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Francesco Alarico della Scala

Famiglia
tradizionale? Il vero
socialismo la
difende
Quasi due secoli or sono un retrogrado maschilista, impensierito dall’ascesa delle donne
in carriera che stava corrodendo le basi del patriarcato, esclamò con mesta rassegnazione:
«Eppure questa situazione che svirilizza l’uomo e toglie alla donna la sua femminilità, senza
riuscire a dare all’uomo una vera femminilità e alla donna una vera virilità, questa
situazione che nel modo più infame degrada i due sessi e con loro l’umanità, è la
conseguenza ultima della nostra tanto decantata civiltà, l’ultimo risultato di tutti gli sforzi
compiuti da innumerevoli generazioni per migliorare le loro condizioni e quelle dei loro
discendenti!». Era questo un velenoso aforisma uscito dalla penna del misogino
Nietzsche? O piuttosto la tirata reazionaria di qualche bigotto esponente della tradizione
cattolica? Nossignori: avete appena letto le parole di Friedrich Engels, fondatore assieme
a Marx del socialismo scientifico, scritte in nero su bianco nel libro “La situazione della
classe operaia in Inghilterra”, ove si appresta a soggiungere che il predominio maschile va
criticato proprio alla luce del suo rovescio nella «supremazia della donna sull’uomo, che
inevitabilmente è provocata dal sistema [capitalistico] di fabbrica» [1]; quindi il peggior
torto del maschilismo fu quello d’aver generato il femminismo quale sua primitiva e
meccanica antitesi! Forse questi rilievi desteranno lo stupore e lo sconcerto delle
femministe che da tempo immemore hanno saccheggiato la più nota opera di Engels
sull’”Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato”, in cerca d’un appiglio su
cui fondare le loro teorie dissolutrici. Ma anche qui il nostro, nel descrivere i sostanziali
mutamenti della famiglia nel futuro socialista, si limita a prevedere la socializzazione del
lavoro domestico, trasformato in un mestiere come gli altri, e la presa in carico
dell’educazione dei figli (e delle relative spese) da parte dello Stato; e chiarisce che
l’uguaglianza tra i due sessi «agirà in una misura infinitamente maggiore nel far divenire
effettivamente monogami gli uomini, che nel far divenire poliandriche le donne» [2]: –
l’esatto contrario del singolare connubio di promiscuità ed ipergamia femminile fiorito in
Europa e in America a seguito della cosiddetta “rivoluzione sessuale”, che dietro la facciata
progressista ed emancipativa ha ridotto il sesso a grezzo valore di mercato, alterando
l’equilibrio demografico della società e perpetuando il truce meccanismo dell’alienazione
capitalistica. Dopodiché il vecchio Engels rimetteva all’effettiva prassi di vita avvenire
l’elaborazione dei dettagli del caso. È a questa prassi che occorre dunque rivolgersi per
avere un’idea conforme alla realtà e scevra dagli stereotipi del “cultural Marxism” di moda
in Occidente.

Gli inizi furono invero turbolenti e contraddittori: nella Russia della Nep la coesistenza di
diverse classi antagonistiche e dei rispettivi sistemi economici si rifletteva, sul piano
culturale, in una pluralità d’indirizzi di pensiero che coinvolgeva anche la questione
famigliare. Nessuno aveva esperienza del cammino da percorrere, per cui si sperimentava
di tutto: dall’abolizione dell’alfabeto cirillico al modernismo nell’arte filmica e teatrale,
dall’inversione dei rapporti d’autorità tra insegnante e alunno nella scuola al tentativo di
forgiare una nuova “cultura proletaria” dal nulla, fino alle misure per il superamento della
famiglia. Pertanto ai numerosi diritti concessi alla donna dai codici del 1918 e del 1926
(divorzio, aborto, ecc.) non si accompagnò un’altrettanto univoca e netta indicazione dei
nuovi doveri imposti dalla rivoluzione socialista; e questa momentanea incertezza di
prospettive trovò eco nella popolarità di cui godettero allora le teorie del “libero amore”.
Tuttavia Lenin non faceva mistero della sua profonda ostilità a simili tendenze sinistroidi, a
prima vista molto innovative e “progressiste” ma in ultima analisi nocive alla causa del
socialismo. Già nelle sue lettere del gennaio 1915 ad Ines Armand il padre del
bolscevismo annoverava fra le «rivendicazioni borghesi» in tema d’amore non soltanto la
libertà di adulterio e di scarsa serietà relazionale, ma altresì la libertà dalla procreazione
[3]. E nella sua lunga conversazione del 1920 con Clara Zetkin egli rimarcò la necessità di
«tracciare una linea chiara e indelebile di distinzione tra la nostra politica e il femminismo»
sottolineando «i legami indissolubili che esistono tra la posizione sociale e quella umana
della donna».

