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comunitarismo
Salvatore Polito
15/12/2006
1. Introduzione
Negli ultimi tempi la democrazia ha celebrato la sua affermazione mondiale, tanto che da prerogativa di
pochi paesi del blocco atlantico essa è diventata la forma di governo più diffusa al mondo, ovvero l’uni-
ca fonte di legittimità politica; e persino gli interventi militari si fregiano della sua retorica. Gli ostacoli
economici, culturali, religiosi e geopolitici non sembrano essere più in grado di contenere il cammino
espansivo di quella che è stata definita la terza ondata di democratizzazione. Ciò nonostante, mentre si
assiste alla vittoria della democrazia nel mondo, si ravvisa anche una crisi nella democrazia in molte
società avanzate (Prospero, 2003); soprattutto laddove non soddisfa pienamente la definizione minima
di democrazia data qualche anno fa da Huntington (1995): “i governi espressi dalle elezioni possono es-
sere inefficienti, corrotti, irresponsabili, dominati da interessi limitati e incapaci di adottare politiche a
favore del bene comune. Per tutte queste caratteristiche governi simili possono diventare odiosi, ma ri-
mangono democratici” (p. 32). Ciò significa che se si guarda alla democrazia come elezione popolare
dei vertici dello Stato, essa pare godere di ottima salute; ma se si guarda alla qualità del processo demo-
cratico di formazione della volontà popolare si rileva la presenza di due forme di crisi, di differente na-
tura, presenti tanto nelle democrazie consolidate occidentali che nelle democrazie di recente formazione
nel resto del mondo. La prima forma di crisi è quella descritta da Zakaria (2003) e che si manifesta in
buona parte dei paesi investiti dalla terza ondata di democratizzazione dove sta emergendo un nuovo
modello di governo, caratterizzato dalla presenza di libere elezioni ma anche dall’assenza effettiva del
costituzionalismo liberale (tutela dei diritti individuali, governo limitato, stampa libera, ecc.). In quei
paesi sta nascendo e si sta sviluppando, infatti, una forma democratica che Zakaria stesso definisce “illi-
berale” perché, malgrado si tengano elezioni, non sono rispettate le garanzie di libertà e legalità delle
istituzioni e della società. Il secondo tipo di crisi, che tormenta le democrazie avanzate dei paesi occi-
dentali postindustriali, è quella riguardante il progressivo disfacimento della sfera pubblica. Pratica-
mente la globalizzazione degli scambi economici ha favorito l’offensiva neoliberista che si scaglia con-
tro lo Stato e le sue politiche redistributive e chiede il ritorno al primato del contratto, dell’autoregola-
mentazione di interessi privati, sulla decisione legislativa e sulla promozione dell’interesse generale. Il
mercato, dal canto suo, contesta l’autonomia del politico, la sua pretesa di governo della società, e si
pone come regolatore universale della vita sociale. Il potere economico attacca la sovranità della politi-
ca occupando la sfera pubblica e penetrando all’interno degli apparati decisionali. Non solo. La crisi dei
mediatori sociali tradizionali (partiti, sindacati, chiese) e il conseguente deperimento del tessuto asso-
ciativo, non sufficientemente rivitalizzato dalle forme non convenzionali di partecipazione, e i media
totalmente incorporati dall’organizzazione imprenditoriale e dalla logica del mercato, lasciano la sfera
pubblica completamente indifesa di fronte all’invasione degli interessi privati. In concreto: la coloniz-
zazione dei partiti da parte dei soggetti economici, del loro personale di riferimento e dei segmenti or-
ganizzativi che vengono immessi in strutture partitiche non più radicate sul territorio, la fragilità delle
reti associative della società civile, l’espansione del ruolo dei media nel processo politico e il conse-
guente rafforzamento delle forme di relazione non mediata tra un pubblico amorfo e gli attori politici, i
processi di globalizzazione economica che trasformano il mercato da tecnica settoriale a ideologia per-
vasiva, rappresentano i principali fattori che hanno compromesso l’autonomia della sfera pubblica, av-
viando la fase di deconsolidamento della democrazia nelle società contemporanee, caratterizzata dalla
“crescente dissociazione tra centri politici e collettività sociali e culturali”(Eisenstadt, 2002, p. 134).
La democrazia agli occhi dei suoi cittadini appare così una rappresentazione vuota in cui i decisori, con
l’ossessione della propria visibilità nei media, tentano di nascondere la decrescente capacità della politi-
ca di governare i poteri sociali che operano indisturbati sugli ampi spazi del mercato globale. Mentre gli
uomini politici danno vita a confronti urlati e confusi nei talk show — come sempre più spesso accade
di recente ad esempio in Italia con il governo Berlusconi —, i poteri sociali agiscono come potenze
anonime e distanti, imponendo la legalità sostanziale del mercato globale sulla sempre più inconsistente
legalità formale della Costituzione e delle leggi nazionali. La democrazia, in effetti, sembra in crisi per
una carenza di partecipazione prodotta dalla marcata frammentazione e individualizzazione del paesag-
gio sociale, ma anche da una generale sfiducia nell’efficacia del voto (Maffesoli, 2004): la disaffezione
origina dalla percezione che la democrazia postmoderna non garantisca l’eguale inclusione degli inte-
ressi nella città politica. A ben vedere la democrazia contemporanea non promuove egualmente tutti gli
interessi perché i cittadini restano eguali nel voto che decide la contesa elettorale, ma non sono uguali
come partecipanti alla competizione elettorale a causa dell’enorme disparità di ricchezze che incide sul-
la capacità di promuovere i propri candidati, convinzioni, interessi. Di qui la revoca di fiducia in una
politica che si preoccupa di ridurre i diritti di cittadinanza sociale che, miranti ad egualizzare il valore
della libertà di tutti i consociati, tutelano le pari dignità dei cittadini, e preferisce allargare sempre più
gli spazi della concorrenza. Così, dopo la cura neoliberista, le veterodemocrazie si sono trasformate in
“luoghi privatizzanti”(Ginsborg, 2004, p. 237) dove svaniscono le solidarietà collettive, si impongono
gli imperativi del mercato e al pubblico viene assegnata una funzione solo residuale (Veca, 2002).
A fronte di questa situazione, il presente contributo vuole offrire una chiave di lettura della controversia
tra liberalismo e comunitarismo che ha animato il dibattito della filosofia politica contemporanea, inci-
dendo in molti modi sui molteplici discorsi di altre discipline intorno alla democrazia negli ultimi anni.
All’individualismo liberale, con la sua visione del giusto astratta e neutrale nei confronti delle varie ri-
cerche individuali della vita buona, il comunitarismo contrappone una concezione del bene, sostanziale
e situata, da porre a fondamento della convivenza politica. Per il pensiero liberale il consenso politico
fondamentale alle istituzioni democratiche è garantito dall’assicurazione di eguali libertà individuali,
mentre per il comunitarismo esso si fonda sulla comune appartenenza ad una forma di vita. Nella tratta-
zione, partendo dalla teoria della giustizia e dal liberalismo politico di Rawls, si passa poi ad illustrare
la teoria dell’eguaglianza liberale di Dworkin e la replica comunitarista al liberalismo di McIntyre, San-
del e Taylor. Il contributo si chiude presentando la teoria della giustizia relativista e pluralista di Walzer
e l’approccio basato sulle capacità di Nussbaum che delinea un liberalismo più attento al bisogno. Infi-
ne le riflessioni di Panebianco sulla fragile costituzione della società liberale.
