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FÉLIX YUSSUPOV

Nacque il 24 marzo 1887 a Pietrobur­


go da famiglia fra le più nobili e ric­
che della Russia imperiale, e visse
nel fasto della corte dei Romanoff,
al iempo in cui essa era sotto l'infhts­
so del misterioso Rasputin. L'uccisio­
ne del terribile monaco, perpetrata dal
Yussupov, e la successiva rivoluzione,
lo obbligarono a prendere la via del­
l'esilio. In questo volume egli non si
limita a narrare come giunse all'uc­
cis-ione del celebre despota della corte
imperlale russa; ma traccia anche un.
quadro sereno di avv.enimenti che
avevano sconvolto non solo la sua
vita intima, ma quella di innumeri
famiglie russe; e anzi, in certo modo,
di tutto il mondo. Intorno alla strana
figura di Rasputin, che con le sue
facoltà quasi soprannaturali domina­
va la volontà dell'ultima Zarina e del­
l'intera corte di Nicola II, si svolge
questa narrazione storicamente esatta
dalla quale risulta evidentissima la
sconcertante personalità del monaco,
anche quando già egli si dibatte negli
spasimi dell'agonia. La propria vita e
quella della sua famiglia nella splen­
dida cornice della corte degli Zar, gli
anni dell'esilio, le innumerevoli av­
venture in tutte le capitali d'Europa
e in America, sono narrate dall'affa­
scinante principe Yussupov con rara
capacità di interessare e appassionare
il lettore, rivelando doti non comuni
di umorismo e di saggezza.

SECONDA EDIZIONE

RJZZOLI EDITORE MILANO


*SI DE RA *
PRINCIPE

FÉLIX YUSSUPOV

DA LLA CORTE
ALL'ESILIO
MEMORIE DELL'UCCISORE DI RASPUTIN

Con 20 tavole fuori testo

Rizzo/i ·Milano
PROPRIETÀ LETTERA RIA RI S ERVATA
Copyright 1927, 1952, 1954 by Librairie Plon, Parigi

Titolo delle opere originali:

LA FIN DE RASPOUTINE
AVANT L'EXILE
EN EXILE
Ed. Plon, Parigi

Unica traduzione autorizzata di

CESARE GIARDINI

Prima e d i z io n e: agosto 1955


Seconda edizione: dic embre 1955

Printed tn Italy
A mia moglie
PARTE PRIMA

P RIMA DELL'ESILIO
{1887-1919)
CAPITOLO I

La mia nascita - Delusione di mia madre - l genitori - Mio


fratello Nicola - Incoronazione dell'imperatore Nicola Il -
Maria, principessa ereditaria di Romania - Il principe Grizko.

S ono nato il 24 marzo 188?" nella nostra casa di Pietroburgo,


sul canale Moika. Mi è stato assicurato che la sera prima mia
madre era stata a un ballo al Palazzo d'Inverno e aveva dan­
zato tutta la notte. I nostri amici presagirono da ciò che io
sarei stato di carattere gaio e avrei avuto predisposizioni alla
danza. lo ho amato infatti l'allegria, però non sono mai stato
un buon ballerino.
Al battesimo mi fu imposto il nome di Felice. Padrino e
madrina furono rispettivamente mio nonno materno, principe
Nicola Yussupov, e la contessa di Chauveau, mia bisavola. Du­
rante la cerimonia che si svolse nella nostra cappella privata,
ci mancò poco che il prete mi facesse annegare nel fonte bat­
tesimale in cui, secondo il rito ortodosso, dovevo essere im­
merso tre volte. Sembra, anzi, che si stentasse parecchio a ria-
. .
ntmarmt.
Venendo al mondo, ero talmente gracile che i medici non
mi accordarono più di ventiquattr'ore di vita, e così brutto che
mio fratello Nicola, il quale aveva allora cinque anni, veden­
domi, esclamò: « Che orrore ! Bisogna buttarlo dalla finestra ! ,_
Mia madre, che aveva già avuto tre figli, due dei quali morti
in tenera età, era talmente convinta di dover dare finalmente
alla luce una femmina, che aveva fatto preparare tutto il cor­
redo in rosa. Per consolarsi della delusione mi vestì da bam­
bina sino all'età di cinque anni. Ciò non mi offendeva ; al con­
trario, mi ispirava una certa vanità. Per strada interpellavo i
passanti, dicendo « Guardate com'è bello bebé! , Questo ca­
_

priccio materno ebbe una certa influenza sul mio carattere.

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Il motto dei Sumarokov, (1) la famiglia di mio padre, era:
"Diritto per la mia strada", e mio padre rimase per tutta la
vita fedele a questa norma. Perciò il suo valore dal punto di
vista morale era superiore a quello della maggior parte delle
persone del nostro ambiente. Inoltre egli era alto, bello, sot­
tile ed elegante, con grandi occhi cupi e capelli neri. Benché
con gli anni si appesantisse, conservò sempre un magnifico por­
tamento. Aveva più buon senso che vera intelligenza. La sua
bontà faceva sì che fosse amato dagli inferiori e in modo par­
ticolare da quanti erano direttamente dipendenti da lui. Ma
nei rapporti con i superiori si mostrava generalmente poco
diplomatico, e più di una volta la sua franchezza gli pro­
curò delle seccature.
Ancor giovanissimo, si era appassionato per il mestiere
delle armi ed era entrato nel reggimento delle guardie a ca­
vallo di cui più tardi, prima di essere nominato generale al
seguito dell'imperatore, doveva assumere il comando. Verso la
fine del 1914 il sovrano gli affidò una missione all'estero e,
al ritorno, il posto di governatore generale di Mosca.
Mio padre non aveva nessuna delle qualità che ci sarebbe­
ro volute per amministrare una fortuna immensa, qual era
quella che mia madre gli aveva recato in dote, e fece parec­
chi investimenti disgraziati. Inoltre, il suo carattere era troppo
diverso da quello della creatura che viveva al suo fianco, per­
ché questa potesse sperare di essere compresa da lui come
meritava. Egli era soprattutto un soldato e non apprezzava
gran che gli ambienti intellettuali nei quali la moglie avrebbe
desiderato vivere. Per amor suo, mia madre sacrificò le pro­
prie preferenze e i propri gusti, e rinunciò a molte cose che
avrebbero potuto contribuire a renderle più gradevole la vita.
Quanto a me e a mio fratello, le nostre relazioni col babbo
erano improntate al massimo rispetto: ci limitavamo infatti
a baciargli la mano il mattino e la sera. Egli non sapeva niente
della nostra vita, e noi, per quanto mi ricordi, non avemmo
mai una conversazione confidenziale, a cuore aperto, con lui.
La mamma era affascinante : una figura slanciata, fine, gra-
(1) La madre dell'A. era l'ultima discendente dell'antica famiglia degli Yussu­
pov. Così, quando ella sposò il conte Sumarokov-Elston, questi fu autorizzato a pren­
dere il cognome di sua moglie per evitare che esso si estinguesse per mancanza di
eredi maschi. !N.d.T.]

IO
ziosa, capelli neriSSIIDI, carnagione ambrata, occhi azzurri,
scintillanti come stelle. Ed era non soltanto intelligente, colta,
incline alle arti, ma di una squisita bontà d'animo. Nessuno
poteva resistere al suo fascino. Tutte queste qualità non desta­
vano in lei vanità alcuna ; al contrario, era la modestia e la
semplicità in persona. < Più beni il cielo vi ha dato», ci diceva
spesso, « maggiori sono gli obblighi che avete verso il pros­
simo. Siate modesti, e se ritenete di possedere qualche supe­
riorità evitate di farla sentire a coloro che possano essere stati
meno favoriti dalla sorte >.
Era stata richiesta in matrimonio dai più grandi nomi di
Europa, senza eccettuare le famiglie regnanti, ma aveva re­
spinto tutti i partiti, risoluta ad accettare unicamente uno
sposo di propria scelta. Mio nonno. che vedeva già la figlia
su un trono, si disperava di trovarla così poco ambiziosa. Il
suo disappunto crebbe quando apprese ch'ella aveva deciso
di sposare il conte Sumarokov-Elston, semplice ufficiale della
guardia.
Mia madre aveva un'inclinazione naturale per il teatro e
per la danza che le avrebbe consentito di stare alla pari con
i migliori professionisti di queste due arti. Durante un grande
ballo in maschera a corte, nel quale tutti gli invitati dovevano
indossare il costume dei boiardi del XVI secolo, l'imperatore
la pregò di ballare la danza russa. Pur non avendo fatto nes­
suna prova preliminare con l'orchestra, ella seppe così bene
improvvisare che i musicisti la seguirono senza difficoltà, ed
ebbe, come si dice nei resoconti dei critici teatrali, "cinque
chiamate".
Il celebre direttore del teatro di Mosca, Stanislavsky, aven­
dola sentita recitare durante una rappresentazione di benefi­
cenza in Les Romanesque di Rostand, andò a trovarla e la
scongiurò di entrare a far parte della propria compagnia, af­
fermando che il suo vero posto era sul palcoscenico.
Dovunque entrasse, mia madre portava la luce ; il suo
sguardo splendeva di bontà e di dolcezza. Usava vestirsi con
sobria eleganza, non amava i gioielli, e, benché i suoi fossero
i più belli del mondo, se ne adornava soltanto nelle grandi
occasioni.
Quando l'infanta Eulalia, zia del re di Spagna, venne m

II
Russia, i miei genitori diedero un ricevimento in suo onore
nella nostra casa di Mosca. Ecco come, nelle sue Memorie, la
principessa spagnuola riferisce l'impressione che le fece mia
madre:
"Tra tutte le feste offerte in mio onore, quella organizzata
dalla principessa Yussupov mi colpì in modo speciale. La
principessa era bellissima, una di quelle bellezze maravigliose
che rimangono il simbolo di un'epoca. Ella viveva in mezzo
a un lusso inaudito, in una cornice d'impareggiabile sontuo­
sità, circondata da opere d'arte del più puro stile bizantino, in
un grande palazzo le cui finestre si aprivano sulla città cupa,
irta di campanili. Il lusso, il grande lusso fastoso e chiassoso
della vita russa, raggiungeva qui il proprio acme e si alleava
alla più pura eleganza francese. Durante questo ricevimento
la padrona di casa indossava un abito di corte ricoperto di
brillanti e di perle di un'iride perfetta. Alta, di una mirabile
bellezza plastica, ella portava in testa il kokosc'nick ( 1 ) ador­
no di perle gigantesche e di brillanti enormi, acconciatura che
teneva il posto del nostro diadema di corte e rappresentava
da solo un patrimonio in pietre preziose. Una profusione ab­
bagliante di gioielli fantastici, orientali e occidentali , comple­
tava l'insieme. Collane di perle, braccialetti d'oro massiccio
ornati di motivi bizantini, pendenti di perle e turchesi, anelli
da cui scaturivano raggi di tutti i colori, conferivano alla
principessa Yussupov l'aspetto di un'imperatrice del Basso
Impero".
Le cose andarono in modo affatto diverso in un'altra occa­
sione ufficiale. I miei genitori avevano accompagnato in In­
ghilt «Jra il granduca Sergio e la granduchessa Elisabetta inca­
ricati di rappresentare l'imperatore alle feste per il giubileo
della regina Vittoria. Dato che i gioielli erano di prammatica
alla corte inglese, il granduca aveva raccomandato a mia ma­
dre di portare quanto aveva di meglio. La grande valigia di
cuoio rosso in cui i gioielli erano riposti fu affidata ad un
cameriere che accompagnava i miei genitori. La sera dell'ar­
rivo al castello di Windsor, mentre si vestiva per il pranzo,
mia madre domandò i gioielli alla sua cameriera; ma la vali-
(l) Acconciatura russa molto voluminosa, ricamata e adorna di perle e pietre
preziose.

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gia fu introvabile, e per quella sera la principessa Yussupo-v
apparve con un abito sontuoso, ma senza un solo gioiello. Per
fortuna, la mattina seguente, la valigia fu ritrovata negli ap­
partamenti di una principessa tedesca i cui bagagli erano stati
confusi con quelli dei miei genitori.
Nella mia infanzia, nessuna gioia era per me paragonabile
a quella di vedere mia madre in abito da sera. Ricordo in modo
particolare un abito di velluto color albicocca, guarnito di zi­
bellino, che ella indossò in occasione di un grande pranzo of­
ferto alla Moika in onore di Li-Hung-Ciang, uomo politico ci­
nese di passaggio a Pietroburgo. Perle nere e diamanti comple­
tavano l'abbigliamento. Il pranzo ci offrì l'occasione di cono­
scere una delle più strane manifestazioni della cortesia cinese.
Alla fine del pranzo, due servi dalle lunghe lucide trecce si
avvicinarono a Li-Hung-Ciang recando l'uno un bacile d'ar­
gento, l'altro alcune penne di pavone e un tovagliolo. Il loro
padrone prese una penna, si stuzzicò in gola... e vomitò nel
bacile tutto quanto aveva mangiato. Inorridita, mia madre si
volse verso un diplomatico che sedeva alla sua destra e che
aveva vissuto per molti anni nel Celeste Impero.
<Principessa>, le disse questi, <dovete considerarvi estre­
mamente onorata, perché questo gesto di Li-Hung-Ciang è un
omaggio reso alla squisitezza delle pietanze e significa che Sua
Eccellenza è pronta a ricominciare>.
�1ia madre era molto amata dalla famiglia imperiale, par­
ticolarmente dalla granduchessa Elisabetta, sorella dell'impe­
ratrice. Ella rimase sempre in buoni rapporti con l'impera­
tore; invece la sua amicizia con l'imperatrice non fu di lunga
durata. Mia madre aveva uno spirito troppo indipendente per
nascondere le proprie opinioni, anche quando queste rischia­
vano d'essere poco gradite. Influenzata da alcuni dei suoi
intimi, l'imperatrice smise di vederla.
Nel 1917, il dentista di corte, dottor Kastrinzky, tornando
da Tobolsk dove la famiglia imperiale era prigioniera, ci tra­
smise un ultimo messaggio affidatogli dallo Zar. "Quando ve­
drete la principessa Yussupov, ditele che mi rendo conto ora
di quanto fossero giusti i suoi avvertimenti. Se fossero stati
ascoltati, si sarebbero certamente evitati molti tragici eventi".
I ministri e gli uomini politici apprezzavano la chiaroveg-
gcnza di mia madre c la sicurezza dei suoi giudizi. Ella avreb­
be potuto diventare l'animatrice di un salotto politico; ma
la sua modestia le impedì di recitare una simile parte, e que­
sta riscrbatczza accrebbe naturalmente il rispetto da cui era
cireondntn.
Min mndre non era attaccata al proprio denaro c lasciava
libero mio padre di disporne come meglio credesse, limitando
l'nttivitù pcrsonnle ullc opere di beneficenza e al migliora­
nwnio delle condizioni di vita dci nostri contadini. Non è ar­
rischinio pensare che, se avesse scelto un altro sposo, ella
uvrcbbc potuto recitare una parte importante, non soltanto
in Russia, ma sul più ampio teatro europeo.
J cinque anni che mi separavano da mio fratello Nicola
costituirono da principio un ostacolo alla nostra intimità; ma
quando raggiunsi l'ctù di sedici anni, si stabilì tra noi una
solida amicizia. Nicola aveva fatto gli studi alla scuola e al­
l'università di Piciroburgo. Egli non amava In vita militare
più di quanto l'amassi io c aveva rifiutato di scegliere la car­
riera delle nrmi; ma il suo carattere, che ricordava quello di
nostro pudre, era differente dal mio. Dalla mamma egli aveva
ereditato una certa disposizione per In musica, la letteratura
c il teatro. A vcntidue anni dirigeva una compagnia di attori
dilettanti che recitavano in teatri privati. Mio padre, ch'era
scandalizzato da queste inclinazioni, gli rifiutò sempre il per­
messo di recitare nel nostro teatro. Nicola tentò di farmi en­
trare nella sua compagnia, ma la prima parte che mi affidò,
quella di un gnomo, pungendo il mio amor proprio, mi tolse
la voglia di continuare.
Nicola era un ragazzone d'alta statura, coi capelli neri,
gli occhi scuri ed espressivi sotto le sopracciglia foltissime,
e una bocca larga e sensuale. Aveva una bella voce di baritono
e cantava accompagnandosi da sé con la chitarra.
Divenuto, a misura che cresceva in età, autoritario e sprez­
zante, considerava trascurabile qualunque opinione in contra­
sto con la sua e obbediva soltanto al proprio capriccio. De­
testava le persone che frequentavano la nostra casa, e in ciò
io condividevo interamente il suo modo di vedere. Per di­
strarci dalla noia che provocava in noi questo ambiente di­
gnitoso e ipocrita, avevamo preso l'abitudine ai esprimerci

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silenziosamente col solo movimento delle labbra, ed eravamo
diventati talmente abili a questo giuoco che potevamo farci
beffe senza riguardi di tutti i nostri ospiti, anche in loro pre­
senza. Ma questo modo di fare finì con l'essere notato e ci
attirò l'ostilità di molte persone.

Nel 1896, al tempo dell'assunzione al trono dell'imperatore


Nicola II, noi eravamo ad Arkhangelskoie sin dal mese di
maggio per ricevervi i numerosi ospiti venuti ad assistere alle
feste dell'incoronazione. Tra essi si trovavano il principe ere­
ditario di Romania e sua moglie, la principessa Maria. Il
granduca Sergio e la granduchessa Elisabetta ricevevano an­
ch'essi una grande quantità di parenti e di amici nel loro
possedimento d'Illinskoie ch'era a non più di cinque chilo­
metri dal nostro. Di conseguenza essi partecipavano frequen­
temente ai ricevimenti che si succedevano ad Arkhangelskoie.
Anche i sovrani erano spesso p resenti a queste feste il cui
splendore era quasi eguale a quello dei balli di corte.
Le feste continuarono a Mosca, dove i miei genitori e i loro
ospiti si trasferirono qualche giorno prima dell'incoronazione.
La nostra casa di Mosca, antico ritrovo di caccia dello zar
lvan il Terribile, aveva conservato il carattere del suo tempo:
grandi sale a volta, mobili del XVI secolo, oggetti d'oreficeria
finemente cesellati ; questo ambiente pieno di una sontuosità
del tutto orientale si adattava magnificamente ai più fastosi
ricevimenti. I principi stranieri che partecipavano ad essi, di­
chiaravano di non aver mai visto nulla di simile.
Mio fratello e io, considerati troppo giovani per p rendere
parte a queste feste, eravamo rimasti ad Arkhangelskoie.
Tuttavia fummo chiamati anche noi a Mosca il giorno dell'in­
coronazione. Ancor oggi, mi basta chiudere gli occhi per rive­
dere il Cremlino illuminato, con i suoi tetti rossi e verdi e le
cupole dorate delle sue chiese. Quella mattina vedemmo pri­
ma il corteo lasciare il palazzo imperiale diretto alla catte­
drale Uspensky. Dopo la cerimonia, lo zar e le due zarine,
avvolti nei mantelli della consacrazione e con la corona in
testa, seguiti dalla famiglia imperiale e da tutti i p rincipi
stranieri, lasciarono la cattedrale per tornare al Palazzo. Gli

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ori e le pietre preziose scintillavano nel sole, che quel giorno
sembrava splendere in modo particolare. Soltanto la Russia
poteva offrire un simile spettacolo. Quando lo zar e le zarine
apparvero dinanzi alla folla, erano veramente gli unti del
Signore. Chi avrebbe potuto prevedere allora che ventidue
anni dopo, di tanta grandezza, di tanto fasto non sarebbe ri­
masto che il ricordo?
Più tardi si raccontò che una delle cameriere dell'imperatri­
ce, mentre vestiva la sovrana per la cerimonia, si era punta un
dito con una fibbia del mantello imperiale e che una goccia
di sangue era caduta sull'ermellino. Tre giorni dopo, la ter­
ribile catastrofe della Khodinka piombò la Russia nel lutto.
A causa della mancanza di organizzazione, durante la distri­
buzione dei regali che i sovrani offrivano al popolo, vi fu un
terribile pigia pigia nel quale persero la vita migliaia di per­
sone, schiacciate, calpestate dalla folla in preda al panico.
Molti videro in ciò un presagio sinistro per il nuovo regno.
La maggior parte delle feste che dovevano seguire l'inco­
ronazione furono sospese. Tuttavia, mal consigliato da una
parte dei familiari, Nicola II si persuase che fosse suo dovere
assistere al grande ballo offerto quella sera all'ambasciata di
Francia. Un profondo disaccordo si era manifestato in pro­
posito tra i granduchi. I tre fratelli del granduca Sergio, al­
lora governatore generale di Mosca, nell'intento di diminuire
le proporzioni di una catastrofe nella quale era fortemente
impegnata la responsabilità del loro congiunto, affermavano
che non si doveva mutare in nulla il programma dei festeg­
giamenti. Per aver espresso con fermezza un'opinione diame­
tralmente opposta, i quattro "Mikhailovici" (il granduca Ales­
sandro, mio futuro suocero, e i suoi fratelli) si videro accu­
sati di intrigare ai danni dei loro maggiori parenti.
Dopo l'incoronazione, i miei genitori tornarono ad Arkhan­
gelskoie con i loro ospiti. Il principe Ferdinando di Romania
e la principessa Maria prolungarono il loro soggiorno. Il prin­
cipe Ferdinando era nipote del re Caro} l. Ricordo assai bene
il re Carol che veniva spesso a trovare mia madre. Era bello
e d'aspetto maestoso, con i capelli che incominciavano a in­
canutire e il suo profilo d'aquila. Si diceva che due sole cose,
la politica e le questioni finanziarie, lo interessassero vera-
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L'autore nel 1918.
Il principe e la principessa Yussupov, genitori dell'autore,
con i figli Nicola e Felix (1889).
mente, e che trascurasse la moglie, principessa di Wiede, ben
nota come scrittrice sotto il pseudonimo di Carmen Sylva.
La coppia reale non aveva figli ; per questa ragione il prin­
cipe Ferdinando era stato designato quale erede al trono.
Quest'ultimo era un uomo simpatico, ma affatto privo di per­
sonalità, molto timido e indeciso, tanto in politica quanto
nella vita privata. Avrebbe potuto essere un bell'uomo se
non avesse avuto orecchie esageratamente sporgenti. Aveva
sposato la figlia maggiore della principessa Maria di Sassonia
Coburgo, sorella del nostro imperatore Alessandro III .
La bellezza della principessa Maria era già celebre. Ella
aveva soprattutto due occhi magnifici, di un grigio azzurro
così raro, che bastava vederli una volta per non dimenticarli
più ; la sua figura era fine c slanciata come lo stelo di un fiore.
lo ne ero interamente soggiogato : la seguivo dappertutto come
un'ombra, alla notte evocavo il suo viso e non potevo prender
sonno. Una volta mi baciò; ne fui talmente felice che, la sera,
non volli che mi lavassero la faccia. Quando lo seppe, la cosa
la divertì molto. Parecchi anni più tardi, pranzando a Londra
alla tavola dell'ambasciatore d'Austria, rividi la principessa
Maria e le ricordai quell'episodio, che ella non aveva però
dimentica to.
Sempre all'epoca dell'incoronazione fui testimonio di un
fatto che· colpì durevolmente la mia fantasia infantile. Un
giorno, mentre eravamo a tavola, udimmo nella stanza vi­
cina il passo di un cavallo. La porta si aprì e vedemmo com­
parire un cavaliere di bella apparenza, in sella a un magnifico
animale; il cavaliere aveva in mano un mazzo di rose che
gettò ai piedi di mia madre. Era il principe Grizko Witge­
stein, ufficiale di scorta dell'imperatore, uomo molto sedu­
cÈmte, che le sue eccentricità avevano reso celebre e per il
quale andavano matte tutte le donne. Mio padre, offeso per
l'audacia di quel giovane ufficiale, gli vietò di varcare in av­
venire la soglia della sua casa.
Il mio primo impulso fu di condannare l'atteggiamento
di mio padre. Ero indignato ch'egli avesse oltraggiato così
un uomo nel quale io vedevo un vero eroe, una reincarnazione
degli antichi cavalieri, e che non temeva di proclamare il
proprio amore con un gesto così pieno di nobiltà.
CAPITOLO II

Mia infanzia malaticcia - L'argentino


- I viaggi formano la
gioventù - Napoli e la Sicilia.

N ei primi anni della mia vita conobbi, l'una dopo l'altra,


tutte le malattie dell'infanzia, che mi lasciarono per lungo
tempo debole e malaticcio. La mia magrezza mi mortificava,
e mi chiedevo che cosa potessi fare per ingrassare, quando
un'inserzione pubblicitaria esaltante i meriti delle Pilules
orientales ridestò in me le più grandi speranze. Acquistai e
provai lo specifico di nascosto, ma fui molto deluso di non
ottenere nessun risultato. Un giorno il medico che mi curava,
scorgendo sul mio comodino la scatola delle pillole in questio­
ne, mi domandò qualche spiegazione in proposito ; quando
gli confessai la mia delusione, si divertì molto, ma mi ordinò
di sospendere la cura.
La mia salute cagionevole era affidata a parecchi medici,
ma io avevo una spiccata preferenza per il dottor Korovin al
quale, in conseguenza del suo nome (korova in russo significa
vacca), avevo dato il soprannome di "zio Meuh". Quando, dal
letto, udivo avvicinarsi il suo passo, mi mettevo a muggire,
ed egli, per non esser da meno, mi rispondeva nello stesso mo­
do. Come molti medici del tempo, egli mi auscultava attra­
verso un semplice asciugamano. Mi piaceva sentire l'odore del­
la lozione di cui egli si serviva per i capelli, e per molto tempo
fui persuaso che la testa di un medico dovesse necessaria­
mente avere un buon profumo.
Il mio carattere si manifestava ostico. Non senza rimorso
penso talvolta a tutti coloro che si sono affaticati per edu­
carmi. Da principio vi fu una governante tedesca che, prima
di occuparsi di me, aveva allevato mio fratello, e alla quale
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un amore infelice per il segretario di mio padre (e fors'anche
il mio cattivo carattere) fece perdere la ragione. I miei ge­
nitori dovettero farla internare in una casa di salute, e io ven­
ni affidato all'antica governante di mia madre, la signorina
Versilov, una donna adorabile, buona e piena di abnegazione
che faceva in certo qual modo parte della famiglia.
Siccome ero un pessimo allievo, la governante pensò
di stimolarmi organizzando corsi di studi collettivi ; ma io
rimasi egualmente pigro e distratto e il mio cattivo esempio
esercitava la peggiore influenza sui compagni di studi. Già
vecchia, la signorina Versilov sposò il precettore svizzero di
mio fratello, il signor Penard, uomo erudito e gentile del qua­
le ho serbato il migliore ricordo. Egli vive ancora, novanta­
seienne, a Ginevra. Le sue lettere mi recano talvolta l'eco di
quel lontano passato nel quale misi tante volte alla p rova la
sua bontà e la sua pazienza.
Dopo un tedesco ubriacone che si coricava ogni sera con
una bottiglia di champagne, scoraggiai successivamente un
numero incredibile di precettori russi, francesi, inglesi, sviz­
zeri, tedeschi, e perfino un prete che fu più tardi precettore
dei figli della regina di Romania. Molti anni dopo, la regina
mi disse che il mio ricordo era rimasto un incubo per quel
povero prete e volle sapere da me se tutto ciò che egli rac­
contava era vero. Ahimè! dovetti riconoscere che egli non
inventava niente ! Ricordo ancora l'insegnante di musica alla
quale morsi un dito in modo tanto feroce che per un anno
intero la poveretta non poté sonare il pianoforte.

Giunto all'età in cui, per un bambino, tutto si presenta


sotto l'aspetto di un punto interrogativo, cominciai a seccare
con le mie domande le persone che vivevano intorno a me.
Quando chiedevo una spiegazione dell'origine del mondo, mi
si rispondeva che tutto derivava da Dio.
« Ma Dio chi è ?).
« La Potenza invisibile che abita i cieli).
La risposta era troppo vaga per soddisfarmi e, per molto
tempo, scrutai il cielo nella speranza di scoprire qualche 1m-

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magine o qualche rivelazione che valesse a darmi un'idea più
precisa della divinità.
Quando cercavo di penetrare il mistero dell'origine degli
esseri viventi, le spiegazioni che mi venivano date mi sem­
bravano ancor più confuse. Le persone che interrogavo par­
lavano del matrimonio, di un sacramento istituito da Gesù
Cristo ... Mi fu anche detto che ero troppo giovane per capire
certe cose, ma che, più tardi, ne avrei scoperto il senso da
solo. Non potevo accontentarmi di risposte così incerte, e, la­
sciato solo di fronte a questi enigmi, li risolvevo a modo mio.
Mi rappresentavo Dio come il re dei re, seduto su un trono
d'oro, in mezzo alle nuvole e circondato da un coro di arcan­
geli. Convinto che gli uccelli dovessero essere i fornitori di
questa corte celeste, prelevavo durante i pasti una parte del
mio cibo e la mettevo in un piatto sulla finestra. Quando ri­
trovavo il piatto vuoto, me ne rallegravo moltissimo perché
ero persuaso che il re dei re avesse gradito la mia offerta.
Con lo stesso semplicismo infantile risolsi l'enigma della
procreazione. Ero convinto, per esempio, che l'uovo fatto dal­
la gallina altro non fosse che un frammento staccato dal
corpo del gallo e subito rinnovato, e che un analogo fenomeno
si verificasse negli esseri umani. La diversità che avevo no­
tato tra le statue dei due sessi e un attento esame della mia
anatomia, mi avevano portato a questa singolare conclusione,
della quale mi ritenni pago sino al giorno in cui la verità mi
fu brutalmente rivelata in seguito a un incontro che feci a
Contrexéville, dove mia madre si era recata per cura.
Avevo allora una dozzina d'anni. Quella sera, dopo pran­
zo, ero uscito solo per passeggiare nel parco. Passando presso
una sorgente, scorsi, attraverso le finestre di una casetta che
si ergeva in mezzo agli alberi, una donna graziosa tra le brac­
cia di un giovanotto abbronzato che la stringeva a sé con ar­
dore. Dinanzi all'evidenza del piacere che provava la coppia
allacciata, un sentimento nuovo s'impadronì di me. Mi avvi­
cinai per contemplare quelle due giovani e belle creature che,
naturalmente, non sospettavano di essere spiate.
Tornato a casa, raccontai a mia madre quello che avevo
visto. Mi parve che fosse turbata e che si affrettasse a mutare
argomento.
20
Quella notte non potei dormire. Ero ossessionato dal ri­
cordo di quella scena. Il giorno dopo, alla stessa ora, tornai
alla casetta del parco, ma la trovai vuota. Stavo per rinca­
sare quando scorsi nel viale il giovanotto bruno venire verso
di me. Mi avvicinai a lui e gli domandai a bruciapelo se aves­
se per quella sera un nuovo appuntamento con la ragazza.
Dapprima mi guardò con stupore, poi si mise a ridere e volle
sapere perché gli facessi una simile domanda. Quando gli
rivelai di essere stato testimone della scena della sera prima,
mi disse che aspettava la ragazza al suo albergo in serata e
mi invitò a unirsi a loro. Immagini il lettore quale turba­
mento provocasse in me questa proposta.
Tutto andò in modo da facilitarmi le cose. Mia madre,
stanca, si ritirò di buon'ora e mio padre andò a giocare a car­
te con alcuni amici. L'albergo che mi aveva indicato il gio­
vanotto era vicinissimo al nostro. Egli mi aspettava seduto
sui gradini, mi complimentò per la mia esattezza e mi con­
dusse in camera sua. Mi aveva appena informato che era ar­
gentino quando entrò la sua giovane amica.
-Non saprei dire quanto tempo rimasi con loro. Quando
rientrai nella mia camera, mi buttai sul letto senza spogliar­
mi e piombai in un sonno profondo. Quella fatale serata mi
aveva bruscamente illuminato su tutto quanto fino allora mi
era sembrato misterioso. In poche ore il ragazzo candido e
innocente che ero ancora aveva subito una completa inizia­
zione ai piaceri della carne. Quanto all'argentino autore di
questa iniziazione, il giorno dopo scomparve e non lo rividi
mai più.
Il mio primo impulso fu d'andare a confessar tutto a mia
madre, ma ne fui trattenuto da un sentimento di p udore e,
insieme, di apprensione. Le relazioni tra gli esseri mi erano
sembrate talmente sorprendenti che, alla prima, credetti si
stabilissero all'infuori da ogni distinzione di sesso. In conse­
guenza delle rivelazioni dell'argentino, immaginavo gli uomi­
ni e le donne che conoscevo negli atteggiamenti più ridicoli
e assurdi. Ma si comportavano veramente tutti in modo così
strano ? Perduto in mezzo alle immagini bizzarre che danza­
vano nella mia testa di fanciullo, mi sentivo preso dalla ver-

21
tigine. Quando, un po' più tardi, ne parlai con mio fratello,
fui sorpreso di trovarlo tanto indifferente ai problemi che mi
preoccupavano. Allora mi rinchiusi in me stesso, e non parlai
più di questi argomenti con nessuno.

Nel 1902 i miei genitori stabilirono di mandarmi a fare


un viaggio in Italia con un vecchio professore d'arte. Il buffo
aspetto del professore Adriano Prakhov non gli permetteva
di passare inosservato. Basso e tozzo, con una grossa testa in­
corniciata da una chioma leonina e la barba tinta di rosso,
aveva l'aria di un clown. Avevamo fissato di chiamarci scam­
bievolmente "don Adriano" e "don Felice". Il viaggio comin­
ciò a Venezia e finì in Sicilia ; fu molto istruttivo, ma non nel
senso che intendevano i miei genitori.
Oppresso dal caldo, mi sentivo poco disposto ad apprez­
zare le bellezze artistiche italiane. In compenso, don Adriano
correva coraggiosamente da una chiesa all'altra, da un museo
all'altro, senza dar mai il minimo segno di stanchezza. Si
fermava per ore davanti a ogni quadro e faceva al primo
venuto lunghe conferenze in francese, con un accento orri­
bile. Di conseguenza, eravamo sempre seguiti da un codazzo
di turisti evidentemente abbagliati dal professore. Quanto a
me, che non avevo mai amato gran che l'insegnamento col­
lettivo, maledicevo tutta quella gente sudata e munita di ap­
parecchi fotografici, che si ostinava a seguirei.
Don Adriano si era vestito in un modo che riteneva adat­
to al clima del paese : abito di alpagà bianco, cappello di pa­
glia e parasole color verde mela. Non potevamo muoverei sen­
za avere alle calcagna un codazzo di monelli. Per quanto gio­
vane fossi, mi rendevo conto che quel comico personaggio non
era il compagno ideale per percorrere in gondola i canali
veneziani.
A Napoli prendemmo alloggio all'Hotel du Vésuve. Il cal­
do si era fatto insopportabile e io rifiutavo di uscire prima
del tramonto. Il professore, che aveva in quella città molte
relazioni, passava la giornata in loro compagnia mentre io
restavo solo all'albergo. Alla fine della giornata, quando la
temperatura si faceva meno torrida, mi mettevo al balcone
22
e mi distraevo guardando i passanti. Mi accadeva anche di
scambiare qualche parola con loro, ma la mia scarsa cono­
scenza dell'italiano non mi permetteva lunghe conversazioni.
Una sera, una carrozza di piazza si fermò davanti all'albergo,
e ne scesero due signore. Interpellai il cocchiere, un giovane
dal volto simpatico che capiva abbastanza bene il francese,
e gli confidai che mi annoiavo mortalmente e che avrei voluto
visitare Napoli di notte. Si propose come guida per quella
stessa sera e disse che sarebbe venuto a prendermi alle undici.
A quell'ora il professore dormiva profondamente. Il cocchiere
fu puntuale all'appuntamento. Uscii di camera mia sulla pun­
ta dei piedi e, senza preoccuparmi menomamente del fatto
che non avevo in saccoccia neanche un soldo, salii nella car­
rozza e ci mettemmo in moto. Dopo aver percorso qualche
strada deserta, il giovane italiano si fermò davanti a una por­
ta in fondo a un vicolo scuro. Entrando nella casa, fui stu­
pito di vedere una grande quantità di animali impagliati,
tra cui un grosso coccodrillo, sospesi per mezzo di cordicelle
al soffitto. Credetti lì per lì di essere stato introdotto in un
museo di storia naturale, ma capii d'essermi ingannato quando
vidi avanzarsi verso di me una donna grande e grossa esage­
ratamente truccata e adorna di gioielli falsi. La sala in cui
essa ci fece entrare era ammobiliata con grandi divani di vel­
luto rosso; molti specchi erano appesi alle pareti. Mi sentivo
un po' imbarazzato ; invece il mio automedonte, del tutto a
proprio agio, ordinò dello champagne e sedette vicino a me,
mentre la padrona del locale si sedeva dall'altra parte. Le
donne sfilavano davanti a noi, in un'atmosfera satura di un
odore di corpi in traspirazione e di profumi da poco p rezzo.
Ce n'erano di tutti i colori e persino qualcuna negra. Certe
erano completamente nude, altre vestite da baiadera, da ma­
rinaio o da bambina. Camminavano dondolandosi e mi get­
tavano occhiate stuzzicanti. Mi sentivo sempre più imbaraz­
zato, quasi spaventato. Il vetturino e la matrona bevevano
abbondantemente, e io li imitai. Di tanto in tanto mi abbrac­
ciavano dicendo : "Che bel bambino/" ( 1 ) .
Improvvisamente l a porta s i spalancò e io rimasi pietri­
ficato vedendo entrare il mio professore ! La padrona si slan-
(1) In italiano nel testo.
ciò verso di lui e lo strinse tra le braccia come un vecchio
frequentatore della casa. lo, dal canto mio, cercai di nascon­
dermi dietro il vetturino, ma don Adriano mi aveva visto.
Il suo volto fu illuminato da un largo sorriso e, avvicinatosi
a me, mi abbracciò con effusione esclamando: "Don Felice !
don Felice !". Gli spettatori della scena ci guardavano con stu­
pore. Il primo a reagire fu il vetturino. Empì una coppa di
champagne e l'alzò esclamando: "Evviva! Evviva!" (t), dopo
di che fummo fatti segno a ovazioni frenetiche.
Non so a che ora terminò questa serata, ma il giorno dopo
mi destai con un gran male di testa. Da quel giorno, non ri­
masi più solo all'albergo. Nel pomeriggio, appena il caldo si
faceva meno insopportabile, andavo a visitare i musei col
professore, e alla sera, sempre col professore e in compagnia
del compiacente vetturino, partecipavo alla vita notturna di
Napoli.
Passeggiavo un giorno in riva al mare ammirando il golfo
e il Vesuvio, quando un mendicante mi prese per un braccio
e indicandomi il vulcano, mi disse con un tono di voce da
cospiratore : "Vesuvio". Poi, pensando senza dubbio che una
simile confidenza meritasse d'essere remunerata, mi domandò
l'elemosina. La cosa non era stata mal calcolata, perché lo ri­
compensai con larghezza, non già dell'informazione, ma del
divertimento che mi aveva procurato la sua sfrontatezza.
Da Napoli passammo in Sicilia, dove sostammo a Palermo,
Taormina e Catania. Il caldo persis'teva. L'Etna, col suo col­
lare di neve, fumava. Sperando di poter respirare un'aria più
fresca, proposi di farne l'ascensione. Don Adriano si mostrava
poco entusiasta, ma finii col convincerlo e ci mettemmo in
moto a cavallo di due asini e con la scorta delle guide. L'a­
scensione fu molto lunga; quando raggiungemmo il cratere,
il professore era morto di stanchezza. Eravamo smontati dagli
asini per ammirare la splendida vista, allorché ci parve che
il calore del terreno aumentasse, mentre, qua e là, fumacchi
e vapori sorgevano tra le rocce. Presi dal panico, saltammo
sugli asini e cominciammo la discesa. Le guide, che la
nostra paura aveva evidentemente divertito, ci richiamarono
e ci dissero che si trattava di un fenomeno consueto e che
(l) In italiano nel testo.

24
non c'era nessun motivo di allarmarsi. Passammo la notte in
un rifugio nel quale il freddo ci impedì di dormire. Il giorno
dopo dovemmo convincerci che il caldo della pianura era più
sopportabile del freddo della montagna, e risolvemmo di tor­
nare a Catania senza perder tempo. La nostra partenza fu
contrassegnata da un incidente che avrebbe potuto diventare
tragico. Costeggiando il cratere, l'asino del professore mise
un piede in fallo, gettando a terra il suo cavaliere che rotolò
nell'abisso. Per fortuna, egli poté aggrapparsi a una roccia,
e ciò diede alle guide il tempo di accorrere e di toglierlo dalla
scomoda posizione più morto che vivo.
Prima di tornare in Russia, trascorremmo alcuni giorni a
Roma. È un vero peccato che io non traessi maggior profitto
da questo viaggio. Venezia e Firenze mi avevano fatto una
grande impressione, ma ero ancora troppo giovane per ap­
prezzarne le bellezze, e i ricordi che riportai da questo primo
viaggio in Italia, come il lettore ha potuto vedere, non ave­
vano nulla di particolarmente artistico.
CAPITOLO III

Le nostre diverse residenze - Pietroburgo - La Moika, i suoi


servitori e i suoi ospiti - Una cena a "l'Orso".

Un ordine pressoché immutabile regolava i nostri sposta­


menti nel volgere delle stagioni: l'inverno veniva suddiviso
tra Pietroburgo, Zarskoie-Selò e Mosca ; l'estate ci riportava
ad Arkhangelskoie, l'autunno nelle nostre terre di Rakitnoie
per la caccia. Verso la fine d'ottobre, si partiva per la Crimea.
Andavamo raramente all'estero, ma i nostri genitori porta­
vano a volte mio fratello e me a visitare le loro fabbriche e
le loro terre ch'erano numerose e disseminate per tutta la
Russia, talune così lontane che non ricevettero mai la nostra
visita. Uno di questi possedimenti, posto nel Caucaso, si sten­
deva per duecento chilometri lungo la riva del mar Caspio.
Il petrolio v'era così abbondante che il suolo ne era come
imbevuto e i nostri contadini se ne servivano per ungere
le ruote dei carri. Per questi spostamenti lontani avevamo
una vettura personale, più comoda delle varie abitazioni che
visitavamo e che sovente non erano neppure in condizioni
di riceverei. Parecchi scompartimenti riservati agli amici era­
no annessi ai nostri appartamenti privati. Ciò perché una ve­
ra folla di persone, delle quali mio padre non avrebbe saputo
fare a meno, ci accompagnava. Mia madre avrebbe preferito
un po' più di calma, tuttavia faceva ugualmente buon viso
agli amici del marito. Ma io e mio fratello li detestavamo,
perché ci privavano della compagnia di nostra madre, e deb­
bo riconoscere che questa antipatia era assolutamente re­
ciproca.
Pietroburgo, che per la sua posizione sul delta della Neva
è stata soprannominata "la Venezia del Nord", era una delle
più belle capitali d'Europa. È impossibile immaginare la bel­
lezza della Neva, col suo lungofiume di granito rosa e i ma­
gnifici palazzi che sorgono sulle sue rive. Il genio di Pietro
il Grande e di Caterina II è presente dappertutto nella per­
fetta disposizione dei monumenti. L'imperatrice Alessandra
aveva fatto disegnare da un decoratore tedesco la cancellata
del giardino che si stende dinanzi al Palazzo d'Inverno. Que­
sto edificio, costruito all'inizio del XVIII secolo dall'impera­
trice Elisabetta, è il capolavoro del celebre architetto italiano
Rastrelli. La cancellata era mostruosa, tuttavia, per quanto
si fosse fatto per rendcrlo brutto, il Palazzo d'Inverno nulla
aveva perso della sua maestà.
Pietroburgo non era una città interamente russa. Essa su­
biva l'influenza europea dipendente dalle imperatrici e dalle
granduchesse che, da circa due secoli, erano principesse di
nazionalità straniera, più spesso tedesca, e, inoltre, dalla pre­
senza del corpo diplomatico. Fatta eccezione per alcune fa­
miglie che avevano serbato le tradizioni della vecchia Rus­
sia, la maggior parte dei membri dell'aristocrazia erano di­
ventati cosmopoliti e avevano lo snobismo dell'estero ove sog­
giornavano spesso. Era molto elegante mandare a stirare
la propria biancheria a Parigi o a Londra. La maggior parte
dei contemporanei di mia madre affettavano di parlare sem­
pre francese e di pronunciare 'il russo con accento straniero.
lo e mio fratello, urtati da questi modi, rispondevamo sem­
pre in russo alle vecchie dame che ci rivolgevano la parola
in francese, e questo ci faceva giudicare ridicoli e male al­
levati. Non ce ne preoccupavamo, preferendo a questa so­
cietà piena di affettazione gli ambienti artistici che ci diver­
tivano molto di più.
Come 1n qualunque altro luogo, i funzionari erano, nella
maggioranza, persone corrotte e senza scrupoli, ossequiose
dinanzi ai loro superiori, ma preoccupate unicamente dei loro
interessi personali e interamente prive di spirito nazionale.
L'intellighenzia, poi, era un focolare di disordine e di anar­
chia molto pericoloso per il paese. Dominata da agitatori
ebrei, questa fazione si sforzava di eccitare il popolo contro

27
il governo e l'aristocrazia seminando dovunque l'invidia e
l'odio. Quando i suoi ra ppresentanti presero il potere al tem­
po di Kerensky, mostrarono soltanto la loro incapacità a
governare.
I teatri imperiali di Pietroburgo e di Mosca meritavano la
celebrità di cui godevano. Sin verso la metà del XVIII secolo,
per vero dire, non era esistito un teatro russo ; la maggior
parte degli attori erano stranieri. Il primo teatro nazionale
fu creato nel 1?56, sotto il regno dell'imperatrice Elisabetta,
per iniziativa del consigliere di questa, principe Boris Yus­
supov. Il teatro russo ricevette un nuovo impulso quando
l'imperatrice Caterina II affidò al mio trisavolo la direzione
di tutti i teatri imperiali. Si può dire che l'influsso del prin­
cipe Nicola sia all'origine dello sviluppo preso dal teatro rus­
so, il cui livelJo artistico si è mantenuto altissimo sino a oggi
attraverso i più tragici sconvolgimenti. In Russia tutto crollò,
tranne il teatro.
Grazie all'iniziativa di Sergio Diaghilev che, per primo,
rivelò all'Europa occidentale le ricchezze dell'arte russa, l'O­
pera e i balletti hanno acquistato una rinomanza mondiale.
Chi non ricorda l'entusiasmo che provocò la loro prima ap­
parizione a Parigi, sul palcoscenico dello Chatelet, nel 1909?
Diaghilev aveva saputo circondarsi di artisti eccezionali :
Scialiapin, indimenticabile Boris Godunov, pittori come Bakst
e Alessandro Benois, ballerini e ballerine come Nijinsky, la
Pavlova, la Karsavina e tanti altri. Questi artisti furono ben
presto celebri all'estero come in patria, e molti di essi hanno
formato allievi che conservano tuttora la tradizione del bal­
letto imperiale. Tuttavia i nostri attori, come d'altronde l'arte
drammatica russa nel suo insieme, sono in generale meno noti
all'estero. Soltanto in Russia si potevano ascoltare i nostri
grandi artisti in un repertorio classico ispirato dal folclore
nazionale. Le commedie di Ostrovsky, di Cecov e di Gorki .
erano sempre accolte con grande successo. Nicola e io non
perdevamo mai nessuno spettacolo che meritasse d'essere vi­
sto, e più d'una volta avemmo occasione di conoscere perso­
nalmente qualcuno dei grandi interpreti russi.
La nostra casa di Pietroburgo sorgeva sul lungofiume della
Moika. All'esterno era soprattutto notevole per le propor-
28
zioni. Un bellissimo cortile interno, limitato da un colonnato
semicircolare, si apriva da un lato verso il giardino. Questa
dimora era un dono dell'imperatrice Caterina II alla mia
bisavola principessa Ta.tiana. Le opere d'arte di cui era piena
ne facevano un vero museo nel quale ci si poteva aggirare
senza stancarsi mai. Disgraziatamente, le modifiche appor­
tate da mio nonno l'avevano notevolmente imbruttita: sol­
tanto qualcuno dei saloni, le sale da ballo e le gallerie dei
quadri avevano conservato il loro carattere settecentesco.
Queste gallerie davano accesso a un teatrino in stile Luigi XV.
Attiguo a questo era un ridotto nel quale, dopo lo spettacolo,
veniva servita la cena, tranne nei giorni di gran ricevimento,
che talvolta riunivano più di duemila persone. Allora la cena
veniva servita nelle gallerie e il ridotto restava riservato alla
famiglia imperiale. Questi ricevimenti provocavano lo stu­
pore dei visitatori stranieri. Essi, infatti, si maravigliavano
che in una casa privata si potesse offrire a un così gran nu­
mero d'invitati una cena calda, servita in piatti d'argento o
di porcellana di Sèvres.
Il nostro vecchio maggiordomo, Paolo, non avrebbe ceduto
a nessuno il privilegio di servire l'imperatore. Siccome era
molto vecchio e non ci vedeva più tanto bene, gli accadeva
talvolta di versare il vino sulla tovaglia. Al tempo dell'ul­
timo ricevimento ch'ebbe luogo alla Moika in presenza dci
sovrani, egli era ormai in pensione, e si ebbe cura di non far­
gli saper nulla. Lo zar notò la sua assenza c disse sorridendo
a mia madre che quella sera c'era probabilità che la tovaglia
rimanesse pulita. Non aveva ancora finito di parlare, che il
vecchio Paolo apparve come un fantasma, col petto coperto
di decorazioni ; si diresse tentennando verso la poltrona del­
l'imperatore e rimase lì, al suo solito posto, sino alla fine della
cena. Per evitare guai, Nicola II sosteneva con sollecitudine
il braccio del vecchio quando questi gli versava da bere.
Paolo era al nostro servizio da più di sessant'anni. Cono­
sceva tutte le relazioni dei miei genitori e le trattava secondo
le proprie simpatie o antipatie personali, senza tener mai
conto della loro qualità e del loro rango; gli invitati che non
erano nelle sue grazie potevano rassegnarsi a restare senza
vino o senza dolce. Quando il generale Kuropatkin, il capo

29
della disgraziata spedizione in Estremo Oriente del 1905, era
nostro ospite, il vecchio maggiordomo gli dimostrava il pro­
prio disprezzo voltandogli le spalle, sputando in terra e rifiu­
tandosi di servirlo a t a vola.
Vedo ancora Gregorio, il nostro capo guardaportone, col
bicorno piumato e l'alabarda. Gregorio si mostrava meno se­
vero per il generale in disgrazia. Durante la guerra del 1914,
un giorno che ricevevamo l'imperatrice madre, Gregorio si
avvicinò a lei e le disse: "Vostra Maestà sa perché il generale
Kuropatkin è stato dimenticato nella scelta dei comandanti
d'armata? Se avesse ricevuto un comando, avrebbe potuto ri­
scattare gli errori commessi in Giappone". L'imperatrice ri­
ferì a suo figlio le parole del nostro portinaio. Quindici giorni
dopo sapemmo che il generale Kuropatkin aveva ricevuto il
comando di una divisione!
I nostri domestici ci erano tutti devoti e compivano volon­
terosamente i loro lavori. Al tempo in cui la casa era ancora
illuminata con candele e lampade, un buon numero di co­
storo erano addetti al servizio d'illuminazione. Quello che di­
rigeva il servizio fu talmente rattristato quando venne fatto
l'impianto elettrico che si mise a bere per annegare il proprio
dolore e non andò molto che morì.
Il nostro personale era reclutato un po' dappertutto: c'e­
rano arabi, tartari, negri e calmucchi che rallegravano la casa
con i loro costumi multicolori. Tutti erano sotto il controllo
di Gregorio Bujinsky. Questo fedele servitore dette la misura
della propria devozione quando i bolscevichi vennero a sac­
cheggiare i nostri palazzi : egli morì tra le più atroci torture
rifiutandosi di rivelare ai carnefici dove fossero stati nascosti
i gioielli e altri oggetti preziosi. Il fatto che il nascondiglio
fosse scoperto alcuni anni più tardi ha reso vano il suo sacri­
ficio senza mutarne il valore, e ci tengo a rendere omaggio
in queste pagine all'eroica fedeltà di Gregorio Bujinsky, che
non arretrò dinanzi alla più orribile delle morti pur di non
tradire il segreto dei padroni.
Il sottosuolo della Moika era una specie di labirinto di
stanze blindate, ermeticamente chiuse, che uno speciale di­
spositivo permetteva di inondare in caso d'incendio. Queste
cantine non contenevano soltanto innumerevoli bottiglie di
vino delle migliori qualità; vi erano conservati anche il va­
sellame d'argento e i servizi di porcellana riservati ai grand i
ricevimenti, oltre a numerosi oggetti d'arte che non avevano
trovato posto nelle sale e nelle gallerie. Ce n'era abbastanza
per costituire un museo, e io ero veramente scandalizzato di
vederli abbandonati alla polvere e all'oblio.
Al pianterreno v'erano gli appartamenti di mio padre che
davano sul canale della Moika. Erano molto brutti, ma pieni
zeppi di opere d'arte e di ninnoli preziosi : quadri di grandi
maestri, miniature, bronzi, porcellane, tabacchiere, ecc. Al­
lora non m'intendevo gran che di oggetti artistici, però avevo
la passione, senza dubbio ereditaria, per le pietre preziose.
Una delle vetrine conteneva tre statuette che mi piacevano
in modo particolare: un Budda scolpito in un blocco di ru­
bino, una Venere ricavata da un blocco di zaffiro e un negro
di bronzo che reggeva un cesto pieno di gemme.
Attigua allo studio di mio padre, c'era una sala moresca
che dava sul giardino. Questa sala, tutta musaici, era l'esatta
riproduzione di una sala dell'Alhambra. Colonne di marmo
circondavano una fontana centrale, divani coperti di stoffe
persiane correvano tutt'intorno lungo le pareti. Questa sab.
mi andava a genio per il suo carattere orientale e voluttuoso
e mi piaceva sedervi fantasticando. Nell'assenza di mio pa­
dre, vi organizzavo quadri viventi. Radunavo tutti i nostri
servitori orientali e mi vestivo da sultano. Seduto su un di­
vano, adorno con i gioielli di mia madre, mi immaginavo di
essere un satrapo circondato dai propri schiavi ... Un giorno
avevo organizzato una scena che rappresentava il castigo di
uno schiavo disobbediente, e precisamente di Alì, uno dei no­
stri servitorelli arabi. Questi, prosternato, fingeva di doman­
dare grazia. Nel momento in cui alzavo il pugnale sul col­
pevole, la porta si aprì e apparve mio padre. Poco apprez­
zando le mie qualità di regista, egli si abbandonò alla col­
lera : "Levatevi tutti dai piedi!", gridò. E tutti, satrapo e schia­
vi, fuggirono urtandosi per fare più presto. Da quel giorno
l'ingresso alla sala moresca mi fu vietato.
Dall'altra parte degli appartamenti di mio padre, in fondo
a una sfilata di saloni, c'era la sala da musica in cui dormiva
la collezione di violini e nella quale nessuno sonava mai.

31
Gli appartamenti di mia madre erano al primo piano e
davano sul giardino. Anche questo piano aveva le sue sale
di ricevimento e da ballo; qui erano le gallerie di quadri in
capo alle quali si trovava il teatro. La nonna paterna, mio
fratello e io abitavamo al secondo piano, dove era anche
la cappella.
Il vero focolare della casa era l'appartamento di mia ma­
dre. L'ambiente in cui questa viveva era come una irradia­
zione della sua finissima personalità, un riflesso e un prolun­
gamento della sua bellezza e della sua grazia. Nella stanza
da letto, tappezzata di damasco azzurro, la mobilia era di
legno rosa ornato d'intarsi : lunghe vetrine contenevano le
sue acconciature. Nei giorni di ricevimento le porte resta­
vano aperte e ognuno poteva ammirare gli splendidi gioielli
di mia madre. Questa camera rinserrava un mistero: a volte
vi si udiva risonare una voce femminile che chiamava le per­
sone per nome. Le cameriere accorrevano credendo di essere
chiamate dalla loro padrona, e, non trovando nessuno, si spa­
ventavano. Mio fratello e io abbiamo sentito più volte questi
misteriosi richiami.
I mobili del salottino erano appartenuti a Maria An­
tonietta ; dipinti di Boucher, Fragonard, Watteau, Hubert Ro­
bert e Greuze ornavano le pareti; il lampadario di cristallo
di rocca proveniva dal boudoir della marchesa di Pompadour.
I più preziosi ninnoli erano sparsi sui tavoli e nelle vetrine :
tabacchierc d'oro o di smalto, portacenere d'ametista, di to­
pazio, di giada montati in oro e incrostati di gemme. In que­
sta stanza, sempre piena di fiori, mia madre trascorreva abi­
tualmente il tempo. Quando era sola, la sera, mio fratello e io
pranzavamo lì con lei. I l pranzo era servito su una tavola
rotonda, illuminata da candelabri di cristallo. Un fuoco chia­
ro scoppiettava nel caminetto e la mobile fiamma delle can­
dele faceva scintillare gli anelli sulle dita affusolate di mia
madre. Non posso evocare senza emozione le nostre serate di
felice intimità in quel piccolo delizioso salotto, cornice mira­
bile di una mirabile donna. Qui avemmo momenti di una per­
fetta felicità. Ci sarebbe stato impossibile, allora, prevedere
e persino immaginare le disgrazie che, più tardi, dovevano
abha ttersi su di noi.
32
-
-
All'approssimarsi del Natale una grande animazione re­
gnava alla Moika. I p reparativi duravano parecchi giorni.
Arrampicati sulle scale, aiutavamo i domestici ad abbellire
il grande abete che toccava il soffitto con la cima. Lo scintil­
lio delle palle di vetro e dei "capelli d'angelo" affascinava
particolarmente i domestici orientali. L'agitazione cresceva
con l'arrivo dei fornitori che portavano i regali destinati ai
nostri amici. Il giorno di Natale gli invitati erano special­
mente bambini della nostra età, i quali arrivavano muniti
di valigie per portarsi via i doni che sarebbero tocca ti loro.
Terminata la distribuzione, ci venivano servite paste squisite
e cioccolata. Poi tutti i bambini venivano riuniti in una sala
da giuoco nella quale si trovavano le "montagne russe". Ci
divertivamo molto, ma, generalmente, la festa terminava con
un pugilato al quale, felice di trovare un'occasione per mal­
menare quelli tra i miei compagni che m'ispiravano antipatia
o che erano più deboli di me, io ero il primo a partecipare
entusiasticamente.
Il giorno dopo veniva preparato un altro albero di Natale
per i domestici e le loro famiglie. Un mese prima, mia madre
riceveva una lista nella quale ognuno aveva potuto indicare
il regalo che desiderava. Il giovane arabo Alì, che aveva so­
stenuto la parte del condannato nella memorabile rappre­
sentazione della sala moresca, domandò un giorno "un giocat­
tolo brillante" , che era semplicemente un diadema di p erle
e diamanti che mia madre aveva portato una sera per re­
carsi a un ballo al Palazzo d'Inverno. Alì era rimasto lette­
ralmente abbagliato quando mia madre, che si vestiva sem­
pre con molta semplicità, gli era apparsa in abito di corte,
coperta di pietre preziose. Senza dubbio egli l'aveva creduta
una dea, perché si era prosternato davanti a lei, e c'era vo­
luto non poco per indurlo ad abbandonare questo atteg­
giamento.
La Pasqua era festeggiata con grande solennità. Gli amici
più intimi e la maggior parte dei servitori assistevano con noi
alle funzioni della Settimana Santa, nella nostra cappella, co­
me alla messa di mezzanotte che la Chiesa ortodossa celebra in

33
quell'occasione. Dopo la messa, la cena riuniva molti invitati.
Si trattava sempre di un festino gigantesco : porcellino di lat­
te, oche, fagiani e champagne a profusione; poi arrivavano
i dolci pasquali adorni di rose di carta e con la loro corona
di uova colorate. Il giorno seguente a queste agapi eravamo
quasi tutti indisposti.
Dopo il pasto scendevamo con i genitori nella dispensa.
Mia madre era molto attenta a che i servitori fossero sempre
ben nutriti, e la loro tavola differiva pochissimo dalla nostra.
Auguravamo loro la buona Pasqua baciandoli ciascuno tre
volte, secondo la vecchia costumanza russa.

Tutti gli anni, d'inverno, la zia Lazarev veniva a pas­


sare qualche mese da noi a Pietroburgo. Era sempre accom­
pagnata dai figliuoli, Michele, Vladimiro e Irene. Vladimiro
aveva su per giù la mia età ed era il compagno delle mie
scappatelle, l'ultima delle quali ci valse di essere separati
per parecchio tempo.
Dovevamo avere dodici o tredici anni, quando, una sera
che i nostri genitori erano assenti, ci venne l'idea di uscire
vestiti da donna. Il guardaroba di mia madre ci fornì quanto
era necessario per mettere in esecuzione il geniale progetto.
Una volta vestiti. truccati, ornati di gioielli e imbacuccati in
pellicce di velluto troppo lunghe per noi, scendemmo da una
scala di servizio e andammo a svegliare il parrucchiere di
mia madre, che si accontentò del pretesto di un ballo masche­
rato per prestarci due parrucche.
Così vestiti, ci mettemmo a passeggiare per la città. Sulla
prospettiva Nevsky, punto d'incontro di tutte le peripate­
tiche di Pietroburgo, non tardammo a farci notare. Per hbe­
rarci da coloro che tentavano di attaccar discorso, risponde­
vamo in francese : « Nous sommes prises », e continuavamo di­
gnitosamente per la nostra strada. Poi pensammo che, per
sfuggir loro in modo definitivo, ci convenisse entrare a "l'Or­
so", un ristorante allora in gran voga. Senza pensare a lasciare
le pellicce al guardaroba, prendemmo un tavolo e cominciam­
mo a cenare. C'era nella sala un caldo terribile e noi, con le
nostre pellicce, ci sentivamo soffocare. La gente ci guardava
34
con curiosità. Alcuni ufficiali ci fecero recapitare un biglietto,
invitandoci a cenare con loro in un salottino riservato. Lo
champagne cominciava a salirmi alla testa ; togliendomi dal
collo una lunga collana di perle, ne feci un lazo che mi di­
vertii a scagliare verso le persone che si trovavano al tavolo
vicino. Come era fatale accadesse, il filo si ruppe e le perle
si sparsero sul pavimento con gran divertimento dei pre­
senti. Inquieti di sentirei il punto di mira di tutti gli sguard i,
pensammo che fosse prudente eclissarci. Avevamo ritrovato
la maggior parte delle perle e ci dirigevamo già verso la
porta, quando il capo cameriere si precipitò a reclamare il
pagamento del conto, ma siccome non avevamo denaro, fu
necessario andare a parlare col direttore per confessargli tut­
to. Quel brav'uomo si mostrò pieno di indulgenza. Si divertì
molto al racconto della nostra avventura e ci prestò persino
di che pagare una carrozza. Arrivati alla Moika, trovammo
tutte le porte chiuse. Chiamai dalla finestra il mio fedele
lvan, che vedendoci così conciati rise fino alle lacrime. Ma il
giorno dopo la faccenda volse al peggio. Il direttore de "l'Or­
so" mandò a mio padre le ultime perle ch'erano state trovate
nel suo ristorante... e il conto della cena!
lo e Vladimiro fummo chiusi per dieci giorni nelle nostre
camere con proibizione di uscirne. Poco dopo, la zia ripartì
portando con sé i figliuoli, e trascorsero molti anni prima che
rivedessi mio cugino.
CAPITOLO IV

Mosca - La nostra vita ad Arkangelskoie - Il pittore Serov -


Spaskoie Selò.

Io preferivo Mosca a Pietroburgo. I moscoviti, che ave­


vano subìto assai poco l'influenza straniera, erano rimasti
fondamentalmente russi. Mosca era la vera capitale della Rus­
sia zarista. Le vecchie famiglie aristocratiche conducevano
la stessa vita patriarcale nelle belle dimore in città e nelle
residenze estive dei dintorni.
I ricchi mercanti, tutti di origine contadinesca, formavano
a Mosca una classe a parte. Le loro case, belle e spaziose,
contenevano a volte oggetti d'arte di autentico valore. Molti
di essi portavano ancora il camiciotto russo, i pantaloni lar­
ghi e i grossi stivali dei loro padri, mentre le loro donne si
vestivano dai migliori sarti parigini, si ornavano con bellis­
simi gioielli e gareggiavano in fatto d'eleganza con le grandi
dame di Pietroburgo.
Le case moscovite erano aperte a tutti. I visitatori veni­
vano introdotti direttamente nella sala da pranzo dove tro­
vavano disposti in permanenza su una tavola piatti di zaku­
skis e bottiglie di vodka di vario genere. A qualunque ora era
obbligatorio mangiare e bere. La maggior parte delle fami­
glie ricche avevano qualche proprietà nei dintorni di Mosca,
dove vivevano secondo l'uso dell'antica Moscovia e prati­
cavano la sua leggendaria ospitalità. Amici venuti per qual­
che giorno, potevano, se volevano, restare per tutta la vita,
e i loro figli dopo di essi, per più generazioni.
Mosca, come Giano, aveva due volti : da un lato la città
santa con le numerose chiese dalle cupole dorate, dipinte a
colori vivaci, le cappelle in cui migliaia di ceri ardevano da-
vanti alle icone, le alte mura dei conventi e la folla dei fe­
deli che si accalcava in tutti gli edifici religiosi ; dall'altro la
città gaia, rumorosa e animata, città di lusso e di piacere,
e si potrebbe dire di crapula. Una folla multicolore empiva
le strade ove tintinnavano i sonagli delle troike; i lihascis,
vetture pubbliche di gran lusso, tirate da magnifici cavalli,
passavano come frecce, guidati da cocchieri giovani ed ele­
ganti non sempre estranei alle avventure galanti dei loro
clienti. Questa mescolanza di devozione e di libertinaggio, di
religione e di dissipazione era peculiare di Mosca. I moscoviti
si abbandonavano senza freno alle loro passioni e ai loro ca­
pricci, ma in compenso pregavano almeno quanto peccavano.
Grande centro industriale, Mosca era anche ricca dal pun­
to di vista intellettuale e artistico. Le compagnie liriche e
danzanti del Gran Teatro potevano gareggiare con quelle di
Pietroburgo. Il repertorio drammatico e comico del Piccolo
Teatro era su per giù lo stesso del Teatro Alessandro, dove
ogni commedia veniva recitata in modo impareggiabile. Gene­
razioni d'artisti vi si sono succedute nell'assoluto rispetto delle
sue eccellenti tradizioni. Verso la fine del secolo scorso, Sta­
nislavsky aveva creato il Teatro delle Arti. Direttore e regista
geniale, egli si era assicurato il concorso di uomini d'alto va­
lore come Nemirovic Danscenko e Gordon Craig. Un'inegua­
gliabile abiJità nel formare gli attori gli aveva permesso di
creare un insieme di prim'ordine e di far recitare le parti più
insignificanti ad artisti di fama. L'interpretazione e la mes­
sinscena non avevano nulla di convenzionale : erano né più
né meno che un riflesso della vita.
lo ero un frequentatore assiduo e appassionato dei teatri
eli Mosca. Spesso anelavo anche ad ascoltare gli zigani dei ri­
storanti Yar e Strelna. Erano molto superiori a quelli di Pie­
troburgo. Il nome eli Varia Panina rimane presente alla me­
moria eli quanti hanno avuto la fortuna di ascoltarla. Fino a
un'età avanzata, questa donna bruttissima, sempre vestita di
nero, affascinò gli ascoltatori con la sua voce grave e patetica.
Negli ultimi anni della sua vita sposò un allievo ufficiale di
diciott'anni. Sul letto di morte pregò mio fratello di accom­
pagnarla con la chitarra mentre cantava il "Canto del cigno",
uno dei suoi più grandi successi, e spirò con l'ultima nota.

37
La nostra casa di Mosca era stata costruita nel 1 551 dallo
zar Ivan il Terribile. A quel tempo era circondata dalla bo­
scaglia e gli serviva come convegno di caccia. Un sotterraneo
lungo parecchi chilometri la metteva in comunicazione col
Cremlino. Era stata costruita dagli architetti Barna e Postnik
cui Mosca deve la celebre chiesa di Basilio il Beato. Per essere
sicuro che non avrebbero più compiuto una simile maraviglia,
lvan il Terribile ricompensò i due architetti accecandoli e
facendo tagliar loro la lingua e le braccia. Le crudeltà di
questo spietato sovrano erano sempre seguite da rimorsi e
da severe penitenze ; d'altra parte, egli era un uomo dotato di
una rara intelligenza e un grande politico.
Lo zar non soggiornava mai a lungo in quella casa. Vi dava
qualche splendida festa, poi tornava al Cremlino percorrendo
il sotterraneo. Quel labirinto di corridoi segreti a veva nume­
rose uscite che gli permettevano di apparire nel momento e
nel luogo in cui era meno atteso. Dopo la morte di lvan il
Terribile, la dimora rimase abbandonata per un secolo e mezzo
circa. Nel 1729 Pietro II la donò al principe Yussupov. I la­
vori di restauro intrapresi dai miei genitori alla fine del se­
colo scorso, misero in luce l'ingresso del famoso sotterraneo.
Coloro che vi entrarono, si trovarono dinanzi a un lungo cor­
ridoio nel quale file di scheletri erano incatenati alle pareti.
La casa, in vecchio stile moscovita, era dipinta a colori
vivaci. Da un lato dava su un cortile d'onore, dall'altro sui
giardini. Tutte le sale erano a volta e adorne di dipinti; la più
vasta conteneva una collezione di bellissimi oggetti di orefi­
ceria ; i ritratti degli zar, entro cornici intagliate, ornavano le
pareti. Il resto era fatto di una quantità di piccole stanze,
di passaggi oscuri, di scalette minuscole che conducevano a
qualche segreta. Grossi tappeti soffocavano ogni rumore, e il
silenzio aumentava l'impressione di mistero che spirava da
quella casa tutta piena del ricordo del terribile zar.
Confesso che nessuno di noi amava gran che questa cupa
dimora dal tragico passato. D'altronde, i nostri soggiorni a
Mosca non erano mai molto lunghi. Quando mio padre fu no-
38
minato governatore generale di questa città, scegllemmo per
alloggiarvi un edificio adiacente unito al corpo principale per
mezzo di un giardino d'inverno. La casa di I van il Terribile
rimase riservata alle feste e ai ricevimenti.
I moscoviti erano spesso gente curiosa e originale. D'altra
parte, mio padre amava circondarsi di persone bizzarre che
sapessero distrarlo. Erano, in maggioranza, membri delle di­
verse società di cui egli era p residente onorario, società canine,
di avicultura, e, in modo particolare, di un centro d'apicul­
tura i cui componenti, tutti allevatori, appartenevano a una
setta di evirati molto diffusa in Russia, gli skopzi. Uno di costo­
ro, il vecchio Moscialkin, che dirigeva il centro di apicultura,
veniva spesso a trovare mio padre. Col suo volto di vecchietta
e la sua voce di soprano, egli m'ispirava un certo timore. Ma
la cosa mutò quando mio padre mi portò a visitare il centro
di sfruttamento apiario. Gli apicultori che ci accolsero erano
almeno un centinaio. Ci venne offerto un pranzo succulento
seguito da un bellissimo concerto eseguito da que gl i uomini
dalla voce femminile. Il lettore immagini che effetto doves­
sero fare quelle vecchie donne vestite da uomo che cantavano
con voci infantili canzoni popolari ... Era una cosa commovente
e, insieme, comica e triste.
Un altro curioso personaggio era un ometto tondo e calvo
di nome Alferov. Costui aveva un passato alquanto torbido.
Era stato pianista in una casa chiusa e poi venditore di uc­
celli. Quest'ultima profession e gli aveva attirato qualche noia
da parte della giustizia quando aveva venduto come uccelli
esotici dei volatili da cortile di cui aveva dipinto le penne a
colori brillanti. Egli ci dimos trava il più grande rispetto, tanto
da mettersi in ginocchio al momento dell'arrivo e da non
abbandonare questo atteggiamento se non dopc. che i padroni
di casa eran entrati. Un giorno che i domestici avevano tra­
scurato di annunciarci il suo arrivo, ci aspettò per un'ora in
ginocchio in mezzo al salotto. Durante il pranzo, si alzava in
piedi ogni volta che uno di noi gli rivolgeva la parola, e non
si rimetteva a sedere se non dopo aver risposto alla domanda.
Questo era diventato per me un giuoco di cui non mi stancavo
mai. Quando veniva a farci visita, indossava una vecchia mar-

39
sina che un tempo doveva essere stata nera, ma che gli anni
avevano reso di un colore indefinibile, la stessa probabilmente
che aveva indossato per far danzare le dame della casa chiusa.
Il colletto duro, molto alto, gli nascondeva in parte le orec­
chie. Portava appesa al collo un'enorme medaglia d'argento,
ricordo dell'incoronazione di Nicola Il; altre medaglie più pic­
cole gli coprivano il petto : erarto i premi ricevuti nei con­
corsi per i suoi sedicenti uccelli esotici.

L'estate ci riportava ad Arkhangelskoie, dove ci seguivano


numerosi ospiti, alcuni dei quali prolungavano il soggiorno
per tutta la stagione. La mia simpatia per costoro era com­
misurata al grado d'interesse che essi mostravano per quel
magnifico possedimento. Detestavo certi ospiti che, indiffe­
renti alla bellezza del luogo, venivano lì unicamente per man­
giare, bere e giocare alle carte. La loro presenza mi sembrava
una profanazione.
Arkhangelskoie trovò un amico e un ammiratore secondo
il cuor mio nel pittore Serov che vi soggiornò nel 1904 per
fare i nostri ritratti. Era un uomo delizioso. Tra tutti i grandi
artisti che ho incontrato, in Russia e altrove, Serov è quello
che mi ha lasciato il ricordo più prezioso e più vivo. Sin
dalla prima visita gli ero diventato amico. La sua ammirazione
per Arkangelskoie, rivelandomi la sua sensitività, fu per così
dire la base del nostro accordo. Negli intervalli tra una posa
e l'altra lo conducevo nel parco. Seduti in un boschetto, su uno
dei miei banchi favoriti, chiacchieravamo liberamente. Le sue
idee avanzate ebbero un certo influsso sull'evoluzione del
mio spirito; egli pensava, d'altronde, che se tutte le persone
ricche fossero state come i miei genitori, una rivoluzione sareb­
be stata inutile.
Serov non avviliva la propria arte e accettava ordinazioni
soltanto se il modello gli piaceva. Egli aveva infatti rifiutato di
fare il ritratto di una signora della buona società molto nota
a Pietroburgo, il cui volto non lo ispirava. Tuttavia aveva fini­
to col cedere all'insistenza della signora in questione ; ma, ter­
minata l'ultima seduta di posa, aveva ripreso i pennelli e le
aveva messo sul capo un immenso cappello che le nascondeva
per tre quarti il viso. Alle proteste del modello, Serov aveva
risposto sfacciatamente che tutto l'interesse del ritratto risie­
deva precisamente nel cappello.
Aveva un temperamento troppo indipendente e troppo
disinteressato a un tempo per nascondere il suo modo di pen­
sare. Mi raccontò che, al tempo in cui aveva dipinto il ritratto
dello zar, l'imperatrice lo aveva ossessionato con le sue continue
osservazioni, tanto che un giorno, giunto al limite estremo della
pazienza, le aveva messo tra le mani la tavolozza e i pennelli
invitandola a terminar lei il lavoro. Questo ritratto, il migliore
che sia stato dipinto di Nicola II, fu fatto a pezzi durante la
rivoluzione del 1917, quando una folla delirante invase il Pa­
lazzo d'Inverno. Un ufficiale mio amico me ne portò qualche
brandello che aveva raccolto sulla piazza del Palazzo e che io
conservai religiosamente.
Serov era molto contento del mio ritratto. Diaghilev lo
volle per l'esposizione di pittura russa che organizzò a Venezia
nel 1 907, ma la pubblicità che il dipinto mi fece spiacque ai
miei genitori, e perciò essi pregarono Diaghilev di ritirarlo
dalla mostra.

Avevamo frequenti rapporti di buon vicinato con Ilinskoie,


residenza del granduca Sergio Alessandrovic e della grandu­
chessa Elisabetta Fiodorovna. La loro casa era ammobiliata con
gusto, nello stile delle abitazioni di campagna inglesi : poltrone
coperte di cinz e fiori a profusione. Il seguito del granduca
alloggiava nelle casupole disseminate nel parco.
La corte del granduca, composta di gente diversissima, era
piena di gaiezza e d'imprevisto. Una delle persone più diver­
tenti di questa corte era la principessa Wassiltcikov che aveva
una statura da tamburo maggiore, pesava duecento chili e
parlava con voce stentorea e con un vocabolario da caserma.
Nulla la divertiva quanto far pompa della propria forza mu­
scolare. Chiunque passasse alla sua portata correva sempre il
rischio di essere afferrato e sollevato con la stessa facilità che
se si fosse trattato di un lattante, e ciò col massimo diverti-

41
mento dei presenti se non del paziente. Mio padre, che la
principessa sceglieva spesso quale vittima, apprezzava assai
poco questo genere di scherzi. Il conte e la contessa Olsuviev
erano una vecchia e amabile coppia di sposi. La contessa, che
a quel tempo occupava un'alta carica a corte, faceva pensare
a una marchesa del XVIII secolo; suo marito era un uomo
piccolo, calvo e rotondetto, sordo come una campana. Quando
indossava l'uniforme di generale degli ussari, portava una
sciabola grande quasi quanto lui e la trascinava sul pavimento
facendo un rumore infernale. La granduchessa temeva sempre
la sua presenza a messa a causa del baccano che faceva quella
disgraziata sciabola, tanto più che il generale era incapace di
star fermo in un dato posto : cominciava col fare il giro delle
icone, molto numerose nelle chiese russe e che è consuetudine
baciare facendosi il segno della croce. A quelle cui non arri­
vava, mandava baci a volo. Senza preoccuparsi del rispetto do­
vuto al luogo santo, egli interpellava tutti i presenti e persino i
preti all'altare con voce tonante. Tutti ridevano, compresi i
preti, ma la granduchessa era sulle spine.

Una delle più antiche dimore della mia famiglia, Spaskoie


Selò, era anch'essa nei dintorni di Mosca. Qui aveva vissuto il
principe Nicola Borissovic prima di acquistare Arkhangel­
skoie. Non sono mai riuscito a sapere perché questa proprietà
fosse stata abbandonata, così come la vidi in occasione di una
visita nel 1912.
Al margine di una foresta di abeti, scorsi su una collinetta
un grande palazzo ornato d'un colonnato. La dimora sembrava
in armonia col paesaggio, che era grandioso. Ma quando mi fui
avvicinato rimasi inorridito dallo spettacolo che si offrì ai miei
occhi: tutto era in rovina. Le porte e le finestre erano scom­
parse ; camminavo sui calcinacci caduti dai soffitti sfondati.
Qua e là, scoprivo le vestigia di antichi splendori : stucchi
finemente lavorati; dipinti, o, meglio, tracce di dipinti dai
colori delicati. Percorrevo lunghe sfilate di sale, l'una più bella
dell'altra, dove tronconi di colonne giacevano sul pavimento
come membra tagliate ; frammenti di mobili d'ebano, di legno

42
rosa o viola, ornati di delicati intarsi, mi permettevano di
immaginare quale dovesse essere stata la magnificenza di
quel luogo abbandonato.
Il vento s'ingolfava nelle sale, urlava intorno alle spesse
mura, risvegliava tutti gli echi di quel palazzo in rovina, come
per affermare che ormai esso solo ne era il padrone. Fu i preso
da un brivido d'angoscia. I gufi appoggiati alle travi mi fissa­
vano con i loro occhi rotondi e sembravano dirm i : "Guarda
che cosa è accaduto della dimora dei tuoi antenati".
Allora mi allontanai col cuore stretto, pensando agli errori
imperdonabili che possono commettere gli uomini padroni di
beni troppo grandi.
CAPITOLO V

Il mio cattioo carattere - Gli zigani - Una conquista regale -


Esordio al Music-Hall - Balli in maschera - Colloquio tempe­
stoso con mio padre.

II mio carattere si rivelava sempre più difficile. Molto vi­


ziato dalla mamma, diventavo sempre più pigro e capriccioso.
Mio fratello, che allora aveva vent'anni, era entrato all'Uni­
versità. Quanto a me, i genitori avrebbero voluto farmi en­
trare in una scuola militare. All'esame di ammissione ebbi però
un alterco con l'elemosiniere. Siccome egli mi chiedeva di
citargli qualche miracolo fatto da Gesù Cristo, gli risposi che
Egli era riuscito a cibare cinque persone con cinquemila pani.
Credendo a una storditaggine, il prete ripeté la domanda.
Dissi che la mia risposta era giusta e cominciai a voler dimo­
strare che il miracolo stava proprio in ciò. Egli mi diede zero
e fui rimandato a casa.
Non sapendo che fare, i miei genitori risolvettero di farmi
entrare al ginnasio Gurevic, molto noto per la sua rigorosa
disciplina. Lo chiamavano il ginnasio dei bocciati. Il direttore
univa alle qualità pedagogiche una particolare abilità per
domare i caratteri ribelli. Quando conobbi questa risoluzione,
risolvetti dal canto mio di farmi respingere, come avevo fatto
in precedenza, agli esami di ammissione. Ma il piano fu sven­
tato. Il mio ingresso al ginnasio Gurevic era l'ultima speranza
dei miei genitori : a loro richiesta il direttore mi ammise subito,
senza !asciarmi il piacere di una bella bocciatura.
Quante preoccupazioni diedi ai miei poveri genitori ! Ero
veramente indomabile. Ogni costrizione mi era odiosa. Cercavo
con passione tutto ciò che mi piaceva, senz' altra cura che di sa­
ziare i miei desideri e di soddisfare il mio sfrenato bisogno di
44
libertà. Avrei voluto possedere un yacht ed errare per il mondo
a mio capriccio. Amavo la bellezza, il lusso, le comodità, il
colore e il profumo dei fiori, e sognavo nello stesso tempo
un'esistenza nomade come quella dei miei più antichi antenati.
Nondimeno, avevo come il presentimento di un mondo che
ignoravo e al quale aspiravo segretamente. Ci volle l'incontro
con la sventura e il benefico influsso di un'anima eletta perché
potessi penetrare in quel dominio sconosciuto.

Da quando ero entrato al ginnasio, mio fratello mi dimo­


strava una certa considerazione e mi trattava da uomo. Spes­
so, scambiavamo le nostre confidenze. Nicola aveva un'amante
di nome Polia, donna di modesta condizione, che lo adorava.
Ella abitava in un piccolo appartamento non lontano da casa
nostra, dove passavamo quasi tutte le nostre serate in compa­
gnia di studenti, artisti e donnine leggiere. Nicola mi aveva
insegnato qualche canzone zigana che cantavamo insieme.
A quel tempo la mia voce non era ancora cambiata e potevo
cantare da soprano. In quell'appartamentino trovavamo una
atmosfera di giovinezza e di franca allegria che mancava
totalmente alla Moika.
In occasione di una di queste riunioni in casa di Polia, aven­
do tutti bevuto copiosamente, decidemmo di andare a chiudere
la serata dagli zingari. Siccome il fatto di appartenere a un
collegio mi obbligava a portare l'uniforme, ero certo di vedermi
rifiutare l'ingresso in tutti i locali notturni, e specialmente in
quelli nei quali cantavano gli zigani. Polia ebbe allora l'idea di
vestirmi da donna, e in pochi minuti mi trasformò in modo
che perfino gli amici stentavano a riconoscermi.
Gli zigani abitavano nei sobborghi in quartieri riservati,
specie di villaggi chiamati Novaia Deresvnia a Pietroburgo e
Gruzini a Mosca. Quello di Pietroburgo sorgeva nella parte
della capitale denominata "le isole", a causa del vero arcipe­
lago che formano i numerosi canali della Neva.
Un'atmosfera molto singolare regnava presso quegli zingari
dalla pelle color di rame, dai capelli d'ebano e dagli occhi
ardenti. Gli uomini indossavano un camiciotto russo dai co-

45
lori vivaci e un caffetano nero con le maniche lunghe, ricamate
in oro. Portavano calzoni rigonfi sugli alti stivali, e in testa
un cappello dalle larghe falde. Gli abiti delle donne erano
sempre di tinte vivacissime, con le sottane arricciate, ampie
e lunghe ; sulle spalle portavano uno scialle, e avevano la testa
stretta in un fazzolettone annodato sulla nuca. L'abito che
indossavano la sera per comparire in pubblico era uguale, ma
fatto di stoffe più ricche. A esso aggiungevano ornamenti bar­
barici : collane di zecchini, pesanti bracciali d'oro o d'argento.
Il loro passo era morbido e tutti i loro movimenti avevano una
grazia felina. Molte di esse erano bellissime, ma queste belle
creature erano altresì schive e non permettevano nessuna fami­
liarità se non accompagnate da una promessa di matrimonio.
La vita degli zigani è molto patriarcale e rispettosa delle
tradizioni : non ci si reca da loro in cerca di avventure, ma
soltanto per sentirli cantare.
Io non avevo mai udito cantare gli zigani. Fu per me una
rivelazione. Benché ne avessi sentito parlare spesso, ero ben
lontano dall'aspettarmi un simile incanto. Capivo che si potes­
se esserne stregati al punto da lasciar lì una fortuna.
Quella sera capii anche che il mio travestimento mi per­
metteva di andare dove meglio mi piacesse. E allora cominciai
a condurre una doppia vita : di giorno ero uno studente ginna­
siale, di sera una donna elegante. Polia si vestiva assai bene
e tutti i suoi vestiti mi andavano a pennello.

Nicola e io trascorrevamo spesso le vacanze all'estero. A


Parigi abitavamo al Ritz, in piace Vendòme, dove avevamo
un appartamentino al pianterreno. Ci bastava scavalcare la
finestra per uscire e rientrare senza passare per il vestibolo.
Una sera di ballo in maschera all'Opéra, avevamo stabilito
di andarci, Nicola in domino e io vestito da donna. Per occu­
pare il principio della serata andammo al Théatre des Capu­
cines. Eravamo nella prima fila di poltrone. Dopo un po',
notai in un palchetto di proscenio un vecchio signore che mi
guardava insistentemente col binocolo. Quando la sala si illu­
minò per l'intervallo, riconobbi il re Edoardo VII. Mio fratello,
che era andato a fumare una sigaretta nel ridotto, tornò riden·
do a dirmi ch'era stato accostato da un signore dall'aria digni­
tosa il quale gli aveva chiesto, da parte di Sua Maestà, di fargli
conoscere il nome della deliziosa creatura che era con lui.
Debbo confessare che questa conquista mi divertì molto e non
mancò di lusingare un po' il mio amor proprio.
Assiduo frequentatore degli spettacoli di varietà, conoscevo
la maggior parte delle canzonette alla moda e le cantavo con
voce da soprano. Al nostro ritorno in Russia, Nicola ebbe
l'idea di sfruttare questa mia abilità facendomi salire sul
palcoscenico dell'Aquarium, che era allora il café-concert più
in voga di Pietroburgo. Andò a trovare il direttore che cono­
sceva personalmente e gli propose di fargli udire una giovane
francese che cantava le più recenti canzonette parigine. Il
giorno stabilito, mi recai dal direttore dell'Aquarium vestito
da donna : tailleur grigio, volpe al collo e gran cappello, e gli
offrii un'audizione del mio repertorio. Si mostrò entusiasta e
mi scritturò immediatamente per due settimane.
Nicola e Polia si occuparono del mio abbigliamento. Ordi­
narono un vestito di tulle azzurro pieno di lustrini d'argento
e un'acconciatura di piume di struzzo di varie gradazioni
d'azzurro. Oltre a ciò, portavo i ben noti gioielli di mia madre.
Le tre stelle che accompagnavano il mio nome sul pro­
gramma stuzzicarono la curiosità del pubblico. Quando entrai
in scena, accecato dai riflettori, fui preso da un folle panico
che, per qualche istante, mi paralizzò totalmente. L'orchestra
attaccò le prime battute di Paradis du Reve, ma la musica mi
sembrava confusa e lontana. Qualche spettatore caritatevole,
rendendosi conto del mio turbamento, mi incoraggiò applau­
dendo. Riuscii a riprendermi e a cantare la prima canzonetta
che il pubblico accolse freddamente. In compenso, le due se­
guenti, la Tonkinoise e Bébé, ottennero un successo enorme.
L'ultima, specialmente, scatenò l'entusiasmo e dovetti ripeterla
tre volte.
Nicola e Polia, molto commossi, mi aspettavano tra le quin­
te. Apparve il direttore, seguito da un enorme mazzo di fiori,
e mi complimentò calorosamente. Ma io duravo fatica a restar
serio. Gli diedi la mano da baciare e mi affrettai a congedarmi.

47
La consegna era di non lasciar entrare nessuno nel mio came­
rino, ma mentre io, Nicola e Polia, rovesciati sul divano, ci
sentivamo venir meno dal gran ridere, i fiori e i biglietti
galanti affluivano. Alcuni ufficiali, che conoscevo molto bene,
mi invitarono a cena con loro a "l'Orso". Avevo una gran vo­
glia di accettare, ma Nicola me lo proibì assolutamente e mi
portò a finir la serata con tutti i nostri amici dagli zingari.
A tavola si bevette alla mia salute, e alla fine dovetti salire
su un tavolo per cantare accompagnato dalle chitarre degli
zigani.
Per sei volte cantai all'Aquarium senza incidenti, ma la set­
tima sera scorsi in un palco alcuni amici dei miei genitori che
tenevano il binocolo puntato su me. Mi avevano riconosciuto
per la mia somiglianza con la mamma e dai gioielli che por­
tavo. Così scoppiò lo scandalo. I miei genitori mi fecero una
terribile scenata. Nicola mi difese lealmente assumendo tutta
la responsabilità della faccenda. Gli amici dei miei genitori, al
pari dei compagni della nostra vita dissipata, giurarono di non
dir mai parola di questa avventura. Mantennero quello che
avevano promesso e la faccenda fu soffocata. La mia carriera
di canzonettista venne spezzata all'inizio, tuttavia io non ri­
nunciai ai travestimenti che mi procuravano tante allegre
soddisfazioni.
A quell'epoca i balli in costume erano in gran voga a Pie­
troburgo. lo ero abilissimo nell'arte di travestirmi e possedevo
una vera collezione di bellissimi costumi, sia femminili che
maschili. Per un ballo in costume all'Opéra riprodussi fedel­
mente il ritratto del cardinale di Richelieu di Filippo di
Champaigne. La cappa magna, il cui strascico era sostenuto
da due negretti gallonati d'oro, mi valse un vero trionfo.
Un altro ballo terminò con un'avventura tragicomica. Quel­
la sera ero vestito in modo da rappresentare l'Allegoria della
Notte, con un abito coperto di lustrini blu acciaio e una stella
di diamanti sulla parrucca. In quelle occasioni, Nicola, che
diffidava delle mie idee stravaganti, mi accompagnava sempre
o mi faceva sorvegliare da qualche amico sicuro. Quella sera
un ufficiale della Guardia, noto per i suoi successi con le donne,
IDI fece una corte assidua. Questo ufficiale e due o tre amici
suoi mi proposero di portarmi a cena a "l'Orso". Accettai a
dispetto del pericolo, o piuttosto a causa di quel pericolo che
mi divertiva follemente, e vedendo che mio fratello, dal canto
suo, stava facendo la corte a una mascherina, ne approfittai
per uscire inosservato.
Arrivai a "l'Orso" scortato da ben quattro ufficiali che
domandarono una saletta riservata. Furono chiamati gli zigani
per creare l'atmosfera e, con la musica e lo champagne, i miei
compagni si fecero audaci. lo mi difendevo come meglio pote­
vo, quando il più ardito scivolò alle mie spalle e mi strappò la
maschera. Davanti all'imminenza di uno scandalo, afferrai una
bottiglia di champagne e la lanciai contro uno specchio che
andò in frantumi, poi, approfittando del momento di stupore
provocato dal mio gesto, balzai alla porta, girai l'interruttore
della luce e me la diedi a gambe. Una volta all'aperto, chiamai
un cocchiere e gli diedi l'in dirizzo di Polia. Allora mi accorsi
di aver dimenticato a "l'Orso" la mia pelliccia di zibellino.
Così, in una notte glaciale, una giovane donna in abito da
ballo e coperta di diamanti, filò a tutta velocità, in slitta sco­
perta, attraverso le vie di Pietroburgo. Chi avrebbe potuto ri­
conoscere, in quella pazza, il figlio di una delle più rispettabili
famiglie della città?

Quelle scappatelle non potevano restare indefinitamente


ignorate da mio padre. Un bel giorno egli mi fece chiamare
nelle proprie stanze ; e siccome ciò non avveniva se non nei
casi gravi, provai una certa apprensione. Difatti egli era pal­
lido per la collera e la voce gli tremava. Mi diede del vagabon­
do e dello scellerato, aggiungendo che le persone oneste avreb­
bero dovuto rifiutarsi di stringere la mano a un uomo come me.
Mi dichiarò ch'ero la vergogna della famiglia e che il mio posto
era non già nella sua casa, ma all'ergastolo, in Siberia. Final­
mente mi ingiunse di uscire dalla camera. La porta, sbattuta
con violenza, fece cadere un quadro nella stanza vicina.
Rimasi per un momento inchiodato sul posto, stordito dalla
scenata, poi corsi da mio fratello.
Vedendomi così abbattuto, Nicola cercò di consolarmi. Ne

49
approfittai per dirgli quello che avevo sul cuore. Gli ricordai
che a varie riprese avevo chiesto invano il suo appoggio e i
suoi consigli, specialmente dopo il mio incontro con l'argentino
a Contrexéville. Gli feci osservare che la prima idea di ve­
stirmi da donna per divertimento era venuta a lui e a Polia, e
questo era stato l'inizio della doppia vita che conducevo tut­
tora. Nicola dovette riconoscere che avevo ragione.
È vero che questo giuoco mi aveva divertito, lusingando
nello stesso tempo il mio amor proprio, perché a quel tempo
ero ancora troppo giovane per piacere alle donne, mentre po­
tevo piacere a certi uomini. Quando, più tardi, ebbi dei succes­
si nel campo femminile, la mia vita ne fu ulteriormente com­
plicata. Le donne mi attiravano, ma le relazioni che avevo con
loro erano di breve durata. Avvezzo a essere adulato, mi
stancavo presto di corteggiare una donna. La verità è che ama­
vo soltanto me stesso. Mi piaceva essere circondato da una
corte nella quale tenevo il primo posto. In fondo, non prendevo
molto sul serio tutto ciò, ma questo sistema di vita che mi per­
metteva di soddisfare tutti i miei capricci era di mio gradi­
mento Trovavo naturale cercare il piacere dove e come prefe­
rivo, senza preoccuparmi di ciò che gli altri potevano pensare.
È stato detto sovente che io non amavo le donne. Niente di
meno esatto. Le amo quando sono amabili. Alcune di esse
hanno avuto una parte notevole nella mia vita, senza parlare
di quella cui devo la mia felicità. Ma debbo riconoscere di
averne incontrate assai poche che rispondessero all'immagine
ideale che io mi facevo della donna. La fiducia che riponevo
in esse fu spesso delusa. In linea generale, trovo negli uomini
una lealtà e un disinteresse che mancano assolutamente alla
maggioranza dell'altro sesso.
D'altra parte, l'ingiustizia umana verso coloro che cercano
l'amore fuori delle vie stabilite mi ha sempre indignato. Am­
metto che si possa biasimare queste relazioni in quanto anor­
mali, ma perché estendere il biasimo agli esseri cui le relazioni
normali, per essere contrarie alla loro natura, sono inibite?
Debbono essi, per il fatto di essere stati creati diversi dagli
altri uomini, vivere nell'isolamento?
CAPITOLO VI

Zars koie Selò - Il granduca Dimitri Pavlovic - Rakitnoie -


La Crimea - Koreiz - Strani capricci di mio padre - l nostri
vicini - Ai-Todor - Primo incontro con la principessa frina.

A Zarskoie Selò, dove soggiornavamo di frequente, la mia


famìglia abitava la casa che aveva fatto costruire la mia bisa­
vola, sul modello di quella che le aveva offerto Nicola I. Era un
edificio di stile Luigi XV, tutto bianco, tanto all'interno che
all'esterno. Nella vasta sala ad angoli smussati che ne formava
il centro, sei porte davano accesso ai salotti, alla stanza da
pranzo e al giardino. Tutti i mobili erano dell'epoca, dipinti di
bianco e coperti di tela a fiori ; le tende, della stessa tela fodera­
ta di seta giallo oro, lasciavano filtrare una luce che si sarebbe
presa per quella del sole. In quella casa tutto era chiaro e
allegro. Una quantità di fiori e di piante imbalsamavano l'aria
e davano l'illusione di vivere in un'eterna primavera. Al mio
ritorno da Oxford mi arredai sotto il tetto un delizioso appar­
tamentino da scapolo con ingresso particolare.
Tutto a Zarskoie Selò evocava il ricordo di Caterina Il : il
Gran Palazzo, opera dell'architetto Rastrelli, la bella disposi­
zione delle sale di ricevimento, la "sala d'ambra", salotto parti­
colare della grande imperatrice, il celebre colonnato Kameron
con le sue statue di marmo, e l'immenso parco con i padiglioni
e i boschetti, gli stagni e le fontane. Un delizioso teatro cinese,
rosso e oro, dovuto al capriccio della grande Caterina , sorgeva
in uno scenario di pini.
l sovrani non abitavano il Gran Palazzo, che rimaneva
riservato ai ricevimenti ufficiali. Nicola II aveva scelto come
residenza il palazzo Alessandro, costruito da Caterina II per il
nipote Alessandro L A dispetto delle sue dimensioni, assai più

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modeste, quel palazzo non sarebbe stato privo di splendore
senza le infelici trasformazioni che gli aveva fatto subire la
giovane imperatrice. La maggior parte dei dipinti, degli stuc­
chi e dei bassorilievi erano stati sostituiti da ornati in mogano
e da cosy corners d'un incredibile cattivo gusto. Mobili fab­
bricati da Maple erano stati fatti venire dall'Inghilterra e
messi al posto della vecchia mobilia relegata nei magazzini.
La presenza dei sovrani a Zarskoie Selò portava con sé
quella dei granduchi e di molte famiglie dell'aristocrazia. Le
scampagnate, le cene, i ricevimenti si succedevano senza inter­
ruzione, e il tempo scorreva allegramente nella semplicità di
una vita agreste.
Durante gli anni 1912 e 1913 frequentai molto il gran­
duca Dimitri Pavlovic, entrato da poco nel reggimento delle
guardie a cavallo. I sovrani lo amavano come un figlio. Egli
abitava con loro a Palazzo Alessandro e accompagnava dap­
pertutto lo zar. lo lo vedevo quasi ogni giorno perché tra­
scorreva con me tutte le ore di libertà, durante le quali fa­
cevamo insieme lunghe passeggiate a piedi o a cavallo. Era
un ragazzo molto seducente : alto, elegante, aristocratico, con
grandi occhi pensosi ; ricordava gli antichi ritratti dei suoi
antenati. La sua anima era piena di slanci e di contraddi­
zioni : romantico e mistico insieme, non mancava di interio­
rità e di penetrazione, il che non toglie che fosse molto al­
legro e sempre pronto alle più folli imprese. Il fascino che
spirava da lui faceva sì che fosse circondato dalla simpatia
generale, ma la debolezza del suo carattere lo rendeva peri­
colosamente influenzabile.
Quasi ogni sera partivamo insieme in automobile per Pie­
troburgo, dove menavamo la più gaia esistenza, passando dai
ristoranti ai locali notturni, per finire con una visita agli
zingari. Sovente invitavamo a cena in un salottino riservato
artisti e musicisti. La celebre ballerina Paulova era spesso
dei nostri. Rincasavamo soltanto all'alba, e le notti maravi­
gliose scorrevano per noi come in sogno.
Una sera stavamo cenando al ristorante quando vidi ac­
costarsi a me un ufficiale della scorta dello zar : era un uomo
52
ancor giovane, molto bello, con la vita stretta nella giubba
da cavaliere cerkess e il pugnale infilato nella cintura.
« Dubito che possiate riconoscermi » , disse dopo essersi
presentato. c: Ma forse ricorderete le circostanze del nostro ul­
timo incontro; esse furono infatti abbastanza singolari. Il mio
ingresso a cavallo nella sala da pranzo di Arkhangelskoie
spiacque talmente a vostro padre, che mi fece mettere alla
porta �.
Ricordavo assai bene quell'episodio. Gli dissi che il suo
gesto mi aveva colmato di ammirazione e gli confessai anche
la ribellione da me provata dinanzi alla reazione di mio pa­
dre. Invitato da me, sedette alla nostra tavola e trascorse
con noi una parte della serata. Parlava poco e mi esaminava
con attenzione.
« Come somigliate a vostra madre ! �. esclamò alla fine.
Sembrava molto emozionato. Bruscamente si alzò e, salu­
tatici, uscì.
Il giorno dopo mi telefonò a Zarskoie Selò per sapere
se potesse venire a trovarmi. Gli risposi che abitavo con i
miei genitori e che, in considerazione di ciò ch'era avvenuto
in passato, la sua presenza sarebbe stata per lo meno scor­
retta. Allora mi offrì di andare a passare una serata con lui
a Pietroburgo. Accettai e nel giorno fissato lo accompagnai
dagli zingari. Da principio fu molto taciturno, ma verso la
fine della serata, con l'aiuto dell'ambiente e d ello champagne,
si fece comunicativo. Mi confidò di essere sempre rimasto
fedele ai sentimenti che mia madre gli aveva ispirato e mi
parlò dell'impressione che la mia rassomiglianza con lei gli
aveva fatto provare. Egli avrebbe voluto vedermi ancora,
ma, nonostante la simpatia che m'ispirava, gli feci capire
come le nostre relazioni non potessero essere che passeggere
e che un'amicizia tra noi era impossibile. Questo fu il nostro
ultimo incontro.
I miei rapporti con Dimitri dovevano subire un'eclissi
momentanea. I sovrani non ignoravano le voci scandalose che
circolavano sul mio conto e quindi non vedevano di buon
occhio la nostra amicizia. Essi finirono col proibire al gran-

53
duca di frequentarmi, e io stesso fui sottoposto a una sgra­
devole sorveglianza. Membri della polizia segreta si aggira­
vano continuamente intorno alla nostra casa e mi pedina­
vano quando mi recavo a Pietroburgo. Tuttavia Dimitri non
tardò a riprendere la propria indipendenza. Lasciò il palazzo
Alessandro per stabilirsi nel suo palazzo a Pietroburgo e mi
pregò di aiutarlo a sistemare la nuova dimora.

Prima di recarc1 m Crimea dove passavamo l'autunno.


ci fermavamo per la caccia a Rakitnoie, nel governatorato
di Kursk. Questo dominio, uno dei più vasti tra quelli che
possedeva la mia famiglia, comprendeva uno zuccherificio,
numerose segherie, fabbriche di mattoni e di lanerie e molte
fattorie per l'allevamento del bestiame. La casa dell'ammini­
stratore e gli edifici annessi sorgevano al centro del domi­
nio. Ogni sezione, allevamenti di cavalli, canili, ovili, pollai,
eccetera, aveva la sua gerenza particolare. Cavalli usciti dai
nostri allevamenti riportarono più di una vittoria sui campi
di corse di Pietroburgo e di Mosca.
Cavalcare era il mio sport preferito e, per un certo tem­
po, mi interessai particolarmente alla caccia a cavallo. Mi
piaceva galoppare attraverso i campi e i boschi, tenendo a
guinzaglio i levrieri. I cani scorgevano spesso la selvaggina
prima di me e allora facevano balzi tali che duravo fatica a
mantenermi in sella. Il cavaliere teneva il guinzaglio a ban­
doliera e ne stringeva l'altra estremità con la mano destra :
gli bastava aprire il pugno per liberare i cani, ma se non
aveva l'occhio sicuro e i riflessi rapidi, correva il rischio di
farsi scavalcare.
La mia passione per la caccia fu di breve durata. Gli
urli di una lepre che avevo ferito con una fucilata mi det­
tero una tale pena che da quel giorno rinunciai a prender
parte di persona a quel giuoco crudele.
La Crimea era la villeggiatura preferita della famiglia
imperiale e di molti membri dell'aristocrazia russa. La mag­
gior parte dei dominii erano raggruppati lungo la costa, tra
i porti di Sebastopoli e di Yalta. La loro vicinanza facilitava

54
le relazioni, e le riunioni erano frequentissime. La mia fami­
glia aveva in Crimea parecchi possedimenti. I due più im­
portanti erano Koreiz, sulla riva del mar N ero, e Kokoz, in
fondo a una valle circondata di alte montagne. Avevamo an­
che una casa sulla baia di Balaclava, ma non ci abitam­
mo mai.
Koreiz era un grande edificio di pietra grigia, abbastanza
brutto, che sarebbe stato più a posto in una città che in riva
al mare. Non per questo era meno accogliente e comodo.
Altre piccole costruzioni riservate agli invitati erano disse­
minate nel parco. Aiuole di rose di Francia imbalsamavano
i dintorni della casa. I giardini e i vigneti scendevano in ter­
razze sino alla riva del mare.
Mio padre, che aveva ereditato Koreiz da sua madre, vi
esercitava un'autorità discretamente gelosa, sia nel campo
amministrativo, sia in quello degli abbellimenti che appor­
tava alla proprietà. Per un certo tempo egli aveva avuto una
grande passione per la scultura. Il numero di statue che ac­
quistò è incredibile. Il parco ne era sovrappopolato. Ninfe,
naiadi e dee sorgevano in tutti i boschetti e da tutti i ce­
spugli : si viveva in piena mitologia. Sulla riva del mare mio
padre aveva fatto costruire un padiglione con una piscina
nella quale l'acqua era mantenuta a una temperatura co­
stante che permetteva di fare il bagno in tutte le stagioni.
Gruppi di bronzo raffiguranti leggende tartare erano collo­
cati sulla riva, e una Minerva, alzata sull'imbarcatoio, evo­
cava la statua della Libertà che brandisce una fiaccol a al­
l'ingresso del porto di New York. C'era anche una naiade
su uno scoglio ; quando a-vveniva che una tempesta se la por­
tasse via, era subito sostituita.
I capricci di mio padre assumevano a volte gli aspetti
più singolari. Ricordo ancora lo stupore di mia madre il
giorno in cui egli le offrì per la sua festa la montagna Ai­
Petri che domina la costa sud della Crimea. Si tratta di una
montagna rocciosa, la più alta della penisola, senza alberi
e priva anche del più minuscolo cespuglio.
Mio padre amava la vita all'aria aperta. Le lunghe pas­
seggiate a cavallo sulla montagna che gli piaceva organiz-

55
zare duravano talvolta tutto il giorno. Egli si metteva in testa
alla colonna e andava a capriccio, senza dar retta alle guide e
senza preoccuparsi di quelli che lo seguivano. La sua pas­
sione per la pesca ebbe inaspettate ripercussioni sulla mia
educazione. Allontanatosi di casa un mattino all'alba, tornò
in compagnia di uno sconosciuto e mi disse : « Ecco il tuo
nuovo precettore ». Lo aveva scort<> su uno scoglio con la
lenza in mano, gli aveva offerto di andare a pescare con lui
nel suo battello e se l'era portato a casa per la colazione.
Il nuovo precettore era una specie di nano, sudicio e ma­
leodorante. Portava tutta la settimana la stessa camicia bian­
ca ornata di fiocchi rossi. Alla domenica, sin dal mattino,
appariva in smoking con una cravatta colorata e le scarpe
gialle. Mia madre, costernata, volle tentare di muovere qual­
che obiezione, ma mio padre era entusiasta della scoperta
e non volle sentir ragioni. Quanto a me, lo avevo preso in
odio sin dal primo giorno e gli resi la vita talmente dura che
non tardò a domandare di andarsene.
Allora mio padre risolvette di darmi un'educazione spar­
tana. Cominciò col far togliere dalla mia camera tutti i mo­
bili che avevo scelto io stesso, per sostituirli con un letto da
campo e uno sgabello. Io seguivo questo sgombero con una
rivolta interna tanto più violenta in quanto che non poteva
manifestarsi. A questa si aggiunsero serie apprensioni quan­
do vidi i domestici sistemare in mezzo alla camera una specie
di armadio dall'apparenza sospetta. Quando fui solo, tentai
invano di aprirlo, e le mie inquietudini aumentarono.
Il giorno dopo il cameriere di mio padre, un ragazzone
che evidentemente era incaricato della parte di carnefice,
mi afferrò con le braccia vigorose e mi chiuse nell'armadio.
Nello stesso istante ricevetti una doccia gelata sulla testa.
Io non ho mai potuto sopportare l'acqua fredda, e questa
esperienza fu per me una tortura. Ma ebbi un bell'urlare
e dibattermi, dovetti adattarmi a ricevere tutto il contenuto
del serbatoio. La scossa nervosa che provai fu tale che, quan­
do la porta si aprì nudo com'ero scappai per i corridoi, mi
precipitai all'aperto. come un demente e, tutto d'un fiato, mi
arrampicai in cima a un albero. Di lassù, gettai tali urli che
allarmai tutta la casa. I miei genitori, subito accorsi, mi or­
dinarono di scendere. ma io non acconsentii se non in cam­
bio dell'assicurazione formale che non si sarebbe più parlato
di doccia fredda, minacciando anzi di buttarmi giù dall'al­
bero se non mi avessero dato soddisfazione. Dinanzi a questo
ultimatum, miò padre si arrese. Ma io avevo preso freddo
e stetti male per parecchi giorni.

La partenza per la Crimea era sempre una festa per mio


fratello e per me, perciò attendevamo con impazienza il gior­
no in cui la nostra vettura doveva essere attaccata all'espresso
Nord-Sud. La lasciavamo a Simferopoli, dove trascorrevamo
qualc;he giorno dagli zii Lazarev. Mio zio era governatore
della Crimea. Il suo carattere tranquillo e la sua bontà lo
facevano amare da tutti. Sua moglie non era meno popolare
di lui. Da Simferopoli proseguivamo il viaggio in un grande
landò che conteneva tutta la famiglia. Altre vetture segui­
vano con i domestici ; i furgoni che portavano i bagagli chiu­
devano la sfilata. Il nostro personale, per quanto numeroso,
non era nulla in confronto di quello che accompagnava cer­
te famiglie russe nei loro spostamenti. Il conte Alessandro
Ceremetev portava con sé non soltanto i domestici e le loro
famiglie, ma anche i propri musicanti, e persino qualche muc­
ca delle sue fattorie per essere sicuro di avere il latte fresco
durante il viaggio.
A Nicola e a me queste spedizioni piacevano molto. Tutto
ci divertiva : il cambio dei cavalli che durante la strada av­
veniva due volte, la scelta del luogo nel quale ci si sarebbe
fermati per far colazione, e i pasti consumati sotto la tenda.
Più di tutto ci piaceva essere soli con i nostri genitori, cosa
che ci accadeva di rado.
Vi fu un tempo nel quale il nostro arrivo a Koreiz ci ri­
serbava sempre qualche sorpresa dovuta alla fantasia del­
l'amministratore che avevamo allora. Così, per esempio, co­
stui ebbe una volta l'idea di scrivere su tutti gli oggetti della
casa, con l'inchiostro nero, il prezzo al quale egli li stimava :
molti di questi oggetti furono irrimediabilmente rovinati.