Lenin colse l’occasione per formulare una critica serrata delle teorie sessuali libertarie,
all’epoca legate soprattutto alla volgarizzazione della psicoanalisi, secondo cui nella
società comunista soddisfare le pulsioni sarebbe stato facile quanto bere un bicchier
d’acqua: «Io considero la famosa teoria del “bicchier d'acqua” come non marxista e
antisociale per giunta. Nella vita sessuale si manifesta non solo ciò che noi deriviamo dalla
natura ma anche il grado di cultura raggiunto, si tratti di cose elevate o inferiori. […] La
tendenza a ricondurre direttamente alla base economica della società la modificazione di
questi rapporti, al di fuori della loro relazione con tutta l’ideologia, sarebbe non già
marxismo, ma razionalismo. Certo, la seta deve essere tolta. Ma un uomo normale, in
condizioni ugualmente normali, si butterà forse a terra nella strada per bere in una
pozzanghera di acqua sporca? Oppure berrà in un bicchiere dagli orli segnati da decine di
altre labbra? Ma il più importante è l’aspetto sociale. Infatti, bere dell’acqua è una faccenda
personale. Ma, nell’amore, vi sono interessate due persone e può venire un terzo, un
nuovo essere. È da questo fatto che sorge l’interesse sociale, il dovere verso la collettività.
Come comunista, io non sento alcuna simpatia per la teoria del “bicchier d’acqua”, benché
porti l’etichetta del “libero amore”» [4]. A ragion veduta, era soltanto questione di tempo
perché il partito bolscevico si accingesse a correggere la rotta e a purificare dalle idee
ostili anche il campo dei rapporti famigliari, di contro alla leggenda metropolitana di un
“bolscevismo libertario delle origini tradito da Stalin”, tipica della cattiva storiografia
trockista. Lo stesso decreto del 18 novembre 1920 che legalizzò l’aborto precisava come si
trattasse di una concessione provvisoria, valida solo «fino a quando le sopravvivenze
morali del passato e le gravi condizioni economiche del presente costringeranno ancora
una parte delle donne a decidersi per quest’operazione» [5]; – con buona pace dei
presunti filo-sovietici odierni che, a rimorchio del politicamente corretto, spacciano quella
misura d’emergenza per una grande conquista civile anziché un male necessario.

