte a lei, incorruttibile, a che serve il
denaro? al suo venire, inevitabile, cosa n’è della notorietà, del piacere? Di
fronte alla morte degli altri, chi cerca queste cose vede la propria; di fronte
al corpo esangue degli altri, chi cerca queste cose vede se stesso. Se non è
ancora troppo tardi, nel vedere la serenità dell’amante di Dio che quasi in-
vidia chi ha terminato il servizio ed ora riscuote il salario, nell’ascoltare le
sue parole dalle quali indovina che quasi vorrebbe essere al posto dell’altro
per ritornare al suo Amato, forse, se non è troppo tardi, il suo cuore può
cominciare a provare quella sana inquietitudine di cui spesso parla Agosti-
no. Ma se, di fronte alla morte degli altri, vede i ‘credenti’ disperati come
lui, se le loro parole sono solo pianto e lamenti se non qualcosa di peggio,
chi cerca il denaro, il potere, la gloria, il piacere si sentirà confortato nelle
sue scelte. Come diceva Lorenzo il Magnifico,
«Quanto è bella giovinezza, che si fugge tuttavia; chi vuol esser lieto, sia:
del diman non c’è certezza».
Le nostre parole, ancor più quelle di Crisostomo, suonano esaltate e fuor
di misura a chi non si prepara alla morte e non pensa all’incontro con il suo
Dio: perché per lui non è ‘il suo Dio’ ma, al più, solo ‘dio’. Senza l’amore
per Dio, queste parole suonano false. Senza la nostalgia di Dio, queste pa-
role sono retorica. Senza il desiderio di Dio, queste parole trasudano stupi-
dità. E l’amore per Dio non si improvvisa, né nasce dal nulla, o in una notte
come il ricino di Giona. La nostalgia per Dio non si impara nel disinteresse
per le cose dello spirito o nella pigrizia interiore. Il desiderio di Dio non
spunta nell’assenza di una preghiera profonda e personale, né dall’ignoran-
za di quel che Lui ha fatto e fa continuamente per noi. Se quello della mor-
te è quasi sempre un momento di forte controtestimonanza per chi non cre-
de, è anche perché tale fallimento viene accuratamente preparato ogni volta
che non si coglie l’occasione per spiegare, non a parole ma nei fatti, che il
motivo del nostro agire in una certa maniera in questo mondo è in ciò che
attendiamo di vivere nell’aldilà. Quindi, non è solo la pastorale della morte
a dover essere ripensata ma l’intero impianto della pastorale, non cercando
‘tecniche di comunicazione’, come se annunciare il vangelo fosse lo stesso
che vendere uno shampoo, ma con il recupero sistematico ed intelligente di
una vita spirituale autentica, che consta di un’instancabile preghiera ed una
azione concreta a tutto campo (politica, sociale, economica, culturale, edu-
cativa) dalla quale traspaia netta l’incessante tensione escatologica (nella

541
novità degli obiettivi, dei mezzi, dei tempi). Purtroppo oggi omelie e pasto-
rale sono quasi esclusivamente concentrati sull’aldiquà, ridotte de facto a
meri inviti, prive come sono di vere e vitali nervature spirituali.
Perché però, a dispetto del tono accorato, non si creda che la nostra è una
polemica, e sia chiaro che invece è solo la triste fotografia di una dolorosa
scissione sempre esistita nella Chiesa, si legga come Giovanni prosegue:
«Perché dunque disonori chi è morto? Perché fai in modo che gli altri tema-
no la morte e tremino davanti ad essa? Perché fai sì che molti accusino Dio
come se avesse causato grandi mali? Anzi, perché dopo ciò chiami i poveri
e fai venire i sacerdoti perché preghino? Perché - risponde - il defunto vada
al luogo del suo riposo, perché abbia il giudice propizio. Dunque per questo
gemi e gridi? Ebbene ti contraddici e sei in lotta con te stesso, in quanto per
il fatto che egli ha raggiunto il porto, tu ti procuri una tempesta. Ma che do-
vrei fare? - replica - così è la natura. Non è colpa della natura né dell’ordine
delle cose, ma siamo noi che mettiamo tutto sottosopra, che siamo rammol-
liti, veniamo meno alla nostra nobiltà e rendiamo peggiori coloro che non
credono. Come parleremo infatti dell’immortalità con gli altri? Come per-
suaderemo i pagani, dal momento che abbiamo paura ed orrore della morte
più di loro? Molti pagani, pur non sapendo nulla dell’immortalità, quando
morirono i loro figli si incoronarono e si mostrarono vestiti di bianco per
8
procurarsi la gloria presente ; tu invece, nemmeno per quella futura smetti
di comportarti come una donna e di abbandonarti al lutto. Ma non hai eredi
né chi ti succeda nel patrimonio? E che cosa preferiresti, che tuo figlio fosse
erede dei tuoi beni o di quelli celesti? Che cosa desidereresti, che egli rice-
vesse i beni transeunti, che dopo un po’ dovrà abbandonare, oppure quelli
che sono duraturi ed immutabili? Non lo hai avuto come erede, ma lo ha a-
vuto Dio al posto tuo; non è stato coerede con i suoi fratelli, ma lo è stato
con Cristo. A chi - obietta - lasciamo le vesti, le case, i campi? A lui ancora,
ed in modo più sicuro che se vivesse; non c’è niente che lo impedisca. Se in-
fatti i barbari bruciano i beni insieme ai defunti, a maggior ragione è giusto
che tu mandi insieme al defunto i suoi beni, non perché diventino cenere co-
me quelli ma perché gli conferiscano una gloria maggiore e, se è morto pec-
catore, perché cancellino i suoi peccati; se invece è morto da giusto, perché
9
costituiscano per lui un supplemento di premio e di ricompensa .
Desideri vederlo? Vivi dunque la sua stessa vita e presto fruirai di quella
santa vista. Inoltre considera pure che, se non ascolti noi, con il tempo ne sa-
rai senz’altro convinto. Allora però non avrai alcuna ricompensa, perché il
_____________________________
8
«Plutarco, nella Consolatio ad Apollonio, 33, 118D-119A, narra il caso di Pericle
che, appresa la morte dei due figli, continuò a parlare al popolo con la corona in testa
e vestito di bianco. Nello stesso passo Plutarco parla anche di Senofonte che, mentre
stava compiendo un sacrificio, ricevuta la notizia della morte del figlio si rimise in
testa la corona e portò a termine il sacrificio» (NdT).
9
Crisostomo, ricchissimo di famiglia, fece costruire a Costantinopoli molti ‘ospitali’,
dove i poveri venivano rifocillati, vestiti, curati e alloggiati a sue spese.

542
10
conforto nascerà dalla moltitudine dei giorni . Ma se ora vuoi comportati
da filosofo, otterrai grandissimi vantaggi: ti libererai dai mali in cui ti trovi e
sarai cinto da Dio con una corona più splendida. In effetti sopportare sere-
namente una disgrazia è molto più sublime dell’elemosina e di tutto il resto.
Pensa che anche il Figlio di Dio è morto e per te, mentre tu a causa di te
stesso. Pur dicendo (Mt 26,39): “Se è possibile, passi da me questo calice”
ed essendo nell’afflizione ed in grande angoscia, tuttavia non fuggì la morte,
anzi l’affrontò in una situazione assai tragica. E non subì semplicemente la
morte, ma la morte più ignominiosa, e prima di essa la flagellazione, e pri-
ma di questa infamie, derisioni, ingiurie, per insegnarti a sopportare tutto
coraggiosamente. Ma tuttavia, dopo essere morto ed aver deposto il corpo,
lo riprese di nuovo con maggior gloria, infondendoti anche così buone spe-
ranze. Se questo non è una favola, non gemere; se pensi che questo sia de-
gno di fede, non piangere, perché se piangi come potrai persuadere il paga-
11
no della tua fede?»
Il passo ha bisogno di un solo commento: quando Giovanni invita a ‘fare
il filosofo’ non intende imitare Aristotele o Platone ma, alla lettera, ‘essere
amico (filos) della sapienza (sophia)’; e per i Padri la sapienza è la Sapien-
za, cioè il Cristo. Giovanni, in definitiva, invitando a ‘fare il filosofo’ invita
ad essere amici di Cristo Sapienza del mondo.
Poiché il Crisostomo ha fornito tutti gli elementi utili a tratteggiare l’at-
teggiamento verso la morte che dovrebbe avere chi resta (nella fede), è op-
portuno fermarci qui. Perché però l’ultimo passo non sia frainteso e soprat-
tutto perché non si creda che questa sia in fondo solo l’opinione di un unico
Padre, ci piace affiancargli qualche passo di altri Padri.
* * *
Iniziamo con un testo tratto dalle Regole diffuse di Basilio il Grande:
«Vedo queste tre diverse disposizioni d’animo di fronte all’assoluta necessi-
tà della obbedienza: o ci allontaniamo dal male per timore del castigo, e ci
troviamo allora nella disposizione d’animo propria degli schiavi, oppure,
aspirando ai guadagni della ricompensa, osserviamo i comandamenti per il
vantaggio che ne ricaviamo, e siamo così simili ai mercenari, o ancora ope-
riamo per il bene in se stesso e per amore di Colui che ci ha dato la Legge,
lieti di essere stati trovati degni di servire un Dio talmente glorioso e buono,
12
e ci troviamo così nella disposizione d’animo dei figli» .

_____________________________
10
«Nel senso che tale conforto sarà determinato non dalle considerazioni sviluppate dal
predicatore ma dal sollievo che necessariamente procura il trascorrere del tempo»
(NdT). Il testo di Giovanni non è limpido, ma questo commento pare incongruo.
11
GIOVANNI CRISOSTOMO, In Matthei evangelium homiliae, hom.31, 4 (PG 57, 374s;
CTP 171, 90ss).
12
BASILIO MAGNO, Regulae fusius tractatae, prologus, 3 (PG 31, 896; trad. it. 67).

543
Abbiamo riportato questo brano perché, come sicuramente pensa anche
il Crisostomo, non si creda che sia cosa buona ‘fare il cristiano’ per paura
dei castighi, né che sia ottimale farlo in vista dei vantaggi che comporta.
Solo chi ama Dio ha diritto di essere chiamato ‘figlio’, anche se la ricom-
pensa (il divenire per grazia come Dio è per natura) sarà la stessa per tutti e
tre (perché il padrone della vigna tratta tutti bene: ai primi dà quanto ha
promesso, agli altri quel che ritiene giusto).
A Basilio Magno fa eco Giovanni Cassiano, che nelle sue Conferenze ai
monaci scrive:
«Se uno dunque tende alla perfezione, partito dal primo gradino, quello del
timore, grado che come si è detto è proprio degli schiavi e del quale è scritto
(Lc 17,10): “Quando avrete fatto ogni cosa, dite: Siamo servi inutili”, si in-
nalzerà mediante un continuo progresso alle vie superiori della speranza.
Tale stadio non lo si paragona più a quello dello schiavo ma a quello del
mercenario. La speranza infatti attende la ricompensa. Certa di essere per-
donata e senza timore del castigo, cosciente d’altra parte delle opere buone
compiute, persegue la ricompensa promessa per il compiacimento di Dio,
tuttavia non è ancora pervenuta a quel sentimento di figlio che, confidando
nella indulgenza e la liberalità del padre, non dubita che tutto ciò che appar-
13
tiene al padre è anche suo (cf. Lc 15,31)» .
In questa prospettiva il timore (phôbos) è senza dubbio visto in maniera
negativa, o almeno come fortemente deficitario rispetto agli altri due, ma
soprattutto al terzo. Ed è certo che la paura di Dio non ci farà mai sentire
felici di incontrarLo, consci come siamo della nostre mancanze, mentre
l’attesa della ricompensa lascerà sempre un’ombra di incertezza, sempre
per lo stesso motivo. Solo l’amore per Dio, e la nostalgia di Lui unita al de-
siderio di incontralo finalmente faccia a faccia, ed il pensiero di stringersi
al suo petto, ci permetteno il lusso di dimenticarci delle mancanze, e di ac-
cogliere con gioia il momento in cui i nostri sogni più belli diventeranno
realtà. Con ciò, è chiaro, non bisogna dimenticare il dolore che la morte ar-
reca con sé, e la necessità di recare in qualche modo conforto a chi soffre. Il
nostro santo Padre Basilio ci dà qualche indicazione al riguardo:
«Non si deve ritenere che obbedisca compiutamente al precetto divino chi
emette gemiti e grida di dolore assieme a coloro che piangono per la morte

_____________________________
13
GIOVANNI CASSIANO, Conlationes, I, conl.11, 7 (SCh 54, 105s; CTP 156, 17s). Cf.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata, IV, 7, 53, 1 (SCh 463, 144; trad. nostra): «Il
primo grado della salvezza è la dottrina unita al timore (phóbos), mediante la quale ci
teniamo lontani dalla iniquità. Il secondo è la speranza, mediante la quale siamo con-
dotti a desiderare il sommo bene. Grado ultimo e perfetto è però l’amore (agape),
perché ci fa conoscenti (lett. gnostici)».

544
degli uomini. Infatti non lodo il medico che invece di recare aiuto ai malati
riempie se stesso di malattie, nè il nocchiero che, invece di porsi a capo dei
naviganti, combattere contro i venti, evitare le onde ed incoraggiare i più
timorosi, si fa prendere dal mal di mare e gira di quà e di là spaventato, as-
sieme a coloro che al contrario (di lui) sono inesperti del mare. Tale è colui
che, avvicinandosi a quelli che piangono, voglia dare aiuto non attingendo
alla propria ragione ma partecipando alla sconvenieneza delle passioni al-
trui. Ne consegue che compianga la disgrazie degli afflitti.
Invece ti conquisterai la simpatia dei sofferenti in questo modo: da una parte
non irridendo le loro disgrazie, dall’altra non mostrandoti indifferente alle
loro sofferenze. È sconveniente prendere parte più del giusto al dolore dei
sofferenti, al punto di gridare e lanciare alti lamenti assieme al malcapitato,
oppure in tutto il resto imitare ed emulare chi è reso cieco dal dolore: ad e-
sempio, appartarsi insieme a lui, come lui vestire di nero, giacere per terra,
magari anche con I capelli arruffati e trascurati. Da questi comportamenti il
dolore è maggiormente eccitato, piuttosto che ammansito. Non vedi che
l’ernia ed il mal di milza, se vi si aggiungono all’una ferite ed all’altro le
febbri, accrescono le sofferenze? Che le mani, al contrario, calmano il dolo-
re con dolci massaggi?
Anche tu, dunque, non esasperare il dolore con la tua presenza, né abbatterti
assieme a chi è già abbattuto. È senz’altro necessario che colui che voglia
sollevare chi è depresso mostri di stare più in alto di chi è caduto; chi invece
ugualmente si abbatte assieme ad un altro, ha bisogno pure lui di chi lo sol-
levi. Ma non è sconveniente angustiarsi per l’accaduto e sdegnarsi in siel-
nzio sulle disgrazie con volto penoso ed atteggiato a gravità, che mostri la
partecipazione commossa dell’animo; se poi parli, è sconveniente investire
subito con rimproveri come a saltare addosso e calpestare coloro che giac-
ciono per terra: I rimproveri sono penosi per quanti hanno l’animo sconvolto
dal dolore, e del pari non sono accette ai sofferenti ed incapaci di arrecare
conforto le parole di coloro che sono del tutto indifferenti al dolore altrui.
Al contrario, se tu consenti che essi gridino cose vane ed inutili, e gemano,
quando ormai il male ha allentato un pò la sua morsa ed è diminuito, proprio
allora convenientemente e con dolcezza è da porre mano al conforto. Perché
anche i domatori di puledri non costringono subito gli indocili dentro I freni,
nè li arrestano - altrimenti imparano ad inalberarsi ed a disarcionare I cava-
lieri - ma dapprima cedono loro e ne assecondano gli impulsi; quando poi
vedono che hanno calmato l’ardore a causa dello sforzo e della fatica, allora
li prendono già esausti e sottomessi, e con arte li rendono più docili. Sarà
vero quanto dice Salomone (Qo 7,2): “Meglio entrare in una casa di dolore
che in una casa di convito”, se usando parola accorta e dolce tu vorrai tra-
smettere la tua salute a chi è sofferente, anzichè contrarre dal male altrui una
14
sorta di cecità» .
Non vi è molto da dire su queste considerazioni, se non che agli altri si
_____________________________
14
BASILIO MAGNO, Homiliae morales, hom.5 in Iulittam martyrem, 8 (PG 31, 256ss;
CTP 147, 68s).

545
può dare solo quel che si ha: se nel nostro cuore non amiamo Dio, non po-
15
tremo consolare chi non ama Dio . Appunto per questo bisogno di autenti-
cità ci pare opportuno chiudere il capitolo con le parole di un santo, Grego-
rio Magno, che per ciò che ebbe a vivere ci aiuta a collocare tutto quel che
si è letto nella prospettiva più ampia:
«Ecco quanto, con l’aiuto del Signore, abbiamo cercato di meditare con voi,
fratelli carissimi. Nessuno però mi rimproveri se ora pongo fine ai miei di-
scorsi, perché, come tutti potete vedere, le nostre tribolazioni sono cresciute
oltre misura. Da ogni parte siamo circondati dalle spade, da ogni parte te-
miamo imminente il pericolo di morte. Alcuni tornano da noi con le mani
troncate, altri sono fatti prigionieri, di altri ci giunge notizia che sono stati
uccisi. Ormai sono costretto ad interrompere il commento, perché (Gb 10,1)
“L’anima mia sente il tedio della vita”. Nessuno mi chieda più di occuparmi
della Sacra Scrittura, perché (Gb 30,31) “un pianto funebre è la mia arpa, ed
il mio flauto una voce in lacrime”. L’occhio del cuore non riesce più a rima-
nere vigile nella meditazione dei misteri, perché (Sal 118,28): “L’anima mia
sonnecchia per la tristezza”. L’animo gusta meno la lettura sacra perché (Sal
101,5s) “dimentico di mangiare il mio pane per il lungo mio gemere”. Come
faccio a parlare dei mistici sensi della Sacra Scrittura se non mi è consentito
di vivere? E come posso preparare dolci bevande per gli altri se ogni giorno
sono costretto ad inghiottire amarezze? Che cosa ci rimane dunque da fare,
se non rendere grazie con lacrime in mezzo alle sciagure che soffriamo per
le nostre iniquità? In realtà, Colui che ci ha creati è diventato per noi anche
Padre in virtù dello Spirito di adozione che ci ha donato. E qualche volta nu-
tre i figli col pane, qualche volta li corregge con la verga, onde prepararli,
attraverso dolori, castighi e doni, alla eredità eterna. Perciò sia gloria all’On-
nipotente nostro Signore Gesù Cristo, che è Dio e vive e regna con il Padre
16
nell’unità dello Spirito santo, per i secoli dei secoli. Amen» .
Gregorio è papa in una Roma praticamente in macerie, disabitata, brucia-

_____________________________
15
Cf. PAOLINO DI NOLA, Carmina, carm.31 ad Celsum, 43-54 (PL 61, 676s; CTP 85,
426): «Astenetevi, ve ne prego, o pii genitori, dal peccare con pianti eccessivi, perché
la pietà non si tramuti in colpa. Non è pietà santa, infatti, essere in lutto per un’anima
beata, ed è amore non giusto piangere uno che gode di Dio. Non è forse chiaro quan-
to grave peccato derivi da tale amore? Siamo condannati perché fondiamo la fede
sulla falsità e perché rigettiamo le leggi di Dio con la colpa della ribellione, se non
piace a noi ciò che è gradito al Signore. Sarebbe più giusto rattristarsi per queste te-
nebre umane, che noi ci procuriamo attraverso la corruzione della nostra anima, di-
menticando l’immagine celeste della nostra prima origine, che il Padre misericordio-
so richiama al suo Regno». Ci piace ricordare che Paolino è un caro amico di Ago-
stino e suo fedele discepolo: se tra l’Ipponate e gli altri Padri vi fosse davvero quella
distanza che vuole Rebillard, come mai Paolino scrive quel che si è letto?
16
GREGORIO MAGNO, In Ezechielem homiliae, II, hom.10, 24 (CCsl 142, 397; CPT 18,
253s).

546
ta, dove non si trova quasi più nulla ed i briganti rubano quel poco che ri-
mane, uccidendo chi incontrano. In questa situazione Gregorio deve pensa-
re alla Chiesa d’Inghilterra, o della Gallia, a provvedere questo o quel mo-
nastero, a nutrire il suo gregge romano, materialmente ed anche spiritual-
mente (per questo scrive le Omelie in Ezechiele appena citate). Ma il dolo-
re, come si vede, è ben forte. Non c’è da nasconderlo. C’è da non farlo vin-
cere. C’è da ricordare, nella sofferenza, quel che si è imparato nella gioia.
Se lo si è imparato, è ovvio. Gregorio ha imparato: e rende grazie con la-
crime in mezzo alle sciagure. Come c’è riuscito? Leggendo le sue Omelie,
il suo Commento a Giobbe, si può intuirlo. Imitandolo si potrà capirlo.
Queste parole però sollevano un’altra questione, delicata quanto triste, e
che non è lecito eludere. Come reagire quando a morire non sono adulti in
grado di capire e reagire, se si vuole anche colpevoli, ma dei bambini?

15.2. La morte prematura


dei bambini

Il percorso spirituale tratteggiato si scontra spesso con eventi drammatici


che sembrano minarne la verità: tra questi, la morte di un bambino è certo
uno dei più devastanti. Nei nostri Paesi occidentali è accadimento raro, ma
nel resto del mondo è frequente. Una teologia della morte che voglia essere
davvero tale (ossia ‘contemplazione di Dio’) non può permettersi di cali-
brare le sue articolazioni su quelle di un contesto ecclesiale solo. Così come
non può permettersi di lasciare senza alcun aiuto i fratelli che devono fron-
teggiare una situazione così dura e difficile.
D’altro canto, l’antichità ed il Medioevo, quindi i Padri ed i Dottori della
Chiesa, hanno sempre avuto ben presente questa realtà: le loro parole sono
nate in tempi nei quali dieci piccoli su cento morivano per fame, malattie,
violenze e quant’altro si può immaginare. Se non ne parlano tanto quanto ci
si aspetterebbe è solo perché ai loro tempi morire, da bambini o da adulti, è
molto più facile di quanto non sia oggi, specie in Occidente, e perché allora
i bambini sono visti con occhi piuttosto diversi dai nostri. Ma questo tacere
non significa che provino meno dolore, o che lo scandalo per la fede sia po-
17
co o nullo, dove ‘scandalo’ va inteso in senso proprio, cioè ‘ostacolo’ .
Ora, nelle occasioni nelle quali si affronta questo argomento dal punto di
vista teologico, non molte neanche oggi ma per tutt’altri motivi, di solito si
insiste sul dolore di madre e padre, sull’innocenza del piccolo, la difficoltà
_____________________________
17
Cf. p.es. L. PIZZOLATO, Morir giovani. Il pensiero antico di fronte allo scandalo del-
la morte prematura, Milano 1996.

