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1.

L’homo oeconomicus della microeconomia neoclassica

Individualismo e razionalità: le basi del comportamento secondo l’economia


neoclassica

Come visto precedentemente, l’economia neoclassica - cioè l’economia che emerge


dalla rivoluzione marginalista della seconda metà dell’ 800 e mantiene il suo dominio
sulla microeconomia durante tutto il ‘900 1 - si concepisce come una scienza delle
scelte, ovvero scelte vincolate. L’oggetto della microeconomia neoclassica è il
comportamento individuale, sicché il comportamento individuale è ritenuto la causa
di tutti i fenomeni sociali rilevanti per l’economista. Questa opzione metodologica
viene chiamata individualismo metodologico e viene contrastata con l’olismo
metodologico - che attribuisce i fenomeni sociali a cause sociali, cioè fattori legati al
comportamento collettivo. Bisogna precisare che né l’una né l’altra sono
caratteristiche metodologiche esclusive della scienza economica: pure nelle altre
scienze sociali (sociologia, scienza politica…) vanno affrontate le stesse scelte - e
imperversano gli stessi dibattiti metodologici ed epistemologici.
La seconda base assiomatica (nelle scienze, un assioma è una proposizione o un
principio ritenuto evidente, che non necessita quindi nessuna dimostrazione) del
modello neoclassico del comportamento umano è l’ipotesi di razionalità. Bisogna
subito aggiungere che questo assioma non è proprio all’economia neoclassica: in
particolare, anche gli autori classici (come Adam Smith o David Ricardo) basano i loro
ragionamenti sull’ipotesi di razionalità degli agenti economici (che siano, essi,
produttori, investitori, mercanti, lavoratori o risparmiatori). Infatti, Max Weber
(1864-1920) (oramai, nell’estrema divisione attuale del lavoro scientifico, identifico
come sociologo, benché fosse pure economista e storico) identifica l’”azione
economica” come idealtipicamente razionale, ovvero come “l’esercizio pacifico del
controllo di un agente su delle risorse, diretto principalmente a soddisfare fini
economici.”2 Potremmo distinguere tre diversi livelli di razionalità nell’azione
economica. Il primo livello, più ampio, considera la razionalità come l’attributo di un
comportamento coerente con le motivazioni dell’agente. In altri termini, l’agente
sceglie un’azione sulla base di motivazioni / di uno scopo da raggiungere. Un
secondo livello di razionalità riguarda la razionalità strumentale analizzata da
Weber, cioè il rapporto riflessivo tra mezzi e fini. Questa razionalità impiega un
calcolo delle conseguenze dell’azione - i costi e benefici di tale azione. Un terzo
livello di razionalità, più stringente degli altri due, concerne la razionalità
strumentale propria dell’azione economica: la scelta, cioè, dei fini più adeguati ai
mezzi di cui l’agente dispone; l’agente ottimizza le sue risorse. E’ quest’ultima la
razionalità ipotizzata dal modello comportamentale neo-classico.
Ed è qui che le varie scuole neoclassiche rompono decisamente con gli
economisti classici. Infatti, secondo questi ultimi, sulla scia della tradizione
illuministica, gli agenti (economici) sono mossi da una pluralità di motivazioni - di
interessi e di passioni. E’ vero, Adam Smith (1723-1790), come altri economisti
1
Questo paradigma mainstream, benché le sue basi siano state create dai marginalisti nella seconda metà del
‘800, viene riformulato in modo efficace e durevole dall’economista statunitense Paul Samuelson (1915-2009) in
una serie di opere influenti nel secondo dopoguerra, tra cui un manuale di economia molto utilizzato da
generazioni di economisti nella seconda metà del ‘900.
2
Max Weber, [1923], Economia e Società, Roma: Donzelli, 2019.