Le radici del male furono estirpate negli anni ’30, attraverso la liquidazione delle classi
sfruttatrici e della loro mefitica influenza ideologica sull’opinione pubblica, attraverso i
giganteschi mutamenti sociali innescati dalla collettivizzazione agricola e dai piani
quinquennali. Da un lato milioni di donne entrarono nel mondo del lavoro, conquistando
l’uguaglianza con gli uomini sul solido terreno dell’economia, dall’altro il socialismo prese
a svilupparsi sulla propria base e poté risolvere i problemi morali e demografici senza
compromessi, attenendosi ai propri princìpi. Si arrivò così al fatidico ukaz del 27 giugno
1936, che autorizzava l’aborto soltanto se indispensabile a tutelare la salute della donna e
del bambino, subordinava il divorzio al consenso di ambedue i coniugi e in generale le
decisioni dei genitori ai diritti dei figli. Questi sviluppi smentirono non solo le utopistiche
vedute degli estremisti di sinistra, che si auguravano la scomparsa della famiglia come
cellula fondamentale della società, ma anche i foschi presagi dei conservatori che per lo
stesso motivo – la differenza è unicamente valutativa – osteggiavano il lavoro femminile:
«L’attivo lavoro sociale delle donne di casa – scriveva allora B. Svetlov sul Bolshevik, – non
soltanto non ha disgregato la famiglia, ma l’ha rafforzata, aiutando la donna a liberarsi dal
carattere individualistico, piccolo-borghese della famiglia e a coltivare nei figli la
concezione comunista, l’eroismo e l’abnegazione nella difesa della patria» [6]. Nello stesso
anno si verificò un importante episodio nella storia dell’arte sovietica: la stroncatura
ufficiale della celebre “Lady Macbeth del distretto di Mcensk” di Šostakovič. L’opera, tratta
da una novella di Leskov, metteva in scena la vicenda di Katerina Izmajlova, giovane
benestante costretta a vivere un matrimonio infelice, che s’innamora di un servo e in
combutta con questi uccide il marito ed il suocero. «La mercantessa rapace, che ha
raggiunto ricchezze e potere attraverso omicidi, viene rappresentata come “vittima” della
società borghese», constatava con disappunto la Pravda del 28 gennaio. E per una simile
interpretazione “antiborghese”, di denuncia dell’ipocrisia morale prerivoluzionaria,
propenderebbe qualsiasi medio esponente della sinistra nostrana. Ma non era questo il
caso del Comitato centrale del partito, che con la penna del suo anonimo portavoce
sentenziò: «L’autore cerca con tutti i mezzi espressivi, sia musicali che drammatici, di
attirare la simpatia del pubblico verso le aspirazioni e le azioni grossolane e volgari di
Katerina Izmajlova», poiché «non ha tenuto conto dell’esigenza della cultura sovietica di
scacciare da tutti gli angoli del costume sovietico la grossolanità e la crudeltà» [7]. Parole
che lasciano intendere quali fossero le priorità del gruppo dirigente sovietico sul fronte
famigliare.

Nel suo discorso del 1º ottobre 1938 a una riunione di propagandisti, Stalin si permise
addirittura di colmare le lacune storiche dell’opera di Engels – che la espongono alle
strumentalizzazioni femministe di cui sopra, – confrontando i vecchi studi di Bachofen con
le più recenti ricerche antropologiche che dimostravano come il matriarcato non fosse
l’ordinamento famigliare originario della specie umana. Inoltre egli criticò una formula
contenuta nella prima prefazione al libro: «Ci sono fatti che l’indagine e la teoria di Engels
mettono sullo stesso piano: le strutture familiari e le forme della produzione su un piano di
uguaglianza. Marx non fu mai d’accordo con questo punto di vista» [8]. In quanto sede
della riproduzione della forza-lavoro, la famiglia è compresa nei rapporti di produzione e
ad essi subordinata: rilievo questo che, si noti, esclude in linea di principio le “famiglie
LGBT” e l’annesso romanticismo che fa violenza alla teoria. “L’utero è mio e lo gestisco io”,
proclamano le femministe. No – risponde il socialismo scientifico, – la procreazione non è
un semplice fenomeno naturale, che soggiace ai soli desideri dell’individuo, bensì un
processo sociale regolato in funzione delle esigenze della collettività. Ed è bene che sia
così: l’“uomo naturalizzato” è anch’esso un prodotto storico, peraltro di qualità assai più
scadente, generato dal sistema capitalista che aliena le vocazioni sociali degli uomini e ne
stimola il retaggio belluino. D’altra parte, la famiglia non è un mero contratto economico e
neppure un fugace legame sentimentale, ma un’istituzione chiamata a garantire la stabilità
e la continuità della vita associata, un imprescindibile anello nella catena dei rapporti
sociali; «la famiglia è la cosa più seria che esista nella vita» [9], scriveva la Pravda nel
maggio 1936.

