Sei sulla pagina 1di 33

Elementi di

glottodidattica
2
Capitolo 1
Lingue e linguaggi: modelli generali
di funzionamento

1. LINGUA E LINGUAGGIO
1.1 Definizioni e caratteristiche
La lingua è la forma specifica, concreta e storicamente determinata dei sistemi di co-
municazione. Un’accezione diversa e più ampia ha invece il concetto di linguaggio che è l’in-
sieme di tutti i fenomeni di comunicazione (anche non verbali) che si manifestano non sol-
tanto nel mondo umano.
Le caratteristiche fondamentali delle lingue umane sono:
— la discretezza: la lingua è costitutivamente caratterizzata da elementi separati (conso-
nanti e vocali), dotati di significati diversi gli uni dagli altri;
— la ricorsività: tale carattere consiste nell’uso di un numero limitato di fonemi (cioè suo-
ni con funzione distintiva, ad esempio “palco” e “talco”) che, privi di significato se presi
isolatamente, sono tuttavia in grado di creare parole nuove, frasi diverse, quindi infiniti
segni (cosiddetto processo di semiosi) con valori espressivi differenti;
— la dipendenza dalla struttura (cfr. 1.2).
Nessun altro linguaggio possiede tali proprietà, esclusive della specie umana. Si tratta di si-
stemi di comunicazione la cui funzione è trasmettere informazioni.
Soffermiamoci ancora un po’ sul carattere della ricorsività.
Il funzionamento della ricorsività prevede regole precise e inderogabili al fine di poter or-
ganizzare proposizioni semplici e proposizioni complesse. Se si parte da una frase sem-
plice come: “Mio fratello gioca a pallavolo”, e s’inserisce successivamente un qualsiasi altro
verbo, si può con facilità trasformare la frase da semplice a complessa:
“Mio padre mi ha comunicato che / mio fratello gioca a pallavolo”.
Tale frase può naturalmente essere ampliata aggiungendo un altro verbo, che darà luogo ad
un’ulteriore proposizione:
“Mia madre è a conoscenza che / mio padre mi ha comunicato che / mio fratello gioca a pallavolo”.
È possibile costruire un periodo ancora più lungo e complesso, come: “I miei vicini di casa
sostengono che / mia madre è a conoscenza che / mio padre mi ha comunicato che / mio fra-
tello gioca a pallavolo”. Si è potuto constatare che risulta possibile comporre, in teoria, fra-
Elementi di glottodidattica

si di lunghezza infinita. In questo senso le caratteristiche specifiche della comunicazione


umana sono:
— le specifiche della specie, che sono proprie dell’uomo;
— le specifiche del sistema, ossia proprietà che appartengono al sistema stesso e che fun-
zionano obbedendo a regole grammaticali.

1.2 La competenza linguistica


La competenza (conoscenza linguistica) va definita come la capacità specifica ed esclusiva
dell’uomo di comunicare seguendo certe regole. Negli anni Sessanta sono state sviluppate ri-
cerche ed effettuati esperimenti per insegnare a scimmie antropoidi (ad esempio gli scim-
panzé) la lingua umana. Tutti i tentativi sono falliti, sia in quanto la struttura anatomica del- 3
le scimmie non possiede l’apparato fonatorio umano (risultano assenti proprio gli organi pre-
posti alla produzione di suoni tipici del nostro linguaggio) sia, a livello più astratto, perché
l’apparato neurologico (e “cognitivo”) in loro dotazione non consente l’utilizzo di regole com-
plesse come quelle necessarie alla formulazione e comprensione del linguaggio umano.
Arriviamo così alla terza caratteristica della lingua naturale: la dipendenza dalla struttu-
ra, la quale indica l’applicazione sistematica delle regole grammaticali ai singoli ele-
menti costituenti un enunciato.
Nella lingua umana (o naturale) le frasi non sono organizzate secondo una successione ca-
suale di parole, ma dipendono, come noto, da un accordo grammaticale tra nomi e verbi. Ac-
cordo che viene immediatamente intuito dal parlante nativo. Chiunque, anche privo d’istru-
zione, riconoscerà come “ben formate” frasi che rispettano le regole grammaticali e, simme-
tricamente, coglierà come “mal formate” (agrammaticali) quelle che non la rispettano. La
nozione di “agrammaticalità” non implica tanto una questione di “scorrettezza”, bensì un
deficit di fondo nella costruzione logico-sintattica della frase. Il senso intuitivo della “gram-
maticalità” è infatti una caratteristica essenziale della competenza del parlante, il quale si
accorgerà, in breve tempo, che una frase “non suona bene”, che “ha qualcosa che non va”, che
“manca l’accordo” tra le singole parti di una frase.
Un esempio può essere dato dalla frase:
“La persona, che i miei colleghi dicono che mi ha telefonato, è mio fratello”.
Il verbo “ha telefonato” è al singolare e dipende grammaticalmente da “persona”, risultan-

Capitolo 1 - Lingue e linguaggi: modelli generali di funzionamento


do in perfetto accordo con il nome cui si riferisce, anche se si trova non immediatamente vi-
cino ad esso, bensì separato da altri termini, come “i miei colleghi”. Se si accordasse il ver-
bo al nome plurale “colleghi”, si otterrebbe una frase “non ben formata”, quindi agrammati-
cale, come: “La persona, che i miei colleghi dicono, che mi hanno telefonato, è mio fratello”.
Più marcatamente agrammaticale è una frase come la seguente:
“Ottimo di alpinista Mario un è l’amico”.
Si tratta evidentemente di una frase che manca di senso o di significato, in quanto non vi è
accordo tra gli elementi componenti la frase, diversamente da: “L’amico di Mario è un otti-
mo alpinista”.
Si distingue senza difficoltà la grammaticalità dell’espressione, che scaturisce dalla compe-
tenza del parlante nativo, il quale organizza la frase in rapporto alla dipendenza dalla strut-
tura.

2. SEGNO, SIGNIFICATO, SIGNIFICANTE (FERDINAND DE SAUSSURE)


Precursore e ispiratore dei fondamenti della moderna metodologia linguistica è il linguista
svizzero Ferdinand de Saussure (Ginevra 1857 - Vufflens, Vaud, 1913) autore del Corso di
linguistica generale (una raccolta di lezioni redatta dai suoi allievi e pubblicata nel 1916). Il
punto di partenza di Saussure è nel tentativo di chiarire la natura del segno linguistico. Egli
definisce le due facce del segno signifié (“significato”) e signifiant (“significante”), due ter-
mini entrati successivamente nell’uso comune della tradizione linguistica. Il segno lingui-
stico è dunque una “entità psichica a due facce che unisce non una cosa e un nome, ma un
concetto e un’immagine acustica”. Ciò significa che la sua natura è completamente “astrat-
ta”, cioè psichica, “mentale”. Il segno non ha nulla di “materiale” nel senso di fisico: il suo “si-
gnificato” è infatti un concetto, una realtà non empirica, e il suo “significante” – cioè l’“im-
magine acustica” – non è a sua volta una concreta onda sonora, ma una pura rappresenta-
4 zione fonica. Leggiamo dal Corso di linguistica generale di de Saussure la definizione di si-
gnificato e significante.
«Noi chiamiamo “segno” la combinazione del concetto e dell’immagine acustica: ma nell’uso
corrente questo termine designa generalmente solo l’immagine acustica, per es. una paro-
la (arbor ecc.). Si dimentica che se arbor è chiamato “segno”, questo avviene perché esso
porta il concetto “albero”, in modo che l’idea della parte sensoriale implica quella del tota-
le. L’ambiguità sparirebbe se si designassero le tre nozioni qui in questione con dei nomi
che si richiamano l’un l’altro pur opponendosi. Noi proponiamo di conservare la parola “se-
gno” per designare il totale, e di rimpiazzare “concetto” e “immagine acustica” rispettiva-
mente con significato e significante: questi ultimi termini hanno il vantaggio di rendere evi-
dente l’opposizione che li separa sia tra di loro, sia dal totale di cui fanno parte. Quanto a
“segno”, se continuiamo ad usarlo, è per il fatto che non sappiamo come rimpiazzarlo, poi-
ché la lingua usuale non ce ne suggerisce nessun altro».
Saussure chiarisce ulteriormente questa dicotomia introducendo l’opposizione tra langue
e parole ossia tra una struttura, una grammatica, astratta, arbitraria e convenzionale ed
una produzione, un atto linguistico concreto, materiale e contingente. Il fatto che noi ab-
biamo di “libro” il concetto che ne abbiamo e che lo esprimiamo con l’immagine acustica li-
bro è un fatto della langue, ossia di quella precisa struttura-lingua che è, nel caso specifico,
la grammatica italiana, mentre la nostra effettiva, concreta, produzione fonica [‘libro’ inte-
so come produzione vocale] è un atto di parole. Il linguaggio può in questo senso essere stu-
diato da due diversi punti di vista: come sistema in sé oppure nelle singole manifestazio-
ni materiali. Il primo livello, la langue appunto, indica l’aspetto istituzionale esterno all’in-
dividuo, il livello per così dire statico e astratto del linguaggio. Il secondo, la parole, si rife-
risce invece al fenomeno linguistico inteso nel suo aspetto dinamico, individuale, creativo,
soggetto a mutazioni e trasformazioni nel tempo. Nonostante, secondo Saussure, questi due
aspetti siano in realtà inseparabili, la linguistica si occuperà soltanto della parte invariante
del linguaggio, della langue intesa come sistema e struttura.
Questa opposizione tra dimensione astratta (mentale) e dimensione concreta (materiale)
si chiarisce ulteriormente considerando altre due caratteristiche del segno linguistico e del-
la langue: la loro arbitrarietà e convenzionalità. Queste prerogative riguardano tanto il
segno nel suo complesso quanto entrambe le parti coinvolte nella sua funzione segnica. Il
primo aspetto, l’arbitrarietà, appare abbastanza ovvio: non esiste di fatto alcuna ragione
logico-linguistica per cui un dato concetto debba essere espresso attraverso una certa im-
magine acustica (il concetto di “libro” è espresso in italiano dall’articolazione fonica libro,
in francese da livre, in inglese da book e così via). Tuttavia la nozione saussuriana di arbi-
trarietà non va intesa tanto come espressione di aleatorietà, per così dire, delle combina-
zioni tra concetto e immagine acustica quanto nel senso che il segno non è mai letteralmen-
te causato o motivato da alcun rapporto di somiglianza: la rappresentazione fonica libro
Elementi di glottodidattica

non è determinata da alcun rapporto di causa-effetto né di somiglianza con il concetto “li-


bro” della lingua italiana né il segno linguistico “libro” della medesima lingua è determina-
to da alcun rapporto con la classe degli oggetti (i “libri”) cui si può riferire. Naturalmente
esistono nella lingua molteplici esempi di “segni motivati” (segni particolari che Peirce, ad
esempio, definisce “icone” in quanto in essi tra significante e significato sussiste un chiaro
rapporto di somiglianza), solo che i segni linguistici non lo sono. Lo stesso Saussure ha più
volte notato la presenza di aree linguistiche in cui la motivazione appare determinante: si
pensi alle onomatopee. Ma si tratta di fenomeni che hanno una scarsa incidenza nel siste-
ma, o meglio nella “struttura” complessiva, della lingua. La convenzionalità appare di fat-
to predominante: perché un determinato segno, arbitrario, divenga davvero “linguistico”
deve essere presupposta una sorta di consenso ideale (una convenzione appunto) all’in-
terno di una comunità di parlanti circa il suo uso. 5
Un’ulteriore caratteristica decisiva dei segni linguistici è che essi sono complessi e “discre-
ti”, sia al loro interno (articolazione), sia rispetto ad altri segni (composizionalità). Pos-
sedere una articolazione anziché essere compatti significa essere scomponibili in parti
chiaramente distinte. L’espressione arte, ad esempio, è chiaramente segmentabile in quat-
tro unità sonore (fonemi), facilmente identificabili procedendo a prove di commutazione
locale (Parte, atte, arse, arti); il concetto arte è sua volta chiaramente segmentabile in “mu-
sica”, “pittura”, “poesia” ecc. Questa doppia articolazione del linguaggio, tanto a livello di
definizione concettuale che di segmentazione fonologica, è stata sottolineata come costitu-
tiva del linguaggio umano soprattutto da un altro grande linguista che si è rifatto alla lezio-
ne di Saussure, il francese André Martinet (1908-1999). Tutto quanto abbiamo detto sin
qui implica poi un’ulteriore caratteristica del segno linguistico: la linearità del significan-
te. Scrive Saussure: “questo principio è evidente, ma sembra che ci si sia sempre dimentica-
ti di enunziarlo, senza dubbio perché lo si è trovato troppo semplice”. Il significante lingui-
stico, infatti, “essendo di natura auditiva, si svolge soltanto nel tempo ed ha i caratteri che
trae dal tempo: (a) rappresenta una estensione, e (b) tale estensione è misurabile in una
sola dimensione: è una linea”. Saussure era già ben consapevole dell’importanza semiologi-
ca di questa caratteristica del linguaggio umano rispetto ad altre forme di linguaggio: “in
opposizione ai significanti visivi (segnali marittimi ecc.) che possono offrire complicazioni
simultanee su più dimensioni, i significanti acustici non dispongono che della linea del tem-
po: i loro elementi si presentano l’uno dopo l’altro; formano una catena”.