1
classici, insiste sul ruolo motore nel funzionamento del sistema economico del “self-
interest” - che chiama pure “self-love”, amore di se stesso. 3 Ma (a) questo self-
interest non è semplice egoismo: l’amore di se valorizza vari elementi del “sé” che
hanno a che vedere con altri aspetti della vita umana; (b) il self-interest è solo una
delle motivazioni degli agenti economici. Come osserva Alessandro Roncaglia,
“l’interesse personale di cui parla Smith non va inteso in senso assoluto, come
egoismo incondizionato, ma come motivazione dominante condizionata però da un
freno potente, […] la morale della simpatia, cioè il desiderio di ottenere
l’approvazione degli altri.”4 Peraltro, possiamo aggiungere, grazie al lavoro
illuminante di Albert Hirschman, l’interesse, quale concetto economico, è emerso nel
contesto di una teoria del bilanciamento delle motivazioni dei sovrani.5
Radicalmente opposta a questa visione è la concezione “monodimensionale”
(Roncaglia) dell’agire umano proposta da Jeremy Bentham (1748-1832) con il
concetto di “calcolo felicifico”, che consiste nella “valutazione quantitativa e nella
somma algebrica dei piaceri e delle pene che derivano da ogni azione o insieme di
azioni.”6 Questa visione è ripresa dai marginalisti, insieme al “paradigma pre-classico
della scarsità e dell’utilità” (Roncaglia). 7 Il calcolo felicifico di Bentham prima, e la
razionalità ottimizzante dei neoclassici poi, si basano, inoltre, su un’ altra concezione
in rottura con l’economia politica classica: la concezione del valore economico come
valore fondamentalmente soggettivo. Da questo punto di vista l’enfasi posta dai
neoclassici al comportamento del consumatore è doppiamente significativa. In primo
luogo, tale enfasi è significativa perché esprime una chiara rottura di focale rispetto
ai classici, per i quali il problema principale era quello della produzione, mentre il
problema dell’assorbimento delle merci dalla domanda (dei consumatori e delle
altre imprese) era un problema secondario. Il fatto di produrre per il mercato è
sicuramente un tratto decisivo della produzione in un’ economia capitalistica; ma ciò
non implica che l’analisi del funzionamento del mercato (domanda vs. offerta) debba
prevalere, nella teoria economica, sull’analisi della produzione e dei rapporti di
produzione (nell’ottica marxiana). Invece i neoclassici spostano la focale su (i) il
mercato quale luogo di incontro tra offerta e domanda (lo vedremo in una prossima
lezione); (ii) il comportamento individuale soggettivo degli agenti partecipando al
mercato, in prima istanza il consumatore.
Invece, gli economisti classici, incluso Marx, sviluppano una teoria del valore
oggettivo, e si focalizzano sulle relazioni oggettive al centro del funzionamento
3
Infatti, subito dopo il famoso passaggio, nel primo capitolo del primo libro della Ricchezza delle nazioni, sul ruolo
allocativo dell’interesse (“It is not from the benevolence of the butcher, the brewer, or the baker that we expect
our dinner, but from their regard to their own interest”), Smith scrive “We address ourselves not to their
humanity but to their self-love.” (Adam Smith, 1776, An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of
Nations, London: Penguin Classics [1999], p.119; trad. it. a cura di A. Bagiotti, La Richezza delle Nazioni, UTET,
2013).
4
Alberto Roncaglia (2019), L’età della disgregazione. Storia del pensiero economico contemporaneo, Bari: Laterza,
p.15. Roncaglia aggiunge che l’approvazione degli altri va intesa, come Smith lo scrive in un libro di filosofia
morale (la Teoria dei sentimenti morali) pubblicato nel 1759, ossia 17 anni prima della Ricchezza delle nazioni,
come approvazione di un arbitro invisibile, ovvero la nostra coscienza, in pagini che anticipano Kant.
5
Cioè, come suggerisce Hirschman in Le passioni e gli interessi, l’interesse individuale, legato al proprio
benessere materiale, è stato costruito dai filosofi politici (a cominciare da Montesquieu) quale contropeso delle
passioni distruttive dei tiranni. Si veda Albert Hirschman, 1977, The Passions and the Interests. Political
Arguments for Capitalism before its Triumph, Princeton, NJ: Princeton University Press, trad. it. Le Passioni e gli
Interessi, Feltrinelli, 1979.
6
Roncaglia, op.cit., p.15.
7
Ibid., p.19.