Commentando la riforma scolastica del 1943, Stalin fece il bilancio del lavoro svolto dal
potere sovietico sulla questione femminile e tracciò le prospettive di sviluppo della
famiglia sovietica: «Nella fase che è passata, lo Stato sovietico ha pienamente e
speditamente eliminato dalle menti della gente ogni idea dell’ineguaglianza sociale dei
sessi e ogni espressione di quest’idea dalla vita quotidiana. Ora noi affrontiamo un nuovo
e non meno importante compito. Esso è, soprattutto, quello di rafforzare la nostra primaria
unità sociale, la famiglia socialista, sulla base del pieno sviluppo delle caratteristiche
maschili e femminili nel padre e nella madre, come capi della famiglia con eguali diritti.
L’istruzione nelle nostre scuole fu nel passato coeducazionale allo scopo di superare, il più
velocemente possibile, l’ineguaglianza sociale dei sessi, radicata nei secoli. Ma ciò che noi
dobbiamo ora costruire è un sistema attraverso cui la scuola sviluppi ragazzi che saranno
buoni padri ma soprattutto combattenti per la patria socialista e ragazze che saranno
madri intelligenti idonee ad allevare le nuove generazioni» [10]. La legislazione degli anni
’30 fu consolidata dall’editto di famiglia del 1944, che riaffermò il divieto di aborto
ingiustificato e allungò l’iter per il divorzio, accrebbe i sussidi statali per consentire alle
madri di dedicarsi esclusivamente alla crescita dei figli nei primi cinque anni, ecc., onde
risanare le enormi perdite di vite maschili nella Grande Guerra Patriottica. Questa
tendenza proseguì immutata fino alla metà del decennio successivo, quando con la morte
di Stalin ebbe inizio un generale indebolimento della disciplina socialista che interessò
anche la sfera famigliare.

Naturalmente il modello sovietico dell’età staliniana non fu replicato alla lettera in tutti gli
altri paesi socialisti. Anzi, esistono realtà dall’ordinamento sociale affine che in questo
campo hanno seguìto strade molto diverse, ieri la Germania dell’Est e oggi Cuba, benché
di regola simili aperture si accompagnino a concessioni ideologiche e culturali al
capitalismo. Ma esiste altresì un paese tetragono a qualsivoglia compromesso ideale, che
ha fatto della coerenza e della fedeltà ai princìpi socialisti il proprio marchio di fabbrica e
ha stupito il mondo intero con l’eccezionale longevità del suo sistema: la Corea del Nord.
Quando i comunisti liberarono il paese, reduce dal dramma delle comfort women sfruttate
dalle truppe coloniali giapponesi, la società coreana vegetava nel passato feudale.
Pertanto una delle prime riforme attuate dal nuovo regime fu la promulgazione della
Legge sull’uguaglianza dei sessi, datata 30 luglio 1946, che pose fine alla tradizionale
subordinazione della donna, da sempre confinata entro le mura domestiche, priva di diritti
sociali e politici, relegata alla funzione di moglie e talvolta di concubina dei signori.
Tuttavia i movimenti di liberazione della donna in Corea non seguirono né la strada del
femminismo occidentale né, forti dell’esperienza sovietica, quella dei progetti
antifamigliari “di sinistra”. A porre i paletti fu proprio una donna: la compagna Kim Jong
Suk, moglie del Presidente Kim Il Sung e madre del Generale Kim Jong Il, nonché veterana
della guerriglia antigiapponese. Nella primavera del 1946 ella si accinse a ripulire le
organizzazioni femminili dalle «scorie del femminismo borghese»: nel riconoscimento dei
diritti umani delle donne vedeva tutt’al più «lo slogan del femminismo borghese che,
malgrado la presunta difesa delle donne nella società capitalistica, non implica la loro
emancipazione per come intesa dalla classe operaia». Chissà cosa avrebbe pensato delle
battaglie civili per il free bleeding! Il diritto di voto, ai suoi occhi, era «una rivendicazione
per far partecipare le donne alla politica parlamentare, che quindi non ha nulla a che
vedere con i diritti politici di cui devono beneficiare le donne lavoratrici». Altro che “quote
rosa”!
L’eroina rivoluzionaria prendeva risolutamente le distanze non soltanto dal «programma
del femminismo borghese», fatto di garanzie formali ed insignificanti pretese soggettive,
bensì pure dal «programma di emancipazione delle donne proletarie un tempo
proclamato dalle femministe socialiste», che prevedeva un puro e semplice miglioramento
delle condizioni di vita materiali delle donne e ignorava invece la dimensione sociale-
normativa della loro esistenza [11]. Si prospettava così una rottura totale con il femminismo
di ogni possibile sfumatura. Il 23 ottobre 1947, visitando la Scuola rivoluzionaria che
tutt’oggi porta il suo nome, Kim Jong Suk rispose alle affermazioni del direttore politico
aggiunto che proponeva un’educazione indifferenziata per maschi e femmine: «Voi
credete? Ma le ragazze, oltre alle qualità generali, devono possedere anche quelle proprie
del loro sesso, comprese l’arte culinaria e la sartoria. Non si devono trascurare simili
discipline» [12]. Nessuna “lotta agli stereotipi di genere”, dunque. Negli anni ’50 e ’60 le
donne coreane assolsero un ruolo chiave nella ricostruzione postbellica del paese e nello
slancio del movimento Chollima, grazie alla capillare rete di asili e giardini d’infanzia creati
dal regime socialista per prendersi cura dei loro figli, all’accesso gratuito all’istruzione di
massa e all’attivo coinvolgimento nella vita attiva delle organizzazioni di partito, cui erano
particolarmente idonee – a giudizio del caro leader – perché «in genere dolci per natura» e
refrattarie al burocratismo [13]. Questa modernizzazione posticipò leggermente il
matrimonio, ma il ciclo di vita della famiglia non era affatto in discussione: «Noi non ci
opponiamo a che le donne si sposino e mettano al mondo dei figli. È la natura stessa
dell’essere umano» [14], specificava Kim Il Sung.

