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A CENA CON DARWIN

Cap. 1: Un invito a cena

Alla domanda: Cos’hanno in comune latte, uova e farina?


Abbiamo due possibili risposte: la prima che ci darebbe un cuoco, ovvero i tre ingredienti
fondamentali per preparare i pancake. Oppure possiamo dire che questi tre ingredienti
sono frutto dell’evoluzione per rispondere alla necessità degli organismi di nutrire la prole.

Parlando più in generale possiamo a ermare che, dietro ad ogni singolo prodotto
presente negli sca ali c’è un processo evolutivo che ci ha permesso di ottenere gli
alimenti così come li vediamo oggi. Il padre delle teorie sull’evoluzione è Darwin, tra
queste troviamo la teoria sulla selezione naturale, ovvero: ‘In natura tutto è soggetto a
variazioni, una parte delle quali è ereditaria. Questa selezione naturale è una sorta di
processo evolutivo graduale, cieco e privo di intenzioni ed obiettivi’.

Darwin aveva anche notato un’analogia tra la selezione naturale e il processo di selezione
arti ciale usato dall’uomo per produrre nuove varietà. Noi oggi siamo così convinti di
poterci opporre all’evoluzione grazie alle variazioni introdotte in piante e animali che ci
permettono di ottenere ciò che vogliamo, ma in realtà stiamo collaborando con
l’evoluzione stessa.

Andando ad analizzare singolarmente i componenti della ricetta dei pancake; troviamo


come prime le uova. Queste sono un alimento versatile in cucina sotto il punto di vista
nutrizionale completo (perché contiene tutti i nutrienti fondamentali per far sviluppare il
pulcino). Alla classica domanda ‘è nato prima l’uovo o la gallina?’ Possiamo dire che
attraverso un processo evolutivo si sono sviluppate prima le galline. Grazie al
ritrovamento di fossili ben conservati abbiamo scoperto essere discendenti moderni della
famiglia dei Tyrannosaurus Rex. Nella storia evolutiva della vita, l’uovo protetto da un
guscio minerale come lo conosciamo oggi, è stata un invenzione dei rettili. I primi animali
a compiere la transizione dagli oceani alla terra ferma furono gli an bi, il loro problema
stava nella conformazione delle uova, che essendo di natura gelatinosa, non avevano
nessun tipo di meccanismo che impedisse loro di disidratarsi all’aria. Grazie all’evoluzione
dell’amnios (il sacco amniotico), seguita dall’aggiunta di un involucro a prova di
essiccazione e che permetteva inoltre di contenere grandi quantità di nutrimento, fu la
soluzione al problema della riproduzione fuori dall’acqua.

Passando ad analizzare la farina (più precisamente l’origine dei semi), risale a 360 milioni
di anni fa. Il processo evolutivo assomiglia molto a quello dell’amnios delle uova, portò
anche in questo caso alla comparsa di un involucro esterno a prova di essiccamento, al
cui interno era presenta una grande quantità di nutrienti per l’embrione.

Il terzo e ultimo ingrediente dei pancake è il latte, questa sostanza viene prodotta da tutti i
mammiferi terrestri in quantità diverse. In passato la storia evolutiva dei mammiferi era
conosciuta solo a grandi linee, ma col passare del tempo siamo riusciti a leggere e
confrontare genomi di specie diverse. Oggi sappiamo che un genoma è paragonabile ad
un ‘libro di ricette’ che contiene tutte le istruzioni di cui la cellula ha bisogno. Il genoma è
scritto da un alfabeto chimico formato da acidi nucleici (solo 4 lettere) e la loro
combinazione in una sequenza di DNA permette di scrivere una ‘ricetta’ usata dalle
cellule per la sintesi di proteine di ogni tipo. Ogni ricetta quindi corrisponde ad un gene.

I genomi non contengono solo geni attivi ma anche pseudogeni, sono una sorta di
fantasmi non più usati ma comunque copiati nelle ‘nuove edizioni del libro di ricette' ad
ogni nuova generazione. I geni attivi sono copiati fedelmente correggendo gli eventuali
errori, mentre la selezione naturale elimina tutti gli errori fatali facendone morire i portatori
prima che possano trasmetterli alla prole. Nel caso dei geni inattivi invece, gli errori di
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copiatura non in uenzano i processi fondamentali per la sopravvivenza o riproduzione,
possono accumularsi rendendo gradualmente la sequenza genica sempre più priva di
senso. Da un confronto tra il genoma del pollo e quello dell'ornitorinco è emerso che, un
gene codi cante per una delle proteine del tuorlo dell’uovo del pollo è ancora attivo
nell’ornitorinco. Questa è una chiara testimonianza della transizione che trasforma i
mammiferi da animali ovipari ad animali vivipari.

Cap. 2: Un animale che cucina

L’idea che sia la capacità di cucinare a renderci umani non è nuova, nel 1785 Boswell
diede una de nizione: ‘l’uomo è un animale che sa cucinare’.

Questa capacità è fondamentale per la nostra specie, l’abitudine si è sviluppata a partire


dalle nostre ‘antenate’ scimmie che avevano sostanzialmente una dieta vegetariana
composta da frutta e foglie, con la successiva comparsa degli scimpanzé comparve nella
dieta anche la carne, perché sporadicamente andavano a cacciare qualche animale
selvatico. Gli scimpanzé non sapevano però cucinare, di conseguenza questa capacità si
è evoluta gradualmente dalla nutrizione vegetariana/vegana.

A pensarci bene, siamo l’ultima specie umana sopravvissuta in un mondo che un tempo
ne conteneva anche altre, tutte insieme vanno a costituire la tribù degli ominidi. Darwin
dedusse che le nostre origini fossero africane, questa tesi venne confermata anche dal
ritrovamento di molti fossili che, con le tecnologie moderne ci hanno permesso di andare
a ricostruire una sorta di albero genealogico, confrontando successivamente i vari DNA
siamo riusciti a studiare le varie mutazioni del codice genetico.

Quando Darwin pubblico nel 1871 ‘l’origine dell’uomo e la selezione sessuale’ non era
altro che un libro vuoto e con uno specchio sulla copertina, questo per far capire come
all’epoca non si fosse realmente a conoscenza di tutte le specie vissute no a quel
momento.

Per ripercorrere tutte le specie di ominidi che hanno vissuto sul nostro pianeta, possiamo
rappresentare gli eventi come una sorta di ‘Gran dìa de muertos’ e andare di volta in volta
a presentare i vari invitati, facendone una piccola descrizione.

La prima ad essere presentata è Lucy, proviene dall’Africa orientale ed appartiene alla


specie Australopithecus afarensis, è vissuta tra 3,8 e 2,95 milioni di anni fa, era di
dimensioni paragonabili a quelle di uno scimpanzé ed è stata la prima specie capace di
camminare in posizione eretta e di arrampicarsi. Aveva una dieta per la maggior parte
vegetariana, questo è stato riscontrato da residui di toliti (piccoli granelli di silice presenti
nella struttura delle foglie), se mangiati si possono attaccare ai denti. Analizzando i denti
siamo stati in grado di avere maggiori informazioni su come si nutriva Lucy.

Prove a sostegno della presenza di ominidi carnivori sono le ossa delle loro prede
segnate dalle incisioni degli utensili in pietra, i primi resti ritrovati hanno 3,39 milioni di
anni e, a quanto pare gli Astralopithecus erano in grado di lavorare e rosicchiare la carne.

Nel 2015 sulle sponde del lago Turkana in Kenya è stato scoperto un sito paleo-
archeologico in cui sono stati rinvenuti utensili in pietra, risalenti circa a 3.3 milioni di anni
fa. Senza spostarsi molto dall’Africa Orientale, sappiamo che gli ominidi vissuti in Etiopia
2.5 milioni di anni fa sapevano eviscerare, s lettare, squartare e scuoiare animali di grandi
dimensioni.

Tornando alla cena e dovendo assegnare i posti a tavola per ordine di anzianità, dopo
Lucy il posto potrebbe essere preso da Homo Habilis ‘il tuttofare’. H. Habilis è vissuto
2.3 milioni di anni fa, dagli studi è risultato che questo ominide aveva una mandibola più
simile a quella di Australopithecus Afarensis, analizzando i suoi denti possiamo dire che
masticava con lo stesso vigore di Lucy.

Gli ominidi divennero umani in un fazzoletto di continente africano percorribile in un paio


di giorni di cammino, ed è proprio qui che iniziarono a macellare e mangiare la carne.

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Tra gli invitati alla cena arriva anche Homo Erectus, è alto circa 1.30 centimetri e porta
con sé un ascia di pietra. I primi Homo Erectus avevano molari di grandi dimensioni,
molto simili a quelli di Homo Abilis e Homo Afarensis. Col passare del tempo però, i denti
si fecero più piccoli adattandosi a cibi molto più morbidi e quindi masticati in metà del
tempo, questo lascia intendere che si specializzò a cucinare gli alimenti. La loro dieta non
era composta esclusivamente da carne. [La carne si può distinguere in magra e grassa; la
carne magra non è una buona fonte di calorie perché il nostro organismo per poter
digerire le proteine, ne deve trasformare una parte in glucosio (è un processo che
consuma energia) ed è un processo ine ciente. Nutrirsi solo di carne magra non fornisce
calorie su cienza e per ovviare al problema, chi non dispone di altro tipo di cibo ne
mangerò ancora nel vano tentativo di placare la fame. Il risultato è un’avvelenamento da
proteine che, se consumati in eccesso diventano tossiche, perché il fegato non riuscendo
a smaltire gli aminoacidi in eccesso li trasforma in urea, la quale viene rimossa dal sangue
dai reni. Se diventa troppa i reni vanno in crisi si rischiano seri problemi alla salute].

La fauna selvatica della savana africana in cui si è evoluto Homo Erectus comprendeva
solo carne molto magra, la dieta era principalmente vegetariana, non potendo sostenere
una dieta composta esclusivamente da carne, è probabile che la loro principale fonte di
energia fosse la stessa dei loro antenati, composta per la maggior parte da carboidrati di
origine vegetale.

Dopo una serie di studi siamo stati in grado di stabilire che i nostri antenati ricavassero i
carboidrati dagli ‘organi’ sotterranei in cui le piante immagazzinano le riserve energetiche,
ad esempio sullo smalto dei denti di Australopithecus Bahrelghazali (specie vissuta
sulle rive del Lago Ciad) ricavava no all’85% del suo fabbisogno energetico da carici e
altre erbe tropicali. I tuberi dei carici, in particolare dello zigolo dolce, appartengono
tutt’ora alla dieta di uomini e babbuini. Questi tuberi presentavano una buccia molto
coriacea e di per sé rappresentavano un problema per quanto riguarda la masticazione, è
possibile che gli utensili in pietra scheggiata fossero anche utilizzati per pelare questi
tuberi.

Homo Erectus era il più cosmopolita, lasciò l’Africa più di 1.7 milioni di anni fa, abbiamo
rinvenuto dei resti a Damnisi, confermandoci che Homo Erectus penetrò in Eurasia poco
dopo essersi evoluto dai suoi progenitori africani.

Homo erectus era onnivoro, i suoi resti molto spesso erano rinvenuti assieme a quelli di
elefanti, erano animali importantissimi all’epoca per la loro carne, per il grasso, le zanne in
avorio e per le ossa usate per la produzione di utensili. Erano così essenziali che quando
400.000 anni fa scomparvero da mediterraneo orientale, accadde lo stesso per H.
Erectus.

Il primatologo Richard Wrangham dell’università di Harvard sostiene che la cottura


sarebbe stata determinante nell’evoluzione di un Homo Erectus dal cervello più grande
(secondo lui fu la prima specie a cucinare 1.5 milioni di anni fa). Confrontando Homo
erectus e noi si può osservare la somiglianza di molti aspetti; entrambi con bocche
piccole, mandibole deboli, denti piccoli, stomaci piccoli, colon più corti e un intestino più
breve. Questi sono adattamenti al cibo morbido e altamente energico di una dieta varia a
base di alimenti cotti. Oggi sarebbe impossibile sopravvivere ad una dieta basata solo su
alimenti vegetali crudi come quella dei primati, per il fatto di non riuscire a digerire quelle
grandi quantità di bre vegetali andremmo incontro ad una perdita insostenibile di peso.

Dalla genetica sappiamo che più di 2 milioni di anni fa la linea evolutiva umana perse un
gene (MHY16) che nei primati negli umani dava forza ai muscoli della mandibola. Il
passaggio da un’alimentazione basata solamente su cibi crudi a cibi cotti non ha una
data ben precisa, il perché del passaggio invece è molto più chiaro, il motivo sta dietro al
fatto che gli alimenti cotti siano innanzitutto più energetici, più sicuri dal punto di vista
microbiologico e riesco ad inattivare una serie di composti tossici presenti negli alimenti

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che andrebbero a nuocere sulla salute di chi li consuma crudi. Con i cibi cotti risulta più
facile la masticazione, se prima con gli alimenti crudi serviva una forza notevole per
poterli masticare, da cotti non c’è più bisogno.

Sempre secondo Wrangham, cuocere il cibo ci ha resi umani perché ci ha permesso di


dare energia necessaria per alimentare un cervello di grandi dimensioni. La
trasformazione che più di ogni altra cosa ha segnato il corso dell’evoluzione umana è
proprio l’aumento costante delle dimensioni del cervello negli ultimi 2 milioni di anni. Un
cervello grande e sveglio rese possibile la comparsa di facoltà esclusivamente umane
come il linguaggio complesso, il ragionamento astratto e tutto quello che ne è derivato.

Come accennato in precedenza, nel corso dell’evoluzione della specie umana, il nostro
intestino, si è rimpicciolito più o meno nello stesso periodo in cui il cervello è diventato
più grande.

Tornando alla presentazione degli ospiti, abbiamo l’Homo Heidelbergensis; ominide alto
e robusto, porta sempre con sé la sua lancia lunga 2 metri con su una punto ben scolpita.
Discende da un ramo dell’Homo Erectus ma a di erenza di questo ha un aspetto più
moderno e un cervello più grande del 30%. È apparso circa 700.000 anni fa, ed è il frutto
evolutivo caratterizzato da un aumento del volume del cervello durato un milione di anni o
forse di più. I primi resti di questo ominide furono scoperti a Heidelberg in Germania.

H.Heidelbergensis è in assoluto il primo ominide che con certezza fosse capace di


accendere un fuoco ogni volta che ne aveva bisogno. In quell’epoca gli ominidi si
dedicavano principalmente alla caccia e alla macellazione dei cavalli, l’uccisione di un
cavallo infatti poteva sfamare un gruppo di 20-30 persone per due settimane circa, ed è
possibile che i pasti fossero accompagnati dai frutti di piante selvatiche locali (nocciole,
ghiande e lamponi).

Ritornando alla cena, due ospiti che a di erenza degli altri non hanno origini africane ma
discendono dall’emigrante Homo Heidelbergensis sono: L’uomo di Denisova e l’Homo
neanderthalensis.

L’uomo di Denisova è stato scoperto recentemente (2010), dal sequenziamento


genomico è emerso che in alcune popolazioni umane attuali si celano geni denisoviani,
abbiamo anche indizi rivelatori che dimostrano l’incontro avvenuto più di 50.000 anni fa
tra L’uomo di Denisova e la nostra specie.

L’Homo Neanderthalensis invece è originario dell’emisfero settentrionale, si erano


adattati ad un clima freddo e ad inverni lunghi. Visse in Europa no ad almeno 40.000
anni fa, la sua estinzione non ne ha cancellato le tracce. Geni neandertaliani sono presenti
in tutte le popolazioni umane all’infuori di quelle africane. Le principali fonti di informazioni
che abbiamo sulla dieta dell’uomo di Neandertal sono tre: i resti di cibo intrappolati nei
depositi di tartaro sui denti, le ossa e gli scarti lasciati sul bordo del piatto. L’abbondanza
di resti animali nelle grotte abitate dai neandertaliani è tale da condurre alla conclusione
ovvia che si nutrissero principalmente della carne di animali di grossa taglia. Dopo una
serie di analisi si è visto come la carne occupasse un grande parte nella dieta, ma che
veniva consumata anche verdura.

[É probabile che circa 5 milioni di anni fa i nostri antenati fossero vegetariani, 3,3 milioni di
anni fa avevano imparato a fabbricare utensili in pietra e a mangiare carne. 1 milione di
anni fa, se non prima cuocevano il cibo.]

Cap. 3: A spasso sulla spiaggia in cerca di frutti di mare

Nel 1440 l’autore (anonimo) di ‘Boke of kokery’, libro di cucina medievale, riporta la ricetta
di un piatto di cozze un pò come la leggeremmo oggi sui moderni ricettari.