Capitolo 1 - Lingue e linguaggi: modelli generali di funzionamento


3. FATTORI E FUNZIONI DELLA COMUNICAZIONE (ROMAN JAKOBSON)
È a partire dalle intuizioni di Saussure che si svilupparono attorno agli anni ‘30 due tra le
più prestigiose scuole linguistiche del Novecento: quella di Copenaghen e il Circolo di Pra-
ga. La prima, detta anche glossematica (glossema: l’elemento minimo dotato di senso gram-
maticale), il cui rappresentante principale è Luis Hjelmsev (1899-1965) accentua la pro-
spettiva di studio sincronico della lingua. Viene proposto in altre parole uno studio “imma-
nente” del linguaggio, assolutamente svincolato dalla realtà pratica e vivente della lingua e
volto esclusivamente all’indagine del livello più interno di essa (forme, parti del discorso,
funzioni grammaticali). Ma è con l’orientamento funzionalista e fonematico (fonema: l’uni-
tà minima dotata di significato) espresso soprattutto nelle famose “Tesi di Praga” redatte
nel 1929 dai maggiori rappresentanti della omonima scuola, i linguisti Roman Jakobson
(1896-1982), Nikolaj Trubetzkoi (1890-1938) e Jan Mukarovski (1891-1975), che si ar-
riva ad un tentativo di spiegazione della lingua in termini espressamente strutturalistici.
Saussure aveva dimostrato che l’inscindibilità del legame significante/significato implica
che alla variazione dell’uno corrisponde necessariamente la variazione dell’altro. Mutando
il significante muta il valore semantico (mela, male, mole): gli elementi della lingua sono
dunque elementi differenziali. Hanno senso (“funzionano”) solo in quanto disposti in un si-
stema di opposizioni (a tutti i livelli: fonemi, monemi, sintagmi). A partire da ciò gli studio-
si di Praga definiscono il linguaggio come sistema di differenze in cui ogni singola parte pos-
siede una propria specifica funzione. La lingua stessa è un insieme organico di elementi
di cui ognuno è dotato di funzione autonoma, è una totalità di funzioni. Ad ogni livello sin-
tattico-grammaticale (soggetto, predicato, complemento ecc.) così come ad ogni sottolivel-
lo (singolare, plurale, maschile, femminile ecc.), secondo i fonematici è connaturata una de-
terminata capacità linguistica. Conferendo al sistema delle funzioni questo valore, Jakob-
son, il principale esponente del circolo, nei suoi Saggi di linguistica generale (1963-73), rac-
colta di testi tra le più importanti della linguistica del nostro secolo, suddivide il funziona-
mento della comunicazione in sei funzioni fondamentali, corrispondenti ai sei fattori co-
6 stitutivi della comunicazione. Tali fattori sono: un mittente (1) che invia un messaggio
(2) ad un destinatario (3), ma perché questo avvenga è altresì necessario il riferimento ad
un contesto (4), detto anche referente della comunicazione (che deve essere verbale, o me-
glio suscettibile di verbalizzazione), così come è del tutto necessario che esista un canale
fisico (5), o contatto, che consenta la comunicazione stessa (fosse pure questo canale fisi-
co l’aria che vibra nel caso della comunicazione orale); infine non si dà comunicazione se
non esiste un codice (6) che sia comune, almeno parzialmente, a mittente e destinatario. I
sei fattori della comunicazione, secondo Jakobson, possono dunque essere rappresentati
schematicamente nel modo seguente.

(Contatto/Canale)
(Mittente) → (Messaggio) → (Destinatario)
(Codice)
(Contesto/Referente)

Schema 1 - Elementi della comunicazione linguistica

È molto importante capire che questi elementi esistono comunque sempre, dove si dia co-
municazione, in ogni sua forma. Ora, secondo Roman Jakobson, a ciascuno di questi sei fat-
tori corrisponde, per dir così, una “funzione linguistica”, o “funzione del linguaggio”; anche
le funzioni esistono sempre, ma si tratta di vedere quale sia la “funzione predominante”, per-
ché da essa dipende la struttura che la comunicazione assume e il carattere del messaggio.
Dice Jakobson: «La diversità dei messaggi non si fonda sul monopolio dell’una o dell’altra
funzione, ma sul diverso ordine gerarchico fra di esse». Possiamo dunque complicare il no-
stro schema aggiungendo ai fattori del linguaggio le funzioni linguistiche.

(Contatto/Canale)
Fatica
(Mittente) → (Messaggio) → (Destinatario)
Emotiva Poetica Conativa
(Codice)
Metalinguistica
(Contesto)
Referenziale

Schema 2 - Fattori della comunicazione linguistica e Funzioni del linguaggio (schema di Jakobson)

Al mittente (1) corrisponderà la funzione detta “espressiva” (o “emotiva”), che si concen-


tra sul mittente stesso e mira ad un’espressione diretta dell’atteggiamento del mittente ri-
Elementi di glottodidattica

guardo a quello di cui parla; al messaggio (2) corrisponderà la funzione detta “poetica”,
giacché (come recita la quinta delle Tesi di Praga) «…il principio organizzatore dell’arte, in
funzione del quale essa si distingue dalle altre strutture semiologiche, è che l’intenzione vie-
ne diretta non sul significato ma sul segno stesso. Il principio organizzatore della poesia con-
siste nel dirigere l’intenzione sull’espressione verbale»; al destinatario (3) corrisponde la
funzione detta “conativa”, che mira appunto a persuadere, a muovere il destinatario del
messaggio; al contesto (4), o referente della comunicazione, corrisponderà la funzione “re-
ferenziale” (detta anche “cognitiva”) che mira appunto ad informare, a far conoscere il con-
testo; al canale fisico (5), o contatto, corrisponderà la funzione cosiddetta “fàtica”, che mira
a verificare che il canale esista e funzioni (come quando al telefono si dice: “Pronto…”, op-
pure, per proporre un esempio meno scontato, quando sui nostri teleschermi, in un ango- 7
lo, appare il logo del canale che trasmette); infine, al codice (6) corrisponderà la funzione
cosiddetta “metalinguistica”, quando cioè la comunicazione linguistica riflette su se stes-
sa e mittente e destinatario verificano se il codice della loro comunicazione è davvero co-
mune (“Che vuoi dire?”).

4. COMPETENZA ED ESECUZIONE (NOAM CHOMSKY)


Motivi derivati dalla linguistica strutturale sono presenti anche nell’opera dello statuniten-
se Noam Chomsky (Filadelfia, 1928) sicuramente tra le personalità più rappresentative
della linguistica del Novecento, teorico della grammatica “generativo-trasformazionale”. Le
posizioni principali di Chomsky sono espresse già nella sua prima opera importante, Le
strutture della sintassi (1957) e successivamente sono state approfondite e rielaborate in
testi come Riflessioni sul linguaggio (1976), Regole e rappresentazioni (1980), La conoscen-
za del linguaggio (1986). Il punto di avvio è la critica alla linguistica tradizionale positivisti-
ca e comparativista che assumendo come oggetto di studio gli aspetti fonetici della lingua
si sarebbe secondo Chomsky limitata ad un’analisi della “struttura superficiale” di essa di-
menticandone la “struttura profonda”. La linguistica, che Chomsky considera parte della psi-
cologia (al punto che le sue ipotesi si sono spesso legate a quelle dei cognitivisti), deve por-
si al contrario come problema principale lo studio e la descrizione della capacità (o compe-
tenza) dei soggetti di parlare una lingua. Chomsky intende procedere ad una spiegazione
totalizzante di ciò che presiede alla conoscenza di una lingua ed alle modalità della sua ac-

Capitolo 1 - Lingue e linguaggi: modelli generali di funzionamento


quisizione (ritenendo invece la questione del suo uso concreto inadatta a precise trattazio-
ni scientifiche). Va immediatamente chiarito che per Chomsky la competenza è la cono-
scenza astratta della propria lingua a livello individuale e l’esecuzione è l’atto di realizza-
zione concreta, attraverso parole, di un messaggio.
Il postulato più radicale dell’ipotesi di Chomsky è che tale processo di acquisizione, già a li-
vello del bambino, implichi la conoscenza di un insieme di regole estremamente comples-
se e va dunque inteso come esito di una facoltà in gran parte innata. Il linguista, utilizzando
strumenti tratti dalla logica matematica, dovrà procedere inizialmente ad un’analisi di ciò
che viene definita la “grammatica mentale” presente nel soggetto dalla nascita. Dallo studio
di questa emerge che i parlanti, nell’apprendimento di una lingua, seguono categorie, rego-
le e principi sostanzialmente comuni. A questo punto il primo passo è la riformulazione del-
la grammatica tradizionale in grammatica generativa (o “a struttura di frase”), cioè l’ide-
azione di un sistema che indaghi le regole di generazione della lingua, che sia capace di mo-
strare scientificamente il processo di formazione delle singole “frasi” a partire da una certa
struttura linguistica; il passaggio successivo permetterà di raggiungere la cosiddetta ade-
guatezza esplicativa, cioè la possibilità di rendere conto di questi princìpi comuni (compre-
se le varianti) dai quali scaturiscono le grammatiche di altre lingue. L’ultimo livello presu-
me di poter formulare una teoria linguistica generale, o Grammatica Universale, cioè un pa-
radigma volto a chiarire i princìpi universali sottesi a tutti i linguaggi. A questo stadio fina-
le di ricostruzione della competenza linguistica, emergeranno secondo Chomsky due strut-
ture della lingua: una profonda, che riguarda la traduzione sintattica delle proprietà lessi-
cali di un frase; e una superficiale, che mostra le variazioni (le trasformazioni, peraltro se-
condo Chomsky molto limitate) cui può andare incontro la struttura profonda; e altri due
sottolivelli, quello fonetico e quello logico, che forniscono rispettivamente un’interpretazio-
ne degli elementi sonori e di quelli logici inerenti le frasi generate proprio a partire dalla
struttura superficiale.
5. SIMBOLO, ICONA, INDICE (CHARLES SANDERS PEIRCE)
8
Abbiamo già avuto occasione di accennare al filosofo americano Charles Sanders Peirce
(1839-1914) a proposito della occasionale motivatezza del segno linguistico. Il suo pensie-
ro non è sempre facile da cogliere e da inquadrare schematicamente sia a causa delle disper-
sione e frammentarietà dei suoi scritti che della terminologia piuttosto personale in essi uti-
lizzata.
La sua concezione della significazione, a grandi linee, si basa sui diversi tipi di relazioni “si-
gnificanti” possibili. Egli distingue tre tipi ideali: simbolo, icona ed indice. Con “tipi idea-
li” si intende che nella realtà non troviamo di norma tipi di significazione completamente
puri. Per simbolo Peirce intendeva il segno vero e proprio (compresa la sua manifestazio-
ne principe di “segno linguistico”), il segno non motivato, arbitrario, la cui significazione è
possibile solo in virtù del fatto che esso è interpretato dall’interpretante come significan-
te del suo significato. Per il suo carattere interno alla lingua (cioè per la relazione arbitra-
ria che in esso si istituisce tra significante e significato), il “simbolo” di Peirce si accosta mol-
to al “segno” di Saussure. Per icona, invece, Peirce intendeva il segno che si fonda su una re-
lazione tra una configurazione materiale ed un oggetto che hanno una proprietà in co-
mune, o meglio, che sono simili in qualche aspetto. In questo senso il segno-icona (come ab-
biamo già rilevato) è motivato, vale a dire che il significante non si riferisce al suo oggetto
solo per convenzione (un segnale stradale, ad esempio, è un’icona).
L’indice, infine, è un segno che sta in una relazione diadica (che Peirce definisce “esistenzia-
le”) con il suo oggetto, legame che si fonda cioè su una prossimità spaziale e/o temporale;
l’indice permette in altri termini di “inferire” l’oggetto o il processo che rappresenta (dall’in-
dice a ciò verso cui punta). La relazione, nel caso più semplice, è tra una configurazione ma-
teriale (“il gesto della mano”), la cui interpretazione (il dito indice della mano, ad esempio,
inteso come freccia) è quasi universale, ed un oggetto (“ciò verso cui punta”) che l’indice mi
permette di comprendere (può trattarsi della causa – ad esempio un’orma che traccia l’even-
to del passaggio di un animale; o della fonte – ad esempio le ossa fossili rispetto agli anima-
li antidiluviani e così via). Caratteristica della relazione indicale, rispetto a quella segnica, è
che attraverso di essa avviene il rimando a un oggetto (e con ciò il trasporto di un messag-
gio), rimando che è motivato (oltre che dal codice che mi permette di interpretare qualco-
sa come un indice) dalle circostanze in cui avviene la comunicazione, cioè da quella che si
potrebbe definire una scena comuniticativa, con le sue coordinate temporali, spaziali e il suo
centro (la presenza dell’indice). Gli indici rivestono notevole importanza anche in linguisti-
ca dove sono di solito chiamati deittici (dal greco deíknymi “mostrare, indicare”): si tratta,
ad esempio, dei pronomi dimostrativi come “questo”, “quello” ecc., dei personali come “tu”,
degli avverbi come “qui”, “lì” ecc. Il valore degli indici di un sistema linguistico è occasiona-
le e immotivato solo nel senso che non è fisso come quello dei segni linguistici veri e propri
(lessicali), il cui valore in una data langue permane sostanzialmente stabile. Proprio per que-
sto la “deissi” (greco deîxis), ossia la capacità di ancorare con degli indici il discorso ad una
specifica realtà, è fondamentale per il nostro uso del linguaggio, e le sue caratteristiche sono
Elementi di glottodidattica

state studiate con molta attenzione dalla linguistica (soprattutto dalla “pragmatica” e dalla
“linguistica testuale”) oltre che dalla filosofia.