547
di capire la ragione della sua dipartita e via dicendo. Sono reazioni empati-
che condivisibili e comprensibili ma anche molto parziali. Esprimono il la-
to psicologico dell’accadimento, ma rivelano un’insufficienza quasi intolle-
rabile dal punto di vista spirituale, che per il cristiano è invece l’angolatura
più importante, se non la sola, dalla quale affrontare il tema della morte. La
psicologia del non credente non è identica a quella di chi ama Dio, perché è
senza speranza, ed anche se pretende di essere la sola ‘umana’ non è affatto
così. Ma la morte dei figli è comunque prova durissima per ogni genitore,
ed è facile immaginare quanto sarà difficile sentirsi dire ciò che pure non si
può tacere. Forse suonerà duro anche a chi ama Dio, e provocherà reazioni
forti. Non è un problema: ne capiamo bene le ragioni. E meglio ancora le
capisce il nostro buono e tenero Signore.
* * *
Il punto di partenza per ogni riflessione spiritualmente seria su un evento
così tragico lo si è già enunciato: la morte non giunge a caso, in un momen-
to qualsiasi, bensì al tempo giusto. Non viene prima, perché non interrompa
anticipatamente un percorso spirituale che avrebbe potuto farci raccogliere
altri frutti in più: Dio non intende privarci del bene che potremmo raggiun-
gere, al contrario, fa di tutto perché lo conseguiamo. Né viene dopo che tale
percorso ha raggiunto il suo acme, perché dopo la vetta vi è solo la discesa,
ossia il peggioramento: ma Dio non vuole privarci del bene raggiunto, anzi,
intende consolidarlo in modo definitivo. Un testo attribuito (a torto) ad An-
tonio abate, il primo dei monaci, a questo proposito infatti insegna:
«Come, una volta che il corpo è stato formato nel ventre, è necessario che
sia partorito, così, una volta che l’anima ha compiuto la norma stabilita da
18
Dio, è necessario che esca dal corpo» .
L’opera che contiene questo passo ha origine stoica, non monastica. Ma
il fatto che sia stata posta sotto l’egida del padre del monachesimo, Antonio
il Grande, ed inserita alla fine del sec.XVIII nella grande raccolta della Fi-
localia, ci confortano sulla correttezza dell’idea espressa in questo passo e
della sua accettabilità da parte dei cristiani. In fondo, come insegna Ambro-
19
siaster, il vero, chiunque lo dica, proviene sempre dallo Spirito santo .
Quindi ogni morte, anche quella dei piccoli, segna il culmine di un per-
corso spirituale. Se la morte dei bambini ci fa problema è perché siamo abi-
_____________________________
18
pseudo-ANTONIO ABATE, Avvisi sull’indole umana e la vita buona, c.114 (trad. it.
76s).
19
Cf. AMBROSIASTER, In primam epistulam ad Corinthiois commentarium, su 1Cor
12,3 (PL 17, 258; CTP 78, 169): «Qualsiasi cosa vera, da chiunque sia detta, è detta
dallo Spirito santo». Quest’inciso ricorre 26 volte in Tommaso d’Aquino.

548
tuati a considerare ‘percorsi spirituali’ solo quelli da adulti, ed è vero che in
gran parte dei casi i percorsi di fede sono da adulti. Ma non sono gli unici
itinerari spirituali pensabili, anzi, a rigori dovremmo sentire in modo oppo-
sto, se non altro perché è scritto (Sap 4,7-16):
«Il giusto, anche se muore prematuramente, troverà riposo.
Vecchiaia veneranda non è la longevità,
né si calcola dal numero degli anni;
ma la canizie per gli uomini sta nella sapienza
e un’età senile è una vita senza macchia.
Divenuto caro a Dio, fu amato da lui
e poiché viveva fra peccatori, fu trasferito.
Fu rapito, perché la malizia non ne mutasse i sentimenti
o l’inganno non ne traviasse l’animo,
poiché il fascino del vizio deturpa anche il bene
il turbine della passione travolge una mente semplice.
Giunto in breve alla perfezione,
ha compiuto una lunga carriera.
La sua anima fu gradita al Signore;
perciò egli lo tolse in fretta da un ambiente malvagio.
I popoli vedono senza comprendere;
non riflettono nella mente a questo fatto
che la grazia e la misericordia sono per i suoi eletti
e la protezione per i suoi santi.
Il giusto defunto condanna gli empi ancora in vita;
una giovinezza, giunta in breve alla perfezione,
condanna la lunga vecchiaia dell’ingiusto».
A queste parole fa eco il grande Basilio, in una bellissima lettera che ci
piace riportare per intero:
«A Nettario.
Non erano ancora passati due o tre giorni da quando ero stato colpito dalle
voci di questo intollerabile dolore, ed ero ancora in dubbio poiché il nunzio
di questa disgrazia non aveva saputo spiegarci chiaramente l’accaduto; e
poiché facevo voti che ciò non fosse vero, non mi arrendevo ad accettare
quelle voci, quando ricevetti uno scritto del vescovo che mi recava senza
ombra di dubbi la fatale notizia.
C’è forse bisogno di dire quanto gemetti e quante lacrime versai all’udirla?
Chi potrebbe avere un cuore tanto duro come pietra o tanto disumano da po-
ter sopportare impassibile l’accaduto o essere moderatamente scosso dal do-
lore? Erede di una casa illustre, sostegno della stirpe, speranza del padre,
rampollo di pii genitori, nutrito d’infinite preghiere, se n’è andato nel pieno
fiore dell’età, strappato alle mani paterne! C’è forse una natura così adaman-
tina che una simile sciagura non sarebbe capace di piegare e di spingere alla
compassione? Perciò non deve meravigliare se questo male ha toccato nel
profondo anche noi, che da tanto tempo siamo profondamente legati a voi e
che facciamo nostri i vostri dolori e le vostre gioie. Certo, sembrava che la

549
vostra sorte fino a questo momento vi riserbasse poche sofferenze e che nel-
la maggior parte delle occasioni le cose vi andassero secondo corrente. Ma
in un attimo, per invidia del demone, tutta la prosperità, tutta la serenità di
questa casa sono scomparse e noi siamo divenuti per tutti oggetto di tristi di-
scorsi.
Se vogliamo addolorarci e piangere sull’accaduto non ci basterà il tempo di
tutta la vita, e tutti gli uomini, piangendo con noi, non potranno calmare il
dolore con le lacrime. Se anche l’acqua dei fiumi si trasformasse in lacrime,
non basterà a sollevare un lamento adeguato all’accaduto. Ma se permettia-
mo che venga in luce il dono che Dio pose nei nostri cuori (intendo dire il
saggio ragionamento), che anche nella felicità sa porre limiti alla nostra ani-
ma e che nelle circostanze più buie sa condurre al ricordo delle cose umane
e rammentarci ciò che abbiamo visto, ciò che abbiamo udito e che la vita è
carica di simili dolori e che molti sono gli esempi delle disgrazie umane e,
soprattutto, che il comando di Dio vuole che coloro che credono in Cristo
non si addolorino piangendo sui morti nella speranza della resurrezione, e
che da parte del Giudice sono concesse grandi corone di gloria in cambio di
una grande pazienza; se noi dunque lasciamo alla ragione la possibilità di ri-
cordarci tutto questo, subito avremo una piccola consolazione al dolore. Per-
ciò io ti esorto, come un nobile atleta, ad affrontare la gravità del colpo, a
non soccombere al peso del dolore ed a non lasciarti assorbire l’anima, per-
suaso del fatto che, se anche le ragioni della provvidenza di Dio ci sfuggo-
no, tuttavia ciò che ci è apprestato da parte di Colui che è sapiente e che ci
ama deve essere accettato, anche se doloroso.
Egli infatti sa come distribuire a ciascuno ciò che gli è utile e sa per quale
ragione i limiti della vita sono diversi per ciascuno di noi. C’è infatti una ra-
gione, incomprensibile agli uomini, per cui gli uni sono strappati più presto
di quaggiù e gli altri sono lasciati più a lungo a sopportare questa vita dolo-
rosa. Così, in tutto, è meglio inchinarci alla sua bontà e non inalberarci, me-
mori di quelle parole grandi e famose che il grande atleta Giobbe pronunciò
quando vide dieci suoi figli soccombere ad una medesima tavola, nel breve
volgere di un istante (Gb 1,21 LXX): “Il Signore ha dato, il Signore ha tolto;
come parve bene al Signore, così avvenne”. Facciamo nostro questo com-
portamento mirabile. Eguale infatti è la ricompensa da parte del giudice giu-
sto per coloro che mostrarono eguale valore.
Non siamo stati privati del figlio, ma l’abbiamo reso a chi ce lo aveva pre-
stato; e la sua vita non è stata cancellata ma mutata in meglio. Non è la terra
che ha ingoiato il nostro diletto ma è il cielo che lo ha accolto. Attendiamo
un po’ e torneremo con il nostro figlio rimpianto. Se infatti egli ha percorso
la sua strada più rapidamente, tutti percorreremo la stessa strada e tutti giun-
geremo al medesimo albergo. Ci sia solo concesso di eguagliare con la virtù
la sua purezza affinchè, attraverso la semplicità della nostra condotta, pos-
20
siamo ottenere il medesimo premio dei piccoli, e raggiungere Cristo» .
_____________________________
20
BASILIO MAGNO, Epistulae, ep.5 (PG 32, 231-242; trad. it. 57ss). L’idea di temperare
il giusto dolore con la santa speranza ricorre spesso in Basilio, cf. p.es. ep.20 in mor-
tem Musonii episcopi, 1s; ep.72; ep.206 ad Elpidium episcopum; ep.227, ecc.

550
Questa lettera esprime non solo il punto che ci interessa ma lo avvolge
della tenerezza e della compassione dalla quale non va mai disgiunto; per-
ché la verità va sempre proclamata nell’amore. La sola nota che ci sembra
opportuno fare è rilevare che, se all’inizio Basilio imputa la morte del figlio
di Nettario al demonio, poi la riconduce rettamente nell’alveo della provvi-
denza; per questo è scritto (1Sam 2,6):
«Il Signore fa morire e fa vivere, scendere agli inferi e risalire»,
perché non il demonio ha potere di vita o di morte ma solo il Signore. Forse
ciò creerà più problemi che non scaricare la colpa sul diavolo, perché qual-
cuno dirà che è Dio la causa della sofferenza che nasce da questa morte, ma
non è giusto cercare di evitare un errore commettendone volutamente un al-
tro: qui, tacere la verità. Quanto all’imputare a Dio il male del mondo, Ba-
silio ha dedicato a respingere questa accusa un’intera omelia, intitolata
“Dio non è autore dei mali”, nella quale argomenta meglio di quanto non
sappiamo e possiamo fare noi qui.
Per quel riguarda il merito, teologico e spirituale, della nostra questione,
si sarà notato che Basilio non presenta il concetto fondamentale da noi in-
dicato all’inizio di questo paragrafo: non scrive infatti che il figlio di Netta-
rio è morto nel momento migliore della sua vita spirituale. Ci pare però che
affermare che ognuno ha tempi (cioè durata di vita) diversi per percorrere
l’identica strada, e che il risultato finale è il medesimo, sia semplicemente
un modo meno diretto e certo più delicato di esprimere lo stesso concetto.
Perché, se l’obiettivo è lo stesso ma i tempi di percorrenza diversi, allora vi
è chi raggiunge lo scopo prima di altri, e quindi per ognuno la morte giunge
al momento opportuno, non prima (l’obiettivo non è ancora raggiunto) né
dopo (sarebbe infliggere un surplus di sofferenza inutile o controproducen-
te). Allo stesso modo in cui, in montagna, si può raggiungere la vetta attra-
verso sentieri diversi, più o meno brevi, più o meno facili, più o meno con-
facenti alla nostra abilità o preparazione atletica.
Altrove Basilio afferma questo principio più volte ed apertis verbis:
«L’Apostolo dice (1Tess 5,18): “In ogni cosa rendete grazie”. E come è pos-
sibile - obiettano - che avvenga ciò, ovvero che l’anima oppressa dal dolore
e dalle sventure e come punta da dolorosi sensi non erompa in pianto e la-
crime, ma renda grazie come fossero cose buone, anche per quelle che in ve-
rità andrebbero detestate? E quanto poi al male che il mio nemico potrebbe
augurarmi, se ciò mi accade, come potrò rendere grazie per questo? È stato
estratto cadavere un neonato prematuro ed il dolore, più acuto delle doglie
del travaglio, strazia la madre disperata per il figlio tanto amato e desidera-
to: come potrà ella lasciare i pianti e prendere parole di ringraziamento?
Come? Se rifletterà che per il fanciullo da lei generato Dio è il Padre più ve-
ro, il tutore più prudente ed il dispensatore della vita. Perché dunque non la-

551
sciare che i suoi beni siano amministrati a suo piacimento dal Signore pru-
dente ed invece ci lamentiamo come fossimo stati privati del nostro e pian-
giamo sui morti come se avessero subito ingiustizia? Tu devi pensare que-
sto, che (Mc 5,39) “il fanciullo non è morto” bensì è stato restituito, né che
il bambino diletto ha concluso i suoi giorni ma che è partito ed ha anticipato
21
di poco quel viaggio che anche noi necessariamente dobbiamo compiere» .
Poco più avanti Basilio scrive:
«L’essere privati dell’amato figlio o dell’affettuosa moglie o delle persone
più care, a noi legate da tanto amore, nulla arreca di terribile a chi vi riflette
in anticipo, a chi ha come Signore e guida della propria vita la retta ragione
e non si comporta secondo consuetudine. Tuttavia la separazione
dall’abitudine è più che intollerabile persino per gli animali: io stesso talora
ho visto un bue versare lacrime nella mangiatoia per la morte del suo com-
pagno di giogo e di pascolo. È possibile vedere anche altri animali
fortemente attaccati alla consuetudine. Tu invece non così hai imparato, né
così sei stato istruito. Trarre inizio di amicizia da una lunga familiarità e
dalla diuturna consuetudine non è affatto sconveniente; invece piangere
sulla separazione a motivo di una lunga intimità è del tutto privo di
22
ragione» .
Basilio conclude l’esposizione della sua concezione con queste parole:
«Rifletti che Dio, il quale (cf. Gen 2,7) ci ha plasmati ed ha infuso in noi
un’anima, assegnò alla vita di ciascuno una sua propria durata e fissò in ma-
niera diversa per ognuno i limiti per l’uscita (da questa vita). Decise pertan-
to che uno rimanesse presente nella carne per un tempo maggiore, di un al-
tro invece dispose che subito fosse sciolto dai legami del corpo, secondo le
inafferrabili ragioni della sua Sapienza e Giustizia. Ora, come tra coloro che
precipitano nelle prigioni, alcuni sono rinchiusi nella oppressione del carce-
re per un tempo maggiore, altri invece trovano più rapida liberazione da tale
sventura, così anche le anime: alcune sono trattenute in questa vita per più
tempo, altre per meno, in analogia con i meriti e la dignità di ciascuno, dato
che (unde?): “Colui che ci ha creato provvide a ciascuno di noi” con sapien-
za e profondità tali che nessuna mente umana potrebbe raggiungere. Non
senti Davide che dice (Sal 141,8): “Fa uscire dal carcere la mia anima”?
Non hai ascoltato, del santo (Tobit), che fu sciolta la sua anima (cf. Tb 3,6)?
Cosa disse Simeone quando ricevette fra le braccia il Signore nostro? Quali
parole pronunciò? Non furono forse (Lc 2,29): “Ora lascia andare il tuo ser-
vo, o Signore”? Infatti per colui che si affretta verso la vita di lassù, più pe-
sante di ogni pena e di qualsiasi carcere è la dimora nel corpo.
Pertanto non chiedere che le disposizioni divine sulle anime obbediscano al
tuo personale piacimento ma, riguardo a coloro che sono stati legati per la
_____________________________
21
BASILIO MAGNO, Homiliae morales, hom.5 in Iulittam martyrem, 4 (PG 31, 245;
CTP 147, 56s).
22
BASILIO MAGNO, Homiliae morales, hom.5 in Iulittam martyrem, 4 (PG 31, 248;
CTP 147, 59).

552
vita (i.e. i coniugi), qualora siano separati dalla morte pensa che essi sono
simili a viandanti che camminano per un’unica via e che sono uniti dalla
consuetudine di un’ininterrotta familiarità reciproca. Costoro, dopo aver in-
trapreso di percorrere un cammino comune, necessariamente devono essere
separati uno dall’altro qualora in seguito lo trovino biforcato ma non trascu-
rano i propositi ormai durati nella consuetudine, anzi, memori della causa
che inizialmente li aveva spinti, ciascuno si affretta verso il proprio fine.
Come dunque per quelli (i.e. i viandanti) altro era lo scopo del viaggio ma
intervenne tra di loro una familiarità cagionata dall’abitudine a camminare
insieme, così anche per coloro che sono uniti nelle nozze o da qualche altra
comunione di vita è stato fissato evidentemente un termine alla vita di cia-
scuno: necessariamente tale termine precedentemente stabilito separò e
23
sciolse coloro che erano legati tra loro» .
I passi non hanno bisogno di commento. Ci sembra solo opportuno riba-
dire due punti, per altro già chiari. Il primo è che nessuno potrà mai porsi in
questo atteggiamento verso Dio se non lo sente, non lo ama come il ‘suo
Signore’, il suo Amato’, se, in definitiva, non ha imparato sulla sua propria
pelle e vita che davvero Egli è buono e misericordioso e che tutto quel che
fa o permette lo fa o lo permette per il nostro bene. Il secondo punto è che
il valore di quel che dice Basilio non è in una questione di ‘ragionamento’
ma di esperienza: o si ha un’esperienza di Dio come quella descritta sopra,
ed allora non è impossibile capire la fondatezza del discorso di Basilio, op-
pure non la si ha, ed allora le sue parole suonano stupide e crudeli, e la di-
sperazione avrà buon gioco. Comprendiamo benissimo l’impressione di du-
rezza che questa alternativa susciterà in qualcuno, ma di fronte a questioni
così radicali come la morte il punto non è essere spietati o caritatevoli, ben-
sì avere ben chiaro che amare Dio non è lo stesso che non amarlo; che, di
conseguenza, il mondo in cui vive chi ama Dio non è lo stesso in cui vive
chi non lo ama; che, in definitiva, vivere da cristiano non è lo stesso che vi-
vere da non cristiano. In chi invece si dicesse credente, l’eventuale scanda-
lo suscitato dalle parole di Basilio nasce dalla perdita della percezione della
radicalità di una vera e sincera vita cristiana, da una sempre più diffusa e
condivisa tendenza ad ‘annacquare’ l’autentica vita spirituale, dal continuo
‘scolorire’ ed appannare la profonda alterità tra l’essere cristiano e l’essere
pagano. Per il nostro discorso, dal voler ignorare che, se per il cristiano la
morte è un gioioso e desiderato ritorno a Colui che ama, per il pagano è un
eterno, spaventoso e disperato esilio. Se non lo svanire nel nulla.
_____________________________
23
BASILIO MAGNO, Homiliae morales, hom.5 in Iulittam martyrem, 5 (PG 31, 248ss;
CTP 147, 60s, ritoccata). Basilio echeggia il famoso gioco di parole platonico tra
sôma, ‘corpo’, e sêma, ‘carcere’: l’anima è rinchiusa nel corpo (sôma) come in un
carcere (sêma). Ogni esegesi dualista o gnostica è però da escludere, perché Basilio
crede nella resurrezione della carne.

553
* * *
A questo punto ci pare opportuno indicare alcune delle imprecisioni che,
pur nella miglior buona fede, non di rado vengono tirate fuori in situazioni
delicate come la morte di un bambino:
A “Dio l’ha voluto con sé per farne un angelo”.
Come vedremo con agio nei prossimi capitoli, non vi è dubbio che diventare
uguali agli angeli sia un modo per descrivere la beatitudine, seppur un po’
impreciso. Ma dire che questa è la ragione per cui Dio ha fatto morire un bambino
è a dir poco leggero. Chi fa questa affermazione o altre simili confonde il fine, che
è anche diventare uguali agli angeli ma non solo né in primis, con il mezzo, che è
morire tout court, non morire giovani o morire da bambini.
Gli inconvenienti teologici e spirituali cui va incontro questa affermazione sono
seri: si suggerisce implicitamente che i bambini diventino angeli, noi no (perché
loro ‘sono puri’, noi no); si suggerisce implicitamente che diventare adulti è spiri-
tualmente meno ‘apprezzato’ da Dio che restare bambini, e così via. E queste sono
24
affermazioni come minimo pericolose, se non eretiche .
B “Era troppo buono per restare tra noi”.
Questa affermazione suggerisce che il bambino si sia ‘meritato’ di morire, ovvia-
mente per andare in paradiso. Ora, affermare che il piccolo sia beato non fa pro-
blema; che sia morto per suo ‘merito’ invece sì. E non perché, essendo piccolo,
non possa avere meriti o demeriti (nota, questa, che meriterebbe attenzione), bensì
perché la ragione ultima della morte di ognuno di noi sta nella imperscrutabile
prescienza di Dio, che solo conosce il momento migliore per il singolo.
Come si legge in Giobbe, spesso il giusto soffre molto pur essendo giusto; con af-
fermazioni come questa invece si elimina la possibilità di capire la vita spirituale
25
come ‘guerra dei pensieri’: ma cosa potrà mai essere, allora?
_____________________________
24
Vi è differenza tra questa affermazione e quella del 1254 di Innocenzo IV al legato a
Costantinopoli Eudes de Châteauroux (DS n.839; trad. nostra): «Le anime dei bam-
bini dopo il lavacro del battesimo e anche quelle degli adulti che muoiono in carità,
che non sono tenute ad alcuna soddisfazione né hanno alcun peccato, trasvolano im-
mediatamente in patria». Se ci si limita ad affermare che i bambini morti dopo il bat-
tesimo sono in patria non si fa altro che ripetere quella che è almeno sententia com-
munis se non certa. Introdurre l’equiparazione agli angeli è dottrina che condividia-
mo ma non studiata ed alla quale il Magistero non riconosce alcuna qualifica teologi-
ca. Se si afferma che ‘Dio l’ha voluto con sé per farne un angelo’, o che ‘era troppo
buono per restare con noi’, si incorre invece nelle ambiguità sopra evidenziate.
25
Cf. p.es. quanto scrive GAUDENZIO DI BRESCIA, Tractatus, tr.Ad Benivolum, 13 (Ho-
ste, 234; CTP 129, 23s): «Per natura il corpo umano, da quando ricevette la sentenza
di mortalità (Gen 3,19): “Tu sei terra ed in terra andrai”, soggiace a diverse infermità
senza distinzione di persone. Benchè noi confessiamo salutarmente che siamo pecca-
tori, non per questo però il merito morale delle persone si deve valutare in base alla
robustezza ed alla debolezza della carne, dal momento che spesso gli idolatri godono
della salute fisica e dei beni di questo mondo mentre quelli che sono attaccati al culto
di Dio sono scossi dal tormento della malattia e delle disgrazie».