2
dell’economia: rapporti di produzione e relazioni di scambio si contraddistinguono
precisamente, nell’economia capitalistica, per il fatto che esse si impongono agli
agenti individuali come realtà oggettive, esterne alla soggettività. E’ proprio questo
fenomeno che induce Marx a criticare l’economia politica classica che, secondo lui,
cerca di naturalizzare l’esteriorità dei rapporti di produzione rispetto all’essere
umano, mentre essa è un fenomeno storico, proprio al capitalismo; e, inoltre, tale
fenomeno, che Marx chiama alienazione, genera effetti distruttivi sull’essere umano.
Su queste due basi (individualismo metodologico e razionalità soggettiva)
l’economia neoclassica sviluppa un modello analitico che gli consente di
comprendere il comportamento degli agenti economici - di tutti gli agenti economici,
in tutte le scelte che tali agenti sono condotti a prendere (scelte di consumo, di
risparmio, di produzione, di lavoro…), come diventerà ancora più palese nel periodo
“imperialistico” dell’economia neoclassica, negli anni 1960 e 1970 (si veda avanti).
L’utilità si trova al centro di questo modello comportamentale: indica il grado di
soddisfazione o piacere individuale associato ad una data azione o scelta. E’ un’
eredità, questa, sia dell’utilitarismo di Bentham (visione opposta a quella di Smith,
come menzionato sopra), sia dei pensatori pre-classici. 8 Maggiore è il piacere tratto
da un’ azione, maggiore è l’utilità dell’agente. Dato che i piaceri (e le pene) sono
soggettivi (cioè propri all’individuo singolare, e variabili da un agente all’altro),
l’utilità è un concetto intrinsicamente soggettivo. Perciò, mentre l’utilità veniva
trattata come variabile cardinale dai primi economisti marginalisti (William Jevons,
1835-1882; Léon Walras, 1834-1910), Vilfredo Pareto (1848-1923), e al suo seguito
tutta la microeconomia classica, ha preferito concepire l’utilità come variabile
ordinale, cioè una variabile per la quale i valori non possono essere quantificati ma
possono essere ordinati, cioè classificati tra di loro: si ritiene quindi che l’agente sia
in grado di associare ad azioni alternative gradi più o meno grandi di utilità. In
conseguenza l’agente può esprimere preferenze tra azioni alternative. Questa è una
condizione cruciale per potere modellizzare il comportamento dell’agente nel senso
neoclassico, come si vedrà nel caso della teoria del consumatore.
L’agente ha di fronte a sé una funzione-obiettivo, una funzione di utilità. La
funzione di utilità mette in relazione l’utilità del soggetto con le sue determinanti. In
termini generici, possiamo scriverla nel modo seguente: U=f ( x , y )
dove x e y indicano le determinanti dell’utilità individuale. Se x e y sono determinanti
positivi, all’aumentare di x e y aumenterà l’utilità dell’individuo. L’ottimizzazione
inerente al comportamento razionale dell’individuo comporta, da parte di
quest’ultimo, la massimizzazione della propria utilità, dati i vincoli che incombono
sulla sua scelta. Tale massimizzazione viene proseguita tramite le tecniche del
calcolo differenziale applicato dagli economisti marginalisti al comportamento
individuale. Questo modello, originariamente proposto dai marginalisti negli anni
1860, viene costantemente arricchito da contributi ulteriori, come quello di John von
Neumann e Oskar Morgenstern che formulano la teoria dell’utilità attesa nel 1944,
che riconosce l’incertezza legata alle scelte degli agenti economici, per i quali quindi

8
Roncaglia parla a proposito della teoria neo-classica di un “ritorno al paradigma pre-classico della scarsità e
dell’utilità.” (Roncaglia, op.cit., p.19) Ovviamente, ciò non significa che tutte le scuole pre-classiche siano state
obnubilate da queste problematiche.

3
importa, per valutare le alternative, conoscere la media delle utilità dei diversi esiti,
ponderate con le rispettive probabilità - l’utilità attesa. 9

