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Abbiamo deciso di fare una lampada da tavolo

non perché questo sia semplice anzi, abbiamo


deciso di fare una lampada da tavolo proprio
perché è difficile.
E' difficile tentare di inserirsi in un settore
dominato da pochissimi modelli che
rappresentano la storia del design.
E' difficile proporre qualcosa di nuovo, di
innovativo in questo segmento di mercato ma la
cosa più difficile è creare qualcosa di bello, di
veramente bello.
Abbiamo progettato e costruito un oggetto
intorno alla sorgente luminosa, perché volevamo
che le sue prestazioni fossero eccellenti. 
Avevamo anche l'obiettivo di dare a questa
lampada una linea essenziale, moderna ma nello
stesso tempo che esprimesse un senso di classe, di
lusso e perché no, anche un po' di dramma ed
ironia.
Solitamente questi elementi di ricerca sono più
accostabili alle gamme più alta dell'orologeria,
della moda o del settore auto, noi li abbiamo
trasferiti in questo nostro primo prodotto. 
Sì, è proprio difficile fare qualcosa di bello.
Secondo me ci siamo riusciti.
Nanda?

Oggi a Milano fa molto caldo, sembra già estate, ho appena lasciato la


macchina in un parcheggio sotterraneo e porto con me due prototipi
della lampade avvolti in un drappo di plastica a bolle di uno strano
colore verdino.
Portare questa roba non sarà facile.
Ho uno zainetto dentro il quale ho messo la base della lampada più
grossa, un vero e proprio lingotto in ferro cromato, pesantissimo che
rende il tragitto, che ho deciso di fare a piedi, una sfida.
O una penitenza.
Sono in anticipo, quindi faccio ancora due passi intorno all’ isolato ma
non c’è niente di interessante.
Un ristorante senza troppe pretese espone una lista di proposte a
prezzi abbordabili e la scritta "Chiuso" oscilla lievemente sul vetro
all'interno della porta d' ingresso, una galleria d’ arte ospita una
rassegna fotografica di soggetti che dopo due passi ho già dimenticato.
Ogni volta che  incrocio  qualcuno che cammina sul marciapiede
 rischio di colpirlo con la lampada, ormai l'imballo è qualcosa di
svolazzante ed informe, sembra la vela di un relitto.
Ecco, è arrivata l’ora, sono le tre del pomeriggio e sono davanti al
citofono.
Non devo avere un aspetto ottimale e questa cosa metallica che reggo
ormai a fatica non mi fa passare inosservato.
Premo il pulsante a lato della targhetta con l'iniziale  puntata del nome
seguita dal cognome.
So che dovrò aspettare un po’.
Forse più di un minuto
“Sì?”

“Buongiorno Signora, sono Fulvio Fratti.”

“Ah è lei, buongiorno.”

La porta emette un suono metallico.

Entro, faccio i pochi gradini coperti da una stuoia rossa, entro nel
piccolissimo ascensore, che parte con un percettibile scatto.
Arrivo davanti alla porta e suono il campanello.
Si apre e la Signora mi accoglie con un accenno di sorriso, per
camminare si aiuta con un bastone e si capisce che ne farebbe
volentieri a meno, intuisco anche che per carattere potrebbe anche
facilmente usarlo in modo improprio con le persone che non gradisce,
non escludo che in passato possa aver fatto qualcosa di simile. 
Ne sono certo.

“Buongiorno signora, tutto bene?”

“Diciamo di sì, tutto bene, abbastanza, sono ancora viva…”

“Il suo viaggio com’è andato? Mi diceva che è stato faticoso.”

“ A cosa si riferisce, alla Danimarca o Venezia?”