Cotte o crude fanno parte della nostra alimentazione da almeno 165.000 anni fa, anche i
neandertaliani se ne cibavano, le strade che hanno percorso sono piene di mucchi vuoti
di conchiglie.

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Il cumulo di conchiglie più antico risale a 165 000 anni fa, risale al paleolitico medio e si
trova in Africa, più precisamente in una grotta che si a accia all’Oceano Indiano. Dai
‘ri uti’ lasciati abbiamo notato che si cibavano principalmente di alcune varietà di: cozze,
patelle e lumache di mare.

Molti gusci di cozze ritrovati nelle grotte neandertaliane presentano bruciature sulla
super cie esterna che fa pensare a una loro cottura diretta sul fuoco.

L’antropologo Curtis Marean, scopritore del sito archeologico, scrisse di non essersi
imbattuto per caso nel luogo della scoperta, ma di esserci arrivato sapendo che poche
decine di migliaia di anni dopo la nascita della nostra specie avvenuta in Africa circa
195.000 anni fa, un drastico ra reddamento e inaridimento del clima di gran parte del
continente che lo rese troppo inospitale per sopravvivenza dell’uomo. Seguì una
glaciazione che provocò un collasso della popolazione, e il cui impatto genetico ancora
visibile sui genomi moderni. Questo fa supporre che il numero di individui in grado di
procreare calò drasticamente, l’unica soluzione possibile è che dovevano aver trovato
rifugio nella regione sudafricana del capo che gode di un clima mite grazie agli oceani che
li bagnano. Avrebbero avuto a disposizione due fonti di cibo immuni al clima freddo e
secco ed erano: il pesce, i frutti di mare ed i numerosi bulbi delle piante. Oggi livello del
mare è molto più alto di 165.000 anni fa, e sempre secondo Marean la maggior parte delle
prove archeologiche della presenza umana nell'area sono sepolte nei sedimenti del Mar
Rosso al largo delle coste Eritree, dove sono state ritrovate centinaia di utensili in pietra
imprigionati nel corallo cresciuto in seguito l'innalzamento del livello del mare (i reperti
risalgono a circa 125.000 anni fa). La costa del Mar Rosso è stata la sala d'attesa del
viaggio che ha portato l'uomo lontano dall'Africa. L’Homo Sapiens rimase con nata nel
continente africano per altri 50.000-60.000 anni dopo le cene a base di frutti di mare.

La nostra prima partenza valida dall'Africa viene circa 72.000 anni fa, e si trattò di una
migrazione costiera con una dieta a base di frutti di mare. La rotta passo attraverso
l'imboccatura meridionale del Mar Rosso per proseguire lungo la costa della penisola
arabica e raggiunge l'India. La migrazione fu la singolarità da cui prese il via la di usione
della nostra specie su tutto il pianeta. Abbiamo la certezza perché si tratta di
un'informazione memorizzata nei nostri geni, più ci allontaniamo dall'Africa e più si riduce
la diversità genetica moderna rispetto a quella originale, e questo fa supporre che ogni
tappa della migrazione vide piccoli gruppi di individui separarsi, viaggiare, accamparsi e
creare nuovi insediamenti da cui a loro volta nirono per staccarsi di gruppetti ogni volta
che il numero di persone stanziali superare una certa soglia. Il viaggio iniziato con la
migrazione dell'Africa circa 72.000 anni fa proseguì perlopiù lungo le coste. Dall'India
raggiungemmo il continente australiano avvenuto più o meno 45.000 anni fa dai dati
genetici sappiamo che nel corso del cammino lungo le coste, gruppi di individui si
separarono dagli altri intervalli regolari per avventurarsi nell'entroterra. I discendenti di uno
di questi gruppi misero piede per la prima volta in Europa tra 45 e 50 mila anni fa.
L'entroterra asiatico fu colonizzato 40.000 anni fa da nuove ondate migratorie che
portarono i nostri antenati a lasciare le coste dell'estremo oriente per penetrare
nell'interno e riprendere la strada verso l'Occidente, diventando così primi viaggiatori per
quel cammino che un giorno avrebbe unito la Cina e l'Europa: creando la via della seta.
Dall'anello del Paci co proseguì verso nord circa 16.000 anni fa raggiungendo la Siberia, i
ghiacci ricoprivano ancora il continente ma non le regioni costiere, consentendo il
passaggio verso l'America nord-occidentale. Tutti i nativi americani dell'Alaska e del Cile
discendono dei primi colonizzatori che giunsero dall'Asia attraverso il corridoio
settentrionale. Altri seguirono la costa del Paci co, raggiungendo il Cile più di 14.600 anni
fa.

La migrazione lungo la costa del Paci co si concluse nella terra del fuoco, estremità
meridionale del continente sudamericano, raggiunta probabilmente circa 10.000 anni fa.
Da un'esplorazione al centro del canale di Beagle, è emerso che i cumuli di conchiglie
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sono ovunque si possa arrivare con una canoa. I gusci appartengono perlopiù a varie
specie di cozze, i mucchi più grossi raggiungono un'altezza di 3 metri e con estensione di
50. Nella storia del genere umano, popolazioni costiere di raccoglitori sono sopravvissute
nei momenti più duri, quando eravamo ancora in Africa, e nei 60 mila anni successivi
prima dell'avvento della coltura.

Cap. 4: Il pane e la domesticazione

La prima volta che l'uomo fece il pane fu una novità assoluta perché, era nato il primo
cibo lavorato. È estremamente essenziale che il termine pane ha nito per diventare il
sinonimo di cibo.

Possiamo dire con certezza che le e piramidi egiziane, grandi città greche, romane furono
‘edi cate’ con la pietra e con il grano.

L’essiccazione conserva particolarmente bene gli gli alimenti e gli altri materiali organici
perché i microbi che li fanno andare a male e non possono vivere senza umidità. Il clima
arido del deserto egiziano ci ha restituito centinaia di pagnotte deposte tra 3000-4000
mila anni fa nelle tombe della famiglia reale per il banchetto dell’aldilà. La farina usata
dagli egizi era di una specie di grano macinata con l'aggiunta di farro e occasionalmente
di frutta. La coltivazione del farro è meno di usa, da questo discendono due principali
varietà di grano moderno: grano duro e grano tenero (evolutosi da un incrocio tra il farro
domesticato e una specie selvatica di erba delle capre). Dagli scavi archeologici abbiamo
scoperto che il pane veniva mangiato anche dagli operai e non solo da maestranze. In
ognuna delle piccole abitazioni dei villaggi c'era tutto il necessario per macinare e far
cuocere il pane. Inoltre, l’economia dell'antico Egitto si basava sul baratto, il valore si
misurava in termini di volumi di grano e della quantità di pane e birra che se ne poteva
produrre. Agli operai spettava una quantità irrisoria (giusto per poter sopravvivere), agli alti
dignitari veniva data una quantità talmente grande di grano che nessuno sarebbe riuscito
a nirla.

Nella fase di macinazione con la pietra, i granelli di rocce rilasciati dal granito grezzo delle
macine nivano nella farina e nel pane, che avevano e etti visibili nei denti, nelle mummie
egizie i denti risultavano estremamente usurati.

La coltura iniziò tra 11.000-12.000 anni fa nell'Asia sud occidentale, le primissime tracce
sono state scoperte in Turchia nel sud-est dell’Anatolia.

Le attività agricole si sono di use rapidamente nella regione nota come mezzaluna fertile.
Dal ritrovamento di tavolette di cera risalenti a circa 4000 anni fa sappiamo che in
Mesopotamia esistevano 200 tipi di pane che di erivano per il tipo di farina usata, gli
ingredienti che gli venivano aggiunti, la tecnica di impasto, la cottura e la presentazione
del prodotto nito. La prima pianta addomesticata per la coltivazione fu probabilmente il
farro, cui però si aggiunsero presto altre otto o nove e colture. Le principali coltivazioni
della mezzaluna fertile erano il farro, l'orzo, lenticchie, il pisello il cece, il lino e forse la
fava (che ancora oggi ha origini sconosciute).

Può sembrare una coincidenza strana che così tante specie selvatiche adatte alla
coltivazione si siano trovate nello stesso posto, ma c’è una buona ragione evolutiva. Nella
mezza luna fertile le precipitazioni hanno carattere stagionale e incerto, un clima secco
associato a piove irregolari favorisce l’evoluzione di tre caratteristiche che rendono le
piante selvatiche particolarmente adatte a fare la materia prima per le culture
domesticate: la prima è la vita breve, una pianta annuale cresce matura rapidamente
producendo semi in abbondanza prima di morire per il caldo arido della stagione estiva.
Sono pratiche da coltivare, da raccogliere e hanno una una resa particolarmente
generosa, questo perché avendo una sola chance per potersi riprodurre, investono una
frazione maggiore di energia disponibile nella produzione di semi rispetto alle piante
perenni. La terza caratteristica è la dimensione relativamente grande dei loro semi. Un

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clima secco favorisce l’evoluzione di semi gradi perché la plantula prodotta dalla
germinazione del seme può sopravvivere solo sviluppando una radice che assicurerà
l’acqua necessaria allo sviluppo della pianta.

Harlan, un decano americano si reco in Anatolia e fece un esperimento, questo


consisteva nel falciare quanto più grano con la falcetta in un giorno. Fece una stima
approssimativa e si chiese perché necessitavamo di coltivare le piante al posto di
utilizzare tutte quelle selvatiche che crescevano spontaneamente. La risposta alla
domanda oggi è molto facile, le piante selvatiche furono per lungo tempo su cienti, il che
spiegherebbe come mai dati archeologici indicano che la domestica azione dei cereali
richiese migliaia di anni. Col tempo però, la popolazione umana crebbe così tanto che la
domesticazione e l'agricoltura divennero una necessità.

Dai siti archeologici sono emerse numerose testimonianze su come iniziammo a


raccogliere i semi di piante selvatiche per mangiarli e su come passammo a coltivarli e
modi carli attraverso un processo di selezione arti ciale. La selezione naturale ha dotato
ogni specie di un mezzo per disperdere la propria discendenza e migliorare così le
prospettive di sopravvivenza e di riproduzione. Quando le piante vengono domesticate e
cominciano ad essere coltivate, le modalità di dispersione cambiano. Col tempo tuttavia
la selezione arti ciale portò un aumento della frequenza di geni che impedivano alle
spighe di disperdere i semi. Quando si ha a che fare con le spighe del genere la raccolta
dei semi richiedere l’uso di forza meccanica. La prova della domesticazione dei cereali
dunque, è la presenza di una percentuale elevata di frammenti di spiga dai bordi irregolari,
visibili con una semplice lente d'ingrandimento.

Il piccolo farro selvatico è e ettivamente il primo cereale che compare negli scavi
archeologici con i segni inconfondibile della nita domesticazione. Nella mezzaluna fertile
si è scoperte che a Cayun 10.000 anni fa si coltivavano varietà di farro con i chicchi che
erano relativamente piccoli e molto simile a quello delle piante selvatiche.

Esistono però anche altre caratteristiche che vengono selezionate nel processo di
domesticazione di una cultura, nendo per non distinguerla dal progenitore selvatico:
maggiore dimensioni di semina e dormienza ridotta.

La di usione dell'agricoltura le culture domestiche dovettero adattarsi a nuove condizioni


climatiche.

Tra 500.00 e 800.000 anni fa quando dall'ibridazione tra un grano selvatico una specie di
erba delle capre creando il farro selvatico.

Sia la selezione naturale che quella arti ciale utilizzano variabilità genetica come materia
prima e nuove forme di vita. L’origine fondamentale della variabilità genetica è la
mutazione, l'errore casuale che accade perlopiù durante la copia del DNA. Gli
adattamenti locali di una cultura sono come le versioni locali di una lingua, che
contengono parole nuove (geni nuovi) utilizzabili al di fuori del loro luogo di origine, le
varietà locali della cultura sono come i singoli dialetti della lingua: oltre a subire una
selezione arti ciale mirata a soddisfare i gusti dei coltivatori, sono soggetti a migliaia di
anni di selezione naturale che le ha adattate al clima locale e le ha rese resistenti alle
malattie endemiche.

Adattarsi è una questione di vita o di morte per le culture (ma anche per noi).

Normalmente la quantità di cibo a disposizione della specie umana ebbe anche l'e etto di
legare la nostra sopravvivenza la salute delle colture, i cereali e le altre sementi si
conservano così bene proprio perché è il ruolo che la selezione naturale le ha segnato nel
ciclo di vita delle piante. Le malattie provocate dei funghi della ruggine sono una delle
minacce più gravi per la cerealicoltura perché i funghi in questione hanno cicli di vita brevi
che consentono un'evoluzione rapida e per la facilità con cui le loro minuscole spore
vengono disperse nel vento.

Il maggior contributo all'arricchimento del granaio globale è stato senza dubbio quello
dell'agronomo e botanico russo Nicolas Ivanov Vavilov (1887-1943), dopo la laurea si
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dedicò allo studio delle malattie delle culture che praticamente tormentarono la Russia.
Dopo lo scoppio della prima guerra mondiale iniziò un'attività instancabile di raccolta di
campioni, ricerche e di viaggi durata circa trent’anni e appena poteva mandava i campioni
e gli appunti a Leningrado. Alla ne degli anni ’30 la collezione comprendeva almeno
200.000 esemplari tra cui 30.000 varietà di grano che venivano coltivate non lontano dal
suo istituto. Alla ne degli anni 30 scrisse ‘cinque continenti’, un libro in cui avrebbe
raccontato le sue avventure alla ricerca di piante per la sua collezione, non riuscì a
pubblicarlo a causa delle limitazioni del governo.

La diversità genetica racchiusa in collezioni di sementi come quella creata da Vavilov ha


permesso di estendere alcune culture ad aree critiche in cui i loro progenitori selvatici non
avrebbero mai tollerato.

Diversi esempi che spiegano le diverse domesticaizoni dei cereali ottenute grazie al
contributo di Vavilov, ad esempio l’origine della segale, pianta infestante dei campi di
grano e che a forza di mettere insieme le due specie e di usare la segale dove il grano
cresceva male, se n’è ottenuta la domesticazione.

La seconda è una cultura molto più resistente del grano tenero che si adatta meglio ai
terreni poveri e climi freddi, può essere coltivata addirittura al circolo polare artico. I suoi
chicchi hanno un elevato contenuto proteico e contengono un tipo insolito di carboidrati,
gli arabinoxilani. Questi sono in grado di assorbire grandi quantità di acqua che in natura
facilita la germinazione del chicco e durante la cottura conferisce la farina di segale la
capacità di assorbire dell'acqua quadrupla rispetto alla farina di grano.

Il processo di domestica azione delle culture indusse cambiamenti evolutivi fondamentali


non solo nelle specie coltivate ma anche in maniera diretta in diretta nella nostra stessa
specie. L'impatto sulla società umane in e etti fu così profondo da spingere lo storico
australiano Gordon Child a scrivere un libro negli anni 30 in cui descriveva l'evento
avvenuto nel neolitico tra 10-12 mila anni fa come una vera e propria rivoluzione:
l’agricoltura. L'avvento dell'agricoltura aveva portato all'abbondanza alimentare ma non si
può dire che per i primi contadini della mezzaluna fertile l'adozione di una dieta ricca di
amido fosse particolarmente salutare. La nostra saliva contiene no al 50% di ⲁ-amilasi,
questo enzima scinde l'amido in zuccheri (% di ⲁ-amilasi varia da individuo all’altro). Il
pane quotidiano, cibo che molti danno per scontato, ha una storia lunga 12.000 anni.
L’agricoltura inoltre ci ha regalato il piacere di contemplare la natura di scoprire le leggi
osservando gli e etti della domestica azione sulle piante e sugli animali.

Cap. 5: La zuppa- questione di gusti

Charles Darwin si era preso libertà di scrivere in una lettera indirizzata al suo amico
botanico Hooker nel 1871 in cui scrisse che l'origine della vita potesse aver avuto inizio in
qualche piccolo stagno caldo, in presenza di ammoniaca, sali fosforici, luce, calore,
elettricità. In seguito il biologo Holden coniò l'espressione ‘brodo primordiale’.

Il senso del gusto è importante perché ci dice se quello presente nella nostra bocca
contiene sostanze nutrienti o potenzialmente pericolose. Sulla lingua ci sono cinque tipi di
cellule sensoriali che distinguono i diversi stimoli derivanti dai sapori: salato, dolce, aspro,
amaro e umami.

La scoperta dell’umami è avvenuta nel 1909, identi cato da Kikunae Ikeda. È il tipico
gusto che percepiamo come saporito e che è associato alla carne, il pesce e così via, in
giapponese signi ca ‘essenza saporita’.