Limitazioni dell’approccio marginalista: le critiche marxiste, istituzionaliste,


sociologiche

Karl Marx (1818-1883) è, giustamente, spesso visto come uno dei maggiori critici
non solo del capitalismo, ma anche dell’ideologia del capitalismo, che egli identifica
nell’economia politica classica. La sua opera più compiuta e, paradossalmente,
incompiuta, cioè Il Capitale, la cui prima edizione è stata pubblicata nel 1867, porta il
sottotitolo “critica dell’economia politica”. I primi capitoli della prima edizione del
Capitale riprendono argomenti sviluppati anni prima in vari testi, come
l’”Introduzione alle Grundrisse del 1857” testo pubblicato postumo dove Marx
presenta per la prima volta le sue analisi critiche delle categorie dell’economia
politica - analisi basata su letture intense durante i decenni centrali del’ 800. La
critica marxiana (ad opera di Karl Marx) non è, quindi, diretta alle teorie marginaliste
- che vengono proposte in lavori pubblicati negli stessi anni in cui Marx pubblica il
Capitale, e nei decenni successivi. Inoltre, abbiamo sottolineato sopra gli elementi di
rottura tra approccio classico e approccio neo-classico. Tuttavia, aldilà dei contrasti,
oggettivi, esistono anche punti di contatto saldi tra i due approcci. In conseguenza,
alcune delle critiche formulate da Marx conservano la loro rilevanza nei confronti
delle teorie marginaliste.
In particolare, Marx critica la concettualizzazione, da parte degli economisti
politici classici, Smith e Ricardo inclusi, di un agente individuale naturalmente
portato allo scambio di merci. Questa concettualizzazione, illustrata da Smith e
Ricardo in vari passaggi delle loro opere con delle parabole che mettono in scena
cacciatori e pescatori primitivi o isolati, appartiene, secondo Marx, alle “finzioni
senza immaginazione della robinsonata del XVIIImo secolo”,10 riferendosi al Robinson
Crusoé di Daniel Defoe. Robinson, bisogna aggiungere, costituisce l’archetipo
dell’homo oeconomicus ante letteram usato sia dai classici come Frédéric Bastiat sia
dai neoclassici come William Jevons. Invece, secondo Marx, l’agente individuale
razionale, che scambia merci con altri agenti individuali, non è il riflesso della
profonda natura, astorico, dell’essere umano: è il prodotto storico di una certa
società (la società borghese), che emerge con l’avvento di rapporti di produzione
nuovi, i quali creano nuovi tipi di interdipendenze tra gli esseri umani (rispetto alle
interdipendenze pre-capitalistiche): “l’epoca che genera questo punto di vista [cioè,
quello dell’agente economico quale individuo atomistico] è precisamente quella in
cui i rapporti sociali sono più sviluppati che mai.”11
Un secondo aspetto della critica marxiana sembra anticipare direttamente
l’enfasi posta dai marginalisti sul consumo (in contrasto con gli economisti classici), e
concerne il contrasto, estrapolato da Marx dalla sua letture degli economisti classici,
tra il “momento” soggettivo della circolazione delle merci, in cui consisterebbe il
consumo, e il “momento” oggettivo, in cui consisterebbe la produzione. Nello stesso
testo del 1857, Marx scrive che, al contrario, consumo e produzione sono identici: il
9
Von Neumann e Morgenstern sono famosi per i loro contributi fondamentali nella teoria dei giochi, che occupa
oggi uno spazio rilevante nella disciplina economica.
10
Karl Marx, [1857], Introduction aux Grundrisse dite “de 1857”, Paris: les éditions sociales, 2014: p.31.
11
Ibid., p.32.

4
consumo, inter alia, fornisce alla produzione il suo oggetto; una merce prodotta ma
non consumata non è interamente realizzata quale merce prodotta.
La rilevanza delle critiche marxiane viene arricchita successivamente dai lavori di
alcuni teorici marxisti, contemporanei o posteri dei marginalisti. In particolare,
l’identità marxiana tra consumo e produzione costituisce il punto di partenza per la
critica formulata da Nikolaj Bucharin (1888-1938), rivoluzionario e teorico russo, in
un testo scritto nel 1914. In questo saggio, intitolato “l’economia politica del rentier”,
Bucharin focalizza esplicitamente (come si evince dal sottotitolo del libro) la sua
critica sull’economia marginalista austriaca, una delle scuole più attive e più influenti
del pensiero marginalista. Bucharin osserva quanto la scelta da parte degli
economisti austriaci (Eugen von Böhm-Bawerk, 1851-1914; Carl Menger, 1840-
1921) di focalizzarsi sul consumatore riflettano lo stadio di sviluppo dell’economia
capitalistica di fine ‘800, dominata secondo Bucharin dalla figura del rentier (colui
che vive di rendita). In questo modo Bucharin riprende la critica di Marx contro
l’economia politica classica come ideologia - cioè come costrutti ideali che
universalizzando le condizioni di vita (le condizioni sociali) dell’epoca dei loro autori,
consentono a questi ultimi di giustificare implicitamente l’ordine delle cose (i
rapporti tra le forze produttive) di questa stessa epoca. In altre parole, gli economisti
possono teorizzare leggi astratte della vita economica precisamente perché
l’economia capitalista produce un essere astratto. Bucharin nota un deterioramento
dell’ideologia borghese (l’economia politica), che, appunto, passa dall’ideologia del
produttore (l’economia politica classica) all’ideologia del rentier (l’economia politica
marginalista) - un’ ideologia iper-individualista, soggettiva e che enfatizza il consumo.
“Il concetto di utilità, scrive Bucharin, non suppone né qualsiasi “sforzo lavorativo”,
né produzione; esprime non un rapporto attivo, ma un rapporto puramente passivo
con le cose.”12
Invece, sottolinea Bucharin sulla scia di Marx, il consumatore, quale agente
economico, è un essere profondamente sociale: le sue motivazioni sono sociali; l’atto
di consumare è determinato da uno stato di necessità, proprio di colui che deve
vendere sul mercato la sua forza di lavoro per ottener i mezzi per il proprio
sostentamento. Inoltre, i bisogni del consumatore sono bisogni sociali, determinati
dai rapporti di produzione. Infine, secondo Bucharin, l’economia marginalista è
incapace di spiegare i problemi dinamici posti dallo sviluppo delle economie
capitaliste.
Un’ ulteriore critica del marginalismo è fornita da un altro brillante intellettuale
marxista, l’austriaco Rudolf Hilferding (1877-1941), in un saggio originariamente
pubblicato (in tedesco) nel 1904, nel quale risponde alle critiche mosse da Böhm-
Bawerk alla teoria marxiana del valore. 13 Come Bucharin, Hilferding ci critica, in
particolare, l’impostazione soggettiva della teoria marginalista - impostazione alla
base della teoria del valore d’uso quale essenza del valore delle merci. In
un’economia capitalistica, Hilferding osserva, in sintonia con Marx, il valore delle
merci, per gli agenti, risiede proprio nel loro valore di scambio - le merci sono
apprezzate in quanto prodotte per essere scambiate, non perché abbiano un valore
soggettivo (valore d’uso) per il consumatore.
12
Nikolaj Bucharin, [1919], L’Économie Politique du Rentier. Critique de l’Économie Marginaliste, Paris: Etudes et
Documentations Internationales, 1967, p.67. Interessante sarebbe considerare queste osservazioni alla luce del
ribaltamento beckeriano del paradigmo del consumatore neoclassico, come viene presentato più avanti.
13
Rudolf Hilferding, [1904], Böhm-Bawerk’s Criticism of Marx, London: the Merlin Press, 1975.