Conclusa l’impegnativa edificazione di un forte Stato socialista industriale, negli anni ’70 e
’80 fu la volta del consolidamento dei nuclei famigliari, indicati da Kim Jong Il come il più
sicuro baluardo contro la “furia del dileguare” di hegeliana memoria e la fonte primigenia
del patriottismo socialista: «Alcuni pensano che i rivoluzionari comunisti siano persone
disumane che si preoccupano unicamente della rivoluzione, ignorando persino le proprie
famiglie. Si sbagliano. Amare e rispettare i propri genitori è un obbligo fondamentale
dell’uomo. Chi non ama i propri genitori, la propria consorte e i propri figli, che formano i
legami di parentela più stretti, non può amare il proprio paese e i propri
connazionali» [15]. Le garanzie materiali non mancano: come previsto da Engels, in Corea
del Nord le casalinghe sono equiparate agli altri lavoratori e pertanto vengono rifornite di
generi alimentari, a titolo pressoché gratuito, dal sistema di distribuzione pubblica; le
lavoratrici in maternità dispongono di 150 giorni (240 dall’estate del 2015) di congedo a
salario pieno e, al momento del ricovero in ospedale a carico dello Stato, ricevono
cospicui premi in denaro; quelle con tre o più figli lavorano per sole 6 ore al giorno; e in
ogni caso le donne vanno in pensione a 55 anni e possono dedicarsi interamente alla
famiglia [16]. La mentalità popolare trova riflesso nella recente risposta dei novelli sposi Ri
Ok Ran e Kang Sung Jin alla domanda di Wong Maye, giornalista dell’Associated Press, su
quali fossero i loro obiettivi nella vita: «Avere molti bambini in modo che possano servire
nell’esercito e difendere e sostenere il nostro Paese, per molti anni nel futuro» [17].

Ma cosa pensano i nordcoreani del palese declino dell’istituto famigliare e dei suoi valori
fondativi in Occidente? L’anziano Presidente Kim Il Sung notava con apprensione nelle sue
memorie: «Al giorno d’oggi l’epicureismo si propaga come una malattia contagiosa
dall’altro emisfero del nostro pianeta. Questo eccesso d’egoismo, che spinge a ricercare
solo il proprio benessere, senza curarsi dei posteri, affligge l’animo d’innumerevoli
persone. Alcuni si esimono dal generare discendenti, perché sono un cruccio. Altri
rinunciano perfino a contrarre matrimonio. Certo, ognuno è libero di non sposarsi o di non
avere figli. Ma che gusto c’è a vivere senza eredi?» [18]. A cavallo tra i due secoli il filosofo
Jo Song Baek sottoscriveva le tesi di Zbigniew Brzezinski sulla crisi morale della società
americana, lamentando come perfino la Corea del Sud fosse «divenuta una regione priva
d’amore autentico, una regione sterile» in seguito al pernicioso influsso della cultura
yankee. Le basi ideologiche di questo degrado erano additate nell’indebita
“naturalizzazione” dei rapporti coniugali: «L’amore prediletto dal freudismo è un amore
inumano, vile e depravato, che si fonda sull’istinto sessuale animalesco». E i legami fra
uomo e donna, «se si considera soltanto l’aspetto sessuale, non possono essere
autenticamente umani e solidi» [19]. Ce n’è abbastanza per mettere in imbarazzo chi critica
l’anarchia del mercato ma si nutre della cultura decadente da esso generata, chi del
socialismo reale apprezza l’economia ma non l’etica, chi suol arguire che parole come
quelle citate poc’anzi appartengono a uomini del secolo scorso, succubi di convenzioni
arretrate, che adesso i tempi sono cambiati e che perfino la Corea si “aprirà” a quel fatuo
“progresso” – evocato alla stregua d’una formula magica, – che prima o poi riconduce tutti i
popoli nell’alveo della (in)civiltà liberale.