6. LA DIMENSIONE COMUNICATIVA: I DIVERSI MODELLI DI INTERPRETAZIONE


Un rapporto privilegiato con la linguistica è stato perseguito, soprattutto nella seconda metà
del Novecento, da parte delle scienze e delle teorie della comunicazione. Trattandosi di un
campo vastissimo, fortemente interdisciplinare (vi si fondono approcci filosofici, semiotici,
sociologici e informatici) e soprattutto in continua evoluzione, diamo qui di seguito soltan-
to una sintesi degli approcci teorici più rilevanti per le scienze linguistiche.
6.1 Il modello matematico-cibernetico
9
Nel Novecento si è tentato di descrivere la dimensione comunicativa come una trasmissio-
ne di informazioni. Nell’approccio matematico si considera cioè l’informazione come una
differenza tra due o più elementi o dati. La teoria dell’informazione, di derivazione e matri-
ce ingegneristica, è stata elaborata da C. Shannon e W. Weaver verso la fine degli anni Qua-
ranta ed ha principalmente analizzato l’invio e il trasporto delle informazioni. Un segnale
(“messaggio”) passa da un emittente (“mittente”) — attraverso un trasmettitore — a un de-
stinatario (“ricevente”), attraverso un canale fisico (“supporto materiale”). Il messaggio (com-
posto di segni) deve essere codificato (vale a dire costruito, strutturato e combinato secon-
do certe regole: cioè secondo un codice) da chi lo emette e decodificato da chi lo riceve. Il
contesto gioca un ruolo più o meno importante a seconda del tipo di codice utilizzato. Es-
sendoci la possibilità che, lungo il canale, intervengano anche elementi di disturbo del mes-
saggio (il cosiddetto “rumore”), è necessario che il segnale possegga una certa intensità che
gli consenta di raggiungere la destinazione, in modo che l’informazione risulti effettivamen-
te trasmessa. L’informazione non è quindi ciò che è stato comunicato, bensì ciò che ha buo-
na probabilità di raggiungere la destinazione, superati gli impedimenti lungo il canale.
La comunicazione è tale solo ove vi sia passaggio di informazioni tra emittente e riceven-
te e una risposta. Per Shannon è importante che vi sia cioè un feedback, un segnale di ritor-
no (dal ricevente all’emittente) finalizzato a verificare che il messaggio sia arrivato a desti-
nazione. Il feedback consente in altri termini di verificare l’intenzionalità del ricevente a re-
cepire il messaggio, ai fini di prevedere il seguito che potrà avere la comunicazione. In que-
sto modello sono privilegiati, come è chiaro, la macchina e i mezzi di comunicazione. Qua-
lora si consideri il modello dato all’interno del processo comunicativo umano, già al livello

Capitolo 1 - Lingue e linguaggi: modelli generali di funzionamento


cibernetico va messo in evidenza che la formula usata da Weaver e Shannon risulta valida
soltanto se l’emittente e il ricevente dispongono di una sorta di repertorio condiviso di sim-
boli, esperienze, condizioni ambientali e cultura comune. Il difetto principale riscontrato in
questa concettualizzazione è quello di tenere in scarsa considerazione il processo di inter-
pretazione (oggetto di una disciplina antichissima come l’ermeneutica) e quindi, in un cer-
to senso, dei problemi soggettivi e psicologici dei comunicanti: la comunicazione umana sem-
bra infatti strutturalmente irriducibile a un processo lineare, configurandosi piuttosto come
processo interattivo su molteplici piani.

6.2 Il modello semiotico


L’oggetto fondamentale della semiotica è il segno inteso come qualsiasi fenomeno in grado
di significare qualcos’altro rispetto al fenomeno stesso. Nel modello semiotico il processo di
significazione è dunque considerato dal punto di vista della capacità di generare significati
ed implica la capacità di un messaggio di essere dotato di senso per i comunicanti. Nel dia-
gramma della significazione di I.A Richards (1893-1979), ad esempio, vengono messi in re-
lazione un simbolo (il “termine” linguistico), il referente (l’“oggetto” comunicato) e la referen-
za (il “concetto” dell’oggetto). Il simbolo non ha rapporto diretto con il referente, ma soltanto
con la referenza: trattasi pertanto di un prodotto culturale. È stato di nuovo Ferdinand De
Saussure, nel Corso di linguistica generale, ad avviare il discorso sul funzionamento del lin-
guaggio visto in un’ottica sincronica. Come abbiamo visto egli considera langue il codice o si-
stema che comprende i segni e le loro regole di connessione e considera parole l’uso che si
fa individualmente del codice. In questo senso è possibile considerare il livello della lingua
(o sistema) come costituito da procedimenti di classificazione (sia delle esecuzioni fonetiche,
sia delle significazioni) che formano il patrimonio linguistico condiviso da una comunità e
depositato nella struttura cognitiva dei parlanti. Nella prospettiva di de Saussure, la funzio-
ne semiotica del segno è frutto di una relazione tra il significante e il significato, e si colloca
quindi oltre la realtà fisica. Il segno è costituito da una equivalenza tra espressione e conte-
10 nuto ed è arbitrario e convenzionale, in quanto denotato culturalmente. È oppositivo, in quan-
to non corrisponde a nessun altro segno del sistema di comunicazione di riferimento.
Abbiamo visto anche come, in ottica pragmatista, Peirce intenda il segno come qualcosa che
sta per qualcosa d’altro per qualcuno. Esso è dunque un sostituto significante di qualcosa,
che non necessariamente deve esistere: i segni non hanno rapporto con le cose. Della “cosa”
infatti il segno rappresenta solo un certo punto di vista, con determinati fini pratici.
Il processo di semiosi ha avvio dalla percezione, ma l’oggetto immediato, che è l’oggetto
come il segno se lo rappresenta, è distinto dall’oggetto dinamico, reale, che non è immedia-
tamente presente. Il significato di un segno è dunque tradotto mediante un interpretante,
che secondo Peirce è un segno che interpreta un altro segno. Così ha luogo un vero e proprio
atto di traduzione, cioè, in altri termini, un processo di interpretazione. Proseguendo nel pro-
cesso si scopre infatti sempre qualcosa in più: la dimensione della significazione avviene in-
fatti principalmente a livello psichico.
Anche la posizione di Roman Jakobson può essere ritrascritta nei termini dell’approccio
semiotico. Ad ogni elemento del linguaggio corrisponde infatti, come sappiamo, una funzio-
ne di “significazione”, dunque una dimensione semiotica: la funzione espressiva ad esempio
riguarda la capacità di un mittente di manifestare se stesso, di comunicare la sua affettivi-
tà, i propri stati d’animo, sentimenti ed emozioni, per ciò che dice e per come lo dice; quel-
la conativa cerca di influenzare il destinatario, imponendogli degli ordini per indurlo a un
modo di sentire o di fare, o ad assumere determinato comportamenti o a compiere qualche
gesto o atto; quella fàtica verificherà la funzionalità del canale, ma mantiene anche il con-
tatto e riguarda per esempio tutte le conversazioni di passaggio e di convenienza, che han-
no solo lo scopo di mantenere aperto il filo della comunicazione, o quelle conversazioni di
pura presenza affettiva che intercorrono per esempio tra gli innamorati; quella referenzia-
le si rivolge al contesto del messaggio e ci permette di riferirci alla realtà, di parlare del mon-
do e di metterci in rapporto con esso; la funzione metalinguistica riguarda direttamente il
linguaggio: dà su di esso informazioni e permette di parlare della lingua stessa, in quanto
definisce il codice; quella poetica è infine connessa al messaggio propriamente e particolar-
mente nella struttura formale, nella sua organizzazione interna.

6.3 Il modello pragmatico


La pragmatica si occupa dei rapporti che intercorrono tra un testo e il suo contesto di ri-
ferimento. Con l’approccio pragmatico si prendono in considerazione cioè i processi impli-
citi della comunicazione finalizzati a trarre dal contesto “ciò” che il testo realmente dice. La
comunicazione è in questo modello vista sostanzialmente come processo infinito. Per J.
Austin (1911-1960) in questo senso dire qualcosa significa propriamente fare qualcosa.
Egli distingue gli atti linguistici in:
— locutori, cioè atti di dire qualcosa (i contenuti e le loro forme);
— illocutori, cioè atti nel dire qualcosa (l’azione che compie chi comunica);
Elementi di glottodidattica

— perlocutori, cioè atti con il dire qualcosa (l’esito concreto dell’azione comunictiva sull’in-
terlocutore).
Austin distingue inoltre tra atti linguistici diretti, in cui la forza attribuita all’enunciato vie-
ne fatta derivare dal suo significato letterale, e atti linguistici indiretti, in cui la forza illo-
cutoria deriva dalla modalità non verbale di comunicazione.
Su questa scia J. Searle nel saggio Che cos’è un atto linguistico? (1973) sostiene che:
«L’unità della comunicazione linguistica non è, come è stato generalmente supposto, il sim-
bolo, la parola, la frase o anche l’enunciato del simbolo, della parola o della frase, ma è piut-
tosto la produzione dell’enunciato nell’esecuzione dell’atto linguistico che costituisce
l’unità fondamentale della comunicazione linguistica. Più precisamente, la produzione 11
dell’enunciato della frase sotto certe condizioni costituisce l’atto illocutivo e l’atto illocuti-
vo è l’unità minima della comunicazione linguistica. Eseguire degli atti illocutivi significa
impegnarsi in una forma di comportamento governata da regole».
Per Searle le regole possono poi essere distinte in:
— costitutive, vale a dire che istituiscono e regolano un’attività la cui esistenza è logica-
mente dipendente da quelle regole;
— normative, che regolano un’attività già esistente, la cui esistenza è logicamente indipen-
dente dall’esistenza di quelle regole.
Egli ipotizza che la semantica possa essere considerata come una “serie di sistemi di rego-
le costitutive” e che gli atti illocutivi siano atti eseguiti secondo questo insieme di regole co-
stitutive.

6.4 Il modello pragmatico-relazionale


La Scuola di Palo Alto, in forte polemica con la teoria matematica della comunicazione, ha
proposto una visione sostanzialmente “relazionale” della comunicazione. Si tratta di un mo-
dello in cui la comunicazione viene intesa come espressione dialogica e bidirezionale.
Per P. Watzlawick la comunicazione è definibile infatti come un “processo di interazione
tra le diverse persone che stanno comunicando”. In senso stretto infatti, secondo questo ap-
proccio, non sarebbe possibile “non comunicare”. E non sarebbe possibile in quanto non può

Capitolo 1 - Lingue e linguaggi: modelli generali di funzionamento


esistere un non-comportamento. Affinché vi sia comunicazione non vi è bisogno quindi di
una specifica struttura di intenzionalità: nella pragmatica della comunicazione di Watzla-
wich il primato spetta sempre alla relazione. Da questo punto di vista la comunicazione può
essere suddivisa in tre settori:
— la sintassi, che riguarda i problemi relativi alla trasmissione delle informazioni;
— la semantica, che centra l’attenzione sui significati simbolici del messaggio;
— la pragmatica, che si volge all’analisi dell’influenza che la comunicazione ha sul com-
portamento.

6.5 Il modello psicologico-relazionale


G. Bateson (1904-1980) negli anni Settanta ha sottolineato, da un punto di vista psicodi-
namico, come gli individui attraverso la comunicazione mettano in questione la propria iden-
tità. Nel modello che egli propone, la comunicazione assume il ruolo di costruzione di una
rete di relazioni. Per Bateson si hanno in ogni atto comunicativo due livelli distinti:
— quello della notizia, che riguarda il contenuto degli enunciati prodotti;
— quello del comando, che costituisce un’indicazione per l’interlocutore del modo in cui
intendere le cose dette.
La comunicazione risulta così essere costituita di due parti:
— la comunicazione che riguarda i contenuti scambiati;
— la metacomunicazione, che costituisce un livello superiore e che ha per oggetto la co-
municazione di tipo contenutistico: la metacomunicazione fornisce un quadro di riferi-
mento per la comunicazione.
Tramite la comunicazione si definisce dunque la relazione interpersonale e si prende co-
scienza di sé e dell’altro. I messaggi costituiscono una sequenza ininterrotta di stimoli, ri-
sposte e rinforzi, che danno luogo a una modalità comunicativa di cui è difficile individua-
re l’origine. Il flusso della comunicazione può dar luogo a conflitti in quanto gli individui
12 tendono a linearizzare e a segmentare arbitrariamente il processo circolare e continuo del-
la comunicazione. Bateson ha teorizzato l’esistenza di due tipi di relazioni possibili:
— quella simmetrica, che si fonda sulla percezione di una uguaglianza nei rapporti;
— quella complementare, che si fonda sulla percezione di una differenza.
La comunicazione, in questo settore di studi, non è dunque costituita esclusivamente da atti
verbali volontari, ma implica anche una notevole serie di comportamenti corporei, studiati
dalla cinesica e dalla prossemica, che influiscono sul contenuto verbale.
Elementi di glottodidattica
Capitolo 2 13

La tipologia linguistica

1. CRITERI DI CLASSIFICAZIONE DELLE LINGUE


Un primo indice o criterio di classificazione a carattere socio-politico è dato dal numero dei
parlanti, che conta 10 ordini di grandezza: da 9 (più di un miliardo di parlanti) a 0 (lingue
estinte o “morte”, che non hanno più parlanti). Secondo tale criterio, le lingue più parlate sono
il cinese mandarino e l’inglese (più di un miliardo); l’italiano registra un ordine di grandezza
7 (più di 100 milioni di parlanti tra Italia, Svizzera, Canada, Argentina, Stati Uniti e Brasile).
Viene considerato anche il numero dei parlanti la lingua in questione come “seconda lingua”.
Un secondo criterio, puramente geografico, è quello di distinguere le lingue a seconda del
continente in cui vengono parlate.
Criterio prettamente linguistico è quello basato sugli universali linguistici, ossia sull’indi-
viduazione di relazioni tra le diverse lingue.
Ne derivano due principali modalità di classificazione:
— genealogica: si riferisce a lingue che derivano da un medesimo ceppo originario (ad es.:
lingue indoeuropee, lingue romanze o neolatine ecc.). Le unità genealogiche contengo-
no, a loro volta, diversi gruppi. L’inglese, ad esempio, pur essendo una lingua indoeuro-
pea, appartiene ad un gruppo diverso dal gruppo a cui appartiene l’italiano, così come il
serbo-croato, il bulgaro e il macedone che sono lingue indoeuropee appartenenti al grup-
po slavo;
— tipologica: si ha quando due o più lingue appartengono allo stesso tipo, presentando ca-
ratteristiche comuni anche se non fanno parte della stessa famiglia linguistica.

2. LA CLASSIFICAZIONE TIPOLOGICA
Soffermeremo l’attenzione in particolare sulla classificazione tipologica, che nacque all’ini-
zio dell’Ottocento, contemporaneamente a quella genealogica, non raggiungendo allora,
però, dei risultati altrettanto sicuri. Oggi, invece, la tipologia linguistica costituisce uno dei
settori di ricerca più vivaci della linguistica contemporanea.
La tipologia linguistica, come accennavamo, propone una classificazione delle lingue non
Capitolo 2 - La tipologia linguistica

sulla base di una parentela genetica o di una vicinanza geografica, ma di caratteristiche


strutturali condivise (in particolare morfologiche e sintattiche). È inevitabile che il meto-
do imprescindibile di questo indirizzo di studio sia il metodo comparativo, perché, se è co-
munque possibile tracciare un profilo tipologico di una sola lingua, il suo fine fondamenta-
le è individuare strutture e schemi ricorrenti a livello interlinguistico cogliendo i princìpi
che giustificano tali affinità.