Per facilitare la comprensione del testo si guarda alla crisi della democrazia contemporanea, in relazio-
ne al dibattito accennato in queste prime battute, adottando la visione habermasiana della democrazia
deliberativa. Alla base della teoria della democrazia che Habermas fonda vi è un principio che defini-
sce, in chiave discorsiva, cosa debba intendersi per norma valida, e che il filosofo tedesco chiama prin-
cipio del discorso: “sono valide soltanto le norme d’azione che tutti i potenziali interessati potrebbero
approvare partecipando a discorsi razionali”(Habermas, 1996, p. 131). Ovvero, la democrazia delibera-
tiva esige una sfera pubblica abitata dai discorsi, in cui sia ampia la partecipazione dei cittadini, i partiti
tornino ad essere catalizzatori dell’opinione pubblica, i media siano autonomi dalle pressioni di attori
politici e sociali e si intendano come “mandatari” d’un pubblico illuminato. Sicché Habermas assegna
al potere comunicativo il difficile compito di mantenere in vita la sfera pubblica, “lo spazio potenziale
dell’apparire fra uomini che agiscono e parlano”(Arendt, 2003, p. 147), impedendo che essa venga oc-
cupata dalla potenza delle grandi organizzazioni.
La teoria della giustizia di Rawls è, perciò, deontologica, basata cioè su una definizione previa del giu-
sto, indipendente dal bene, che vincola le concezioni del bene coerenti con il giusto. Non solo. Essa si
distingue nettamente dall’utilitarismo che è una teoria teleologica, e per il quale il giusto è ciò che mas-
simizza il bene. L’utilitarismo, infatti, è centrato sull’idea di estendere il principio di scelta individuale
razionale al caso della scelta collettiva, tanto che i desideri individuali sono fusi in un unico sistema di
desiderio (sociale) di cui va massimizzato il soddisfacimento. Per Rawls, invece, in una società giusta è
richiesto l’accordo collettivo su un insieme di diritti fondamentali che siano sottratti al calcolo degli in-
teressi sociali e mettano ogni individuo nella condizione di perseguire equamente i propri fini. Ciò si-
gnifica che i cittadini, in quanto persone morali ragionevoli (e non solo razionali), non adottano solo
particolari concezioni della vita buona ma si preoccupano anche dell’eguale diritto degli altri cittadini
di scegliere e perseguire il proprio modo di vita. Sicché la priorità della giustizia diviene un’esigenza
della fondamentale pluralità della specie umana e dell’integrità degli individui che la compongono. Se-
condo Rawls (1989), infatti,
ogni persona possiede un’inviolabilità fondata sulla giustizia su cui neppure il benessere della società nel suo comples-
so può prevalere. […] Di conseguenza, in una società giusta sono date per scontate eguali libertà di cittadinanza; i di-
ritti garantiti dalla giustizia non possono essere oggetto né della contrattazione politica, né del calcolo degli interessi
sociali"(pp. 21-22).
Limitare la libertà di un individuo per massimizzare il benessere generale significa ledere il principio
della reciprocità che vuole che i cittadini si trattino l’un l’altro come persone pienamente autonome che
scelgono i propri fini entro i limiti tracciati dai principi di giustizia.1 Per cui nella società “bene ordina-
ta” (o giusta) del filosofo americano esiste un atteggiamento collettivo (antiproibizionistico) per il quale
non spetta alle agenzie pubbliche il compito di stabilire un qualche genere vincolante di gerarchia tra le
differenti forme di vita; le concezioni del bene, poi, vanno collocate a livello prepolitico in quanto han-
no a che fare con le sfere delle scelte e delle condotte di ciascun individuo.
In tal modo Rawls intende la giustizia come una teoria politica, impegnata esclusivamente nell’indivi-
duazione di valori politici neutrali rispetto alle diverse concezioni della vita buona; poi, perché perman-
ga nella durata la condivisione dei valori politici fondamentali, è necessario che si realizzi un consenso
per intersezione, in cui “ciascuna delle dottrine comprensive, sia essa filosofica, religiosa o morale, ac-
cetta la giustizia come equità nel proprio modo; ossia, ciascuna dottrina comprensiva è portata ad accet-
tare le ragioni pubbliche della giustizia specificate dalla giustizia come equità dal proprio punto di vi-
sta”(Rawls, 2001, p. 199). Il consenso per intersezione, però, non è un semplice compromesso frutto
dell’equilibrio delle forze sociali che scelgono di condividere valori politici sulla base di un calcolo
prudenziale. Il consenso per intersezione è, piuttosto, sottoscritto da cittadini che affermano dall’interno
delle proprie dottrine ragionevoli l’idea fondamentale della società come equo sistema di cooperazione
fra cittadini liberi e uguali in quanto persone ragionevoli e razionali. Il consenso per intersezione sanci-
sce così la condivisione di una base pubblica per la giustificazione delle istituzioni fondamentali di una
società giusta che rende vincolante e, in caso di conflitto, superiore la comune lealtà ai valori politici
fondamentali rispetto alle plurali lealtà etiche private. D’altro canto per Rawls (2001) bisogna rinuncia-
re alla speranza di una comunità perché i cittadini possono solo condividere una concezione politica, in-
dipendente da ogni concezione comprensiva; tanto che dichiara espressamente: “conservare questa spe-
ranza […] significa opporsi all’idea di eguali libertà fondamentali per tutti i cittadini liberi e eguali”(pp.
295-296). Egli, praticamente, da una parte intuisce che (dato il pluralismo) la stabilità delle democrazie
è assicurata dall’unità della cultura politica nella pluralità differenziata delle prospettive etiche partico-
lari, ma dall’altra, nel suo liberalismo politico “i cittadini decidono da sé, individualmente, in che modo
la concezione politica pubblica affermata da tutti si correli alle loro opinioni più comprensive”(Rawls,
1994, p. 49). Rawls non rende conto così del fatto che il terreno comune del consenso per intersezione
non è qualcosa che è dato è può essere difeso mediante una limitazione della discussione pubblica a
certi contenuti, ma è qualcosa che con lo scorrere del tempo e il mutare dei contesti può anche conosce-
re una riduzione, se non scomparire. In sostanza il suo liberalismo politico non offre strumenti per rico-
struire l’adesione attorno a valori politici comuni.
Nella teoria di Rawls l’elemento costituzionale, inoltre, prende il sopravvento sull’elemento democrati-
co; l’autolegislazione democratica viene cioè limitata dai diritti fondamentali liberali che tutelano l’in-
tegrità della sfera privata. Così, opponendo al processo democratico i diritti individuali, Rawls non
scorge il loro nesso interno, il quale consiste nel fatto che, “per un verso, i cittadini possono esercitare
adeguatamente la loro autonomia pubblica solo quando siano sufficientemente indipendenti in virtù di
una autonomia privata loro paritariamente concessa; ma che, per altro verso, essi possono godere pari-
tariamente della loro autonomia privata, solo quando facciano uso adeguato della loro autonomia politi-
ca”(Habermas, 1998, p. 221). In parole semplici ciò significa, diversamente dalle posizioni di Rawls,
che devono essere i cittadini stessi a fissare reciproche demarcazioni tra le libertà soggettive e che è
l’uso pubblico della ragione, istituzionalizzato nel processo democratico, ad assicurare la concessione
delle libertà eguali.