554
C “Ti guarderà dal cielo e verrà a trovarti”.
Che il bambino, beato, guardi i suoi cari dal cielo con sguardo benevolo non è af-
fatto affermazione problematica, anzi: i santi addirittura operano miracoli. Tutta-
via pensare di consolare chi soffre dando per scontata la beatitudine del piccolo
(cosa alla quale non fatichiamo a credere, lo ribadiamo ancora) significa oscurare,
se non nascondere, la possibile utilità spirituale di questa sciagura: la meditazione
sulla imprevedibilità della morte, la bontà della provvidenza divina, il ritorno al
Padre che attende tutti coloro che lo amano e così via.
Il centro di un lutto, anche di uno così aspro, non è il defunto, che muore nel mo-
mento migliore per lui, ma noi, che dobbiamo imparare da questa situazione a ge-
stire bene il tempo che ci resta.
D “I disegni di Dio sono imperscrutabili”
Indubbiamente è vero che “le vie di Dio non sono le nostre vie” (cf. Is 55,8), ma
da qui a dire che non si può capire la ragione della morte prematura del piccolo ce
ne corre. Senza ripetere ciò che si è detto sopra, basti notare che affermazioni si-
mili ignorano del tutto (e quindi non insegnano) che l’unica ragione dell’agire di
Dio è il Suo amore per noi; che tutto quel che fa o permette che accada è per il no-
stro bene; che noi non sappiamo quel che è giusto e quel che è buono, e che tale è
26
soltanto ciò che Dio vuole .
Il danno spirituale arrecato da queste affermazioni è molto profondo: nessuno può
amare un Dio che agisce in modo imprevedibile se non addirittura ‘cattivo’.

_____________________________
26
Cf. GAUDENZIO DI BRESCIA, Tractatus, tr.Ad Benivolum, 31-35 (Hoste, 218ss; CTP
129, 27s): «Che gli uomini religiosi siano a volte contristati da dolori fisici o da varie
tribolazioni trova tre spiegazioni: o è correzione o è purificazione o è prova. Se Dio
vede che una persona aderente alla fede apostolica pecca frequentemente, colpisce il
peccatore che Egli ama in modo tale da correggerlo, da spingerlo con l’ammonimen-
to a quella conversione che trascura, perché non avvenga che diventi reo della Ge-
henna inestinguibile per essersi sottratto ad una punizione sopportabile. Anche quello
che conduce una vita casta e retta, ma che tuttavia è stato macchiato da alcuni cattivi
pensieri, il Signore ora lo castiga con il flagello di tribolazioni e malattie, perché il
fuoco futuro non trovi in lui traccia di sozzure; anzi, egli potrà passare con più sicu-
rezza al riposo eterno dopo che è stato purificato da ogni macchia per mezzo di pic-
coli colpi di durata molto breve. Per questo ognuno di noi, istruito dalla parola del
profeta, a ragione dice che Dio è misericordioso (Sal 117,18): “Il Signore mi ha puni-
to con un castigo e non mi ha consegnato alla morte”. Quanto poi ai giusti e agli in-
nocenti, come il santo Giobbe di cui sta scritto che era stato irreprensibile e veramen-
te dedito al culto di Dio, per metterli alla prova Dio onnipotente permette che siano
tentati con la rovina del patrimonio o la perdita dei propri cari o la stretta delle perse-
cuzioni o il tormento dei dolori fisici. Dio mette alla prova tali persone non per se
stesso, in quanto conosce tutto prima che accada, ma per gli angeli e gli uomini, per-
ché li riconoscano buoni dalle loro azioni dato che non possono conoscere quelle co-
scienze che conosce solo Dio “che scruta i cuori e le reni” (Sal 7,10). Egli conosce i
segreti del cuore, come attesta la parola del profeta. Forse per questo il beato Aposto-
lo, trovatosi nelle tentazioni di vari tormenti e persecuzioni, diceva (1Cor 4,6): “Sia-
mo diventati spettacolo per questo mondo, per gli angeli e per gli uomini”».

555
E “Bisogna pregare tanto”
Chi oserà mai negare l’utilità perenne della preghiera? “Pregate incessantemente”,
dice Paolo (Ef 6,18). Ma si dovrà ammettere che pregare nel dolore non è facile,
specie se, come in questi casi, consiste in una litigata furiosa con chi ti ha privato
del tuo caro figlio. Se la preghiera abituale, come spesso accade, non è un dialogo
affettuoso con l’amato ma la bruta ripetizione di formulette imparate a memoria,
magari con la mente che vaga altrove, ‘pregare tanto’ non serve a nulla.
Si rivela così il rischio più serio nascosto dietro affermazioni come questa o altre
simili: dare una idea sbagliata della preghiera e rischiare di far apparire il dialogo
con Dio inutile (“tanto il mio bambino non torna indietro”) o sterile (“tanto non
mi ascolta”). E chi potrà mai amare una persona che non risponde neanche a chi
soffre così tanto?
Poiché questo non vuole essere un elenco di errori in buona fede ma solo
mostrare come intenzioni lodevoli possano avere facilmente esiti infelici, ci
fermiamo. Lo ripetiamo, queste come molte altre sono affermazioni uma-
namente comprensibili ed anche teologicamente accettabili da qualche pun-
to di vista. In situazioni così delicate però non basta ‘aver ragione’ in qual-
che modo o misura, né dire cose più o meno condivisibili: per il cristiano è
fondamentale tenere presente le linee di fondo di una vera e seria vita spiri-
tuale, nutrita dall’amore per Dio. Se ci si muove in questa direzione, errori
ed ambiguità scompariranno da sole. Ma l’esperienza insegna che, in casi
come questi, se la parola è d’argento il silenzio è d’oro: un abbraccio forte
e caldo farà molto più bene di un’intera orazione in puro stile attico.
Dunque la morte prematura di un bambino, come ogni altra morte del re-
sto, è soprattutto un promemoria per i vivi: vedendo la morte altrui è inevi-
tabile pensare alla propria. Ora, per quanto sicuri si sia della bontà del pro-
prio Amato, per quanto sereni si possa essere, quasi contenti di poterlo fi-
nalmente incontrare, vi è comunque un leggero velo, perché è momento che
ognuno vivrà totalmente da solo. Quando si muore, si muore soli, cantava
Fabrizio de Andrè. È vero che è sensazione profondamente diversa dalla
paura di chi non ama Dio. Che somiglia più alla trepidazione che precede il
primo appuntamento di due innamorati che non all’oscura angoscia di chi,
come dice Paolo, non ha speranza. Ma vi è comunque un’esitazione, perché
in fondo è la ‘prima volta’ che incontriamo faccia a faccia chi abbiamo a-
mato, sentito, servito, cercato in così tanti modi ed occasioni, per così tanti
anni, in situazioni così diverse...
Il punto, in verità, è un altro. Il primo appuntamento tra due innamorati
non arriva all’improvviso ma dopo altri contatti che sfociano nel primo in-
contro a due. Come dice il nome stesso, ‘appuntamento’, ora e luogo sono
scelti e fissati da entrambi, di comune accordo. La sola cosa a non essere
una sorpresa è incontrarsi. Ora, se l’immagine dell’appuntamento è adatta a
descrivere il momento della morte personale, se la serie di incontri che lo

556
precedono non è che un’immagine per indicare il percorso spirituale in sta-
tu viae, allora è ovvio chiedersi: ma davvero la morte arriva all’improvviso,
come un ospite inatteso, o peggio come un ladro di notte? No.

15.3. “Apparecchio alla morte”, ossia


l’avvicinarsi del momento finale

Al punto 12.4. ci siamo soffermati a lungo sul De praeparatione ad mor-


tem di Erasmo da Rotterdam, un’opera che, come si disse, è tutta centrata
sull’idea che a morire ci si può, anzi ci si deve preparare, perché la morte è
la sola cosa certa della vita. Là si è avuto modo di vedere come questa idea
giunga al sec.XVI direttamente dal sec.XII, e prima ancora dai Padri della
Chiesa. Questo filo conduttore forte ed importante, che unisce la Chiesa dei
primi secoli a quella rinascimentale, raggiunge il culmine nel sec.XVII, con
Alfonso Maria de Liguori (1696-1787), già incontrato al punto 12.5., dove
si rinviò a questo momento l’analisi del suo Apparecchio alla morte.
Cosa significa ‘apparecchio’? È sinonimo di ‘preparazione’, ed indica le
attività che, a giudizio di Alfonso, sono indispensabili per non pensare alla
morte con paura. E siccome consiglia di intraprenderle subito, si può defi-
nire l’apparecchio di Alfonso come la ‘preparazione remota’ alla mia mor-
te personale. Ecco come la descrive sant’Alfonso:
«È certo che tutti abbiamo da morire, ma è incerto il quando. “Niente è più
certo della morte - dice l’idiota - e niente è più incerto dell’ora della morte”.
Fratello mio, già sta determinato l’anno, il mese, il giorno, l’ora e il momen-
to nel quale io e voi abbiam da lasciar questa terra ed entrare nell’eternità;
ma questo tempo a noi è ignoto. Il Signore, acciocché noi ci troviamo sem-
pre apparecchiati, ora ci dice che la morte verrà come un ladro di notte e di
nascosto (1Tess 5,2): “Come il ladro nella notte, così verrà”; ora ci dice che
stiamo vigilanti, perché quando meno ce l’immaginiamo, verrà Egli a giudi-
carci (Mt 24,42): “Nell’ora che non credete, il Figlio dell’Uomo verrà”. Di-
ce S. Gregorio (Magno) che Dio per nostro bene ci nasconde l’ora della
morte, acciocché ci troviamo sempre apparecchiati: “Siamo incerti della
morte perché siamo trovati sempre pronti alla morte”. Giacché dunque la
morte in ogni tempo ed in ogni luogo può toglierci la vita, se vogliamo mo-
rir bene e salvarci, bisogna (dice S. Bernardo [di Clairvaux]) che in ogni
tempo ed in ogni luogo la stiamo aspettando: “La morte ti aspetta ovunque;
27
tu aspettala ovunque”» .
_____________________________
27
ALFONSO M. DE LIGUORI, Apparecchio alla morte, V, 1 (Roma 1955, 60). Alfonso
cita GREGORIO MAGNO, Moralia in Iob, XII, 43 (CCsl 143A, 654): «Incerti sumus
quando moriamur ut ad mortem semper parati inveniamur»; PSEUDO-BERNARDO DI
(segue)

557
28
Per sant’Alfonso (ma come si vede non è opinione solo sua ), il momen-
to della mia morte mi è ignoto perché sia sempre pronto alla sua venuta. Si
tratta certo di una ‘preparazione remota’, ma non è questo ciò che del no-
stro primo ‘appuntamento a due’ con Dio interessa qui. Lo si trova invece
nelle parole che Dio dice al ricco latifondista (Lc 12,20):
«Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quel
che hai preparato di chi sarà?”»
Come sappiamo, quest’uomo arricchito da un raccolto molto abbondante
fa progetti senza tenere in considerazione l’eventualità di morire. E cosa fa
Dio? Lo avverte: stasera morirai. Gli dà la possibilità di pentirsi; non con
un preavviso molto comodo ma neanche proprio all’ultimo minuto. Non ci
è dato sapere che uso ne fece il ricco, né quanto tempo sia passato tra l’av-
viso e la sua morte: che però sia morto quella notte non si può dubitare: è
scritto. La prima questione non interessa, sulla seconda torneremo nel pros-
simo punto. Quel che importa è che la Scrittura non parla di una morte im-
provvisa; non perché, ignorando il momento in cui verrà, allora la si atten-
de sempre, come dice Bernardo (o Ugo), ma perché, prima del suo effettivo
accadere, Dio ci avverte che stiamo per morire. E siccome è la Scrittura a
dircelo, a fianco della ‘preparazione remota’ alla mia morte personale vi è
il factum dogmaticum dell’esistenza di una ‘preparazione prossima’.
Poiché questa è lettura piuttosto originale dell’avvento della morte per-
sonale, è bene sondarne gli appoggi. Cominciamo da quelli biblici.
Nella Scrittura è detto del profeta Mosè (Dt 32,48-52):
______________________________
CLAIRVAUX, Meditationes piissimae de cognitione humanae conditionis, c.3, n.10
(PL 184, 491), in realtà (forse) di Ugo di san Vittore. Ma è idea condivisa da tutti, a
prescindere dai rinvii patristici o biblici, e dall’essere credenti o no.
28
Cf. p.es. GIOVANNI CLIMACO, Scala paradisi, or.6, 59 (PG 88, 795; CTP 80, 135s):
«Alcuni si pongono la questione, ma senza poterla risolvere, del perché Dio ci abbia
nascosta la sua previsione circa la nostra morte, il cui ricordo è tanto benefico, non
accorgendosi che Dio così volle operare con mirabile provvidenza la nostra salvezza.
Infatti nessuno correrebbe al battesimo ed alla vita monastica se conoscesse molto
tempo rpima l’ora della sua morte. Si passerebbero tutti i giorni venendo meno alla
osservanza della legge di Dio, e non si verrebbe al battesimo ed alla conversione che
nel momento della morte. Né venirmi a dire, tu che sei compunto, quel che ha ab-
baiato un tale che ti garantisce la misericordia di Dio - perché egli si prefigge di di-
stoglierti dalla compunzione e da quel timore che scaccia la paura - a meno che non
ti veda trascinato nella profonda disperazione». Non sappiamo se il ‘cane che abbaia’
sia personaggio fittizio o reale: in quest’ultimo caso, potrebbe riferirsi ad Isacco di
Ninive o ad uno dei (pochi) altri difensori dell’apocatastasi. A noi pare più prudente
pensare invece che Giovanni pensi a uno dei tanti ignoti difensori di una certa ‘mise-
ricordia a buon mercato’, i quali non mancano neanche ai nostri giorni.

558
«In quello stesso giorno il Signore disse a Mosè: “Sali su questo monte degli
Abarim, sul monte Nebo, che è nel paese di Moab, di fronte a Gerico, e mira
il paese di Canaan, che io dò in possesso agli Israeliti. Tu morirai sul monte
sul quale stai per salire e sarai riunito ai tuoi antenati, come Aronne tuo fra-
tello è morto sul monte Or ed è stato riunito ai suoi antenati, perché siete
stati infedeli verso di me in mezzo agli Israeliti alle acque di Mèriba di Ka-
des nel deserto di Sin, perché non avete manifestato la mia santità. Tu vedrai
il paese davanti a te, ma là, nel paese che io sto per dare agli Israeliti, tu non
entrerai”».
Mosè è il più grande tra gli uomini dopo Giovanni il Battista, e certo non
ha bisogno di convertirsi al modo del ricco latifondista: eppure anche lui è
avvisato della morte incipiente, morte dalla quale lo separa solo l’ascesa al
monte e la vista di Canaan, cioè un tempo non breve ma neanche lungo. Lo
stesso accade a Saul, e stavolta ad avvisare non è Dio ma il profeta Samue-
le, evocato dalla maga di Endor (1Sam 28,19):
«Il Signore abbandonerà Israele insieme con te nelle mani dei Filistei. Do-
mani tu e i tuoi figli sarete con me; il Signore consegnerà anche l’accampa-
mento d’Israele in mano ai Filistei».
È bene ricordare che Saul è l’unico uomo al quale Dio assegni uno spiri-
to malvagio per tormentarlo (1Sam 16,14: “Lo spirito del Signore si era riti-
rato da Saul ed egli veniva atterrito da uno spirito cattivo, da parte del Si-
gnore”); in tutta la Scrittura nessuno è punito in modo così severo. Questo è
un ‘avviso’ che non può portare nessuna conversione, meglio, a nessun mu-
29
tamento nel giudizio di Dio . A prescindere dal fatto che, ancora, il preav-
viso di morte sia decisamente breve.
Talvolta questo ‘avviso’ non riguarda la persona a cui è rivolto ma altri;
è il caso, per esempio, della moglie del profeta Ezechiele (Ez 24,15-18):
«Mi fu rivolta questa parola del Signore: “Figlio dell’uomo ecco, io ti tolgo
all’improvviso colei che è la delizia dei tuoi occhi: ma tu non fare il lamen-
to, non piangere, non versare una lacrima. Sospira in silenzio e non fare il
lutto dei morti: avvolgiti il capo con il turbante, mettiti i sandali ai piedi,
non ti velare fino alla bocca, non mangiare il pane del lutto”. La mattina a-
vevo parlato al popolo e la sera mia moglie morì. La mattina dopo feci come
mi era stato comandato».
Come non commuoversi di fronte ad un amore per Dio così forte da reg-
gere anche di fronte all’annuncio della morte dell’amata moglie, della com-
pagna di tutta la vita, di colei che è stata al suo fianco nella rovina dell’esi-
_____________________________
29
A rigori l’inciso ‘domani sarete con me’ si potrebbe leggere come quello di Cristo al
buon ladrone: domani tu, Saul, sarai con me in paradiso. Ma, dato l’insieme della vi-
cenda di Saul, ci pare lectio difficilior. Sine praeiudicio melioris sententiae, ovvio.

559
lio, condividendo l’amore per il suo, il loro Signore? Da parte sua, Dio sa
quel che c’è fra Ezechiele e la sua compagna: perché lo dice apertis verbis
e perché, in fondo, se due persone si amano è solo perché Dio, che è Amo-
30
re, ha posto amore, cioè Se stesso, tra di loro . Quindi, questo ‘avviso’ non
esige alcuna conversione: è solo un modo per rendere appena appena più
sopportabile un dolore che, di per sé, è invece e semplicemente intollerabi-
le. È in definitiva una forma di rispetto per la fedeltà di Ezechiele.
Vi è poi un altro genere di ‘avviso’, quello che prova Davide (1Re 2,1):
«Sentendo avvicinarsi il giorno della sua morte, Davide fece queste racco-
mandazioni al figlio Salomone...».
Non sappiamo quanto tempo intercorse tra questo ‘sentire’ e la morte di
Davide, ma è ragionevole supporre, dal contesto, che non fu lungo. Stesso
‘sentire’ lo prova anche Paolo: ce lo confida in un passo bellissimo (2Tim
4,6ss) che suscita da sempre ammirazione ed anche una certa invidia in chi
lo legge con cuore pieno d’amore per Dio:
«Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il
momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho termi-
nato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giu-
stizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non so-
lo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifesta-
31
zione» .
Magari potessimo anche noi dire con sincerità lo stesso! Non che questo
significhi dimenticarsi delle mancanze; Paolo altrove scrive (1Cor 4,4):
«Anche se non sono consapevole di colpa alcuna, non per questo sono giu-
stificato. Il mio giudice è il Signore!»

_____________________________
30
Questo supponendo una vicenda analoga a quella descritta in Genesi 24, nel quale il
servo di Abramo, dovendo cercare una moglie per Isacco, lascia che sia Dio ad indi-
cargliela. In questo caso vale certamente quel che si è detto, perché è Dio a formare
la coppia. Ma se, come avviene nella maggior parte dei casi, siamo noi a sceglierci
moglie o marito, allora non si può esser sicuri che questo accada: perché non si sa se
sia stato Dio ad unirci. Come provato non solo dai tanti divorzi ma dalle ancor più
numerose convivenze abitudinarie, senza tenerezza e spesso anche senza rispetto: cf.
p.es. i tradimenti, le violenze domestiche ecc.
31
Riportiamo questo passo perché è solo in questa occasione che Paolo scrive queste
parole, mentre è lui stesso ad informarci altrove che di simili frangenti ne ha vissuti
più di uno, e dagli Atti si sa che spesso ne era uscito in modo letteralmente miracolo-
so. Se ora invece Paolo ritiene di scrivere che il suo tempo è ormai giunto alla fine, è
ragionevole supporre che sappia che in questa occasione non ci sarà il solito ‘miraco-
lo’ a tirarlo fuori dai guai, e che perciò stavolta morirà davvero. Come fu.

560
Questa apparente dicotomia spirituale altro non è, in termini biblici, che
quella trepidazione di cui parlavamo alla fine del punto precedente. Ma su
questa torneremo tra poco. Per chiudere la nostra carrellata in modo decisi-
vo riportiamo invece quel che sentì e disse ai discepoli l’uomo-Dio e nostro
Signore Gesù Cristo, nella sera in cui stavano per arrestarlo (Gv 13,1):
«Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di pas-
sare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo,
li amò sino alla fine».
Questo saper ‘giunta la sua ora’ è in realtà sapere che la morte verrà do-
po appena un giorno. Ora, se questa consapevolezza l’ebbe nostro Signore,
si può considerare sconveniente che l’abbia anche un altro uomo? Natural-
mente il fatto che nostro Signore l’abbia avuta non implica che allora anche
tutti gli uomini debbano averla, forse neanche che tutti possano averla. Ma
non affermare il ‘tutti’ è cosa ben diversa da affermare il ‘nessuno’: esiste
anche il ‘qualcuno’. E la Scrittura ce ne ha dato degli esempi.
Ancora. Nei passi biblici riportati l’avviso di morte non si riferisce mai a
quella che potremmo chiamare ‘preparazione remota’ a tale evento, ma ad
una più vicina, a distanza di uno, due giorni. È una ‘preparazione prossima’
che certamente è fruttuosa solo se c’è stata quella remota, se non altro per-
ché è solo così che si riesce a capire che si è di fronte ad un vero e proprio
‘avviso’ e non a qualcos’altro, magari una semplice paura. A questo propo-
sito deve essere chiaro che qui non ci stiamo riferendo al genere di ‘avviso’
che hanno per esempio i malati terminali, o i tanti nostri fratelli martirizzati
in odio alla fede, nel passato come nel presente. Certamente la situazione di
queste persone permette loro di sapere che la morte è davvero vicina, e che
non sarà dolce o indolore. Ma ciò che vivono, sentono queste persone non è
un ‘avviso’, bensì la previsione ragionevole della inevitabile conclusione di
una malattia o di una serie di vicende il cui esito è scontato. Non ci permet-
tiamo assolutamente di contestare o anche solo di dubitare della fruttuosità
spirituale di questa percezione-previsione: in fin dei conti il risultato, cioè il
sentirsi pronti alla morte prossima, è lo stesso. Ma quel che si è letto nella
Scrittura è qualcosa di diverso. Sono come le istruzioni, gli ultimi consigli
che l’allenatore dà ai giocatori prima della fine della partita. Sono l’ultimo
e più importante scambio in statu viae tra noi e Dio.
Ancora. Riguardo alla ‘fruttosità’ è importante rilevare che tale ‘avviso’
non è dato solo a personaggi come Mosè o Ezechiele, uomini la cui fedeltà
a Dio non è in discussione, perché lo ricevono anche Saul e l’ignoto lati-
fondista. Questi non sono fedeli servitori di nostro Signore, né malati come
Davide o in mezzo a vicende dall’esito scontato come Paolo a Roma. Nien-
te permette poi di supporre che il ricco abbia seguito una ‘preparazione re-
mota’ come la descrive Alfonso, né che quella ‘prossima’ data a Saul sia

561
stata di una qualche altra utilità a prescindere dalla conversione: è anzi più
che ragionevole supporre il contrario. Quindi, in questi casi, il fine in vista
del quale nostro Signore opera è diverso dalla conversione.
Ancora. All’opposto di Saul e del latifondista, uno dei modelli di fedeltà
a Dio, Davide, riceve solo un generico ‘sentire’; se qualcuno volesse spie-
gare questa differenza ricordandone le non certo edificanti vicende familia-
ri, potrà fare lo stesso a proposito di Paolo? Eppure anche lui non sembra
andare oltre un analogo ‘sentire’ prossima la sua morte. Quindi non si può
supporre che Dio doni un ‘avviso’ a chi vuole che si converta ed un più ge-
nerico ‘sentire’ a chi non ne ha bisogno: Mosè ebbe un vero e proprio ‘av-
viso’, e però (Dt 34,10) parlava faccia a faccia con Dio già in statu viae.
Ancora. Se tale ‘avviso’ è talvolta legato alla conversione, come nel caso
del latifondista, certo non lo è per Mosè o Saul: il primo non ne ha bisogno,
il secondo non ne trarrebbe giovamento. Nel caso di Ezechiele, poi, parlare
di conversione non ha senso, come non lo riguardo a Davide, Paolo e so-
prattutto nostro Signore Gesù Cristo. Anche qui, il fine in vista del quale
Dio dona tale ‘avviso’ non può essere la conversione.
In definitiva, il dono di tale ‘avviso’ non sembra dipendere dal compor-
tamento di chi lo riceve, anzi, almeno in un caso sappiamo che addirittura
riguarda un’altra persona, la moglie di Ezechiele, mai menzionata altrove.
Né è vincolato ad una qualche forma generale: ora è un sogno, come per il
ricco, ora è una visione, come nel caso di Mosè ed Ezechiele, ora solo un
‘sentire’, come per Davide e Paolo, addirittura un forma di magia nera per
Saul. Questa varietà delle modalità di ‘avviso’ non sembra neanche legata
al raggiungimento di un certo scopo, che sia la conversione o la semplice
‘preparazione prossima’ alla morte personale. Così, dal dato biblico emerge
con certezza soltanto che in alcuni casi il Signore dona ad alcune persone
un ‘avviso’ di morte prossima, ma non ci è dato sapere a chi e perché.
Abbiamo interrogato i nostri santi Padri nella speranza che potessero aiu-
tarci a capire meglio questo dato. Purtroppo nei pochi commenti dedicati ai
passi biblici individuati i Padri si soffermano quasi solo sulla necessità del-
la conversione o, al più, sulla ‘preparazione remota’ alla morte. Nelle molte
opere citate nei capitoli dedicati allo studio della paura della morte il risul-
tato è identico: nessuna menzione di un ‘avviso’. È chiaro che per i nostri
Padri ciò che conta è gestire bene la vita ordinaria, convinti che il momento
finale seguirà l’orientamento del tempo precedente. Il loro silenzio suggeri-
sce di non dare troppo peso ad un elemento sfuggente, pur nella sua reale
attestazione. E poiché un analogo silenzio dobbiamo registrare anche tra i
medievali, i rinascimentali e (ma questo meraviglia meno) i contemporanei,
non ci resta altro che fermare qui la ricerca dei dati e tentare alcune osser-
vazioni personali.