2.1 La tipologia morfologica e sintattica


La tipologia morfologica individua diversi tipi di lingue, in particolare due “grandi” tipi:
— tipo isolante (mancanza di morfologia). I nomi non hanno né caso, né genere, né nume-
ro; i verbi non hanno differenze di persona, in quanto la forma verbale è unica, per cui
la relazione tra le parole è nell’ordine delle parole stesse. In cinese, ad esempio, due fra-
si: “Io ti guardo” e “Tu mi guardi”, suonerebbero: “Io guardare tu” e “Tu guardare io”. I
pronomi “io” e “tu”, infatti, indicano la persona che guarda.
La stessa struttura tipologica la troviamo in inglese, che possiede numerose parole in-
14 variabili (aggettivi invariabili, nomi che non hanno differenze tra maschile e femminile,
differenza tra singolare e plurale data dall’aggiunta di una “s” finale, coniugazione dei
verbi al tempo presente che prevede un’unica forma per tutte le persone);
— tipo agglutinante. Il turco è l’esempio tipico di lingua agglutinante: ad ogni parola (ad
es. kus= “uccello”) si aggiungono suffissi, indicanti i vari casi: nominativo (=kus), geniti-
vo (=kus-in), dativo (=kus-a), accusativo (=kus-i), locativo (=kus-da).
Va immediatamente sottolineato, tuttavia, che tipi puri, cioè lingue ascrivibili interamente
a un tipo, nella concreta realtà delle lingue storico-naturali non esistono. Le lingue storico-
naturali sono in effetti tipologicamente miste. La stessa lingua inglese, di cui parlavamo pri-
ma, è sì un tipo isolante ma con una non trascurabile componente agglutinante (ad esem-
pio, la formazione del plurale dei nomi e del comparativo degli aggettivi segue strategie di
tipo agglutinante).
La tipologia sintattica è stata sviluppata negli anni Sessanta soprattutto dal linguista ame-
ricano Joseph H. Greenberg, che ha rintracciato in tutte le lingue un rapporto tra l’ordine
delle parole e le combinazioni sintattiche. Rapporto stabilito dalle preposizioni, o anche dal-
le posposizioni, come nella lingua giapponese, che usa dire: “Cena dopo”, invece di “Dopo
cena”, diversamente dalla lingua italiana; oppure dalla posizione del verbo rispetto al sog-
getto e all’oggetto.
Sei sono le possibili combinazioni usate nelle varie lingue, ma tre sono i tipi di ordine do-
minanti:
— S (soggetto), V (verbo), O (oggetto);
— SOV;
— VSO.
Altri parametri di indagine sono:
— l’ordine dell’aggettivo (A) rispetto al nome (N): in inglese = AN. Ad esempio: “Red hou-
se” = “Rossa casa”, mentre in altre lingue, come in italiano, l’aggettivo segue il nome, per
cui prevale l’ordine NA: “Casa rossa”;
— l’ordine del complemento di specificazione rispetto al nome: G (“genitivo” in latino) e N.
In giapponese l’ordine è GN: “di Mario casa”, ad esempio; in italiano l’ordine è NG “La
casa di Mario”.
Si può concludere che, indipendentemente dalla posizione del soggetto, in genere:
— le lingue VO sono preposizionali e collocano sia il genitivo che l’aggettivo dopo il nome:
NG/NA. Tanto nel sintagma verbale quanto nel sintagma nominale, quindi, la testa (V o
N) è a sinistra, seguita dai modificatori. La formula è: SVO/Pr/NG/NA. Esempi: lingue
romanze, semitiche e celtiche;
— le lingue OV sono posposizionali e collocano sia il genitivo che l’aggettivo prima del
nome: GN/AN. La testa è a destra, preceduta dai modificatori. La formula, quindi, è: SOV/
Elementi di glottodidattica

Po/GN/AN. Esempi: il giapponese, le lingue altaiche (mongolo, turco) e il basco.

2.2 Lo Standard Average European


Recenti studi tendono sempre più a evidenziare una convergenza linguistica, in partico-
lare morfologica e sintattica, in Europa. Si tende ormai ad affermare l’esistenza di un “tipo”
linguistico europeo, contrapposto alle lingue parlate nel resto del mondo. Ciò naturalmen-
te non significa che non permangano forti varietà tipologiche nonché tratti linguistici spe-
cifici delle singole lingue.
Il concetto di Standard Average European (Europeo medio standard) non è certo nuovo: fu
infatti introdotto dallo studioso Benjamin Lee Whorf alla fine degli anni Trenta del Nove- 15
cento. Di recente tale concetto è stato ripreso e appare ampiamente condiviso.
È stato rilevato che lingue come italiano, inglese, lingue slave, neogreco, albanese, lingue
baltiche, celtiche e maltese presentano alcuni tratti comuni, tra i quali la presenza di prepo-
sizioni e genitivi postnominali, l’uso di verbi ausiliari nella formazione dei tempi verbali
composti, la presenza simultanea di articoli definiti (“determinativi”) e indefiniti (“indeter-
minativi”), la costruzione della forma passiva del verbo con espressione dell’agente.

Capitolo 2 - La tipologia linguistica


16
Capitolo 3
La linguistica educativa

1. LINGUISTICA EDUCATIVA ED EDUCAZIONE LINGUISTICA


Chiara e senza bisogno di aggiunte è la definizione di linguistica educativa fornita da De Mau-
ro e Ferreri (2005): «è il settore delle scienze del linguaggio che ha per oggetto la lingua (una
lingua, ogni lingua) considerata in funzione dell’apprendimento linguistico e del più gene-
rale sviluppo delle capacità semiotiche. Della lingua e delle lingue da apprendere (lingua
madre, lingue seconde, lingue straniere, lingue letterarie, microlingue, lingue specialistiche
ecc.) o di loro parti pertinentizza quegli elementi linguistici che potenziano lo sviluppo del lin-
guaggio, a partire dall’incremento del patrimonio linguistico già in possesso di chi apprende».
L’accento posto sul “più generale sviluppo delle capacità semiotiche” implica immediata-
mente la concezione di un apprendimento della lingua che non può ridursi all’apprendimen-
to della grammatica. Conoscere una lingua significa capire e farsi capire, comunicare, com-
prendere e interpretare la realtà che ci circonda.
Tale visione della lingua e del suo apprendimento è alla base del concetto di educazione
linguistica. L’educazione linguistica:
• inserisce l’apprendimento di una lingua nel più ampio processo di crescita di un indi-
viduo, delle sue capacità di esprimersi e interagire con l’“altro”;
• si fonda sulla consapevolezza della trasversalità delle abilità linguistiche;
• pone al centro della sua riflessione gli “usi” della lingua, proponendo una didattica che
mira all’“addestramento” a utilizzare la lingua nelle diverse varietà e nelle diverse situa-
zioni comunicative;
• considera la riflessione sulla lingua un aspetto fondamentale, ma non fine a se stes-
so e non fine ultimo dell’apprendimento linguistico.

2. VERSO UNA DIDATTICA DEL PLURILINGUISMO: IL QUADRO COMUNE EUROPEO DI


RIFERIMENTO PER LE LINGUE
Frutto di anni di ricerche linguistiche e pedagogiche, condotte da esperti e studiosi prove-
nienti dai 41 Stati membri del Consiglio d’Europa, nel 2001 veniva reso pubblico il Quadro
Comune Europeo di Riferimento per le Lingue. Apprendimento Insegnamento Valutazione
(Common European Framework of Reference for Languages). Nella prospettiva della forma-
zione e costituzione di una “cittadinanza europea”, il documento descriveva in maniera chia-
ra ed esaustiva obiettivi, metodi, contenuti, criteri di valutazione relativi al processo di ap-
prendimento/insegnamento delle lingue moderne, per incoraggiare una cooperazione in-
Elementi di glottodidattica

ternazionale e riuscire a conseguire un’omogeneità nei corsi, programmi e certificazioni al


fine di superare le difficoltà legate alla diversità dei sistemi scolastici.
Il Quadro prendeva le mosse dal presupposto fondamentale che il plurilinguismo rappre-
senta ormai una competenza essenziale. Sempre di più i “cittadini europei” si trovano a
dover comunicare con interlocutori di lingue diverse. D’altra parte, «la lingua non è sola-
mente un aspetto essenziale della cultura ma è anche uno strumento che permette di acce-
dere alle espressioni della cultura». Il plurilinguismo dunque si pone come aspetto fonda-
mentale e irrinunciabile di una collettività aperta e interculturale. La conoscenza e la rap-
presentazione del mondo sono, infatti, strettamente legati al lessico e alla grammatica del-
la lingua madre. «La lingua e la rappresentazione del mondo si sviluppano in stretta rela-
zione reciproca. Chi pone la domanda “Che cos’è?” può infatti voler conoscere il nome di un
fenomeno appena osservato oppure il significato (il referente) di una nuova parola. Gli ele- 17
menti di questa rappresentazione si sviluppano, nelle loro linee generali, già dalla prima in-
fanzia, e si arricchiscono con l’educazione e l’esperienza nell’adolescenza e nel corso di tut-
ta la vita. La comunicazione dipende dalla congruenza esistente tra le rappresentazioni del
mondo e la lingua di chi vi partecipa» (5.1.1).
Va detto, tuttavia, che in questa prospettiva di plurilinguismo il Quadro individuava sostan-
zialmente nell’inglese la lingua da apprendere e condividere.
Il Quadro, articolato in nove capitoli e due appendici, oltre ad affrontare il tema della comu-
nicazione linguistica e del processo apprendimento/ insegnamento di una lingua straniera
in tutti gli aspetti, individuava sei livelli comuni di riferimento per valutare il livello di
competenza linguistica individuale.
Vengono distinti tre “grandi” livelli di competenza: A Livello elementare (Base), B Livello in-
termedio (Autonomia), C Livello avanzato (Padronanza), ciascuno articolato a sua volta in
due livelli. Per ogni livello viene descritto ciò che un individuo è in grado di fare nelle diverse
situazioni della comunicazione orale e scritta (comprensione e produzione orale; comprensio-
ne e produzione scritta). Vediamo insieme la “scala globale” dei livelli comuni di riferimento.

C2 È in grado di comprendere senza sforzo praticamente tutto ciò che ascolta o legge.
Sa riassumere informazioni tratte da diverse fonti, orali e scritte, ristrutturando in
un testo coerente le argomentazioni e le parti informative. Si esprime spontanea-
mente, in modo molto scorrevole e preciso e rende distintamente sottili sfumature
di significato anche in situazioni piuttosto complesse.
Livello avanzato C1 È in grado di comprendere un’ampia gamma di testi complessi e piuttosto lunghi e
ne sa ricavare anche il significato implicito. Si esprime in modo scorrevole e spon-
taneo, senza un eccessivo sforzo per cercare le parole. Usa la lingua in modo flessi-
bile ed efficace per scopi sociali, accademici e professionali. Sa produrre testi chia-
ri, ben strutturati e articolati su argomenti complessi, mostrando di saper control-
lare le strutture discorsive, i connettivi e i meccanismi di coesione.
B2 È in grado di comprendere le idee fondamentali di testi complessi su argomenti sia
concreti sia astratti, comprese le discussioni tecniche nel proprio settore di specializ-
zazione. È in grado di interagire con relativa scioltezza e spontaneità, tanto che l’inte-
razione con un parlante nativo si sviluppa senza eccessiva fatica e tensione. Sa produr-
re testi chiari e articolati su un’ampia gamma di argomenti e esprimere un’opinione su
un argomento d’attualità, esponendo i pro e i contro delle diverse opzioni.
Livello intermedio B1 È in grado di comprendere i punti essenziali di messaggi chiari in lingua standard
su argomenti familiari che affronta normalmente al lavoro, a scuola, nel tempo li-
Capitolo 3 - La linguistica educativa

bero ecc. Se la cava in molte situazioni che si possono presentare viaggiando in una
regione dove si parla la lingua in questione. Sa produrre testi semplici e coerenti su
argomenti che gli siano familiari o siano di suo interesse. È in grado di descrivere
esperienze e avvenimenti, sogni, speranze, ambizioni, di esporre brevemente ragio-
ni e dare spiegazioni su opinioni e progetti.
A2 Riesce a comprendere frasi isolate ed espressioni di uso frequente relative ad ambiti di
immediata rilevanza (ad es. informazioni di base sulla persona e sulla famiglia, acqui-
sti, geografia locale, lavoro). Riesce a comunicare in attività semplici e di routine che ri-
chiedono solo uno scambio di informazioni semplice e diretto su argomenti familiari e
abituali. Riesce a descrivere in termini semplici aspetti del proprio vissuto e del proprio
ambiente ed elementi che si riferiscono a bisogni immediati.
Livello elementare
A1 Riesce a comprendere e utilizzare espressioni familiari di uso quotidiano e formu-
le molto comuni per soddisfare bisogni di tipo concreto. Sa presentare se stesso/a
e altri ed è in grado di porre domande su dati personali e rispondere a domande
analoghe (il luogo dove abita, le persone che conosce, le cose che possiede). È in gra-
do di interagire in modo semplice purché l’interlocutore parli lentamente e chiara-
mente e sia disposto a collaborare.
3. LA DIVERSITÀ LINGUISTICA, RICCHEZZA D’EUROPA: IL RAPPORTO MAALOUF
18
Nell’ambito delle riflessioni sull’interculturalità e sul plurilinguismo appare prezioso un do-
cumento del 2008, noto come rapporto Maalouf, il cui titolo integrale era Una sfida saluta-
re. Come la molteplicità delle lingue potrebbe rafforzare l’Europa. Il testo è stato elaborato da
un gruppo di intellettuali provenienti da diversi Paesi, presieduto dallo scrittore Amin Ma-
alouf e costituitosi su iniziativa della Commissione Europea. Appare notevolmente interes-
sante leggerne un ampio stralcio.
«I principi. Va da sé che la molteplicità delle lingue impone vincoli, pesa sul funzionamen-
to delle istituzioni europee e ha un costo in termini di denaro e di tempo. Questo costo di-
venterebbe anche proibitivo se si volesse attribuire a decine di lingue tutto il posto che i loro
locutori potrebbero legittimamente rivendicare.
Al cospetto di questa sovrabbondanza, si è facilmente tentati di lasciare che s’affermi una
situazione di fatto in cui una sola lingua, l’inglese, occuperebbe nei lavori delle istituzioni
europee un posto preponderante, due o tre altre lingue riuscirebbero a mantenere, ancora
per qualche tempo, una presenza declinante, mentre la grande maggioranza delle nostre
lingue avrebbe soltanto uno statuto simbolico e non sarebbe quasi mai utilizzata nelle riu-
nioni comuni.
Un’evoluzione di questo tipo non ci sembra auspicabile.
Perché sarebbe contraria agli interessi economici e strategici del continente e di tutti i suoi
cittadini, di qualunque lingua materna; e anche perché sarebbe contraria allo spirito stesso
del progetto europeo, per diversi motivi.
I - Il rispetto della nostra diversità linguistica non è soltanto il riconoscimento di una real-
tà culturale prodotta dalla storia. È il fondamento stesso dell’idea europea quale è emersa
dalle macerie dei conflitti che hanno segnato il diciannovesimo secolo e la prima metà del
ventesimo.
Se la maggior parte delle nazioni europee si sono costruite sulla base delle loro lingue iden-
titarie, l’Unione europea può costruirsi soltanto sulla base della sua diversità linguistica.
Questo, dal nostro punto di vista, è particolarmente confortante. Il fatto che un sentimento
d’appartenenza comune sia fondato sulla diversità linguistica e culturale è un potente anti-
doto contro i fanatismi in cui spesso sono degenerate le affermazioni identitarie in Europa
e altrove, ieri come oggi.
Nata dalla volontà di popoli diversi, che hanno liberamente scelto di unirsi, l’Unione euro-
pea non ha né la vocazione né la capacità di cancellare la loro diversità. Il suo compito sto-
rico è invece quello di salvaguardare, armonizzare, pacificare e far fruttificare questa diver-
sità, e pensiamo che possa darsi i mezzi per assolvere questo compito.
Crediamo anzi che sia in grado di offrire all’umanità intera il modello di un’identità fonda-
ta sulla diversità.
II - L’Europa s’interroga oggi sulla sua identità e sulla possibilità di definirne il contenuto
senza procedere per esclusioni e rimanendo aperta al mondo. Pensiamo che una riflessio-
Elementi di glottodidattica