La democrazia, essendo fondata sull’uguaglianza politica, sembra far valere il diritto di ogni persona al
rispetto e alla considerazione come individuo; ma nella pratica le decisioni di una maggioranza demo-
cratica possono violare tale diritto. Se una decisione collettiva dà effetto a preferenze esterne, infatti,
essa viola il diritto all’indipendenza morale e per il quale “le persone hanno diritto a non subire uno
svantaggio nella distribuzione di beni e opportunità sociali […] perché secondo funzionari e concittadi-
ni le loro opinioni sul modo corretto per loro di condurre le proprie vite sono ignobili o sbaglia-
te”(Dworkin, 1990, p. 336). Per cui se una decisione politica poggiasse sulle preferenze esterne di una
maggioranza riguardo a come dovrebbero vivere le minoranze, i cittadini appartenenti alle minoranze
non verrebbero trattati come eguali e sarebbero costretti a subire uno svantaggio giuridicamente ricono-
sciuto solo perché la maggioranza non approva i loro orientamenti etici. Mentre l’eguaglianza liberale
non riconosce alla maggioranza il diritto di proibire una condotta di vita di un individuo perché se ne ri-
tengono errate le convinzioni etiche. Il liberalismo chiede allo Stato di essere tollerante o, al massimo,
neutrale; esso “non deve proibire o premiare alcuna attività privata perché un insieme di valori etici so-
stantivi, un insieme di opinioni sul modo migliore di condurre una vita, è superiore o inferiore ad al-
tri”(Dworkin, 1996 p. 44). Il liberalismo così, impedendo alla maggioranza di applicare la propria co-
scienza etica attraverso il diritto, fa si che i gruppi subordinati non debbano adattarsi al modo di vita de-
finito dalla maggioranza. Per il liberalismo “il governo non deve assolutamente imporre alcun sacrificio
o vincolo a qualsiasi cittadino in forza di un argomento che il cittadino stesso non potrebbe accettare
senza rinunciare al senso del suo eguale valore”(Dworkin, 1990, p. 251). Per cui il rispetto per la digni-
tà e l’uguaglianza delle minoranze esige l’istituzione di uno schema di diritti, il cui effetto sarà di deter-
minare quelle decisioni politiche che a priori è probabile riflettano forti preferenze esterne e di sottrarle
completamente alle istituzioni politiche maggioritarie. A ben vedere per Dworkin l’istituzione dei diritti
è cruciale perché rappresenta “la promessa della maggioranza alla minoranza che la sua dignità e ugua-
glianza saranno rispettate”(Dworkin, 1982, p. 292). La forma dell’ambiente etico di una comunità, in
sostanza, non può essere determinata dal volere della maggioranza ma deve essere il prodotto delle
scelte liberamente compiute dai singoli individui. Ciò significa che una vita è buona se si accorda alla
definizione individuale di che cosa significhi vivere bene (Dworkin, 1996; 2002).
Non solo. Per Dworkin la posizione comunitarista, per la quale le pratiche e i significati comunitari
sono costitutivi dell’identità dei membri, poggia su una fenomenologia morale dubbia. Se da un lato è
ragionevole assumere che la cultura morale di sfondo non possa essere oggetto di esame critico nella
sua totalità, dall’altro lato aspetti parziali di questo sfondo, isolatamente considerati, possono essere
messi in questione di volta in volta. E poi non sembra nemmeno giustificata l’ipotesi che esistano spe-
ciali aree di significati tanto fondamentali per l’identità di tutti i cittadini da non poter mai essere esami-
nate con distacco critico, tenendo ferme le altre credenze condivise. Per Dworkin, di più, le comunità
occidentali sono critiche, hanno rinunciato all’oggettività radicata nelle convinzioni, i loro giudizi etici
e morali non sono creature della comunità ma suoi seguaci, le consuetudini e convinzioni comunitarie
sono sottoposte a verifiche e revisioni svolte facendo riferimento a criteri etici e morali più elevati e in-
dipendenti. E, per quanto Dworkin (2002) ritenga corretta la premessa fondamentale dell’argomento
dell’integrazione per il quale “le comunità politiche hanno una vita collettiva, e il successo o il falli-
mento della vita collettiva di una comunità è parte di ciò che determina se la vita dei suoi membri è
buona o cattiva” (p. 244), l’argomento complessivo distorce il carattere della vita collettiva di una co-
munità politica soccombendo all’antropomorfismo. Presuppone cioè che “la vita collettiva sia la vita di
una persona ”in grande“: che abbia la stessa forma, che debba affrontare le stesse scelte e gli stessi di-
lemmi etici e morali, che sia soggetta agli stessi criteri di successo e fallimento di tutte le vite dei citta-
dini che concorrono a formarla” (ibidem). Per cui Dworkin restringe l’ambito della vita comune alla
sola sfera dell’agire politico, intensa in senso istituzionale, e lascia aperte alla neutralità liberale tutte le
altre sfere dell’agire sociale in cui si intrecciano liberi atti individuali.
Nelle sue opere, insomma, Dworkin promuove un liberalismo integrato per il quale l’integrazione poli-
tica riveste una grande importanza etica. Il successo o il fallimento della comunità rispetto ad atti politi-
ci formali influiscono sul valore critico della vita di ogni cittadino; tanto che il cittadino liberale inte-
grato fonde moralità politica e interesse personale critico al punto da sostenere che “il valore della pro-
pria vita dipende dalla capacità della propria comunità di trattare tutti con uguale considerazione”(ibi-
dem, p. 255). Nel liberalismo di Dworkin uguaglianza, libertà e comunità si rivelano essere aspetti
complementari di un’unica visione politica, per cui nessuno di questi ideali politici può essere compre-
so, né tanto meno realizzato, indipendentemente dagli altri. In relazione al pluralismo, per di più, una
comunità politica che adottasse una particolare concezione della vita buona non riuscirebbe a garantirsi
la lealtà di quegli individui che dispongono di orizzonti di valore alternativi che si percepirebbero come
ingiustamente penalizzati nell’affrontare la sfida del vivere. Ma se la giustizia è un “parametro” della
vita buona, una comunità etica danneggia anche gli interessi critici dei privilegiati, che subiscono l’ol-
traggio di un sistema politico che non mostra eguale rispetto per tutti i cittadini perché non distribuisce
equamente le libertà e le risorse necessarie per progettare i piani di vita individuali. Sostanzialmente per
Dworkin non è la conservazione di una forma di vita, ma la realizzazione della giustizia, che soddisfa il
nostro interesse personale critico, che dovrebbe motivare la nostra partecipazione alla comunità politi-
ca. Infatti, considerare la comunità liberale come la “nuda cornice all’interno della quale possano essere
compiute scelte autonome”(Selznick, 1999, p. 55), in cui vige l’indifferentismo morale e ogni compor-
tamento è lecito, significa non aver compreso la lezione di Dworkin e del migliore liberalismo. Nella
comunità liberale le scelte non sono senza limiti, esse avvengono entro lo spazio concesso dal rispetto
delle libertà altrui e godendo di risorse paritariamente concesse a tutti. Ad ogni cittadino è richiesta la
partecipazione alla vita della comunità politica per tracciare i giusti confini dell’autonomia individuale.