57
Un'altra volta trovammo addirittura la casa interamente im­
brattata di rosso, con righe bianche che simulavano i giunti
di mattoni immaginari ; le sta tue, così care a mio padre, non
erano state risparmiate e ci apparvero dipinte di un rosa
color carne che, senza dubbio, avrebbe dovuto dar loro l'ap­
parenza della vita. Fu l'ultima volta che l'amministratore i n
parola poté esercitare la sua immaginazione a spese dei nostri
beni: mio padre lo licenziò su due piedi. Ma ci volle un anno
intero per ripulire la casa e le statue.
C'era a Koreiz, nella tenuta, un idiota grande e grosso, di
origine tartara, chiamato Missiud. Aveva una statura colos­
sale ed era afflitto da un gozzo abbastanza sviluppato. Que­
sto gigante innocente e gozzuto adorava il padrone e lo se­
guiva dappertutto come un'ombra. Seccato di una fedeltà
tanto ingombrante, ma d'altra parte non volendo addolorare
il buon Missiud, mio padre finì col trovargli una sinecura :
vestito come il custode di un harem, con un caffetano rica­
mato d'oro e un turbante, armato di corno e di fucile, Mis­
siud fu posto di guardia accanto a una fontana che si tro­
vava davanti alla casa. Ogni volta che si presentava un visi­
tatore, egli doveva suonare il corno, sparare un colpo di fu­
cile e gridare « Urrà ». Però gli accadeva spesso di sbagliarsi
e di compiere queste azioni rituali non già all'arrivo, ma alla
partenza dei nostri amici, qualcuno dei quali se la prese a male.
Eravamo a Pietroburgo, quando mio padre ricevette dal­
la Crimea un telegramma così concepito: "Missiud annuncia
a Sua Altezza d'essere morto". Il nostro bravo Missiud, ca­
duto gravemente infermo, aveva redatto egli stesso il tele­
gramma raccomandando che fosse spedito subito dopo la
sua morte.
Il giorno dopo il nostro arrivo a Koreiz, cominciava la
sfilata dei vicini. Il feldmaresciallo Miliutin, più che ottan­
tenne, faceva a piedi gli otto chilometri che separavano la
sua proprietà dalla nostra. La baronessa Pilar era un'amica
della nonna o, per essere più esatti, la sua schiava. Piccola,
grassa, col volto coperto di verruche adorne di lunghi peli,
nonostante l'incredibile bruttezza, riusciva ad apparire ama­
bile e buffa. Ella si prestava a tutti i capricci di mia nonna
58
che le affidava i propri bachi da seta o la requisiva per cer­
car lumache.
L'aspetto leonino del principe Galizin, colosso dalla cri-
niera arruffata, giustificava il suo nome di battesimo: Leone.
Nonostante la proverbiale generosità, Galizin era temuto da
tutti. Sempre in istato di semiubriachezza, egli cercava tut­
te le occasioni di dare scandalo, e, non contento di bere lui,
pretendeva ubriacare quanti gli venivano a tiro col vino usci­
to dalle sue tinozze. Arrivava sempre accompagnato da cas­
se di vino e di champagne. Appena la sua vettura era entrata
nel cortile, gridava con voce stentorea : <t Arrivano gli invi­
tati! » . Scendeva e si metteva a far giuochi di destrezza con
le bottiglie, intonando una canzone da taverna :
Bevi bevi sino in fondo,
Bevi bevi sino in fondo.

lo accorrevo, per essere il primo ad assaggiare i vm1 ec­


cellenti ch'egli portava. Prima ancora di salutare i padroni
di casa, egli chiamava i domestici per scaricare e aprire le
casse, poi riuniva la gente di casa, padroni e servitori, e co­
stringeva tutti a bere sino a che fossero ubriachi. Un giorno
tormentò talmente mia nonna, che aveva allora più di set­
tant'anni, che essa finì col gettarg1 i in faccia il contenuto del
proprio bicchiere. Egli allora l'afferrò e la trascinò in una
danza selvaggia, tanto che la povera donna dovette poi re­
stare a letto per parecchi giorni.
Mia madre temeva moltissimo le visite del principe Ga­
lizin. Una volta se ne stette per ventiquattr'ore chiusa nei
propri appartamenti a causa delle vioienze di quel forsen­
nato, che nessuno riusciva a calmare. Quando aveva ubria­
cato ben bene tutto il personale, egli si abbatteva su un di­
vano, dormiva tutta la notte, e soltanto a fatica riuscivamo
a liberarci di lui il giorno seguente.
Il conte Sergio Orlov Davidov abitava solo nella sua pro­
p.rietà di Selame. Era debole di cervello e, fisicamente, u n
mostro: scapigliato, con l e narici spalancate e i l labbro in­
feriore ricadente sul mento. Sempre abbigliato con estrema
ricercatezza, portava il monocolo, le ghette bianche e si pro-

59
fumava con acqua di Cipro, il che non gli impediva di puz­
zare di caprone. Tutto sommato, però, un buon diavolo e per­
sino abbastanza simpatico. La sua più grande distrazione
era giocare con i fiammiferi : gliene veniva posta accanto
una larga provvista ed egli passava le ore accendendoli e
spegnendoli; poi se ne andava senza dire una parola o fare
un cenno. Il più bel giorno della sua vita fu senza dubbio
quello in cui gli portai da Parigi una scatola di fiammiferi
alti un metro che avevo trovato sui boulevards.
La sua bruttezza e il suo rimbecillimento non gli impe­
divano di occuparsi di donne. Egli suscitò uno scandalo du­
rante un servizio religioso celebrato al Palazzo d'Inverno,
in presenza della famiglia imperiale. Poiché tutte le dame
erano, secondo l'uso, in abito di corte, il conte Orlov si in­
castrò nell'orbita il monocolo e si mise a ispezionare le scol­
lature emettendo suoni tali che fu necessario metterlo fuori
dalla chiesa. C'era chi affermava ch'egli avesse avventure
amorose. Certo era molto sentimentale e di una commovente
fedeltà. Per esempio, non c'era pericolo che dimenticasse la
festa di mia madre : poteva essere a Koreiz o altrove, egli
giungeva puntualmente con un enorme mazzo di rose.
Una delle nostre vicine, la contessa Kleinmichel, posse­
deva un'importante biblioteca, composta principalmente di
opere sulla massoneria. Un giorno fu scoperto tra i libri un
manoscritto ebraico su pergamena che venne inviato a Pie­
troburgo e tradotto in russo. Quella traduzione fu poi pub­
blicata col titolo: I protocolli di Sion ; ma la maggior parte
dell'edizione sparì misteriosamente subito dopo la pubblica­
zione. Essa fu di sicuro distrutta. Comunque, è certo che, al
momento della rivoluzione bolscevica, tutti i membri delle fa­
miglie in casa delle quali veniva scoperta una copia del li­
bro in questione, venivano fucilati seduta stante. Un esem­
plare della pubblicazione giunse in Inghilterra. Conservato
nella Biblioteca Nazionale di Londra, fu tradotto in inglese
col titolo di The ]eros Perii e in francese con quello, appunto,
di Protocoles de Sion ( 1 ) .
( l ) I n italiano questo pamphlet antiebraico sulla cui origine e autenticità s i è
molto discusso. uscì col titolo : c I protocolli dei Savi anziani di Sion , (Roma, 192 1 ) .
]N. d . T . ]

6o
La contessa Panin era una donna molto intelligente, con
idee nettamente avanzate. Abitava una specie di castello feu­
dale nel quale riceveva uomini politici, artisti e scrittori. In
casa sua incontrai Leone Tolstoi, Cecov e anche due coniugi
affascinanti con i quali restai in relazione : la celebre can­
tante Yan Ruban e suo marito Pohl, compositore e pittore
di grande valore. La signora Ruban mi diede anzi qualche
lezione di canto e venne spesso a trovarci. Non credo di aver
mai sentito una cantante che avesse una dizione altrettanto
perfetta né che mettesse tanta anima nell'interpretazione del­
le melodie di Schumann, di Schubert e di Brahms.
Tra le proprietà che si trovavano dalla parte di Sebasto­
poli, una delle più belle, Alupka, apparteneva alla famiglia
Woronzov. Piante di glicine si arrampicavano sui m uri, il
parco era ornato di fontane e di statue. Disgraziatamente,
l'interno della casa era lasciato in abbandono dai proprietari
che ci venivano raramente. Si diceva che tra l'edera che co­
priva i muri vivesse un enorme serpente, che talvolta si ve­
deva balzare sino alla riva e sparire nei flutti. Quando ero
bambino, questa leggenda mi atterriva, tanto che rifiutavo
sempre di andare a passeggio in quei paraggi.
Nel piccolo porto di Yalta - reso celebre dalla confe­
renza dei Tre G randi nel 1 945 - era ormeggiato lo yacht
imperiale Standard. Yalta era un centro di escursioni. Se­
dute sulla banchina, le guide tartare, giovani robusti di una
bellezza inquietante, aspettavano i turisti ai quali noleggia­
vano i cavalli e che accompagnavano su per la montagna.
Queste spedizioni assumevano assai spesso un carattere ga­
lante. Si parlò a lungo della brutta avventura toccata alla
moglie di un ricco mercante moscovita, la quale, annoiata
dalla vita coniugale al fianco di un vecchio marito, si era
recata a Yalta per distrarsi. Costei prese per guida un bel
giovanotto e si internò con lui nella montagna. l due si piac­
quero talmente che, stando alle dicerie, la signora non poté
più servirsi del cavallo nel ritorno e la faccenda terminò nel
gabinetto di un medico... La storiella fece il giro della città,
per cui la signora dovette lasciare Y alta coperta di vergogna.
Il marito apprese l'avventura e domandò il divorzio.
Tutte le proprietà della famiglia imperiale erano in riva
al mare. Lo zar e la sua famiglia abitavano Livadia, palazzo
di stile italiano dalle grandi stanze bene illuminate, che ave­
va sostituito l'antico palazzo, cupo, umido e scomodissimo. La
proprietà del granduca Alessandro Mikhailovic, Ai-Todor, era
prossima alla nostra. I ricordi che essa evoca in me mi sono
particolarmente cari. I muri della vecchia casa, sepolti nella
verzura, sparivano sotto le rose e il glicine. Questa dimora,
dovè tutto era piacevole, doveva la sua maggiore attrazione
alla presenza della granduchessa Senia Alessandrovna, la
cui seduzione, più che dalla bellezza, dipendeva da un ec­
cezionale fascino che ella aveva ereditato dalla madre, l'im­
peratrice Maria Fiodorovna. Lo sguardo dei suoi splendidi
occhi grigi penetrava sino in fondo all'animo. La sua grazia,
la sua modestia e la sua estrema bontà esercitavano intorno
a lei un incanto al quale nessuno poteva sottrarsi. Sin dalla
mia infanzia, le sue visite erano per me una festa. Dopo che
ella se n'era andata, percorrevo le stanze ove aleggiava an­
cora il profumo di mughetto che aspiravo con vera dc1izia.
Il granduca Alessandro, d'alta statura, bruno e molto bel­
lo, aveva una forte personalità. Il suo matrimonio con la
granduchessa Senia, la giovane sorella di Nicola Il, aveva
rotto la tradizione che obbligava i membri della casa regnan­
te a sposare principesse straniere di sangue reale. Egli era
entrato per vocazione nella scuola navale e fu per tutta la
sua vita un marinaio convinto e appassionato. Persuaso del­
la necessità di costruire una flotta potente, era riuscito a far
condividere questa convinzione all'imperatore, ma si trovò
a dover lottare con l'opposizione dei grandi pontefici della
marina, gli stessi che furono poi responsabili del disastro
della guerra russo-giapponese. Il granduca prese attiva par­
te allo sviluppo della marina mercantile di cui gli era stato
affidato il ministero, creato per suo consiglio. Diede le di­
missioni il giorno in cui lo zar firmò il manifesto che con­
vocava la prima Duma. Nondimeno accettò il comando di
un gruppo di torpediniere nel Baltico, felice di ritrovarsi a
bordo di una nave.
Incrociava nelle acque della Finlandia, quando un tele­
gramma da Gàscina, dove la granduchessa si era stabilita
con i figliuoli, lo chiamò al capezzale del figlio Teodoro, gra­
vemente ammalato di scarlattina. Tre giorni dopo appren­
deva dal cameriere, restato a bordo della nave ammiraglia,
che l'equipaggio, risoluto ad ammutinarsi, aspettava il suo
ritorno per catturarlo quale ostaggio. Egli ascoltò, sconvolto,
il saggio verdetto del cognato: «: Il governo non può correre
il rischio di lasciare un membro della famiglia imperiale
nelle mani dei rivoluzionari ». Così si era espresso Nicola Il.
Il granduca prese come pretesto, per allontanarsi, la salute
dei figli e, con la morte nell'anima, partì per l'estero.
Prese in affitto una villa a Biarritz dove trascorse molti
mesi con la famiglia. Doveva tornarvi regolarmente negli
anni successivi. Qui ebbe notizia della traversata della Ma­
nica compiuta da Blériot. Il granduca era stato uno dei pri­
mi a entusiasmarsi per l'aviazione nascente. L'impresa di
Blériot lo riportò nella lotta in quanto intravvide la neces­
sità di dotare la Russia eli apparecchi più pesanti dell'aria.
Si mise in relazione con Blériot e Voisin, e partì per la Rus­
sia con idee e progetti precisi. Vi fu accolto con sorrisi sar­
castici.
«: Se vi ho ben compreso, Altezza imperiale », disse il ge­
nerale Sukhomlinov, ministro della Guerra, « voi proponete
di introdurre il giocattolo di Blériot nell'esercito? Posso chie­
dervi se i nostri ufficiali abbandoneranno il servizio per an­
darsene a volteggiare sul Passo di Calais o se la fantasia si
svolgerà qui, a Pietroburgo? ».
Essa si svolse a Pietroburgo, ch'ebbe, nella primavera del
1909, la sua prima settimana di aviazione. Il generale Su­
khomlinov la giudicò «: superlativamente divertente, ma pri­
va di qualsiasi interesse per la difesa nazionale :.. Il gran­
duca poté tuttavia posare, tre mesi dopo, la prima pietra
della scuola d'aviazione che, nel 19 14, doveva fornire la mag­
gior parte dei nostri piloti e dei nostri osservatori.
Un giorno, durante una passeggiata a cavallo, incontrai
una deliziosa fanciulla accompagnata da una dama at­
tempata. I nostri sguardi si incontrarono, e l'impressione
che ella mi fece fu talmente viva che fermai il cavallo per
seguirla con gli occhi mentre si allontanava. Nei giorni se­
guenti, rifeci la stessa passeggiata alla stessa ora con la spe­
ranza di incontrare di nuovo la mia bella sconosciuta. Ella
non si fece vedere e io rincasai molto triste. Ma un pome­
riggio il granduca Alessandro e la granduchessa Senia ven­
nero a farci visita accompagnati dalla principessa lrina, lo­
ro figlia. Immagini il lettore quale sorpresa e quale gioia
provassi riconoscendo la fanciulla incontrata per istrada !
Questa volta potei completare a mio agio la maravigliosa
bellezza di colei che doveva diventare la compagna della
mia vita.
CAPITOLO VII

La Wiasemskaia-LaDra - Amori di mio fratello - Ultimo Diag­


gio con lui all'estero - Suo duello e sua morte.

N icola e io avevamo fatto la conoscenza d'un giovane at­


tore simpatico e di grande ingegno, Blumenthal Tamarin,
chiamato Vova dagli amici. Si rappresentava allora al tea­
tro Alessandro la commedia di Gorki, L'albergo dei poveri.
Vova ci consigl iò di andare a vedere quest'opera nella quale
Gorki ha ritratto i miserabili di Pietroburgo che vivevano
nel quartiere di Wiasemskaia-Lavra. Provai allora un gran
desiderio di visitare quel quartiere, e pregai Vova di facili­
tarmi la cosa. A vendo molte relazioni nel mondo teatrale,
non gli fu difficile procurarci gli abiti adatti.
Il giorno stabilito ci mettemmo in cammino tutti e tre tra­
vestiti da mendicanti, prendendo le vie più deserte per evi­
tare la polizia. Nondimeno, fummo costretti a passare da­
vanti al teatro dei Bouffes nel momento in cui il pubblico
usciva dopo lo spettacolo. Recitando la mia parte sino in
fondo e curioso di conoscere i sentimenti che prova un uo­
mo stendendo la mano, mi appostai all'angolo di una strada
e domandai l'elemosina. Pur non essendo che un falso men­
dicante, fui indignato di vedere le belle dame coperte di
gioielli e di pellicce preziose e gli eleganti signori che fuma­
vano grossi sigari passare senza degnarmi di uno sguardo.
Capii allora quali potessero essere i sentimenti dei poveri
autentici.
Quando fummo alle porte della Lavra, Vova ci racco­
mandò di non parlare per evitare di farci conoscere quali
falsi mendicanti. Prendemmo tre posti all'asilo notturno, ci
coricammo e, fingendo di essere addormentati, potemmo os-

6s
servare quel che accadeva intorno a noi. Era uno spettacolo
terribile. Tutti coloro che ci circondavano, veri relitti umani
dei due sessi, giacevano seminudi, sudici e ubriachi. Da ogni
parte si sentivano saltare i tappi; gli uomini vuotavano d'un
sorso la loro bottiglia di vodka, poi la gettavano addosso al
vicino. Quei miserabili litigavano, s'ingiuriavano, si accop­
piavano, vomitavano gli uni sugli altri. Il fetore che regnava
nell'ambiente era spaventoso. Nauseati da quello spettacolo
immondo, non tardammo ad andarcene.
Una volta all'aperto, respirai a pieni polmoni l'aria fre­
sca della notte. Stentavo a credere alla realtà di ciò che
avevo visto. Come, in un'epoca come la nostra, un governo
poteva tollerare che esseri umani fossero ridotti a condizioni
d'esistenza tanto abbiette? Per molto tempo fui come osses­
sionato dal ricordo di quell'atroce visione.
Il travestimento doveva conferirci davvero un bell'aspet­
to, perché stentammo a farci riconoscere dal nostro porti­
naio, il quale si rifiutò per qualche tempo di !asciarci rien­
trare in casa.

Durante il soggiorno che facemmo a Parigi nell'estate


del 190'7, Nicola conobbe una grande cortigiana del momento,
Manon Lotti, di cui si innamorò pazzamente. Era una donna
bellissima, molto elegante, che viveva nel più gran lusso:
palazzo proprio, magnifiche carrozze, gioielli splendidi, e
persino un nano, che considerava una specie di portafor­
tuna ... Ella si faceva spesso accompagnare da una ex mon­
dana, ormai vecchia e inferma, che veniva chiamata Bibì
e che parlava con orgoglio della propria antica relazione
col granduca Alessio Alessandrovic.
Nicola aveva perso del tutto la testa e passava i giorni
e le notti in casa di Manon. Di tanto in tanto, si ricordava
della mia esistenza e mi invitava ad accompagnarli nei lo­
cali notturni. Ma la parte di terzo incomodo non mi andava
a genio, per cui non tardai ad avere anch'io una relazione
con una personcina graziosa, meno appariscente di Manon
e tuttavia molto piacevole. Ella fumava l'oppio e mi propo-
66
se una sera di iniziarmi a questo genere di voluttà. Nel locale
cinese di Montmartre dove mi accompagnò, fummo ricevuti
da un vecchio cinese che ci fece scendere nel sottosuolo. Fui
colpito dal caratteristico odore dell'oppio e dallo strano si­
lenzio che regnava in quel luogo. Persone semisvestite sta­
vano sdraiate sulle stuoie e sembravano tutte immerse in un
sonno profondo. Davanti a ogni fumatore ardeva una pic­
cola lampada a olio.
Parve che nessuno notasse il nostro ingresso. Ci stendem­
mo su una stuoia libera e un giovane cinese portò le lampade
e preparò le pipe. Ne avevo già fumata più d'una e la te­
sta cominciava a girarmi quando, improvvisamente, squillò
un campanello e una voce gridò: c: Polizia ! :11 .
Tutta quella gente che sembrava addormentata, balzò in
piedi e cercò di rimettere in fretta un po' d'ordine nei pro­
pri abiti. La mia compagna, che conosceva il luogo, mi tra­
scinò verso una porta secondaria dalla quale potemmo uscire
inosservati. Raggiunsi con difficoltà il mio appartamento e
crollai sul letto. Il giorno dopo, in preda a un terribile mal
di capo, giurai a me stesso di non fumar mai più l'oppio,
giuramento che non tardai a violare alla prima occasione.
Poco dopo questa avventura, ripartii con mio fratello per
la Russia.
A Pietroburgo la vita riprese nel solito clima di allegra
spensieratezza, e Nicola dimenticò presto i suoi amori pa­
rigini. Come succede a tutti i giovanotti ricchi, egli non tar­
dò a essere fatto segno alle attenzioni di tutte le madri in
cerca di un genero; ma teneva troppo alla propria libertà
per pensare al matrimonio. Disgrazia volle che incontrasse
una fanciulla bellissima e seducentissima che gli ispirò una
vera passione. Ella e sua madre conducevano una vita mol­
to allegra, e le riunioni in casa loro erano frequenti e
animate.
Quando mio fratello conobbe la fanciulla in questione,
questa era già fidanzata con un ufficiale del reggimento del­
la Guardia. Ciò non arrestò Nicola, che pareva risoluto a
sposarla. I nostri genitori rifiutavano di dare il loro consenso
a un'unione che disapprovavano. Io stesso conoscevo troppo
bene la ragazza per non condividere il loro punto di vista ,
tuttavia dovetti dissimulare i miei sentimenti per conservare
l'affetto e la fiducia di mio fratello che speravo di distogliere
da quel progetto insensato.
Frattanto, la data del matrimonio veniva continuamente
rimandata. · Stanco dei rinvii, il fidanzato esigette che essa
venisse stabilita in modo definitivo. Nicola era disperato, la
ragazza piangeva e dichiarava di preferire la morte al ma­
trimonio con un uomo che non amava. Seppi che, il giorno
precedente quello delle nozze, aveva invitato mio fratello a
un'ultima cena. Non essendo riuscito a convincerlo ch'era
meglio per lui rinunciare a quell'incontro, risolvetti di ac­
compagnarlo. Vova era tra i convitati. Eccitato dall'alcool,
si ingolfò in un'ardente dissertazione, con la quale esortò
i due innamorati a unirsi senza tener conto di tutto ciò che
non fosse il loro amore. Dal canto suo, la fidanzata suppli­
cava Nicola di fuggire con lei. Allora corsi ad avvertire la
madre e non feci fatica a persuaderla che doveva seguirmi.
Quando tornai con lei al ristorante, la figlia cadde tra le sue
braccia. Ne approfittai per trascinar via Nicola quasi a for­
za e riportarlo a casa.
Il matrimonio ebbe luogo il giorno dopo e i nuovi
sposi partirono per l'estero. La faccenda sembrava sepolta,
con grande sollievo dei nostri genitori. Il contegno di Nicola,
che aveva ripreso la solita vita, finì di rassicurare mia ma­
dre. Ma io non mi lasciavo ingannare da quell'affettazione
di indifferenza.
In quel periodo si svolgeva a Parigi una stagione di opere
russe con la partecipazione di Scialiapin. Mio fratello di­
chiarò di voler assistere a queste rappresentazioni. Mio pa­
dre e mia madre, rendendosi conto che Scialiapin era sol­
tanto un pretesto, tentarono di dissuaderlo, ma nulla poté
trattenere Nicola. Allora, i nostri genitori mandarono a Pa­
rigi anche me con l'incarico di tenerli al corrente di ciò che
mio fratello avrebbe fatto. Quando appresi ch'egli aveva ri­
veduto la donna di cui era innamorato, telegrafai loro di
venire a raggiungermi.
Nel frattempo Nicola rimaneva invisibile e non ci dava
68
più sue notizie. Finii con l'andare a consultare due indovine
allora in gran voga : madama di Thèbes e madama Fraya.
La prima mi avvertì che un grave pericolo minacciava un
membro della mia famiglia, il quale correva il rischio di es­
sere ucciso in duello. La seconda mi disse su per giù la stessa
cosa, aggiungendo una predizione che mi riguardava : c:Tra
qualche anno voi parteciperete a un assassinio politico e
passerete attraverso prove terribili, che tuttavia finirete col
superare ».
Informazioni contrastanti giungevano intanto al nostro
orecchio. Pareva certo che il marito non ignorasse le rela­
zioni di Nicola con sua moglie; ma, mentre certuni afferma­
vano che un duello era inevitabile, altri asserivano che tutto
sarebbe finito con un divorzio. Finalmente sapemmo che l'uf­
ficiale aveva effettivamente provocato mio fratello e che i
padrini avevano giudicato i motivi insufficienti per giusti­
ficare uno scontro. Le cose erano a questo punto quando ri­
cevemmo la visita del marito della giovane donna. Veniva
a dirci che si era riconciliato con Nicola, e che, considerando
sua moglie come la principale responsabile di quanto era
avvenuto, aveva deciso di chiedere il divorzio. Fummo gran­
demente sollevati nell'apprendere che il duello era evitato,
ma restammo tuttavia molto inquieti pensando alle conse­
guenze del divorzio.
Non passò molto tempo, e notizie allarmanti ci richiama­
rono a Pietroburgo : l'ufficiale, istigato certamente dai col­
leghi, tornava all'idea del duello. Non si poteva saper nulla
da Nicola che si rinchiudeva in un assoluto mutismo. Tutta­
via, finì col dirmi che il duello avrebbe avuto luogo tra non
molto. Avvertii subito i miei genitori, che lo fecero chiama­
re, ed egli riuscì a rassicurarli affermando che non sarebbe
accaduto nulla.
Quella sera trovai sulla scrivania un rigo di mia madre
che mi pregava di passare da lei al più presto, e un altro
di Nicola che mi invitava a cena da Contant. Quell'invito
mi parve un buon auspicio, perché, dal nostro ritorno da Pa­
rigi, era la prima volta che m'invitava a passare la serata
con lui.

6g
Prima di tutto mi recai da mia madre. Stava seduta da­
vanti allo specchio e la sua cameriera la pettinava per la
notte. Vedo ancora l'espressione del suo volto e i suoi occhi
splendenti di felicità : « Tutte le voci riguardanti il duello
sono false », mi disse, « tuo fratello è venuto a parlarmi que­
sta sera. Tutto è accomodato. Non puoi immaginare come sia
felice ! Temevo tanto più questo duello, in quanto Nicola
compirà in questi giorni i ventisei anni ». Appresi allora la
strana fatalità che sembrava gravare sulla famiglia Yussu­
pov sin dalle sue origini: tutti gli eredi, eccettuato uno, mo­
rivano prima di aver raggiunto l'età di ventisei anni. Mia
madre, che aveva avuto quattro figli dei quali Nicola e io
eravamo i soli sopravvissuti, non aveva mai cessato di tre­
mare ora per l'uno ora per l'altro di noi. L'avvicinarsi del
ventiseiesimo compleanno di Nicola, in coincidenza con la
minaccia del duello, l'aveva sprofondata nella più terribile
angoscia. Abbracciai mia madre che versava lacrime di gioia
e mi avviai verso il ristorante dove Nicola mi aveva dato
appuntamento. Non avendolo trovato, lo cercai invano per
tutta la città e rincasai più preoccupato che mai. Dopo le
predizioni che mi erano state fatte e le rivelazioni della
mamma, la scomparsa di Nicola non poteva che aumentare
la mia angoscia. Egli stesso mi aveva detto come il suo duel­
lo fosse imminente. Certo aveva voluto trascorrere con me
quell'ultima sera. Quale circostanza imprevista glielo aveva
impedito? Pieno di idee funebri, finii tuttavia per addor­
mentarmi.
Al mattino, il domestico lvan venne a svegliarmi sgo­
mento : « Venite presto, è accaduta una terribile disgra­
zia!... ». Preso da un improvviso presentimento, balzai dal
Ietto e corsi da mia madre. Sulle scale incontrai molti dei
nostri servitori col viso sconvolto, ma nessuno rispose alle
mie domande. Grida laceranti venivano dal gabinetto di to­
letta di mio padre. Entrai e lo vidi pallidissimo, ritto ac­
canto a una barella sulla quale giaceva il corpo di Nicola.
Mia madre, inginocchiata accanto alla barella, sembrava aver
perduto la ragione...
Soltanto a fatica riuscimmo a strapparla dal corpo di
70
suo figlio e a stenderla sul letto. Quando fu un po' calmata,
mi fece chiamare, ma, scorgendomi, mi p rese per mio fra­
tello, e allora si svolse una scena atroce che mi lasciò im­
pietrito per l'emozione e lo sgomento. Più tardi, m�a madre
cadde in preda a una grande prostrazione; e quando tornò
in sé, non mi permise di allontanarmi neppure per un istante.
Il corpo di mio fratello fu posto nella cappella. Comin­
ciarono allora le lunghe ed estenuanti cerimonie funebri e
la sfilata di tutti i nostri parenti e amici. Qualche giorno
dopo partimmo per Arkhangelskoie, dove doveva aver luo­
go l'inumazione nella tomba di famiglia.
La granduchessa Elisabetta Fiodorovna si trovava tra gli
amici che ci aspettavano alla stazione di Mosca e ci accom­
pagnò ad Arkhangelskoie. Una grande quantità di contadini
assistettero al servizio funebre. La maggior parte piange­
vano, e tutti ci manifestarono nel modo più commovente la
loro partecipazione al nostro dolore.
La granduchessa rimase per qualche tempo con noi. La
sua presenza, benefica per tutti, fu, in modo particolare,
di grande aiuto per mia madre la cui disperazione era im­
mensa. Mio padre, molto chiuso per natura, dissimulava il
proprio dolore, ma era facile rendersi conto ch'era annientato.
Quanto a me, mi sentivo come ossessionato da un desiderio
di vendetta che mi avrebbe probabilmente indotto a com­
piere qualche gesto eccessivo se la granduchessa non fosse
riuscita a calmarmi.
Avevo appreso le circostanze del duello, che si era svolto
a mattino avanzato nella proprietà del principe Belosselsky,
nell'isola Krestovsky. L'arma era la pistola e la distanza tra
gli avversari era stata fissata a trenta passi. Dopo il segnale,
Nicola aveva fatto fuoco in aria. Il suo avversario aveva
sparato contro di lui, ma senza colpirlo. Allora aveva voluto
che la distanza fosse ridotta a quindici passi. Nicola aveva
fatto fuoco di nuovo in aria. L'ufficiale aveva mirato e spa­
rato uccidendolo sul colpo. Non era stato un duello, ma un
assassinio. Più tardi, mettendo in ordine le carte di mio fra­
tello, trovai una corrispondenza che mi rivelò la parte tene­
brosa recitata in questa faccenda da un certo Scinsky, oc-

71
cultista molto noto. Appariva chiaro dalle lettere che Nicola
era diventato il suo succubo. L'occultista scriveva a mio fra­
tello che egli, Scinsky, era il suo angelo custode e che la vo­
lontà di Dio lo guidava ; gli aveva presentato come un obbligo
il matrimonio con la ragazza di cui era innamorato e lo aveva
poi indotto a seguirla a Parigi. Egli faceva sempre l'elogio
della ragazza e consigliava Nicola a essere riservato nei rap­
porti con i miei genitori e con me.
Prima di lasciarci, la granduchessa mi fece 'prom.ettere
che, non appena mia madre si fosse sentita meglio, sarei
andato a farle visita a Mosca per parlare con lei del mio
avvenire. Lo stato di salute di mia madre migliorò, ma ella
non doveva più rimettersi dal dolore provocato dalla morte
del figlio.

Un giorno, rientrando dalla passeggiata, dopo aver salito


la scala dell'ultima terrazza, mi fermai in cima ai gradini
per contemplare il parco immenso con le sue statue, i suoi
viali di carpini e la splendida dimora che conteneva tante
inestimabili ricchezze. Pensavo che tutto ciò sarebbe un gior­
no appartenuto a me, e che quella non era se non una pic­
cola parte della fortuna che mi sarebbe spettata. Il pensiero
di essere un giorno uno degli uomini più ricchi della Russia,
mi inebriava. Ricordavo un tempo in cui, ancora fanciullo,
mi introducevo furtivamente nel piccolo teatro di casa no­
stra e m'identificavo col mio antenato, il grande mecenate del
regno di Caterina II ( 1 ) . Rivedevo la sala moresca della
Moika dove, sdraiato su cuscini intessuti di fili d'oro, drap­
peggiato nelle più belle stoffe orientali e adorno con i dia­
manti di mia madre, troneggiavo in mezzo ai miei schiavi ;
la ricchezza, il fasto, il potere : non potevo concepire la vita
diversamente. La mediocrità e ciò ch'era brutto mi facevano
orrore ... Ma che cosa sarebbe accaduto se una guerra o una
rivoluzione mi avessero privato della mia fortuna? Ricor-
{l) Si tratta del principe Nicola Borissovic Yussupov, trisavolo dell'autore,
che visse durante il regno di Caterina Il e fu una delle personalità più notevoli
del suo tempo, viaggiatore, erudito, grande protettore delle scienze e delle arti
(1753-1831). [N. d. T.)
davo i miserabili cenciosi che avevo visto alla Wlasemskaia­
Lavra. Non avrebbe potuto darsi che io diventassi come uno
di loro? Questa sola idea mi era insopportabile. Entrai ra­
pidamente in casa. Passando dinanzi al mio ritratto dipinto
da Serov, mi fermai e lo esaminai attentamente. Serov era
un acuto psicologo che afferrava meglio di chiunque altro
il carattere dei propri modelli. Sul volto del giovanotto che
avevo dinanzi a me potevo leggere vanità, orgoglio, aridità
di cuore. Dopo la terribile prova ch'era stata per tutti noi
la morte di mio fratello, come mai non ero mutato? Come
potevo ancora isolarmi nel mio egoismo? Fui preso da u n
tale disgusto per m e stesso che, lì per lì, pensai di uccidermi.
Il pensiero del dolore che avrei dato ai miei genitori mi fece
scartare quella soluzione estrema.
Ricordai che la granduchessa mi aveva raccomandato di
andare a farle visita, e risolvetti di approfittare del miglio­
ramento sopravvenuto nella salute di mia madre per recarmi
a Mosca.
CAPITOLO VIII

La granduchessa Elisabetta Fiodororma - Suo benefico in­


flusso - Mia attioità al suo fianco a Mosca - Progetti per
l' aooenire.

Non ho nessuna pretesa di fare nuove rivelazioni sulla


granduchessa Elisabetta Fiodorovna. Questa pura e nobile
figura è già familiare a quanti hanno letto le varie opere che
sono state pubblicate sugli ultimi anni del regime zarista.
Mi sarebbe però impossibile scrivere i miei ricordi personali
senza accennare alla vita di colei che recìtò nella mia una
parte tanto importante e tanto benefica insieme, di colei che,
sin dalla più tenera infanzia, amai come una seconda madre.
Tutti coloro che l'hanno conosciuta, hanno reso omaggio
alla maravigliosa bellezza e al nobile carattere di questa
donna eccezionale. Alta, slanciata, chiari gli occhi, dolce c
profondo lo sguardo, con lineamenti puri e delicati, ella uni­
va a questi doni fisici una rara intelligenza e il cuore più
generoso. Era figlia della principessa Alice di Hesse-Darm­
stadt, la sorella del principe regnante Ernesto di Resse, ni­
pote della regina Vittoria e sorella maggiore della nostra
giovane zarina. Le altre sue sorelle erano la principessa Vit­
toria di Battenberg, più tardi marchesa di Milford Haven,
e la moglie del principe Enrico di Prussia. Ella aveva spo­
sato il granduca Sergio Alessandrovic, quarto figlio dello zar
Alessandro Il.
I primi anni del matrimonio ella visse a Pietroburgo, dan­
do molti ricevimenti nel suo palazzo della Prospettiva Nev­
sky e conducendo la vita brillante impostale dalla sua posi­
zione sociale, che però, sino da allora, non le andava gran
che a genio. Nel 1891 il granduca fu nominato governatore

74
di Mosca. Nella nuova residenza, la granduchessa acquistò
ben presto una grande popolarità. Conduceva la stessa vita
attiva di Pietroburgo, suddividendo il proprio tempo tra gli
obblighi mondani e numerose opere di carità.
Il 17 febbraio 1 905, mentre il granduca attraversava il
Cremlino e giungeva sulla piazza del Senato, un terrorista
gettò nella sua carrozza una bomba che lo fece a brani. In
quel momento la granduchessa era occupata nel laboratorio
da lei organizzato al Cremlino per confezionare indumenti
di lana destinati alle truppe di Manciuria. Al rumore del­
l'esplosione, uscì di corsa, senza neanche indossare un so­
prabito. Vide sulla piazza il cocchiere ferito e due cavalli
uccisi. Il corpo del granduca era stato letteralmente ridotto
a brandelli, e questi erano sparsi sulla neve. La granduchessa
li raccolse con le proprie mani e li fece trasportare nella cap­
pella del suo palazzo. La violenza dell'esplosione era stata
tale che alcune dita del granduca, nelle quali erano ancora
infilati gli anelli, vennero trovate sul tetto di una casa vi­
cina. Tutti questi particolari ci furono comunicati dalla
granduchessa in persona. L'annuncio della tragedia ci aveva
raggiunto u Pietroburgo, e noi eravamo subito accorsi a
Mosca.
La calma e la serenità della granduchessa suscitavano
l'ammirazione di tutti. Ella trascorse in preghiere i giorni
che precedettero i funerali, e attinse dai propri sentimenti
cristiani il coraggio per compiere un passo che stupì quanti
la conoscevano: si fece condurre nella prigione in cui era
rinchiuso l'assassino, e chiese di essere introdotta nella sua
cella.
« Chi siete voi ? ), chiese l'attentatore.
« La vedova di colui che avete ucciso. Perché avete com­
messo questo delitto? » .
Nessuno seppe mai quale fu esattamente il seguito del
loro colloquio. Le versioni che circolarono erano tutte più
o meno fantasiose. Taluni hanno affermato che, dopo la vi­
sita della granduchessa, l'assassino fu visto piangere dispe­
ratamente, con la testa tra le mani. Di certo v'è questo, che
la granduchessa scrisse all'imperatore per impetrare la gra-

75
zia del prigiOniero, e che Nicola II gliel'avrebbe accordata,
se l'assassino non avesse rifiutato di chiederla in persona.
Egli scrisse anzi alla granduchessa, negando di aver dimo­
strato o di provare un qualsiasi pentimento e respingendo
in anticipo la grazia che ella cercava di ottenere per lui.
La granduchessa andò all'ospedale a far visita al coc­
chiere ch'era stato ferito mortalmente. Vedendola, il disgra­
ziato, al quale era stata tenuta nascosta la morte del padro­
ne, domandò : « Come sta Sua Altezza Imperiale? ». « Vengo
appunto da parte sua a prendere tue notizie », rispose ella.
Dopo la morte del marito, ella continuò ad abitare a Mo­
sca, ma rinunciò del tutto alla vita mondana e si consacrò
interamente alle opere di religione e di carità. Distribuì ai
parenti una parte dei propri gioielli e vendette gli altri. Mia
madre comperò da lei una splendida perla nera, dono del­
l'imperatore Nicola II.
Dopo aver rinunciato a tutti i propri beni, la grandu­
chessa acquistò un terreno a Mosca, alla Ordinka, quartiere
della riva destra, e nel 1910 vi fece costruire il convento di
Marta e Maria di cui divenne superiora. Mossa da un'ultima
civetteria di donna elegante che aveva sempre dimostrato un
gusto raffinato, fece disegnare l'abito del suo ordine da un
artista moscovita, il pittore Nesterov : tonaca di bigello fine
grigio-perla, soggolo di lino stretto intorno al viso e un gran­
de velo di lana bianca ricadente in pieghe ieratiche. Le mo­
nache non erano costrette alla clausura, ma si consacravano
specialmente alla visita dei poveri e alla cura dei malati. Si
recavano anche in provincia per crearvi nuovi centri di be­
neficenza. Questa organizzazione si sviluppò rapidamente ;
in pochi anni tutte le grandi città russe ebbero conventi del­
lo stesso genere. Quello dell'Ordinka dovette anzi essere in­
grandito : vennero costruiti una chiesa, un ospedale, labora­
tori, scuole di tirocinio e aule scolastiche. La superiora abi­
tava in una casetta di tre stanze, ammobiliata semplicemen­
te ; riposava su un letto di legno, senza materasso e con un
guanciale di fieno. Non dormiva mai se non poche ore, quan­
do non passava la notte al capezzale di un ammalato o a
vegliare un morto nella cappella ; le cliniche e gli ospedali
76
le inviavano i casi disperati, dei quali assumeva personal­
mente la cura. Così, un giorno le fu portata una donna che
aveva rovesciato una stufa a petrolio accesa. Gli abiti le si
erano incendiati e tutto il suo corpo non era più che una
sola piaga ; era apparsa la cancrena, e i medici la conside­
ravano perduta. Con una dolce e coraggiosa ostinazione, la
granduchessa si mise a curarla. La medicazione richiedeva
ogni giorno più di due ore, il fetore delle piaghe era tale che
varie infermiere svennero. E tuttavia la malata guarì in po­
che settimane, guarigione che allora fu considerata mira­
colosa.
La granduchessa non ammetteva che i morenti fossero
ingannati circa il loro stato ; si sforzava, al contrario, di pre­
pararli alla mor:te e di ispirar loro la fede nella vita eterna.
Durante la guerra del 1914, ella estese ulteriormente la
propria attività caritatevole accentrando tutti i doni che ve­
nivano inviati per i feriti e creando una nuova organizza­
zione. Pur avendo una nozione esatta degli avvenimenti, non
si occupava mai di politica : era troppo assorbita dal lavoro
per pensare a qualcos'altro. La sua popolarità aumentava
ogni giorno. Quando usciva, la folla si inginocchiava sul suo
passaggio e faceva il segno della croce ; i poveri venivano
a baciarle le mani e le vesti quando scendeva di carrozza.
Nonostante tutto il bene che faceva, c'era chi criticava
il suo nuovo modo di vita. Taluni giungevano a dire che,
abbandonando il palazzo e distribuendo i propri beni ai
poveri, la sorella della zarina aveva offeso la dignità impe­
riale ; la stessa imperatrice non era lontana dal condividere
questa opinione. Le due sorelle non si intendevano gran che.
Convertite entrambe alla religione ortodossa, erano entram­
be ferventemente pie, ma capivano la nostra religione in
modo affatto diverso. L'imperatrice cercava volentieri ]e vie
complicate e pericolose, per cui si gettò in balìa di un mi­
sticismo esaltato che fu uno dei motivi della sua p erdita.
La granduchessa adottò invece la giusta via, unica e vera,
quella dell'umanità e dell'amore ; la sua fede era semplice co­
me quella di un bambino. Ma la causa principale del suo di­
saccordo con la zarina risiedeva nella cieca fiducia che que-

77
st'ultima accordava a Rasputin. La granduchessa, che lo con­
siderava un impostore, un servo di Satana e nulla più, non
nascondeva il proprio pensiero alla sorella. I loro rapporti
andarono sempre più allentandosi e finirono col cessare
del tutto.
La rivoluzione del 1917 non scosse in nulla la fermezza
d'animo della granduchessa. Il 1o marzo un reparto di sol­
dati rivoluzionari circondò il convento. « Dov'è la spia te­
desca? », gridavano. La superiora si avanzò · e rispose con la
massima calma : « Qui non ci sono spie tedesche. Questo è
un convento di cui io sono la superiora ».
Siccome essi insistevano per portarla via, rispose che era
pronta a seguirli, ma che prima desiderava dire addio alle
sue suore e ricevere, in chiesa, la benedizione del prete. I sol­
dati accettarono con la condizione che una loro delegazione
presenziasse alla cerimonia.
Quando la superiora entrò nella cappella, circondata dai
soldati in armi, tutti i presenti caddero in ginocchio pian­
gendo. Dopo aver baciato la croce che il prete le presentava,
ella si volse verso i soldati e li invitò a fare lo stesso: tutti
baciarono la croce. Impressionati dalla calma della grandu­
chessa e dalla venerazione di cui era circondata, i soldati
uscirono in silenzio, risalirono sugli autocarri e se ne anda­
rono, lasciandola libera. Qualche ora più tardi alcuni mem­
bri del governo provvisorio vennero a presentarle le loro
scuse. Dichiararono di essere impotenti a domare l'anarchia
che regnava nel paese e supplicarono la granduchessa di
tornare al Cremlino, dove sarebbe stata più al sicuro. Ella li
ringraziò ma rifiutò l'offerta. Poiché, disse, aveva abbando­
nato volontariamente il Cremlino, non sarebbe stata la ri­
voluzione a ricondurvela ; era risoluta, se Dio lo voleva, a
restare con le sorelle e a condividerne il destino. Il kaiser
le fece proporre a varie riprese, per il tramite dell'ambascia­
tore di Svezia, di rifugiarsi in Prussia, dato che la Russia
era alla vigilia di avvenimenti terribili. Egli poteva certo
saperlo meglio di chiunque altro, poiché non era estraneo
ai torbidi che agitavano il nostro paese. Ma la granduchessa
gli fece rispondere che non avrebbe mai abbandonato volon-
tariamente né il proprio amato convento né la R ussia.
Dopo questo allarme la comunità ebbe un certo tempo
di respiro. Assumendo il potere, i bolscevichi avevano con­
cesso a tutte le persone che abitavano all'Ordinka l'autoriz­
zazione di vivervi come per il passato. Avevano anzi inviato
loro un po' di viveri. Ma nel mese di giugno del 1 9 1 8 la gran­
duchessa fu arrestata con la fedele cameriera Varvara e con�
dotta verso una destinazione ignota. Invano il patriarca
Tikhon mise in opera la propria autorità per ritrovare le
sue tracce e farla liberare. Finalmente si seppe .che era de­
tenuta nella cittadina di Alapaievsk, nel governatorato di
Perm, col cugino, il granduca Sergio Mikhailovic, i principi
Giovanni, Costantino e Igor, figli del granduca Costantino
Costantinovic, e ·il figlio del granduca Paolo Alessandrovic,
principe Vladimiro Paley.
Nella notte tra il 17 e il 18 luglio, ventiquattr'ore dopo
l'assassinio dello zar e della sua famiglia, essi furono gettati,
vivi, in un pozzo di miniera. Alcuni abitanti che, da lontano,
avevano assistito alla strage, dopo la partenza dei bolsce­
vichi raccontarono di essersi accostati al pozzo donde usci­
vano lamenti e canti religiosi. Ma nessuno osò recare soc­
corso alle vittime.
Qualche settimana dopo, l'esercito bianco entrava nella
città. Per ordine dell'ammiraglio Kolciak, i corpi di quei
martiri vennero estratti dal pozzo. Fu detto che molti di essi
avessero bendaggi fatti con un velo da suora. Posti entro
casse mortuarie, essi furono trasportati a Kharbin e di qui
a Pechino. Più tardi, la marchesa di Milford Haven fece
portare a Gerusalemme i resti della granduchessa e della
domestica Varvara. Essi furono inumati nella cripta della
chiesa russa di Santa Maddalena, in prossimità del Monte
degli Ulivi. Durante il trasporto da Pechino a Gerusalemme
la bara della granduchessa si spezzò, lasciando uscire un li­
quido trasparente e profumato. Il suo corpo era rimasto in­
tatto, e molte guarigioni miracolose furono operate sulla sua
tomba. Uno dei nostri arcivescovi ha raccontato che, trovan­
dosi a passare per Gerusalemme, mentre pregava sulla tomba
della granduchessa, aveva visto la porta della chiesa aprus1

79
e una donna avvolta in veli bianchi attraversare la navata
e arrestarsi dinanzi all'icona dell'arcangelo san Michele.
Quando si era voltata indicando l'icona, egli l'aveva ricono­
sciuta. Poi, la visione era scomparsa.
Le sole reliquie che possiedo della granduchessa Elisa­
betta sono alcuni grani del suo rosario e un pezzetto di legno
della sua bara. Talvolta, questo legno sprigiona uno squisito
profumo di fiori. Ho la ferma convinzione che la qualifica di
"santa", che già le era stata attribuita dal popolo russo,
riceverà prima o poi una consacrazione ufficiale.

Avendo stabilito di andare a trovare la granduchessa, mi


recai al Cremlino dove arrivai in uno stato di grande scom­
piglio spirituale. Al palazzo Nicola fui introdotto immedia­
tamente alla presenza della granduchessa, che trovai seduta
dinanzi alla scrivania. Senza dire una parola, mi gettai ai
suoi piedi, posai la testa sulle sue ginocchia e mi misi a sin­
ghiozzare come un bambino. Ella mi accarezzava dolcemente
i capelli, attendendo che mi calmassi. Quando fui tornato
padrone di me, le confidai il turbamento della mia anima e
tutti i sentimenti contraddittori che mi agitavano. Questa con­
fessione fu già di per se stessa un sollievo. La granduchessa
mi aveva ascoltato attentamente. « Hai fatto bene a venire �.
mi disse. « Sono certa che, con l'aiuto di Dio, potrò esserti di
aiuto. Quali che siano le prove che Egli ci invia, se noi ser­
biamo la fede in Lui e Lo preghiamo con fiducia, Egli ci dà
la forza di sopportarle. Quando dubiti o hai idee nere, met­
titi in ginocchio dinanzi all'imagine del Salvatore e prega :
ne sentirai un immediato beneficio. Le lacrime che hai ver­
sato or ora venivano dal tuo cuore. Ascoltalo sempre prima
ancora della ragione, e allora la tua vita cambierà. La feli­
cità non consiste nell'abitare in un palazzo, nel possedere
grandi ricchezze. La vera felicità è quella che né gli uomini
né gli avvenimenti possono toglierti. La troverai nella Fede,
nella vita dell'anima e nel dono di te stesso. Tenta di ren­
dere felice quelli che sono intorno a te e sarai felice anche tu ».
Poi la granduchessa mi parlò dei miei genitori. Mi ri-
Bo
cordò come io fossi la loro unica speranza, mi invitò a cir­
condarli d'affetto come meglio potevo e a non trascurare mia
madre malata. Infine mi chiese di aiutarla nelle sue opere di
beneficenza. Aveva da poco aperto un ospedale per le donne
tubercolotiche, e mi propose di andare a visitare gli infelici
che vivevano nelle tane dei sobborghi, molti dei quali erano
colpiti da questa terribile malattia.
Tornai ad Arkhangelskoie col cuore pieno di speranza.
Le parole della granduchessa mi avevano pacificato e con­
solato ; esse rispondevano a tutto ciò che mi tormentava da
tanto tempo. Ricordavo le parole di un prete che avevo con­
sultato: « Non filosofeggiare troppo ... limitati a credere in
Dio » . lo non gli avevo dato retta. Alla prima grande prova,
la mia forza e la fi d ucia in me stesso, di cui ero tanto orgo­
glioso, erano crollate }asciandomi infelice e sperduto. Capivo
di non essere se non un granello di polvere in un'infinità
inaccessibile alla mente umana, e che non v'era altra verità
che un'umile e fiduciosa sottomissione alla volontà divina.
Qualche giorno dopo tornai a Mosca e cominciai il lavoro
affidatomi dalla granduchessa. Consisteva nel visitare certe
stamberghe in cui regnavano il sudiciume e la miseria. La
maggior parte di queste abitazioni non ricevevano mai un
raggio di sole; famiglie intere vi si ammucchiavano, dor­
mendo sul nudo terreno, nel freddo, nell'umidità e nella
sporcizia.
Un mondo sconosciuto si apriva dinanzi a me, mondo di
sofferenza e di disperazione, più terribile di quello rivela­
tomi dalla mia escursione nella Wiasemskaia-Lavra. Avrei
voluto strappare tutti quei disgraziati alla loro pietosa esi­
stenza, ed ero atterrito considerando l'immensità del com­
pito. Pensavo alle somme incalcolabili spese per la guerra o
per ricerche scientifiche che avevano quale primo risultato
la distruzione dell'umanità, quando tanti infelici erano ri­
dotti a condizioni d'esistenza tanto inumane.
Naturalmente, le delusioni non mancarono. Una somma
importante che avevo messo insieme vendendo alcuni oggetti
personali, si sciolse in pochi giorni come neve al sole. Mi
accorsi che certuni sfruttavano la mia ingenuità e che altri
compensavano la mia buona volontà con l'ingratitudine. Ca­
pii col tempo che qualsiasi aiuto in danaro doveva essere
fatto con discernimento e accompagnato da quel dono del
cuore e da quella abnegazione totale di cui la granduchessa
era il vivente esempio. Andavo quasi ogni giorno a visitare
gli ammalati all'ospedale di Mosca. Questa povera gente mi
dimostrava una riconoscenza commovente per il poco bene
che potevo far loro, mentre in realtà ero io che rimanevo
debitore per tutto ciò che mi insegnavano a loro insaputa.
Invidiavo i medici e le infermiere in quanto potevano offrir
loro un più efficace soccorso.
Mi sentivo pieno di gratitudine per la granduchessa che
aveva compreso il vuoto disperante della mia anima e mi
aveva orientato verso una nuova esistenza ; ma ero tormen­
tato dal pensiero che ella mi conosceva imperfettamente e
poteva perciò conservare nei miei riguardi molte illusioni.
Un giorno che mi trovai solo con lei, le confessai ciò che
credevo ignorasse ancora della mia vita privata. Mi ascoltò
in silenzio e, quando ebbi finito, si alzò, mi baciò e m1 be­
nedisse :
« Non ti preoccupare », affermò. « So molte pm cose di
quel che tu creda. È, d'altronde, appunto per ciò che mi so­
no interessata a te. Chi è capace di commettere molto male
può fare anche molto bene, se sceglie questa seconda via.
Quale che sia la gravità della tua colpa, essa è cancellata
dalla sincerità del tuo pentimento. Ricordati che soltanto il
peccato dello spirito insudicia veramente l'anima ; questa può
restare pura a dispetto delle debolezze della carne. Ciò che
m'interessa in te, è la tua anima. È la tua anima che voglio
rivelare a te stesso. Il destino ti ha colmato di tutto ciò che
un uomo può desiderare ; tu hai ricevuto molto, e molto ti
sarà chiesto. Pensa alle tue responsabilità ; tu devi dare l'e­
sempio e meritare il rispetto. Le prove che stai attraversando
devono insegnarti che la vita è tutt'altra cosa che un diver­
timento. Pensa al bene che puoi fare, e al male che puoi
provocare ! Ho molto pregato per te, e credo che Nostro Si­
gnore mi ascolterà e ti aiuterà ».
Quante speranze risplendenti e quanta forza interiore
versavano in me queste parole!
Mia madre, vedendomi occupato a Mosca e sotto la be­
nefica influenza della granduchessa, p rolungò il soggiorno
ad Arkhangelskoie. Vi eravamo soli. Mia madre passava la
maggior parte delle giornate sulla tomba di mio fratello;
mio padre, tutto preso dalle proprie faccende, era pressoché
invisibile. Dal canto mio, lavoravo a Mosca e non rincasavo
che per il pranzo. La sera, quando il babbo si ritirava nei
suoi appartamenti, rimanevo con la mamma, spesso sino a
tarda notte. Il nostro comune dolore ci aveva ancor più av­
vicinati, ma lo stato dei suoi nervi mi vietava di parlare li­
beramente come avrei voluto, e soffrivo di dovermi conte­
nere. Quando mi ritiravo in camera era più spesso per me­
ditare che per dormire. Trascuravo i libri religiosi che mi
avevano dato da leggere mia madre e la granduchessa : le
parole semplici e profonde che avevo udito bastavano per
alimentare le mie riflessioni. Sino a quel momento io ero vis­
suto unicamente per il piacere, fuggendo la sofferenza sotto
tutte le forme ; non concepivo che potessero esistere valori
più essenziali della ricchezza e della potenza eh\� questa ga­
rantisce a chi la possiede. Ora ne sentivo tutta la vanità.
Perdendo il senso del possesso e nello stesso tempo lo spirito
di dominio, scoprivo la vera libertà.
Risolvetti di cambiar vita. Avevo in mente una quantità
di progetti che avrei senza dubbio attuati se non avessi do­
vuto lasciare il mio paese. Sognavo di fare di Arkhangelskoie
un centro artistico, costruendo nei dintorni una serie di abi­
tazioni dello stesso stile per pittori, musicisti, scrittori, arti­
giani. Quanto al castello, ne avrei fatto un museo, riservando
qualche sala per le esposizioni future. Mi proponevo anche
di abbellire ancor più il parco, alzando una diga sul fiume
per sommergere i campi intorno e trasformarli in un immen­
so lago; le terrazze sarebbero discese sino alla riva di questo.
I miei progetti non erano limitati ad Arkhangelskoie. A
Mosca e a Pietroburgo possedevamo case nelle quali non
abitavamo mai : queste sarebbero state trasformate in ospe­
dali, cliniche, ospizi per i vecchi. Quella della Moika e quel-
la d'Iv an il Terribile sarebbero state trasformate in: musei
e vi sarebbero stati riuniti i più bei pezzi delle nostre col­
lezioni. Nelle proprietà in Crimea e nel Caucaso avrei aper­
to sanatori. Contavo di riservarmi due o tre stanze per uso
personale nei vari luoghi. Le terre sarebbero state distribuite
ai contadini, le fabbriche e le officine riunite in una società
per azioni. La vendita di tutti i gioielli e oggetti di valore
che non offrissero un interesse artistico o storico, insieme con il
danaro delle banche, avrebbe dovuto fornirmi i mezzi per
attuare tutti questi progetti.
Tutto sommato, si trattava soltanto di sogni per il fu­
turo, ma questi sogni mi occupavano interamente. Disegnavo
continuamente piani architettonici e cercavo nuove sistema­
zioni. Ero talmente ossessionato che mi accadeva di vedere
in sogno Arkhangelskoie come lo immaginavo.
Comunicai i miei propositi a mia madre e alla grandu­
chessa. Quest'ultima comprese e mi approvò, ma cozzai con­
tro l'opposizione di mia madre che aveva tutt'altri progetti
per il mio avvenire. Io ero l'ultimo degli Yussupov ed ella
pensava che, prima di tutto, dovessi prender moglie. Le dissi
che non mi sentivo fatto per un'esistenza familiare e che, se
avessi avuto figli, mi sarei trovato vincolato da obblighi che
mi avrebbero impedito di disporre del mio patrimonio co­
me volevo. Soggiunsi che, nel momento in cui le passioni ri­
voluzionarie si scatenavano intorno a noi, non era più possi­
bile vivere come al tempo di Caterina Il. Quanto a condurre
un'esistenza meschina e borghese in una cornice tanto son­
tuosa, sarebbe stata, secondo me, una cosa assurda e una
mancanza di armonia. Il carattere che desideravo conserva­
re ad Arkhangelskoie avrebbe potuto essere giustificato sol­
tanto se in avvenire tutto quel lusso e quello splendore aves­
sero cessato di essere riservati a pochi privilegiati per venir
posti a disposizione del più gran numero possibile di per­
sone, scelte ti'a coloro ch'erano in grado di apprezzarli e di
profittarne.
Ma, vedendo che non riuscivo a convincere mia madre e
che le discussioni avevano il solo risultato di tormentarla,
rinunciai a riparlare di questo argomento.
CAPITOLO IX

Partenza per la Crimea - Morte di padre Giooanni da Kron­


stadt - Mia partenza per l'estero - Un mese in Inghilterra.

A1 giungere dell'autunno, la granduchessa ci accompagnò


in Crimea. La sua presenza, la distrazione offerta dal viag­
gio, la bellezza della natura e il tempo magnifico ebbero un
effetto benefico sulla salute di mia madre. Questa distensione
fu però compromessa, al nostro arrivo, dalla sfilata dei visi­
tatori che venivano a recare le loro condoglianze. Mia ma­
dre, sempre buona e gentile, si faceva un dovere di riceverli
tutti; ma ben presto lo sforzo che s'imponeva provocò una
depressione nervosa che la costrinse a mettersi nuovamente
a letto.
Il granduca Dimitri ci aveva raggiunti in Crimea. Non
passava giorno senza che venisse a trovarmi. Parlavamo per
ore e ore, e l'amicizia che egli mi dimostrava mi commoveva
profondamente. Mi chiese di considerarlo come un fratello,
e mi assicurò che avrebbe fatto quanto era in lui per sosti­
tuire Nicola, promessa che mantenne fedelmente per molti
anni.
Nondimeno, questa esistenza monotona e oziosa non tardò
a essermi di peso, per cui mi proposi di tornare a Mosca per
riprendere il lavoro. Quando ne parlai alla granduchessa ,
ella mi consigliò di non allontanarmi dalla mamma sin che
non fosse ristabilita. Ahimè ! i medici che interrogai non m i
lasciarono alcuna illusione. M i dissero infatti che le condi­
zioni di mia madre avrebbero potuto migliorare di tanto in
tanto, ma che ella non si sarebbe mai più rimessa del tutto.
La morte del granduca Alessio Alessandrovic, zio dello
zar, mise quell'anno in lutto la corte. Poco dopo la morte del

as
granduca Alessio, la Russia fu rattristata da quella di padre
Giovanni da Kronstadt. Già da vivo, padre Giovanni era
stato considerato un santo. Ordinato prete a vent'anni, nella
cattedrale Sant'Andrea di Kronstadt, sin dagli inizi del mi­
nistero si era acquistato l'amore e la venerazione dei fedeli.
Quasi tutto il suo tempo era consacrato alla visita dei po­
veri e degli ammalati. Egli dava loro sino all'ultimo soldo,
e più volte gli capitò di rincasare a piedi nudi per aver re­
galato le proprie scarpe a qualche mendicante trovato lun­
go la via. Un numero incalcolabile di visitatori veniva da
tutte le parti, e a volte si trattava persino di maomettani e
di buddisti, per sollecitarne l'intervento a favore dei loro ma­
lati. Le guarigioni ottenute grazie alle sue preghiere erano
spesso considerate miracolose.
In occasione della nascita di uno dei miei fratelli, mia
madre si trovò in condizioni talmente gravi che i medici si
riconobbero impotenti a salvarla. Era già in coma quando
padre Giovanni fu chiamato al suo capezzale. Nel momento
in cui egli entrò nella camera, i presenti videro mia madre
aprire gli occhi e tendere le braccia verso di lui. Padre Gio­
vanni s'inginocchiò accanto al suo letto e si immerse in una
lunga preghiera. Quando si rialzò, benedisse mia madre e disse
semplicemente : « Dio l'aiuterà, essa guarirà ». E infatti
fu ben presto fuori pericolo.
Dinanzi al numero sempre più grande dei penitenti, pa­
dre Giovanni aveva istituito la confessione collettiva. Molte
persone che furono presenti a qualcuna di queste manife­
stazioni mi dissero che il rumore delle voci nella chiesa era
inimmaginabile, giacché ognuno voleva farsi udire al di so­
pra degli altri. La voce delle donne, più acuta, dominava
sempre quel coro selvaggio. Una setta femminile che si inti­
tolava delle " Janite" dava a padre Giovanni le più grandi
noie. Convinte ch'egli fosse una reincarnazione di Cristo
esse si abbandonavano talvolta a manifestazioni molto pros­
sime all'isterismo, come, per esempio, gettarglisi addosso e
morderlo a sangue. Per cui abitualmente egli rifiutava loro
la comunione.
Egli aveva serbato molta amicizia per mia madre e ve-
86
niva spesso a farle visita quando io ero ancora piccolo. Non
dimenticherò mai il suo sguardo chiaro e penetrante e il suo
buon sorriso. Lo rividi un'ultima volta in Crimea poco pri­
ma della sua morte, e ricordo le parole che mi disse quel
giorno : « Il soffio divino è per l'anima ciò che il respiro è
per il corpo: come l'uomo non può vivere senza aria, l'anima
non può vivere senza il soffio di Dio » .
Padre Giovanni aveva settantotto anni quando, col p re­
testo di una visita a un moribondo, fu attirato in un tra­
nello e bastonato ferocemente. Soltanto l'intervento del coc­
chiere che lo aveva accompagnato gli salvò la vita. Questi
riuscì a strapparlo dalle mani degli aggressori e a riportarlo
a casa mezzo morto. Non doveva rimettersi mai più dai col­
pi ricevuti, e morì qualche anno dopo senza aver voluto ri­
velare i nomi degli aggressori. La sua morte fu una grande
sventura per la Russia, e particolarmente per i sovrani che
persero in lui un saggio e fedele consigliere.
Nel corso di quello stesso inverno, un fatto misterioso ven­
ne a ricordarmi una promessa scambiata tra mio fratello e
me in un tempo nel quale ci eravamo interessati di occulti­
smo. Ci eravamo giurati allora che quello di noi che fosse
morto per primo si sarebbe manifestato al sopravvissuto. Tro­
vandomi per qualche giorno a Pietroburgo, alla Moika, una
notte mi svegliai e, mosso da un impulso irresistibile, mi
alzai, attraversai il mio appartamento e mi diressi verso la
camera di mio fratello. Questa camera era rimasta chiusa
dal giorno della sua morte. Improvvisamente, vidi la porta
aprirsi e Nicola apparire sulla soglia. Il suo volto splendeva,
ed egli mi stendeva le braccia... Volevo slanciarmi verso di
lui, ma la porta si richiuse pian piano e non vidi più nulla.

Mia madre, la cui salute era leggermente migliorata, ri­


prendeva a poco a poco una parte della propria attività oc­
cupandosi delle sue numerose opere di beneficenza. Mio pa­
dre era raramente in casa e trascorreva il più delle serate
al circolo. Allora io rimanevo accanto a mia madre e le fa­
cevo la lettura mentre ella sferruzzava. Ma questa clausura
e questa vita al rallentatore non potevano durare all'infinito.
Risolvetti dunque di partire per l'estero. Mi ricordai che uno
dei miei amici, Basilio Soldatenkov, ex ufficiale di marina
che abitava a Parigi, mi aveva consigliato sovente di entrare
all'università di Oxford. Pensai allora di recarmi in Inghil­
terra. La granduchessa, cui parlai del mio progetto, cercò da
principio di dissuadermi, ma finì coll'arrendersi alle mie ra­
gioni e mi promise di fare del suo meglio per convincere i
miei genitori ad approvare questo viaggio. La cosa fu lunga
e difficile; tuttavia, certo che alla fine avrei avuto partita
vinta, scrissi a Basilio per annunciargli il mio prossimo ar­
rivo a Parigi dove contavo fermarmi qualche giorno.
I miei genitori finirono per dare il loro consenso, a con­
dizione che la mia assenza non sarebbe durata più di un
mese. Ne fui egualmente felice.
Qualche giorno prima di quello della mia partenza, l'im­
peratrice mi fece chiamare a Livadia. La trovai seduta sulla
terrazza, intenta a ricamare. Mi espresse il più vivo stupore
per il fatto di vedermi lasciare mia madre ammalata e cercò
a lungo di farmi rinunciare al progetto. Mi fece notare che
molti giovani, partiti come me per l'estero, al ritorno si tro­
vavano così spaesati che finivano per espatriare definitiva­
mente. Non avevo il diritto, mi disse, di fare altrettanto ; il
mio dovere era di rimanere in Russia e servire l'imperatore.
Le assicurai che non v'era alcun pericolo che io abban­
donassi la mia patria, giacché l'amavo più di qualunque al­
tra cosa al mondo ; se desideravo entrare all'università di
Oxford era con l'intenzione di essere al ritorno più utile al
mio paese e al mio sovrano. Parve che le mie parole spiaces­
sero alla zarina, perché mutò argomento. Congedandomi, mi
raccomandò di andare a far visita a sua sorella, la principes­
sa Vittoria di Battenberg che abitava a Londra e per la quale
mi avrebbe dato una lettera. Mi augurò buon viaggio e mi
disse che sperava di rivedermi nell'inverno a Zarskoie Selò.
Il giorno della mia partenza, un servizio religioso fu ce­
lebrato nella nostra cappella per invocare su di me la pro­
tezione del Cielo. Tutti piangevano, tutti mi abbracciavano
e mi benedicevano. Era commovente e comico. Si sarebbe
88
potuto credere che io partissi non già per un breve viaggio
in Inghilterra, ma per una pericolosa spedizione al Polo Nord
o sulla cima dell'Himalaya. Finalmente mi misi in viaggio,
accompagnato dal fedele lvan, e arrivai a Parigi senz'altro
incidente che la perdita del passaporto alla frontiera tedesca.
Basilio Soldatenkov mi aspettava alla stazione. Un tipo
singolare, quel caro Basilio : intelligente, sportivo, seducente,
straordinariamente volitivo e dinamico. Aveva messo nome
alla propria vettura da corsa "Lina", in onore della bella
Lina Cavalieri di cui aveva fatto la conquista. Le donne an­
davano matte per quel ragazzone dalle spalle larghe, dalla
bella testa primitiva, che conduceva la propria vita come
la propria automobile, a tutta velocità. Aveva sposato una
donna affascinante, la principessa Elena Gorciacov, ma il
suo non era un matrimonio felice.
Dopo aver passato qualche giorno a Parigi, partii per
l'Inghilterra, e Basilio mi accompagnò.

A Londra scesi all'Hotel Carlton. Eravamo all'inizio del­


l'autunno, stagione poco indovinata per un primo contatto con
l'Inghilterra. Nonostante ciò, la mia impressione fu quanto
mai favorevole. Gli inglesi mi parvero simpatici, ospitali, pa­
droni di se stessi e, soprattutto, ingenuamente compresi della
loro superiorità. Il giorno seguente al mio arrivo, facendo co­
lazione all'ambasciata, mi accorsi, non senza stupore, che il
nostro ambasciatore, conte Benkendorv, parlava appena ap­
pena il russo.
Il giorno dopo andai a pranzo dal principe e dalla prin­
cipessa di Battenberg. La principessa mi interrogò a lungo
su Rasputin. Ciò che aveva sentito dire dell'influenza che co­
stui aveva preso su sua sorella la indignava. Era troppo in­
telligente per non presentire la catastrofe da cui il nostro pae­
se era minacciato. Quando l'ebbi messa al corrente della mia
intenzione di entrare in un'università inglese, mi consigliò di
far visita a sua cugina, la principessa Maria Luisa di Schle­
swig-Holstein e al vescovo di Londra, assicurandomi che avreb­
bero potuto essermi utili entrambi. Seguii il suo consiglio senza

8g
perdere tempo. Tanto la principessa quanto il vescovo mi fe­
cero la più cordiale delle accoglienze e sia l'uno sia l'altro mi
consigliarono di entrare all'università di Oxford.
Munito di lettere di raccomandazione, andai a presentarmi
al rettore dell'University College, uno dei più antichi tra i
numerosi collegi appartenenti all'università di Oxford. Il ret­
tore mi accolse molto gentilmente e mi pose al corrente della
vita e degli usi dell'università. Appresi così che ogni due mesi
avrei avuto una lìcenza di tre settimane e che le vacanze esti­
ve duravano tre mesi. Questo comodo regolamento mi avreb­
be permesso di tornare spesso in Russia. Il rettore mi fece vi­
sitare il collegio e le camere degli studenti, piccole ma molto
comode e bene ammobiliate. Ce n'era una libera, al piano ter­
reno. Questa era più grande delle altre, con una finestra di­
fesa da un'inferriata che dava sulla strada e una seconda stan­
zetta attigua. Il rettore mi disse che quell'appartamento ve­
niva chiamato "il club", perché gli studenti avevano l'abitu­
dine di riunirsi attorno a colui che abitava lì, per bere.
Aggiunse che durante il primo anno era obbligatorio abi­
tare nel collegio, ma che nei due anni successivi avrei potuto
prendere in affitto una casa o un appartamento in città. Lo
pregai di riservarmi le due stanze per il prossimo inverno.
In Inghilterra acquistai tutta una collezione di animali per
Arkhangelskoie - un toro, quattro mucche, sei maiali e una
grande quantità di galli, galline e conigli - che furono spe­
diti direttamente a Dover per essere imbarcati e inviati in
Russia. Nel viaggio di ritorno sostai alcuni giorni a Parigi per
vedere qualche amico, tra cui Reynaldo Hahn e Francis de
Croisset. Passammo insieme parecchie gaie serate musicali.
A Reynaldo piaceva molto sentirmi cantare e mi insegnava
le più deliziose melodie.
Tornai in Russia molto in forma, pieno di energia e di pro­
getti. I miei genitori erano a Zarskoie Selò. Trovai mia madre
molto più calma e rassegnata. Il granduca Dimitri era impa­
ziente di conoscere i particolari del mio viaggio. L'imperatrice,
che allora era ancora in buoni rapporti con mia madre, veniva
spesso a farle visita. Anch'ella mi interrogò a lungo sul mio
soggiorno in Inghilterra e sulla principessa Vittoria. Natural-
go
mente mi guardai bene di parlarle delle inquietudini che l'in­
flusso di Rasputin provocava in sua sorella.
Passai l'estate ad Arkhangelskoie dove ritrovai gli animali
acquistati in Inghilterra. Mio padre, contentissimo dei miei
acquisti, mi pregò di far arrivare un secondo toro e altre tre
mucche. Spedii dunque il seguente telegramma che dava un'al­
ta idea dei miei progressi nella lingua inglese: "Please send
me one man coro and three Jersey roomen". (Prego inviarmi
un uomo vacca e tre donne Jersey). L'ordinazione fu corret­
tamente interpretata, come dimostrò l'arrivo degli animali, ma
un giornalista in vena di umorismo s'impadronì del testo del
telegramma che venne pubblicato dai giornali inglesi, e ciò
valse a far ridere alle mie spalle tutti gli amici londinesi.
Trascorremmo, come al solito, l'autunno in Crimea. Il tem­
po scorreva rapidamente. lo studiavo l'inglese ed ero già in
ispirito a Oxford.
CAPITOLO X

Primo incontro con Rasputin - Partenza per Oxford - La oita


all'UnioersitÈt - Anna Paulooa - Addio all'UnioersitÈt - Ultimo
soggiorno a Londra - La signora Hrofa- Williams.

Fu proprio alla fine di quell'anno, il 1909, che incontrai per


la prima volta Rasputin.
Eravamo tornati a Pietroburgo dove dovevo passare le fe­
ste di Natale con i miei genitori prima di ripartire per l'In­
ghilterra. Da tempo ero in relazione con la famiglia G . , e ..

in modo particolare con la figlia più giovane, diventata una


delle più fervide ammiratrici dello starez. Questa giovanetta
era troppo pura per capire l'ignominia del "sant'uomo" e
troppo ingenua per giudicare i suoi atti con conoscenza di
causa. Era, così ella diceva, un essere dotato di una rara
forza spirituale, inviato in questo mondo per purificare e gua­
rire le anime e per guidare i nostri pensieri e i nostri atti.
Questo ditirambo mi aveva lasciato scettico giacché, pur sen­
za avere dati precisi su Rasputin, un oscuro presentimento
me lo rendeva sospetto. Tuttavia, l'entusiasmo della signo­
rina G aveva risvegliato la mia curiosità, per cui la inter­
...

rogai particolarmente su colui ch'ella ammirava tanto. A sen­


tirla, egli era un inviato del Cielo, un nuovo apostolo ; le de­
bolezze umane non avevano presa su di lui, i vizi gli erano
'ignoti, e tutta la sua vita altro non era che ascetismo e pre­
ghiera. Queste parole fecero nascere in me il desiderio di co­
noscere un uomo tanto straordinario; accettai dunque di re­
carmi dai G .. alcuni giorni dopo per incontrarvi il celebre
.

starez.
La casa dei G . . era sul canale d'Inverno. Quando entrai
.

nel salotto, la madre e la figlia erano sedute p �esso il tavo-


92
lino del tè, con l'espressione solenne di persone che attendano
l'arrivo di un'icona miracolosa che deve far scendere sulla
casa la benedizione divina. Poco dopo la porta dell'antica­
mera si aprì e Rasputin entrò a piccoli passi. Si avvicinò a
me e mi disse: « Buongiorno, mio caro », con l'aria di volermi
baciare. Arretrai istintivamente. Egli ebbe un sorriso mali­
zioso e, avvicinandosi alla signorina G .. , poi a sua madre, le
.

strinse senza complimenti al petto e le baciò con aria carez­


zevole e protettrice. Di primo acchito, qualche cosa in lui mi
spiacque, anzi mi ripugnò. Era di statura media, muscoloso,
piuttosto magro. Aveva le braccia di una lunghezza esage­
rata. Dove cominciavano i capelli mal pettinati, si scorgeva
una larga cicatrice (più tardi seppi che era la traccia di una
ferita ricevuta durante uno dei suoi atti di brigantaggio in
Siberia) ; gli si sarebbero dati quarant'anni. Indossava un caf­
fetano, un paio di calzoni larghi e calzava grossi stivali. Nel­
l'insieme aveva l'aria di un semplice contadino. Il suo volto,
incorniciato da una barba irsuta, era volgare, i lineamenti
grossolani, il naso lungo, e i piccoli occhi di un grigio traspa­
rente e dallo sguardo evasivo stavano come imboscati sotto
le folte sopracciglia. Le sue maniere singolari stupivano chi
lo vedeva per la prima volta. Benché affettasse una grande
disinvoltura, si avvertiva in lui un certo imbarazzo, persino
una vigile diffidenza ; si sarebbe detto che spiasse continua­
mente il proprio interlocutore.
Rasputin restò seduto per qualche istante, poi si mise a
passeggiare su e giù per la stanza a passettini precipitosi far­
fugliando parole incoerenti. Aveva la voce sorda e una p ro­
nuncia poco chiara. Prendevamo il tè in silenzio continuando
a osservarlo, la signorina G . con un'attenzione esaltata, io
..

con viva curiosità.


Ben presto venne a sedersi accanto a me e mi fissò con uno
sguardo scrutatore. Cominciammo a conversare. Parlava con
volubilità e col tono di un predicatore divinamente ispirato,
citando a casaccio passi del Vangelo cui attribuiva spesso un
significato diverso da quello vero, il che metteva una certa
confusione nei suoi discorsi.
Mentre parlava, io studiavo con attenzione i suoi lineamen-

93
ti. C'era veramente qualche cosa di straordinario in quel vol­
to di contadino. Non aveva gran che l'aria di un sant'uomo,
ma piuttosto di un satiro malizioso e lascivo. Ero soprattutto
colpito dall'esp ressione orribile dei suoi occhi, molto piccoli,
molto vicini l'uno all'altro, e talmente sprofondati nelle or­
bite che a una certa distanza non erano neppure visibili. An­
che da vicino, qualche volta era difficile vedere se fossero
chiusi o aperti, e si aveva più l'impressione di essere trafitti
da due punte di spillo che osservati da Rasputin. Il suo sguar­
do era penetrante e greve insieme, il suo sorriso melato col­
piva quasi quanto il suo orribile sguardo. Qualche cosa
di abbietto filtrava attraverso la sua maschera virtuosa ; egli
sembrava cattivo, astuto e sensuale. La signorina G ... e sua
madre non staccavano gli occhi da lui e non perdevano nes­
suna delle sue parole.
Poco dopo Rasputin si alzò e, girando su di noi uno sguar­
do di una dolcezza piena di ipocrisia, mi disse indicando la
signorina G .. : « Che amica fedele hai in lei! Devi ascoltarla,
.

ella sarà la tua sposa spirituale. Sì, mi ha parlato molto bene


di te, e ora posso vedere con i miei occhi che siete buoni en­
tramb'i e che convenite l'uno all'altro. Quanto a te, mio caro,
andrai lontano, molto lontano » .
Detto ciò, uscì dalla stanza. Quando m e ne andai a mia
volta ero ancora sotto l'impressione che quell'uomo strano mi
aveva fatto. Rividi la signorina G . qualche giorno dopo. Mi
. .

disse ch'ero molto piaciuto a Rasputin e che desiderava rive­


dermi. Ma poco tempo dopo partii per l'Inghilterra dove mt
attendeva una vita nuova.

Arrivai a Oxford a mattino inoltrato e la prima persona


che incontrai fu uno studente : Eric Hamilton. Egli mi accom­
pagnò sino alla mia camera e mi disse che sarebbe tornato a
prendermi per la colazione ; nel grande refettorio avrei potuto
vedere tutti i compagni. Prima della colazione, un domestico
mi portò l'abito da studente : toga nera e un piccolo cappello
quadrato con un fiocco pendente da un lato. L'abito mi an­
dava bene, ma la colazione fu infame. La cosa però non m'im-
94
portava gran che : avevo ben altro in testa. Nel pomeriggio
mi siste.Qiai nel mio alloggio. Feci della stanza piccola la stan­
za da letto. Le mie icone, appese con un lumino in un angolo,
al di sopra del letto, evocavano la Russia. Adibii la stanza
più grande a sala di soggiorno. Misi i libri sugli scaffali, col­
locai i soprammobili e le fotografie sui tavoli, presi in affitto
un pianoforte, comperai dei fiori e riuscii a fare di quegli am­
bienti freddi e impersonali un angolo intimo e piacevole. Quel­
la stessa sera, "il club" si riempì di studenti. Tutti cantarono,
bevvero, chiacchierarono sino all'alba. In pochi giorni conobbi
tutto il collegio. La cultura non era il mio forte. Ciò che m'in­
teressava soprattutto era conoscere persone di paesi diversi,
parlare con loro, cercar di capire la loro psicologia, i loro
costumi e le loro abitudini. Nessun luogo più adatto a ciò
di Oxford, dove s'incontrava la gioventù di tutte le nazioni.
Avevo l'impressione di fare un viaggio intorno al mondo. An­
che la vita sportiva mi piaceva : non gli sport brutali, ma la
caccia a cavallo, il polo e il nuoto che erano i miei sport
preferiti.
Tutti gli allievi che abitavano nel collegio dovevano rin­
casare prima di mezzanotte. Il regolamento era severissimo:
colui che mancava a quella norma per tre volte nel corso di
un semestre era espulso. lo corsi rischio di esserlo, ed ecco per
quale motivo.
Una sera tornavo da Londra dove ero andato a pranzo con
un compagno. A dispetto di una fitta nebbia, correvamo a for­
te velocità perché ci restava poco tempo per arrivare a Ox­
ford prima della mezzanotte. Non volevo assolutamente pre­
sentarmi in ritardo perché avevo già tardato due volte nel
corso del trimestre ; una terza infrazione al regolamento avreb­
be portato automaticamente alla mia espulsione.
Accecato dalla nebbia, il mio compagno, che stava al vo­
lante, arrivò senza vederlo a un passaggio a livello chiuso.
La violenza dell'urto sfondò la barriera e io fui proiettato
sulla strada ferrata, svenuto. Tornato in me, vidi nella neb­
bia una luce che aumentava d'intensità e di volume con rapi­
dità vertiginosa. Ancora troppo stordito per capire quel che
stava succedendo, ebbi tuttavia il riflesso, cui dovetti la m1a

95
salvezza, di rotolare allontanandomi dalle rotaie. L'espresso
di Londra passò come un ciclone e il suo soffio mi mandò a
finire in fondo al fosso. Mi rialzai senza una graffiatura. Il
mio camerata era vivo, ma in condizioni pietose, con varie
membra rotte. Quanto all'automobile, è inutile dire che dopo
il passaggio del treno non ne rimaneva gran che. Dal casello
ferroviario telefonai per far mandare un'ambulanza, e, dopo
aver accompagnato all'ospedale di Oxford il mio povero com­
pagno, rincasai con due ore di ritardo; tuttavia, in conside­
razione delle circostanze, evitai l'espulsione.

Il mio primo anno a Oxford trascorse in un'atmosfera sa­


na e simpatica. Soffrii però terribilmente il freddo. Nella mia
camera non c'era modo di scaldarsi ; la temperatura era su
per giù quella esterna. L'acqua gelava nella brocca, e quando
mi alzavo avevo l'impressione di camminare in un pantano.
L'anno seguente, valendomi del diritto accordato agli stu­
denti del secondo anno di alloggiare fuori del collegio, presi
in affitto una casetta in città, volgare e poco attraente, ma in
quattro e quattr'otto la trasformai secondo i miei gusti. Due
compagni, Giovanni di Beistegui e Luigi Franchetti, vennero
ad abitare con me. Il secondo sonava magnificamente il pia­
noforte. Stavamo ad ascoltarlo con delizia intere nottate. A ve­
vo portato dalla Russia un buon cuoco e un'automobile. Oltre
il cuoco russo, il mio personale di servizio comprendeva un
autista francese, un impareggiabile cameriere inglese, Arturo
Keeping, e una coppia di sposi : il marito si occupava dei miei
tre cavalli e la moglie faceva le funzioni di governante. A ve­
vo acquistato un cavallo da caccia e due poneys per il polo.
Un bull-dog e un'ara completavano il mio piccolo serraglio.
L'ara, che si chiamava Mary, era azzurra, gialla e rossa ; il
bull-dog rispondeva al nome di Punch.
Quando vennero le vacanze portai Punch in Russia, senza
pensare alla legge draconiana che vieta l'ingresso ai cani in
Inghilterra se non hanno fatto una quarantena di sei mesi.
Visto che non avevo nessuna intenzione di privarmi di Punch
per tanto tempo, decisi di aggirare la difficoltà. Alla fine del
g6
Il principe Yussupov, padre dell'autore, coi due figli ( 1892).
-
-
soggiorno che feci a Parigi in autunno, prima di tornare a
Oxford, andai a trovare una vecchia cortigiana russa di mia
conoscenza e ormai in pensione. Le proposi di accompagnarmi
a Londra vestita da balia e portando Punch trasformato in
poppante. La brava donna si prestò assai volentieri a quest<�
commedia che trovava molto divertente, benché ne fosse un
po' atterrita. Il giorno dopo partimmo per Londra, non senza
aver somministrato al "bébé" una dose sufficiente di sonni­
fero per farlo stare tranquillo durante il viaggio. Tutto andò
benissimo e nessuno sospettò la frode.

Durante le vacanze in Russia avevo potuto assistere a una


manifestazione veramente impressionante. Si trattava della glo­
rificazione delle reliquie del beato Yossaf, ch'ebbe luogo quel­
l'anno al Cremlino, nella cattedrale dell'Assunzione. La gran­
duchessa Elisabetta mi aveva chiesto di accompagnarla. rpo­
sti che le erano stati riservati ci permettevano di seguire be­
nissimo lo svolgimento della cerimonia. Una folla immensa
empiva la cattedrale. li reliquario con le reliquie del beato
era stato posto davanti al coro, e gli ammalati, portati in ba­
rella o a braccia, venivano condotti lì per baciarlo. Gli inde­
moniati erano particolarmente spaventosi : i loro urli inumani
e i loro contorcimenti diventavano più violenti a misura che
essi venivano avvicinati al reliquiario, e a volte ci volevano pa­
recchie persone per immobilizzarli. I loro urli coprivano i
magnifici canti religiosi, come se Satana in persona bestem­
miasse Dio per bocca loro; ma tutti si calmavano nell'istante
in cui, a forza, venivano costretti a toccare il reliquia­
rio. Alcuni, anzi, diventavano del tutto normali. In quell'oc­
casione vidi coi miei occhi parecchie guarigioni miracolose.
Il 14 settembre di quello stesso anno 191 1 , il primo ministro
Stolypin fu assassinato a Kiev. Era uno statista di grande
valore, profondamente devoto al proprio paese e alla dina­
stia ; nemico accanito di Rasputin, non aveva mai cessato di
combatterlo, attirandosi in tal modo l'ostilità dell'imperatrice
per la quale un nemico dello starez non poteva non essere
un nemico dello zar.

97
Stolypin era sfuggito a un altro attentato nel 1906. Le pru­
denti misure prese negli anni seguenti avevano ristabilito l'or­
dine. Quando fu ucciso da un colpo di rivoltella durante uno
spettacolo di gala cui presenziava anche lo zar, egli stava
preparando una nuova legge per lo sviluppo della proprietà
rurale e per la soppressione dei beni comunali. Morente, ab­
bandonato a terra, Stolypin si rialzò, raccolse le ultime forze
e fece un gesto di benedizione verso il palco imperiale. L'as­
sassino era un certo Bagrov, ebreo rivoluzionario che appar­
teneva, per quanto possa sembrare strano, alla polizia segreta
ed era amico di Rasputin. L'inchiesta fu subito insabbiata,
come se si temesse qualche rivelazione imbarazzante.
La morte di Stolypin era un trionfo per i nemici della
Russia e della dinastia ; nessuno poteva più ostacolare i loro
piani criminali. Dimitri mi espresse la propria indignazione
davanti all'indifferenza dei sovrani, ch'erano, così pareva, in­
capaci di misurare la gravità della situazione. L'imperatrice
gli aveva fatto questa strana osservazione : « Coloro che hanno
offeso Dio nella persona del nostro amico non possono più con­
tare sulla protezione divina. Soltanto le preghiere dello sfarez,
salendo direttamente al Cielo, hanno il potere di preservarli » .
Oltre le mie licenze regolari, mi accadeva a volte di es­
sere chiamato da un telegramma al capezzale di mia madre,
la cui salute rimaneva cagionevole. Una crisi particolarmente
violenta si manifestò durante un soggiorno fatto a Berlino
con mio padre. Allora questi, che sapeva come io fossi l'unico
che potesse calmarla, mi telegrafò a Oxford e io accorsi.
Con un caldo tropicale, trovai mia madre a letto, seppel­
lita sotto le pellicce, con le finestre chiuse. Rifiutava ogni cibo,
soffriva di dolori atroci e i suoi urli si udivano in tutto l'al­
bergo.
Sapevamo da tempo che non aveva nessuna malattia or­
ganica e che i suoi mali erano puramente nervosi, per cui
chiamammo uno psichiatra, una delle celebrità del mondo me­
dico berlinese. Quando arrivò lo feci entrare nella camera
di mia madre, con la quale lo lasciai a quattr'occhi. Improv­
visamente, uno scoppio di risa mi giunse attraverso la porta.
Era tanto tempo che non avevo sentito ridere mia madre che
gB
ebbi un istante di stupore. Aprii la porta ; era proprio lei che
rideva di un bel riso contagioso. Il professor X era seduto
su una sedia, con una strana aria d'imbarazzo, evidentemente
sconcertato dall'ilarità della sua paziente.
« Te ne prego, portalo via ,, mi disse mia madre veden­
domi entrare. « Non ne posso più, mi farà morire dal ridere ! :..
Riaccompagnai il professor X stupefatto. Quando tornai
da mia madre, non mi lasciò neanche il tempo di interrogarla.
« Il tuo famoso dottore ha p iù bisogno d'essere curato di
me », mi disse. « Ha guardato il mio orologio da notte, e che
cosa credi che mi abbia detto vedendolo fermo? "È strano !
avete notato che il vostro orologio si è fermato proprio all'ora
della morte di Federico il Grande ? " » .
Tutto sommato, l a visita d i quel medico eminente non fu
inutile, ma certamente egli non aveva preso in considerazione
la possibiltà di alleviare l'ammalata destando in lei il senso
del comico.
Partii da Berlino qualche giorno dopo, lasciando mia ma­
dre in condizioni di salute molto migliori.

Qualche tempo dopo il mio ritorno, ricevetti un invito a


un ballo in costume all'Albert Hall. Siccome avevo tempo
dinanzi a me, approfittai di una licenza in Russia per ordi­
narmi a Pietroburgo un costume russo. Trovai un broccato
d'oro a fiorami rossi del XVI secolo. Il costume era magnifico,
costellato di pietre preziose e orlato di zibellino, con un ber­
retto adatto. Esso fece una grande impressione. Quella sera
conobbi tutta Londra, e il giorno dopo la mia fotografia era
in tutti i giornali. A quel ballo avevo incontrato un giovane
scozzese di nome Giacomo Gordon, studente come me a Ox­
ford, ma in un altro collegio. Bellissimo ragazzo, con un'aria
da principe indiano, era già molto apprezzato dalla società
londinese. Attirati entrambi dalle gradevoli prospettive che
ci offriva la vita mondana, prendemmo in affitto a Londra,
in Curzon Street 4, due appartamenti intercomunicanti. Af­
fidai l'incarico di arredarli alle signorine Frith, due vecchiette
cortesi e antiquate che avevano un negozio d'arredamento in

99
Fulham Road. Con le loro larghe sottane e le loro cuffiette
di pizzo, esse sembravano uscite da un romanzo di Dickens.
Tutto andò bene sino al giorno in cui ordinai un tappeto nero.
Evidentemente ciò fece sì che mi prendessero per il diavolo
in persona, perché da allora in poi, quando entravo nel loro
negozio, sparivano dietro un paravento al di sopra del quale
vedevo tremare le due cuffiette di pizzo. Il mio tappeto nero
ebbe un grande successo a Londra e fu molto imitato. Quella
moda provocò anzi un divorzio. Il marito di una signora in­
glese che lo aveva adottato, lo considerò troppo macabro:
"O me o il tappeto nero!", disse alla fine. Sfida incauta : la
moglie scelse il tappeto.
Un pomeriggio fui chiamato al telefono da una persona
molto nota che mi chiese di presiedere con lei a un grande
pranzo ch'essa offriva al Ritz. Accettai e feci del mio meglio
per aiutarla a ricevere gli invitati, scelti tra quanto Londra
offriva di meglio. I cibi erano fini, i vini sceltissimi, l'ambien­
te e i convitati gradevoli, insomma, il pranzo fu un successo.
Ma quale non fu il mio stupore quando, il giorno dopo, rice­
vetti il conto che ammontava a una cifra astronomica !
Diaghilev era allora a Londra con i balletti russi. La Pau­
lova, la Karsavina, Nijinski trionfavano al Covent Garden.
La maggior parte di questi artisti erano miei amici personali,
ma io avevo soprattutto una grande amicizia per Anna Pau­
lova. L'avevo vista a Pietroburgo, ma allora ero ancora troppo
giovane per apprezzarla come meritava. A Londra, quando
la vidi nella Morte del cigno, mi sconvolse. Dimenticai Oxford,
gli studi e gli amici. Giorno e notte, non facevo che pensare
a quell'essere immateriale che teneva il pubblico col fiato so­
speso, come incantato dal fremito delle piume bianche su cui
splendeva la macchia sanguinante di un cuore di rubini. An­
na Paulova non era ai miei occhi soltanto una grande artista
dotata di una bellezza celeste : era un messaggio divino! Abi­
tava nei sobborghi di Londra, in una casa graziosa, lvy House,
dove andavo spesso a trovarla. Aveva il culto dell'amicizia,
nella quale vedeva con ragione il più nobile dei sentimenti.
Me ne diede più di una prova nel corso degli anni in cui ebbi
la fortuna di vederla spesso. Ella mi conosceva bene : c: Hai
1 00
Dio in un occhio e il diavolo nell'altro 1>, mi diceva talvolta.
Una delegazione di studenti d'Oxford si recò a chieder!�
di danzare nel teatro dell'università. Siccome doveva partire
per un giro artistico e non aveva una sola serata libera sino
a quel momento, da principio rifiutò, ma quando seppe che
quegli studenti erano miei amici, promise, con grande p reoc­
cupazione del suo impresario, di accomodare le cose in modo
da accontentarli. Il giorno del1o spettacolo si presentò a casa
mia con tutta la compagnia. Poiché voleva riposare p rima
della rappresentazione, la feci entrare nella mia camera e
portai i compagni a fare un giro per Oxford.
Quando tornammo dalla passeggiata, scorsi davanti alla
mia porta l'automobile dei genitori di una signorina che certe
persone male informate consideravano come la mia fidanzata.
Incontrai tutta la famiglia che scendeva le scale con aria
estremamente imbarazzata : non avendomi trovato in salotto,
erano saliti al primo piano e, aprendo la porta della mia ca­
mera, avevano visto Anna Paulova addormentata sul mio letto.
Quella sera, Oxford in delirio acclamava la Paulova sul
palcoscenico del suo teatro.
In questo stesso periodo andai soggetto a strani fenomeni
che da principio attribuii a un'alterazione della vista. Tro­
vandomi in una sala di teatro, in un salotto o per la strada,
certe persone mi apparivano improvvisamente avvolte da una
nube. Ciò si ripeté più volte, per cui mi risolvetti a consul­
tare un oculista, il quale, dopo avermi esaminato con la mas­
sima cura, mi assicurò che non riscontrava niente di anor­
male. Non mi preoccupai più di questo fenomeno fino al gior­
no in cui esso parve assumere un nuovo, terribile significato.
Era consuetudine che una volta la settimana, nel giorno
dedicato alla caccia a cavallo, gli amici si radunassero in casa
mia per far colazione prima della caccia stessa. Ora, fu ap­
punto durante una di queste colazioni che ebbi per la p rima
volta un sinistro presentimento vedendo quella nuvola biz­
zarra coprire un compagno che stava seduto di fronte a me.
Poche ore dopo, saltando un ostacolo, quel ragazzo fece una
grave caduta che mise la sua vita in pericolo per vari giorni.
Poco dopo un amico dei miei genitori, di passaggio a Ox-

101
ford, venne a colazione da me. Mentre mangiavamo, lo vidi
improvvisamente entro quella strana nebbia. Scrivendo a mia
madre, le parlai di quell'anomalia, aggiungendo d'essere per­
suaso che un pericolo minacciava il nostro amico. Qualche
giorno dopo, una sua lettera mi annunciava che egli era morto.
Avendo narrato questa storia a un occultista incontrato a
Londra in casa di amici, egli mi rispose che la cosa non lo
sorprendeva. « Si tratta » , spiegò, « di una forma di doppia
vista di cui conosco parecchi esempi, specialmente in Scozia ».
Per un anno intero vissi nel terrore di vedere quella nu­
vola sinistra coprire un essere caro. Ma, fortunatamente, que­
sti accidenti cessarono improvvisamente come erano co­
minciati.

Il terzo anno a Oxford si avvicinava alla fine ; dovetti


quindi rinunciare durante gli ultimi mesi alla vita frivola per
preparare gli esami che dovevano segnare il termine dei miei
studi. Come riuscissi a passare, resta ancora un mistero per me.
Provavo un vero dispiacere all'idea di abbandonare Ox­
ford e i compagni d'università, e non fu senza malinconia che
salii in automobile tra il bull-dog e il pappagallo, per andare
a stabilirmi a Londra nel nuovo appartamento. Mi ero tal­
mente abituato alla vita inglese che risolvetti di prolungare
il soggiorno in Inghilterra sino all'autunno seguente. Due mie
cugine, Maya Kutusov e lrina Rodzianko, vennero a passare
qualche tempo con me. Erano entrambe assai belle, e uscire
con loro mi faceva piacere. Per una serata al Covent Garden,
seguendo il mio consiglio, si misero in testa un turbante di
tulle che formava un grosso nodo dietro la nuca e incorni­
ciava deliziosamente i loro volti bellissimi. Com'era naturale,
esse attirarono l'attenzione di tutto il teatro, e nell'intervallo
gli amici affollarono il mio palco per pregarmi di essere pre­
sentati loro. Tra essi si trovava un bell'italiano addetto all'am­
basciata del suo paese, che veniva chiamato "bambino" ( 1 ) , il
quale si innamorò all'istante e perdutamente di Maya. Da
quel momento non si staccò più da noi, passava le giornate
(l) In italiano nel testo.

1 02
in casa mia e si faceva invitare dovunque andassimo. La par­
tenza delle cugine non interruppe le sue visite, e restammo
ottimi amici.
Quell'ultimo anno del mio sog�iorno in Inghilterra fu il
più allegro di tutti. I balli in costume erano alla moda, tanto
che ce n'era uno quasi ogni sera. Ben presto ebbi tutta una
serie di travestimenti diversi, ma quello che otteneva il mag­
gior successo era sempre il mio costume russo.
Ero in ottime relazioni con un'inglese, la signora Hwfa­
Williams. Nonostante l'età e una sordità notevole, il suo
brio, il suo spirito e il suo slancio erano tali che molti gio­
vanotti e molte belle donne frequentavano assiduamente la
sua casa. Il defunto re Edoardo VII, che ella sapeva tenere
allegro, non poteva fare a meno di lei e la portava con sé
in tutti i suoi spostamenti. La sua casa di campagna doveva
il nome di Coomb Spring a una sorgente cui la signora Hwfa
attribuiva la virtù di ringiovanire. Ella faceva imbottigliare
quella pretesa acqua di giovinezza e la vendeva agli amici a
prezzi favolosi. I suoi roeek-ends si svolgevano sempre in una
atmosfera di folle allegria e la sua piccola corte ostentava
maniere molto libere e persino alquanto equivoche. Gli amici
potevano piombare da lei a qualunque ora, certi d'essere sem­
pre bene accolti o di trovarla pronta a seguirli nei locali not­
turni di Londra.
Essendo andato a passare qualche giorno nell'isola di Jer­
sey, spinto dal mio interesse sempre vivo per il bestiame lo­
cale, mi ero fermato sul margine di un prato per ammirare
un branco di splendide mucche. Una di esse si avvicinò alla
mia automobile, e la simpatia che credetti leggere nei suoi
grossi occhi mi fece venire il desiderio di comprarla. Da p rin­
cipio il proprietario oppose qualche difficoltà, ma poi finì
col cedermela. Appena tornato a Londra mi affrettai ad an­
dare dalla signora Hwfa per affidarle la mucca, che fu ac­
colta con entusiasmo. Ella le mise al collo un nastro con una
campanella e la battezzò Felicita.
Felicita si addomesticò come un cane. Ci accompagnava
nelle passeggiate e ci seguiva fin quasi nell'interno della casa.
Con l'autunno venne il momento della partenza definitiva per

1 03
la Russia ; ma quando volli riprendere la mucca per mandarla
ad Arkhangelskoie, la signora Hwfa, esagerando la propria
sordità, fece finta di non capire. Scrissi su un pezzo di carta :
"Questa mucca è mia". Ella fece a pezzettini il foglio sotto
il mio naso senza leggerlo, ne gettò i frammenti in aria e li
disperse con un soffio guardandomi con aria sorniona. Da­
vanti a una così evidente mala fede, risolvetti di rapire
Felicita.
Riunii alcuni amici e ci recammo, di notte e mascherati,
a Coomb Spring. Per disgrazia, il rombo del motore svegliò
il portinaio, che, credendo a un attacco di banditi, avvertì
la padrona. La vecchia signora saltò giù dal letto, afferrò una
rivoltella e cominciò a sparare contro di noi dalla finestra.
Impossibile farle capire chi eravamo. Quando tutto il per­
sonale della casa fu in piedi, svegliato da quel baccano, po­
temmo finalmente farci riconoscere dalla nostra vecchia ami·
ca. La perfida creatura ci fece servire una magnifica cena,
e ci offrì vini talmente squisiti e traditori che finimmo col di­
menticare del tutto lo scopo della spedizione.
Il giorno precedente a quello della mia partenza per la
Russia, offrii un pranzo d'addio all'Hotel Berkley. Quel pran­
zo in costume fu seguito da un ballo nello studio di un pit­
tore mio amico. Il giorno dopo lasciai Londra, portando con
me, del soggiorno in quella città, i migliori e più durevoli ri­
cordi. Quei tre anni passati in Inghilterra sono da annoverare
tra i più felici della mia gioventù.
CAPITOLO XI

Ritorno in Russia - Fidanzamento - Si prepara il nostro ap­


partamento alla Moika - Matrimonio - Viaggio di nozze: Pa­
rigi, l'Egitto, Pasqua a Gerusalemme - Ritorno attra'Oerso
l'Italia - Soggiorno a Londra - Uccisione dell'arciduca Fran-
cesco Ferdinando d'Austria.

N on senza malinconia lasciai l'Inghilterra ove avevo tanti


amici. D'altra parte, sentivo che si concludeva un periodo
della mia vita. Dopo aver trascorso qualche giorno a Parigi
per vedere gli amici francesi, partii per la Russia con Basilio
Soldatenkov che mi aveva offerto di fare il viaggio con lui
nella sua famosa automobile da corsa "Lina". Basilio viaggiava
a un'andatura folle. Quando lo pregavo di rallentare un poco,
rideva e premeva il piede sull'acceleratore.
Arrivando a Zarskoie Selò ebbi la gioia di trovare mia
madre molto migliorata in salute. Durante le nostre inter­
minabili conversazioni, si parlava spesso del mio avvenire.
L'imperatrice volle vedermi e mi fece molte domande sulla
vita in Inghilterra. Anch'ella mi parlò del mio avvenire, di­
cendomi che dovevo assolutamente ammogliarmi.
Era per me una vera gioia rivedere gli amici, soprattutto
il granduca Dimitri, ritrovare il mio paese, la mia casa, Pie­
troburgo, le sue bellezze e i suoi piaceri. Le gaie serate rico­
minciarono, in compagnia di artisti e di musicisti, senza di­
menticare gli zingari. Rimanevamo talvolta sino all'alba ad
ascoltare le loro canzoni. Come stavo bene in Russia ! E, so­
prattutto, come mi ci sentivo "in casa mia !".
Trascorsi l'inverno a Pietroburgo con i miei genitori. Un
grande avvenimento doveva segnare, per me, l'anno 1913. In­
fatti il granduca Alessandro Mikhailovic venne un giorno a
far visita a mia madre per parlare di un progetto di matri-
1 05
monio tra sua figlia lrina e me. lo ero già interamente favo­
revole a questo progetto, che veniva a colmare i miei voti :
non avevo dimenticato la ragazza, allora quasi una bambina,
incontrata lungo la strada durante una passeggiata in Crimea.
Da quel.giorno mi ero reso conto che ella era il mio destino.
L'adolescente di quel tempo era diventata una giovinetta di
una bellezza abbagliante. La sua timidezza la rendeva silen­
ziosa, e quel riserbo aumentava il suo fascino, circondandola
di mistero. Invaso da un sentimento nuovo, misuravo quanto
v'era di misero nelle mie avventure passate. Scoprivo final­
mente quell'armonia perfetta che è la base stessa del vero
amore.
lrina perdeva a poco a poco la timidezza. Da principio
i suoi sguardi dicevano più delle parole; ma quando si fece
più espansiva ammirai la finezza della sua intelligenza e la
sicurezza dei suoi giudizi. Non le avevo nascosto nulla della
mia vita passata. Lungi dall'esserne turbata, dimostrò una ra­
ra comprensione. Ella capiva assai bene ciò che mi respin­
geva nel carattere femminile e mi faceva spesso preferire la
compagnia degli uomini. La scaltrezza meschina che si riscon­
tra in molte donne e la loro generica mancanza di probità le
spiacevano quanto a me. Figlia unica, allevata in mezzo a sei
fratelli, lrina non aveva nessuno di questi difetti femminili.
I miei futuri cognati, che adoravano la sorella, vedevano
senza troppa simpatia colui che si preparava a rapirla. In
particolare, il principe Teodoro mi era risolutamente ostile.
Quel ragazzo quindicenne era già molto alto. I riccioli scom­
posti dei capelli castani incorniciavano un giovane e bel viso
nordico, dotato di una grande mobilità d'espressione. Lo sguar­
do dei suoi occhi grigi poteva assumere la ferocia di quello
di una belva o la dolcezza di quello di un bambino; la sua
mente era piena di idee imprevedibili e buffe. L'ostilità che mi
aveva dimostrato da principio si dissipò abbastanza rapida­
mente, ed egli diventò il migliore dei miei amici. Quando ne
ebbi sposato la sorella, il nostro focolare divenne il suo. Non
poteva vivere senza di noi, e ci lasciò soltanto nel 1 924, nel
momento in cui anch'egli si ammogliò con la principessa lrene
Paley, figlia del granduca Paolo Alessandrovic.
1 06
Il mio fidanzamento con Irina non era stato ancora reso
ufficiale, quando, un giorno, Dimitri venne a trovarmi per
chiedermi se fosse vero che stavo per sposare sua cugina. Gli
dissi che v'era un progetto di questo genere, ma che n ulla era
ancora stabilito. « Gli è che anch'io », mi disse, c: avevo in­
tenzione di sposarla ». Dapprima credetti che scherzasse. Ma
non era così ; egli mi assicurò che non era mai stato più serio
in vita sua. Toccava alla principessa lrina scegliere tra noi.
Prendemmo lo scambievole impegno di non fare o dire nulla
che potesse influenzare la sua decisione. Ma, quando le co­
municai questo colloquio, ella rispose che era risoluta a spo­
sare me e che nulla e nessuno avrebbe potuto farle cambiare
opinione.
Dimitri s'inchinò davanti a una risoluzione che giudicava
irrevocabile. Però le nostre relazioni ne risentirono: e l'ombra
che il matrimonio gettò sulla nostra amicizia non doveva mai
più dissiparsi.

In agosto, avendo appreso che Irina, per una caduta fatta


a Tréport, si era procurata una grave storta e veniva curata
a Parigi, corsi subito a raggiungerla. Durante la cura, che fu
lunga e dolorosa, andavo ogni giorno a farle visita all'Hotel
Carlton dove aveva preso alloggio con i genitori. La sorella
del rriio futuro suocero, Anastasia Mikhailovna granduchessa
di Mecklembourg-Schverin, e ra allora a Parigi. Ancora piena
di energia, benché avesse di molto passato la quarantina, era,
a ben guardare, una donna buona e affettuosa; ma il suo ca­
rattere bizzarro, indipendente e dispotico la rendeva temi­
bile. Quando seppe che ben presto avrei sposato sua nipote,
cominciò a occuparsi attivamente di me. Da quel momento
la mia vita non mi appartenne più. Alzata sempre di buon
mattino, già alle otto ella mi telefonava. Talvolta arrivava al­
l'Hotel du Rhin, dove alloggiavo, s'installava nella mia camera
e leggeva il giornale mentre io facevo toletta. Se ero uscito,
mandava i domestici a cercarmi per tutta Parigi e saliva ella
stessa in carrozza per mettersi al mio inseguimento. Non ave­
vo più un istante di riposo. Dovevo far colazione, p ranzare,

1 07
andare a teatro e cenare con lei quasi ogni giorno. A teatro,
in genere, si addormentava sin dal primo atto, poi, risveglian­
dosi bruscamente, dichiarava che la commedia era "impossi­
bile" e che voleva andare altrove. Ci accadeva spesso di cam­
biare due 9 tre teatri in una stessa sera. Siccome era molto
freddolosa, faceva sedere il proprio domestico fuori della por­
ta del palco, con una piccola valigia piena di scialli, di sciarpe
e di pellicce. Tutti questi oggetti erano numerati. Quando per
caso non dormiva, se sentiva la minima corrente d'aria si chi­
nava verso di me e mi pregava di portarle questo o quel nu­
mero. Tutte queste sarebbero state inezie. La cosa peggiore
è che andava pazza per la danza. Passata la mezzanotte, del
tutto sveglia, ella poteva ballare sino all'alba.
Per mia grande fortuna, verso la fine di settembre Irina
fu ristabilita e partimmo tutti per la Crimea.