ne sulla sua diversità linguistica le permetta di affrontare questa delicata questione nel modo
più costruttivo, più sereno e più sano.
L’identità dell’Europa non è né una pagina bianca, né una pagina già scritta e stampata. È
una pagina che stiamo scrivendo.
Esiste un patrimonio comune, artistico, intellettuale, materiale e morale, di una ricchezza
inaudita, con pochi equivalenti nella storia umana, che generazioni su generazioni hanno
costruito e che merita di essere preservato, riconosciuto, condiviso. Ogni europeo, ovunque
viva, di qualunque origine sia, deve poter far proprio questo patrimonio e riconoscerlo come
suo, senza alcuna arroganza ma con legittima fierezza.
Tuttavia, il nostro patrimonio non è un catalogo chiuso. Ogni generazione ha il dovere di ar-
ricchirlo, in tutti i campi, nessuno escluso, secondo la sensibilità di ciascuno e in funzione 19
delle diverse influenze che, ai nostri giorni, provengono da ogni angolo del pianeta.
Quanti fanno il loro ingresso in Europa — e possiamo includere in questa formulazione per-
sone di svariate provenienze: immigrati, cittadini dei nuovi Stati membri, e anche i giovani
europei di ogni paese che cominciano a scoprire la vita — devono essere costantemente as-
secondati in questa loro duplice aspirazione: appropriarsi del patrimonio comune e appor-
tarvi il loro contributo.
III - Se per l’Europa è indispensabile incoraggiare la diversità delle espressioni culturali, al-
trettanto indispensabile è affermare l’universalità dei valori essenziali. Sono due aspetti di
uno stesso credo senza il quale l’idea europea perderebbe il suo senso. La ragion d’essere
dell’impresa europea che ha preso avvio all’indomani della seconda guerra mondiale con-
siste nell’adesione a certi valori. Valori a cui spesso hanno dato forma pensatori europei, ma
che si sono anche sviluppati, in larga misura, come salutare reazione a eventi sanguinosi e
nefasti della storia europea stessa. […]
Essenzialmente, l’idea europea ci sembra poggiare su due esigenze inseparabili: l’universa-
lità dei valori morali comuni e la diversità delle espressioni culturali; di questa, in partico-
lare, la diversità linguistica costituisce, per ragioni storiche, una componente primaria, ol-
tre ad essere, come cercheremo di dimostrare, un magnifico strumento d’integrazione e d’ar-
monizzazione.
L’orientamento proposto. Alla luce di questi principi, abbiamo cercato una via di soluzio-
ne che sia al tempo stesso ambiziosa e realistica.
Ambiziosa, perché l’obiettivo da raggiungere non è quello di “ritardare l’ineluttabile”, ma, al
contrario, quello di affermare durevolmente la diversità linguistica nella vita degli europei
- cittadini, popoli e istituzioni; ambiziosa, perché la soluzione dovrebbe poter operare indi-
pendentemente dal numero di lingue considerate e anche perché non si tratta semplicemen-
te di trovare un accordo che non nuoccia all’integrazione europea, si tratta di aprire una via
che permetta di compiere progressi significativi in direzione dell’integrazione europea.
Vogliamo però procedere in modo realistico. Nel corso delle nostre discussioni, abbiamo
sempre tenuto presente che la nostra riflessione non avrebbe alcun senso se non portasse
a proposte concretamente applicabili. Naturalmente, non ci sono soluzioni semplici a pro-
blemi tanto complessi, ma è importante fissare una rotta.
L’orientamento che suggeriamo si articola in due idee, che sono in verità le due facce di una
stessa proposta:
Capitolo 3 - La linguistica educativa

A - Nelle relazioni bilaterali tra i popoli dell’Unione europea l’uso delle lingue dei due popo-
li dovrebbe prevalere su quello di una terza lingua.
Questo implica che per ciascuna lingua europea esista, in ogni paese dell’Unione, un grup-
po significativo di locutori competenti e fortemente motivati. […]
B - Perché questi contingenti di locutori possano essere formati, l’Unione europea dovreb-
be farsi promotrice dell’idea di lingua personale adottiva.
L’idea è quella di incoraggiare ogni cittadino europeo a scegliere liberamente una lingua di-
stintiva, diversa dalla sua lingua identitaria e anche dalla sua lingua di comunicazione in-
ternazionale.
Così come la concepiamo, la lingua personale adottiva non sarebbe per nulla una seconda
lingua straniera, bensì, in qualche modo, una seconda lingua materna.
Studiata intensamente, parlata e scritta correntemente, questa lingua sarebbe integrata nel
percorso scolastico e universitario e nel curriculum professionale di ogni cittadino europeo.
[…]».
20
Capitolo 4
La linguistica testuale

1. IL TESTO E LA COMPETENZA TESTUALE


La linguistica testuale pone al centro della sua riflessione il testo, considerato unità fon-
damentale della nostra attività linguistica.
Ogni messaggio che sia strutturato in maniera corretta e unitaria, secondo le regole presta-
bilite di un determinato codice, si può definire «testo». Il testo, dunque, non è necessaria-
mente o esclusivamente verbale: un quadro o una scultura costituiscono, ad esempio, un te-
sto iconico; una sinfonia o un concerto un testo musicale; un film è addirittura un testo mul-
tiplo perché si avvale di più codici.
Il testo più pratico e diffuso è il testo linguistico (o verbale), che si avvale di un codice fatto
di segni linguistici o parole. Esso può presentarsi in forma orale (un discorso, una conver-
sazione, una conferenza) oppure scritta (una lettera, un annuncio pubblicitario, un manua1Il
termine «testo» deriva dal latino textum (intessuto, intrecciato), ma perché un testo si qua-
lifichi come tale non è sufficiente aggregare casualmente le parole tra loro; è necessario, al
contrario, intessere tra di esse una trama ordinata di relazioni, secondo le regole d’uso di
una determinata lingua.
Prima di soffermarci su questi aspetti, è bene immediatamente definire il “concetto” di com-
petenza testuale.
«Per competenza pragmatico-testuale relativa alla lettura si intende la capacità di ricostru-
ire, a partire dalla lettera del testo e da conoscenze ”enciclopediche”, l’insieme di signifi-
cati che il testo veicola, assieme al modo in cui essi sono veicolati: in altri termini, l’orga-
nizzazione logicoconcettuale e formale del testo stesso, in rapporto comunque con il conte-
sto. […] Per comprendere, interpretare e valutare un testo il lettore deve essere in grado di
individuare specifiche informazioni, ricostruire il senso globale e il significato di singo-
le parti, cogliere l’intenzione comunicativa dell’autore, lo scopo del testo e il genere cui
esso appartiene. Tutti questi aspetti afferiscono alla competenza pragmatico-testuale, che
comprende tra l’altro:
1) il saper cogliere e tener conto dei fenomeni di coesione testuale, cioè dei segnali lingui-
stici che indicano l’organizzazione del testo, in particolare connettivi e coesivi;
2) il saper cogliere e tener conto dell’organizzazione generale (titolazione, scansione in ca-
poversi e paragrafi, rilievi grafici ecc.) e dei fenomeni locali che contribuiscono alla co-
erenza testuale, in particolare la modalità di successione e la gerarchia delle informa-
zioni, e i legami logico-semantici tra frasi e tra capoversi (ad esempio, legami di conse-
guenza, opposizione, similarità, generalizzazione, esemplificazione ecc.);
Elementi di glottodidattica

3) il saper operare inferenze, ricavando contenuti impliciti, pertinenti alla comprensione


del testo (ad esempio: La moglie di Luca è partita -> Inferenza: Luca è sposato);
4) il saper riconoscere il registro linguistico, determinato dalle scelte morfosintattiche e
lessicali dominanti.
È comunque anche necessario tenere conto di una prospettiva empiricamente validata, che con-
sidera la comprensione come un processo interattivo, risultato della reciproca influenza e dell’in-
tegrazione ottimale del dato testuale con la conoscenza di cui dispone il soggetto. Questa idea
di competenza pare anche essere quella sottesa al framework di PISA, dove si dice, a proposito
della competenza di lettura (reading literacy), che essa “comprende un’ampia gamma di com-
petenze cognitive, che vanno da quella, di base, della decodifica, alla conoscenza delle parole,
della grammatica e di strutture e caratteristiche linguistiche e testuali più estese, alle conoscen- 21
ze enciclopediche. Essa comprende anche competenze metacognitive: la capacità di ricorrere
ad una pluralità di strategie appropriate nell’elaborazione dei testi e il farlo in modo consape-
vole. Le competenze metacognitive vengono attivate quando i lettori riflettono circa la loro at-
tività di lettura, la controllano e l’adattano, in vista di un determinato scopo”».

2. I PRINCIPI COSTITUTIVI DEL TESTO


Come abbiamo detto in apertura, il testo non è un’aggregazione casuale di elementi: un testo
per definirsi tale deve rispondere a cinque principi costitutivi (detti spesso – non a caso –
anche “requisiti del testo”): correttezza, coesione, coerenza, informatività, situazionalità.
La correttezza Per potersi definire corretto un testo deve essere conforme alle regole gram-
maticali della lingua in cui è scritto. Deve rispettare l’ortografia (la scrittura corretta) e l’or-
toepia (la corretta pronuncia delle parole). Chi parla o chi scrive, inoltre, deve controllare
anche la correttezza semantica. Per esempio, la frase “Il cane legge il libro” è conforme alle
regole della morfologia (in quanto a concordanze tra articolo, nome e verbo) e alle regole
della sintassi (in quanto a concordanze tra soggetto, verbo e complemento oggetto), ma non
è corretta sul piano semantico. Leggere, infatti, non è un’azione propria di un animale.
La coesione Le frasi e i paragrafi devono essere collegati secondo criteri logici; i collega-
menti si effettuano attraverso i connettivi, espressioni che indicano i rapporti spazio-tempo,
causa-effetto, corrispondenza, dimostrazione ecc. Tutto ciò che un testo comunica (fatti, idee,
concetti) non deve soltanto essere espresso in maniera grammaticalmente corretta, ma deve
essere completo e comprensibile sul piano logico. Tutte le parti del testo devono cioè contri-
buire a sviluppare l’argomento centrale e a far sì che il destinatario del messaggio lo possa
comprendere. La frase “Arrivai alla stazione decisi di attendere il treno successivo” non è com-
prensibile poiché mancano degli elementi che giustifichino l’enunciato finale (Arrivai alla sta-
zione, ma l’espresso per Roma era già partito: decisi di attendere il treno successivo). Per cre-
are le connessioni logiche, l’emittente di un testo ricorre, pertanto, ai connettivi, elementi lin-
guistici che servono a legare un concetto all’altro e a creare continuità nell’esposizione. La
funzione di connettivi è svolta in particolare dalle seguenti parti del discorso:
— gli avverbi e le locuzioni avverbiali di tempo, per indicare l’ordinata successione dei fat-
ti (prima, in seguito, infine ecc.), e di luogo, per evidenziare i rapporti spaziali tra gli ele-
menti del testo (davanti, dietro, vicino ecc.);
Capitolo 4 - La linguistica testuale

— le congiunzioni esplicative, le quali introducono una parte del testo che contiene una
spiegazione di quanto detto in precedenza (infatti, cioè ecc.); conclusive, le quali intro-
ducono una frase che rappresenta la conseguenza logica di quanto detto in precedenza
(perciò, pertanto ecc.); avversative, che esprimono una contrapposizione rispetto alle
affermazioni precedenti (ma, tuttavia ecc.); temporali, che segnalano le coordinate tem-
porali di un fatto (allorché, finché, appena ecc.);
— i pronomi personali e dimostrativi (egli, loro ecc.; questo, quello ecc.), che consentono
di dare inizio a una nuova frase evitando le ripetizioni;
— i verbi, che attraverso alcuni tempi e modi consentono di collegare le parti di un testo
(occorre sottolineare, tornando all’argomento su esposto ecc.).
La coerenza Un testo deve essere unitario e deve svolgere un argomento in maniera ordi-
nata e completa, usando una lingua adeguata alla situazione comunicativa. Gli elementi de-
vono susseguirsi secondo principi di causalità, di contemporaneità, di successione tempo-
rale, utilizzando le forme grammaticali che consentono di conseguire tali effetti.
“Ho trascorso un fine settimana al mare perché mi sono divertito” è un messaggio incoeren-
22 te e nel complesso incomprensibile, a differenza del messaggio “Mi sono molto divertito nel
fine settimana perché sono stato al mare”, in cui risulta chiaro il nesso causa-effetto.
Anche la scelta del lessico incide sulla coerenza logica di un testo. In una dichiarazione pos-
siamo scrivere “Il Sottoscritto dichiara di aver ottemperato agli obblighi militari”, ma par-
lando con un amico diremo “Ho già fatto il servizio militare”, altrimenti il nostro discorso
sarà poco chiaro, se non addirittura ridicolo.
L’informatività Il testo deve contenere elementi già conosciuti da chi lo produce, ma non
ancora noti a chi lo riceve. Il grado di informatività è strettamente connesso sia al contenu-
to sia alla forma del messaggio. Ha un alto grado di informatività, ad esempio, l’articolo di
cronaca di un giornale, poiché esso ha la funzione di illustrare al lettore i fatti accaduti, sen-
za alcun commento o interpretazione da parte di chi scrive. Un tipo di linguaggio ancora più
stringato è quello pubblicitario, che produce testi estremamente concisi, i quali risultano
più efficaci nel catturare l’attenzione del destinatario rispetto a messaggi più estesi.
La situazionalità Un testo è comunicativo quando si colloca in una situazione adeguata. L’av-
viso “Vietato attraversare i binari” ha senso soltanto se è esposto in una stazione ferroviaria.
Se fosse posto in un altro contesto, per esempio, in un negozio non significherebbe nulla.