562
* * *
È bello sapere che nostro Signore non ti prende alle spalle, di sorpresa, in
un momento così importante e delicato. Non che la cosa stupisca poi tanto,
sia chiaro. Come si può credere che Colui che tante volte si è preso cura di
noi, non solo nelle grandi cose (casa, lavoro, famiglia) ma anche in quelle
accessorie (ad esempio, donarci un periodo di ferie pur essendo senza dena-
ro) o decisamente secondarie (ad esempio, farci trovare parcheggio in ore e
luoghi impossibili), come è possibile credere, si diceva, che chi fa questo
per anni ed anni poi si comporti diversamente, per di più a riguardo di una
questione così fondamentale come la decisione del nostro destino definiti-
vo? Solo chi non conosce l’amore, la premura, la cura e l’attenzione per i
dettagli di nostro Signore può pensarlo. Quindi, anche se è assolutamente
vero che nessuno di noi sa quando e come morirà, anche se questa ignoran-
za che si prolunga per grandissima parte della nostra vita è certo provviden-
ziale per le ragioni che Gregorio, Bernardo ed Alfonso ci hanno mostrato,
tuttavia la Scrittura ed il buon senso, oltre che una certa confidenza con il
modus operandi di nostro Signore, insegnano che, a chi lo ama, Dio dà la
consapevolezza di essere in procinto di partire.
Dal punto di vista della guerra spirituale però dobbiamo sempre ricorda-
re che, come ad ogni azione del nemico ne corrisponde una contraria e più
forte dello Spirito, così ad ogni azione di Dio ne corrisponde una contraria
ma meno forte del nostro nemico. Qui, alla percezione di essere ormai mol-
to vicini all’incontro tanto sognato con il nostro amato Signore il nemico
oppone altre percezioni. Per comodità le dividiamo in due generi. Il primo
fa leva sulla (vera) percezione delle nostre debolezze e mancanze: presen-
tandocele tutte insieme ed esaltandole, il nemico cerca di far sorgere in noi
paura, incertezza, sfiducia nell’amore di Dio per noi. Come se Lui ci amas-
se per quel che facciamo e non per quel che siamo, cioè suoi figli! Questo
genere di tentazione è molto forte nell’immediato ma ha il fiato corto: anni
ed anni di onorato servizio hanno insegnato che Dio guarda al cuore, che i
risultati sono solo opera sua e che il Suo amore per noi non dipende né è
legato ad essi. Il secondo genere fa leva sulla (vera) mancanza di precisione
nell’avviso: quando Mosè sale sul monte non sa se morirà subito dopo aver
visto Canaan o se potrà ammirarla con calma, se dovrà arrivare fino in cima
o no, e, se sì, là potrà sedersi o sdraiare, magari avvolgersi serenamente in
un mantello ed addormentarsi... Questo genere di tentazione è più sottile, e
la sua forza sta proprio nell’esperienza spirituale del lottatore, la quale gli
ha insegnato a diffidare delle percezioni oscure e confuse. Ma anche questa
svanisce presto: chi ama Dio ha imparato non solo a diffidare delle ispira-
zioni vaghe ma anche a conoscere la Sua voce, il Suo tocco, la Sua vici-
nanza; e quando è certo che chi gli sta parlando in questo istante è davvero

563
il suo Signore, che gli importa se non sa questo o quello? E si può anche
immaginare, al di là della Scrittura, con quale trepidazione tutti e due, Dio
e l’uomo, l’Amato e l’amante, attendano questo incontro; con quali parole
preparino l’un l’altro e se stessi al momento in cui finalmente potranno go-
dersi senza limiti o barriere... Per chi ama Dio, insomma, più che un ‘avvi-
so di morte’ sembra una ‘promessa di vita’...
Questa è certo la situazione più bella, più dolce ma anche più compren-
sibile tra quelle riportate nella Scrittura. Però ve ne sono anche altre, meno
lineari. Ad esempio, la Scrittura insegna che tale ‘avviso’ è talvolta donato
anche a chi si muove in direzione opposta al servizio di Dio: Saul, il lati-
fondista... E se con ogni probabilità (ma a rigori non è scritto) quest’ultimo
è ‘avvisato’ perché si converta, ciò non è possibile nel caso di Saul, sia per
il tono ed il contenuto di tale ‘avviso’ sia per il modo in cui lo riceve (evo-
ca lo spirito di Samuele per mezzo della maga di Endor, atto negromantico
che lui stesso ha vietato in Israele). Ma quale altro può essere il senso del
dare un simile ‘avviso’ a chi va di male in peggio, come direbbe Ignazio di
Loyola? Se non è per fissare un ‘appuntamento’ con l’Amato, a che serve
comunicare la Sua prossima venuta? Confessiamo di non saper rispondere,
e di non avere indizi per cercare in una direzione invece che in un’altra. Ma
che tra Dio e chi sceglie di servire il nemico vi possa essere un dialogo che
non prevede la conversione la Scrittura ce lo prova anche per altri versi, per
di più in contesti di gran lunga più radicali. È scritto infatti (Gb 1,6-12):
«Un giorno, i figli di Dio andarono a presentarsi davanti al Signore e anche
satana andò in mezzo a loro. Il Signore chiese a satana: “Da dove vieni?”
Satana rispose al Signore: “Da un giro sulla terra, che ho percorsa”. Il Si-
gnore disse a satana: “Hai posto attenzione al mio servo Giobbe? Nessuno è
come lui sulla terra: uomo integro e retto, teme Dio ed è alieno dal male”.
Satana rispose al Signore e disse: “Forse che Giobbe teme Dio per nulla?
Non hai forse messo una siepe intorno a lui e alla sua casa e a tutto quanto è
suo? Tu hai benedetto il lavoro delle sue mani e il suo bestiame abbonda di
terra. Ma stendi un poco la mano e tocca quanto ha e vedrai come ti benedi-
rà in faccia!” Il Signore disse a satana: “Ecco, quanto possiede è in tuo pote-
re, ma non stender la mano su di lui”. Satana si allontanò dal Signore»,
e con tutta evidenza quello tra Dio e satana è un dialogo tranquillo, con di-
vergenze che non eccedono il livello normale tra conoscenti se non tra ami-
ci. Ciò è importante per noi perché sappiamo cosa fa poi il nemico a Giob-
be: gli uccide figli, figlie, servitori, pastori, gli sottrae tutte le riccchezze. E
come reagisce nostro Signore? Così (Gb 2,1-7):
«Quando un giorno i figli di Dio andarono a presentarsi al Signore, anche
satana andò in mezzo a loro a presentarsi al Signore. Il Signore disse a sata-
na: “Da dove vieni?” Satana rispose al Signore: “Da un giro sulla terra che
ho percorsa”. Il Signore disse a satana: “Hai posto attenzione al mio servo

564
Giobbe? Nessuno è come lui sulla terra: uomo integro e retto, teme Dio ed è
alieno dal male. Egli è ancor saldo nella sua integrità; tu mi hai spinto con-
tro di lui, senza ragione, per rovinarlo”. Satana rispose al Signore: “Pelle per
pelle; tutto quanto ha, l’uomo è pronto a darlo per la sua vita. Ma stendi un
poco la mano e toccalo nell’osso e nella carne e vedrai come ti benedirà in
faccia!” Il Signore disse a satana: “Eccolo nelle tue mani! Soltanto risparmia
la sua vita”. Satana si allontanò dal Signore e colpì Giobbe con una piaga
maligna, dalla pianta dei piedi alla cima del capo».
Anche questo secondo dialogo è sereno: si può vedere nell’inciso ‘senza
ragione’ l’indizio di una certa irritazione di Dio nei confronti del nemico,
ma non si può negare che la prosecuzione vada in tutt’altra direzione. È poi
chiaro che il nemico non cambia idea riguardo alla fedeltà di Giobbe, quin-
di non può essere la sua conversione lo scopo di questi dialoghi. Poiché no-
stro Signore, alla fine, ricompensa Giobbe dandogli il doppio di quanto ha
perso (ma i figli che riceve nel capitolo 42 non sono quelli morti nel capito-
lo 1), e dato che nella sua onniscenza già sapeva che tutto sarebbe finito co-
sì, si può supporre che Dio dialoghi con il nemico perché la sua ostinazione
dia ad altri la possibilità di convertirsi, o di purificare la propria fede. In ef-
fetti è quel che accade a Giobbe, come ci dice lui stesso (Gb 42,2-6):
«Comprendo che puoi tutto e che nessuna cosa è impossibile per te.
Chi è colui che, senza aver scienza, può oscurare il tuo consiglio?
Ho esposto dunque senza discernimento cose troppo superiori a me, che io
non capisco. “Ascoltami e io parlerò, io t’interrogherò e tu istruiscimi”.
Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono.
Perciò mi ricredo e ne provo pentimento sopra polvere e cenere»,
ma non ce la sentiamo di dire che questa è sempre la ragione per la quale il
Signore permette al nemico di suggerirci il peccato, perché è la Scrittura ci
riporta il caso di Saul e della sua fine. E del latifondista non è scritto che si
sia convertito: la Scrittura dice solo che è stato ‘avvisato’.
Comunque, a parte il caso particolare del demonio, è certo che nostro Si-
gnore ‘avvisa’ anche chi va di male in peggio, anche senza la possibilità di
conversione. Ora, dato che Dio non fa niente a caso né inutilmente, si deve
supporre che questo ‘avviso’ ha una sua ragione spirituale, tanto importante
che la sua esistenza viene inclusa nella Scrittura. Però non in modo da riu-
scire a conoscerla. In definitiva, sappiamo solo che questo ‘avviso’ esiste, e
poco o niente di più. Ma, e questo vale in generale, non solo in questo caso
particolare, non serve sapere tutto: qui ed ora serve solo sapere ciò che de-
vo o non devo fare qui ed ora, più in generale serve sapere solo quel che
giova alla nostra salvezza, ed entrambi i momenti suppongono una corretta
idea di Dio e delle Sue intenzioni. Il fatto che nostro Signore ‘avvisi’ della
vicinanza della morte non solo i buoni ma anche i cattivi, che lo faccia con
o senza la speranza che questi mutino atteggiamento, prova poi al di là di

565
ogni dubbio che davvero il Signore è buono. Come è scritto (Sal 99,5):
«Buono è il Signore, eterna la sua misericordia, la sua fedeltà per ogni gene-
razione».
Dal lato della guerra spirituale, è facile capire come reagisce a tale ‘avvi-
so’ chi va di male in peggio: in due soli modi, paura e rabbia. La paura na-
sce dal non amare Dio, la rabbia nasce dall’opporsi a Dio.
La più diffusa è la paura, che psicologicamente ha diverse radici: sentirsi
non amati o non adeguati, insicurezza e altre. A rigori, da queste radici non
nasce la stessa paura, poiché essere insicuri non è come sentirsi non amati.
Ma la pianta è la stessa, cioè cercare il rimedio là dove non è, in cose che
con la morte si perdono: denaro, potere, piacere, fama. Perse quelle si perde
ciò che ci rende sicuri. Si resta indifesi, senza niente; e siccome per queste
persone avere è essere, non aver nulla è non esser nulla. Per questo talvolta
provano anche rabbia, ma solo per la perdita di ciò che amano. Le persone
che invece provano rabbia al pensiero di morire sono meno numerose. Il lo-
ro sentire nasce dal vedere sconfitto colui hanno scelto di servire, il princi-
pe di questo mondo, dall’odio per Chi lo ha vinto e dal sapere che vivranno
in questo status spirituale per sempre.
La paura vuole finire; la rabbia si autoalimenta. La paura teme di perdere
qualcosa, alla rabbia non interessa nulla. Chi ha paura è stato ingannato sul
valore delle cose in cui ha investito la sua vita: la sua paura, in definitiva, è
una delusione affettiva. Chi ha rabbia si è ingannato su chi fosse il padrone
migliore: la sua rabbia, in definitiva, è rivolta contro se stesso. In entrambi i
casi, la presa di coscienza più drammatica è constatare che il loro padrone
non solo li abbandona ma gioisce delle loro sofferenze. Con ciò però siamo
entrati in escatologia, oltre i limiti del nostro lavoro. Fermiamoci qui.
Vediamo adesso l’ultimo caso ‘speciale’, l’idea che ci si possa convertire
in finis vitae. È davvero così?

15.4. Conversione in punto di morte:


ultima spiaggia o pia illusione?

Riferendosi ai peccatori, Giobbe dice (Gb 11,20c):


«Unica loro speranza è l’ultimo respiro».
riferito ai peccatori. anta Kowalska sperimentò così questa realtà:
«Assisto spesso anime di agonizzanti ed ottengo loro la fiducia nella divina
misericordia e imploro da Dio la magnanimità della grazia divina che vince
sempre. La misericordia di Dio talvolta raggiunge il peccatore all’ultimo

566
momento, in modo singolare e misterioso. All’esterno a noi sembra che tutto
sia perduto, ma non è così; l’anima illuminata dal raggio di una vigorosa ul-
tima grazia divina si rivolge a Dio all’ultimo momento con un tale impeto di
amore che, in un attimo, ottiene da Dio i perdono delle colpe e delle pene.
All’esterno però non ci dà alcun segno né di pentimento né di contrizione,
poiché essi (sic) non reagiscono più alle cose esterne. Oh! quanto imper-
scrutabile è la divina misericordia! Ma, orrore! ci sono anche delle anime
che respingono volontariamente e consapevolmente tale grazia e la disprez-
zano. Sia pure durante l’agonia, Iddio misericordioso dà all’anma un lucido
momento interiore in cui, se l’anima vuole, ha la possibilità di tornare a Dio.
Però talvolta nelle anime c’è una ostinazione così grande che scelgono con-
sapevolmente l’inferno, rendendo vane tutte le preghiere che le altre anime
32
innalzano per loro a Dio e gli stessi sforzi di Dio» .
Dunque sì, esiste la possibilità di salvarsi all’ultimo istante di vita. Ma si
ha anche la possibilità di perdersi definitivamente. Santa Kowalska pone le
due possibilità sullo stesso piano, ma dovremmo chiederci perché, in fin di
vita, si rifiuti l’ultima spiaggia. Noi siamo nessuno di fronte alla profondità
della sua esperienza spirituale, però ci pare una illusione credere che, dopo
una vita passata ad amare denaro, potere, gloria e piacere secondo le pro-
prie possibilità ed occasioni, giunti alla fine della corsa si possa gettare tutti
questi trascorsi alle ortiche e tutto d’un colpo ci si innamori di quel Dio che
per decine e decine di anni si è ignorato, bestemmiato, deriso. Di chi pensa
di poter risolvere la questione della dannazione o beatitudine eterne come
con un calcio di rigore all’ultimo minuto scrive Isacco di Ninive:
«Bene ha detto Dio, per mezzo del profeta, svergognando questi tali (Is
58,2): “Mi cercano ogni giorno e bramano di conoscere le mie vie, come un
popolo che pratichi la giustizia e non abbia abbandonato il diritto del suo
Dio. Mi chiedono diritto e giustizia”. A questi tali appartiene lo stolto che
nemmeno con il pensiero si accosta a Dio ma, quando turbini di tribolazioni
lo avvolgono, allora leva le mani verso di Lui con confidenza. È giusto che
questo tale sia scottato molte volte per potere in ogni modo diventare sag-
gio. Infatti, non ha opere tali da poter confidear in Dio, anzi, per le sue opere
cattive e la negligenza nei suoi doveri è degno di castigo; ma è sopportato
dalla Misericordia divina.
Non inganni se stesso, costui, non dimentichi l’ordine della sua condotta
precedente e non dica ‘Io confido in Dio’. Questo tale dovrà essere castigato
perché, non avendo le opere della fede, non allunghi i suoi piedi nell’ozio e
non : ‘Io credo che Dio mi darà il nutrimento’, come se si fosse affaticato
nel lavoro di Dio. Oppure, uno cammina e cade in un pozzo per la propia
stoltezza: allora, sebbene prima non gli sia mai venuto in cuore il pensiero
di Dio, dice: ‘Io confido in Dio, Egli mi libererà’.

_____________________________
32
KOWALSKA, Diario, op. cit., n.1698 (trad. it. 882s).

567
Non ingannarti, o stolto! Prima vengono le fatiche per amore di Dio ed il
33
sudore per il suo servizio, poi la confidenza in Dio» .
Per capire l’importanza di questo passo bisogna ricordare che Isacco è
talmente convinto della indescrivibile ed incontenibile bontà di Dio da in-
segnare l’apocatastasi, ossia la fine dell’inferno e la conversione al bene del
nemico e di chi lo ha scelto come signore. È per questa convinzione che
abbiamo scelto le parole di Isacco e non quelle di altri Padri. E la loro du-
rezza dovrebbe far riflettere chi ignora che è scritto (Sir 5,5ss):
«Non esser troppo sicuro del perdono tanto da aggiungere peccato a peccato.
Non dire: “La sua misericordia è grande; mi perdonerà i molti peccati”,
perché presso di Lui ci sono misericordia e ira, il suo sdegno si riverserà sui
peccatori. Non aspettare a convertirti al Signore e non rimandare di giorno
in giorno, poiché improvvisa scoppierà l’ira del Signore, ed al tempo del ca-
stigo sarai annientato».
Con questo, né Isacco né noi intendiamo dire che la conversione in arti-
culo mortis non esista; pentirsi all’ultimo istante è una possibilità reale: per
questo l’ultimo istante è ‘l’ultimo’. Ma è possibilità ben poco probabile per
chi non si è mai curato di Dio; scrive lo pseudo-Antonio abate:
«L’uomo malvagio ama la cupidigia e disprezza la giustizia; non pensa alla
incertezza, instabilità e breve durata della vita, né riflette sulla inesorabilità
della morte che nessun donativo potrebbe evitare. E se un vecchio è turpe ed
34
insensato, come un legno putrido è inetto per qualsiasi uso» .
Affermare l’opposto va contro una dottrina spirituale centrale per i Padri,
per la quale le passioni contro natura vanno recise quando ancora sono pic-
cole e tenere, altrimenti, quando saranno grandi e forti, sarà impossibile li-
berarsene. Come ci insegna Doroteo di Gaza:
«Un grande Anziano stava in ricreazione con i suoi discepoli in un posto do-
ve c’erano diversi cipressi, piccoli e grandi. L’Anziano disse ad uno dei suoi
discepoli: “Strappa questo cipressetto”. Era piccolissimo, ed il fratello lo
strappò subito con una sola mano. Poi l’Anziano gliene mostrò un altro più
grande del primo e gli disse: “Strappa anche questo”: quello lo scosse con
tutte e due le mani e lo strappò. Di nuovo l’Anziano gliene indicò uno più
grande ancora, e lui riuscì a strappare anche quello, ma con maggior fatica.
Gliene mostrò un altro ancora più grande, e dopo averlo molto scosso e fati-
cato molto e sudato, sollevò anche quello. Poi l’Anziano gliene indicò uno
ancora più grande: e lui faticò e sudò parecchio, ma non riuscì a smuoverlo.
Come l’Anziano vide che non ce la faceva, ordinò ad un altro fratello di al-
_____________________________
33
ISACCO DI NINIVE, De perfectione religiosa, I, hom.7 (CTP 44, 140s).
34
pseudo-ANTONIO ABATE, Avvisi sull’indole umana e la vita buona, c.103 (trad. it.
75). Sull’origine e la fruibilità di questa opera ci si è soffermati al punto 15.2.