Poco dopo l'arrivo in Crimea, venne finalmente dato l'an­


nunzio ufficiale del nostro fidanzamento. Tra le lettere e i te­
legrammi che arrivarono in grande quantità, ve ne furono
che mi lasciarono perplesso. Non mi sarebbe mai passato per
il capo che certe amiche e amici miei potessero essere tanto
addolorati dal mio matrimonio.
Irina ripartì ben presto per l'estero con i genitori. Con­
tava fermarsi a Parigi per occuparsi del corredo prima di an­
dare a far visita alla nonna, ch'era allora in Danimarca. Io
dovevo raggiungerla a Parigi e accompagnare Irina e sua ma­
dre a Copenaghen per essere presentato all'imperatrice madre.
Quando giunsi alla Gare du Nord trovai sul marciapiedi
il conte Mordvinov, e appresi con stupore che era stato in­
viato dal granduca Alessandro per comunicarmi che il fidan­
zamento era rotto ! Non dovevo neppure fare il tentativo di
rivedere Irina e i suoi genitori. Invano tempestai di domande
il messaggero del granduca ; egli dichiarò che non poteva dir­
mi nulla di più.
Ero pietrificato. Tuttavia non avevo nessuna intenzione di
!asciarmi trattare come un ragazzo; nessuno aveva il diritto
di pronunciare una condanna a mio carico senza ascoltarmi.
1 08
Risoluto a perorare la mia causa e a difendere la mia felicità,
mi recai immediatamente all'albergo in cui abitavano il gran­
duca e la granduchessa, salii direttamente al loro apparta­
mento ed entrai senza farmi annunziare. Il colloquio tra me
e i genitori di lrina fu sgradevole tanto per loro quanto per
me. Nondimeno, riuscii a farli tornare sulla loro decisione e
a ottenere il definitivo consenso al matrimonio. Felice di que­
sto risultato, andai a trovare lrina, la quale mi assicurò una
volta di più d'essere incrol]abilmente decisa a sposarmi. Ap­
presi più tardi, non senza tristezza, che coloro i quali mi ave­
vano così calunniato presso i suoi genitori erano persone che
consideravo amiche. Sapevo già come l'annuncio del mio ma­
trimonio fosse stato un dramma per molta gente, e vedevo
ora come qualcuno non avesse esitato a servirsi dei mezzi più
sleali per tentare d'impedirlo. Un affetto tanto spinto, quali
che fossero le persone da cui veniva e la forma in cui si ma­
nifestava, non poteva non !asciarmi interdetto.
Mi rendo conto che, narrando queste cose, corro il rischio
di farmi attribuire una vanità altrettanto ridicola che odiosa.
Ma se questa narrazione ha da essere veridica, debbo pur
mantenere una certa obiettività. Benché sproporzionata ai
miei meriti, l'attrazione da me esercitata sugli esseri è un fat­
to positivo, grave di conseguenze per me e per gli altri. Va
da sé che questi successi mi hanno lusingato e, per un certo
periodo di tempo, molto divertito, prima di stancarmi appunto
per quel che v'era in essi di eccessivo. Trascinato verso altri
destini, non mi preoccupavo gran che di coloro che lasciavo
dietro di me ... Ma non tardai a capire che non si scherza con
l'amore. La sofferenza che potevo provocare senza volerlo,
ma di cui mi sentivo egualmente responsabile, non mi lasciò
più indifferente. Mi pareva che essa mi desse, se così si può
dire, cura d'anime. A quelli e a quelle che mi amavano sen­
za essere ricambiati, avrei voluto, in cambio di un amore al
quale i miei sentimenti m'impedivano di corrispondere, fare
almeno un po' di bene ; sostituire a ciò che non potevo dar lo­
ro, un dono più prezioso, orientarli verso l'amicizia.

1 09
Finalmente fu stabilito che il matrimonio sarebbe stato ce­
lebrato il 22 febbraio 1914, presso l'imperatrice madre, a pa­
lazzo Anisc'kov. I miei genitori avevano ceduto a Irina e a
me l'ala sinistra del pianterreno rialzato della nostra casa
della Moika. Feci aprire un ingresso particolare e apportai
all'appartamento · le necessarie modifiche.
Si entrava nel vestibolo mediante una scalinata di pochi
gradini di marmo bianco ornata di statue. A destra v'erano
le sale di ricevimento che davano sul lungofiume : prima la
sala da ballo con le colonne di marmo giallo, in fondo alla
quale grandi arcate si aprivano sul giardino d'inverno. Poi
veniva il grande salone tappezzato di seta avorio e ornato di
dipinti della scuola francese del XVIII secolo. I mobili "a
collo di cigno", in legno bianco e oro, erano ricoperti della
stessa seta, ricamata a mazzolini di fiori. La mobilia del mio
salotto personale era di mogano, coperta di stoffa color verde
vivo con un ricamo centrale. Una tappezzeria azzurro-zaffiro
serviva di sfondo agli arazzi Gobelins e ai quadri olandesi.
Nella sala da pranzo ametista, grandi vetrine, che la sera ve­
nivano illuminate, contenevano la collezione delle porcellane
di Arkhangelskoie. Nella biblioteca gli scaffali erano di legno
di betulla della Carelia, la tappezzeria verde-smeraldo. Tutti
i soffitti erano dipinti a mezzatinta, con stucchi di un'esecu­
zione perfetta. Tappeti d'Aubusson, oggetti d'arte, lampadari
e candelabri di cristallo di rocca, completavano quell'arreda­
mento. L'insieme apparteneva a quello stile che va da Lui­
gi XVI all'Impero e che ha sempre goduto tutte le mie pre­
dilezioni.
Sul cortile davano un oratorio e i nostri appartamenti par­
ticolari : la nostra stanza da letto e il salottino di Irina esposti
a mezzogiorno, una piscina in mosaico e una stanzetta rive­
stita d'acciaio con vetrine per i gioielli.
A sinistra del vestibolo d'ingresso mi ero riservato un pic­
colo appartamento per il caso che avessi dovuto venire solo
a Pietroburgo. Alcune colonne e un tendaggio dividevano il
salotto in due parti ineguali, la più piccola delle quali, leg­
germente sopraelevata, doveva servire da stanza da letto. La
I lO
mobilia era di mogano; la tappezzeria di tela grezza metteva
in risalto i quadri antichi. Lì accanto, v'era una saletta da
pranzo ottagonale illuminata da una vetrata e con le porte così
ben dissimulate che, quando erano chiuse, sembrava che la
piccola sala non avesse nessuna uscita. Una di queste porte
dava su una scala di servizio che portava nel sottosuolo. Era
mia intenzione sistemare in questa parte della cantina un sa­
lone Rinascimento. A metà della scala, una porta invisibile
permetteva di uscire direttamente nel cortile. Da quella porta,
due anni più tardi, Rasputin doveva tentare la fuga.
I lavori erano appena terminati quendo scoppiò la Rivo­
luzione. Non potemmo dunque mai approfittare di quella ca­
sa, al cui abbellimento avevamo dedicato tante cure.
La granduchessa Elisabetta non doveva assistere al nostro
matrimonio; era d'opinione che la presenza di una suora a
una cerimonia così mondana sarebbe stata fuor di luogo. Ma
io andai a trovarla a Mosca qualche giorno prima. Mi accolse
con la consueta bontà e mi diede la sua benedizione. L'impe­
ratore mi fece chiedere dal mio futuro suocero che cosa avrei
desiderato come dono di nozze. Pensava di offrirmi una ca­
rica a corte, ma io risposi a Sua Maestà che avrebbe colmato
i miei voti accordandomi il diritto di assistere alle rappresen­
tazioni teatrali nel palco imperiale. Quando gli fu trasmessa
questa risposta, Nicola si mise a ridere e assicurò che il mio
desiderio sarebbe stato esaudito. Eravamo pieni di regali ;
i più sontuosi gioielli figuravano accanto ai semplici e com­
moventi doni dei contadini.
L'abito da sposa di lrina era stupendo, di seta bianca rica­
mata d'argento e con un lungo strascico. Un diadema in cri­
stallo di rocca e diamanti tratteneva il velo di pizzo che aveva
appartenuto a Maria Antonietta. La questione di come avrei
dovuto vestirmi fu molto discussa. Ero risolutamente con­
trario a indossare la marsina di pieno giorno, ma la mia p ro­
posta di sposarmi in giacchetta sollevò una vera tempesta.
Finalmente l'uniforme dei membri della nobiltà - finanziera
nera con bavero e pistagne ricamati in oro e calzoni di panno
bianco - mise tutti d'accordo.

III
Tutti i membri della dinastia che si sposavano con una
persona che non fosse di sangue reale dovevano firmare una
rinuncia al trono. Per quanto lontana ne fosse, prima di spo­
sarmi lrina dovette sottoporsi a questa formalità, cosa che
fece con l'aria di non esserne per nulla spiacente.
.
Il giorno delle nozze una carrozza tirata da quattro ca­
valli bianchi andò a prendere la mia fidanzata e i suoi genitori
per portarli al palazzo Anisc'kov. Il mio arrivo mancò invece
di decoro. Il vecchio ascensore asmatico, che portava al piano
in cui si trovava la cappella, si arrestò a metà strada, tanto
che la famiglia imperiale e l'imperatore in persona dovettero
darsi da fare per liberare il promesso sposo immobilizzato.
Accompagnato dai genitori attraversai molte sale, già piene
di invitati in gran toletta e in uniformi gallonate, per rag­
giungere la cappella dove andai ad attendere lrina nei posti
a noi assegnati.
La sposa fece ingresso al braccio dell'imperatore, che la
condusse accanto a me. Quand'ella fu al mio fianco, la fun­
zione ebbe inizio. Secondo un rito in uso nei matrimoni russi,
uno dei preti distese dinanzi a noi il tappeto di seta rosa sul
quale gli sposi devono camminare durante la cerimonia. La
tradizione vuole che quello dei due congiunti che vi posa il
piede per primo sia destinato a esercitare il comando nella
famiglia. lrina era risoluta a essere lei la prima, ma il suo
piede s'impigliò nel lungo strascico, e io ne approfittai per
sopra vanzarla.
Terminata la cerimonia, ci mettemmo in testa al corteo
per recarci nella sala di ricevimento, dove fummo collocati
dinanzi ai sovrani per ricevere i rallegramenti abituali. La
sfilata durò più di due ore ; lrina era sfinita. Dopo di ciò ci
recammo alla Moika dove i miei genitori ci avevano preceduti
e ci aspettavano ai piedi delle scale per offrirei il pane e il
sale tradizionali. Ricevemmo poi i rallegramenti dei domestici,
e la stessa cerimonia si ripeté al palazzo del granduca Ales­
sandro.
Finalmente giunse l'ora della partenza. Una folla di pa­
renti e di amici ci aspettava alla stazione. Dovemmo di nuovo
112
-
-
stringere mani e ricevere complimenti. Dopo le ultime effu­
sioni, salimmo nel nostro vagone. Un grosso tartufo nero emer­
geva da una profusione di fiori : il mio Punch era lì, e troneg­
giava gravemente tra i cesti e i mazzi floreali. Nel momento
in cui il treno si mise in moto, vidi allontanarsi la figura so­
litaria di Dimitri rimasto sul marciapiede.

A Parigi scendemmo all'Hotel Ritz dove avevo fissato il


solito appartamento che volevo far conoscere a lrina. La mat­
tina seguente, alle nove, fummo svegliati dalla granduchessa
Anastasia Mikhailovna, la quale arrivò seguita da tre dome­
stici che portavano il suo regalo di nozze : dodici cestini per
la carta straccia, di genere e forma diversi.
lrina aveva portato tutti i propri gioielli, di cui desiderava
far modificare la montatura. Vi furono lunghi colloqu i col
gioiellere Chaumet che fu incaricato di rammodernare tutto.
Non avendo nessuna intenzione di prolungare il soggiorno
a Parigi dove conoscevamo troppa gente, finite le commissioni
partimmo per l'Egitto. Ma siccome i giornali annunciavano
i nostri spostamenti, non riuscivamo a stare tranquilli in nes­
sun luogo. Al Cairo, il console di Russia si ostinava a seguirei
come un'ombra e a leggerei certe sue poesie sentimentali di
cui era molto orgoglioso. Dal Cairo ci recammo a visitare
Luxor, ma, per quanto grandi fossero lo splendore e il fascino
dell'alto Egitto, il caldo mi disturbava talmente che rifiutai
di spingermi più in là. Di ritorno al Cairo mi ammalai d'it­
terizia e dovetti restarmene a letto per tutto il resto del no­
stro soggiorno. Quando fui guarito, partimmo per Gerusa­
lemme dove intendevamo trascorrere la Settimana santa e il
giorno di Pasqua.
Il console russo, che ci era venuto incontro, salì nel nostro
vagone strada facendo per avvertire mia moglie del ricevi­
mento che le era stato preparato. Quando vide tutte le p er­
sonalità ufficiali che ci aspettavano, lrina rifiutò di scendere
dal treno, e dovetti quasi usare la forza per farla uscire. Dopo
avere stretto le mani di molti sconosciuti, fummo condotti di­
rettamente alla cattedrale ortodossa. Ai due lati della strada
I I3
che dovevamo percorrere stavano in fila i pellegrini russi.
Erano più di .cinquemila, venuti da tutti i punti della Russia
per passare la Settimana santa a Gerusalemme. Acclamarono
la nipote del loro imperatore, poi intonarono cantici sacri.
Il patriarca greco Damiano ci aspettava nella cattedrale
circondato dal clero. Al nostro arrivo si alzò e ci impartì la
sua benedizione. Dopo il canto del Te Deum risalimmo
in carrozza per recarci all'albergo della missione russa, dove
ci era stato riservato un appartamento.
Il giorno dopo fummo ricevuti dal patriarca. L'udienza ci
parve lunga e discretamente noiosa. lrina e io eravamo seduti
a destra e a sinistra del prelato, il clero stava schierato lungo
le pareti. Furono serviti caffè, spumante, dolciumi. Ma sicco­
me il patriarca conosceva a malapena poche parole di russo
e nessuno parlava né il francese né l'inglese, la conversazione,
nonostante l'aiuto dell'interprete, mancava di animazione.
Questo patriarca era, tuttavia, un uomo notevole. Durante l a
nostra permanenza a Gerusalemme non ci mancarono le oc­
casioni di incontrarci con lui in maniera meno ufficiale.
Visitammo lungamente i Luoghi santi e durante la Setti­
mana santa assistemmo a vari uffizi nella basilica del Santo
Sepolcro. Il Sabato santo, poiché lrina non si sentiva molto
bene, vi andai da solo. Ero in una delle tribune donde potei
seguire la speciale cerimonia che si celebra in quel giorno nel­
la cappella del Santo Sepolcro. Il giorno prima le autorità ci­
vili avevano messo i sigilli alla porta del santuario che sorge
al centro della basilica e dove, secondo la tradizione, il mat­
tino del Sabato Santo il fuoco divino scende ad accendere le
trentatré candeline che ogni patriarca tiene in mano. A]finché
i fedeli possano avere la certezza che i patriarchi greci e ar­
meni non hanno con sé né fiammiferi né acciarini e che nes­
sun inganno è possibile, questi alti dignitari ecclesiastici, prima
di muovere in processione nella chiesa piena zeppa di pel­
legrini, recando in mano un fascio di trentatré candeline cia­
scuno, debbono lasciarsi frugare addosso dai soldati musul­
mani. I patriarchi si avvicinano poi al Santo Sepolcro, di cui
aprono la porta rompendo i sigilli, ed entrano nel santuario.
Un attimo dopo, le candeline accese appaiono alle due fine­
strelle che si aprono ai lati della cappella. Subito i pellegrini
si muovono tutti im\eme verso il Santo Sepolcro per accendere
i propri ceri al fuoco miracoloso, e ne nasce una spaventosa
mischia, attraverso la quale i preti trascinano i patriarchi
verso l'uscita per sottrarli all'entusiasmo fanatico della folla.
Lo spettacolo che si offriva ai miei occhi era letteralmente
spaventevole. Sotto lo scintillio di quelle migliaia di ceri, tutta
la chiesa mi sembrava un oceano di fiamme. E tutte quelle
persone si agitavano come pazzi, strappandosi di dosso i ve­
stiti, scottandosi il corpo con la fiamma dei ceri, tanto che la
puzza delle carni brucia te si faceva insopportabile. A v evo
l'impressione di assistere a una scena d'isterismo collettivo,
e tutto ciò mi respingeva assai lontano dalla tomba di Cristo.
La notte di Pasqua, dopo la messa solenne della Resurre­
zione, tutti i pellegrini russi presenti a Gerusalemme furono
invitati alla missione per la cena tradizionale. Arrivarono
con piccole lanterne accese : era la fiamma sacra, presa sulla
tomba di Cristo, che essi recavano religiosamente in Russia.
Sulle lunghe tavole apparecchiate nel giardino, tutte quelle
lanterne dai vetri multicolori illuminavano la notte d'una luce
fantastica. Prima della partenza dei pellegrini, anche noi of­
frimmo loro una cena nei giardini della missione, e a vederci
così circondati dai nostri compatrioti avevamo l'impressione
di essere in patria.
Qualche giorno dopo, i nostri pellegrini, avendo appreso
che dovevamo assistere a un uffizio nella cattedrale ortodossa,
vollero a forza entrarvi tutti. Ne seguì una mischia furibonda.
Fu necessario chiudere le porte, una delle quali fu spezzata
dall'impeto della folla. Quanto a noi, avemmo appena il tem­
po di scappare da una porta laterale.
Poco tempo prima della nostra partenza, durante una delle
ultime passeggiate in carrozza, un ragazzo nero in tunica
bianca si slanciò verso di noi e ci gettò ai piedi una busta.
Era un abissino che chiedeva di entrare al nostro servizio.
Quella stessa sera egli si presentò alla Missione p er avere la ri­
sposta. Il ragazzo mi piacque e lo assunsi immediatamente,

1 15
con gran dispiacere di Irina e dei domestici europei. La nuova
recluta si chiamava Tesfé ed era arrivato a Gerusalemme
fuggendo dal proprio paese in seguito a non so che delitto.
Era un selvaggio, ma un selvaggio intelligente ; imparò pre­
stissimo il russo e ci si mostrò sempre molto devoto. Debbo
tuttavia riconoscere che non tardò ad attirarci molte secca­
ture. Avevamo lasciato la Palestina per l'Italia. A Napoli
dovetti subire le proteste del gerente dell'albergo, perché
Tesfé aveva fatto vari tentativi di violentare le cameriere,
senza parlare delle due vecchie inglesi che si lamentavano
di non poter mai entrare nel bagno dove Tesfé si era stabilito
in permanenza occupato nel giuoco entusiasmante di far scor­
rere continuamente l'acqua del roater-close{. Per molto tempo
fu impossibile convincerlo a coricarsi in un letto : si ostinava
a dormire sul pavimento, nel corridoio, davanti alla nostra
porta.
A Napoli ritrovammo la nostra automobile, e partimmo,
in compagnia di Tesfé e di Punch, per un viaggio di pochi
giorni attraverso l'Italia. Avevamo mandato i domestici ad
aspettarci a Roma, e anche Irina dovette riconoscere che, in
questa occasione, Tesfé si rivelò un'eccellente cameriera.
Dopo aver passato qualche giorno a Roma, partimmo per
Firenze. Qui avevo molte conoscenze, ma le frequentai poco,
perché desideravo essere solo con Irina in questa ch'era la
città preferita da entrambi. Il giorno prima della partenza
vidi davanti alla Loggia dei Lanzi una figura che mi parve
familiare. Era quel principe italiano soprannominato "bam­
bino", che avevo conosciuto a Londra quando le mie belle
cugine abitavano in casa mia. Lo presentai a Irina e lo invitai
a pranzo con noi. Era molto mutato; aveva perduto tutta la
sua gioia di vivere e la sua gaiezza infantile. Venne il giorno
dopo ad assistere alla nostra partenza e ci assicurò che lo
avremmo ritrovato ben presto a Parigi e a Londra. Qualche
settimana dopo, invece, apprendemmo che si era ucciso. Mi
aveva scritto una lettera d'addio che mi commosse profon·
damente.

1 16
Al nostro passaggio da Parigi, il vecchio Chaumet venne
a portarci i gioielli di lrina rammodernati durante la nostra
assenza. Aveva impiegato bene il tempo : le cinque guarni­
zioni che aveva composto, di diamanti, perle, rubini, sme­
raldi e zaffiri, erano l'una più bella dell'altra. Esse furono
molto ammirate a Londra in occasione dei ricevimenti dati
in nostro onore. Debbo dire però che nessun ornamento po­
teva aggiunger qualcosa alla bellezza di lrina.
A Londra alloggiammo nel mio vecchio appartamento da
scapolo che avevo conservato. Ero felice di trovarmi per così
dire a casa mia e di rivedere tutti gli amici inglesi. Subito
dopo il nostro arrivo fummo presi nell'ingranaggio della vita
mondana che non tardò ad accaparrarci interamente. C'erano
a Londra anche i miei suoceri e l'imperatrice madre che abi­
tava presso sua sorella, la regina Alessandra, a Marlborough
House, dove andavamo spesso a farle visita.
Una mattina fummo destati dal rumore di un alterco da­
vanti alla nostra porta. Infilai una vestaglia e andai a vedere
che cosa succedesse. Trovai la regina Alessandra e l'impera­
trice che discutevano con Tesfé, il quale rifiutava di !asciarle
entrare. L'imperatrice, a corto d'argomenti, lo minacciava col
suo ombrello. Dopo essermi scusato per il mio abbigliamento,
spiegai che Tesfé conosceva soltanto la propria consegna e
che, essendo andati a letto tardi, gli avevamo dato l'ordine
di non lasciar entrare nessuno.
In mezzo alle feste mondane della grande stagione londi­
nese ci giunse la notizia dell'assassinio dell'arciduca Fran­
cesco Ferdinando. Poco dopo ricevemmo una lettera dei miei
genitori che ci pregavano di andarli a raggiungere a Kissin­
gen, dove mio padre si trovava in cura.
CAPITOLO XII

Tribolazioni in Germania - Ritorno in Russia per la via di


Copenaghen e della Finlandia - Missione all'estero di mio
padre e suo effimero passaggio al governatorato di Mosca -
La situazione si aggrava - Rasputin deve scomparire.

Arrivammo a Kissingen in luglio. L'atmosfera che regnava


in Germania ci sembrò veramente sgradevole. Non v'era chi
non si deliziasse alla lettura dei racconti stravaganti che i
giornali pubblicavano a proposito di Rasputin e che mira­
vano a gettare il discredito sui nostri sovrani.
Mio padre era risolutamente ottimista, ma le notizie si
facevano di giorno in giorno più allarmanti. Poco dopo il no­
stro arrivo ricevemmo un telegramma dalla granduchessa
Anastasia Nicolaievna, moglie del nostro futuro generalis­
simo, che ci invitava a rimpatriare al più presto se non vo­
levamo correre il rischio di restare bloccati in Germania. Il
30 luglio la Russia rispondeva all'attacco della Serbia da
parte dell'esercito austro-ungarico decretando la mobilitazione
generale. Il decreto fu reso ufficiale il giorno dopo. Tutta
Kissingen era in effervescenza. I manifestanti percorrevano
la città urlando e proferendo invettive contro i russi. La po­
lizia dovette intervenire per ristabilire l'ordine. Bisognava
partire al più presto. Mia madre, ammalata, dovette essere
trasportata alla stazione con una lettiga; così prendemmo il
treno per Berlino.
La capitale tedesca era in pieno caos. Anche all'Hotel Con­
tinental, dove scendemmo, regnava il più grande disordine.
La mattina seguente, alle otto, fummo svegliati dalla polizia
venuta per arrestarmi insieme col nostro medico, il segre­
tario di mio padre e tutto il nostro personale maschile. Mio
1 18
padre telefonò immediatamente all'ambasciata di Russia e gli
fu risposto che tutti erano occupatissimi e che nessuno po­
teva assentarsi per andare da lui.
Nel frattempo, noi detenuti venivamo chiusi in una ca­
mera dell'albergo che avrebbe potuto contenere al massimo
una quindicina di persone, ed eravamo almeno cinquanta.
Restammo lì, ritti, senza poter fare un movimento, per ore
e ore. Finalmente fummo portati al commissariato. Dopo aver
controllato le nostre carte e averci trattati di "sudici maiali
russi", fummo avvisati che quelli di noi che non avessero la­
sciato Berlino prima delle sei sarebbero stati incarcerati. Quan­
do potei tornare all'albergo e rassicurare la mia famiglia, che
aveva pensato di non rivedermi più, erano le cinque. Biso­
gnava prendere una decisione urgente. lrina telefonò a sua
cugina, la principessa ereditaria Cecilia, che le promise d'in­
tervenire immediatamente presso il kaiser e di darci una
pronta risposta. Dal canto suo, mio padre era andato a chie­
dere consiglio al nostro ambasciatore, Sverbeev : « Ahimè ! la
mia parte qui è finita �. gli rispose il diplomatico, « e non
vedo che cosa potrei fare per voi ; tornate questa sera » .
Siccome i l tempo passava e potevamo essere arrestati da
un momento all'altro, mio padre si rivolse all'ambasciatore
di Spagna che aveva assunto la protezione degli interessi
russi in Germania e lo pregò di inviargli uno dei suoi segretari.
Nel frattempo la principessa Cecilia telefonava per dirci
che era disperata di non poterei aiutare. Promise di venire
a trovarci ; ci avvertì inoltre che, da quel momento, il kaiser
ci considerava come suoi prigionieri e che sarebbe venuto
da noi un suo aiutante di campo, latore di una carta che
avremmo dovuto firmare. L'imperatore di Germania ci offriva
di scegliere fra tre luoghi di residenza, assicurandoci che vi
saremmo stati trattati con i massimi riguardi. A questo punto
arrivò il consigliere dell'ambasciata di Spagna. Avevamo
avuto appena il tempo di esporgli la nostra situazione, che
si presentò a sua volta l'inviato del kaiser. Trasse solenne­
mente dalla borsa un gran foglio di carta adorno di sigilli
di cera rossa e ce lo porse. V'era scritto che noi ci impegna-

1 19
vamo a non occuparci di p olitica e a restare in Germania
"per sempre". Ne rimanemmo atterriti. Mia madre ebbe una
crisi di nervi e parlò di andare in persona a trovare l'im­
peratore. Passai il foglio al diplomatico spagnuolo perché
prendesse conoscenza di questa clausola stravagante.
« Com'è possibile che vi si chieda di firmare una . simile
sciocchezza ? », esclamò dopo aver letto il documento. « C'è
sicuramente un errore. È stato scritto "per sempre" in luogo
di "per tutta la durata del1a guerra" » .
Dopo una breve discussione, invitammo i l tedesco a far
rettificare il testo del documento e a riportarcelo la mattina
seguente, alle undici. Mio padre tornò da Sverbeev in com­
pagnia del diplomatico spagnuolo. Fu stabilito che quest'ul­
timo avrebbe chiesto al ministro degli affari esteri, von Ja gow,
di mettere a disposizione dell'ambasciatore di Russia un treno
speciale per i membri del1'ambasciata e per quelli dei suoi
compatrioti che avessero desiderato lasciare la Germania. Una
lista con i nomi degli eventuali viaggiatori gli sarebbe stata
comunicata al più presto. Sverbeev assicurò mio padre che
i nostri nomi e quelli del nostro personale sarebbero stati
inclusi nella lista. Quello stesso giorno gli fece sapere che
l'imperatrice madre di Russia e la granduchessa Senia erano
passate per Berlino. Apprendendo che noi eravamo al­
l'Hotel Continental, esse avevano espresso il desiderio di ve­
derci e di portarci in Russia con loro. Ma era ormai troppo
tardi : anche la loro situazione stava facendosi tragica, e il
treno imperiale aveva dovuto lasciare in fretta la stazione di
Berlino per sottrarsi alle manifestazioni di una folla ostile che
spezzava i vetri e strappava gli stoini dalla vettura in cui si
trovava Sua Maestà.
La mattina dopo, per tempo, ci recammo all'ambasciata
di Russia e di qui alla stazione dove avremmo dovuto pren­
dere il treno per Copenaghen. Non era stato disposto nessun
servizio d'ordine - come sarebbe stato doveroso per la par­
tenza ufficiale dell'ambasciatore - e noi eravamo intera·
mente alla mercé della folla scatenata che ci scagliò sassate
lungo tutta la strada. Fu un miracolo se non finimmo. linciati.
1 20
Parecchi membri dell'ambasciata, alcuni dei quali erano ac­
compagnati dalla moglie e dai figli, ricevettero violente ba­
stona te sulla testa ; taluni erano sanguinanti, altri a ve­
vano i cappelli e gli abiti stracciati. Poiché la nostra carrozza
era l'ultima, la folla credette che fossimo soltanto dei dome­
stici, e questo ci risparmiò d'essere molestati. Pochi minuti
prima della partenza del treno vedemmo arrivare i servitori
che si erano sbagliati di stazione : nel loro sbigottimento ave­
vano perduto lungo la strada tutte le nostre valige. Il mio
cameriere inglese Arturo, rimasto all'albergo con tutti i ba­
gagli per far credere che non fossimo partiti definitivamente,
restò prigioniero in Germania per tutta la durata della guerra.
Quando il treno si mise in moto, provammo un vero sol­
lievo. Sapemmo più tardi che l'inviato del kaiser era arrivato
all'albergo poco dopo la nostra partenza e che l'imperatore
Guglielmo, apprendendo la nostra fuga, aveva dato ordine
di farci arrestare alla frontiera. L'ordine arrivò troppo tardi
e noi passammo la frontiera senza essere inquietati. Quanto
all'aiutante di campo, il poveretto dovette andare a espiare
il proprio errore in trincea.
Arrivati a Copenaghen, senza neanche un nécessaire da
toletta, andammo ad alloggiare all'Hotel d'Angleterre, dove
ricevemmo immediatamente numerose visite : il re e la regina
di Danimarca con tutta la famiglia, l'imperatrice madre di
Russia, mia suocera e una quantità d'altre persone che si tro­
vavano di passaggio nella capitale danese. Tutti erano scon­
volti per causa degli avvenimenti. L'imperatrice domandò e
ottenne che parecchi treni venissero posti a disposizione dei
numerosi russi che non avevano mezzi per farsi rimpatriare.
Il giorno dopo lasciammo la Danimarca. Dal ferry-boat
che ci portava in Svezia, l'imperatrice guardava allontanarsi
la costa del paese natale con visibile emozione. Ma il suo do­
vere la chiamava al fianco del popolo russo.
Al nostro arrivo in Finlandia trovammo il treno imperiale
ad attenderci. Durante tutta la strada, Sua Maestà fu fatta
segno a ovazioni entusiastiche da parte dei finlandesi. Que­
ste dimostrazioni smentivano le false notizie di una insurre-

121
zione finlandese che ci erano arrivate in Danimarca. L'aspetto
generale di Pietroburgo non era cambiato in modo visibile.
Non si aveva davvero l'impressione di essere in guerra.
Ci installammo nella nostra casa della Moika. Gli appar­
tamenti del pianterreno non erano ancora terminati, per cui
occupammo momentaneamente quello che in altri tempi ave­
vo abitato con mio fratello. Non essendo chiamato alle armi
nella mia qualità di figlio unico, mi occupai a organizzare
ospedali nelle nostre diverse case. La presenza dell'impera­
trice Maria alla testa della Croce Rossa mi facilitò le cose,
e il primo ospedale p er feriti gravi fu installato nella mia casa
della Liteinaia. Misi tutto il mio cuore nel compito che mi ero
assegnato, dicendomi ch'era meglio alleviare che infliggere la
sofferenza. Il mio personale era bene scelto: medici e infer­
mieri erano tutti di prim'ordine.

La campagna si era iniziata brillantemente con una pro­


fonda avanzata in Prussia orientale, mirante ad aiutare la
Francia decongestionando il fronte occidentale. Alla fine d'a­
gosto, a causa della mancanza di artiglieria pesante, il corpo
d'armata del generale Samsonov, composto di truppe scelte,
si trovò circondato nei pressi di Tannenberg. Non volendo
sopravvivere alla perdita della propria armata, il generale
si uccise con un colpo di rivoltella. L'offensiva fu ripresa
con successo sul fronte austriaco, ma, nel febbraio 1915, una
nuova offensiva in Prussia orientale portò al disastro d'Au­
gustovo. Il 2 maggio una violenta spinta austro-tedesca sfon­
dava il fronte russo del sud-ovest. Le nostre truppe, mal nu­
trite, mal vettovagliate, lottavano in condizioni terribili con­
tro l'esercito meglio equipaggiato del mondo. Reggimenti in­
teri soccombevano senza potersi difendere per non aver ri­
cevuto in tempo le munizioni necessarie. L'eroismo delle trup­
pe non poteva compensare l'incapacità dei comandanti, la
disorganizzazione dei trasporti e l'insufficienza del munizio­
namento. La ritirata si mutò in rotta. Nelle retrovie, l'opi­
nione pubblica fu scossa. Si parlò di tradimento; l'impera-
1 22
trice era chiamata in causa e Rasputin con lei. Tutti s'indi·
gnavano della debolezza dell'imperatore.
A quel tempo, e principalmente a Mosca, città commer·
ciale, la maggior parte delle grandi ditte era nelle mani dei
tedeschi, la cui arroganza non conosceva limiti. Nei comandi
dell'esercito, come a corte, molti alti dignitari avevano nomi
tedeschi. La maggioranza erano di origine baltica e non ave·
vano niente di comune con i nostri nemici, ma l'effetto sulle
masse rimaneva egualmente deplorevole. Tra la gente del
popolo, molti credevano ingenuamente che l'imperatore, per
pura bontà d'animo, avesse accolto nel proprio seguito gene·
rali tedeschi prigionieri. Ma in altri ambienti ci si stupiva
che i posti importanti non fossero affidati a persone di nome
e di origine puramente russi. Gli agenti di propaganda tede­
schi sfruttavano questo stato di cose per destare la diffidenza
verso la famiglia imperiale, ricordando che la zarina, come
la maggior parte delle granduchesse, era di origine tedesca.
Il fatto che la sovrana odiasse la Prussia in generale e gli
Hohenzollern in particolare non cambiava nulla. Un giorno
che mia madre faceva osservare all'imperatore l'effetto in·
crescioso che producevano tanti nomi tedeschi tra i dignitari
di corte : « Cara principessa :P, rispose egli, « che ci posso fare?
Mi sono tutti così devoti ! È vero che taluni sono vecchi e
hanno anzi la testa un po' debole, come il mio povero Fre­
dericks ( 1 } , che, l'altro giorno, è venuto a battermi sulla spalla
dicendomi : "O guarda ! anche tu sei stato invitato a cola-
.
zwne ?. " :P .
Il 2 1 marzo 191 5 mia moglie diede alla luce una figlia che
fu chiamata Irina come sua madre. Quando udii il primo
grido della bimba fui veramente il più felice degli uomini.
La levatrice, signora Giinst, era una bravissima persona,
chiacchierona come tutte le sue colleghe, e aveva per clientela
la maggior parte delle corti d'Europa. Di quelle conosceva
tutti i pettegolezzi ; quando metteva il discorso su tale argo­
mento, era inesauribile. Debbo dire che le sue storielle erano
piene di sapore e che mi divertivo ad ascoltarle almeno quan-
. U ) Allora ministro di corte.

1 23
to lei a narrarle, diment icando spesso la giovane puerpera
che aspettava le sue cure.
Il battesimo ebbe luogo nella nostra cappella in presenza
della famiglia imperiale. L'imperatore fu il padrino, l'impe­
ratrice madre la madrina. Mia figlia, come un tempo suo
padre, per poco non annegò nel fonte battesimale.

In quello stesso anno 1915 mio padre fu incaricato di una


missione che lo portò in Romania, in Francia e in Inghilterra.
Al suo ritorno l'imperatore gli affidò il posto di governatore
generale di Mosca. Non doveva conservarlo per molto tempo.
Un uomo solo non poteva lottare contro la camarilla tedesca
che occupava tutti i posti importanti. Vedendo lo spionaggio
e il tradimento regnare dappertutto, mio padre prese misure
draconiane per liberare Mosca dall'oscuro dominio del ne­
mico. Ma la maggior parte dei ministri, che dovevano la loro
posizione a Rasputin, erano germanofili e si mostravano ri­
solutamente ostili al governatore generale, di cui ostacolavano
gli sforzi e contrariavano gli ordini. Esasperato dall'opposi­
zione sistematica che incontrava in seno al governo, mio pa­
dre partì per il Gran quartier generale, dove ebbe un col­
loquio con lo zar, il generalissimo, lo stato maggiore e i mi­
nistri. Senza riguardi e senza perifrasi, espose la situazione
che aveva trovato a Mosca, precisando i fatti e nominando i
colpevoli. Questa violenta diatriba produsse un effetto fulmi­
nante. Sino a quel momento nessuno aveva osato alzar la voce
davanti all'imperatore contro le persone al potere. Disgra­
ziatamente fu un buco nell'acqua. Il partito tedescofi.lo che
circondava il sovrano era abbastanza potente per cancellare
rapidamente l'impressione prodotta dalle parole del gover­
natore generale. Appena tornato a Mosca, infatti, mio padre
seppe di essere stato rimosso dalle sue funzioni.
Tutti i russi patrioti furono indignati da quella misura
e dalla debolezza dell'imperatore che l'aveva tollerata. Tutti
si resero conto ch'era impossibile combattere l'influsso tede­
sco. Mio padre, scoraggiato, si ritirò in Crimea con mia ma-
1 24
dre. Io rimasi a Pietroburgo per continuar e il servizio negli
ospedali. Ma ben presto mi vergognai della vita tranquilla
che conducevo, mentre tutti i giovani della mia età partivano
per il fronte. Decisi dunque di entrare come volontario nel
Corpo dei paggi e di fare il corso necessario per diventare
ufficiale. Quell'anno di scuola militare mi parve assai duro ;
ma, d a u n certo punto d i vista, mi f u utile perché domò il
mio carattere orgoglioso e indipendente, ribelle a qualsiasi
disciplina.

Negli ultimi giorni dell'agosto 1915 fu annunciato ufficial­


mente che il granduca Nicola era esonerato dalle funzioni di
generalissimo e inviato sul fronte del Caucaso, e che l'impe­
ratore avrebbe assunto in persona il comando dell'esercito.
La notizia fu accolta sfavorevolmente, perché nessuno igno­
rava che quell'importante risoluzione era stata presa sotto
l'influenza dello starez e grazie ai suoi intrighi. Per far ca­
dere le . ultime obiezioni del sovrano, Rasputin aveva fatto
appello alla sua coscienza religiosa. Per quanto debole fosse
l'opposizione di Nicola II, egli aveva il massimo interesse ad
allontanarlo. La presenza dell'imperatore al fronte gli la­
sciava campo libero. Da quel momento, le sue visite a Zar­
skoie Selò si fecero quasi quotidiane. I consigli e le opinioni
che egli esprimeva avevano forza di legge ed erano subito
trasmessi al Gran quartier generale. Nessuna misura impor­
tante era presa al fronte senza che lo starez fosse preventi­
vamente consultato. La cieca fiducia che la zarina aveva in
lui, la spingeva a parlargli imprudentemente delle questioni
più importanti e persino di quelle più segrete. Attraverso lei,
il vero capo della Russia era Rasputin.
Un complotto tramato dai granduchi e dai membri del­
l'aristocrazia tendeva ad allontanare l'imperatrice dal po­
tere e ad ottenere che ella si ritirasse in un convento. Ra­
sputin doveva essere rimandato in Siberia, l'imperatore de­
posto e lo zarevic messo sul trono. Tutti complottavano, non
esclusi i generali. Le relazioni che l'ambasciatore d'Inghil­
terra, sir Giorgio Buchanan, manteneva con i partiti liberali,
facevano supporre che egli lavorasse segretamente per la ri­
voluzione.
Tra i familiari della coppia imperiale molti erano coloro
che avevano tentato di aprir gli occhi dei sovrani sul peri­
colo che l'influenza di Rasputin faceva correre alla Russia
e alla dinastia. Tutti si erano sentiti rispondere : « Sono
calunnie, i santi sono sempre calunniati ». Fotografie dello
starez scattate durante un'orgia furono poste sotto gli occhi
della zarina ; questa, indignata, ordinò alla polizia di rintrac­
ciare il miserabile che aveva osato farsi passare per il "san­
t'uomo" allo scopo di metterlo in cattiva luce presso i sovrani.
L'imperatrice madre scrisse all'imperatore per scongiurarlo
di allontanare Rasputin e di vietare alla zarina di immischiar­
si negli affari di stato. Molti altri fecero altrettanto. Ma l'im­
peratrice, informata dalfimperatore, che non le nascondeva
niente, ruppe tutti i rapporti con coloro che pretendevano
dettarle come dovesse comportarsi.
Mia madre era stata tra i primi ad alzare la voce contro
lo starez. Dopo una lunga conversazione avuta con la zarina
poté illudersi per un istante di essere riuscita a scuotere la
sua fiducia nel "contadino russo", ma il clan Rasputin vigi­
lava. In breve furono trovati mille pretesti per allontanare
mia madre. Durante l'estate del 1916 le sue relazioni con la
sovrana erano già cessate da qualche tempo, quando ella ri­
solvette di fare un estremo tentativo e chiese di essere rice­
vuta a palazzo Alessandro. Sua Maestà l'accolse assai fred­
damente e, non appena conosciuto lo scopo della visita, la
invitò a lasciare il palazzo. Mia madre dichiarò che non se
ne sarebbe andata se non dopo aver detto ciò che aveva da
dire. Parlò a lungo. Quando ebbe terminato, l'imperatrice,
che l'aveva ascoltata in silenzio, si alzò e la congedò dicendo:
« Spero di non rivedervi mai più » .
Più tardi, la granduchessa Elisabetta, che anch'ella si fa­
ceva vedere molto raramente a Zarskoie Selò, tentò un passo
estremo presso la sorella. Poiché ci aveva promesso di pas­
sare da noi dopo la visita a palazzo Alessandro, eravamo tutti
radunati ad attenderla, impazienti di conoscere i risultati del­
l'incontro. La vedemmo arrivare tutta tremante e in lacrime.
« Mi ha mandato via come un cane ! :., esclamò. c: Povero
Nicky, povera Russia ! :..
Nel frattempo la Germania, bene informata di ciò che ac­
cadeva alla corte di Russia, introduceva nell'ambiente in cui
viveva lo starez spie arrivate dalla Svezia e disonesti ban­
chieri ebrei. E Rasputin, che l'azione dell'alcool rendeva fa­
cilmente indiscreto, li informava più o meno coscientemente
su quanto li interessava. Ho ragione di credere che la Ger­
mania abbia conosciuto per questa via la data dell'imbarco
di lord Kitchener, così che la nave su cui questi viaggiava
fu silurata il 6 giugno 1916, mentre egli si recava in Russia
con la missione di convincere l'im peratore ad allontanare Ra ­
sputin dalla corte e l'imperatrice dal potere.
In quell'anno 1916, mentre la situazione sui vari fronti
si aggravava di giorno in giorno e lo zar era sempre più in­
debolito dalle droghe che gli venivano propinate quotidiana­
mente secondo le istruzioni di Rasputin, il potere di quest'ul­
timo toccava l'apogeo. Non contento di congedare e di no­
minare i ministri e i generali e di aver asservito persino i
grandi prelati della Chiesa, egli pretendeva di destituire lo
zar, porre sul trono lo zarevic ammalato, far proclamare reg­
gente l'imperatrice e concludere una pace separata con la
Germania.
Poiché ogni speranza di far aprire gli occhi ai sovrani
doveva essere abbandonata, quali mezzi restavano per libe­
rare la Russia dal suo cattivo genio? Il granduca Dimitri e
il deputato alla Duma Purisc'kevic si ponevano, come me,
questa domanda. Prima ancora di esserci accordati, eravamo
arrivati tutti e tre alla stessa conclusione : Rasputin doveva
scomparire, anche a costo di sopprimerlo.
CAPITOLO XIII

Rnsputin - Chi era - Ragioni e conseguenze del suo influsso.

J nostri ricordi sono fatti d'ombra e di luce. Nell'estrema


diversità di quelli che può !asciarci una vita movimentata,
ve ne sono di tristi e di gai, di tragici e di incantevoli. Cer­
tuni sono deliziosi, altri così terribili che si vorrebbe non es­
sere mai costretti a evocarli.
Se, nel 192'7, ho scritto La fin de Raspoutine ( 1 ) , è stato
perché mi sembrava necessario opporre la verità dei fatti
alla fantasia più o meno tendenziosa delle versioni che si ve­
nivano pubblicando un po' dappertutto. Non tornerei oggi
sull'argomento se potessi permettermi di lasciare questa la­
cuna nelle mie memorie. Ma l'importanza e la gravità del­
l'avvenimento mi vietavano di voltare questa pagina della
mia vita senza attardarmi su di esso, per cui mi veggo co­
stretto a richiamare qui la parte essenziale dei fatti di cui
ho dato altrove una versione particolareggiata.

Si è parlato molto della parte politica recitata da Raspu­


tin. Forse meno noti sono l'uomo-Rasputin e la singolare psi­
cologia che stava alla base dei suoi scandalosi successi. Per
questo, prima di narrare per la seconda volta i principali
episodi del dramma che doveva avere il suo epilogo nel sot­
tosuolo della Moika, non mi sembra privo di interesse descri­
vere un po' più lungamente l'essere che il granduca Dimitri,
il deputato Purisc'kevic e io avevamo deciso di sopprimere.
Nato nel 18'7 1 a Pokrowskoie, villaggio posto ai confini
della Siberia occidentale, Gregorio Efimovic era figlio di un
(1) PRINCE YOUSSOUPOFF - L a fi n d e Raspoutine - Paris , 1927.

1 28
mugic ubriacone, ladro e cozzone di cavalli, di nome Efim
Novy. Ladro di cavalli come suo padre (un oarnak, che è in
Siberia la peggiore delle ingiurie), ancor giovane, quel bric­
cone aveva ricevuto dai suoi compagni il soprannome di
"Rasputnik" (il dissoluto, il predatore), donde il suo nome.
Spesso bastonato di santa ragione dai contadini, fustigato
pubblicamente per ordine dell'ispraonik, si sarebbe detto che
queste correzioni non avessero avuto altro risultato che quel­
lo di renderlo più robusto e più resistente.
L'influenza di un prete risvegliò i suoi istinti mistici. Con­
versione di dubbia sincerità : il suo temperamento brutale e
sensuale doveva ben presto orientarlo verso la setta dei fla­
gellanti o khlystys. I proseliti di questa setta pretendevano
nientemeno che di infondere in se stessi il Verbo, di incar­
nare Gesù Cristo, e di ottenere la celeste comunione attra­
verso le più bestiali passioni. Confusione mostruosa, nella
quale sussistono sopravvivenze pagane e superstizioni primi­
tive. Assemblee notturne riuniscono i fedeli in un isba o in
'

una radura ove ardono centinaia di ceri. Questi radenyi han­


no lo scopo di provocare l'estasi religiosa insieme col delirio
erotico. Dopo invocazioni, inni e cantici, cominciano danze
in tondo il cui ritmo va accentuandosi sino a raggiungere
quello di un vortice forsennato. Poiché lo stato di vertigine
è necessario "all'influsso divino", il capo della danza fustiga
quelli tra i danzatori il cui vigore accenna a cedere. Tutti
finiscono col rotolare al suolo in estasi o in convulsione, e il
radenyi termina in un'orgia mostruosa. Ma colui che è pos­
seduto dallo "spirito" non si appartiene più : è lo "spirito"
ad agire in lui e ad assumere la responsabilità del peccato
commesso sotto il suo impulso.
Rasputin era particolarmente disposto a ricevere "l'influs­
so divino", per cui aveva fatto costruire nel proprio cortile
un edificio senza finestre (in apparenza una semplice bania
per bagni a vapore) in cui teneva riunioni misteriose, certo
del genere già descritto, durante le quali si abbandonava a
pratiche mistico-sadiche.
Denunciato da un p rete, lascia il villaggio. A quel tempo
ha trentatré anni. Parte a piedi, come un pellegrino, e visita

1 29
i principali monasteri della Siberia e della Russia, serven­
dosi, per acquistare una reputazione di santità, persino delle
sue mostruose cadute alle quali fa seguire penitenze terri­
bili e spettacolose. Si impone privazioni da fachiro per svi­
luppare la volontà e il magnetismo dello sguardo. Nei con­
venti studia i libri santi. In mancanza di una cultura elemen­
tare, la sua memoria prodigiosa gli permette di raccogliere
nella mente i testi ch'è incapace di assimilare, ma che gli
serviranno non soltanto nei rapporti con gli ignoranti, ma
anche in quelli con i dotti e con la stessa zarina, laureata in
filosofia a Oxford.
A Pietroburgo è accolto nel convento di Sant'Alessandro
Nevsky, dal padre Giovanni da Kronstadt, di cui, da prin­
cipio, sorprende la buona fede e che crede di riconoscere in
questo giovane profeta siberiano "una favilla di Dio".
Questa prima visita alla capitale ha spalancato dinanzi
al contadino astuto e privo di scrupoli nuove prospettive.
Egli torna al villaggio natale con più vaste ambizioni e con
la borsa piena. Dapprincipio frequenta il basso clero, più
o meno colto, ma poi, a poco a poco, riesce ad acquistarsi la
considerazione degli arcipreti e degli igumeni che, anch'essi,
lo vedono "segnato dal sigillo di Dio".
E tuttavia il diavolo non ci perde nulla. A Zaryzin viola
una suora col pretesto di esorcizzarla. A Kazan lo si vede
uscire da un postribolo, spingendo davanti a sé una ragazza
nuda che fustiga a colpi di cintola. A Tobolsk seduce la mo­
glie religiosa di un ingegnere e la innamora di sé al punto
che essa grida il proprio amore dappertutto e si fa una gloria
della sua vergogna. Che importa ! Tutto è permesso a un
khlyst, e un ravvicinamento intimo con lui deve essere con­
siderato come una grazia di Dio.
La sua reputazione di santità diventa ogni giorno più gran­
de. La folla s'inginocchia al suo passaggio : « Nostro Cristo,
nostro salvatore, prega per noi, poveri peccatori ! Dio ti ascol­
terà... ,. E lui : « Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spi­
.
rito Santo, io vi benedico, fratellini miei. Abbiate fiducia!
Cristo tornerà presto. Pazientate in ricordo della sua agonia !
Per amore di Lui, mortificate la vostra carnei :..
1 30
Questo è l'uomo che, nel 1906, un giovane missionario
credente, colto, ma di una ingenuità infantile, presentò al­
l'archimandrita Theofano, rettore dell'accademia teologica di
Pietroburgo e confessore della zarina. E fu proprio quel­
l'onesto e pio prelato a introdurlo e appoggiarlo negli am­
bienti devoti della capitale.
Il profeta siberiano non fece molta fatica a soggiogare una
parte notevole della società pietroburghese, dedita alla ne­
gromanzia e all'occultismo. Le due granduchesse montene­
grine ( 1 ) erano predestinate a diventare le più fervide am­
miratrici dell' "uomo di Dio". Già nel 1900 esse avevano in­
trodotto il mago Filippo alla corte di Russia ; ancora loro, nel
1906, presenteranno Rasputin all'imperatore e all'imperatrice.
La raccomandazione dell'archimandrita Theofano dissiperà gli
ultimi dubbi dei due sovrani: « Gregorio Efimovic è un sem­
plice. Le Vostre Maestà non potranno ascoltarlo senza pro­
fitto, giacché quella che parla per la sua bocca è la voce
della terra russa. Io conosco i suoi peccati : sono innumere­
voli, e nella maggioranza dei casi abbominevoli ; ma v'è in
lui una tale forza di contrizione e una così ingenua fede nella
misericordia celeste, che io mi sento quasi di farmi garante
della sua salvezza eterna. Dopo ogni pentimento, egli è puro
come il bambino appena lavato dall'acqua lustrale. Dio lo
favorisce manifestamente con la sua predilezione ».
Con grande chiaroveggenza e con molta astuzia, Rasputin
si guarderà bene dallo spogliarsi dell'involucro contadine­
sco : « È un mugic di suola grossa che è entrato nel palazzo
imperiale e ne calca i pavimenti », dirà di se stesso. Il suo
ascendente sui sovrani non è dovuto all'adulazione, al con­
trario : egli parla loro rudemente, con una familiarità audace
e persino triviale, con "la voce della terra russa". Maurice Pa­
léologue, allora ambascia tore di Francia a Pietroburgo, rac­
conta come, avendo domandato a una dama se subisse il fa­
scino dello starez, questa gli rispondesse : « lo?... nemmen
per sogno!... Fisicamente mi disgusta ; ha le mani sudice, le
{1) Si tratta della granduchessa Miliza e della granduchessa Stana di Monte­
negro, sorelle della regina d'Italia; la prima aveva sposato il granduca Pietro
Nicol � ievic, la seconda il duca di Linchtenberg. Le due principesse, assai impo­
polan a corte, erano chiamate "Le due cornacchie" a causa del loro colorito
bruno. [N. d. T.(
unghie nere, la barba incolta. Puh !... Confesso, tuttavia, che
mi diverte. Ha un brio e una fantasia straordinari. A volte
è anche molto eloquente ; ha il dono delle immagini e un sen­
so profondo del mistero ... È, a volta a volta, familiare, iro­
nico, violento, allegro, assurdo, poetico. E oltre a ciò, nes­
suna posa. Al contrario, una disinvoltura inaudita, un cini­
smo sbalorditivo... » (1).
Anna Wirubov, dama d'onore e confidente della zarina,
divenne ben presto un'amica e un'alleata preziosa per Ra­
sputin. Quest'Anna Wirubov, nata Taneev, donna priva di
grazia e di bellezza, era stata una delle mie compagne di
gioventù. Diventata nel 1903 dama d'onore dell'imperatrice,
aveva sposato quattro anni dopo l'ufficiale di marina Wi­
rubov. Il matrimonio fu celebrato con gran pompa nella
cappella del Gran Palazzo di Zarskoie Selò, e l'imperatrice
fu testimone per la sposa. Qualche giorno prima della ceri­
monia, l'imperatrice aveva voluto che Anna avesse un col­
loquio con Rasputin. Impartendole la benedizione, Rasputin
aveva detto alla fidanzata : « Il tuo matrimonio non durerà
a lungo, tu non sarai felice ». Predizione che si rivelò esatta.
La giovane coppia s'installò a Zarskoie Selò, in una villa
vicina al Palazzo Alessandro. Una sera, rincasando, Wiru­
bov trovò chiusa la porta di casa e seppe che l'imperatrice
e Rasputin erano da sua moglie. Attese la loro partenza per
entrare nella villa, e fece poi una scenata alla moglie, per­
ché le aveva formalmente proibito di ricevere lo starez. Si
dice anzi che la picchiasse. Anna fuggì e corse a rifugiarsi
dall'imperatrice, scongiurandola di proteggerla contro suo
marito che, così disse, voleva ucciderla. Il divorzio fu pro­
nunziato ben presto.
Quella faccenda, che fece molto chiasso a causa delle
persone che vi si trovarono immischiate, portò con sé con­
seguenze disastrose. L'imperatrice sostenne la sua protetta,
e Rasputin ne approfittò per asservire definitivamente An­
na, che da allora fu soltanto un docile strumento nelle sue
mani.
La Wirubov non era degna dell'amicizia che le dimo-
(l) MAURICE PAUOLOGUE - La Russia des Tzars.
strava l'imperatrice. Il suo attaccamento era sincero, ma non
certo disinteressato. Era l'attaccamento di una creatura in­
feriore e servile per una sovrana inquieta e malata, che essa
si sforza,va di isolare destando la sua diffidenza verso tutte
le altre persone che la circondavano. La sua intimità con
l'imperatrice valeva già ad Anna Taneev una situazione pri­
vilegiata, ma l'apparizione di Rasputin le aprì nuovi oriz­
zonti. Ella era certo troppo limitata per aver mire politiche
personali, ma l'idea di recitare la parte della persona in­
fluente, fosse anche soltanto come intermediaria, la inebria­
va. Grazie a lei, Rasputin verrà messo al corrente dei se­
greti più intimi dei sovrani, e sarà lei a facilitare le sue in­
trusioni continue negli affari di Stato.
L'influenza dello sfarez non tardò a estendersi anche agli
ambienti politici. Postulanti d'ogni genere assediavano la sua
casa : alti funzionari, membri del clero, donne della buona
società, ecc. Egli aveva scovato un prezioso ausiliario nella
persona del terapeuta orientale Badmaiev, individuo tarato
che esercitava la medicina senza diploma e pretendeva di
.
aver portato dalla Mongolia piante medicinali e ricette ma­
giche da lui strappate non senza fatica, così diceva, agli
stregoni tibetani. La verità è ch'egli stesso fabbricava le dro­
ghe procurandosene gli elementi da un farmacista suo com­
plice. Faceva così commercio di stupefacenti, narcotici, ane­
stetici e afrodisiaci che battezzava : Elisir del Tibet, Balsamo
di Nyen-Cen, Essenza di loto nero, ecc. Questi due ciarlatani
erano fatti per comprendersi e associarsi.

Quando una calamità è imminente, sembra che tutto con­


giuri per affrettarla. La disastrosa guerra col Giappone, i tor­
bidi rivoluzionari del 1905, la malattia dello zarevic, furono
altrettante circostanze disgraziate, che, portando seco la
necessità di fare appello all'aiuto celeste, aumentarono nello
stesso tempo il credito dell' "uomo di Dio".
Il funesto accecamento della disgraziata imperatrice Ales­
sandra fu, evidentemente, la carta più preziosa di Rasputin,

1 33
ma non si dirà mai abbastanza ciò che spiega e, fino a un
certo punto, scusa questo accecamento.
La principessa Alice di Hesse aveva fatto il proprio in­
gresso in Russia dietro una bara, ed era salita sul trono senza
aver avuto il tempo di conoscere la sua nuova patria e di ac­
quistare un minimo di familiarità col popolo sul quale era
chiamata a regnare. Diventata immediatamente il punto di
mira di tutti gli sguardi, ella sentì crescere la timidezza e il
nervosismo che le erano peculiari e che la fecero accusare di
freddezza e di indifferenza. Non ci voleva di più perché la
giovane zarina fosse considerata altera e sprezzante. La fede
mistica che ella aveva nella propria missione e il desiderio ar­
dente di venire in aiuto al marito, doppiamente impressio­
nato dalla morte del padre e dalle difficoltà del potere, la
spinsero a occuparsi degli affari di stato. Ben presto si rim­
provererà all'imperatrice di amare troppo il potere, e all'im­
peratore di non esercitarlo abbastanza. Comprendendo di non
essere riuscita a guadagnarsi la simpatia del popolo russo
e, ancor meno, quella della corte e dell'aristocrazia, la gio­
vane sovrana si chiuse sempre più in se stessa.
La sua conversione alla religione ortodossa aveva svilup­
pato in lei la naturale tendenza a un misticismo esaltato che
la preparava a subire l'ascendente di Rasputin, come, in pre­
cedenza, aveva subìto quello dei maghi Papus e Filippo.
Ma fu soprattutto la terribile malattia dello zarevic a fare
dell'infelice zarina uno strumento passivo nelle mani del­
l' "uomo di Dio". Nulla poté scuotere la fiducia di quella
madre in colui che le appariva come il protettore della vita e
della salute del suo bambino. E quel figlio tanto amato e
tanto aspettato, per la vita del quale non cessava di tremare,
era l'erede del trono! Speculando appunto sulle angosce di
un padre e di una madre e sulle loro preoccupazioni dina­
stiche, Rasputin riuscirà a regnare da padrone su tutte le
Russie.
È fuor di dubbio che lo starez possedeva un potere ipno­
tico. Il ministro degli Interni Stolypin, che lottò apertamente
contro di lui, ha raccontato come, allorché egli aveva fatto
chiamare alla sua presenza Rasputin, questi avesse tentato
1 34
di ipnotizzarlo: « Egli fece scorrere su di me i suoi occhi in­
colori e proferì sentenze misteriose e incoerenti tratte dalla
Bibbia, mentre faceva gesti strani con le mani. E io sentivo
ingigantire in me un irresistibile impulso contro quella cana­
glia che mi sedeva di fronte ; egli cominciava a produrre su
di me una forte impressione morale. Nondimeno riuscii a do­
minarmi e lo fermai brutalmente, dicendogli ch'egli era in­
teramente in mio potere » .
Stolypin che, nel 1906, era sfuggito per miracolo a un pri­
mo attentato, fu assassinato qualche mese dopo quel colloquio.
La condotta scandalosa dello starez, la sua occulta in­
fluenza sulle deliberazioni del potere supremo, l'oscenità dei
suoi costumi, finirono tuttavia per preoccupare gli ambienti
più chiaroveggenti della capitale. Persino la stampa, sfidando
i rigori della censura, denunciava l'ignominia del "sant'uo­
mo". Rasputin pensò che fosse prudente eclissarsi, almeno
momentaneamente. Nel mese di marzo del 191 1 riprese il
bordone di pellegrino e partì per Gerusalemme, poi per Za­
ryzin, dove trascorse l'estate in casa di uno dei suo accoliti,
il monaco Eliodoro. Al suo ritorno, nei primi mesi dell'in­
verno, le orge ripresero più sfrenate.
La pretesa santità dello starez non può convincere se non
coloro che lo vedono da lontano. I vetturini di piazza che lo
portano ai banias in compagnia di donne, i camerieri dei ri­
storanti che lo servono durante le orge notturne, i poliziotti
segreti che vigilano sulla sua sicurezza, sanno che cosa si
debba pensare di questa santità. È facile immaginare come
tutto ciò potrà essere sfruttato dal partito della rivoluzione.
Molti di coloro che si sono prestati a introdurlo negli am­
bienti pietroburghesi hanno aperto finalmente gli occhi. L'ar­
chimandrita Theofano, maledicendo il proprio errore e non
potendo perdonarsi di aver introdotto Rasputin a corte, alzò
coraggiosamente la voce contro di lui : ma l'imprudente pre­
lato ottenne semplicemente di farsi relegare in Tauride. Nel­
lo stesso tempo la sede episcopale di Tobolsk veniva affidata
a un contadino ignorante e venale, amico d'infanzia di Ra­
sputin, allo scopo di permettere al procuratore del Santo Si­
nodo di proporre Rasputin per il sacerdozio. La Chiesa or-

1 35
todossa si agitò. Monsignor Ermogene, vescovo di Saratov,
si mostrò particolarmente violento. Circondato da alcuni pre­
ti, tra cui il monaco Eliodoro, antico compagno dello sfarez,
ebbe con questi un colloquio tempestoso. Il candidato al sa­
cerdozio non fu risparmiato : « Maledetto ! ... Sacrilego !.. For­
nicatore ! ... Bestia puzzolente ! ... Vipera del diavolo! ... ». Per
finire, gli sputarono in faccia. Rasputin cercava di rispondere
vomitando le ingiurie più grossolane. Monsignor Ermogene,
ch'era un colosso, lo colpì al cranio con la sua croce petto­
rale : « In ginocchio, miserabile ! ... In ginocchio davanti alle
sante icone ... Domanda perdono a Dio delle tue immonde
contaminazioni ! Giura che non oserai più ammorbare con la
tua presenza il palazzo del nostro beneamato zar ! » .
Rasputin, sudando per l a paura e perdendo sangue dal
naso, si batteva il petto, borbottando preghiere, e giurò tutto
quello che si volle fargli giurare. Ma appena poté scappare
corse a lamentarsi a Zarskoie Selò. La sua vendetta non si
fece attendere : pochi giorni dopo, monsignor Ermogene per­
deva il seggio episcopale, e il monaco Eliodoro veniva ar­
restato e internato in un convento penitenziale. Tuttavia Ra­
sputin non ricevette mai il sacerdozio.
Dopo la Chiesa, ecco agitarsi la Duma. Il deputato Pu­
risc'kevic esclama : « Voglio sacrificarmi e uccidere quella ca­
naglia ! » . Vladimiro Nicolaievic Kokovzov, presidente del con­
siglio, interviene presso lo zar e lo scongiura di rimandare
Rasputin in Siberia. Il giorno stesso Rasputin chiamava al
telefono un amico intimo di Kokovzov : « Il tuo amico pre­
sidente ha cercato di spaventare Papà. Gli ha detto su di me
tutto il male possibile ; però senza alcun successo. Papà e
Mamma mi amano sempre. Puoi telefonarlo da parte mia a
Vladimiro Nicolaievic » . Kokovzov doveva essere esonerato
dalle proprie funzioni, nel 1914, per le pressioni di Rasputin
e della sua banda.
L'imperatore capì tuttavia ch'era necessario fare qualche
concessione all'opinione pubblica. Per una volta tanto tenne
testa alle lamentele dell'imperatrice, e Rasputin fu rimandato
al suo villaggio siberiano.
Per due anni lo starez farà soltanto qualche breve a ppa­
rizione a Pietroburgo, ma continuerà egualmente a essere
consultato e obbedito. Prima di partire ha dato questo avver­
timento : « So che i perfidi mi spiano. Non ascoltateli ! Se mi
abbandonate, perderete vostro figlio e la corona entro sei
mesi ».
Pare che un amico dello starez abbia avuto tra le mani
una lettera di Papus all'imperatrice, scritta verso il 1 9 1 5, che
terminava con queste parole : "Dal punto di vista cabalistico,
Rasputin è un vaso simile a quello di Pandora, e racchiude
in sé tutti i vizi, tutti i delitti, tutte le macchie del popolo
russo. Se quel vaso si spezza, si vedrà il suo terribile conte­
nuto spandersi immediatamente sulla Russia" ( 1 ) .
Nell'autunno del 1912, durante un soggiorno che l a fami­
glia imperiale fece a Spala, in Polonia, un accidente, appa­
rentemente non grave, provocò nello zarevic una terribile crisi
di emofilia che mise in pericolo la sua vita. N ella chiesa di
Spala i popi si davano il cambio per pregare notte e giorno ;
una funzione fu celebrata a Mosca davanti all'icona mira­
colosa della Vergine lverskaia ; a Pietroburgo, il popolo sfi­
lava senza sosta a Nostra Signora di Kazan. Rasputin, tenuto
al corrente della situazione, telegrafò all'imperatrice : "Dio
ha visto le tue lacrime e udito le tue preghiere ; tuo figlio vi­
vrà". Il giorno dopo, la temperatura scendeva ; due giorni più
tardi il bambino era fuori pericolo e la disgraziata zarina
riconfermata nella sua aberrazione.
Nel 1914 Rasputin ricevette da una contadina una coltel­
lata che mise la sua vita in pericolo per varie settimane.
Contro ogni aspettativa guarì dalla terribile ferita e, in set­
tembre, ricomparve a Pietroburgo. Pare che da p rincipio si
tenesse un po' in disparte. L'imperatrice è occupata della sua
ambulanza, del suo laboratorio, del suo treno sanitario. Chi
le sta accanto, afferma che non ha mai avuto una cera mi­
gliore. Fatto nuovo che molti notano e di cui si rallegrano,
Rasputin non si presenta più al palazzo senza prima telefo­
nare. Ma v'è intorno a lui tutta una cricca di personaggi m-
( l ) Citato da MAURICE PALtOLOGUE - La Russia des Tzara.

1 37
fluenti che hanno legato la propria fortuna alla sua, e ben
presto egli è più potente che mai.
Nel luglio 1915 il nuovo procuratore del Santo Sinodo,
Sasarin, fece presente all'imperatore che egli non avrebbe po­
tuto conservar� le proprie funzioni se Rasputin continuava
a dirigere dietro le quinte l'amministrazione ecclesiastica. Egli
ottenne dal sovrano l'ordine di allontanamento dello starez,
ma un mese dopo costui era di ritorno.
CAPITOLO XIV

Alla ricerca di un piano d'azione - La cospirazione - Seduta


d'ipnotismo - Le confidenze dello starez - Egli accetta un
invito alla Moika.

C onvinto della necessità. di agire, ne parlai a lrina con la


quale mi trovai pienamente d'accordo. Speravo di trovare
facilmente un certo numero di uomini risoluti disposti a cer­
care con me il mezzo di eliminare Rasputin. I vari colloqui
ch'ebbi sull'argomento con diverse personalità autorevoli mi
lasciarono però poche illusioni. Persino quelli che al solo no­
me dello starez esplodevano in violente diatribe, diventavano
reticenti quando dicevo loro ch'era ormai il momento di pas­
sare dalle parole ai fatti. Il timore di compromettersi e la
preoccupazione di preservare la loro tranquillità li rendeva
subitamente ottimisti.
Tuttavia il presidente della Duma, Rodzianko mi tenne
tutt'altro linguaggio : « Che cosa si può fare quando tutte
le persone dell'ambiente di corte e tutti i ministri sono crea­
ture di Rasputin? La sola possibilità. di salvezza consisterebbe
nell'uccidere quel miserabile, ma non c'è un solo uomo in
Russia che abbia il coraggio di farlo. Se non fossi così vec­
chio, me ne incaricherei io ,.
Queste parole mi avevano confermato nella mia decisione
di agire. Ma come è possibile preparare a sangue freddo l'as­
sassinio di un uomo? Ho già. ripetuto a sazietà. che non ho
un carattere sanguinario. Nella lotta che si svolgeva in me,
combattevo contro una forza che mi era estranea ; e fu essa
che, a poco a poco, ebbe ragione dei miei ultimi dubbi.
In assenza di Dimitri, trattenuto al Quartier generale, ve­
devo spesso il capitano Suhkotin, ferito di guerra, m CUl'a a

1 39
Pietroburgo. Confidai la mia risoluzione a questo amico SI­
curo e gli chiesi se fosse disposto a darmi il suo aiuto.
Mi rispose affermativamente, senza esitare.
Questa conversazione si era svolta proprio il giorno del
ritorno di Dimitri, col quale
. m'incontrai il giorno dopo. Non
mi nascose che l'idea di sopprimere Rasputin lo ossessionava
da molto tempo, ma che ancora non aveva escogitato i mezzi
per riuscirei. Mi comunicò le impressioni poco incoraggianti
che portava dal Gran quartier generale. Era intimamente per­
suaso che le pozioni propinate all'imperatore come medicine
avessero lo scopo e il risultato di paralizzare la sua volontà.
Aggiunse che avrebbe dovuto tornare di lì a poco al Quar­
tier generale, ma che certo non vi sarebbe rimasto a lungo,
perché il generale Woeikov, comandante del Palazzo, sem­
brava ben risoluto ad allontanarlo dalla persona del sovrano.
Il capitano Sukhotin venne a trovarmi in serata. Gli ri­
ferii la mia conversazione col granduca e ci accordammo su­
bito per fissare un piano d'azione. Fu stabilito che io dovessi
prima di tutto riavvicinarmi a Rasputin e acquistarne la fi­
ducia, allo scopo di ottenere da lui stesso informazioni sulla
sua azione politica.
Non avevamo ancora rinunciato a ogni speranza di allon­
tanarlo con mezzi pacifici, come l'offerta di una grossa som­
ma di denaro. Rimaneva da stabilire quale sarebbe stato il
modo di esecuzione nel caso che fosse apparso inevitabile
ricorrere alla violenza. Proposi di tirare a sorte quello tra noi
che si sarebbe incaricato di abbattere lo starez a colpi di
rivoltella.

Qualche giorno più tardi, la mia amica signorina G ... , in


casa della quale avevo fatto la conoscenza di Rasputin
nel 1909, mi telefonò pregandomi di recarmi da sua madre
il giorno dopo per incontrarmi con Gregorio Efimovic, che
desiderava molto rivedermi.
Il caso sembrava voler facilitare l'impresa. Ma dovetti sor­
montare la repugnanza che provavo all'idea di abusare della
buona fede della signorina G ... , la quale non poteva sospet­
tare le vere ragioni della mia adesione al suo invito.
Il giorno dopo mi recai dunque dai G ... , dove il mio ar­
rivo p recedette di pochi istanti quello dello starez. Lo trovai
molto mutato. Era diventato obeso, il suo volto si era gon­
fiato. Non indossava più il modesto caffettano, ma una tunica
di seta azzurra ricamata e un paio di larghi calzoni di vel­
luto. La disinvoltura che ostentava e la grossolanità delle sue
maniere mi parvero peggiori che nel primo incontro.
Scorgendomi, strizzò l'occhio con un sorrìso. Poi si acco­
stò a me e mi baciò. Feci fatica a dissimulare il disgusto che
provai al suo contatto. Egli sembrava preoccupato e cammi­
nava rapidamente in su e in giù per la stanza. A varie ri­
prese domandò se qualcuno lo avesse chiamato al telefono.
Tuttavia finì per sedersi accanto a me e si mise a interrogarmi
su ciò che facevo. Mi chiese quando dovessi partire per il
fronte. Mi sforzai di rispondere gentilmente alle domande, ma
il suo tono di protezione m'irritava terribilmente.
A vendo appreso tutto ciò che poteva interessarlo sul mio
conto, Rasputin incominciò un discorso incoerente nel quale
parlò di Dio e dell'amore del prossimo. Tentai invano di sco­
prirvi un significato o un qualsiasi accenno personale. Più
lo ascoltavo, più mi pareva evidente che neanche lui capiva
quel che diceva. Mentre perorava in questo modo, notai l'at­
teggiamento di venerazione delle sue adoratrici. Esse beve­
vano le sue parole, piene, per loro, di un profondo signifi­
cato mistico.
Siccome Rasputin amava affermare d'essere in grado di
guarire tutte le malattie, pensai che se gli avessi chiesto di
curarmi avrei facilitato il raggiungimento del mio scopo che
era di accostarmi a lui. Gli parlai dunque della mia salute,
lamentandomi della grande stanchezza che provavo e dell'in­
capacità dei medici a guarirmi.
« Ti guarirò io », mi disse. « I medici non capiscono niente.
Con me, mio caro, tutti guariscono, perché io curo alla ma­
niera di Dio, con rimedi divini e non con la prima droga che
capita. Lo vedrai da te ».
Fu interrotto da uno squillo del telefono. « È certamente
per me », disse nervosamente. « Va un po' a vedere di che si
tratta », ordinò alla signorina G ... Questa si alzò docilmente,
senza mostrare il minimo stupore per quel tono di comando.
La telefonata era proprio per Rasputin. Dopo aver parlato
tornò col viso disfatto, si congedò e uscì rapidamente.
Stabilii di non tentare di rivederlo se non quando egli
stesso ne avesse espresso il desiderio.
Non aspettai a lungo. La sera stessa la signorina G ... mi
fece recapitare un biglietto col quale mi comunicava le scuse
di Rasputin per la sua brusca partenza. Mi pregava di tor­
nare da lei il giorno dopo e di portare la chitarra, per accon­
tentare lo starez, il quale, avendo appreso che cantavo, desi­
derava ascoltarmi. Mi affrettai ad accettare l'invito.
Anche questa volta il mio arrivo dai G ... precedette quello
di Rasputin. Ne approfittai per chiedere alla signorina G ...
perché egli se ne fosse andato tanto in fretta il giorno prima.
« Gli era stato comunicato che una faccenda importante
volgeva al peggio. Ma », si affrettò ad aggiungere « tutto è
accomodato. Gregorio Efimovic si è arrabbiato, ha alzato la
voce, e allora laggiù tutti si sono spaventati e hanno ceduto
alla sua volontà ».
« Laggiù dove? », domandai.
La signorina G ... esitava.
« A Zarskoie Selò », finì per dire controvoglia.
Riuscii poi a sapere che la faccenda che aveva tanto preoc­
cupato lo starez era la designazione di Protopopov al posto
di niinistro degli Interni. Il partito di Rasputin voleva a qua­
lunque costo quella nomina che altre persone sconsigliavano
invece all'imperatore. Era bastato che lo sf'arez si recasse in
persona a Zarskoie Selò per avere partita vinta.
Rasputin arrivò. Sembrava di ottimo umore e nelle migliori
disposizioni d'animo.
« Non siate in collera con me, mio caro, per il modo con
cui mi sono comportato ieri », mi disse. « Che cosa potevo
fare? Bisogna pure punire i malintenzionati ; da qualche tem­
po sono davvero diventati troppo numerosi. Ho accomodato
tutto », continuò rivolgendosi alla signorina G .. c: Son dovuto
.

andare al Palazzo in persona. Arrivando, mi sono incontrato


con Annusc'ka (1). Non faceva che piagnucolare ripetendo
{1) Anna Wirubov.
continuamente : "La faccenda è andata a monte, Gregorio Efi­
movic, non abbiamo altra speranza che in voi. Grazie a Dio,
eccovi qui". Fui ricevuto immediatamente. Lei era di cattivo
umore, lui andava su e giù per la camera a grandi p assi.
Alzai la voce, e si calmarono subito tutti e due, soprattutto
quando li ebbi minacciati di andarmene e di abbandonarli al
loro destino; allora acconsentirono a tutto ciò che volli 11.
Passammo in sala da pranzo. La signorin� G ... ci versò
il tè e offrì a Rasputin una quantità di dolciumi e di leccornie.
« Vedi come è buona e gentile », disse lo starez, « pensa
sempre a me. E tu, hai portato la chitarra ? » .
« Sì, l'ho portata ».
« Ebbene, canta ; ti staremo a sentire 11 .
Feci un grande sforzo su me stesso, presi la chitarra e mi
misi a cantare una romanza zingaresca.
« Canti molto bene, canti con molta anima. Canta ancora
qualche cosa ».
Cantai altre romanze, alcune tristi, altre gaie ; Rasputin
insisteva perché continuassi.
« Vedo che il mio modo di cantare vi piace », gli dissi,
« ma se sapeste come mi sento male ! Non è che mi manchi
l'energia o la voglia di lavorare, e tuttavia non riesco come
vorrei ; mi stanco presto, e la mia salute non si ristabilisce
nonostante le cure dei medici ».
« Ti guarirò io, in un batter d'occhio. Andiamo insieme
dagli zingari e il tuo male sparirà come per incanto 11 .
« Ci sono andato più d'una volta e non ho provato nessun
miglioramento », risposi ridendo.
Rasputin rise anche lui.
« È tutt'altra cosa, caro mio, andarci con me. In mia com­
pagnia ci si diverte assai di più. Vieni, e vedrai che tutto
andrà bene 11 .
E Rasputin raccontò con molti particolari come passasse il
tempo dagli zingari, come cantasse e danzasse con loro.
La signorina G ... e sua madre sembravano molto a disa­
gio. L'intempestiva franchezza del pio starez le imbarazzava.
« Non gli credete », dissero. « Gregorio Efimovic scherza,
e racconta sul proprio conto cose che non sono punto vere > .

1 43
Questo tentativo di difendere la sua reputazione fece an­
dar così in collera Rasputin, che picchiò il pugno sul tavolo
insultando le due donne, le quali tacquero immediatamente.
Poi, volgendosi di nuovo a me :
« Ebbene », riprese, « verrai con me? Io ti guarirò... ve­
drai ... Più tardi mi ringrazierai. Porteremo con noi anche lei ».
E indicò la signorina G ... che si fece tutta rossa. Sua madre
si agitò.
« Gregorio Efimovic », gli disse, « che cosa vi prende? Per­
ché vi calunniate ? e perché immischiate mia figlia in questa
faccenda? Essa vuole soltanto pregare Dio con voi, e voi
volete condurla dagli zingari. È male parlare così ... » .
« Che ti viene in mente ? », l e rispose Rasputin, gettando
su di lei uno sguardo cattivo. « Non sai che con me si può
andare dappertutto senza peccare? Che cosa hai oggi? Quan­
to a te, mio caro », continuò rivolgendosi di nuovo a me,
« non darle retta, fa come ti dico, e tutto andrà bene ».
La proposta di andare dagli zingari non mi sorrideva gran
che, ma, non volendo rifiutare in modo reciso, risposi evasi­
vamente che, appartenendo al corpo dei paggi, mi era vietato
frequentare luoghi di divertimento.
Ma Rasputin era attaccato alla propria idea. Mi assicurò
che mi avrebbe travestito in modo che nessuno ne avrebbe
saputo niente. Nondimeno non ottenne nessuna risposta defi­
nitiva ; gli promisi di telefonargli più tardi.
Lasciandomi, mi disse :
« Voglio vederti spesso. Vieni a prendere il tè da me. Sol­
tanto, avvisami prima ». E mi batté più volte la mano sulla
spalla, familiarmente.

Le nostre relazioni, tanto necessarie all'esecuzione del mio


piano, erano avviate bene. Ma quanto mi costava ravvicinarmi
a Rasputin! Dopo ciascuno dei nostri incontri avevo l'im­
pressione di essermi insudiciato. Gli telefonai in serata per
dirgli che, tutto sommato, non potevo proprio accompagnarlo
dagli zingari, perché il giorno dopo dovevo presentarmi a un
esame, al Corpo dei paggi, per il quale ero poco preparato.
Gli studi richiedevano infatti tutto il mio tempo e dovetti
perciò interrompere gli incontri.
Qualche tempo dopo mi imbattei nella signorina G ...
« Non vi vergognate ? », mi disse. < Gregorio Efimovic
aspetta sempre la nostra visita » .
Accettai la proposta che mi fece, di accompagnarla il
giorno dopo dallo starez.
Quando fummo al canale della Fontanka lasciammo la
carrozza all'angolo della via Gorokhovaia e raggiungemmo
a piedi il numero 64 dove abitava Rasputin. Precauzione ne­
cessaria per chi volesse fargli visita senza attirare l'attenzione
della polizia che sorvegliava la sua casa. La signorina G ...
mi aveva detto che gli agenti incaricati della guardia alla per­
sona dello starez stavano abitualmente sulla scala principale,
per cui salimmo al suo appartamento per quella di servizio.
Venne ad aprirci Rasputin in persona.
« Eccoti, finalmente ! », esclamò. « Ero davvero in collera
con te. Sono parecchi giorni che ti aspetto » .
C i fece entrare dalla cucina nella stanza d a letto, che era
piccola e arredata con molta semplicità. In un angolo, lungo
la parete, v'era uno stretto lettino, coperto di una pelle di
volpe, dono della Wirubova. Accanto al letto v'era un grande
cofano di legno dipinto ; nell'angolo op posto si trovavano le
icone, davanti alle quali ardeva una piccola lampada. I ritratti
dei sovrani pendevano dal muro, insieme con alcune grosso­
lane incisioni riproducenti scene della Bibbia. Di qui pas­
sammo in sala da pranzo dove il tè era già servito.
L'acqua bolliva nel samovar; c'erano sulla tavola una
quantità di piatti con biscotti, paste, noci e ogni genere di
ghiottonerie, coppe di vetro piene di marmellate e di frutta,
e, al centro, un cesto di fiori. I mobili erano di quercia mas­
siccia, le sedie avevano lo schienale molto alto; una volumi­
nosa credenza, piena di vasellame, dominava la stanza. Alcuni
quadri mediocrissimi ornavano le pareti, un lampadario di
bronzo con un paralume di vetro illuminava il tavolo.
L'appartamento aveva un aspetto borghese e spirava
l'agiatezza.
Rasputin ci servì il tè. Da principio la conversazione lan-

1 45
guì, interrotta continuamente dallo squillo del telefono o dal­
l'arrivo di visitatori ch'egli andava a ricevere nella stanza
vicina. Pareva che questo andirivieni lo irritasse. Durante
una delle sue assenze venne recato nella sala da pranzo un
cesto di fiori. V'era appuntato un biglietto.
« Che sia per Gregorio Efimovic? », domandai alla signo­
rina G ...
Mi rispose con un cenno affermativo del capo.
Rasputin tornò subito, non guardò neanche i fiori ; sedette
al mio fianco e si versò una tazza di tè.
« Gregorio Efimovic », gli dissi, « vi offrono fiori come a
una prima donna » (1).
Egli si mise a ridere.
« Tutte queste donne sono delle sciocche, e mi vtztano. Mi
mandano fiori tutti i giorni. Sanno che mi piacciono ».
Poi si rivolse alla signorina G ... :
« Vai un momento nell'altra camera, devo parlare con lui ».
Ella obbedì e uscì dalla sala da pranzo.
Quando fummo soli, Rasputin avvicinò la sedia e mi pre­
se la mano.
« Ebbene, mio caro, il mio appartamento ti va? Vieni dun­
que a trovarmi più spesso, te ne troverai bene ».
E intanto mi guardava fissamente negli occhi.
« Non aver paura di me », continuò con voce carezzevole.
« Vedrai, quando mi conoscerai meglio, che uomo io sia. lo
posso tutto. Se Papà e Mamma mi dànno retta, a maggior ra­
gione puoi darmi retta tu. Li vedrò proprio oggi e dirò loro
che hai preso il tè a casa mia. Ne saranno molto contenti ».
L'idea che i sovrani sarebbero stati messi al corrente della
mia visita non mi garbava molto. Sapevo che l'imperatrice
non avrebbe tardato a informare della cosa la Wirubova, e
che questa, venendo a conoscenza della mia "amicizia" per
lo starez avrebbe certo concepito qualche giusto sospetto, per­
ché conosceva fin troppo bene la mia opinione su Rasputin,
del quale le avevo parlato più volte in altri tempi.
< Sentite, Gregorio Efimovic », gli dissi, « sarebbe preferi­
bile che non parlaste di me. Se i miei genitori fossero infor-
(l) l o italiano nel testo.
mati che vengo da voi, mi farebbero dei rimproveri che vo­
glio evitare a qualunque costo ».
Rasputin si dichiarò d'accordo con me e mi promise di
non dir nulla. Si mise poi a parlare di politica, criticando la
Duma dell'impero.
« Non fanno altro che dir male di me, e questo disturba
lo zar. Ma non ne avranno ancora per molto. Ben presto farò
sciogliere la Duma e manderò i deputati al fronte. Vedranno
allora a che servono le loro chiacchiere, e si ricorderanno
di me ».
« Ma dite un po', Gregorio Efimovic, se aveste veramente
il potere di sciogliere la Duma, come vi comportereste? » .
« Ebbene, mio caro, è una cosa semplicissima. Quando sa­
rai mio amico e mio alleato, saprai tutto. Per il momento ti
dirò soltanto questo: la zarina è davvero una sovrana dallo
spirito saggio e forte, io posso ottener tutto da lei. Quanto
a lui, è un'anima semplice. Non ha la stoffa del sovrano ; è
fatto per la vita di famiglia, per ammirare la natura e i fiori,
ma non per regnare. Questa è una cosa al di sopra delle sue
forze ... Allora noi gli veniamo in aiuto, con la benedizione
di Dio ».
Contenni la mia indignazione e gli chiesi col tono più na­
turale se fosse ben sicuro di coloro che lo circonda vano.
« Come potete sapere, Gregorio Efimovic, ciò che costoro
aspettano da voi e quali siano le loro intenzioni? E se aves­
sero progetti criminosi ? » .
Rasputin ebbe un sorriso indulgente.
« Vuoi dunque insegnare al buon Dio ciò che deve fare ?
Non è senza scopo ch'Egli mi ha inviato a fianco dell'Unto
del Signore per assisterlo. Te lo ripeto, senza di me sarebbero
già tutti · periti. Non ho molti riguardi con loro; se non obbe­
discono alla mia volontà, do un pugno sul tavolo, mi alzo e
me ne vado. Allora mi corrono dietro supplicandomi : "Non
andartene, Gregorio Efimovic. Faremo tutto ciò che vuoi, pur­
ché tu non ci abbandoni". Per questo, mio caro, mi amano
e mi rispettano. L'altro giorno gli parlavo di una persona
alla quale bisognava dare un posto, ma egli rimandava con­
tinuamente la nomina a più tardi. Allora ho minacciato di ab-

1 47
bandonarli. "Me ne andrò in Siberia", dichiarai loro, "e voi
resterete qui soli a marcire. Se vi allontanerete da Dio sarete
causa della perdita di vostro figlio, e allora cadrete negli ar­
tigli del diavolo". Ecco in che modo gli parlo. Ma non ho
ancora finito il mio compito. C'è ancora una quantità di gen­
taglia, a corte, la quale non fa altro che sussurrar loro al­
l'orecchio che Gregorio Efimovic è un cattivo uomo che vuole
perderli ... È assurdo. Perché dovrei volere una cosa simile?
Essi sono buoni e pii ».
« Gregorio Efimovic », risposi, « non basta che l'impera­
tore e l'imperatrice abbiano fiducia in voi. Non ignorate cer­
tamente quel che si dice di voi. E non soltanto in Russia si è
severi sul conto vostro; all'estero i giornali non vi trattano
con molti riguardi. Quindi io penso che se amate veramente
i sovrani, dovreste andarvene per sempre e tornare in Si­
beria. Diversamente, chi sa?, potrebbe darsi che qualcuno
vi facesse un brutto scherzo ».
« Ma, mio caro, tu parli così perché non sai nulla. Dio non
permetterebbe mai una cosa simile. Se Egli si è compiaciuto
di !nviarmi al loro fianco, è che la cosa doveva andare così.
Quanto a ciò che dice la gente da nulla e a ciò che scrivono
gli stranieri, me ne infischio, ci sputo sopra ; non riusciranno
a far male che a se stessi ».
Rasputin si alzò e cominciò a misurare la stanza con pas­
so nervoso. Lo osservavo con attenzione. Era diventato cupo
e preoccupato. Improvvisamente si volse verso me e, chinan­
dosi, mi fissò in viso a lungo. Il suo sguardo mi gelò. Si sen­
tiva in esso una forza immensa. Senza staccare gli occhi da me,
mi passò leggermente una mano sulla nuca e, con voce dolce
e insinuante, mi domandò se volessi bere un bicchiere di vi­
no. Accettai. Andò a prendere una bottiglia di madera, empì
un bicchiere per sé, un altro per me e bevve alla mia salute.
« Quando tornerai a farmi visita? », domandò.
In quel momento la signorina G ... entrò nella s�la da pran­
zo per ricordargli che era ora di andare a Zarskoie Selò.
< E io che chiacchieravo! Avevo del tutto dimenticato di
essere aspettato laggiù. D'altronde, il male non è grande ...
non è la prima volta che mi succede. Qualche volta mi chia-
1 48
mano al telefono, mi mandano a cercare, e . io non ci vado.
Poi, arrivo all'improvviso... Che gioia allora ! Ciò non fa che
dare maggior pregio alla mia visita. Addio, mio caro >, sog­
giunse, e, volgendosi alla signorina G ... , le disse indicandomi :
« È intelligente, molto intelligente, purché qualcuno non gli
rovini lo spirito. Se continua a obbedirmi, tutto andrà bene.
Non è forse vero, piccola mia? Spiegagli bene ciò, perché lo
capisca ... Ebbene, addio; torna a farmi visita ».
Mi abbracciò.
Quando se ne fu andato, la signorina G ... e io rifacemmo
in senso inverso la scala di servizio.
« Non vi pare che ci si senta a proprio agio in casa di
Gregorio Efimovic? », mi disse la ragazza. « E come, in sua
presenza, si dimenticano tutte le miserie di questo mondo!
Ha il potere di dare all'anima un senso di calma e di se­
renità ».
Non volevo contraddirla ; nondimeno le suggerii :
« Gregorio Efimovic farebbe bene · a lasciare Pietroburgo
al più presto possibile » .
« E perché? », fece lei.
« Ma perché si finirà per ucciderlo. Ne sono sicurissimo,
e vi consiglio di usare tutta la vostra influenza per fargli ca­
pire il pericolo che corre. Deve partire ».
« Ma no! », esclamò spaventata. « Una cosa simile non ac­
cadrà mai, Dio non lo permetterà. Capite dunque che egli è
la nostra sola consolazione, il nostro unico sostegno. Sparito
lui, tutto sarà perduto. L'imperatrice ha ben ragione di cre­
dere che sino a che egli sia qui non può accadere nulla di
male a suo figlio. Anche Gregorio Efimovic lo ha affermato :
"Se sarò ucciso, lo zarevic morrà". Già vari attentati sono
stati commessi contro di lui, ma Dio ce l'ha conservato. Ora
è talmente prudente e così ben sorvegliato che noO: c'è nulla
da temere per lui » .
Eravamo giunti alla casa dei G ...
« Quando vi rivedrò? » , mi domandò la mia compagna.
« Telefonatemi quando lo avrete rivisto >.
Ero ansioso di sapere quale impressione avesse p rodotto
.
su Rasputin il nostro ultimo colloquio. La speranza di allon-

1 49
tanarlo senza violenza si faceva sempre più chimerica. Egli
si sentiva potente e credeva di essere perfettamente al sicuro.
Non c'era da pensare a offrirgli denaro perché evidentemente
disponeva di mezzi notevoli, e se era vero che egli lavorava,
sia pure non del tutto coscientemente, per la Germania, è
certo che per questa via si procurava somme infinitamente
più importanti di quelle che noi avremmo potuto mai of­
frirgli.

La mia preparazione militare al Corpo dei paggi mi la­


sciava poca libertà. Rincasavo molto stanco, ma non potevo
riposare; l'ossessione di Rasputin si impadroniva subito di
me. Tentavo di valutare la sua responsabilità, penetravo col
pensiero il mostruoso complotto diretto contro la Russia di
cui egli era l'anima. Si rendeva conto di tutto quel che
faceva? La domanda mi tormentava. Per ore, ripassavo nel
mio spirito tutto ciò che sapevo di lui, tentando di spiegarmi
le contraddizioni del suo carattere e di trovare delle scuse
all'infamia della sua condotta. Poi, al ricordo della sua vita
dissoluta, della sua incredibile mancanza di scrupoli e, so­
prati utto, della sua abominevole ipocrisia nei confronti della
famiglia imperiale, la mia indignazione rinasceva.
A poco a poco, però, da questo ammasso confuso di imma­
gini e di argomenti sorgeva una fisionomia più netta e insieme
più semplice di Rasputin. Era in realtà un contadino igno­
rante, senza princìpi, cinico e avido, spinto da un concorso
di circostanze al sommo del potere. L'influsso illimitato che
esercitava sui sovrani, il culto delle sue ammiratrici, le con­
tinue orge e l'ozio depravante al quale non era abituato, ave­
vano spento in lui persino le ultime vestigia di coscienza.
Ma chi erano le persone che sapevano sfruttarlo tanto abil­
mente e che lo guidavano da lontano senza che egli se ne
rendesse conto? È poco probabile che Rasputin fosse infor­
mato delle vere intenzioni delle sue guide, e sinanche che
ne conoscesse la vera identità ; d'altra parte ricordava rara­
mente il nome delle persone con cui aveva da fare. Usava
dare a ciascuno un soprannome di suo gusto. In una conver-
sazione che avemmo più tardi, facendo allusione a1 suoi mi­
steriosi amici li chiamò "i . verdi". È verosimile che non li
avesse mai visti e che comunicasse con loro per interposta
persona.
« I "verdi" abitano in Svezia. Tu andrai a fare la loro
conoscenza )), mi disse.
« E qui in Russia », gli domandai, « ci sono anche qui dei
"verdi" ? )) .
« No, c i sono soltanto dei "verdastri" che sono amici loro
e nostri. Si tratta di persone intelligenti ».
Qualche giorno dopo, mentre ero àncora immerso nelle
mie riflessioni, la signorina G ... mi telefonò che Ìo starez mi
invitava di nuovo ad andare con lui dagli zingari. Presi a
pretesto gli esami al Corpo dei paggi per declinare l'invito,
e risposi che se Gregorio Efimovic desiderava vedermi sarei
andato a prendere il tè da lui.
Vi andai il giorno dopo. Si mostrò particolarmente gen­
tile. Gli ricordai che aveva promesso di guarirmi.
« Vedrai », mi rispose, « basteranno pochi giorni. Ma pri­
ma prendiamo una tazza di tè, poi andremo nel mio gabi­
netto di lavoro dove nessuno ci disturberà. Io rivolgerò una
preghiera a Dio e toglierò il male dal tuo corpo. Soltanto,
obbediscimi, mio caro, e vedrai che tutto andrà bene l> .
Preso i l tè, Rasputin mi fece entrare per l a prima volta
nel gabinetto di lavoro, una stanzetta ammobiliata con un
divano, qualche poltrona di cuoio e un grande tavolo ingom­
bro di cartacce.
Lo starez mi fece sdraiare sul divano. Poi, guardandomi
fisso negli occhi, mi passò pian piano la mano sul petto, sul
collo e sulla testa. Messosi poi in ginocchio e ponendo le mani
sulla mia fronte, mormorò una preghiera. Il suo volto era
così vicino al mio che non vedevo più se non i suoi occhi.
Rimase così per un tempo abbastanza lungo ; poi, con un
movimento repentino, si rialzò e cqmiilciò a fare dei pas­
saggi di mano su di me.
Il potere magnetico di Rasputin era immenso. Sentivo che
una forza penetrava in me e spandeva una calda corrente
in tutte le mie fibre. Nello stesso tempo un languore s'impa-
droniva di me; il mio corpo si era intorpidito. Tentavo di
parlare, ma la mia lingua non mi obbediva più ; mi sentivo
scivolare a poco a poco in una specie di dormiveglia, come
se mi fosse stato somministrato un potente narcotico. Non
v'erano più che gli occhi di Rasputin che brillavano dinanzi
a me, due raggi fosforescenti che si fondevano in un grande
cerchio, e il cerchio ora si avvicinava ora si allontanava. Udi­
vo la voce dello starez, ma non riuscivo a capire che cosa
dicesse. Rimasi in quello stato, incapace di gridare e di muo­
vermi. Soltanto il mio pensiero era libero, e mi rendevo conto
di cadere a poco a poco sotto il potere di quell'essere fatale.
Sentii allora ridestarsi in me la volontà di reagire contro
l'ipnosi. Questa forza, diventando sempre più grande, mi cir­
condava come una corazza invisibile. Ebbi l'impressione che
tra la sua personalità e la mia si stesse combattendo una
lotta senza misericordia, capii che gli impedivo di dominar­
mi compiutamente. Invano, però, mi sforzai di muovermi :
dovetti attendere che mi ordinasse di alzarmi.
Ben presto distinsi chiaramente la sua figura, il suo volto
e i suoi occhi. Il terribile cerchio luminoso era scomparso
del tutto.
« Per questa volta basta così, mio caro », mi disse Rasputin.
Benché mi osservasse attentamente, era ben lontano dal­
l'immaginare come egli non afferrasse che una parte delle
mie sensazioni : la mia resistenza all'ipnosi gli era sfuggita.
Un sorriso di soddisfazione gli illuminava il viso, e il tono
pieno di sicurezza rivelava la certezza di avermi ormai in
suo potere.
Bruscamente mi tirò per il braccio. Mi sollevai e mi se­
detti. La testa mi girava ; provavo una gran debolezza in
tutto il corpo. Facendo un grande sforzo su me stesso mi riz­
zai in piedi e mossi qualche passo. Le gambe erano come
paralizzate e non mi obbedivano più. Rasputin continuava
a osservare tutti i miei movimenti.
« È la grazia di Dio », mi disse finalmente, « vedrai subito
come ti sentirai meglio » .
Quando mi congedai d a lui, m i fece promettere d i tor­
nare presto.
Dopo quella seduta d'ipnotismo, andai spesso a far visita
a Rasputin. La "cura" continuava, e la fiducia dello starez
nel suo paziente non faceva che aumentare.
« Tu sei veramente un uomo di buon senso, mio caro ),
mi disse un giorno. « Capisci tutto alla prima. Se lo desideri,
ti farò nominare ministro. Perché ridi? Pensi forse che non
sia in grado di fare quel che dico? lo posso tutto, io faccio
tutto ciò che voglio, e tutti mi obbediscono. Vedrai, farò di te
un ministro ».
Parlava con una sicurezza che mi preoccupò seriamente.
Vedevo già lo stupore generale il giorno in cui i giornali aves­
sero annunciato la mia nomina.
« Ve ne prego, Gregorio Efimovic, non fatene nulla. Che
razza di ministro sarei mai io? D'altronde, a che scopo? È
meglio che io vi aiuti senza che nessuno lo sappia ::1> .
« Forse hai ragione », ammise Rasputin ; « faremo come
vuoi ». Poi soggiunse : « Ebbene, vedi, non tutti ragionano
come te. La maggior parte di quelli che vengono da me mi
dicono: "Accomodami la tal cosa, accomodami la tal altra".
Tutti desiderano qualche cosa ».
« E come esaudite queste domande ? ».
« Li mando da un ministro o da qualche altra personalità
autorevole con un biglietto di mio pugno. Qualche volta li
mando direttamente a Zarskoie Selò. In questo modo distri­
buisco i posti ::1> .
« E i ministri vi obbediscono? ».
« Tutti », esclamò Rasputin, « tutti devono a me la loro
posizione. Come vuoi che non mi obbediscano? Sanno be­
nissimo che, se non si mostrassero docili, finirebbero male ...
Tutti mi temono, tutti, e senza eccezione », riprese dopo un
momento di silenzio. « Per imporre la mia volontà, mi basta
battere il pugno sul tavolo. Così dovete essere trattati, voi
aristocratici. Voi mi invidiate le mie passeggiate in scarpe
chiodate per le sale del Palazzo. Voi siete tutti p ieni di spoc­
chia, mio caro, di superbia, che genera il p eccato. Se vuoi

1 53
essere gradito a Dio, devi soffocare in te ogni sentimento
d'orgoglio >.
Rasputin scoppiò in una risata cinica. Era alticcio e in
vena di confidenze.
Mi confessò di quali mezzi si servisse per domare l'or­
goglio:
< Ecco, mio caro », disse fissandomi con uno strano sorriso,

< le donne sono peggiori degli uomini ; bisogna cominciare


da loro. Sì, così procedo io, portandomi al bagno tutte queste
grandi dame. Dico: "Ora spogliatevi, e lavate il mugic". Se
fanno le schizzinose, le convinco in un batter d'occhio, e ...
l'orgoglio, mio caro, non dura ».
Spaventato, ascoltai in silenzio l'orribile racconto che m i
fece e i cui particolari non possono essere riferiti. lo temevo
d'interromperlo. Continuando a parlare, vuotava un bicchiere
dopo l'altro.
« E tu, perché non prendi niente ? Hai paura del vino?
Esso è la migliore delle medicine, guarisce tutti i mali e non è
fatto in farmacia. È il rimedio offertoci da Dio per fortificare
l'anima e il corpo. lo vi attingo anche l� forza immensa di
cui il Signore mi ha fornito. A proposito, conosci Badmaiev ?
Ecco un vero dottore che sa fabbricare da sé tutti i suoi ri­
medi. Quanto ai Botkin e ai Derevenko (1), quelli non ca­
piscono niente. Le erbe di cui si serve Badmaiev sono for­
nite dalla stessa natura ; si trovano nelle foreste, nei campi,
sulle montagne . È Dio che le fa spuntare, e per questo pos­
. .

seggono una virtù divina ».


« Dite, Gregorio Efimovic », domandai timoro15o, « l'impe­
ratore e il principe ereditario vengono forse curati con que­
ste erbe? ».
« Ma certo. Ella stessa e Annusc'ka badano a ciò. Hanno
soltanto paura che Botkin ne venga informato. Io ripeto loro
continuamente : se uno dei vostri medici viene a sapere dei
miei rimedi, la cosa andrà a detrimento dell'ammalato. Per­
ciò agiscono con grande precauzione ».
« Che rimedi sono quelli che somministrate all'imperatore
e allo zarevic? >.
( l ) Medici della famiglia imperiale.

1 54
c: Ce n'è di tutti i generi, mio caro. Allo zar diamo un tè che
fa scendere in lui la grazia divina. La pace regna nel suo
cuore e tutto gli sembra buono e gaio. D'altronde >, proseguì,
c: che razza di zar è? Egli è un bimbo del buon Dio. Vedrai

come accomoderemo le cose più tardi. Allora tutto andrà


per il meglio >.
c: Che cosa volete dire, Gregorio Efimovic, che cos'è che
andrà per il meglio? >.
« Sei ben curioso, tu vorresti sapere... Quando sarà giunto
il momento, saprai tutto >.
Non avevo mai visto Rasputin tanto comunicativo. Evi­
dentemente il vino bevuto gli snodava la lingua. Io non vo­
levo perdere quell'occasione di apprendere più particolari
che mi fosse possibile sugli intrighi che si stavano tramando.
Gli proposi di bere ancora insieme con me. Per un bel po'
di tempo riempimmo i nostri bicchieri in silenzio: Rasputin
scolava il proprio in un fiato, mentre io fingevo di bere. Do­
po aver vuotato una bottiglia di un madera che andava fa­
cilmente alla testa, egli si diresse traballando verso la cre­
denza per prenderne un'altra. Riempii di nuovo il suo bic­
chiere, fingendo di riempire anche il mio, e ripresi la con­
versazione interrotta.
« Vi ricordate, Gregorio Efimovic, di avermi detto poco fa
che volevate che fossi vostro alleato? Acconsento volentieri
ad aiutarvi, ma è necessario che mi spieghiate i vostri piani.
Mi avete detto che ci saranno di nuovo molti cambiamenti,
ma quando? E perché non me ne dite niente ? >.
Rasputin mi guardò fisso, poi socchiuse gli occhi e, dopo
un momento di riflessione, mi disse :
« Ecco che cosa accadrà, mio caro: basta con questa guer­
ra, si è versato fin troppo sangue! È ora di porre un termine
a queste stragi. Il tedesco non è forse nostro fratello? Il Si­
gnore ha detto : "Tu amerai il tuo nemico come se fosse tuo
fratello...". Questa è la ragione per cui la guerra deve cessare.
Lui resiste continuamente. Neanche lei vuoi sentir nulla. Cer­
to qualcuno dà loro dei cattivi consigli, ma a che serve? Se
io ordino qualche cosa, bisognerà bene che si pieghino a:lla
mia volontà ... Ora è ancora troppo presto, non siamo ancora
pronti.
1 55
< Quando avremo finito con questa faccenda, nomineremo

Alessandra reggente durante la minorità di suo figlio. Quanto


a lui, lo manderemo a riposare a Livadia. Ne sarà contentis­
simo. Stanco com'è, ha bisogno di riposo. Laggiù, a Livadia,
vicino ai suoi fiori, sarà più vicino a Dio. Ha sulla coscienza
un bel po' di peccati da farsi perdonare. Tutta una vita pas­
sata in preghiere non gli basterà per farsi perdonare questa
guerra.
« La zarina è una sovrana piena di saggezza, è una seconda

Caterina. Ha già diretto gli affari di stato, in questi ultimi


tempi. E vedrai, più lo farà, meglio andranno le cose. Prima
di tutto, ha promesso di rimandare a casa tutti quei chiac­
chieroni della Duma. Se ne vadano al diavolo! Vedi bene che
hanno escogitato di ribellarsi contro l'Unto del Signore. Eb­
bene, picchieremo nel mucchio. È un pezzo che avrebbero
dovuto essere rimandati a casa. E anche tutti quelli che gri­
dano contro eli me, la disgrazia li colpirà ».
Rasputin si animava sempre più. Sotto l'influenza del
vino, non pensava più a sorvegliarsi dinanzi a me.
« Io sono una belva insidiata », diceva, « tutti gli aristo­

cratici vogliono distruggermi perché sbarro loro la strada.


In compenso, il popolo mi rispetta perché, indossando un
caffetano e con ai piedi i miei grossi stivali, sono riuscito
a diventare il consigliere dei sovrani. È la volontà di Dio.
Dio mi ha dato questa forza. Io leggo i pensieri più intimi
nel cuore degli uomini. Tu hai buon senso, e mi aiuterai.
Ti farò fare certe conoscenze... Ciò ti farà guadagnare de­
naro. Può darsi, d'altronde, che tu non ne abbia bisogno;
può darsi che tu sia più ricco dello zar in persona. Ebbene,
darai questo denaro ai poveri. Tutti sono felici di avere qual­
che soldo di più ».
Risonò una violenta scampanellata. Rasputin trasalì. Evi­
dentemente aspettava qualcuno, ma, tutto preso dalla con­
versazione, aveva assolutamente dimenticato l'appuntamen­
to. Richiamato alla realtà, parve temere che i nuovi venuti
mi vedessero con lui. Si alzò precipitosamente e mi fece en­
trare nel suo gabinetto di lavoro, donde uscì subito. Lo udii
avviarsi verso l'anticamera traballando. Strada facendo urtò
in un oggetto, lo fece cadere e proferì una bestemmia. Le
gambe non lo sostenevano più, però era ancora lucidissimo.
Udii risonare nella sala da pranzo le voci dei nuovi ve­
nuti. Tesi l'orecchio, ma la conversazione si svolgeva a bassa
voce e non potei capire ciò che gli interlocutori dicevano.
La sala da p ranzo era divisa dal gabinetto di lavoro soltanto
da un piccolo corridoio. Socchiusi piano la porta, e, attra­
verso quella della sala da pranzo, rimasta aperta, vidi lo
starez seduto allo stesso posto che aveva occupato durante
il colloquio con me, circondato da sette individui di brutto
aspetto. Quattro di essi avevano lineamenti israelitici molto
pronunciati ; gli altri tre erano biondi e si somigliavano sin­
golarmente tra loro. Rasputin parlava animatamente. I visi­
tatori prendevano note sui loro taccuini, poi si consultavano
a bassa voce. Davano l'idea di un gruppo di cospiratori.
Un pensiero mi attraversò il cervello : che siano questi i
"verdastri" di cui Rasputin mi ha parlato? Più li esaminavo,
più sentivo i miei dubbi dissolversi : quella era una banda
di spie. Mi allontanai dalla porta con disgusto ; avrei voluto
fuggire da quel luogo maledetto, ma poiché la stanza in cui
mi trovavo non aveva che un'unica uscita, mi era impossi­
bile andarmene senza essere scorto.
Dopo un periodo di tempo che mi sembrò eterno, Raspu­
tin ricomparve. Era molto gaio, molto contento di sé. Sen­
tendo di non poter più dominare il senso di repulsione che
m'ispirava, lo lasciai in fretta e uscii di corsa.