3. I PRINCIPI REGOLATIVI DEL TESTO


Oltre ai principi costitutivi, vi sono tre principi regolativi, cui un testo deve rispondere.
«L’efficienza ci dice che un testo deve essere facilmente prodotto e usato, ed è in stretta rela-
zione con la situazione e gli scopi del testo stesso. Il cartello con la scritta preparate il denaro
contato, posto in prossimità di un casello autostradale è efficiente, mentre sarebbe del tutto
inefficiente un cartello formulato in questo modo: dal momento che state per giungere all’area
di riscossione del pedaggio, è opportuno che vi muniate della giusta quantità di denaro allo sco-
po di facilitare le operazioni di pagamento. L’automobilista non avrebbe tempo di leggerlo.
L’effettività consiste nella capacità del testo di rimanere impresso nella memoria del destina-
tario e produrre condizioni favorevoli al raggiungimento di un determinato fine. I messaggi
pubblicitari, gli slogan elettorali, i titoli dei quotidiani mirano a essere altamente effettivi. Pen-
sate a quante volte, nel parlare, citiamo frasi famose, slogan pubblicitari che ci sono rimasti in
mente, modi di dire, proverbi, spiritosaggini che ci sembrano adatte alla circostanza.
L’appropriatezza ci dice che un testo deve avere una composizione armonica tra contenu-
ti e aspetti testuali. È inappropriato un manuale per le scuole medie che faccia uso di un les-
sico difficile e molto elevato, o un testo di alta divulgazione scientifica che, viceversa, faccia
uso di un lingua bassa e colloquiale».

4. LE TIPOLOGIE TESTUALI
Elementi di glottodidattica

4.1 Classificazione e caratteristiche


La classificazione più consueta dei diversi tipi di testo si fonda sullo scopo principale che l’au-
tore si è prefisso di conseguire nel momento in cui li ha prodotti. Una prima grande distinzio-
ne è quella effettuabile tra i testi pragmatici o testi sociali o anche testi d’uso e testi lettera-
ri: i primi sono prodotti nell’ambito dei comuni rapporti sociali e utilizzati quotidianamente
per conseguire scopi di carattere pratico come fornire informazioni, convincere qualcuno, de-
scrivere avvenimenti, imporre delle prescrizioni; i secondi sono quelli in cui l’autore non mo-
stra di avere scopi pratici evidenti, ma, puntando su tutte le risorse espressive della lingua,
espone in modo efficace il proprio pensiero, i propri sentimenti, le proprie emozioni.
Le due grandi categorie dei testi pragmatici e dei testi letterari vengono, a loro volta, ulte-
riormente suddivise. 23

Tra i testi pragmatici è possibile distinguere:


— i testi informativo-espositivi, che contengono notizie utili per apprendere determina-
ti dati oppure informazioni su personaggi, avvenimenti, situazioni; rientrano in questa
tipologia testuale gli avvisi, i verbali, le relazioni, le cronache, i riassunti, i manuali sco-
lastici; la loro struttura sarà improntata a una sostanziale coerenza e organicità, neces-
sarie a comunicare le informazioni con completezza e precisione; a questo fine concor-
re anche l’utilizzo del registro linguistico, di taglio espositivo e didascalico;
— i testi descrittivi, che presentano persone, oggetti e ambienti corredati di relativi aspet-
ti e caratteristiche; rientrano in questi testi le guide turistiche, i trattati, gli opuscoli, le
sequenze descrittive di opere letterarie;
— i testi espressivi, che manifestano sensazioni, stati d’animo, sentimenti personali dell’au-
tore; vi rientrano i diari, le lettere private, le confessioni, le autobiografie;
— i testi interpretativo-valutativi, che esprimono l’opinione dell’autore in relazione a un
determinato argomento oppure guidano alla comprensione di una situazione, di un fat-
to e di un altro testo; sono le critiche, le recensioni di libri o spettacoli, i commenti a ope-
re letterarie, artistiche o musicali, gli editoriali giornalistici;
— i testi prescrittivi (detti anche regolativi o conativi), che impongono divieti, obblighi,
norme da rispettare o procedure da seguire; sono testi prescrittivi le leggi, i regolamen-
ti, le circolari, le ricette; la loro struttura è schematica perché deve fornire i precetti con
trasparenza e completezza; appaiono caratterizzati dall’utilizzo di un registro linguisti-
co prescrittivo e da un lessico specialistico;
— i test argomentativi, che espongono o sostengono una tesi che intendono dimostrare,
confutando anche eventuali opinioni contrarie; vi rientrano i discorsi politici o di pro-
paganda, le arringhe, i saggi brevi, gli articoli di fondo, i testi scientifici; la loro struttura
segue strettamente la logica del ragionamento, da qui l’uso frequente di connettivi (in-
fatti, ma, tuttavia, quindi ecc.) e la presenza di verbi di opinione (pensare, essere possi-
bile, credere ecc.);
— i testi persuasivi, che suggeriscono una scelta o tentano di imporre un determinato com-
portamento; prototipo del testo persuasivo è il messaggio pubblicitario.
I testi letterari, invece, si distinguono in tre principali tipologie:
— i testi narrativi (scritti in prosa), che narrano, mediante la descrizione di vicende occor-
se a uno o più personaggi, una storia, reale o inventata; sono testi narrativi le fiabe, le fa-
Capitolo 4 - La linguistica testuale

vole, le leggende, i racconti o le novelle, i romanzi;


— i testi poetici (scritti in versi), che espongono senza mediazioni di sorta le idee, i senti-
menti, le aspirazioni, gli ideali e gli stati d’animo dell’autore; vi rientrano poemi, poesie,
liriche;
— i testi teatrali (scritti in forma dialogica in versi o in prosa), che narrano una storia fa-
cendo parlare direttamente ed esclusivamente i personaggi; vi rientrano le commedie,
le tragedie, i melodrammi.

4.2 Il modello pragmatico di Francesco Sabatini


Il linguista Francesco Sabatini ha proposto e perfezionato nel corso del tempo una classifi-
cazione delle tipologie testuali che prende le mosse dalla riflessione sul rapporto comuni-
cativo (o più precisamente sul “patto” comunicativo) tra emittente e ricevente. Ogni testo
presuppone da un lato un emittente, che trasmette informazioni, e dall’altro un destinata-
rio, che ne riceve e che – sottolinea lo studioso – non ha mai un ruolo passivo. Ogni messag-
gio si costruisce “collaborativamente” perché il destinatario ha una parte attiva nella sua in-
24 terpretazione. «L’attribuzione di senso alle parole» afferma «rappresenta il piano sul quale
entrambi gli attori si incontrano realmente e operano concretamente» (Sabatini 1999).
In questa prospettiva, il punto chiave è costituito dall’intenzione dell’emittente di regolare
in maniera più o meno rigida l’attività interpretativa del destinatario. Un testo legislati-
vo, ad esempio, deve avere un significato quanto più possibile univoco, che non lascia spa-
zio alle interpretazioni personali del ricevente, a differenza di una poesia.
Da qui lo studioso opera una distinzione tra:
— testi molto vincolanti
— testi mediamente vincolanti
— testi poco vincolanti.
Tra i primi rientrano, come dicevamo, innanzitutto le leggi e testi affini come sentenze, atti
amministrativi, contratti ecc. e i testi tecnici e scientifici, mentre tra i secondi, trattati divul-
gativi, manuali esplicativi, articoli ecc.; testi poco vincolanti sono tutti i testi letterari, sia in
prosa che in versi. Naturalmente, ai diversi gradi di rigidità corrispondono tratti linguisti-
ci e stilistici distintivi: un testo giuridico o scientifico sarà caratterizzato da una struttura
rigorosamente impostata, da definizioni esatte, dall’utilizzo di formule, grafici e tabelle, da
una punteggiatura che rispetta sempre la costruzione sintattica della frase, dalla generale
attenzione all’uso del lessico nella sua funzione denotativa.

4.3 La classificazione OCSE PISA


Il Programma per la valutazione internazionale dello studente, sicuramente a tutti più noto
con l’acronimo PISA (Programme for International Student Assessment), è un’indagine, av-
viata per la prima volta nel 2000, promossa dall’OCSE (Organizzazione per la cooperazione
e lo sviluppo economico) con periodicità triennale, volta a valutare le conoscenze e compe-
tenze acquisite da studenti quindicenni nei principali Paesi industrializzati. I tre ambiti coin-
volti sono “lettura”, “matematica” e “scienze”; e la literacy in lettura è considerata la compe-
tenza chiave per eccellenza perché costituisce la base sia per conseguire gli obiettivi di
apprendimento in ogni area disciplinare sia per acquisire informazioni in modo funzionale
alla piena partecipazione dell’individuo alla vita sociale.
Il formato del testo e la distinzione fra testi continui e testi non continui sono al centro
della rilevazione PISA. Leggiamo dal Quadro di riferimento PISA 2006:
«I testi continui sono normalmente costituiti da frasi raggruppate in paragrafi. Questi ultimi,
a loro volta, possono far parte di strutture più ampie come sezioni, capitoli e libri. La princi-
pale classificazione dei testi continui si basa sul loro fine retorico, ovvero sul tipo di testo.
I testi non continui (o documenti, come sono a volte chiamati a seconda dell’approccio meto-
dologico) possono essere classificati in due modi. Il primo è l’approccio basato sulla struttu-
ra formale, utilizzato da Kirsch e Mosenthal nei loro studi, in cui si classificano i testi non con-
Elementi di glottodidattica

tinui in base ai diversi tipi di liste su cui tali testi si fondano. L’approccio di Kirsch e Mosen-
thal è utile per comprendere somiglianze e differenze fra i diversi tipi di testi non continui.
Il secondo metodo di classificazione fa riferimento alle descrizioni abituali del formato di
questo tipo di testi. Ed è in base a questo secondo approccio che è stata definita la classifi-
cazione dei testi non continui in PISA.
Testi continui I tipi di testo corrispondono a modi standard di classificare i testi continui
in base al loro contenuto e all’intento dell’autore.
I testi narrativi sono testi nei quali le informazioni riguardano le proprietà degli oggetti
nel tempo.
Le domande tipiche alle quali rispondono i testi narrativi sono: “quando?”, o anche, “in che ordine?”.
I testi informativi sono testi nei quali l’informazione è presentata sotto forma di concetti 25
o costrutti mentali compositi, o attraverso gli elementi in cui tali concetti o costrutti posso-
no essere analizzati. Questi testi forniscono una spiegazione di come questi elementi costi-
tutivi siano integrati in un unicum dotato di proprio significato e spesso rispondono a do-
mande del tipo: “come?”.
I testi descrittivi forniscono informazioni circa le proprietà degli oggetti nello spazio. Essi
rispondono in primo luogo a domande del tipo: “che cosa?”.
I testi argomentativi presentano proposizioni che riguardano le relazioni fra concetti o con
altre proposizioni. I testi argomentativi rispondono spesso a domande del tipo: “perché?”.
Una sottocategoria importante dei testi argomentativi è quella dei testi persuasivi.
I testi di istruzioni (detti anche testi conativi) sono testi che forniscono indicazioni su che
cosa fare.
In tale categoria rientrano testi che contengono procedure, regole, regolamenti e statuti che
regolano determinati comportamenti.
I documenti o atti ufficiali sono testi costruiti per standardizzare e conservare l’informazione.
Tali testi possono essere connotati da caratteristiche testuali e grafiche altamente formalizzate.
L’ipertesto è un insieme di caselle di testo collegate fra loro in modo tale che si possa frui-
re delle singole unità secondo sequenze diverse e che chi legge possa ricostruire le informa-
zioni seguendo diversi percorsi di lettura.
Testi non continui I testi non continui sono organizzati diversamente dai testi continui e
richiedono quindi un diverso approccio di lettura. […]
I grafici sono rappresentazioni iconiche di dati. Sono utilizzati per sostenere le argomenta-
zioni scientifiche e anche in riviste o giornali per presentare informazioni numeriche e ta-
bellari in formato iconico.
Le tabelle sono matrici a righe e colonne. Generalmente tutte le voci di ciascuna riga e di
ciascuna colonna presentano proprietà comuni, e le intestazioni delle righe e delle colonne
fanno parte integrante dell’informazione del testo. Tipi comuni di tabelle sono gli orari, i fo-
gli di calcolo, i moduli d’ordinazione e gli indici.
Le figure spesso accompagnano descrizioni tecniche (quali ad esempio quelle che illustrano
i componenti di un elettrodomestico), testi informativi e istruzioni (quali ad esempio, quelle
che spiegano come montare un elettrodomestico). È utile distinguere le figure che illustrano
procedure (come fare qualcosa) da quelle che illustrano processi (come funziona qualcosa).
Le mappe sono testi non continui che indicano le relazioni geografiche fra luoghi fisici. Esistono
numerosi tipi di mappe. Le carte stradali indicano le distanze e i percorsi fra determinati luoghi.
Capitolo 4 - La linguistica testuale