Simili profezie sono perfettamente analoghe, nella forma e nel contenuto, alle gufate di chi
da decenni attende invano il crollo del sistema socialista, e ogni giorno ricevono le stesse
brutali smentite dalla realtà. «Nessuno può sostituire le madri nel ruolo che svolgono nella
formazione dei protagonisti del futuro della patria. Il nome intimo e tenero di madre
racchiude il rispetto sociale e la grande speranza riposta nelle donne che circondano i
bambini d’amore e d’affetto, sopportando tutte le fatiche del mondo senza batter ciglio.
Senza donne non può esserci né famiglia, né società, né avvenire della patria»: – così si
legge nella lettera inviata dal giovane leader Kim Jong Un al VI Congresso dell’Unione
democratica delle donne di Corea (17 novembre 2016), ove si accenna altresì alla
necessità di «instaurare la disciplina morale fra le donne» e ai loro doveri di «padrone di
casa», per poi chiudere in bellezza: «La natalità è un importante fattore che influisce
sull’avvenire del paese e della nazione. Bisogna incoraggiarla» [20]. Un autentico florilegio
di “bigottismo patriarcale”, a detta dei feticisti della novità fine a se stessa, che pure si
tengono pervicacemente aggrappati alla vecchia ipotesi sulla “famiglia autoritaria” come
luogo di riproduzione della psicologia borghese, ormai obsoleta da circa cinquant’anni a
questa parte. La logica del capitale non conosce senso del limite e, come intuì Marx, tende
a “sciogliere tutti i corpi solidi”, primo fra tutti il vincolo famigliare. «Con l’individualismo
estremo come base morale e spirituale – incalza il Rodong Sinmun del 18 novembre 2016
– nei paesi capitalistici non di rado il marito uccide la moglie, i figli uccidono i genitori e i
nipoti uccidono i nonni» [21]: le esplosioni più fragorose fanno luce sul tacito logoramento
quotidiano. La liberalizzazione dei costumi contrabbandata dalle sinistre sessantottine non
è che l’abito ideologico, mistificante per definizione, di un processo connaturato al declino
della metropoli imperialista.

In un paper pubblicato il 13 agosto 2015 sul sito dell’Università Kim Il Sung di Pyongyang,
a firma del professor Kim Hong Il, la moda dei “diritti civili” viene derubricata a sintomo
della putrefazione del capitalismo: «La decadenza politica e culturale degli Stati Uniti porta
con sé la discriminazione razziale, le frodi e gli inganni delle organizzazioni politiche, la
criminalità, il divorzio, la gravidanza minorile, il matrimonio omosessuale e l’aborto, “cancri
sociali” propri di un’America che ha tempo abdicato alle sane ragioni della società umana»
[22]. La Corea del Nord è forse l’unico paese socialista a non aver mai criminalizzato
l’omosessualità, riconosciuta come un tratto genetico i cui portatori vanno rispettati e
protetti dalle discriminazioni, ma nondimeno si oppone fermamente alla promiscuità e
all’esibizionismo della cultura Gay occidentale, alle egoistiche rivendicazioni del
matrimonio e delle adozioni, perché incompatibili con le idee socialiste sulla famiglia e
sulle sue funzioni sociali [23]. L’aborto non è concepito come un “diritto individuale” di cui
valersi a piacimento, bensì come una misura eugenetica al servizio della collettività. «Tutta
la medicina è gratuita in Corea del Nord – spiega Alejandro Cao de Benós – e si può
ricorrere all’aborto solo previa raccomandazione medica, qualora si verifichi una
malformazione fetale, o la vita della madre sia messa a repentaglio, o il bambino non
nasca correttamente. […] Non per scelta o per motivi economici» [24]. Il divorzio è certo
libero e legale, senonché le tradizioni nazionali – gelosamente difese dal regime socialista
sebbene mondate dalle incrostazioni classiste del confucianesimo – lo contemplano come
extrema ratio per cui optare preferibilmente d’accordo con i parenti, i quali peraltro
condividono l’onta degli ex coniugi per non aver saputo stringere un legame a prova delle
temporanee contingenze del sentimento [25]. Come ricorda lo scrittore Davide Rossi,
numerose opere letterarie coreane celebrano la ricomposizione dei conflitti sorti in seno
alle famiglie, in nome del superiore interesse proprio, dei figli e del paese, e col
provvidenziale aiuto del partito [26].