Ikeda per dimostrarne l’esistenza doveva identi carne la natura chimica. Sapendo che si
trattava necessariamente di una sostanza solubile presente nelle alghe marine, cominciò
dall'analisi chimica di un estratto acquoso di alghe (zuppa). Seguì un laborioso processo
di evaporazione, distillazione, cristallizzazione, precipitazione, per un totale di 38
passaggi, alla ne dei quali si ritrovò con una sostanza granulosa composta cristalli che
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sapevano di brodo di alghe. Ikeda riuscì a dimostrare che i cristalli puri cati non erano
altro che acido glutammico e che il sale di sodio glutammato (monosodico) aveva un
gusto umami più intenso. Aveva così identi cato un quinto componente del nostro
repertorio gustativo. Sul piano teorico Ikeda si interrogò sulle ragioni della nostra
sensibilità all’umami, dal momento che noi percepiamo il gusto anche quando ce n'è una
quantità minima, è perfetto per segnalarci che stiamo mangiando un cibo nutriente. Il
piacere che proviamo nel consumare l’umami potrebbe essere il modo con cui la
selezione naturale sia sicura che stiamo mangiando la cosa giusta.

Le alghe contengono molto glutammato monosodico per una ragione biologica,


crescendo nel mare, le pareti delle cellule sono semi permeabili facendo sì che avvenga
un processo di tipo osmotico e, il glutammato monosodico contenuto nelle cellule
aiuterebbe e equilibrare la di erenza di concentrazione tra l'acqua del mare impedendone
la disidratazione e il collasso. La granulosità di un buon parmigiano è dovuta ai cristalli di
glutammato monosodico che si forma naturalmente nel processo di invecchiamento, gli
ingredienti animali del brodo sono la fonte principale di glutammato, la componente
nucleotidica fondamentale per il gusto umami può essere fornita dal linosinato anche
questo di origine animale.

Abbiamo avuto l'umami per tutto questo tempo ma ci sono voluti 10 anni prima che la
sua esistenza (come quinto gusto) venisse riconosciuta al di fuori del Giappone, il motivo
potrebbe essere la somiglianza nel gusto con il sale da cucina.

Nei primi anni di questo secolo si è scoperto che nella super cie esterna di alcune cellule
dei calici gustativi ci sono delle proteine che reagiscono in maniera speci ca al
glutammato o all’inosilato ma non al sole. Queste proteine appartengono a una famiglia di
molecole dette recettori, funzionano come minuscole serrature sulla porta che dà
accesso alla sensazione gustativa. Il recettore può essere sbloccato solo da molecole
dotate della giusta forma e delle proprietà chimiche corrette, il loro arrivo fa partire un
segnale che dice il cervello “umami”. Si tende a vedere le voluzione come un processo
unidirezionale ma la realtà è ben diversa, se le scelte operate dalla selezione naturale
nella miscela casuale di caratteri utili e inutili non sono più vantaggiosa è sempre
possibile tornare indietro. I geni associati a caratteri che nel corso dell'evoluzione hanno
perso la loro funzione tendono ad accumulare mutazioni a trasformarsi in pseudogeni.

Anche il salato come gli altri quattro gusti elementari ha le sue cellule e i suoi recettori
speci ci, quando usiamo il sale da cucina in una soluzione si dissocia in Na+ e Cl-, è il
sodio che entra nelle cellule sensoriali dedicate alla percezione del salato attraverso i
canali della loro membrana esterna.

Studi compiuti sui topi dimostrano che esistono solo due tipi di cellule recettrici sensibili
al sapore salato, una sensibile al sodio poco concentrato che induce un'attrazione per il
sale, l'altra reagisce esclusivamente ad alte concentrazioni di cloruro di sodio ma anche
di altri sali. Non sappiamo se anche gli esseri umani possiedono due tipi di cellule
recettrici per il gusto salato ma è possibile che sia così. In tal caso sarebbe logico parlare
di ‘gradevolmente salato’ e ‘sgradevolmente salato’ come di due gusti separati, il che
porterebbe almeno a sei il numero di gusti elementari.

Abbiamo anche l'amaro che ci porta a fare delle smor e involontarie quando lo
mangiamo, di solito si trova in tutti gli alimenti di origine vegetale. Il gusto amaro della
senape e dei suoi parenti è dato da una classe di sostanze, i glucosinolati (molecole che
difendono la pianta scoraggiando gli insetti che vorrebbero morderla). Un'altra grande
famiglia di sostanza è quella dei avonoidi, apprezzati nel tè, conferiscono una punta di
amaro che può essere smorzato aggiungendo limone o latte. Nei nostri calici gustativi è
presente un solo tipo di cellule recettrici per l'amaro ma la loro super cie può disporre
no a 25 tipi di recettori diversi. Se vogliamo riprendere l'analogia della chiave della
serratura, su una cellula recettrice, associato al gusto amaro esistono 25 serrature
diverse, l'attivazione di una qualunque di esse fa partire il segnale "amaro" in direzione
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del cervello. All'aumentare dei tipi di serratura (molecole) che attivano la risposta “amore”,
aumenta l'e cacia del sistema di allarme e dunque della nostra sicurezza.

L’aspro non è sgradevole e complicato come l’amaro, in cucina ha un ruolo importante, il


gusto degli acidi deboli come l'acido citrico dei limoni e della frutta acerba o l'acido
acetico dell’aceto. Tutti i frutti ancora acerbi hanno un gusto fortemente aspro, questo è
un meccanismo di difesa verso insetti e animali che vorrebbero nutrirsene. Le molecole
acide possono avere forme dimensioni diverse ma condividono una caratteristica: per far
scattare la sensazione gustativa, gli ioni idrogeno (H+) non hanno bisogno di complicati
recettori a serratura come sostanze dolci, amare e umami, è su ciente che entrano nelle
cellule gustative giuste attraverso gli appositi canali della membrana cellulare.
Concentrazioni elevate di acido possono danneggiare le cellule ed è per questo
probabilmente che le percepiamo come fastidiosamente aspre.

Charles Darwin aveva notato che i suoi gli andavano matti per il rabarbaro e l'uva spina,
sapori troppo aspri per i gusti degli adulti, i fabbricanti di dolciumi sfruttarono tale
propensione per creare prodotti molto aspri destinati a quella fascia di età. L'ipotesi è che
l'amore per i cibi aspri non sia un vantaggio ma costituisce un esempio del desiderio di
provare nuovi cibi, è infatti un'età in cui vanno fermandosi le abitudini alimentari future. La
percezione dei sapori è spesso condizionata da fattori genetici individuali, anche se
nell'uomo la variabilità genetica dei due recettori dell'umami sembra ridotta, quella del
gene i TIR2 indica un possibile adattamento alla percezione di sostanze dolci diverse
popolazioni diverse. L'evoluzione ha adottato prestissimo i nostri antenati dei recettori del
gusto per distinguere i sapori buoni da quelli cattivi e programmato per reagire di
conseguenza. È probabile inoltre che ai gusti fondamentali ci si debba aggiungere il
grasso. Di sicuro è saporito, i nostri recettori segnalano al cervello l'ingestione di sostanze
nutritive proteine (umami), carboidrati (dolci), e lipidi (grassi), è ovvio però che recettori del
gusto sono solo una parte la strumentazione sensoriale di cui è dotato l’evoluzione.

Cap. 6: il pesce dopo tre giorni, puzza

Il pesce appena pescato è quasi inodore, con una sfumatura erbacea dovuta all’azione
degli enzimi prodotti dalle cellule dell’animale sugli acidi grassi polinsaturi. I tessuti del
pesce cominciano a decomporsi anche a temperature basse. A lungo andare gli enzimi
rilasciano amminoacidi e acidi nucleici (tra cui umami, gluttamina e inosina). In Giappone
si avvolgono i letti freschi di pesce bianco in alghe marine e gli si lascia riposare in frigo
per un paio di giorni: il pesce assorbe il glutammato dell’alga che insieme all’inosina già
presente nelle carni esalta il gusto umami consentendo di mangiarle come Sashimi.

L’odore di pesce proviene da una molecola di trimetillamina (TMA), prodotta della


riduzione dell’ossido di trimetillamina (TMAO) privo di odore. La TMA si scinde liberando
ammoniaca, il cui odore pungente contribuisce alla ‘puzza di pesce’. Il TMAO svolge nel
pesce la stessa funzione del glutammato monosodico nelle alghe: garantisce l'equilibrio
osmotico con l'acqua salata del mare, impedendole di risucchiare l'acqua contenuta nelle
cellule. I cinque gusti fondamentali non bastano per apprezzare nella sua interezza la
mutevolezza del sapore di pesce perché con tutti i sapori è un'esperienza multisensoriale
che combina i cinque gusti fondamentali con l'olfatto, il tatto, la vista, l'udito e la memoria
per darci un'in nità di esperienze percettive possibili.

Uno dei primi scienziati a cogliere la complementarietà tra gusto e olfatto fu Padre
Poncelet del XVIII secolo che rappresentò i diversi gusti come note sul pentagramma,
paragonando le relazioni ad accordi musicali. L'odore è un componente fondamentale del
sapore e quando l'olfatto viene meno ci troviamo in un mondo insipido. Anche gli odori
come le altre sensazioni sono percepiti nel cervello che è collegato dai nervi a milioni di
cellule recettrici all'interno del naso. Sulla super cie di queste cellule è presente una
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famiglia di proteine, i recettori olfattivi (RO), sensibili solo ad un insieme limitato di
molecole, in maniera analoga per come avviene con il gusto amaro sulla lingua. Ogni
recettore è prodotto da un gene speci co, per le sostanze amare disponiamo di circa 35
recettori distinti, possediamo circa 400 geni che codi cano per altrettante proteine RO.
Dal punto di vista evolutivo ha senso che il sistema di allarme non sia collegato ad una
linea sola ma che la percezione degli odori, che trasportano una quantità di informazioni
molto più ricca e complessa, sfrutto il sistema di comunicazione più ra nato.

Le cellule RO situate in una piccola posizione di membrana all'interno della cavità nasale
sono esposti gli odori provenienti da due direzioni: dall'esterno attraverso le narici e
dall'interno della bocca dove vengono messe in comunicazione fosse nasali con la parte
posteriore del cavo orale la prima direzione è utilizzata per annusare ed è nota come via
ortonasale, mentre la seconda è la via retro nasale e serve a espirare ed è quello che
permette ai composti volatili lasciati dal cibo masticato di di ondersi nel naso no alle
cellule RO. Il risultato è che il cervello non riceve mai segnale da una sola delle 400 linee
ma sempre una combinazione di segnali simultanei da più canali.

Grazie al nostro cervello riusciamo ad elaborare le combinazioni di segnali provenienti da


400 tipi diversi di cellule recettrici e di trasformarli in 1 trilione di odori di erenti, che fa
dell'olfatto un senso molto più acuto della nostra visione cromatica. All'evoluzione piace
giocare con i geni RHO, non solo questi cambiano per tipo e numero da una specie
all'altra ma esibiscono anche un alto grado di variabilità tra individui della medesima
specie.

Con la decomposizione il pesce si fa sempre più puzzolente ma non per forza


immangiabile. Il rank sh specialità norvegese che si ottiene salando il pesce facendolo
fermentare sottoterra per più mesi. Il più antico ricettario romano in nostro possesso è
Apicio scritto da Marco Gavio Apicio, contiene 465 ricette più di tre quarti prevedono
l'uso del garum.

Era prodotto con ingredienti disgustosi: sangue, interiora di sgombri freschi mescolati con
il sale in proporzione 4 a 1 e conservati in recipienti di pietra il cui coperchio, ugualmente
in pietra, garantiva che gli ingredienti rimanessero immersi nel liquidò che ben presto ne
fuoriusciva. Il sale l'assenza di aria, la crescita di batteri e funghi, e la fermentazione che
aveva luogo era dovuto esclusivamente agli enzimi prodotti dalle cellule del pesce stesso.
Dopo mesi di fermentazione sotto il sole si estraeva liquido dei recipienti e lo si
imbottigliava per poi usarlo in cucina. Anche il garum come d’odierna salsa di pesce
doveva essere molto ricca di glutammato e inosinato (ingredienti umami per
antonomasia).

Una delle ragioni del loro gusto più intenso e che le cellule dei frutti di mare non
combattono l'azione disidratante dell'acqua di mare con il TMAO, insapore come fanno i
pesci, ma ricorrendo la glicina ed altri aminoacidi liberi, che oltre a stravolgere la funzione
siologica identica a quella della TMAO stimolano i nostri recettori dell'umani dando i
frutti di mare il loro gusto prelibato.

Cap. 7: Carnivori

Il consumo di carne ha plasmato la nostra evoluzione, più di 3.3 milioni di anni fa


nell’odierna Etiopia, dove viveva la nostra antenata Lucy e dove si usavano gli utensili in
pietra per staccare la carne dalle ossa.

Lucy si nutriva di carne e di vegetali, era chiaramente onnivora (come noi).

La carne e il pesce sono le fonti di proteine più ricche di cui disponiamo, questo perché ci
forniscono tutti gli amminoacidi essenziali. Nella carne troviamo anche gli elementi
fondamentali di una dieta equilibrata come: zinco, ferro, vitamina B12 e acidi grassi
polinsaturi necessari per lo sviluppo del cervello e di altri tessuti. Si può vivere con
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un’alimentazione vegetariana bilanciata ma i limiti di una dieta vegana, priva di qualsiasi
tipo di prodotto animale dimostrano il nostro adattamento a un regime onnivoro. Prima
della loro domesticazione, tutti gli animali che oggi alleviamo erano prede per i nostri
cacciatori.

Gli utensili in pietra non sono l’unica prova dell’inizio del viaggio dalla caccia
all’agricoltura.

Le larve di Tenia che si annidano nei muscoli dei bovini e dei suini, se consumate crude o
poco cotte ci infettano. Da un’analisi evolutiva è emerso che la nostra relazione con il
parassita risale a milioni di anni fa. Quando i nostri progenitori cominciarono a mangiare le
stesse prede dei leoni furono infettati dall’antenata delle tenie odierne, il parassita
aggiunse cosi al ciclo di vita leone-antilope anche l’uomo. La transizione avvenne tra 2 e
2.5 milioni di anni fa, quando a quell’epoca i nostri antenati erano già consumatori abituali
di carne.

In ogni caso il consumo di carne ci portò ad avere una relazione sempre più stretta con le
nostre prede, relazione che portò alla domesticazione di bovini e suini e al loro
allevamento. Il lungo percorso evolutivo che condividiamo con i 3 tipi di tenia che ci
infettano, fa pensare che fummo noi ad infettare il bestiame in seguito alla sua
domesticazione, e non viceversa.

Possiamo difenderci dalla tenia in due modi: con l’igiene (l’infezione arrinò quando bovini
e suini entrano in contatto con feci umane contaminate dalle uova del parassita); e con la
cottura, che distrugge la forma infettiva della tenia. La lunga relazione tra Tenia Solium e
la nostra specie ha lasciato un’impronta genetica sul parassita che sembra aver
sviluppato una certa tolleranza alla cottura. Se come sembra probabile, gli uomini
mangiano carne da almeno 1.5 milioni di anni, un aumento delle quantità di proteine da
shock termico nelle tenie non deve stupire, poiché accresce la probabilità che lo stadio
infettivo sopravviva alla cottura e venga trasmesso completando il ciclo di vita del
parassita.

Sulle pareti di una caverna dell’isola tropicale di Sulawesi in Indonesia, 5000 anni dopo
venne dipinto il primo animale chiaramente riconoscibile: un esemplare di babirussa. Non
era altro che un maiale endemico di Sulawesi, diverso da tutti gli altri maiali. È
riconoscibile dalle due paia di zanne che sbucano dal muso dell’animale, sono onnivori e
si nutrono prevalentemente di noci e frutta (sopratutto manghi). I maschi possono pesare
no a 90 chili.

20.000 anni fa nell’Europa meridionale, dei cacciatori quelle che senza dubbio sono le più
belle rappresentazioni artistiche di animali di tutti i tempi. I famosi dipinti delle grotte di
Lascaux e di Chauvet in Francia e di quelle di Altamira in Spagna furono realizzate nel
paleolitico da persone che vivevano al limite della coltre di ghiaccio che a quell’epoca
ricopriva l’Europa settentrionale. Le temperature invernali potevano scender sotto i -20°C,
la vegetazione era nota come steppa dei mammut.