Le carte tematiche indicano le relazioni fra il territorio e le sue caratteristiche sociali o fisiche.
I moduli sono testi strutturati e formattati con i quali si chiede al lettore di fornire deter-
minate informazioni. Molte organizzazioni utilizzano moduli per raccogliere dati. I moduli
spesso contengono risposte strutturate o pre-codificate. Dichiarazioni dei redditi, moduli
per richiedere il permesso di soggiorno, moduli per richiedere il visto, domande di assun-
zione e questionari sono esempi tipici di questo tipo di testi.
I fogli informativi forniscono informazioni anziché richiederle come i moduli. Essi presen-
tano le informazioni in forma sintetica e strutturata, in un formato che consente al lettore di
localizzarle facilmente e velocemente. I fogli informativi possono contenere diversi tipi di te-
sto, o anche elenchi, tabelle, figure e utilizzare una grafica sofisticata (titoli, caratteri, rientri
e cornici), accorgimenti utili per sintetizzare ed evidenziare le informazioni. Orari, listini dei
prezzi, cataloghi e programmi costituiscono un esempio di questo tipo di testi non continui.
Gli annunci e le pubblicità sono documenti che invitano il lettore a fare qualcosa, come, ad esem-
pio, comprare un prodotto o un servizio, partecipare ad una manifestazione o ad una riunione,
eleggere un candidato ad una carica pubblica ecc. Il fine di tali documenti è quello di convincere
26 il lettore. Essi offrono qualcosa e richiedono, allo stesso tempo, di prestare attenzione e di fare
qualcosa. Pubblicità, inviti, convocazioni, avvisi e annunci sono esempi di questo tipo di testo.
Le ricevute e i buoni servono a certificare che il possessore è autorizzato a usufruire di determi-
nati servizi. Le informazioni che contengono devono essere sufficienti a dimostrarne la validità.
Biglietti e fatture sono esempi di questo tipo di testi.
I certificati sono testi che attestano la validità di un accordo o di un contratto. In essi è il
contenuto più che l’aspetto grafico a essere formalizzato. Solitamente richiedono la firma
di una o più persone autorizzate e abilitate a certificare la validità delle dichiarazioni con-
tenute nel documento.
Garanzie, certificati scolastici, diplomi, contratti ecc. sono documenti con tali caratteristiche».
Va sottolineato che, come si legge in Le competenze in lettura, matematica e scienze degli stu-
denti quindicenni italiani. Rapporto Nazionale PISA 2009 realizzato dall’INVALSI, in PISA
2009 è stato adottato un nuovo framework in cui «pur mantenendo una continuità di fondo
con il precedente, si tenta di dare conto dei cambiamenti avvenuti in questo periodo nei con-
testi d’uso e nelle caratteristiche dei testi scritti, in particolare dando spazio e riconosci-
mento alla ormai ampia diffusione dei testi in formato digitale».

5. I TESTI LETTERARI
5.1 Il testo narrativo
Un testo narrativo è un testo in cui viene narrata una storia, cioè una serie di vicende che
si snodano nel tempo e ruotano intorno a uno o più personaggi.
I testi narrativi sono stati storicamente suddivisi in generi e sottogeneri, qui di seguito vi-
sualizzati.
poema epico-cavalleresco
poema epico
Testi narrativi in versi poema eroicomico
novella in versi

fiaba
favola
bozzetto
leggenda
novella d’ambiente
novella del terrore
novella comico-satirica
novella o racconto novella psicologica
novella fantastica
novella di fantascienza
racconto poliziesco
Testi narrativi in prosa
Elementi di glottodidattica

romanzo d’avventura
romanzo storico
romanzo d’ambiente
romanzo sociale
romanzo borghese
romanzo romanzo filosofico
romanzo d’appendice
romanzo psicologico
romanzo autobiografico
romanzo fantastico
romanzo epistolare
Ogni testo narrativo, qualunque sia il suo sottogenere di appartenenza, presenta general-
mente la stessa struttura narrativa, che si articola in cinque momenti: 27
1. situazione iniziale;
2. esordio della vicenda (complicazione e rottura dell’equilibrio iniziale);
3. evoluzione della vicenda attraverso un suo miglioramento o peggioramento;
4. conclusione della vicenda e ricomposizione dell’equilibrio;
5. situazione finale.
Esistono due modi fondamentali per narrare una storia: in base all’ordine naturale degli
eventi, cioè riferendo gli eventi secondo l’ordine in cui si sono verificati nella realtà, oppu-
re in base a un ordine artificiale, che ne modifica la successione reale, presentando prima
gli eventi che, cronologicamente o logicamente, verrebbero dopo. Si distinguono pertanto
due diversi piani narrativi: la fabula (o storia), che rispetta l’ordine naturale degli eventi,
e l’intreccio (o narrazione), che invece li dispone secondo la scelta arbitraria dell’autore.
La presentazione dei personaggi può avvenire attraverso tre modalità fondamentali e ri-
correnti:
— il personaggio è presentato dal narratore, con taglio sostanzialmente oggettivo;
— il personaggio è presentato da un altro personaggio, con taglio soggettivo;
— il personaggio si presenta da sé.
La costruzione del personaggio, tuttavia, non si esaurisce con la presentazione, ma si realiz-
za durante l’intero corso della narrazione mediante un processo di caratterizzazione, per cui
una serie di elementi che emergono dalle vicende stesse, dal giudizio di altri personaggi o
del narratore stesso, conferisce al personaggio un’identità progressivamente più definita. Na-
turalmente i personaggi di un testo narrativo, durante lo svolgimento dei fatti, non restano
isolati, ma si relazionano agli altri, dando vita a un vero e proprio sistema dei personaggi,
all’interno del quale ognuno di essi ricopre un determinato ruolo, più o meno importante.
A seconda del ruolo che hanno, i personaggi di un testo narrativo si distinguono in:
— personaggi principali;
— personaggi secondari;
— comparse.
Oltre ad avere un ruolo, i personaggi ricoprono, nell’ambito della vicenda narrata, anche una
specifica funzione, in base alla quale si possono riconoscere:
— il protagonista (o eroe o soggetto) che si pone al centro della narrazione anche quando
Capitolo 4 - La linguistica testuale

non compare direttamente in scena;


— l’antagonista e cioè il personaggio che contrasta il protagonista e che gli si oppone con-
cretamente o sul piano psicologico;
— l’oggetto: il personaggio che incarna, talvolta inconsapevolmente, lo scopo dell’impegno
o del desiderio del protagonista, contrastato in ciò dall’antagonista;
— l’aiutante: il personaggio che assiste, aiuta e protegge il protagonista, sostenendolo nel-
la realizzazione delle sue imprese;
— l’oppositore: il personaggio che di solito è l’aiutante dell’antagonista e vi si unisce nel ten-
tativo di ostacolare il protagonista;
— il destinatore: il personaggio che propone al protagonista lo scopo da conseguire (si pen-
si, nelle fiabe, al re che spinge l’eroe a compiere un’impresa in cambio di un premio);
— il destinatario: è il personaggio in cui si materializza l’oggetto del contendere tra prota-
gonista e antagonista (nella stessa fiaba potrebbe essere la principessa che il re conce-
de in moglie all’eroe se questi avrà realizzato la propria impresa).
Un ultimo modo di classificare i personaggi è quello di distinguerli tra personaggi statici e
28 dinamici.
I personaggi statici sono quelli che nel corso della storia non subiscono mutamenti di alcun
tipo, né fisici, né psicologici, né di condizione sociale. Un esempio di personaggio statico è
Don Abbondio: in tutto l’arco della storia è sempre caratterizzato dalla paura dei potenti e
dalla pavidità.
I personaggi dinamici sono quelli che si modificano o dal punto di vista fisico o dal punto di
vista psicologico o ancora passano da uno stato sociale a un altro.
Esempi noti di personaggi dinamici sono fra’ Cristoforo dei Promessi sposi e Gesualdo Mot-
ta di Mastro-don Gesualdo.
Nell’economia di un testo narrativo grande importanza assume la dimensione temporale:
gli eventi narrati si collocheranno naturalmente in una determinata epoca storica (il tem-
po della storia) e la narrazione stessa si snoderà in un certo arco di tempo (la durata del-
la storia). È chiaro che la durata narrativa degli eventi narrati (coincidente grosso modo
con il tempo necessario per la lettura del testo) non coincide quasi mai con la loro durata
reale, cioè quella che essi avrebbero se accadessero realmente (fatta eccezione per le se-
quenze dialogate o scene nelle quali durata narrativa e durata reale coincidono). Il narrato-
re contrae o altera il tempo reale e per farlo si avvale di un ampio numero di espedienti tec-
nici, riconducibili a quattro tipologie fondamentali:
— il sommario: periodi più o meno lunghi vengono sintetizzati in poche righe;
— l’ellissi: interi periodi di tempo, anche molto lunghi, vengono del tutto ignorati (in tal
caso, si potranno trovare espressioni come «l’anno successivo…», «dieci anni dopo…»,
«terminato l’esilio…» ecc.);
— l’analisi: periodi di tempo per lo più molto brevi vengono dilatati abbracciando un tem-
po narrativo più ampio di quello reale;
— la digressione: la narrazione s’interrompe per dare modo al narratore di soffermarsi sul-
la descrizione dei personaggi, dei luoghi o del contesto storico della vicenda.
Il lettore dunque dovrà essere in grado di individuare la successione dei fatti così come il
narratore li racconta (e cioè quasi sempre secondo un ordine artificiale), cogliendo le rot-
ture della narrazione a livello dell’intreccio. Il narratore, ad esempio, potrà interrompere il
racconto dei fatti per narrare qualcosa che è successo prima (analessi o flash-back) oppure
per anticipare quanto avverrà in seguito (prolessi). Va infine considerato il tempo che nel te-
sto narrativo intercorre fra l’epoca in cui si collocano i fatti narrati e l’epoca in cui vengono
raccontati da un narratore (il quale – lo si ricordi – non è l’autore): se vuole pervenire a una
corretta interpretazione del testo, il nostro lettore dovrà tenere conto anche di questa di-
stanza.
La scelta dei luoghi in cui inserire le idee e le azioni dei personaggi di un testo narrativo non
è casuale, ma il frutto di una precisa scelta funzionale all’economia generale della narrazio-
ne: un luogo ha una funzione narrativa quando non funge da semplice sfondo alla vicenda,
Elementi di glottodidattica

ma interagisce con essa (si pensi a un castello abbandonato in un racconto dell’orrore) op-
pure una funzione simbolica se viene utilizzato per esprimere un’idea o un concetto in re-
lazione alla situazione narrativa e ai personaggi. Gli stessi luoghi intervengono spesso in
funzione della caratterizzazione psicologica di questi ultimi, riflettendone un modo d’esse-
re o rappresentandone una particolare situazione emotiva.
Soffermiamo ora l’attenzione sulla figura del narratore. Il narratore può relazionarsi ai fat-
ti che narra in modi diversi, in base ai quali è:
— un narratore esterno (o eterodiegetico), quando non prende parte ai fatti che racconta,
ma, quale voce narrante, li riferisce dall’esterno utilizzando la terza persona.
Il narratore esterno può:
— manifestare la propria presenza nella storia attraverso interventi utili a cucire i vari 29
fatti narrati o a commentare avvenimenti e vicende (I grado);
— rimanere nascosto dietro le vicende che si limita a raccontare, evitando commenti,
spiegazioni, interpretazioni; è questo il narratore esterno impersonale, tipico dei ro-
manzi naturalisti francesi e veristi italiani (II grado);
— un narratore interno (o omodiegetico), quando coincide con uno dei personaggi della vi-
cenda e, quale io narrante, racconta in prima persona i fatti ai quali partecipa o ha par-
tecipato, in veste di personaggio principale o secondario oppure come semplice testimo-
ne.
Il punto di vista (o focalizzazione) attraverso cui vengono raccontate le vicende può
essere di tre tipi:
— focalizzazione interna, quando il narratore interpreta il punto di vista di uno dei per-
sonaggi da un’angolatura inevitabilmente ristretta e limitata;
— focalizzazione esterna, quando il narratore è spettatore esterno dei fatti che raccon-
ta e pertanto si limita a registrarli senza aggiungere giudizi né fornire informazioni
su quanto accade: il punto di vista, in questo caso, è oggettivo;
— focalizzazione zero, quando il narratore è onnisciente e quindi sa tutto, compreso gli
antefatti della storia, i sentimenti e i pensieri più nascosti dei suoi personaggi; la sua
ottica è illimitata.
Per riferire le parole o i pensieri dei suoi personaggi, il narratore può scegliere tra diverse
tecniche, che utilizzerà a seconda delle esigenze o in base all’effetto da conseguire:
— discorso diretto, quando il narratore cede la parola al personaggio riportandone tra vir-
golette («…») quanto dice e collocandosi momentaneamente in secondo piano;
— discorso diretto libero, quando il narratore riporta le parole dei personaggi adoperando
le virgolette, ma non i verbi dichiarativi;
— discorso indiretto, quando il narratore riporta indirettamente le parole del personaggio,
inserendole nel tessuto narrativo come frasi dipendenti da un verbo dichiarativo (dico-
no che…, commentò che… ecc.);
— discorso indiretto libero, quando il narratore riporta le parole del personaggio indiretta-
mente, ma senza utilizzare verbi dichiarativi per introdurle; tale metodo fonde i pregi
del discorso diretto e di quello indiretto, consentendo di conservare la spontaneità del
primo e la continuità narrativa del secondo. Il discorso indiretto libero segna dunque
una sorta di “collaborazione” tra narratore e punto di vista del personaggio (si pensi a
Capitolo 4 - La linguistica testuale

Verga o Pirandello, ad esempio);


— discorso raccontato, quando il narratore si limita a riassumere in maniera sommaria i di-
scorsi del personaggio.
Nel riferire i pensieri dei suoi personaggi il narratore può avvalersi sia delle tecniche utiliz-
zate per i discorsi sia di altri espedienti di registrazione più elaborati e suggestivi:
— il monologo: senza alcuna mediazione da parte del narratore, vengono trascritte le pa-
role del personaggio che pronuncia discorsi rivolti a se stesso;
— il monologo interiore: il discorso viene proposto con le medesime modalità del monolo-
go, ma non è pronunciato. Il personaggio pensa tra sé e sé, esprimendo le proprie idee
più intime e i sentimenti più nascosti: la durata narrativa, in questi casi, si estende note-
volmente, anche se concretamente non avviene nulla;
— il soliloquio: il personaggio parla ancora da solo, ma si rivolge idealmente a un interlo-
cutore lontano dalla scena;
— il flusso di coscienza: il personaggio traduce in parole il flusso dei propri pensieri e delle
30 proprie sensazioni più intime; è l’inconscio che tenta di venire a galla e si materializza
in immagini spesso frammentarie e confuse, del tutto prive di rigore logico. Come è ben
noto, un esempio è rappresentato dall’Ulisse di James Joyce.