5
Una seconda critica alla teoria marginalista viene formulata dalla cosìdetta
“scuola storica” tedesca, tra cui spicca la figura di Gustav Schmoller (1837-1917), che
rimprovera Menger (e attraverso lui tutte le scuole marginaliste) per il tentativo di
fondare delle “leggi economiche” (tra cui, appunto, le leggi del comportamento
dell’agente razionale) su “postulati a priori o su una base considerata insufficiente di
rilevazioni di regolarità empiriche.”14 Tuttavia la negata legittimità a priori di una
teorizzazione fondata sull’astrazione ci allontana dalla discussione delle ipotesi qui
discusse e risulta essere un attacco più debole agli assiomi neoclassici
Infatti, uno degli interlocutori diretti della Scuola storica, il sociologo Max
Weber, accoglie dai marginalisti “l’esigenza di un’ interpretazione razionale dell’agire
umano”, rifiutando l’empirismo a-teorico della Scuola storica. Tuttavia Weber adotta
una posizione altrettanto critica nei confronti della teoria marginaliste,
contestualizzando le ipotesi comportamentali formulate da quest’ultima e
facendone dei costrutti storici piuttosto che degli assiomi a-storici. La posizione
weberiana non dovrebbe però nascondere una critica sociologica più ampia, di
ispirazione più durkheimiana (dal nome del sociologo francese Émile Durkheim,
1858-1917). Questa critica, che fonda un approccio alternativo ai fenomeni
economici (chiamato sociologia economica), mira sia la teoria neoclassica delle
motivazioni degli agenti economici (che ignora fattori fondamentali come i valori
sociali, le influenze inter-soggettive), sia i postulati metodologici della teoria: la
sociologia durkheimiana adotta l’olismo metodologico considerando che i soggetti
individuali vanno sempre (com)presi nel loro contesto sociale e storico. 15 In
conseguenza, la razionalità non è tanto individuale quanto collettiva.
Un’ ultima critica importante, contemporanea della rivoluzione marginalista,
proviene dall’istituzionalismo statunitense - un’altra scuola di pensiero economico
che è stata molto influente nella prima parte del ‘900, per poi essere quasi del tutto
dimenticata dalle successive generazioni di economisti. Uno di principali esponenti di
questa scuola fu Thorstein Veblen (1857-1929), che in un libro famoso, la “Teoria
della classe agiata”, insistette sulle abitudini e condizioni sociali alla base del
comportamento degli agenti economici. In particolare, secondo Veblen le classe
agiate sono propense ad un “consumo vistoso” (conspicuous consumption) per
sancire la loro differenza di status rispetto alle altri classi sociali. Siamo molto lontani
dalla razionalità ottimizzante dell’agente marginalista, sia per la determinazione
sociale dei bisogni individuali (in linea con la critica sociologica), sia per l’importanza
dei motivi non materialistici nel comportamento degli agenti economici. Scrive a tal
proposito Veblen: “The propensity for achievement and the repugnance to futility
remain the underlying economic motive. […] Relative success, tested by an invidious
pecuniary comparison with other men, becomes the conventional end of action.” 16
Un’ altra critica (meno esplicita) alle teorie marginaliste viene formulata
dall’altro esponente di spicco della scuola istituzionalista, John R. Commons (1862-
1945). Secondo quest’ultimo, le ipotesi comportamentali (la psicologia
14
Roncaglia, op.cit., p.34.
15
Scrive Durkheim: “Pour simplifier les choses les économistes ont artificiellement appauvri [les faits réels]. Non
seulement ils ont fait abstraction de toutes les circonstances de temps, de lieux, de pays pour imaginer le type
abstrait de l’homme en général, mais dans ce type idéal même ils ont négligé tout ce qui ne se rapportait pas à la
vie strictement individuelle, si bien que d’abstractions en abstractions il ne leur est plus resté en main que le
triste portrait de l’égoïste en soi.” (Emile Durkheim, 1970, La Science sociale et l’action, Paris, PUF, p.185.)
16
Thorstein Veblen, [1899], The Theory of the Leisure Class, Oxford: Oxford University Press, 2007, p.27.
(Traduzione italiana: la Teoria della Classe Agiata, Einaudi, 2017).