I resti di centinaia di esemplari di questa specie ormai estinta ci dicono che gli orsi delle
caverne erano molto più grandi dei grizzly ed erano soliti andare in letargo nella grotta. Le
ossa animali ritrovate nelle grotte come quella di Chaveut indicano una preferenza per la
carne di renna e per il midollo, estratto dalle ossa lunghe dopo averle spezzate. La dieta
dei cacciatori-artisti non si limitava alla carne degli animali che popolavano la steppa dei
mammut, ma comprendeva anche alimenti di origine vegetale, raccolti e lavorati. I granuli
di amido rinvenuti su un ciottolo durante alcuni scavi in una grotta dell’Italia meridionale
ne dimostrò l’utilizzo da parte di chi vi abitava 32.000 anni fa. Prima di essere macinati, i
semi venivano tostati, secondo una tecnica tutt’ora impiegata per migliorare il sapore di
alcuni cereali come l’avena. Con il riscaldamento del pianeta e il ritiro dei ghiacciai che
coprivano l’Europa del nord e l’America settentrionale, la vegetazione cambiò: le piante a
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foglia larga, l’erba e i cespugli della steppa dei mammut cedettero il posto alle foreste e
molti degli animali che vi pascolavano scomparvero.

La scomparsa di gran parte delle prede segnò anche la ne dei grandi carnivori, tra cui la
tigre dai denti a sciabola, il leone americano e un tipo di lupo il cui cranio fossile lascia
ritenere che si trattasse di un animale specializzato nella caccia del bisonte e di altri
animali di grossa taglia.

In alcuni casi è possibile che la caccia da parte dell’uomo abbia aiutato gli animali a
imboccare la strada dell’oblio, portando a compimento il lavoro iniziato dai cambiamenti
climatici. A quell’epoca il cibo più amato era il mammut lanoso. Dai ritrovamenti possiamo
dire che circa 30.000 anni fa ci fossero i cacciatori di mammut, i quali erano il piatto
preferito dei cacciatori nche la specie e l’habitat non scomparvero. Le grandi ossa di
quegli animali venivano utilizzate nella costruzione di ricoveri. Sarà veramente un caso
che l’ultimo rifugio di questa specie perseguitata sia stato la remota isola di Wrangel. I
mammut si estinsero circa 4.000 anni fa, cioè più di 5.000 anni dopo dell’ultima
popolazione continentale conosciuta.

Sul sito di Ohalo II un accampamento incredibilmente ben conservato sulle rive del lago
Tiberiade, era un accampamento temporaneo visitato regolarmente e per molto tempo
dai cacciatori-raccoglitori del periodo che gli archeologi chiamano ‘ultimo massimo
glaciale'. A Ohalo II circa 23.000 anni fa, fu sommerso dall’acqua e fango a causa di
aumento del livello del lago di Tiberiade. Il fango saturo di l’acqua è un ottimo
conservante perché bloccando l’ossigeno, impedisce ai batteri e agli altri agenti
decompositori di distruggere tutto quello che ha ricoperto. In questo sito sono state
identi cate più di 140 specie diverse, tra quelle lavorate e quelle che vi crescevano,
sappiamo che dal grano selvatico e dall’orzo si ricavava la farina, confermato dal
ritrovamento di una lastra di pietra usata come macina: sulla super cie sono stati
rinvenuti granuli di amido di cereale. Oltre al pesce gli abitanti di Ohalo II mangiavano
molte gazzelle, gli uccelli che riuscivano a catturare, anatre, oche, rapaci, corvi, cervi,
maiali e capre.

Nell’Asia sud occidentale le popolazioni si stavano basando sempre di più su altri mezzi
di sussistenza. Grazie alla graduale domesticaizone di piante come il grano selvatico,
l’orzo e le leguminose erano riusciti ad ovviare alla diminuzione costante della selvaggina
con coltivazioni ricche di proteine.

La costruzione di nuove capanne di fango sui resti di capanne più antiche ha portato alla
formazione di vere e proprie colline arti ciali, e i reperti archeologici conservati al loro
interno ci dicono cosa mangiavano gli abitanti di un dato insediamento. Dagli scavi ad
Asikli Höyük in Anatolia è emerso che tra 11.000 a.C e il 10.200 a.C i cacciatori
abbandonarono una dieta a base di selvaggina per dedicarsi agli allevamenti di pecore.
Piante e animali domesticati nirono per assumere un ruolo fondamentale per la
sopravvivenza, segnando l’inzio dell’agricoltura e l’alba del Neolitico. L’avvento
dell’agricoltura come mezzo di sussistenza innescò un vero e proprio baby boom
neolitico; si calcola che il numero medio di gli per donna passo da 5,4 a 9,7.

La crescita demogra ca del neolitico portò ad un aumento ulteriore sulla fauna selvatica e
incentivò l’allevamento come soluzione per sfamare le bocche in più. Lo dimostra il fatto
che poche specie, come il maiale e il pollo furono domesticate più volte, mentre molte
altre non lo furono mai. Maiali e polli sono animali spazzini, di tutti gli animali da
allevamento, i polli sono quelli che si trasportano meglio, e in e etti l’uomo ha portato con
se ovunque queste creature fantastiche, capaci di trasformare i nostri ri uti in carne
saporite e in una fornitura quotidiana di uova. I grandi spostamenti hanno conseguenze
evolutive per chi intraprende il viaggio e per chi accoglie e si mescola con i nuovi arrivati.
Gli uccelli domestici a noi familiari che scorrazzano nelle aie e nei cortili del vecchio e del
nuovo mondo hanno un origine molto più esotica: l’antenato selvatico del pollo è il gallo

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bandiva, originario dell’Asia. Questo fu addomesticato ben tre volte indipendentemente in
altrettante regioni dell’Asia.

I geni dei polli moderni rivelano una storia familiare intricata, testimonianza degli scambi
su scala globale che fecero incontrare e incrociare più volte i discendenti dei tre eventi di
domesticaizone. Il primo incontro pan-asiatico tra polli di cui si ha memoria avvenne
3.400 anni fa quando dei monaci buddisti cinesi tornarono a casa da un viaggio in India
portando con sé come souvenir commestibile un pollo vivo.

È probabile quindi che il pollo domestico abbia ereditato la pelle giallo dal suo cugino
grigio in qualche aia indiana molte migliaia di anni fa. È probabile quindi che polli visti nel
1532 in Perù dal conquistatore spagnolo Francisco Pizarro e che rappresentavano un
elemento insostituibile dell'economia Inca, forse originari della Polinesia. L'arrivo del pollo
in America a bordo di una canoa polinesiana non fu un colpo di fortuna come potrebbe
sembrare a prima vista, questo perché i marinai polinesiani sapevano benissimo dove
stavano andando, erano navigatori straordinari: si orientavano grazie a una conoscenza
dettagliata delle stelle, sapevano individuare la direzione di un'isola troppo lontana per
essere visibile in base ai suoi e etti sull'onda lunga dell’oceano.Nel 1769 durante il suo
primo viaggio nel oceano Paci co, il capitano James Cook scoprì che su tutte le isole
polinesiane da lui visitati e per no nella remota Nuova Zelanda si coltivava la patata
dolce, originaria del Sudamerica. Recentemente analisi genetica del DNA di patata dolce
raccolta dai botanici che viaggiavano con Cook ha confermato che le piante polinesiane
erano originarie dell'Ecuador e del Perù. Dopo essere stati scoperti dagli europei, gli
abitanti polinesiani dell'isola di Pasqua furono decimati dalle malattie, invasi, ridotti in
schiavitù e deportati, ma il genoma di sopravvissuti racchiude la memoria storica di tempi
più felici in cui chi arriva dal Sudamerica era accolto calorosamente e diventava parte
della famiglia. Animali sociali come le pecore o i cani sono addomesticati
immediatamente, mentre le specie in cui un maschio possiede un harem come il cervo,
rimasero selvatiche. Il primo animale domestico fu in assoluto il cane, evolutosi dal lupo è
diventato nostro compagno di caccia almeno 15.000 anni fa, (anche se c'è chi sostiene
che la relazione tra uomo il cane potrebbe durare più di 30.000 anni), l’uso dei cani per
controllare le greggi non è che un ulteriore esempio della capacità umana di sfruttare a
proprio vantaggio le relazioni evolutive esistenti. La domesticazione iniziale delle pecore
ebbe luogo nell'Asia sud occidentale, forse già 11.000 anni fa e da lì si di use in più o
meno andate verso i quattro punti cardinali. Più o meno 5700 anni fa, le pecore dell'Asia
sud occidentale avevano raggiunto anche la Cina del Nord. Oggi la la popolazione
mondiale di pecore supera il miliardo di capi. La di usione di cinghiali (sus scrofa) e degli
uri no a epoche recenti dai con ni occidentali dell’Eurasia quelli orientali nel consentire
addomesticazione da parte di molte società di quell'area geogra ca così vasta. Al termine
del IX millennio a.C. la domesticazione di bovini e suini nell'Asia sud occidentale era un
fatto compiuto, ma su ciò che accadde in seguito ai geni delle due specie raccontano
storie molto diverse. Dall'analisi genetica dei bovini ci dice che gli uri furono
addomesticati tre volte: nell'Asia sud occidentale, nella valle dell'Indo, (dove gli uri
diedero origine allo zebù domestico, riconoscibile dalla gobba), e in Africa.

Studi di genetica umana dimostrano che nell'Europa occidentale la stessa agricoltura si


di use con la migrazione di contadini dal vicino Oriente, è probabile quindi che il loro
bestiame li abbia seguiti. L'agricoltura, i contadini e il bestiame giunsero in Europa con la
formula ‘All Inclusive’.

Nella mezzaluna fertile la di usione dei bovini e del bestiame domestico in generale non
coincise con una migrazione umana. La comunità di agricoltori si convertirono una dopo
l'altra all'allevamento ma la genetica ci dice che le persone non si mossero. Non si
mossero a tal punto che dalle sequenze genomiche estratte dai resti neolitici rinvenuti nei
Monti Zagros in Iran, è emerso il legame di parentela tra gli agricoltori che all'epoca
vivevano nella regione e gli zoroastriani che vi risiedono attualmente.

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Il bestiame riveste tuttora un'importanza sociale ed economica fondamentali in molte
culture africane, che giudicano il valore di un uomo a partire dal numero di capi che
possiede. La culla evolutiva degli antenati del cinghiale (sus scrofa) si trova sulle isole del
sud-est asiatico, dove vivono ancora oggi il babirussa e altri maiali selvatici. Di tutta la
famiglia suina, sus scrofa era il porcellino intraprendente: incamminatosi verso ovest,
raggiunse l’Eurasia milioni di anni prima dell’arrivo della nostra specie dall’Africa. Da
allora ogni volta che l'uomo incontrò il maiale, tra i due si stabilì un legame.

Il maiale e l'uomo hanno un'a nità reciproca, quasi uguale a quella che lega l'uomo e il
cane, anche se non è altrettanto universale. Nell’Europa occidentale, i maiali furono
addomesticati a partire dai cinghiali locali, a di erenza dei bovini, discendenti del
bestiame domestico del vicino Oriente. I cinghiali della Nuova Guinea discendono
probabilmente da maiali domestici arrivati con le canoe polinesiane. L'origine dei maiali
che i polinesiani portarono con sé no ad alcune tra le isole più remote del Paci co, come
le Hawaii, era probabilmente vietnamita. Con la variazione delle piante e degli animali allo
stato domestico, Darwin portò a termine un'analisi enciclopedica delle di erenze tra il
bestiame domestico e i presunti progenitori selvatici mettendo in evidenza un fenomeno
interessante che né lui né gli altri sono stati capaci di spiegare, almeno no a poco tempo
fa. Darwin notò che gli animali domestici di ogni sorta: cani, maiali, mucche, conigli, cavie
e altre ancora, condividevano senza essere imparentati la tendenza di esibire un'insieme
di caratteristiche comuni. Rispetto agli animali selvatici, quelli domestici avevano ritmi di
accoppiamento meno stagionali, spesso possedevano mantelli pezzati con intere zone
del corpo prive di pigmentazione ed erano caratterizzati da orecchie osce, muso più
corto, denti e cervello piccoli, coda riccia e un comportamento più docile e immaturo. Per
descrivere questo insieme di caratteristiche convergenti, oggi si parla di ‘sindrome da
domesticazione’ : c’è voluto più di mezzo secolo perché qualcuno riuscisse a fornire una
spiegazione plausibile del fatto che la domesticazione avesse creato un tale schema
ripetuto di cambiamenti evolutivi apparentemente eterogenei.

La docilità è una caratteristica auspicabile in qualsiasi animale domestico e quindi non è


a atto sorprendente che compaia nella sindrome. Gli animali domestici sono selezionati
per essere obbedienti, anche se per ora non arrivano a esprimersi come il piatto del
giorno. ma perché le orecchie osce e la coda aricciata? Perché la sindrome
addomesticazione include la pigmentazione pezzata, che ritroviamo nelle specie così
distanti tra loro come le mucche, i cani, le cavie e persino le capre giapponesi.

Negli anni 50 del secolo scorso, il genetista russo Dimitry Beljaev iniziò un esperimento
sulle volpi argentate siberiane, mai addomesticate prima di allora. Questo per capire se
l'accoppiamento selettivo degli animali in base alla loro docilità potesse fare comparire la
sindrome di addomesticazione nella sua interezza. All'inizio dell'esperimento quando i
ricercatori si avvicinavano con il cibo, quasi tutte le volpi reagivano in maniera aggressiva
impaurita punti pochi animali che manifestavano paura aggressività in misura ridotta
furono fatti accoppiare virgola e l'operazione fu ripetuta per decine di anni punto dopo tre
generazioni cuccioli non andavano più segni di aggressività all'arrivo dei pasti virgola e
alcuni di loro avevano addirittura cominciato a scodinzolare come cani domestici. Tra
l'ottava e la decima generazione cominciarono a nascere volpi con il pelo pezzato, le
orecchie osce e la coda arricciata appunto dopo 50 anni e più di 30 generazioni, l'intero
gruppo di volpi argentate aveva nei confronti degli esseri umani un atteggiamento
amichevole paragonabile a quello dei cani, e presentava anche le caratteristiche
anatomiche e siologiche tipiche della sindrome da domesticazione. L'esperimento aveva
dimostrato che la sindrome è semplicemente la conseguenza della selezione di un
comportamento docile. Se esiste davvero un simile meccanismo di controllo nessuno è
ancora riuscito a trovarlo. I geni che controllano la dimensione delle surrenali, e quindi
l'aggressività, lo fanno in maniera indiretta, attraverso la loro in uenza sul numero di

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cellule della cresta neurale. È proprio la dipendenza da queste cellule che legano tra loro
le caratteristiche della sindrome da domesticazione e le fa evolvere tutte insieme.

Cap. 8: Un mondo di verdure

Oggi mangiamo e utilizziamo più di 4000 piante diverse, sebbene l'evoluzione abbia
dotato molte di loro di veleni per difendersi dagli erbivori. Disponiamo di due tecnologie
che rendono commestibili e straordinaria varietà di piante della nostra dieta: la cultura e la
domesticazione.

La cottura può rendere tollerabili le sostanze tossiche, ad esempio i fagioli che


contengono le lectine, sostanze velenose che in natura li proteggono dall'attacco di
insetti e funghi, con la bollitura le si distruggono. La domesticazione del fagiolo comune
ha dato origine a varietà di ogni sorta tra cui: i fagioli cannellini, i borlotti e molti altri, con
un livello di lectina che in alcuni casi è al di sotto della soglia di tossicità. Le patate
selvatiche hanno tuberi piccoli, di dimensioni paragonabili a quelle di una prugna o di un
pisello e distribuiti intorno alla pianta su stomi lunghi anche più di 1 m. Con la selezione
arti ciale l'uomo ha invertito la priorità per soddisfare le proprie esigenze: le varietà
coltivate sono caratterizzate da tuberi di grandi dimensioni che crescono su stoloni corti,
sono più facili da raccogliere. Un esempio è quello che sono riusciti a fare gli agricoltori a
partire dal cavolo selvatico, una pianta esile e dall'aspetto tutt'altro che commestibile
tipica delle coste dell'Europa settentrionale. Dopo secoli di incroci selettivi per mano di
anonimi orticoltori che non sapevano nulla di genetica ed evoluzione, ci hanno dato i
cavol ori, broccoli, cavolini di bruxell, verze e cavoli rapa. La selezione naturale e quella
arti ciale hanno entrambi e etti graduali, ma i cambiamenti indotti dall'uomo possono
essere molto più rapidi. La dimensione e la qualità dei pomodori fecero enormi progressi
grazie un certo Dottor Hand, un orticoltore dilettante di Baltimora che intorno al 1850
diede inizio ad una serie di incroci selettivi che in poco più di 20 anni produssero il Trophy,
un pomodoro grosso e carnoso dal gusto squisito.