“ Ah sì è vero è stata anche a Venezia…”


La Signora è attivissima, ha qualche problema di salute ma la sua vita è
intensa, è appena rientrata dalla Biennale di Venezia ma solo qualche
giorno prima è stata in Danimarca per una importante rassegna
artistica nella quale la sua presenza era in un certo senso il fulcro stesso
della manifestazione.
Negli ultimi mesi a Milano è stato un susseguirsi di eventi che la
vedevano protagonista.
La festa per il suo compleanno nella sala d’onore della Triennale,
l’inaugurazione dell’installazione “Exoteric Gate” all’Università Statale,
la mostra a Palazzo Reale, la cerimonia sempre alla Statale per
la  donazione di una sua opera alla collezione permanente.
E poi, interviste, articoli, mostre fotografiche.
Da quando l’ ho conosciuta ho il piacere di ricevere i suoi inviti ed ogni
volta rimango sorpreso dalla cura del dettaglio che si percepisce anche
da una semplice mail o da un cartoncino infilato in una busta.

“Prego, si sieda.”

So già dove sedermi, il mio posto è una poltroncina bassa, dove dietro è
posizionata una grossa voliera con dei pappagallini, lei è di fronte a me
ma leggermente fuori asse o forse sono io fuori dal suo asse, sì in effetti
c’è un qualcosa di asimmetrico nelle posizioni, io in basso e spostato di
lato rispetto a lei.
C’è indubbiamente qualcosa di teatrale nella situazione.
Lei è seduta su un divano dalle geometrie implacabili, disegnato da lei,
tutto fatto in specchio, un cuscino appoggiato di fianco ha l'immagine
dei Rolling Stones.
Siamo circondati da oggetti tutti interessanti, le sue opere appese alle
pareti od appoggiate al pavimento mi distraggono, la lampada Golden
Gate ci sovrasta e poi e c’è quella foto dove lei abbraccia Lucio Fontana
sbucandogli da dietro le spalle che sembra bloccare quel movimento
nel tempo, per sempre.
Ogni oggetto una storia, è come essere in un caleidoscopio sensoriale.
“La tartaruga ha finito il letargo?”

Le chiedo questo perché in una delle mie visite precedenti, molto tempo
prima, avevo notato una grossa tartaruga che stazionava sulla soglia del
terrazzo.

“Eh sì, non me ne parli, è sempre in giro, me la ritrovo in tutti i posti


della casa.”

Ho appoggiato i prototipi sul pavimento ma prima di affrontare


l'argomento mi diverto a fare un po' di conversazione con lei.
Mi racconta di quanto sia scomodo muoversi in auto, di quanto sia stato
il freddo patito in Danimarca, di quanto sia stato faticoso per lei 
spostarsi a Venezia, città dove ha anche vissuto, mi dice della bruttezza
e della scarsità di contenuto delle opere che ha visto in Biennale.
Racconta di Hirst e della strana piega che hanno preso le sue opere.
Si parla un po' di tutto ma sappiamo che sono solo giri concentrici di
parole, intorno ad un qualcosa che è li a mezzo metro.
Proprio davanti a noi.
Coperto da un brutto imballo di polietilene. Verde pallido.
A bolle.
Arriviamo all'argomento della lampada Explorer, che lei ha disegnato
per una ditta per la quale lavoravo e della sua imminente produzione ed
io le spiego che purtroppo non me ne potrò più occupare.
Quindi estraggo prototipi dalla plastica ed inizio a raccontare.

"Vede Signora, io sono stufo, lei mi può capire, sono stufo di proporre ad
altri delle idee, idee che però non vengono tradotte in pratica, oppure 
che mi vengono sistematicamente rubate, copiate, in alcuni casi mi tocca
poi vedermele presentare come dei colpi di genio attribuiti però ad altri.
Oppure se tutto va bene il progetto va avanti e dopo anni di attesa
quello che era all'inizio non c'è più. Irriconoscibile.
A colpi di mediazioni e di compromessi il progetto è stravolto.
Tutti si sentono in dovere di proporre, di modificare, i tempi si dilatano, i
costi aumentano, il disegno iniziale ha perso la sua freschezza."
"E lei lo scopre adesso? E' così che fanno, sempre. Mi creda c'è ne pochi di
imprenditori illuminati, anzi, non c'è più nessuno."

"Ecco sì, proprio per questo ho deciso di produrre qualcosa di mio, almeno
mi tolgo questo sfizio."