6
comportamentale) delle teorie neoclassiche potrebbero essere valide in un tempo
futuro, perché presuppongono la risoluzione di confitti sociali attorno alla
distribuzione delle risorse - conflitti sociali che provengono da interessi divergenti,
che riflettono l’importanza dell’azione collettiva per i comportamenti degli agenti
economici, e che fondano le istituzioni (come il diritto di proprietà), al centro
dell’analisi degli istituzionalisti.17

Due tendenze contradditorie: imperialismo economico e economia


comportamentale

Negli anni 1950 e 1960 la microeconomia, negli Stati Uniti (che in quel periodo
assume un peso egemonico anche nella produzione di sapere economico), si sviluppa
lungo due tendenze contradditorie, in particolare attorno al tema che viene tratta
qui, cioè la relazione tra ipotesi di razionalità e comportamento dell’agente
economico.
Una prima tendenza concerne gli studi che rientrano in quello che è stato
chiamato “Scuola di Chicago”, chiamata così per il ruolo centrale assunto nel
secondo dopoguerra dagli economisti dell’Università di Chicago nella disciplina. La
Scuola di Chicago è associata ad una fedeltà rigorosa all’idea della superiorità
assoluta dei mercati (rispetto, in particolare, allo Stato) quale istituzioni di
allocazione delle risorse; e ad una credenza ferrea nella superiorità analitica della
teoria neoclassica.18 In particolare, la Scuola di Chicago riprende il paradigma
comportamentale neoclassico: scrive Georges Stigler (1911-1991): esiste “un’unica
teoria generale del comportamento umano e questa è la teoria della
massimizzazione dell’utilità.”19 Nomi importanti (e controversi) della teoria
economica novecentesca appartengono alla Scuola di Chicago, come quello di Milton
Friedman (1912-2006). Però sono i lavori di Gary Becker (1930-2014) che hanno
fatto di più per espandere i confini della razionalità neoclassica - questa espansione è
stata chiamata dagli scettici “imperialismo economico”.
Becker ha applicato il paradigma dell’homo oeconomicus alla discriminazione
razziale (nella sua tesi di dottorato, pubblicata nel 1957), all’educazione (con un suo
famoso saggio del 1964 sul “capitale umano”), alla famiglia. In una delle sue ultime
opere (“Accounting for Tastes”, 1996), Becker presenta una versione allargata delle
preferenze che incorpora altri obiettivi in una prospettiva razionalista/ottimalista. 20
Potremmo accomunare all’imperialismo economico della Scuola di Chicago anche gli
17
Scrive Commons in una delle sue opere maggiori, contrastando la “psicologia individuale”, soggettivi, dei
marginalisti con la “psicologia sociale” che propone: “Social psychology requires not only enforceable rights and
duties; it requires also objective units of measurement such that all participants may know what to expect in the
future, and such that a deciding authority may mete out judgment in quantitative terms.” (John R. Commons,
[1934], Institutional Economics, 2005, New Brunswick: Transaction Publishers, p.440.)
18
Come scrive Johan van Overtveldt in una storia della scuola di Chicago: “The backbone of the Chicago School is
a belief in the analytical power and predictive capabilities of neoclassical price theory.” (Johan van Overtveldt,
2007, The Chicago School, Chicago: Agate, p.109)
19
Citato da Roncaglia in op.cit., p.146. Nel 1977, Stigler scrive con Gary Becker (cf. Sopra) un articolo, intitolato
“De Gustibus Non Est Disputandum” (The American Economic Review, Vol. 67, No. 2, pp. 76-90) dove gli autori
ipotizzano preferenze stabili e non significativamente divergenti tra gli agenti economici.