Ciascuna delle visite a Rasputin confermava la mia con­


vinzione ch'egli fosse causa delle sventure della Russia e che
con lui sarebbe scomparso il satanico potere che stregava
i nostri sovrani. Mi sembrava che il destino in persona mi
avesse condotto verso di lui perché vedessi con i miei occhi
la parte nefasta ch'egli recitava. Allora, perché attendere?
Risparmiando la sua vita non si faceva che accrescere il nu­
mero delle vittime della guerra e prolungare la sventura
del paese. V'era un solo uomo onesto in Russia che non spe­
rasse nella sua morte�

1 57
Non si trattava dunque più di stabilire se Rasputin do­
vesse scomparire, ma soltanto se spettasse proprio a me to­
glierlo di mezzo. Il primo piano che avevamo concepito,
quello di ucciderlo nel suo stesso appartamento, doveva es­
sere abbandonato. In piena guerra, mentre si preparava una
grande offensiva e nello stato di tensione in cui si trovavano
gli animi, l'aperto assassinio di Rasputin rischiava d'essere
considerato come un atto di ostilità verso la famiglia impe­
riale. Bisognava farlo scomparire senza che nessuno sapesse
mai quali fossero le circostanze· della sua morte né quali no­
mi avessero i suoi uccisori.
Supponevo che i deputati Maklakov e Purisc'kevic, che
avevo udito attaccare violentemente lo starez dall'alto della
tribuna, fossero disposti a consigliarmi e fors'anche a pre­
starmi il loro concorso. Risolvetti di andarli a trovare. Mi
sembrava importante ottenere la partecipazione dei diversi
elementi della nazione. Dimitri apparteneva alla famiglia
imperiale, io ero un membro della nobiltà, Sukhotin era uf­
ficiale ; desideravo che un membro della Duma fosse dei no­
stri. Mi rivolsi dapprima a Maklakov. La conversazione fu
breve. In poche parole gli esposi il mio piano e gli doman­
dai la sua opinione. Maklakov evitò di darmi una risposta
precisa. La sua indecisione e la sua diffidenza si riflettevano
nella domanda che mi fece :
« Perché vi siete rivolto proprio a me ? ».
« Sono stato alla Duma e ho sentito il vostro discorso ».
Ero persuaso che nel suo intimo approvava le mie inten-
zioni. Ma quell'atteggiamento mi deluse. Mancava di fiducia
verso di me o temeva di trovarsi immischiato in una peri­
colosa avventura? Comunque sia, capii in breve che non c'era
da far conto su di lui.
Ben diversa fu l'accoglienza di Purisc'kevic. Appena gli
ebbi comunicato l'intenzione di farla finita con Rasputin,
mi assicurò il proprio concorso con la vivacità e l'ardore
abituali. Credeva tuttavia di dovermi avvertire . che Raspu­
tin era ben sorvegliato e che non mi sarebbe stato facile
arrivare sino a lui.
« È già fatto >, gli dissi.
158
E gli raccontai le visite allo starez e le nostre conversa­
zioni. Gli parlai del granduca Dimitri, del capitano Su­
khotin e anche della mia visita a Maklakov. La riservatezza
mostrata da quest'ultimo non lo stupì; mi promise tuttavia
di parlargli e di convincerlo a unirsi a noi.
Anche Purisc'kevic era d'avviso che Rasputin dovesse
scomparire segretamente. Riunitici con Dimitri e Sukhotin,
risolvemmo che il veleno era il mezzo più sicuro per uccide­
re lo starez senza lasciar tracce dell'uccisione.
La nostra casa della Moika fu scelta come luogo d'esecu­
zione. L'appartamento che facevo sistemare nel sottosuolo si
prestava mirabilmente all'attuazione dei nostri progetti. A
tutta prima questa decisione provocò in me un sentimento
di rivolta : la prospettiva di attirare in casa mia un uomo
che avevo deciso di sopprimere, mi faceva orrore. Chiunque
fosse quell'uomo, non potevo adattarmi all'idea di tramare
la morte di un ospite.
Gli amici condividevano i miei scrupoli ; tuttavia, dopo
lunghe discussioni, risolvemmo di non mutare in nulla i l pia­
no: era necessario salvare il paese a qualunque costo, anche
facendo violenza alle più legittime ripugnanze.
Accettammo il quinto complice che ci propose Purisc'kevic
nella persona di un medico del suo distaccamento, il dottor
Lazovert. Stabilimmo di far prendere a Rasputin una dose
di cianuro di potassio bastante per ucciderlo istantaneamen­
te. Io avrei dovuto restare a quattr'occhi con lui mentre era
in casa mia. Gli altri si sarebbero tenuti pronti a darmi man
forte in caso di bisogno.
Ci ripromettemmo pure che, quali che fossero le conse­
guenze del nostro atto, buone o cattive, non avremmo mai
rivelato la nostra partecipazione all'uccisione di Rasputin.
Qualche giorno dopo questo incontro, Dimitri e Purisc'kevic
partirono entrambi per il fronte.
Nell'attesa del loro ritorno, per consiglio di Purisc'kevic,
andai di nuovo a far visita a Maklakov. Fui gradevolmente
sorpreso dal cambiamento che trovai in lui. Egli approvò
i nostri progetti ; però, quando gli proposi di unirsi a noi,
mi rispose che molto probabilmente affari importanti lo

1 59
avrebbero chiamato a Mosca verso la metà di dicembre. Gli
confidai ugualmente il nostro piano in tutti i particolari.
Mi ascoltò con la massima attenzione ... ma non manifestò
alcun desiderio di prendere parte attiva al complotto.
Quando lo lasciai mi augurò buona fortuna e mi regalò
un rompitesta di caucciù.
« Prendetelo per ogni evenienza », mi disse sorridendo.

Ogni volta che tornavo da Rasputin provavo un senso di


disgusto nei miei riguardi. Quelle visite erano diventate per
me una tremenda tortura. Poco tempo prima del ritorno di
Dimitri e di Purisc'kevic andai a trovarlo un'altra volta.
Era di ottimo umore.
« Perché siete così allegro? », gli domandai.
« Perché ho concluso veramente un buon affare. La cosa
non tarderà molto; ben presto verrà la nostra volta di ral­
legrarci ».
« Di che si tratta, dunque ? », gli chiesi.
« Di che si tratta, di che si tratta? », disse Rasputin fa­
cendomi il verso. « Tu hai paura di me, e per questo hai
smesso di venire a trovarmi. E tuttavia avrei avuto molte
cose interessanti da raccontarti ... Ebbene, non te le dirò, per­
ché hai paura di me e hai paura di tutto. Se tu avessi più
coraggio ti avrei messo al corrente ».
Cercai di spiegargli che le lezioni al Corpo dei paggi
occupavano tutto il mio tempo e che questa era la ragione
per cui in apparenza l'avevo trascurato. Ma non si lasciò
convincere.
« Lo so, lo so.:. hai paura, e i tuoi genitori non ti permet­
tono di venire a casa mia. Tua madre, non è forse vero, è
tutt'una con Elisabetta? E tutte e due hanno un solo pen­
siero : farmi mandar via di qui. Ma non ci riusciranno, nes­
suno ascolterà i loro consigli ; io sono molto amato a Zar­
skoie Selò ».
« Gregorio Efimovic, il vostro atteggiamento a Zarskoie Selò
è diverso da quello che avete altrove. Là non parlate che
di Dio, ed è per questo che si crede in voi e vi si ama ».
1 6o
< E perché, mio caro, non dovrei parlare loro di Dio?
Sono molto religiosi, e questo genere di discorsi piace loro...
Essi capiscono tutto, perdonano tutto e mi apprezzano. Tut­
to il male che si potrà dir loro di me, non servirà a nulla,
perché qualunque cosa venga raccontata, essi non la cre­
dono. Io ho spesso detto loro: "Vedrete che si diffonderanno
delle calunnie sul mio conto. Ricordatevi allora di Cristo che
è stato perseguitato. Anch'Eg1i ha sofferto per la verità".
Essi ascoltano tutti, ma fanno soltanto ciò che detta loro
la coscienza ».
« Quanto a lui », proseguì Rasputin, <t appena si allontana
da Zarskoie Selò presta orecchio a quel che gli dicono le
cattive lingue ; ho anzi avuto molte noie con lui negli ultimi
tempi. Io mi sforzo di fargli capire che bisogna porre un
termine a questa carneficina : "Tutti gli uomini sono fratel­
li", gli dico. "Che cosa importa che siano francesi o tede­
schi ?". Ma nulla serve : egli s'ostina a ripetere che sarebbe
"vergognoso" firmare la pace. Dove mai sia questa vergo­
gna, quando si tratta della salute dei propri fratelli, non lo
so davvero. Altre migliaia di uomini verranno mandati a
morire. È forse meglio così? Lei, invece, è una sovrana buo­
na e saggia. Ma lui, che cosa capisce mai, lui? Non ha quel
che ci vuole per essere imperatore. È un bambino del buon
Dio, ecco che cos'è. Ciò che temo, è che il granduca Nicola
Nicolaievic, se viene a saper qualche cosa, ci metta i bastoni
tra le ruote. Ma, grazie a Dio, è lontano e non ha il braccio
abbastanza lungo per arrivare sin qui. La zarina ha visto il
pericolo, e lo ha fatto spedire il più lontano possibile per­
ché non possa occuparsi di nulla ».
« Secondo me », risposi, « è stato un grande errore quello
di destituire il granduca. Tutta la Russia ha un vero culto
per lui. Non si doveva, in un'ora tanto grave, privare l'eser­
cito del suo capo adorato ».
« Non darti arie d'importanza, mio caro. Si è fatto ciò che
era bene fare » .
Rasputin s i alzò e cominciò a passeggiare i n lungo e in
largo borbottando. Si fermò di botto, si avvicinò rapida-

I6I
mente a me e mi prese la mano. I suoi occhi avevano una
strana espressione.
« Accompagnami dagli zingari ,, mi disse; « se vieni con
me, ti racconterò tutto, nei minimi particolari ,.
Acconsentii, ma in quel momento il telefono squillò : Ra­
sputin era chiamato a Zarskoie Selò. Approfittando del suo
disappunto per il fatto di non poter venire con me dagli zin­
gari, lo invitai a venire a passare una delle prossime sere
alla Moika. Da molto tempo egli desiderava conoscere mia
moglie. Credendo che fosse a Pietroburgo, e sapendo che i
miei genitori erano in Crimea, acconsentì a venire a casa
mia. In realtà, Trina era anch'essa in Crimea, ma io pensavo
che Rasputin avrebbe accettato più facilmente l'invito se
avesse creduto di avere la probabilità di incontrarsi con lei.
Dimitri e Purisc'kevic tornarono dal fronte qualche gior­
no dopo, e fu stabilito che avrei invitato Rasputin alla Moika
per la sera del 29 dicembre. Egli pose come condizione, per
accettare, che io stesso sarei andato a prenderlo a casa sua e
lo avrei riaccompagnato. Mi raccomandò di salire per la sca­
la di servizio e mi disse che avrebbe avvertito il portinaio
che un amico sarebbe venuto a prenderlo a mezzanotte.
Notai con spavento non inferiore allo stupore con quanta
facilità acconsentisse a tutto e appianasse da sé tutte le
difficoltà.
CAPITOLO XV

Il sotterraneo della Moika - La notte del 29 dicembre.

E ssendo solo a Pietroburgo, abitavo allora con i m1e1 co­


gnati nel palazzo del granduca Alessandro. Buona parte della
giornata del 29 dicembre fu occupata nella preparazione
degli esami che dovevano aver luogo il giorno dopo. Appro­
fittai del primo momento di libertà, per passare da casa mia,
alla Moika, e prendere le ultime disposizioni.
Dovevo ricevere Rasputin nell'appartamento che stavo
approntando nel sottosuolo. Un arco divideva in due parti
questo locale : la più grande doveva servire da sala da pran­
zo; dall'altra si staccava la scala a chiocciola di cui ho già
parlato che portava al mio appartamento del pianterreno;
a metà scala era la porta che dava sul cortile. Quella sala,
dal soffitto basso e a volta, era illuminata soltanto da due
finestrelle che davano sul lun·g ofiume della Moika a livello
del marciapiede. I muri erano di pietra grigia, il p avimento
di granito. Per non destare i sospetti di Rasputin, che avreb­
be potuto stupirsi di essere ricevuto in una specie di nuda
cantina, era indispensabile che questa fosse ammobiliata e
sembrasse abitata.
Quando arrivai, trovai gli operai intenti a stendere i tap­
peti e ad appendere le tende. Tre grandi vasi rossi di porcel­
lana cinese ornavano già le nicchie scavate nella parete. Si
stavano portando dal magazzino dei mobili gli oggetti che
avevo scelto : sedie di legno intagliato, coperte di cuoio
annerito dal tempo; poltrone di quercia massiccia a spal­
liera alta, tavolinetti coperti di vecchie stoffe, coppe d'avorio
e una quantità di altri oggetti d'arte. Vedo ancora, in tutti
i particolari, l'arredamento di quella stanza, e, specialmente,
un armadio d'ebano con incrostazioni, il quale conteneva tut­
to un labirinto di piccoli specchi, di colonnine di bronzo e di
cassetti segreti. Su quell'armadio era posato un crocifisso di
cristallo di rocca e argento cesellato, bellissimo lavoro ita­
liano del XVI secolo. Il grande camino di granito rosso era
adorno di coppe dorate, di piatti di maiolica antica e di un
gruppo d'avorio scolpito. Sul pavimento era steso un gran­
de tappeto persiano, e, in un angolo, davanti all'armadio
del labirinto, una pelle d'orso bianco.
In mezzo alla stanza fu collocata la tavola alla quale Ra­
sputin doveva prendere la sua ultima tazza di tè.
Il maggiordomo Gregorio Bujinsky e il cameriere l van mi
aiutarono a disporre i mobili. Li incaricai di preparare il tè
per sei persone, di comprare dolci e biscotti e di andare a
prendere vino in cantina. Dissi che aspettavo gente per le
undici di sera e che potevano ritirarsi nella camera di ser­
vizio sino a che non li chiamassi.
Poiché tutto era in ordine, salii nel mio appartamento
dove mi aspettava il colonnello Vogel per un'ultima ripeti­
zione prima degli esami del giorno dopo. Terminai il lavoro
con lui verso le sei del pomeriggio. Prima di andare a pran­
zo con i miei cognati dal granduca Alessandro, entrai a No­
stra Signora di Kazan. Immerso in profonda preghiera
persi la nozione del tempo. Uscendo dalla cattedrale, dove
credevo di essere rimasto soltanto qualche minuto, fui non
poco sorpreso scoprendo di avervi passato quasi due ore.
Provavo uno strano senso di leggerezza, quasi di felicità.
Mi affrettai verso il palazzo di mio suocero dove pranzai so­
briamente prima di tornare alla Moika.

Alle undici, tutto era pronto nell'appartamento del sot­


tosuolo. Elegantemente ammobiliata e illuminata, la sala sot­
terranea aveva perso il suo aspetto lugubre. Il samovar fu­
mava già sulla tavola, in mezzo ai piatti di l eccornie e di
-
dolciumi che piacevano in modo speciale a Rasputin. Un
vassoio pieno di bottiglie e di bicchieri era posato su una
scansia, antiche lanterne dai vetri colorati illuminavano il
locale dall'alto; le pesanti tende di damasco rosso erano ac·
costate. Nel camino di granito i ciocchi crepitavano e lan·
ciavano faville sul pavimento. Lì dentro si aveva l'impres·
sione di essere separati da tutto il resto del mondo. Sem·
brava che, qualunque cosa potesse accadere, gli avvenimen·
ti di quella notte sarebbero rimasti per sempre sepolti nel
silenzio di quei muri pesanti.
Lo squillo del campanello mi annunciò l'arrivo di Dimi·
tri e degli altri amici. Li introdussi in sala da pranzo. Ri·
masero alquanto silenziosi, esaminando il luogo in cui Ra·
sputin doveva trovare la morte.
Levai dall'armadio del labirinto la scatola che conteneva
il veleno e la posai sulla tavola ove si trovavano i piatti con
i dolciumi. Il dottor Lazovert si infilò un paio di guanti di
gomma, prese i cristalli di cianuro di potassio, li ridusse in
polvere, poi, sollevando la parte superiore dei dolci, sparse
su quella inferiore una dose di veleno sufficiente, secondo
lui, a provocare la morte istantanea di parecchie persone.
Un silenzio impressionante regnava nella stanza. Seguivamo
tutti con emozione i gesti del dottore. Restava ancora da
versare il cianuro nei bicchieri, ma decidemmo di farlo al·
l'ultimo momento affinché non perdesse l'efficacia evaporan·
do. Dovevamo dare l'illusione che la nostra cena stesse ter·
minando, perché avevo avvertito Rasputin che, quando c'e·
rano invitati, mia moglie e io mangiavamo nella sala da
pranzo del sottosuolo, dove poi io rimanevo qualche volta
solo a leggere o a lavorare, mentre gli amici salivano a fu·
mare nel mio studio. La tavola fu messa in disordine, le se­
die spinte indietro, un po' di tè versato nelle tazze. Era sta­
bilito che quando io fossi uscito per andare a prendere lo
starez, Dimitri, Purisc'kevic e Sukhotin, si sarebbero riti­
rati al primo piano e avrebbero fatto sonare il grammofono,
avendo cura di scegliere musichette allegre. Ci tenevo a man­
tenere Rasputin di buon umore e a dissipare dal suo spirito
ogni eventuale diffidenza.
Finiti i preparativi, indossai una pelliccia e mi calcai
sino alle orecchie il berretto di pelo che mi nascondeva com­
pletamente il viso. Il dottor Lazovert, travestito da autista,
mise in marcia il motore e salimmo sull'automobile che aspet­
tava nel cortile davanti alla piccola gradinata. Quando ar­
rivammo da Rasputin dovetti discutere col portinaio ch'era
riluttante a lasciarmi salire. Come mi era stato raccoman­
dato, presi la scala di servizio. Non era illuminata; dovetti
salire a tentoni, e soltanto a fatica trovai la porta dell'appar­
tamento dello starez.
Sonai.
« Chi è? », gridò egli dietro la porta.
Trasalii.
« Gregorio Efimovic », risposi, « sono io che vengo a
prendervi " ·
Udii Rasputin muoversi per l a camera. La catena fu tol­
ta, il grosso catenaccio stridette. Non dirò che mi sentissi
pienamente tranquillo.
Egli aprì ed entrai in cucina.
Era buia. Mi parve che qualcuno mi spiasse dalla ca­
mera vicina. Istintivamente rialzai il bavero e mi calcai il
berretto sugli occhi.
« Perché ti nascondi in quel modo? », mi domandò Ra­
sputin.
« Non eravamo d'accordo che nessuno dovesse sapere che
questa sera uscivate con me? ».
« È vero, è vero. Per questo appunto non ne ho detto pa­
rola ai miei, ho anche mandato via i tainiks ( 1 ) . Ecco, ora
mi vesto ».
Entrai con lui nella sua camera, illuminata soltanto da
una piccola lampada che ardeva davanti alle icone. Rasputin
accese una candela. Notai allora che il letto era disfatto.
Probabilmente aveva riposato un poco. Vicino al letto c'e­
rano la sua pelliccia e il berretto di pelle di castoro, sul pa­
vimento un paio d'alti stivali di feltro. Rasputin indossava
un camiciotto di seta ricamato a fiordalisi. Un grosso cordone
color lampone gli serviva di cintura. Le larghe brache di
velluto nero e gli stivali sembravano nuovissimi. I suoi ca­
pelli erano spazzolati, la barba pettinata con insolita cura.
Quando si avvicinò a me sentii un forte odore di sapone
(l) Agenti della polizia segreta.

z 66
a buon mercato che mi dimostrò come egli si fosse molto
preoccupato della propria toletta. Non lo avevo mai visto
così pulito e così curato.
c Ebbene, Gregorio Efimovic, è ora di muoverei ; la mez-

zanotte è passat a :. .
c E gli zingari, andremo a trovar li? )),

« Non lo so, forse )), risposi.


c Non ci sarà nessuno questa sera da te? :., domandò con

una certa inquietudine nella voce.


Lo tranquillai dicendogli che in casa mia non avrebbe
visto nessuno che non gli piacesse, e che mia madre era m
Crimea.
« Tua madre non mi piace. So che mi odia. È l'amica di
Elisabetta. Esse intrigano insieme contro di me e diffondono
calunnie sul mio conto. La zarina stessa mi ha ripetuto più
volte che sono le mie peggiori nemiche. Guarda, proprio que­
sta sera Protopopov è venuto a trovarmi e mi ha fatto giu­
rare di non uscire in questi giorni. "Ti uccideranno", mi ha
dichiarato. "l tuoi nemici ti preparano un brutto scherzo".
Ma sarà fatica perduta; non riusciranno a nulla, le loro brac­
cia non sono abbastanza lunghe ... Orsù, basta con le chiac­
chiere, andiamo )),
Presi la pelliccia ch'era sulla cassapanca e lo aiutai a
indossarla. Un'immensa pietà per quell'uomo s'impadronì di
me. Mi vergognai dei mezzi abbietti, dell'orribile impostura
di cui mi ero servito. In quel momento provai un senso di
disprezzo per me stesso. Mi chiedevo come avessi potuto con­
cepire un così vile assassinio. Non capivo più come mi fossi
risoluto a ciò.
Guardai con spavento la mia vittima, così tranquilla e
fiduciosa davanti a me. Che ne era della sua chiaroveggenza ?
A che gli serviva il suo dono di predire l'avvenire, di leg­
gere i pensieri altrui, se non vedeva il terribile tranello che
gli era teso? Si sarebbe detto che il destino gettasse un velo
sul suo spirito ... perché giustizia fosse fatta ...
Ma d'improvviso rividi come in un lampo tutte le fasi
della vita infame di Rasputin. I miei rimorsi di coscienza
e il mio senso di pentimento svanirono, cedendo il posto a
una ferma determinazione di condurre a termine l'impresa
iniziata.
Uscimmo sul pianerottolo buio e Rasputin chiuse la porta
dietro di sé. Udii di nuovo risonare per la scala lo stridio
dei catenacci. Eravamo immersi in un'oscurità assoluta. Sen­
tii le sue dita che si aggrappavano brutalmente alla
mia mano.
« Così ti guiderò meglio », mi disse lo starez trascinan­
domi giù per le scale.
La pressione della sua mano mi faceva male, avevo vo­
glia di urlare e di fuggire, ma ero stato preso da una specie
d'intorpidimento. Non ricordo più ciò che mi disse allora,
né se gli risposi. In quel momento desideravo una sola cosa :
uscire al più presto, rivedere la luce e non sentire più il con­
tatto terribile di quella mano. Quando fummo all'aperto il
terrore disparve e ritrovai il mio sangue freddo. Salimmo in
automobile e ci mettemmo in via. Guardai indietro, per ve­
dere se gli agenti ci seguissero. Non vidi nulla, tutto era de­
serto. Facemmo un lungo giro per arrivare alla Moika ed
entrammo nel cortile dove l'automobile si fermò di nuovo
davanti alla piccola scalinata.

Entrando in casa, udii le voci degli amiCI e una canzo­


netta amencana sonata al grammofono. Rasputin tese
l'orecchio:
< Che è ciò », disse, «: c'è una festa in casa tua? ».
< No, mia moglie riceve qualche amico che andrà via su­
bito. Nell'attesa entriamo nella mia sala da pranzo per pren­
dere una tazza di tè ».
Scendemmo. Appena entrato, Rasputin si tolse la pellic­
cia e cominciò a guardare curiosamente l'arredamento. Il
piccolo armadio dai molti cassetti attrasse particolarmente
la sua attenzione. Esso lo divertiva come un giocattolo un
bambino, l'apriva, lo chiudeva, esaminava l'interno e l'e­
sterno.
In quel minuto supremo feci un ultimo tentativo per per­
suaderlo a lasciare Pietroburgo. Il rifiuto che mi oppose fis-
r 68
sò il suo destino. Gli offrii vino e tè. Con mio gran disap­
p unto cominciò col rifiutare l'uno e l'altro. "Che abbia in­
tuito qualche cosa ?", pensai. Ma ero risoluto, comunque
andassero le cose, a non !asciarlo uscir vivo da casa mia.
Ci sedemmo a tavola e la conversazione cominciò.
Passammo in rivista le comuni conoscenze, senza dimen­
ticare la Wirubov. Parlammo naturalmente di Zarskoie Selò.
« Gregorio Efimovic », gli domandai, « perché Protopopov
è stato da voi ? Ha sempre paura di un complotto? �.
« Ebbene, sì, mio caro, sembra che il mio modo franco di
parlare dia noia a parecchia gente. Gli aristocratici non p os­
sono abituarsi all'idea che un semplice contadino passeggi
per le sale del palazzo imperiale ... Sono morsi dall'invidia
e dalla collera ... Ma io non li temo. Non possono nulla con­
tro di me. Io sono protetto contro i pericoli. Si è tentato p iù
volte di uccidermi, ma il Signore ha sempre sventato i com­
plotti. La sventura colpirà tutti coloro che alzeranno la ma­
no contro di me ».
Queste parole di Rasputin risonarono lugubremente nel
luogo in cui egli doveva morire. Ma nulla poteva più tur­
barmi. Mentre egli parlava io non avevo che un'idea · co­
stringerlo a bere vino nei piccoli bicchieri e mangiare
qualche pasticcino.
Dopo aver esaurito i soliti argomenti di conversazione,
Rasputin mi pregò di versargli una tazza di tè. Mi affrettai
a farlo e gli offrii u:u piatto di biscotti. Perché gli offrii pro­
prio i biscotti che non erano avvelenati? ... Soltanto un mo­
mento dopo accostai a lui il piatto con i pasticcini conte­
nenti il cianuro.
Cominciò col rifiutare.
« Non ne voglio », disse, « sono troppo dolci ».
Nondimeno ne prese uno, poi un altro... Lo guardavo con
spavento. L'effetto del veleno avrebbe dovuto manifestarsi
immediatamente ; invece, con mio grande stupore, Rasputin
continuava a parlarmi come nulla fosse.
Gli proposi allora di assaggiare i nostri vini di Crimea.
Rifiutò di nuovo. Il tempo passava. Diventavo nervoso. A

1 69
dispetto del suo rifiuto, empii due bicchieri. Ma, come avevo
fatto prima con i biscotti, inspiegabilmente, evitai di pren­
dere uno di quelli che contenevano il veleno. Mutando idea,
Rasputin accettò il bicchiere che gli tendevo. Bevette con
piacere, trovò il vino di suo gusto e mi chiese se ne facessi­
mo molto in Crimea. Parve stupito di sapere che ne ave­
vamo le cantine piene.
« Versami del madera » , mi disse.
Questa volta volli dargli uno dei bicchieri col cianuro,
ma egli protestò:
<�: Versa nello stesso bicchiere » .

« Non si può, Gregorio Efimovic » , gli risposi, « non si de-


vono mischiare i vini » .
« Tanto peggio, versa qui, ti dico. . » .
.

Dovetti cedere senza insistere nella discussione.


In quel momento, come per errore, feci cadere il bic­
chiere in cui aveva bevuto, e ne approfittai per versargli
il madera in quello che conteneva il cianuro. Rasputin non
fece più abbiezione.
Stavo in piedi davanti a lui e seguivo tutti i suoi movi­
menti, aspettandomi di vederlo crollare da un momento al­
l'altro. Ma egli continuava a bere, lentamente, a piccoli sor­
si, gustando il vino come sanno fare soltanto i conoscitori.
Il suo volto non cambiava. Solo, di tanto in tanto, portava
la mano al collo come se facesse fatica a inghiottire. Si alzò
e mosse qualche passo. Quando gli chiesi che cosa avesse,
rispose :
« Ma niente, semplicemente un po' di prurito in gola :..
Trascorsero alcuni minuti penosi.
« Il madera è buono, dammene ancora », disse. .
Frattanto, il veleno continuava a non agire e lo s'farez
passeggiava sempre in lungo e in largo per la stanza.
Presi un altro dei bicchieri che contenevano cianuro, lo
empii di vino e lo tesi a Rasputin. Lo vuotò come il primo,
ma senza maggiori risultati. Sul vassoio, ora, c'era soltanto
il terzo e ultimo bicchiere. Allora, non sapendo più che cosa
fare, per costringerlo a imitarmi, mi misi a bere anch'io.
Eravamo seduti l'uno di fronte all'altro e bevevamo in si-
1 70
lenzio. Egli mi guardava. I suoi occhi avevano un'espressione
maliziosa. Sembravano dire : "Vedi bene che non c'è niente
da fare, tu non puoi nulla contro di me".
Improvvisamente il suo viso prese un'espressione di col­
lera feroce. Mai mi era parso così spaventevole. Posò su di
me uno sguardo satanico. In quel momento m'ispirò un tale
odio che mi sentii pronto a scagliarmi su di lui per stran­
golarlo.
Un silenzio di cattivo augurio regnava nella stanza. Mi
sembrava che egli sapesse perché lo avevo portato lì e ciò
che stavo facendo. Si svolse tra noi una specie di lotta muta,
strana e terribile. Ancora un istante e sarei stato vinto, an­
nientato. Sotto lo sguardo pesante di Rasputin sentivo il san­
gue abbandonarmi ; un torpore indicibile si impadroniva di
me, la testa mi girava ...
Quando tornai in me lo vidi ancora seduto allo stesso po­
sto, con la testa tra le mani. Avevo ritrovato il mio equili­
brio e gli offrii un'altra tazza di tè.
« Versa >, mi disse con voce spenta. « Ho una gran sete > .
Rialzò l a testa. I suoi occhi erano opachi e mi parve che
evitasse di guardarmi.
Mentre versavo il tè, si alzò e ricominciò ad andare su
e giù per la stanza. Scorgendo la chitarra che avevo lasciata
su una sedia, mi disse :
« Suonami qualche cosa di allegro, mi piace ascoltarti > .
Mi era difficile cantare in un simile momento, soprattutto
qualche cosa di allegro.
« Non ne ho proprio voglia >, confessai. Tuttavia presi la
chitarra e incominciai una canzone triste.
Egli sedette e ascoltò, dapprima con attenzione, poi chi­
nò il capo e chiuse gli occhi. Mi parve che si fosse assopito.
Quando ebbi terminato la romanza, riaprì gli occhi e mi
guardò tristemente.
« Canta ancora un po'. Questa musica mi piace molto,
ci metti tanta anima! » .
Mi rimisi a cantare. La mia voce mi sembrava irricono­
scibile. Il tempo passava, la pendola segnava già le due e
mezzo dél mattino... Erano già due lunghe ore che quell'in-
cubo durava. "Che cosa succederà", mi dissi, "se i miei ner­
vi cedono?".
Sembrava che al piano di sopra gli altri perdessero la
pazienza. Il rumore che giungeva sino a noi non faceva che
aumentare. Temevo che gli amici, non potendone più, fa­
cessero irruzione nel sottosuolo.
« Perché fanno tanto rumore? », mi domandò Rasputin
rialzando il capo.
« Sono probabilmente i miei invitati che se ne vanno > ,
gli risposi, « salirò un momento per vedere che cosa accade >.
Al piano di sopra, nel mio studio, Dimitri, Purisc'kevic
e Sukhotin, con la rivoltella in pugno, si precipitarono verso
di me e mi fecero domande su domande.
« Ebbene, è fatto? è finito? ».

« Il veleno non ha agito », risposi.


Stupefatti, tutti tacquero.
« Non è possibile », esclamò il granduca.
« E tuttavia la dose era enorme ! Ha mandato giù tutto? »,
domandarono gli altri.
« Tutto », risposi.
Dopo una breve discussione stabilimmo di scendere tutti
insieme, di gettarci addosso a Rasputin e di strangolarlo.
Eravamo già per le scale quando mi venne il timore di com­
promettere così tutta la faccenda. L'apparizione improvvisa
di tanti estranei avrebbe certamente destato i sospetti di
Rasputin, e chi poteva sapere di che cosa fosse capace quel­
l'essere diabolico?
Non senza fatica, convinsi gli amici a }asciarmi agir solo.
Presi la rivoltella di Dimitri e scesi nel sotterraneo.
Rasputin era sempre seduto là dove lo avevo lasciato.
Aveva la testa del tutto china e respirava a fatica. Mi avvi­
cinai silenziosamente e sedetti al suo fianco; non badò affatto
a me. Dopo qualche minuto di un terribile silenzio, alzò il
capo e volse verso di me gli occhi senza sguardo.
« Vi sentite male? > , gli domandai.
c: Sì, ho la testa pesante e un senso di bruciore allo sto­

maco. Dammi un altro bicchierino di vino. Mi farà bene ».


Gli versai del madera, che tracannò d'un fiato, dopo di
1 72
che si rianimò e tornò allegro. Vidi che era lucidissimo e
che ragionava come al solito. A un tratto mi propose di an­
dare dagli zingari. Rifiutai col pretesto ch'era troppo tardi.
c Non fa nulla », disse. « Ci sono abituati ; qualche volta

mi aspettano tutta la notte. Mi succede di essere trattenuto


a Zarskoie Selò per questioni importanti, o semplicemente
per parlare di Dio... Allora mi reco direttamente da loro in
automobile. Anche il corpo ha bisogno di riposo... Non ti par
giusto ciò che dico? I pensieri sono tutti per Dio, ma il corpo
è per gli uomini. Ecco ! » , concluse con una lasciva strizza­
fina d'occhi.
Non mi aspettavo certo di udire parole come queste da
un uomo al quale avevo fatto ingerire una dose enorme del
più inesorabile dei veleni. Ero soprattutto colpito dal fatto
che Rasputin, il quale, per una straordinaria intuizione, a f­
ferrava e indovinava tutto, fosse così lontano dal pensiero
che stava per morire. Come mai i suoi occhi penetranti non
avevano visto che tenevo dietro la schiena una rivoltella
che, da un momento all'altro, poteva essere pun tata contro
di lui ?
Volsi macchinalmente il capo e scorsi il crocifisso di cri­
stallo. Mi alzai per avvicinarmi ad esso.
« Che hai da guardare così a lungo quel crocifisso? :..
mi domandò Rasputin.
« Mi piace molto », gli risposi, c è così beli o! >.
« Infatti, è molto bello », convenne, < e deve costar caro.
Quanto lo hai pagato? >.
Così dicendo fece qualche passo verso di me e, senza
aspettar la risposta, soggiunse :
« A me invec e piace di più questo armadio >.

Si avvicinò al mobile, lo aprì e si rimise a esaminarlo.


« Gregorio Efimovic > , gli dissi, c: fareste meglio a guar-
dare il crocifisso e a dire una preghiera >.
Rasputin mi gettò uno sguardo stupito, quasi spaventato.
Vi scorsi un'espressione nuova, che non conoscevo. Quello
sguardo aveva qualche cosa di dolce e di sottomesso insieme.
Mi venne vicinissimo e mi guardò bene in faccia. Si sarebbe
detto che finalmente avesse letto nei miei occhi qualche co-

1 73
sa che non si aspettava di leggervi. Capii che il momento
supremo era giunto.
"Signore", implorai, "dammi la forza di farla finita".
Rasputin stava sempre ritto dinanzi a me; immobile, con
la testa china e gli occhi fissi sul crocifisso. Alzai lentamente
la rivoltella.
"Dove è meglio mirare?", mi chiesi. "Alla tempia o al
cuore ?. " .
Un brivido mi scosse tutto; il mio braccio si stese. Mirai
al cuore e premetti il grilletto. Rasputin gettò un urlo e si
abbatté sulla pelle d'orso.
Per un momento fui terrorizzato scoprendo come sia fa­
cile uccidere un uomo. Un semplice gesto, e quello che un
attimo prima era un essere vivo, giace a terra come una ma­
rionetta cui siano stati tagliati i fili.
All'eco dello sparo gli amici erano accorsi. Nella fret­
ta uno di essi aveva urtato un interruttore elettrico, per cui
eravamo piombati nell'oscurità. Qualcuno venne a sbattere
contro di me e gettò un urlo; io non mi movevo per tema di
calpestare il cadavere. Finalmente tornò la luce.
Rasputin era steso sul dorso. A tratti, i suoi lineamenti
si contraevano; anche le sue mani erano contratte. Aveva
gli occhi chiusi. Il camiciotto di seta era arrossato da una
macchia sanguigna. Ci chinammo sul suo corpo per �sami­
narlo. In capo a qualche minuto lo starez, che non aveva
più riaperto gli occhi, cessò di muoversi. Il dottore stabilì
che la palla aveva attraversato la regione del cuore. Non
v'erano più dubbi : Rasputin era proprio morto. Dimitri e
Purisc'kevic lo tolsero di sulla pelle d'orso e lo deposero sul
pavimento. Spegnemmo la luce e salimmo nel mio apparta­
mento dopo aver chiuso a chiave la porta del sotterraneo.
Eravamo pieni di speranza, perché avevamo la convin­
zione che quell'avvenimento avrebbe salvato la Russia e la
dinastia dalla rovina e dal disonore. Conformemente al no­
stro piano, Dimitri, Sukhotin e il dottore dovevano fingere
di riportare Rasputin a casa sua, per il caso che la polizia
segreta ci avesse seguiti a nostra insaputa. A tale scopo, Su­
khotin si sarebbe fatto passare per lo starez indossando la
1 74
sua pelliccia e il suo berretto e sarebbe uscito in compagnia
di Dimitri e del dottore nell'automobile scoperta di Purisc'ke­
vic. Dovevano poi tornare alla Moika nella vettura chiusa
del granduca per prendere il cadavere, che sarebbe stato
trasportato nell'isola Petrovski.
Purisc'kevic e io restammo alla Moika. Attendendo il ri­
torno degli amici, parlammo dell'avvenire della patria, li­
berata ormai per sempre dal suo cattivo genio. Come imma­
ginare che coloro ai quali la morte di Rasputin stava per sle­
gare le mani, non avrebbero voluto o saputo approfittare
di quel momento unico?
Mentre parlavamo, fui preso improvvisamente da una
strana inquietudine, e un subito impulso mi spinse a scen­
dere nel sottosuolo dove stava il corpo di Rasputin. Que­
sti giaceva nel punto stesso in cui lo avevamo lasciato. Gli
tastai il polso e non percepii alcuna pulsazione. Era proprio
morto. Non so perché, afferrai improvvisamente il cadavere
per le braccia e lo scossi violentemente. Si piegò da un lato,
poi ricadde.
Dopo essere rimasto per qualche tempo accanto a esso,
mi disponevo ad andarmene quando la mia attenzione fu
richiamata da un trasalimento quasi impercettibile della pal­
pebra sinistra. Mi chinai su di lui e lo osservai con atten­
zione; fremiti leggieri contraevano il suo viso.
Di botto, vidi spalancarsi l'occhio sinistro... Qualche
istante dopo la palpebra destra cominciò a tremare a sua
volta, poi si sollevò. Vidi allora i due occhi di Rasputin, due
occhi verdi di vipera, fissi su di me con un'espressione di
odio satanico. Il sangue mi gelò nelle vene, tutti i miei mu­
scoli assunsero la rigidezza della pietra. Volevo fuggire, chia­
mare aiuto, ma le gambe si rifiutavano di obbedire e nessun
suono mi usciva dalla gola contratta.
Ero come in un incubo, inchiodato alle lastre di granito.
Allora accadde una cosa atroce. Con un movimento su­
bitaneo e violento, Rasputin balzò in piedi, con la schiuma
alla bocca. Era una visione spaventevole. Un ruggito sel­
vaggio risonò sotto la volta e io vidi le sue mani convulse
brancolare nell'aria. Poi si gettò su di me ; le sue dita cer-

' 75
cavano di afferrarmi alla gola, e si affondavano come tena­
glie nella mia spalla. Gli occhi gli uscivano dalle orbite, il
sangue colava dalle sue labbra.
Con voce bassa e rauca, Rasputin continuava a chiamar­
mi per nome.
Sarebbe impossibile descrivere l'orrore dal quale fui in­
vaso. Tentai di liberarmi dalla stretta, ma ero preso come in
una morsa. Allora cominciò tra noi una lotta terribile.
Quell'essere che moriva avvelenato, con la regione car­
diaca attraversata da una palla, quel corpo che le potenze
del male sembravano aver rianimato per vendicarsi della
loro sconfitta, aveva qualche cosa di così spaventoso, di così
mostruoso, che non posso evocare questa scena senza un bri­
vido d'orrore.
Mi parve di comprendere meglio di quanto lo avessi com­
preso sino a quel momento chi fosse veramente Rasputin.
Provavo l'impressione di aver da fare con Satana in per­
sona, incarnato in quel contadino, il quale mi aveva affer­
rato con i suoi artigli per non }asciarmi mai pm.
Con uno sforzo sovrumano riuscii a liberarmi dalla sua
stretta.
Egli ricadde sul dorso, rantolando paurosamente e strin­
gendo nel pugno la mia spallina che aveva strappata du­
rante la lotta. Ora giaceva nuovamente immoto sul pavi­
mento. In capo a qualche istante, si mosse. Balzai sulle scale
chiamando Purisc'kevic ch'era rimasto nel mio studio.
« Presto, presto, scendete », urlai; « è ancora vivo! l) ,
In quel momento sentii un rumore dietro di me; afferrai
il rompitesta di caucciù che, "per ogni evenienza", mi aveva
dato il deputato Maklakov e mi gettai giù per la scala, se­
guito da Purisc'kevic che toglieva la sicura al revolver.
Trascinandosi sulle ginocchia e sul ventre, rantolando e
ruggendo come una belva ferita, Rasputin si arrampicava
rapidamente per gli scalini. Raccolto su se stesso, compì un
ultimo sforzo e riuscì a raggiungere la porta segreta che da­
va sul cortile. Sapendo che quella porta era chiusa a chiave,
mi collocai sul pianerottolo superiore, stringendo fortemente
m pugno il rompitesta di caucciù.
Ma quale non fu la mia stupefazione e il mio spavento
vedendo la porta aprirsi e Rasputin scomparire nel buio
della notte ! Purisc'kevic si slanciò all'inseguimento. Due
spari risuonarono nel cortile. Il pensiero che potesse sfug­
girei mi era insopportabile. Uscendo dalla scalinata princi­
pale corsi lungo la Moika per fermare Rasp utin alla porta
d'uscita, nel caso che Purisc'kevic non lo avesse colpito.
Il cortile aveva tre uscite. Soltanto quella di mezzo non
era chiusa a chiave. Vidi attraverso il cancello che Rasputin
si dirigeva proprio verso di essa. Risonò un terzo sparo, poi
un quarto... Vidi Rasputin barcollare e cadere accanto a un
mucchio di neve. Purisc'kevic corse sino a lui, restò qualche
secondo vicino al corpo, poi, convintosi che questa volta tut­
to era finito, si diresse a grandi passi verso la casa.
Lo chiamai, ma non mi udì.
Il lungofiume e le vie adiacenti erano deserte ; v'erano
molte probabilità che gli spari non fossero stati uditi. Rassi­
curato su questo punto, entrai nel cortile e mi avvicinai al
mucchio di neve dietro il quale era caduto Rasputin, che non
dava alcun segno di vita. Ma in quel momento vidi accor­
rere da un lato due dei miei servitori, dall'altro un agente di
polizia, tutti e tre richiamati dalle detonazioni.
Andai incontro all'agente e mi rivolsi a lui collocandomi
in modo da costringerlo a voltare le spalle al punto in cui
giaceva Rasputin.
c: Altezza », disse quello riconoscendomi, < ho udito alcuni

spari. Che cos'è accaduto? ».


« Niente di grave », risposi, « uno stupido scherzo. Questa
sera avevo una piccola riunione in casa ; e uno dei miei ami­
ci, che ha bevuto un p o' troppo, si è divertito a sparare qual­
che colpo e a disturbare inutilmente la gente. Se qualcuno
ti interroga, ti basterà rispondere che non è accaduto nulla
e che tutto va bene ».
Così dicendo, lo riaccompagnai sino alla p orta. Poi tor­
nai verso il cadavere, accanto al quale stavano i due dome­
stici. Rasputin, che era sempre allo stesso posto, raggomito­
lato su se stesso, aveva tuttavia cambiato posizione.
"Dio mio", pensai, "è ancora vivo !".

1 77
Al solo pensiero che potesse rialzarsi di nuovo, lo spaven­
to mi invase. Corsi verso la casa e chiamai Purisc'kevic che
era scomparso. Mi sentivo male, vacillavo; udivo sempre la
voce sorda di Rasputin chiamarmi per nome. Benché bar­
collante, arrivai sino al gabinetto di toletta e bevetti un bic­
chier d'acqua. In quel momento entrò Purisc'kevic.
<! Ah ! eccovi qui ! E io che vi cercavo dappertutto »,
esclamò.
Avevo la vista appannata ; credetti di esser sul punto di
cadere. Purisc'kevic mi sostenne e mi accompagnò nello stu­
dio. C'eravamo appena seduti, quando il cameriere venne ad
annunciarmi che lttgente di polizia col quale avevo parlato
poco prima desiderava vedermi ancora. Gli spari erano stati
uditi al posto di polizia, e l'agente di servizio era stato chia­
mato a dare spiegazioni su ciò che era accaduto. Poiché la
sua versione non era stata giudicata soddisfacente, la po­
lizia insisteva per avere particolari più precisi.
Vedendo entrare l'agente, Purisc'kevic gli disse con voce
forte :
« Hai sentito parlare di Rasputin? Era lui che tramava
la perdita della nostra patria, quella dello zar e dei soldati
tuoi fratelli, era lui che ci tradiva a profitto dei tedeschi,
capisci? ».
L'agente, che non comprendeva che cosa significasse tutto
ciò, se ne stava zitto, con un'espressione inebetita.
« E sai chi sono io? », proseguì Purisc'kevic. c: Tu hai da­
vanti a te Vladimiro Mitrofanovic Purisc'kevic, membro del­
la Duma. I colpi di pistola che hai sentito hanno ucciso Ra­
sputin. Se ami la patria e ]o zar, non dirai nulla :..
Sgomento, ascoltavo quelle parole stupefacenti, pronun­
ciate così in fretta che non ebbi tempo d'intervenire. Pu­
risc'kevic era talmente eccitato che non si rendeva conto di
ciò che diceva.
« Avete fatto bene », finì col dire l'agente. < Non riferirò
nulla, ma, se sarò obbligato a prestar giuramento, bisognerà
pure che dica tutto ciò che so; nascondere la verità, sarebbe
un peccato :..
E così dicendo uscì, molto impressionato.
Purisc'kevic gli corse dietro.
In quel momento il cameriere venne a dirmi che il cada­
vere di Rasputin era stato trasportato sul pianerottolo in­
feriore della scala. Mi sentivo molto male; la testa continuava
a girarmi, potevo appena camminare. Mi alzai a fatica, presi
macchinalmente il rompitesta di caucciù e uscii dallo studio.
Scendendo la scala, scorsi il corpo di Rasputin disteso
sul pianerottolo. Il sangue sgorgava dalle su� numerose fe­
rite. Un lampadario lo illuminava dall'alto, mettendo in
evidenza i minimi particolari del suo volto sfigurato. Era
uno spettacolo profondamente ripugnante.
Avevo voglia di chiudere gli occhi e di fuggire molto lon­
tano, di dimenticare, non fosse che per un istante, l'orribile
realtà. E nondimeno, nonostante tutto, mi sentivo attirato
verso quel cadavere. La testa mi scoppiava, le mie idee si
accavallavano. Ebbi allora qualcosa di simile a un accesso di
follia. Mi buttai su quel corpo e cominciai a colpirlo rab­
biosamente col rompitesta di cui ero armato. In quel mo­
mento non conobbi più né legge umana né legge divina.
Purisc'kevic mi disse più tardi che quella scena era stata
talmente orribile che mai avrebbe potuto dimenticarla.
Quando, con l'aiuto di lvan, m'ebbe strappato il cadavere
dalle mani, ero svenuto.
Nel frattempo Dimitri, Sukhotin e il dottor Lazovert tor­
narono con l'automobile chiusa per prendere il corpo di Ra­
sputin. Quando Purisc'kevic ebbe narrato loro ciò ch'era
accaduto, risolvettero di !asciarmi tranquillo e di andarsene
senza di me. Avvolsero il cada vere in una grossa tela e lo
caricarono sull'automobile che partì per l'isola Petrovski.
Là, dall'alto del ponte, lo buttarono nel fiume.

Quando tornai in me, mi parve di uscire da una grave


malattia e di respirare a pieni polmoni, come dopo un ura­
gano, l'aria fresca di una natura purificata. Mi sentivo ri­
vivere. Aiutato dal mio cameriere, feci sparire tutte le tracce
di sangue che potevano tradirei. Messo in ordine e ripulito
l'appartamento, uscii nel cortile. Dovevo p rendere alcune

1 79
precauzioni : si trattava di spiegare i colpi di rivoltella. Ed
ecco ciò che immaginai : uno dei miei invitati, avendo bevuto
più del lecito, uscendo aveva avuto la stupida idea di spa­
rare a uno dei cani da guardia.
Chiamai i due domestici che avevano assistito alla fine
del dramma e spiegai loro quel ch'era accaduto in realtà.
Mi ascoltarono in silenzio e mi promisero di serbare il se­
greto. Erano quasi le cinque del mattino quando lasciai la
Moika per tornare al palazzo del granduca Alessandro.
All'idea che il primo passo per salvare la Russia era stato
fatto, mi sentivo pieno di coraggio e di fiducia.
Entrando in camera mia, trovai mio cognato Teodoro che,
nell'attesa angosciosa del mio ritorno, non aveva potuto chiu­
dere occhio.
« Eccoti finalmente, Dio sia lodato! », mi disse. « Eb­
bene? ».
« Rasputin è stato ucciso », risposi, « ma in questo mo­
mento non sono in grado di parlare, casco dalla stanchezza �.
Prevedendo che il giorno seguente ci sarebbero stati in­
terrogatori, perquisizioni, fors'anche denunce, e che avrei
avuto bisogno di tutte le mie forze per far fronte alla si­
tuazione, andai subito a letto e mi addormentai di un sonno
profondo.
CAPITOLO XVI

Interrogatori - Al palazzo del granduca Dimitri - Delusione.

D ormii fino alle dieci. Avevo appena aperto gli occhi, che
un domestico venne a dirmi che il generale Grigoriev, capo
della polizia del nostro quartiere, desiderava vedermi per
parlarmi di una faccenda molto importante.
c: La vostra visita », gli dissi < è provocata probabilmente

dalle rivolte1late sparate nel cortile di casa mia :�>.


« Appunto. Sono venuto per apprendere da voi tutti i
particolari del fatto. Ieri sera Rasputin non era tra i vostri
invitati? :�>.
« Rasputin non viene mai a casa mia », risposi.
« Gli è che i colpi di rivoltella sono stati uditi proprio
nel momento in cui è stata segnalata la sua scomparsa, e il pre­
fetto di polizia mi ha dato ordine di fargli sapere al p iù
presto che cosa è accaduto in casa vostra, questa notte ]},
L'immediato ravvicinamento tra i colpi di rivoltella spa­
rati alla Moika e la scomparsa di Rasputin poteva essere
gravido di conseguenze. Prima di rispondere dovetti riflet­
tere e pesare attentamente le mie parole.
« Ma chi vi ha dato la notizia che Rasputin sia scom­
parso? " ·
Dal racconto fattomi dal generale Grigoriev risultò che
l'agente, impaurito, si era deciso a fare un rapporto ai p ro­
pri capi e aveva rivelato le parole imprudenti di Purisc'kevic.
Mi sforzai di mantenere un atteggiamento indifferente. Ero
legato dal giuramento che ci eravamo scambiati di non divul­
gare il nostro segreto, in considerazione della gravità della
situazione politica, e c'era ancora speranza di p oter nascon­
dere la verità.

181
Sono lieto, generale », dissi, « che siate venuto a prendere
c:

informazioni personalmente, giacché sarebbe increscioso che il


rapporto di un agente di polizia che ha capito male ciò che gli
è stato detto provocasse spiacevoli malintesi ».
Gli propinai allora la storiella del cane e dei colpi di ri­
voltella sparati da uno dei miei invitati, ubriaco. Aggiunsi
che, quando l'agente di polizia era accorso, attirato dagli spari,
Purisc'kevic, il solo dei miei invitati che non se ne fosse an­
cora andato, si era slanciato verso di lui e si era messo a par­
lare molto in fretta.
« Ignoro che cosa si siano detti », continuai, « ma, da quanto
mi avete raccontato, immagino che Purisc'kevic, essendo ubria­
co, abbia parlato del cane paragonandolo forse a Rasputin ed
esprimendo il rammarico che l'ucciso fosse il cane, non lo sta­
rez. Evidentemente, l'agente non ha capito nulla di ciò che gli
è stato detto ».
La mia spiegazione parve soddisfarlo; tuttavia disse che
desiderava sapere quanti e quali, oltre il granduca e Purisc'ke­
vic, fossero i miei invitati.
« Preferisco non farvi i loro nomi », risposi, « perché non
vorrei che per una faccenda così poco importante fossero ob­
bligati a subire un interrogatorio ».
c: Vi ringrazio molto dei particolari che mi avete fornito » ,

disse i l generale. < Ripeterò a l prefetto d i polizia ciò che mi


avete detto ».
Gli dissi di far sapere al prefetto che desideravo parlargli
e che lo pregavo di fissarmi un appuntamento.
Dopo che il generale se ne fu andato, fui avvertito che la
signorina G... mi chiamava al telefono.
« Che cosa avete fatto di Gregorio Efimovic? » , esclamò
ella.
« Gregorio Efimovic? Che strana domanda ! » .
« Ma come?. . . Non h a passato la serata d i ieri i n casa vo­
stra? », riprese la signorina G ... con voce che rivelava la sua
e:mozione. c: Ma dov'è in nome del Cielo, venite presto da me,
sono in uno stato spaventevole ».
La prospettiva di una conversazione con la ragazza mi era
estremamente penosa; ma non potevo evitarla, per cui mez-
1 82
z'ora dopo entravo nel salotto dei G .. Ella si precipitò verso
.

di me e mi disse con voce soffocata :


c: Che cosa ne avete fatto? Si dice che sia stato assassinato

in casa vostra, e che siate stato anzi proprio voi a uccidcrlo ,,


Tentai di tranquillizzarla e le raccontai la storiella che
avevo immaginato.
c: Tutto ciò è spaventevole », riprese. c: L'imperatrice e Ania

sono convinte che lo abbiate ucciso questa notte in casa


vostra ».
c: Telefonate a Zarskoie Selò », la esortai, « pregando l'impe­

ratrice di ricevermi ; le spiegherò tutto. Ma fate presto >.


Esaudendo il mio desiderio, la signorina G .. telefonò a Zar­
.

skoie Selò e le fu risposto che Sua Maestà mi aspettava.


Ero sul punto di muovermi per recarmi dall'imperatrice
quando la signorina G . si avvicinò a me.
..

c: Non andate a Zarskoie Selò, non andateci », mi disse con

voce supplichevole. c: Vi accadrà qualche sventura, nessuno cre­


derà che siate innocente di questo delitto. Hanno perso tutti
la testa. Sono furiosi contro di me e mi accusano di averli tra­
diti. Ah ! perché vi ho dato ascolto ? Non avrei dovuto telefo­
nare a Zarskoie Selò. Voi non potete andarci ! ».
La sua angoscia mi commoveva, perché mi rendevo conto
che essa non era provocata soltanto dalla scomparsa di Raspu­
tin, ma anche dalle sue inquietudini per ciò che mi riguardava.
c: Dio vi protegga >, aggiunse a bassa voce. c: Pregherò per

voi ,,
Stavo uscendo dal salotto quando squillò il telefono. Era la
Wirubov che telefonava da Zarskoie Selò. L'imperatrice si
era sentita male ; non poteva ancora ricevermi e mi pregava di
esporle per iscritto tutto ciò che sapevo della scomparsa di
Rasputin.
Uscii, e dopo aver fatto pochi passi per la strada incontrai
un camerata del Corpo dei paggi che, scorgendomi, corse verso
di me tutto agitato.
< Felice, sai la notizia? Rasputin è stato ucciso >.
< Non è possibile. Chi lo avrebbe ucciso? ,,
c: Si dice che la cosa sia accaduta dagli zingari, ma non si

sa ancora chi sia l'assassino :..


« Dio sia lodato! ,, risposi. « Purché sia vero! ,.
Tornato al palazzo del granduca Alessandro, trovai la ri­
sposta del prefetto di polizia, generale Balk, che mi pregava
di passare da lui.
Alla prefettura di polizia v'era grande agitazione. Tro­
vai il generale seduto alla scrivania, con aria preoccupata. Gli
spiegai che venivo per chiarire il malinteso provocato dalle
parole di Purisc'kevic. Ci tenevo a mettere nella sua vera luce
questa faccenda al più presto possibile, giacché, avendo otte­
nuto una licenza di qualche giorno, dovevo partire in serata
per la Crimea dove mi aspettava la mia famiglia.
Il prefetto di polizia mi disse che la deposizione da me
fatta al generale Grigoriev era stata giudicata soddisfacente
e che perciò nulla si opponeva alla mia partenza. Mi preven­
ne tuttavia che l'imperatrice aveva ordinato di compiere una
perquisizione nella nostra casa della Moika : i colpi di rivol­
tella sparati in casa mia, erano parsi sospetti in quanto coin­
cidevano con la scomparsa di Rasputin.
« La nostra casa », dissi c: è abitata da mia moglie, ch'è
nipote dell'imperatrice. Le abitazioni dei membri della fami­
glia imperiale sono inviolabili. Nessuna misura di questo ge­
nere può essere presa se non per ordine dell'imperatore in
persona ».
Il prefetto dovette darmi ragione e revocare, seduta stan­
te, l'ordine di perquisizione.
Un peso enorme mi cadde dalle spalle. Temevo infatti che,
durante la pulizia eseguita nel corso della notte nell'apparta­
mento, molti particolari ci fossero sfuggiti ; occorreva a qualun­
que costo evitare una visita della polizia prima di essere
certi che non esistesse più alcuna traccia del fatto.
Rassicurato per il momento su questo punto, salutai il ge­
nerale Balk e tornai alla Moika.
Procedendo a una nuova esplorazione del luogo in cui si
era svolto il dramma, mi accorsi che i miei timori erano sin
troppo fondati : alla luce del giorno si scorgevano chiaramen­
te alcune macchie scure sulla scala. Aiutato da lvan, ripulii
di nuovo tutto l'appartamento. Finito il lavoro, andai a far
colazione da Dimitri. Sukhotin arrivò dopo colazione. Lo pre-
J 84
gammo di andare in traccia di Purisc'kevic e di portarlo lì,
giacché facevamo conto di partire, il giorno dopo, il granduca
per il Gran quartier generale, Purisc'kevic per il fronte,
nel suo treno sanitario, e io quella sera stessa per la Crimea.
Era indispensabile che ci accordassimo per l'ultima volta
allo scopo di stabilire la nostra linea di condotta per il caso
che uno di noi fosse trattenuto a Pietroburgo, sottoposto a
interrogatorio o arrestato.
Quando fummo tutti riuniti, stabilimmo che, qualunque
altra prova potesse sorgere contro di noi, saremmo stati fer­
mi alle prime dichiarazioni da me fatte al generale Grigo­
riev e ripetute alla signorina G ... e al prefetto di polizia.
Così il primo passo era fatto. Ormai la via era aperta lar­
gamente a coloro che disponevano dei mezzi per continuare
la lotta contro il rasputinismo. Per quanto ci riguardava,
per il momento, la nostra parte era terminata.
Accomiatatomi dagli amici, tornai alla Moika, dove ap­
presi che tutti i domestici erano stati interrogati durante la
giornata. Il risultato di quegli interrogatori mi era ignoto; ma,
benché la cosa in sé mi spiacesse, il racconto fattomi dai ser­
vitori mi lasciò un'impressione piuttosto favorevole. Risol­
vetti di recarmi dal ministro della Giustizia, Makarov, per
potermi regolare.
Al Ministero della Giustizia regnava la stessa confusione
che avevo trovato alla prefettura di polizia. Makarov, che
vedevo per la prima volta, mi piacque immediatamente. Era
un uomo avanzato in età. Aveva barba e capelli grigi, li­
neamenti piacevoli, e la sua voce era molto dolce.
Gli spiegai lo scopo della visita e ripetei, quando me lo
chiese, il racconto che ormai sapevo a memoria.
Quando giunsi alla conversazione di Purisc'kevic con
l'agente di polizia, il ministro m'interruppe.
< Conosco bene Purisc'kevic, e so che non beve mai ; se

non erro, è anche membro di una società di temperanza � .


« Posso assicurarvi che questa volta egli ha tradito la sua
reputazione di uomo sobrio e ha mancato ai suoi impegni
verso la società. Gli sarebbe stato difficile non bere con noi,
ieri sera, perché inauguravo il mio appartamento. Se Pu-
risc'kevic è astemio, come voi dite, è facile che qualche bic­
chiere sia bastato a metterlo in stato di ebbrezza l> ,
Quando ebbi finito, domandai al ministro se i miei ser­
vitori sarebbero stati interrogati di nuovo e se corressero il
rischio di avere altre seccature, perché erano tutti preoc­
cupati, tanto più che io partivo in serata per la Crimea. Il
ministro mi rassicurò: mi disse che molto probabilmente la
polizia si sarebbe accontentata degli interrogatori già fatti.
Mi promise di non permettere nessuna perquisizione in casa
mia e di non tener conto veruno delle voci che circolavano.
Gli domandai se potessi lasciare Pietroburgo. Rispose af­
fermativamente e mi espresse di nuovo il rammarico che
provava vedendomi fatto segno a tante seccature. Avevo l'im­
pressione nettissima che né il generale Grigoriev, né il pre­
fetto di polizia, né il ministro credessero una sola parola di
quanto avevo raccontato loro.
Uscendo dal ministero, mi recai da mio zio Rodzianko,
presidente della Duma dell'impero. Sua moglie e lui non
ignoravano la nostra risoluzione di uccidere Rasputin, e at­
tendevano ansiosamente mie notizie. Li trovai entrambi mol­
to nervosi. La zia, tutta in lacrime, mi abbracciò e mi be­
nedisse. Lo zio mi diede la sua approvazione con voce to­
nante. Il loro atteggiamento paterno mi rese la calma e il
coraggio. Nei momenti penosi che stavo attraversando, solo,
lontano dai miei, quelle sincere e cordiali dimostrazioni di
simpatia erano per me particolarmente riconfortanti. Ma
non potevo attardarmi gran che con loro; il treno partiva
alle nove di sera e non avevo ancora fatto la valigia.
Prima di lasciarli, comunicai loro brevemente i partico­
lari del dramma.
c Da questo momento l> , conclusi, « ci terremo lontani da­

gli avvenimenti, lasciando agli altri la cura di continuare


l'opera nostra. Dio voglia che ci sia un'azione comune e che
gli occhi dell'imperatore si aprano alla verità prima che sia
troppo tardi. Un momento altrettanto favorevole non si pre­
senterà più � .
« Sono sicuro che l'uccisione di Rasputin sarà considerata
da tutti come un atto di patriottismo :., mi rispose Rodzianko,
186
« e che tutti i veri russi si uniranno per salvare il paese :..
Quando entrai nel palazzo del granduca Alessandro, il
portinaio mi disse che la signora cui avevo fissato un appun­
tamento per le sette di sera mi attendeva nel salottino atti­
guo alla mia camera. Siccome non avevo dato appuntamento
a nessuno, quella visita inopinata mi parve sospetta. Invitai
il portinaio a descrivermi sommariamente la visitatrice : era
vestita di nero, ma egli non aveva potuto distinguere il suo
volto, nascosto da un fitto velo. Non era una descrizione che
potesse rassicurarmi, per cui entrai direttamente in camera
mia. Socchiusi allora la porta tra le due stanze, e così potei
riconoscere nella persona che mi attendeva una delle più
fervide seguaci di Rasputin. Chiamai il portinaio e gli dissi
di informare la visitatrice importuna che sarei rincasato sol­
tanto assai tardi nella serata. Dopo di che feci la valigia
in fretta.
Scendendo per il pranzo, trovai sulle scale il mio amico
Osvaldo Rayner, un ufficiale inglese che avevo conosciuto
all'università di Oxford. Era anch'egli al corrente del no­
stro progetto ed era venuto a chiedere notizie. Mi affrettai
a tranquillarlo.
In sala da pranzo trovai i due fratelli di mia moglie che
si recavano anch'essi in Crimea col loro precettore inglese,
Stuart, la damigella d'onore della granduchessa Senia Ales­
sandrovna, signorina Evreinov, e qualcun altro.
Naturalmente si parlò della misteriosa scomparsa di Ra­
sputin. Gli uni non credevano alla sua morte e sostenevano
che tutto quanto si raccontava in proposito era pura in­
venzione. Altri pretendevano di sapere da fonte certa, per­
sino da testimoni oculari, che lo starez era stato assassinato
durante un'orgia presso gli zingari. Altri, infine, dicevano
che ruccisione di Rasputin aveva avuto luogo nella nostra
casa della Moika. Senza pensare che io a vessi preso una par­
te attiva all'assassinio, tutti erano tuttavia convinti che ne
conoscessi i particolari, e speravano, facendomi una quantità
di domande, di sorprendere sul mio viso una qualsiasi espres­
sione rivelatrice.
Ma io restai impassibile, prendendo anzi parte sincera
alla gioia generale. Il telefono squillava continuamente per­
ché tutta la città associava ostinatamente il mio nome alla
scomparsa di Rasputin. Direttori di officina, rappresentanti
di imprese diverse telefonavano per dirmi che i loro operai
avevano stabilito di organizzare una guardia del corpo per
proteggermi in caso di bisogno. Rispondevo a tutti che le
voci che correvano erano prive di qualsiasi fondamento e
che io non avevo nessuna parte in quella faccenda.
Mezz'ora prima della partenza del treno, mi accomiatai
dagli astanti e salii in vettura con i tre fratelli di mia mo­
glie, i principi Andrea, Teodoro e Nikita, il precettore di
quest'ultimo e il mio camerata capitano Rayner. Arrivando
alla stazione, notai un forte gruppo di agenti.
"Che vi sia ordine di arrestarmi?", pensai.
Nel momento in cui stavo per passare davanti al colon­
nello dei gendarmi, questo mi si avvicinò e, con voce com­
mossa, mi disse alcune parole incomprensibili.
« Parlate un po' più forte, colonnello ,, gli dissi, « perché
non capisco niente ) .
Riprese allora u n po' d i sicurezza e , alzando l a voce,
ripeté :
< Per ordine di Sua Maestà l'imperatrice vi è vietato as­
sentarvi da Pietroburgo. Dovete rientrare al palazzo del
granduca Alessandro e rimanervi sino a nuovo ordine ,.
« È una cosa spiacevole », risposi < e mi disturba assai ».
Poi, rivolgendomi ai compagni di viaggio, ripetei l'ordine
che avevo ricevuto. Il mio arresto provocò in tutti una gran­
de sorpresa.
< What's happened? What's happened? » ( 1 ) , ripeteva
Stuart, il precettore inglese, che non ci capiva nulla.
Andrea e Teodoro rinunciarono subito a partire per la
Crimea per non abbandonarmi. Fu stabilito che il giovane
Nikita sarebbe partito solo col precettore. Li accompagnam­
mo sino al vagone. La polizia seguiva ogni nostro passo, te­
mendo probabilmente di vedermi saltare sul treno. Una folla
notevole si era adunata e guardava con la più viva curio-
(l) Che è accaduto?

188
sità il nostro gruppo che, circondato dai gendarmi, avanzava
lungo il marciapiede.
Salii nello scompartimento per accomiatarmi da Nikita,
cosa che preoccupò molto gli agenti di polizia. Li calmai di­
chiarando che non avevo nessuna intenzione di }asciarli in
asso. Dopo la partenza del treno, risalimmo in vettura per
tornare al palazzo. Mi sentivo molto stanco per quella gior­
nata così movimentata. Andai in camera mia e pregai mio
cognato Teodoro e l'amico Rayner di restarmi vicino. Un po'
più tardi ci fu annunciato l'arrivo del granduca Nicola
Mikhailovic. Questa visita tardiva non presagiva nulla di
buono. Il granduca veniva evidentemente per ascoltare da
me che cosa fosse accaduto; ero stanco e non avevo voglia
di ripetere la mia versione del dramma.
Teodoro e Rayner mi lasciarono quando entrò il granduca.
« Ebbene �. mi disse quest'ultimo, « raccontami un po' che
cosa hai fatto ».
« Possibile che anche tu presti fede a tutte le voci assurde
che circolano? Tutta questa faccenda non è che una serie di
malintesi. Io non c'entro per nulla ».
« Vai a raccontarlo ad altri, non a me. lo conosco tutti i
particolari, persino il nome delle signore che si trova vano
alla tua serata >.
Queste ultime parole mi provarono che egli non sapeva
assolutamente nulla e che affermava di essere al corrente di
tutto per farmi parlare. Non so se credette alla storiella che
raccontai ancora una volta per lui ; non volle sembrare trop­
po convinto e mi lasciò con aria incredula, un po' seccato di
non aver appreso nulla di nuovo.
Quando se ne fu andato, informai i miei cognati e Ray­
ner della mia intenzione di andare il giorno dop o ad abitare
al palazzo del granduca Dimitri. Diedi loro istruzioni su ciò
che avrebbero dovuto rispondere se fossero stati interrogati,
e tutti e tre mi promisero di conformarsi scrupolosamente
a queste istruzioni.
Da principio gli avvenimenti della notte tornarono alla
mia mente con spaventosa chiarezza, poi i pensieri si
annebbiarono, la testa si appesantì, e mi addormentai.

1 89
Il giorno dopo, per tempo, mi recai da Dimitri. Fu molto
stupito di vedermi, perché credeva che la sera prima fossi
partito per la Crimea. Gli raccontai tutto ciò che mi era ac­
caduto da quando lo avevo lasciato e gli chiesi ospitalità
per restare al suo fianco nei momenti difficili che avremmo
dovuto certamente attraversare.
A sua volta, mi raccontò che la sera prima aveva dovuto
uscire prima della fine dello spettacolo dal teatro Michele,
dove era andato a trascorrere la serata, perché era stato av­
visato che il pubblico gli preparava un'ovazione. Rincasato,
apprendendo che l'imperatrice lo considerava come uno dei
principali autori dell'assassinio di Rasputin, aveva subito te­
lefonato a Zarskoie Selò per chiedere un'udienza, ma aveva
ricevuto un rifiuto categorico.
La nostra conversazione si prolungò ancora per qualche
minuto, poi io mi ritirai nella camera che mi era stata as­
segnata e diedi una scorsa ai giornali. Questi annunciavano
brevemente che lo starez Gregorio Rasputin era stato assas­
sinato nella notte tra il 29 e il 30 dicembre. La mattinata
trascorse tranquillamente. Verso l'una del pomeriggio, men­
tre facevamo colazione, il generale Massimovic, aiutante di
campo dell'imperatore, chiamò il granduca al telefono.
Dimitri tornò molto agitato.
« Sono arrestato per ordine dell'imperatrice », mi disse.
« Ella non ha nessun diritto di agire così. Soltanto l'impe­
ratore può farmi arrestare ».
Mentre stavamo discutendo, venne annunciato il generale
Massimovic. Appena introdotto, questi disse al granduca :
« Sua Maestà l'imperatrice prega Vostra Altezza impe­
riale di non lasciare il palazzo ».
« Che cosa significa? È un arresto? :..
« No, non siete arrestato, ma Sua Maestà insiste perché
non vi allontaniate dal palazzo ».
Allora il granduca rispose alzando la voce:
< Dichiaro che questo ordine equivale a un arresto. Dite
1 90
a Sua Maestà l'imperatrice che mi sottometto alla sua au­
torità :..
Tutti i membri della famiglia imperiale che si trovavano
a Pietroburgo vennero a far visita a Dimitri. Il granduca
Nicola Mikhailovic veniva anzi parecchie volte al giorno o
ci telefonava per comunicarci le notizie più inverosimili, ser­
vendosi di frasi misteriose che potevano essere variamente
interpretate. Continuava ad affermare di essere a cognizione
di tutto, nella speranza di scoprire il nostro segreto.
D'altra parte, egli si occupava attivamente per aiutare
coloro che cercavano il corpo di Rasputin. Ci avvisò che
l'imperatrice, convinta della nostra complicità nell'assassi­
nio dello starez, esigeva che fossimo fucilati immediatamente.
Quella proposta, diss'egli, aveva sollevato una protesta una­
nime ; lo stesso Protopopov consigliava di attendere l'arrivo del­
lo zar, ch'era stato informato telegraficamente degli avveni­
menti e che poteva giungere da un momento all'altro.
Nello stesso tempo appresi dalla signorina G ... che una
ventina delle più fervide settatrici di Rasputin, riunite nel
suo appartamento, avevano giurato di vendicarlo. Ella stessa
era stata presente alla scena e ci raccomandava tutte le
precauzioni necessarie per metterei al riparo da un possibile
attentato.
Questo continuo andirivieni di curiosi ci teneva in uno
stato di tensione permanente. Dovevamo stare sempre in guar­
dia per evitare la parola imprudente o il semplice mutamen­
to d'espressione che sarebbe forse bastato per confermare i
sospetti di coloro che ci bombardavano di domande, anche
quando, come nella maggioranza dei casi, si trattava di per­
sone animate dalle migliori intenzioni. Così che vedevamo
giungere la fine della giornata con grande sollievo.
La voce, sparsasi rapidamente, di una nostra prossima
esecuzione provocò una notevole effervescenza tra gli operai
delle grandi officine che risolvettero di formare una guardia
per proteggerei.
Il 1 • gennaio, al mattino, lo zar era di ritorno a Zarskoie
Selò. Persone del suo seguito raccontarono ch'egli aveva ri­
cevuto la notizia della morte di Rasputin senza fare il mi­
nimo commento, ma che il suo buonumore aveva colpito
quanti gli vivevano vicino. Mai, dall'inizio della guerra, il
sovrano era parso tanto allegro. Certo credeva che la scom­
parsa dello starez lo avesse liberato dalle pesanti catene che
non aveva avuto la forza di spezzare egli stesso. Ma appena fu
tornato a Zarskoie Selò ricadde sotto l'influenza dei fami­
liari, e le sue disposizioni mutarono di bel nuovo.
Benché soltanto i membri della famiglia imperiale fos­
sero autorizzati a entrare nel palazzo del granduca, noi riu­
scivamo a ricevere altre persone di nascosto. In tal modo
parecchi ufficiali vennero a dichiararci che i loro reggimenti
erano pronti a difenderci. Si spingevano sino a proporre a
Dimitri di sostenere una parte politica. Qualcuno dei gran­
duchi pensava che convenisse tentar di salvare lo zarismo
mediante un cambiamento di sovrano. Si sarebbe dovuto
marciare di notte e col concorso di alcuni reggimenti della
guardia su Zarskoie Selò. L'imperatore sarebbe stato con­
vinto della necessità di abdicare, l'imperatrice chiusa in con­
vento, e lo zarevic proclamato imperatore sotto la reggenza
del granduca Nicola Nicolaievic. Si pensava che la parteci­
pazione di Dimitri all'assassinio di Rasputin lo designasse
in modo particolare per mettersi alla testa del moto, ed egli
fu vivamente sollecitato a spingere sino in fondo l'opera di
riscatto nazionale che aveva iniziato. Ma la lealtà vietava al
granduca di accettare proposte di quel genere.
La sera stessa in cui l'imperatore era tornato, il granduca
Nicola Mikhailovic venne a dirci che il corpo di Rasputin
era stato ritrovato presso il ponte Petrovski, in una buca del
ghiaccio. Apprendemmo più tardi ch'era stato trasportato
al ricovero dei veterani di Cesma, a qualche chilometro da
Pietroburgo, sulla strada di Zarskoie Selò. Quando l'au­
topsia del cadavere fu terminata, suor Akulina, la giovane
monaca che in altri tempi Rasputin aveva "esorcizzato", si
presentò munita di un ordine della zarina e procedette, in­
sieme con un infermiere, alla toletta funebre. Poi mise un
L'autore in costume di boiardo del XVI secolo ( 1 9 10 ).
L'autore con la fidanzata principessa lrina (19 14).
crocifisso sul petto dello sfarez e nelle sue mani una lettera
dell'imperatrice :

"Mio caro martire, dammi la tua benedizione, affinché


mi segua costantemente nel cammino doloroso che devo an­
cora percorrere quaggiù. E ricordati di noi, lassù, nelle tue
sante preghiere!"
Alessandra.

Nella serata del 1 gennaio, poche ore dopo il ritrovamen­


o

to del corpo di Rasputin, il generale Massimovic venne ad


avvertire il granduca Dimitri, questa volta a nome dell'im­
peratore, che doveva considerarsi agli arresti nel proprio
palazzo.
Trascorremmo una notte agitata. Verso le tre del mattino
fummo avvisati che vari individui dall'aria sospetta, i quali
asserivano d'essere stati inviati per proteggerei, erano entrati
nel palazzo dalla porta di servizio. Siccome non poterono
mostrare alcun foglio che giustificasse la loro pretesa mis­
sione, furono espulsi, e fedeli servitori assunsero il compito
di sorvegliare tutte le porte del palazzo.
Il giorno dopo, come in quelli precedenti, quasi tutti i
membri della famiglia imperiale si trovavano di nuovo riu­
niti nella Prospettiva Nevsky. Gli arresti inflitti a Dimitri
erano quasi l'unico argomento della conversazione. Una si­
mile misura presa contro uno dei membri della famiglia im­
periale era un avvenimento che, per la sua importanza, fa­
ceva passare tutti gli altri in seconda linea. Nessuno pensava
che interessi ben più gravi dei nostri erano in giuoco, e che,
dalle decisioni che avrebbe preso lo zar nei giorni seguenti,
sarebbero dipesi insieme l'avvenire del Paese e quello della
dinastia, senza parlare dell'esito della guerra, che poteva ter­
minare vittoriosamente soltanto se si fosse attuata l'unione
del popolo e del sovrano. La morte di Rasputin rendeva pos­
sibile un nuovo orientamento politico che doveva, ora o mai
più, liberare la Russia dalla rete d'intrighi criminali che la
soffocava.
Il 3 sera, un agente della polizia segreta si p resentò al
palazzo della Prospettiva Nevsky, affermando di aver rice-

1 93
vuto da Protopopov l'incarico di vigilare con i suoi uomm1
sulla vita del granduca Dimitri. Questi fece rispondere che
non aveYa nessun bisogno di protezione da parte del mini­
stro degli Interni e che vietava ai poliziotti di entrare in casa
sua. Ciò non impedì che questi continuassero a spiarci
dall'esterno. Ma ben presto vedemmo arrivare un'altra guar­
dia, militare questa, inviata dal generale Kabalov, governa­
tore di Pietroburgo, per invito del presidente del consiglio
Trepov, il quale aveva appreso come i fedeli di Rasputin
tramassero un complotto contro di noi. Così i nostri sorve­
glianti furono a loro volta sorvegliati.
Un ospedale anglo-russo era installato al primo piano,
che comunicava mediante una scala interna con l'apparta­
mento abitato dal granduca al pianterreno. Per questa via,
una banda di partigiani di Rasputin, che erano entrati nel
palazzo col pretesto di visitare i feriti, cercarono di arrivare
sino al granduca. Ma furono fermati dalla sentinella che, per
consiglio della capo infermiera, lady Sibilla Grey, era stata
posta all'ingresso della scala.
Così, noi eravamo in una fortezza assediata. Non pote­
vamo seguire l'evoluzione degli avvenimenti se non attra­
verso gli articoli dei giornali e i racconti di coloro che veni­
vano a trovarci. Ognuno, naturalmente, esprimeva un'opi­
nione o un giudizio personale. Ma, in tutti, ritrovavamo lo
stesso timore per ogni iniziativa e la stessa assenza di pro­
getti per l'avvenire. Coloro che avrebbero potuto agire sta­
vano prudentemente in disparte, abbandonando la Russia
al proprio destino. I migliori erano anche i più pavidi, in­
capaci di unirsi per un'azione comune.
Nicola II, verso la fine del suo regno, era schiacciato sotto
il peso delle preoccupazioni e delle delusioni politiche. Fa­
talista convinto, era intimamente persuaso che fosse inutile
lottare contro il destino. E tuttavia, se avesse visto i membri
della propria famiglia e i più onesti di coloro che occupa­
vano le alte cariche dello stato, unirsi per salvare la Russia
e il trono, certo avrebbe ripreso fiducia e trovato l'energia
necessaria per rimettere in sesto la situazione tanto grave­
mente compromessa.
1 94
Ma dov'erano gli elementi di una simile associazione ? Per
lunghi anni gli intrighi di Rasputin avevano avvelenato le
alte sfere governative e seminato lo scetticismo e la diffi­
denza nei cuori più leali e ardenti. Per questo, mentre gli
uni evitavano di prendere decisioni radicali, gli altri non
credevano nemmeno più alla loro efficacia.
Quando, dopo che i nostri visitatori se n'erano andati,
ci ritrovavamo soli, ricapitolando tutto ciò che avevamo sen­
tito dire nel corso della giornata giungevamo a conclusioni
tutt'altro che incoraggianti. L'una dopo l'altra, tutte le spe­
ranze per la realizzazione delle quali avevamo vissuto le
terribili ore della notte tra il 29 e il 30 dicembre, crollavano.
Capimmo allora quanto fosse difficile mutare . il corso degli
avvenimenti, sia pure in nome delle idee più nobili e anche
quando si sia pronti a qualunque sacrificio.
Nondimeno non volevamo perdere tutte le speranze. Il
paese era con noi e non poneva in dubbio la possibilità di
una prossima rigenerazione. Un grande slancio patriottico
si manifestava in tutta la Russia, particolarmente nelle due
capitali. I giornali pubblicavano articoli entusiastici, addi­
tando nella morte di Rasputin la fine della potenza del male
e facendo risplendere le più belle speranze. In quel momen­
to essi riflettevano il pensiero del paese intero. Ma la stampa
non ebbe per molto tempo la possibilità di esprimere le
idee dell'opinione pubblica. Il terzo giorno dopo la scom­
parsa dello starez apparve infatti un ordine che vietava ai
giornali sinanche di menzionare il nome di Rasputin. Ciò
non impedì al popolo di manifestare i propri sentimenti.
Una grande agitazione regnava nelle vie di Pietroburgo. I
passanti, anche senza conoscersi, si accostavano l'uno all'al­
tro per rallegrarsi della morte del cattivo genio. La gente
si inginocchiava per pregare davanti al palazzo del granduca
e davanti alla nostra casa della Moika. Nelle chiese si can­
tava il Te Deum e si accendevano ceri dinanzi all'imagine
di Nostra Signora di Kazan. Nei teatri, il pubblico chiedeva
l'inno nazionale, nelle mense militari si beveva alla nostra
salute, gli operai delle officine lanciavano "evviva" in no­
stro onore. Montagne di lettere ci recavano, da tutti i punti

1 95
della Russia, ringraziamenti e benedizioni. È vero che i par­
tigiani di Rasputin non ci dimenticavano neppur essi e ci
coprivano d'ingiurie, di maledizioni e di mina�ce di morte.
La sorella di Dimitri, la granduchessa Maria Pavlovna,
arrivata da Pskov, dov'era lo stato maggiore delle armate
del nord, ci descrisse l'entusiasmo provocato fra l11 truppe
dalla notizia della morte di Rasputin. Tutti erano convinti
che l'imperatore, finalmente liberato dall'influsso nefasto
dello starez, avrebbe saputo scegliere, tra quanti lo circon­
davano, servitori leali e coscienziosi.
Di lì a qualche giorno ricevetti una convocazione del
presidente del consiglio Trepov. Mi aspettavo molto da un
tale incontro, ma anche questa volta dovetti rinunciare alle
mie illusioni. Il ministro mi aveva mandato a chiamare per
ordine dello zar, il quale voleva sapere a qualunque costo
chi fosse l'assassino di Rasputin.
Fui accompagnato sotto scorta al ministero degli Interni.
Il ministro mi ricevette molto cordialmente e mi pregò di
vedere in lui un vecchio amico della mia famiglia e non un
personaggio ufficiale.
« Suppongo », dissi, « che mi abbiate fatto chiamare per
ordine dell'imperatore ».
« Infatti ».
« Quindi tutto ciò che vi dirò sarà riferito a Sua Maestà ».

« Evidentemente. lo non posso nascondere nulla al mio


sovrano ».
« Se le cose stanno così, come potete credere che io faccia
delle confessioni, quand'a� che fossi stato io a uccidere Ra­
sputin? E come potete pensare che denunci i miei complici ?
Compiacetevi di far sapere a Sua Maestà che coloro i quali
hanno ucciso Rasputin non avevano altro scopo che di sal­
vare lo zar e la patria. E ora, Eccellenza, permettetemi di
rivolgere una domanda a voi personalmente : è davvero pos­
sibile che si continui a perdere il tempo nella ricerca degli
assassini dello starez, quando gli istanti sono preziosi e quel­
la che ci si offre è forse la sola e ultima probabilità di sal­
vezza che rimanga al nostro paese? A vete visto con quale
entusiasmo la scomparsa di Rasputin sia stata accolta in tut-
r g6
ta la Russia, avete visto lo sgomento dei suoi partigiani.
Quanto allo zar, ne sono certo, in fondo all'anima si rallegra
di ciò che è accaduto e attende da tutti voi che gli prestiate
il vostro aiuto per uscire da questo orribile vicolo cieco. Uni­
tevi dunque, per agire, prima che sia troppo tardi. Possibile
che nessuno voglia rendersi conto che siamo alla vigilia di
convulsioni spaventose, e che, senza un mutamento radicale
nella politica interna, il regime imperiale, lo stesso impera­
tore e tutta la sua famiglia saranno travolti dall'ondata ri­
voluzionaria che minaccia di rovesciarsi sulla Russia ? ... > .
Trepov ascoltava con attenzione e stupore.
� Principe > , mi disse, « donde vi viene questa presenza
di spirito e tanto sangue freddo? » .
Lasciai la domanda senza risposta e la nostra conversa­
zione finì così.
Questo colloquio col presidente del consiglio fu il nostro
ultimo tentativo presso le alte personalità governative.
Frattanto la sorte di Dimitri e la mia restavano sempre
in sospeso. Conciliaboli senza fine avevano avuto luogo in
proposito a Zarskoie Selò.
Il 3 gennaio, mio suocero il granduca Alessandro Mikhai­
lovic arrivò da Kiev, dove risiedeva nella sua qualità di capo
dell'aviazione militare. Venuto a conoscenza del pericolo che
ci minacciava, aveva telegrafato all'imperatore per chieder­
gli un'udienza. Prima di recarsi a Zarskoie Selò ci fece una
breve visita. In seguito a questo passo, il generale Massimovic
trasmise al granduca Dimitri l'ordine di lasciare immedia­
tamente Pietroburgo e di trasferirsi in Persia sotto la sorve­
glianza del generale Baratov, che comandava un distacca­
mento delle nostre truppe in quel paese. Il generale Leiming
e il conte Kutaisov, aiutante di campo dell'imperatore, era­
no designati per accompagnarlo. Il treno che doveva p ren­
dere il granduca partiva alle due del mattino.
Anch'ìo ricevetti l'ordine di lasciare Pietroburgo. Mio luo­
go di residenza permanente doveva essere la nostra p roprie­
tà di Rakitnoie, e la mia partenza era fissata per la notte
stessa, come quella di Dimitri. Un ufficiale istruttore del
Corpo dei paggi, il capitano Zencikov, e l'addetto alla po-

197
lizia segreta lgnatiev avevano ordine di accompagnarmi, te­
nendomi isolato sino al luogo del mio confino.
A Dimitri e a me fu molto penoso separarci. I pochi gior­
ni che avevamo passato insieme, prigionieri nel suo palazzo,
equivalevano a lunghi anni. Quanti sogni avevamo vagheg­
giato! ... Quante speranze deluse ! Quando e in quali circo­
stanze ci saremmo rivisti ? L'avvenire era cupo; ci assaliva­
no sinistri presentimenti.
A mezzanotte e mezzo il granduca Alessandro Mikhailo­
vic venne a prendermi per accompagnarmi alla stazione.
L'accesso al marciapiedi era vietato al pubblico. Dovunque
erano dislocati gruppi di poliziotti. Salii nel vagone col cuo­
re pesante. La campana sonò, la locomotiva lanciò un fischio
stridente, il marciapiedi della stazione scivolò davanti ai miei
occhi, scomparve ... Poi toccò a Pietroburgo sprofondare nella
notte d'inverno, e il treno si mise a correre nell'ombra, attra­
verso le pianure solitarie, addormentate sotto la neve.
Mi isolai nei miei tristi pensieri, cullato dal ritmo mono­
tono delle ruote sui binari.
CAPITOLO XVII

Mia residenza forzata a Rakitnoie - Prima fase della rioolu­


zione - A bdicazione dell'imperatore - Suo i addii alla madre -
Ritorno a Pietroburgo - Una strana proposta.

I1 viaggio fu lento e poco gradevole, ma arrivando ebbi la


gioia di trovare i miei genitori e Irina che, avvertiti da mio
suocero erano subito partiti dalla Crimea per venire a rag­
giungermi a Rakitnoie, lasciando nostra figlia con la gover­
nante ad Ai-Todor. Sapendo che la mia corrispondenza era
sorvegliata, avevo potuto scriver loro soltanto poche parole
brevi e insignificanti. Ciò che avevano appreso per altra via
degli avvenimenti di Pietroburgo li aveva tanto più preoc­
cupati in quanto ignoravano tutti i particolari. Due telegram­
mi ricevuti quasi simultaneamente avevano finito di scom­
bussolare le loro idee. Il primo, inviato da Mosca dalla gran­
duchessa Elisabetta, era così concepito:
"Mie preghiere e miei pensieri sono con voi. Dio benedica
il vostro caro figlio per il suo gesto patriottico".
Il secondo era stato inviato loro da Pietroburgo; era del
granduca Nicola Mikhailovic e diceva :
"Cadavere ritrovato. Felice tranquillo".
Così, di botto, la mia partecipazione all'assassinio di Ra­
sputin diventava ufficiale.
lrina mi raccontò di essersi svegliata nella notte dal 29
al 30 dicembre e che, aprendo gli occhi, aveva avuto una vi­
sione di Rasputin. Le era apparso a mezzo busto, con una
statura smisurata, vestito di un camiciotto azzurro ricamato.
L'apparizione non era durata più di un secondo.
Il mio arrivo a Rakitnoie non era passato inosservato, ma
i curiosi si urtavano alla consegna di non lasciar entrare nes-

1 99
suno. Un giorno ricevetti la visita del procuratore generale
incaricato dell'inchiesta sulla morte di Rasputin. Il nostro
incontro fu una vera scena da operetta. Mi aspettavo di tro­
vare in quell'alto dignitario della giustizia un personaggio
severo e intransigente, contro il quale ero pronto a lottare :
vidi arrivare invece un uomo così commosso che sembrava
sul punto di gettarmisi tra le braccia. Durante la colazione
si alzò, col bicchiere di champagne in mano, per pronun­
ciare un discorso patriottico e bere alla mia salute. In un
momento nel quale la conversazione si svolgeva sulla caccia,
mio padre gli domandò se egli fosse cacciatore. « No », ri­
spose quel bravo funzionario che seguiva la propria idea,
« non ho mai ucciso nessuno ». Poi, accorgendosi della to­
pica, arrossì violentemente.
Dopo colazione avemmo un colloquio a quattr'occhi. Co­
minciò col divagare come uno che non sappia da che parte
rifarsi. Venni in suo aiuto dicendogli che non avevo niente
da aggiungere alle dichiarazioni già fatte. Parve immedia­
tamente molto sollevato, e durante la conversazione, che du­
rò due ore, il nome di Rasputin non fu nemmeno pronunziato.
La vita a Rakitnoie era abbastanza monotona. Le prin­
cipali distrazioni consistevano nelle passeggiate in slitta.
L'inverno era glaciale, ma splendido. Il sole brillava, e non
c'era il più piccolo alito di vento; potevamo uscire in slitta
scoperta con 30" sotto zero senza soffrire il freddo. La sera
facevamo un po' di lettura ad alta voce.

Le notizie che ci giungevano da Pietroburgo erano quanto


mai preoccupanti. Evidentemente tutti avevano perso la te­
sta, e la disfatta era imminente.
Il 12 marzo scoppiava la rivoluzione. Dappertutto nella
capitale si accendevano incendi, e lo scambio di fucilate per
le vie si faceva più intenso. Una gran parte dell'esercito e
della polizia passavano alla rivoluzione, compresi i cosacchi
della scorta, reparto scelto della Guardia imperiale.
Dopo lunghe discussioni col "consiglio dei deputati, ope­
rai e soldati", il Soviet, si era formato un governo provviso-
200
rio sotto la presidenza del principe Lvow. I socialisti ave­
vano imposto Kerensky come ministro della Giustizia.
Lo stesso giorno aveva luogo l'abdicazione dell'impera­
tore. Per non separarsi dal figlio, che era ammalato, egli
abdicava in favore del fratello Michele. Il testo dello storico
documento è noto, tuttavia ritengo necessario riportare qui
ancora quelle nobili parole :

"Per la grazia di Dio, noi, Nicola Il, imperatore di tutte


le Russie, zar di Polonia, granduca di Finlandia, ecc. ecc.,
a tutti i nostri fedeli sudditi facciamo sapere:
"In questi giorni di grande lotta contro il nemico esterno
che, da tre anni si sforza di asservire la nostra patria, Dio
ha trovato opportuno inviare alla Russia una nuova e ter­
ribile prova. Torbidi interni minacciano di avere una fatale
ripercussione sull'ulteriore svolgimento di questa guerra osti­
nata. l destini della Russia, l'onore del nostro eroico esercito,
la felicità del popolo, tutto l'avvenire della nostra cara pa­
tria impongono che la guerra sia condotta a qualunque costo
sino a una fine vittoriosa.
"Il nostro crudele nemico compie i suoi sforzi estremi e
non è lontano il giorno in cui il nostro valoroso esercito, as­
sieme con i gloriosi Alleati, lo abbatterà definitivamente.
"In questi giorni decisivi per l'esistenza della Russia, la
coscienza ci impone di facilitare al nostro popolo una stretta
unione e l'organizzazione di tutte le sue forze per la rapida
conquista della vittoria.
"Per questa ragione, d'accordo con la Duma dell'impero,
pensiamo di agir bene abdicando la corona dello stato russo
e deponendo il potere supremo.
"Non volendo separarci dal nostro adorato figlio, leghia­
mo l'eredità a nostro fratello, il granduca Michele Alessan­
drovic, dandogli la nostra benedizione nel momento in cui
sale al trono. Gli chiediamo di governare in piena unione
con i rappresentanti della nazione che seggono nelle assem­
blee legislative, e di prestar loro giuramento inviolabile nel
nome della nostra patria adorata.
"Facciamo appello a tutti i figli leali della Russia, chie-

201
diamo ad essi di compiere il loro patriottico e sacro dovere,
obbedendo allo zar in questa penosa prova nazionale, e di
aiutarlo, con i rappresentanti del paese, a condurre lo stato
russo verso le vie della gloria e della prosperità.
"Dio aiuti la Russia/"
Nicola.

Il giorno dopo, 16 marzo, il granduca Michele firmava


l'abdicazione provvisoria. Kerensky, che gliela aveva strap­
pata, lo ringraziò in termini magniloquenti.
Il governo provvisorio aveva concesso all'imperatore il
"permesso" di fare i suoi addii all'esercito, e l'imperatrice
madre, accompagnata da mio suocero, aveva immediatamen­
te lasciato Kiev per trasferirsi a Mohilev, dov'era il Gran
quartier generale. Nicola Il salì nel vagone di sua madre e
rimase chiuso con lei per due ore. Il loro colloquio restò se­
greto. Quando mio suocero fu invitato a unirsi a loro, l'impe­
ratrice era abbandonata su una poltrona e singhiozzava.
L'imperatore, immobile, fumava silenziosamente.
Il governo provvisorio si era inchinato davanti alla vo­
lontà del soviet che esigeva l'arresto immediato del sovrano.
Nello stesso tempo veniva pubblicato il famoso ordine del
giorno n. 1 che proclamava l'abolizione della disciplina mi­
litare, del saluto agli ufficiali, ecc ... I soldati erano invitati
a formare i loro comitati amministrativi, o sovieti, e a indi­
care essi stessi gli ufficiali che volevano conservare.
Era la fine dell'esercito russo. In certe guarnigioni era
già cominciato l'assassinio degli ufficiali da parte dei loro
soldati.
Tre giorni dopo, l'imperatore partiva per Zarskoie Selò
dove era autorizzato a raggiungere la famiglia. Dopo uno
straziante commiato dalla madre, che doveva essere l'estremo
addio, Nicola II, vestito con un semplice camiciotto cachi,
la croce di san Giorgio sul petto, salì nel proprio treno che
si trovava di fronte a quello dell'imperatrice. Questa, in
piedi al finestrino del proprio vagone, con gli occhi pieni di
lacrime, faceva segni di croce e gesti di benedizione. Dal
finestrino del suo, il figlio le fece un ultimo cenno d'addio
mentre il treno si metteva in moto.
202
Giunto a Zarskoie Selò, l'imperatore si vide abbandonato
da tutti. Soltanto il principe W. Dolgorukov lo accompagnò
sino al palazzo Alessandro.

Alla fine di marzo fui liberato e tornammo tutti a Pie­


troburgo. Prima della nostra partenza fu celebrato un ser­
vizio religioso a Rakitnoie. La chiesa era piena di contadini
piangenti. « Come vivremo ora ? », ripetevano. « Ci hanno tol­
to il nostro zar )).
A Karkov ci venne l'idea di scendere dal treno per an­
dare al caffè della stazione. Riuscimmo faticosamente ad
aprirci il passo attraverso la folla che empiva i marciapiedi.
Tutta quella gente s'interpellava chiamandosi "compagno".
Qualcuno mi riconobbe e pronunziò il mio nome. Immedia­
tamente ci fu come un'ondata nella folla. Stretti da tutte le
parti e quasi soffocati, avevamo l'impressione sgradevole che
quella gente che ci acclamava avrebbe potuto con lo stesso
entusiasmo farci a pezzi. Alcuni soldati vennero in nostro
soccorso e ci fecero entrare nella sala del caffè. La folla vi si
precipitò dietro di noi : fu necessario chiudere le porte. Venni
invitato a pronunciare un discorso. Rifiutai affermando d'es­
sere incapace di parlare in pubblico. In quel mentre appren­
demmo che il treno che riportava il granduca Nicola Nico­
laievic dal Caucaso era entrato in stazione. Per giungere sino
a lui dovemmo riattraversare quella folla urlante che, ora,
acclamava il granduca. Questi mi abbracciò calorosamente.
« Finalmente », mi disse « potremo trionfare dei nemici della
Russia! ». Dovette !asciarci perché il suo treno ripartiva. Ri­
salendo nel nostro incontrai in corridoio il cantante Alcevsky.
Mi disse che arrivava dalla campagna dov'era stato mandato
per curarsi da una grave malattia nervosa. Venne nel nostro
scompartimento e ci offrì di cantare per noi. Improvvisa­
mente si arrestò e, fissando su di me gli occhi sbarrati : « Per­
ché mi guardate così? », mi chiese. « Non posso più cantare � .
Sconcertato, tentai di convincerlo a continuare, ma egli rifiu­
tò e si mise a fare discorsi incoerenti alzando sempre più la
voce. Ben presto i suoi gridi attirarono l'attenzione dei viag-

203
giatori che occupavano gli scompartimenti vicini. Uno degli
amici che viaggiava con lui riuscì a trovare sul treno un me­
dico che gli fece una iniezione calmante. Ma durante la notte
i suoi urli ricominciarono con maggior vigore. In quell'atmo­
sfera di tensione generale l'incontro allucinante con quel po­
vero pazzo aumentò l'impressione d'incubo di quel viaggio.
Pietroburgo ci parve molto mutata. Un disordine indescri­
vibile regnava nelle strade. La maggior parte delle persone
portava la coccarda rossa. Persino il nostro autista aveva
giudicato prudente mettersi un nastro rosso per venire a pren­
derei alla sta zione. « Levati quell'orribile cosa », gli intimò
mia madre esasperata.
La prima cosa cui pensai appena arrivato a Pietroburgo,
fu di andare a far visita alla granduchessa Elisabetta. Ella
mi venne incontro, mi abbracciò e mi benedì. I suoi occhi era­
no pieni di lacrime.
« Povera Russia », esclamò, « che terribile prova deve su­
bire ! Siamo tutti impotenti davanti alla volontà divina. Dob­
biamo soltanto pregare Iddio e implorare misericordia ».
Ascoltò attentamente il racconto che le feci della tragica
notte.
« Non potevi agire diversamente da come hai fatto », ri­
prese quando ebbi finito. « Il tuo gesto era un supremo tenta­
tivo di salvare il nostro paese e la dinastia. Non è colpa tua
se le conseguenze non sono state quelle che speravi. La colpa
è di coloro che non hanno saputo vedere quale fosse il loro do­
vere. Assassinando Rasputin, non hai commesso un delitto;
hai distrutto un'incarnazione diabolica. E non hai neanche
avuto merito nel compiere questo gesto, perché sei stato de­
signato e guidato come avrebbe potuto esserlo chiunque altro ».
Mi disse che, qualche giorno dopo la morte di Raspu­
tin, aveva ricevuto la visita delle superiore di vari con­
venti le quali erano venute per comunicarle certi fatti preoc­
cupanti avvenuti nelle loro comunità il 29 dicembre. Pare
che durante gli uffici notturni alcuni preti fossero stati colti
improvvisamente da pazzia e avessero cominciato a bestem­
miare gettando grida inumane; certe suore si erano messe a
correre per i corridoi urlando come indemoniate e rialzandosi
le sottane con gesti osceni.
< Il popolo russo non è responsabile degli avvenimenti che
si preparano », proseguì la granduchessa. < Povero Nicky, po­
vera Alice, che tremendo calvario li aspetta ! Sia fatta la vo­
lontà di Dio! Ma quand'anche tutte le forze dell'inferno si
accanissero contro di loro, la santa Russia e la Chiesa orto­
dossa resteranno incrollabili. In questa lotta allucinante, il
Bene, un giorno, trionferà del Male. Coloro che serberanno la
fede, vedranno la Luce vincere le Tenebre. Dio castiga e
perdona ».
Dal nostro ritorno, la casa della Moika era sempre piena
di gente. Quell'incessante andirivieni diventava per noi una
vera fatica. Michele Rodzianko, presidente della Duma e no­
stro lontano parente, era tra i nostri più assidui visitatori.
Un giorno mia madre mi fece chiamare nel suo appartamento.
Mi vi recai con lrina e la trovai infervorata in una seria con­
versazione con Rodzianko. Questi si alzò vedendomi entrare,
mi si avvicinò e mi disse a bruciapelo:
< Mosca vuole proclamarti imperatore. Che ne dici ? >.
Non era la prima volta che u divo discorsi del genere. Da
un mese, cioè da quando eravamo tornati, persone d'ogni spe­
cie, ufficiali, uomini politici o gente di chiesa, mi avevano
detto la stessa cosa. Più tardi l'ammiraglio Kolciak e il gran­
duca Nicola Mikhailovic vennero anch'essi a parlarmi di que­
sta eventualità. Il secondo mi disse :
« Il trono di Russia non è né ereditario, né elettivo : è usur­

patorio. Approfitta degli eventi ; hai tutte le carte in mano.


La Russia non può restare senza un monarca. D'altra parte
la dinastia dei Romanov è screditata, il popolo non la vuo­
le più ».
Quella proposta posava su un tragico malinteso. Così si
offriva a colui che aveva soppresso Rasputin per salvare la
dinastia, la possibilità di recitare egli stesso la parte di
nsurpatore!
In quei giorni ero anche inquieto per Dimitri che era ca­
duto ammalato a Teheran e che si irritava per la sua
lontananza.
CAPITOLO XVIII

Esodo generale verso la Crimea - Una perquisizione a d Ai­


Todor - Colloquio di lrina con Kerensky - Giornate rivolu­
zionarie a Pietroburgo - La famiglia imperiale è condotta in
Siberia - Ultima visita alla granduchessa Elisabetta - Miste­
riosi angeli custodi - Scene rivoluzionarie in Crimea - Impri­
gionamento dei miei suoceri a Dulber - Zodorojny - Libera­
zione "in extremis" dei prigionieri - Breve periodo di euforia -
Ci giungono voci sull'assassinio dei sovrani - La predizione
della monaca di Yalta.

L a vita a Pietroburgo diventava ogni giorno più deprimen­


te. Le idee rivoluzionarie occupavano tutte le menti, anche
tra le classi agiate e in coloro che si credevano conservatori.
In una commedia intitolata La rivoluzione e gli intellettuali,
lo scrittore russo Rosanov, che aveva serbato l'indipendenza
del proprio pensiero, ha descritto l'imbarazzo di quei liberali
dinanzi alla vittoria dei sovieti : "Dopo aver assistito col più
grande piacere al mirabile spettacolo della rivoluzione, gli
intellettuali vollero ritirare al guardaroba le loro belle pel­
licce e tornarsene nelle loro belle case, ma le pellicce erano
state rubate e le case incendiate".
Nella primavera del 1917 molta gente lasciò Pietroburgo
per cercare rifugio nei possedimenti di Crimea. La grandu­
chessa Senia con i tre figli più grandi, i miei genitori, lrina
e io con lei, seguimmo il movimento generale. A quel tempo
l'ondata rivoluzionaria non si era estesa sino al sud della Rus­
sia, e la Crimea offriva ancora una relativa sicurezza.
l miei giovani cognati, rimasti ad Ai-Todor, ci racconta­
rono che, alla notizia della rivoluzione, i russi che abitavano
i due villaggi vicini erano venuti, al canto della Marsigliese
e sventolando bandiere rosse, per rallegrarsi con loro del mu-
2o6
tamento di regime. Il precettore svizzero, signor Niquille, ave­
va fatto radunare tutti i fanciulli e le governanti su uno dei
balconi, dal quale aveva poi arringato la folla. Il suo paese,
aveva detto, era una repubblica vecchia di trecento anni, tutti
vi erano perfettamente felici ed egli augurava la stessa feli­
cità al popolo russo. Acclamazioni frenetiche avevano accolto
questo discorso. I poveri ragazzi, estremamente imbarazzati,
non sapevano che contegno assumere. Tutto era terminato
tranquillamente e i manifestanti si erano ritirati come erano
venuti, al canto della Marsigliese.
L'imperatrice madre, accompagnata da mio suocero, dalla
figliola minore, la granduchessa Olga Alessandrovna, e dal
marito di questa colonnello Kulikovsky, avevano anch'essi
raggiunto Ai-Todor.
Dopo l'arresto dell'imperatore, l'imperatrice Maria non vo­
leva allontanarsi più da suo figlio, per cui aveva ostinatamente
rifiutato di lasciare Kiev. Fortunatamente un delegato del
governo venne a intimare ai membri della famiglia imperiale
che si trovavano a Kiev l'ordine di lasciare la città. Il soviet
locale approvò questa misura, e la partenza venne subito de­
cisa. Non fu facile costringere l'imperatrice ad andarsene.
La vita in Crimea trascorse pacificamente sino a maggio.
Frattanto, poiché il nostro soggiorno minacciava di prolun­
garsi, giudicai prudente andare a vedere che cosa fosse suc­
cesso della nostra casa della Moika e dell'ospedale installato
in quella della via Liteinaia. Partii dunque per Pietroburgo
con mio cognato Teodoro che aveva voluto accompagnarmi.
Approfittai del viaggio per portare in Crimea due Rembrandt
che erano tra i più bei ritratti della nostra galleria. Toltili
dalle cornici, arrotolai le tele rendendole così facilmente tra­
sportabili. Erano L'uomo dal grande cappello e La donna dal
ventaglio.
Il viaggio di ritorno si svolse nelle condizioni più sgrade­
voli. Una folla di soldati, che si erano smobilitati di p ropria
autorità, pur serbando le armi, affollava il treno. Ce n'erano
per lo meno altrettanti sui tetti dei vagoni. Una vettura di
terza classe si sfondò sotto il loro peso. Erano tutti più o me­
no ubriachi; molti caddero durante la strada. A misura che

20 7
procedevamo verso il sud, il treno si caricava per sopram·
mercato di borghesi che andavano a cercare rifugio in Cri­
mea. Noi eravamo in otto, tra cui una vecchia signora e due
bambini, stipati come aringhe in uno scompartimento di
un vagone letto sconquassato.
Avevamo con noi un ragazzo sulla quindicina che si era
presentato alla Moika poche ore prima della nostra partenza.
Non so piÙ - ammesso che lo abbia mai saputo - com�,
alla ricerca di un mezzo di sussistenza, fosse finito presso di me.
A ogni modo era lì, in divisa militare e armato di una rivol­
tella. Per quanto giovane, aveva evidentemente ricevuto il
battesimo del fuoco e anche combattuto valorosamente, a
giudicare della croce di san Giorgio appuntata sull'uniforme
stracciata. Il caso di quel giovane eroe mi parve interessante.
Non potendo, per mancanza di tempo, occuparmi di lui sul
posto, gli offrii di portarlo in Crimea dove gli avrei trovato
lavoro. Infelice ispirazione ! Piccolo e mingherlino, non avreb­
be gran che aumentato l'ingombro del vagone se si fosse adat­
tato a starsene tranquillo. Invece non cessava di agitarsi, sal­
tando nella reticella dei bagagli come una giovane scimmia,
oppure uscendo dal finestrino per arrampicarsi sul tetto del
vagone, dove sparava colpi di rivoltella in aria. Tornato per
la stessa via, ricominciava a dimenarsi. Vi fu qualche mo­
mento di tranquillità quando si fu sdraiato nella reticella dei
bagagli per dormire. Cominciavamo anche noi a sonnecchia­
re, quando una cascata di origine sospetta ci svegliò. Il no­
stro giovane compagno aveva evidentemente perso ogni
ritegno.
A Simferopoli, dove scendemmo, si perse tra la folla e non
lo rivedemmo più.
Insieme con noi arrivava la troppo celebre Bresc'kovskaia,
soprannominata "la nonna della rivoluzione russa", che ve­
niva in Crimea a riposarsi delle fatiche della detenzione in
Siberia. Viaggiava nel treno imperiale, e Kerensky aveva fat­
to mettere a sua disposizione il palazzo di Livadia. La città
di Yalta, interamente pavesata di stracci rossi, fece a quella
vecchia megera un'accoglienza trionfale. Correvano sulla
Bresc'kovskaia le storie più ridicole. La credenza popolare
208
-
vedeva in lei la figlia di Napoleone I e di una bottegaia di
Mosca ! Al suo passaggio per le stazioni la folla l'aveva sa­
lutata al grido di "Viva Napoleone !".