Dalle considerazioni fatte sin qui emerge che limitare la propria autonomia per consentire all’altro di
godere di pari autonomia non è certo un esempio di indifferentismo morale, ma di rispetto della dignità
dell’altro. Certo la cornice liberale non è buona, ma non per questo è nuda. Essa è giusta e chiede a tutti
maggior attenzione per l’altro, più di quanto che ne chieda la cornice buona: far godere tutti di pari li-
bertà e opportunità richiede molto più impegno, partecipazione e sacrificio di quanto ne richieda il per-
seguimento di un bene comune — del quale, in verità, ad oggi mi pare se ne siano perse le tracce.
Per i liberali gli individui sono liberi di mettere in discussione la loro partecipazione alle pratiche socia-
li e di respingere ogni relazione particolare non più meritevole di essere sostenuta. Tanto che Rawls
(1989) sintetizza questa posizione affermando: “l’io viene prima dei fini che persegue” (p. 455). Ovve-
ro l’io viene prima dei ruoli assegnategli dalla società e delle sue relazioni ed è libero solo se è capace
di prendere le distanze dalla propria situazione sociale, giudicandola attraverso i principi della ragione.
Questa concezione dell’io, però, viene contestata da MacIntyre per il quale l’io è situato in una rete di
pratiche sociali da cui non è possibile prendere le distanze e dissociarsi. Per MacIntyre, cioè, nella co-
munità non ci sono piani di vita individuali perché i ruoli non sono scelti autonomamente ma sono
iscritti nella storia della comunità stessa, nella quale gli individui sono immersi e solo rispetto alla qua-
le hanno un significato morale e una razionalità. Laddove, nota ancora MacIntyre (1984), per il pensie-
ro moderno, erede del progetto illuminista,
essere un soggetto morale significa precisamente essere in grado di retrocedere da qualunque situazione in cui si sia
coinvolti, […] e di giudicare da un punto di vista universale e astratto che sia totalmente distaccato da ogni particolari-
tà sociale. […] Questo io democratizzato che non ha alcun contenuto sociale necessario e alcuna identità sociale ne-
cessaria può dunque essere qualsiasi cosa, assumere qualsiasi ruolo o punto di vista, perché in sé e per sé non è nulla"
(p. 47).
In sostanza l’io emotivista è nulla perché senza il riferimento alla tradizione comunitaria è privo di
qualsiasi criterio razionale con cui valutare le proprie scelte. Il liberalismo non si avvede che “la causa
principale dell’obbligo morale è il nostro senso di identità e relazione”(Selznick, 1998, p. 85), che i no-
stri doveri si rivolgono a persone, gruppi e situazioni definite, concrete e particolari. Senza la comunità
che ci fornisce le sue regole della moralità, senza la giustificazione di queste regole in termini di beni
particolari goduti nella vita in comunità e senza il sostegno morale fornito dalla comunità stessa, non
possiamo realizzarci come attori morali (MacIntyre, 1992). Tanto che se i diversi valori vengono astrat-
ti dai contesti sociali in cui sono stati creati, non esiste alcun metodo razionale per risolvere i conflitti
tra di essi. Non rimane che la scelta soggettiva priva di alcuna giustificazione razionale.
L’Illuminismo non ha compreso che rispetto alle diverse visioni del bene promosse dalle particolari co-
munità storiche non si dà alcun punto di vista superiore o imparziale dal quale esse possono essere giu-
dicate, poiché esse non sono l’oggetto da giudicare, ma piuttosto l’unico strumento grazie al quale pos-
siamo formare dei giudizi morali fondati. Le scelte degli individui sono orientate da un quadro di riferi-
mento, fornito proprio dalle appartenenze, e che definisce i criteri con cui gli individui giudicano la pro-
pria vita e ne misurano il grado di pienezza. Un quadro di riferimento è, praticamente, un orizzonte di
significati che indica quali siano i beni e i fini meritevoli, indipendenti dalle scelte o inclinazioni perso-
nal. Anzi sono proprio i criteri con cui giudicare le scelte individuali. L’Illuminismo, però, che ha visto
nei quadri di riferimento dei limiti all’autonomia individuale ha trascurato che “il fatto di vivere all’in-
terno di questi orizzonti fortemente qualificati è essenziale all’azione umana, e che sottrarsi a questi li-
miti vorrebbe dire cessare di apparire persone umane integrali, cioè complete”(Taylor, 1993, p. 43).
L’io moderno è stato così separato dall’identità sociale e dalla visione della vita umana come processo
orientato verso il perseguimento di beni particolari comuni. Tanto che MacIntyre rimpiange il patriota
che si appropria in maniera acritica del passato del proprio paese e intende la nazione come progetto; il
patriota cioè che si impegna a salvaguardare l’integrità della forma di vita ricevuta in eredità dal passa-
to (MacIntyre, 1992). Mentre oggi l’integrazione sociale è astratta, mediata dal diritto, e si realizza me-
diante l’inclusione di tutti gli individui nello statuto della cittadinanza. Così l’unica forma di patriotti-
smo possibile diviene quello costituzionale di cittadini che, con il processo democratico, realizzano una
comunità che assicura la coesistenza giuridicamente equiparata delle diverse subculture (Habermas,
1998).
Pure Sandel attacca con vigore l’individualismo liberale. Al soggetto del possesso di Rawls egli oppone
un soggetto che non sceglie i propri fini ma li scopre, indagando sulla propria identità e arrivando a
identificare impegni e affetti costitutivi che lo legano alla comunità. Sandel (1994), in pratica, propone
una concezione costitutiva di comunità secondo cui:
dire che i membri di una società sono legati da un senso della comunità non significa semplicemente dire che la grande
maggioranza di essi professa sentimenti comunitari o persegue obiettivi comunitari, ma piuttosto che essi concepisco-
no la loro identità […] come definita in una certa misura dalla comunità di cui sono parte. Per loro, la comunità indica
non solo ciò che essi hanno come concittadini ma anche ciò che essi sono, […] un elemento costituente della loro
identità" (pp. 165-166).
Nella comunità non c’è distanza tra estranei, ma vicinanza tra persone che non valutano, ma riconosco-
no gli impegni contestuali. L’io sandeliano è costituito dai fini che non sceglie ma scopre in virtù del
suo inserimento in un dato contesto sociale. Così, mentre il liberalismo rifiuta un ordinamento basato su
una concezione del bene perché esso non sarebbe in grado di rispettare le persone in quanto esseri capa-
ci di scelta, le tratterebbe come oggetti anziché come soggetti autonomi, l’io sandeliano è capace di au-
tocomprensione espansiva, scorge nella sua identità la concezione del bene comune che fonde il suo io
nel noi comunitario. Al giusto, astratto e neutrale Sandel oppone una visione del bene sostanziale radi-
cata nell’imprendiscibilità del legame comunitario grazie al quale esistiamo come soggetti. Alla scelta
collettiva dei principi di giustizia Sandel preferisce la scoperta dei criteri condivisi presenti in un conte-
sto di pratiche consolidate.