568
zarsi e di aiutarlo, e così riuscirono, tra tutti e due, a strapparlo. Allora l’An-
ziano disse ai fratelli: “Ecco, fratelli, così sono le passioni: fin quando sono
piccole, se vogliamo, riusciamo a reciderle tranquillamente. Ma se le lascia-
mo stare perché sono piccole, s’induriscono, e quanto più si induriscono, di
tanto maggior fatica abbiamo bisogno (per reciderle). Se poi continuano ad
ingrossarsi contro di noi, neanche con fatica riusciamo più a tagliarle da noi
stessi, se non otteniamo aiuto da qualche santo che, dopo Dio, si prenda cura
di noi”. Vedete quanta forza hanno gli insegnamenti dei santi Anziani. An-
che il Profeta ci dà lo stesso insegnamento su questo argomento, nel Salmo
dove dice (Sal 136,8s LXX): “Misera figlia di Babilonia, beato chi ti restitui-
rà il fio di tutto quello che ci hai reso; beato chi prenderà i tuoi piccoli e li
35
sbatterà contro la roccia”» .
Questo avviene perché l’abitudine diventa come una seconda natura, e la
36
consuetudine a peccare rende l’uomo quasi diabolico . Il che significa che
_____________________________
35
DOROTEO DI GAZA, Praecepta spiritualia, 115 (SCh 92, 360ss; CTP 21, 169s).
36
Ci si potrebbero opporre diversi testi nei quali i Padri sembrano insegnare il contra-
rio, p.es. CIPRIANO DI CARTAGINE, Ad Demetrianum, 25 (CCsl 3A, 50s; CTP 175,
106): «Nessun pentimento è tardivo per chi resta ancora in questo mondo. L’accesso
alla bontà di Dio è spalancato ed è facile entrare per coloro che cercano e compren-
dono la verità. Anche se sei nell’imminenza della fine e del tramonto della vita terre-
na, invoca il perdono per i tuoi peccati e con la confessione e riconoscendo la fede
supplica l’unico e vero Dio; è concesso il perdono a chi confessa Dio ed a chi crede è
concessa dalla pietà divina l’indulgenza della salvezza e si passa all’immortalità non
appena si muore». Poco prima Cipriano addirittura dice (23; CCsl 3A, 49; CTP 175,
104): «Almeno tardi cercate Dio, perché già da tempo Dio, ammonendo tramite il
profeta (Am 5,6), esorta e dice: “Cercate Dio e vostra anima vivrà”. Almeno tardi co-
noscete Dio, perché anche Cristo che viene insegna questo dicendo (Gv 17,3): “Que-
sta è la vita eterna, che riconoscano che tu sei il solo e vero Dio e colui che hai man-
dato, Gesù Cristo”». Cipriano sembra contraddire quel che affermiamo, ma non è co-
sì. Egli infatti non dice ‘è facile entrare per coloro che peccano convintamente fino
ad un istante prima di morire’ ma “per coloro che cercano e comprendono la verità”:
e questo è l’atteggiamento di un credente, che pecca, anche molto, ma contro la pro-
pria volontà, a causa di quella divisione interiore drammaticamente espressa da Paolo
in Rm 7. Cipriano non dice: ‘aspettate l’ultimo istante per cercare Dio’ ma “Almeno
tardi cercate Dio”, perché ci si può convertire anche in tarda età, nell’ultimo istante
di vita, ma solo se prima si cerca Dio. Analoghe osservazioni si potrebbero fare per
LATTANZIO, Divinae institutiones, VII, 10, 8 (CSEL 19, 615), nel quale si legge sì
che il momento della morte è l’ultima possibilità di pentimento, ma non che questo è
possibile senza difficoltà a chi ha vissuto sempre contra Deum. Per questo, in un te-
sto famoso ma spesso equivocato, giustamente ORIGENE, In psalmos homiliae, su Sal
36, hom.3, 10 (Prinzivalli, 150s) scrive: «In questo versetto (Sal 36, 19a LXX: “E nel
tempo cattivo non saranno confusi”) si può rivelare anche un senso più alto mediante
una diversa interpretazione. Il Signore e Salvatore dice (Gv 9,4): “Verrà la notte
quando nessuno può operare”. Si riferisce a quel tempo che verrà dopo questo secolo,
tempo in cui ciascuno riceverà la punizione per le proprie cattiverie. Dice dunque che
(segue)

569
finire all’inferno è una possibilità reale per l’uomo e che per qualcuno (e
non il demonio) si è già realizzata. Conferma questa affermazione una vi-
sione di santa Gertrud la Grande, la mistica più importante del sec.XII:
«Colei a cui venivano rivelate queste cose (i.e. Gertrud) disse al Signore:
“O Dio di consolazione, dato che sei vicino a quest’anima (l’anima di una
consorella di Gertrud morta da poco) e la colmi di tanta serena gioia, per-
ché la tristezza del suo volto tradisce una sofferenza interiore?” Il Signore le
rispose: “Mostrandomi a lei io le faccio gustare solo le delizie della mia
Umanità e ciò non può soddisfarla appieno, ma solo ricompensarla dell’a-
more che negli ultimi momenti ha nostrato per le sofferenze della mia Pas-
sione. Quando sarà stata purificata della negligenze della vita trascorsa, allo-
ra sarà pienamente saziata dalla presenza della mia Divinità”. Essa obiettò:
“Come mai le negligenze della sua vita passata non sono state sufficiente-
mente compensate dalla devozione delle sue ultime ore, se la Scrittura dice
che l’uomo sarà giudicato secondo lo stato in cui si troverà al finir della vi-
ta? (cf. Sir 11,28: “Prima della fine non chiamare nessuno beato; un uomo si
conosce veramente alla fine”)” Il Signore rispose: “Quando l’uomo è giunto
al termine della sua vita e le forze fisiche lo abbandonano, in un certo senso
è già tutto finito per lui, perché non può più agire che con la volontà. Se la
mia gratuita misericordia gli dà allora la volontà buona ed il buon desiderio,
egli ne ha un certo reale vantaggio, ma non può a tal punto cancellare le sue
negligenze passate da potersi trovare nelle condizioni di chi ha usato della
sua volontà per correggersi quando ancora era nella pienezza della salute e
delle forze”. Essa insistette: “La tua tenera misericordia non potrebbe forse
ora cancellare le negligenze di quest’anima (quella della consorella defunta)
a cui avevi dato fin dalla infanzia un cuore buono ed affettuose disposizioni
verso tutti i suoi simili?” Il Signore rispose: “Io ricompenserò sovrabbon-
dantemente la tenerezza del suo cuore e la generosità della sua anima; ma la
mia giustizia esige che le minime macchie di negligenza siano cancellate”.
Il Signore poi accarezzò teneramente la giovinetta ed aggiunse: “E la mia
sposa aderisce volentieri alle esigenze della mia giustizia, perché sa che, una
volta purificata, la gloria della mia Divinità saprà deliziosamente ricompen-
37
sarla”. L’anima manifestò il suo gioioso assenso a queste parole» .
È vero che santa Gertrud non menziona l’inferno ma solo il purificatorio,
ma non è difficile dedurre da questa visione quale sarà lo status post mor-
tem di chi, in vita, si è dedicato solo alla ricerca di ciò quel che è contrario
______________________________
allora ci sarà la morte, quando nessuno può operare ma ciascuno si nutre delle opere
che ha compiuto stando qui. Dal momento che sarà notte, nessuno opera in quel tem-
po cattivo. Dato che i peccatori sono tribolati, ci sarà senza dubbio anche la fame per
quanti non hanno raccolto i frutti delle loro opere buone». Come si vede, per Origene
la morte è il tempo della retribuzione, non dello stravolgimento della vita anteriore.
Poiché non è il caso di accumulare testi nella stessa direzione, fermiamoci qui.
37
GERTRUD LA GRANDE, Legatus divinae pietatis, V, 5, 3ss (SCh 331, 112ss; trad. it. II,
284s).

570
a Dio: come potrà, in fin di vita, mostrare ‘amore per la Passione’ di quel
Signore che prima ha tanto deriso? Non fuggirà invece spiritualmente dalla
visione dell’onnipotenza di quel Dio di cui si è fatto beffe in vita? Di que-
ste persone parla anche santa Kowalska. E cos’è tale fuga se non la autoe-
sclusione dalla beatitudine, e quindi l’essenza stessa della dannazione?
A questo riguardo ci piace riportare una tradizione diffusa nel monache-
simo ortodosso e riguardante l’istante della morte; ecco il racconto:
«Una monaca lottava contro la lussuria e, non sopportando la battaglia, uscì
dal monastero e, giunta in una locanda, vi si stabilì per molto tempo, eserci-
tando la prostituzione e ricavando non poco denaro da tale dissolutezza; era
infatti fiorente d’aspetto e molto bella. Dio, che ama gli uomini e non vuole
la morte del peccatore ma la sua conversione e la sua vita (cf. Ez 33,11), e
desidera con ineffabile bontà e compassione che tutti si salvino (1Tm 2,4),
che si risollevino dalla caduta e che giungano alla conoscenza della verità, le
ispirò un buon pensiero e l’immagine di penosi castighi, e le evocò il ricor-
do della iniziale posizione di onore e rispettabilità dalla quale era decaduta.
Costei considerò che coloro che si allontanano da una grande ricchezza ed
entrano in contrasto con Dio non solo sono esclusi miserevolmente e con
ignominia dai beni promessi e dalla comunanza con gli angeli, ma si conse-
gnano anche al castigo eterno. Allora, dopo aver rigettato tutte le ricchezze
accumulate ed aver lasciato i molti beni, con passo risoluto e veloce corse
verso il suo monastero, come un’agnella che fugga dalle fauci di lupi invisi-
bili. Giunta alla porta del monastero, cadde all’improvviso e rese l’anima.
Non lontano da lì c’era un monaco recluso, e quella notte vide in sogno che
i santi angeli ed i diavoli, perfidi e maligni, giunti fuori dal monastero là do-
ve giaceva la salma, lottavano tra loro per l’anima di lei; ed i santi angeli af-
fermavano: “È nostra, perché si è convertita”, mentre gli spiriti funesti af-
fermavano. “Fino ad ora è noi che ha servito, visto che non ha fatto in tempo
ad entrare nel monastero ed a convertirsi”. Mentre discutevano fra loro su
questo argomento giunse un altro angelo di Dio, e disse: “Perché litigate? Il
nostro buon Dio, il Creatore ed il Signore di tutti, accolse la conversione dal
momento stesso in cui costei pensò di convertirsi”. Udite queste parole, con
pianti e gemiti i demoni si allontanarono umiliati.
Al risveglio, il monaco uscì dalla cella e si diresse senza indugio verso il
monastero. Trovò la salma della sorella morta che giaceva fuori della porta
e, dopo aver bussato e chiesto della igumena, le raccontò per filo e per se-
gno la visione. Le monache ascoltarono, stupefatte. Quindi, dopo aver porta-
to dentro il corpo ed avergli reso adeguati onori funebri, lo deposero nel ci-
mitero. E quindi ringraziarono Dio, misericordioso e compassionevole, che
accetta anche solo la buona intenzione della conversione. A lui gloria nei
38
secoli. Amen» .
_____________________________
38
Neon Miterikon, 12 (ms gr. EBE 513, 198r-199r; ed. B. CAVARRA, La porta stretta.
Ascetismo cristiano e santitù femminile in una antologia tardobizantina [Neon Mite-
rikon, ms. gr. EBE 513], Praglia 2007, 257s).

571
Anche qui si afferma che ci si può convertire in fin di vita. L’ex-monaca
prostituta pentita però non sa di esserlo: la sua conversione non è suggerita
dall’incombere della morte, come si lascia credere che avvenga nelle ‘con-
versioni’ in articulo mortis, ma dal sano pentimento per i peccati commes-
39
si . Perciò, da questo racconto si ha che la conversione in articulo mortis è
certo possibile, ma è tale solo a parte Dei, poiché solo Lui conosce l’ora in
cui moriremo. Dal nostro punto di vista di uomini, la conversione o non è
mai in articulo mortis, perché sarebbe frutto di paura e non d’amore, o lo è
sempre, dato che ogni istante di vita potrebbe essere l’ultimo.
Ma il motivo principale per cui si è letto questo brano è l’immagine della
lotta tra demoni ed angeli per l’anima. Le armi di entrambi sono le azioni e
le intenzioni del defunto, che nel racconto è passivo ma, come vedremo, ha
invece un ruolo molto attivo. Questi elementi compaiono anche in un’opera
monastica latina della prima metà del sec.XIII, più diffusa dell’ortodossa:
«Colpito da una malattia mortale, (un usuraio assai ricco, che aveva in pe-
gno i tesori di molte chiese,) chiamò a sé un parente, abate benedettino, e gli
disse che non sarebbe riuscito a mettere ordine nei propri affari e che non
poteva restituire le usure. Se costui avesse reso conto della sua anima a Dio
e gli avesse promesso l’assoluzione dai suoi peccati, gli avrebbe lasciato i
suoi beni, mobili ed immobili, perché ne disponesse a suo piacere. L’abate
vide che l’uomo era davvero contrito, che si pentiva veramente. Andò dun-
que a consultare il vescovo, che gli suggerì di rispondere all’anima dell’usu-
raio davanti a Dio e di prendere la sua fortuna, a condizione di restituire il
tesoro alla chiesa cattedrale. L’abate tornò in tutta fretta presso il morente e
gli riferì. Il malato disse: “Fa attaccare dei carretti, prendi tutto quel che pos-
seggo ed alla fine porta via anche me”. Aveva due casse d’oro e d’argento,
una infinità di gioielli, libri ed ornamenti vari presi in pegno, molto grano,
vino e biancheria da letto, e greggi immense. Quando ogni cosa fu portata
via, l’abate fece mettere il malato in una portantina e si affrettò verso il mo-
nastero; ma aveva appena passata la porta che il malato spirò. L’abate, che
non aveva dimenticata la garanzia data, restituì le usure per quanto potè, fe-
ce generose elemosine per l’anima di lui e diede in uso ai monaci il resto dei
suoi beni. Il corpo fu collocato in una cappella e circondato da schiere di
cantori. La notte stessa, i frati che cantavano videro apparire quattro spiriti
neri che presero posto a sinistra del feretro. A questa vista, tutti i monaci
meno uno, il più vecchio, fuggirono via terrorizzati. Subito quattro angeli
vennero a prendere il posto alla destra del feretro, di fronte ai demoni. Que-
sti intonarono il Salmo 36 di David, in cui Dio promette di punire l’ingiusti-
zia, e dissero: “Se Dio è giusto e le sue parole veritiere, quest’uomo è no-
stro, poiché è colpevole di tutto ciò”. Gli angeli santi replicarono: “Poiché
_____________________________
39
Nella stessa direzione vanno i racconti di Neon Miterikon, 33 e 35 (ms gr. EBE 230r-
v.231r-232v; Cavarra 297s.299s), nei quali altre due prostitute si pentono, decidono
di entrare in monastero ma muoiono appena prima di entrarvi.

572
citate il canto di David, continuate fino in fondo; e visto che tacete, allora
continueremo noi”. E cantarono il versetto del salmista in cui si trattava del-
la imperscrutabile giustizia di Dio, della sua misericordia e della sua pro-
messa: “‘I figli degli uomini spereranno nella protezione delle tue ali’. Co-
me Dio è giusto e la Scrittura vera, questo figlio dell’uomo è nostro; si è ri-
fugiato in Dio ed andrà a Dio perché ha sperato nella protezione delle sue a-
li. Si inebrierà dell’abbondanza della sua casa colui che si è inebriato delle
lacrime del pentimento”. In barba ai demoni confusi e muti, gli angeli porta-
rono in cielo l’anima del peccatore pentito ricordando le parole di Gesù (Lc
15,10): “Ci sarà gioia nel Ccelo per gli angeli di Dio a causa di un solo pec-
40
catore che fa penitenza”» .
In questo racconto lo scontro tra angeli e demoni è meno violento che nel
passo precedente, ma è ribadita l’idea di un’anima contesa per il suo ambi-
guo percorso di vita. Invece non ratifica l’idea di un pentimento in articulo
mortis. È evidente dalla tempistica: l’usuraio prima si ammala, poi, perse le
speranze di guarire, fa chiamare il parente abate, al quale, dopo che questi
si è consultato, affida i propri beni. Tutt’altro che una decisione repentina o
in fin di vita. Poi, il pentimento dell’usuraio è sì accertato dall’abate, ma è
l’affidamento dei beni a darne la prova; in effetti, la sepoltura in terra con-
sacrata di un usuraio era subordinata alla restituzione, nella misura del pos-
sibile, degli interessi pretesi, restituzione qui operata per interposta persona
ma comunque avvenuta. Quindi, anche fra i monaci latini l’idea di un pen-
timento in stato d’agonia non riscuote un gran successo.
Interessante controcanto ce lo offre niente di meno che Dante Alighieri,
il quale, nel Purgatorio della Divina Comedia, narra la vicenda di Boncon-
te da Montefeltro, capo ghibellino ucciso dai guelfi fiorentini nella battaglia
di Campaldino il cui corpo non fu mai ritrovato. Il Poeta chiede come ciò
sia avvenuto, ed ecco come l’anima di Bonconte spiega la cosa:
«E (chiesi) io a lui: “Qual forza o qual ventura
ti travïò sì fuor di Campaldino,
che non si seppe mai tua sepultura?”.
”Oh!”, rispuos’elli, “a piè del Casentino
traversa un’acqua c’ ha nome l’Archiano,
che sovra l’Ermo nasce in Apennino.
Là ’ve ’l vocabol suo diventa vano,
arriva’ io forato ne la gola,
fuggendo a piede e sanguinando il piano.
Quivi perdei la vista e la parola;
nel nome di Maria fini’, e quivi
caddi, e rimase la mia carne sola.
_____________________________
40
CESARIO DI HEISTERBACH, Dialogus miraculorum, II, 31 (ed. J. Strange, Koln-Bonn-
Bruxelles 1851, I, 103ss; trad. nostra).

573
Io dirò vero, e tu ’l ridì tra ’ vivi:
l’angel di Dio mi prese, e quel d’inferno
gridava: “O tu del ciel, perché mi privi?
Tu te ne porti di costui l’etterno
per una lagrimetta che ’l mi toglie;
41
ma io farò de l’altro altro governo!”»
L’angelo prende l’anima di Bonconte ed al demone resta ‘l’altro’, cioè il
corpo; il ‘governo’ che ne farà sarà quello di farlo portar via da una piena
del fiume Archiano. Una cosa analoga la vide santa Teresa d’Avila:
«Mi trovavo in un luogo dove era morta una persona che, a quanto seppi,
era vissuta assai male e per molti anni; ma negli ultimi due era stata inferma
ed in alcune cose sembrava si fosse emendata. Morì senza confessarsi, ciò
nonostante mi pareva che non avrebbe dovuto dannarsi. Sennonchè, mentre
ne vestivano ed avvolgevano la salma nel lenzuolo funebre, vidi una quanti-
tà di demoni che prendevano quel corpo come se volessero giocarci, ma an-
che farne giustizia, perché con grossi arpioni se lo passavno l’un l’altro, il
che mi fu causa di un grande spavento. E, vedendolo portare alla seoltura
con gli onori e le cerimonie d’uso per tutti, pensavo alla bontà di Dio che,
non volendo che quell’anima fosse infamata, faceva rimanere occulto il fatto
che gli era stata nemica.
Ero seminebetita per quello che avevo visto. Durante tutto l’ufficio non no-
tai alcun demonio ma, quando il corpo fu calato nel sepolcro, era tale il nu-
mero di quelli che stavano là dentro per prenderlo che io rimasi come fuori
di me di fronte a tale spettacolo, e mi ci volle non poco coraggio per dissi-
mulare il mio turbamento. Mi chiedevo cosa avrebbero fatto di quell’anima
42
se si impadronivano in quel modo del suo misero corpo» .
Con ciò si dimostrano autorevolezza e diffusione dell’idea che l’anima di
chi muore sia contesa da angeli e demoni, prova della sinergia tra la Chiesa
in statu viae e quella in patria. Dante però ci dice che il demone si lamenta
perché l’angelo gli sottrae l’anima di Bonconte “per una lacrimetta”, cioè la
preghiera fatta in riva al fiume, in punto di morte. Dante quindi ritiene che
basta una breve preghierina in fin di vita per scampare all’inferno. Ma que-
sto lo dice lui: la competenza teologica di Dante è di gran lunga inferiore a
quella di poeta. L’Alighieri non pretende di far teologia, ma la diffusione
della Commedia comporta quella di questa e altre idee teologicamente erra-
te, per di più spesso gabellate come ‘autentica teologia cattolica’.
Meno teatrale del racconto dell’usuraio, meno poetico della Commedia
ma certo spiritualmente più ricca ed istruttiva è l’attestazione di questa lotta
post mortem tra angeli e demoni che ci dà il santo abate Teofilo:
_____________________________
41
DANTE ALIGHIERI, Divina Commedia, Purgatorio, V, 91-108.
42
TERESA D’AVILA, Libro de mi vida, c.38, nn.24s (Bettetini 658; Falzone 359).

574
«L’abate Teofilo diceva: “Quale timore, tremore ed angoscia proveremo
quando l’anima si separerà dal corpo! Verso di noi verranno eserciti e mili-
zie di forze contrarie, i signori delle tenebre, i sovrani della malvagità, i
principati, le potestà e gli spiriti del male. Essi sottoporranno l’anima ad una
specie di processo, scorrendone tutti i peccati, di cui ha avuto o non ha avu-
to consapevolezza, dalla giovinezza fino al momento ne quale è stata strap-
pata dal corpo, e si leveranno a chiedere conto delle colpe che ha commesso.
Pensa a quale tremore deve impossessarsi dell’anima in quell’istante, finchè
non sia stata pronunciata la sentenza e non venga decretata la sua assoluzio-
ne. Questa è l’ora dell’angoscia, che durerà finchè non vedrà cosa le spetta.
Però pure le potenze divine si leveranno contro quelle contrarie e scorreran-
no, a loro volta, le sue buone azioni. Immagina in quale stato di trepidazione
si troverà l’anima che è interessata a questo giudizio, finchè non sarà emes-
so il verdetto di un giudice giusto. Se l’anima sarà riconosciuta degna, le po-
tenze nemiche dovranno fare ammenda, essa sarà strappata loro, potrà vive-
re tranquillamente ed avrà una dimora, come è detto (Sal 86,7): ‘In Te è la
dimora di tutti quelli che gioiscono’. Allora avrà compimento quanto è scrit-
to (Is 35,10). ‘Sono terminati travaglio, dolore e gemiti’. E l’anima, liberata,
se ne andrà verso quella gloria e gioia ineffabile presso cui essa si stabilirà.
Ma se si scoprirà che è vissuta in modo negligente, sentirà una terribile voce
che dice (Is 26,10): ‘Sia tolto l’empio che non vede la gloria di Dio’. Su di
lei allora scenderà un giorno d’ira, un giorno di afflizione, un giorno di buio
e di oscurità. Essa sarà consegnata alle tenebre esteriori e condannata al fuo-
co eterno e la sua punizione non avrà fine. In questo caso, dove sarà finita la
vanità del mondo? Dove sarà la vanagloria? La voluttà? Il godimento? Il
benessere? L’ostentazione? La vanteria? Le ricchezze? La nobiltà? Il padre,
la madre, il fratello? Chi tra questi potrà togliere l’anima arsa dal fuoco e
racchiusa in orribili tormenti? Stando così le cose, che bisogna fare in opere
sante e pie? Quale amore possedere? Quale comportamento? Che tipo di vi-
ta, quale condotta, quanta la cura, la preghiera, la fermezza? ‘Nell’attesa di
queste cose - dice Pietro (2Pt 3,14) - cerchiamo di essere trovati da lui senza
macchia, senza colpa e nella pace’, per essere degni di sentirgli dire (Mt
25,34): ‘Venite, benedetti dal Padre mio, prendete possesso del regno prepa-
43
rato per voi fin dalla creazione del mondo’. Amen”» .