Mentre eravamo a Pietroburgo, un primo allarme aveva


turbato la vita pacifica deglì abitanti di Ai-Todor.
Una mattina, all'alba, mio suocero era stato svegliato con
la canna di una rivoltella contro la fronte. Una banda di ma­
rinai inviati dal soviet di Sebastopoli con un ordine di per­
quisizione aveva invaso la sua casa. Il granduca fu invitato a
consegnare la chiave della scrivania e le armi. La vecchia
imperatrice dovette alzarsi e lasciar frugare il proprio letto.
In piedi dietro un paravento, senza poter protestare, vide il
capo della banda impadronirsi delle sue carte e della sua
corrisponàenza personaìe come aveva fatto nella camera di
mio suocero. Egli le portò via persino la vecchia Bibbia che
l'aveva seguita sempre da quando aveva lasciato la Dani­
marca per sposare lo zar Alessandro III. La perquisizione
durò tutta la mattinata. In fatto di armi non furono trovati
che una ventina di vecchi fucili Winchester che provenivano
da] vecchio yacht i] mio suocero e di cui egli aveva del tutto
dimenticato l'esistenza. Nel pomeriggio, l'ufficiale �he diri­
geva la spedizione, uomo estremamente arrogante e vil1ano,
venne ad avvisare il granduca che doveva arrestare l'impera­
trice - che egli chiamava "Maria Fiodorovna" - la quale,
così diceva, aveva insultato il governo provvisorio. Mio suo­
cero lo calmò a fatica facendogli notare che non era negli usi
lasciar entrare dei marinai nella camera di una vecchia si­
gnora alle cinque del mattino, e ch'era naturale che costei si
fosse considerata offesa.
Quel gentile individuo doveva giungere ad alte funzioni
sotto il governo bolscevico che, alla fine, lo fece fucilare.
La perquisizione di Ai-Todor era una prova di più della
debolezza del governo provvisorio, perché era stato il soviet
di Pietroburgo a esigerla in seguito a rapporti fantastici sul­
l'attività antirivoluzionaria della famiglia di mia moglie. Ap­
prendendo ciò che accadeva in casa di suo padre, lrina era

209
subito accorsa, ma invano cercò di entrare nella proprietà;
tutti gli ingressi erano guardati a vista, persino i sentieri che
i soli abitanti conoscevano. Soltanto dopo che la banda se ne
fu andata ella riuscì a raggiungere la famiglia.
Da quel giorno gli abitanti di Ai-Todor furono sottoposti
a ogni genere di vessazioni. Una guardia di venticinque · sol­
dati e marinai, tutte persone insolenti e grossolane, fu sta­
bilita nella proprietà. Il commissario che li accompagnava
presentò il regolamento cui dovevano essere sottoposti i pri­
gionieri. Dopo la lista dei divieti veniva quella delle persone
che erano autorizzati a ricevere : lrina e me, i professori dei
ragazzi, il medico e i fornitori. Di tanto in tanto, e senza
nessuna ragione, veniva proibito ai miei suoceri di ricevere
qualsiasi visita, anche quella della loro figliola. Poi, senza
maggiori spiegazioni, il divieto veniva tolto.
Quando lrina mi ebbe posto al corrente di ciò ch'era av­
venuto nella mia assenza, risolvemmo di comune accordo che
essa sarebbe andata a trovare Kerensky, per chiedergli d'in­
tervenire. Partimmo dunque per Pietroburgo. Ma soltanto
dopo un mese Trina poté ottenere un'udienza dal capo del
governo provvisorio.
Entrando al palazzo d' Inverno, essa vi ritrovò qualche
vecchio servitore che manifestò una gioia commovente nel
rivederla. Introdotta nell'antico gabinetto di lavoro dello zar
Alessandro Il, vide arrivare di lì a poco Kerensky, molto
cortese e persino un po' imbarazza to. A vendo egli invitato
la visitatrice a sedersi, questa rispose installandosi delibera­
tamente nella poltrona del proprio bisavolo, costringendo così
il capo del governo a occupare il posto dei visitatori. Appena
ebbe capito di che cosa si trattasse, Kerensky cercò di spie­
gare che la cosa non dipendeva da lui. Ma Trina, trascurando
le sue osservazioni, continuò il racconto senza rispar­
miargli nulla. Alla fine, però, dovette accontentarsi della sua
promessa di fare ciò che avrebbe potuto, e uscì per sempre
dal palazzo degli antenati, salutata per l'ultima volta dai
vecchi servitori.
Nonostante gli avvenimenti e l'inquietudine generale, le
riunioni erano frequenti. Quali che siano le circostanze del
210
momento, la gaiezza e la giOia di vivere, specialmente nella
gioventù, non perdono mai i loro diritti. Di conseguenza, se­
rate venivano organizzate continuamente, sia alla Moika, sia
in casa di questo o quello dei nostri amici rimasti a Pietro­
burgo. Andammo persino a trascorrere una serata a Zarskoie
Selò dal granduca Paolo Alessandrovic. Dopo il pranzo le
sue due figlie, Irene e Natalia, recitarono con molta intelli­
genza una commedia francese che il fratello Vladimiro aveva
composto per loro. Il granduca Michele Mikhailovic ci faceva
lunghe visite e non cessava un momento di tempestare con­
tro tutto e tutti.
Verso la fine del nostro soggiorno a Pietroburgo i bolsce­
vichi tentarono per la prima volta di impadronirsi del potere
con la forza. Autocarri carichi di truppe percorrevano la
città, sparando raffiche di mitragliatrici in tutte le direzioni ;
soldati sdraiati sul marciapiede puntavano il fucile non im­
porta contro chi e contro che cosa. Le strade erano dissemi­
nate di cadaveri e di feriti, il panico regnava nella capitale.
Questa volta, però, l'insurrezione fallì e una calma relativa
si ristabilì provvisoriamente.
Poco dopo questi avvenimenti tornammo in Crimea. Du­
rante la nostra assenza una commissione d'inchiesta era stata
inviata ad Ai-Todor in seguito a una querela avanzata dalla
famiglia di mia moglie a proposito dei furti commessi durante
la perquisizione di maggio. Tutti gli abitanti della casa erano
stati interrogati separatamente. Quando venne la volta del­
l'imperatrice, questa fu invitata a firmare la propria depo­
sizione come : " l'ex imperatrice Maria". Ella prese la penna
e firmò: " la vedova dell'imperatore Alessandro III ".
Un mese dopo arrivò l'inviato di Kerensky. Aveva paura
di tutto e non era buono a nulla. La sua presenza non migliorò
la situazione.
In agosto apprendemmo che lo zar e la sua famiglia erano
stati condotti a Tobolsk, in Siberia. Sia che quella fosse una
misura imposta dai boscevichi o - come affermava Keren­
sky - il preludio di un'azione diretta contro di loro, non era
possibile non concepire le maggiori inquietudini per la sorte
dei prigionieri imperiali. L'offerta di ospitalità fatta loro dal

21 1
re Giorgio V s'era urtata all'opposizione del governo inglese
nella persona di Lloyd George. Il re di Spagna aveva formu­
lato la stessa proposta, ma i nostri sovrani l'avevano respinta
dichiarando che, qualunque cosa accadesse, non avrebbero
mai lasciato la Russia.

Quando venne l'autunno, risolvetti di tornare a Pietroburgo


per tentare di mettere al sicuro i gioielli e gli oggetti più
preziosi delle nostre collezioni. Appena arrivato mi misi al
lavoro, aiutato dai più devoti tra i servitori. Andai anche a
prendere, al palazzo Anisc'kov, un grande ritratto dell'impe­
ratore Alessandro III al quale l'imperatrice Maria era parti­
colarmente affezionata e che mi aveva chiesto di portarle. Lo
feci togliere dalla cornice e arrotolare, come avevo fatto pre­
cedentemente con i due Rembrandt. Disgraziatamente ero
arrivato troppo tardi per salvare i suoi gioielli, ch'erano stati
portati a Mosca per ordine del governo provvisorio. Termi­
nato il mio compito alla Moika, partii per Mosca accompa­
gnato dal fedele Gregorio Bujinsky, portando con me tutti i
nostri gioielli per nasconderli in un altro luogo. Ho già detto
come, grazie all'eroica abnegazione di Gregorio Bujinsky, que­
sto nascondiglio sfuggisse da principio alle investigazioni dei
bolscevichi. I gioielli dovevano cadere nelle loro mani soltanto
otto anni dopo, quando alcuni operai, riparando uno scalino,
scoprivano il luogo in cui erano stati nascosti.
Prima di lasciare Mosca ebbi un lungo colloquio con la
granduchessa Elisabetta. La trovai piena di coraggio, ma sen­
za illusioni sulla gravità della situazione e molto preoccupata
per la sorte dell'imperatore e della sua famiglia. Dopo una
breve preghiera nella cappella, mi congedai da lei con la con­
vinzione dolorosa che non l'avrei più vista.
Partii la stessa sera da Pietroburgo. Il giorno dopo la mia
partenza il governo provvisorio cadeva pietosamente, e il
partito bolscevico, con Lenin e Trotsky, assumeva il potere.
Tutti i posti del governo furono immediatamente occupati da
commissari ebrei, più o meno camuffati sotto patronimici russi.
Un disordine indescrivibile regnava nella capitale; bande di
212
soldati e di marinai s'introducevano a forza nelle case, sac­
cheggiavano gli appartamenti e spesso facevano strage degli
abitanti. Tutta la città era in balìa della canaglia scatenata,
assetata di sangue e di distruzione.
Le giornate, e soprattutto le notti, erano angosciose. Fui
testimonio di una scena particolarmente atroce che si svolse
sotto le mie finestre : un gruppo di marinai maltrattava un
vecchio generale, colpendolo sulla testa con gli stivali chio­
dati e col calcio dei fucili. Il disgraziato si trascinava peno­
samente, tra gemiti spaventosi. Vidi con orrore il suo volto
tumefatto dove il sangue sgorgava da due buchi informi che
si aprivano al posto degli occhi.
Numerosi amici e persino sconosciuti venivano a cercare
rifugio alla Moika, pensando di potervi essere più al sicuro.
Quello di alloggiare e nutrire tanta gente era un problema.
Un giorno si presentò un distaccamento di soldati con l'ordine
di occupare la casa. La feci visitare cercando di convincerli
che era più un museo che una caserma. Se ne andarono senza
insistere, ma non senza l'idea di tornare.
Una mattina, qualche giorno dopo, uscendo di camera mia,
per poco non inciampai nei corpi dei soldati addormentati
sul pavimento di marmo del vestibolo. Un ufficiale si avvi­
cinò e mi disse di aver ricevuto l'ordine di montare la guardia
alla nostra casa. Quella sollecitudine mi spiacque : mi faceva
pensare che i bolscevichi mi considerassero come un simpa­
tizzante della loro causa. Non volendo aver niente a che fare
con loro, risolvetti di ripartire al più presto per la Crimea.
Ma quella stessa sera arrivò un giovane ufficiale che aveva il
comando del nostro quartiere. Era accompagnato da un bor­
ghese. Conoscevo il primo, non il secondo. Mi dissero che do­
vevo lasciare immediatamente Pietroburgo e accompagnarli a
Kiev. Nello stesso tempo mi consegnarono dei falsi documenti
che avevano già preparati.
Non potevo far altro che seguire un consiglio che somi­
gliava stranamente a un ordine, tanto più che la faccenda mi
lasciava perplesso. Quale poteva essere l'intenzione di quei
due uomini? Mi perdevo in congetture su ciò che mi aspet-

213
tava. Salendo in carrozza, notai che una grande croce rossa
era stata dipinta sulla facciata della nostra casa.
Il treno era rigurgitante. V'erano viaggiatori fin sul tetto
dei vagoni ; i vetri erano rotti, gli stoini strappati. Con mia
grande sorpresa, i miei compagni mi accompagnarono a
uno scompartimento chiuso a chiave e che sembrava essermi
stato riservato. Vi fummo lasciati tranquilli per tutta la notte.
A Kiev tutti gli alberghi erano pieni. Non avevo nessuna
voglia di accettare l'ospitalità offertami dall'ufficiale ; tutta­
via finii per adattarmici, pur di non dormire in mezzo alla
strada. Per fortuna, dalla carrozza nella quale eravamo saliti,
vidi aprirsi la porta di una casa e uscirne una delle mie ami­
che, la principessa Gagarin. Ella mi riconobbe e fece un ge­
sto di sorpresa. Dopo aver fatto fermare la carrozza e pregato
il mio compagno di aspettarmi un istante, corsi a salutarla.
« Che cosa fate », mi domandò, « e come avete potuto tro­
vare un letto per dormire? ».
« Che cosa faccio a Kiev ? Non mi spiacerebbe che qual­
cuno me lo dicesse », risposi, « e, quanto all'alloggio, ho do­
vuto accontentarmi di una soluzione che è ben lontana dal
soddisfarmi » .
Allora ella mi offrì d i andare a casa sua, cosa che accettai
con premura.
Il giorno dopo, apprendendo che il telegrafo funzionava
ancora, uscii per mandare un telegramma alla mia famiglia
che, priva di notizie, doveva essere preoccupata. Non fu una
cosa agevole. Come a Pietroburgo, il più assoluto disordine
regnava a Kiev. I colpi di fucile crepitavano da tutte le parti
e si correva il rischio a ogni momento di ricevere una pallot­
tola perduta. A intervalli, le mitragliatrici spazzavano i mar­
ciapiedi. Strisciai come potei sino all'ufficio postale e tornai
nello stesso modo. La mia ospite fu spaventata vedendomi ar­
rivare con gli abiti laceri, il volto e le mani coperti di fango.
L'ufficiale venne a trovarmi e mi disse che la casa in cui
abitava e nella quale mi aveva offerto ospitalità era stata
distrutta da una bomba. Egli stesso doveva la vita soltanto
al fatto di aver dormito altrove.
Aprendo per caso un giornale, sobbalzai leggendo che si
ricercava un criminale il cui nome era precisamente quello
scritto sui miei falsi documenti. Avvisai immediatamente l'uf­
ficiale che me ne procurò di nuovi, altrettanto falsi, e, appa­
rentemente, con la stessa facilità.
In capo a una settimana gli dichiarai che non avevo l'in­
tenzione di restare per sempre a Kiev dove non avevo nulla
da fare, e ch'ero risoluto a raggiungere la mia famiglia in
Crimea. Volevo inoltre ripassare da Pietroburgo per p rendere
gli indumenti che vi avevo lasciato al momento della preci­
pitosa partenza. Ma il mio programma non sembrava andare
a genio all'ufficiale. Nondimeno mi promise di avvisarmi non
appena la prudenza ci avesse permesso di partire, poiché
sembrava deciso a non !asciarmi padrone di me stesso. Due
giorni dopo tornò a dirmi : « Preparatevi a partire domani >.
Infatti il giorno seguente venne a prendermi, accompagnato
dal misterioso accolito.
Arrivato alla stazione di Pietroburgo comperai un gior­
nale e lessi queste parole: « Il principe Yussupov è stato arre­
stato e imprigionato nella fortezza di Pietro e Paolo :�> .

Tesi il giornale ai miei due compagni.


« Siete sicuro dei vostri domestici ? », mi domandò l'ufficiale.
« Assolutamente sicuro ».
« In questo caso andate a casa vostra e non vi movete sino
a che non ve lo dica io. Non fatevi vedere da nessuno e non
rispondete al telefono. · Spero di poter garantire tra poco la
vostra partenza per la Crimea ».
Rialzai il bavero e andai alla Moika. I domestici, che ave­
vano letto la notizia del mio arresto, erano tutti in lacrime e
furono felici e sorpresi di vedermi. A dispetto della forzata
reclusione vidi alcuni amici sicuri. Pochi giorni dopo, sempre
accompagnato dai miei angeli custodi, partii per la Crimea.
Anche questa volta avevamo uno scompartimento riservato e
il viaggio si svolse senza incidenti. Invano cercai di ottenere
qualche spiegazione dai miei misteriosi compagni : a tutte le
domande, essi opponevano un silenzio assoluto. Mi lasciarono
alla stazione di Bakcissarai, dopo essersi acquistati indiscutibili
diritti alla mia gratitudine. Venni a sapere più tardi ch'erano
entrambi massoni.

2 15
A giudicare dalla grande Delaunay-Belleville dei miel. ge­
nitori che mi aspettava col suo bravo gagliardetto recante le
armi degli Yussupov, si sarebbe potuto credere che la Crimea
fosse relativamente calma ; ma poco dopo il mio Titorno co­
minciarono le stragi. La flotta del Mar Nero era passata dalla
parte dei sovieti. Qualche mese prima, dopo aver lottato sino
alla fine per mantenere la disciplina, l'ammiraglio Kolciak
che la comandava, spezzando la spada d'oro che aveva rice­
vuto per il suo leggendario coraggio, ne aveva gettato i tron­
coni in mare e aveva abbandonato il comando. Un terribile
massacro di ufficiali di marina ebbe luogo a Sebastopoli, men­
tre i saccheggi e gli assassinii si moltiplicavano in tutta la
penisola. Bande di marinai s'introducevano nelle case, violen­
tavano le donne e i bambini davanti ai mariti e ai genitori.
Gli uomini erano torturati a morte. Mi è accaduto d'incon­
trare alcuni di questi marinai; collane di perle e di diamanti
pendevano sul loro petto villoso, le loro braccia e le loro mani
erano cariche di braccialetti e di anelli. V'erano tra essi mo­
nelli di quindici anni. Molti erano grottescamente incipriati
e truccati. Si sarebbe potuto credere di assistere ad una ma­
scherata infernale. A Yalta i marinai ammutinati attaccavano
grosse pietre ai piedi di coloro che fucilavano e gettavano in
mare. Un palombaro, esplorando più tardi il fondo del golfo,
diventò pazzo per aver visto tutti quei cadaveri ritti, ondeg­
gianti come alghe al moto del mare. Andando a letto, non
eravamo mai sicuri di essere ancora vivi il giorno dopo. Un
pomeriggio, una banda di marinai comandata da un ebreo
venne da Yalta per arrestare mio padre. Dissi loro che era
ammalato e chiesi di vedere il mandato d'arresto. Natural­
mente non lo avevano e io pensai di guadagnar tempo ingiun­
gendo loro di andarlo a prendere. Dopo interminabili discus­
sioni, due si risolvettero a fare quel che dicevo. Siccome in
capo a molte ore non erano ancora tornati, gli altri, stanchi
di aspettare, se ne andarono alla loro volta.
Qualche giorno dopo, un'altra banda scese dalle montagne.
Era una cavalleria navale di genere particolare, temuta an­
che dai sovieti. Questi briganti, armati sino ai denti e montati
su cavalli rubati, invasero il nostro cortile sbandierando ves-'
216
silli con iscrizioni che promettevano: "Morte ai borghesi !
Morte ai controrivoluzionari ! Mòrte ai p roprietari ! ". Uno dei
nostri servitori, spaventato, venne ad avvertirci che reclama­
vano da mangiare e da bere. Uscii nel cortile. Due marinai
misero piede a terra e vennero verso di me. Avevano fisiono­
mie insolenti e brutali. Uno portava un braccialetto di dia­
manti, l'altro una spilla preziosa ; i loro vestiti eran macchiati
di sangue. Siccome dicevano di volermi parlare, li feci entrare
nel mio appartamento dopo aver detto agli altri di rifocil­
larsi in cucina.
Grande fu lo stupore di Irina vedendomi entrate con quei
brutti tipi. Feci portare qualche bottiglia di vino ed eccoci
tutti e quattro seduti come per una chiacchierata amichevole.
I nostri visitatori non sembravano menomamente imbarazzati,
ma ci squadravano con curiosità. Improvvisamente uno di
essi mi chiese se fossi veramente l'assassino di Rasputin.
Avendo io risposto affermativamente, bevvero alla mia salute
e dichiararono che in questo caso né io né i miei avevamo
nulla da temere da loro. Dopo di che si misero a raccontarmi
le loro prodezze contro l'esercito bianco. Poi, vedendo la mia
chitarra, mi chiesero di cantare. Dovetti accontentarli, abba­
stanza soddisfatto di questo diversivo che troncava netto i
loro poco gradevoli racconti. Cantai varie canzoni di cui essi
riprendevano il ritornello in coro. Le bottiglie si vuotavano
l'una dopo l'altra e l'allegria dei singolari convitati diventava
sempre pm rumorosa, mentre i miei genitori, che avevano la
camera sotto la mia, si chiedevano quale potesse essere la
ragione di tutto quel baccano. La serata finì molto bene. I
marinai ci lasciarono stringendoci lungamente la mano e rio­
graziandoci con effusione dell'accoglienza ospitale. Poi la
banda si rimise in sella e, agitando le bandiere con le iscri­
zioni che ci condannavano tutti a morte, si allontanò facen­
doci dei segni amichevoli.

Ad Ai-Todor il commissario inviato da Kerensky era stato


sostituito da un altro, nominato dai sovieti.
"Provammo la ripercussione della nuova rivoluzione", seri-

217
ve mio cognato nelle proprie memorie. "Un tale Giorgiuliani,
che comandava la nostra guardia, fu richiamato, e il soviet di
Sebastopoli nominò al suo posto il marinaio Zadorojny. Il
giorno del suo arrivo gli fui presentato nella camera della
casa occupata dai nostri custodi. Era un uomo enorme, con
una fisionomia di bruto, ma nella quale era possibile discer­
nere una certa bontà. Per fortuna il nostro primo colloquio
ebbe luogo a quattr'occhi. Sin dal principio si mostrò molto
gentile. Sedemmo e la conversazione incominciò. Gli doman­
dai dove avesse prestato servizio. Mi rispose ch'era stato nel­
l'aeronautica, aggiungendo che m'aveva visto parecchie volte
a Sebastopoli. Parlammo poi della situazione generale, e al­
lora capii che ci era favorevole. Ammetteva che al principio
s'era lasciato trascinare dal movimento rivoluzionario... Quan­
do ci separammo, eravamo amici. Era per noi un grande
conforto sapere di essere affidati alla guardia di quell'uomo.
Davanti ai suoi camerati, però, ci trattava con ruvidezza e
non lasciava trasparir nulla dei propri veri sentimenti".
Nel frattempo si presentò un ebreo di nome Spiro che fece
riunire tutti gli abitanti di Ai-Todor per farne l'appello.
L'imperatrice madre rifiutò di scendere e si mostrò soltanto
per un momento in cima alla scala.
Zadorojny era arrivato in dicembre. In febbraio annunciò
a mio suocero che tutti i Romanov residenti in Crimea insie­
me con le persone del loro seguito dovevano essere riuniti nel
dominio di Dulber, proprietà del granduca Pietro Nicolaievic.
Spiegò che la sicurezza dei prigionieri imponeva quella mi­
sura. Infatti, il soviet di Yalta esigeva la loro immediata ese­
cuzione, mentre il soviet di Sebastopoli, dal quale dipendeva
Zadorojny, voleva aspettare gli ordini del compagno Lenin.
C'era da temere che il soviet di Yalta eseguisse un attacco a
mano armata per impadronirsi dei prigionieri. Dulber, con
le sue alte e spesse mura, era una specie di fortezza che sa­
rebbe stato eventualmente più facile difendere di Ai-Todor,
aperto al primo venuto. Così, dunque, il palazzo moresco del
granduca Pietro fu scelto come carcere per i membri della
famiglia imperiale che si trovavano in Crimea, e cioè : l'im­
peratrice madre, i miei suoceri e i loro sei figlioli; il granduca
218
Nicola Nicolaievic, sua moglie e i due figli nati dal primo
matrimonio della granduchessa; il granduca Pietro e la gran­
duchessa Miliza con i loro figlioli, la p rincipessa Marina e il
principe Roman. La loro figlia più giovane, principessa Na­
deja, diventata per matrimonio principessa Orlov, la gran­
duchessa Olga Alessandrovna e mia moglie, sposate come lei
morganaticamente, furono lasciate libere.
A Dulber i prigionieri erano del tutto isolati. Solo nostra
figlia lrene, che aveva allora due anni, era autorizzata a far
loro visita. È per il suo tramite che riuscivamo a comunicare
con loro. La governante l'accompagnava sino all'ingresso della
proprietà, dove la bimba entrava sola, portando le nostre
lettere appuntate dentro il paltoncino. Le risposte ci giun­
gevano nello stesso modo. La nostra messaggera, così giovane,
non ebbe mai un momento di debolezza nel compimento della
pericolosa missione. Sapevamo così come vivessero i prigio­
nieri. Erano nutriti discretamente male e in modo insuffi­
ciente ; il cuoco Karnilov, che più tardi, a Parigi, doveva
aprire un ristorante molto noto, faceva del suo meglio col
poco che riusciva a procurarsi. Il più delle volte si trattava
di grano saraceno e di una minestra con piselli secchi. Per
qualche giorno i prigionieri di Dulber avevan mangiato carne
d'asino, un'altra volta di caprone.
Sapendo ch'essi erano autorizzati a passeggiare nel parco,
mia moglie ideò uno strattagemma che ci permise per qualche
tempo di parlare con i suoi fratelli. Andavamo a passeggiare
con i nostri cani sotto il muro di cinta della proprietà. lrina
chiamava i cani, e subito l'uno o l'altro dei fratelli faceva
capolino al di sopra del muro. Quando scorgeva una guardia
nei dintorni si lasciava scivolare giù dal muro, mentre noi
continuavamo imperturbabili la nostra passeggiata. Disgrazia­
tamente il nostro trucco non tardò ad essere scoperto e quindi
dovemmo rinunciare a questi appuntamenti.
Un pomeriggio incontrai Zadorojny. Si fece qualche passo
insieme. Dopo avergli domandato notizie dei suoi prigionieri,
gli dissi che avevo bisogno di parlargli. Parve sorpreso e im­
barazzato. Supponendo che non ci tenesse gran che a farsi
vedere con me dai suoi uomini, gli proposi di venirmi a tro-

219
vare in serata, in un'ora nella quale potesse essere sicuro di
non incontrare nessuno. ?er entrare da me senza essere visto,
gli sarebbe bastato scavalcare il · balcone della mia camera
ch'era al pianterreno. Venne quella sera e parecchie altre
volte. Mia moglie era spesso presente ai colloqui. Per ore,
cercavamo insieme un mezzo di salvare l'imperatrice Maria
e la sua famiglia.
Era sempre più evidente che quello Zadorojny, tanto temi­
bile all'aspetto, era tutto per noi. Mi spiegò che cercava di
guadagnar tempo sfruttando la rivalità dei due sovieti: quello
di Yalta, che voleva impadronirsi dei prigionieri per fucilarli
seduta stante, e quello di Sebastopoli che, d'accordo con Mo­
sca, voleva che fossero processati. Gli suggerii di dire al
soviet di Yalta che i Romanov dovevano ben presto essere
trasferiti a Mosca per essere sottoposti a processo e che se
fossero stati fucilati prima avrebbero portato nella tomba
importanti segreti di stato che essi soli conoscevano. Zadorojny
seguì il mio consiglio. Sino a quel momento era riuscito a
mantenere in vita i prigionieri, ma la sua situazione diven­
tava ogni giorno più difficile e più pericolosa, perché il soviet
di Yalta sospettava che egli cercasse di salvarli, e la sua stessa
vita era minacciata. Una notte venne a svegliarmi per dirmi
di avere saputo da fonte sicura che una grossa banda di
marinai doveva giungere il giorno dopo per rapire tutti i
prigionieri e portarli a Yalta, dove sarebbero stati fucilati.
Egli era risoluto a non trovarsi a Dulber nel momento in cui
tale handa vi sarebbe arrivata, perché era sicuro dei propri
uomini e sapeva, che lui assente, non avrebbero lasciato en­
trare nessuno. Soggiunse che, già da parecchie notti, i più
giovani tra i suoi prigionieri si davano il cambio per montare
la guardia e che le armi erano pronte per essere distribuite
loro in caso di allarme. Mi disse anche che si stava prepa­
rando una strage generale alla quale nessuno sarebbe sfug­
gito... La notizia era tanto più spiacevole in quanto noi non
eravamo menomamente in condizioni di difenderci, dato che
ci erano state tolte tutte le nostre armi.
La banda annunciata arrivò difatti il giorno dopo da Yalta
e cercò di entrare a Dulber. Come Zadorojny aveva previsto,
220
i custodi risposero che in assenza d�l commissario non pote­
vano clie obbedire alla consegna e non lasciar entrare nes­
suno. Vedendo le mitragliatrici pronte a sparare, gli aggres­
sori si ritirarono vociferando e pronunciando le peggiori
minacce all'indirizzo di Zadorojny.
Sapevamo che dopo questo insuccesso Yalta aveva riso­
luto di farla finita. Prevedendo un attacco in forze, Zadorojny
si recò in persona a Sebastopoli a chiedere rinforzi. Doveva
tornare quella stessa sera. Ma Y alta era più vicina di Seba­
stopoli...
Trascorremmo quella notte sul tetto della casa donde pote­
vamo vedere le torri di Dulber e sorvegliare la strada mae­
stra per la quale dovevano arrivare i rinforzi ... o, dal lato
opposto, i banditi di Yalta. Soltanto all'alba vedemmo appa­
rire gli autocarri blindati che arrivavano da Sebastopoli. E
siccome non si vedeva niente dalla parte di Yalta, ce ne an­
dammo a dormire.
Svegliandoci, apprendemmo che erano arrivati i tede­
schi; questa circostanza, alla quale nessuno aveva pensato,
ci salvava.
Eravamo in aprile, a pochi giorni dalle feste di Pasqua.
Ora, 1'8 marzo, il governo sovietico aveva firmato la pace di
Brest-Litowsk, e i tedeschi cominciavano ad occupare certe
parti della Russia. Essi si atteggiarono con piacere a libera­
tori di fronte a una popolazione troppo fiduciosa che, spos­
sata dalle prove e dalle privazioni, era disposta ad accoglierli
come tali. In realtà fu proprio il loro arrivo a salvare i pri­
gionieri di Dulber. È facile immaginare la gioia generale per
quella liberazione tanto improvvisa quanto inattesa. L'ufficia­
le tedesco era pronto a impiccare Zadorojny e i suoi uomini.
Sarebbe impossibile esprimere la sua stupefazione quando i
granduchi lo pregarono di non farne nulla e chiesero anzi
che fosse lasciata loro momentaneamente la guardia di Dulber
e di Ai-Todor. Il tedesco finì per acconsentire, a condizione
d'essere scaricato di ogni responsabilità per le eventuali con­
seguenze di quella pazzia, ma il suo atteggiamento rivelava
chiaramente la convinzione che la troppo lunga prigionia
avesse fatto dar di volta al cervello dei granduchi.

221
Alcuni giorni dopo, i carcerieri si congedavano dai pri­
gionieri in modo commovente. I più giovani piangevano ba­
ciando loro le mani.
In maggio arrivò a Yalta un ufficiale tedesco, aiutante di
campo dell'imperatore Guglielmo. Recava una proposta del
kaiser : si trattava di proclamare imperatore di tutte le Russie
quello dei membri della famiglia imperiale che avesse ac­
cettato di controfirmare il trattato di Brest-Litowsk. Tutti i
Romanov presenti respinsero la proposta con indignazione.
Allora l'inviato del kaiser chiese a mio suocero di procurargli
un colloquio con me. Il granduca rifiutò, affermando che nes­
sun membro della famiglia avrebbe mai accettato di diven­
tare un traditore.
Dopo la liberazione, gli ex prigionieri erano rimasti an­
cora per un po' di tempo a Dulber. Poi l'imperatrice andò
ad abitare ad Hara, proprietà di uno dei fratelli di mio suo­
cero, il granduca Giorgio, e ognuno tornò alla propria casa.
La vita ricominciò pressoché normale. Nei più vecchi, il
sollievo non andava esente da inquietudine, ma i giovani si
abbandonavano pienamente alla gioia di sentirsi vivi e liberi,
gioia che si rivelava in un più grande bisogno di distrazione
e di moto. Le partite di tennis, le escursioni, le colazioni al­
l'aperto si seguivano senza interruzione ...
Avevamo trovato un altro elemento di distrazione fondando
un giornale. Una delle nostre amiche, Olga Wassiliev, ragazza
gentile, intelligente e graziosa, ne era il redattore capo. Tutte
le domeniche il nostro gruppo si riuniva alla sera a Koreiz ;
dopo l e "attualità", Olga leggeva a d alta voce l ' "articolo"
che ognuno dei sedici collaboratori doveva aver composto nel
corso della settimana su un argomento di sua scelta. Viaggi
immaginari, avventure fantastiche in paesi lontani: ecco i te­
mi abituali scelti da quei giovani incerti del domani. Un inno
alla gloria del giornale, che cantavamo in coro, iniziava e
concludeva ritualmente le sedute. A mezzanotte la corrente
veniva tolta e la serata terminava alla luce delle candele.
L'interesse che i nostri genitori dimostravano per il gior­
nale e il divertimento che questo procurava loro, non impe­
divano che essi concepissero qualche preoccupazione in pro-
222
posito. Sapevano che, in quei tempi, le più innocenti distra­
zioni non erano senza rischi, e tutto, in quei tempi tanto agi­
tati, suscitava i loro timori.
Il nostro settimanale ebbe una vita effimera. Ne appar­
vero tredici numeri; ma dopo questa cifra fatidica la "spa­
gnola." colpì, l'uno dopo l'altro, tutti i redattori. Quando giun­
se l'ora della fuga, la prima cosa che mia moglie cacciò nella
valigia fu il nostro giornale.
Il granduca Alessandro aveva fatto dono a sua figlia di
un boschetto di pini aggrappato alla scogliera, al di sopra del
mare. Era un luogo maraviglioso. Nel 1 9 1 5 vi avevamo fatto
costruire una casetta rustica, tutta imbiancata a calce, den­
tro e fuori, e con un tetto di tegole verdi. Siccome sorgeva
su un terreno in pendenza, una parte della casetta era più
alta dell'altra e la sua principale caratteristica era di non
avere alcuna simmetria. Dall'ingresso, dinanzi al quale si
stendeva un tappeto di fiori, scendendo alcuni gradini, si ac­
cedeva a un balcone interno che dominava l'atrio. Questo si
apriva su una terrazza il cui centro era occupato da una va­
sca. Dall'altro lato si scendeva alla piscina circondata da un
colonnato al quale si attorcigliavano, come d'altronde a tutta
la casa, rose e glicini. All'interno, i dislivelli avevano dato
luogo a una disposizione imprevedibile e divertente di sca­
lette, di pianerottoli, di balconcini, ecc. La mobilia di quer­
cia naturale ricordava gli. antichi mobili rustici inglesi. Cu­
scini di tela fiorata ornavano le sedie, e i tappeti erano dap­
pertutto sostituiti da stuoie. Gli avvenimenti sopravvenuti
dopo che questa casetta fu compiuta ci impedirono di an­
darvi ad abitare, ma durante il periodo di relativa euforia
che vivemmo all'inizio del 1918 vi organizzammo di tanto in
tanto qualche gita. Siccome i viveri erano scarsi, ognuno dove­
va portare le proprie provviste. In compenso, il vino non
mancava, perché tutti in Crimea possedevamo vigneti. E non
mancava nemmeno l'allegria, grazie � quella gioventù che
badava soltanto a vivere dimenticando le prove subìte e il
minaccioso avvenire.
Proprio il giorno prima di una di queste riunioni, ci giun­
se la voce dell'assassinio dello zar e della sua famiglia. Ma
circolavano tante voci false che noi non prestavamo loro più
nessuna fede ; così che la progettata riunione ebbe luogo
egualmente. Difatti, qualche giorno dopo, la notizia fu smen­
tita. Venne anzi pubblicata la lettera di un ufficiale che, si
diceva, aveva salvato i nostri sovrani. Ben presto però non
fu più possibile porre in dubbio l'orribile verità. Tuttavia
anche allora l'imperatrice madre rifiutò di credervi: sino al­
l'ultimo giorno ella doveva conservare la speranza di rive­
dere suo figlio.

Davanti alla gravità degli avvenimenti che si succedeva­


no, mi accadeva talvolta di chiedermi se la morte di Rasputin
non fosse stata, come pretendevano certuni, la causa iniziale
della lunga serie di calamità da cui il nostro disgraziato paese
era schiacciato. Riportandomi col pensiero a quei tragici gior­
ni, mi domandavo (e me lo domando ancor oggi) come avessi
potuto concepire e compiere un atto tanto contrario alla mia
natura, al mio carattere, ai miei princìpi. Avevo agito come
in un sogno, e dopo quella notte di incubo, appena rincasato,
mi ero addormentato come un bambino. Mai la voce della
coscienza mi aveva tormentato, mai il pensiero di Rasputin
mi aveva turbato il sonno. Ogni volta che venivo interrogato
su questo avvenimento, ne parlavo come di fatti ai quali non
fossi stato immischiato.
« Una forza ti ha guidato come avrebbe potuto guidare
un altro », mi aveva detto la granduchessa Elisabetta. Ma
di che forza si trattava? Di quella del bene o di quella
del male?
C'era allora a Yalta una vecchia suora la cui santità era
assai reputata e che si diceva avesse il dono della profezia.
Colpita da un male misterioso del quale i medici non ave­
vano mai potuto precisare la natura e che l'aveva lasciata
semiparalizzata, da nove anni non si alzava dal letto e vi­
veva in una cella ermeticamente chiusa, perché non poteva
sopportare il più leggiero filo d'aria. Si diceva che chi en­
trava in quella stanza, in cui l'aria non veniva mai cambiata,
aspirasse un delizioso profumo di fiori.
2 24
Risolvetti di andare a trovare quella suora di cui si par­
lava con tanta venerazione e di interrogarla senza dirle chi
fossi. Quando entrai nella cella, ella tese le mani tremanti
verso di me. « Sei tu! » , esclamò. « Sei tu colui che attendevo.
Ti ho visto in sogno come salvatore del nostro paese >. Poi­
ché mi avvicinavo al letto per ricevere la sua benedizione,
mi afferrò la mano e la baciò. Mi sentii commosso e con­
fuso a un tempo, mentre ella fissava su di me il suo sguardo
raggiante. Rimasi a lungo accanto a lei e le confidai il tur­
bamento che s'impadroniva di me dinanzi a eventi nei quali
qualcuno pretendeva vedere la conseguenza dell'assassinio di
Rasputin.
« Non tormentarti », mi disse la suora, c: tu sei sotto la
guardia di Dio. Rasputin era un ministro di Satana, che tu
hai abbattuto come San Giorgio il drago. Ed egli stesso ti
protegge, perché, dandog1i la morte, gli hai evitato i peccati
più grandi che non avrebbe mancato di commettere se
fosse vissuto più a lungo. La Russia deve espiare le proprie
colpE' passando attraverso prove terribili. Passeranno molti
anni prima che essa risorga. Pochi dei Romanov scampe­
ranno alla morte. Tu sopravviverai loro e parteciperai alla
restaurazione della Russia. Colui che ha aperto la porta è
destinato anche a chiuderla ».
Quando lasciai quella santa donna le mie idee erano piut­
tosto confuse. Essere protetto insieme da Dio e da Rasputin
mi sembrava cosa difficilmente concepibile... E tuttavia deb­
bo riconoscere che parecchie volte, nel corso della mia vita,
il nome di Rasputin mi salvò e salvò i miei cari da grandi
pericoli.
CAPITOLO XIX

Gli ultimi giorni dell'imperatore e della sua famiglia - Assas­


sinio dei granduchi in Siberia e a Pietroburgo - Vani passi del
granduca Alessandro presso gli alleati - Partenza per l'esilio.

L 'assassinio del granduca Michele, fratello minore dello


zar, arrestato nel febbraio 1918 nella sua residenza di Ga­
cina e fucilato in giugno a Perm, in Siberia, aprì la serie dei
misfatti compiuti dai bolscevichi contro la famiglia impe­
riale. Il secondo fu l'assassinio degli stessi sovrani e dei
loro figli.
Tenuti in prigionia a Zarskoie-Selò sino all'agosto del 1917,
sentendo che il governo provvisorio aveva stabilito di
trasferirli, l'imperatore e la sua famiglia avevano sperato di
essere condotti in Crimea. La loro delusione quando seppero
che sarebbero stati portati a Tobolsk, in Siberia, fu grande.
Un piccolo gruppo di fedeli risoluti a condividere la loro
sorte li accompagnava. Erano la contessa Hendrikov, dama
d'onore, la signorina Schneider, lettrice dell'imperatrice, il
principe Dolgorukov, maresciallo di corte, il generale Ta­
tis'cev, i dottori Botkin e Derevenko, i due precettori sviz­
zeri e inglesi, Gilliard e Gibbs, il marinaio Nagorny, addetto
alla persona dello zarevic, che portava il piccolo malato quan­
do questi non poteva camminare, e qualche altro servitore
devoto.
Quando il battello fluviale che portava i prigionieri da
Tiumen a Tobolsk passò dinanzi a Pokrovskoie, villaggio na­
tale di Rasputin, la famiglia imperiale radunata sul ponte
poté distinguere chiaramente la casa dello st'arez. Gli avve­
nimenti prodottisi dopo la morte di quest'ultimo non erano
stati tali da scuotere la fede dell'imperatrice nel suo profeta
226
siberiano. Per cui, in quell'incontro, ella vide un nuovo segno
di protezione.
A Tobolsk i prigionieri erano alloggiati nella casa del go­
vernatore. I guardiani dovevano spesso intervenire per im­
pedire a una popolazione rimasta fedele ai sovrani di accal­
carsi sotto le loro finestre o di scoprirsi facendo il segno della
croce passando davanti alla loro casa.
Da principio le condizioni di prigionia della famiglia im­
periale erano state sopportabili. I soldati preposti alla sorve­
gli �nza si comportavano correttamente, e il colonnello Koby­
linsky che li comandava, sinceramente affezionato ai prigio­
nieri, faceva quanto era in lui per migliorarne la sorte. Ma,
dopo il colpo di stato bolscevico, "il comitato dei soldati"
aveva a poco a poco sostituito la propria autorità a quella
di Kobylinsky e i prigionieri dovettero sopportare ogni sorta
di vessazioni. Nel febbraio 1918, per effetto della smobilita­
zione dell'esercito, i vecchi soldati che componevano la guar­
dia furono sostituiti da giovani arroganti e ubriaconi, per cui
la situazione dei prigionieri andò peggiorando ogni giorno.
Tutti i tentativi fatti per la loro liberazione erano falliti.
Da principio i sovrani stessi avevano dichiarato a varie ri­
prese che avrebbero rifiutato di prestarsi a un'evasione che
li costringesse ad abbandonare la Russia. Un'altra ragione
d'insuccesso era la presenza di un certo Soloviev, genero di
Rasputin, che Anna Wirubov aveva inviato a Tobolsk con
la missione di formare un centro clandestino allo scopo di
preparare l'evasione della famiglia imperiale. Ora, questo si­
nistro individuo, nel quale la Wirubova aveva riposto tutta
la propria fiducia, altro non era che un agente il quale ser­
viva insieme i bolscevichi e i tedeschi. Questi ultimi, che oc­
cupavano provvisoriamente una parte della Russia, avreb­
bero voluto condurre l'imperatore a Mosca per ottenere da
lui la ratifica del trattato di Brest-Litowsk. Si trattava di
impedire che i prigionieri potessero essere avvicinati da qual­
che persona fedele. Soloviev si era incaricato di ciò. Per il tra­
mite di un prete, Alessio, confessore dei sovrani, egli entrò
in relazione con loro e riuscì a persuadere l'imperatrice che
egli solo, guidato dallo spirito di Rasputin, poteva garantire

227
la salvezza dell'imperatore e della sua famiglia. Le fece cre­
dere che un gruppo di trecento ufficiali devoti erano pronti
a liberarli, quando fosse venuto il momento, a un suo cenno.
Tutti coloro ch'erano inviati da associazioni monarchiche per
preparare l'evasione dei prigionieri, cadevano inevitabilmente
nelle reti di Soloviev, e, non meno inevitabilmente, sparivano.
Quando Soloviev e sua moglie furono arrestati dall'esercito
bianco, a Vladivostok, nel 1919, l'esame delle loro carte fornì
la prova flagrante della loro colpevolezza. Tuttavia la cop­
pia riuscì a fuggire e a riparare in Germania.
Nell'aprile del 1918 il commissario Yakovlev fu inviato da
Mosca in Siberia accompagnato da un distaccamento di cen­
tocinquanta uomini e investito di poteri illimitati. Tre giorni
dopo il suo arrivo annunciò all'imperatore di essere venuto
per portarlo via, senza dirgli però verso quale destinazione.
Assicurava soltanto che non gli sarebbe stato fatto alcun ma­
le, e che se qualcuno avesse desiderato accompagnarlo egli
'
non si sarebbe opposto. Così l'imperatrice si trovò posta di­
nanzi a un dilemma, perché lo zarevic, gravemente amma­
lato da vari giorni, non era trasportabile. La povera madre,
torturata dall'indecisione, non poteva risolversi ad abbando­
nare suo figlio né a lasciar partire il marito senza di lei verso
un destino ignoto. Finalmente prese il partito di seguire l'im­
peratore, lasciando il figlio affidato alla sorveglianza di tre
delle sue sorelle, del precettore Gilliard e del dottor Dere­
venko. La granduchessa Maria, il principe Dolgorukov, il
dottor Botkin e tre domestici avrebbero accompagnato i so­
vrani.
Il viaggio, compiuto in tarantass (1), lungo strade orribili,
fu assai faticoso. Il cambio dei cavalli venne fatto a Prokov­
skoie sotto le finestre della casa di Rasputin. Poi venne la
fermata imprevista a Ekaterinburg e la prigionia nella casa
lpatiev, proprietà di un ricco mercante della città.
È stato stabilito che Yakovlev doveva condurre i prigio­
nieri a Mosca e che la fermata a Ekaterinburg fu il risultato
di un tranello organizzato dal governatore degli Urali per
impadronirsi dell'imperatore, certo con la inconfessata com-
(1) Carrozza da contadini, fatta di vimini e senza sedili, in uso negli Urali.
plicità di Mosca. Non si poté mai sapere quali fossero le vere
intenzioni di Yakovlev. Può darsi, come certuni hanno affer­
mato, ch'egli volesse salvare i prigionieri. Comunque sia, è
certo che, passato più tardi al servizio dell'esercito bianco,
venne ripreso dai bolscevichi e fucilato.
Tre settimane dopo la partenza dei loro genitori, lo za­
revic, le cui condizioni erano migliorate, e le tre granduchesse
rimaste con lui a Tobolsk venivano condotti a Ekaterinburg.
Nella sua miseria, la famiglia imperiale aveva la supre­
ma consolazione di trovarsi tutta riunita.
Per renderla adatta al nuovo impiego, la casa lpatiev era
stata frettolosamente circondata di una duplice staccionata di
assi che si alzava sin quasi alle finestre del secondo piano.
Sentinelle e mitragliatrici erano disposte un po' dappertutto,
all'interno e all'esterno. Qualunque tentativo di evasione era
ormai impossibile. Dal canto suo la Germania, avendo rinun­
ciato a ottenere dall'imperatore la ratifica del trattato di Brest­
Litowsk, aveva abbandonato la famiglia imperiale al pro­
prio destino.
I prigionieri non potevano più nutrire alcun dubbio su ciò
che li aspettava. Essi vissero quest'ultima tappa del loro cal­
vario in condizioni terribili. Nessuna umiliazione era rispar­
miata loro, ma soprattutto essi soffrivano della continua pro­
miscuità in cui dovevano vivere con i custodi, tutta gente di
una volgarità ignobile e per giunta abitualmente ubriaca. Le
porte della camera occupata dalle granduchesse erano state
tolte, e i soldati vi entravano come e quando volevano. Non­
dimeno, sostenuti dalla mirabile fede che non li abbandonò
mai, i prigionieri non sembravano neppure accorgersi di ciò
che avveniva intorno a loro. Essi vivevano già in un altro
mondo, su un altro piano. La loro serenità nella sofferenza e
la loro dolcezza avevano finito coll'imporsi anche ai loro cu­
stodi, al punto da aver ragione, negli ultimi giorni, della fe­
rocia di quei bruti. Dal loro arrivo a Ekaterinburg, essi erano
stati separati dalla maggior parte dei compagni ( 1 ) ; ma per
(1) Eccettuati i due precettori, tutti coloro che avevano seguito la famiglia
imperiale in prigionia pagarono la loro devozione con la vita. II marinaio Nagorny,
umile contadino ucraino, avrebbe potuto salvare la propria rinnegando l'impera­
tore; preferì morire.
fortuna rimanevano loro il dottor Botkin e qualche domestico.
Queste creature fedeli addolcirono gli ultimi giorni della fa­
miglia imperiale, prima di accompagnarla nella morte.
L'assassinio dei prigionieri era deciso: l'avvicinarsi del­
l'esercito bianco che si era formato in Siberia sotto gli ordini
dell'ammiraglio Kolciak determinò l'esecuzione.
Non racconterò qui questo infame delitto. Sono fatti ormai
universalmente noti. Nonostante le precauzioni prese dagli as­
sassini per cancellare le tracce del misfatto, tutte le circo­
stanze ne sono state ricostruite dal giudice istruttore Sokolov
che diresse i lavori dell'inchiesta con abnegazione e pa­
zienza inesauribili. Quei documenti sono stati pubblicati ( 1 ) ,
e Gilliard, precettore dello zarevic, che aveva seguito l a fa­
miglia imperiale in prigionia, ha dato relazione dell'essenziale
in un libro commovente : Le tragique destin de Nicolas Il.
Nel 1920, dopo il crollo del governo dell'ammiraglio Kolciak,
Gilliard ritrovava a Kharbin, in Manciuria, Sokolov e il suo ca­
po, il generale Diterichs, molto preoccupati di mettere in luogo
sicuro i documenti dell'inchiesta di cui cercavano d'impadro­
nirsi i bolscevichi. Il generale Janin, capo della missione fran­
cese - che, di evacuazione in evacuazione, aveva raggiunto
la Manciuria - si incaricò di riportare in Europa le poche
reliquie della famiglia imperiale che avevano potuto essere
raccolte e tutti i documenti dell'istruttoria. Così furono sve­
lati i particolari del delitto e i nomi degli assassini.
Accennerò soltanto a una strana scoperta fatta dal giu­
dice istruttore Sokolov nel sottosuolo della casa lpatiev e di
cui mi parlò egli stesso. Su una parete figuravano due iscri­
zioni : la prima riproduceva la ventunesima strofa del poema
di Heine, BaUhasar: "Balthasar roar in sebliger nacht von se i­
nen knechten ungerbracht", (La notte stessa Baldassarre fu
ucciso dai propri servi). La seconda era scritta in ebraico

( 1 ) N I COLA SOKOLOFF, Enquéte sur l' assassinai de la famille impériale russe,


1 Paynt, Parigi).
La traduzione che ne venne fatta più tardi suona così : "Qui
il capo della religione del popolo e dello stato venne abbat­
tuto. L'ordine è eseguito".

Ventiquattr'ore dopo l'assassinio dei sovrani e dei loro fi­


gli, un altro dramma si svolse a centocinquanta verste da
Ekaterinburg, nella cittadina di Alapaievsk. Arrestati nella
primavera del 1918, la granduchessa Elisabetta, il granduca
Sergio Mikhailovic, i principi Giovanni, Costantino e Igor,
figli del granduca Costantino, il principe Vladimiro Paley,
la suora Varvara e il segretario del granduca Sergio, erano
stati condotti ad Alapaievsk e rinchiusi nell'edificio delle
scuole.
All'inizio il regime dei detenuti era stato sopportabile.
Essi erano autorizzati sinanche a recarsi in chiesa. Ma a un
tratto tutto mutò e il trattamento odioso cui furono sottoposti
era reso più grave dall'insolenza dei custodi. Ho già detto
come perissero la granduchessa e i suoi compagni. l loro corpi
furono ritrovati, nell'ottobre 1918, nei pozzi di una miniera
abbandonata ove erano stati gettati ancora vivi, dopo essere
stati abbattuti a colpi di calcio di fucile.
Dopo l'assassinio della famiglia imperiale e degli altri
membri della dinastia, in Siberia e negli Urali, venne la volta
dei granduchi rimasti a Pietroburgo. I due fratelli di mio
suocero, i granduchi Nicola e Giorgio Mikhailovic, il gran­
duca Paolo Alessandrovic, il granduca Dimitri Costantinovic
e suo nipote, il princi'p e Gabriele, furono arrestati e impri­
gionati. Grazie all'abilità e all'energia di sua moglie, che riuscì
a farlo liberare, il principe Gabriele sfuggì alla sorte dei com­
pagni. Questi furono trasferiti nella fortezza di Pietro e Paolo
e fucilati poco dopo. Il granduca Giorgio e Dimitri morirono
pregando; il granduca Paolo, gravemente ammalato, sdraiato
su una barella, il granduca Nicola, scherzando con i carne­
fici e col suo gattino favorito tra le braccia.
Furono queste le ultime vittime che la rivoluzione bolsce­
vica fece tra i Romanov. Così finì, nel sangue e nella cenere,
il regno di una delle più potenti dinastie del mondo, che,
dopo avere diretto i destini della Russia per più di tre secoli
ed essere stata lo strumento della sua grandezza, fu la causa
involontaria della sua rovina.

In base all'armistizio dell'i i novembre, i tedeschi dove­


vano evacuare la Crimea e tutte le parti del territorio russo
da essi occupate nella primavera precedente. Vedemmo al­
lora apparire alcune centinaia di ufficiali russi che erano riu­
sciti a entrare clandestinamente in Crimea con lo scopo di
proteggere i membri della famiglia imperiale che vi si tro­
vavano allora. Risoluti a raggiungere l'esercito bianco, i miei
cognati Andrea, Teodoro e Nikita, e io stesso, inoltrammo
una domanda di arruolamento al generale Denikin che lo
comandava. Ci fu risposto che, per ragioni d'ordine politico,
la presenza di membri della famiglia Romanov o di persone
imparentate con essa, non era desiderabile nelle file dell'eser­
cito bianco. Quel rifiuto ci deluse profondamente, tanto era
il nostro desiderio di partecipare alla lotta ineguale, diretta
da ufficiali patrioti, contro le forze distruttrici che si erano
impadronite del nostro paese. Un grande slancio patriottico
sollevava varie regioni della Russia dove il nuovo esercito
si organizzava sotto il comando di alcuni capi. I nomi dei
generali Alexeev, Kornilov, Denikin, Kaledin, Yudenic, del­
l'ammiraglio Kolciac e, più tardi, del generale Wrangel, do­
vevano iscriversi nella storia della Russia come quelli dei più
grandi eroi nazionali.
Verso la fine del i9i8 la flotta alleata arrivò in Crimea.
Mio suocero s'imbarcò a bordo di una nave inglese col figlio
minore Andrea e la moglie di questi. Il suo scopo era d'in­
formare i capi dei governi alleati sulla situazione russa,
situazione di cui evidentemente erano ben lontani dal misu­
rare la gravità. Clemenceau lo fece ricevere dal proprio se­
gretario che lo accolse con una cortesia pari alla leggerezza.
Né il granduca trovò maggiore comprensione altrove. Gli fu
persino rifiutato un visto per l'Inghilterra. Gli avvenimenti
successivi hanno messo tragicamente in evidenza il funesto
accecamento dei dirigenti dell'Europa di quel tempo.
232
Quando, nella primavera del 1918, le forze rosse si avvi­
cinarono alla Crimea, capimmo che quella volta era finita
per noi. La mattina del "! aprile, il comandante delle forze
navali britanniche a Sebastopoli si presentò ad Harax all'im­
peratrice madre. Il re Giorgio V pensava che le circostanze
imponessero la partenza immediata della sovrana, e metteva
a sua disposizione la dreadnought M arlborough per lei e per
la sua famiglia. Il comandante inglese insistette perché si
imbarcasse la sera stessa. L'imperatrice cominciò col rifiutare
recisamente; soltanto a fatica si riuscì a convincerla della ne­
cessità di partire. Quel giorno, ch'era il compleanno della gran­
duchessa Senia, ci trovavamo tutti riuniti ad Harax. L'impe­
ratrice mi incaricò di portare al granduca Nicola Nicolaievic
una lettera con la quale lo informava della sua decisione e
lo invitava a imbarcarsi con lei insieme con la sua famiglia.
La notizia della partenza imminente dell'imperatrice ma­
dre e del granduca Nicola si diffuse rapidamente e provocò
un vero panico. Da ogni lato piovevano domande di evacua­
zione. Ma una sola nave da guerra non poteva bastare a im­
barcare migliaia di persone che rimanendo in Crimea sareb­
bero cadute nelle mani dei bolscevichi. lrina e io ci recammo
a bordo del Marlborough dove si trovavano già l'imperatrice
con la granduchessa Senia e i miei cognati. Quando apprese
da lrina che non era stato previsto nulla per l'evacuazione
di tutta quella povera gente, Sua Maestà fece sapere alle
autorità alleate di Sebastopoli che rifiutava di partire se uno
solo di coloro la cui vita era minacciata avesse dovuto re­
stare in Crimea.
Tutto ciò ch'era possibile fare fu fatto, e numerose navi
alleate entrarono nel porto di Yalta per raccogliere i fug­
giaschi.
Il giorno dopo ci imbarcavamo anche noi con i miei
genitori.
Qualche istante prima della partenza, una nave che por­
tava gli ufficiali di Crimea diretti a raggiungere l'esercito
bianco uscì dal porto di Yalta. Dritta sulla prua del Marl­
borough che non aveva ancora salpato le ancore, l'imperatrice

2 33
li guardava passare. Le lacrime scesero lungo le sue guance
mentre quei ragazzi e giovanotti che andavano a morire sa­
lutavano la sovrana, dietro la quale potevano scorgere l'alta
figura del granduca Nicola, il loro ex generalissimo.
Lasciando la patria, quel 13 aprile 1919, sapevamo che
l'esilio non sarebbe stata la più piccola delle nostre prove,
ma chi di noi avrebbe potuto prevedere che dopo trentadue
anni dovesse essere ancora impossibile prevederne la fine?
PA RTE S EC ONDA

IN ESILIO
{1919-195 3)
CAPITOLO XX
(1919)

A bordo del Marlborough - Accoglienza cordiale dei marinai


a Malta - Sciopero generale a Siracusa - Parigi - Ritrovo il
granduca Dimitri a Londra e recupero il mio appartamento
- Il 14 luglio 1919 a Parigi - Un ballo in casa di Emiliana
d'Alençon - Villandry - Breve soggiorno in terra basca - Ri­
torno a Londra - Speranze e delusioni - Organizzazione degli
aiuti ai profughi - La regina Alessandra e l'imperatrice Maria
- Furto dei nostri diamanti.

J1 13 aprile 1919, riuniti sul ponte del Marlborough, gli


emigranti videro a poco a poco sparire la costa della Cri­
mea, ultimo vestigio della patria ch'erano costretti ad ab­
bandonare. Una medesima angoscia stringeva tutti i cuori,
uno stesso pensiero occupava tutte le menti : quando sarebbe
sonata l'ora del ritorno? ... Un raggio di sole attraversando la
bruma illuminò per un istante la costa disseminata di mac­
chie bianche tra le quali ognuno cercava di distinguere la
dimora amata che non doveva rivedere mai p iù. Il contorno
delle montagne, ancora visibile, si confondeva via via ; ben
presto tutto fu cancellato, e non vi fu più che la distesa vuota
del mare a perdita d'occhio.
A bordo della nave l'affollamento era indescrivibile. I p as­
seggeri più anziani occupavano le cabine ch'erano state po­
ste a loro disposizione. Gli altri dovevano accontentarsi di
divani, amache o giacigli improvvisati. Si dormiva un po'
dappertutto, a volte persino sul pavimento.
Quando tutti, bene o male, furono sistemati, la vita a bordo
si organizzò rapidamente. I p asti vi tenevano un posto p re­
ponderante. Abituati da lunghi mesi alle più severe restri­
zioni, ci rendemmo improvvisamente conto di aver fame. Mai

2 37
la cucina inglese ci era sembrata così buona, tanto gustoso il
pane bianco di cui avevamo dimenticato il sapore! I tre tur­
ni consecutivi resi necessari dal gran numero degli emigranti
non bastavano a calmare quella fame arretrata. Anche nelle
ore tra i pasti, non smettevamo di mangiare. La voracità dei
passeggeri non mancava di preoccupare il comandante, per
la minaccia di veder esaurire in pochi giorni le provviste fat­
te per parecchie settimane.
Alla mattina ci levavamo prestissimo per assistere all'al­
zabandiera, mentre la musica di bordo sonava gli inni inglese
c russo. Seguiva una corsa disordinata verso la sala da pran­

zo dove ci attendeva una copiosa colazione, dopo di che ri­


salivamo sul ponte, già impazienti di sentire il suono del gong
che annunciava il secondo pasto. Una siesta .più o meno pro­
lungata ci portava sino all'ora del tè. Le tre ore che ci se­
paravano dal pranzo trascorrevano in visite da una cabina
all'altra e in giuochi vari.
La prima sera il nostro gruppo giovanile si era riunito in
uno dei corridoi, tra le valige e i bauli che ci servivano da
sedili. Pregato dagli amici, avevo preso la chitarra e cantavo
canzoni tzigane. Improvvisamente si aprì una porta e vedem­
mo comparire l'imperatrice madre. Mi fece segno di non in­
terrompermi e, sedutasi su un baule, ascoltò in silenzio la fine
della canzone. Alzando allora lo sguardo verS() di lei, vidi i
suoi occhi pieni di lacrime.
Il Bosforo ci apparve sotto un cielo di apoteosi, incendiato
da raggi folgoranti, mentre dietro di noi, come un cupo ve­
lario richiuso sul nostro passato, pesanti nuvole d'uragano
sbarravano l'orizzonte.
Mentre ci avvicinavamo all'isola Prinkipo fummo sorpas­
sati da una parte del convoglio che trasportava i nostri amici
compatrioti, emigrati come noi dalla Crimea. Questi, sapendo
che l'imperatrice era a bordo del Marlborough, si inginocchia­
rono tutti sul ponte e intonarono l'inno nazionale.
Approfittammo dello scalo per andare a Costantinopoli e
per visitare Santa Sofia. A Prinkipo il granduca Nicola e la
sua famiglia ci lasciarono per imbarcarsi sulla dreadnought
Lord Nelson diretta a Genova, mentre il Marlborough prose-
238
guiva la navigazione verso Malta, dove locali preparati a
cura delle autorità britanniche attendevano i rifugiati di
Crimea.
Prima di sbarcare a Malta ci accomiatammo con cordia­
lità e gratitudine dal comandante e dagli ufficiali. L'impera­
trice, sua figlia, la granduchessa Senia e i miei cognati si sta­
bilirono p rovvisoriamente a Sant'Antonio, residenza d'estate
del governatore, messa da quest'ultimo a disposizione di Sua
Maestà. Era un luogo delizioso. Vasti giardini a terrazze di­
gradanti, pieni di piante d'arancio e di limone, circondavano
il palazzo. Quanto a noi, scendemmo all'albergo con i miei
genitori. Soltanto allora ci rendemmo pienamente conto che
le nostre vite non erano più minacciate. La gioia di vivere
che rinasceva in noi col senso della sicurezza trascinò mio
cognato Teodoro e me a fare la sera stessa il giro di tutti i
locali pubblici della città. Dappertutto i passeggeri del Marl­
borough erano accolti festosamente. Un gruppo di marinai
inglesi e americani in vena di gozzoviglia, cantando a squar­
ciagola, ci accompagnò da un bar all'altro, offrendoci da bere
ogni volta. Dopo qualche ora di tale regime pensammo fosse
prudente rincasare prima di trovarci in condizioni di non
poterlo fare.

Di lì a una decina di giorni il Lord Nelson, compiuta la


missione a Genova, venne a Malta per prendere a bordo l'im­
peratrice e portarla in Inghilterra. La sovrana s'imbarcò con
la figlia e i tre nipoti. A Londra si installò a Marlborough
House, in casa della sorella, la regina Alessandra, mentre la
granduchessa e i miei cognati erano ospiti di Giorgio V a
palazzo Buckingham. Neppure noi avevamo intenzione di ri­
manere eternamente a Malta, per cui, lasciando nostra figlia
ai miei genitori che dovevano più tardi stabilirsi a Roma, mia
moglie, io e i cognati Teodoro e Nikita, prendemmo la via
di Parigi attraversando l'Italia.
Partiti da Malta il 30 aprile, il giorno dopo sbarcavamo
a Siracusa in pieno sciopero e in piena manifestazione comu­
nista : cortei, bandiere rosse, iscrizioni sui muri : "Viva Lenin!

2 39
Viva Trotsky" (1), e via dicendo. Questo richiamo brutale
a uomini e avvenimenti cui aovevamo la nostra situazione
presente, incupì di colpo il nostro umore. La formazione del
treno che doveva portarci via richiese parecchie ore. Final­
mente potemmo partire, e, attraversato lo stretto di Messina
in ferry-boat, arrivammo a Roma senza altri incagli. Ma non
eravamo alla fine delle nostre pene ; infatti, io ero sprovvisto
di valuta estera. Per fortuna possedevamo ancora qualche
oggetto di valore. Se la maggior parte dei gioielli di famiglia
era rimasta in Russia, avevamo potuto però salvare quelli che
mia madre e mia moglie portavano sempre con sé e che le
avevano seguite in Crimea. Misi in pegno una collana di dia­
manti d'Irina e questo ci permise ai proseguire il viaggio.
La notizia del nostro arrivo a Parigi si sparse rapidamente
e ben presto l'Hotel Vendome fu invaso dalla folla degli amici
accorsi per testimoniarci la loro simpatia e per udire il rac­
conto delle nostre tribolazioni. Tra le chiamate al telefono e
il flusso ininterrotto dei visitatori, non avevamo un momento
di riposo. Il gioiellere Chaumet ci recò un piccolo sacchetto
di diamanti rimasti presso di lui sin dal tempo in cui aveva
trasformato per mia moglie alcuni gioielli antichi. Fummo
gradevolmente sorpresi di ritrovare quelle pietre, di cui ave­
vamo dimenticato persino l'esistenza. La scoperta della no­
stra automobile, che dormiva da cinque anni in fondo a una
rimessa, fu anch'essa un dono del Cielo. I continui sposta­
menti tra Francia, Inghilterra e Italia, dove le nostre fami­
glie si trovavano disperse, dovevano esserne facilitati.
Non sapevamo ancora dove ci saremmo stabiliti. Irina ave­
va accompagnato suo padre a Biarritz ; ne approfittai per
recarmi a Londra con la speranza di recuperare l'apparta­
mento di cui ero sempre locatario, ma che avevo subaffittato
durante la guerra. Provvisoriamente alloggiai al Ritz. La se­
ra del mio arrivo, mentre, per ingannare la nostalgia, can­
ticchiavo accompagnandomi con la chitarra, sentii bussare
alla porta di comunicazione con l'appartamento vicino. Cre­
dendo di aver disturbato qualcuno, smisi di sonare ; ma i col­
pi continuavano. Mi alzai, girai la chiave e ... mi trovai a
(l) In italiano nel testo.
faccia a faccia col granduca Dimitri. Non lo avevo pm ri­
visto dopo la faccenda di Rasputin, quando eravamo entrambi
guardati a vista nel suo palazzo di Pietroburgo. Ignorando
la mia presenza a Londra come io ignoravo la sua, aveva ri­
conosciuto la mia voce attraverso la porta. Eravamo talmente
felici di esserci ritrovati che chiacchierammo sino all'alba.
Nei giorni seguenti non ci scostammo un momento l'uno
dall'altro; ma ben presto mi sembrò di notare un certo cam­
biamento nel suo contegno. Esisteva allora tra gli esiliati un
partito monarchico che credeva fermamente alla p ossibilità
di un pronto ritorno in Russia, seguito da una restaurazione.
Certi membri di quel partito, preoccupati di mantenere il
loro dominio su colui nel quale vedevano il futuro impera­
tore, cercavano in ogni modo di allontanarlo da tutti coloro
che ritenevano capaci di combattere il loro influsso. lo ero
uno dei primi a esser preso di mira. Ritrovai così quegli in­
trighi di palazzo ai quali mi ero sempre sottratto con orrore.
Per fortuna il mio appartamento era libero, per cui mi af­
frettai a lasciare l'albergo e a rientrare nei miei penati.
Poco dopo Dimitri venne a trovarmi. Mi confessò che tra
coloro che gli stavano vicini, taluni, desiderosi di sottrarlo
al mio influsso, gli avevano parlato male di me. Egli si ren­
deva perfettamente conto di come costoro non mirassero che
al proprio interesse personale. Inoltre Dimitri non era di quel­
li che consideravano probabile una restaurazione immediata.
Mi chiese di non abbandonarlo e mi propose anzi di andare
ad abitare con lui nei dintorni di Londra. Gli feci capire che
il momento sarebbe stato male scelto per un ritiro in cam­
pagna : mi sembrava che il primo e il più urgente dei miei
doveri fosse quello di venire in aiuto ai rifugiati russi il cui
numero andava sempre aumentando. Più tardi mi sono do­
mandato spesso se non avessi avuto torto di respingere l'of­
ferta di Dimitri. Abbandonato a se stesso, egli non poteva non
diventare succubo degli intriganti che pensavano soltanto a
sfruttarlo e a comprometterlo.
Provai una gioia profonda ritrovandomi nel piccolo ap­
partamento di Knightsbridge, il solo luogo al mondo nel qua­
le potessi sentirmi un po' in casa mia e dove avevo tanti
buoni ricordi. Tuttavia non li evocai senza malinconia, perché
la guerra aveva prodotto molti vuoti tra i miei compagni di
gioventù. Mi fece molto piacere ritrovare il re Manuel di
Portogallo, la duchessa di Rutland e le sue deliziose figliole,
la signora Hwfa Williams, Eric Hamilton e Jack Gordon, i
vecchi amici di Oxford. Rimasi a Londra il tempo necessario
per rimettere in ordine l'appartamento nel quale lrina e io
avremmo potuto installarci provvisoriamente. Partii poi per
Parigi, dove mi fermai qualche giorno prima di raggiungere
mia moglie a Biarritz.
Trovai Parigi in piena festa : era il 14 luglio, giorno del
corteo della vittoria. Nelle vie invase da una folla delirante
era quasi impossibile circolare. La gente gridava, rideva, si
abbracciava. Passavano gruppi con la bandiera in testa re­
cando cartelloni patriottici e cantando la Marsigliese. Quel
canto, rimasto associato nella mia memoria alle scene rivo­
luzionarie più terribili, evocava ricordi penosi e recenti. Pen­
savo anche con amarezza che, nonostante i sacrifici compiuti
e la fedeltà del suo zar, la Russia era ormai assente dal grup­
po degli alleati e frustrata dei vantaggi della vittoria. Situa­
zione tanto dolorosa qu'anto paradossale: la bandiera russa
non veniva portata sotto l'Arco di Trionfo, ma, in compenso,
l'inno nazionale francese accompagnava le peggiori atrocità
com m esse in Russia nel nome della libertà!
A Parigi ritrovai molte antiche conoscenze, tra le quali
la bella cortigiana Emiliana d'Alençon che avevo perso di
vista da molti anni. Ella mi fece un'accoglienza calorosa e
volle dare in mio onore un ballo in costume, al quale parte­
cipai con un costume orientale di seta nera accompagnato
da un turbante laminato d'oro. Tutto il demi-monde parigino
era presente con gli abiti più sontuosi. Fu un hallo brillantis­
simo e si svolse in quell'atmosfera di gaiezza spensierata che
caratterizzava la Parigi postbellica. La sera del ballo appresi
che un pittore olandese, artista di grande valore, aveva di­
pinto senza conoscermi un mio ritratto del quale tutti quelli
che lo avevano visto vantavano la somiglianza. Curioso di
giud icare con i miei occhi, mi recai nel suo studio. Sin dal
primo momento egli mi fece un'impressione sgradevole. Quan-
to al ritratto, era una cosa macabra. Certo, quel viso livido
che spiccava su un cielo di tempesta striato dai lampi non
mancava di qualche somiglianza col mio. Ma mi sembrava
che si sprigionasse da esso alcunché di satanico. Girando lo
sguardo intorno, notai con una certa sorpresa non priva d'in­
quietudine che i manici di tutti i pennelli disseminati nello
studio erano rosicchiati, sicuramente dai denti del pittore.
Ciò valse ad aumentare l'impressione di malessere che mi
avevano già ispirato la tela e il suo autore. Questi mi fece
mettere a fianco del quadro. I suoi occhi penetranti andavano
dal dipinto al modello; poi, evidentemente soddisfatto del
confronto, mi fece dono di quell'opera diabolica.
Qualche tempo dopo, ispirandosi a una fotografia apparsa
in un giornale illustrato, mi fece un altro ritratto nel costume
che avevo indossato al ballo di Emiliana d'Alençon e me lo
offrì come il primo; ma quando si giunse al terzo - equestre,
questo - gli scrissi pregandolo di scegliersi in avvenire un
altro modello.
Partendo per Biarritz in automobile con Teodoro, ave-v o
stabilito di fermarmi in Turenna per visitare i castelli della
Loira. Una di quelle visite mi ha lasciato un ricordo partico­
lare. sia per il piacere che ne ebbi, sia per il suo carattere
d'imprevisto.
Oziando una sera a passeggio per le vie di Tours, dove
dovevamo passare la notte, mi fermai improvvisamente di­
nanzi alla riproduzione di un ritratto maschile di Velasquez
esposta nella vetrina di un libraio. Preso dal desiderio irre­
sistibile di vederne l'originale, interrogai il libraio e appresi
che quel ritratto apparteneva a uno spagnuolo di nome Le6n
Carvallo, proprietario del castello di Villandry, a pochi chi­
lometri da Tours. Risolvetti subito di fermarmi di passaggio
al castello di Villandry il giorno dopo. Disgraziatamente,
siccome dovevamo partire di buon mattino, le ore di visita
non si accordavano col nostro orario ; tuttavia volli fare al­
meno un tentativo.
Quando, la mattina seguente ci fermammo al cancello di
Villandry, erano appena le sette. Stupefatto di vedere visi­
tatori presentarsi a un'ora così inconsueta, il portinaio ci chie-

2 43
se se avessimo un'autorizzazione speciale, e, alla nostra ri·
sposta negativa, rifiutò di !asciarci entrare. Nondimeno, data
la mia insistenza, finì con l'andare a chiamare il maggior­
domo. Questi si mostrò più accomodante e così fummo intro­
dotti nella galleria dei quadri, dove potei ammirare a mio
agio il ritratto che mi aveva attirato lì. Mentre lo contem­
plavo, la porta si aprì davanti al padrone di casa drappeg­
giato in un'ampia vestaglia di velluto rosso.
« Sono felice, signori, di poter soddisfare la vostra curio­
sità », ci disse ; « però dovete riconoscere di avere scelto un'ora
abbastanza inconsueta per introdurvi in casa della gente ».
Feci il mio nome e lo pregai di scusare l'indiscrezione.
« Sarebbe poco grazioso da parte mia tenervi il broncio »,
riprese il nostro ospite, « dato che ciò mi dà modo di fare
la vostra conoscenza ».
Dopo di che, il signore di Villandry volle farci egli stesso
gli onori della sua bella dimora, che precedenti trasforma­
zioni avevano sfigurato e che, grazie a lui, aveva ritrovato
il suo vero volto. Ciò che ammirammo di più furono i giar­
dini, veramente magnifici.
La sera stessa arrivammo a Biarritz. La terra basca, che
vedevo per la prima volta, mi conquistò immediatamente.
Nondimeno non pensavo di fermarmici perché avevo fretta di
riportare lrina a Londra, dove avevamo deciso di stabilirei.
Durante quel breve soggiorno ci recammo a San Sebastiano
per vedere una corrida. Quello spettacolo, nuovo per me, mi
parve orribile e magnifico insieme.
Pochi giorni dopo eravamo a Londra, nel nostro apparta­
mento di Knightsbridge. Dal canto suo la granduchessa Senia
lasciava Buckingham Palace per installarsi con i figli in una
casa di Kensington.

In Russia, verso la fine di quell'estate 1919, il generale


Denikin, respingendo i bolscevichi, avanzava verso Mosca,
mentre il generale Yudenic marciava su Pietroburgo. Le spe­
ranze che fecero rinascere questi successi degli eserciti bianchi
dovevano dar luogo a una crudele delusione : il generale Yu-
denic aveva già raggiunto i sobborghi della capitale, quando
dovette battere in ritirata. La sua disfatta era avvenuta in
novembre. Dal canto suo, il generale Denikin fu a un
pelo di operare il collegamento con l'ammiraglio Kolciak che
comandava l'esercito di Siberia. Alcuni cavalieri dell'esercito
di Denikin, inviati in avanscoperta, erano anzi entrati in con­
tatto con gli esploratori dell'esercito di Kolciak. Ma quando
il collegamento dei due eserciti sembrava sicuro, i bolscevi­
chi riuscirono a impedirlo.
Nell'attesa di un avvenire ancora incerto, ci si imponeva
un compito immediato: soccorrere i nostri compatrioti rifu­
giati. Appena arrivato a Londra mi misi in contatto col conte
Paolo Ignatiev, presidente della nostra Croce Rossa. Si trat­
tava, prima di ogni altra cosa, di organizzare un laboratorio
per dare lavoro ai profughi e fornire al nostro esercito bian­
cheria e indumenti di lana. Una gentile dama inglese, la
signora Lock, ci diede asilo nella propria casa di Belgrave
Square. D'altra parte io mi assicurai il concorso della con­
tessa Carlov, vedova del duca Giorgio di Mecklembourg-Stre­
litz. Quella donna di grande valore, energica e intelligente,
amata e stimata da tutta la colonia russa, accettò immediata­
mente di prendere la direzione del nostro laboratorio. I miei
due cognati, Teodoro e Nikita, e un buon numero degli amici
inglesi, vennero a rafforzare la squadra.
Lo scopo che ci eravamo prefissi inizialmente fu ben pre­
sto sorpassato; la casa di Belgrave Square non tardò a diven­
tare un centro al quale si rivolgevano tutti gli emigrati, non
solo quelli che cercavano lavoro, ma altri la cui situazione
offriva problemi ben più gravi di quello della semplice sus­
sistenza. Tuttavia, se la nostra attività si sviluppava, le no­
stre risorse restavano limitate e le nostre riserve si scioglie­
vano come neve al sole. Compii allora un giro nei grandi
centri industriali d'Inghilterra. Trovai dappertutto non sol­
tanto simpatia, ma effettiva comprensione, tanto che il ri­
sultato del mio tentativo andò al di là delle previsioni più
ottimistiche. Una serie di serate benefiche, organizzate con
l'appoggio dei nostri amici inglesi, venne ugualmente ad ali­
mentare la nostra cassa. Il più grande successo fu la rappre-

2 45
sentazione al teatro Saint- James del dramma di Tolstoi Il
cadavere vivente con Henry Ainley. Quel grande artista, non
contento di recitare la propria parte, rivolse al pubblico un
commovente appello col quale invitava i compatrioti a venire
in aiuto dei profughi russi, loro ex alleati.
Di primo mattino ci recavamo a Belgrave Square e vi tra­
scorrevamo tutta la giornata. Mentre mia moglie dirigeva il
lavoro delle dame, la contessa Carlov e io, seduti a un grande
tavolo, facevamo fronte all'interminabile sfilata dei rifugiati
in cerca di un posto, di un sussidio o di un consiglio. Rice­
vemmo anche una delegazione di volontari inglesi che vole­
vano andare a combattere nelle file dell'esercito bianco e che
ci chiedevano di facilitare la loro partenza per la Russia,
cosa che le autorità britanniche si rifiutavano di fare.
Un giorno, tra i postulanti, apparve un ometto il cui
aspetto bizzarro attirò subito la mia attenzione. Era brutto,
gracile e timido, con gesti incerti da marionetta ; teneva la
testa leggermente piegata da un lato e sorrideva continua­
mente, con un sorriso scaltro e un po' servile. V'era in tutta
la sua persona qualche cosa di comico e nello stesso tempo
di misero, vorrei dire di patetico, che evocava certi personaggi
di Dickens o di Dostoievski. Si inginocchiò davanti alla con­
tessa Carlov per baciarle la mano e fece lo stesso con me ;
poi, sedutosi sull'orlo della sedia che gli indicammo, ci rac­
contò la sua strana e dolorosa storia.
Bull, così si chiamava quel singolare individuo, era un
miscuglio di russo, di danese e d'inglese. In gioventù aveva
sposato la ragazza che amava, ma un disgraziato incidente
sopravvenuto alla fidanzata aveva fatto, di quel matrimonio di
amore, un matrimonio in bianco. « Se lo desiderate », soggiunse,
« posso darvi i particolari ». A questo punto un calcio d'al­
larme della contessa Carlov m'ingiunse di arrestare le confi­
denze. Me ne sarei guardato bene : « Continuate », dissi, « que­
sti particolari mi interessano molto ». Mentre il nostro visi­
tatore, così incoraggiato, riprendeva con nuovo ardore il rac­
conto, la contessa Carlov si alzò e uscì dalla stanza. In con­
clusione, Bull entrò al nostro servizio e vi rimase per molto
tempo, senza che le sue mansioni venissero mai definite.
Andavamo spesso a Marlborough House a far visita all'im­
peratrice madre, che viveva allora presso sua sorella la regina
Alessandra. Nessuna somiglianza tra quelle due principesse
danesi rivelava la loro origine comune ; sembrava che ognuna
di esse fosse stata, per così dire, segnata dalla propria patria
d'adozione. Benché la regina fosse la maggiore e di un'età
già avanzata, sembrava più giovane della sorella. II suo volto
senza una ruga avrebbe potuto essere quello di una donna di
trent'anni. Si diceva di lei che possedeva un segreto di bel­
lezza al quale doveva la persistente gioventù.
La mancanza di puntualità della regina era fonte di con­
tinua irritazione per sua sorella, che era invece l'esattezza
personificata. Ogni volta che dovevano uscire insieme, l'im­
peratrice, che scendeva sempre per prima, aspettava la ri­
tardaiaria camminando febbrilmente in su e in giù per il
vestibolo e tenendo in pugno un ombrello minaccioso. Quando
finalmente appariva, la regina aveva immancabilmente di­
menticato qualche cosa. Tutti si slanciavano alla ricerca del­
l'oggetto in questione, e ciò portava al colmo l'esasperazione
dell'i m pera trice.
Quelle piccole bizzarrie non intaccavano menomamente
il prestigio delle due grandi sovrane. In nessuno dei membri
delle case regnanti che mi è stato dato avvicinare ho riscon­
trato tanta maestà unita a tanta gentilezza e a tanta semplicità.
Ogni sabato riunivamo gli amici nell'appartamento di
Knightsbridge. Chitarre e canzoni zigane evocavano la Rus­
sia. Il pappagallo Mary, ritrovato a Londra, circolava in li­
bertà tra gli ospiti che si divertivano ai suoi modi originali e
specialmente alla sua ghiotta passione per le sigarette russe
che divorava a dozzine, fissando poi la scatola vuota con oc­
chio da innamorato.
I nostri amici portavano i loro amici, spesso anche degli
estranei attirati da quell'atmosfera accogliente e un po' bo­
hème ; accadeva frequentemente che un discreto numero dei
presenti ci fossero sconosciuti.
Una domenica mattina, all'indomani di una di quelle se-

247
rate, al momento di uscire per andare in chiesa con lrina,
aprii uno dei cassetti del mio scrittoio nel quale tenevo il da­
naro e mi accorsi che il sacchetto dei diamanti che Chaumet
ci aveva consegnato a Parigi era scomparso. Poiché l'inter­
rogatorio dei domestici non portò nessuna luce sul fatto, dissi
loro di fare delle ricerche durante la nostra assenza. Il sac­
chetto rimase irreperibile. La servitù non poteva essere so­
spettata, per cui fui costretto a concludere che il ladro era
uno degli ospiti della sera prima. Andai allora a trovare il
capo di Scotland Yard, sir Basilio Thompson, e gli esposi il
caso. Cominciò col dirmi che gli occorrevano i nomi di tutti
i nostri invitati. Mi era doppiamente impossibile comunicar­
glieli : in primo luogo perché molti di essi mi erano sconosciu­
ti, e poi perché un tal modo di agire mi sembrava inammis­
sibile. Egli promise di fare del suo meglio per scoprire il
colpevole e ritrovare i diamanti.
Le settimane passarono senza recare nessuna luce, e, in
conclusione, il risultato dell'inchiesta si rivelò negativo. Evi­
dentemente io ero il solo colpevole in questa faccenda, poi­
ché, per abitudine e per principio, non chiudevo mai nessun
mobile a chiave; pensavo infatti che questa sarebbe stata
un'offesa per i domestici.
Il furto dei diamanti arricchì per qualche tempo di un
argomento inedito le nostre conversazioni ; ma ben presto la
faccenda fu sepolta e non se ne parlò più.
CAPITOLO XXI
(1920)

Soggiorno .a Roma - In giro con Teodoro per raccogliere fondi


- La duchessa d'Aosta - Delusione di una signora romana -
Pranzo dalla marchesa Casati con Gabriele d'Annunzio -
Ritorno a Londra - Come mistificai il re Manuel e presi suo
zio per un domestico - Il Ballo azzurro - Operazione - Di­
Donne - Ancora l'Italia - Definitiva sconfitta dell'esercito bian­
co - Risolviamo di stabilirei a Parigi - Ritrovo il ladro dei
diamanti, ma non la refurtioa.

M ia madre, in tutte le sue lettere, ci raccomandava di rag­


giungerla a Roma. Poiché il nostro laboratorio di Belgrave
Square era ormai abbastanza bene organizzato per consen­
tire di assentarci, partimmo per l'Italia con Teodoro. A Ro­
ma, come altrove, la situazione della maggior parte dei no­
stri compatrioti era tragica. Mia madre pensava di costituire
un centro destinato ad accogliere i profughi, simile a quello
di Londra. Le difficoltà erano le stesse, e la principale era
naturalmente quella d'ordine pecuniario. Gli aiuti che avrem­
mo potuto trovare sul luogo non sarebbero bastati. Occor­
reva cercare in altre città comitati locali incaricati di racco­
gliere i doni che poi sarebbero stati accentrati a Roma.
Cominciai dunque, insieme con Teodoro, un giro per le
città d'Italia nelle quali speravo di trovare buona accoglienza,
e difatti fui ricevuto benissimo dappertutto, e s pecialmente
a Catania, dove gli abitanti non avevano dimenticato la co­
raggiosa abnegazione dei marinai russi in occasione del ter­
remoto che distrusse Messina nel 1908.
A Napoli, la duchessa d'Aosta ci promise il p roprio aiuto
con premura e gentilezza. Invitati a pranzo a Capodimonte,
dovemmo narrarle per filo e per segno i recenti avvenimenti

2 49
di cui eravamo stati testimoni in Russia. Quella donna di gran
cuore, non meno intelligente che bella, s'indignava dell'ac­
cecamento dei governi alleati, pericolosamente ostinati a ve­
dere nel bolscevismo una faccenda esclusivamente russa e
non un pericolo che minacciava il mondo intero. Lasciammo
Capodimonte forniti di lettere di presentazione che doveva­
no aprirci molte nuove porte. Ognuno di noi aveva la pro­
pria missione : la mia era di parlare, quella . di Teodoro di
incutere rispetto. L'alta statura e la prestanza fisica di mio
cognato facevano quasi sempre l'effetto voluto, ottenendo l'a­
desione di coloro che le mie chiacchiere lasciavano esitanti.
Tornammo a Roma molto soddisfatti dei risultati del no­
stro giro. Un comitato centrale, formato al nostro ritorno, en­
trò immediatamente in funzione sotto la direzione di mia
madre.
Un giorno che mi trovavo nel vestibolo del Gran Hotel
dove aspettavo qualcuno, notai due signore che, dal fondo
del locale, mi guardavano insistentemente. Seccato di quel­
l'indiscreta attenzione risolvetti di fingere d'ignorarle immer­
gendomi nella lettura del giornale; ma ben presto mi accorsi
che le due signore facevano abili manovre d'approccio, tanto
che alla fine si trovarono abbastanza vicine a me. Udii al­
lora una di esse dire all'altra :
« Tutto sommato, non è bello come credevo ».
Di botto mi voltai verso di lei.
« Se vi ho deluso, signora », le dissi, « credete che tutto il
rammarico è mio ».
L'arrivo della persona che aspettavo portò un diversivo
che pose fine all'incidente.
Invitato qualche giorno dopo a un pranzo, mi trovai ad
avere come vicina di tavola la dama in questione. Entrambi
ridemmo molto ricordando le circostanze del nostro primo
incontro.
Non ero ancora entrato in contatto col mondo romano,
quando una mattina trovai tra la corrispondenza una busta
il cui indirizzo mi colpì per l'originalità della scrittura. Con­
teneva un invito a pranzo della marchesa Casati. Conoscevo
Luisa Casati soltanto di nome, ma quel nome era troppo noto
nella società cosmopolita per non essermi familiare, e la re­
putazione di eccentricità della marchesa troppo ben affer­
mata per non stuzzicare la mia curiosità. Afferrai dunque
con premura l'occasione che mi si offriva di soddisfarla. Deb­
bo dire che la realtà superò notevolmente ciò che mi attendevo.
Nel salotto in cui fui introdotto, una donna che mi parve
dotata di singolare bellezza stava sdraiata davanti al camino
su una pelle di tigre ; veli leggieri disegnavano tutte le forme
del suo corpo sottile ; due levrieri, uno nero e uno bianco,
stavano sdraiati ai suoi piedi. Affascinato da quel quadro,
notai appena la presenza di una seconda persona, un ufficiale
italiano arrivato prima di me. La nostra ospite alzò verso di
noi due occhi splendidi, talmente grandi in quel viso pallido
che non si vedeva altro che essi, e con un moto lento e si­
nuoso da cobra reale mi tese una mano ornata di perle enor­
mi, una mano già incantevole di per se stessa. M'inchinai per
baciarla, godendo in anticipo di una serata che si annunciava
tutt'altro che comune. Conobbi allora il nome dell'ufficiale al
quale sino allora avevo accordato soltanto un'attenzione su­
perficiale : era Gabriele d'Annunzio, l'uomo che desideravo
conoscere più di qualunque altro.
Per dire il vero, di prim'acchito egli deludeva. Fisicamen­
te poco attraente, piccolo e sgraziato, pareva non avesse nul­
la per piacere. Ma appena si metteva a parlare, quella prima
impressione si dileguava. Fui subito conquistato dal fascino
della sua voce calda, del suo sguardo penetrante. Bastava
udirlo parlare per capire l'attrazione che un simile uomo po­
teva esercitare sulla folla. Egli fu inesauribile su tutti gli ar­
gomenti, e benché si esprimesse alternativamente in francese
e in italiano, io non perdevo una sola parola di ciò che di­
ceva. Interamente soggiogato, avevo perduto ogni nozione del
tempo, e la serata trascorse come un sogno.
Al momento di separarci il poeta mi diede tutta la misura
della sua fantasia dicendomi a bruciapelo :
< Prendo domani l'aeroplano per il Giappone ; sareste di­
sposto ad accompagnarmi? :..
L'offerta era seducente, il tono imperativo sembrava scar­
tare ogni possibilità di rifiuto. Tuttavia rifiutai : troppi ob­
blighi mi trattenevano dei quali non avrei saputo come li­
berarmi.

Dopo aver passato il Natale in famiglia mi affrettai a


tornare a Londra, dove il centro benefico reclamava la no­
stra presenza. lrina, non potendo adattarsi ad abbandonare
nostra figlia che rimaneva affidata ai miei genitori, prolungò
il soggiorno, e Teodoro fece altrettanto.
Sul marciapiede della stazione Victoria mi aspettava
Bull, molto dignitoso, con un mazzo di fiori che mi offrì in­
chinandosi reiteratamente. Il mio segretario Kataley, ex uf­
ficiale delle guardie a cavallo, che mi aveva sostituito a Bel­
grave Square durante il mio soggiorno a Roma, mi pose al
corrente della situazione degli affari. Mi informò anche delle
rivalità che erano sorte durante la nostra assenza. Erano le
solite, eterne storie di amor proprio ferito, non meno futili
che assurde. Persi tutta la giornata seguente ad ascoltare le
recriminazioni di questo e di quello e a placarne le suscet­
tibilità.
Dare alloggio ai profughi diventava sempre più difficile.
Lascio immaginare al lettore quale aspetto assumesse ben
presto il nostro appartamento di sei stanze, occupato da va­
rie famiglie, con i bambini e i bagagli. Ognuno dormiva dove
e come poteva, il più delle volte sul pavimento. Ma che Gi
potevamo fare? Ero appena riuscito a mettere a posto una
famiglia, che un'altra veniva a sostituirla. Era un problema
sempre rinascente, un fiume continuo di miserie da alleviare.
La situazione sembrava senza uscita quando un ricco indu­
striale russo, P. Zelenov, che aveva depositato dei fondi al­
l'estero, mi propose di acquistare una casa a metà con lui
per dare alloggio ai profughi. Avemmo la fortuna di trovare
una grande villa con giardino a Chiswick, nella periferia di
Londra.
Ricordo ancora lo stupore indignato del re del Portogallo
252
davanti alla confusione che regnava nel mio appartamento
invaso dai rifugiati. Finii di scandalizzarlo facendolo pran­
zare nello stanzino del bagno.
Il re Manuel, che detestava il disordine, gustava ancor
meno gli scherzi, per cui tutte le volte che mi se ne offriva
l'occasione, mi divertivo moltissimo a mistificarlo. Una sera
che doveva pranzare da me, immaginai di tra vestire Bull da
vecchia signora e di presentarglielo come una mia p arente
sordomuta, arrivata da poco dalla Russia. Il re accettò senza
alcun sospetto le spiegazioni, s'inchinò davanti a "mia zia"
e le baciò la mano. Durante il pranzo, il cameriere che ci ser­
viva faceva tanta fatica quanta ne facevo io per restar serio.
La commediola procedeva benissimo quando improvvisamente
Bull, dimenticando la parte, levò il bicchiere colmo di cham­
pagne ed esclamò: « Bevo a lla salute di Sua Maestà porto­
ghese il re Manuel ». Il re, che odiava gli scherzi in genere,
giudicò che questo fosse di pessimo gusto e mi tenne il bron­
cio per parecchie settimane.
Una topica, del tutto involontaria questa volta , avrebbe
potuto compromettere i miei tentativi di rientrare nelle sue
grazie. Invitato a colazione nella sua residenza di Twiken­
ham, nel momento in cui arrivavo mi accorsi d'essere molto
in ritardo, per cui, liberandomi precipitosamente del pastra­
no e del cappello, li lanciai a volo a un individuo che si tro­
vava nel vestibolo, attraversai quest'ultimo in fretta ed entrai
nel salotto. Il re Manuel mi accolse abbastanza freddamente.
Mentre balbettavo qualche scusa, la porta si aprì e io stavo
rallegrandomi con me stesso di non essere l'ultimo quando
riconobbi in colui che entrava la persona cui avevo gettato
i miei indumenti con tanta disinvoltura. Il re si allontanò da
me per andare incontro al nuovo venuto; poi, volgendosi nel­
la mia direzione : 4: Credo >, mi disse, c: che tu non sia stato
ancora presentato a mio zio, il duca d'Oporto >.
Avrei voluto sprofondare sotto terra. Sua Altezza non si
scandalizzò menomamente d'essere stato preso per un dome­
stico: senza dubbio il duca d'Oporto aveva il senso dell'umo­
rismo più sviluppato di suo nipote.

25 3
Da qualche tempo soffrivo di mali di testa e di dolori in­
terni, cui andava unito un!} stato di stanchezza generale sem­
pre più accentuato. Attribuendo tali malesseri al troppo la­
voro e alla mancanza di sonno, avevo deciso di prendermi
qualche giorno di riposo. Ma la Croce Rossa russa era di nuo­
vo senza danaro; venni quindi pregato di organizzare spet­
tacoli e balli di beneficenza. Riunii allora un comitato che
comprendeva alcune delle più alte personalità londinesi sot­
to il patronato della regina Alessandra, della principessa
Cristiana di Gran Bretagna e del maresciallo duca di Con­
naught. Fu stabilito che avremmo offerto un grande ballo al­
l'Albert Hall verso il principio dell'estate. Doveva esservi in­
cluso anche uno spettacolo di balletti, per il quale la Paulova
mi promise il proprio aiuto e quello della sua compagnia.
Affidai la decorazione della sala al giovane architetto che
aveva mostrato tanto gusto e tanto ingegno nell'arredamento
del nostro appartamento di Pietroburgo, Andrea Beloborodov,
anch'egli rifugiato a Londra. Il colore dominante doveva es­
sere l'azzurro, mio colore preferito. Ben presto a Londra non
si parlò d'altro che del "Ballo azzurro". Erano stati messi in
vendita seimila biglietti d'ingresso, ognuno dei quali contras­
segnato da un numero che faceva di esso un biglietto di
lotteria.
I sovrani inglesi avevano offerto l'albo della loro incoro­
nazione e una Storia del castello di Windsor, in edizioni e
rilegature di lusso ; la regina Alessandra una scatola d'ar­
gento per la carta da lettera ; in forma di portantina, il re
Manuel un bastone da passeggio col pomo d'oro. Tutti gli al­
tri premi, dovuti alla generosità di numerosi donatori, erano
oggetti di gran pregio o bellissimi gioielli offerti dai gioiel­
lieri più noti.
A questo punto mette conto di narrare come un diamante
di cinque carati fosse aggiunto all'ultimo momento agli altri
premi. La signora che possedeva la pietra la mostrava un
giorno ad alcuni amici consultandoli sul modo di farla mon­
tare. Quando ognuno ebbe ammirato il diamante ed espresso
25 4
la propria opinione, si parlò del "Ballo azzurro" di cui si
avv1cmava la data e la cui segretaria era appunto presente.
Siccome la proprietaria del diamante esprimeva il proprio
rammarico di non poter andare al ballo e, insieme, l'intenzione
di servire la buona causa offrendo trecento sterline per un
palco, la nostra segretaria, che non mancava né di spirito né
di faccia tosta, non esitò a dire che avrebbe preferito il dia­
mante... e l'ottenne!
Ciò prova da quali preziosi collaboratori fossi circondato.
Lady Egerton, moglie dell'ambasciatore d'Inghilterra a Ro­
ma, la signora Roscol Brunner e la sempre fedele signora
Hwfa Williams - per non citare che queste - si prodiga­
rono senza risparmio. Dal canto suo, Beloborodov preparava
sollecitamente la decorazione della sala. Per diminuire le per­
dite di tempo derivanti dai suoi andirivieni, decise di venire
ad abitare in casa nostra. Quando calava la sera, l'architet­
to, che era anche ottimo musicista, si metteva al piano­
forte, e la musica ci riposava del lavoro della giornata.
I miei malesseri non erano però cessati. Colto, una sera,
da violenti dolori intestinali, chiamai un medico che diagno­
sticò una crisi d'appendicite. Il chirurgo consultato dichiarò
che l'operazione era urgente. Poiché mi ero messo in testa
di venir operato in casa mia, il salottino attiguo alla mia
camera fu trasformato in sala operatoria e, il giorno dopo,
ero già sul lettuccio. L'intervento, che durò quasi un'ora, ri­
velò un'appendicite purulenta. A quanto pare si trattava di
un caso grave. Per quattro giorni nessuno fu autorizzato a
entrare in camera mia, eccettuati il medico e due infermiere
che si davano il cambio al mio capezzale. Tesfé, il mio do­
mestico abissino, rifiutò qualunque cibo sino a che durò que­
sto divieto. Affatto diversa fu la reazione di Bull : quando
conobbe la gravità del mio stato si vestì di nero dai p iedi
alla testa per essere pronto a intervenire al mio funerale, e
per quanto era lunga la giornata, andava ripetendo: c: Che
cosa faremo senza il nostro delizioso principe? > .
Le dimostrazioni di simpatia che ricevetti in quell'occa­
sione, non soltanto dalla colonia russa, ma da tutti gli amici
inglesi, mi commossero profondamente. Regali d'ogni genere

2 55
si accumulavano tra le frutta e i fiori ; la profusione di que·
sti ultimi fu tale che ben presto la mia camera ebbe l'aria di
una serra. La buona signora Hwfa Williams arrivò seguita
da un rosaio che si durò fatica a far passare per la porta;
ma nulla mi fu più caro di un mazzolino di miosotidi, accom­
pagnato da poche parole semplici e commoventi, che la Pau­
lova mi portò.
Avevo pensato che fosse meglio non dare preoccupazioni
a lrina, che si trovava a Roma, parlandole della mia opera­
zione, e non gliene scrissi se non quando fui fuori di pericolo.
Ella giunse pochi giorni dopo con Teodoro.
Contrariamente alle previsioni, la mia malattia contribuì
largamente al successo del "Ballo azzurro". Molte persone,
sapendo come avessi preso a cuore la cosa, si mostrarono più
che generose. Tra gli assegni eh� ricevetti, uno mi fu inviato
dal celeberrimo miliardario Basilio Zacharov. Era il ri­
sultato di un colloquio avuto qualche tempo prima con quel
misterioso individuo, al quale avevo esposto la grande mi­
seria dei compatrioti profughi. Il suo assegno di cento ster­
line era accompagnato da una lettera nella quale egli mi
faceva osservare che, considerata la svalutazione della mo­
neta, quelle cento sterline erano in realtà duecentosessanta,
vale a dire più del doppio. L'osservazione mi parve singo­
lare e quanto meno fuori di luogo, per cui non resistetti alla
tentazione di aggiungere ai ringraziamenti che gli indirizzai
la proposta di versare alla cassa dei nostri profughi la som­
ma di cui si trattava, non già in sterline, ma in rubli, il che,
al cambio del momento, avrebbe portato la sua liberalità al­
la cifra di un milione di rubli.
Frattanto il giorno del ballo si avvicinava. lo ero ancora
molto debole e non avevo il permesso di alzarmi, ma nulla
avrebbe potuto trattenermi. Avevo dato troppo di me stesso
all'organizzazione di quella manifestazione perché potessi ri­
nunciare ad assistervi e a gioire di un successo del quale non
dubitavo menomamente. Mentendo sfrontatamente con lrina
e con l'infermiera, affermai che il medico mi aveva autoriz­
zato a uscire per quell'occasione, a condizione che mi facessi
trasportare all'Albert Hall dall'ambulanza. Le mie afferma-
2 56
zioni, però, le lasciarono incredule, per cui telefonarono al
medico; questi, per fortuna, era assente. L'ambulanza fu
quindi ordinata e, la sera, entrai all'Albert Hall scortato da
lrina, dai miei cognati Teodoro e Nikita e dall'infermiera,
tutti in domino e con la maschera nera.
Mentre si formavano le prime coppie e al centro della sala
cominciavano le danze, dal palco in cui ero disteso contem­
plavo stupito la decorazione concepita e attuata dall'amico
Belobodorov. La fantasia di quel mago aveva trasformato il
vecchio Albert Hall in un giardino fatato. Leggieri veli azzurri
dissimulavano il grande organo e formavano intorno ai pal­
chi drappeggi trattenuti da ghirlande di rose tee. Un arco
di rose incorniciava il boccascena, e cascate di ortensie az­
zurre cadevano tutt'intorno alla sala. La luce filtrava attra­
verso mazzi di rose che ornavano i lampadari impennacchiati
di piume di struzzo azzurre, mentre raggi che si sarebbero
potuti prendere per quelli di una bella luna d'estate venivano
proiettati sui ballerini.
A mezzanotte le danze furono interrotte per lo spettacolo
di balletti. Una lunga ovazione salutò l'apparizione della
Paulova, involantesi come un uccello azzurro da una pagoda
dal tetto d'oro posta al centro della scena. La sua interpre­
tazione de La notte di Rubinstein portò il delirio nella sala.
Al Bel Danubio blu, danzato dal corpo del balletto, seguirono
danze russe e orientali. Infine Anna Paulova riappane,
con Alessandro Volinin e il resto della compagnia, in un mi­
nuefto di Marinuzzi. Quel minuetto, di cui Bakst aveva di­
segnato i costumi, portò al colmo l'entusiasmo del pubblico.
Gli artisti, debitamente applauditi e acclamati, vennero poi
a mischiarsi a quello stesso pubblico, e le danze ripresero con
nuovo slancio. I lampadari impennacchiati di piume di struz­
zo si spensero soltanto all'alba, alla partenza degli ultimi bal­
lerini.
Rincasai spossato, ma felice. Sapevo già che le previsioni
più ottimistiche erano state largamente sorpassate e che l'im­
portanza dell'incasso avrebbe permesso alla Croce Rossa di
vivere e funzionare per molto tempo.

25 7
Per ristabilire la mia salute e il mio equilibrio nervoso
scosso, i medici mi prescrissero un periodo di riposo. Divonne
mi sembrava il luogo più indicato, e il ricordo di un soggiorno
che vi avevo fatto con mio fratello nel 190?' confermò la
scelta. Partii dunque con mia moglie, accompagnato da un'in­
fermiera e da Bull.
Non riconobbi Divonne. Un immenso palazzo, l'Hotel Chi­
cago, schiacciava con la propria massa le abitazioni che lo
circondavano e aveva disgraziatamente trasformato il carat­
tere del luogo togliendogli tutto il suo fascino e la sua sem­
plicità.
La cura, che iniziai il giorno successivo a quello dell'ar­
rivo, consisteva di docce scozzesi, massaggi e lunghe ore di
riposo, steso sul1a terrazza. Benché la clientela di Divonne
non si componesse che di nevrotici, di ossessionati, di ma­
niaci vari, e non di veri pazzi, il comportamento di certi ma­
lati avrebbe autorizzato ogni errore in questo senso. Si udi­
vano a volte latrati, miagolii, gridi d'uccello; oppure era un
uomo che, passeggiando, si fermava improvvisamente, girava
su se stesso come una trottola, per poi proseguire in modo
del tutto normale. Uno dei pensionanti dell'albergo misurava
con l'ombrello la profondità di immaginarie pozze d'acqua
che poi scavalcava o evitava con un salterello. L'attrazione
che hanno sempre esercitato su di me i pazzoidi mi consen­
tiva di osservare quelli di Divonne con interesse e simpatia,
senz'esserne menomamente depresso, come accade invece alla
maggior parte delle persone normali, o che si considerano
tali, in presenza degli squilibrati.
Divonne piacque molto .a Bull. Il Monte Bianco lo affa­
scinava in modo particolare : « Qui è il paradiso per terra »,
diceva. Siccome gli avevo consigliato di fare anche lui qual­
che doccia, divertì moltissimo il personale dello stabilimento
moltiplicando i saluti e i ringraziamenti mentre si trovava
sotto il getto d'acqua.
Scegliendo Divonne come luogo di riposo avevo sperato
di rimanervi solo con Irina ; ma la nostra solitudine non durò
a lungo ; dovunque fossimo, finivamo sempre coll'incontrare
persone di conoscenza.
In capo a poche settimane ero tornato in forze e potei
fare lunghe passeggiate. La prima visita fu per i miei pro­
fessori d'un tempo, il signore e la signora Pénard, che abita­
vano a Ginevra. La mia gioia di rivederli era aumentata dal
piacere di evocare con loro tutti i ricordi d'infanzia. Un'altra
mèta di passeggiata fu la proprietà acquistata in altri tempi
dai nonni sulle rive del Lemano. La villa Tatiana, che ve­
devo per la prima volta, era affittata a una famiglia di ame­
ricani. Questi, apprendendo che ero figlio dei p roprietari,
accolsero me e lrina molto cortesemente e ci offrirono di farci
visitare la villa. Noi pensavamo di riprenderla alla fine del
contratto, per abitarvi. Il luogo era delizioso; la casa, grade­
vole e spaziosa, aveva intorno un giardino che giungeva fin
sulla riva del lago. L'idea ci sorrideva e la sua attuazione
presentava molteplici vantaggi. Ma la vista ossessionante del
Monte Bianco, che s'incorniciava in tutte le finestre, bastò a
farci rinunciare al progetto.
I miei cognati Teodoro e Dimitri erano venuti a raggiun­
gerei a Divonne. Verso la fine di settembre, quando la cura
fu terminata, partimmo tutti e quattro per l'Italia. Ho serbato
il ricordo di una partenza movimentata, di bagagli lanciati
a volo su un treno in moto, e, soprattutto, del cattivo umore
dei compagni di viaggio che mi consideravano colpevole del
ritardo, causa iniziale di tutto quel disordine. A ogni modo,
non lo ero dello sciopero che ci trattenne per due ore in sta­
zione a Milano. Come a Siracusa, qualche mese prima, le gri­
da di: "Viva Lenin ! Viva Trotsky ! " {1), particolarmente sgra­
devoli alle nostre orecchie russe, accompagnavano queste ma­
nifestazioni.
A Venezia ritrovammo alcuni vecchi amici, tra cui la si­
gnora Hwfa Williams. Certi conoscenti veneziani ci intro­
dussero in casa della principessa Morosini. Il p alazzo Moro­
sini, cupo e lussuoso, è uno dei più belli di Venezia. La p rin­
cipessa, alta, molto bella, era temuta non meno che ammirata
a causa della sua franchezza e del suo spirito mordace. Teo­
doro fu evidentemente quello di noi che, sin dal p rincipio,
la interessò di più. Dopo averlo valutato con uno sguardo,
(1) In italiano nel testo.

2 59
ella puntò l'indice verso di lui chiedendo: « E questo chi è? :..
Passammo una settimana a Venezia. Alcuni degli amici
ci accompagnarono a Firenze, dove ci fermammo qualche
giorno prima di proseguire per Roma per rivedere i nostri
genitori.
Durante il soggiorno a Roma l'organizzazione futura della
vita familiare provocò interminabili discussioni. I punti di
vista differivano : mio padre rimaneva persuaso che un pros­
simo ritorno in Russia era possibile, se non probabile ; mia
madre, come noi, non condivideva il suo ottimismo; entrambi
però si accordavano nel desiderio di non cambiar nulla della
loro attuale esistenza e nella determinazione di non lasciare
Roma. Rimaneva la questione di nostra figlia. lrina voleva
portarla a Londra. Io, invece, ero risolutamente contrario a
tale soluzione, poiché la nostra esistenza nomade non poteva
che nuocere alla fragile salute della bambina. Ella aveva bi­
sogno di una vita regolare e di cure che mia madre era, as­
sai più di noi, in grado di prodigarle. Restò dunque stabilito
che sarebbe rimasta affidata ai nonni. Questa decisione,
che sembrava dettata dalla saggezza, fu ugualmente un errore
che non dovevo tardare a rimproverarmi. Infatti i miei ge­
nitori, che adoravano la nipotina, si piegavano a tutti i suoi
capricci, e non andò molto che la bimba esercitò un vero
dispotismo su di loro.

Poco dopo il ritorno a Londra l'annuncio dei definitivi


disastri di Crimea venne ad annientare le nostre ultime spe­
ranze. Durante l'inverno avevamo appreso la fine tragica del­
l'ammiraglio Kolciak, comandante in capo dell'esercito bian­
co di Siberia, tradito dai cechi, abbandonato dagli alleati e
fucilato dai bolscevichi a Irkutsk, il "! febbraio 1920. In mar­
zo il generale Wrangel sostituiva Denikin alla testa dell'eser­
cito bianco, gli ultimi elementi del quale, lentamente respinti
verso la Crimea, vi erano stati poi definitivamente schiac­
ciati.
La disfatta del generale Wrangel significava la fine della
guerra civile. Nulla si opponeva più al trionfo dei sovieti.
26o
La Russia, torturata, abbandonata, cadeva tutta in p otere dei
bolscevichi. Gli ultimi resti dell'esercito bianco furono eva­
cuati verso Gallipoli, prima di venire dispersi nei paesi bal­
canici. Il generale Wrangel, il cui prestigio rimaneva gran­
dissimo, non abbandonò le proprie truppe. Partecipando, in­
sieme con sua moglie, a tutte le loro privazioni, egli provve­
deva ai bisogni di quel piccolo esercito in esilio, mantenendovi
in pari tempo la disciplina. Soltanto quando gli ultimi uo­
mini ebbero trovato un asilo, il generale lasciò i Balcani per
andare a stabilirsi con la moglie a Bruxelles.
La nostra patria ci era dunque ormai chiusa, ma noi esi­
tavamo ancora sulla scelta del luogo in cui ci convenisse sta­
bilirei. Dovunque sentivamo l'ostilità per tutto ciò ch'era rus­
so. Le singole simpatie non riuscivano a vincere quella pe­
nosa impressione, che aumentava la tristezza della nostra
condizione di esiliati. Il laboratorio di Belgrave Square aveva
perduto la principale ragione d'essere in seguito all'annien­
tamento dell'esercito bianco. Sapendo, d'altra parte, che una
grande quantità di profughi russi era attesa in Francia, ri­
solvemmo di liquidare tutto a Londra e di stabilirei a Parigi.
Pochi giorni prima della partenza, rimettendo in ordine
i gioielli di Irina, mi venne fatto di ripensare alla faccenda
dei diamanti rubati. Quella stessa notte feci un sogno di una
straordinaria precisione. Seduto nel salotto, davanti alla mia
scrivania, aprivo un cassetto e mi accorgevo della scomparsa
dei diamanti. Qualcuno entrava e io riconoscevo uno dei no­
stri amici russi di cui mi ero occupato allorché egli e la sua
famiglia si erano trovati privi di tutto. Buon musicista, for­
nito di una bella voce, egli era uno degli animatori delle no­
stre riunioni. Vedevo quell'uomo venire a sedersi accanto a
me, poi io mi alzavo e mi dirigevo verso la porta, volgendomi
prima di uscire dalla stanza. L'uomo era sempre lì davanti
allo scrittoio e frugava nei cassetti. Afferrò un oggetto e se
lo mise in tasca ...
A questo punto mi svegliai. Ancora sotto l'impressione del
sogno, chiamai la persona in questione al telefono e la pregai
di passare da me al più presto. Ma avevo appena riappeso
il ricevitore che provai vergogna di aver ceduto al primo im-
pulso. Come potevo accusare un amico in base a un sogno?
Quale sarebbe stato il mio atteggiamento quando fosse giun­
to? Pensai di richiamarlo, di trovare un pretesto qualsiasi per
impedirgli di accorrere, quando ebbl l'idea di ricostruire la
scena vista in sogno.
Sedetti allo scrittoio e attesi. I minuti mi sembravano ore.
Finalmente colui che attendevo apparve. Entrò con la sua
aria più naturale, mostrandosi a malapena stupito di essere
stato disturbato a un'ora tanto mattutina. Gli indicai una se­
dia e, guardandolo dritto negli occhi, aprii il cassetto che
aveva contenuto i diamanti. Comprendendo immediatamente
che sapevo tutto, egli si gettò in ginocchio e mi baciò le mani
implorando il mio perdono. Mi confessò di aver venduto i
diamanti a certi mercanti indù di passaggio; ma ignorava il
loro indirizzo, e perfino il loro nome. Per vincere il disgusto
che mi ispirava, dovetti ricordarmi che aveva moglie e
figli. Che altro potevo fare se non lasciar cadere la faccenda
nell'oblio?
Non rividi più quell'uomo, ma finché visse, ogni anno.
a Natale, una cartolina mi recava i suoi auguri.
CAPITOLO XXII
(1920-1921)

Parigi - Comperiamo una casa a Boulogne - Uno strano luogo


di riposo - Makarov - Insediamento seguito da invasione -
L'emigrazione - Ciò che diceva Lenin dei rapporti russo-tede­
schi - Preoccupazioni finanziarie - Difficili trattative con Wi-
dener - Un affare iniziato male.