"Bene, quindi sarebbe quello che vuole produrre?"

"Sì, è una lampada da lettura, naturalmente questo è solo un brutto


prototipo, come le sembra?"

"Carina, non male... ma..."

"Ma?"

"Perché la vuole fare bianca?"

"A dire la verità non ho detto niente..."

"Non la faccia bianca per carità! Sarebbe orribile."

"D' accordo, certo, niente bianco, va bene, io pensavo come questa, quindi
cromo, poi cromo nero e forse anche oro., quindi in realtà dei non colori,
qualcosa di cronotopico*, come le sue opere.
Niente bianco.
La lampada avrebbe già un nome,  proprio un bel nome, evocativo, con un
contenuto, un rimando alla sua forma però io pensavo ed è per questo che
sono venuto da lei, sì insomma pensavo di chiamarla Nanda, Nanda come
un piccolo tributo all'Artista Nanda Vigo, una specie di omaggio però,
però, sì ecco, non mi sembrava giusto farlo così, senza il consenso
dell'interessata, perciò mi piacerebbe chiamarla Nanda sempre se a lei
piace la cosa, non lo farei mai se lei dovesse dire di no e lo capirei. Non mi
offenderei, s' intende."
"Va bene."

"Va... va bene?"

"Sì, le ho detto va bene, se le fa piacere va bene."

"Quindi... Nanda?"

Nanda Vigo sorride e fa un cenno come a ribadire la risposta ma nella sua


espressione c'è un misto di tutto in cui si nota un minimo di stupore forse
causato dalla, evidentemente per lei, pochezza della mia richiesta.
Mi trattengo ancora qualche decina di minuti, l'argomento  ora riguarda le
sue opere più recenti, in particolare parliamo della Exoteric Gate.
Una grande installazione composta da diversi pezzi piramidali riflettenti
disposti intorno ad una colonna cilindrica luminosa alta dieci metri.
Esposta per mesi nella piazza interna della Statale di Milano ora è stata
smontata, verrà ricomposta a Parigi per un altro evento temporaneo poi i
pezzi verranno venduti, anche singolarmente. 
Il destino dell' opera appare segnato, verrà probabilmente divisa, quindi mi
chiedo se mai nel prossimo futuro a qualcuno verrà in mente di ricomporla
per  ricreare la magia iniziata con lo scatto di un interruttore,  fra le
esclamazioni di una piccola folla, in uno strano e  limpido  tramonto
milanese  di un ormai lontano 13 dicembre 2016.
La Signora Vigo mi accompagna alla porta, internamente a specchio e
sembra proprio di riattraversare uno dei suoi "Gate", mi saluta ed io la
saluto, le prometto che la Nanda numero zero sarà sua e sarà cromata a
specchio, sarà "cronotopica".
Io l'ho sempre chiamata Signora, non mi viene spontaneo chiamarla
Architetto, proprio come dice lei in un' intervista, è riduttivo, così come
sarebbe riduttivo incasellarla in un termine come Designer o Artista.
Come mettere una tigre in una gabbia.
Lei è Nanda Vigo.
La Signora Della Luce. 

                                                                                                                                                                 Fine
L' interruttore, che sembra prelevato da uno stereo a valvole
degli anni '60 è collocato sulla piastra in modo provocatorio,
quasi oltraggioso.
E' come un attore solitario su di un palcoscenico di metallo
scintillante
e non puoi  non notarlo.
Il suo "Click" è come un ordine.
La luce si accende, la luce si spegne.
"Click"!
Lo snodo è attraversato da un piolo, li sotto c'è un perno ed è
inutile nasconderlo.
E' meglio esibirlo perché è proprio li dove deve essere e questa
cosa, il fatto che trapassi gli steli, devi ammetterlo, è
tranquillizzante nella sua drammaticità.
Puoi scegliere i colori dei metalli ma non sono troppi ed
in fondo questa cosa ti piace.
 
NANDA

Lampada da tavolo

Design: Fulvio & Alessandro Francesco Fratti

Engineering: Davide Cappucci & Matteo Acquisto

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