_____________________________
43
Apophtegmata Patrum, serie alfabetica, Teofilo, 4 (PG 65, 200s; trad. it. 140s). Cf.
anche ISAIA DI GAZA, Asceticon, logos 16, 1 (PG 40, 1146 [sub or.17]; trad. it. 82s):
«Quando l’anima esce da questo mondo, gli angeli l’accompagnano, ma anche le for-
ze delle tenebre le vanno incontro (cf. Ef 6,12) per afferrarla ed esaminarla e vedere
se c’è in essa qualcosa che appartenga loro; allora non sono gli angeli a lottare contro
di esse, ma le opere compiute (cf. Apoc 14,13), che la proteggono e la custodiscono
perché (i demoni) non si avvicinino all’anima. Se vincono le sue opere (buone), gli
angeli cantano davanti ad essa finchè si incontra con Dio nella gioia. Da questo mo-
mento, l’anima dimentica ogni opera del mondo e tutti i suoi affanni». L’Asceticon di
Isaia (sec.VI) è diffusissimo in Oriente, a prescindere dalle divisioni dottrinali e dalle
differenze idiomatiche (è tradotto in una decina di lingue), ed in Occidente è consi-
(segue)

575
In accordo con il sentitus del tempo, Teofilo presenta l’istante della mor-
te come quello del giudizio personale, con una sentenza emessa da un vero
e proprio tribunale, con accusa (demoni), difesa (angeli) e giudice (Dio). Il
Magistero, lo si è letto, oggi preferisce descrivere quel momento come una
specie di ‘autovalutazione’, mentre il sentitus più diffuso tra i nostri fratelli,
se non andiamo errati, mantiene sì l’idea di un ‘giudizio’ ma solo fra Dio e
l’uomo, senza apporto né dei demoni né degli angeli.
Dunque non è bene sperare in una ‘conversione’ al novantesimo minuto.
Però una probabilità oggettivamente scarsa non è una impossibilità tout
court. A questo riguardo ci piace riportare le parole di Celestino I papa in
una sua epistola ai vescovi di Vienne e Narbonne (28 luglio 428):
«Abbiamo saputo che si nega la penitenza a coloro che sono sul punto di
morte, e non si viene incontro al desiderio di coloro che al momento della
loro morte vogliono salvare la loro anima con questo rimedio. Ci fa orrore,
lo ammetto, che si possa trovare qualcuno di tanta empietà che disperi della
pietà di Dio, come se Egli non potesse venire in soccorso di chi si rivolge a
Lui in qualsiasi momento, e non possa salvare un uomo che è in pericolo
sotto il peso di peccati dei quali desidera liberarsri. Cosa significa questo se
non dare la morte a chi sta morendo ed uccidere la sua anima perché non si
possa liberare? Mentre Dio, prontissimo a portare aiuto, invita alla penitenza
e promette (Ez 23,15): “In qualsiasi giorno il peccatore si convertirà, i suoi
peccati gli saranno perdonati”. E di nuovo (Ez 18,23): “Non voglio la morte
del peccatore, ma solo che si converta e viva”. Dunque priva l’uomo della
salvezza colui che nega a colui che è in punto di morte la penitenza relativa
al passato. E dispera della clemenza di Dio chi non crede che Egli possa
portare aiuto anche a chi è sul punto di morire. Il ladrone avrebbe perduto il
premio, mentre pendeva dalla croce alla destra di Cristo, se non lo avesse
soccorso la penitenza di un momento. Mentre sopportava la pena si pentì, e
con una professione di fede fatta di una sola espressione meritò, per la pro-
messa di Dio, l’abitazione in paradiso. Dunque l’autentica conversione di
coloro che sono all’ultimo posto deve essere piuttosto valutata per l’inten-
zione e non per il momento, secondo il profeta che fa questa affermazione
con queste parole (Ez 18,33): “Quando piangendo ti convertirai, allora sarai
salvo”. Poiché dunque il Signore è scrutatore dei cuori, in qualsiasi momen-
to non bisogna negare la penitenza a chi la richiede, dato che questi si lega
44
ad un Giudice al quale sa che tutte le cose nascoste sono note» .
L’argomento dei rigoristi per negare al moribondo l’assoluzione in arti-
culo mortis è che manca il tempo per compiere la penitenza: senza peniten-

______________________________
gliato ai novizi della Compagnia di Gesù. Invece gli Apophtegmata Patrum sono noti
solo negli ambienti ortodossi di lingua greca ed il Neon Miterikon, molto più tardo, ci
consta essere conosciuto solo nei monasteri del Monte Athos, in Grecia.
44
CELESTINO I PAPA, Epistularium, ep.4, 3 (PL 50, 431s; CTP 127, 62ss).

576
za, osservano, la remissione dei peccati è incompleta, quindi non è possibi-
le assolverlo. Non è argomento da poco, perché allora la pratica penitenzia-
le prevede una serie ben precisa di passi intermedi tra confessione (pubbli-
ca) dei peccati e assoluzione (pubblica), con tempi lunghi (mesi, addirittura
anni in taluni casi). Quindi l’obiezione poggia su una pratica assolutamente
tradizionale, pacifica e ben fondata. Celestino si oppone sia all’uso allora
comune sia al fondamento di tale prassi. E lo fa in nome della preminenza
dell’aspetto metafisico-spirituale della Riconciliazione su quello morale-le-
galistico, che convince questi personaggi di avere il diritto di giudicare se
una persona si può salvare o no, diritto che spetta solo a nostro Signore.
Dal lato morale-giuridico infatti il conseguimento dell’assoluzione segue
dall’adempimento della prassi penitenziale, pensata per aiutare il cammino
di conversione del peccatore ma che de facto subordina l’assoluzione a co-
se in più rispetto al pentimento, il quale da solo diviene condizione neces-
saria ma insufficiente. Dal lato metafisico-spirituale la visuale è opposta: ha
preminenza assoluta il pentimento, il solo atteggiamento capace di muovere
a compassione le viscere di misericordia di nostro Signore; ed è la compas-
sione divina che assolve dal peccato, non la penitenza. Poi, certo, devono
seguire azioni riparatrici proporzionate alla colpa rimessa: ma, appunto, ri-
paratrici di una colpa rimessa, non assolutorie. Se la conversione del mo-
ribondo è insufficiente, sarà Dio a giudicarlo ed a provvedere nel modo che
meglio riterrà opportuno.
Pastoralmente, l’impostazione morale-giuridica risulta molto semplice da
insegnare e far accettare: basta un minimo di studio ed un po’ di buon sen-
so. Per questo ebbe ed ha ancor oggi una diffusione notevole. Però è spiri-
tualmente molto pericolosa, perché de facto mette in croce nostro Signore
Gesù Cristo non per amore ma per soddisfare l’ira di un Padre imbufalito: e
questo non è cristiano, con buona pace di Anselmo d’Aosta. L’impostazio-
ne metafisico-spirituale è pastoralmente molto più faticosa da presentare e
ancor più da far accettare: esige che il pastore che la propone abbia espe-
rienza personale dell’amore di Dio e soprattutto esige una vita spirituale se-
ria, attenta, nei nostri fratelli, ai quali invece poco o niente del genere viene
insegnato. Però quella metafisico-spirituale è la sola prospettiva in grado di
render conto della cristianità della redenzione, che non oppone giustizia e
misericodia ma le fonde: come bene ha detto papa Francesco, in Cristo la
misericordia è giusta e la giustizia misericordiosa.
Lo ripetiamo: dal lato umano, sperare in una conversione all’ultimo mi-
nuto è evento possibile ma assai poco probabile se prima non ci si è almeno
posti il problema. Per questo è a dir poco imprudente rinviare la conversio-
ne, il pentimento per le nostre malvagità. Né è nostra opinione: lo si legge
nel De praeparatione ad mortem di Erasmo da Rotterdam, lo ribadisce più

577
volte l’Apparecchio alla morte di sant’Alfonso de Liguori, vescovo e Dot-
tore della Chiesa, san Giovanni Bosco insegna che è uno dei due inganni
principali del demonio nei confronti della gioventù, e potremmo menziona-
re molti altri santi ancora.
Però questa improbilità non dà a nessun uomo il diritto di decidere del
destino personale e definitivo di un’altra persona. E se, dal lato di Dio, è
vero che Lui può salvare anche senza assoluzione, dal lato umano è ancor
più vero che negarla potendola dare è una colpa che ricadrà sulla coscienza
di chi osa sostituirsi a nostro Signore l’Onnipotente e il Misericordioso.
Le parole di papa Celestino hanno bisogno solo di una ultima nota.
La prassi attuale è andata così oltre nel percorso tracciato da lui che in
pratica la penitenza è ridotta ad un simulacro quasi ridicolo: due o tre pre-
ghierine o poco più. Questa prassi, che svilisce la dolcezza della misericor-
dia irridendo alla giustizia, è all’origine della famosa immagine di Dietrich
Bonhoeffer, quella di una ‘grazia a buon mercato’, così a poco prezzo da
parere ormai senza valore e quindi inutile, ed in definitiva dell’idea che per
salvarsi basti dire ‘Scusa tanto’ all’ultimo respiro. Non che con queste pa-
role si sogni un impossibile ed anche eretico ritorno alla antica prassi peni-
tenziale (ad esempio di Basilio Magno), ma certo si impone una pastorale
della penitenza molto più seria, dignitosa e soprattutto rispettosa dell’amore
di Dio che ci dona la possibilità della conversione.
Con queste ultime osservazioni però si è travalicato il limite che separa
una teologia della morte dalla teologia del momento della morte, ossia dal-
la riflessione sulla decisione personale del proprio destino ultimo e defini-
tivo. È giunto invece il momento di chiudere questo lungo percorso.

578
Capitolo 16

LA MORTE DAL PUNTO DI VISTA


DELLA DEIFICAZIONE:
UNA DESCRIZIONE SENZA PRETESE

Molte volte in questa ricerca è emerso che non è possibile parlare della
morte senza chiarire preliminarmente se il moribondo è credente o no. Può
sembrare ovvio, ma non lo è. Gli studi sociologici non danno peso a questo
elemento, i saggi filosofici lo avversano, i teologi si allineano a loro tanto
da ritenere anch’essi ‘naturale’ il morire. Qui si è scelto di parlare solo per
il credente, meglio, per l’amante di Dio, perché è scritto (Gc 2,19):
«Tu credi che c’è un Dio solo? Fai bene; anche i demòni lo credono e tre-
mano!»
Credere non basta da solo a distinguerci dai demoni: quel che conta è ama-
re Dio, come insegna Mosè (Dt 6,5) e ribadisce Cristo (Mt 22,37):
«Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con
tutta la tua mente».
Da quanto emerso nei capitoli 14 e 15 si ha che l’amante di Dio vede la
propria morte, metafisicamente, come separazione del suo corpo dalla sua
anima, umanamente, come separazione dei suoi cari da lui (ma non di lui
da loro), spiritualmente, come l’inizio dell’agognata, piena, definitiva vici-
nanza all’Amato. Solo chi parla della morte da una scrivania può dire che
la morte è ‘naturale’. Lo fa perché ha un’esperienza minima o nulla del do-
lore, anche solo di quello altrui, e soprattutto perché per lui ‘dio’ (non Dio,
si badi) può infliggere dolori, né si cura di chi li soffre. Lo fa perché non
conosce l’amore che Dio (non ‘dio’) ha per tutti e singoli gli uomini, e non
conosce tale amore perché lui per primo non si sente amato da Dio. Ora, di
per sé ignorare non è un problema; può esserlo se chi ignora non riconosce
chi sa; lo diventa certamente se chi dovrebbe sapere non sa. Allora rimane
1
solo l’ignoranza, che pretende di essere conoscenza .
_____________________________
1
Per una trattazione più ampia e precisa di questa contrapposizione non possiamo che
(segue)

579
Chi invece ama Dio sa, per l’esperienza personalmente vissuta, che, se è
vero che Dio non l’ha voluta, ha però permesso la morte perché:
1 il tempo della prova deve avere un termine, altrimenti
- non sarebbe più una prova ma lo stato definitivo, ossia una tortura eterna;
- il desiderio secondo natura dell’uomo non sarebbe mai soddisfatto;
2 la prova deve differire sostanzialmente dallo status definitivo, perché
- i limiti alla natura creata causati dal peccato devono poter essere rimossi;
- la capacità illimitata data da Dio alla creatura deve potersi realizzare;
3 il piano di Dio si deve realizzare (prima per i singoli, poi per tutti), ossia
- il singolo uomo deve poter diventare per grazia come Lui è per natura;
- l’intero creato deve poter diventare vestigium Trinitatis nella misura conve-
niente alle diverse nature.
In questa prospettiva, innanzitutto personale e spirituale, solo in seconda
battuta intellettuale e comune a chiunque la voglia conoscere, in questa vi-
suale, si diceva, è chiaro che non vi è posto per quella che Origene chiama
la morte ‘nemica’. O meglio ce ne sono molti, ma tutti usurpati a questo o
quell’obiettivo divino, usurpazione possibile perché il libero arbitrio uma-
no, adeguatamente sobillato dal nemico, resta sempre e comunque in grado
di scegliere quel che meglio crede. Come spiega in breve l’Adamantino,
«È da ritenere che il diavolo detenga il potere della morte, non di quella me-
dia e comune, di cui muoiono gli esseri composti di anima e corpo quando
l’anima si separa dal corpo, bensì di quella morte opposta ed ostile a Colui
che disse (Gv 11,25): “Io sono la vita”; per cui (Ez 18,4) “è l’anima quella
2
che pecca, quella che muore”» .
Quindi, a ben vedere, il termine ‘morte’ indica e contiene dinamiche spi-
rituali molto più complesse e sottili della semplice opposizione tra ‘nemica’
e ‘amica’ di Cristo, o quella tra ‘morte secondo natura’ e ‘contro natura’, se
ci può esprimere così. Leggendo Massimo il Confessore, nel capitolo 14, si
è acquisita una certa cognizione di questa complessità dal lato per così dire
personale, filtrato dalle categorie di ‘educazione’ e ‘composizione’. È ne-
cessario adesso affiancare a quel quadro un altro affresco, ugualmente tita-
nico ma stavolta dal lato a parte Dei, e soprattutto da quello della essenza
della morte, se si può dir così. Ce l’offre ancora Origene:
«Sta scritto (Rm 6,23): “Stipendio del peccato è la morte; grazia di Dio, in-
vece, la vita eterna in Cristo Gesù Signore nostro”.
L’espressione “lo stipendio del peccato è la morte” è simile a quanto (Paolo)
______________________________
rinviare a BASILIO MAGNO, Homilia ‘Quod Deus non est auctor malorum’, testo gre-
co e trad. it. a cura di F. Trisoglio, Milano 2017, per totum.
2
ORIGENE, Commentariorum in Mattheum series, XIII, 9 (PG 13, 1116-1120; CTP
151, 41).

580
aveva detto prima (Rm 6,21): “La loro fine è la morte”. Ma di che cosa?
Certamente di quelle cose (ibidem) “per le quali ora arrossite” ed i cui frutti
(Paolo) non ritiene conveniente neanche nominare. E d’altra parte l’espres-
sione ‘grazia di Dio, invece, la vita eterna in Cristo Gesù Signore nostro’ è
simile a quell’altra (Rm 6,22): “Avete il vostro frutto per la santificazione e
come fine la vita eterna”. Giustamente inoltre l’Apostolo mantiene la meta-
fora, cioè la figura della milizia proposta all’inizio, per dire che a coloro che
militano sotto il peccato, o meglio, sono soggetti alla sua tirannide, viene
pagata come stipendio dovuto la morte. Non era invece conveniente che Dio
desse ai suoi soldati uno stipendio come fosse qualcosa di dovuto, ma con-
veniva che desse un dono gratuito: “la vita eterna in Cristo Gesù Signore
nostro”. Io credo anche che non sia inutile che Paolo abbia aggiunto alla ‘vi-
ta eterna’ l’espressione ‘in Cristo Signore nostro’: forse egli ha voluto far
sapere che una cosa è “la vita eterna” soltanto ed un’altra “la vita eterna in
Cristo Gesù”. Ed infatti quanti risorgeranno per l’onta e l’obbrobrio eterni
avranno sì una vita eterna, non però in Cristo Gesù ma nell’onta e nell’ob-
brobrio eterni. I giusti, invece, che risorgeranno per la vita eterna, avranno
la vita eterna in Cristo Gesù.
Dunque il peccato elargisce ai suoi soldati, sui quali regna, come degno sti-
pendio la morte. Chiamiamo però ‘morte’ non questa corporale ma quella di
cui sta scritto (Ez 18,4): “L’anima che pecca, essa stessa morirà”. E sebbene
da parte nostra si sia già parlato spesso della diversità della morte, tuttavia,
dal momento che il passo presente l’ha richiamata alla mente, non sia di pe-
so per me né gravoso per quanti leggono il ripetere le stesse cose in modo
più disteso ed il ricapitolare ciò che è stato detto qua e là.
Nelle Scritture ‘morte’ è sì un unico termine, ma indica molte realtà. Difatti
la separazione del corpo dall’anima è chiamata ‘morte’, però questa non può
essere detta né cattiva né buona: è una realtà intermedia, che viene definita
‘indifferente’. Ed ancora: si chiama ‘morte’ la separazione dell’anima da
Dio, che viene per il peccato. Questa è chiaramente cattiva ed è chiamata
anche (Rm 6,23) “stipendio del peccato”. (Sap 2,24) “Dio non ha creato tale
morte né si rallegra della rovina dei viventi, ma questa morte è entrata nel
mondo per invidia del diavolo”. Ed ancora: viene chiamato ‘morte’ l’autore
stesso di tale morte, il diavolo, ed è lui che viene detto l’ultimo nemico di
Cristo che deve essere distrutto. Ma anche il luogo sotterraneo, dove le ani-
me erano trattenute dalla morte, esso pure è chiamato ‘morte’. Ma è chiama-
ta così anche quella morte lodevole mediante la quale uno muore al peccato
e viene seppellito con Cristo, e per la quale si verifica la correzione dell’ani-
ma e si conquista la vita eterna. Poiché dunque si trova una così grande va-
rietà di significati in questo unico termine ‘morte’, se ascolti Dio che dice
(Dt 32,39): “Io ucciderò ed io farò vivere” dovrai comprendere quale sia la
morte che a Dio si addice di arrecare: senza dubbio quella che procuri la vi-
ta, in modo cioè che uno muoia al peccato e viva per Dio. (Sal 77,34):
“Quando li uccideva - dice - lo cercavano e ritornavano”; si dimostra con
ciò in modo assai evidente che colui che Dio uccide viene ucciso appunto
perché muoia al peccato e ricerchi Dio. In questo senso io intendo anche
quanto sta scritto (cf. Gen 38,7), che cioè Dio ha ucciso Er, figlio di Giuda,
poiché era malvagio, e così qualunque altra cosa di questo tipo che leggiam-

581
no scritta a proposito di Dio. Allo stesso modo, anche l’Apostolo abbando-
nava il peccatore alla distruzione della carne per rendere salvo lo spirito,
cioè perché morisse al peccato e vivesse per Dio.
Pertanto, anche nel passo di cui ci occupiamo si dice che lo stipendio dato
dal peccato è la morte: non questa morte che separa il corpo dall’anima ma
quella per cui, a causa del peccato, l’anima si separa da Dio. Ed ancora: si
dice (Rm 6,3) che noi siamo stati battezzati nella morte di Cristo, certo in
quella per cui è morto al peccato una volta per sempre, onde anche noi ci
separiamo dal peccato e viviamo per Dio. Ed infatti di chi muore con una ta-
le morte si dice (Rm 6,7) che è stato giustificato dal peccato. Così dunque
occorre fare una distinzione: perché, anche se si dice che Dio uccide e con-
segna alla morte, tuttavia la morte data da Dio va intesa come una specie di
morte tale da procurare la vita. Nulla infatti di cattivo viene dato da parte di
chi è buono: quantunque una cosa sia amara e piena di dolore, essa tuttavia
viene arrecata in vista della guarigione ed in prospettiva della salute, affin-
chè il rigore della severità separi dal peccato quell’anima che l’incanto e la
attrattiva del peccato avevavno separato da Dio. Viceversa, qualunque cosa
il peccato abbia dato e procurato è morte dell’anima, anche se esso l’accorda
3
come stipendio» .
Il passo è lungo ma lineare, ed il concetto di fondo ben chiaro. ‘Morte’ è
termine sotto il quale sono comprese realtà molto diverse: in senso proprio,
esse sono la ‘morte indifferente’, la ‘morte lodevole’ e la ‘morte cattiva’, in
senso metaforico ‘morte’ significa ora il demonio, ora il luogo dove sono
rinchiuse le anime (dannate). Ora, mettendo da parte gli usi traslati, teolo-
gicamente irrilevanti, la caratteristica comune ai tre generi propri di ‘morte’
è facile ad individuarsi: consiste nella ‘separazione’, che, quando riguarda
l’anima ed il corpo, è ‘indifferente’, quando riguarda l’anima ed il peccato
è ‘lodevole’, quando riguarda l’anima e Dio è ‘cattiva’. Ma qual è la radice
di questa ‘separazione’? Rispondere è tratteggiare (finalmente) le linee di
una teologia della morte in prospettiva della deificazione, linee che adesso
siamo in grado di esporre perché disponiamo delle coordinate bibliche, pa-
tristiche e spirituali necessarie. E sono linee che si sviluppano analizzando
la categoria di ‘separazione’ e quelle a lei connesse in modo strutturale.
* * *
La ‘separazione’ è status, fisico o mentale, che esige almeno una coppia
di elementi, ossia suppone una qualche forma previa, cioè temporalmente
antecedente, di moltiplicazione. Senza moltiplicazione non c’è ‘separazio-
ne’ perché esiste solo una monade indivisa, inseparabile in se stessa.
Ora, esistono due generi di moltiplicazione. Il primo è ad intra, e si ha
quando il moltiplicante si moltiplica senza aumentare di numero. È il caso,
_____________________________
3
ORIGENE, In epistulam ad Romanos commentarii, VI, 6 (PG 14, 1067ss; Cocchini, I,
318ss).