Ed eccoci a Parigi, la città che preferisco fra tutte. Con­


dannato a vivere lunghi anni lontano dalla patria, ringraziavo
il destino di avermela assegnata come luogo d'esilio. Scesi
provvisoriamente all'Hotel Vendome, ci mettemmo subito in
cerca di un alloggio. Le nostre preferenze ci avrebbero por­
tato verso la riva sinistra o il Palais-Royal ; ma poiché le ri­
cerche furono vane tanto da una parte quanto dall'altra, ci
recammo a visitare una casa segnalataci da un'agenzia a Bou­
logne, 27, rue Gutenberg. Era composta, oltre che di un corpo
principale, di due piccoli e graziosi edifici, uno dei quali da­
va sul cortile d'ingresso e l'altro sul giardino. La casa ci
piacque e l'acquistammo. Il caso mi riconduce�a così in luo­
ghi ove ero stato da bambino; la nostra nuova abitazione,
infatti, non era altro che uno degli annessi del palazzo abi­
tato in altri tempi dalla mia bisavola (1).
Prima di essere pronta a ricevere la nostra mobilia re­
stata a Londra, la casa aveva bisogno di subire talune tra­
sformazioni che consideravo necessarie. lrina, che non condi-
(1) Zenaide lvanovna, principessa Yussupov, bisavola dell'autore, rimasta ve­
dova, si era trasferita in Francia e qui aveva sposato in seconde nozze il conte
di Chauveau. Questa figura di donna ha in sé molti caratteri di un'eroina ro­
mantica: innamoratasi di un giovane rivoluzionario, quando questo era stato
deportato in Finlandia nella fortezza Swiaborg, lo aveva seguito e aveva comprato
una casa di fronte alla prigione per poterlo vedere tutti i giorni. Zenaide Yus­
supov era stata l'amante di Nicola l; la sua partenza per la Francia fu provocata
appunto da uno screzio con l'imperatore. IN. d. T.)
videva la mia predilezione per i cantieri, partì per Roma,
risoluta a non tornare sino a che i lavori non fossero termi­
nati. Quanto a me, dopo aver sorvegliato l'inizio dei lavori
stessi e impartito istruzioni precise, pensai di potermi assen­
tare a mia volta per qualche giorno. Ancora sofferente per i
postumi dell'operazione subìta a Londra, aspiravo a godermi
qualche settimana di riposo in un luogo tranquillo che mi
permettesse di rimettermi in forze, in previsione delle fatiche
che mi attendevano per organizzare il centro di aiuto ai ri­
fugiati che contavo di stabilire a Parigi.
Mi avevano detto assai bene di una casa di riposo che sor­
geva in montagna nei pressi di Nizza. Mi parve il luogo più
adatto e mi vi recai. La casa in questione era infatti di pri­
m'ordine, ma una cosa di cui nessuno mi aveva avvisato, e
che difficilmente avrei potuto immaginare, era che una buona
parte della sua elegante clientela era composta di ragazze
e signore della buona società che venivano lì a liberarsi clan­
destinamente del frutto dei loro amori illegittimi. Le infer­
miere erano tutte una più carina dell'altra. Una deliziosa sve­
dese era addetta in modo speciale al mio servizio. La sera,
finito il suo lavoro, essa veniva spesso a trovarmi e portava
con sé qualche amica.
Siccome non c'era nessun ammalato grave che il rumore
potesse disturbare, avevo fatto portare un pianoforte nella
mia camera. Insegnavo così alle mie compagne le canzoni
zigane che venivano poi cantate in coro, e le serate scorre­
vano allegramente tra la musica e la danza. Le cantine della
casa di cura erano ben fornite, e lo champagne non mancava
mai. Certo, non era in tutto e per tutto il riposo che ero ve­
nuto a cercare, però non provavo neppure un secondo di noia.
Una sera, Bull, che avevo portato con me, fu travestito da
infermiera. Era talmente buffo che gli feci conservare quel
travestimento sino alla fine del mio soggiorno.
Poiché non avevo dato il mio indirizzo a nessuno, non po­
tevo certo aspettarmi di ricevere visite. Fui dunque doppia­
mente sorpreso di veder arrivare un ex ufficiale russo, Wla­
dimiro Makarov, diventato cuoco in una pensione di fami­
glia. Non lo avevo più rivisto da quando avevo lasciato Pie-
troburgo. A dispetto degli abiti laceri, egli aveva ugualmente
un'aria elegante, e le prove subite non avevano alterato il
suo buon umore. Siccome era buon musicista e fornito di una
voce eccellente, cadeva a proposito per abbellire le nostre
serate. Poco dopo, ecco comparire Teodoro, che con la sua
alta statura e la sua prestanza produsse l'effetto consueto
sul personale femminile. Irina, giungendo da Roma, ci rag­
giunse a sua volta e rimase non poco stupita di trovare suo
marito a riposare in una clinica ostetrica. Fu stabilito che
Makarov sarebbe rimasto con noi e ci avrebbe seguito a Bou­
logne come cuoco.
Una sgradevole sorpresa ci aspettava al ritorno: mentre
contavamo, infatti, trovare i lavori terminati, la casa era
ancora nelle condizioni di un cantiere. I mobili venuti da
Londra erano ammucchiati in un disordine indescrivibile, tra
la polvere e i calcinacci. Per parecchi giorni dovemmo accam­
parci alla meglio in quella babele. A poco a poco, però, tutto
si organizzò: mobili, quadri e incisioni trovarono il loro p o­
sto, e la nuova dimora assunse un ottimo aspetto. Con le sue
tonalità azzurre e verdi, ricordava, più in grande, l'appar­
tamento di Londra. Camere supplementari a uso dei compa­
trioti profughi furono sistemate nei due annessi. A pianter­
reno di uno di questi, che in precedenza serviva da rimessa
per le automobili, fu sistemato un piccolo teatro. Il pittore
Jacovlev lo ornò di figure allegoriche rappresentanti le belle
arti; la danza vi era raffigurata con le sembianze di Anna
Paulova. La sala, che un velario separava dal palcoscenico,
era ammobiliata come un salotto. Al fondo di un'alcova for­
mata dalla scala che dava accesso alle camere, Jacovlev aveva
dipinto una Leda. Un moti �o di strumenti musicali ornava
la cappa del camino, e il soffitto era dipinto in modo da sug­
gerire l'idea di una tenda.
I lavori di arredamento erano appena finiti, che un'inva­
sione di parenti e di amici trasformava la casa in asilo del­
l'Esercito della Salvezza. Makarov, preposto alla cucina, ca­
deva cronicamente in preda ad accessi di rabbia davanti al
numero sempre più grande dei nostri pensionanti, e minac­
ciava, né più né meno, di massacrarli tutti.
La sera il piccolo teatro era il luogo di riunione generale ;
nessun'altra stanza, infatti, sarebbe stata abbastanza vasta.
Qualcuno sonava, altri si narravano scambievolmente le prove
passate. Tutti mostravano un coraggio e una serenità che ci
empivano di ammirazione. Mai che si udisse un lamento ! Get­
tati come rottami su una terra straniera, gli emigrati russi
restavano allegri, fiduciosi e d'un inalterabile buon umore.
L'emigrazione comprendeva persone d'ogni classe : gran­
duchi, aristocratici, proprietari terrieri, industriali, membri
del clero, intellettuali, piccoli commercianti, contadini, israe­
liti. Nessuno avrebbe potuto affermare che fosse composta
unicamente da gente ricca lesa nei propri interessi materiali.
Era proprio la Russia tutt'intera quella che aveva abbando­
nato il suolo della patria. La maggior parte di questi pro­
fughi non aveva potuto salvar nulla di ciò che possedeva.
Sin dal loro arrivo, tutti dovettero adattarsi a una vita di la­
voro. Certuni entrarono nelle officine, altri si fecero agricol­
tori, molti divennero autisti di piazza o domestici. La loro
facoltà di adattamento era straordinaria. Non dimenticherò
mai quello che provai ritrovando un'amica dei miei genitori,
contessa autentica, diventata custode nei gabinetti di un ri­
storante a Montmartre. Se ne stava lì, a contare con la mas­
sima semplicità le monete lasciate dai clienti nel piattino
delle mance. Le baciai la mano e chiacchierammo, tra lo scro­
sciare dell'acqua dei gabinetti, come avremmo potuto fare in
un salotto di Pietroburgo. Suo marito lavorava al guardaroba,
e tutti e due erano soddisfatti del loro stato.
Imprese russe nascevano un po' dappertutto : trattorie,
case di moda, empori, librerie, biblioteche, scuole di danza,
compagnie di balletti e compagnie drammatiche, mentre nuo­
ve chiese ortodosse sorgevano a Parigi e nei sobborghi, con
le loro scuole, i loro comitati di mutuo soccorso e i loro asili
per la vecchiaia. La Francia, che dopo la guerra sentiva una
grande penuria di operai, doveva fare assegnamento sulla
mano d'opera straniera, e ciò fece di Parigi il centro natu­
rale dell'emigrazione, tanto più che la Germania le era chiu­
sa. Difatti, dopo Brest-Litovsk, la Germania collaborava con
i bolscevichi, mentre la Francia - almeno a quel tempo -
266
era loro ostile. Un emigrato russo di nome Semenov, in un
suo libro sull'emigrazione, ha citato il testo di un rapporto
che fu presentato al governo belga nell'ottobre 1 920, dal pa­
store Droz della Chaux de Fonds, a proposito di un collo­
quio da lui avuto con Lenin. Durante quella conversazione,
che ebbe luogo a Mosca, Lenin aveva detto particolarmente :

"I tedeschi sono dappertutto i nostri ausiliari e i nostri


alleati naturali, perché l'amarezza della disfatta li spinge al
disordine e all'agitazione ed essi sperano di approfittare dello
sbandamento generale per spezzare le catene loro imposte
dal trattato di Versailles. I tedeschi cercano la rivincita, noi
la rivoluzione. Per il momento i nostri interessi coincidono;
questì non si separeranno, e i tedeschi diventeranno nostri
nemici soltanto il giorno in cui si tratterà di stabilire se, sulle
rovine della vecchia Europa, si ricostruirà una nuova ege­
monia germanica o una federazione comunista europea".

Gli emigrati si univano in ispirito al popolo russo che ri­


maneva, nella grande maggioranza, ostile al bolscevismo e,
pur vivendo sotto il terrore, si manteneva fedele alla propria
fede religiosa. La Chiesa ortodossa e la fede del popolo erano,
in Russia, i principali avversari del potere sovietico, e questi
non lo ignorava. Quanto agli emigrati, si sono sempre sforzati
di attirare l'attenzione dei governi che li avevano accolti sulla
minaccia rappresentata dal bolscevismo per tutte le nazioni
del mondo. Fatte poche eccezioni, essi non sono mai stati un
elemento di confusione.
Come si poteva rimanere indifferenti alla loro miseria at­
tuale? Tentai di trovare denaro interessando alla loro sorte
le persone ricche, come avevo fatto precedentemente in In­
ghilterra e in Italia. Ma questa volta non ebbi alcun successo.
Certo, era naturale che la Francia, occupata a risanare le
proprie ferite, si mostrasse meno generosa delle nazioni che
non avevano subìto l'invasione. D'altra parte bisognava ri­
conoscere che l'interesse del p rimo momento andava gradual­
mente smorzandosi. Sarebbe stato vano sperare che lo slancio
di generosità con cui erano stati accolti un po' dappertutto
i profughi russi potesse rinnovarsi indefinitamente.
E tuttavia i loro bisogni restavano gli stessi, e il più delle
volte i nostri compatrioti in strettezze si rivolgevano a noi.
Nessuno, infatti, poteva credere che dell'immensa fortuna de­
gli Yussupov non restasse quasi più nulla. Tutti erano con­
vinti che ci rimanessero importanti capitali depositati presso
le banche straniere, e in ciò si ingannavano. All'inizio della
guerra i miei genitori avevano fatto tornare in Russia tutto
il denaro che avevano all'estero. Oltre la casa sul Lemano,
non ci restavano per tutta ricchezza che i gioielli, gli oggetti
di valore che avevamo potuto portare con noi lasciando la
Crimea, e i due Rembrandt, portati di nascosto da Pietro­
borgo e sfuggiti alle investigazioni dei bolscevichi. Nel pe­
riodo in cui questi avevano occupato la Crimea, i due quadri
erano rimasti appesi alle pareti del salotto di Koreiz, dissi­
mulati sotto due tele sulle quali mia cugina Elena Sumara­
kov aveva dipinto due innocenti mazzi di fiori. Ora si trova­
vano a Londra, dove li avevamo lasciati quando eravamo par­
titi dall'Inghilterra per venire a stabilirei a Parigi .
Nella primavera del 1921 la nostra situazione finanziaria
era particolarmente critica. Le organizzazioni di soccorso per
i rifugiati avevano assorbito tutto ciò che possedevamo, e
anche più. Per vivere e far vivere le nostre opere di assi­
stenza eravamo stati costretti a mettere in pegno una notevole
parte dei nostri gioielli. Risolvemmo di vendere il resto e di
vendere analogamente, o di mettere in pegno, i due Rem­
brandt il cui valore era considerevole. Partii dunque per
Londra, dove la vendita dei gioielli fu attuata senza di:ffi­
coltà. Quella dei Rembrandt, invece, me ne riserbava di in­
sospettate.
Per il tramite d'uno dei miei amici, Giorgio Mazirov, noto
per la sua abilità negli affari, entrai in rapporto col ricco e
celebre collezionista americano Joe Widener, che si trovava
allora di passaggio a Londra. Egli vide i quadri, ma il prezzo
di duecentomila sterline al quale erano stati stimati gli parve
troppo alto. Ne offrì centoventimila. Dopo una discussione
abbastanza lunga, firmai il contratto seguente :
268
"Io sottoscritto Felice Yussupov, accetto di ricevere dal si­
gnor Widener la somma di centomila sterline entro un mese
a datare da oggi, per la vendita dei miei due ritratti di Rem­
brandt, riserbandomi il diritto di riscattarli il 1 • gennaio 1924
o in qualunque altra data precedente per la stessa somma,
aumentata di un interesse dell'otto per cento dalla data de]
loro acquisto".

Qualche giorno dopo, Widener partiva per gli Stati Uniti,


dopo aver rinnovato ]a promessa di mandare, appena giunto
a Filadelfia, il denaro in cambio dei quadri. Questo avveniva
all'inizio di luglio ; il 12 agosto, Widener mi faceva sapere
che mi avrebbe inviato la somma stabilita se io avessi firmato
un secondo contratto, col quale mi impegnavo, nel caso che
avessi riscattato i quadri prima della scadenza, a non ven­
derli a nessun altro, ma a tenerli per me, e questo per un
periodo di dieci anni.
Rimasi atterrito! Contando sulla parola di Widener avevo
creduto di poter firmare con la massima tranquilJità alcuni
assegni intestati ai creditori più insistenti. Mi vedevo ora mes­
so con le spalle al muro e costretto ad accettare quelle con­
dizioni per far fronte ai miei impegni. Preso alla gola, dovetti
firmare il nuovo contratto. Mi ricordai però che Widener, du­
rante le trattative, aveva più volte manifestato una p ietà
che mi era parsa sincera per la sorte dei nostri emigrati.
Forse era possibile toccare quella corda che credevo di aver
sentito vibrare in lui. Uno dei migliori avvocati di Londra,
il signor Barker, da me consultato, mi affermò che il primo
contratto rimaneva valido, e che se avessi potuto procurarmi
la somma necessaria prima dello spirare del tempo stabilito,
Widener non avrebbe potuto fare a meno di restituirmi i qua­
dri. Egli stese una nuova minuta di contratto e io la inviai
a Widener accompagnata da queste poche righe che si ri­
volgevano aH a sua coscienza :

"Il mio disgraziato paese è sconvolto da una catastrofe


senza precedenti. Milioni di miei compatrioti muoiono di fa­
me. Questa è la principale ragione che mi ha spinto a firmare
26g
il contratto inviatomi da voi. Vi chiedo di riesaminare i ter­
mini ancora una volta, e vi sarò riconoscente se prenderete
in considerazione la possibilità di modificarne certi punti. Dal
momento in cui avrò posto la firma a questo contratto, sarò
intieramente alla vostra mercé. Credo di poter contare sul
vostro senso di giustizia, e faccio appello alla vostra co-
o "

scienza .

La lettera rimase senza risposta. Ma non è del mio carat­


tere preoccuparmi in anticipo per un incerto avvenire. Per il
momento uscivo d'imbarazzo, ed era l'essenziale. Certo non
immaginavo che questo era soltanto il preludio di una serie
di grattacapi che dovevano durare anni e anni (1).

( l ) D i questo curioso episodio s i parla a lungo, con particolari inediti e illu­


strando anche le ragioni della parte avversa, nel libro d i N. S. Behrmann : Il re degli
antiquari (ed. Rizzoli). [N.d.T. j .
CAPITOLO XXIII
(192 1 - 1 922)

Indiscrezione di taluni ambienti parigini - La signora W. K.


Wanderbilt - Nuove fondazioni - Matrimonio di mio co­
gnato Nikita - Assumo un conte polacco come giardiniere -
Una visita di Boni di Castellane - l sabati di Boulogne -
Lady X - Il maragia d'Alroar.

Prima di abitare in Francia non mi era mai p assato p er


la mente che avrei dovuto soffrire per gli inconvenienti de­
rivanti da una certa pubblicità fatta intorno al mio nome.
Gli sguardi che mi seguivano, i mormorii che si leva­
vano al mio passaggio, rivelavano una curiosità indiscreta,
per non dire morbosa, che il riserbo britannico mi aveva ri­
sparmiato. Ancor più spiacevole di questa curiosità anonima
era l'atteggiamento di certe persone che non esitavano a ri­
volgermi le domande più indiscrete e più assurde. E che dire
di quella padrona di casa la quale, durante un pranzo al qua­
le mi aveva invitato insieme con molte altre persone, non
seppe trattenersi dall'esclamare : «: Yussupov passerà alla p o­
sterità col suo volto d'arcangelo e le sue mani insanguinate! > .
Credo proprio che s e persi i l piacere delle riunioni mon­
dane fu in seguito agli incidenti di questo genere. Frequen­
tavo sempre meno gli ambienti eleganti, la cui fatuità mi
stancava. Preferivo a tale compagnia quella di coloro che la
disgrazia aveva reso più veri e umani, o di quegli irregolari
del mondo dell'arte che hanno sempre goduto la mia pre­
dilezione.
D'altra parte la sorte degli emigrati rimaneva la mia prin­
cipale preoccupazione. Problema tormentoso di cui mi acca­
nivo a trovare la soluzione, benché sembrasse ardua. Co-
me quel generale russo che misurava a larghi passi la piace
de la Concorde ripetendo : "Che fare? Fare, che ? ", non mi
risolvevo ad accettare la sconfitta. Confidai il mio imbarazzo
a un amico di gioventù, Walter Crighton, di cui avevo sem­
pre apprezzato i consigli e il carattere, e grazie a lui entrai
in relazione con la signora W. K. Vanderbilt.
Ci sono certi americani che vi farebbero adorare l'Ame­
rica. La signora Vanderbilt si interessò di prim'acchito alla
causa e promise di fare qualche cosa per i miei compatrioti.
Ella fece più di "qualche cosa". Con un notevole spirito di
organizzazione, propose di cominciare con l'aprire un ufficio
di collocamento per gli emigrati. Tre bei locali del palazzo
che abitava in rue Leroux furono adibiti a tale uso. Gra­
zie all'appoggio di quell'amica tanto pienamente generosa e
all'abnegazione instancabile di Walter Crighton e del prin­
cipe Vidor Kociubey, la nuova organizzazione rese servizi
incalcolabili procurando lavoro a molti profughi.
La signora Vanderbilt non era la sola straniera che si in­
teressasse alla loro sorte. Due sue compatriote, la principessa
Boncompagni, italiana per matrimonio, e la signorina Clover,
si sono assicurate per sempre con la loro caritatevole attività
la riconoscenza dei russi rifugiati in Francia. La signorina
Clover, tornata a Parigi dopo la guerra, è diventata ed è ri­
masta una delle nostre grandi amiche. Il dono generoso di
un'inglese, la signorina Dorothy Puget, permise la fondazione
di un ritiro per la vecchiaia a Sainte-Geneviève-des-Bois, la
cui direzione fu affidata alla principessa Vera Mes'cersky.
L'importanza di questo ospizio non ha cessato di crescere con
gli anni. Una deliziosa chiesa s'alza di fianco al cimitero dove
riposano coloro che non dovevano rivedere mai più il loro
paese.
Aprimmo anche un istituto di bellezza, nel quale alcune
dame russe poterono essere iniziate ai misteri del massaggio
e del trucco sotto la direzione di specialisti e assicurarsi così
mezzi di sussistenza.
Una scuola d'arte applicata, alla quale lrina si appassionò
non meno di me, ci occupava in modo particolare. Gli al­
lievi vi imparavano vari mestieri che li ponevano in con-
dizioni di guadagnarsi la vita. Ne avevo affidato la direzione
al professar Globa che aveva diretto una scuola del genere
a Mosca. Abile organizzatore, buon amministratore, Globa
mancava però di fantasia e di gusto. Era questa una conti­
nua causa di dissensi tra noi, per cui finii col separarmi da
lui e lo sostituii con Sciaposc'nikov, ch'era più giovane e,
anche, più ricco di immaginazione.
Altri laboratori di genere diverso si aprirono in seguito
un po' dappertutto, tanto che quella straripante attività co­
minciava a preoccupare i miei amici e la stessa Irina. A Roma
mia madre si allarmava ancora di più vedendomi correre
verso una catastrofe che considerava inevitabile e mi
scongiurava di moderare il mio ardore. Ma invano moltipli­
cava i richiami alla ragione : ero lanciato, e nulla poteva
arrestarmi.

Frattanto, a Boulogne, la vita procedeva senza scosse. Nel


febbraio 1922 vi festeggiammo allegramente il matrimonio di
mio cognato Nikita con la sua amica d'infanzia, la bella con­
tessa Maria Woronzow.
La casa restava gaia e accogliente e sempre piena da scop­
piare. Nondimeno, non tutti i suoi ospiti permanenti erano
quali Irina li avrebbe desiderati. Elena Trofimov, per esem­
pio, non le andava giù. Elena era una vecchia zitella che
avevo raccolto e che giustificava più o meno la propria p re­
senza con una certa abilità di pianista che mi permetteva
di utilizzarla come accompagnatrice. Quell'essere senza età,
sprovvisto di qualunque grazia femminile, ma non di civet­
teria, alla sera indossava un corpetto trasparente che velava
in modo affatto inadeguato cose che sarebbe stato meglio dis­
simulare. Una nota supplementare di eleganza era data dal­
l'enorme penna di struzzo che abbelliva la sua pettina tura.
Un giorno d'estate Bull venne in gran segreto ad avvertir­
mi che un conte polacco chiedeva di parlarmi. Per una volta,
l'atteggiamento di Bull, sempre pieno di mistero e di sottintesi,
apparve giustificato. L'aspetto del nuovo venuto, una specie
di fantoccio con una grossa testa piantata su un corpo da p ig-

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meo, aveva infatti di che stupire. Indossava una giacca lisa
e un paio di calzoni a quadretti; le scarpe erano enormi e scal­
cagnate, e le dita uscivano dai buchi dell'unico guanto. En­
trando assunse una posa di noncuranza, incrociando i piedi
e facendo mulinelli con un bastoncino di bambù che aveva in
mano. "Una discreta imitazione di Charlot", pensai. Interruppi
quell'esercizio domandandogli in che cosa potessi essergli utile.
Con un gesto teatrale, lo strano individuo si levò il feltro ver­
digno orna to con una penna di pernice, e inginocchiandosi con
un saluto degno del gran secolo:
« Altezza », disse, « il destino del discendente di un'illustre
famiglia è tra le vostre mani. Io cerco un posto e vi prego di
assumermi al vostro servizio ».
Obiettai che avevo già un numeroso personale e che tutte
le camere erano occupate.
« Altezza », riprese il mio singolare visitatore, « la cosa non
deve preoccuparvi. Nostro Signor Gesù Cristo è nato in una
stalla ; io posso ben dormire nell'angolo di un granaio ».
Lo sconosciuto mi divertiva, ed ero già disposto ad arren­
dermi; gli chiesi dunque che genere di lavoro avrebbe potuto
fare. Egli si avvicinò a un vaso che conteneva delle rose, ne
prese una e, dopo averne lungamente aspirato il profumo, si
volse verso di me.
« lo adoro i fiori. Sarò il vostro giardiniere ».
lrina prese la cosa molto male. Per essere precisi, era fu­
ribonda. La sua casa, diceva, non era un circo. Ne aveva già
abbastanza di Bull e di Elena senza che le fosse imposto que­
sto nuovo cloron.
Debbo riconoscere che lrina non aveva torto. Queste per­
sone, che mi distraevano la sera, quando rincasavo dopo aver
passato la giornata a correre dall'una all'altra delle nostre
opere, durante la mia assenza erano sulle sue spalle ; toccava
a lei appianare le continue discussioni, placare gli incessanti
litigi.
Questa volta la mia imprudenza apparve lampante sino
dal giorno dopo.
Il sole era appena spuntato quando fummo svegliati da
un gridìo di animali che saliva dal giardino. Corsì alla finestra
e vidi il nostro nuovo giardiniere che, brandendo un idrante,
innaffiava non già i fiori, ma tutti gli esseri viventi che passa­
vano alla sua portata. Cani e volatili correvano terrorizzati
in tutte le direzioni facendo a chi strillava di più.
Un'altra finestra si aprì: Elena, strappata come noi al son­
no, si affacciò per vedere che cosa accadesse. Male gliene in­
colse! L'idrante, subito diretto dalla sua parte, l'asperse dalla
testa ai piedi : « Prendi », le gridò il discendente dell'illustre
famiglia, « questo è per te, fiore sterile che non hai pagato il
tuo tributo alla natura ! » .
Quello stesso giorno, nel pomeriggio, ricevetti la prima
visita di Boni di Castellane. Lo vidi arrivare molto dignitoso,
come aveva reputazione d'essere sempre, e vestito in modo im­
peccabile. Makarov e il conte giardiniere lo accompagnavano,
parlandogli contemporaneamente in russo e dirigendolo verso
il piccolo teatro dove una compagnia di cantanti stava pro­
vando un numero musicale. A causa del caldo, che quel giorno
era soffocante, eravamo tutti più o meno svestiti. Boni non
mostrò alcuna sorpresa; anzi ascoltò molto cortesemente il con­
certo improvvisato che gli fu offerto, senza scostarsi nemmeno
per un momento dalla propria aria compassata. Quali furono
le sue impressioni personali, egli stesso ce lo ha detto descri­
vendo questa visita nei propri Souvenirs, che perderebbero
troppo a essere riassunti in uno stile diverso dal suo. Dopo
avermi paragonato ad Antinoo e a Nerone, a Gengis K.han
e a Nostradamus, egli aggiunse:
"Questo insieme un po' demoniaco fu lungamente conser­
vato nei ghiacci di Pietroburgo. Gli feci una visita e lo trovai
in una casetta semplicissima di Boulogne-sur-Seine, circon­
dato da cani, da pappagalli, da una quantità di servitori più
o meno abbandonati dal destino, che egli aveva raccolto per
bontà d'animo: tra gli altri, un giardiniere che portava guanti,
giacca e un cilindro bucato mentre zappettava nel giardino,
e un cuoco, ex ufficiale della Guardia imperiale.
"Un personale numeroso viveva lì, sotto lo sguardo freddo
e benevolo della silenziosa principessa Yussupov, nata gran­
duchessa, con una placidità e una fiducia nell'avvenire della
Russia assolutamente ammirevoli.

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"Di lì a qualche minuto, uscì dalle cantine un'orchestra
composta di parecchi musicisti che vennero a cantare, per
farmi onore, arie patriottiche e folcloristiche del migliore ef­
fetto. Poi mi fu fatta vedere in un angolo del giardino una
rimessa trasformata in teatro e decorata nel modo più mo­
derno, dove il principe si proponeva di far recitare le opere
dei suoi autori preferiti.
"In quell'atmosfera di decomposizione deliziosamente pro­
fumata, il mio istinto pratico di latino logico si impennava , e
io non potevo fare a meno di compatire quello spirito vago
ma interessante, pure apprezzando il fascino infinito di quella
concezione zingaresca della vita".

Ecco come apparivano la nostra casa e le nostre persone


agli occhi di quell'occidentale.

Tutti i sabati sera ricevevamo nel piccolo teatro. Come già


a Londra, gli amici portavano il loro contributo per rifornire
la tavola di viveri e di bibite varie. La mia deliziosa cugina
Irina Woronzow e i suoi due fratelli, Michele e Vladimiro,
erano gli animatori di queste riunioni.
Le serate del sabato furono subito di moda. Esse raduna­
vano persone di genere diverso, tra le quali figuravano artisti
d'ogni categoria : la Melba, Nina Kochitz, Mary Dressler, la
stupefacente Elsie Maxwell, Arturo Rubinstein, Muratore,
Montereol-Thores, e molti altri. La maggior parte degli estranei
che si mischiavano a essi, venivano a casa mia mossi dalla
curiosità, un po' come oggi sarebbero andati a visitare le can­
tine esistenzialiste di Saint-Germain-des-Prés. Può darsi che
si aspettassero di assistere a qualche scena d'orgia più o meno
scandalosa. Ma, quanto a baccanali, non potevamo offrir loro
che danze, arie di chitarra, canzoni zigane e la nostra schietta
gaiezza, che li stupiva sempre per il fatto di aver resistito a
tante prove. In realtà, era stata proprio essa a permetterei di
sopportarle. Ma questa è una cosa che uno spirito occidentale
può difficilmente concepire. In quell'atmosfera un poco folle,
dovuta senza dubbio in parte a un certo squilibrio lasciato in
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noi dagli orrori di un passato tanto recente, era p ossibile rico­
noscere una specie di reazione al ricordo di giorni terribili. E
tuttavia quell'allegra trascuratezza non doveva essere attri­
buita unicamente al nostro bisogno di stordirei, e nemmeno al
nicevò russo. Ciò che nessuno capiva era che un abbandono
totale alla volontà divina, mettendoci al riparo dalla dispera­
zione, preservava in noi la gioia di vivere. Ho spesso attinto
da questa gioia la forza necessaria per sostenere il morale dei
disgraziati che venivano a chiedere il mio aiuto.
Una volta, tuttavia, aggiunsi al programma della serata,
un supplemento inedito sufficientemente sostenuto per soddi­
sfare gli spiriti più esigenti.
Un'usanza zigana esige che la persona cui viene special­
mente rivolta una canzone conviviale abbia vuotato il bic­
chiere prima che la canzone finisca. Ora, siccome molte donne
non ci riuscivano, io mi vedevo costretto a vuotare per loro i
bicchieri cui esse avevano accostato le labbra, affinché la tra­
dizione fosse salva. Debbo pensare che quella sera i beveraggi
fossero particolarmente alcoolici o che io, quando fu intonata
una canzone conviviale, avessi già bevuto più del lecito. Co­
munque sia, il risultato non si fece attendere, e il peggio si è
che la mia ebbrezza assunse improvvisamente una forma com­
battiva. I miei amici del Caucaso, giovanottoni solidi che in­
dossavano il costume nazionale, mi circondarono immediata­
mente e mi trascinarono fuori del teatro.
Il giorno dopo mi svegliai in una camera ignota, con le fine­
stre aperte su un giardino. Ai miei piedi russava il mio cane ;
un grammofono era posto su un tavolino accanto al letto e,
in una poltrona, dormiva il mio autista. Gli amici caucasici
avevano ritenuto opportuno trascinarmi sino a Chantilly, dove
mi avevano deposto, addormentato, in una camera dell'Hotel
du Grand Condé.
Sarebbe inutile dire che l'accoglienza di lrina fu glaciale.
Ella si degnò tuttavia di dirmi che, apparentemente, i nostri
invitati non avevano notato nulla di anormale e che se n'erano
andati ringraziandola della deliziosa serata. Forse avevano
creduto veramente che il mio numero facesse parte del pro-
gramma, c l'entrata in scena dei caucasici in cerkesska e col
pugnale infilato nella cintola poteva benissimo aver comple­
ta to l'ili usione.

A questo punto debbo parlare di una donna che, proprio


a quel tempo, ebbe nella mia vita una parte singolare e, tutto
sommato, nefasta. Debbo però tornare un po' indietro, come,
più innanzi, dovrò anticipare avvenimenti prodottisi in anni
success1v1.
I miei rapporti con lady X risalgono al 1920, all'epoca del­
l'operazione da me subita a Londra, durante la preparazione
del Ballo azzurro. Senza ancora conoscerla, ricevevo da lei
frutta e fiori accompagnati da bigliettini scritti con molta
grazia. Approfittai di una delle mie prime uscite per andare
a ringraziarla delle sue cortesie. Ignoravo allora che vi fos­
sero due lady X: la suocera e la nuora. Trovai, dunque, una
vecchia signora, la quale, non avendomi mai inviato né frutta
né fiori, non poteva far altro che stupirsi di vedersi ringraziata.
Soltanto a Parigi feci la conoscenza della nuora che, in
seguito, dovevo vedere assai spesso. Originale e romantica,
ella amava la vita lussuosa. La sua immensa fortuna le per­
metteva di soddisfare gusti dispendiosi, e mi affretto a dire
che le nostre opere approfittarono largamente della sua ge­
nerosità.
Un giorno che mi aveva invitato a colazione in una sua pro­
prietà nei dintorni di Parigi, propose di fare nel pomeriggio
una passeggiata in break. Accettai con piacere, ben lungi dal­
l'aspettarmi la sorpresa che mi si preparava. Al ritorno, senza
nessun avvertimento preventivo, ella arrestò i cavalli all'in­
gresso di un cimitero, dopo di che, balzando dalla carrozza,
varcò il cancello invitandomi a seguirla. Mi condusse verso
un lussuoso mausoleo di cui aveva la chiave, vi entrò, lasciò
cadere un biglietto e fuggì. Raccolsi il biglietto e lessi queste
righe : "Io credo alla reincarnazione ; le nostre anime sono
appartenute un tempo al conte d'Orsay e a lady Blessington".
Il mausoleo in cui mi trovavo racchiudeva le salme di que]
Romeo e di quella Giulietta del diciannovesimo secolo.
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Le fantasie della strana donna sorpassavano i limiti di
tutto quanto potevo immaginare. Alcune sfioravano persino
la pazzia. Ma evidentemente le vie della follia le sembravano
più indicate di quelle della ragione per raggiungere il pro­
prio scopo, ammesso che ella stessa avesse di tale scopo una
idea precisa.
Ecco una delle prime e delle più anodine delle sue stra­
vaganti invenzioni.
Una sera, a Boulogne, prendevamo tranquillamente il caf­
fè in compagnia di mia suocera, arrivata da Londra per pas­
sare qualche giorno con noi, quando un domestico venne a
dirmi che nel cortile avvenivano cose straordinarie. Non ave­
va finito di parlare, che vedemmo entrare un uomo chiuso
nell'armatura e seguito da lady X travestita da Melisenda,
Principessa Lontana, con un lungo velo e un immenso strascico
sorretto da un ragazzino, travestito a sua volta da paggetto.
Lo strano corteggio attraversò il salotto in silenzio e di­
sparve nel giardino, !asciandoci tutti e tre intontiti a chie­
derci se avessimo sognato.
Qualche giorno dopo, fui chiamato al telefono dal sarto
Worth, il quale mi pregava di passare da lui dove, così di­
ceva, mi aspettava una sorpresa. Curioso di sapere di che si
trattasse, eccomi in strada per rue de la Paix. Worth comin­
ciò col parlarmi di mia madre, sua antica cliente e dell'am­
mirazione che aveva per lei. Ma tutto ciò non mi spiegava
perché mi avesse chiamato. Finalmente, con grandi raccoman­
dazioni di non stupire di nulla, vengo introdotto in un salotto
nel quale veggo ]ady X seduta su un trono, sempre vestita
da Principessa Lontana; il paggetto sbadigliava ai suoi p iedi
e l'uomo in armatura montava la guardia.
Sarebbe difficile raccontare tutti gli scherzi detestabili che
quella donna eccentrica mi fece per anni e anni, prima di
sparire dalla mia vita subitamente come vi era entrata.
Avevo smesso di vederla, e da qualche tempo non sentivo
parlare di lei, quando, essendo uscita da poco la seconda edi­
zione di una specie di narrazione drammatica p resa da un
avvenimento della storia più recente, apparve in un giornale,
col titolo di « Il principe, il frate e la contessa :., l'articolo che

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il lettore troverà qui di seguito. Mi sono ben guardato dall'ap­
portare a questo scritto la menoma correzione, così come mi
astengo da qualsiasi commento che possa alterarne il sapore.

IL PRINCIPE, IL FRATE E LA CONTESSA

"L'eroe principale, facilmente riconoscibile sotto la ma­


schera leggiera che copre il suo volto, è il principe Yussupov,
il quale fu uno degli istigatori dell'assassinio di Rasputin, che
voleva punire di aver osato alzare gli occhi sulla principessa.
Costei, bella, mistica e altera, ostentava di disprezzare il famo­
so monaco; il quale, punto nel vivo, mise in opera per lei tutte
le risorse del proprio strano magnetismo, di modo che, a poco
a poco, sotto quell'influenza, ella cominciava a dimostrargli
un interesse al quale il pugnale dei congiurati mise una fine
brutale.
"Dopo la rivoluzione russa la coppia principesca, rifugiata
in Francia, visse soprattutto di espedienti : vendita di gioielli,
casa di mode, prestiti, ecc. Una grande dama inglese si inna­
morò un giorno del principe e mise tutta la propria immensa
fortuna a sua disposizione. Il principe accettò quel dono del
Cielo con una condiscendenza del tutto orientale. Ma, quando
si rese conto che l'inglese attendeva in cambio che divorziasse
per sposarla, ruppe ogni relazione con lei.
"Nel frattempo, l'innamorata delusa apprese che il suo
idolo riserbava parte dei propri favori a un ricchissimo ban­
chiere israelita. Folle di rabbia gelosa, ella giunse a far mi­
nacciare il principe, per il tramite di un vecchio e fedele ser­
vitore, di rivelare la cosa alla principessa :
" 'Vostra Grazia si assumerebbe un'incombenza del tutto
inutile', rispose questo modello dei servitori vecchio stile. 'La
principessa direbbe semplicemente : 'Poveretto! Quante pene
per mandare avanti la baracca !'.
"Dobbiamo aggiungere che la principessa, dal canto suo,
si dà anch'essa da fare. Trascorre tutti i pomeriggi nella casa
di mode che ha fondato e dove il principe, di tanto in tanto,
fa una apparizione indolente e annoiata, appassionatamente
atteso dalle belle clienti. Di tanto in tanto, in preda ai rimorsi
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e alla noia come ogni russo che si rispetti, il principe si ab­
bandona a crisi di misticismo durante le quali si fustiga furio­
samente e non si arresta se non quando è coperto di sangue.
"Questo è il singolare mondo evocato, con una discrezione
che non esclude la forza, nel libro della signora di Krabbé,
la cui infanzia, è facile rendersene conto, è stata nutrita nei
paraggi del castello d'Elsinore abitato dall'ombra corrucciata
di Amleto, principe di Danimarca".

Il sabato che seguì quello dello scandalo provocato dalla


mia ubriacatura, lady X ci portò il maragia d'Alwar. La se­
rata era già avanzata. Nella sala semibuia gli invitati, la più
parte seduti sui cuscini sparsi sul pavimento, ascoltava un
coro zingaresco, quando il maragia fece il proprio ingresso
accompagnato da lady X e da un seguito imponente.
Dal fondo del salone dove stavo seduto su un gradino della
scala, vidi quel nobile personaggio, vestito con grande magni­
ficenza e coperto di pietre preziose, avanzarsi con passo felino
e venire a me come se mi avesse conosciuto da sempre. M'al­
zai per accoglierlo e volli avvicinare una poltrona, ma egli
protestò e rimase in piedi, perché l'etichetta del suo paese gli
vietava di accettare una poltrona quando il suo ospite stava
seduto sul pavimento. L'etichetta indù era evidentemente ben
diversa da quella di Boulogne! A ogni modo mi conformai a
essa per non turbare lo spettacolo. Sedutomi al fianco di quel­
l'orientale tanto puntiglioso per quanto riguardava il codice
della cortesia provavo un certo disagio a veder sedute ai
miei piedi parecchie donne, alcune delle quali non erano più
giovani, ma si illudevano, così facendo, di avere venti anni
di meno.
Quando la musica cessò, feci le presentazioni. Allora mi
fu chiesto di cantare. Il nostro bravo indù, che non aveva mai
sentito canzoni russe, si mostrò estremamente interessato, e ,
dopo essersi calorosamente rallegrato con me, si congedò in­
vitandomi a colazione per il giorno successivo.
Un ricevimento degno di un sovrano mi aspettava al-
l'Hotel Claridge, di cui il maragia e il seguito occupavano
tutto un piano. Un aiutante di campo stava sulla porta del­
l'albergo, un secondo e un terzo all'entrata e all'uscita del­
l'ascensore ; altri due mi aprirono la porta a due battenti che
dava nell'appartamento del loro signore e mi introdussero in
una sala in cui era preparata una tavola per due.
Ero giunto all'una. Erano le sei quando uscii dal Claridge,
dopo aver subìto un esame completo. Non ci fu domanda che
il mi() ospite non mi rivolgesse: politica, filosofia, religione,
amore e amicizia; fui interrogato su tutto.
Volle sapere di prim'acchito se fossi monarchico o repub­
blicano. Gli dissi ch'ero monarchico e che rimanevo convinto
che questa era la forma di governo capace di dare al mio
paese un massimo di felicità, di stabilità e di prosperità.
« Siete credente? )), mi domandò allora.
« Sì. Credo in Dio. Appartengo alla religione ortodossa,
ma non do grande importanza a questa confessione piuttosto
che a un'altra. Si può giungere alla verità per strade diverse;
tutte mi sembrano egualmente buone per coloro che sono uniti
in uno stesso amore di Dio ».
« Siete filosofo? ».
« Se lo sono, la mia filosofia è come la mia religione, sem­
plicissima. Mi lascio guidare dal cuore più che dalla ragione.
Prendo la vita come viene, senza cercare di svelare il mistero
che ci circonda. Fra tutti i filosofi, quello che ammiro di più
è Socrate quando afferma : "Io so che non so niente" )).
« Come vedete l'avvenire del vostro paese? », riprese il
maragia.
c: Penso che la Russia, crocifissa come Cristo, risorgerà
come lui. Ma essa non dovrà la propria salute alla forza delle
armi, bensì alle forze spirituali )).
Il maragia, senza far commenti, passò ad altri soggetti.
Le mie idee sull'amore e sull'amicizia parvero interessarlo in
modo particolare.
c: È un argomento su cui è stato detto tutto, ma sul quale

si discuterà fino alla fine dei giorni. Le frontiere dell'amicizia


e dell'amore sono certo assai difficilmente definibili. Ma, si
tratti dell'una o dell'altro, la fiduci� reciproca e il dono di sé
282
debbono essere Ja base di ogni sentimento sincero. Mi è sem­
pre parso temerario stabilire leggi nelle relazioni tra gli esseri.
In questo campo io sono risolutamente individualista >.
L'interesse che visibilmente ispiravo al maragia mi parve
a tratti temibile, ma la sua personalità mi lasciava perplesso,
e questa curiosità fu senza dubbio alla base dell'attrazione
singolare, intermittente ma sempre rinnovata, che per molti
anni, e quasi sino alla morte, esercitò su di me quel principe
tenebroso.
Scoprii che detestava i cani. La prima volta che venne a
pranzo a Boulogne, era appena sceso di carrozza che si trovò
alle prese con tutta la banda dei nostri cagnolini i quali gli
si buttarono addosso abbaiando furiosamente, ben risoluti a
vietargli l'ingresso della casa. Quella sera fu sfortunato, poi­
ché gli venne servita a pranzo una lombata di vitello che non
poté neanche assaggiare. Avevamo dimenticato che il brama­
nesimo considera la vacca un animale sacro.
Quand'era lui l'anfitrione, i suoi cibi differivano sempre da
quelli degli invitati ; ma se io ero tra gli ospiti, mi faceva ser­
vire i p ropri, e mi assegnava sempre il posto d'onore qualun­
que fosse il rango degli altri ospiti.
Una sera ebbi per vicino uno dei suoi ministri, vecchio
maestoso dalla barba bianca. Costui mi interrogò sulle origini
della mia famiglia, e commisi l'imprudenza di dirgli che con­
tavamo il profeta Alì tra i nostri lontani antenati. Subito il
vecchio si alzò e si pose dietro la mia sedia, dove rimase ritto
sino alla fine del pranzo. Ero sorpreso e imbarazzato insieme.
Vedendo il mio imbarazzo, il maragia mi spiegò che il mini­
stro apparteneva alla setta del profeta Alì, e ch e per i fedeli
di questa setta ogni discendente del profeta era necessaria­
mente un santo. La mia promozione alla santità era per lo
meno inaspettata: mai, posso giurarlo, le mie più folli ambi­
zioni si erano spinte tanto in alto!
Poco prima della sua partenza, il maragia mi invitò per
l'ultima volta a pranzo. Quella sera eravamo a quattr'occhi,
e il mio ospite ebbe il capriccio di vestirmi da principe indù.
Mi condusse nella camera in cui erano schierati i suoi abiti di
cerimonia, e, aperto un ripostiglio, scoprì ai miei sguardi tutta
una collezione di vestiti di broccato tessuto in oro e argento,
o di seta magnificamente ricamata.
La tunica di stoffa d'argento che mi pregò di indossare
andava unita a un paio di pantaloni di morbida seta bianca
come il turbante che, in un batter d'occhi, mi drappeggiò
intorno alla testa. Allora si fece recare una cassetta di gioielli.
Benché abituato da lunga data a tale genere di magnificenze,
dovetti egualmente restare stupefatto davanti allo splendore
di quelle perle, di quei diamanti e di quegli smeraldi ch'erano
i più belli e i più grandi che avessi mai visto.
Il mio ospite mi fissò sul turbante una fibbia di diamanti
e mi pose intorno al collo lunghe collane di smeraldi tenuti
insieme da fili di perle. Vedendomi nel grande specchio così
adorno, non potevo fare a meno di stimare mentalmente il
valore favoloso di ciò che in quel momento portavo su di me,
e mi prese la voglia di scappare con tutta quella roba addosso!
Immaginavo la faccia dei passanti ... e quella delle guardie
di città!
Fui strappato alle mie riflessioni dalla voce del maragia.
« Vostra Altezza acconsenta a seguirmi in India, e tutti

questi gioielli saranno suoi » .


Evidentemente vivevo in pieno nelle Mille e una notte!
Gli dissi che apprezzavo al giusto valore la sua generosità,
ma che, con mio grande rammarico, obblighi di famiglia e
affari mi costringevano a rifiutare. Non insistette e continuò
a guardarmi in silenzio. Credo che in quel momento mi appa­
risse qual era veramente : un satrapo orgoglioso, dispotico, biz­
zarro... crudele, forse, quando se ne presentasse l'occasione.
Di ritorno in India mi scrisse parecchie lettere. Quando
aprii la prima, l'intestazione mi fece trasalire. Era il nome
del suo paese : Radjputana.
CAPITOLO XXIV
(1922-1923)

La signora Hrofa Williams a Neuilly - Impressioni di un in­


glese sulla Russia d'anteguerra - "Tante Bichette" - Una pe­
nosa colazione al Ritz - Matrimonio di Teodoro - Ricevo pro­
poste da Hollywood - La vendita dei miei gioielli si rivela
difficile - Gulbenkian mi presta danaro per riscattare i Rem-
brandt - Rifiuto di Widener - Partenza per l'America.

L a mia vecchia amica signora Hwfa Williams si era sta­


bilita dopo la guerra a Neuilly, in una graziosissima villa
nella quale avevo il piacere di ritrovare un arredamento e un
ambiente analoghi a quelli conosciuti in passato nella sua casa
inglese. Quanto a lei, un po' invecchiata ma sempre diver­
tente e gaia, era circondata come un tempo da giovani di tutti
i paesi del mondo e da artisti noti o alla vigilia di diventarlo.
Ella aveva messo da parte per me gli articoli pubblicati sui
giornali inglesi, al tempo della morte di Rasputin, da persone
che mi avevano conosciuto durante il mio soggiorno a Oxford.
Sotto il titolo di Vecchia Russia uno dei miei ex condiscepoli,
Seton Gordon, parla di un soggiorno da lui fatto presso i miei
genitori a Pietroburgo nel 1913. Mi sembra non del tutto privo
d'interesse riprodurre qui un estratto di questa testimonianza
di un cittadino britannico sulla Russia di anteguerra.

"Appena giunto a Pietroburgo fui ac�ompagnato al pa­


lazzo Yussupov e presentato ai genitori del conte Elston. Sono
passati da allora parecchi anni, ma il ricordo che ho serbato
di quell'incontro rimane vivo in me come al primo momento.
La principessa . Yussupov, autentica discendente di un'anti­
chissima famiglia reale tartara, era bella e affascinante, fine
e aristocratica. Suo marito, alto e robusto, aveva l'aspetto e
l'autorità del soldato.
"Il palazzo Yussupov era molto ospitale. Quasi ogni sera
v'erano trenta o quaranta persone a tavola. Uniformi splen­
denti, abiti sontuosi, gioielli favolosi scintillavano sotto la dol­
ce luce dei lampadari. A pprezzai la delicatezza dei cibi, la
scelta e la squisitezza dei vini; ma ciò che mi colpì in modo
particolare fu il genere dei discorsi che si facevano intorno a
me. L'aristocrazia russa parlava correntemente parecchie lin­
gue e passava con disinvoltura dall'una all'altra di esse, a se­
conda dell'andamento della conversazione, esprimendosi in ita ­
liano per parlare di arte, in inglese quando si trattava di sport,
e via dicendo.
"A Londra il turista a spasso lungo i marciapiedi si sa­
rebbe fatto urtare a ogni momento dalla folla frettolosa dei
pedoni. A Pietroburgo - per lo meno in quell'anno 1913 - il
ritmo della vita era più lento. si passeggiava per le strade
tranquillamente, come si potrebbe fare oggi in un villaggio
delle Ebridi, e ognuno aveva il diritto di perdervi il tempo
come più gli piaceva. Dico proprio 'come più gli piaceva',
perché quando accade di parlare dell'attività della polizia se­
greta nella Russia nuova c'è sempre qualcuno che dice con un
brivido: 'In Russia è sempre stato così'. Ora io affermo che
ciò è falso. Se devo fidarmi della mia esperienza personale,
posso assicurare che ho sempre girato dove volevo, spesso con
una macchina fotografica a tracolla, sia in città che in cam­
pagna, senza che mai uno sguardo sospettoso si sia posato
su me.

"Molta acqua è passata sotto i ponti della Neva da quando


arrivai a Pietroburgo in un'oscura notte di marzo di quel lon­
tano 1913. Quante delle persone che vi ho conosciuto sono
scomparse nella rivoluzione che ha scosso la Russia dalle fon­
damenta! Quante altre hanno dovuto abbandonare la loro pa­
tria e i loro amati focolari, scacciate dall'odio e da una guerra
demoniaca! Una nuova Russia è nata della quale ignoro tutto,
e non posso quindi parlare. Dirò soltanto questo: nell'antica
Russia ho conosciuto un popolo pieno di fascino e distinzione,
286
che amava, certo, il piacere, ma mostrava sempre un carat­
tere generoso.
"L'imperatore non è più, l'aristocrazia è stata dispersa ai
quattro angoli del mondo. E tuttavia l'amore della terra natale
arde ancora nel cuore di questi esiliati, granduchi o contadini,
e il loro p ensiero, attraverso il tempo e lo spazio, torna verso
la patria che non ritroveranno mai più".

Tutte le volte che ci recavamo a Roma per vedere i nostri


genitori ne tornavamo sempre più convinti che fosse ormai ora
di togliere loro nostra figlia. La bambina cresceva , diventava
capricciosa e prepotente. Come tutti i nonni, i suoi erano incli­
ni a viziarla e perdevano così ogni autorità. Era sempre più
evidente che un mutamento di ambiente si imponeva. La cosa
provocò conflitti drammatici, poiché i miei genitori erano
arrivati a considerare la piccola lrina come una figlia e non
prendevano neanche in considerazione la possibilità che essa
potesse esser loro tolta. Ma poiché noi avevamo ormai una
casa, non v'era motivo che nostra figlia non vi abitasse con
noi. Tutto avrebbe potuto conciliarsi se i miei genitori aves­
sero acconsentito a trasferirsi a Boulogne, ma essi temevano
un'atmosfera di bohème alla quale si sarebbero sentiti estra­
nei e preferivano restare a Roma.
Abitavano allora in casa della principessa Radziwill, pa­
rente alla lontana di mia madre. Nonostante un'eccessiva flo­
ridezza tante Bichette, come noi la chiamavamo, era la grazia
in persona e un miracolo d'intelligenza e di finezza. A Roma
tutti le volevano bene ed ella riceveva molto: aveva un buon
cuoco, teneva tavola imbandita, trattava regalmente i p ropri
invitati. Principi della Chiesa, uomini politici, stranieri illu­
stri, tutte le persone più interessanti che vivevano o capita­
vano a Roma passavano per la sua casa. Il suo brio e il s uo
senso d'umorismo rallegravano tutti. Un giorno che fece vi­
sita a Mussolini lo divertì talmente che il Duce, le cui udienze
non duravano mai più di dieci minuti, la trattenne quasi due
ore. Aveva avuto una giovinezza movimentata e non temeva
di ricordarlo: « Ormai:., diceva, c vado a letto soltanto con
la mia pancia:..
Possedeva una collana di perle perfette, dono dell'impe­
ratrice Caterina a una delle sue bisnonne, che non si toglieva
mai dal collo. Un giorno quella collana le fu rubata ; avendola
poi ritrovata, per evitare che la disgrazia si ripetesse, la na­
scondeva tutte le sere nel vaso da notte, affermando ch'era
l'ultimo posto nel quale un ladro avrebbe pensato a cercarla.
Dell'immensa fortuna che aveva posseduta in Russia non
le restava nulla. Ciò non le impedì di continuare a condurre
un'esistenza lussuosa, con grande rammarico dei suoi nume­
rosi figli. Tutti i beni che le restavano all'estero, case, pro­
prietà, gioielli, furono venduti a poco a poco. Verso la fine
della vita, completamente rovinata, non perse un briciolo del
suo buon umore e della sua allegria. Ella ignorava assoluta­
mente il valore del denaro. Un giorno mi pregò di stimare i
suoi gioielli, e, siccome credevo che li avesse venduti tutti,
fui stupito di udirla ordinare alla cameriera di portare la
cassetta dei diamanti. Mi aspettavo di trovare qualche rima­
suglio dei famosi gioielli dei Radziwill, invece la cassetta con­
teneva soltanto medaglie e ciondoli privi di qualsiasi valore.
Il mio stupore colmò di gioia tante Bichette. « Sì, è tutto ciò
che mi resta ! », esclamò scoppiando a ridere. La faccenda
aveva per lei l'aspetto di una bella burla. Confesso che in
quel momento m'ispirò una vera ammirazione.
In occasione di una delle mie visite a Roma, i miei geni­
tori, trovandosi a corto di denaro, mi pregarono di portare
con me, per venderli a Parigi, la collana di perle nere e gli
orecchini di diamanti appartenuti a Maria Antonietta. Avevo
per l'appunto fatto la conoscenza di uno straniero di passag­
gio a Roma che cercava gioielli storici per sua moglie. Poiché
la signora si trovava a Parigi, fu stabilito che avrei portato
là quelli in questione per farglieli vedere.
Appena arrivato telefonai al Ritz e le chiesi di fissarmi un
appuntamento. Mi invitò a colazione per il giorno dopo e mi
pregò di portare un altro convitato di sesso maschile per ser­
vire da cavaliere a una signora sua amica che abitava con lei
all'albergo. Il modo con cui si presentavano le cose mi sembrò
bizzarro... Ma, tutto sommato, che importava ? Il giorno dopo,
mobilitato Teodoro, mi recai con lui al Ritz : orrore !... Ci at-
288
Rasputin.
.....

--.....

Fotografia trovata sulla scrivania dell'autore dopo la morte di Ra.�putin.


\Iel verso, la seguente dedica di pu g no di Rasputin: «Ti benedico, figlio. Vivi, non nell'errore, bensì nel godimento, nella
,uce e nella g io ia. Greg·ory >>. (L'autore non conosce,·a que:sta fotografia, né rammenta va ch'essa gli fosse stata presa).
tendevano due spauracchi : due donne più che mature, vestite
in modo stravagante, esageratamente truccate e coperte di
gioielli dozzinali, nelle quali tutto era falso, tranne i diamanti
e i dollari. Quei mostri, che avevano l'aria di aver ingerito
parecchi cocktails mentre ci aspettavano, offendevano l'udito
non meno della vista, giacché parlavano troppo e troppo for­
te con l'evidente scopo di attirare l'attenzione della gente.
Bisogna dire che ci riuscivano benissimo. La sala da pranzo
era piena di persone in gran parte di nostra conoscenza. Scor­
gendo di lontano il re Manuel del Portogallo evitai d'incon­
trare il suo sguardo. Allora egli mi fece recapitare un biglietto :
"Non ti vergogni di farti vedere in simile compagnia ?". Era­
vamo veramente sulla graticola. Ansioso di sfuggire a tutti
quegli sguardi fissi su di noi, suggerii che si sarebbe potuto
prendere il caffè nell'appartamento delle signore, proposta che
queste accolsero premurosamente, ma che le incoraggiò al p unto
da farle diventare provocanti. Quando si trattò dei gioielli,
dissi di averli dimenticati a casa. L'idea che la collana e gli
orecchini di mia madre potessero essere portati da uno di quei
due vecchi coccodrilli mi era intollerabile. Non tardai a far
un cenno a Teodoro, e così uscimmo dal Ritz profondamente
disgustati.
Da quando vivevamo all'estero il destino di Teodoro era
rimasto legato al nostro. Egli ci aveva seguiti in Inghilterra,
poi a Boulogne, e ci accompagnava quasi sempre allorché
andavamo a trovare i miei genitori a Roma. La vita in comune
fu interrotta soltanto dal suo matrimonio, che venne celebrato
a Parigi nel giugno 1923, nella chiesa russa di rue Daru. Teo­
doro sposava la principessa lrene Paley, figlia del gran duca
Paolo e della sua seconda moglie, la principessa Paley. Pochi
anni dopo, avendo divorziato dalla moglie, Teodoro tornò a
vivere con noi.

Spesso siamo costretti ad ammettere che i nostri atti ci


seguono, ma le loro ripercussioni sono talvolta imprevedibili.
Io non potevo certo aspettarmi la proposta che un giorno mi
fu fatta ex abrupto da un americano ; costui, con la sua insi-

28g
stenza, era riuscito a vincere la mia repugnanza ad accordar­
gli l'appuntamento che mi chiedeva, ma mi trovò già sulla
difensiva, e il modo con cui si presentò, senza togliersi né il
cappello, né il soprabito, e neppure il sigaro di bocca, non
era certo fatto per migliorare le mie disposizioni nei suoi
riguardi. Egli mi informò che arrivava da Hollywood, inviato
da una ditta americana del cinema, che mi offriva una somma
ragguardevole per recitare la parte del mio personaggio in un
film su Rasputin !
Il mio rifiuto parve sorprenderlo, ma non scoraggiarlo. Con­
vinto che fosse questione di prezzo, aumentò la p ropria offerta,"
sino ad arrivare rapidamente a cifre astronomiche. Mi ci volle
del bello e del buono per convincerlo che perdeva il suo tempo.
Finalmente si risolvette ad andarsene, non senza lasciar esplo­
dere il suo cattivo umore: « Il vostro principe è un idiota ! »,
esclamò, lanciando così la freccia del Parto al domestico stu­
pefatto. E uscì sbattendo la porta.
Frattanto le nostre difficoltà finanziarie si aggravavano di
giorno in giorno. Ci restavano ancora gioielli e altri oggetti
di valore, ma si trattava di venderli alle migliori condizioni
possibili. Sapevo che in America avrei potuto averne un rica­
vato migliore che in Europa, per cui risolvetti di recarmi a
New York, dopo un breve soggiorno a Roma per congedarmi
dai genitori. Volevo anche indurii a consegnarmi i loro gioielli
per venderli negli Stati Uniti ; il capitale così ottenuto avreb­
be dovuto dare rendite tali da garantire la loro esistenza.
Non avevo riveduto i miei genitori da molti mesi. Li trovai
invecchiati e moralmente abbattuti. Avevano ormai perduto
ogni speranza di tornare in Russia, e capii anche che soffri­
vano di essere separati dalla nipotina. Li invitai ancora una
volta a venire ad abitare con noi a Parigi, ma non riuscii a
convincerli. Essi amavano Roma, dove avevano ormai le loro
abitudini, e preferivano restar lì.
Mia madre si mostrò contraria alla nostra partenza per
gli Stati Uniti : non poteva accettare l'idea di saperci così
lontani. Mi scongiurò di rinunciare a questo progetto e di tentar
di vendere i gioielli a Parigi o a Londra. Per parecchie setti­
mane feci la spola tra le due capitali senza ottenere alcun
risultato. Mi urtai alla maffia (1) dei gioiellieri, tutti d'accordo
contro di me. Se offrivo perle, mi chiedevano diamanti ; quan do
portavo i diamanti, pretendevan o rubini e smeraldi. Quanto
ai gioielli che avevano appartenut o a Maria Antonietta, si
('redeva che portassero disgrazia ; altrettanto dicasi per le
perle nere.
Citerò a questo proposito un esempio tipico. Avevo ven­
duto a un'americana gli orecchini di diamanti di Maria An­
tonietta. Glieli consegnai in cambio di un assegno e, aderendo
al suo invito, l'accompagnai alla banca. Disgraziatamente,
lungo la strada ella ebbe la spiacevole idea di entrare da un
grande gioielliere parigino per fargli vedere il nuovo acqui­
sto. Io l'aspettai in automobile, molto inquieto circa i risultati
di quel passo. E avevo ragione d'esserlo: ella riapparve poco
dopo e, disfatta in volto, mi rese gli orecchini pregandom i
di restituirle a mia volta l'assegno. Il gioielliere aveva giudi­
cato i diamanti magnifici, il prezzo ragionevole, ma l'ave-va
convinta che quelle pietre appartenute alla regina decapitata
avevano un potere malefico. E potrei citare molti altri casi
come questo.
L'impossibilità di vendere i gioielli in Europa mi appa­
riva ormai evidente, per cui rinunciai alla lotta e risolvetti di
correre l'alea di un viaggio nel Nuovo Mondo. Un'altra ra­
gione rendeva necessario questo viaggio: ero ben lontano dal­
l'aver rinunciato a riscattare i due Rembrandt affidati a Wi­
dener. Ora, la scadenza spirava il primo gennaio 1924 ed
eravamo già agli ultimi mesi del 1923. Nei colloqui che avevo
avuto a Londra col mio avvocato Barker, questi mi aveva
confermato per iscritto ciò che mi aveva già detto: a suo
parere, il secondo contratto che le circostanze mi ave-vano
costretto a firmare mio malgrado, non annullava il primo che
il signor Widener aveva redatto di suo pugno.
"Sono convinto", scriveva Barker, "che se prima della sca­
denza del primo gennaio 1924 voi sarete in condizioni di ri­
scattare i due Rembrandt, sarà impossibile al signor Widener
rifiutare di renderveli. Qualunque tribunale imparziale lo co­
stringerebbe a farlo".
{l) In italiano nel testo.
Per due anni avevo tentato invano di procurarmi la som­
ma. Qualche mese prima della scadenza ebbi la fortuna di
incontrare Gulbenkian, il re del petrolio in Asia Minore, e gli
parlai del mio litigio con Widener. Quando gli ebbi esposta
tutta la faccenda, egli mi propose di prestarmi, tramite una
banca, il denaro necessario per riscattare i quadri. Ebbe per­
sino la finezza di non chiedermi nessuna ricevuta, ma solo l'im­
pegno verbale a non vendere i quadri ad altri che a lui, nel
caso che un giorno mi fossi deciso a farlo.
Il denaro fu spedito a un avvocato di New York che io
incaricai di fare il versamento a Widener in cambio dei due
Rembrandt. Widener rifiutò. Ero risoluto, se si fosse ostinato,
a intentargli un processo, ma speravo ancora di riuscire, tro­
vandomi sul luogo, a fargli accettare la mia offerta.
Non eravamo gran che entusiasti di quel viaggio, che non
poteva certo esser definito "di piacere" e che ci obbligava a
lasciare nostra figlia, che aveva allora otto anni e dalla quale
eravamo stati separati sin troppo a lungo. D'altro canto, la
bambina era inconsolabile di vederci partire senza di lei. Sic­
come non c'era da pensare a portarsela dietro, ella doveva
restare affidata alla governante, signorina Coom, donna per­
fetta sotto tutti gli aspetti, che giustificava pienamente la
nostra fiducia e il nostro affetto. Per dire il vero, il suo com­
pito non era dei più agevoli, poiché il carattere della piccola
lrina presentava spiacevoli analogie con quello di suo padre,
e, ricordandomi la mia infanzia, talvolta non potevo fare a
meno di compiangere la disgraziata governante.
La sola prospettiva veramente gradevole che ci offrisse
quel viaggio era la compagnia della nostra ottima amica ba­
ronessa Wrangel, che doveva imbarcarsi con noi. Dopo l'an­
nientamento dell'esercito bianco il generale e sua moglie vive­
vano a Bruxelles dove consacravano la maggior parte del loro
tempo e della loro attività al servizio degli emigrati. La baro­
nessa Wrangel aveva pensato che fosse utile accompagnarci
agli Stati Uniti, dove sperava trovare aiuti efficaci.
Per poco non fummo trattenuti all'ultimo momento da un
telegramma di mia madre che ci aspettava a Cherbourg : mio
padre aveva avuto un attacco di apoplessia e le sue condi-
zioni erano gravi. Eravamo già risoluti a rimandare il nostro
viaggio e a partire immediatamente per Roma quando un
secondo telegramma ci portò notizie più tranquillanti. Ogni
pericolo era per il momento allontanato e mia madre ci pre­
ga va di non rmandare la partenza.
Così, in una bella giornata del novembre 1923, carichi di
tutti i nostri gioielli e della nostra collezione di oggetti pre­
:dosi, salimmo a bordo del piroscafo Berengaria diretto a
New York.
CAPITOLO XXV
( 1923-1924)

l reporters americani - l nostri gioielli confiscati dalla dogana


- Accoglienza cordiale della società di Nero York - Giorni
difficili - Vera Smirnova - La nostra collezione di oggetti pre­
ziosi esposta da Elsie di Woolfe - Widener irreducibile - Tor­
niamo a galla - La colonia russa - Un angolo russo agli Stati
Uniti - Danzatori caucasici - Fondazione di un'organizza­
zione internazionale di soccorso per gli emigrati - La giusti­
zia sommaria di un figlio del Caucaso - Ritorno in Francia -
Il mio soggiorno in America visto da Mosca.

N essun incidente turbò la tranquillità della traversata.


Nessuno a bordo conosceva la nostra identità; mia moglie e
io viaggiavamo sotto i nomi di conte e contessa Elston, e ciò
valse a farci lasciare in pace. Pace effimera che non si pro­
lungò al di là del viaggio. Infatti, non appena fummo in
vista di New York, un nugolo di reporters arrivati con la nave
pilota si abbatté sul Berengaria. Erano le otto del mattino e
ci eravamo appena alzati quando alcuni colpi violenti e im­
periosi fecero tremare la nostra porta. Chi non si è mai tro­
vato alle prese con i giornalisti americani non può farsi una
idea di un simile flagello. Questi avevano posto l'assedio di­
nanzi alla nostra cabina, occupavano tutto il corridoio e face­
vano un baccano infernale. Dovetti telefonare allo steroart
affinché venisse a liberarci e a rinchiudere quella gente in
qualche luogo per darci almeno il tempo di vestirei.
Quando entrammo nel salone dove ci aspettavano credem­
mo che fosse giunta la nostra ultima ora. Erano almeno una
cinquantina a stringersi intorno a noi, tormentandoci come
mosche e parlando tutti insieme. Io mi acquistai la loro con­
siderazione facendo portare dello champagne, e l'atmosfera
294
si era fatta più cordiale, quando mi venne annunciato che le
autorità americane si opponevano al mio sbarco, giacché le
leggi di quel paese vietavano l'ingresso agli assassini... Do­
vetti parlamentare a lungo per convincere quei rispettabili
funzionari che non ero un delinquente professionale.
Finalmente tutto si accomodò, ma soltanto per ciò che ri­
guardava le nostre persone: appena sbarcati, apprendemmo
che i gioielli e la collezione di oggetti preziosi erano stati con­
fiscati dalla dogana ! I nostri primi contatti col Nuovo Mondo
erano poco incoraggianti.
La signora W. K. Vanderbildt, che era venuta a incontrar­
ci, ci portò a colazione da lei e ci accompagnò poi all'albergo
nel quale ci era stato riservato un appartamento. Il direttore
si presentò e, con tono grave e compunto, ci informò che
tutte le misure di sicurezza erano state prese, che la polizia
vegliava su noi e che un cuoco speciale, il quale dava ogni
garanzia, era stato incaricato eli preparare i nostri pasti. Lo
pregai di ringraziare la polizia della sua sollecitudine e ]o
assicurai che non avevamo bisogno eli nessun genere di pro­
tezione.
La prima impressione che mi fece New York fu senza
dubbio simile a quella eli qualunque straniero che sbarchi in
una città così diversa da quante ne ha potute vedere sino a
quel giorno. Fui dunque impressionato, sconcertato, interes­
sato come chiunque altro, ma capii ben presto che, se fossi
stato costretto a viverci, mi sarebbe riuscito impossibile adat­
tarmi al ritmo della vita nuovayorchese. Nulla è più contra­
rio al mio temperamento della costante agitazione che regna
in questa città, dove tutti hanno sempre fretta e dove troppo
spesso si parla di denaro.
Questo non ci impediva di apprezzare la grande cortesia
dell'accoglienza che ci veniva fatta. Non riuscivamo neppure
ad accettare i numerosi inviti che ci arrivavano da ogni p arte.
Dinanzi alle proporzioni assunte ben presto dalla nostra cor­
rispondenza e al numero dei visitatori, dovetti prendere due
segretari.
La sfortuna sembrava averci seguito oltreoceano. Una cer­
ta stampa di sinistra giudicò opportuno insinuare che i gioiel-

295
li portati da noi in America erano stati sottratti alla corona
di Russia ! In un paese nel quale tutto va in fretta e la gente
è specialmente avida d'informazioni impressionanti, questa
si sparse come su una striscia di polvere, risvegliando una dif­
fidenza che avrebbe potuto rendere difficile la vendita di quei
gioielli "rubati", ammesso che la dogana acconsentisse a re­
stituirceli.
Mentre le autorità discutevano di ciò, lo spirito ospitale
degli americani continuava a esercitarsi senza reticenza e gli
inviti a piovere. Uno di quei ricevimenti, offerto in onore di
Irina, fu segnato da un incidente che ce lo rese indimentica­
bile. La casa era sontuosa e la messa in scena grandiosa. Sa­
limmo uno scalone di marmo bianco a due rampe, in cima al
quale la padrona di casa ci accolse con tutta la solennità che,
secondo lei, imponeva la situazione. Fummo poi introdotti
nella sala da ballo, dove tutti gli invitati erano disposti in cir­
colo come per un ricevimento ufficiale.
Irina, presa dal panico dinanzi a tutti quegli sguardi fissi
su di noi, dichiarò che se ne sarebbe andata immediatamente
Conoscevo mia moglie e sapevo che era capacissima di fare
come diceva. Ma la padrona di casa si incaricò di prevenire
la catastrofe che io temevo, e nel modo più inaspettato.
Avanzandosi nel mezzo della sala, ci indicò con un gesto
enfatico e annunciò a voce alta : « Il principe e la principessa
Rasputin ! ... ».
Tutti restarono di marmo. Noi eravamo orribilmente im­
pacciati, più per la nostra ospite che per noi ; ma, per quanto
imbarazzante fosse la situazione, il lato comico di essa aveva
il sopravvento su tutti gli altri. I giornali del giorno dopo ri­
ferirono l'incidente, e l'intera città ne rise di cuore.
Ben presto fummo popolari come le dive del cinema o l'e­
lefante dello zoo. Una giovane americana attraversò una sera
la sala in cui ci trovavamo e, sedendosi accanto a lrina, le
piantò un dito nel ginocchio. « È la prima volta che vedo una
vera principessa reale », esclamò. « Permettete che vi tocchi ! ».
Un'altra volta una signora ignota mi scrisse pregandomi di
ricevere il suo segretario che sarebbe venuto a intrattenermi
su una faccenda di carattere privato. Il segretario si presentò
e mi disse senza preamboli :
« La mia padrona vorrebbe avere u n figlio da voi, e mi ha
incaricato di chiedervi quali sarebbero le vostre condizioni�.
« Un milione di dollari, non un soldo di meno>, ribattei
mostrandogli la porta e dominando a stento una folle voglia
di ridere.
Stupefatto, il povero diavolo batté in ritirata, mentre io
mi abbandonavo all'ilarità.

Frattanto i gioielli erano sempre alla dogana e le nostre


risorse calavano a vista d'occhio. La vita all'albergo ci rovi­
nava; era necessario cercare al più presto un'altra sistema­
zione più modesta. Qualcuno ci indicò un palazzo nel quale
trovammo un appartamento di nostro gusto: era minuscolo,
ma comodo e a buon mercato. Vi trasportammo immediata­
mente i nostri penati.
Proprio in quei giorni facemmo la conoscenza di Vera
Smirnova, interprete di canzoni zigane, che fu p resa da una
grande passione per noi, in modo particolare per mia moglie
alla quale dedicò un vero e proprio culto. Ella faceva irru­
zione in casa nostra nelle ore più incredibili, e nella maggior
parte dei casi in costume zigano. Quel prodotto della terra
russa era un essere bizzarro, di cui nulla p oteva contenere gli
slanci e per il quale non esistevano né leggi né usi. A v eva
preso l'abitudine di bere, credendo, come tanti altri, di tro­
vare nell'alcool l'oblio delle prove sopportate e dei dispiaceri.
La sua voce era grave e profonda, il suo canto un misto di
selvatichezza e di tenerezza malinconica. Aveva un marito,
che ella terrorizzava, e due bimbette.
Siccome lrina doveva andare a passare qualche giorno in
campagna, la Smirnova l'assicurò che p oteva partire tran­
quilla, perché durante la sua assenza mi avrebbe sorvegliato
lei. Nulla poté scoraggiarla : si stabilì nel vestibolo del pa­
lazzo in cui alloggiavamo, notando su un taccuino i nomi
di tutti coloro che venivano a farmi visita.
La dogana finì col restituirei la collana di perle n ere e la

29 7
collezione di tabacchiere, miniature e gingilli diversi. Gli al
tri gioielli non ci sarebbero stati resi se non in cambio del de­
posito di una somma equivalente all'ottanta per cento del lo
ro valore, il che era superiore ai mezzi di cui disponevo.
Elsie di Woolfe, più tardi lady Mendl, che aveva allora
una casa di arredamento a New York, ci aveva offerto i pro­
pri locali per l'esposizione degli oggetti preziosi, e io li col­
locai con le mie mani in una vetrina posta in una delle sale.
Miniature con cornici di diamanti, tabacchiere di smalto e
orologi d'oro, statuette di divinità greche o cinesi, fuse in
bronzo o intagliate in un blocco di rubino o di zaffiro, daghe
orientali con le impugnature incrostate di pietre preziose,
ultime vestigia di un passato finito per sempre, furono dispo­
sti come li avevo sempre visti nella vetrina dello studio di
mio padre a Pietroburgo, reminiscenza che portò con sé una
certa malinconia.
Tutta New York si affrettò a venire a vedere quell'esposi­
zione, e i locali di Elsie di Woolfe divennero il luogo degli
appuntamenti alla moda. Ma le cose non si spinsero più in là.
La gente veniva lì per incontrarsi, per vedere oggetti prezio­
si, e soprattutto per vedere me e mia moglie. Tutti ci guar­
davano, si entusiasmavano dinanzi alla vetrina, ci compiange­
vano, ci stringevano le mani con effusione, e se ne andavano
senza aver comprato nulla. Una persona stravagante e spet­
tinata si presentò un giorno chiedendo di vedere "The black
ruby" (il rubino nero). Inutilmente ci sforzammo di convin­
cerla che la cosa da lei cercata non esisteva, ella si ostinava
a chiedere il suo "black ruby", dicendo che era venuta appo­

sitamente da Los Angeles e non sarebbe ripartita senza aver­


Io visto. Ci volle del bello e del buono per liberarci di quel­
la pazza.
Visto che non si vendeva nulla, finii coll'affidare tutti gli
oggetti alla casa Cartier. Conoscevo personalmente Pietro
Cartier: era un uomo servizievole e leale e sul quale sapevo
di poter contare per agire nel modo più favorevole ai nostri
interessi.
Ormai eravamo all'estremo dei nostri mezzi. Nessuno lo
immaginava, perché evitavamo di parlare delle nostre diffi-
298
coltà in una città nella quale, per molta gente, ciò che im­
porta prima di tutto è quanto "vale" un uomo. Continuavamo
a uscire la sera, lrina adorna della sua collana di perle nere
e io in marsina. Al ritorno, Irina lavava la biancheria nella
vasca da bagno. Al mattino, mentre io, in città, mi occupavo
dei nostri affari o di quelli dei nostri compatrioti, ella rifa­
ceva i letti, scopava e preparava la colazione.
Vera Smirnova, con la sua fanatica abnegazione, veniva
di tanto in tanto ad aiutarci. Cantava in un locale notturno,
non lontano da casa nostra, e compariva spesso alle cinque
del mattino, con le tasche piene di provviste che aveva ru­
bacchiato nel locale in cui era scritturata. Un giorno portò
un mazzo di fiori così grande che faceva fatica a reggerlo.
lrina, sapendo che Vera non aveva un soldo, le disse che era
assurdo spendere tanto danaro inutilmente. « Non ho speso
nulla », ribatté lei. « L'ho preso da un vaso nel vestibolo del­
l'Hotel Plaza e sono scappata senza che nessuno mi vedesse �.
Qualche volta veniva per tutta la giornata, portando con sé
le figliolette, dopo aver chiuso il marito nel gabinetto da
bagno.
Durante quel periodo di vacche magre, mio cognato Dimi­
tri arrivò da Parigi e s'installò nel nostro appartamento. Ci
credeva già milionari, e il fatto di trovarci in condizioni tanto
disagiate lo stupì non poco.
Quanto ai Rembrand t, essi erano ancora in possesso di
Widener, e i duecentomila dollari, trasferiti a mio nome da
Gulbenkian, erano sempre alla banca. Situazione particolar­
mente irritante in un momento come quello, in cui non ave­
vamo un soldo in tasca. Avevo appreso, per il tramite dei miei
avvocati, che Widener desiderava vedermi per propormi di
acquistare i miei quadri ; ma, oltre il fatto che il prezzo d a
lui offerto m i sembrava inaccettabile, i o m i consideravo im­
pegnato verso Gulbenkian, avendogli promesso d i non ven­
derli ad altri che a lui. I miei consiglieri erano di diversa opi­
nione. Secondo loro, poiché non avevo firmato nessun im­
pegno, ero pienamente libero di disporre dei quadri come
meglio mi piacesse. Se dal punto di vista strettamente pro­
fessionale potevano aver ragione, ciò non mi impediva di pen-

299
sare che una parola data impegna quanto una firma. Dichia­
rai dunque di essere pronto al processo che appariva ine­
vitabile.
Finalmente la collana di perle nere fu venduta. Di colpo,
la nostra vita cambiò: niente più biancheria da lavare, niente
più soste in cucina o davanti all'acquaio; un'èra di passeggera
prosperità si apriva dinanzi a noi.
La colonia russa era molto importante. Vi ritrovammo pa­
recchi nostri amici, tra cui il colonnello Giorgio Liarsky e uno
dei miei condiscepoli del ginnasio Gurevic, Gleb Derujinsky,
scultore di grande merito, il quale, durante il nostro sog­
giorno a New York, fece due bellissimi busti di mia moglie
e di me. Il barone e la baronessa Soloviev, che erano nuove
conoscenze, diventarono in breve nostri intimi. Frequentava­
mo soprattutto gli ambienti artistici e musicali. I Rachmani­
nov, gli Ziloti e soprattutto la moglie del celebre violinista
Kosciansky si erano mostrati particolarmente amichevoli du­
rante i nostri giorni di miseria. Una sera Rachmaninov, dopo
aver sonato il suo famoso preludio in do diesis minore, ce ne
fece un interessante commento, spiegandoci come il tema di
quel preludio traducesse l'angoscia di un sepolto vivo.
Il barone Soloviev, che lavorava per il costruttore di aero­
plani Sikorsky, ci condusse un giorno a visitare l'officina do­
ve quest'ultimo, col solo aiuto di sei ufficiali di aviazione rus­
si, aveva costruito il suo primo aeroplano. Quella visita fu
seguita da una colazione succulenta in una casetta di cam­
pagna nella quale Sikorsky abitava con due vecchie sorelle.
I Soloviev ci conducevano talvolta da uno dei loro amici,
il generale Filipov, che aveva un possedimento tra le mon­
tagne, a quattro ore da New York. Vi passavamo giorni di ri­
poso deliziosi, tanto più apprezzati da lrina in quanto ella
era stanca della vita mondana che conducevamo in città. Ri­
trovavamo qui un angolo della patria. I nostri ospiti, la loro
casa, il loro modo di vivere e persino il paesaggio coperto di
neve, tutto concorreva a creare in noi l'illusione di essere tra­
sportati nel nostro paese. Durante la giornata facevamo pas­
seggiate in slitta, e alla sera, dopo aver fatto onore al borsc'c
e alle costolette Pojarsky, ci raccoglievamo intorno al grande
300
camino in cui ardevano ciocchi enormi. La stanza era illumi­
nata soltanto dalle fiamme del focolare. Allora prendevo la
mia chitarra e, in coro, cantavamo canzoni russe. Ci senti­
vamo felici, lontani da New York e da quella vita fittizia del­
la quale eravamo stanchi.

C'era allora a New York un ristorante chiamato l'Aquila


russa, che apparteneva al generale Ladijensky. La moglie di
quest'ultimo - detta familiarmente Kitty -, era una persona
d'età matura, ma che non temeva di p artecipare alle danze
russe, indossando il costume nazionale e portando sulla testa
un kokosc'nik che raffigurava l'aquila bicipite. Ella cantava
le canzoni zigane e danzava qualche volta anche un minuetto
con un abito a paniers e la parrucca incipriata. Non era certo
lei ad attirarci all'Aquila russa ; ma v'erano in compenso tre
caucasici in cerkesska bianca, uno dei quali, soprattutto, era
un danzatore di prim'ordine.
Negli Stati Uniti, come in tutti gli altri paesi, la Croce
Rossa russa si trovava sempre in difficoltà finanziarie. Il suo
presidente, il signor Buimistrov, venne a chiederci il nostro
aiuto, e noi rispondemmo all'invito creando una nuova orga­
nizzazione internazionale : la Russian Refugee Relief Society
of America and Europe. Questa aveva lo scopo di offrire ai
russi rifugiati la possibilità di imparare un mestiere che va­
lesse a garantire la loro esistenza durante l'esilio e che potesse
esser loro utile in avvenire.
lrina rivolse personalmente un appello all'America e un
altro all'Europa : "Vi domando di aiutarci", scriveva. "Il vo­
stro appoggio darà agli emigrati la possibilità di ridiventare
membri della società, e il giorno in cui saranno di ritorno nel
loro paese, essi si ricorderanno con amore e riconoscenza di
coloro che li avranno aiutati nel momento della grande
prova".
Alte personalità vennero in nostro aiuto e comitati si for­
marono per l'organizzazione di vendite, balli e concerti di
beneficenza. Il nostro trionfo fu un ballo offerto a favore de­
gli emigrati caucasici. Le danze caucasiche, alle quali parte-

301
cipavano anche i figli piccoli dei danzatori, in costume na­
zionale, erano il numero più importante della serata. Il suc­
cesso fu immenso, e la portata dell'incasso superò ogni nostrn
previsione. L'onore toccava specialmente a Taukan Kerevov
che si era prodigato per aiutarci a organizzare quella serata.
Era stato lui a prendere la direzione delle danze di cui era
nello stesso tempo la maggior attrazione. Come tutti quelli
della sua razza, Taukan aveva il culto dell'amicizia. Io mi
ero acquistato la sua occupandomi dei suoi compatrioti e an­
che per averlo forse salvato dalla sedia elettrica.
Bellissimo e seducente, Taukan aveva avuto sempre grandi
successi con le donne. Egli fece dunque la conquista di una
donna maritata che, un giorno, si trovò incinta di lui. Se­
guendo i consigli del segretario del marito ingannato, e gra­
zie all'intervento di una levatrice, il piccino, considerato in­
desiderabile, non aveva visto la luce. Quando fu messo al cor­
rente della faccenda, il selvaggio figlio del Caucaso vide ros­
so. Il codice della civiltà occidentale aveva sottigliezze che
sfuggivano alla sua natura primitiva. Egli risolvette di ven­
dicare la morte del suo bambino nel modo più sommario e
spedito uccidendo la madre, il marito, il segretario e la le­
vatrice. A quello scopo, infatti, aveva comperato una rivol­
tella. Per fortuna, il giorno precedente a quello da lui fissato
per l'esecuzione in massa, ebbe la buona idea di venirmi a
confessare le sue criminose intenzioni. In seguito a un collo­
quio patetico che si prolungò tutta la notte, egli finì per ri­
nunciare ai propositi vendicativi. Da quel giorno Taukan mi
fu interamente devoto, a tal punto che, quando lasciammo
gli Stati Uniti, abbandonò tutto per seguirei in Europa.
La primavera era giunta. Eravamo a New York da sei
mesi e avevamo fretta di tornarcene a casa. Era ormai chiaro
che la questione con Widener non avrebbe potuto risolversi
che con un processo; quanto ai gioielli confiscati dalla do­
gana, la somma che questa esigeva sorpassava le mie possi­
bilità. Investii in un affare immobiliare il danaro pr-oveniente
dalla vendita degli oggetti affidati a Cartier e, fattici restituire
"i gioielli della Corona", ci imbarcammo per la Francia. Ab­
bandonavamo senza rimpianto l'ospitale ma spossante New
302
York. La pagina americana era voltata - così per lo meno
credevo - e noi eravamo tutti pieni di gioia al pensiero di ri­
vedere al più presto la nostra bimba e di ritrovare la casetta
di Boulogne, diventata il nostro focolare di esiliati.

Pochi giorni dopo il nostro arrivo a Parigi, ricevetti, con


altri ritagli di giornali americani, il seguente articolo intito­
lato: Le avventure del principe Yussupov in A merica, prove­
niente da un giornale in lingua russa al servizio dei sovietici
che si pubblicava a New York :

"Da Mosca, per telefono:


"È giunta a Mosca notizia di uno scandalo colossale scop­
piato a New York, protagonista del quale è il Serenissimo
principe Yussupov, conte Sumarokov-Elston.
"L'arrivo del p rincipe Yussupov a New York fece molto
chiasso. Tutti i giornali americani parlavano di lui, gli chie­
devano interviste e pubblicavano il suo ritratto.
"Yussupov si mise a speculare : aprì una casa da giuoco
e finì col comparire sul banco degli accusati. Ancora recente­
mente ha fatto parlare di sé a causa di due processi scanda­
losi. La faccenda si presenta così : il Serenissimo p rincipe se­
dusse una delle ballerine di fox-trot di un locale notturno.
Per trarsi d'impaccio e indennizzare la povera 'Mary' della
verginità perduta, le offrì, invece di denaro, un quadro di
Rubens che, al momento della fuga, era riuscito a porta r via
dal proprio palazzo di Pietroburgo. La ragazza, che non igno­
rava il valore dei dipinti di Rubens, acconsentì a tacere. Tut­
to andò bene sino al momento in cui volle vendere il dono
principesco. Si scoprì allora che questo quadro non era un
Rubens, bensì una copia fatta per dieci dollari da uno dei
rappresentanti della bohème nuovaiorchese. L'originale, ven­
duto a un milionario di New York, si trova attualmente ap­
peso al posto d'onore nella sua dimora della Quinta Avenue.
La faccenda è stata deferita ai tribunali. La seconda storia
è anche peggiore: Yussupov ha preso p arte in qualità di pe­
rito alla vendita di certi arazzi Gobelins fatta da un rifugiato
russo. Il Serenissimo principe garantì che quelli erano i fa­
mosi Gobelins di Versailles, già proprietà del granduca Vla­
dimiro. Gli arazzi furono venduti per una somma enorme,
sulla quale, naturalmente, Yussupov si fece versare una gros­
sa percentuale. Come fu scoperto in seguito, i pretesi Go­
belins erano semplici copie. I giornali nuovaiorchesi defini­
scono la condotta del principe verso la ballerina poco caval­
leresca ; quanto alla faccenda dei Gobelins, parlano chiaro
c tondo di truffa".

Che cosa avrebbero pensato gli americani, se avessero po­


tuto leggere il russo, apprendendo per cura di un giornale
bolscevico che colui ch'essi avevano ricevuto tanto cordial­
mente altro non era che un vile seduttore e, per giunta, un
truffatore?
-
.......
CAPITOLO XXVI
(1924)

Ritorno a Boulogne - La piccola frina - Viaggio a Roma -


Tristi condizioni di mio padre - Riappare il maragia - Il dot­
tor Coué - A Versailles con Boni di Castellane - Proclama
del granduca Cirillo - La questione dinastica - DiDisione della
Chiesa russa - La "Maison lrfé " - Un'inaugurazione mancata
- La s ignora W. K. Whobee.

Eravamo molto contenti di essere finalmente a casa, felici


di rivedere nostra figlia, di costatare i suoi progressi. Ave­
va nove anni : la trovammo cresciuta e imbellita. II suo deli­
zioso visetto esprimeva intelligenza e volontà. Ella pos­
sedeva soprattutto un grande fascino, di cui non aveva tar­
dato a scoprire il potere e di cui ha saputo sempre servirsi
con un'astuzia e un'arte consumat1:1.. Nondimeno il suo carat­
tere bizzarro rendeva difficile la sua educazione in casa, e
poiché, d'altra parte, aveva bisogno della compagnia di bam­
bini della sua età, ci risolvemmo a farla entrare come esterna
alla scuola Dupanloup, che fra gli altri vantaggi offriva quel­
lo di essere a pochi passi da casa nostra, nell'ex palazzo del­
la mia bisnonna. La bambina vi si trovò benissimo e, spinta
dall'amor proprio, fece rapidi progressi.
Ma non potevamo attardarci a Boulogne : dovemmo infatti
partire ben presto per Roma, dove mio padre ammalato e mia
madre inquieta aspettavano impazientemente la nostra visita.
Lo stato in cui trovai mio padre mi addolorò profonda­
mente. L'uomo che avevo lasciato pochi mesi prima ancora
vivace, pieno di vigore e d'energia, non era più che un vec­
chio impotente, sprofondato nel letto, con la schiena curva,
la testa china, la parola impacciata. Nondimeno il medico as­
sicurava che, nonostante le apparenze, la sua vita non era
in immediato pericolo e che quello stato poteva durare a lun­
go. Mia madre era da ammirare per la devozione e la serenità.
Trovava un grande aiuto nell'intelligente bontà di tante Bi­
chette, e l'affezione di cui ci circondava quest'ultima fu pre­
ziosa per tutti durante quei tristi giorni.
Tornato a Boulogne, trovai una lettera del maragia d'Al­
war. Era di passaggio a Parigi e mi proponeva di accompa­
gnarlo a Nancy dove andava a farsi visitare dal dottor Coué.
Come tutti, avevo sentito parlare dei metodi del dottor
Coué; si diceva ch'egli facesse miracoli. Mi affrettai ad af­
ferrare l'occasione offertami dall'invito del maragia per co­
noscere personalmente il celebre medico. Abitava a Nancy,
in una casetta in fondo a un giardino, nella quale sfilavano
tutti i giorni molti ammalati. Era un uomo d'età avan­
zata, di aspetto modesto, dal viso sorridente e simpatico. Co­
minciò con l'esporci il proprio metodo. La frase famosa che
lo riassume : « Tutti i giorni sto meglio, sotto tutti i punti di
vista », doveva essere ripetuta, la mattina e la sera, sgranando
una specie di rosario consistente in uno spago con venti nodi.
Le frasi : « Non posso, è più forte di me, è difficile », dovevano
essere sostituite da queste : « Posso, sto per riuscire, è facile ».
Secondo lui, la maggior parte dei nostri mali è dovuta all'im­
maginazione che domina la volontà cosciente ; ne consegue
che, in molti casi, basta domare l'immaginazione per ottenere
la guarigione.
Il dottor Coué non era un empirico, come molti hanno af­
fermato. Nell'istituto che fondò nel 1cJ11 e che porta il suo
nome, formò allievi che, più tardi, hanno ottenuto i medesimi
risultati ottenuti da lui. lo stesso, d'altronde, ho osservato so­
vente gli effetti sorprendenti di questo metodo, specialmente
nei casi d'insonnia.
Di nuovo, m'incontravo sovente col maragia. Avevo ri­
preso l'abitudine di far colazione o di pranzare con lui, op­
pure di accompagnarlo al teatro, che gli piaceva moltissimo;
meno, tuttavia, del Luna Park, perché questa era la sua di­
strazione favorita, predilezione singolare che io ero ben lon­
tano dal condividere. Non c'era nulla che lo divertisse quanto
la corsa vertiginosa delle montagne russe o qualunque altra
distrazione che potesse dare l'illusione del rischio. D'altronde
anche il rischio reale lo attirava nello stesso modo. Mi ricor­
derò tutta la vita, come un incubo, la corsa che mi fece fare
su un autodromo con un'Alfa Romeo, una d elle au tomobili
più veloci d i quei tempi. Legati al sedile con le cinghie infi­
lammo la pista a un'andatura folle. Quando la macchina rag­
giungeva il massimo della velocità, emetteva un sibilo stri­
dente che faceva delirare di gioia il maragia. Per prolungare
il piacere, egli vietava che l'andatura venisse diminuita, e il
circuito infernale continuava, sempre accompagnato da quel
dannato sibilo che mi lacerava le orecchie. Avevamo lasciato
da tempo l'autodromo, e mi pareva di sentirlo ancora ; esso
mi perseguitava persino nel sonno.
Il maragia sapeva come io andassi soggetto alle vertigini.
Proprio questo, probabilmente, lo indusse a farmi salire un
giorno fin sull'ultima piattaforma della Torre Eiffel ; e, una
volta lassù, mi costrinse a sporgermi dal parapetto, spiando
curiosamente le mie reazioni.
Quel genere di scherzi cominciava a seccarmi. Stanco di
sottomettermi ai capricci di quell'orientale che m i appariva
sempre più come un essere sadico, o perlomeno come un
pericoloso maniaco, decisi di diradare le mie visite.
Boni di Castellane, col quale avevo fatto maggior cono­
scenza, veniva spesso a prendermi la domenica per farmi vi­
sitare i dintorni di Parigi. Non avrei potuto desiderare una
guida più amabile. I commenti, nei quali si rivelava un vero
artista, aumentavano l'interesse e il piacere di quelle passeg­
giate. « Un monumento », diceva « è l'espressione materiale
dello spirito di un paese, di un'epoca, e soprattutto di un
uomo ».
Quel giorno visitavamo il castello di Versailles. c: Nulla > ,
osservava Boni, « vi è abbandonato al caso. Così, il letto del
re si trova all'intersezione della croce che costituisce l'asse del
piano generale, a eguale distanza dal salone della Pace e dal
salone della Guerra, che sono come i due p iatti di una bi­
lancia di cui il sovrano regola l'equilibrio. Il tetto si alza al
di sopra della camera reale, perché nessuno, nella sua dimora,
deve abitare più vicino al cielo. Tuttavia, il rispetto di Dio
induce il re a costruire una cappella che domina l'insieme ;
però ha l'accortezza di collocarla in un'ala, e non al centro
del castello. Il re governa da sé. Sovrano per diritto divino,
Luigi XIV regna al centro del proprio palazzo che è, dal can­
to suo, al centro del regno. Gli scaloni che circondano l'edi­
ficio hanno anch'essi un significato simbolico: salendo verso
la dimora reale, si saliva verso il cielo ». Dei giardini di Ver­
sailles, Boni diceva che erano « i giardini dell'Intelligenza:.,

Gli individui senza fede e senza legge, che con i loro in­
trighi e le loro manovre tenebrose erano riusciti così bene a
disgregare la società russa e a precipitarne la rovina, conti­
nuavano l'opera nefasta nell'esilio. Il loro scopo era duplice ;
seminare la discordia tra gli emigrati e far nascere tutte le
possibili occasioni di scandalo per screditarli agli occhi del­
l'estero.
Nel 1924 due gravi avvenimenti gettarono il turbamento
negli emigrati. Il primo fu il manifesto del granduca Cirillo,
cugino dello zar, che si proclamava imperatore di Russia ; il
secondo la scissione che divise la Chiesa russa.
La dannosa attività politica del granduca Cirillo si era
iniziata già in Russia, nel 1917. L'atteggiamento che egli ave­
va creduto di dover assumere allora, severamente criticato da
tutti i russi rimasti fedeli, aveva prodotto una deplorevole
impressione all'estero. Ciò non impedì al granduca di attri­
buirsi, nel 1922, il titolo di custode del trono di Russia e,
nel 1924, quello di imperatore.
Fatta eccezione per il piccolo gruppo che sosteneva le sue
pretese, la gran massa dei russi esiliati (a cominciare dall'im­
peratrice madre e dal nostro ex generalissimo granduca Ni­
cola) , accolse malissimo quell'autodesignazione e rifiutò di ri­
conoscere il granduca Cirillo come futuro sovrano.
Ebbi la notizia a Bruxelles. Il generale W rangel, che mi
aveva invitato a colazione, non nascondeva la propria indi­
gnazione. Mi mostrò un documento in suo possesso, scoperto
dall'esercito bianco nel 1919 tra gli archivi di una città russa
abbandonata dai bolscevichi. Era il programma della propa-

3 08
ganda bolscevica in Europa : uno dei primi articoli era preci­
samente la proclamazione del granduca Cirillo a imperatore
di tutte le Russie.
Non appena fu posto al corrente delle intenzioni del gran­
duca, il generale Wrangel gli inviò una copia di quel docu­
mento, scongiurandolo di non prestarsi al giuoco dei bolsce­
vichi. Non ricevette mai risposta.
Dopo l'assassinio dell'ultimo zar e della sua famiglia, la
mancanza di eredi diretti poneva la grave question e della suc­
cessione al trono. Coloro che provassero qualche interesse per
tale questione troveranno qui in calce (1) tre articoli estratti
dal codice delle leggi dell'impero russo, fatto redigere dal­
l'imperatore Nicola l. I più eminenti giuristi non sono ancora
riusciti a mettersi d'accordo sull'interpretazione che conviene
dare a questi tre articoli. La questione della legittima succes­
sione al trono di Russia resta infatti incerta. Si tratta di un'in­
certezza alla quale io attribuisco un'importanza relativa, giac­
ché se la monarchia dovesse prima o poi essere restaurata nel
nostro paese senza portare un mutamento di dinastia, spette­
rebbe probabilmente al Sobor {2) designare il futuro zar, sce­
gliendo tra la giovane generazione dei Romanov la persona
che esso considererebbe più degna di portare la corona degli
antenati.
Il conflitto dei vescovi, alcuni dei quali volevano ricono­
scere il patriarca di Mosca, mentre altri si rifiutavano a que­
sto riconoscimento, concorse anch'esso a dividere gli emigrati
in due campi avversi. La Chiesa, come la monarchia, deve
restare irriprovevole. Soltanto a questo prezzo l'una e l'altra
possono conservare il loro prestigio e la loro benefica influen-
(1) Art. 5- I due sessi hanno diritto entrambi alla successione al trono, ma la prio­
rità appartiene al sesso maschile per ordine di primogenitura. In caso di estinzione del­
l'ultima generazione maschile, la successione passa alla generazione femminile per or­
dine di primogenitura.
Art. 141 - Nessun membro della famiglia imperiale che possa essere chiamato alla
successione al trono, può contrarre unione matrimoniale con una persona di religione
diversa se non dopo la conversione di tale persona alla religione ortodossa.
Art. 144 - Nessun membro della famiglia imperiale che abbia contratto unione
matrimoniale con una persona non eguale di nascita, e cioè che non appartenga a nes­
suna casa regnante o sovrana, può comunicare a tale persona, o ai discendenti usciti
da questa unione, i diritti spettanti ai membri della famiglia imperiale.
Estratto dal Codice delle Leggi dell'Impero Russo, redatto per ordine dell'impera­
tore Nicola l, ed. 1892, vol. l, articoli 5, 14.1, 1".
(2) Assemblea nazionale dei rappresentanti della Chiesa e del popolo.

309
za. Gli esiliati senza patria erano come bambini senza fami­
glia. Per quelli che avevano la fede, la Chiesa avrebbe potuto
farne le veci. Per un gran numero di questi infelici la casa di
Dio e le icone sostituivano il focolare perduto ; essi si rifugia­
vano là per trovare nella preghiera la pace del cuore e l'oblio
delle sofferenze. È una fortuna che la loro fede sia stata ab­
bastanza salda da far sì che essi non si sentissero straniati
dalla Chiesa a causa delle divisioni dei vescovi.

Poco dopo il nostro ritorno dagli Stati Uniti ci venne l'idea


di associarci con qualche amico per aprire una casa di mode.
Un russo che dava lezioni di disegno ci affittò una parte del
proprio appartamento, un pianterreno de la rue Obligado.
Lo spazio era molto limitato tanto che, specialmente nelle ore
di lezione, stavamo, per così dire, gli uni a ridosso degli altri.
La casa aveva ricevuto il nome di "lrfé" dalle prime sillabe
dei nostri due nomi. La modellista era una russa alquanto ec­
centrica. I suoi modelli erano graziosi, ma assai difficili da
portare, e noi non avevamo molti mezzi per farli conoscere.
Ora, in quell'anno vi fu un ballo al Ritz con presentazione
dei modelli delle grandi sartorie. Perché non avremmo pre­
sentato anche i nostri ? La cosa fu fatta non senza difficoltà.
All'ultimo momento, gli abiti che dovevano indossare mia mo­
glie e alcune delle nostre amiche erano ancora in laboratorio,
dove le operaie lavoravano febbrilmente per finirli.
Arrivammo molto tardi al ballo, ma l'effetto che ottenem­
mo ne fu avvantaggiato. Incoraggiati dall'insperato successo
ottenuto dai nostri modelli, cercammo immediatamente lo­
cali meno angusti. Un ceco venne a offrirei un appartamento
in avenue Victor-Emmanuel III. Mi disse d'essere già in trat­
tative con qualcun altro, ma che avrebbe dato la preferenza
a me in cambio di un grosso acconto immediato. Poiché l'ap­
partamento mi piaceva, versai la somma richiesta ; ma, tor­
nato il giorno dopo per concludere l'affare, trovai l'apparta­
mento chiuso. Il ceco se n'era andato. Feci la mia brava de­
nuncia, ma invano: la polizia non trovò mai il truffatore.
Finalmente, per il tramite di un'agenzia, trovammo in rue
310
Duphot 19 i locali di cui avevamo bisogno: un grande appar­
tamento che occupava tutto il primo p iano dell'edificio e che
ci offriva lo spazio necessario per le sale e i laboratori.
In quattro e quattr'otto lo arredammo secondo il nostro gu­
sto. Quasi tutto il personale e le operaie erano russi. Mio co­
gnato Nikita e sua moglie facevano parte della squadra, e con
essi una coppia adorabile, Michele e Nona Kalasc'nicov. Nes­
suno di noi s'intendeva per nulla di sartoria, ma la casa aveva
un aspetto magnifico. Non potendo fare a meno di Bull, gli
avevo affidato il compito di rispondere al telefono e di p ren­
der nota degli appuntamenti, il che egli fece nel peggior
modo possibile, provocando numerosi e inverosimili equivoci.
Venne il giorno delJ'inaugurazione. Avevamo distribuito
parecchie centinaia di inviti e preso in affitto una quantità
di sedie dorate talmente eccessiva che si poteva appena cir­
colare nelle sale. L'illuminazione era stata sapientemente stu­
diata e v'era dovunque una grande profusione di fiori dispo­
sti artisticamente. In tutta la casa regnava un'atmosfera di
febbrile attesa... Ma il tempo passava e i nostri invitati non
arrivavano.
E non vennero. Neppur uno ! ... Bull, incaricato di spedire
gli inviti, si era semplicemente dimenticato di imbucarli!
Pazienza ! Ora si trattava di farci una clientela. Non era
cosa facile per noi che andavamo poco in società e che non
avevamo per nulla la disinvoltura tanto necessaria per sco­
vare e attirare la ricca clientela. Mi parve chiaro ch'era ne­
cessàrio impiegare una specie di agente mondano. La mia
scelta cadde su Giorgio di Cuevas, futuro sposo della nipote
di Rockefeller. Egli conosceva tutti e tutti Io conoscevano.
Fu merito suo se la Casa lrfé fu lanciata e divenne rapida­
mente di moda. Davanti alle ordinazioni che affluivano, do­
vemmo ben presto ingrandirei prendendo in affitto un se­
condo piano da destinarsi ai laboratori. La direzione della
casa fu affidata a una francese, la signora Barton, persona
seria e competente, la quale, poveretta ! , da principio temette
di dover perdere la testa nel turbine incoerente del disordine
slavo.

3 11
Ricevevamo clienti d'ogni nazionalità. Molti, attirati dalla
curiosità, cercavano prima di tutto l'inedito. Una avrebbe
voluto che le si servisse il tè in un samovar. Un'altra - ame­
ricana, questa - chiedeva di vedere il principe di cui le era
stato detto a New York che aveva gli occhi fosforescenti co­
me quelli di un felino! Ma la più stupefacente di tutte era
la signora Whobee. Tanto per cominciare, dirò che era enor­
me: e quando dico enorme, è perché non trovo un aggettivo
migliore. Nulla potrebbe dare un'idea, sia pure approssima­
tiva, clelle proporzioni della signora Whobee. La sua prima
visita alla Casa lrfé impressionò tutti. Quando fece il suo
ingresso nel salone, sostenuta da un lato dall'autista, dall'al­
tro da un domestico, e seguita da una persona che pareva la
dama di compagnia - una donnetta senza età, dall'aria mo­
desta, che, come seppi più tardi, era una baronessa austriaca
- si stava presentando una collezione. Non appena la nostra
nuova cliente fu, non senza fatica, installata su un divano,
si udì una voce grave e possente:
« Chiamatemi il principe, voglio vederlo. E portatemi del­
la vodka :..
La signora Barton venne, imbarazzatissima, a espormi la
situazione.
« Che devo fare, principe? È uno scandalo. La nostra casa
non è una bettola > .
«: Non ci vedo nessuno scandalo :., l e risposi. « Diamo d a be­

re all'assetata, come vestiamo l'ignuda. Dite a quella signora


che verrò io stesso a portarle un bicchiere di vodka, che berrà
alla prosperità della casa lrfé :..
Mandai Bull a comprare la vodka ed entrai nel salone.
« Accidenti ! >, esclamò la nostra nuova cliente. c: Siete voi
il principe? Non avete mica il muso di un assassino. Sono
contenta che quei sudici bolscevichi non vi abbiano fatto
la pelle :..
Prese il bicchiere con una mano coperta di anelli e di brac­
cialetti e, con uno sguardo beffardo dei suoi magnifici occhi
dalle palpebre cariche di khol, lo vuotò d'un sorso alla mia
salute.
31 2
c Fatemi un kokosc'nik e quindici vestiti. E una decina per

questa stupida ,, soggiunse indicando la piccola baronessa.


c: Grazie, grazie > , mormorò quest'ultima tutta felice e con­

fusa.
c: Zitta, idiota , , tagliò corto l'altra.