Ma la visione liberale non intende privarci dei nostri fini, delle nostre lealtà particolari, essa sostiene
solo che non c’è nessun fine che non possa essere messo in discussione. La tesi liberale ci riserva la fa-
coltà di valutare se le pratiche nelle quali ci scopriamo implicati siano o meno apprezzabili. Come nota
Kymlicka (1996), infatti, “i liberali non dicono che noi dobbiamo avere la libertà di scegliere i nostri
fini perché tale libertà, come fine a sé, costituisce la cosa più importante al mondo. […] La libertà di
scelta non va perseguita come fine a sé, ma come precondizione in vista dei progetti che apprezziamo
per il loro valore intrinseco” (p. 234). Lo stesso Sandel (1994) riconosce che il profilo dell’io, per quan-
to costituito dai suoi fini comunitari, rimane sempre flessibile, tale da poter essere ridisegnato, inclu-
dendo nuovi fini ed escludendone altri. I contorni dell’io sandeliano, infatti, sono pure “in qualche
modo aperti e soggetti a revisione” (p. 196). Dunque, ammettendo che i confini tra l’io e i fini sono flui-
di e non rigidi, Sandel non può criticare il liberalismo e non può opporre la politica del bene comune al-
l’autodeterminazione individuale. Il liberalismo, infatti, dà la possibilità agli individui che scoprono i
legami comunitari e li ritengono insignificanti o addirittura degradanti di rifiutare tali legami e di co-
struire autonomamente nuove pratiche che si accordino ai nuovi confini dell’io. Sandel dovrebbe soste-
nere la tesi liberale della neutralità statale rispetto alle concorrenti concezioni della vita buona al fine di
rispettare la capacità degli individui di scegliere i propri valori e le proprie relazioni autonomamente.
Invece egli si ostina a sostenere una visione sostantiva secondo la quale i diritti dovrebbero proteggere
solo le pratiche che la comunità politica ritiene moralmente ammissibili. Per Sandel (1992), ad esem-
pio, la privacy omosessuale va protetta non perché gli omosessuali dovrebbero essere liberi di scegliere
autonomamente la natura delle proprie relazioni intime, ma perché “molto di quanto ha valore nel ma-
trimonio convenzionale è presente anche nelle unioni omosessuali. … La connessione tra relazioni ete-
rosessuali e omosessuali non è data dal fatto che entrambe risultano dalla scelta individuale, bensì dal
fatto che entrambe realizzano beni umani importanti” (p. 268). Così facendo, però, Sandel — sostenen-
do la tesi sostantiva — costringe i membri dei gruppi marginali a regolare la propria personalità e le
proprie pratiche in maniera inoffensiva per i valori della comunità, egli nega loro il potere di respingere
l’identità che altri hanno definito per loro. La politica fa il suo dovere quando, assicurando l’esercizio
delle eguali libertà, assicura “una libera vita interna delle varie comunità di interessi per mezzo delle
quali persone e gruppi cercano di raggiungere, secondo modalità di unione sociale compatibili con l’e-
guale libertà, i fini e l’eccellenza da cui sono attratti”(Rawls, 1989, p. 442). Il comunitarismo se inteso
come teoria politica normativa rischia solo di sostenere un maggioritarismo odioso oppure di costruire
un concetto di comunità omogenea che, dato il pluralismo delle società complesse, è molto più astratto
del tanto disprezzato io disincarnato di Rawls. Sembra invece più plausibile guardare alla critica comu-
nitarista come teoria sociale che constata il deficit di integrazione, appartenenza e vincolo sociale, l’in-
certezza dell’identità collettiva di cittadinanza nelle società contemporanee. Taylor (1994), ad esempio,
teme una società frammentata, vista dai suoi membri in termini puramente strumentali: “il rischio è di
trovarsi di fronte ad una popolazione sempre meno capace di darsi una finalità comune e realizzarla” (p.
131).
La preoccupazione comunitarista per la perdita di vigore della sfera pubblica è senz’altro legittima, ma
la causa di tale fenomeno non va rintracciata nei diritti individuali che, tutelando l’autonoma formazio-
ne del giudizio, sono la base su cui poggia una solida libertà politica, ma nella scarsa disponibilità dia-
logica dei cittadini, nel loro mancato esercizio dei diritti di comunicazione e partecipazione politica per
realizzare non una forma di vita comune, ma il progetto di una comunità politica in cui le libertà siano
mutuamente compatibili e abbiano pari valore. La comunità democratica poi accoglie le differenze e ne
scioglie le tensioni mediante il dialogo pubblico tra estranei che, però, sono disposti ad accogliere l’al-
trui verità. Gli individui democratici non sono sciolti da ogni impegno ma sentono solo i vincoli co-
struiti mediante l’agire comunicativo e la sua universalità, che include tutti gli interessi, la completa
reversibilità delle prospettive dalle quali gli interlocutori producono i loro argomenti e la reciprocità
dell’eguale riconoscimento delle richieste dei singoli da parte di tutti gli altri. Ciò significa che nella
comunità democratica non può esserci un’etica pubblica dell’adattamento reciproco scissa dall’etica
privata della creazione di sé, ma i cittadini nella sfera pubblica si impegnano a tradurre criteri e termini
dai loro vocabolari per mettere a punto un vocabolario pubblico dei diritti (Rorty 2001) fondato sul
principio del mutuo rispetto, che assegna agli individui spazi equi entro cui ridescriversi senza umiliare
gli altri.
L’insistenza di Walzer sulla separazione fra le sfere sociali (e di giustizia) lo avvicina al liberalismo, an-
che se egli se ne allontana per il suo relativismo: l’uguaglianza complessa presuppone una mappa stabi-
le di pratiche sociali di costruzione e condivisione dei significati. Ogni comunità, infatti, costruendo i
suoi significati e distinguendo le diverse sfere dell’agire sociale, costruisce la propria uguaglianza com-
plessa. Non solo. Per Walzer la giustizia è strettamente connessa alla cultura e nelle forme politiche si
esprimono le tradizioni culturali di una comunità storica. In quest’ottica, però, Walzer propone un’im-
magine edulcorata della cultura comunitaria che è sinonimo di accordo, di condivisione: nella sua co-
munità, in breve, si realizza un consenso unanime, non c’è conflitto distributivo, è assente la critica so-
ciale interna. Egli trascura che i significati sociali possono essere imposti più che condivisi, cosicché
criteri di giustificazione dipendenti dalle pratiche sociali concrete finiscono solo per essere retorica del-
l’esistente o criteri di legittimazione di pratiche che i gruppi dominanti impongono ai gruppi subordina-
ti. Come nota Dworkin (1990), infatti, la teoria di Walzer che lega la giustizia alle convenzioni “ignora
il ‘significato sociale’ di una tradizione sociale molto più fondamentale delle tradizioni distinte che pure
ci chiede di rispettare” (p. 267). La riflessione critica, che fa parte della coscienza morale moderna, im-
pone di pensare criticamente e astrattamente per cercare criteri di giustizia che possano ricomporre il
dissenso sugli orientamenti da condividere quando crollano le immagini del mondo condivise. Pure
Waldron (1992) sostiene che “dal momento che la nostra tradizione comunitaria è differenziata e volati-
le, poiché incarna in sé il porre in discussione e la controversia, i valori comunitari non vengono traditi
dal prendere sul serio la riflessione critica” (p. 324). Il liberalismo, insomma, non astrae dal mondo so-
ciale, anzi proprio perché lo osserva con attenzione riesce a constatare che le nostre sono comunità del
conflitto, caratterizzate dall’assenza di una dimensione etica comune su cui fondare la convivenza poli-
tica e pertanto avverte la necessità di cercare principi che possano godere del consenso delle oramai
molteplici concezioni della vita buona.