582
ad esempio, del pensiero, che genera continuamente pensieri diversi senza
però diventare infiniti pensieri; l’esempio rivela che, propriamente parlan-
do, la moltiplicazione ad intra non porta ‘separazione’ ma solo ‘distinzio-
ne’, così come i diversi pensieri sono distinti uno dall’altro ma non separati
dall’unico pensiero che li genera. Il secondo genere di moltiplicazione è ad
extra, ed in essa il moltiplicante genera molti altri enti, da lui distinti meta-
fisicamente e numericamente: è il caso, ad esempio, della madre, che gene-
ra figli diversi tra loro e da lei sia numericamente che metafisicamente. An-
che la moltiplicazione ad extra quindi conosce ‘separazione’ e ‘distinzio-
ne’, ma in essa la ‘distinzione’ è assorbita dalla ‘separazione’.
Questa distinzione, concettuale in quanto ottenuta facendo astrazione da-
gli esempi addotti, in realtà esprime la differenza più profonda che si dà in
ciò che esiste. Infatti, quella che si è denominato ‘moltiplicazione ad intra’
si realizza al massimo grado e perfezione nella Trinità. Nella TriUnità tutto
è uno eccetto la distinzione delle Persone. Quando il Padre genera il Figlio
non genera separazione; quando entrambi spirano lo Spirito non generano
separazione; quando lo Spirito spira passivamente Padre e Figlio non gene-
ra separazione, e quando il Figlio genera passivamente il Padre non genera
separazione. Si può invece parlare di ‘distinzione’ nella TriUnità, nella mi-
sura in cui il Padre non è confuso ma distinto dal Figlio e dallo Spirito, nel-
la misura in cui il Figlio non è confuso ma distinto dal Padre e dallo Spiri-
to, e nella misura in cui lo Spirito non è confuso ma distinto dal Padre e dal
Figlio. La modalità di distinzione è poi la generazione, tra Padre e Figlio, la
spirazione, tra Padre e Figlio da un lato e lo Spirito dall’altro, la generazio-
4
ne e la spirazione passiva nel senso inverso . Questo complicato processo
di interazione tra le Persone Divine prende il nome di ‘pericoresi’; e se la
essenza della morte è la ‘separazione’, la ragione dell’eternità di Dio è pro-
prio nella assenza di ‘separazione’ nella pericoresi.
Tuttavia sappiamo che la TriUnità non è rimasta entro Se stessa ma ha
deciso di creare; ed a questo punto è chiaro che creare significa ‘moltipli-
cazione ad extra’. Ora, nozionalmente la creazione si distingue dal Creatore
perché essa è metafisicamente seconda rispetto ad Lui, primo sotto tutti gli
aspetti. Metafisicamente, la creazione è tutta raccolta entro e caratterizzata
da una radicale ‘separazione’ dal creatore, ‘separazione’ che non può essere
tolta neanche dal Creatore, ma solo e al più ridimensionata, in modi, misure
e possibilità che vedremo tra poco. Ora, se la ‘separazione’ è l’essenza del-
la morte e se ‘separare’ è la virtus della morte, ossia l’azione che le spetta
_____________________________
4
Per semplicità seguiamo qui la falsariga tommasiana, ma una trattazione completa in
primis dovrebbe tener conto della visione di Riccardo di san Vittore e poi confrontar-
si a fondo con quella greco-ortodossa. Chiaramente qui tutto ciò è superfluo.

583
più di ogni altra, allora tutta la creazione è racchiusa nella ‘morte’. In effetti
si dovrà ammettere che tutto ciò che esiste rischia la disgregazione dei suoi
componenti fisici e, per i viventi, la ‘separazione’ della vita dal corpo: che
5
è la ‘morte indifferente’ dell’Adamantino . Ma non tutta la creazione è fisi-
ca: gli angeli, ad esempio, non hanno corpo, al più un sostrato, e non risulta
che mai un angelo (o demone) sia morto o, al più, separato dal suo sostrato
(se ce l’ha). E che dire dell’anima umana? In ogni caso, la ‘separazione’ dei
componenti fisici di un corpo l’un dall’altro è teologicamente priva di rilie-
vo e spiritualmente irrilevante: ‘indifferente’, appunto. Sono altre le ‘sepa-
razioni’ che interessano la nostra teologia della morte in prospettiva della
deificazione. In effetti, a seconda di cosa viene separato, da chi e come, ora
è una ‘separazione’ lodevole e secondo natura, ora una ‘separazione’ catti-
va e contro natura: se e quando riguarda l’anima ed il peccato è una morte
6 7
‘lodevole’ , se e quando riguarda l’anima e Dio è una morte ‘cattiva’ .
Queste osservazioni riguardano però una ‘morte’ come ‘separazione’ tut-
ta giocata al livello creaturale, sia pur spirituale e non psicologico o fisico;
_____________________________
5
Cf. GREGORIO DI NISSA, Oratio catechetica magna, 8, 5 (SCh 453, 190; CTP 34, 69):
«La condizione mortale, per analogia con la natura degli esseri irrazionali, fu conferi-
ta secondo il piano della Provvidenza alla natura creata per l’immortalità: essa ne in-
volge la parte esterna, non l’interiore, afferra la parte sensibile dell’uomo senza però
toccare l’immagine divina. Ma la parte sensibile si dissolve, non è distrutta. Perché
mentre la distruzione è il passaggio al nulla, la dissoluzione è il ritorno agli elementi
del cosmo dai quali fu costituita. Ma ciò che viene ad essere in questo stato non peri-
sce, anche se sfugge alla nostra percezione sensibile».
6
Cf. p.es. AMBROSIASTER, In epistulam ad Romanos commentarii, VI, 2 (PL 17, 100;
CTP 43, 146s): «(Rm 6,2): “Infatti noi che siamo morti al peccato, come vivremo an-
cora in esso?” L’apostolo dice questo perché mentre vivevamo al peccato eravamo
morti presso Dio. Peccare infatti è vivere al peccato, così come non peccare è vivere
a Dio. Sopraggiungendo dunque la grazia di Dio per mezzo di Cristo e rigenerandoci
mediante la fede con un lavacro spirituale, abbiamo incominciato a vivere a Dio ed
ad essere invece morti al peccato che è il diavolo. Dunque questo significa ‘morire al
peccato?: essere liberati dal peccato, divenire invece servi di Dio. Pertanto, morti
ormai al peccato, non ritorniamo alle azioni cattive di prima, perché non avvenga che
viviamo di nuovo al peccato e, morendo a Dio perduta l’onestà, incorriamo nella pe-
na a cui siamo sfuggiti».
7
Cf. p.es. SOFRONIO DI GERUSALEMME, Homiliae, hom.4 in exaltatione crucis, 1 (PG
87/3, 3304; CTP 92, 121): «Una è la morte spirituale, un’altra la morte fisica: il pec-
cato genera quella morte, come ha scritto Giacomo, il fratello del Signore (cf. Gc
1,15) ed autorevole reggitore di questa sede (episcopale); lo scioglimento degli ele-
menti, di cui si è essenzialmente costituiti, fa generare l’altra morte. Sì, certo, anche
se non ci credono i medici, che dicono di curare solo il corpo, c’è una morte dell’ani-
ma immortale, poiché proprio questa pena è stata data dal Creatore all’uomo che a-
veva disatteso il comandamento divino». Ma è cosa ormai nota.

584
ma che ne è della ‘separazione’ più radicale, quella della creatura dal Crea-
tore, la ‘separazione’ dalla quale nascono tutte le altre ‘separazioni’?
* * *
In effetti, come si è detto, Dio crea per amore, ossia per essere ricambia-
to dalla creatura; ma essa, per sua natura, ossia in quanto creata, è radical-
mente altra dal suo Creatore, dal quale la ‘separa’ una distanza metafisica
immensa e soprattutto non eliminabile. Per questo è detto (Gen 1,26s):
«Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza (...)
Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e
femmina li creò».
L’uomo è creato ad immagine e somiglianza del Creatore, ma non è il
Creatore: questa è la ‘separazione’ ineliminabile, la ‘morte’ dentro la quale
tutta la creazione è rinchiusa, il solo senso nel quale è lecito dire ‘naturale’
la morte. Però la si può ridurre, come ci insegna Ireneo di Lione:
«L’unico e stabile maestro, il Verbo di Dio, Gesù Cristo nostro Signore, nel-
8
la sua immensa carità s’è fatto come noi per elevarci a come Lui è» ,
e questo testo, ormai lo si sa, esprime la dottrina della deificazione per gra-
9
zia . Quindi la SS. TriUnità, al momento in cui crea l’uomo, ha già in men-
te di farlo diventare per grazia come Essa è per natura: eccetto, chiaramen-
10
te, il restare creatura . Di conseguenza, Essa ha già in mente anche il ‘se-
parare’ la natura creata dalla ‘separazione’ che le impedisce di essere come
Lei è, eccetto l’essere creata: è esattamente in questa ‘separazione’ dalla
‘separazione’ che consiste il ‘morire in Cristo’, la ‘morte lodevole’, in defi-
_____________________________
8
IRENEO DI LIONE, Adversus haereses, V, prol. (SCh 153, 14; trad. it. II, 154).
9
Cf. MASSIMO IL CONFESSORE, Ambigua, prob.42 (PG 91, 1345d; trad. it. 493s): «Co-
loro che indagano misticamente le parole di Dio e le onorano, come è giusto, con le
più elevate meditazioni spirituali, dicono (cf. GREGORIO DI NAZIANZO, Orationes,
or.40, 2) che all’inizio l’uomo fu creato ad immagine di Dio per essere assolutamente
generato per lo spirito per propria decisione, e che ebbe in più la qualità di essere a
somiglianza grazie alla osservanza del comandamento di Dio, affinchè il medesimo
fosse contemporaneamente creatura di Dio secondo la sua natura ma figlio di Dio e
Dio mediante lo Spirito, per grazia. Perché non sarebbe stato possibile che l’uomo
creato apparisse figlio di Dio e Dio secondo la deificazione proveniente dalla grazia
se prima non fosse stato generato per lo Spirito, per la sua decisione a causa delal sua
potenza sempre moventesi e libera, che era in lui per natura (i.e. il libero arbitrio)».
10
Cf. MASSIMO IL CONFESSORE, De oratione Domini (PG 90, 873; CTP 19, 64s): «“La
volontà del Signore - dice Davide - rimane per sempre; i pensieri del suo cuore di
generazione in generazione” (Sal 32,11), avendo definito probabilmente la volontà di
Dio e del Padre l’ineffabile annientamento del Figlio Unigenito di Dio per la deifica-
zione della nostra natura, in seguito al quale ha fissato il termine di tutti i secoli».

585
nitiva la stessa deificazione per grazia. Ed è questo il significato della mor-
te in prospettiva della deificazione: l’essere ‘separati’ da ciò che ci ‘separa’
dalla SS. TriUnità, è il toglimento di ciò che distingue la creatura dal Crea-
tore, eccetto la ‘distinzione’ metafisica. È il superamento del ‘limite’ crea-
turale, portato dalla grazia a divenire un ‘illimite’ creaturale, superamento
che trasforma la creatura in un essere che può tutto quel che può Dio eccet-
to il creare, che ama come Dio senza però essere l’Amore sussistente, che
sa tutto quel che sa Dio senza però essere la Sapienza, insomma, che è co-
me Dio senza essere Dio. E di tutto questo piano noi abbiamo avuto notizia
e primizia in Cristo Gesù, come è scritto (Ef 2,14-18):
«Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo,
abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia,
annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di de-
creti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace,
e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce,
distruggendo in se stesso l’inimicizia.
Egli è venuto perciò ad annunziare pace
a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini.
Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri,
11
al Padre in un solo Spirito» .

_____________________________
11
Cf. CIRILLO D’ALESSANDRIA, Quod unus sit Christus (SCh 97, 493-497; CTP 37,
112ss; rivista): «A - Noi sosteniamo che non è suo malgrado che il Figlio ha vinto la
morte e liberato dalla corruzione il corpo dell’uomo, “poiché Egli non si rallegra per
la morte dei viventi e le creature del mondo sono salutari” (Sap 1,13s), secondo
quanto è scritto: “La morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo” (Sap 2,24). E
non c’era altro modo per vincere la funesta potenza della morte che la sola Incarna-
zione dell’Unigenito. Per questo è apparso simile a noi ed ha fatto proprio un corpo
soggetto alla corruzione secondo le leggi di natura, affinchè, dal momento che Egli
stesso è la Vita - è stato infatti generato dalla vita del Padre - introducesse nel corpo
quello che è il suo bene, ossia la vita. Poi, una volta che scelse, per la benevolenza e
per l’amore che aveva verso gli uomini, di sottomettersi ad essere simile a noi, Egli
dovette sopportare anche la sofferenza che gli procurava l’empietà dei Giudei. Ma il
disonore legato alla sofferenza gli era terribilmente pesante. E perciò, quando si av-
vicinò il tempo in cui doveva sopportare la croce per la vita di tutti, perché la sua sof-
ferenza apparisse contraria alla sua volontà, si avvicinò ad essa come può avvicinarsi
un uomo, ed a guisa di supplica così disse (Mt 26,39): “Padre, se è possibile passi da
me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi Tu”. Colui che è venuto
dal cielo è disceso, dichiara, per fare senza opporsi ciò che gli recava dolore, e porta-
re così a quelli che stanno in terra la resurrezione che Lui, e solo Lui, ha instaurato a
vantaggio della natura umana. Egli infatti si è fatto “il primo nato tra i morti” (Col
1,18) secondo la carne, e “primizia di quelli che si sono addormentati” (1Cor 15,45).
B - A lui dunque e non ad un altro si deve attribuire la passione in quanto si manife-
stò uomo, sebbene rimanesse impassibile considerato come Dio?
(segue)

586
Questo piano meraviglioso, esaltante, sconvolgente, ha abbagliato le pri-
me creature, quelle spirituali. Alcune, completamente sedotte dalla bellezza
e dalla tenerezza indicibile di questo progetto che coinvolgeva anche loro
nella misura adatta alla loro natura, lo hanno entusiasticamente abbracciato.
Altre, sedotte dalla bellezza del disegno ma anche da quella della natura
donata loro, non hanno capito o sentito il bisogno dell’aiuto divino per
realizzarlo, in loro prima ancora che negli altri. Cercando e sperando così
di superare il ‘limite’ creaturale’ senza accettare l’aiuto sovracreaturale del
Creatore, invece di eliminare la loro ‘separazione’ da Dio queste creature
l’hanno aumentata, e poiché la ‘separazione’ è l’essenza della morte, sono
divenute esse stesse ‘morte’, come si è letto in Origene. Non solo. Divenute
consapevoli della crescente ‘separazione’ tra loro ed il Creatore, conoscen-
do in anticipo il disegno deificatore di Dio nei riguardi dell’uomo, si sfor-
zano di vanificarne la realizzazione, come ci insegna Ambrogio:
«Come dice Salomone (Sap 2,24) “Per l’invidia del diavolo la morte è entra-
ta nel mondo”. Causa dell’invidia fu la beatitudine dell’uomo posto nel pa-
radiso, e dal momento che proprio il diavolo fu colui che non riuscì a con-
servare la grazia ricevuta, ebbe invidia dell’uomo poiché questi, benchè pla-
smato con il fango, era stato prescelto ad abitare il paradiso. Rifletteva infat-
ti il diavolo sul fatto che, mentre lui, di natura superiore, era nondimeno ca-
duto in queste realtà terrene ed effimere, l’uomo invece, creatura di grado
inferiore, poteva sperare nelle realtà eterne. Questo dunque è il motivo per
cui provò invidia, dicendo a se stesso: “Questo essere inferiore otterrà ciò
che io non fui in grado di conservare? L’uomo dalla terra migrerà in cielo,
mentre io sono caduto dal cielo sulla terra? Dispongo di molti mezzi con i
quali posso ingannarlo. Egli è stato fatto di fango, la terra gli è madre, è av-
volto da cose corruttibili. Benchè l’anima sua sia di natura superiore, tutta-
via anch’essa può essere soggetta alla caduta, posta com’è nel carcere del
corpo, dal momento che io stesso non potei evitare di cadere. Vi è pertanto
______________________________
A - È proprio così. Ricordati del resto di ciò che dice la Scrittura ispirata (1Cor
15,20): “Il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, il secondo Adamo di-
venne uno spirito che vivifica”.
B - Diremo dunque che il Verbo di Dio è stato chiamato con l’appellativo di ‘secon-
do Adamo’?
A - Non per se stesso, come ho detto, ma una volta divenuto simile a noi. Diciamo
dunque che è Lui stesso, poiché vivificare non è attribuibile all’uomo ma a Dio. Inol-
tre è stato chiamato anche ‘secondo Adamo’ perché nato da Adamo secondo la carne
ed è secondo principio degli abitanti della terra, in quanto in Lui la natura dell’uomo
è instaurata ad una vita nuova nella santificazione e nella incorruttibilità mediante la
resurrezione dai morti. Così infatti la morte è stata abolita, poiché la Vita per natura
non ha tollerato che il suo proprio corpo soggiacesse alla corruzione: infatti non era
possibile che Cristo subisse l’impero della morte, secondo le parole del divino Pietro
(cf. At 2,24). In questo modo il beneficio di questo risultato è passato anche a noi».

587
una prima via da battere per tendergli una trappola, dal momento che brama
cose maggiori della sua condizione: egli infatti cerca di fare con eccessiva
operosità. In secondo luogo, è proprio della carne desiderare ciò che non ha.
Infine, in che cosa posso apparire più sapiente di tutte le creature se non rie-
sco ad ingannare l’uomo e a fronteggiarlo con astuzia e con l’inganno?” E-
gli ordì pertanto la sua trama non attaccando direttamente Adamo ma ten-
tando di ingannarlo per mezzo della donna; non attaccò colui che aveva per-
sonalmente ricevuto il mandato divino, ma attaccò colei che dall’uomo, non
da Dio, aveva appreso ciò che doveva osservare. Non si legge infatti che
Dio abbia parlato alla donna ma che parlò ad Adamo, e perciò si deve rite-
12
nere che la donna abbia saputo del comando di Dio attraverso Adamo» .
I dannati sono coloro che, su istigazione demoniaca ma per libera scelta,
aumentano la loro distanza da Dio; la loro ‘morte’, contro natura, è ‘separa-
zione’ da Dio, è esaltazione continua e senza fine della distanza tra creatore
e creatura, sottolineatura feroce e assoluta del ‘limite’ creaturale.
I beati invece godono della realizzazione piena e definitiva di ciò che
Massimo chiama ‘unificazione’. Questa ‘separazione dalla separazione’ in-
fatti unifica progressivamente tutto l’uomo: come si è letto, già in statu viae
l’amante di Dio inizia ad unificare, con l’aiuto delle grazia di Dio, prima le
sue potenze fisiche a quelle non fisiche, poi quelle non fisiche a quelle spi-
rituali. Nella misura in cui questa unificazione progredisce, l’uomo diventa
sempre più simile a Dio, senza ovviamente divenire mai Dio. Questa somi-
glianza unificatrice prende il nome di ‘deificazione’: in statu viae cresce
ma è sempre amissibile, post mortem non più. Per grazia.
* * *
In definitiva, anche se qui abbiamo potuto solo abbozzarne le linee gene-
rali, una teologia della morte in vista della deificazione ha due esiti. Per chi
procede di bene in meglio, come direbbe sant’Ignazio di Loyola, la morte è
una ‘amica’, una ‘sorella’, il compimento dell’educazione e composizione
ad unum che ha accompagnato la sua vita terrena, la lodevole ‘separazione’
da ciò che ci allontana dal nostro amato Dio e l’ingresso definitivo nello
stato beato della deificazione. Porta gioia, non tristezza, anche se il divenire
beati non toglie il sentire le sofferenze degli altri ancora in statu viae. Anzi,
a dirla proprio tutta con il nostro santo Padre Andrea di Creta,
«si potrebbe dire giustamente che non moriremo. Infatti vi sono alcuni che
sfuggiranno (alla morte), ma anche saranno mutati, secondo la sacra rivela-
zione (cf. 1Cor 15,51ss). C’è il dominio della morte - e quella è realmente la
morte - quando, essendo morti, non siamo più ammessi a ritornare alla vita.
Ma dal momento che, invece, noi moriamo e dopo la morte vivremo di nuo-

_____________________________
12
AMBROGIO, De paradiso, 12, 54 (SAEMO, II/1, 127s).

588
vo, e di una vita migliore, allora chiaramente questa non è morte ma dormi-
zione e ritorno per la seconda vita: il quale, mediante il completo riposo del-
le passioni terrene, conduce e manda in quel luogo coloro che partono da
qui, e questo lo indicò più chiaramente lo scrittore dei Proverbi dicendo (Gb
3,23): “La morte è riposo per l’uomo: infatti Dio la limitò” affinchè essa
13
non si trovasse più ad operare ciò per cui era nata» .
Per chi invece procede di male in peggio, sempre secondo sant’Ignazio,
la morte è invece una ‘nemica’, stipendio del peccato che esalta senza fine
la ‘separazione’ da Dio, ed il ‘limite’ creaturale, in un vortice crescente e
senza fine di odio per Dio, l’uomo e se stessi mescolato a dissoluzione, di-
sperazione e automaledizione. Come ci insegna il grande Origene:
«Ognuno dei peccatori accende da sé la fiamma del proprio fuoco, e non
viene immerso in un fuoco già acceso prima da altri o che esisteva prima di
lui. Esca ed alimento di questo fuoco sono i nostri peccati, che l’Apostolo
definisce legno, fieno e paglia (cf. 1Cor 3,12). E ritengo che [...] la mente (o
la coscienza) per facoltà divina accoglie nella memoria tutte le azioni di cui
ha impresso in sé, quando peccava, il segno e la forma, e si ricorda di ogni
singola azione compiuta in maniera vergognosa e turpe ed anche empia;
quando essa vedrà spiegata dinanzi agli occhi quasi la storia dei suoi delitti,
allora sarà agitata e punta dai propri stimoli e diventerà accusatrice e testi-
14
mone contro se stessa» .
Alla fine di questo lungo e complesso percorso, ci pare di poter far no-
stre le parole dell’Apostolo (2Cor 1,14ss):
«Siano rese grazie a Dio, il quale ci fa partecipare al suo trionfo in Cristo e
diffonde per mezzo nostro il profumo della sua conoscenza nel mondo inte-
ro! Noi siamo infatti dinanzi a Dio il profumo di Cristo fra quelli che si sal-
vano e fra quelli che si perdono; per gli uni odore di morte per la morte e per
gli altri odore di vita per la vita».
Vivere la morte con gioia è scandaloso per chi la subisce con orrore, così
come il provare terrore per essa è incomprensibile per chi l’attende come
una liberazione. In ogni caso, è davvero ridicolo (o una misera finzione) ri-
tenerla ‘naturale’. Ma che ne dell’immagine biblica della dormitio?
I limiti della fruibilità dogmatica e spirituale della dormitio come imma-
gine della morte non sono rimasti nascosti: a fronte di un solido fondamen-
to neotestamentario (e quello anticotestamentario non è da meno) vi è un
indiscutibile silenzio dei Padri al riguardo, non assoluto né ostile ma da non
sottovalutare, così come estremamente ridotta è la fruizione della dormitio
_____________________________
13
ANDREA DI CRETA, Homiliae, hom.1 in Dormitione Mariae (PG 97, 1049; CTP 63,
152s).
14
ORIGENE, De principiis, II, 10, 4 (SCh 252, 382ss; Simonetti, 336s).