Mi sarei guardato bene dal contrariare quell'eccentrica


creatura. Assumendo il tono del sarto di professione :
« Ma certo, signora ,, dissi, « i vostri desideri sono ordini
per noi. Posso, tuttavia, domandarvi di che epoca desiderate
sia il kokosc'nik e quali siano gli abiti che avete scelto? > .
« Me ne f... dell'epoca. Voglio un kokosc'nik, e voglio quin­
dici abiti per me e dieci per la stupida. Capito? Tanto m e­
glio! ... Arrivederci ... Contentissima che abbiate salvato la
pelle '>.
Fece un cenno ai domestici che vennero a prenderla ognu­
no per un braccio e la portarono faticosamente verso l'uscita,
seguita dalla piccola baronessa. Una folle ilarità seguì la sua
partenza, e tutte le persone presenti, che desideravano sapere
chi fosfe quella stravagante creatura, ci bombardarono di
domande.
Qualche giorno dopo, Nona Kalasc'nikov, accompagnata
dalla p remière che doveva p rendere le misure della nostra
nuova cliente, si recò a portare a quest'ultima un magnifico
kokosc'nik di stoffa d'oro, con ricami di perle e di pietre p re­
ziose. Essa voleva nello stesso tempo chiederle di che genere
dovessero essere i venticinque abiti ordinati da lei. Al ritorno,
rideva talmente che poteva appena parlare. Aveva trovato
la signora Whobee nel suo bagno elettrico; la testa sola emer­
geva da una cassa monumentale posta in mezzo alla stanza.
Seduta p resso di lei, la piccola baronessa le leggeva ad alta
voce un giornale. Molte cameriere si davano da fare intorno,
con bottiglie di champagne in mano: madame aveva sete e
domandava continuamente da bere.
Fu offerto lo champagne alle nuove venute. Poi Nona, che
aveva presentato il kokosc'nik alla signora Whobee, venne
pregata da costei di metterglielo in testa. Facendo ciò, Nona
ricordò anche che doveva prenderle le misUl'e. Per sola ri-
sposta, la signora Whobee aprì lo sportello del bagno elettrico
e apparve interamente nuda col kokosc'nik sulla testa:
« M... ! » , disse. « Ebbene, prendete le vostre misure in
fretta! ».
Era talmente felice della nuova acconciatura che non se
la levò più, e la portava persino quando usciva. Quanto agli
abiti, fu impossibile sapere come li volesse, e dovetti farli
fare a mio capriccio.
Sarebbe stato eccessivo pretendere da me che non mi in­
teressassi della mia nuova cliente ; non volevo certo }asciarmi
scappare un tipo simile! Appresi, dunque, che era di origine
egiziana ; maritata in prime nozze a un francese, aveva a quel
tempo sollevato uno scandalo recandosi alle corse di Long­
champ in uniforme da ussaro. Dopo il divorzio aveva sposato
un inglese, il suo attuale marito. Possedeva parecchie case
a Parigi, una delle quali in avenue Friedland dove abitava,
e una deliziosa villa nei dintorni della capitale. Si diceva che
fosse follemente ricca e di un'eccentricità sfrenata. Beveva
come un acquaio, e suo marito faceva altrettanto.
Alcuni giorni dopo la sua visita alla casa lrfé, la signora
Whobee mi telefonò per invitarmi a pranzo. Mi sarei ben
guardato dal rifiutare. La trovai a letto, col suo kokosc'nik
in testa, sepolta sotto una montagna di pellicce preziose. Suo
marito e la baronessa erano seduti ai piedi del letto. Un nu­
mero impressionante di bottiglie e di bicchieri ingombrava
il tavolino posto accanto al capezzale. Una muta di cani di
tutte le misure e di tutte le razze si gettò su di me nel mo­
mento in cui entravo, mischiando i suoi furiosi latrati al ru­
more assordante della radio.
« Buon giorno alla Santa Russia! », esclamò la signora
Whobee. « Ho sempre desiderato conoscervi. Per questo sono
venuta a vedere il vostro buco... Mi piace !... Voi non avete
l'aria di un selvaggio. Credevo che tutti i russi fossero dei
selvaggi... Ballatemi una danza con i pugnali. Turpin », chia­
mò. rivolgendosi a un individuo talmente insignificante che
non avevo neanche notato la sua presenza, c: andate a pren-
.

dere dei coltelli in cucina E svelto! :..


...
Il barone Turpin de la Rochemouille, alias segretario della
signora Whobee, si affrettò a obbedire e tornò con quattro col­
telli. La mia ospite si ostinava a volere una danza caucasica.
Siccome mi mostravo poco premuroso, pensò di incoraggiar­
mi facendo portare un grammofono con qualche disco di fox­
trot... Improvvisamente la baronessa austriaca, che aveva
senza dubbio un po' di sangue spagnuolo nelle vene, saltò in
piedi : « Olé! olé ! » , esclamò battendo le mani. La signora
Whobee, suo marito e il segretario la imitarono, e i cani uni­
rono i loro latrati al baccano generale. Mi sentivo come in un
manicomio. Ma la cosa non mi spiaceva. Quale lontana ascen­
denza tartara si risvegliò in me? Il fatto sta che, in un batter
d'occhio, mi levai la giacca, mi strappai il colletto e la cravat­
ta, e, impadroni�mi dei coltelli, improvvisai una danza polo­
veziana su un'aria di fox-trot ! . I coltelli, proiettati in tutte
..

le direzfoni, andarono a rompere i vetri delle stampe appese


alle pareti. Fu un miracolo se nessuno rimase ferito.
Dopo quella danza selvaggia si ristabilì la calma. Mi ri­
vestii, e, quando i pezzi di vetro furono spazzati via, venne
servito il pranzo accanto al letto di madame. Quella fu la
sera in cui vidi per l'ultima volta la piccola baronessa ; di lì
a poco, avendo scoperto che essa mangiava vivi i pesci rossi
del suo acquario, la signora "Whobee la mise alla porta.
Tale fu l'inizio delle mie relazioni con la signora Whobee,
relazioni tanto poco comuni quanto la signora in questione.
Il suo involucro mostruoso, la sua buffoneria, per non dire la
sua volgarità, facevano un insieme bizzarro, ma non privo
di sapore. L'affetto che ella mi dimostrò, per quanto strava­
gante ne fosse il carattere, anzi, appunto per questa strava­
ganza, non poteva !asciarmi indifferente. Ero lusingato, cer­
to, ma soprattutto interessato, curioso come mi avveniva tut­
te le volte che m'imbattevo in qualche cosa che usciva dal­
l'ordinario, e in modo particolare quando si trattava dei sen­
timenti che mi accadeva di ispirare. Per quanto strano possa
sembrare, il mio interesse per la signora "Whobee non era
privo di analogia con quello che m'ispirava il maragia. Questi
due esseri, tanto profondamente diversi, avevano certi punti
in comune, a cominciare dalla loro originalità. Entrambi erano
orientali, entrambi mi osservavano con un'eguale attenzione
che mi costringeva a stare continuamente in guardia, e que­
sto giuoco, che aveva per me qualche cosa di inebriante,
mi faceva tollerare il loro despotismo. La signora Whobee era
certamente molto meno temibile dell'enigmatico maragia, ma,
a modo suo, poteva essere pericolosa, e il mio dèmone mi
spingeva sempre verso le persone di questo genere.
CAPITOLO XXVII
( 1 924-1 925)

Collera di Widener - Torno a Nero York per il processo -


Violenze di linguaggio durante le discussioni - Preoisiofl.i otti­
mistiche - Viaggio in Corsica - Compriamo due case a Caloi
- Gentilezza dei còrsi - Perdo il processo - l bolsceoichi sco­
prono i gioielli nascosti a Mosca - Nuooe imprese: il risto­
rante La Maisonnette e qualche altro - Apertura di una suc­
cursale della Casa lr/é al Touquet, poi a Berlino e a Londra
- Frogmore Cottage - Punch Il.

Verso la fine dell'anno appresi che Widener, vedendosi co­


stretto a sostenere un processo, aveva perso ogni senso di mi­
sura e, in un folle accesso di rabbia, aveva scagliato contro
di me gli epiteti più ingiuriosi. Era una notizia spiacevole,
giacché l'offesa non era minore per il fatto di essermi indiriz­
zata attraverso l'oceano. Sino a quel momento non avevo avu­
to nessuna intenzione di presentarmi in persona nell'aula del
tribunale ; ma gli insulti di Widener mi costringevano a farlo.
Telegrafai dunque ai miei avvocati che sarei stato a New
York per l'inizio del processo e avrei fatto la mia deposizione
io stesso. Non potevo dissimularmi che andavo incontro a mo­
menti sgradevoli. Avendo dissuaso lrina dall'accompagnarmi
in un viaggio che si annunciava poco attraente, partii nella
primavera del 1 925 sul piroscafo Mauritania con Mazirov e
Makarov.
Al mio arrivo a New York, giornalisti e doganieri mi ac­
colsero come una vecchia conoscenza; questi ultimi risero
francamente quando li assicurai che questa volta non avevo
con me "i gioielli della corona". Makarov rimase stupefatto
davanti ai grattacieli, i quali costituivano per lui un grave
inconveniente, giacché egli aveva una paura morbosa degli
ascensori, e piuttosto che servirsene si arrampicava ogni gior­
no sino al quindicesimo piano ove erano le nostre camere.
La maggior parte delle mie giornate trascorreva in col­
loqui con gli avvocati ; le serate le passavo all'Aquila russa.
Vera Smirnova non mi lasciava mai. Riprendendo le abitu­
dini dell'anno prima, scandalizzava l'albergo arrivando alle
ore più incredibili, sempre col suo vestito da zingara. Per au­
mentare le sue scarse risorse, mi aveva pregato di organiz­
zarle un concerto in una casa privata. Ottenni da un giovane
americano molto ricco, proprietario di un palazzo, che il con­
certo si svolgesse in casa sua. Il pubblico era numeroso e la
somma raccolta rilevante. La Smirnova incantò l'uditorio; ma,
nel breve intervallo che seguì la prima parte del concerto,
si eclissò, e, quando tutti furono tornati al loro posto, invano
si cercò la cantante. Finii per trovarla addormentata e com­
pletamente nuda nel letto del padrone di casa. Aveva appro­
fittato dei pochi istanti di riposo concessile per salire a fare
un bagno e un sonnellino, senza preoccuparsi per nulla di co­
loro che nel salone attendevano la fine del concerto. V'era
in ciò tutta la Smirnova.
Il processo si iniziò ai primi d'aprile e durò tre settima­
ne. Durante i tre giorni degli interrogatori, l'avvocato della
parte avversa si mostrò di una incredibile volgarità. Era chia­
ro che, insultandomi, sperava di farmi perdere il sangue fred­
do. La calma che riuscii a mantenere a suo dispetto non fece
che irritarlo maggiormente, e la simpatia che il pubblico mi
manifestò chiaramente finì col metterlo fuori di sé. Alla sera
della terza udienza mi fu offerto un pranzo dai court officials.
La deposizione di Widener fu pietosa. Ebbe anche delle
uscite particolarmente infelici.
« Provavate qualche simpatia per il principe e i rifugiati
russi allorché avete offerto centomila sterline per i due qua­
dri? », gli domandò uno dei miei avvocati, Clarence J. Sheam.
« Sì, la simpatia che si può provare per un cane o per un
gatto smarrito ... Ma dove si arriverebbe se dovessimo rispon­
dere a tutte le domande di aiuto? Non ci sarebbero al mondo
asili sufficienti per tutti i bisognosi ! ».
Riconobbe di avermi lasciato il diritto di riscattare i qua-

3 18
dri, ma confessò di avere speculato sulla mia fede in una re­
staurazione dell'antico regime, alla quale egli, dal canto suo,
non credeva. Era per lui una gittata di dadi, sulla quale rite­
neva di poter puntare a colpo sicuro. Possibile che qualcuno
considerasse ciò come un delitto?
Mi ero sentito ingiurare copiosamente, ma debbo ricono­
scere che, dal canto loro, i miei avvocati non ebbero riguardi
per Widener. Buckner gli diede dell'usuraio, Sheam del "coz­
zone furbo e senza scrupoli".
« Potrei dire che Widener è uno spergiuro, un ladro e un
truffatore », concluse. « Non è necessario: egli stesso ha trac­
ciato qui, davanti alla corte, il proprio ritratto. Tutto ciò che
potrei dire non aggiungerebbe nulla » .
I miei avvocati non avevano nessun dubbio circa i l felice
esito del processo, e io condividevo il loro ottimismo. Il ver­
detto non doveva essere reso che due mesi più tardi, e la mia
presenza a New York era ormai inutile ; non pensai dunque
che a prendere la prima nave per l'Europa.

Poco dopo il mio ritorno a -Parigi fui informato dell'arrivo


di Widener. Mi fu detto che voleva parlarmi per conoscere
il mio ultimo prezzo e accomodare la faccenda amichevol­
mente. Rifiutai di vederlo.
Un imperioso desiderio di cambiare le idee mi spinse a
proporre a lrina di fare un viaggio in automobile. Prendendo
come solo bagaglio una valigia e una chitarra, salimmo nella
nostra macchinetta a due posti col cagnolino preferito. « A
destra o a sinistra? » , domandai a lrina. c: A destra :., rispose,
e arrivammo a Marsiglia. Un piroscafo era in partenza per la
Corsica. Il tempo d'imbarcare l'automobile e le nostre per­
sone, ed eccoci in viaggio per l' "Ile de beauté".
La percorremmo in tutti i sensi, e quando fummo a Calvi
il nostro incanto raggiunse il colmo. C'era una casa da ven­
dere nella cittadella per un prezzo irrisorio. Senza neanche
pensarci su, la comprammo insieme con una fattoria che si
trovava nelle campagne dei dintorni. I còrsi ci riuscirono im­
mediatamente simpatici. È un popolo intelligente, spontaneo,

319
ospitale e di una non comune lealtà. Se avessi incontrato un
bandito còrso - un mito, senza dubbio, al giorno d'oggi -
gli avrei accordato la mia fiducia più volentieri che a certa
gente conosciuta a Parigi, Londra o New York.
La cortesia della popolazione era commovente. A vendo noi
espresso davanti alla gente del paese il rammarico che nel
giardino della fattoria mancassero i fiori, l'anno dopo lo tro­
vammo interamente fiorito per opera loro. Nel caffè del porto,
dove andavamo sovente per sentir cantare i pescatori, questi
non mancavano mai di offrirei da bere.
Una donna del paese, Restituta Orsini, che ci teneva in
ordine la casa quando eravamo a Calvi, ebbe un gesto par­
ticolarmente commovente. Messa al corrente delle difficoltà
finanziarie in cui ci trovavamo, venne apposta a Parigi per
offrirei le sue economie. Un altro anno in cui mi trovavo a
Calvi solo, abitavo nella fattoria e vi avevo organizzato un
pranzo per i pescatori. Al cadere del giorno vidi arrivare
un fila di vetture che portavano, insieme con gli invitati,
una grande quantità di viveri : aragoste, capretti, frutti vari
in abbondanza e bevande di vario genere : vino, champagne,
cognac, liquori, ecc. Avevano portato persino delle lanterne
multicolori che appesero ai rami. In un batter d'occhio il
giardino illuminato assunse uh aspetto festoso. Davanti alla
mia aria stupita e un po' preoccupata, essi .credettero di do­
vermi rassicurare : « Non prendetevela, non vi presenteremo
mica il conto ».

In giugno, un telegramma inviatomi dai miei avvocati di


New York mi annunciò che il processo era perso... Che buffa
faccenda ! E io che lo credevo vinto! Per mezzo di quali rag­
giri Widener poteva essere riuscito a capovolgere la situa­
zione? ... Siccome un guaio non arriva mai solo, appresi nello
stesso momento dai giornali che i bolscevichi avevano trovato
i gioielli da me nascosti con tanta cura nei sotterranei della
nostra casa a Mosca. Pensai al mio povero Bujinsky che aveva
patito tortura e morte per aver rifiutato di indicare il nascon­
diglio ora scoperto!
3 20
Non ci si deve mai riconoscere vinti quando è ancora possi­
bile lottare. Ma a che vale sprecare le proprie forze contro un
muro? Avevo perduto il processo e un vero p atrimonio in
gioielli. Che altro potevo fare in simili circostanze se non
inchinarmi davanti all'inevitabile, tentare di non pensarci
più e dirigere altrove i miei sforzi?
Un amico belga, il barone Edmondo Zuylen, mi p roponeva
di lanciare un commercio di porcellane. Trovammo un locale
vicinissimo alla Casa lrfé, in rue Richepanse. Per la ditta
scegliemmo la parola "Monolix". Un'americana, la signora
Jeans, ne accettò la gerenza, e la parte artistica fu affidata
a un architetto russo pieno di ingegno e di buon gusto, Nicola
Istzelenov, che lavorava in collaborazione con sua moglie e
sua cognata.
Ricevetti un'altra proposta dalla signora Tokarev, proprie­
taria del ristorante La Maisonnette, in rue du Mont-Thabor,
che mi offriva di diventare suo socio. Ero già sarto ; l'idea di
diventare trattore non mi dispiaceva. Cominciai con l'occu­
parmi della decorazione : azzurri e verdi vivaci nella sala da
pranzo, una tappezzeria di tela a fiori in una saletta attigua,
di cui feci un locale riservato; portai lì mobili, gingilli e stam­
pe che non avevano trovato posto a Boulogne. Quando, al­
cuni anni dopo, la mia collaborazione con la signora Tokarev
fu diventata impossibile, volli riprendere i mobili e gli og­
getti che avevo portato, ma la mia socia aveva avuto cura di
farli figurare nel vecchio inventario, in modo che non riuscii
mai a farmi restituire ciò che mi apparteneva.
A La Maisonnette, cucina, personale, artisti, tutto era rus­
so al cento per cento. Gli ottimi cantanti Ascim Khan, Naza­
renko e sua moglie Adorel facevano accorrere tutta Parigi.
Gli stranieri che desideravano il colore locale, vi trovavano
l'atmosfera desiderata : caviale, vodka, samovar, chitarre, dan­
ze caucasiche e fascino slavo, quel fascino slavo che certuni
asseriscono essere stato inventato dai francesi e sfruttato dai
russi. La definizione di N. Teffi, il nostro celebre scrittore
umoristico, mi sembra giusta : Teffi diceva che il fascino slavo
è: "sì, oggi ; no, domani; e sì e no il terzo giorno".
In seguito furono aperti nuovi ristoranti : il Lido, arredato

32 1
m stile veneziano dal pittore Sciuhaiev, anch'esso in rue du
Mont-Thabor; era piuttosto un locale notturno lussuoso e in­
ternazionale, che si apriva all'ora in cui La Maisonnette si
chiudeva. Mon Repos, in avenue Victor-Hugo, che fu aperto
più tardi, era, come La Maisonnette, specificamente russo, ma
di genere rustico, con un giardino attiguo che contribuiva a
dargli l'aria di un albergo di campagna. Ne affidai la gerenza
a Makarov, il cui carattere, sempre più ostico, era a Boulogne
una fonte di conflitti quotidiani. Mi costava separarmi da un
uomo di cui conoscevo la devozione e al quale ero anch'io
molto affezionato, ma la pace della mia casa lo esigeva.
Incoraggiati dal successo delle nostre imprese, aprimmo
una succursale della Casa Irfé al Touquet, sotto la direzione
della principessa Gabriel. Il principe Gabriel, cugino di Iri­
na, e sua moglie abitavano anch'essi nella nostra casa a Bou­
logne e la loro presenza era per noi una gioia. La principessa
era stata ballerina dei Balletti imperiali. Impastata di spi­
rito e di allegria, Nina adorava il marito e viveva per lui.
Se Gabriel era riuscito a sfuggire alla sorte degli altri mem­
bri della famiglia, lo doveva all'intelligenza e all'abilità di
sua moglie.
Vennero aperte altre due filiali della Casa Irfé: la prima
a Londra, in Berkeley Street, la seconda a Berlino nella casa
dei Radziwill, in Parisenplatz. La direttrice di Londra era
un'inglese, la signora Ansel, donna intelligente, piena di ener­
gia e di autorità. Quanto alla succursale di Berlino, era di­
retta dalla principessa Thurn-und-Taxis. Con quella donna
seducente e intelligente, che i suoi familiari chiamavano Titì,
mi sono divertito un mondo. Trovandomi a Berlino qualche
tempo prima dell'inaugurazione della nostra succursale, ave­
vo fatto in compagnia della principessa il giro dei locali not­
turni, dove speravamo di trovare qualche bella ragazza adat­
ta a diventare indossatrice. Non ci eravamo ingannati ; ma
quando Titì ne ebbe invitate certune al nostro tavolo, quelle
graziose fanciulle mi parvero bizzarre... Confidai le mie ap­
prensioni alla mia compagna che scoppiò a ridere: « Non vi
stupite :&, mi spiegò; « queste ragazze sono ragazzi ! :&. Quel
giorno concepii qualche inquietudine nei riguardi della mia
322
futura direttrice ... Tuttavia, prima dell'inaugurazione, tro­
vammo delle indossatrici ch'erano vere donne.
Avevamo preso in affitto al Touquet una villa dove tra­
scorrevamo in allegra compagnia numerosi roeek-ends. La vil­
la si chiamava "I funghi", e mai nome fu più adatto. In vita
mia non ho mai trovato luogo più umido di quello. Ma era­
vamo ancora abbastanza giovani pe �ché tutto ci servisse di
pretesto per divertirci e scherzare.
Approfittai del tempo di cui disponevo al Touquet per
riesaminare un gran fascio di carte, lettere e documenti che
avevo portato con me allo scopo di riordinarli. Tra quelle
carte ritrovai certi quadernetti nei quali avevo preso nota
degli avvenimenti politici sopravvenuti nel corso degli ultimi
anni che avevamo passato in Russia. Irina, alla quale feci
vedere quelle note, le trovò abbastanza interessanti per me­
ritare d'essere tradotte e pubblicate. Erano stati diffusi a pro­
posito di tali avvenimenti tanti errori e tante menzogne, che
mi sembrava fosse giunto il momento di rendere nota la mia
testimonianza personale, almeno su quelli nei quali mi ero
trovato direttamente immischiato.
Il mio amico Edmondo di Zuylen mi aiutò a riordinare le
note allo scopo di preparare un libro che avrebbe dovuto
uscire col titolo La fin de Raspoutine. Lunghe ore di lavoro
in comune mi hanno dato modo di conoscere meglio e di ap­
prezzare la sottile intelligenza e la nobiltà di carattere di
questo amico perfetto.

La famiglia dei miei suoceri abitava ancora a Frogmore


Cottage, piacevole dimora posta nel parco di Windsor. Il re
Giorgio V, mettendola a disposizione della cugina, gliene ave­
va concesso il godimento vita natura! durante. Mia suocera,
accogliente come sempre, vi riceveva i numerosi figli e ni­
potini, sopportando con l'abituale bontà il disordine e il chias­
so che questi ultimi portavano con loro. Ben p resto, poiché
Frogmore Cottage non poteva più contenere tutta la fami­
glia, il re dovette fare aggiungere un'ala all'edificio prin­
cipale.
Tra il personale russo che aveva seguito la granduchessa
in esilio, c'era una vecchietta che in Russia era stata incari­
cata della sorveglianza delle lavandaie del palazzo. La Be­
laussov era quasi centenaria ; magra e curva, con un grande
naso aquilino, era proprio il tipo della fata Carabosse, madri­
na di Cenerentola. Al momento in cui avevamo lasciato la
Russia, quando cioè i bagagli avrebbero dovuto essere ridotti
al minimo indispensabile, la Belaussov aveva trovato modo
di portare con sé parecchi bauli di vecchie cose inutili e prive
di valore. Su ognuno di essi aveva scritto: "FRAGILE - BE­
LAu s sov". Conosceva appena qualche parola di francese,
che tirava fuori nelle grandi occasioni. Così, quando incon­
trava il re Giorgio nel parco, per quanto lontana fosse nel
momento in cui lo scorgeva, cominciava tutta una serie di
profondi inchini, e se egli le si avvicinava, lo chiamava :
« Mon Sire » .

I sovrani inglesi facevano visita d i tanto i n tanto alla cu­


gina ; ma quella che veniva a trovarla più spesso era la so­
rella del re, la principessa Vittoria. Questa era l'unica figlia
della regina Alessandra che non fosse sposata, e aveva con­
sacrato interamente alla madre la propria vita. Era buona e
gaia ; dimentica di sé, aveva il dono di farsi amare
da tutti. Le visite della principessa Vittoria erano sempre una
gioia per gli abitanti di Frogmore Cottage, come pe:r i suoi
ospiti di passaggio. Il ricordo dei soggiorni che ho fatto in
quella ospitale dimora è tra quelli che evoco con maggior
piacere.
Un gran numero di oggetti preziosi provenienti dalla Rus­
sia, prodotto del saccheggio delle case private compiuto dai
bolscevichi, si spandeva a poco a poco sui mercati europei.
Un gioielliere di Londra, specializzato nel commercio di gioiel­
li rubati in Russia, era il fornitore titolare dei collezionisti
di oggetti usciti dal laboratorio del celebre gioielliere della
corte imperiale di Russia, Fabergé, che veniva definito il
Benvenuto Cellini del XIX secolo. I suoi lavori avevano una
perfezione e una finezza ineguagliabili. I suoi animali, scol­
piti in certe pietre semipreziose, sembravano vivi, i suoi smal­
ti erano unici. Quando venne la rivoluzione del 191'?', i negozi
Fabergé di Pietroburgo e di Mosca furono saccheggiati e di­
strutti. Del loro antico splendore non resta ormai che un pic­
colo ufficio a Parigi, diretto da Eugenio Fahergé, uno dei
figli del maestro cesellatore.
Tra i collezionisti v'era una signora amica di mia suo­
cera, la quale un giorno invitò quest'ultima a colazione per
mostrarle il sùo ultimo acquisto: una deliziosa scatola di gia­
da rosa col coperchio incrostato di diamanti e smeraldi che
formavano delle iniziali russe sormontate dalla corona im­
periale.
« Sarei curiosa di sapere che iniziali siano queste :�>, disse
a mia suocera. « Forse voi potreste dirmelo :7> .
« Sono l e mie , rispose l a granduchessa, che d i prim'ac­
chito aveva riconosciuto il p rezioso oggetto ; < questa scatola
mi appartiene :..
« Ah ! ... » , fece la signora. « Com'è interessante! :�>.
E rimise la scatola nella vetrina.
Durante uno dei nostri soggiorni a Frogmore Cottage do­
vetti recarmi a Londra per un affare e trattenermici qualche
giorno. Trovandomi una mattina in Old Bond Street, entrai,
come facevo spesso quando passavo di lì, nel canile in cui ,
anni prima, avevo comperato il mio cane Punch. La venditrice
era sempre la stessa, e io trascuravo raramente l'occasione
di salutarla e di scambiare qualche parola con lei. Ora, quel
giorno v'era in una delle gabbie un bull-dog così esattamente
simile al mio vecchio Punch che credetti di avere un'alluci­
nazione. Lo avrei acquistato subito se il prezzo fosse stato
meno esorbitante. Pieno di malinconia, uscii dal negozio e
mi recai dal re Manuel che mi aveva invitato a colazione.
Poiché il re mi chiese quale fosse il motivo della mia aria
triste, gli raccontai ciò che mi era accaduto. Il giorno dopo,
al mio risveglio, egli mi fece recapitare una lettera nella qua­
le diceva che sarebbe stato felice di farmi dono del piccolo
cane che desideravo. La lettera conteneva un assegno corri­
spondente al prezzo che me ne era stato chiesto.
Infilato un impermeabile sul pigiama, corsi al canile, sen­
za preoccuparmi della gente che si voltava al mio p assaggio,
credendo senza dubbio che fossi scappato da qualche maru-
comio. Ero felice di avere il mio bull-dog, al quale misi nome
Punch in ricordo del primo.
In quei giorni la mia borsa era particolarmente sprov­
vista. Una mattina passeggiavo in compagnia di Punch in
Jermyn Street ; non avevamo fatto colazione e avevamo fame
entrambi. Passando davanti a una trattoria, fui attirato dalla
lista delle vivande sulla quale lessi questa indicazione: Pau­
Iarde à la Youssoupoff. <1: Siamo fortunati », dissi a Punch, do­
po di che entrammo nella trattoria, dove il capocameriere,
impressionato dal nostro bell'aspetto, ci diede un ottimo po­
sto. Ordinai una poularde à la Youssoupoff, il vino migliore,
e una zuppa per Punch. Il conto saliva a più di tre volte
quello che avevo in tasca. Feci chiamare il proprietario e gli
mostrai il mio passaporto. Gettò un'esclamazione e s'impos­
sessò del conto. « Ho usato il vostro nome, principe » , mi dis­
se. « Accettate d'essere oggi mio invitato ».
Quando presentai Punch al re Manuel, questi fu spaven­
tato. « Se avessi potuto immaginare ch'era tanto mostruoso »,
esclamò, « mai te lo avrei regalato! ». Verissimo : Punch era
un mostro di bruttezza, ma nello stesso tempo era un angelo
di bontà. Benché fosse enorme e la sua aria feroce facesse
paura a tutti, sarebbe stato difficile trovare un cane più bo­
naccione. Nulla poteva alterare la dolcezza del suo carattere,
neanche l'accoglienza che gli fecero a Boulogne gli altri no­
stri cani, furibondi di vedersi imporre la compagnia di quel­
l'intruso.
CAPITOLO XXVIII
( 1 925-192?')

Keriolet - Rappresentazioni teatrali a Boulogne - Le feste


di Pasqua dei russi esiliati - "Nuits de Prince" - Ma1rimonio
del granduca Dimitri - Una falsa granduchessa Anastasia -
Il maragia mi cerca ma non mi trova - L'educazione musicale
di Bibì e le sue generosità - A Bruxelles con i Whobee - Fuga
di Willy.

D urante tutta la giovinezza avevo sentito parlare del ca­


stello di Keriolet, nei pressi di Concarneau, anticamente pro­
prietà della mia bisnonna, la quale lo aveva lasciato per testa­
mento al dipartimento del Finistère. Questa donazione por­
tava nondimeno con sé alcune clausole restrittive che salva­
guardavano i diritti degli eredi naturali nel caso non fossero
state rispettate. Fu appunto quello che avvenne, di modo che
mia madre, in qualità di erede diretta della nonna, avrebbe
potuto far valere i propri diritti su Keriolet. L'avvocato che,
per suo incarico, aveva esaminato la questione nel 1 924, l'a­
veva però informata ch'era troppo tardi, perché a quel tempo
il dipartimento del Finistère beneficiava già del diritto di
prescrizione che annullava quelli degli eredi naturali.
lo ero egualmente curioso di conoscere questa tenuta che
la mia bisnonna aveva acquistato al momento del proprio ma­
trimonio col conte di Chauveau, e nel quale aveva trascorso
sotto il secondo impero parecchi anni della propria vita ro­
mantica e movimentata. La visita a Keriolet fu un'ottima oc­
casione per una gita in Bretagna insieme con i Kalasc'nikov,
con mia cugina Zenaide Sumarov diventata la signora Brie­
ger, che abitava allora con noi, e con Kataley, il mio segre­
tario.
Fummo particolarmente favoriti dal tempo. Il pittoresco
porto di Concarneau, dominato dalle mura costruite da Vau­
ban, ci apparve vibrante di luce sotto un cielo senza nubi.
Questa Bretagna soleggiata non si presentava per nulla come
il paese severo, abitualmente velato di brume, che mi aspet­
tavo di vedere.
Debbo confessare che il castello di Keriolet mi deluse. Un
parco splendido lo circonda, ma quel grande e pesante edi­
ficio costruito verso la fine del secolo scorso sulle rovine del­
l'antico maniero, non ha nient'altro di notevole che le propor­
zioni e la bruttezza. Lo si sarebbe detto uno scenario di car­
tapesta preparato per girare un film. Un vecchio custode ce
ne fece visitare l'interno, diventato museo regionale. Costu­
mi, cuffie e mobili brètoni hanno sostituito l'antica mobilia
della quale non sussistono più che certi rivestimenti di legno
assai belli alle pareti e i magnifici arazzi. Ci furono mostrati
l'immancabile "camera del re", la sala delle guardie, i nume­
rosi saloni e la cappella. Mi aggirai per quella dimora che
non mi apparteneva, e nella quale non v'era nulla che mi ri­
cordasse la Russia, con un vago sentimento di proprietà. La
camera della contessa di Chauveau era conservata intatta, co­
me quella di suo marito. Vidi un ottimo ritratto di lei che, per
quanto ero in grado di giudicare, doveva essere di una somi­
glianza perfetta. Notai che gli occhi del custode andavano
dal ritratto a me e viceversa. Finalmente domandò: « Non sa­
reste per caso della famiglia ? ». Fu tutto contento di appren­
dere che ero il pronipote dell'antica proprietaria, perché in
gioventù aveva servito la mia bisnonna, e io ero la prima per:­
sona della famiglia che vedesse da quando ella era morta.
Mi raccontò come l'amministrazione avesse venduto la mobi­
lia senza tener conto della volontà della donatrice. Tale vio­
lazione di una clausola essenziale mi autorizzava, così egli
credeva, a reclamare l'eredità. Non potei se non ripetergli
quello che ci aveva detto l'avvocato, e cioè che nessuna ri­
vendicazione sarebbe stata più ammessa.
Passammo ancora due giorni a Concarneau per visitare
i dintorni. La Bretagna mi aveva interamente conquistato.
Taluni suoi aspetti mi ricordavano la Scozia, che avevo visi-
tato durante il primo soggiorno in Inghilterra. Quel viaggio
gradevole mi avrebbe lasciato soltanto buoni ricordi, se non
fossi tornato da esso con una sinusite che richiese un'opera­
zione e mi fece soffrire assai.
Intanto, a Boulogne, avevamo formato una compagnia di
filodrammatici diretti dalla celebre attrice russa E. Roscina
lnsarova. Le commedie e le riviste messe in scena nel nostro
teatrino ebbero grande successo. Gli attori di cui dispone­
vamo non mancavano né d'ingegno né di spirito. La grandu­
chessa Maria, sorella di Dimitri, la p rincipessa Wassilcikov,
la coppia Uvarov e i numerosi nipoti del nostro grande scrit­
tore Leone Tolstoi erano tra i migliori. Infine, e soprattutto,
v'era la signora Goujon, la quale, russa d'origine ma sposata
a un francese, possedeva una notevole vis comica. Ella avreb­
be potuto fare fortuna come attrice nelle p arti buffe. Una
testa da bull-dog sormontava le sue forme opulente. Portava
sempre lo stesso cappello, ornato di piccolissimi pulcini che
perdevano le piume, e la stessa volpe mangiata dalle tarme.
Recitava alla perfezione, e poteva, vestita come una ballerina
del varietà tipo 1 900, cantare con comicità irresistibile certe
canzonette russe di una volgarità disgustosa.
Disgraziatamente si occupava anche di affari. Questi era­
no sempre estremamente imbrogliati e appartenevano rara­
mente a quel genere di speculazioni che permettono di dor­
mire tra due guanciali. Non appena aveva guadagnato un po'
di denaro, lo spendeva con la maggior rapidità possibile, of­
frendo nel proprio appartamento della rue Bassano feste che
duravano sino all'alba. Alle proteste dei vicini rispondeva
invariabilmente : « Non rompetemi le scatole, la signora
Goujon si diverte ! :..
Avevamo una vecchia amica russa, ottima persona e pun­
to stupida, ma megalomane. Pretendeva sempre di conoscere
tutte le persone che sentiva nominare e affermava che tutti
gli uomini erano innamorati di lei. Molto alta, nonostante l'età
avanzata, non aveva perso nemmeno un centimetro della pro­
pria statura, portava la testa eretta e ostentava in tutte le
circostanze una grande dignità di portamento. Si truccava in
modo eccessivo e si vestiva in modo complicato, con grande
profusione di veli, fiori e piume. L'occhialetto, di cui faceva
un uso continuo, non era sufficiente a salvaguardarla dagli
inconvenienti di una miopia assai prossima alla cecità. Un
giorno ch'era caduta in una chiavica, ne fu tratta da un gio­
vane segretario dell'ambasciata d'Inghilterra che, per sua for­
tuna, passava di lì proprio in quel momento. Per niente scom­
bussolata, ella si raddrizzò, puntò l'occhialetto sul salvatore
e, squadrandolo con aria altera : « Grazie, giovanotto », gli
disse. « Ricevo il giovedì » .
Anche perdonando alla nostra amica questo lato del suo
carattere, che costituiva, tutto sommato, la sua sola bizzar­
ria, non potevamo resistere al piacere di trarne motivo di di­
vertimento. Una sera la invitammo a pranzo insieme con un
altro dei nostri amici, il barone Goc, un simpatico vecchio del
quale gli anni non avevano smorzato il buon umore. Egli
aderì dunque a recitare la commedia che avevo architettato.
Camuffato con una parrucca Luigi XIV i cui riccioli gli ri­
cadevano sulle spalle, lo sguardo nascosto dietro un paio di
grossi occhiali neri, egli doveva passare per un professore
svedese di nome Andersen, amico intimo del re di Svezia.
Pur conoscendo molto bene il barone Goc, e quantunque l'o­
dore di naftalina che emanava dalla sua parrucca fosse tale
da metterla in guardia, la nostra amica non subodorò neanche
per un istante la burla, e per tutto il pranzo non smise di
esaminare curiosamente attraverso l'occhialetto il pseudo pro­
fessore e la sua stupefacente pettinatura.
Non la rividi se non qualche mese dopo. Ella mi disse in
tono di rimprovero: « Felice, non vi perdonerò mai lo scher­
zo che mi avete fatto! Pranzando recentemente col re di Sve­
zia, gli chiesi notizie del suo amico professar Andersen, e
poiché mi parve che la domanda lo stupisse, gli descrissi la
persona in questione. "Non conosco nessun professor Ander­
sen che possegga una chioma tanto opulenta", mi disse il re.
"Siete certo stata vittima di una mistificazione" l> ,
Ho già parlato delle riunioni del sabato a Boulogne. Ma
una volta l'anno, per il Sabato santo, la serata assumeva un
carattere speciale.
La Pasqua, che è sempre stata per i russi occasione di
33 0
grandi feste, è anche il tempo in cui gli emigrati sentono più
dolorosamente il peso dell'esilio: Mosca con tutte le sue chiese
illuminate da migliaia di candele, mentre tutte le campane
del Cremlino annunciano la resurrezione di Cristo!, è una vi­
sione di cui sarebbe impossibile descrivere lo splendore e che,
la sera del Sabato santo, tutti i russi hanno davanti agli oc­
chi. Quella notte le messe che vengono celebrà te nelle nostre
chiese e i canti che le accompagnano sono di una bellezza ec­
cezionale; i fedeli si abbracciano tre volte secondo il rito, di­
cendo: « Cristo è resuscitatol " ·
Un discreto numero di nostri compatrioti veniva a p as­
sare la notte di Pasqua a Boulogne. Un giornalista francese
ne ha parlato con più spirito che esattezza in un articolo in­
titolato: Notti di principi. Attraverso queste righe piene di
fantasia si ritrova tuttavia qualche cosa dell'atmosfera delle
serate di Boulogne:

" 'È Pasqua, Pasqua', cantano gli uccellini nei boschetti


delle Tuileries e del Luxembourg. 'È Pasqua, Pasqua', ripe­
tono i russi di Parigi.
"La sera del Sabato santo, dalle undici in poi, colonnelli
della guardia, cugini dello zar e marescialli della nobiltà ac­
corrono da ogni lato, dai sobborghi prossimi e lontani, da
Clamart e da Asnières, da Versailles e da Chantilly, e si rac­
colgono in folla compatta attorno alla chiesa della rue Daru
per la messa di mezzanotte, celebrata in gran pompa dai pre­
ti e dagli arcipreti, dai popi e dagli arcipopi, e dal metropo­
lita in persona, che non è, come si potrebbe credere, un mez­
zo di comunicazione, ma un altissimo dignitario della Chiesa
ortodossa ( 1 ) . Finita la messa, dopo essersi baciati tre volte
sulla bocca e aver spento la candela che tengono in mano,
gli ultimi boiardi, fiancheggiati dagli ultimi americani d'Eu­
ropa, se ne vanno a fare le ore piccole a Montparnasse o .a
Montmartre, festeggiando con copiose libazioni la resurre­
zione di Cristo.
(1) In francese, il metropolita si chiama c métropolitain > , il che permette al gior­
nalista autore di queste righe di fare un mediocre giuoco di parole riferendosi alla
c métropolitaine > (ferrovia sotterranea) . [N.d.T. [ .

33 1
"Nondimeno, la vera 'notte di principi', la cena che raduna
intorno alle uova dipinte di rosso, al rituale formaggio alla
crema e ai porcellini di latte, gli autentici granduchi e le
belle slave, non svolge i propri fasti né da Kornilov, né al
Pesce d'oro e nemmeno allo Sheherazade, bensì in una caset­
ta di Boulogne, tra innumerevoli fotografie di monarchi più
o meno scoronati. Il buffet è sontuoso, pieno di fantasia ed
eteroclito: salsicce recate da un piccolo danzatore stanno ac­
canto a un tacchino tartufato, donato generosamente dalla
Royal Dutch per il tramite di lady Deterding, e il 'rosso comu­
ne' è mischiato nei bicchieri col più prezioso degli Chamber­
tin e il più raro degli Chateau-Lafitte.
"Scortato dallo stuolo dei fedeli caucasici, il padrone di
casa va da un gruppo all'altro, parla con questi, offre da bere
a quelli, cortese, distante e misterioso, senza tuttavia dimen­
ticarsi neppure per un istante di recitare la propria parte.
Il suo volto fine si illumina di un sorriso felice quando donna
Vera Mazzucchi versa la vodka nel pianoforte o quando Ser­
gio Lifar compie acrobazie appeso a un lampadario.
"Una giovane donna bruna canta con una voce di rame
un po' rauca una melopea zigana, ripresa in coro da quattro
principesse, tre contesse e due baronesse. Ricordandosi del pro­
prio sangue russo, Maria Teresa d'Uzès, prima duchessa di
Francia e nipote di Galizin, dà il bacio pasquale a un sona­
tore di balalaika. I vicini ricordano alle Loro Altezze che so­
no le cinque del mattino, che è ora di andare a letto e di farla
finita con le cerimonie moscovite".

Si può perdonare a questo giornalista di aver caricato il


disegno; lo ha fatto senza cattiveria. Ma bisogna riconoscere
che c'è qualche cosa che gli è s fuggito interamente : il signi­
ficato che questa notte di Pasqua ha per il cuore degli emi­
grati russi.

Nel novembre del 1926, nella chiesa ortodossa di Biarritz,


fu celebrato il matrimonio del granduca Dimitri con una bel­
lissima americana, Audrey Emery. Ero contento per Dimitri
33 2
che sembrava aver finalmente messo ordine nella propria VI­
ta, ma avevo qualche dubbio circa la durata di quella feli­
cità coniugale ; avrei giurato che nulla gli era più estraneo
dalla mentalità americana. Erano passati sei anni dal nostro
ultimo incontro. Lo avevo visto con tristezza, senza poter far
nulla per aiutarlo, rovinare la propria vita di proposito. Egli
era uno di quegli esseri che vivono chiusi entro un mondo
interiore, impermeabili all'amicizia non meno che all'amore.
Quale sarebbe stato il risultato di quest'ultima esperienz a ?
M i auguravo, senza tuttavia sperarci molto, che trovasse final­
mente la felicità.

Nel 1 927 corse voce che la strage della famiglia imperiale


a Ekaterinburg aveva lasciato una sopravvissuta : si diceva
cioè che la granduchessa Anastasia, ultima figlia dello zar Ni­
cola II, fosse riuscita a fuggire e si trovasse in Germania.
Avevamo serie ragioni per accogliere con scetticismo la
notizia. Il giudice istruttore Nicola Sokolov, che aveva com­
piuto l'inchiesta ordinata dall'ammiraglio Kolciak nel 1 9 1 8,
poco dopo il dramma, aveva potuto stabilire con sicurezza
che i nostri sovrani e tutti i loro figli, senza eccezione, erano
morti assassinati. Sedicenti zarevic e false granduchesse era­
no apparsi ugualmente a varie riprese in luoghi diversi, ma
nessuno li aveva mai presi sul serio.
Questa volta l'imbroglio doveva essere stato ordito meglio,
perché sta di fatto che molta gente si lasciò ingannare e che
i comitati costitultisi per venire in aiuto della sedicente gran­
duchessa raccolsero somme notevoli. Tuttavia, nessuno di
quelli che caddero nella pania e lasciarono s fruttare così la
propria ingenuità, aveva conosciuto personalmente i figli del­
la coppia imperiale. Questo, naturalmente, non era il caso
della granduchessa Olga, sorella dell'imperatore ; della prin­
cipessa lrene di Prussia, sorella dell'imperatrice ; né della ba­
ronessa Buxhoevden, dama d'onore di quest'ultima ; né, infine,
di Pietro Gillard, precettore dello zarevic, e di sua moglie,
per citare soltanto qualcuna delle persone dell'ambiente vis­
suto in contatto immediato con i sovrani, che videro la sedi-

333
cente granduchessa e le parlarono. Tutti costoro furono d'ac­
cordo nel denunciare l'impostura, ma se la loro testimonianza
fu sufficiente a convincere i parenti prossimi e gli intimi del­
la famiglia imperiale, essa non riuscì ad arrestare la campa­
gna organizzata intorno alla falsa Anastasia.
Quell'anno mi trovai a passare per Berlino, dove incontrai
un medico russo, il professar Rudniev, che era uno dei più
ardenti partigiani della falsa Anastasia.
La mia convinzione era troppo radicata perché potesse
essere scossa dai suoi racconti entusiastici, tuttavia fui cu­
rioso di conoscere per il suo tramite gli organizzatori della
faccenda e di vedere la persona che questi pretendevano far
passare per la figlia dello zar. Mi fu detto che ella si trovava
al castello di Seéon, proprietà del duca di Leuchtenberg, nei
dintorni di Monaco, dove Rudniev mi propose di condurmi.
Notai come questi, durante il tragitto, insistesse grandemenfe
nell'avvertirmi che i colpi di fucile e di baionetta ricevuti al
volto della "granduchessa" l'avevano resa irriconoscibile.
A Seéon, ci fu detto che "sua altezza imperiale" era indi­
sposta e non riceveva nessuno. Tuttavia un'eccezione fu fatta
per il professore Rudniev, che salì nella di lei camera. Tornò
in capo a un istante per comunicarmi la gioiosa emozione che
l'annuncio della mia visita aveva, così egli diceva, provocato
nell'ammalata. « Felice ! », pare che ella avesse gridato. « Che
gioia rivederlo! Ditegli che mi vesto e scendo subito. C'è an­
che lrina? » .
Tutto ciò aveva qualcosa di falso. Non potevo dubitare
che quella gioia fosse finta, a meno che Io stesso Rudniev non
l'avesse inventata per le necessità della causa. Fui pregato
di attendere in giardino dove, un quarto d'ora dopo, vidi ar­
rivare la pseudo granduchessa appoggiata al braccio del pro­
fessore, che era risalito a prenderla.
Anche se non avessi avuto ragione di concepire alcun dub­
bio, mi sarei accorto subito di trovarmi al cospetto di un'at­
trice che recitava assai male la parte. Nulla in lei, né i linea­
menti, né la figura, né il contegno, ricordava nessuna delle
figlie dell'imperatore. Ella era soprattutto ben lungi dal pos­
sedere quella naturalezza e quell'innata semplicità, appan-
334
naggio della famiglia imperiale, e che in nessun modo i colpi
di fucile e di baionetta (di cui, comunque, il suo volto non
recava traccia alcuna) avrebbero potuto distruggere. La no­
stra conversazione fu breve e insignificante. Le rivolsi la pa­
rola in russo; ella mi rispondeva in tedesco, lingua che i figli
dello zar conoscevano assai male. In compenso non sa peva
una parola né di francese né d'inglese, che essi parlavano
invece alla perfezione. In mancanza di altre prove, la mia
visita a Seéon sarebbe stata sufficiente a convincermi del­
l'inganno.
Un'inchiesta p rivata intrapresa l'anno dopo col concorso
della polizia di Berlino rivelò che la sedicente granduchessa
era una semplice operaia di origine polacca, di nome Fran­
cesca Schanzkowska. Sua madre viveva ancora con due figli
e altre due figlie in un villaggio della Pomerania orientale.
Tutta la famiglia riconobbe senza esitazione Francesca n elle
fotografie che le furono mostrate. Sin dal 1 920 la ragazza era
scomparsa e i parenti non avevano più potuto trovarne le
tracce. Un'inchiesta ufficiale venne più tardi a confermar e le
conclusioni dell'inchiesta privata.
Tutta la faccenda si fondava sulla convinzione general­
mente accettata che capitali importanti, costituenti la for­
tuna personale dell'ultimo zar, fossero rimasti in deposito
presso banche straniere. La sopravvivenza di un erede na­
turale era indispensabile p er poter mettere le mani sull'ere­
dità. Soltanto pochi valori ammontanti a una somma minima
erano invece restati in una banca di Berlino.
Fu così che Francesca dovette la propria elevazione al
rango di granduchessa a una banda di bricconi risoluti a im­
possessarsi di un'eredità inesistente.

Ero appena rientrato a Parigi che riapparve sul mio oriz­


zonte il maragia d'Alwar. Questa volta ero ben deciso a non
farmi trovare, e, quando chiese di vedermi, gli feci rispondere
che ero partito per Londra. Allora andò a cercarmi in Inghil­
terra. Non avendomi trovato là, tornò a chiedere di me a
Boulogne, dove gli fu risposto che ero a Roma. Quando seppi

335
che correva alla mia ricerca su e giù per l'Italia, telegrafaì
a mia madre pregandola, per il caso che il maragia fosse an­
dato a chiederle di me, di dirgli che ero in Corsica. La pre­
cauzione non era inutile. Ben presto, infatti, mia madre mi
segnalò il suo passaggio. "Chi è dunque questo maragia che
ti cerca dappertutto, e che cosa vuole da te?", mi domandava.
Sarei stato molto imbarazzato a risponderle. Sapevo con asso­
luta certezza che egli nascondeva qualche progetto a mio ri­
guardo: me lo aveva lasciato capire più volte, senza tuttavia
spiegarsi più chiaramente. Le sue vere intenzioni restavano
un enigma per me. Dovevo averne la spiegazione, un giorno,
ma quel giorno non era ancora giunto.
Seppi che era tornato a Parigi furibondo. In seguito a
tale delusione cessò di perseguitarmi e, per un periodo di
tempo abbastanza lungo, non diede segno di vita.

La signora Whobee mi considerava ormai come un amico


e un confidente di cui non poteva più fare a meno. Tutta la
vita di quella donna si riassumeva nelle due parole "crapula"
e "dissolutezza". Il mondo in cui viveva si componeva unica­
mente di persone che, oltre alla caccia e alle corse, non s'occu­
pavano d'altro che di bere bene, mangiare meglio e fare al­
l'amore quando ne capitasse l'occasione. Nessuno si era mai
reso conto, e lei meno di ogni altro, che quel corpo mostruoso
celava un cuore d'oro e un'anima che lei stessa imparava,
così almeno pensavo allora, a scoprire gradualmente. Gli ar­
tisti, e in special modo i musicisti che avevo condotto da lei,
divennero ben presto gli abituali frequentatori dell'apparta­
mento dell'avenue Friedland, come della sua casa di campa­
gna. La musica russa e le canzoni zigane furono per lei una
rivelazione. Scoprii che possedeva una voce commovente, un
timbro che sconvolgeva al punto da indurre al pianto. Rivedo
ancora l'espressione dei suoi begli occhi la prima volta che
acconsentì a cantare, accompagnata dalla signora Petrowsky,
musicista e accompagnatrice notevole. Ella aveva un ottimo
orecchio e apprese rapidamente le canzoni russe e zigane che
cantava in modo magnifico. Potevo ascoltarla ore e ore senza
stancarmi.
I capricci di "Bibì", così chiamavamo tra noi la signora
Whobee, assumevano a volte la forma di una generosità ec­
cessiva e inaspettata. Vedendo la sua nuova passione per la
musica, avevo condotto da lei uno dei miei più cari amici
russi, Vladimiro di Derwies, che possedeva una magnifica voce
e qualità pianistiche ben superiori a quelle di un semplice
dilettante. Avendolo la signora Whobee invitato a pranzo in­
sieme con la moglie, io mi trovai a tavola tra la padrona di
casa e la baronessa di Derwies. Durante il pranzo Bibì si tolse
un braccialetto di diamanti e me lo mise al polso. « Mi sembra
che questo gioiello starebbe meglio alla mia vicina :., dissi to­
gliendomi a mia volta il braccialetto e mettendolo al polso
di quest'ultima.
Avevamo preso la cosa come uno scherzo, ma quando la
signora di Derwies volle restituire il braccialetto, Bibì rifiutò
di riprenderlo. « Tenetelo :., disse, « è vostro :.. Il giorno dopo,
a sua volta, lrina riceveva un mazzo di rose tenuto insieme
da un fermaglio di diamanti.
Un giorno che ero a colazione dai Whobee, ebbi l'impru­
denza di annunciare che stavo per partire per Bruxelles, dove
avrei dovuto passare alcuni giorni per vedere il generale Wran­
gel e trattare un affare. Bibì dichiarò immediatamente che lei
e suo marito mi avrebbero accompagnato. L'idea non sem­
brava entusiasmare Whobee, ma egli non si sarebbe mai arri­
schiato a contrariare un desiderio di sua moglie.
La partenza fu epica. Alla stazione, Bibì fu caricata su un
carrello da bagagli per essere portata sino al treno, e ci vol­
lero non meno di quattro facchini per issarla sul vagone, fa­
cendola passare di profilo dallo sportello. Tutto il posto ri­
masto libero nello scompartimento fu occupato dai suoi nu­
merosi bagagli. Venne aperto un paniere che conteneva ciba­
rie e champagne, e compiemmo il viaggio mangiando e be-
vendo. ·

A Bruxelles prendemmo alloggio nello stesso albergo: do­


vevamo ritrovarci la sera per il pranzo, così che, quando ebbi
sfatto la valigia, lasciai l'albergo per i miei appuntamenti. Al

337
ritorno, il portiere mi annunciò che la signora Whobee aveva
litigato col direttore per un pianoforte che questi aveva rifiu­
tato di far portare nella sua camera, e che i due sposi avevano
lasciato l'albergo. Mi diede l'indirizzo della casa che Bibì ave­
va preso in affitto e dove questa mi pregava di raggiungerla al
più presto.
Bibì non aveva perso un momento e la casa portava già
il suo segno. Quanto a lei, stava seduta, col suo bravo koko­
sc'nik in testa, insieme con il marito davanti a un pranzo ser­
vito quasi per incanto. Whobee beveva in silenzio e sembrava
di pessimo umore, al contrario di sua moglie che aveva l'aria
trionfante di un bambino che ha messo nel sacco i genitori.
« Rarità », mi disse vedendomi, « eccovi finalmente qui ! lo
detesto gli alberghi. Tutti i direttori sono dei sudicioni e degli
idioti, e mi disgustano ... Ho preso in affitto questa casa per tre
mesi e ho fatto chiamare alcuni musicisti russi che saranno
qui tra poco. Sedetevi, mangiate e bevete... Non avete abba­
stanza affari a Parigi, per correre a Bruxelles a scovarne al­
tri? ... Sono pazzie ! ».
I musicisti di un locale notturno arrivarono durante la
cena, e la serata terminò gradevolmente.
Il giorno dopo, all'alba, la signora Whobee mi faceva chia­
mare. La trovai seduta in mezzo al letto; piangeva a calde
lacrime.
« Willy! Ho perduto Willy ! », diceva tra i singhiozzi. c: Se
ne è andato stanotte. lo lo adoro, non posso vivere senza di
lui ... Rarità, aiutatemi a ritrovarlo! » .
Mi tendeva u n biglietto tutto spiegazzato che suo marito
le aveva lasciato andandosene : "Cara Anna, parto e non tor­
nerò più. Buona fortuna. Willy".
Telefonammo a Parigi, in avenue Friedland. Il barone Tur­
pin rispose che Willy non si era visto, ma che se fosse arri­
vato la signora ne sarebbe stata subito avvertita.
Intanto la signora Whobee aveva deciso di tornare subito
a Parigi e di fare quanto era possibile per ritrovare il fug­
giasco. Durante tutto il viaggio bevve e pianse, e più beveva,
più piangeva. La polizia fu subito messa al corrente, e l'ap­
partamento dell'avenue Friedland si empì di poliziotti, pro-
338
fessionisti e privati. Troneggiando in mezzo a essi come un
generale circondato dallo stato maggiore, la signora Whobee,
in kokosc'nik e camicia da notte, li sovraccaricava di ordini
contraddittori e bizzarri. Scorgendo improvvisamente un gio­
vanotto che, per dire la verità, aveva più l'aria di un becchino
che di un poliziotto, lo apostrofò in modo veemente :
« E tu, faccia di c ... , con la tua aria da funerale ! Che c . ..
fai qui ? Dovresti essere già tornato ».
Finalmente Willy fu scoperto a Nizza, in una pensioncina
di famiglia dove si era nascosto. Bibì chiese la propria auto­
mobile, e partì immediatamente per la Costa Azzurra. Tornò
qualche giorno dopo, riportando suo marito all'ovile, con la
coda tra le gambe e più morto che vivo.
CAPITOLO XXIX
(1927)

Il mio libro è seDeramente criticato - Un aDDertimento so­


spetto mi fa partire per la Spagna - "La Reina de Ronda" -
Accoglienza amicheDole dei catalani - Notizie preoccupanti
da Boulogne - Passo la frontiera di nascosto - MalDersazioni
e fuga del mio amministratore - Schiarimenti sul mio inDio
in Spagna - La signora Vanderbilt salDa una situazione di­
sperata - I Whobee si stabiliscono a Boulogne - Un indoDino
Diennese - Falco di Lareinty.

L a pubblicazione de La fin de Raspoutine sollevò contro


di me una parte della colonia russa e mi valse una valanga
di lettere piene di insulti e persino di minacce; in maggioran­
za anonime, com'è d'uso.
Qual era la mia colpa? Quella di aver narrato in modo
veridico un fatto storico mal noto e sempre interpretato in
modo erroneo dagli stranieri, i quali avevano un'idea affatto
approssimativa di ciò che era accaduto in Russia. Avevo detto
perché avessi ritenuto di dover riaprire quella pagina di un
passato doloroso e, allora, ancora recente, facendo testimo­
nianza di ciò che io stesso avevo visto e udito. "Non abbiamo
il diritto di tramandare alla posterità delle leggende", scri­
vevo nella prefazione. Il mio unico scopo era stato di distrug­
gere quelle leggende che minacciavano di prendere corpo per
effetto di racconti menzogneri o tendenziosi, e che venivano
rese di pubblica ragione sotto forma di libri, di articoli di
giornale, di commedie o di films.
Il mio libro veniva maggiormente criticato negli ambienti
d'estrema destra. Non avrei mai creduto che il "rasputinismo"
fosse ancora tanto solidamente ancorato in taluni spiriti. Que­
ste persone, che organizzavano conferenze nelle quali perora-

340
vano durante ore e ore per dimostrare che il mio libro era Wl
vero scandalo e che io avevo insultato la memoria dell'impe­
ratore e della sua famiglia, non avevano in realtà da rimpro­
verarmi che una cosa : quella di aver mostrato quale fosse il
vero volto de] "sant'uomo".
Per fortuna trovai un largo compenso alle critiche e alle
ingiurie nelle approvazioni che ricevetti da altre persone, spe­
cialmente da quell'uomo stimabile ed eminente ch'era il me­
tropolita Antonio, capo della Chiesa ortodossa nell'emigra­
zione. La sua unica riserva non riguardava menomamente ciò
che mi era imputato dagli altri come un delitto : "Solo un leg­
gero sospetto di costituzionalismo occidentale, estraneo allo
spirito russo", mi scriveva, "mi vieta di accordare un premio
d'eccellenza a questo libro. In compenso, il vostro amore p er
lo zar e la Russia, come per la fede ortodossa, induce il lettore
alla più calda approvazione".
Non dovevo tardare a conoscere altre seccature. Una sera
- o piuttosto una notte - ricevetti la visita di una parente di
mia moglie, la quale mi spiegò la sua apparizione in quell'ora
indebita con l'importanza e l'urgenza del motivo che l'aveva
condotta a casa nostra. Ella affermava infatti di essere stata
incaricata dal ministro degli Interni di avvisarmi che dovevO'
lasciare immediatamente la Francia, e ciò per evitare che il
mio nome venisse coinvolto pubblicamente con quelli delle
persone compromesse nello scandalo dei falsi biglietti di banca
ungheresi, di cui allora tutti i giornali erano pieni. II mini­
stro, desideroso di risparmiare seccature alla famiglia impe­
riale, con la quale mi sapeva imparentato, aveva inviato da
lei il proprio segretario particolare per p regarla di fare quel
passo presso di me.
Ero al colmo della stupefazione! Frattanto la mia visita­
trice insisteva perché partissi, anche se l'accusa era ingiusti­
ficata, cosa di cui mi faceva la grazia di affermarsi sicura.
Aveva con sé, nella borsetta, due lasciapassare p er la Spagna,
uno per me e uno per il mio domestico. Irina, niente affatto
impressionata, mi consigliò di non tener conto di un avverti­
mento che le pareva sospetto. Era anche la mia impressione, e
la prima reazione era stata di rifiutarmi di lasciare Parigi. Ma,
considerando la personalità della mia visitatrice, di cui non
potevo mettere in dubbio la buona fede, e desideroso soprat­
tutto di evitar noie alla famiglia di lrina, presi la decisione
di partire.
Novembre non è il mese più. propizio per visitare i paesi
meridionali che vogliono sole e calore. Col freddo e con la
pioggia la Spagna non ebbe alcun fascino per me. Trovai Ma­
drid glaciale, e si sarebbe detto che più andavo verso il sud,
più la temperatura scendesse. A Granata, tuttavia, la mia
ammirazione resistette a tutte le intemperie ; però mi augurai
di rivedere un giorno i giardini dell'Alhambra con un tempo
più clemente.
Andando da Granata a Barcellona, mi fermai a Ronda,
una deliziosa cittadina dove mi proponevo di passare la notte
e la mattinata del giorno dopo. C'ero da appena poche ore
quando mi fu consegnato un invito a pranzo della duchessa
di Parsent. Il nome mi era ignoto. Il portiere dell'albergo,
interrogato, mi disse che quella signora era una tedesca che
abitava da molto tempo nella città di cui era diventata la
benefattrice. Veniva chiamata la Reina de Ronda. L'albergo
aveva l'incarico di segnalarle gli stranieri di passaggio ed ella
invitava a pranzo quelli che le sembravano degni d'essere
conosciuti. "Un'altra originale", pensai, avviandomi per an­
dare da lei.
Trovai una donna deliziosa sotto tutti i punti di vista, che
mi ricevette come una vecchia conoscenza. Infatti scoprimmo
ben presto di avere parecchi amici comuni. La sua abitazione,
la Casa del Rey Moro, era un sogno, prodotto felice dell:unio­
ne tra il carattere spagnuolo e le comodità inglesi. La duchessa
mi offrì di far ritirare i bagagli all'albergo se avessi accettato
di trascorrere la notte sotto il suo tetto, proposta che accettai
senza farmi pregare.
Nuovi invitati arrivarono, non meno ignoti alla padrona
di casa di quanto lo fossi io pochi minuti prima. Il pranzo fu
molto gaio, appunto per quel che v'era in esso d'imprevisto
e per l'assenza di qualsiasi formalismo. Lo spirito, la genti­
lezza e l'umorismo della nostra ospite contribuirono a fare

34 2
della serata uno di quei rari momenti di cui a volte ci fa pia�
cere rievocare il ricordo.
Il giorno dopo, prima della mia partenza, la duchessa mi
fece visitare le scuole e i laboratori da lei fondati. E qui com­
perai alcuni oggetti per ricordo delle ore passate in compa­
gnia della gentile Reina de Ronda.
Stanco degli alberghi di second'ordine dove il cibo era dete­
stabile e dove morivo di freddo, al mio arrivo a Barcellona
non esitai a farmi portare al RHz. Mi rimaneva ben poco de­
naro, ma non me ne preoccupavo esageratamente. Siccome
l'imprevidenza, che è la regola della mia vita, aveva ricevuto
sempre la giustificazione dei fatti, ero certo che anche quella
volta, al momento giusto, le cose sarebbero andate a posto.
Ritrovai a Barcellona parecchi spagnuoli che avevo già
incontrato a Parigi. Essi mi fecero conoscere i loro amici, la
maggior parte dei quali abitava in campagna, e in pochi giorni
mi trovai in relazione con tutta la città e dintorni. I catalani
sono gentili e ospitali. In nessun paese ho trovato un'acco­
glienza più semplicemente amichevole né una simpatia che
mi sia parsa più sincera.
Ero ancora a Barcellona quando ricevetti da lrina una
serie di lettere disperate. Da quando ero partito, il contegno
di Jacovlev, il nostro amministratore, le era parso sospetto.
Jacovlev le chiedeva continuamente la sua firma, ed essa sen­
tiva di non dovergliela concedere, particolarmente quando
egli aveva tentato di farle firmare una autorizzazione per la
vendita di tutti i gioielli che ci rimanevano.
Deciso a tornare in Francia checché potesse accadere, av­
visai lrina del prossimo arrivo, raccomandandole di rifiutare
da ora in poi di firmare qualsiasi foglio. Inviai il mio p assa­
porto alla persona che mi aveva p rocurato il salvacondotto,
spiegandole come fosse urgente che io tornassi a Parigi e p re­
gandola di ottenere per me un visto p er il Belgio, d'onde con­
tavo di poter tornare a casa senza difficoltà. Mi venne rispo­
sto che dovevo restare dove mi trovavo; del mio passaporto,
neanche una parola.
Uno degli amici di Barcellona al quale confidai il mio im­
barazzo mi offrì di condurmi in automobile sino alla frontiera

343
e di farmela passare. Lasciai le valige all'albergo, affidandone
la sorveglianza al mio domestico, e la sera stessa arrivavamo
al villaggio montano di Puigcerdà. Venuta la notte, cammi­
nando per sentieri sepolti sotto la neve nella quale sprofon­
davamo sino al ginocchio, raggiungemmo la frontiera, che
varcai senza incidenti.
Sorgeva il giorno quando giunsi a Font Romeu, spossato
da varie ore di marcia in montagna, ma talmente abbagliato
dalla bellezza di quello scenario di neve sotto il sole levante,
che dimenticai la stanchezza.
Mia prima cura fu di telefonare a lrina per rassicurarla.
Le dissi di mandarmi immediatamente Kataley con abiti di
ricambio e le assicurai che mi avrebbe riveduto prestissimo.
Quando arrivò, Kataley aveva l'aria di un'ombra. Seppi al­
lora tutto ciò ch'era accaduto durante la mia assenza. Ero
sufficientemente informato della condotta di Jacovlev, ma, co­
me mi era facile immaginare, egli non era il solo in causa.
lrina mi aspettava alla stazione con uno dei più vecchi
amici, il principe Michele Gorciakov ; avevano entrambi il
viso sconvolto. Mi dissero che all'annuncio del mio ritorno
Jacovlev era fuggito, e che non si riusciva a trovare le sue
tracce. Quanto alla persona che mi aveva spedito in Spagna,
era partita per l'America. E tuttavia sapevo che Jacovlev
non era una canaglia, ma soltanto un uomo debole. Quando,
tre anni dopo, preso dai rimorsi, venne a implorare il mio
perdono per il male che ci aveva fatto, non mi fece sapere
nulla di nuovo dicendomi che in quella disgraziata faccenda
egli non era stato altro che uno strumento.
lrina, estenuata da tante preoccupazioni, era assai dima­
grita e con i nervi a pezzi. Mi sentivo pieno di rimorsi per­
ché mi consideravo in parte responsabile di ciò, ed ero pro­
fondamente addolorato che la mia fiducia fosse stata tradita.
Non era la prima volta e non doveva essere l'ultima, ma la
diffidenza non entra nel mio carattere né nei miei princìpi;
essa ci pone a rischio di ferire le persone oneste e di rendere
le altre più disoneste di quel che sono. Io mi fido a priori
della gente, e, a dispetto delle numerose delusioni che questo
principio mi ha procurato, gli sono rimasto sempre fedele.

344
La cosa p iù urgente era trovare qualcuno per sostituire
Jacovlev e mettere ordine in una situazione nella quale il
caos regnava sovrano. Conoscevo un russo, Arcadio Polunin,
che il generale Wrangel mi aveva descritto come uomo di
provata onestà e molto pratico d'affari. Lo incaricai di sbro­
gliare i nostri. Sua prima cura fu di chiarire il mistero del
mio invito in Spagna. Grazie alle sue amicizie negli ambienti
politici, la cosa non richiese che pochi giorni. Un'inchiesta
ordinata da Briand rivelò che mai il mio nome era stato p ro­
nunciato nella faccenda delle false banconote ungheresi, e
che mai il ministro degli Interni aveva inviato il p roprio
segretario alla persona ch'era venuta a trovarmi da parte sua.
Quella storia era stata dunque architettata di sana pianta,
evidentemente con lo scopo di allontanarmi da Parigi e faci­
litare così la consumazione della nostra rovina.
Non bastava avere un amministratore : occorreva trovare
il denaro necessario per far fronte alle scadenze e salvare i
gioielli messi in pegno. Un greco ricchissimo, di nome Vaglia­
no, mi aveva detto che in caso di difficoltà avrei potuto sem­
pre rivolgermi a lui. Pieno di fiducia nel risultato del mio
passo, sonai dunque alla porta del suo palazzo in avenue du
Bois. Ma quando mi vedevo già fuori dai guai, il portinaio
mi disse: « Il signor Vagliano è morto l'altro ieri > .
Grazie a Polunin potevamo ancora resistere. Egli s i faceva
in quattro per salvare una situazione che a volte sembrava di­
sperata, ma era solitamente in questi momenti che, in un
modo o nell'altro, arrivava la salvezza. E così accadde, un
giorno, alla Casa lrfé. Era la fine del mese. V'erano da pa­
gare grosse somme, e non un soldo in cassa. Quella mattina
arrivai in rue Duphot con le tasche vuote, ma, come sempre,
fiducioso e pieno di speranza. Alle undici la cara amica si­
gnora Vanderbilt entrava come una folata di vento nel mio
ufficio. Arrivata il giorno precedente da New York, la sua
prima visita era stata per la nostra casa. Capitando in un'at­
mosfera di catastrofe, aveva interrogato la direttrice, signora
Barton, che l'aveva informata della situazione. < Felice :. , mi
domandò, < perché non mi avete scritto? Di quanto avete bi-

345
sogno? ». E, tirando fuori il libretto di assegni, ne staccò uno
su cui scrisse la cifra da me indicata.
La signora Whobee, avendo avuto notizia delle difficoltà
in cui ci trovavamo, ci propose di acquistare la nostra casa
di Boulogne, }asciandoci l'uso del locale in cui avevo fatto
costruire il teatro. Non potevamo nascondere a noi stessi i
molteplici inconvenienti di una simile coabitazione. La pro­
spettiva di avere Bibì continuamente alle costole, di subire
il suo dispotismo, non era tale da allettarci, tuttavia la situa­
zione era così disperata che non ci rimaneva altra via d'u­
scita. Questa risoluzione, dettataci dalla ragione, implicava la
partenza dei nostri numerosi locatari. Tutti però dimostrarono
molta comprensione e molta buona volontà, e la casa si vuotò
rapidamente. La coppia Whobee s'installò nell'edificio princi­
pale, e noi nell'appartamènto sopra il teatro.

Mentre eravamo così alle prese con queste gravi difficoltà


finanziarie, un viennese che si spacciava per indovino mi
scrisse per offrirmi i propri servigi.
Non era la prima volta che ricevevo lettere del genere.
Persone che si occupavano di scienze occulte credevano di
vedere negli eventi della mia vita passata influssi p iù o meno
malefici, affermavano di poterli combattere e mi offrivano
protezione. Sino a quel giorno nessuna di tali lettere aveva
presentato ai miei occhi un interesse sufficiente per indurmi
a rispondere ; ma stavolta il caso era diverso. L'analisi molto
giusta che quello sconosciuto faceva del mio carattere e, so­
prattutto, le indicazioni di un'inquietante esattezza datemi
da lui su certe circostanze della mia vita ch'ero certo d'essere
solo a conoscere, erano fatti abbastanza sorprendenti
per trattenere la mia attenzione e spingermi a rispondergli
che, quando fosse capitato a Parigi, lo avrei visto volentieri.
Poco tempo dopo, egli mi annunciò il suo arrivo. Aven­
dogli dato appuntamento, vidi presentarmisi un individuo
scheletrico i cui occhi splendevano stranamente in un volto
esangue. Indossava un abito nero che accentuava notevol­
mente il suo aspetto morboso, e impugnava un lungo bastone
346
dal manico d'argento ricurvo come un p astorale da vescovo.
V'era in lui un non so che di ecclesiastico e nello stesso tem­
po di funebre. Per quanto poco attraente, quell'uomo mi ispi­
rava una curiosità abbastanza viva per darmi il desiderio di
metterlo alla prova ; lo invitai dunque a p ranzo a Boulogne.
La vodka che gli offrii e che apprezzò in modo particolare
ebbe come primo effetto di fargli perdere ogni ritegno. Pren­
dendosela successivamente con tutte le persone p resenti, ten­
ne loro discorsi indiscreti, rivelando così ciò che ognuna di
esse avrebbe certamente preferito di mantenere segreto: c: Vo­
stra moglie v'inganna con un ufficiale francese ch'è il padre
dei vostri figli », disse a uno dei nostri amici. E al mio povero
domestico che non gli chiedeva nulla disse che si era p re­
so la sifilide. Terminata la dimostrazione, ebbe una crisi di
lacrime e finalmente ci lasciò non senza averci baciato la
mano e impartito la benedizione.
La sua partenza non bastò a dissipare l'imbarazzo e il
malessere provocati dalla sua presenza, e gli astanti rimasero
tutti sotto una sgradevole impressione. Irina, per ciò che la
riguardava, lo aveva trovato detestabile sin dal primo mo­
mento.
Frattanto la signora Whobee, che non ignorava nulla di
ciò che accadeva in casa nostra, avendo saputo di questa vi­
sita, voleva assolutamente che le portassi il mago viennese.
Siccome egli vi si rifiutava con non minore risolutezza, essa
mi pregò di accompagnarla da lui, e io commisi l'imprudenza
di acconsentire. Fatta fermare la vettura davanti al palazzo
in cui questi abitava, Bibì mi mandò a pregarlo di scendere, o
quanto meno di affacciarsi alla finestra. Ma quando, dopo es­
sersi fatto lungamente pregare, egli apparve fu accolto da
una sfilza d'ingiurie quali certamente non aveva mai udito
in vita sua. Di tutti i nomi bizzarri dei quali fu gratificato,
quelli di "embrione di pulce" e di "schnitzel viennese" fu­
rono i più insignificanti. I passanti cominciarono a far croc­
chio e ben presto una folla curiosa e divertita si trovò raccol­
ta davanti al palazzo. Ebbi un bel da fare a calmare Bibì
e a portarla via. Quanto al nostro indovino, mi serbò ran­
core di questa faccenda della quale mi considerava respon-

347
sabile. Le nostre relazioni finirono molto presto, ma debbo ri­
conoscere che, sino a quando durarono, i consigli ch'egli mi
diede si rivelarono eccellenti, e io sono tuttora persuaso che
avesse il sincero desiderio di essermi utile. Evidentemente era
uno di quei pazzoidi di cui mi divertivo a far collezione. Se­
condo qualcuno, egli raccontava a chi voleva starlo a sentire
di essere figlio di mio padre e di · una granduchessa.

Un pomeriggio, poco dopo il mio ritorno dalla Spagna,


vidi arrivare a Boulogne un ragazzo alto e bello, d'aspetto
sportivo, che si presentò come mio cugino : il conte Folco di
Lareinty-Tholozan, ufficiale d'aviazione. Mi ricordavo di aver­
lo conosciuto bambino, ma da quel tempo Io avevo perso com­
pletamente di vista e ignoravo che ci fosse tra noi un legame
di parentela. Parlando con una tale rapidità che facevo fa­
tica a seguirlo, Folco cominciò a spiegarmi come avesse spo­
sato una russa, Zenaide Dimidov, e come il secondo marito
della madre del padre di sua moglie fosse il fratello di mio
padre, circostanza che faceva di lui un mio cugino.
Non giungerò ad affermare che l'evidenza di questa spie­
gazione mi saltasse agli occhi, ma la gentilezza e la fantasia di
cui era fornito, aveva di prim'acchito assicurato la mia sim­
patia a quel cugino improvvisato, per cui accettai senza ai­
scutere una parentela che rimaneva per me abbastanza ne­
bulosa. Non ebbi a pentirmene. Folco e la sua deliziosa mo­
glie Zenaide, che veniva chiamata Zizì, incerti cugini, diven­
nero ben presto veri amici.
Naturalmente la signora Whobee non tardò molto a sco­
prire l'esistenza di Folco e volle subito conoscerlo. Il loro in­
contro avvenne, assai inopinatamente, una sera che pranzavo
a quattr'occhi con lei. Obbedendo a un capriccio assai simile
a quello che aveva avuto in precedenza il maragia, essa mi
aveva chiesto di travestirmi da principe indù, mentre lei si
metteva in testa il famoso kokosc'nik del quale non era an­
cora stanca. Ci eravamo appena messi a tavola quando venne
annunciato l'arrivo di Lareinty.
c: Fatelo entrare :. , esclamò Bibì, < voglio vederlo :..
Folco fu introdotto, e rimase stupefatto di vedere la si­
gnora Whobee con un copricapo russo e il suo invitato ve­
stito all'orientale.
« Avete l'aria di una mucca che guarda passare un treno :.,
gli dichiarò Bibì. « Sedetevi e raccontatemi la vostra paren­
tela con Rarità ».
Alquanto sconcertato, Folco sedette e cominciò la sua sto­
ria. Ella la ascoltò da principio con attenzione, poi con sem­
pre maggiore impazienza. Bruscamente lo interruppe:
« Allora, il nonno di vostra moglie era lo zio di Felice? ».
« No, era il suo secondo marito », disse Folco perdendo
la testa.
Bibì urlò per la rabbia.
« Basta ! Chiudi la bocca, imbecille ! Ferma la tua mitra­
gliatrice. Mi rompi i c ... ! » .
Poche volte c i era capitato d i ridere come quella sera.
CAPITOLO XXX
(1928)

NuoDe diffamazioni - Morte del generale Wrangel - Le Lac -


Un affare andato a monte a Vienna - A DiDonne con le si­
gnore Pitts - Partenza in gruppo per CalDi - Morte di mio
padre - La figlia di Rasputin mi fa causa - ConDinco mia
madre a installarsi a Boulogne - Griscia.

Lattenuto a Parigi dalla situazione spaventosa trovata al


mio ritorno, non avevo più visto il generale Wrangel dopo
la mia avventura spagnuola. Non appena mi fu possibile as­
sentarmi, corsi a Bruxelles. Ve.dendomi arrivare, il generale
gettò un'esclamazione e mi tese il giornale che stava leggendo :
« Ebbene, Felice, non perdete il vostro tempo a Parigi.
Vedete un po' che cosa si scrive di voi ».
Era il numero del 10 gennaio 1928 del giornale Dni (l gior­
ni) , quotidiano russo di Parigi che apparteneva ad Alessan­
dro Kerensky, alias Aronne Kirbis, ed era sconfessato da tut­
ti i russi onesti e bene informati. L'articolo raccontava che
ero stato compromesso in una faccenda da processo a porte
chiuse, complicata da uno scandalo finanziario che avrebbe
potuto portarmi ai lavori forzati, ma che tutto era stato limi­
tato a un decreto di espulsione. Il giorno dopo, lo stesso gior­
nale entrava nei particolari più rivoltanti, precisando la som­
ma da me pagata per soffocare la faccenda, segnalando la
mia presenza a Basilea e, per finire, annunciando la chiusura
della Casa lrfé che lasciava senza lavoro un gran numero
di operaie.
Appena tornato a Parigi, andai a trovare il celebre avvo­
cato Moro-Giafferi al quale affidai la faccenda. Il giorno
35 0
dopo una decina di giornali ricevevano e p ubblicavano la se­
guente informazione:

"Da qualche tempo le più odiose calunnie vengono dif­


fuse sul conto del principe Yussupov. Poiché un quotidiano
socialista russo; diretto dal signor Kerensky, ex p residente
del governo russo nel 1917, ha riportato queste basse insinua­
zioni, esso è stato immediatamente costretto a p ubblicare la
più formale smentita, giacché neppure uno dei fatti men­
zionati nei suoi articoli è mai avvenuto".

Ma l'effetto sperato era stato egualmente raggiunto. Fu


un bello scandalo in seno alla colonia russa di Parigi ! Tutti
parlavano della faccenda, aggiungendo i più incredibili fron­
zoli all'articolo del giornale Dni e descrivendo scene degne
del Grand Guignol : secondo taluni, io ero arrivato addirit­
tura a mangiare la mia vittima, che avevo preventivamente
smembrato e fatto cuocere!
Vi furono, tuttavia, alcuni giornalisti che assunsero spon­
taneamente la mia difesa. Bresc'ko-Bresc'kovsky lo fece nel
grande giornale russo Ultime notizie, in termini di una vio­
lenza indigna'ta che non escludeva tuttavia l'umorismo. Vinsi
tutti i processi nei quali la faccenda mi trascinò, tanto in
Francia che all'estero, perché le diffamazioni erano state pub­
blicate dappertutto, persino nei giornali giapponesi. Ebbi an­
che la soddisfazione di vedere vietata la pubblicazione del
giornale Dni. Soddisfazione del tutto platonica, perché i ne­
mici riuscirono ugualmente a rovinarmi. Spaventati dagli ar­
ticoli diffamatori usciti nei giornali, i creditori mi persegui­
tavano infatti con i loro reclami, mentre le banche mi rifiu­
tavano ogni credito. Ma la conseguenza più grave e più p e­
nosa fu il dolore che le calunnie e la pubblicità data loro p ro­
curarono a Irina e ai miei genitori. Non potei mai sapere chi
fosse l'autore di quegli articoli. Venivano mormorati certi
nomi, ma si trattava soltanto di supposizioni delle quali il
segreto professionale ci impediva di controllare l'esattezza.
Parallelamente alla campagna diffamatoria, io subivo un
altro genere di attacchi : erano tratte con la mia firma che cir-

35 1
colavano per Parigi (ne ho avute molte tra le mani, e debbo
riconoscere che la firma era imitata alla perfezione), oppure
venivo pregato di passare alla Prefettura dove mi s'informava
che un'americana mi accusava di averle rubato un braccia­
letto di diamanti. Ella aveva incontrato in una sala da ballo
un individuo che si spacciava per il principe Yussupov ; i due
avevano danzato, si erano piaciuti, si erano amati, poi si era­
no separati. Accorgendosi allora che il "principe" si era por­
tato via il braccialetto per ricordo, l'americana aveva sporto
denuncia. La polizia identificò l'albergo in cui aveva abitato
l'individuo in questione e, nel registro dell'albergo, la data
alla quale egli si era iscritto col mio nome ; ma l'individuo
era scomparso.
Maria Teresa d'Uzé mi fece chiamare, un giorno, per mét­
termi in presenza di uno scrittore che pretendeva di avermi
incontrato in un club molto malfamato, che egli aveva voluto
conoscere per uno studio che stava preparando sui costumi
parigini. Qualcuno gli aveva detto che il principe Yussupov
era tra i presenti, e quando aveva chiesto che gli fosse indi­
cato, gli era stato designato il primo venuto. Soltanto quando
mi ebbe visto in persona si convinse di esser stato indotto in
errore.
Se volessi raccontare tutte le storie del genere che, in quel
periodo di tempo, mi venivano riferite ogni giorno, non la fi­
nirei più. Impotente a lottare da me solo contro una campa­
gna così bene organizzata, tornai dall'avvocato de Moro-Giaf­
feri. Egli mi consigliò di scrivere al ministro degli Interni una
lettera di cui mi dettò i termini. Vi segnalavo le azioni di questi
individui che si abbandonavano a ogni sorta di eccentricità
usurpando il mio nome, il che poteva riconnettersi con la
campagna di diffamazione contro la quale ero ricorso ai tri­
bunali. Come era intuibile, la protesta rimase senza effetto.
Il governo francese aveva evidentemente altre gatte da
pelare.
In quel penoso periodo riconoscemmo per lo meno i veri
amici. Maria Teresa d'Uzès mostrò una volta di più la retti­
tudine e l'indipendenza del proprio carattere obbligandoci
a pranzare con lei al Ritz, sotto lo sguardo stupito e ironico
35 2
dei presenti. Le smentite e la successiva sanzione inflitte al
Dni, non cambiarono gran che la situazione, tanto è vero che
il pubblico è più facilmente interessato dagli scandali che
attento alle rettifiche.
La morte del generale Wrangel, il 22 aprile 1 928, mi recò
un profondo dolore. La Russia perdeva in lui un grand'uomo
e un grande patriota, io un fedele amico. Quanti lunghi col­
loqui avevamo avuto tra noi sull'avvenire del nostro disgra­
ziato paese! Quante speranze, troppo spesso deluse, ma sem­
pre rinnovate, avevamo condiviso! Fidando nella rettitudine
dei suoi giudizi e nella saggezza delle sue opinioni, avevo p re­
so l'abitudine di parlargli delle mie preoccupazioni e, nei
momenti difficili che stavo attraversando, il conforto della
sua amicizia non mi era mai mancato.
Quella primavera, durante un'assenza di Irina, che era
andata a trovare sua madre in Inghilterra, fui intossicato dai
frutti di mare. Folco, vedendomi ammalato abbastanza grave­
mente, se ne preoccupò più di quanto fosse ragionevole. Egli
si era convinto che l'intossicazione fosse dovuta non già ai
mitili, bensì all'opera criminale di Pedan, il mio domestico
che aveva deciso di avvelenarmi. Invano cercai di dimostrar­
gli l'assurdità di una simile supposizione ; non ci fu verso di
fargli cambiare idea. Era la prima volta che scoprivo in quel
ragazzo amabile, ma squilibrato, una bizzarria che rivelava
l'immaginazione morbosa di cui più tardi doveva dare prove
più gravi.
I Lareinty, che dovevano partire per il loro castello di Le
Lac, nei pressi di Narbona, mi proposero di raggiungerli là
per terminare la convalescenza, invito che accettai tanto p iù
volentieri in quanto che Irina, dovendo andare dalla nonna
in Danimarca, dopo il suo soggiorno a Frogmont Cottage, non
sarebbe tornata prima di parecchie settimane.
Portai con me Elena Trofimov e, nonostante i sinistri so­
spetti di Folco, il mio domestico Pedan.

La proprietà di Le Lac apparteneva alla famiglia di Folco


dai tempi di Carlomagno. Rimanevano poche tracce dell'an­
tico castello-fortezza. Il castello attuale, costruito sotto Lui-

353
gi XIII, era un puro capolavoro d'armonia e di gusto, che
Folco doveva distruggere con le proprie mani in Ùno dei suoi
accessi di follia.
lo occupavo una grande camera sulla facciata nord. Da
questo lato, al di là delle immense praterie, si stendeva il
grande lago salato che dava il nome alla proprietà. V'era
nella camera, in fondo a un armadio a muro, una scala se­
greta che comunicava con quella del proprietario. Facendomi
visitare il castello, Falco mi aveva mostrato nel sottosuolo una
stanzetta bassa, qualche cosa come una cella, nella quale egli
si chiudeva pe r parecchi giorni di seguito, facendosi passare
il cibo da uno spioncino.
A Le Lac feci la conoscenza della sorella della mia ospite,
la contessa Alice Depret-Bixio, bella come sua sorella e tanto
bionda quanto Zizì era bruna. La sera Elena Trofimov ci fa­
ceva un po' di musica. La ascoltavamo sdraiati sugli ampi
divani del salotto cinese, sotto lo sguardo enigmatico di un
Budda di bronzo dorato. Una sera dissi scherzando a Folco
che quella statua mi sembrava sprigionare un fluido male­
fico. II giorno dopo egli la fece togliere dal suo posto e get­
tare nel lago. Altrettanto fece, più tardi, con una Kroa-Nin,
deliziosa statuetta in bianco di Cina alla quale teneva in mo­
do particolare. Siccome alcuni pescatori la ritrovarono nelle
reti e gliela riportarono, egli la fece gettare ancora nel lago,
dove fu ripescata di nuovo. Quando, per due volte di seguito,
quella deliziosa dea gli fu tanto miracolosamente restituita,
egli la collocò in un cofanetto, la circondò di fiori, la coprì
di petali di rosa, e, dopo aver chiuso ermeticamente il coper­
chio, procedette a una terza immersione che, questa volta,
risultò definitiva. u� impulso dello stesso genere doveva far­
gli distruggere con le proprie mani la sua maravigliosa di­
mora. Quando ebbe fatto saltare il castello con la dinamite
egli fece costruire con le stesse pietre due piccoli edifici per
sé e per i bambini. La sua vita folle e tragica finì pietosa­
mente nel 1944 sotto le pallottole delle F.F.I. : "Tra dieci mi­
nuti sarò fucilato", diceva l'addio patetico che mi fu conse­
gnato dopo la sua morte.
La vita di Zizì non era sempre facile, ma ella aveva una

354
pazienza angelica e adorava il marito, il che non poteva stu­
pire, perché, nonostante le sue stravaganze, egli era davvero
seducente.
Mi trovavo da poco a Le Lac, quando una lettera che ri­
cevetti da Vienna mi costrinse ad abbreviare il soggiorno.
Uno dei miei amici mi scriveva che un banchiere viennese era
pronto ad anticiparmi una somma importante per sostenere
le mie imprese parigine, e che la mia presenza era indispen­
sabile per concludere l'affare.
Non mi staccai dai Lareinty senza far loro promettere di
venire di lì a un mese a Calvi, dove allora mi sarei trovato
con lrina. Al momento degli addii, Folco mi raccomandò an­
cora una volta di licenziare il mio domestico : era sempre con­
vinto che Pedan mi avvelenasse !

La Vienna che ritrovavo non aveva niente a che fare con


quella di prima della guerra. Nel 1 928 la deliziosa città, gaia
ed elegante, nella quale la vita sembrava una festa continua,
la Vienna delle operette di Offenbach e dei valzer di Strauss,
era del tutto scomparsa nella tormenta.
Feci la conoscenza del banchiere, che trovai animato dalle
migliori disposizioni. Le domande che egli mi fece sulle no­
stre diverse imprese erano le domande di un uomo serio e
competente. La faccenda fu trattata senza difficoltà e quasi
senza discussioni. Il contratto doveva essere pronto per la
firma il giorno dopo insieme col denaro, e io pensavo di poter
prendere il treno per Parigi la sera stessa. Tornai dunque al­
l'albergo molto soddisfatto per i buoni risultati ottenuti, i pri­
mi dopo una lunga serie di insuccessi. Ma mi ero rallegrato
troppo presto. Il giorno seguente, p oco prima dell'ora del­
l'appuntamento, fui avvisato che il banchiere aveva cam­
biato idea. L'amico che ci aveva messo in rapporto mi spiegò,
non senza imbarazzo, che le voci spiacevoli circolanti sul
mio conto a Parigi in quei giorni avevano destato la sua dif­
fidenza.
Mi ripugnava andare a giustificarmi davanti a qualcuno
che era stato così mal predisposto verso di me. Tante secca­
ture e tanti persistenti insuccessi avevano finito con lo stan-

355
carmi. lrina era ancora in Danimarca e io non avevo nes­
suna ragione né alcun desiderio di tornare a Parigi prima
della partenza per Calvi. Risolvetti dunque di andare a tra­
scorrere qualche giorno a Divonne, soggiorno ideale per sten­
dere i nervi. Sapevo, oltre tutto, che vi avrei trovato un'amica.
Elena Pitts, che faceva una cura a Divonne con la madre,
era russa di nascita e aveva sposato un inglese. Sia lei che il
marito si erano mostrati amici fedeli, specialmente nel mo­
mento delle nostre peggiori seccature. Fine, slanciata, sempre
molto elegante, Elena era una compagna deliziosa di cui ap­
prezzavo la mente colta, larga di vedute e nel cOntempo
sottile. Le nostre conversazioni serali, sulla terrazza dell'al­
bergo, si prolungavano talvolta sino a tarda ora e furono i mo­
menti più gradevoli della mia permanenza a Divonne.
La madre di Elena, che aveva sposato in seconde nozze
uno zio del proprio genero, si chiamava, come la figlia, si­
gnora Pitts. Era una persona molto rigida e d'aspetto severo.
Non ci tenevo gran che a mettermi in relazione con lei ; ma,
essendo tanto amico di sua figlia, dovevo, non foss'altro che
per semplice cortesia, farmi presentare a lei. La fine della
colazione mi parve il momento più adatto, per cui mi alzai
e mi diressi verso la tavola dove le signore Pitts prendevano
il caffè. Ma quando mi vide avvicinare, la signora Pitts madre
si alzò dalla sedia con un movimento talmente brusco che
rovesciò la tazza di caffè sulla tovaglia e sul suo abito, e, dopo
avermi fulminato con uno sguardo pieno di corruccio, mi volse
le spalle. « Rifiuto di stringere la mano a un assassino », bor­
bottò allontanandosi.
Era un punto di vista davanti al quale non potevo non
inchinarmi, ma la situazione non era perciò meno imbaraz­
zante e sgradevole per me. Sperai di poter raddolcire la vec­
chia signora facendole portare un mazzo di rose, accompa­
gnato dal mio biglietto da visita sul quale avevo scritto i ver­
si seguenti che mi permetto di citare, non senza vergogna :
Lorsque je vins à votre table
Vous avez fui comme un démon
Et une haine implacable
Brulait vos yeux d'un feu ardent.
O, Mrs. Pittsl ces roses rares
Feront revivre en vos pensées
Le fier pro{il du prince tartare
Qui malgré tout est à vos p ieds (1).

Ma il mio madrigale p rodusse un effetto affatto contrario


a quello che mi ero ripromesso e mi assicurò la definitiva ini­
micizia della signora Pitts.
Comunque, la tensione delle mie relazioni con la madre
non ebbe alcuna spiacevole ripercussione su quelle che man­
tenevo tanto gradevolmente con la figlia. Elena aveva abba­
stanza spirito per prendere la cosa come io desideravo: ella
continuò a sedere con me ogni sera sulla terrazza, e nessuna
nube turbò il piacere che ci procuravano questi incontri.
Quando le signore Pitts ebbero lasciato Divonne, non tar­
dai a fare altrettanto. Scrissi a lrina che l'avrei attesa a Cal­
vi e partii per Parigi, dove ritrovai Elena Trofimov e il mio
amico caucasico Taukan Kerevov al quale offrii di accompa­
gnarmi in Corsica. Partimmo insieme in automobile per Mar­
siglia. Conoscevo in quella città un antiquario dove sapevo di
poter trovare a buone condizioni qualche mobile antico e diver­
si oggetti di cui avevo bisogno per la casa di Calvi. In un'oste­
ria del Vecchio Porto dove pranzavamo, ascoltammo due ec­
cellenti musicisti : uno sonava la chitarra, l'altro la siringa
di Pan. Pensando che essi avrebbero figurato assai bene nelle
nostre serate di Calvi, li scritturai seduta stante e, caricatili
sull'automobile, partimmo per Nizza, dove avevo dato ap­
puntamento ai Lareinty e alla coppia Kalasc'nikov, che do­
veva venire anch'essa a Calvi.
La vecchia amica che avevamo fatto pranzare col "pro­
fessar Andersen" abitava a Nizza. La invitai a unirsi a noi,
aggiungendo per convincerla che l'avremmo fatta passare per
una regina in incognito; Elena Trofimov sarebbe stata la sua
dama di compagnia e noi il seguito.
Il giorno della partenza l'aspettammo sulla banchina d'im-
(l) Quando mi approssimai alla vostra tavole. Il Voi fuggiste come un demonio Il E
un odio implacabile Il Ardeva nei vostri occhi di un fuoco ardente. Il Oh, signore. Pitts !
queste rose rare Il faranno rivivere nel vostro pensiero Il Il fiero profilo del principe tar­
taro Il Che nonostante tutto è e.i vostri piedi.

357
barco, in mezzo a un assembramento di gente provocato dalla
presenza dei miei musicisti, ed ella salì a bordo al suono del­
la chitarra e della siringa. Avevo telefonato ai miei amici di
Calvi per dir loro di prepararci un'accoglienza degna della
regina che portavo con me. Disgraziatamente la traversata
fu cattiva e, all'arrivo, la povera sovrana aveva perduto tutta
la propria imponenza. Ciò non toglie che Calvi le facesse
un'accoglienza entusiastica. Trascorremmo i giorni seguenti
facendo escursioni in quell'isola d'incanto. Ma non avevo che
una minuscola automobile Rosengart, mentre la brigata era
numerosa. Presi perciò in affitto un camion scoperto dove fu­
rono disposte alcune sedie e una poltrona per "la regina".
Con questo char à bancs improvvisato correvamo per le stra­
de della Corsica. La sera andavamo qualche volta nei caffè
del porto e ballavamo con i pescatori. I nostri musicisti ci
accompagnavano dappertutto, e io organizzavo persino sere­
nate sotto le finestre della "regina", che si affacciava al bal­
cone e ringraziava agitando il fazzoletto.
Avevo trovato da un antiquario uno di quei graziosi gin­
gilli che rendono felici i collezionisti di automi: una gab­
bietta che conteneva un minuscolo uccello canterino messo
in moto da un meccanismo, la cui voce imitava alla perfe­
zione il canto dell'usignuolo. Poiché la nostra amica stupiva
di sentirlo cantare in qualunque ora del giorno : « Vedete be­
ne », le dissi, « persin o l'usignolo vi esprime il suo amore e
rinuncia alle proprie abitudini per celebrare le vostre gra­
zie ». Portavo con me l'uccellino durante le passeggiate e ap­
profittavo della miopia della "regina" per mettere in moto
il meccanismo. Udendo il canto, ella sospirava : « Il mio fe­
dele usignuolo mi segue ! ),
I giorni passavano rapidamente. lrina aveva ritardato
l'arrivo e finalmente sbarcò il giorno in cui i Lareinty e tutti
gli altri amici, tranne i Kalasc'nikov, dovevano !asciarci. Ave­
va preso freddo in viaggio e dovette subito mettersi a letto.
Qualche giorno dopo, un telegramma di mia madre mi chia­
mava a Roma, perché le condizioni di salute di mio padre
si erano improvvisamente aggravate. lrina era ancora a letto
con la febbre e si disperava di non potermi accompagnare.
L'affidai alle cure di Nona Kalasc'nikov e partii la sera stessa
per Roma.

Trovai mia madre calma come sempre nei momenti gravi,


ma potevo leggere nei suoi begli occhi la profondità della sua
sofferenza. Non appena seppe ch'ero arrivato, mio padre vol­
le vedermi. Non aveva più se non poche ore da vivere, tutta­
via era ancora lucidissimo. In quel supremo colloquio egli
mostrò una dolcezza che non avevo mai trovato in lui e che
mi sconvolse. Mio padre non era un uomo tenero ; anzi era
sempre stato molto .scostante con i figli, talvolta persino duro.
Le ultime parole che poté pronunciare mi commossero pro­
fondamente perché lasciarono trasparire il rimpianto di aver
talvolta dimostrato una severità che non era nel suo cuore.
Morì nella notte dell'H giugno, senza soffrire, serbando
sino all'ultimo momento tutta la propria lucidità. Dopo il fu­
nerale contavo di rimanere un po' di tempo con mia madre.
Ella aveva mostrato molta calma e molto coraggio, ma io te­
mevo le reazioni che necessariamente dovevano seguire alla
tensione delle ultime settimane. V'erano inoltre varie que­
stioni materiali da regolare. I mezzi dei miei genitori erano
molto limitati, e la lunga malattia di mio padre aveva aggra­
vato ulteriormente la loro già precaria situazione.
Non ebbi agio di occuparmene, poiché avevo appena se­
polto mio padre che un telegramma di Polunin mi richiamava
a Parigi : prendendo pretesto dal libro che avevo pubblicato,
la figlia di Rasputin, Maria Soloviev, aveva iniziato un'azio­
ne giudiziaria contro il granduca Dimitri e contro di me,
reclamando venticinque milioni di danni per l'assassinio di
suo padre. Dovetti abbandonare tutto e partire immediata­
mente per Parigi.
Gli interessi di Maria Soloviev erano difesi dall'avvocato
Maurizio Garçon. Affidai i miei all'avvocato Moro-Giafferi.
Finalmente, poiché v'era prescrizione e il tribunale si di­
chiarava incompetente, tutto finì con un'ordinanza di non
luogo a procedere. La personalità della querelante non era

359
d'altronde tale da facilitarle le cose. Suo marito era quel So­
loviev, agente a un tempo dei bolscevichi e dei tedeschi, la
cui attività aveva paralizzato gli sforzi di tutti coloro che
preparavano l'evasione della famiglia imperiale, allora im­
prigionata a Tobolsk, in Siberia.
La figlia di Rasputin era sostenuta nelle proprie pretese
da un ebreo, Aronne Simanovic, ex segretario di Rasputin.
Era stato quest'ultimo a prendere l'iniziativa del processo
ch'era pronto a finanziare.
Quando mi fui assicurato del non luogo a procedere, tor­
nai a raggiungere Irina a Calvi. Questa mi riferì che gli abi­
tanti, avendo saputo che Maria Soloviev m'intentava un pro­
cesso, avevano indirizzato una protesta al deputato della Cor­
sica, Landry.
Ben presto partimmo per Roma. Com'era da temere, tro­
vai mia madre in condizioni di salute pietose. Tante Bichet­
te non mi nascose di essere molto preoccupata. Mi disse che
gli articoli diffamatori usciti sul mio conto, i processi, senza
parlare delle lettere di amici bene o male intenzionati che i
miei genitori avevano ricevuto negli ultimi mesi, avevano cer­
tamente aggravato l'esaurimento nervoso di mia madre e af­
frettato la morte di mio padre. Queste rivelazioni mi erano
tanto più crudeli inquantoché ero impotente a riparare il
male fatto. Mi sforzai di convincere mia madre a venire a
vivere con noi a Boulogne. Il mutamento d'ambiente, la pre­
senza della nipotina che adorava, la compagnia delle vec­
chie amiche che abitavano a Parigi e che essa non aveva più
riveduto da anni, mi sembravano condizioni più giovevoli al­
la sua salute di quelle che l'attendevano se fosse rimasta
a Roma.
Ella finì per acconsentire e fu stabilito che sarebbe venuta
entro pochi mesi a stabilirsi a Boulogne.

Ci voleva però un amministratore che si occupasse delle


nostre proprietà di Calvi, comprendenti la casa della citta­
della e la fattoria. Pedan mi parve il più adatto. Ero risoluto
ad allontanarlo da me, non già per tema che mi avvelenasse,
come pretendeva Folco - nessuno, al contrario, era più de­
gno di fiducia - ma egli non accettava di essere comandato
da altri che da me, e la sua impertinenza non aveva più limi­
te. Cercai un cameriere per sostituire Pedan che avevo man­
dato a Calvi, quando una delle nostre amiche mi raccomandò
un giovane russo che cercava un posto, e poiché ella ne fa­
ceva i più grandi elogi, la pregai di mandarmi senz'altro il
suo protetto. Griscia Stolarov mi andò subito a genio. V'era
in tutta' la sua persona qualche cosa di puro e di onesto che,
di prim'acchito, attirava la simpatia e la fiducia. Quando vidi
il suo aspetto, le sue maniere e il suo bel volto di bimbo sor­
ridente, lo assunsi senza un attimo di esitazione.
Mi raccontò la propria vita e le proprie disgrazie. La fa­
miglia abitava in Ukraina. Combattente dell'esercito bianco
egli era stato uno dei pochi cavalieri che, nel 1 9 1 9, erano riu­
sciti a mettersi in contatto con l'esercito di Siberia. Evacuato
a Gallipoli con i resti dell'esercito di Wrangel, aveva saputo
là che in Brasile si cercavano contadini, ed era partito con
seicento compagni per Rio de Janeiro. Ma siccome si voleva
adibirli esclusivamente alla coltura del caffè, in condizioni di
lavoro molto dure, la maggior parte rifiutarono e ripartirono
qualche giorno dopo sulla nave da carico che li aveva portati
in America, il cui capitano non aveva altra mira che di sba­
razzarsi di quei passeggeri ingombranti. Quando furono nel
Mediterrane.o, l'annuncio che sarebbero stati sbarcati per for­
za nel Caucaso provocò tra i russi una rivolta generale. Il ca­
pitano, che non aveva i mezzi per lottare contro varie centi­
naia di uomini decisi a non lasciarsi consegnare ai bolsce­
vichi, telegrafò da Ajaccio, al governo francese, per chiedere
istruzioni. Gli fu risposto che coloro che rifiutavano di farsi
sbarcare nel Caucaso dovevano essere lasciati in Turchia. Ben
pochi scelsero il Caucaso. Tutti gli altri furono sbarcati a
Costantinopoli e invitati a cavarsi d'impaccio come meglio
potevano. Così fece Griscia per tre anni; ma era infelice. Solo
al mondo, senza notizie della famiglia rimasta in Ukraina,
risolvette di venire a Parigi e di mettersi a servizio p resso
i suoi compatrioti, dove sperava di trovare l'atmosfera tran­
quilla e familiare cui aspirava.
Per ciò che riguarda la tranquillità, avrebbe potuto ca­
pitar meglio. In casa nostra era un perpetuo andirivieni, e
noi stessi non sapevamo oggi dove saremmo stati domani. Tut­
tavia ci si abituò, a poco a poco, si affezionò a noi come noi
a lui, e divenne, in certo qual modo, un membro della fami­
glia. Non ho mai incontrato un essere più disinteressato, e
penso che non ne possano esistere. Quando conobbe le nostre
difficoltà, rifiutò di essere pagato. In un'epoca di egoismo e di
cupidigia qual è la nostra, credo sia difficile citare molti
esempi di un simile disprezzo per il danaro, unito a una
simile devozione.
Oggi, Griscia è ancora con noi, ma non solo. Nel 1 935 ha
sposato una graziosa e giovane basca dagli occhi neri, pronta
e vivace, il cui carattere è il complemento di quello di suo
marito che adora e dal quale è adorata. Griscia e Dionisia,
coppia originale, russo-basca : due razze, due caratteri, con­
fusi in un'unione modello, come nella stima e nell'affetto che
noi abbiamo per loro.
CAPITOLO XXXI
(1928-193 1 )

Morte dell'imperatrice Maria - I nostri beni rubati i n Rus­


sia sono Denduti a Berlino - Morte del granduca Nicola - Per­
dita del denaro inDestito a Nero York - CalDi - Mi metto a
disegnar mostri - Mia madre si stabilisce a Boulogne - Una
nipote di Bibì - Una lettera del principe Kozloroski - L'Aqui­
la bicipite - Morté di Anna PauloD·a - Rapimento del gene­
rale KutiepoD - In Scozia col maragia d'Alroar - Spiegazione
dell'enigma e mia partenza precipitosa - Morte del maragia
- RiDelazione delle sue crudeltà.

II 1 3 novembre 1 928 l'imperatrice madre di Russia moriva


in Danimarca, in età di ottantun anno. Spariva con lei tutto
un passato. L'influenza di quella donna notevole si era sempre
dimostrata proficua al paese di adozione, e v'era da rimpian­
gere che ella non fosse stata meglio ascoltata durante gli ul­
timi anni della Russia imperiale. Nella vita familiare essa
aveva molta autorità. Personalmente, io non potevo dimen­
ticare con quanta comprensiva bontà ella avesse appianato
tutti gli ostacoli al momento del mio matrimonio con la sua
più cara nipote.
L'imperatrice aveva trascorso gli ultimi giorni nella villa
Hvidoere, della quale divideva la proprietà con la regina
Alessandra. Le due sorelle amavano ritrovarsi in quella sem­
plice casa di campagna nella quale avevano raccolto i più
cari ricordi.
Quando giungemmo a Copenaghen, la bara era già stata
trasportata alla chiesa russa della capitale. Coperta dalla
bandiera di sant'Andrea della Marina imperiale russa e dalla
bandiera danese Danneborg, essa spariva sotto un cumulo di
fiori. Due cosacchi dell'antica guardia imperiale, che avevano
seguito la loro sovrana in esilio, figuravano tra la guardia
d'onore danese che circondava il feretro.
Tutte le case sovrane d'Europa erano rappresentate ai
funerali dell'ultima imperatrice della dinastia dei Romanov.
Dopo la messa solenne, il metropolita Eulogio diede l'assolu­
zione e pronunciò un interminabile discorso in russo, che do­
vette essere una prova penosa per i rappresentanti dei paesi
stranieri. Terminato il servizio funebre, un treno speciale ci
portò a Roskilde, dove l'imperatrice fu inumata nella cripta
dei re danesi di quella cattedrale.
lrina desiderava passare un po' di tempo con la famiglia,
per cui la lasciai a Copenaghen e mi recai a Berlino per vi­
sitare la nostra succursale della Casa lrfé.
Al mio arrivo appresi che i sovieti organizzavano una
vendita pubblica di opere d'arte alla galleria Lemké. Nel
catalogo illustrato riconobbi un certo numero di oggetti pro­
venienti dalle nostre collezioni. Scelsi un avvocato, il signor
Vangemann, e lo pregai di avvertire i tribunali tedeschi e di
far interdire intanto la vendita di quegli oggetti in attesa di
poterne denunciare i venditori. Altri emigrati russi, trovan­
dosi nelle stesse condizioni, erano venuti a Berlino e si asso­
ciarono con me. Ebbi un colpo al cuore vedendo nella sala
di vendita tutti i mobili, i quadri e i soprammobili del salotto
di mia madre a Pietroburgo.
Il giorno della vendita la polizia irruppe nella sala e con­
fiscò tutti gli oggetti che avevamo indicati, cosa che provocò
un certo panico, sia tra gli organizzatori sia tra il pubblico.
Eravamo certi che ci sarebbe stato restituito ciò che ci appar­
teneva. Anche l'avvocato Vangemann ne era sicuro, poiché la
legge tedesca dice formalmente che qualunque oggetto ru­
bato, o preso per forza, posto in vendita in Germania dev'es­
sere restituito al proprietario, quale che sia la situazione po­
litica del paese. Dal canto loro i bolscevichi rispondevano che,
col decreto del 19 novembre 1922, il governo dei sovieti aveva
confiscato tutti i beni degli emigrati in virtù del diritto di so­
vranità, e che la giustizia tedesca non poteva intervenire nel­
la faccenda. Furono, ahimè, i bolscevichi ad aver partita vin­
ta, e io lasciai Berlino di pessimo umore.
Al ritorno, recatomi alla Casa Irfé, trovai Bull che mi
aspettava. Egli mi tese un foglio sul quale aveva scritto il
seguente annuncio economico che voleva far inserire nel gior­
nale Frou-Frou:

"Io sottoscritto, Andrea Bull, mezzo russo, mezzo inglese,


mezzo danese, tenero, sentimentale e vigoroso, cerco moglie.
Firmato : Andrea Bull.
Al servizio del nostro delizioso p rincipe,
2?, rue Gutenberg, Boulogne-s.-Seine".

Per quanto gravi fossero le mie preoccupazioni, Bull riu­


sciva sempre a mettermi di buonumore.