Nel corso degli anni, comunque, Walzer (1998) rivede le proprie posizioni e prende atto del fatto che la
comunità politica non si fonda su un’identità culturale ma è piuttosto una comunità di comunicazione,
che ha bisogno di un ricco tessuto associativo e in cui “il linguaggio dei diritti individuali è semplice-
mente inevitabile” (p. 55). Non la condivisione di valori implicita nelle forme di vita comuni, dunque,
ma la comunicazione rivolta all’intesa, che concretizza i diritti “principi insaturi”(Habermas, 1996), as-
sicura l’integrazione sociale. La fondazione discorsiva del Diritto richiede ai cittadini di condurre nella
sfera pubblica una riflessione critica liberale che vada alla ricerca di principi universali, tali che possano
regolare imparzialmente le condizioni di vita collettiva.
L’approccio si avvale dell’idea della soglia di livello per ogni società, livello al di sotto del quale si ri-
tiene che un vero funzionamento umano non sia possibile all’individuo. Il principio di ogni persona
come fine viene riformulato secondo il principio delle capacità individuali, il quale esige che ogni so-
cietà assicuri a ciascuno un livello di soglia di beni vitali fondamentali, considerando la vita di ogni sin-
golo individuo degna di sostegno materiale e di fondamentali libertà. A tal fine Nussbaum redige una
lista di capacità che fornisce la struttura portante dei principi politici fondamentali che possono essere
incorporati nelle garanzie costituzionali fondamentali. Isola, inoltre, quelle capacità di importanza cen-
trale per ogni vita autenticamente umana, qualunque cosa un individuo persegua o scelga. La lista dei
beni principali funge così da piattaforma su cui possono convergere le diverse concezioni della vita
buona realizzando un consenso per intersezione. I beni fondamentali sono: vita; salute fisica; integrità
fisica; sensi, immaginazione, pensiero; sentimenti; ragion pratica; appartenenza; altre specie; gioco;
controllo del proprio ambiente. Un elenco caratterizzato da realizzabilità multipla, cioè le sue voci pos-
sono essere specificate con maggiore concretezza secondo le circostanze locali. Esso è quindi concepito
per lasciare spazio ad un ragionevole pluralismo di specificazioni. E, sebbene la lista presenta compo-
nenti separate o indipendenti, tutte importanti e tutte di qualità diversa, non è possibile soddisfare il bi-
sogno di una di esse concedendo una maggiore quantità di un’altra. Nussbaum distingue, infatti, tra tre
diversi tipi di capacità. Le capacità fondamentali, ovvero la dotazione innata degli individui che rappre-
senta la base necessaria allo sviluppo di capacità più avanzate. Le capacità interne, vale a dire stadi di
sviluppo della persona che sono condizioni sufficienti per l’esercizio delle funzioni. E poi le capacità
combinate, che possono definirsi come capacità interne combinate con condizioni esterne in grado di
permettere l’esercizio delle funzioni richieste. In particolare Nussbaum considera le capacità della sua
lista come combinate per sottolineare la duplice importanza delle circostanze materiali e sociali sia nel-
la formazione delle capacità interne sia nella loro espressione una volta formate. Non solo. Meta politi-
ca appropriata deve essere la capacità e non il funzionamento, cioè l’esercizio pratico della capacità.
L’approccio delle capacità mira solo ad offrire opportunità di funzionamento, poi saranno i singoli indi-
vidui, in base alle diverse concezioni del bene, a scegliere quali capacità tradurre in funzionamenti. A
ben vedere la lista si presenta come una concezione parziale del bene che lascia liberi gli individui di
trascurare altri funzionamenti non presenti nella lista stessa fintantoché essi non ostacolano gli altri in-
dividui che desiderano perseguire tutti i funzionamenti fondamentali. Vi sono certo delle obiezioni al-
l’approccio delle capacità della Nussbaum, in particolare quella sollevata dall’argomento derivato dal
bene della diversità, che difende la varietà dei diversi linguaggi sui valori e non vuole che essi si estin-
guano per far posto ad un singolo sistema di valori. Eppure i sostenitori della differenza culturale in sé
trascurano che spesso le pratiche culturali danneggiano le persone che, invece, hanno bisogno di valori
universali per valutare se le pratiche culturali vadano conservate perché rispettose della dignità umana
oppure se vadano criticate in quanto oppressive. L’approccio basato sulle capacità, infatti, fornisce
“un’insieme di valori capaci di darci un’acquisizione critica delle particolarità culturali”(Nussbaum,
2001, p. 70), che non elimina la diversità, ma preserva solo le diversità compatibili con la dignità uma-
na. D’altra parte proprio l’argomento che difende la differenza culturale richiede una impostazione uni-
versale della valutazione critica perché essa invita a chiedersi se i valori culturali vanno conservati, e
tale interrogativo necessita di un’impostazione universale e generalizzata della valutazione critica, sen-
za la quale è impossibile stabilire se una pratica sia degna oppure no di essere conservata. A parere del-
la Nussbaum un approccio universalista è necessario pure per contestare la validità di molti sistemi di
valori altamente paternalistici che minacciano e rendono difficile l’espressione di forme legittime di
pluralismo.