20
Scrive Becker: “This book retains the assumption that individuals behave so as to maximize utility while
extending the definition of individual preferences to include personal habits and addictions, peer pressure,
parental influences on the tastes of children, advertising, love and sympathy, and other neglected behavior.”
(Gary Becker, 1996, Accounting for Tastes, Cambridge, MA: Harvard University Press, p.4)

7
scritti di Georges Akerlof (1940 -), che fa rientrare nella funzione di utilità degli
agenti economici elementi non materiali e valori sociali come la reputazione o
l’identità; come riassume Roncaglia, “[l]e scelte che implicano adesione all’identità o
un suo rifiuto implicano effetti positivi o negativi sia per l’agente sia (esternalità) per
altri agenti.”21
In senso opposto a quello preso dall’imperialismo economico della Scuola di
Chicago, una seconda tendenza si manifesta già negli anni 1940 negli Stati Uniti con
programmi di ricerca finanziati dal governo attorno ad indagini empiriche che
cercano, per prima di testare le ipotesi neoclassiche sulla razionalità individuale.
Vengono fatti degli sperimenti su piccoli gruppi di soggetti per valutare (a) la
razionalità delle loro scelte individuali; (b) le interazioni strategiche (sulla scia della
teoria dei giochi di Von Neumann e Morgenstern) tra gli agenti. Un utile punto di
partenza, per capire i contributi teorici di questa seconda tendenza, è la sintesi
offerta da Alberto Roncaglia, che descrive i “paradossi” generati dalla teoria
neoclassica e dagli assiomi dell’homo oeconomicus. Scrive Roncaglia: “Quel che i
paradossi mettono in luce, in realtà, non è un carattere irrazionale del
comportamento umano, ma il fatto che l’agente compie le sue scelte in un contesto
ben più complesso […] sotto almeno due aspetti cruciali”: “Inanzitutto, l’agente
opera in condizioni non di certezza o di incertezza di tipo probabilistico (rischio), ma
di incertezza di tipo keynesiano.” “In secondo luogo, l’agente non opera spinto da
un’ unica molla, ma da un complesso di passioni e di interessi, come sottolinea la
tradizione illuministica di riflessioni sulle motivazioni all’agire umano. Tali
motivazioni possono includere elementi contraddittori, possono variare nel tempo, e
sopratutto sono socialmente condizionate.”22
In realtà questa seconda tendenza, che potremmo chiamare economia
comportamentale, è composta di varie scuole e linee di ricerca, con un aderenza più
o meno forte agli assiomi neoclassici. 23 Un programma di ricerca importante è quello
proposta dall’economia sperimentale, che mette in luce, attraverso indagini
sperimentali, gli elementi del processo decisionale che deviano dall’assiomo di
razionalità. Ad esempio, gli agenti si fanno influenzare dal modo in qui vengono
presentano le alternative (il cosìdetto “effetto framing”). Inoltre l’economia
sperimentale mostra l’endogeneità delle preferenze, cioè il fatto che le preferenze (e
in particolare il bilanciamento tra egoismo ed equità) siano strettamente legate alle
situazioni in cui si trovano gli individui. L’economia sperimentale è oggi un filone di
ricerca molto popolare in economia; ha avuto prolungamenti inter-disciplinari come
la neuroeconomia o l’economia cognitiva - estensioni però che non rimettono in
questione la prospettiva soggettivistica e individualistica delle teorie marginalistiche.
Un altro filone di ricerca è legato ai contributi di Herbert Simon (1916-2001), che
ha concettualizzato la razionalità limitata (bounded rationality). Questo concetto è
stato sviluppato da Simon nel contesto della sua analisi del funzionamento delle
organizzazioni come le imprese: in questo contesto, i limiti cognitivi dei dirigenti
conducono quest’ultimi ad adottare delle regole decisioni semplici, delle

21
Roncaglia, op.cit., p.147.
22
Roncaglia, ibid., pp.289-290.
23
Come scrive Roncaglia, “La forza dominante della concezione mainstream basata sul paradigma della scelta
razionale in condizione di scarsità di risorse continua a esercitare forme diverse di attrazione verso queste
ricerche, mantenendole ai confini fra eterodossia e ortodossia. In molti casi importanti, la teoria mainstream
resta la pietra di paragone cui rapportare il comportamento concreto degli agenti economici.” Ibid., p. 290.