I primi pomodori domesticati erano messicani, e contenevano solo una frazione della
variabilità genetica tipica delle popolazioni selvagge. Quando nel sedicesimo secolo i
pomodori giunsero In Europa, ridussero la variabilità genetica della cultivar a meno del
5% di quella esistente nella specie selvatica: una frazione comunque su ciente però, a
rendere possibili risultati incredibili ottenuti dalla selezione arti ciale. Per la selezione
arti ciale è più facile in uenzare un'intera orchestra di geni attraverso il direttore, che
agire individualmente sui singoli suoi elementi. Nel 1870 il pomodoro Trophy andò a ruba
a tal punto che i semi giunsero a costare 5$ per un sacchetto di 20, che oggi qui
equivarrebbero a 100$ al sacchetto, ovvero 5$ al seme.

Le varietà antiche, prodotte prima dell'inizio della moderna selezione ai ni commerciali,


derivano soprattutto dagli adattamenti locali e dall’eccentricità di coltivatori di pomodori
come il Dottor Hand. La specie selvatica è originaria delle Ande, ma sembra che le
popolazioni locali non avessero mai preso in considerazione, nonostante fossero maestre
nella domesticazione delle piante. Il pomodoro selvatico, invece, migrò a nord, forse
come piante infestanti, fu domesticato in Messico dai Maya. La varietà selvatica, con le
sue banche grosse come ciliegie, è tuttora presente in Messico come pianta spontanea
ben accetta: non viene seminata ma quando compare in un campo di contadini, lo
apprezzano e lo proteggono.

Le Ande, terra d'origine del pomodoro selvatico e il Messico, dove ne è avvenuta la


domesticazione, hanno avuto un ruolo importante nell'evoluzione di molte colture. Le
Ande sono la seconda catena montuosa al mondo per altezza.

In Perù scendendo sulle loro pendici orientali si passa da un ambiente alpino alla foresta
pluviale delle pianure del bacino amazzonico attraversando la foresta nebulosa, mentre le
pendici occidentali danno su una regione costiera desertica. Quando gli spagnoli

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conquistarono il Perù nel 1535 le specie coltivate erano almeno 70, molte più di quelle
della mezzaluna fertile o degli altri centri di domesticazione asiatici.

Il fatto che le patate selvatiche crescano a quote molto più alte di Monte Verde lascia
supporre che vi siano state portate da molto lontano, forse in seguito a qualche scambio
commerciale. Nei 2000 anni successivi al loro arrivo, gli abitanti della costa del Paci co
del Sud America modi cano gradualmente il proprio stile di vita. Il mutamento è stato
documentato meticolosamente attraverso l'analisi di resti rinvenuti in quasi 600 siti
archeologici della pianura costiera e sulle colline ai piedi del versante andino occidentale,
nel nord del Perù.

I semi di zucca ritrovati in un sito archeologico indicano che fu proprio questa la prima
verdura coltivata nella regione più o meno10.500 anni fa.

Si è pensato che fossero i semi di zucca selvatica, che però ha una polpa troppo amara
per essere mangiata; più probabile quindi che appartenessero ad una pianta
addomesticata 8000 anni fa dagli abitati di numerosi piccoli insediamenti della valle di
Nanchoc. Nei anchi occidentali delle Ande peruviane, mangiamo arachidi, zucche, fagioli
e radici di manioca. Si eccettua la zucca, per la quale possiamo supporre che a
quell'epoca fosse già stata addomesticata. Alla lista delle piante coltivate nella valle di
Nanchoc dobbiamo aggiungere la quinoa, un cereale di importanza fondamentale
domesticato sugli altipiani andini, il cotone originario delle pianure costiere dell'Ecuador e
del Perù.

Non sempre i frutti degli alberi contengono amido, e se lo fanno non è detto che i granuli
siano abbastanza caratteristici da permettere il riconoscimento della specie. La pianta
che si fa notare per la sua assenza nel menù della valle di Nanchoc è la verdura peruviana
che tutti i non-peruviani conoscono: la patata. La ragione per cui non veniva coltivata
deve essere sicuramente che è una pianta che predilige il clima delle Ande, più fresco a
causa della maggior altitudine. Fu proprio l'adattabilità della patata ai climi freddi e umidi
che ne decretò il successo spettacolare quando fu introdotta nell’Europa Settentrionale.
Oggi è il quarto tra i generi alimentari di maggior consumo al mondo dopo i tre cereali: il
mais, il grano e il riso.

Le patate che coltiviamo appartengono tutte alla specie domestica solanum tuberosum,
addomesticata sugli altipiani che circondano il lago Titicaca, al con ne tra il Perù e la
Bolivia. Ogni vallata è ricca di microclimi diversi per altitudine ed esposizione, il suolo può
essere arido o pesante a seconda del contenuto di umidità, e la combinazione di tutte le
possibili di erenze dà origine ad un'in nità di luoghi unici in cui la selezione naturale può
modellare le specie e adattarle alle diverse condizioni ambientali, creando popolazioni
diverse da un posto all’altro. Le popolazioni andine domesticarono quattro delle 107
specie di patata selvatica, attualmente in Sudamerica si coltivano 3000 varietà locali di
patata. Le patate selvatiche sono utili perché contengono i geni che conferiscono
resistenza ai molti nemici naturali della patata addomesticata. Quando un insetto
cammina sulle foglie delle specie selvatica Solanum Bertahultii, la ne peluria che la
ricopre si rompe liberando una colla resinosa che rende appiccicose come la carta
moschicida.

Altre patate selvatiche possiedono i geni che la rendono immuni alla peronospora.

Le patate selvatiche come progenitori sono velenose e la loro domesticazione è venuta


selezionando la varietà meno tossiche mettendo a punto i metodi di lavoro adatti per
renderle più commestibili. Le patate comuni non sono velenose ma lo diventano con
l'esposizione alla luce, che stimola la produzione di glicoalcaloidi, sostanze nocive dal
gusto amaro. Per fortuna, la buccia delle patate che hanno preso luce diventa verde per
la presenza di cloro lla, consentendoci di scartare i tuberi e che contengono sostanze
tossiche.

L'evoluzione di un'altra radice tuberosa sudamericana è un esempio di come alcune


varietà rimangono tossiche anche dopo la domesticazione.

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La manioca è una coltura resistente alla siccità, addomesticata nella parte più meridionale
del bacino amazzonico, dove il clima è caratterizzato da una stagione secca e la foresta
pluviale delle pianure cede il posto alla savana. La pianta ha un arbusto legnoso della
famiglia delle euforbie ha una grossa radice tuberosa ricca di amido. La manioca cresce
bene nei climi tropicali e predilige i terreni acidi e poveri di sostanze nutritive in cui le altre
colture stentano. Costituisce una fonte di cibo sicuro: una volta estratto dal suolo, il
tubero crudo va a male rapidamente, ma se lo si lascia sotto terra può conservarsi no a
due anni. Una delle ragioni per cui la manioca dura così a lungo se interrata è la presenza
di glucosidi cianogenetici mescolati dall'amido di cui è ricca. Si tratta di molecole che
sotto l'e etto di particolari enzimi le glucosidasi, si scindono liberando una sostanza
velenosissima, il cianuro. Le glucosidasi entrano in azione quando le cellule della pianta
vengono danneggiate, ad esempio con la masticazione o con lo schiacciamento. In Africa
dove fu introdotta 400 anni fa è fondamentale per il sostentamento di quasi metà della
popolazione, per rendere commestibili le radici è necessario lavorare per eliminare il
cianuro. Gli Indios dell'Amazzonia puri cavano la manioca pelando e grattugiando i
tuberi: il cianuro viene liberato in soluzione nei succhi della pianta, che vengono poi
estratti strizzando la poltiglia così ottenuta in un tipiti, un cilindro di bre intrecciate.
Esistono varietà di manioca dolci non tossiche e di varietà amare e tossiche. Le varietà
amare sono più produttive, hanno tuberi più resistenti agli insetti nocivi e sono meno
soggetti a furti da parte di persone o animali. Le varietà dolci sono quelle preferite dalla
comunità che non dipendono dalla manioca per il proprio sostentamento ma che
utilizzano come complemento sostituibile da altre verdure nel caso in cui il raccolto sia
scarso o vada perduto. Ogni tanto nella storia evolutiva di una specie la selezione
naturale si imbatte in un'innovazione cruciale che conferisce un vantaggio con e etti
radicali sulla tness (e quindi sul numero di discendenti della generazione futura). Eventi
rari ma dalle conseguenze epocali perché scatenano la proliferazione di nuove specie
accomunate dalla medesima innovazione vantaggiosa. I glucosinolati come i glucosidi
cianogenetici , sono un'altro esempio di difesa chimica a due componenti. In e etti la via
metabolica che nelle piante porta alla produzione dei glucosinolati è simile a quella che
produce glucosidi cianogenetici ed è addirittura probabile che ne rappresenti
un’evoluzione. Le cellule della pianta conservano il glucosinolati e la mirosinasi, un
enzima in due compartimenti separati. Si tratta di composti tossici per molti insetti,
nematodi, funghi e i batteri, ma che nei mammiferi hanno e etti bene ci per la salute tra
cui la capacità di contrastare i tumori. L'evoluzione dell'ordine delle brassicali avvenne tra
85-90 milioni di anni fa, nell’arco di 10 milioni dalla comparsa dei glucosinolati le farfalle
della famiglia delle Pieri di svilupparono un meccanismo biochimico di neutralizzazione
che consentì alle larve di nutrirsi di brassicali senza correre rischi. Nella guerra chimica tra
le piante i loro nemici naturali i due schieramenti hanno assunto di volta in volta la
posizione più vantaggiosa: le piante, quando sono riuscite a sviluppare nuovi sistemi di
difesa a partire da quelli vecchi e le farfalle quando hanno potuto rispondere con nuovi
meccanismi di neutralizzazione.

L'interminabile battaglia evolutiva degli organismi e i loro nemici naturali è stata


paragonata alla situazione descritta dalla regina rossa del libro di Lewis Carroll ‘Attraverso
lo specchio e quello che Alice vi trovò’. Alice si rende conto che nel mondo dello
specchio, per quanto corra veloce non riesce ad andare da nessuna parte, e la regina
rossa le spiega ‘vedi, qui, invece, devi correre più che puoi per rimanere nello stesso
posto’. Nella biologia evolutiva, è stata chiamata ipotesi della regina rossa; l’idea che la
corsa evolutiva agli armamenti tra gli organismi e i loro nemici naturali faccia sì che
entrambi gli schieramenti debbano evolvere senza sosta pena l’estinzione.

L'evoluzione può andare avanti solo in presenza di una riserva di variabilità genetica cui la
selezione naturale può accedere rapidamente per forgiare nuove armi e nuove difese. Le
piante che si riproducono esclusivamente per via vegetativa, come quando si fa crescere
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una nuova generazione di patate, risotterrano i tuberi nell'ultimo raccolto, nisco per
diventare geneticamente uniformi, ed è solo questione di tempo prima che vengano
spazzate via dai loro nemici naturali. L'unica via d'uscita da questo vicolo cieco evolutivo
è la riproduzione sessuata. Il sesso crea nuove combinazioni con i geni di una
generazione e le propaga alle generazioni successive, rendendo i gli diversi tra loro ed
dai genitori. Oltre a conservare la verità genetica, riducendo così il rischio di di usione di
epidemie nelle colture, la riproduzione sessuata rende possibile l'ibridazione tra le specie
di erenti. Le colture di origine ibrida sono numerose: tra questi ricordiamo il grano tenero
e molte verdure, lo scienziato U scopri che disegnando un diagramma in cui le tre specie
con il minor numero di cromosomi occupavano i vertici di un triangolo, alle altre tre specie
trovavano naturalmente il loro posto lungo i lati come combinazione di quelle ai due
vertici adiacenti. L'ibridazione del cavolo con la rapa diede origine alla colza, quella della
senape nera con il cavolo il cavolo dal Albissinia e quella della senape nera con la rapa la
senape indiana.

Al di là della loro meravigliosa diversità, se mangiamo le verdure è per una sola, decisiva
ragione: loro proprietà nutritive, in modo particolare per il loro contenuto di carboidrati.
Per renderle commestibili abbiamo abbassato le difese naturali delle piante e abbiamo
imparato a lavorarle e a cuocere.

Cap. 9: le spezie e le erbe aromatiche

Mais, mucche e cavoli testimoniano tutti come la specie umana abbia plasmato la natura
attraverso la forza evolutiva della domesticazione. Negli ultimi 10.000 anni abbiamo mescolato,
riorganizzato e moltiplicato genomi, modi cato geni, ingrassato animali e reso più grossi e saporiti
tutti quello che oggi troviamo al supermercato. Anche nel profondo della foresta pluviale
amazzonica, le le ordinate di manioca, mais, fagioli, patate dolci e piante da frutto che formano il
tipico orto delle popolazioni locali sono il prodotto della domesticazione. L’uomo è responsabile di
ciò che commestibile in natura.

Chiamiamo erbe aromatiche le piante delle foglie odorose che possiamo coltivare facilmente noi
stessi per utilizzarle fresche in cucina. Le spezie sono semi, resine, cortecce e altre sostanze di
origine vegetale dal sapore forte e che prima dell'epoca moderna erano rare ed esotiche.
Viaggiavano da oriente a occidente, da un capo all'altro del pianeta e da un mercante all’altro,
giungendo da terre sconosciute che comparivano come semplici abbozzi su mappe dettate
dall'ignoranza e dall'immaginazione. La cannella è prodotta dalla corteccia di un albero originario
dello Sri Lanka. Le spezie erano così rare e così costose che la volontà di assicurarsene
l'approvvigionamento divenne insieme alla brama di oro e ricchezze, la ragione dei viaggi verso
l'ignoto di Cristoforo Colombo e Ferdinando Magellano.

Hernan Cortez il conquistatore degli aztechi, promise al re di Spagna che nanziava il suo viaggio,
che avrebbe scoperto le isole delle spezie all’oriente, in caso contrario disse ‘sua maestà potrà
punirmi come si punisce di chi dice il falso’. Seguire la rotta occidentale per raggiungere l'India si
rivelò una scommessa perdente per le spezie. L'importazione delle spezie orientali in Occidente
iniziò più di 3000 anni prima che i mercati europei decidessero di cercarne la fonte e di
controllarne essi stessi il mercato. Quando la mummia del faraone Ramses II, morto nel 2213 a.C.
venne imbalsamata, l'addome e le cavità nasali furono riempite di grani di pepe nero. Sappiamo
con certezza dell'esistenza in epoca romana di una rotta del pepe che partiva dalle foreste sulla
costa orientale dell'India e attraverso il continente per giungere ai porti occidentali. La rotta
marittima proveniente dall'India fu anche una delle vie d'accesso dei polli in Africa. La cannella è
citata nell'antico testamento, e con ogni probabilità veniva importata regolarmente nel vicino
Oriente lungo la stessa rotta. Nel 1100 a.C. la disponibilità di cannella era tale da permettere ai
Fenici di venderne l'estratto nei porti del Mediterraneo, racchiuso in piccole ampolle sigillate. È
probabile che lo zenzero sia giunto nel nord-est dell'India o dalla Cina meridionale. Chiodi di
garofano, noce moscata e macis erano le spezie più ambite, provenivano dai luoghi più remoti. I
chiodi di garofano sono i boccioli essiccati di un piccolo albero che cresceva solo su poche isole
dell'arcipelago delle Molucche settentrionali, in Indonesia; Anche noce moscata e macis sono
arrivati da qui.

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Tutte le erbe aromatiche e le spezie hanno proprietà antimicrobiche, il che secondo alcuni
potrebbe spiegarne l'uso abbondante che se ne fa nei paesi caldi dove la carne tende ad andare
a male molto rapidamente. Le cucine più speziate sono quelle delle regioni tropicali e sub-tropicali
perché le spezie sono fondamentali per rendere la carne sicura e appetibile. La salatura,
l'essiccazione, a umicatura e la fermentazione sono metodi molto più e caci per conservare il
cibo e sono tutti molto di usi. A proposito della correlazione tra clima e uso delle spezie,
potremmo citare una celebre frase di Mark Twain: ‘c'è qualcosa di a ascinante nella scienza, si
ottengono così grandi pro tti in congetture da un così misero investimento infatti ‘.

L'aglio e la cipolla sono due ingredienti delle potenti proprietà antimicrobiche, ma non sono usati
per conservare il cibo e non provengono da regioni tropicali. Appartengono al genere allium che
conta circa 500 specie, queste sono tutte dotate di difese chimiche che sfruttano le proprietà di
composti a base di zolfo, da cui dipendono sia pregi che i difetti della cipolla. Un bulbo di cipolla
intatto o una testa d'aglio non hanno odore perché il loro arsenale chimico, è formato da due
componenti che diventano nocivi solo quando vengono mescolati e fatti reagire. Tagliando o
schiacciando una pianta del genere allium i due componenti, un precursore e un enzima vengono
liberati dai rispettivi compartimenti cellulari e possono interagire. Le piante producono decine di
migliaia di composti chimici diversi che sembrano servire solo o principalmente da difese contro i
loro nemici naturali.