L’approccio delle capacità non si accontenta della concessione di libertà formali, ma chiede un’efficace
garanzia delle libertà mediante distribuzione della ricchezza, accesso all’impiego, alla sanità e all’edu-
cazione. Concentrando la propria attenzione sull’abitazione e sulle opportunità, lasciando alle persone
piena libertà di perseguire i propri piani di vita una volta che queste opportunità siano loro assicurate,
l’approccio basato sulle capacità, lungi dall’essere paternalista, mira a garantire ad ogni individuo le ri-
sorse materiali e istituzionali necessarie ad una conduzione autonoma della propria vita. In realtà l’ap-
proccio è paternalistico solo nei confronti di colore che, perseguendo il proprio bene, interferiscono con
il legittimo diritto altrui alla libertà di scelta su questioni fondamentali della vita. In definitiva l’approc-
cio delle capacità si distingue dagli approcci basati sulla distribuzione delle risorse fondamentali che
trascurano la notevole differenziazione degli individui nei loro bisogni di risorse e nella loro concreta
possibilità di convertire le risorse disponibili in effettive condizioni di vita. Infatti tra gli individui esi-
stono notevoli differenze di efficienza fisica e di natura sociale, collegate con gerarchie consolidate;
dacché gli individui che partono da una posizione di svantaggio hanno bisogno di attenzioni e aiuti spe-
ciali perché possano raggiungere un livello fondamentale di capacità che i cittadini avvantaggiati rie-
scono a raggiungere più facilmente. Come sostiene Nussbaum (2001), gli approcci basati sulle risorse
non rispettano sufficientemente “la lotta di ogni singolo individuo per la crescita e affermazione. Tratta-
re A e B come ugualmente benestanti perché dispongono della stessa quantità di risorse significa trascu-
rare, in modo cruciale, la vita separata e distinta di A, come se le circostanze della vita di A fossero in-
tercambiabili con quelle di B, cosa che potrebbe anche non verificarsi. Per rendere giustizia alle lotte di
A dobbiamo vederle nel loro contesto sociale, consapevoli degli ostacoli che il contesto offre alla lotta
per la libertà, l’opportunità e il benessere materiale” (p. 89). Non bisogna badare solo alle risorse, in-
somma, ma anche al modo in cui esse, nella concretezza dei contesti particolari, entrano in azione e
permettono agli individui di agire in modo pienamente autonomo. Anche gli approcci basati sulle prefe-
renze mostrano disattenzione al contesto materiale e sociale; nel senso che essi valutano le risorse in
base alla loro capacità di soddisfare le preferenze correnti. Ma le preferenze non sono indipendenti ri-
spetto alle condizioni economico-sociali, anzi ne sono plasmate e spesso riflettono tradizioni sociali di
privilegio e subordinazione. Per Nussbaum (2002) un approccio basato sulle preferenze “finisce solita-
mente per rafforzare le disuguaglianze, soprattutto quelle che sono radicate quanto basta per insinuarsi
negli stessi desideri affettivi delle persone” (p. 71). Ciò significa che l’approccio alle preferenze presta
insufficiente attenzione al carattere adattivo delle preferenze, alla trasformazione delle privazioni in
realtà psicologica che riduce la percezione individuale alla propria uguale dignità che dà diritto a liber-
tà, opportunità e benessere materiale.
Nella sua riflessione, definendo i diritti come capacità, Nussbaum intende sottolineare quanto peso ab-
bia la messa in atto di politiche sociali per ampliare l’ambito della libertà positiva; tanto che la comple-
mentarietà tra diritti e capacità suggerisce di usare il linguaggio dei diritti mettendo in evidenza la con-
nessione concettuale tra promozione dei diritti e promozione delle capacità di ogni singolo cittadino. Le
capacità contrastano con un concetto negativo di libertà come assenza di impedimenti formali, in quan-
to implicano la possibilità che un essere umano fiorisca e conduca una vita piena, libera da bisogno e
oppressione, attiva e realizzata nei propri obiettivi. Adottando una concezione positiva di libertà come
libertà sostanziale di fare qualcosa ed essere qualcuno, l’approccio basato sulle capacità richiede l’inter-
vento pubblico per eliminare gli ostacoli che impediscono lo sviluppo delle capacità individuali e offri-
re a ciascun essere umano risorse e opportunità per funzionare efficacemente come cittadino e come at-
tore sociale. In tal senso mi sembrano davvero interessanti le considerazioni della Nussbaum sul rap-
porto tra Stato e famiglia, riallacciate a quelle di Rawls (2001) che vede nella famiglia un’istituzione
che fa parte della struttura di base della società e pertanto va regolata secondo i principi di giustizia.
Nussbaum concorda con Rawls riguardo ai limiti che il rispetto dei diritti pone all’autonomia regolativi
della famiglia, tanto che per la filosofa lo Stato non deve tutelare la famiglia come unità organica ma
considerarla come un’associazione che sviluppa le capacità emotive ed affettive individuali dei suoi
componenti. Qualora i membri della famiglia limitassero lo sviluppo delle capacità emotive o delle al-
tre capacità fondamentali degli altri membri, lo Stato ha l’interesse vincolante, fornito dalla protezione
delle capacità, ad intervenire; non solo, le politiche pubbliche devono promuovere una serie di servizi
capaci di allargare il raggio delle libertà per ciascun membro della famiglia. Eppure, mentre Rawls
guarda alla famiglia come entità prepolitica su cui le leggi agiscono come elementi di coercizione ester-
na, la Nussbaum vede le leggi come contributi costitutivi dell’istituto familiare. Ciò significa che lo
Stato non deve attribuire privilegi alla forma tradizionale di famiglia, ma chiedersi quali capacità la fa-
miglia tradizionale serva e poi estendere i privilegi alle altre relazioni che promuovono le stesse capaci-
tà: l’approccio basato sulle capacità si concentra sulle capacità di ogni individuo senza presumere che
qualche gruppo associato particolare abbia la precedenza nel promuovere tali capacità. Del resto recenti
indagini sulle famiglie formate da omosessuali (M. Bottino e D. Danna, 2005) hanno evidenziato che li-
mitare il riconoscimento sociale come ambito di cura e affetto alla sola famiglia tradizionale soffoca
altre relazioni produttive di benessere, sia interne che esterne a queste relazioni. Uno Stato che protegge
solo i gruppi tradizionali, invero, depaupera gli individui di quelle capacità emotive ed affettive pro-
mosse da forme non tradizionali di appartenenza e solidarietà. Per la Nussbaum lo Stato non deve pro-
teggere la tradizione, ma le capacità individuali che fioriscono in una molteplicità di comunità affettive
(come le famiglie omosessuali ad esempio), le quali pertanto meritano il giusto riconoscimento pubbli-
co.
7. La libertà fragile
Recentemente Panebianco (2004) ha messo a nudo l’incapacità del pensiero liberale classico e contem-
poraneo (da Locke a Rawls) di comprendere la “vera” natura della politica, affermando che in tutte le
sue versioni, il liberalismo propone “una visione impolitica, o apolitica, della società liberale” (p. 8), in
cui la politica si risolve, praticamente, in regola. Il liberalismo dimentica che la politica non è solo con-
vivenza, ma anche conflitto tra identità collettive, dove conquista ed esercizio del potere pubblico sono
la posta in gioco; la politica per Panebianco non è solo ordine e stabilizzazione dei rapporti sociali, ma
anche lotta per il potere. La politica è lotta per il controllo dello Stato che suscita la formazione di iden-
tità collettive, fra loro in competizione, che al potere politico chiedono protezione dall’insicurezza, tute-
la e valorizzazione degli interessi del gruppo di appartenenza. Del resto i conflitti di identità e le lotte di
potere destabilizzano incessantemente l’ordine creato dalla politica che assicura la prevedibilità delle
relazioni sociali da cui dipende una stabile cooperazione sociale. Ad esempio il mercato è stato sempre
considerato una potente diga a difesa della libertà, ma i teorici dello Stato minimo, rileva Panebianco
(2004), ignorano che il mercato ha avuto un’origine spontanea ma poi ha sempre necessitato, e ancora
necessita, di essere sostenuto e garantito dalla politica, poiché senza le regole poste in essere da essa il
mercato non funziona. Praticamente senza meccanismi politici che pongano in essere condizioni legali
di protezione dei diritti individuali, non esiste la possibilità di sviluppare il mercato: non c’è contrappo-
sizione tra mercato e politica ma interpenetrazione. A ben vedere quello tra liberalismo economico e
democrazia è uno scontro tra interessi sociali opposti: da una parte l’impresa che chiede libertà di inno-
vare, dall’altra il mondo del lavoro che non accetta di essere mero costo da ridurre e chiede diritti a di-
fesa della propria libertà positiva. Dacché Panebianco invita i liberisti a seguire l’esempio della destra
neo-conservatrice che ha imparato ad investire le sue imponenti risorse economiche nel controllo delle
risorse simboliche necessarie per vincere la competizione fra identità collettive e quindi conquistare lo
Stato e farlo astenere dall’essere intrusivo nei confronti del mercato. La proposta di Panebianco è di di-
sperdere il potere sociale nei rapporti di scambio, piuttosto che concentrarlo nelle mani dello Stato, così
che la possibilità di entry e di exit limiti e freni il potere sociale che l’impresa esercita sul lavoratore.