Queste circostanze hanno forgiato in Corea i nuclei famigliari più coesi e stabili del globo
terrestre, con 2.000 sole pratiche di separazione avviate in media ogni anno. Quest’ultimo
dato è emerso allorché il Comitato delle Nazioni Unite per l’eliminazione della
discriminazione contro le donne prese di mira la Corea del Nord, il cui Codice Penale non
sanziona il vago reato di “molestie” che – come attestano gli eventi degli ultimi mesi – si
presta ad interpretazioni soggettive tali da minare le garanzie basilari dello Stato di diritto.
Al dibattito dell’8 novembre 2017 i delegati nordcoreani furono costretti a ribadire
parecchie ovvietà, ad esempio che le donne possono accedere alle posizioni sociali più
elevate qualora superino l’iter necessario, e non mediante la forzata immissione di “quote
rosa” negli apparati, oppure che se un superiore le chiede favori sessuali in cambio di
promozioni o con minaccia di trasferimento la donna è libera di rifiutare e che il reato di
stupro si configura solo in seguito ad un successivo rapporto non consensuale; e
conclusero la meritata lezione di buon senso impartita agli accusatori con queste
significative osservazioni: «Nella Repubblica popolare democratica di Corea violenza
sessuale, molestie sessuali, violenza domestica o stupro coniugale sono parole alquanto
strane, la gente non capisce cosa significhino semplicemente perché quei fenomeni non si
verificano di frequente e non costituiscono problematiche di rilevanza sociale» [27]. In
Corea non si verificano fenomeni come la campagna #MeToo, menzionata in un articolo di
Song Jong Ho sul Pyongyang Times del 9 marzo scorso, che sottolinea con gusto le
contraddizioni di un Occidente in cui il femminismo è destinato a rimanere uno sterile
«wishful thinking», incapace di offrire alle donne una vera emancipazione, malgrado
l’unanime sostegno delle istituzioni, dei media e del mondo accademico [28].

In compenso, abbandonato il focolare domestico, le donne sono entrate appieno nei


circuiti dello sfruttamento e del consumismo, le relazioni affettive e sessuali sono asservite
al denaro e ai volubili capricci dell’egoismo, lo stile di vita frivolo e decadente ha corroso e
sciupato le tradizionali qualità femminili, i rapporti fra i sessi sono precari come posti di
lavoro e il saldo demografico è compromesso. La superiorità del socialismo si coglie
proprio nello stridente contrasto con le donne nordcoreane, delle quali il presidente della
KFA ci ha fornito uno splendido ritratto che funge da chiusura ideale per la nostra
rassegna: «[…] potrei descrivere la donna coreana come soffice quanto la seta ma anche
rigida quanto l’acciaio. Hanno un carattere molto delicato, molto gentile, molto ospitale…
Sono davvero come porcellana, sembrano ragazze di porcellana, vero? Ma poi, quando si
tratta di correre dei rischi, quando si tratta di prendere un piccone e spaccare la pietra o di
impugnare un lanciagranate, sono disposte a farlo in qualunque momento. Così hanno
questo duplice profilo, che è molto curioso perché normalmente una donna o ragazza
dotata di personalità più forte del solito la manifesta. Ma non in Corea. In Corea dolcezza e
cortesia totali verso l’esterno si accompagnano a grande robustezza e ad una spiritualità
molto forte, dove l’ideologia è ciò che conta. Per una donna coreana non l’aspetto fisico o
il denaro, come nella maggioranza dei paesi capitalistici, bensì l’ideologia è la cosa più
importante» [29].