L'evoluzione ha generato la ricchezza chimica delle piante giocando sulle varianti di un numero
limitato di componenti per diversi care le molecole, le cellule di una pianta dispongono di una
manciata di vie metaboliche elementari che si diramano verso un gran numero di destinazioni
chimiche di erenti. Ogni via inizia con la creazione di alcuni costituenti fondamentali a partire da
un numero pre ssato di atomi di carbonio. La via dei terpenoidi, ad esempio, responsabile della
sintesi di composti aromatici di molte erbe spezie, parte da una componente elementare formato
da 5 atomi di carbonio. Le unità elementari sono poi assemblate come in un lego per formare
catene più grandi: gli scheletri, di varie forme e dimensioni.

Dalla sola via metabolica di terpenoidi conosciamo più di 40.000 composti chimici nali.

Le piante producono sempre molte molecole aromatiche, dando origine ad una diversità chimica
che si manifesta persino tra i singoli esemplari di una specie. Ecco perché qualsiasi vivaista
abbastanza fornito può o rirci varietà di menta che sanno di limone, zenzero e geranio.

Le erbe aromatiche come la menta sintetizzano tante sostanze a scopo difensivo perché la
selezione naturale non dovrebbe favorire la produzione di un solo monoterpene micidiale, una
delle ragioni principale è che la selezione naturale procede per miglioramenti graduali modi cando
in maniera artigianale i meccanismi esistenti; I nemici naturali di una pianta, quindi, devono
rispondere alle azioni minime della chimica della loro vittima. La natura graduale dell'evoluzione
non consentirà mai a una pianta di evolvere l'arma nale contro i suoi nemici. Di fronte a uno
schieramento di nemici naturali in evoluzione, una strategia essibile come quella fornita da una
batteria di difese è molto più vantaggioso. Di fronte a un nemico in costante evoluzione o una
molteplicità di nemici, la diversità delle difese chimiche è un vantaggio. Le difese chimiche variano
anche in funzione dell’ambiente, che impone adattamenti locali. Nel sud della Francia dove il
clima è di tipo Mediterraneo, esistono 6 varietà di timo selvatico, ognuno dei quali è caratterizzato
da un particolare del monoterpene dominante. Dall'analisi genetica delle 6 molecole (chemiotipic)
è emerso che le loro di erenze chimiche sono dovute a 5 geni associati a 5 punti diversi della via
metabolica che porta alla produzione del timolo.

Studiando le popolazioni di timo selvatico nel sud della Francia, gli scienziati avevano scoperto
che vicino alla città di Montpellier e nei dintorni del paese di San Marten De Londres, la
distribuzione di chemiotipi seguiva un andamento particolare. A San Martin si trovava un bacino
circondato da montagne, nessuna delle varietà di timo che cresceva lì attorno ha il tipico profumo
di timo. In e etti si scoprì che tutti chemiotipi che crescevano a meno di 250 m di altezza erano
non fenolici.

Il motivo della strada distribuzione dei camion tipi era la di erenza delle temperature invernali tra il
fondo del bacino, vicino al paese e rilievi circostanti. Il bacino del Mediterraneo è ricco di piante
della famiglia della menta; In generale quelle che producono maggiori quantità di oli essenziali
contenenti monoterpeni fenolici crescono nei luoghi più caldi. Il mix di monoterpeni, inoltre,
dipende dalla posizione geogra ca. Nel rosmarino, ad esempio, i monoterpeni principali sono 4 o
5: in Francia e in Spagna l'olio essenziale del rosmarino è dominato dall’aroma di canfora, in
Grecia dall’eucalipto, in Corsica l'olio è composto quasi esclusivamente da verbenone. L'origine
di tali di erenze regionali e ignota.

Gli aromi delle erbe e delle spezie stimolano i recettori olfattivi che collaborando tra di loro aiutano
il cervello a distinguere ciò che è buono da ciò che non lo è.

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Alcune erbe aromatiche, inoltre, e quasi tutte le spezie stimolano i ricettori del dolore di cui sono
dotati nociccettori; questi sono cellule nervose presenti in tutte le parti del corpo e sensibile al
dolore. I nocicettori sono dotati di una famiglia di recettori TRP che reagiscono agli stimoli esterni
generando un impulso nervoso. Ogni tipo di TRP è attivato da una gamma di stimoli diversi che
possono essere associati dal caldo, al freddo, alla pressione oppure a determinate sostanze
chimiche. È proprio la reazione dei TRP agli stimoli sici, ad esempio a quelli termici o chimici a
farci percepire alcune spezie come calde e altre come fredde. Il peperoncino può darci
un'impressione che la bocca ci stia andando a fuoco perché il principio attivo della capsaicina è
una molecola che stimola i recettori TRPV1, sensibile anche al calore. Analgalmente il mentolo, un
monoterpene prodotto dalla menta, da la sensazione di freschezza perché attiva recettore
TRPM8, sensibile al freddo. I recettori costituiscono un sistema evolutivamente antico che
condividiamo nei suoi elementi fondamentali, non solo con gli altri vertebrati ma anche con gli
insetti, i vermi, i nematodi e persino con i lieviti. Ecco perché così tanti dei sistemi escogitati dalle
piante per agire sui circuiti della percezione del dolore degli erbivori funzionano anche sui nostri
sensi.

Alcune spezie comunque possono provocare overdose: si conoscono casi di avvelenamento da


noce moscata punto la capsaicina presente nei semi delle piante piccanti del protegge da un
fungo, il fusarium A, di uso soprattutto nelle zone umide in cui vive un verme che penetra nel
peperoncini dando così il via d'accesso al fungo.

Nelle aree più secche, dove il verme non vive e i rischi di infezione fungina sono ridotti, le piante
non piccanti sono la maggioranza. Le erbe aromatiche e le spezie illustrano la complessità
l'imprevedibilità e addirittura di ironia dell’evoluzione. La selezione naturale ha armato queste
piante perché possono difendersi dagli animali che vogliono farne il proprio pranzo, ma noi lo
apprezziamo proprio per i loro veleni e li aggiungiamo senza problemi nostri piatti.

Cap. 10: il dessert, il nostro punto debole

Per creare dolci serve una buona dose di arte culinaria ed immaginazione, ma per quanti sforzi
facciamo per prepararli e renderli gustosi, i loro ingredienti fondamentali sono sempre tre:
carboidrati ( zucchero e amido ), grassi e inventiva.

Non c'è bisogno di scavare molto nell'evoluzione degli impulsi umani per cogliere le ragioni della
nostra passione per i grassi ed i carboidrati: dopo tutto, sono fonti di energia pura cui abbiamo
dedicato recettori gustativi speci ci. Da un punto di vista chimico il glucosio, il saccarosio e gli
altri zuccheri sono classi cati come carboidrati semplici, mentre l’amido, che è un polimero del
glucosio, è un carboidrato complesso. I recettori del sapore dolce dei nostri calici gustative è
sensibile allo zucchero presente nei cibi dolci e glucosio dei cibi ricchi di amido, liberando
dall'azione dell'enzima alfa-amilasi contenuto nella saliva.

La saliva contiene anche enzimi della famiglia delle lipasi che scindono i grassi, liberando acidi
grassi. L'evoluzione cioè dotato degli strumenti giusti per riconoscere le due famiglie di cibi ad
alto contenuto energetico che amiamo così tanto. Il glucosio è il combustibile biologico
universale, la fonte di energia di ogni essere vivente: dalle piante agli insetti, dai lieviti agli esseri
umani. Viaggia di sciolto nel sangue degli animali; Nelle piante circola sotto forma di saccarosio,
uno zucchero composto da una molecola di glucosio e una di fruttosio.

La domesticazione della canna avvenne in Nuova Guinea, probabilmente 8000 anni fa, oggi la
pianta viene coltivata in tutta la fascia tropicale, la sua linfa è così dolce che il modo tradizionale
di utilizzare la pianta consiste semplicemente nel pelarne il gambo per masticare la polpa. Gli
insetti che si nutrono di nettare prelevano lo zucchero dalla sorgente; le piante. Queste sono
alimentate a energia solare e immettono il glucosio in una rete energetica senza li che si estende
per chilometri collegando a questa fonte primaria di calorie animali di ogni sorta, tra cui anche noi.
Le api trasformano nettare in miele riducendo il contenuto di acqua e portando la concentrazione
dello zucchero a valori superiori all'80%, valori troppo alti anche per i lieviti (temibili ladri di
zuccheri, possono consumarlo facendo fermentare). Il glucosio è anche una fonte di atomi di
carbonio, soprattutto nelle piante che se ne servono per fabbricare sostanze con funzioni
strutturali come la cellulosa, un polimero a base di glucosio da un punto di vista chimico, le
di erenze tra il cotone, formato interamente da cellulosa e lo zucchero lato sono minime. Per
l'uomo il primo è commestibile mentre la seconda indigeribile. Di tutto il menu dei dolci, il miele
costituisce senza dubbio la voce più antica. Gli oranghi e gli scimpanzé si servivano di bastoncini
per estrarre il miele dagli alveari; inoltre non disdegnano le larve delle api, integrando così il loro
dolce bottino con una dose di proteine. Il fatto che le nostre cugine (le grandi scimmie), mangino
miele, fa supporre che questo potesse far parte della dieta degli ominidi prima ancora che i nostri
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antenati e quelli degli scimpanzé si separassero, più di 5 milioni di anni fa. Naturalmente si tratta
di semplici congetture poiché la prima testimonianza diretta del consumo di miele risalgono al
paleolitico. La raccolta di miele è soggetto di analoghe rappresentazioni pittoriche politiche
rinvenute nelle caverne di tutto il mondo, ma con maggior frequenza in Africa, dove la dieta dei
cacciatori-raccoglitori moderni indica quanto possa essere importante il miele per questa forma di
sussistenza.

A prescindere dalla durata di questa passione per i cibi dolci che ci spinge a s dare le punture
delle api, così dolorose e a volte persino letali, non c'è dubbio che il pungiglione abbia
rappresentato la risposta evolutiva delle api mellifere al furto del miele da parte di altri animali. Le
specie di api prive di pungiglione sono numerose ma i loro alveari sono più piccoli e contengono
meno miele. Non solo le api a proteggere le loro tanto ambite fonti di calorie: anche le piante
fanno di tutto per tenere lontani i ladri, pronti ad impadronirsi del bottino senza o rire in cambio
l’impollinazione. In molti ori la selezione naturale ha nascosto un nettare in fondo a lunghi tubi
accessibili solo agli impollinatori più fedeli, quelli che l'evoluzione ha dotato di una proboscide
su cientemente lunga. Le api non temono il nettare tossico, ma il loro miele è in grado di far
ammalare gravemente le persone che lo consumano. Il veleno contenuto nel nettare, dunque
potrebbe servire a spaventare i mammiferi intenti a brucare i ori senza impedire la visita degli
insetti impollinatori. Tra le piante che producono nettare velenoso troviamo diverse specie di
rododendro e l'oleandro. Se nel mercato della natura la linfa zuccherina è una valuta liquida che
può essere trasportata, rubata, messa da parte o spesa, il grasso rappresenta i risparmi che il
corpo mette da parte e tiene a portata di mano per utilizzarli quando se ne ha bisogno. A parità di
peso, il grasso presente nel burro ha un contenuto di calorico doppio di quello dello zucchero. Un
dolce prelibato privo di grassi è una rarità, e non solo perché il grasso è saporito, ma anche
perché molte molecole sapide sono liposolubili: il grasso quindi è indispensabile per far giungere i
nostri recettori olfattivi.

Tra le varie forme che possono assumere le sostanze grasse, ci sono quelle utilizzate dalle piante
come riserve di energia per i semi. La sensazione del cioccolato che si scioglie in bocca è dovuta
alla fortunata coesistenza, nei semi di Theobroma cacao, di una dose generosa di grasso che
fonde a temperatura ambiente e della teobromina, un alcaloide con e etti stimolanti. Aggiungete
al tutto un po’ di zucchero e non potrete più stupirvi se risultato può dare quasi assuefazione.

I piatti e le bevande ad alto tenore di carboidrati e di grassi, uniti ad uno stile di vita sedentario
che utilizza una minima parte dell'energia assunta, sono le cause principali della pandemia
globale di obesità. Negli Stati Uniti 1/3 della popolazione adulta è obesa, in molti altri paesi
sviluppati la situazione è analoga; 2/3 gli uomini del Gran Bretagna sono sovrappeso o obesi, e in
tutta Europa occidentale la media è pari al 60%. L'eccesso di peso è uno dei principali fattori di
rischio per la sindrome metabolica, un gruppo di patologie che incombe sull'obeso come uno
stormo di uccelli del malaugurio: ipertensione, problemi cardiovascolari, diabete di tipo 2.

Il fruttosio è il gemello più dolce e più letale del glucosio; l’unione di una molecola di fruttosio con
una di glucosio da origine a una molecola di saccarosio. Il fruttosio che a parità di peso è due
volte più dolce del glucosio, e lo zucchero che molte piante accumulano nei propri frutti per
renderli resistibili ad animali come noi. Un frutto quindi è un involucro usa e getta che contiene un
carico prezioso: i geni della pianta. Le sostanze nutritive presenti nel frutto sono i soldi per il
viaggio; l'uccello, pipistrello o il primate forniscono il mezzo di trasporto in cambio di quei soldi.
Dal punto di vista della pianta, la destinazione nale del viaggio è un posto assicurato per le
generazioni a venire.

I produttori di cibi e bevande utilizzano uno stratagemma: grazie ad un enzima, convertono in


fruttuosio una parte del glucosio presente nello sciroppo di mais, tenendo così uno sciroppo ad
alto contenuto di fruttosio. Questo è così dolce, costa talmente poco ed è così maledettamente
buono da essere impiegato in molti processi di lavorazione alimentare in quasi tutte le bibite. Negli
ultimi trent'anni il consumo di fruttosio è raddoppiato. Le prove del suo ruolo fondamentale
nell’obesità e nell’eziologia della sindrome metabolica sono sempre più numerose.

Il corpo non ha un ruolo passivo nella gestione dell'equilibrio tra l'assunzione il consumo di
calorie, ma governa l'intero processo, compresa la velocità con cui le calorie vengono assunte,
immagazzinate e bruciate.

Mangiare è una scienza complicata che può essere in uenzata nel dettaglio da una miriade di
fattori, gli psicologi ne hanno scoperti diversi in grado di condizionarci quando siamo al ristorante:
l’aspetto del menù e delle posate, i nomi delle portate, il colore del piatto, la forma di un bicchiere
la musica di sottofondo o l'atmosfera del locale.

Proviamo a seguire il percorso di 12 grammi di zucchero di un normale bicchiere di succo


d'arancia per capire la di erenza tra metabolizzazione del glucosio e del fruttosio. Nello stomaco,
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saccarosio della bevanda viene scisso nelle sue due componenti: fruttosio glucosio (in parti
uguali). Il glucosio viene percepito come cibo e comincia a inibire la produzione di glicerina
l'ormone della fame; Il fruttosio invece non fa questo e etto e le sue calorie possono proseguire
indisturbate senza far scattare meccanismi di feedback che dicano: 'basta sono sazio’. Gli
zuccheri entrano poi nel sangue che le trasporta all'interno del corpo mentre il glucosio viene
utilizzato come combustibile da tutti gli organi. Il Fruttosio può essere metabolizzato nel fegato.

Il glucosio quindi viene condiviso mentre praticamente tutto il fruttosio (cioè metà delle calorie
ingerite insieme alla bevanda), nisce nel fegato. Qui si ferma anche il 20% del carico di glucosio,
se sommiamo i due contributi, scopriamo che il fegato è un organo sovraccarico di lavoro,
obbligato a metabolizzare il 60% delle calorie normalmente presenti in una bevanda zuccherata. I
danni provocati dal fruttosio tuttavia non si possono misurare semplicemente in cucchiaini da
ca è, ma gli e etti siologici di una cucchiaiata di fruttosio sono maggiori di quelli provocati dalla
stessa quantità di glucosio, perché il primo è invisibile e non solo ai sensori della sazietà e dello
stomaco, ma come ma anche agli altri meccanismi che governano l'economia energetica del
corpo. Il mantello dell'invisibilità che protegge il fruttosio dai ‘guardiani' che vegliano sulla quantità
di cibo ingerito, tuttavia è solo una delle caratteristiche, e neanche la peggiore. Se il fruttosio si
limitasse a farci ingrassare sarebbe già abbastanza nocivo, ma la situazione ha e etti ancora più
insidiosi. L'impatto del fruttuoso sulla sindrome metabolica, quindi non è spiegabile
esclusivamente in termini di rapporto calorico, deve esserci dell'altro. Una caratteristica comune a
tutte le tossine è loro dipendenza dal dosaggio; il fruttosio con i suoi e etti nocivi, non fa
eccezione. Il fegato è in grado di gestire il rilascio del sangue di piccole quantità di fruttosio, ad
esempio quando si mangia un frutto ma quando lo zucchino ingerito regolarmente e in grandi
quantità, l’accumulo di grasso epatico aumenta rigorosamente.