Però Panebianco dimentica che uguali competenze giuridiche concedono libertà d’azione il cui uso dif-
ferenziale non promuove l’uguaglianza fattuale delle situazioni di vita e delle posizioni di potere. Riaf-
fiora nelle riflessioni di Panebianco, in un certo senso, la classica cecità del liberalismo nei confronti del
contratto di lavoro che viene dipinto come scambio volontario, dimenticando che tale scambio è moti-
vato da condizioni esistenziali involontarie. Come osserva Rodotà (1990), infatti, “la connessione tra
proprietà e libertà […] finisce con il presentarsi oggi non tanto come un punto di forza, ma come il vero
punto critico del liberalismo. Se la libertà è funzione dei beni in proprietà, il problema chiave, ineludi-
bile, rimane quello distributivo” (p. 16), resta centrale la questione della distribuzione della ricchezza e
della proprietà come presupposto dell’eguaglianza delle opportunità e delle libertà. L’apologia del mer-
cato di Panebianco è miope perché non tiene conto che, a causa della diseguale distribuzione di redditi
e ricchezze, alla libertà di alcuni si accompagna quasi necessariamente la mancanza di libertà di altri.
Come nota Prospero (2004b), infatti, “senza le piccole libertà solidali o positive che proteggono dal
mercato, la società aperta per chi lavora si rivela un vero inferno” (p. 24). Con la nascita dello Stato so-
ciale non ci troviamo di fronte a restrizioni normative del principio di libertà giuridica, ma al tentativo
di eliminare le asimmetrie di potere economico, generate dal mercato, che sono incompatibili con
l’eguale ripartizione di libertà soggettive richiesta da questo principio. Non solo. Per quanto il potere
dello Stato venga dipinto come il potere sociale più pericoloso, in quanto dotato di strumenti di coerci-
zione fisica, Panebianco trascura che, a differenza degli altri poteri sociali, il potere politico si fonda sul
consenso e viene addomesticato mediante l’esercizio delle libertà politica.
Panebianco, preferendo al cittadino il privato, crede sia necessario il ritorno dei meccanismi di autore-
golamentazione degli interessi privati che hanno il pregio di cancellare quelle “anomalie” che sono sta-
te le democrazia e la crescita della spesa pubblica, le quali a loro volta hanno limitato l’innovazione per
garantire diritti di cittadinanza democratica. Tanto che Panebianco (2004) affida il mantenimento del le-
game sociale all’individualismo molecolare, diverso dall’individualismo atomistico delle teorie contrat-
tualistiche, e per il quale “gli individui sono necessariamente immersi in reti di legami (familiari, ami-
cali, associativi, ecc.) da cui ricavano socializzazione, identità, interessi” (p. 12). Paradossale è, però,
sostenere la logica proprietaria, che porta inevitabilmente con sé effetti di separazione tra gli individui,
di complessiva atomizzazione della società, e poi immergere l’individuo in legami che proprio il dina-
mismo del mercato dissolve. I bisogni della famiglia entrano particolarmente in contrasto con quelli del
neoliberalismo, dal momento che essa esige un reddito stabile, difficilmente garantito dalla precarietà
dei mercati del lavoro neoliberalisti, e il sostegno dello Stato con i suoi servizi di assistenza sanitaria e
istruzione che costano e necessitano di copertura fiscale.
Ad ogni modo bisogna riconoscere a Panebianco il merito di svelare progressivamente la fragilità del
tentativo liberale di imbrigliare la politica; del resto il fallimento liberale insegna che la garanzia delle
uguali libertà risiede nell’eticità democratica e nella cultura politica liberale dei consociati giuridici. La
legge, infatti, garantisce le uguali libertà se si fonda sull’uguale concorso dei cittadini alla sua costru-
zione e sulla loro motivazione a non far prevalere i propri interessi e valori, ma a creare spazi uguali per
l’autonomo e pieno sviluppo della persona. Come osservava Habermas (1996), infatti, la dispersione
dei centri di potere sociale, culturale, economico deve essere accompagnata dalle motivazioni dei citta-
dini a fare uso delle loro libertà comunicative “non soltanto come libertà individuali per interessi parti-
colari, bensì come libertà comunicative in senso proprio, finalizzate a ”uso pubblico della ragione“” (p.
545). E il liberalismo, prestando attenzione soprattutto alla molteplicità dei centri di potere, ha spesso
dimenticato o trascurato che è la qualità dell’interazione comunicativa fra di essi a ridurre il particolari-
smo e a far emergere l’interesse generale. Dacché la società libera può essere tutelata solo dallo spirito
della democrazia che, osserva Cerroni (2002), “alimenta la responsabilità civica, il rispetto dei propri
confini e dei diritti altrui, il dovere dell’empatia sociale” (p. 69). Ciò significa che una democrazia in
salute, mediante il circuito pubblico del libero confronto, accelera la trasformazione della coscienza pri-
vata in coscienza pubblica e stimola la crescita di un’etica civile, della responsabilità individuale e di
quella collettiva. In sintesi credo che se il pensiero liberale oggi vuole proteggere le uguali libertà degli
individui non deve difendere l’autonomia dell’individuo contro lo Stato, ma contro l’impresa che si fa
Stato ed invade con il denaro la sfera pubblica (Dworkin, 1996b). L’effettiva garanzia dei diritti posti a
tutela dell’eguale libertà, insomma, ha bisogno di un processo democratico da tono deliberativo ed
egualitario nell’accesso e l’uguale partecipazione dei cittadini ad una sfera pubblica in cui si confronta-
no ragioni è certamente l’argine più solido a difesa della libertà. Purtroppo la minaccia neoconservatri-
ce recente, il cui slogan è mercato aperto e società chiusa (Veca, 2002), che tenta di renderci diseguali
nella distribuzione delle risorse materiali e ridurre la sfera delle scelte bioetiche e affettive, rischia di
travolgere i deboli argini a tutela della libertà di una democrazia del denaro rimasta senza cittadini.
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1. Rawls (1989) si oppone anche alla teoria teleologica del perfezionismo in quanto, mancando un criterio di per-
fezione condiviso, l’eguale libertà non può cedere il passo all’obiettivo sociale di massimizzare la perfezione;
sicché “la perfezione umana va perseguita all’interno dei limiti del principio di libera associazione” (p. 275). O,
più semplicemente, l’eccellenza va perseguita all’interno dell’associazionismo privato e non per mezzo dell’a-
zione statale. ↩︎