5.2 Il testo poetico


Il testo poetico, per la sua particolare natura (è un testo polisemico, cioè ricco di significa-
ti e aperto a tutte le interpretazioni), esprime, attraverso le parole, esperienze, emozioni e
sentimenti che sono propri dell’autore, ma al contempo possono essere comuni a tutti gli
uomini: stabilisce quindi un rapporto diretto tra autore e lettore. In questo processo molto
è affidato al linguaggio; la linguistica moderna definisce la poesia come una forma di comu-
nicazione in cui il significante si fa significato esso stesso. Il poeta, infatti, si preoccupa non
solo del significato delle parole, ma anche del loro suono, del loro timbro e del ritmo che,
con la loro disposizione, esse producono; è innanzitutto al corretto uso di questi elementi
che egli affida l’efficacia del proprio messaggio.
Gli studiosi di retorica tra XVI e XVII secolo provvidero a catalogare in generi e sottogeneri
i vari componimenti poetici, a seconda del contenuto, della forma metrica e della destina-
zione. Eccoli di seguito schematizzati.

poema epico
poema epico-cavalleresco
genere epico-narrativo poema eroicomico
poemetto mitologico
novella in versi
lirica propriamente detta
lirica amorosa
Testi poetici
lirica elegiaca
genere lirico
lirica religiosa
lirica civile o patriottica
lirica giocosa o burlesca
poemetto didascalico
genere didascalico poema didattico-allegorico
sermone in versi

Va altresì considerato che il valore vincolante di questa classificazione si mantenne tale solo
fino al Settecento: a partire dal XIX secolo, infatti, la cultura romantica rivendicò l’assoluta
libertà creativa del poeta e abolì, insieme con ogni precettistica, la teoria stessa dei generi
letterari, alla quale ancora oggi si conferisce una validità puramente descrittiva, non certo
normativa.
Il carattere distintivo di ogni testo poetico è costituito dal fatto, immediatamente visibile, di
essere composto in versi.
I versi non sono tutti uguali, possono essere lunghi come nelle poesie-racconto di Cesare
Elementi di glottodidattica

Pavese oppure brevi come nelle liriche dell’Allegria di Giuseppe Ungaretti.


Il verso non marca solo una diversità di tipo visivo rispetto ai testi in prosa, ma costituisce
l’unità di base del ritmo di una poesia. Esso è costituito dalla successione armonica e alter-
nata di sillabe toniche e sillabe atone. Le sillabe delle parole di un verso, infatti, non vengo-
no pronunciate tutte con la stessa intensità: alcune sono pronunciate con più forza e assu-
mono un particolare rilievo. Bisogna prestare attenzione, d’altro canto, a non confondere
l’accento tonico della parola con l’accento ritmico del verso. L’accento tonico interessa la sil-
laba singola su cui la voce, nel pronunciarla, batte con maggior forza; l’accento ritmico (o ic-
tus) si ricava, invece, dalla combinazione di più parole. Ne consegue che sillabe fornite di ac-
cento grammaticale non hanno l’accento ritmico e sono considerate, da un punto di vista
metrico, atone. 31

5.3 Il testo teatrale


Il testo teatrale, testo letterario destinato alla rappresentazione scenica, è costituito essen-
zialmente da parti dialogate (o monologhi) e brevi sezioni descrittive, dette didascalie. I
testi teatrali possono presentarsi sia in prosa che in versi, e distinguersi in vari sottogene-
ri come visualizzato di seguito.

tragedia
commedia
Testi teatrali farsa
sacra rappresentazione
melodramma

Appositamente concepito per essere rappresentato, il testo teatrale presenta delle caratte-
ristiche specifiche che lo differenziano notevolmente da qualunque altro tipo di testo. Man-
ca, nel testo teatrale, il narratore, manca l’Io soggettivo del poeta, mancano descrizioni o
racconti di quanto avviene o è avvenuto: lo sviluppo dell’intera vicenda è affidato alle bat-
tute dei personaggi attraverso le quali sarà possibile discernere anche i loro tratti psicolo-
gici, i fatti anteriori all’inizio della rappresentazione o i legami tra i vari avvenimenti. L’azio-
ne teatrale, in definitiva, non rispecchiando affatto i caratteri di un testo narrativo-descrit-
tivo, si propone piuttosto come una mimesi del reale, vale a dire come una diretta riprodu-
zione della realtà nel momento stesso in cui si svolge la vicenda.
I personaggi teatrali rivestono indubbiamente un ruolo di fondamentale importanza: in to-
tale assenza di un narratore che agevoli loro il compito, essi devono infatti raccontare e svi-
luppare la vicenda rappresentata esclusivamente attraverso la propria parola e le proprie
azioni. Ma come nasce il personaggio teatrale? Le prime, fondamentali indicazioni vengono
fornite dallo stesso autore del testo teatrale, il quale, attraverso le battute di dialogo e le di-
dascalie, offre efficaci suggerimenti sul carattere, la cultura, la condizione sociale, i senti-
menti e altri aspetti dei vari personaggi. Spetterà poi all’attore, sotto le attente direttive del
regista, dare vita al personaggio in questione, connotandolo, pur nel rispetto dell’idea di
base delineata dall’autore, in maniera originale e irripetibile.
Riguardo al ruolo ricoperto dal personaggio teatrale, è possibile individuare, come nel ro-
manzo o nella novella, un protagonista, che è appunto il personaggio principale, quello in-
torno al quale ruota l’intera vicenda, e che può essere affiancato da personaggi comprimari
Capitolo 4 - La linguistica testuale

e personaggi secondari (i quali avranno, a seconda dei casi, la funzione di aiutanti e di anta-
gonisti), fino a giungere alle semplici comparse.
Il testo teatrale si divide generalmente in atti e scene. Gli atti sono, in sostanza, le diverse
parti in cui è articolato il testo. Il loro numero varia in base al genere drammatico: nelle com-
medie e nelle tragedie antiche o di ispirazione «classica» se ne contano generalmente cin-
que; due o tre (ma esiste anche l’atto unico) sono gli atti del dramma borghese, mentre il te-
atro contemporaneo ha sostanzialmente abolito qualunque suddivisione, rivendicando una
rinata esigenza di libertà (come nel teatro delle origini). Ciascun atto viene poi suddiviso in
scene, che cambiano a seconda dell’entrata o dell’uscita di uno o più personaggi; il loro nu-
mero può variare a piacimento dell’autore: è chiaro che la presenza di uno scarso numero
di scene denoterà un testo teatrale fondamentalmente statico, viceversa, scene numerose
saranno tipiche di un testo teatrale mutevole e dinamico.
Dal punto di vista letterario, come accennavamo in apertura, gli elementi fondamentali del
testo teatrale sono due: le didascalie e le battute di dialogo.
Le didascalie sono, in sostanza, delle sintetiche indicazioni che l’autore fornisce sul luogo e
32 il tempo in cui si sviluppa la vicenda o sul modo in cui i personaggi entrano oppure escono
dalla scena, si muovono, sono vestiti, parlano. Le battute di dialogo occupano la quasi tota-
lità del testo stesso. Alle parole dei personaggi, infatti, è affidato lo svolgersi integrale dell’in-
tera vicenda: il racconto dei fatti presenti e passati, la delineazione del carattere e dei sen-
timenti relativi ai personaggi, gli avvenimenti non rappresentati direttamente in scena.
In base al numero di persone che pronunciano le battute e alla maniera in cui esse vengo-
no pronunciate, è possibile distinguere vari tipi di battute di dialogo:
— dialogo: rappresenta, senza dubbio, il tipo di battuta più frequente e si realizza tra due
personaggi che si alternano a parlare;
— concertato: è un dialogo tra tre o più personaggi;
— duetto: indicato anche con l’espressione «botta e risposta», è un dialogo dall’andamen-
to incalzante e serrato che si svolge tra due personaggi, i quali generalmente si scambia-
no idee contrastanti circa un argomento o un episodio;
— soliloquio: è il «pensiero» del personaggio che, rimasto solo sulla scena, espone ad alta
voce le proprie idee perché il pubblico possa venirne a conoscenza;
— monologo: è ancora la riflessione intima del personaggio che questa volta non è solo, ma
appartato sulla scena e si rivolge direttamente al pubblico, mentre i rimanenti personag-
gi rimangono in silenzio;
— tirata: è, solitamente, un discorso relativo a qualcosa di importante circa fatti avvenuti
in passato o commenti di determinati eventi o azioni e per recitare il quale il personag-
gio chiede esplicitamente che si faccia silenzio;
— a parte: è un commento (segnalato sul testo da una didascalia e posto fra parentesi) che
il personaggio fa sull’argomento trattato, estraniandosi per un momento dalla rappre-
sentazione stessa (gli altri personaggi, infatti, non lo sentono) e rivolgendosi solo allo
spettatore;
— fuori campo: sono delle battute affidate a un personaggio non direttamente coinvolto
nell’azione scenica, ma incaricato di intervenire “fuori scena” a interloquire con i perso-
naggi o a commentare la vicenda in atto.
Soffermiamoci, infine, sui concetti di tempo teatrale e spazio scenico. Il concetto di tem-
po teatrale comprende tanto la durata della rappresentazione (il tempo effettivo in cui si
snoda lo spettacolo) quanto la durata temporale dell’azione rappresentata nel testo (l’arco
di tempo in cui si immagina siano avvenuti i fatti). È chiaro che le due dimensioni tempora-
li appena descritte non possono coincidere realmente: basti pensare che spesso un testo te-
atrale racconta vicende che si pensano avvenute nell’arco di mesi e anni o, in qualche caso,
addirittura secoli, mentre una rappresentazione scenica dura, al massimo, qualche ora.
A questo punto, viene spontaneo chiedersi quali siano i meccanismi capaci di assestare ef-
ficacemente questa sfaldatura tra tempo teatrale e tempo reale. Gli accorgimenti messi in
atto coinvolgono tanto il testo scritto quanto la rappresentazione scenica. Nel primo caso,
Elementi di glottodidattica

sono le didascalie e le battute stesse a dare ragguagli su eventuali mutamenti cronologici;


nel secondo, concorrono, a tale funzione, gli elementi scenografici e visivi: dai cambiamen-
ti di scenografia, ai costumi e al trucco dei personaggi che, all’occorrenza, possono anche
utilizzare un linguaggio diverso o una diversa mimetica (un attore, ad esempio, può inter-
pretare il suo personaggio da giovane e poi da vecchio). Tant’altro, infine, può essere lascia-
to all’inventiva del regista o dell’autore: nel teatro contemporaneo, ad esempio, talvolta il
trascorrere del tempo viene esplicitamente segnalato mediante una voce fuori campo o
l’esposizione di alcuni cartelli.
Per spazio scenico si intende sia lo spazio fisico nel quale gli attori recitano sia lo spazio con-
venzionale dove viene rappresentata l’azione drammatica. Nell’antichità il termine «scena»
indicava, specificamente, la tenda dietro la quale l’interprete della rappresentazione si na-
scondeva per cambiarsi d’abito, truccarsi diversamente o indossare una nuova maschera. 33
Oggi, invece, la scena è il luogo dove l’attore si rivela al pubblico, dando corpo all’azione
drammatica. Generalmente, lo spazio scenico si colloca all’interno di un edificio apposita-
mente destinato allo scopo, il teatro appunto, che tuttavia potrebbe anche essere sostituito
(come è avvenuto in passato) dalla strada, dal sagrato di una chiesa o da una piazza.
Nei teatri comunemente intesi lo spazio scenico si compone fondamentalmente di tre ele-
menti:
— la scena vera e propria, cioè lo spazio fisico deputato alla rappresentazione, oggi solita-
mente collocato in alto su un palcoscenico, in passato (come nell’antica Grecia) posto in
basso, alla fine delle gradinate su cui sedevano gli spettatori;
— la platea, cioè il luogo dal quale il pubblico assiste allo spettacolo teatrale;
— il retroscena, vale a dire lo spazio retrostante alle quinte.
Tale distinzione, d’altro canto, specie a partire dal teatro di Luigi Pirandello, non si è ritenu-
ta categorica: spesso, infatti, è stata semplicemente ignorata, per cui l’azione drammatica si
è addirittura svolta in platea, coinvolgendo direttamente il pubblico e svelando apertamen-
te tutti i retroscena.
Indipendentemente da queste “eccezioni”, tuttavia, lo spazio scenico rappresenta, come ac-
cennato all’inizio, anche lo spazio convenzionale nel quale viene rappresentata l’azione
drammatica. Il suo opportuno allestimento dipende, in primo luogo, dalle indicazioni pre-
senti nelle didascalie del testo teatrale, ma anche dall’efficace interpretazione che di esse
sanno realizzare il regista e lo scenografo, il cui compito è appunto quello di riprodurre con
fedeltà, ma anche con originalità e inventiva, l’ambiente descritto dall’autore dell’opera in
questione. La scena può essere realistica (proponendo luoghi concreti e definiti con chia-
rezza) oppure può essere una scena simbolica, dal valore “metaforico”.
Nel teatro antico, la scena restava invariata durante l’intero svolgimento dell’azione dram-
matica sia per ragioni tecniche sia, soprattutto, per rispetto della cosiddetta unità di luogo,
imposta (insieme con l’unità di tempo e di azione) dalla Poetica di Aristotele; tale imposi-
zione fu teorizzata durante il Rinascimento, ma venne progressivamente ignorata prima da
Shakespeare e poi nell’Ottocento da autori come Victor Hugo, Wolfgang Goethe e Alessan-
dro Manzoni.
Nell’ambito del teatro contemporaneo, invece, i cambi di scena (che avvengono solitamen-
te a sipario chiuso) sono assolutamente normali, fatta eccezione per alcune forme del tea-
tro d’avanguardia che utilizza la scena unica.
Capitolo 4 - La linguistica testuale

Potrebbero piacerti anche