Cap. 11: I formaggi e la lavorazione del latte

Il latte è l'unico alimento di cui si possa dire veramente che si è voluto apposta per essere
consumato dall’uomo. Il formaggio è il risultato della condivisione di questo dono dell'evoluzione
con altri organismi cui cediamo una piccola frazione del suo contenuto di energia in cambio di una
profusione inesauribile di sapori. Nell’origine della specie, Charles Darwin insisteva sul fatto che
l'evoluzione attraverso la selezione naturale è un processo graduale e che la natura non avanza
per salti ma piccoli passi che in un intervallo di tempo lunghissimo niscono per condurre a un
cambiamento importante. Per Darwin infatti l'importanza del gradualismo per l'evoluzione
attraverso la selezione naturale, era tale da farne uno dei pilastri della teoria: ‘se si potesse
dimostrare che esistesse un qualsiasi organo complesso, che non può essersi formato tramite
molte tenui modi cazioni successive, la mia teoria crollerebbe completamente’.

Sappiamo che il latte di tutti i mammiferi contiene lo stesso gruppo di componenti fondamentali,
prodotti dagli stessi geni, e questo è possibile solo ammettendo la discendenza da un antenato
comune dotato del kit completo per l'allattamento. L’allattamento deve aver avuto origine molto
prima di 200 milioni di anni fa, può sembrare paradossale ma le ghiandole mammarie e il latte
sono più antiche dei mammiferi, proprio come le uova sono più antiche degli uccelli. Il latte dei
mammiferi è un liquido dalle caratteristiche uniche e ha due funzioni interdipendenti: nutrire i
piccoli e proteggerli.

Il nutrimento proviene dalle proteine, dai grassi, dallo zucchero, il grado di calcio e degli altri
minerali contenuti nel latte; La protezione è assicurata da anticorpi ed enzimi dotati di azione
antibatterica particolarmente abbondanti nel colostro, il primo latte che il mammifero nato riceve
dalla madre e che contiene anche cellule del sistema immunitario materno. È curioso come i
carboidrati presenti nel latte assumono la forma del lattosio, uno zucchero non inusuale, anziché
quella del glucosio. Il mondo è pieno di batteri e di lieviti a amati di glucosio, mentre i batteri
capaci di utilizzare il lattosio sono pochi. Lo stomaco dei mammiferi appena nati possiede un
enzima, la lattasi. Con la crescita lo svezzamento la produzione di lattasi diminuisce no al
cessare del tutto. Di solito i mammiferi adulti non sono in grado di digerire il lattosio, anche se è
quello presente nel latte materno che sono stati allevati. In condizioni normali, anche gli esseri
umani adulti non digeriscono il lattosio. Se siamo intolleranti al lattosio e consuma latte fresco non
fermentato, i batteri del nostro intestino si ‘ingozzano’ di lattosio e riempiranno la pancia di gas,
provocando scariche di diarrea e crampi allo stomaco. I primi agricoltori che altri domesticarono
le mucche e pecore, circa 11.000 anni fa nell'Asia sud occidentale, è probabile che gli animali
fossero sfruttati non solo per la carne ma anche per il latte. Gli adulti però non potevano berlo
perché erano intolleranti al lattosio, proprio come i loro discendenti, che ancora vivono nella
regione. Il latte quindi veniva trasformato in yogurt, come avviene tutt’ora. Lo yogurt si ottiene dal
latte aggiungendo i Lattobacilli LAB. Il LAB possiedono la capacità di utilizzare il lattosio come
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fonte di energia producendo acido lattico, il processo fermentativo che trasforma il latte in yogurt
si conclude quando lattosio nisce; il risulatato nale è un prodotto che una persona intollerante
può consumare senza problemi.

Le proteine presenti nel latte sono di due tipi: le casine che con la casei cazione del latte
precipitano formando la cagliata, e le proteine del siero, che restano sospese in soluzione. Le
molecole di caseina hanno l'aspetto di minuscole bre che tendono ad aggregarsi in micelle,
strutture nanoscopiche simili a sfere pelose. Le micelle di caseina in sospensione nel latte
di ondono la luce danno liquido il suo colore bianco; Quando vengono rimosse si ottiene un siero
limpido. La trasformazione della caseina sospesa nel latte in cagliata solida avviene per e etto
dell’acidi cazione, questa ha una funzione adattiva sia per la madre che per il piccolo perché
garantisce che il latte scorra liberamente nella ghiandola mammaria e che la caseina precipiti una
volta entrata in contatto con l'ambiente acido dello stomaco del bambino. Si tratta di un
passaggio obbligato: per digerire la caseina infatti servono molte ore e se rimanesse in
sospensione rischierebbe di andare perduta.

Per produrre il formaggio si possono usare anche starter a base di lattobacilli. I residui di latte
rinvenuti sui frammenti di ceramica provenienti dai siti archeologici dell'Asia sud occidentale,
sono la prova che 7000 anni fa i latticini erano di usi in tutta la regione, soprattutto dove si
praticava l'allevamento del bestiame. È probabile si trattasse di yogurt poiché si ritiene che il
formaggio abbia rappresentato un'innovazione più recente. Gli strumenti per la produzione di
formaggio compaiono solo 1000 anni dopo i primi recipienti utilizzati per i latticini: circa 6000 anni
fa infatti viene prodotto un nuovo tipo di vaso che nel fondo aveva dei piccoli fori.

Sui frammenti rinvenuti sono state trovate tracce di grasso del latte che fanno pensare che oggetti
simili fossero usati come colini per separare la cagliata ricca di grasso dal siero contenente
lattosio e produrre formaggio fresco simile occhi di latte. Circa 7500 anni fa però nelle montagne
dell'Europa centrale comprare una mutazione provocata dalla persistenza della Lattasi che
consentiva ai suoi portatori di tollerare il latte anche da adulti. La mutazione dilagò nell’Europa
settentrionale de nendo l'eredità evolutiva dei popoli di origine europea.

Se il latte è il cibo più naturale che un mammifero possa immaginare, il formaggio invece è con
ogni probabilità il più arti ciale. Ogni altro alimento per quanto possa essere frutto di una
selezione, ha un parente stretto in natura. Il formaggio è diverso, non è un prodotto associabile a
una o tutt'al più due specie, ma un micro cosmo che comprende decine di batteri e funghi diversi.
Da un punto di vista biologico un formaggio è un microbioma, cioè una comunità di microbi. In
natura il microbioma equivalente più simile al formaggio è la terra, ricca di funghi, batteri e altri
microbi che oltre a mangiarsi gli uni gli altri si cibano di organismi morti.

Alcuni dei microrganismi presenti nel formaggio come la mu a Penicillium Camemberti presente
nel formaggio a pasta molle, non sono mai state osservate altrove, si sono evoluti nel loro habitat
particolare da antenati abituati a vivere nella terra, nello sterco o sulla pelle dei produttori di
formaggio. Lo Streptococcus Termophilus è un lattobacillo di grande rilevanza commerciale
utilizzato nella produzione delle mozzarelle e dello yogurt. Si tratta di un batterio innoquo,
evolutosi dallo stesso antenato patogeno delle temibile specie di streptococcus che provoca la
faringite e la polmonite.

La mozzarella e lo yogurt non sono nocivi perché nel corso del processo di adattamento che ha
consentito allo streptococcus termophilus di vivere nel latte, i geni che rendono pericolosi i suoi
parenti sono stati disattivati dalle mutazioni. A di erenza della mu a penicillium camembert che è
stata isolata solo nel formaggio, penicillium roqueforti è responsabile delle venature blu del
roquefort, è un vagabondo che spunta da ogni dove. È un fungo speciale: lo si trova nei silos
dove conserva formaggio, nelle brioches, nella frutta cotta, nel legno, nel sorbetto alla fragola e
sulle pareti dei frigoriferi.

Una moltiplicazione rapida è importante per l'evoluzione dei microbi, ma altrettanto lo è un altro
meccanismo molto comune tra i batteri, ed estremamente più raro negli organismi pluricellulare: il
trasferimento genico orizzontale. L’ereditarietà che siamo abituati a considerare è quella in cui la
trasmissione dei geni è verticale, dai genitori alla parole, e che spiega la somiglianza tra le
generazioni. Oltre ad imparare a vivere nel latte, i batteri hanno perso alcuni dei geni indispensabili
per vivere come in passato, diventando incapaci di far fermentare gli zuccheri presenti nelle piante
e di sintetizzare alcuni degli aminoacidi che erano soliti utilizzare per se. Il lattosio ha rimpiazzato
gli zuccheri delle piante, gli amminoacidi, pur sempre necessari sono stati sostituiti da quelli
provenienti dalla scissione delle proteine del latte, rendendo inutili io geni utilizzati in precedenza. I
mutualismi sono un argomento di grande interesse teorico nell'ambito della biologia evolutiva
perché mettono in discussione l'idea che la selezione naturale favorisca solo comportamenti
egoistici. Relazioni del genere, in teoria rischiano di veder comparire una generazione di
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imbroglioni: individui pronti a sfruttare il comportamento cooperativo altrui e prendere senza dare
nulla in cambio, portando al collasso del rapporto mutualistico e impedendo addirittura che
questo instauri. Il mutualismo LAB-PAB del formaggio svizzero indica una possibile soluzione del
problema: in questo caso infatti la è relazione stabile perché i PAB si nutrono di un prodotto di
scarto dei LAB, il che esclude la possibilità che gli imbroglioni abbiano il sopravvento.

I batteri streptococcus termophilus e lactobacillus bulgaricus cooperano nella fermentazione dello


yogurt producendo sostanze che stimolano la crescita l'uno dell'altro. Avendo perso i geni per la
scissione delle proteine del latte, streptococcus termophilus dipende dagli aminoacidi e dai
peptidi rilasciati dal latto bacillus bulgaricus, il quale utilizza diversi acidi organici prodotti
esclusivamente dallo streptococcus termophilus.

Cap. 12: il vino e la birra

L’ a nità dell'uomo per l’alcol e i lieviti va al di là della semplice sbronza.

L’etanolo, è una minuscola molecola che i lieviti fanno apparire come la per magia dall'uva e dai
cereali, possiede un potere trasformativo immenso, paragonabile a quello di uno stupefacente. È
in grado di sollevare l'umore o di deprimerci, renderci più lucidi o intontirci, scatenare desiderio
compromettendo le prestazioni, renderci aggressivi o farci sprofondare nel torpore.

L'alcol è diverso dagli stupefacenti tradizionali. Ad esempio l'oppio e la cannabis esercitano la


propria azione sul cervello limitando il comportamento di sostanze naturalmente presenti nel
sistema nervoso, l'etanolo è una tossina priva di equivalenti funzioni nel metabolismo umano, lo
stesso vale per veleni come l’arsenico. La di erenza tra l'etanolo e gli altri veleni è che la nostra
esposizione all'etanolo presente nel cibo molto antica, dal momento che la ricetta preferita dei
grandi scimmie era il cocktail di frutta. Punto fermo della dieta degli scimpanzé, la frutta deve
avere avuto un ruolo importante anche in quella dei nostri comuni antenati. La pruina, patina che
ricopre la buccia di un acino maturo, contiene uno strato di microbi che avvolgono il frutto come
un esercito che cinge dalla sedia una fortezza dotata di provviste abbondanti. Con l’avvi della
fermentazione le specie microbiche iniziano a competere con esiti altalenantiper il caleidoscopio
bu et di carboidrati, avvalendosi a vicenda con i prodotti di scarto del proprio metabolismo,
proprio come avviene nel microbioma di un formaggio che sta invecchiando. La sostanza
commestibile principale è lo zucchero; Il più importante tra gli e uvi velenosi l’etanolo.

Il ruolo fondamentale del Saccharomyces cerevisiae ci dice che la storia evolutiva delle bevande
fermentate non ebbe inizio 10.000 anni fa con la domesticazione dell’uva o dei cereali e nemmeno
200.000 anni fa con la comparsa dei primi esseri umani, o 10 milioni di anni fa con la
diversi cazione delle grandi scimmie, ma addirittura nel Cretaceo tra 125 e 150 milioni di anni fa
con l’avvento delle piante a ore e dei primi frutti. Fu allora che gli antenati dell'odierno lievito di
birra iniziarono la loro carriera di consumatori di zuccheri e svilupparono la capacità di
trasformarlo in etanolo in presenza di aria, ponendo le basi genetiche di un'attività dall'impatto
epocale. Circa 80 milioni di anni fa il gene che codi ca per l’enzima, subì una duplicazione che
portò i geni ADH posseduti dall'odierno Saccaromices Cerevisiae. I due enzimi ADH
corrispondenti di eriscono per poco più di 20 aminoacidi sui 348 dell'intera proteina, ma hanno
e etti opposti. Quello associato al genere di ADH1 produce etanolo, mantenendo la funzione nata
con l'evoluzione dei primi frutti. Un enzima codi cato da ADH2, invece, converte l'etanolo in
acetaldeide, che il lievito utilizzano il suo metabolismo. La reazione che lo trasforma in acetaldeide
ha bisogno di ossigeno, ed è per questo che se volete evitare che il lievito utilizzi ADH2 per
consumare l'alcol e vani care cosi il lavoro utile dell ADH1 dovete impedire all'aria di entrare nel
fermentatore. Il processo alla base della vini cazione non è altro che la versione domestica della
fermentazione naturale della frutta che marcisce. L’origine della nostra tolleranza all'alcol è la
ADH4, una versione umana della vecchia alcol deidrogenasi. L’ADH4 metabolizza l'etanolo
quando la concentrazione nel fegato elevato. Ricostruendo l'evoluzione del gene che codi ca per
l’ ADH4 si è scoperto che in tutti i primati assunse la forma attuale tra 13 e 21 milioni di anni fa,
più o meno all'epoca dell'ultimo antenato comune dell'uomo e dell’orango. Il secondo possibile
vantaggio di una mutazione di ADH4 è molto più facile da veri care; avere un enzima capace di
annullare e cacemente gli e etti tossici dell'alcol potrebbe avere allargato lo spettro dei cibi
commestibili, consentendo non solo di mangiare la frutta guasta senza correre rischi ma anche di
includere l'alcol stesso come fonte di energia. La storia evolutiva di ADH4 depone senza dubbio a
favore dell'ipotesi che la nostra specie si sia adattata a tollerare l’alcool, ma non spiega come mai
alcuni individui nei diventino dipendenti e altri no. In Cina e in Giappone è molto di uso la
mutazione del gene che codi ca per l’ ADH1*B: il75% della popolazione infatti ha almeno una
copia ADH1*2. Lo stesso allele è presente in 1/5 degli abitanti dell’ Asia sud occidentale ma è raro
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tra gli europei e gli africani. Chi lo possiede è molto meno esposto al rischio di bere grandi
quantità e di diventare alcolista. Chi beve di più perché non è sensibile agli e etti di ADHI*2 o
perché non possiede l'allele, invece grazie al’ADH4 può sviluppare tolleranza all'alcol attraverso
l’assunzione abituale ma lo fa pagando con la propria salute. Il fegato immaginate sia una vasca
in cui l'alcol viene trasformato in acetaldeide; questa è una sostanza velenosa e dunque il suo
livello nella vasca deve essere tenuto sotto controllo. L’accumulo di acetaldeide dipende da tre
fattori: la quantità di alcol che a uisce nel sangue, velocità con cui gli enzimi ADH lo trasformano
in acetaldeide e quella con cui è metabolizzata l’acetaldeide stessa. Quest'ultimo processo ha
luogo nel fegato ad opera di tre enzimi acetaldeide, idrogenasi: su tutto funziona come si deve
perché si è bevuto con moderazione o perché gli enzimi lavorano velocemente si impedirà il
ritorno dell' acetaldeide nel sangue, evitando i postumi di una sbronza. Non tutti però sono così
fortunati, in alcuni individui i geni che codi cano per le ADH hanno mutazioni che diminuiscono
l'attività degli enzimi responsabili della metabolizzazione dell'acetaldeide. I possessori di tale
corredo genetico hanno enzimi ALDH malfunzionanti, e quando bevono non riescono a smaltire
l’acetaldeide. Una situazione del genere ha lo svantaggio che basta pochissimo alcol per subire
all’ istante gli e etti negativi, ma ha anche un aspetto positivo: le conseguenze sono così
sgradevoli che passa una sola copia dell'allele per correre pochissimi rischi di diventare alcolisti.
Alcuni alimenti, se associati all'alcol hanno e etti spiacevoli perché in uenzano la produzione o la
rimozione dell’acetaldeide. Ad esempio il fungo Coprinopsisn diventa tossico se consumato
insieme a bevande alcoliche perché contiene in coprina, una sostanza che neutralizza le ALDH e
provoca gli stessi e etti di una grossa sbronza già pochi minuti dopo l'assunzione di alcol.