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“euristiche”, o “regole del pollice”. Inoltre, diventa più razionale in tali contesti
seguire delle procedure (razionalità procedurale), e “adottare un comportamento
‘soddisfacente’ (satisficing) tendente a raggiungere un risultato accettabile per
ciascuno dei diversi obiettivi perseguiti contemporaneamente, anziché massimizzare
una funzione che incorpori, opportunamente ponderati, i diversi obiettivi.” 24
Un’altro filone di ricerca, ispirato in parte a Simon, corrisponde alla “prospect
theory” di Daniel Kahneman (1934-) e Amos Tversky (1937-1996). Questo approccio
parte dalle apparenti deviazioni del comportamento effettivo degli agenti individuali
dagli assiomi razionalistici della teoria delle decisioni. Kahneman e Tversky mettono
così in evidenza i fattori causali degli errori cognitivi rilevati, in parte, dall’economia
sperimentale, e in particolare: l’avversione al rischio, la dipendenza (cognitiva) da
una situazione di riferimento (preferenza per lo status quo); la tendenza ad attribuire
maggiore importanza alle probabilità piccole; l’attribuzione di un valore maggiore
alle perdite piuttosto che ai guadagni. Possiamo citare pure l’”effetto dotazione”, ciò
il fatto che gli agenti attribuiscono un valore maggiore alle cose che già possiedono.
In un libro recente25 Kahneman riprende le sue ricerche, insieme ai lavori di alcuni
psicologi, per indagare la ripartizione dei processi decisionali (individuali) in due
“sistemi”: un primo sistema, il “pensiero lento”, utilizzato dagli agenti in contesti che
richiedono attività mentali impegnative; un secondo sistema, il “pensiero veloce”, in
cui gli agenti si affidano invece ad intuizione ed euristiche. In quest’ultimo caso,
ovviamente, gli assiomi comportamentali della teoria neoclassica non reggono più.
Un’ultimo filone di ricerca recente può essere citato: si tratta dei lavori di
Richard Thaler (1945-) e Cass Sunstein (1954-), nel doppio solco dell’economia
comportamentale degli anni 1950 e 1960 e della prospect theory di Kahneman and
Tversky. Questi autori mostrano come i risultati delle ricerche psicologiche ed
economiche degli ultimi 50 anni abbiano invalidato in modo definitivo gli assiomi alla
base della costruzione del modello dell’homo oeconomicus.26 L’individuo concreto è,
invece, un essere cognitivamente diffettoso, soggetto a molte influenze esterne. E’
proprio quest’influenzabilità degli agenti che induce Thaler e Sunstein a formulare
una proposta, la spinta gentile (nudge theory)27, secondo la quale i governi (che non
dovrebbero cercare di intervenire in modo troppo importante nell’economia)
dovrebbero limitare a dare una “spinta gentile” agli agenti per spingerli ad agire in
un modo consono per il bene pubblico. Questo approccio, come scrive Roncaglia,
“può essere considerato un attacco sottile ma devastante alla nozione di homo
oeconomicus razionale, ma resta fondato su una concezione solipsistica dell’agente,
concentrato sul perseguimento del proprio interesse egoistico, e sopratutto su una
fiducia assoluta nelle capacità ottimizzanti del mercato.” 28

Conclusione: Utilità dell’utilità?

24
Roncaglia, ibid., pp.302-303.
25
Daniel Kahneman, 2011, Thinking: Fast and Slow, New York: Farrat, Strauss and Giroux. Trad. it. Pensieri lenti e
veloci, Oscar Mondadori, 2012.
26
Del quale Thaler, in un articolo del 2000, annunciava la scomparsa. Si veda Richard Thaler, "From homo
economicus to homo sapiens." Journal of economic perspectives 14.1 (2000): 133-141.
27
Richard Thaler e Cass R. Sunstein, Nudge: Improving Decisions About Health, Wealth, and Happiness, New
Haven: Yale University Press. Trad. it. La Spinta Gentile, Feltrinelli, 2009.
28
Roncaglia, op.cit., p.308.

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Le diverse tendenze critiche esplorate sopra, insieme alle prime critiche, più radicali,
formulate nel fine ‘800 e inizio ‘900 da sociologi ed economisti istituzionali o marxisti
dovrebbero forse avere segnato la disfatta e scomparsa definitiva dell’homo
oeconomicus. Non è così: l’homo oeconomicus evidentemente è una specie (ideale?)
resistente, sopravvissuta in particolare nei manuali di economia. Ma è utile
conoscerlo bene, anche come illustrazione della modellizzazione.
Aldilà di queste critiche, inoltre, possiamo osservare la grande efficacia
(parsimonia) del modello, che consente una predizione unica delle scelte dell’agente;
infine, potremmo consentire al modello una certa validità locale (cioè il modello
potrebbe descrive bene alcune situazioni particolari). Infine, l’esplorazione delle
limitazioni del modello ha messo in luce tratti importanti del comportamento
umano, e solo per questo potrebbe essere giudicato utile.

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