Note

[1] K. Marx-F. Engels, Opere, vol. IV, Editori Riuniti, Roma, 1972, p. 375.

[2] F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Editori Riuniti,
Roma, 1963, p. 109.

[3] V. I. Lenin, Opere complete, vol. XXXV, Edizioni Rinascita, Roma, 1955, p. 119.

[4] Riportato in C. Zetkin, Lenin e il movimento femminile, 1925: www.marxists.org/italiano/


zetkin/lenin.htm.

[5] Legislazione internazionale: leggi, decreti, progetti di legge, Istituto di studi legislativi,
Roma, 1937, p. 265.

[6] Pubblicato ne Lo Stato operaio, voll. XII-XIII, 1938-39, Feltrinelli Reprint, Milano, 1966, p.
356.
[7] In G. Vinay, Storia della musica, vol. X, parte 1, Edizioni di Torino, 1978, pp. 154-155.

[8] Disponibile online in italiano: www.pmli.it/articoli/2017/20171018_...riapartito.html.

[9] Cit. in C. Carpinelli, Donne e famiglia nella Russia Sovietica dagli anni Venti agli anni
Quaranta: www.resistenze.org/sito/te/cu/ur/cuut3n21.htm. Vedi la medesima fonte per le
notizie generali sulla politica famigliare sovietica.

[10 ]Cit. in M. Tsuzmer, Soviet War News, n. 6, novembre 1943, p. 8.

[11 ]Biografia di Kim Jong Suk, Edizioni in lingue estere, Pyongyang, 2002, pp. 274-276.

[12] Ibid., pp. 322-323.

[13] Kim Jong Il, Per la formazione d’un maggior numero di quadri femminili, Edizioni in
lingue estere, Pyongyang, 1988, p. 2.

[14] Kim Il Sung, Opere scelte, vol. III, Edizioni in lingue estere, Pyongyang, 1971, pp.
254-255.

[15] Kim Jong Il, Opere scelte, vol. IX, Edizioni in lingue estere, Pyongyang, 1997, p. 63.
[16] Informazioni tratte dal dossier La Corea contemporanea, redatto dalla KFA –
Italia: https://web.archive.org/web/20120128121849...age2/page2.html.

[17] https://www.corriere.it/esteri/17_giugno_2...4bfb-bc_4.shtml.

[18] Kim Il Sung, Attraverso il secolo, vol. III, Edizioni in lingue estere, Pyongyang, 1993, pp.
337-338.

[19] Jo Song Baek, La filosofia della leadership di Kim Jong Il, Edizioni in lingue estere,
Pyongyang, 1999, pp. 189, 183.

[20] Kim Jong Un, Intensifichiamo ulteriormente il lavoro dell’Unione delle donne sotto la
bandiera della trasformazione di tutta la società sulla base del kimilsungismo-
kimjongilismo, Edizioni in lingue estere, Pyongyang, 2017, pp. 11-13.

[21] Rodong Sinmun: la corruzione morale è un prodotto inevitabile della società


capitalistica, KCNA, 18 novembre 2016.

[22] www.ryongnamsan.edu.kp/univ/success/social/part/47

[23] Cfr. https://web.archive.org/web/20120128142859...e17.html#link18.
[24] Intervista a Infovaticana, 16 marzo 2015: https://infovaticana.com/2015/03/16/
entrevista-cao-de-benos/.

[25] Cfr. Kim Jong Il, Opere scelte, vol. XV, Edizioni in lingue estere, Pyongyang, 2014, p.
296.

[26] Davide Rossi, Pyongyang, l’altra Corea, Edizioni Mimesis, Milano, 2012, pp. 71-72.

[27] http://www.ohchr.org/EN/NewsEvents/Pages/D...=22373&LangID=E.

[28] https://kcnawatch.co/newstream/1520596839-...t-around-world/.

[29] Intervista a Berlunes, 27 maggio 2014: http://berlunes.com/entrevista-alejandro-cao-


benos.

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