589
nella Liturgia antica, medievale e tridentina. ‘Uso ridotto’ però non signifi-
ca ‘assenza’, anzi: la presenza della dormitio è tutta concentrata nel cuore
della Liturgia, la Preghiera Eucaristica, testimoniata fin dall’epoca dei Pa-
dri. Non a caso la dormitio spirituale, parallela alla dormitio come immagi-
ne della morte, è la categoria mistica che esprime l’unione con Dio, quella
transitoria che possiamo vivere in statu viae e quella definitiva in patria.
Quando perciò il Concilio Vaticano II, riformando la Liturgia, moltiplica
tale presenza e ne esalta il senso teologico e spirituale, facendone la cornice
del Rito delle Esequie, non introduce ‘novità’, come vogliono detrattori mal
fidati e poco informati, ma sottolinea un elemento già centralmente presen-
te nella Tradizione e, come è insindacabile diritto della Chiesa, dà ad esso il
rilievo che meglio ritiene, secondo quella valutazione pastorale che solo ad
essa spetta in virtù dell’assistenza dello Spirito. Gli oggettivi, non miscono-
scibili limiti della fruizione Tradizionale sono perciò superabili e superati
in virtù del diverso peso che al Concilio Vaticano II è piaciuto dare all’idea
della dormitio come immagine della morte.
Ciò premesso si deve aggiungere che una teologia della morte come ‘al-
ter-azione’, ma in vista della deificazione per grazia, non si può considerare
esaurita descrivendo la separazione dell’anima dal corpo come un ‘sonno’,
una dormitio appunto. È indubbio che è così, ma vi è molto di più. È questo
un punto di assoluta importanza per non ricadere nell’errore commesso a
suo tempo da Lutero, e per non essere accusati di riproporlo in maniera sto-
lida. È anche un ottimo punto di partenza per impostare su basi comuni ma
del tutto nuove il dialogo con l’Islam, il quale concepisce lo iato tra la mor-
te fisica e la resurrezione dei corpi appunto come un ‘sonno’; ma su questo
purtroppo non possiamo dire altro. Per mostrare il molto di più che la con-
cezione cattolica della dormitio contiene rispetto a queste altre, qui si sono
dunque ripresi gli elementi centrali della vita spirituale e li si sono riorien-
tati nella loro prospettiva ultima e più profonda, quella della preparazione
alla morte intesa come incontro definitivo con l’Amato, con il sempre desi-
derato. Il ‘caso serio’ della morte dei bambini, infine, è servito a mettere a
fuoco la necessità di un abbandono fiducioso al provvidente e buon disegno
di Dio, il quale guida ognuno al suo bene prossimo e remoto. Questi atteg-
giamenti interiori però nascono tutti dalla misura in cui noi amiamo Dio e
ci sentiamo amati da Lui: ogni pretesa di fondarli su altro, ad esempio sulla
‘credibilità’ della testimonianza di Gesù, tanto per menzionare una tenden-
za che va per la maggiore oggi, potrà sembrare perfetta a tavolino ma crol-
lerà disastrosamente davanti alle lacrime di una madre che piange la figlia.
E trascinerà con sé la ‘credibilità’ della nostra bella e vera fede.

590
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ris 1966 (trad. it. M.I. Danieli, CTP 83, Roma 1990).
________
In epistulam ad Romanos commentarii, PG 14, 837-1292; per la parte edita
SCh 532, 539, 543, ed. a cura di C.P. Hamond Jammel - M. Fédou- C. Bré-
sard, Paris 2009ss (trad. it. F. Cocchini, 2 voll., Casale Monferrato 1985).
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In Genesim homiliae, SCh 7bis, ed. a cura di L. Doutreleau, Paris 19762
(trad. it. M.I. Danieli, CTP 14, Roma 1978).
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In Iosue homiliae, SCh 71, ed. a cura di A. Jaubert, Paris 1960 (trad. it. R.
Scognamiglio - M.I. Danieli, CTP 108, Roma 1993).
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In Numeros homiliae, SCh 415, 442 e 461, ed. a cura di L. Doutrelau, Paris
1996, 1999 e 2000 (trad. it. M.I. Danieli, CTP 76, Roma 1988).
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In psalmos homiliae, ed. critica e trad. it. di E. Prinzivalli, Firenze 1991.
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________
De causis et processu universitatis a prima causa, ed. Coloniense, 17/II, ed.
a cura di O. Fauser, Münster i.W. 1993.
________
De morte et vita, ed. A. Borgnet, 9, Paris 1890.
________
In Sententiarum libros commentarium, ed. A. Borgnet, 25-30, Paris 1893ss.
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lano 1987).

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Paris 1895.
________
Super Iohannem, ed. A. Borgnet, 24, Paris 1892.
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Super librum Dionysii De caeleste hierarchia expositio, ed. Coloniense,
36/I, ed. P. Simon - W. Kübel, Münster i.W. 1993.
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1951.
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ALIGHIERI DANTE, La divina commedia, ed. a cura di C. Garboli, Torino 1954.
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ANGELUS SILESIUS, Il pellegrino cherubico, ed. G. Fozzer - M. Vannini, Cinisello Bal-
samo 1989 (originale tedesco a fronte).
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sis archiepiscopi opera omnia, I, 227-276 (trad. it. E. Giacobbe - G. Mar-
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Auctoritates Aristotelis, ed. J. Hamesse, Louvain-Paris 1974.
BERNARDO DI CLAIRVAUX, Sermones ad diversa, SCh 496, 518 e 545, ed. F. Callerot -
P.Y. Emery, Paris 2006, 2007 e 2012 (trad. it. D. Turco, Roma 1996).
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Sermones in Cantica canticorum, SCh 414, 431, 458 e 472, a cura di J. Le-
clerq - M. Rochais - Ch.H. Talbot - P. Verdejen - R. Fassetta, Paris 1996,
1998, 2001, 2003, 2007 (trad. it. D. Turco, Roma 1996).
________
Sermones per annum, in J. LECLERQ - H. ROCHAIS (edd.), Sancti Bernardi
opera (SBO), vol.V, Roma 1968.
pseudo-BERNARDO DI CLAIRVAUX, Meditationes piissimae de cognitione humanae con-
ditionis, PL 184, 485-508.
BOEZIO SEVERINO, Contra Eutychen et Nestorium, in H.F. STEWART - E.K. RAND, Theo-
logical tractates and Consolation of Philosophy, London 19732.
BONAVENTURA DA BAGNOREGIO, Commentaria in quattruor libros Sententiarum Petri
Lombardi, ed. Quaracchi, I-IV, Grottaferrata 1883ss.
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De triplici via (Incendium amoris), ed. Quaracchi, VIII, Grottaferrata 1898.
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Sermones, ed. Quaracchi, IX, Grottaferrata 1902.
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Bruxelles 1851.
De imitatione Christi, trad. it. a cura di U. Nicolini, Milano 19875.
Distinctiones monasticae et morales, ed. J.-B. Pitra, Paris 1852-58.
ENRICO DI GAND, Quodlibet VI, ed. a cura di G.A. Wilson, Leuwen 1987.
ERASMO DA ROTTERDAM, Opera omnia Desiderii Erasmi Roterodami recognita et ad-
notatione critica instructa notisque illustrata, Amsterdam 1969ss (ASD).
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Iulius exclusus e caelis, testo latino e trad. it. a cura di S. Seidel Menchi, To-
rino 2014.
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Colloquia, ASD I-3, ed. a cura di L.E. Halkin - F. Bierlaire - R. Hoven, Am-
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Poesias, in S. DE SANTA TERESA CD (ed.), Obras de san Juan de la Cruz,
IV, Burgos 1931 (trad. it. F. di S. Maria OCD, Roma 19855).
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Briefewechsel, Weimar Ausgabe (WA BW), Weimar 1883-1929.
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2009, 179-203.
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Enchiridion o Piccolo catechismo per pastori e predicatori indotti, in Scritti
religiosi, op. cit., 673-697.
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Epistola sull’arte del tradurre e sulla intercessione dei santi, in Scritti reli-
giosi, op. cit., 699-721.
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Il ‘Padre nostro’ spiegato nella lingua volgare ai semplici laici, in Scritti
religiosi, op. cit., 205-278.
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Le buone opere, in Scritti religiosi, op. cit., 323-430.
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Prediche sui Vangeli, in Scritti religiosi, op. cit., 533-638.
Neon Miterikon, ms gr. EBE 513; trad. it. B. Cavarra, La porta stretta. Ascetismo cri-
stiano e santità femminile in una antologia tardobizantina (Neon Miterikon,
ms. gr. EBE 513), Praglia 2007.

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J. Schlageter, Grottaferrata (RM) 1999.
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Lectura super Genesim, testo www.corpusthomisticum.org;
PIETRO LOMBARDO, Sententiae, ed. Quaracchi, Grottaferrata 1981.
PIETRO IL VENERABILE, De miraculis, PL 189, 851-954.
RASHÌ (rav Shlomo ben Itzhaq), Commento al Genesi, trad. it. L. Cattani, Casale Mon-
ferrato 1985.
RICCARDO DI SAN VITTORE, Adnotationes mysticae in psalmos, PL 196, 265-404.
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De gratia contemplationis (Beniamin maior), PL 196, 63-202.
_________
De Trinitate, SCh 63, ed. a cura di G. Salet, Paris 1959 (trad. it. M. Spinelli,
Roma 1990).
SALIMBENE DE ADAM, La cronaca, ed. G. Tonna, Milano 1964.
Summa sententiarum, PL 176, 41-174.
TERESA D’AVILA, Castillo interior, testo spagnolo in M. Bettetini (ed.), Teresa d’Avila.
Tutte le opere, Milano 2011 (trad. it. L. Falzone, Roma 1982).
_________
Libro de mi vida, testo spagnolo in M. Bettetini (ed.), Teresa d’Avila. Tutte
le opere, Milano 2011 (trad. it. L. Falzone, Roma 1982).
_________
Poesias, testo spagnolo e trad. it. in M. Bettetini (ed.), Teresa d’Avila. Tutte
le opere, Milano 2011.
TOMMASO D’AQUINO, Contra Gentiles, ed. Leonina, 13-15, Roma 1918-1926; ed. Ma-
rietti, ed. C. Pera, Torino-Roma 1961 (trad. it. T.S. Centi, Milano 2009).
_________
Lectura super evangelium Iohannis, ed. Marietti, a cura di R. Cai, Torino-
Roma 19525 (trad. it. T.S. Centi, Roma 1992).
_________
Quaestiones disputatae de malo, ed. Leonina, 23, Roma 1982 (anche ed.
Marietti, a cura di M. Calcaterra - T.S. Centi, Torino-Roma 1965; trad. it. F.
Fiorentino, Milano 2001).
_________
Scriptum super libros Sententiarum Petri Lombardi, ed. P. Mandonnet (I-II)
e P. Moos (III-IV), Paris 1929, 1933; anche www.corpusthomisticum.org.
_________
Summa theologiae, ed. Paoline, Roma 1998 (con il testo critico dell’ed. Leo-
nina, voll.4-12, rivisto e corretto).
UGO DI SAN VITTORE, De sacramentis christianae fidei, PL 176, 173-618.

2.3.
FONTI MAGISTERIALI

N.B. - per i testi liturgici si rimanda al Messale Romano o ai Rituali approvati


dalla Conferenza Episcopale Italiana, nelle edizioni indicate;
- per i documenti del Concilio Vaticano II si rinvia ad EV 1;
- per i documenti magisteriali si rinvia a DS, versione bilingue.

BENEDETTO XIV, litt.enc. Vix pervenit (1 novembre 1745), https://w2.vatican.va/con-


tent/benedictus-xiv/it/documents/enciclica--i-vix-pervenit--i---1-novembre-
1745--poiche-e-venuto-.html.
_________
litt. enc. Deus caritas est, AAS 98 (2006) 217-252 (EV 23, 1538-1605).

599
Catechismo della Chiesa Cattolica, Città del Vaticano 1992 (solo traduzione italiana).
CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Signore da chi andremo? Il catechismo degli adul-
ti, Roma 1981.
CONFERENZA EPISCOPALE OLANDESE, Catechismo cattolico degli adulti. La confessione
della fede della Chiesa, Cinisello Balsamo 1989.
CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, «Traduzione dell’articolo “carnis re-
surrectionem” del Simbolo Apostolico», Notitiae 20 (1984) 180-181 (trad.
it. in Temi attuali di escatologia, op. cit., 35s).
_________
Responsum ad dubium ‘Utrum doctrina’ circa doctrinam in ep. ap. “Ordi-
natio sacerdotalis” traditam, AAS 87 (1995) 1114 (EV 14, nn.3271-3282,
con commento anonimo).
GIOVANNI PAOLO II, litt. ap. Ordinatio sacerdotalis, AAS 86 (1994) 545-548 (EV 14,
nn.1340-1348);

2.4.
FONTI AUSILIARIE

ARISTOTELE, De anima, ed. W.D. Ross, Oxford 1961 (trad. it. G. Movia, Milano 1996).
_________
De caelo, ed. P. Moraux, Paris 1965 (trad. it. di A. Jori, Milano 1999).
_________
De generatione animalium, ed. A.L. Peck, Cambridge, 19633.
_________
De iuventute et senectute, ed. a cura di W.D. Ross, Oxford 1955 (trad. it. R.
Laurenti, Roma-Bari 1973).
_________
De longitudine et brevitate vitae, ed. a cura di W.D. Ross, Oxford 1955
(trad. it. R. Laurenti, Roma-Bari 1973).
_________
De respiratione, ed. a cura di W.D. Ross, Oxford 1955 (trad. it. R. Laurenti,
Roma-Bari 1973).
_________
Physica, ed. W.D. Ross, Oxford 1960 (trad. it. A. Ruggiu, Milano 1995).
CELESTIO, Libellus fidei, PL 48, 499-505.
OMERO, Iliade, ed. T.W. Allen, Oxford 1925 (trad. it. a cura di R. Calzecchi Onesti,
Torino 19892).
_________
Odissea, ed. T.W. Allen, Oxford 1931 (trad. it. a cura di R. Calzecchi One-
sti, Torino 19902).
PELAGIO, Expositio in prima Corinthiois, PLsuppl 1, 1210-1298 (trad. it. S. Matteoli,
CTP 221, Roma 2012).
_________
Expositio in Romanos, PLsuppl. I, 1110-1210 (trad. it. S. Matteoli, CTP
221, Roma 2012).
PLATONE, Apologia Socratis, trad. it. a cura di G. Reale, Milano 1993 (con il testo gre-
co di J. Burnet, Platonis opera, Oxford 1900-1907);
_________
Fedone, trad. it. a cura di A. Tagliapietra, Milano 1994 (con il testo greco di
J. Burnet, Platonis opera, Oxford 1900-1907);
SENOFONTE, Ciropedia, ed. E.C. Marchant, Oxford 1910 (trad.it. a cura di C. Carena,
Torino 1962).
Talmud bablì, tr. Berakhôt, trad. it. S. Cavalletti, Novara 20162.
VIRGILIO, Eneide, testo latino e trad. it a cura di A. Fo, Torino 2012.

600
3
Letteratura critica
(opere miscellanee, saggi e articoli)

AAVV Biologie, logique et metaphysique chez Aristote, Séminaire du CNRS-NSF


1987, ed. a cura di D. Devereaux-P. Pellegrin, Paris 1990.
AAVV, Geschichte des Pietismus, Göttingen 1993-2004.
AAVV, La mort au Moyen Âge. Colloque de la Société des historiens médiéviste
français (Strasbourg juin 1975), Strasbourg 1977.
AAVV Philosophical issues in Aristotle’s biology, ed. a cura di G. Gotthelf-J.G.
Lennox, Cambridge 1987.
AAVV L’élaboration du vocabulaire philosophique au Moyen Âge. Actes du Collo-
que internationale de Louvain la Neuve et Louven (12-14 septembre 1998)
organisé par la Société Internationale pour l’Étude de la Philosophie Mé-
diévale, ed. a cura di J. Hamesse - C. Steel, Turnhout 2000.
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F. AKKERMAN et alii (edd.), Wessel Gansdorf (1419-1489) and northern humanism,
Leiden 1993.
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SO (ed.), Scritture di donne. Uno sguardo europeo. Atti del convegno del 12
e 13 marzo 1999, Arezzo 1999, 22-32.
I. ALFEEV, La forza dell’amore. L’universo spirituale di Isacco il Siro, Magnano (BI)
2003 (trad. it. di The spiritual world of Isaac the Syrian);
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La Chiesa Ortodossa, 5 voll., Bologna 2013ss.
P. ALTHAUS, Die letzen Dingen. Lehrbuch der Eschatologie, Gütersloh 1957.
H. ANZULEWICZ, «Der Denkstruktur des Albertus Magnus. Ihre Dekodierung und ihre
Relevanz für die Begrifflichkeit und Terminologie», in L’élaboration du vo-
cabulaire philosophique, 369-396.
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Albertus Magnus», in J.A. AERTSEN-M. PICKAVÉ (edd.), Ende und Vollen-
dung. Eschatologische Perspektiven im Mittelalter (Miscellanea mediaeva-
lia, Band 29), Berlin-New York 2002, 388-416.
A. ARA, All’incrocio tra teologia e spiritualità: il caso del peccato originale. Note di
antropologia fondamentale e spiritualità fondamentale nell’ambito di una
Teologia Fondamentale, Beau Bassin 2017.
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Duns Scoto (Lectura, II, dist.12, a.1), Roma 2011 (tesi dottorale).
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«A proposito della immaterialità angelica: una ricognizione sui pronuncia-
menti magisteriali», Vivens Homo 17 (2006) 95-128.
_________
«Il termine platonitas nell’Avicenna latino: arbitrio del traduttore o indizio
prezioso?», Vivens Homo 25 (2014) 481-495.
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“Scrivi in un libro quel che ti dirò”. La Rivelazione come Ispirazione, Beau
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613
INDICE

Introduzione 7
Sigle 13

PARTE PRIMA
UN’IMMAGINE:
LA MORTE COME DORMITIO

CAPITOLO 1
Primo explicatio terminorum: per prima cosa spiegazione dei termini 17
1.1. Il dato di fatto della morte: posizione della questione 18
1.2. Un’immagine biblica, metafisica, spirituale: la morte come dormitio 27
1.2.1. La morte come dormitio: i presupposti metodologici dell’esame 29
1.2.2. La dormitio cattolica e la dormitio riformata: contatti e differenze 32
1.3. La dormitio cattolica: una presentazione generale 38

CAPITOLO 2
Il fondamento biblico della dormitio come immagine della morte 43
2.1. Il senso letterale dell’immagine 44
2.2. Il senso cristologico (allegoria) 52
2.3. Il senso tropologico (morale) 65
2.4. Il senso anagogico (spirituale in senso proprio) 77
2.5. Il fondamento biblico della dormitio: osservazioni conclusive 86

CAPITOLO 3
La riflessione della Chiesa sulla dormitio come immagine della morte 91
3.1. La dormitio nella Tradizione dei Padri 91
3.1.1 La dormitio nei commenti biblici 92
3.1.2. La dormitio in altri contesti 103
3.2. La Liturgia della Chiesa e l’immagine della dormitio 117
3.2.1. L’immagine della dormitio nei testi della Liturgia 117
3.2.2. La successione storica dei testi liturgici sull’immagine della dormitio 121
3.3. La dormitio come immagine della morte nei documenti del Magistero 125
3.4. Conclusioni: è la dormitio immagine della morte o il contrario? 127

CAPITOLO 4
La dormitio come immagine della unio mystica ante et post mortem 133
4.1. La dormitio e la mistica: posizione di un rapporto 133
4.2. La dormitio mortis nella mistica: le linee di fondo 139
4.3. La dormitio mistica: il contributo dei medievali 145
4.4. La dormitio mistica: il contributo di Teresa d’Avila 162
4.5. La dormitio e la mistica: una relazione vitale 166

CAPITOLO 5
La morte come dormitio: validità di un’immagine 169

615
PARTE SECONDA
UNA SVOLTA SPIRITUALE FONDAMENTALE:
IL SENSO DELLA PAURA DELLA MORTE

CAPITOLO 6
Una svolta spirituale fondamentale: il senso della paura della morte 179
6.1. Il senso della paura della morte: la posizione della questione 179
6.2. La paura della morte prima della querelle pelagiana 181
6.2.1. Il courant théologique di un atteggiamento spirituale 184
6.2.2. I termini teologici di una differenziazione spirituale 190
6.3. Il senso della morte prima di Pelagio: conclusioni teologico-spirituali 201

CAPITOLO 7
Ambrogio di Milano e la morte come beneficium 205
7.1. Ambrogio e la riflessione anteriore sul senso della morte 205
7.2. Il contributo di Ambrogio: il De excessu fratris sui Satyri 212
7.3. Il contributo di Ambrogio: il De bono mortis 215

CAPITOLO 8
I Padri greci e la paura della morte 223
8.1. I fondamenti della riflessione: Origene e Metodio di Olimpo 223
8.2. Gli sviluppi della riflessione 1: Gregorio di Nazianzo 230
8.3. Gli sviluppi della riflessione 2: Gregorio di Nissa 235
8.4. I Padri neptici ed il senso della paura della morte 240
8.5. I Padri greci e la paura della morte: conclusioni 247

CAPITOLO 9
La paura della morte, Agostino e la querelle pelagiana 251
9.1. La concezione agostiniana fuori del contesto polemico 251
9.2. I rapporti tra l’antropologia pelagiana e la paura della morte 265
9.3. Agostino e la querelle pelagiana: la messa a punto della catholica 277
9.4. Agostino e la querelle pelagiana: c’è un cambio di prospettiva? 290
9.5. Agostino e la paura della morte: conclusioni 294

CAPITOLO 10
La rilevanza spirituale della paura della morte 297

PARTE TERZA
LA TEOLOGIA DELLA MORTE:
SISTEMATICA GENERALE E SPECIALE

CAPITOLO 11
L’evoluzione della teologia della morte I 307
11.1. Premessa storico-metodologica 307
11.2. Le teologie della morte nei secc.VIII-XIV 311
11.2.1. Le teologie della morte nei secc.VIII-XI 312
11.2.2. Le teologie della morte del sec.XII 316

616
11.2.3. Le teologie della morte del sec.XIII 325
11.2.4. Le teologie della morte del sec.XIV 354
11.3. Le teologie della morte nei secc.VIII-XIV: panorama complessivo 371

CAPITOLO 12
L’evoluzione della teologia della morte II 377
12.1. Le teologie della morte nei secc.XV-XVIII: il contesto 377
12.2. La percezione della morte prima di Lutero 379
12.3. La teologia della morte in Martin Luther e nei primi Riformatori 382
12.4. La teologia della morte della Riforma cattolica 392
12.5. La teologia della morte nelle sistemazioni fino al sec.XVIII 420
12.6. Le teologie della morte nei secc.XV-XVIII: panorama complessivo 433

CAPITOLO 13
L’evoluzione della teologia della morte III 437
13.1. Il contesto socio-politico dei secc.XIX-XXI 438
13.2. Il neo-scolasticismo cattolico e riformato sulla morte (sec.XIX) 445
13.3. I fermenti del secolo XX e la teologia della morte 449
13.4. La moderna teologia della morte nelle Chiese ortodosse 462
13.4.1. La teologia della morte nell’Ortodossia russo-slava (cenni) 467
13.4.2. La teologia della morte nell’Ortodossi greca (cenni) 474
13.5. Le teologie della morte nei secc.XIX-XXI: panorama complessivo 492

CAPITOLO 14
Per una teologia della morte dal punto di vista della deificazione 497
14.1. La opportunità di elaborare una nuova teologia della morte 498
14.1.1. I suggerimenti della mistica 498
14.1.2. La possibilità metafisica 507
14.1.3. La sintesi antropologico-escatologica 512
14.2. Dal punto di vista della deificazione: alcune linee spirituali di fondo 515
14.2.1. La prospettiva di Massimo il Confessore 516
14.2.2. Gustare la morte 524

CAPITOLO 15
La teologia della morte: questioni di sistematica speciale 533
15.1. La morte degli altri dal punto di vista di chi rimane (nella fede) 533
15.2. La morte prematura dei bambini 547
15.3. L’Apparecchio alla morte ossia: l’avvicinarsi del momento finale 557
15.4. Conversione in punto di morte: ultima spiaggia o pia illusione? 566

CAPITOLO 16
La morte come inizio della ‘alter-azione’ deificante 579

Bibliografia 591
Indice 615

617

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