Vista la lunga relazione evolutiva tra i lieviti, la frutta e i primati, possiamo dire con certezza che le
bevande fermentate furono una conseguenza inevitabile dell'avvento dell’agricoltura. L'ipotesi che
i primi cereali siano stati coltivati per fare la birra, e non il pane, è stata avanzata da più parti. La
birra non è solo una bevanda nutriente: la fermentazione alcolica permette anche di combattere i
batteri nocivi che potrebbero essere presenti nell’acqua. Attualmente le antiche testimonianze
archeologiche dirette della produzione di bevande fermentate sono i registi di riso fermentato,
miele e frutta rinvenuti nel vasellame del villaggio neolitico nello Henan (vicino alla provincia della
Cina settentrionale).

Le specie di uva selvatiche originarie della Cina sono numerose, mentre in Europa domina vitis
vinifera, l'antenata della domestica utilizzata da migliaia di anni per produrre il vino. Nelle specie
selvatiche i ori maschi e i ori femmina crescono in piante diverse: i grappoli quindi si sviluppano
solo su metà delle piante disponibili e i maschi sono necessari per l’impollinazione e la formazione
del frutto. Nelle specie domesticate i ori sono ermafroditi e contengono sia gli organi sessuali
maschili che quelli femminili. I grappoli quindi crescono su tutte le piante: sono più grandi e hanno
un contenuto di zuccheri più elevato, si sviluppano meglio rispetto alle varietà selvatiche.
Secondo Nikolaj Vavilov, la vite fu domesticata per la prima volta nel Caucaso, dove ancora oggi
abbondano le varietà selvatiche. La speranza che le moderne tecniche genetiche possono dirci
dove e quando venne la prima domesticazione è stata vani cata, almeno per il momento dal fatto
che da allora le piante selvatiche della regione hanno continuato impollinare quelle domestiche
rendendo illeggibile la rma genetica dell'avvento originale. Con tutti i suoi limiti, la genetica
conferma il dato archeologico: la domesticazione della vite avvenne e ettivamente nel Caucaso
meno di 10.000 anni fa. Da lì la viticoltura si di use al sud nella mezzaluna fertile per raggiungere
l'Egitto 5000 anni fa e continuando verso ovest lungo le coste mediterranee, no all'Europa
meridionale e alla Francia, dove arrivò circa 2500 anni fa. Fin dai tempi dell'antica Roma la
propagazione delle viti avvenne innestando la verità prescelta su apparati radicali dalle
caratteristiche ben de nite. Tutta l'uva di un dato cultivar, quindi deriva da un unico clone.

La creazione di nuove varietà avviene per selezione clonale incrociando varietà esistenti e
scegliendo, tra le nuove piante, quelle da propagare per innesto. Dopo la caduta dell'impero
romano fu l'avvento del cristianesimo a favorire il di usione delle viti in Europa per poter disporre
del vino per l’eucarestia. Con ogni probabilità il clone originale da cui ebbero origine le varietà
spagnole giunse dalla Francia con i pellegrini che attraversavano i Pirenei per recarsi a Santiago di
Compostela. In un clone si sviluppavano germogli diversi dal resto della pianta: sono le cosiddette
mutazioni gemmali, una delle possibili modalità di evoluzione delle varietà di uve. Sarà compito
del viticoltore decidere se propagare o meno la mutazione. Numerose sono le varietà evolutesi per
mutazione gemmaria dal pinot, coltivato dalla campagne e in Borgogna: solo nella Francia ne
sono stati riconosciuti e registrati 64 cloni. Molti cloni di Pinot tra cui il Pinot bianco e quello
grigio, sono il risultato di una mutazione comune che modi ca il colore degli acini. Il colore dei
grappoli di Pinot nero così come di altre varietà nere e rosse è dovuto alla presenza di una classe
di pigmenti, le antocianine. Poco dopo il 1860, nel sud della Francia fece la sua comparsa una
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nuova malattia di vite: fu in quell'occasione che la tecnica dell'innesto, utilizzato per preservare il
genotipo della varietà di uva, rivelano inaspettatamente un'ulteriore aspetto positivo. Le foglie
della pianta cadevano prima del tempo, i grappoli appassivano nelle vigne e le radici marcivano.
In un primo momento accade spesso quanto appare nella nuova malattia, non se ne conoscono
le cause. Fu scoperta la causa solo quando Jiuls Emil Planchon ebbe la brillante idea di
esaminarle le radici ancora sane ai bordi delle zone colpite. L’epidemia si di ondeva, devastando i
vigneti di tutta la Francia e raggiungendo la Spagna, la Germania e l’Italia. Qualcosa però non
tornava: l’insetto americano infestava le foglie delle viti mentre quello europeo né preferiva le
radici. Nel 1871 Riley sì recò in Francia dove potè osservare il parassita di persona: fu chiaro che
gli insetti americani e quelli europei appartenere alla medesima specie ovvero la lossera. La
llossera da un punto di vista evolutivo: dato che l'insetto proveniva dall'America, si disse che le
viti di quel continente dovevano essersi adattate per esistere al parassita. Per porre ne
all'epidemia europea di lossera bisognava importare gli apparati radicali di vite americane
esistenti (come vitis riparia) e innestarvi la varietà locali di vitis vinifera.

Nel 1873 Planchon attraversò Gli Stati Uniti notò i vigneti coltivati a vitis vinifera dagli immigrati
europei che tentavano inutilmente di produrre i vini di paese di origine. L'utilizzo dei portinnesti
originarie del continente americano, gli dissero fosse stato l'unico modo per coltivare le vitis
vinefera negli Stati Uniti. L’intuito evoluzionistico spinse Riley a mettere in guardia sulla possibilità
che il vitigno American concorde (che non era un innesto ma un ibrido tra specie americana ed
europea di vitis vinifera). In Europa la crisi di lossera causò nelle varietà di vitigni una perdita di
diversità genetica perché non fu possibile salvare tutti i cloni innestandoli sulle radici americane.
Tra le verità che si credevano perse per sempre c’era anche il carménère, uva a una bacca nera.
Grazie alla popolarità mondiale di cui godevano i vitigni francesi, nel XIX secolo si scoprì in
seguito che il vitigno era sopravvissuto in Cina e in Cile dove la lossera era assente.

Saccharomyces Cerevisiaeè presente in tutto il mondo ma i ceppi impiegati per produrre le


bevande tipiche delle diverse regioni sono frutto di domesticazione dipendenti della varietà
selvatica locale. In alcune aziende vitivinicole statunitensi si utilizzano i lieviti dei vini europei, che
condividono l'origine mediterranea. Nel tentativo di determinare la provenienza delle varietà
domestiche di lievito utilizzato nelle varie regioni del pianeta, ai campioni prelevati nei vigneti e
nelle cantine si sono aggiunti quelli raccolti natura, che hanno rivelato un risvolto inatteso nella
storia naturale di S. Cerevisiae. Si è anche scoperto che la vespa europea ospita S.Cerevisiae nel
proprio intestino. Le vespe che amano gli acini maturi, sono particolarmente numerosi nei vitigni
durante la stagione della vendemmia e rappresentano il nesso ecologico tra le popolazioni
selvatiche di lievito e quelle delle vigne. Le vespe costituiscono un serbatoio perenne chi viene
trasmesso da una generazione all'altra quando gli esemplari adulti danno da mangiare alle larve.
Gli adattamenti e le forme di selezione naturale cui sono soggetti i lieviti nella produzione di
bevande, non sono gli stessi che incontrano in natura. Nell’adattarsi al contesto di vini cazione S
cerevisiae ha acquisito per trasferimento genico orizzontale da altre specie di lievito tre sequenze
distinte di DNA contenenti 39 geni associati a funzioni fondamentali nella produzione del vino,
come la capacità di utilizzare la varietà di zuccheri, aminoacidi e fonti di azoto presenti nel mosto
in fermentazione. In alcune verità di S.Cerevisiae, i cosiddetti lieviti or, l'adattamento al vino si è
spinto addirittura più in là. I lieviti oor intervengono nel processo di invecchiamento di vari vini
bianchi, tra cui quelli liquorosi, come lo sherry, che maturano in botte. Si tratta di ceppi
specializzati per crescere al termine della fermentazione, quando tutto il glucosio e l'ossigeno
presenti nel vino stati consumati e la concentrazione di etanolo raggiunto i livelli massimi. La
ridotta concentrazione di glucosio attiva l’espressione di un gene, FLO11, che rende idrofoba la
super cie delle cellule del lievito e le porta ad aderire le une le altre, intrappolando bollicine di CO2
che le fanno a orare. Giunti in super cie i lieviti formano un bio lm, il cosiddetto or, che da il
nome ai ceppi. Il Saccharomyces Carlsbergensis ha fatto un viaggio che l'ho fatto arrivare alle
vasche del birri cio di Copenaghen dove è stato isolato per la prima volta e da cui ho preso il
nome non sono ancora del tutto chiari. I geni ci dicono che Saccharomyces Carlsbergensis è un
ibrido di S.cerevisiae. Nel 1845 il fondatore del birri cio Carlsberg, ottenne del lievito del birri cio
Spaten di Monaco di Baviera. Le sue culture furono utilizzate per produrre birra Carlsberg per 38
anni. Facendo due conti, si trova che al ritmo di una fermentazione a settimana il lievito fu messo
in coltura 2000 volte consecutive, può riprodursi e selezionarsi per decine di migliaia di
generazioni. A distanza di 38 anni dalla prima fermentazione dell’inoculo bavarese, quindi, il
birri cio danese aveva ottenuto una popolazione di lieviti totalmente addomesticato: il tutto fu un
controllo rigoroso della qualità della birra che trasformò il sistema di produzione e pose le basi
della futura multinazionale Carlsberg.

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Cap. 13: a tavola insieme
Condividere il cibo è umano, in ricchezza in povertà. È un impulso innato della nostra psiche,
anche se non implica che l'accesso al cibo sia uguale per tutti. Il cibo invece è un legame
inscindibile con le relazioni sociali, con tutte le complicazioni che ne derivano.

La storia dell'Etiopia, terra di banchetti e carestie, culla del genere Homo e patria del
l'Australopiteco Afarensys, ce ne hanno dato gli esempi più signi cativi. La condivisione del cibo
è un esempio paradigmatico di altruismo, inteso come comportamento che va a bene cio di
un'altro ma che rappresenta un costo per chi lo pratica. La condivisione delle risorse con
sconosciuti non è un comportamento adattivo e dunque richiede una spiegazione evolutiva
speci ca. La teoria dell'evoluzione ha sempre avuto di coltà a spiegare l'evoluzione
dell’altruismo; dal libro ‘l'origine dell'uomo e la selezione sessuale', parlando degli individui in
possesso di quella che chiama virtù morali, Darwin ammette che le circostanze che determinano
l'aumento del numero di uomini così dotati in seno alla medesima tribù sono troppo complesse
per essere chiaramente de nite. Come si può evolvere l'altruismo in un mondo governato da geni
egoisti? Sono state presupposte tre diverse spiegazioni punto la prima che fa per la cosiddetta
selezione parentale si basa sull'idea che i nostri geni, compreso un ipotetico genere dell’altruismo,
non sono patrimonio esclusivo del singolo ma anche i nostri parenti che ne possiedono una copia.
Il secondo tipo di spiegazione cerca di descrivere l'evoluzione della condivisione con gli estranei
in termini di reciprocità. La reciprocità può essere diretta (condivido il mio cibo con te nella
speranza che se in futuro avrò fame e tu ricambierei, o per accoppiarmi con te, ma anche in
diretta punti bene ci indiretti possono avere forme meno tangibili: amicizia vera sostegno
reciproco, prestigio).

Cap.14: il cibo del futuro

Cosa mangeremo domani? È la domanda che si fa ogni giorno chiunque debba mettere del cibo
in tavola. L'evoluzione del cibo sarà condizionata pesantemente due problemi: la crescita della
popolazione mondiale e i cambiamenti climatici globali. Il primo non è una novità, ma i
cambiamenti climatici renderanno molto più di cile sfamare una popolazione che sia verso i 10
miliardi di individui. Se non adatteremo i nostri sistemi di produzione alimentare e le culture,
l'aumento delle temperature, l’irregolarità delle precipitazioni, la siccità sempre più frequente e sul
lungo periodo l’innalzamento del livello dei mari, diventeranno una minaccia per la nostra capacità
di sostentamento. È stata l'invenzione dell'agricoltura nel neolitico a far schizzare verso l’alto la
crescita della popolazione mondiale.

Negli ultimi 250 anni l’aumento demogra co è stato favorito dalla di usione globale di culture di
base come il grano, la patata, il mais e la cassava. Tra il 1960 al 1980 la popolazione mondiale
crebbe del 50% passando da 3 miliardi a 4.5 miliardi, ma la produzione alimentare riuscì a tenere
il passo; aumentare in maniera radicale la resa di cereali naturalmente non è l'unico modo per
equilibrare l'o erta alla domanda di cibo negli anni che verranno. Tutti i miglioramenti auspicabili,
non c'è dubbio, ma non fare altro sarebbe come giocare d'azzardo con il nostro futuro. Per gli
scienziati che si occupano di cultura e quindi è necessaria una nuova rivoluzione verde. Oggi
conosciamo le sequenze geniche di almeno 50 culture, il che ha permesso ad esempio di
identi care con precisione le mutazioni responsabili di crescita ridotta tanto importanti per la
rivoluzione verde. Varietà resistenti ai parassiti, come la melanzana Bt possono ridurre la
di usione delle malattie, aumentare la resa e al tempo stesso limitare l'uso di sostanze attive
come i pesticidi. Una maggiore e cienza nell'impiego dell'acqua, possiede grazie all'ingegneria
genetica a ridurrebbe uno dei principali impatti ambientali dell’agricoltura. È drammatico che gli
OGM sono stati demonizzati a tal punto da indurre i consumatori a considerare necessariamente
pericolosa una tecnologia capace di fare del bene. Quello delle colture OGM è un problema
evolutivo da quattro punti di vista. Il primo è che nonostante le resistenze odierne, le modi cazioni
genetiche determineranno l'evoluzione futura delle nostre colture. È così che si evolverà il nostro
cibo, e in ogni caso col tempo ci si renderà conto di non poter de nire chiaramente cosa
distingue gli OGM dalle culture e dagli animali modi cati geneticamente da millenni di
domesticazione, e la polemica si sgon erà. La natura è stata la prima a praticare l'ingegneria
genetica. La terza ragione per cui il problema degli OGM è di natura evolutiva è che la selezione
naturale ha sviluppato e testato gran parte delle tecnologie: utilizzandole quindi, lavoriamo con la
natura, e non contro di essa.

Il gene della patata dolce addomesticata, ad esempio, contiene ogni genere provenienti da un
batterio simile al Rihzobium radio bacter, con ogni probabilità acquisiti durante il processo di
domesticazione dato che le sequenze di DNA in questione non sono presenti nelle varietà

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selvatiche imparentate. L'ultima tecnica di modi cazione genetica acquisita dalla natura e nora
senza dubbio anche quella più rivoluzionaria, è il sistema noto come CRISPR-CAS 9, un metodo
di editing genomico utilizzato dei batteri per conquistare un'immunità adattiva nei confronti dei
virus. Tutte le forme di selezione operata sugli animali e sui vegetali comprende quelle basate
sulla manipolazione genetica, possono avere conseguenze impreviste. La causa però non è la
maggior pericolosità intrinseca della tecnologia OGM. Il fatto che le novità portano sempre con sé
una dose di rischio.

In ogni caso le novità che più minacciano la salute e l'ambiente non sono le culture OGM o le
varietà domesticate ma le specie selvatiche come la formica Argentina, la cozza zebras e il kudzu
che quando sono uscite dal loro habitat naturale hanno causato danni inarrabili.

La nostra storia evolutiva ha plasmato le nostre capacità alimentari, è vero, ma ampliandole e non
stringendole. Siamo sopravvissuti a l’andirivieni di deserti e calotte polari, prosperando,
moltiplicandoci, occupando ogni continente perché siamo onnivori intelligenti adattabili. Se non lo
fossimo, rischieremmo l'estinzione come il Panda gigante, che si nutre quasi esclusivamente di
germogli di bambù, o il koala che vive solo sugli eucalipti.

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