Nel gennaio 1 929 un nuovo lutto colpì gli emigrati russi


con la morte del granduca Nicola, nostro ex generalissimo,
il quale aveva lasciato la Russia con noi nel 1 919. Egli si era
stabilito prima in Italia, a Santa Margherita, con sua moglie
che era la sorella della regina Elena. Poi era venuto in Fran­
cia, a Choigny, in Seine-et-Marne, dove il granduca, del tut­
to ritirato dal mondo e dalla vita politica, non riceveva più
se non gli intimi.
Durante l'inverno appresi che tutto il denaro proveniente
dalla vendita eseguita da Cartier e che avevo investito in
una speculazione immobiliare, era stato inghiottito nel disa­
stro finanziario di New York. Mia madre restava così senza
un soldo. Inviatole tutto ciò di cui potevo disporre, la pregai
di affrettare il suo arrivo e mi occupai immediatamente della
sua sistemazione. Ci tenevo, per quanto possibile, ad assicu­
rarle una vita gradevole e comoda p resso di noi. La sua camera
fu arredata secondo i suoi gusti e le sue abitudini che cono­
scevo bene : un gran letto, una sedia a sdraio accanto al ca­
minetto, tavolinetti a portata di mano, poltrone coperte di
tela a fiorami di tinta chiara, incisioni inglesi e vasi p ronti
ad accogliere i fiori che amava. La camera, semplice e gaia,
comunicava mediante una porta-finestra con una terrazza che,
in estate, era piena di fiori ; vedevo già mia madre seduta
lì in una poltrona di vimini con un libro o un lavoro tra le
mani.
Quando la casa fu pronta a riceverla, partimmo per Calvi.
Grandi cambiamenti erano avvenuti nel paese dopo il no­
stro ultimo soggiorno. Nuovi palazzi erano stati costruiti, e
Taukan Kerevov che, anch'egli, era diventato proprietario a
Calvi, aveva aperto un bar e una trattoria nella casa da lui
acquistata, che era l'antico arcivescovado. Il locale, ben presto
conosciuto come uno dei migliori del luogo, era affollato sino
a tarda ora. Spesso, di notte, eravamo destati dal rumore del­
le vetture che andavano e venivano. Grandi yachts erano an­
corati nel porto e la spiaggia era coperta di corpi nudi distesi
al sole. Calvi, invasa dai turisti, non era più l'angolo di so­
gno e di bellezza che ci aveva sedotto qualche anno prima.
In quel tempo fui preso da un irresistibile desiderio di
disegnare. Sino allora era stata lrina a disegnare, con molto
ingegno e molta immaginazione, certe sue figure di sogno: vol­
ti dagli occhi immensi, dallo sguardo strano, che sembravano
appartenere a un mondo ignoto.
Fu certo sotto l'influenza dei disegni di mia moglie che
cominciai a tracciare i miei. Mi diedi a questo lavoro con ac­
canimento, inchiodato al tavolino come da un sortilegio. Sen­
nonché quelle che vedevo nascere sotto la matita non erano
creature di sogno, ma piuttosto visioni d'incubo. Io, che ama­
vo soltanto la bellezza sotto tutte le sue forme, non potevo
creare altro che mostri ! Si sarebbe detto che un potere ma­
lefico nascosto in me cercasse di esprimersi e mi guidasse la
mano. Il lavoro aveva compimento, per così dire, fuori di
me. lo non sapevo mai che cosa avrei fatto, ma erano sempre
esseri difformi e grotteschi, imparentati con quelli che
ossessionavano l'immaginazione di certi scultori del medioevo.
Smisi di disegnare, un giorno, non meno bruscamente di
come avevo cominciato. L'ultimo disegno che feci avrebbe
potuto rappresentare Satana in persona. Tutti i pittori cui
ho mostrato queste opere bizzarre si sono stupiti di una tec­
nica che normalmente non può essere raggiunta che dopo anni
e anni di studio. E tuttavia io non avevo mai tenuto in mano
una matita o un pennello prima di quel periodo di produzio-

366
ne frenetica, e da quando essa è terminata, non soltanto ho
perduto ogni desiderio di disegnare, ma quand'anche si trat­
tasse di 15alvare la mia stessa vita non sarei in grado di rifare
ciò che ho fatto allora.
Quasi a ogni arrivo, il piroscafo ci portava nuovi amici
i quali rimanevano a pensione da noi per qualche settimana.
Finimmo, dunque, col cedere loro la casa della cittadel1a, di­
ventata troppo piccola, per trasferirei alla fattoria. La no­
stra brigata era troppo numerosa per consentirci una vita cal­
ma; ogni giorno facevamo passeggiate o gite sul mare. Du­
rante una di queste ultime per poco Kalasc'nikov non annegò.
Mio cognato Nikita si buttò in acqua e riuscì a trarlo felice­
mente in salvo. Ma quello era il giorno degli incidenti : sbar­
cati a Calvi, prendemmo l'automobile per rincasare ; c'era
un bellissimo chiaro di luna e io non avevo acceso i fari, fin­
ché a una svolta del1a strada, che vidi male, la macchina si
rovesciò in un fossato pieno di fichi d'India. Tutti conoscono
le minuscole spine, innumerevoli e traditrici, di cui queste
piante sono armate. Nikita ne fu letteralmente crivellato, co­
me Punch che aveva preso parte alla gita ; così che il medico
chiamato per curare il primo, dovette occuparsi anche del
secondo.
Un telegramma da Roma, col quale mia madre annunciava
la prossima partenza, mise fine al nostro soggiorno ; partim­
mo col primo piroscafo per andare ad aspettarla a Boulogne.
Pensavo a quella riunione tanto desiderata con una gioia nel­
la quale la vicinanza della signora Whobee insinuava qual­
che inquietudine. Mi chiedevo come quelle due donne così
diverse avrebbero potuto vivere vicine senza che si p rodu­
cesse qualche scintilla pericolosa. Non potevo pensarci senza
preoccupazioni. Bibì, che aveva una grande curiosità di co­
noscere mia madre, la chiamava già col nome di battesimo,
Zenaide, il che non era molto rassicurante.
Mia madre arrivò piena di vita e in ottima salute; sem­
brava molto contenta di trovarsi con noi. Era accompagnata
dalla signorina Medvedev, l'infermiera che aveva curato mio
padre, dal1a vecchia cameriera Pelagia {la quale aveva cam­
biato il proprio nome con quello di Paolina, che le pareva
più elegante) e da un cagnolino di Pomerania ch e rispondeva
al nome di Drolly.
La nostra casetta le piacque molto, ma entrandovi si la­
sciò sfuggire questa esclamazione: « Oh! com'è piccola! ».
Ahimè, sì, era piccola, e ce ne accorgemmo poco dopo quando
arrivò il camion su cui erano caricati gli innumerevoli bauli,
casse e valige che costituivano i suoi bagagli. Dovetti pren­
dere in affitto una rimessa dei dintorni per poterli sistemare
tutti. Nondimeno, ella trovò di proprio gradimento la camera
assegnatale, che chiamò subito: « la mia cella ».
Ed ecco giungere il momento temuto dell'incontro con Bi­
bì. Questa entrò nel salotto dove mia madre l'aspettava, so­
stenuta da due domestici e seguita da un terzo che recava
un mazzo di rose.
« Questi fiori sono per la piccola Zenaide », disse. « Io ado­
ro il vostro nome, cara principessa, e l'ho continuamente sulle
labbra. Non dovete farmene una colpa; bisogna prendermi
come sono. Rarità, dite a vostra madre che io sono una crea­
tura timidissima. Chiamo vostro figlio Rarità perché gli vo­
glio molto bene, ma è una canaglia, un beone... E talmente
mal circondato! Vi compiango di avere un figlio come lui ! ».
Temevo di peggio. Mia madre, che in vita sua non aveva
mai visto nulla di simile, era evidentemente molto stupita,
un po' urtata, ma, fortunatamente, anche divertita. Ed era
abbastanza intelligente e acuta per capire di primo acchito
con chi avesse che fare ; anzi, cosa davvero imprevedibile,
le due donne si piacquero. Avvicinate dall'affetto che entram­
be avevano per me, amavano parlare di me denigrandomi
con tenerezza.
La signora Whobee aveva una nipote originale quanto lei,
ma di tutt'altro genere. Valeria si vestiva da uomo, fumava
la pipa e portava sui corti capelli neri un berretto da tep­
pista. Piccola e rotondetta, con un colorito bronzeo e gli oc­
chi neri, aveva l'aria di un ragazzone levantino. Viveva sola
su un barcone, servita da una vecchia coppia fedele e circon­
data da una quantità di animali diversi. Infatti Valeria, che
non amava gli esseri umani, adorava le bestie, che compren­
deva e dalle quali sapeva farsi comprendere.
3 68
L'avevamo conosciuta per caso; prima ancora di aver in­
contrato sua zia, ed eravamo tra le pochissime persone che
acconsentisse a ricevere e a incontrare.
Sono certo che la sua selvatichezza e la singolarità del suo
modo di vivere dipendessero in gran parte da un complesso
d'inferiorità. Le sue maniere, che alzavano una barriera tra
lei e il mOndo esterno, non le impedivano però di essere buo­
na e intelligente. Per q:uesto, e nonostante la sua incomoda
eccentricità, le volevamo un gran bene. Ella aveva vinto pa­
recchie corse automobilistiche. Una sera che aveva accettato
di pranzare a casa itostra con alcuni altri ami-ci, ci raccontò
come qualche tempo prima si fosse fatta asportare le mam­
melle che, grosse com'erano, la disturbavano quando guidava
l'automobile da corsa. E, così dicendo, si sbOttonò la camicia
per mostrarci due orribili cicatrici !
La signora Whobee, che non ammetteva nessun genere di
eccentricità negli altri, e particolarmente quelle di cui si com­
piaceva sua nipote, non la riceveva mai, e quando seppe che
noi la vedevamo, andò su tutte le furie. Dopo una scenata
epica, durante la quale molti oggetti furono mandati in fran­
tumi, . si calmò improvvisamente e mi disse: « Rarità, voglio
vederla, portatela a pranzo da me questa sera > .
Ricevette l a nipote stando a letto e , squadrandola da capo
a piedi, le dichiarò con aria disgustata : « Quando si è erma­
froditi, si sta a casa propria. Vattene e non farti più vedere
da me ».
Quando la povera Valeria fu così mandata via_senza pran­
zo, sua zia rimase alquanto soprappensiero. Poi, dopo un po' :
« Rarità », disse, « siate gentile, fate per quel m:ostro qual­
che abito della Casa lrfé : tre per il pomeriggio e tre per la
sera, con i relativi mantelli. Vedremo un po' che cosa ne
uscirà > .
Il giorno dopo portai Valeria i n rue Duphot, dove il suo
arrivo produsse un effetto che è facile immaginare. I n mezzo
allo stupore generale, ella fece la propria scelta, e l'ordina­
zione fu invl.at� al laboratorio. La signora Whobee mi tor­
mentava per sapere quando sarebbero .stati pronti gli abiti,
perché voleva organizzare un pranzo di famiglia per ricon-

g 6g
ciliare Valeria con gli altri zii e zie che, disgustati come lei
dal suo contegno maschile, l'avevano anch'essi messa al bando.
Il giorno fissato, la signora Whobee sedette in salotto, cir­
condata dalla famiglia, di fronte alla porta da cui doveva
entrare Valeria. Ma, quando apparve, la disgraziata fu ac­
colta da un grido d'orrore generale : Valeria vestita da uomo
aveva ancora vagamente l'aria di una donna, ma vestita da
donna sembrava in tutto e per tutto un uomo!
Bibì si nascose il volto tra le mani e con voce soffocata
dalla collera : < M . ! ::&, esclamò. « Ridatele i suoi calzoni ! :..
..

La povera Valeria, piena di confusione, girò sui tacchi e se


ne andò una volta di più senza pranzo.

Da quando mia madre era venuta a stare a Boulogne, l'an­


gelo della pace sembrava essere disceso sul nostro tetto. Ma
sicuramente dovette annoiarsi, perché ben presto volò via.
Un certo principe Yuri Kozlowsky mi rivelò la propria
esistenza con la più insultante delle lettere. All'infamia di
avere scritto il libro uscito due anni prima, ne avevo raggiunta
una peggiore, così diceva, ripetendo in un numero recente
del giornale Le Détective le più ignobili accuse contro i no­
stri sovrani, e imputando loro il desiderio di concludere una
pace separata, calunnia che era già stata confutata persino
da un organo parziale e malintenzionato qual era la com­
missione d'inchiesta nominata da Kerensky.
Mandai ad acquistare il numero indicato di quel giornale,
di cui sino a quel momento ignoravo persino il titolo e l'esi­
stenza. Conteneva infatti un articolo disgustoso sulla vita pri­
vata dei nostri sovrani, a firma : principe Yussupov.
Nuovi ricatti e nuovi processi in vista.
In assenza dell'avvocato Moro-Giafferi, mi rivolsi all'av­
vocato Carlo Emilio Riche di cui conoscevamo e apprezza­
vamo la personalità e l'ingegno. Egli ebbe cura di inviare im­
mediatamente una smentita al redattore capo del Détective.
Dopo due intimazioni successive a mezzo usciere, il giornale
si decise a inserirla scusandosi della tardiva pubblicazione.
Tutti gli altri giornali che, per solidarietà professionale, ave-
370
vano sino a quel momento rifiutato di stampare la mia p ro­
testa, ne seguirono subito l'esempio.
La redazione del Détective dichiarò di a'\"er ricevuto l'ar­
ticolo dall'agenzia Opera-Mundi Presse che gliene aveva ga­
rantito l'autenticità. Dal canto suo, l'agenzia Opera-Mundi
rigettava tutta la responsabilità della faccenda sul giornale
viennese Neues Wiener Tageblatt, il quale, a sua volta, accu­
sava uno dei propri reporters, un ebreo di nome Tassin. Dopo
un'interminabile corrispondenza, si riuscì a ottenere da que­
sto Tassin una lettera nella quale confessava che l'articolo era
interamente inventato da lui. Ciò non impedì a Kozlowsky,
che tutta via conosceva tutta la storia, di acquistare molti
esemplari del numero del Détective e di inviarli, accompa­
gnato ciascuno da una copia della lettera che mi aveva scritto,
ai vari gruppi civili e militari dell'emigrazione russa. É facile
immaginare l'effetto prodotto. Il presidente del Consiglio mo­
narchico superiore, Alessandro Krupensky, che sapeva quanto
Kozlowsky che cosa pensare della faccenda, incaricò uno dei
membri del Consiglio, il conte Hendrikov, di scrivere nel­
l'Aquila bicipite, giornale del partito monarchico, un articolo
contro di me, più violento della lettera di Kozlowski. Letto
durante una delle loro riunioni, l'articolo riscosse l'unanime
approvazione del degno areopago. Nessuno osò protestare,
neanche un amico di trent'anni che faceva parte del Consiglio
e la cui viltà mi addolorò profondamente.
Vedendo ciò, non esitai a citare per diffamazione il redat­
tore capo dell'Aquila bicipite, Vigoureux, il presidente K.ru­
pensky e l'autore dell'articolo. Il Consiglio monarchico m 'in­
viò immediatamente un ambasciatore nella persona dell'amico
che mi aveva rinnegato. Ma quella visita non poteva farmi
tornare sulla mia risoluzione. Il processo ebbe luogo, e lo vinsi.
Mia madre, esasperata dall'insulto fattomi, mandò a chia­
mare il presidente Krupensky, e quando questi si p resentò,
senza tendergli la mano né pregarlo di sedersi, gli disse sol­
tanto: « Signor presidente, vi ho fatto chiamare per dirvi che
do le mie dimissioni dal partito monarchico e che spero di
non vedervi mai più :�� . Il presidente si ritirò confusissimo.

37 1
Mio cognato Nikita e sua moglie, nonché altre persone, se­
guirono l'esempio di mia madre e dettero le dimissioni. Poco
tempo dopo, l' A qu ila bicipite chiudeva la sua esistenza.

L'anno 1 931 mi portò un gran dolore. La mia carrsstma


amica Anna Paulova, una delle più pure glorie della danza
classica, colei che con la sua grazia e il suo genio aveva con­
quistato e affascinato il mondo iit tiero, morì a Bruxelles il
29 gennaio per una polmonite. Aveva quarantanove anni. Ella
rimane per me il più commovente e il più poetico ricordo
della gioventù.
Nello stesso anno, e quasi alla stessa data, il ratto del ge­
nerale Kutiepov gettava nella costernazione tutta la colonia
russa. Presidente dell'associazione degli ex combattenti, il ge­
nerale era un uomo di quarantott'anni, energico, audace e ne­
mico mortale dei bolsceyichi. Nell'ora in cui rincasava a piedi,
di pieno giorno, era stato rapito non lungi dalla propria abi­
ta�ione, da tre individui, uno dei quali travestito da agente
della polizia. Mentre quest'ultimo faceva il palo, gli altri due,
balzando da un'automobile che stazionava lì presso, lo ave­
vano afferrato obbligandolo a salire sulla vettura. Una volta
salito anche l'agente, l'automobile era partita a tutta velocità.
La notizia comparve sui giornali soltanto parecchi giorni
dopo il fatto e fece grande scalpore, ma intanto i rapitori ave­
vano avuto tutto il tempo di fare scomparire le loro tracce.
L'inchiesta tirò in lungo, e, in conclusione, la faccenda non
fu mai chiarita. Tutto induce a credere però che il generale
fosse stato portato a Mosca. Più tardi si parlò molto di una
donna dal mantello nocciola che si sarebbe trovata nell'auto­
mobile al momento del ratto.
Conoscevo molto bene il generale Kutiepov, ch'era un fre­
quentatore della nostra trattoria La Maisonnette, in rue du
Mont-Thabor. La gerente, signora Tokarev, lo riceveva sempre
con una gentilezza premurosa che il generale sembrava ap­
prezzare molto. Dopo il ratto, la signora Tokarev liquidò tutto
quel che possedeva e partì per gli Stati Uniti.

37 2
Da quando lo avevo così ben turlupinato mettendolo su una
falsa strada, non avevo più visto il maragia. Cominciavo a
chiedermi se il nostro screzio non fosse definitivo, quando mi
telefonò per dirmi ch'era a Parigi e che m'aspettava a pranzo
in uno dei giorni successivi. Mi accolse con perfetta natura­
lezza, senza fare la minima allusione a quanto era avvenuto e,
di nuovo, mi domandò di andare con lui quando avrebbe ri­
preso la strada dell' India. A che mirava quel maniaco, e che
cosa si nascondeva sotto la proposta alla quale torna va conti­
nuamente? Non potevo, infatti, fare a meno d'immaginare che
la sua insistenza avesse altri motivi oltre quello di assicurarsi
il piacere della mia compagnia. Anziché lasciarsi scoraggiare
dai reiterati rifiuti, egli mostrò una volta di più con quanta
ostinazione rimanesse attaccato alle proprie idee. Venuto a
Boulogne per fare una visita a mia madre, cercò di persuadere
sia lei sia mia moglie a usare della loro influenza per indurmi
a seguirlo. Tutt'e due risposero ch'ero abbastanza grande per
prendere da me le mie decisioni. Non insistette e m'invitò al­
lora a passare qualche giornata in Scozia, in un castello che
aveva preso in affitto per la stagione della pesca.
La nuova proposta mi lasciò esitante. Mia madre e Irina
mi sconsigliarono di accettarla, e il mio buon senso mi diceva
che avevano ragione, ma, come sempre, la curiosità e il fascino
dell'ignoto ebbero il sopravvento sul buon senso.
La Scozia, ove mi ero recato durante gli anni di Oxford,
m'era apparsa come un misto di Finlandia e di Crimea, pieno
di fascino per me. Il carattere della regione che vedevo questa
volta era del tutto diverso: la natura vi era selvaggia e austera.
Il castello, sperso tra le montagne, lontano da ogni centro abi­
tato, era sinistro. Con le sue alte muraglie di granito grigio e
le torri merlate, mi fece l'effetto di una prigione. Nell'interno,
le camere a volta erano fredde, cupe e umide. Gli apparta­
menti dei piani superiori comunicavano tra loro mediante un
dedalo di scale, corridoi e gallerie, nel quale era difficile non
smarrust.
Il mio ospite alloggiava al primo piano, io al secondo, e
avevo per vicino un giovane aiutante di campo, il solo di tutti
quelli che avevo visto al seguito del maragia all'inizio della

373
nostra conoscenza che facesse ancora parte della sua casa. Un
giorno avevo avuto l'imprudenza di rilevarlo e di domandare
la ragione di questi continui mutamenti : il silenzio che aveva
accolto la domanda, facendomi capire che essa era indiscreta,
mi aveva allora vagamente preoccupato. Nelle attuali circo­
stanze non potevo che rallegrarmi della presenza rassicurante
di quel giovanotto, che consideravo un amico.
Il maragia mi aveva ricevuto a braccia aperte e mi voleva
sempre con sé. Pranzavamo nel suo appartamento, e durante
il pomeriggio lo accompagnavo alla pesca del salmone. Il velo
azzurro con cui s'avvolgeva il volto per difendersi dalle zan­
zare gli conferiva un aspetto comico e un po' pauroso. Nei
nostri lunghi colloqui della sera accanto al camino, non par­
lava più del mio viaggio in India, tanto che si sarebbe potuto
credere che avesse abbandonato l'idea.
Ma ben presto entrò in scena un nuovo personaggio,
vestito come un monaco, che arrivava dall'India. Era un uomo
ancor giovane, molto erudito, e parlava inglese e francese alla
perfezione. Fui soprattutto colpito dai suoi occhi. La potenza
e la penetrazione del suo sguardo mi misero subito a disagio.
Aveva le mani belle, lunghe e sottili, curate come quelle di
una donna.
Egli prese l'abitudine di venire alla sera nel mio apparta­
mento; mi parlava per ore di filosofia e di religione. Quando
se ne andava, la porta del mio vicino si apriva: l'aiutante di
campo voleva sapere tutto ciò che lo strano individuo mi aveva
detto. Il risultato di tutte queste conversazioni fu che non dor­
mivo più e avevo i nervi tesi. Ciò durò sino alla sera in cui il
simpatico vicino, entrando come al solito nella mia camera
dopo che il monaco ne era uscito, mi fece le più inquietanti
rivelazioni.
c Devi abbandonare al più presto questo luogo maledetto �.

mi disse. c Il maragia ti ha teso un tranello; se tardi ancora,


non potrai più uscire di qui �.
E poiché io protestavo, insistette:
< Ben presto ti troverai alla loro mercé. A poco a poco tu

sarai stregato, la tua volontà distrutta. Essi faranno di te quel


che vorranno, e ciò che vogliono è portarti in India �.

374
c: Ma che diavolo vogliono fare di me, in India ? >.
Egli non poté o non volle rispondermi.
Le parole del giovane aiutante di campo mi resero cosciente
dell'incantamento che già cominciavo a subire. Egli aveva ra­
gione: stavo per perdere il sangue freddo e il controllo del
pensiero. Gli sguardi di quei due uomini mi perseguitavano,
mi ricordavano quello di un altro .. Per non soccombere all'ip­
.

nosi dovevo andarmene al più p resto.


Il mio amico non mi nascose che, avvisandomi, rischiava la
vita. Quando mi ebbe lasciato, sentii nascere in me un timore :
se quel giovane non fosse stato che un falso amico posto ac­
canto a me per spiarmi? Una vera angoscia m'invase all'idea
di trovarmi lì come un prigioniero indifeso. Pensando a tutti
gli esseri che mi erano cari : a mia madre, a mia moglie, a mia
figlia, agli amici che avevo lasciato per venire a farmi pren­
dere scioccamente in quella trappola, non avevo che un desi­
derio: tornare a casa e rivederli. Caddi in ginocchio e, con
parole semplici ma con tutta l'anima, pregai Dio di aiutarmi.
Dovetti addormentarmi durante la preghiera perché la mat­
tina seguente mi ritrovai tutto vestito ai piedi del letto. Avevo
dormito soltanto poche ore, ma mi rialzai forte e risoluto, libero
da ogni dubbio. Tuttavia non volevo lasciare il maragia senza
averlo costretto a scoprire il suo giuoco, perché mi rimaneva
pur sempre la curiosità di sapere che cosa mi aspettasse in
India, qualora avessi acconsentito a seguirlo. La sera stessa,
dopo pranzo, prendendo risolutamente il toro per le corna,
domandai al mio ospite che cosa intendesse fare di me.
Egli ebbe un vago sorriso.
< Che cosa intendo fare di voi, mio caro amico? Lasciate
intanto che vi dica che non siete fatto per la vita che condu­
cete ; più di una volta ho cercato di farvelo capire. La vita che
vi conviene è una vita di solitudine e di meditazione. Nel silen­
zio e lungi dagli uomini, potreste concentrarvi e scoprire voi
stesso. Voi avete nel vostro spirito possibilità che ignorate, ma
io che le conosco, so che siete un predestinato. Voglio che cono­
sciate il mio maestro che vive tra le montagne. Egli mi ha
chiesto di condurvi da lui, perché vuole che siate suo discepolo
per dieci anni e diventiate uno yogi >.

3 75
« Io non sono nulla di ciò che pensate ,, protestai con vee­
menza. « lo non sono menomamente fatto per restare immerso
nella meditazione accanto al vostro maestro per dieci anni.
Amo troppo la vita, la famtglia e gli amici. Sono di carattere
nomade e detesto la solitudme ».
Senza tener conto della mia interruzione, il maragia rispose
con calma :
« Quando partii per l'Europa nel 1921, il maestro mi disse :
"Tu incontrerai uno straniero che dovrai portare con te e di
cui io farò uno yogi". Egli mi descrisse così bene il vostro viso
che, quando vidi il vostro ritratto in casa della signora inglese
che m'accompagnò da voi, vi riconobbi subito. Per un essere
come voi, non deve esistere nessun legame terrestre : dovete
partire e partirete ».
Rimasi silenzioso un momento, poi bruscamente gli dissi :
« Credete in Dio? ».
Un lampo brillò nel suo sguardo.
« Sì », rispose seccamente.
« Ebbene, se credete alla potenza divina, lasciamo che essa
ci guid i e stabilisca ciò che devo fare ,,
Detto ciò lo lasciai e corsi dall'aiutante di campo per comu­
nicargli quel colloquio e la mia intenzione di andarmene il
giorno dopo.
Egli si mostrò scettico.
« Tu non conosci quell'uomo », mi disse. « Quando si è mes­
so un'idea in testa, nulla e nessuno lo fa arretrare. Egli si op­
porrà alla tua partenza con tutti i mezzi ».
"È quel che vedremo", pensai.
Al mattino feci le mie valige, ma quando ebbi chiesto
·

un'automobile per andare alla stazione lontana una ventina


di chilometri, il maragia, subito avvertito, revocò l'ordine. Mi
ripugnava scappare come un ladro, senza neanche congedar­
mi dal mio ospite; perciò mi feci il segno della croce e andai
a trovarlo. Era seduto in vestaglia e leggeva un giornale.
« Vengo a dirvi addio e a ringraziarvi dell'ospitalità :�>, gli
dissi. « Vi sarei grato se mi faceste accompagnare alla sta­
zione, perché ho appena il temp(} per arrivarci prima dell'ora
del treno :..
Senza una parola di risposta e senza uno sguardo, il ma­
ragia si alzò e sonò il campanello. Al domestico che si pre­
sentò, diede l'ordine di far venire l'automobile. Vi salii sotto
gli sguardi stupefatti del monaco e degli aiutanti di campo,
schierati in cerchio davanti alla scalinata. Raggiunsi la sta­
zione senza incidenti, ma non mi sentii veramente sicuro se
non quando fui seduto nel vagone.
Non ho mai più rivisto il maragia. Qualche anno dopo
seppi che, durante uno dei suoi soggiorni in Europa, si era
spezzato la spina dorsale cadendo da una scala. Posto in un'au­
tomobile sui corpi stesi di due dei suoi aiutanti di campo, era
stato trasportato all'ospedale, dov'era morto in capo a qual­
che giorno. Taluni particolari della sua vita e del suo carat­
tere, che venni a conoscere più tardi, avevano di che farmi
riflettere. Si raccontava, per esempio, che, essendosi un gior­
no stizzito con uno dei suoi poney da polo, avesse fatto pic­
chiare a morte la povera bestia e ne avesse poi fatto bruciare
il corpo sotto i propri occhi. Si diceva inoltre che, quando
una delle sue donne o uno degli aiutanti di campo aveva fat­
to qualche cosa che non gli andava a genio, facesse loro in­
ghiottire del vetro tritato e che il sottosuolo dei suoi palazzi
celasse camere di to:rtura attrezzate secondo i metodi più
moderni ...
CAPITOLO XXXII
(193 1 )

L a collana d i Caterina II - Defezione e morte di Polunin -


Liquidazione delle nostre imprese - Strano atteggiamento del­
la signora Whobee - Matrimonio di mio cognato Dimitri -
Come si ricevono gli uscieri - I delle Donne - Thyra Seillière.

l fondi che Polunin era riuscito a procurarci stavano esau­


rendosi e la nostra situazione finanziaria andava aggravandosi
di giorno in giorno. L'americano che teneva in affitto la villa
sul Lemano fece un'offerta di acquisto, che mia madre accet­
tò; ma siccome la casa era già ipotecata per una somma im­
portante, la vendita non ci rese gran che. I pochi gioielli che
ci restavano si trovavano nelle mani degli usurai o al Monte
di Pietà, e le polizze presso vari creditori che le avevano ac­
cettate come garanzia. Non rimanevano che i debiti e la mi­
naccia di perdere i gioielli impegnati, tra cui la perla detta
la Pellegrina, l'unico ornamento che mia madre amasse e
portasse sempre. Ella lo considerava come un feticcio e non
voleva sentir parlare di venderlo. La necessità di metterlo in
pegno aveva già provocato un dramma.
Sino a quel momento non avevo avuto da fare con gli
usurai, e ignoravo gli usi e costumi di questa fauna speciale.
Sono loro riconoscente di avermi tratto più volte da situazioni
difficili, ma debbo loro anche molti momenti penosi. Mi ac­
cadde, per esempio, di perdere tutto un lotto di gioielli, per
non aver potuto pagare in tempo gli interessi della somma
presa a prestito. Un'altra volta riafferrai appena in tempo
un gioiello unico che era appartenuto a Caterina I l : una
tracolla fatta di varie file di perle rosate, trattenute da un
grosso rubino circondato di diamanti. L'usuraio mi aveva gen-
tilmente avvertito che se gli interessi non gli fossero stati
versati alla data stabilita, prima di mezzogiorno, non avrebbe
atteso neanche un'ora per disporre del gioiello. Polunin, che
si era impegnato a trovare la somma necessaria, doveva por­
farmela alla Casa Irfé la mattina della scadenza. Lo attesi
tutta la mattina con gli occhi fissi sull'orologio. Alle undici
e mezzo, non avendolo ancora visto, mi decisi a correre dal­
l'usuraio per tentare di convincerlo a pazientare ancora un
poco. Scrissi due righe a Polunin per dirgli di venire a rag­
giungermi al più presto, ed eccomi in strada. Altro contrat­
tempo: l'automobile non c'è ; non un tassì in vista. Fermo
un'automobile guidata da un elegante spagnolo e gli spiego
che se non sono entro dieci minuti in rue de Chateaudun per­
do un gioiello di famiglia che rappresenta un patrimonio. Il
mio hidalgo è una persona gentile e uno sportivo: a mezzo­
giorno meno due minuti mi fa scendere davanti alla porta
dell'usuraio. Salgo correndo i cinque piani per apprendere
che questi è uscito portando con sé la collana. Ridiscendo an­
cor più presto di come sono salito, mi ritrovo nella strada
senza sapere che direzione prendere. Testa o croce. Prendo
a destra e mi metto a correre. Correndo penso che se anche,
per miracolo, raggiungessi la persona che cerco, non la rico­
noscerei, non avendola mai vista di schiena. L'idea mi fece
ridere, ma avrei potuto anche piangere. Improvvisamente
scorgo dinanzi a me un uomo con un pacchetto sotto il brac­
cio. Con un ultimo slancio lo raggiungo .. È lui ! Ci spieghia­
.

mo, ed egli accetta di rientrare in casa per aspettare l'arrivo


di Polunin. Ma il tempo passava, e Polunin non si vedeva.
Telefonai alla Casa lrfé, dove non era stato visto. Finalmente,
notando che l'usuraio si spazientiva e diventava diffidente,
gli offrii in pegno la mia automobile. Così fu salvata la col­
lana di Caterina Il.
Rividi Polunin soltanto parecchi giorni dopo. La singola­
rità del suo modo di fare aveva scosso la mia fiducia ; la qua­
le ricevette una nuova scossa quando udii le sue imbrogliate
spiegazioni. Ben presto notai in lui un incomprensibile cam­
biamento. Sino allora egli era stato l'esattezza in person a ; ora,
invece, arrivava in ritardo anche agli appuntamenti più 1m-

379
portanti ; e quando rilevavo la cosa, si prendeva la testa tra
le mani e rispondeva d'essere ammalato. Mi dava la netta im­
pressione di avere il cervello scombussolato. Finii col dirgli
che doveva andare a riposarsi e lo invitai a prendersi una
lunga licenza che, nelle mie intenzioni, doveva essere defini­
tiva. Non lo rividi più. Seppi più tardi ch'era stato scoperto
il suo cadavere in un treno, ma il mistero della sua morte è
rimasto inspiegato.
Nel momento delle nostre peggiori difficoltà ebbi la for­
tuna di fare la conoscenza di un inglese, sir Paolo Dukes,
che aveva abitato lungamente in Russia e parlava corretta­
mente la nostra lingua. I suoi discorsi mi ricordavano talvolta
quelli del maragia, in quanto anch'egli pensava che un
soggiorno in India mi avrebbe fatto bene. Nel frattempo si
occupò dei nostri affari così abilmente che, grazie a lui, go­
demmo di un periodo di calma. Disgraziatamente, mia ma­
dre, che la malattia e le successive disgrazie avevano reso so­
spettosa e talvolta ingiusta, ferì Dukes con qualche parola
detta senza riflettere, così fummo privati dei suoi servigi. Al­
lora un'altra fortunata combinazione, mi fece conoscere un
avvocato russo, Sergio Korganov. Intelligente e competente,
egli era anche un brav'uomo. Dio sa i guai che mi ha rispar­
miato! Molto probabilmente la prigione, perché, abituato per
lungo tempo a non aver bisogno di tener conto del danaro,
mi trovavo mal preparato alla gestione di affari impodanti
quali erano quelli in cui mi ero venuto ingolfando, per cui
cadevo in tutti i tranelli che, in queste condizioni, si aprono
sotto i passi delle persone bene intenzionate ma inesperte.
Korganov, il quale possedeva soltanto una modesta fortuna,
per trarmi da una situazione particolarmente pericolosa non
esitò a impegnare la sua proprietà, e la moglie di lui fece al­
trettanto con i propri gioielli. Sono cose che non si dimenti­
cano. Korganov e sua moglie si sono assicurati per sempre
la mia amicizia e la mia gratitudine.
Però neanche i più abili soccorsi potevano ormai ritar­
dare la catastrofe. Non avevamo più Polunin ; ben presto fu
evidente che non ci restava altra soluzione che quella di li­
quidare le nostre imprese. Fu un colpo particolarmente duro.
380
Era il crollo di tutto ciò che in dieci anni avevamo creato,
accanendoci a sostenerlo. La necessità di nascondere tutto a
mia madre, il cui stato di salute peggiorava di giorno in gior­
no, non era certo fatta per facilitare il nostro compito. Ma la
situazione non aveva altra via d'uscita, e Irina pensava come
me
. che quella penosa risoluzione si imponesse.
Frattanto le banche continuavano a rifiutarci ogni credito,
il che ci costrinse a chiedere alle clienti della Casa lrfé di
pagare le loro ordinazioni alla consegna, cosa che non era
nelle nostre consuetudini. Bull fu incaricato della delicata
missione di presentare il conto. Quando incontrava qualche
resistenza, egli s'inginocchiava con la fattura in mano, e as­
sumeva un'aria candida per implorare : « La Casa è al falli­
mento, bisogna aiutare il nostro caro principe! ». Il tono e la
messa in scena ottenevano quasi sempre l'effetto desiderato.
La maggior parte delle clienti, divertite e commosse, saldava­
no subito le fatture e Bull non tornava mai dal giro con le
mani vuote.

Mi era accaduto più volte di avere sogni profetici. Lo


stesso fenomeno si verificò in quel periodo. Mi vedevo, col mio
amico caucasico Taukan Kerelov, seduto a un tavolo di bac­
carat in una sala da giuoco che mi pareva quella di Monte­
carlo. Appena svegliato, risolvetti di partire quello stesso
giorno e telegrafai a Taukan, a Calvi, di raggiungermi al­
l'Hotel de Paris. Per tre giorni di seguito giocammo un giuoco
infernale, senza che la fortuna ci abbandonasse un solo istan­
te. Il fatto che io abbia ceduto a questo impulso è tanto più
singolare in quanto detestavo il giuoco e non frequentavo le
sale dei casinò.
Mentre la fortuna mi sorrideva in tal modo a Montecarlo,
i giornali annunciavano il mio arrivo a Bucarest dove il re
Carol, dicevano, mi aveva chiamato per affidarmi la gestione
di tutti i suoi beni. Dovetti telefonare a Boulogne per ras­
sicurare mia madre e mia moglie, che vedevano già p repa­
rarsi un nuovo scandalo!
Cominciò dunque la liquidazione delle nostre imprese.
Uno degli amici còrsi, Giuseppe Giovanni Pellegrini, c i aveva
offerto di occuparsi della cosa, e svolse il compito ingrato e
complicato con molta intelligenza e un totale disinteresse. Il
problema più difficile, e più preoccupante, era quello di pro­
curare un posto a coloro che rimanevano disoccupati. Ci vol­
lero parecchi mesi perché tutti fossero sistemati. Avevamo
stabilito di liquidare tutto, tranne la fabbrica di profumi,
che visse ancora per qualche tempo. Davanti a un insuccesso
così completo, arrivai alla conclusione di non esser fatto per
il commercio!
L'abbattimento di mia madre quando conobbe questo di­
sastro, che dovemmo pure confessarle alla fine, aumentava
il nostro dolore. Soffrimmo particolarmente, per la delusione
che ci procurò, dell'atteggiamento assunto dalla signora Who­
bee. Bibì era una persona che non entrava mai nei particolari.
Le sue reazioni erano spesso imprevedibili, ma erano sempre
prive di sfumature. Quando si rese conto della vastità della
catastrofe, mi scrisse che aveva bisogno dei locali in cui abi­
tavamo, e che mi dava otto giorni per fare le valige. Le ri­
sposi seccamente che il nostro desiderio coincideva perfetta­
mente col suo, che quei locali erano troppo stretti per noi e
che pensavamo di sloggiare e di stabilirei in Inghilterra. Sic­
come sapevo che non aveva nessuna voglia di vederci lasciare
la Francia, ero certo che la mia lettera l'avrebbe fatta riflet­
tere. Le mie previsioni erano giuste ; ma, non volendo aver
l'aria di mutare le proprie decisioni, ella finse di credere che
tutta la faccenda dipendesse da un malinteso, che una spie­
gazione avrebbe potuto dissipare. Fattomi chiamare, mi ten­
ne dunque il seguente discorsetto:
« Caro Rarità, io debbo far fare delle riparazioni nei lo­
cali che voi occupate, e, per darvi più posto di quanto ne ave­
te attualmente, farò mettere in ordine per voi una camera
con un gabinetto da bagno a pianterreno dell'edificio princi­
pale. La piccola Zenaide può restare nella propria camera ;
è malata e non sarà disturbata. lrina, voi e vostra figlia an­
drete all'albergo durante il periodo di tempo necessario per

3 82
i lavori. Voglio anche far scavare nel cortile una vasca per
mettervi dei coccodrilli >.
Accettai il nuovo accomodamento, stabilendo che nulla do­
vesse esser mutato prima del prossimo matrimonio di mio
cognato Dimitri e che, in tale occasione, il ricevimento doveva
aver luogo in casa nostra.
Di tutti i miei cognati, Dimitri è quello più indipendente
di carattere. Egli ha sempre saputo ciò che voleva e ha di­
retto la propria vita senza i consigli e gli aiuti di nessuno.
La ragazza che sposava era deliziosa, e l'unione si presentava
sotto i più lieti auspici. La sorte decise diversamente. La na­
scita di una figlia, Nadejda, non impedì ai due sposi di divor­
ziare pochi anni dopo.

Quando a Boulogne cominciarono i lavori, Irina partì per


Frogmont Cottage con la bambina. lo mi stabilii all'Hotel
Vouillemont in rue Boissy-d'Anglas, con Griscia e Punch. La
mia presenza a Parigi era necessaria sino a che non fosse
terminata la liquidazione delle imprese. D'altra parte non vo­
levo allontanarmi da mia madre, che non capiva perché ce
ne fossimo andati tutti, ]asciandola sola a Boulogne. Sola per
modo di dire, perché aveva accanto a sé un'infermiera e
due cameriere, oltre al cuoco. Riceveva molte visite, e anch'io
andavo a trovarla il più spesso possibile, negli intervalli tra
gli appuntamenti d'affari che richiedevano ancora molta par­
te del mio tempo.
Arrivando un giorno per far colazione a Boulogne, sepp i
che v'erano l ì gli uscieri incaricati di un sequestro. Infatti,
due individui dalla cera poco simpatica con le borse di pelle
nera sotto il braccio, mi aspettavano in salotto. Questo non
lo avevo proprio previsto! Non c'era che da far buon viso a una
situazione sgradevole e, per me, assolutamente nuova. Dis­
simulando la mia ansia sotto un'apparente disinvoltura, mi
rivolsi a quei sinistri uccelli con tono amichevole e indif­
ferente :
« Signori », dissi, « voi siete in casa di russi. Spero che vor­

rete rispettare le nostre usanze accettando di bere un oic­


chiere di vodka con me >.
I due si guardarono, un po' sconcertati. Senza lasciar loro
il tempo di pensarci su, feci portare la vodka. Un primo bic­
chiere diede loro la voglia di berne un secondo, che fu segui­
to da molti altri. Ben presto li considerai abbastanza cotti
per indurii ad ascoltare un po' di musica, e diedi loro il col­
po di grazia mettendo sul fonografo dei dischi di musica
zigana. Ancora un po', e si sarebbero messi a ballare il ca­
saciok (1) ! In camera sua, mia madre s'impazientiva e non
cessava di farmi chiamare, stupita di sentire che io mi diver­
tissi col fonografo invece di salire da lei. Finalmente gli in ­
desiderabili ospiti se ne andarono col loro ordine di sequestro
in tasca. Ci lasciammo amicissimi. « Ah ! voi russi », esclama­
vano battendomi familiarmente la mano sulla spalla, « siete
pur sempre gran simpaticoni l ».
Dovevamo vederli parecchie volte ancora, ma in nessun
caso essi andarono oltre l'inventario della mobilia ; mai vi fu
un vero sequestro.
L'Hotel Vouillemont, dove mi ero installato, apparteneva
ai parenti dei miei due eccellenti amici Roberto e Maria del­
le Donne. Maria, che aveva sposato il barone di Wasmer, era
piena di fascino e di originalità. Occupava nell'albergo un
appartamentino surriscaldato e sempre in disordine, che ave­
va una sua particolare attrattiva. Di salute precaria, trascor­
reva la maggior parte del tempo a letto, circondata da artisti
e scrittori tra i quali contava numerosi adoratori e amici.
Mi fece piacere ritrovar qui il segretario di suo padre, Alessio
Sukovkin, amico mio di vecchia data, ragazzo tranquillo, dol­
ce e timido, che viveva in un mondo di sogno e d'illusione.
La simpatia che mi dimostrava non andava esente da rim­
proveri per la mia vita sregolata. Egli finì per convertirsi al
buddismo e partì per il Tibet, dove si fece monaco.
Dopo giornate piene di preoccupazioni, provavo un gran­
de bisogno di mutar umore, e mi piaceva uscire la sera por­
tando con me qualche allegro compagno come i miei cauca­
sici Taukan e Ruslan, il vecchio amico Aldo Bruschi, e uno
dei miei nipoti, Marcello de La Harpe. Anche Ma:ria e Ro­
berto delle Donne erano talvolta dei nostri. La primavera era
(l) Danza popolare russa.
·-
-
ca
c
o
...
-

-
Il maragia d'A lma r .
giunta e il più delle volte andavamo nei dintorni di Parigi.
La nostra mèta favorita era Le Colombier, proprietà della
baronessa Thyra Seillière, a La Celle-Saint-Cloud, una casa
rosa che si accordava graziosamente con la verzura che la
circondava. Anche l'interno di quella dimora, dalla quale
emanava un fascino indicibile, era rosa. Avevamo conosciuto
Thyra Seillière prima della guerra del 1 9 1 4. Ella aveva per­
duto successivamente tre mariti : Enrico Menier, un russo,
Elisseiev, e l'ultimo, Riccardo Pietro Bodin che faceva la cri­
tica cinematografica nel Figaro. Vedova per la terza volta,
aveva ripreso il nome di ragazza. Amica adorabile e padrona
di casa raffinata, Thyra era anche un'ottima musicista. La sua
voce stupenda era una seduzione di più in quella donna as­
sai bella, di una bellezza da cariatide. Pur avanzando in età,
ella rimase sempre ugualmente attraente e i suoi adoratori
non diminuirono. Le numerose traversie non hanno al­
terato la dolcezza del suo carattere. Una fede profonda le ha
permesso di accettarle e di sopportarle con rassegnazione.
Oggi vive nel Lussemburgo, ritirata dal mondo, in una dimo­
ra che si è arredata col gusto abituale, sola con i propri ri­
cordi di cui ha parlato con grazia in due opere letterarie:
Oui, j'ai aimé e L'intelligence du coeur.
Al ritorno da una serata passata al Colombier, mentre
eravamo in strada per Parigi molto tardi e con una gran sete,
proposi ai compagni di fare una fermata in un albergo di
Saint-Germain per bere qualcosa. Tutto l'albergo dor­
miva, compreso il portiere di notte che russava davanti alla
porta spalancata. Senza turbare il suo sonno, scendemmo nel­
le cucine dove il contenuto delle molte ghiacciaie ci offriva
la possibilità di un pasto completo. La cena improvvisata fu
seguita da una siesta in un appartamento vuoto del primo
piano. Debitamente zavorrati, abbeverati e riposati, dopo
aver lasciato sul banco di che pagare largamente le consuma­
zioni, uscimmo come eravamo entrati, senza che il guardiano
addormentato davanti alla porta aperta facesse il più pic­
colo movimento.
Allora frequentavo lo studio di Cléo Beklemiscev, scul­
trice di valore che abitava a Montmartre con la sorella. Nono-

gss
stante la loro situazione modesta, esse davano piacevoli rice­
vimenti. Il numero degli invitati era sempre incerto, ma tutti
erano sicuri di trovare un'accoglienza calorosa e un ambiente
simpatico. Dalle Beklemiscev incontravo molti artisti e tutta
la bohème di Montmartre.
Quando i lavori furono terminati a Boulogne, lasciai non
senza rimpianto quel porto di pace ch'era l'Hotel Vouille­
mont e i cari delle Donne che, con la loro bontà e la loro ami­
cizia, mi avevano dato un appoggio morale di cui avevo il
più grande bisogno.
CAPITOLO XXXIII
(1931-1934)

Seconda fuga di Willy - Divorzio e nuovo matrimonio della


signora Whobee - Morte del granduca Alessandro - Un film
su Rasputin - Lo studio della rue de la Tourelle - Processo
alla società Metro- Goldroin-Mayer.

J....Je
trasformazioni arrecate dalla signora Whobee alla casa
di Boulogne meritavano tutta la mia approvazione, tranne
forse l'idea bizzarra che aveva avuto di accecare le finestre
della mia nuova camera che davano sul cortile, facendo tin­
gere i vetri di un color ocra sul quale erano dipinte carovane
di cammelli. Non vedevo più i fiori, il cielo, gli uccellini ; ve­
devo cammelli, soltanto cammelli. La prima cosa che feci fu
di grattare qua e là la tinta per poter gettare almeno un'oc­
chiata sul mondo esterno.
Una mattina, svegliato dalle grida provenienti dall'abita­
zione della nostra vicina, mi precipitai alla finestra e, guar­
dando di tra i cammelli, scorsi Bibì che, in camicia da notte
sul balcone, emetteva urla disperate.
« Rarità, Rarità, venite presto: Willy se ne è andato! > .
Accorsi immediatamente e appresi che suo marito le ave­
va fatto lo stesso scherzetto di Bruxelles, lasciandole, parola
per parola, lo stesso biglietto: "Cara Anna, me ne vado e non
tornerò p iù. Buona fortuna. Willy".
Bibì soffocava per l'indignazione e la rabbia.
« Rarità, andate a cercarmi subito quel miserabile. Non
voglio aver più da fare con quei c ... di detectives. Andate,
correte, e in fretta ».
Le feci osservare come non si poteva sperare di trovarlo,
mettendosi in moto a caso, senza il menomo indizio della di-
rezione presa dal fuggitivo. Ella finì coll'acconsentire a tele­
fonare alla prefettura di polizia, e, dopo tre giorni di attesa
angosciosa durante i quali non mi lasciò un momento di re­
spiro, Willy fu scoperto a Nizza nella stessa pensione di fa­
miglia della prima volta. Evidentemente era un uomo privo
d'immaginazione.
Ma poiché egli si rifiutava ostinatamente di tornare al do­
micilio coniugale, fui spedito a Nizza con l'automobile di Bibì
e la missione di ricondurre l'indegno. Riflettendo lungo la
strada a ciò che gli avrei detto, mi sembrava di essere l'ultima
persona che potesse fargli capire la ragione.
Lo trovai molto abbattuto e maldisposto. In fondo, mi ispi­
rava una certa simpatia. Aveva l'aria di un bambino che si
sente in colpa e ha paura del castigo. Avendogli finalmente
strappato la promessa di tornare a Parigi con me, telegrafai
a Bibì : "Riconduco pecorella smarrita. Partiamo domani. Cor­
dialità, Felice".
La risposta arrivò proprio poco prima della nostra par­
tenza : "Lupo aspetta pecorella. Rarità, vi adoro, Anna".
Mi guardai bene dal mostrare il telegramma a Willy.
Durante il viaggio di ritorno egli mi confidò certe cose
che io avevo già in parte intuito. Era certo più intelligente
di quanto sembrasse, e il giudizio che dava di sua moglie era
molto giusto. Mi disse che ella provava un piacere sadico a
colmarmi di elogi davanti a lui, facendo confronti scortesi
che lo esasperavano.
A misura che ci avvicinavamo a Boulogne, egli mi faceva
fermare davanti alle osterie, provando certamente il bisogno
di darsi coraggio prima di affrontare Bibì. Il lupo aspettava
la pecorella in salotto, in un silenzio gravido di minacce. Li
lasciai a quattr'òcchi e me ne andai per i miei affari, ma
avevo brutti presentimenti circa quello che sarebbe accaduto.
Al mio ritorno seppi da Griscia che i due sposi si erano se­
parati con grande fracasso. « Madama ha mandato via s uo
marito dopo una scenata terribile. Lo copriva d'ingiurie, but­
tava fuori dalla finestra i suoi abiti e le sue valige in mucchio
col fonografo e i dischi. Poi ha chiamato un tassì, e quando
il signore è stato in vettura gli ha gridato: "Buon viaggio,
signor Whobee, buon viaggio ! " �.
Vedevo benissimo la scena, ma non avevo previsto che le
cose si sarebbero spinte sino a quel segno. Me ne stetti cheto,
aspettando che la signora Whobee si facesse viva. In capo a
qualche giorno mi fece chiamare.
« Rarità », mi disse, « tengo a dichiararvi che tutto è finito
tra me e Willy. È un brav'uomo, ma stupido e sempre ubria­
co; io detesto i beoni. Mi risposerò prossimamente con un a f­
fascinante americano. Non ne dite niente a nessuno. Siete il
primo a saperlo » .
Credetti sulle prime a uno scherzo, ma ella diceva l a ve­
rità, e poco dopo sposava il suo americano. Non fummo invi­
tati al matrimonio, che si svolse davanti ai soli testimoni.

Da parecchi mesi la salute di mio suocero preoccupava


chi gli viveva accanto. lrina lo aveva condotto a Mentone,
dov'era alloggiato alla Villa Sainte-Thérèse, in casa dei no­
stri amici Cirikov. Olga Cirikov era con noi a Koreiz negli
ultimi mesi che avevamo trascorso in Crimea. Era stata l'ani­
matrice e il redattore capo del giornale che ci aveva tanto
occupato e divertito prima della partenza per l'esilio.
Olga mostrò per mio suocero una ammirevole abnegazio­
ne e, sino all'arrivo di mia suocera, diede il cambio a lrina
al capezzale del malato. V'era tra il granduca e sua figlia
una vera intimità. Ella, che era disperata al pensiero d i per­
derlo, non si staccò da lui sino all'ultimo momento. Egli mo­
rì il 26 febbraio 1 933. Quando ricevetti il telegramma che m i
annunciava l a sua morte, partii per Mentone con i miei co­
gnati Andrea, Teodoro e Dimitri. Il granduca fu seppellito
nel cimitero di Roquebrune.
Eravamo tornati da poco a Boulogne, quando venimmo
a sapere che la società Metro-Goldwin-Mayer aveva fatto
proiettare agli Stati Uniti un film intitolato Rasputin e l'im­
peratrice, nel quale veniva offeso l'onore di mia moglie. Una
avvocatessa americana, Fanny Holtzmann, che lrina aveva
conosciuto a Mentone, le consigliò di intentare un processo
per diffamazione alla Metro-Goldwin. lrina rispose che aspet­
tava di aver visto il film, che doveva essere ben presto proiet­
tato in Europa.
Appena fu dato a Parigi, andammo a vederlo. Le parti
principali erano affidate ai tre Barrymore. Io ero presentato
col nome di principe Cegodaiev e lrina sotto quello della
principessa Natascia, fidanzata del principe, che questi fini­
sce con lo sposare dopo molte scandalose peripezie ; in una
scena sulla conclusione della quale gli spettatori non poteva­
no serbare dubbi di nessun genere, la principessa cede alle
profferte di Rasputin ; più tardi ella confessa al fidanzato
che, avendo patito un simile oltraggio, si sente indegna di lui.
Per quanto sgradevole fosse per me veder portare quegli
avvenimenti sullo schermo, non era in mio potere impedirlo.
Si trattava di un fatto storico di cui io stesso avevo scritto
la narrazione. Ma per l'oltraggio fatto a lrina il caso era di­
verso. Qui la diffamazione era evidente. Non avendo potuto
ottenere l'interdizione del film, mia moglie decise di chiamare
la Metro-Goldwin davanti ai giudici.
Tale risoluzione non era priva di rischi. Intorno a noi,
tutti dicevano che era una vera follia lanciarsi in un processo
del genere senza neanche avere di che assicurarne le spese. Ma
chi non rischia non ottiene nulla, pensavamo noi. Ad ogni modo
era però necessario trovare in prestito i fondi necessari. Dopo
la sconfitta subita da noi nel processo contro Widener, non
potevo rivolgermi di nuovo a Gulbenkian. Non avevamo ri­
cevuto che rifiuti, quando Nikita ci trasse d'impaccio met­
tendoci in relazione col barone Erlanger che acconsentiva a
prestarci la somma necessaria. Fu stabilito che il processo
avrebbe avuto luogo a Londra. Fanny Holtzmann si incaricò
di scegliere i nostri difensori tra i migliori avvocati inglesi.
l preparativi dovevano durare parecchi mesi.
Nel frattempo la nostra vita a Boulogne si complicava
sempre più. Le condizioni di salute di mia madre richiede­
vano la presenza continua di un'infermiera ; ora ne avevamo
due, che si davano il cambio al suo capezzale e che bisognava
alloggiare. Avevamo messo nostra figlia come pensionante al­
la scuola per le giovinette della principessa Mes'cersky. Ma
3 90
il nostro spazio vitale rimaneva sempre insufficiente. L'atmo­
sfera della casa nella quale vivevamo l'uno a ridosso dell'al­
tro non era più tollerabile. Pensai allora di cercare nei dintor­
ni un modo di sistemarmi insieme con lrina. Un p ianterreno
di due stanze era libero a pochi passi da noi, in rue de la
Tourelle, una specie di piccolo studio nel quale la luce en­
trava a torrenti attraverso i larghi finestroni. Vi trasportai
mobili, tappeti e tende dalla rue Gutenberg, e il ricovero
scelto a caso divenne un angolo accogliente nel quale final­
mente abitammo per vari anni, sino alla vigilia della guerra.

I preparativi per il processo contro la Metro-Goldwin fu­


rono finiti all'inizio del 1 934. I nostri avvocati erano sir Pa­
trick Hastings e H. Brooks. Quello della parte avversa, sir
William Jowitt. Presidente del tribunale era Orazio Avory.
L'annuncio del processo suscitò molte chiacchiere tanto a
Parigi quando a Londra : « La cosa promette bene », dicevano
gli uni. « Ancora uno scandalo. Felice Yussupov non sa vi­
vere a lungo senza far parlare di sé. È un processo perso in
anticipo » .
« Bene ! » , dicevano gli altri. « La principessa Irina non
teme di intentare un processo a una ditta ebraica così potente.
Buona lezione per coloro che si permettono di attaccare le
persone nella vita privata e di trascinare il loro nome nel
fango » .
L e posizioni erano queste : mia moglie era p ersuasa che il
film in questione la mettesse in scena sotto il nome di princi­
pessa Natascia, e che, per conseguenza, la scena in cui que­
st'ultima cede alle profferte di Rasputin costituisse un'evi­
dente diffamazione nei suoi riguardi. Dal canto loro, i difen­
sori della casa cinematografica, pur ammettendo che il p rin­
cipe Cegodaiev e io fossimo una sola persona, dichiaravano
che, al contrario, la parte di Natascia era meramente fittizia.
Tutto il processo doveva dunque svolgersi su questo p unto.
Gli avvocati avevano chiesto a lrina di trovarsi a Londra
quindici giorni prima dell'apertura dei dibattimenti, fissata
per il 28 febbraio. Io avrei dovuto raggiungerla p iù tardi.

39 1
Bibì che, non so per quale motivo, disapprovava il processo,
si era fatta premura di avvertirci che se lo avessimo perso
ci avrebbe ripreso i locali in cui abitavamo.
Partii per Londra in aeroplano per guadagnar tempo. Il
mio orrore dell'altezza mi aveva sempre tenuto lontano da
questo mezzo di trasporto; si trattava quindi del mio primo
viaggio aereo. Tuttavia, quando l'apparecchio si librò, non
provai nessuna apprensione e nessuna vertigine ; soltanto l'im­
'pressione inebriante di essere strappato alla terra. Bull,
che avevo portato con me, restava pensieroso e silenzioso.
Quando fummo in vista della costa inglese, qualche cosa si
guastò nell'aeroplano, che cominciò a scendere in modo preoc­
cupante. In quel momento critico Bull mi disse, inchinan­
dosi : « Altezza, credo che stiamo involandoci insieme verso
il regno dei cieli ». Per fortuna la riva era prossima e l'aereo
riuscì ad atterrare, restando però per metà nell'acqua. · Ne
uscimmo immollati come spugne. Tutto sommato, mi convinsi
che erano preferibili il treno e il piroscafo.
Irina era arrivata da Windsor e ci stabilimmo a Londra
per essere più vicini ai nostri avvocati. Inoltre eravamo stati
avvertiti che la nostra presenza in tribunale era indispensa­
bile per tutta la durata delle udienze. Non avevo nessuna
preoccupazione per Irina. Timida e silenziosa per natura, ella
ha sempre saputo, quand'era necessario, mostrarsi intrepida e
tenere in rispetto l'avversario. La vista dell'aula nella quale
dovemmo entrare, piena zeppa di gente, era veramente im­
pressionante.
Quando sir Patrick Hastings ebbe esposto i motivi della
querela, l'udienza fu interrotta per consentire ai giurati di
assistere alla proiezione del film. Poi Irina fu chiamata alla
sbarra. Con un abile interrogatorio, sir Patrick rese evidenti
t utti i punti di identità tra la principessa Natascia e mia mo­
glie. Inoltre insistette sul fatto che quest'ultima non aveva
mai conosciuto Rasputin.
Allora la parola fu concessa all'avvocato della parte av­
versa, sir William Jowitt, che si rivolse a Irina con perfetta
cortesia.
« Io non pretendo che una relazione di qualsiasi genere

39 2
sia mai esistita tra voi e Rasputin », disse. c: Al contrario, af­
fermo che tutto, nella vostra vita e nelle vostre maniere, è
così profondamente opposto a ciò che Rasputin rappresen­
tava, che è perfettamente assurdo per chiunque vi conosca,
fosse pure soltanto di fama, immagina re che voi possiate es­
sere in causa ».
L'indomani sir William Jowitt riprese con lrina il dialogo
iniziato il giorno prima : interrogatorio sempre cortese, ma
serrato, che si prolungò per ben cinque ore. S forzandosi di
sottolineare la scarsa analogia esistente tra l'eroina del film
e mia moglie, egli aggiunse che i registi si erano presi le più
grandi libertà anche con gli altri personaggi, e insinuò che
v'erano sensibili diversità anche tra me e il principe Cego­
daiev quale ap pariva sullo schermo col volto di John Barry­
more. Egli si sforzava di far stabilire queste diversità dalla
stessa lrina.
« Suppongo voi conosciate l'ambasciatore di Francia Mau­
rizio Paléologue che, nelle sue memorie, parla del principe
Yussupov. "Delicato, effeminato" ; è questa una descrizione
esatta di vostro marito? ».
« No, non credo. Almeno per me ».
« Egli era delicato, non è vero? ».
« Sì ».
« Dotato di grande intelligenza e di gusto per le arti » .
« Sì ».
« Un dilettante :..
« Sì ».
Sir William fa notare che nel film il principe Cegodaiev
è rappresentato come un ufficiale di cavalleria dal carattere
solidamente temprato, autoritario, brutale. Egli vive nell'in­
timità della famiglia imperiale e viene esiliato dopo l'assas­
sinio di Rasputin. Questi due ultimi fatti non lo ravvicinano
piuttosto al granduca Dimitri che fu uno dei complici del de­
litto? L'avvocato della Metro-Goldwin cita altre scene del
film per sostenere le proprie affermazioni. Insomma, secondo
lui, i registi si sono presi tante e tali libertà con la storia che
nessuno può riconoscersi nel film. Egli conclude col doman-

393
dare come, in realtà, fu ucciso Rasputin, domanda che gli
attira questa risposta :
« Domandatelo a mio marito. L o s a meglio di me ».
L'interrogatorio di Irina era terminato.
« Quando la bellezza è in causa, tutti gli oratori sono mu­
ti », lasciò cadere sentenziosamente il giudice Avory, « ma
non sir William Jowitt », aggiunse con una punta di malizia.
Il giorno dopo toccò a me. Non mi fu risparmiata alcuna
domanda e io dovetti, a pezzi, fare il racconto completo di
quella notte d'incubo. Sempre preoccupato di mettere in ri­
lievo le diversità tra i personaggi del film e quelli della real­
tà, sir William Jowitt mi domandò se, nei momenti che ave­
vano preceduto l'assassinio, non avessi provato un grande
nervosismo.
« È abbastanza naturale », risposi, « dato che non sono un
assassino di professione ».
Dopo l'escussione degli ultimi testimoni, che durò ancora
due giorni, fu pronunciato un verdetto in nostro favore. La
proiezione del film nella forma attuale era proibita, e la Me­
tro-Goldwin era colpita da una ammenda abbastanza forte
da farle rimpiangere l'ingiuria fatta all'onore di mia moglie.
I nostri avvocati si rallegrarono calorosamente con noi,
aggiungendo che quel processo avrebbe costituito per loro
un ricordo imperituro, in quanto che essi non avevano mai
e probabilmente non avrebbero avuto mai più l'occasione di
vedere alla sbarra una principessa del sangue e di udire un
principe ricostruire pubblicamente l'assassinio di cui era sta­
to l'autore.
CAPITOLO XXXIV
( 1 934-1938)

Il barcone di Valeria - Esposizione di gioielli russi a Londra


- Il negozio di Dover Street - Fidanzamento di mia figlia e
malattia del fidanzato - Con B ibì in campagna - Ultima riu­
nione di famiglia a Frogmore Cottage - Rapimento del gene­
rale Miller - Screzio con Bibì - Mia madre si stabilisce a Sè­
vres - Matrimonio di mia figlia - Morte di Bibì - Sarcelles.

Eravamo appena tornati a Parigi che subimmo un assalto


dei creditori, convinti che, avendo vinto il processo, noi tor­
nassimo con le tasche piene di milioni. La realtà era tutt'altra.
La Metro-Goldwin era ricorsa in appello; la conferma della
prima sentenza doveva richiedere vari mesi, e il versamento
dell'ammenda inflitta alla casa cinematografica veniva ritar­
dato in conseguenza. Invano Koroganov cercò di far capire
la ragione a quella gente che aveva fretta di vedere il pro­
prio danaro. Essi non ci avevano messo molto a scoprire il
nostro nuovo indirizzo e assediavano la nostra porta, obbli­
gandoci così alla clausura per molte ore, spesso per intere
giornate. Finimmo per sfuggir loro andando a rifugiarci nel
barcone di Valeria, ormeggiato al ponte di Neuilly.
Non c'è niente di più delizioso e di più riposante della vi­
ta su un barcone. Valeria aveva arredato il proprio con gusto
e con un senso perfetto della comodità. Viveva lì, molto riti­
rata, senza alcun contatto con un mondo che le faceva paura.
Al mattino eravamo ridestati dal gorgheggio degli uccelli, e
avevamo appena aperto gli occhi che cani, gatti e conigli ve­
nivano per turno a farci visita. Se ci piaceva passare la gior­
nata in pigiama, nessuno poteva trovarci nulla da ridire.
Godevamo di una solitudine e di una libertà assolute in mezzo
a un branco numeroso di bestie familiari.

395
Tutte le sere facevamo un po' di musica. Valeria, come
sua zia, aveva una voce bassa e commovente, ma la sua sel­
vatichezza e un complesso d'inferiorità l'avevano sempre trat­
tenuta dal cantare in pubblico, come io la spingevo a fare.
Quando, più tardi, si decise, i parigini poterono udirla per
qualche tempo al Poullailler a Montmartre, dove compariva
in smoking color turchese con bottoni di diamanti e calzoni
neri. Con i capelli corvini appiccicati al cranio e la carna­
gione fosca, sembrava più orientale che mai. Di prim'acchito
ebbe un successo che si fece sempre più grande, ma era ap­
punto questo successo a spaventar1a, per cui non tardò a
troncare una carriera che prometteva d'essere brillante per
tornare al barcone e alle sue bestie.
Trascorremmo l'estate sul barcone di Valeria. Nel frat­
tempo il ricorso in appello della Metro-Goldwin era stato re­
spinto e il versamento dell'indennità prevista ci avrebbe per­
messo di pagare i debiti e di disimpegnare una parte dei
gioielli. Secondo il desiderio di lrina, il resto della somma
fu messo a frutto, risoluzione di cui dovevo riconoscere la
saggezza.
Ci eravamo da poco ristabiliti in rue de la Tourelle, quan­
do un giorno fui chiamato al telefono dal presidente della
Loggia massonica russa di Parigi. Diceva di avere una pro­
posta da farmi e precisava che il colloquio avrebbe dovuto
aver luogo in casa mia, senza testimoni e a un'ora tarda. Cu­
rioso di sapere che cosa volesse, gli diedi appuntamento nelle
condizioni richieste. Egli mi fece l'impressione di un uomo
intelligente, autoritario e molto convinto. La sua visita aveva
lo scopo di invitarmi a far parte dell'associazione ch'egli pre­
siedeva. Dipendeva da me vedere la mia situazione radical­
mente mutata. Somme importanti sarebbero state poste a mia
disposizione e io sarei partito immediatamente per l'America,
incaricato di una missione di fiducia. L'avvenire mi era pre­
sentato sotto i colori più lusinghieri, ma quando volli sapere
in che consistesse la missione di cui avrei dovuto essere inca­
ricato, il visitatore dichiarò che non poteva rivelarmela pri­
ma di aver avuto il mio consenso. Gli dissi che, in queste con­
dizioni, mi vedevo costretto a declinare un'offerta che, per
quanto lusinghiera, minacciava di limitare un'indipendenza
alla quale tenevo più che a tutto il resto.
In seguito lo incontrai più volte, e sempre egli mi ripeté
l'offerta.
Nel maggio 1 935, a Londra, doveva aprirsi un'esposizione
di gioielli di provenienza russa. Gli organizzatori ci avevano
pregato di prestar loro la "Pellegrina", per cui andammo
a portarla di persona. Arrivati a Londra in piena stagione
elegante senza aver preso la precauzione di prenotare una
camera, trovammo tutti gli alberghi pieni. Dopo inutili e spos­
santi ricerche, essendo troppo tardi per andare a Frogmore
Cottage, finimmo col suonare alla porta di una casa ancora
illuminata in Jermyn Street, che aveva l'aria di una pen­
sione di famiglia. Fummo accolti da una signora dai capelli
bianchi, correttamente vestita di nero, con un medaglione
d'oro al collo. C'era in salotto, tra molte fotografie di gente
nota, un ritratto del re Edoardo VII. A vendo chiesto senza
grandi speranze se ci fosse ancora una camera libera, fummo
gradevolmente sorpresi di ricevere una risposta affermativa.
La camera era attigua a un gabinetto da bagno, il tutto molto
elegante, per non dire lussuoso. Eravamo stanchissimi e non
pensavamo che alla soddisfazione di fare un bagno e di an­
dare a letto, senza troppo chiederci a che cosa dovessimo
quella singolare fortuna. N el cuor della notte fummo sve­
gliati da un rumore di voci nel corridoio e da colpi battuti
alla nostra porta.
Quei rumori notturni, abbastanza insoliti in una casa di
apparenza tranquilla, potevano essere attribuiti al ritorno tar­
divo di un cliente un po' brillo. Troppo stanchi per preoccu­
parcene, quando il rumore cessò, ci riaddormentammo.
Mia suocera e i miei cognati Dimitri e Nikita vennero la
mattina dopo a far colazione con noi. Lo stesso giorno ap­
prendemmo da uno dei nostri amici, Tony Gandarillas, ad­
detto all'ambasciata del Cile, che la padrona di quell'albergo
era una certa Rosa Lewis, che si era meritata la celebrità
come cuoca. Edoardo VII aveva apprezzato tanto la sua cu­
cina quanto la sua bellezza. Ben presto ella aveva abbando­
nato le casseruole per aprire quell'albergo, noto negli am-

397
bienti festaiuoli londinesi come, in altri tempi, a Vienna, l'al­
bergo di Frau Sacher, frequentato da tutta la gioventù do­
rata della capitale austriaca. Rosa Lewis beveva parecchio
e unicamente champagne, solo vino ammesso nella casa.
Tony Gandarillas ci propose di andar a stare con lui, nel­
la sua deliziosa casa di Cheyne Walk, in cui avevamo sog­
giornato già varie volte. Eternamente giovane e grande fa­
vorito della società londinese, Tony è uno degli uomini più
spiritosi e divertenti che abbia conosciuto. Ha anche scritto
un libro, My royal past, di una buffoneria irresistibile.
Una nota nel catalogo dell'esposizione definiva la "Pelle­
grina" come una perla storica che, nel XIV secolo, aveva fat­
to parte della corona di Spagna. La leggenda secondo cui in
origine avrebbe appartenuto alla regina Cleopatra era an­
ch'essa menzionata. Nondimeno, il principe d'Abercorn, pos­
sessore di una perla che considerava come la vera "Pellegri­
na", contestava l'autenticità della nostra. Confrontando le due
perle potemmo renderei conto di come esse presentassero no­
tevoli differenze di dimensioni, di forma e di peso. Per met­
tere la cosa in chiaro, andai alla biblioteca del British Mu­
seum a consultare le opere relative ai gioielli storici. La de­
scrizione che vi trovai della "Pellegrina" di Filippo II e l'in­
dicazione del suo peso corrispondevano non già alla perla del
duca d'Abercorn, ma molto esattamente alla nostra.
L'esposizione contava numerosi visitatori. La principessa
Fafka Lobanov di Rostov, sorella di lady Egerton ed ex da­
migella d'onore della granduchessa Elisabetta, che io cono­
scevo dal tempo della mia infanzia, vi passava le giornate
come guida officiosa. Ella non mancava né di fantasia né di
parlantina, e nulla poteva divertirla come mettere alla prova
la credulità della gente raccontando con grande faccia tosta
le cose più impossibili. Un giorno la trovai circondata da un
uditorio molto attento, davanti alla vetrina ov'era la "Pelle­
grina". Essendomi avvicinato per ascoltare il suo imboni­
mento, udii che stava raccontando la storia della perla che
Cleopatra fece sciogliere nell'aceto allo scopo di stupire An­
tonio con le stravaganze del proprio lusso. Terminato il rac-
conto, fece una pausa p er preparare l'effetto e concluse : < È
la stessa perla che avete ora davanti a voi » .
Incidentalmente, raccontava che l e sale del suo palazzo
di Pietroburgo erano talmente vaste che, stando all'uno dei
capi, non si poteva vederne l'altro ; o come, mentre faceva il
bagno nel golfo di Sebastopoli, avesse salvato una corazzata
in difficoltà afferrando la catena dell'ancora e trascinandosi
dietro a nuoto la nave sino in porto.
Durante quel soggiorno a Londra, la signora Lythgaw
Smith, inglese per matrimonio, ma russa di nascita, mi pro­
pose di aprire un negozio a Londra per vendere i profumi
della Casa lrfé. Accettai subito la proposta e ben presto si
poté vedere, al 45 in Dover Street, un elegante negozietto in
stile Direttorio, dipinto in grigio chiaro con tendine di cretonne
a righe grigio e rosa. Di una delle stanze attigue avevo fatto
una stanza da letto dove dormivo con lrina. La concezione
di quella camera, alla quale avevo dato l'aspetto di una ten­
da, divertiva i visitatori e contribuì al successo del nostro
negozio.
Tornati da Londra, nostra figlia ci comunicò l'intenzione
di sposare il conte Nicola Cheremetev. I genitori sono sempre
un po' addolorati di dover ammettere che i figli si fanno gran­
di, e noi non sfuggivamo alla regola. Non potevamo adattarci
all'idea che la bambina fosse diventata una signorina e pen­
sasse a sposars i ! Nondimeno, Nicola aveva quanto era neces­
sario per piacerei, e noi non potevamo se non approvare la
scelta di nostra figlia. Ci rallegravamo dunque p ienamente
della sua felicità, quando un incidente imprevisto per poco
non la compromise definitivamente : Nicola, colpito dalla tu­
bercolosi, dovette partire per la Svizzera. Ogni progetto ma­
trimoniale doveva per il momento essere messo da parte, e,
nonostante il dolore di nostra figlia, dovemmo rifiutarle il
permesso che ella ci chiedeva di raggiungere il fidanzato.
Qualche mese dopo le notizie si fecero abbastanza rassicu­
ranti da indurci a permetterle di partire, ma riservammo
egualmente il nostro consenso al matrimonio sino a che i me­
dici non ci avessero data la garanzia dell'avvenuta totale
guarigione.

399
Bibì, stabilitasi in campagna per l'estate, mi telefonò una
mattina per dirmi che aveva preso in affitto per noi una villa
vicina alla sua proprietà e per invitarci ad andare ad abi­
tarvi al più presto. Diffidando dei suoi capricci e sapendo
che era capace di aver preso in affitto tanto un palazzo quan­
to un molino in rovina, andai a vedere come stessero le cose.
Per fortuna la casa in questione, posta sulle rive dell'Aisne,
al margine della foresta di Compiègne, era molto graziosa e
comoda. Andammo subito ad abitarvi con qualcuno dei no­
stri amici russi, tra cui la coppia Kalasc'nikov e una donna
affascinante, la contessa Elisabetta Grabbé, che faceva l'in­
dossatrice da Molyneux. Qui, come in qualunque alfro luogo,
la sua bellezza e il suo carattere amabile le attiravano tutte
le simpatie.
Trascorrevamo le giornate nella foresta o sul fiume. Le
serate in casa di Bibì erano sempre rallegrate da qualche di­
strazione. Il più delle volte si trattava del violinista Gulesco
o di altri musicisti che ella invitava. In mancanza di musica
faceva proiettare dei films. Allora ella veniva sistemata in
mezzo alla stanza su una poltrona a dondolo, davanti a un
tavolo a rotelle pieno di bottiglie, col suo vaso da notte d'ar­
gento a portata di mano. Accanto a ognuna delle sedie de­
stinate agli invitati si trovava un tavolinetto con portacenere,
sigarette e bicchierini da liquore. Tutti gli abitanti della ca­
sa, compresi i domestici, dovevano assistere alle rappresen­
tazioni. Bibì cominciava col dondolarsi un poco, poi batteva
tre colpi col bastone e lo spettacolo incominciava. Se, come
accadeva spesso, uno degli attori non era di suo gusto, lo co­
priva di ingiurie e lanciava le bottiglie contro lo schermo.
Bibì aveva acquistato tutta una famiglia di gazzelle ch'e­
rano state chiuse provvisoriamente in una rimessa, luogo scel­
to assai male, perché proprio nei pressi si trovava una gabbia
che conteneva un orso discretamente feroce. Una mattina i
domestici vennero a chiamarci in gran fretta : qualcuno aveva
sbadatamente lasciato aperta la porta della rimessa e le gaz­
zelle, impaurite dai grugniti dell'orso, erano fuggite. Tutti
i vicini dovevano essere mobilitati per riprenderle. Trovammo
400
T: autore con la moalie, a C alo i ( 1928).
Bibì seduta sulla terrazza, circondata dai domestici ai quali
impartiva ordini incoerenti.
« Andate a cercarmi i cani », gridava agitando il bastone.
La cameriera si allontanò e tornò poco dopo tenendo a
guinzaglio due piccoli fox terriers. Quando li vide, Bibì di­
venne furibonda :
« Pezzo di idiota », urlò, « non è con simili aborti che si
possono prendere delle gazzelle! Ci vogliono cani da caccia,
cani da muta. Andateli a chiedere ai vicini :�>.
Fortunatamente per le gazzelle, esse si lasciarono cattu­
rare senza cani.
La giornata terminò con un pranzo eccellente accompa­
gnato, come sempre, dai vini più squisiti. In quell'occasione
facemmo più ampia conoscenza col nuovo marito di Bibì,
che sino allora avevamo scorto appena. Aveva un ottimo aspet­
to : alto, elegante, capelli brizzolati. Si sarebbe detto che le
eccentricità di sua moglie non avessero p resa alcuna sul suo
carattere flemmatico. D'altronde non ebbe da sopportarle mol­
to a lungo, perché ella doveva morire qualche mese dopo.
Bibì si era messa in mente di far costruire una casa per
noi accanto alla propria. Chiamò l'architetto e, p er ore, dise­
gnò i piani della nostra futura dimora. Nello stesso temp o ci
comunicò l'intenzione di lasciare a nostra figlia uno dei suoi
palazzi di Parigi. A tale scopo andò anzi a trovare il
notaio e prese tutte le disposizioni necessarie.
Prima della fine dell'estate partimmo per Frogmore Cot­
tage, dove mia suocera riuniva quell'anno tutti i suoi figliuoli,
cosa eccezionale, specialmente per quel che riguardava Roti­
slavo e Basilio che da anni abitavano in America, dove si era­
no ammogliati. Avevano sposato entrambi una principessa
Galizin. Quelle cognate, che conoscevo appena, erano molto
diverse l'una dall'altra, ma tutte e due molto belle e simpa­
tiche. La riunione di famiglia, che rappresentò una grande
gioia per mia suocera e per tutti noi, doveva essere l'ultima
tenuta a Windsor. Il re Giorgio V era morto l'inverno prece­
dente e la granduchessa venne avvisata che doveva lasciare
Frogmore Cottage per una nuova residenza ad Hampton
Court.

401
Tornati a Parigi, fummo informati della scomparsa del ge­
nerale Miller, il quale, dopo aver tenuto un comando nell'eser­
cito bianco, era succeduto al generale Kutiepov come presi­
dente dell'Associazione degli ex combattenti. Il ratto del ge­
nerale Kutiepov aveva rivelato come fosse necessario p'ro­
teggere il suo successore; di conseguenza erano state prese
misure di sicurezza e un certo numero di guardie del corpo,
scelte tra gli ex ufficiali, aveva l'incarico di vegliare sul ge­
nerale Miller. Sapendo che i suoi subordinati avevano tutti
necessità di guadagnarsi la vita, il generale aveva accettato
controvoglia quella risoluzione che obbligava qualcuno di es­
si a un supplemento di lavoro. Spesso, anzi, usciva solo, no­
nostante le proteste degli amici. In capo a un certo tempo,
non essendo accaduto alcun incidente sospetto, egli aveva
definitivamente soppresso la guardia personale, fidandosi per
la propria sicurezza degli autisti di cui si serviva per i suoi
spostamenti.
Il 23 settembre 1936 il generale era passato al proprio uf­
ficio in rue du Colisée, dove aveva lasciato un rigo per l'ami­
co e collaboratore generale Kussonsky, avvisandolo che si
recava a un appuntamento cui era stato invitato dal gene­
rale Skoblin, uno dei membri dirigenti dell'Associazione de­
gli ex combattenti, e durante il quale avrebbe dovuto incon­
trarsi con un agente anticomunista che tornava da Mosca.
Si poté stabilire che il generale aveva preso la sotterranea
per recarsi all'appuntamento, era sceso alla stazione Jasmin
ed era entrato in una casa della rue Raffet, dalla quale era
stato poi visto uscire insieme col generale Skoblin e salire
in un'automobile di cui quest'ultimo aveva preso il volante.
Da quel momento si perdono definitivamente le sue tracce.
Arrivato alla fine del pomeriggio in rue du Colisée, il ge­
nerale Kussonsky trovò sulla scrivania del capo il messaggio
con cui questi lo informava che si recava all'appuntamento da­
togli da Skoblin. Nello stesso momento la signora Miller, in­
quieta per l'assenza prolungata del marito, telefonava in rue
du Colisée. In preda all'angoscia, i collaboratori del generale
402
telefonarono in varie direzioni, rivolgendosi a tutti coloro che
presumevano avessero potuto vederlo durante il pomeriggio.
A questo punto sopravvenne il generale Skoblin, ostentando
una calma assoluta. Quando gli venne mostrato il biglietto e
gli fu chiesto che cosa fosse accaduto del generale Miller,
balbettò qualche parola confusa e uscì dicendo che sarebbe
tornato di lì a poco. Venne atteso invano: nessuno lo rivide
mai più. Sua moglie, Nadeja Plcvizkaia, celebre interprete
di canzoni russe, fu arrestata, processata e condannata a ven­
t'anni di prigione, giacché l'inchiesta stabilì ch'era stata com­
plice del marito nel ratto del generale Miller. Ella doveva
morire durante la prigionia.
Tutta questa faccenda ci commosse molto, in quanto che
conoscevamo la coppia Skoblin. La Plevizkaia, specialmente,
era venuta spesso a cantare in casa nostra, e ci aveva anzi
sempre urtati per l'affettazione del proprio atteggiamento
quando si inginocchiava e piangeva davanti al ritratto del­
l'imperatore.

Da qualche tempo la salute di mia madre presentava un


sensibile miglioramento. Ella era curata dal dottor S ... , il cui
metodo speciale otteneva spesso risultati sorprendenti sui ma­
lati abbandonati dagli altri medici. La nuova cura cui aveva
sottoposto mia madre sembrava averla trasformata. Ora
usciva quasi ogni giorno e veniva spesso a far colazione con
noi in rue de la Tourelle. Talvolta l'accompagnavo al cinema ;
era la sua grande distrazione, ed ella seguiva sempre con in­
teresse l'apparizione dei nuovi films. Sembrava ringiovanita
di dieci anni. Mi sentivo commosso e felice di vederla, come
in altri tempi, accuratamente pettinata e p rofumata, di -ri­
trovare il suo sguardo tenero e intelligente, l'incanto del suo
sorriso e la grazia del suo passo. Tutti stupivano di riscon­
trare in lei, a settantacinque anni, il colorito di una giovi­
netta. Mia madre non usava né trucco, né cipria, ma la sua
vecchia domestica Paolina le preparava una lozione di cui
fece uso tutta la vita, lozione, per così dire, storica, giacché
mia madre ne aveva trovato la ricetta in un giornale inedìto
lasciato da Caterina II la cui carnagione era celebre; ricetta
semplicissima a base di succo di limone, di chiara d'uovo e
di vodka.
Questo miglioramento, di cui ero felice, fu effimero. Ben
presto, infatti, le condizioni di mia madre apparvero peggiori
di come era stato prima di quel breve momento di respiro.
Non si alzava più dal letto e rifiutava ogni cibo. I medici
rinunciarono a curarla: neanche il dottor S ... poteva far più
niente per lei, e siccome mi voleva accanto a sé giorno e notte,
dovetti tornare in rue Gutenberg.
Durante l'estate del 1 93? mi fu impossibile allontanarmi,
e Bibì si lamentava di essere abbandonata. Un pomeriggio mi
telefonò per dirmi che mi aspettava a pranzo quella sera c
che avrei dovuto portare con me Gulesco e qualche altro mu­
sicista. Mi scusai allegando l'impossibilità di abbandonare
mia madre gravemente ammalata. Ma per Bibì si trattava di
una considerazione secondaria, che non poteva opporsi ai
suoi capricci. Folle di rabbia, cominciò con l'andare dal no­
taio per far annullare la clausola del testamento con cui
lasciava un palazzo a mia figlia ; poi mi scrisse una lettera
furibonda, dicendomi che, poiché la sua vicinanza aveva ces­
sato di andarmi a genio, non vedeva più la necessità di far
costruire una casa per noi accanto alla sua, e che, inoltre, ci
riprendeva quella in cui abitava mia madre. Senza perdere
tempo a discutere con lei, mi occupai subito di trovare una
abitazione per mia madre altrove.
La principessa Gabriel mi propose un appartamento non
ammobiliato e molto bene esposto che si trovava libero nella
casa di riposo per gli emigrati di cui ella si occupava a
Sèvres. Non potevo desiderare nulla di meglio, ma bisognava
far accettare a mia madre l'idea di sgomberare. Ella non volle
sentirne parlare e non vi si rassegnò se non quando la rive­
lazione dell'ultimatum di Bibì gliene fece capire la necessità.
Noleggiai un furgone per trasportare i suoi mobili e le sue
cose, e andai a Sèvres con Griscia per i necessari preparativi.
Quando ebbi finito tornai a Boulogne a prenderla. Non di­
menticherò mai l'impressione dolorosa che provai alla vista
di mia madre che mi aspettava, tutta vestita e pronta a par-
tire, seduta su una sedia in mezzo alla camera vuota. Durante
il tragitto non disse una parola, e quando vide il nuovo ap­
partamento, tutto pieno di sole e dei fiori che amava, scoppiò
in singhiozzi. Rimasi accanto a lei per qualche giorno, sino a
che si fu un po' acclimata, e quando la vidi più calma,
tornai in rue de la Tourelle.
Appresi che Bibì era ammalata. Doveva morire qualche
tempo dopo, senza che noi la rivedessimo.
Erano quasi due anni che Nicola Cheremetev si trovava a
Losanna, quando il dottor Scheller che lo curava ci scrisse che
l'ammalato era ormai completamente guarito e che nessuna
ragione di salute si opponeva p iù all'unione progettata. Date
le buone notizie non rimaneva più che fissare il luogo e la
data delle nozze. I genitori del mio futuro genero abitavano
a Roma, dove avrebbe dovuto stabilirsi anche la giovane cop­
pia. Per loro desiderio il matrimonio ebbe luogo nella chiesa
russa di quella città nel giugno 1 938.
Mia madre s'era a poco a poco abituata al nuovo apparta­
mento. Poiché vi si trovava a suo agio e la sua salute non
esigeva più la mia presenza continua, pensavamo ad abban­
donare lo studio della rue de la Tourelle per trasferirei in
campagna. Dopo aver perlustrato a lungo i dintorni di Pa­
rigi, finimmo col trovare a Sarcelles sulla strada di Chantilly,
una casa d'affitto che si adattava ai nostri bisogni. Questa
casa, che datava dal XVIII secolo, ricordava stranamente certe
case di campagna russe. Eravamo alla vigilia di sgomberare
quando nostra figlia venne a trovarci da Roma. Durante il
periodo del suo soggiorno ella alloggiò con mia madre a Sè­
vres. Certo, allora non pensavamo che questa riunione di cui
eravamo tanto felici sarebbe stata seguita da una separazione
di otto lunghi anni.
L'inizio del soggiorno a Sarcelles fu senza dubbio il mo­
mento più felice del tempo vissuto in esilio. Era la prima
volta dopo il nostro matrimonio che mi trovavo solo con Irina.
Sarcelles non era molto lontano da Parigi, tuttavia avremmo
potuto illuderci di essere in capo al mondo. Dopo gli andiri­
vieni continui di Boulogne, rappresentava la tranquillità asso­
luta. Vivevamo come contadini, alzandoci presto e lavoranao
con Griscia e Dionisia in giardino e nell'orto. Il resto del tem­
po, lrina disegnava e io leggevo ad alta voce. Non vedevamo
più nessuno, fatta eccezione per una vecchia coppia simpa­
tica, il signor Berneix, scrittore di valore, e sua moglie, sorella
dell'attrice Germaine Dermoz. In seguito a grandi rovesci di
fortuna essi erano venuti a Sarcelles, dove alloggiavano in
una casa di riposo. Ciò non dava loro alcuna amarezza, per­
ché erano di quelle persone che sanno trarre dai dolori e dalle
delusiohi lezioni di saggezza e di serenità.
Non vivemmo a lungo in quell'isolamento, poiché i nostri
amici presero ben presto l'abitudine di venire a Sarcelles e,
specialmente la domenica, la casa conobbe una nuova ani­
mazione. Ma in quell'estate del 1939 le nostre riunioni erano
prive di vera allegria ; non si parlava se non delle minacce di
guerra ch'erano nell'aria, e tutti consideravano il conflitto
inevitabile.
CAPITOLO XXXV
( 1 939-1 940)

Delusione degli emigrati per il patto tedesco-sovietico - Ri­


percussioni della guerra sulla colonia russa - Sarcelles, luogo
di accantonamento - Un ricovero contro i gas - Morte di mia
madre - Primo Natale di guerra - Fuga delle popolazioni da­
vanti all'invasione tedesca - I tedeschi a Parigi - L'estate del
1940 a Sarcelles - Ricevo dagli occupanti offerte per la "Pel­
legrina" - Triste fine di Valeria - Ritorno a Parigi - Un inviato
del Filhrer - La situazione dei russi antibolscevichi davanti
all'invasione hitleriana del territorio russo.

D a quando Hitler aveva preso posizione ufficialmente con­


tro il comunismo, la maggior parte dei russi erano inclini a
vedere in lui un eventuale alleato; il patto concluso nel 1 939
tra la Germania nazista e la Russia sovietica dissipò l'illusio­
ne. La politica della Germania fu allora violentemente attac­
cata nella stampa dell'emigrazione.
La mobilitazione portò con sé la chiusura di molte imprese
in cui lavoravano i russi, e la disoccupazione tra i rifugiati
ne fu accresciuta. Molti giovani russi considerati apolidi in
seguito a una legge promulgata nel 1 928 furono incorporati
nell'esercito francese. Poiché Sarcelles si trovava sul p assag­
gio delle truppe, avevamo offerto la nostra casa come luogo
di accantonamento per gli ufficiali inglesi. I primi che si pre­
sentarono appartenevano alla fanteria coloniale. Restarono da
noi una settimana. Tutte le camere disponibili della casa erano
state trasformate in dormitori, per cui trascorrevamo le serate
con loro in cucina. Quegli ospiti di passaggio erano nella mag­
gior parte persone gentili e simpatiche. Il giorno p recedente
quello della loro partenza portarono dello champagne per
bere con noi.
La signora Ros'cina lnsarova, ch'era stata l'organizzatrice
dei nostri spettacoli di Boulogne, all'inizio della guerra abi­
tava con noi a Sarcelles. Allora ci si aspettava un attacco
con i gas, e poiché i mezzi di difesa previsti ci sembravano
insufficienti, la signora Ros'cina e io ci mettemmo a trasfor­
mare in ricovero una delle soffitte. Senza tener conto dei sar­
casmi di lrina, lavorammo tutta la giornata a turare le mi­
nime fessure per rendere ermetica la chiusura della porta e
della finestra e ci riuscimmo talmente bene ch'era impossibile
resistere più di qualche istante in quell'ambiente dove l'aria
respirabile non veniva rinnovata.

All'inizio di novembre mia madre fu colpita da una sinu­


site che prese ben presto una forma acuta. L'operazione resasi
necessaria fu un colpo troppo forte per un organismo tanto
logorato. Invano si tentò di sostenere il cuore : mia madre si
indeboliva di giorno in giorno. A poco a poco perse conoscen­
za e, la mattina del 24 novembre, si spense stringendo la mia
mano nella sua. Ella riposa ora tra i suoi compatrioti morti in
terra straniera, nel cimitero russo di Sainte-Geneviève-des­
Bois. È un luogo poetico, ombreggiato dalle betulle, circon­
dato da vasti campi di grano ; quasi un paesaggio russo.
Per quanto lontano risalissi nei ricordi, mia madre aveva
avuto nella mia vita un posto preponderante ; dalla morte di
mio padre aveva rappresentato la mia costante preoccu­
pazione. Mi era stata amica, confidente, sostegno lungo tutta
la vita, e l'avevo vista declinare a poco a poco con angoscia,
sino a che le parti si erano invertite. Negli ultimi anni
bisognava trattarla come una bambina ammalata e, per
quanto era possibile, nasconderle i nostri guai. Ma tali ricordi
scompaiono dinanzi all'irradiazione che quella creatura di luce
e di tenerezza aveva conservato sin nella vecchiaia, e della
quale tutti coloro che l'hanno accostata hanno subìto il fa­
scino. Fu amata come poche donne lo sono state, e la qua­
lità dei sentimenti che ispirò costituisce il suo più bell'elogio.
Trascorremmo a Sarcelles il primo inverno della guerra.
Qualche amico veniva a trovarci e rimaneva parecchi giorni.
Era spesso la bella ed elegante Caterina Starov che aveva un
figlio in guerra. La bontà delicata e l'abnegazione di Caterina
facevano di lei la provvidenza di molti infelici. La simpatia
che mi dimostrò nel momento della morte di mia madre ha
stretto i nodi di un'amicizia che non ha fatto che crescere col
tempo. Quell'anno Caterina venne a passare il Natale a Sar­
celles con vari altri amici nostri. Ognuno aveva portato prov­
viste per la veglia e noi avevamo preparato un albero di
Na·t ale.
La messa di mezzanotte che ascoltammo in quel primo
Natale di guerra era trasmessa per radio dalle trincee dove si
trovava il figlio di Caterina Starov. Quando fu terminata, re­
stammo seduti in silenzio intorno all'albero illuminato. I no­
stri spiriti ci trasportavano ben lontano di lì, attraverso lo spa­
zio e il tempo, verso i Natali della nostra infanzia, in Russia...
Improvvisamente, l'albero prese fuoco ; ma eravamo tal­
mente assorti nei nostri ricordi che esso finì di bruciare senza
che nessuno si movesse.
Il freddo diventato intenso e il nevischio rendevano spesso
difficili le comunicazioni con Parigi. In primavera la guerra
uscì dal periodo stagnante ; e allora vi fu l'invasione con tutto
ciò che essa porta con sé di miseria e di spavento. Vedemmo
per primi arrivare i fuggiaschi belgi, ben presto seguiti da
quelli francesi dei dipartimenti del Nord. Poiché il telefono
era tagliato, non petevamo più comunicare con Parigi, e le
poche notizie che ci giungevano non si accordavano con quel­
le trasmesse per radio. Il numero dei profughi cresceva. L'ar­
rivo di quelli di Luzarches, ch'era a non p iù di venti chilo­
metri, diffuse il panico per Sarcelles. Tutti i negozi si chiu­
sero, comprese le botteghe di viveri, e la città si vuotò in un
giorno. Dovemmo andarcene anche noi per non correre il ri­
schio di morire di fame. Ci restava giusto abbastanza benzina
per arrivare a Parigi. La capitale era quasi deserta, la mag­
gior parte degli alberghi chiusi, e molte delle persone di no­
stra conoscenza se n'erano andate. Finimmo col trovare un
ricovero in casa di Nona Kalasc'nikov. Questa abitava, in rue
Boileau, una cameretta nella quale passammo la notte in tre,
senza contare il suo cane e la nostra gatta. I l giorno dopo, il
barone Goc ci diede ospitalità nel proprio appartamento del­
la rue Michel-Ange. Andando a far visita alla nostra amica
contessa Maria Cerniscev che abitava lì vicino, in boulevard
Exelmans, la trovammo nella strada, occupata a rifocillare
i disgraziati che fuggivano davanti all'invasione. Era il qua­
dro classico e pietoso di una popolazione in esodo, armento
spaventato di donne, fanciulli, vecchi, che se ne andavano, i
più validi a piedi, gli altri ammucchiati sulle carrette, insie­
me con i cani, i gatti, il pollame, i mobili e i materassi. La
maggior parte di quella povera gente dal viso terrorizzato,
che una propaganda insensata aveva gettato sulle strade, non
sapeva dove andasse. Cercai di far capire a una donna este­
nuata che si tirava dietro quattro bambini e portava il quinto
piccolo in braccio come, andando così alla ventura, si espo­
nesse a pericoli ben più gravi che se fosse rimasta a casa
sua. « Non sapete dunque :1> , mi rispose « che i tedeschi vio­
lentano le donne e tagliano i bimbi a pezzetti? » .
C i offrimmo d i aiutare l a nostra amica, m a tutte l e bot­
teghe erano chiuse, e fu molto se riuscimmo a trovare un po'
di pane e di zucchero. La miseria degli uomini portava con
sé quella degli animali. Era terribile ascoltare gli urli delle
povere bestie affamate, abbandonate dai padroni. Pappagalli
e canarini volavano da tutte le parti. Si lasciavano prendere
abbastanza facilmente, e noi potemmo così salvarne alcuni e
sistemarli in casa di amici.
La popolazione parigina, ridotta agli estremi, comprende­
va una forte percentuale di russi. Certuni, per fare la guardia
al palazzo in cui abitavano, si erano installati nello sgabuz­
zino del portinaio. L'angoscia, in quei giorni nei quali non si
sapeva ancora se la capitale sarebbe stata o no dichiarata
città aperta, era grande.
Il 14 giugno i tedeschi entravano a Parigi; li vedemmo ar­
rivare dalla porta di Saint-Cloud. Attorno a noi molta gente
piangeva, e anche noi avevamo le lacrime agli occhi : abita­
vamo in Francia da vent'anni, e la Francia era diventata la
nostra seconda patria.
Quando, subito dopo l'armistizio, le autorità d'occupazio­
ne fecero chiudere tutti i locali e le imprese russe, il numero
410
dei disoccupati aumentò in proporzione. Tutti gli emigrati
che si trovavano nelle condizioni di doversi guadagnare la vi­
ta furono costretti ad andare a chiedere lavoro all'unico che
poteva darne loro : il tedesco; e ciò non mancò di suscitare
contro di essi l'animosità dei francesi.
Frattanto la vita si organizzava alla meglio. Le popolazio­
ni disperse sulle strade maestre tornavano a poco a poco a
casa. Noi facemmo lo stesso, e, verso la fine di luglio, erava­
mo di ritorno a Sarcelles. Ben presto vi ricevemmo la visita
di alcuni ufficiali tedeschi. Sulle prime credemmo che venis­
sero per arrestarci ; invece volevano essere certi che non man­
cassimo di niente. Ci offrirono benzina, carbone e viveri, ma
noi li ringraziammo affermando che non avevamo bisogno di
nulla. Un po' p iù tardi dovevamo scoprire la ragione di una
sollecitudine che non poteva non }asciarci perplessi.

Al tempo dei nostri peggiori imbarazzi finanziari, per tema


di vedere i creditori impossessarsi della "Pellegrina", avevamo
affidato la perla al direttore della banca Westminster pregan­
dolo di chiuderla nella cassaforte personale. Ciò portò a impre­
vedibili complicazioni quando, nell'agosto 1 940, i tedeschi
assunsero il controllo delle casseforti appartenenti a sudditi
inglesi. Convocato dall'amministrazione della banca Westmin­
ster per assistere all'apertura delle cassette, pensavo che non
avrei avuto nessuna difficoltà a rientrare in possesso di ciò
che mi apparteneva. Ma, mentre l'amministratore della banca
affermava che la cosa dipendeva dai tedeschi, questi ultimi
pretendevano che essa dipendesse unicamente dall'ammini­
strazione. Siccome ciascuno restava sulle proprie posizioni, la
situazione minacciava di perpetuarsi. Temendo di perdere alla
fine la nostra perla, chiesi di vedere il commissario incari­
cato di controllare il contenuto delle cassette. Fui ricevuto d a
u n giovanotto gentile ed eleg-ante che, quando gli ebbi esposto
il caso, mi assicurò che avrei ottenuto facilmente soddisfazio­
ne. Mi fece entrare in un salottino vicino al suo ufficio, dove,
dopo qualche istante, fui raggiunto da un ufficiale che
si attirò di prim'acchito le mie antipatie per un'affettazione

41 I
di cortesia che veniva smentita dai suoi occhi da gatto.
« Noi desi deriamo soltanto favorirvi », . mi disse, « ma , se
la vostra perla vi è restituita, acconsentirete in cambio a ren­
derei un scnizio? Sappiamo benissimo tutto quanto vi riguar­
da e ciò chP voi rappresentate : se accetterete di essere il no­
stro agente mondano vi metteremo a disposizione uno dei più
bei palazzi di Parigi. Vi abiterete con la principessa e darete
feste per le quali vi saranno aperti crediti illimitati e alle
quali saranno invitate le persone che vi indicheremo ».
Risposi a quella stupefacente proposta come si meritava,
facendo capire all'ufficiale tedesco che aveva sbagliato in­
dirizzo.
« Né mia moglie né io acconsentiremo in nessun caso a
recitare una simile parte », gli dissi. « Piuttosto che prestarci
a ciò, preferiremmo perdere mille volte la nostra perla ».
Mi ero alzato e mi dirigevo verso la porta, quando il tede­
sco mi fermò e mi strinse la mano con convinzione !
Non avevo fatto un sol passo avanti, e soltanto tre anni
e mezzo più tardi, dopo la partenza dei tedeschi, la perla mi
fu finalmente restituita.
Durante il periodo dell'occupazione ci accadde più volte
di ricevere inviti da personalità tedesche, ma non li accet­
tammo senza una certa riserva. Ciò nonostante, i tedeschi si
fidavano di noi, cosa che ci permise più di una volta di of­
frire la nostra garanzia per qualche persona minacciata della
prigione o della deportazione.
Un giorno incontrai Valeria, che non vedevo più da molto
tempo: era sempre sul suo barcone, dove ci invitò a pranzo.
Fummo sorpresi di trovarci dei tedeschi. Debbo riconoscere
ch'erano tutti persone bene educate, anche simpatiche, e, co­
me la maggior parte di quelle che ebbi l'occasione d'incon­
trare durante l'occupazione, antihitleriane. Tuttavia la loro
presenza in casa di una francese era ugualmente fuori luogo.
In seguito la povera Valeria doveva commettere errori più
gravi, e alla fine pagarli con la vita.
Fino a che durò l'estate, la vita a Sarcelles fu possibile.
I legumi del nostro orto erano una preziosa risorsa, e aveva­
mo nel cortile un albicocco che piegava sotto il peso dei frut­
ti. Così davamo albicocche in cambio di generi alimentari di
prima necessità. Ma con i primi freddi, il soggiorno in cam­
pagna, senza possibilità di riscaldarci, divenne impossibile.
In novembre risolvemmo di tornare a Parigi.
Vi abitammo per alcuni mesi in un appartamentino a mmo­
biliato, di una delle poche case di Parigi ancora riscaldate, nel­
la rue Agar. Ci permettevamo anche il lusso inaudito di un ba­
gno caldo due volte la settimana. In quei giorni parecchi ami­
ci, privi a casa loro di acqua calda, venivano ad approfittare
di quell'eccezionale fortuna. Con i loro oggetti di toletta sot­
to il braccio, attendevano pazientemente in salotto che venisse
il loro turno di entrare nel gabinetto da bagno. Dopo di che
facevamo onore alle provviste che ognuno aveva portate.
Più tardi presi in affitto uno studio vuoto, in rue La Fon­
faine, nel quale dovevamo trascorrere un anno. Quello studio
immenso aveva un po' l 'aria di una rimessa. Per fortuna io
conoscevo abbastanza bene l'ambiente degli antiquari pari­
gini; e molti di essi, essendo ebrei, non chiedevano di meglio
che mettere i loro più bei mobili in deposito presso un pri­
vato, dove sarebbero stati al riparo dalle investigazioni delle
truppe di occupazione. Questo ci permise di vivere per qual­
che tempo in un vero museo.
Un pittore italiano, che conoscevo di vista, venne un gior­
no a chiedermi di ricevere un tedesco inviato da Hitler, il
quale aveva da farmi una comunicazione relativa all'avve­
nire politico del mio paese. Non avevo nessun motivo per sot­
trarmi a un tale colloquio, ma siccome non ci tenevo a rice­
vere l'inviato del Fiihrer in casa mia né a recarmi da lui, pro­
posi un incontro in luogo neutrale. Fu dunque stabilito che
saremmo andati tutti e tre a far colazione in un salottino pri­
vato e scegliemmo una trattoria del quartiere della Madeleine.
Il tedesco era incaricato di comunicarmi le intenzioni di
Hitler, ch'erano di liberare la Russia dal giogo bolscevico e di
restaurarvi la monarchia. Mi chiese se la questione mi interes­
sasse personalmente. Gli risposi che avrebbe fatto meglio a
rivolgersi ai membri sopravvissuti della famiglia dei Roma­
nov che si trovavano a Parigi e dei quali gli diedi i nomi e
gli indirizzi. Mi domandò allora che cosa pensassi degli ebrei.
Confessai che, in linea generale, non mi erano molto simpa­
tici. Avevo potuto rendermi conto della parte nefasta che
avevano recitata nel mio paese - e, in un certo senso, nella
mia vita - e li consideravo come i principali responsabili
delle rivoluzioni e delle guerre; ma giudicarli in base a una
regola assoluta era, secondo me, assurdo.
« In ogni modo », soggiunsi, « non vi sono scuse per il mo­
do come voi li trattate, che è indegno di un popolo civile ».
« Ma il nostro Fiihrer lo fa per il bene generale », esclamò
egli, « e vedrete che presto il mondo sarà liberato da questa
razza maledetta ».
Davanti al fanatismo di quel puro ariano vidi che era
inutile continuare la discussione, e, finito il pasto, non tardai
a congedarmi da lui e dal pittore italiano.

La guerra che nel 1 941 la Germania scatenò contro la


Russia sovietica fece rinascere la speranza in molti emigrati.
Secondo loro la prima conseguenza della nuova situazione
doveva essere la sostituzione del Komintern con un nuovo
governo nazionale. È quindi normale che molti dei miei com­
patrioti abbiano aderito allora alla causa germanica. Molti
di essi, vedendo in ciò un'occasione di riprendere la lotta con­
tro il bolscevismo, si arruolarono o come combattenti o in
qualità di interpreti.
Una reazione analoga doveva verificarsi da principio nel
popolo russo. Conformemente a un piano segreto ch'ebbe un
principio di esecuzione, intere armate si arresero senza com­
battere, e sarebbe stato facile ai tedeschi rendersi favorevole
una popolazione che, per odio verso il Komintern, era pronta
ad accoglierli come liberatori. Ma tutto mutò in capo a pochi
mesi, e ciò per colpa degli stessi tedeschi che commisero uno
di quegli errori psicologici cui vanno soggetti, comportandosi
in Russia con una brutalità che ben presto li fece odiare p iù
di quanto fossero odiati i bolscevichi.
La sorte dei soldati dell'esercito rosso che si arresero fu
particolarmente tremenda, perché il governo sovietico li con­
siderava come traditori, e i tedeschi li trattavano da nemici.
La fame, le malattie e il modo brutale con cui venivano trat­
tati ne fecero morire una grande quantità. Con i sopravvis­
suti, i tedeschi costituirono un'armata sotto il comando del
generale Vlassov, che, dopo aver combattuto contro l'esercito
rosso, liberò Praga dai nazisti. Alla fine della guerra Vlassov
si arrese con le proprie divisioni agli americani. Questi lo
consegnarono ai bolscevichi che lo fecero giudicare da un
Consiglio di guerra e lo impiccarono.
Il giorno in cui apparve chiaro che Hitler non aveva altro
scopo che sterminare gli slavi e fare della Russia meridio­
nale la base economica della nuova egemonia tedesca, assi­
stemmo a un totale capovolgimento della situazione. Le popo­
lazioni divennero ostili e, nell'esercito, le defezioni cessarono
totalmente. La maggior parte degli emigrati che si erano ar­
ruolati per combattere il bolscevismo, compresero di essere
stati turlupinati e tornarono in Francia, abbandonando una
causa che non li riguardava, mentre il popolo russo, ergendosi
tutt'intero contro l'invasore, riusciva a scacciarlo dal proprio
paese. Il governo sovietico si affrettò ad approfittarne per
proclamare in tutto il mondo il trionfo dell'ideologia comu­
nista. La vittoria dovuta allo slancio patriottico del popolo
russo venne così sfruttata per rafforzare la situazione del co­
munismo non soltanto in Russia, ma anche nella maggior par­
te dell'Europa.
Non era ciò che avevano voluto i russi : essi hanno combat­
tuto per la patria, non per il comunismo; ma, difendendo
l'una, hanno salvato l'altro.
Il destino dei popoli, portati a eleggere alleati che non
avrebbero mai scelto spontaneamente o a combattere contro
altri popoli con cui avrebbero dovuto normalmente vivere in
pace, è singolare. Alla fine del secolo scorso sembrava che
Russia e Germania non avessero nessuna ragione p er affron­
tarsi sul campo di battaglia. Esse erano unite grazie alle loro
dinastie, strettamente imparentate, e nessuna animosità se­
parava i due popoli, entrambi profondamente religiosi, ben-
ché appartenenti a confessioni diverse. Nulla ci vieta di pen­
sare che l'alleanza franco-russa, creando dissapori tra Russia
e Germania, abbia servito la Francia forse meno di ciò che
avrebbe potuto fare una Russia indipendente che fosse rima­
sta libera di esercitare nei riguardi della Germania una mis­
sione moderatrice, come aveva già fatto in passato.
La Russia e la Germania sono cadute in potere di due mo­
stri generati dall'orgoglio e dall'odio: il bolscevismo e il na­
zismo. Ma il bolscevismo non è tutta la Russia, come il nazi­
smo non era tutta la Germania. Sappiamo oggi, grazie a testi­
monianze degne di fede, che la maggior parte dei russi sono
antibolscevichi e che molti di essi sono rimasti fedeli alla
loro religione. Tutti attendono la liberazione e, al momento
opportuno, diverrebbero gli alleati di chi la recasse loro. Per
due volte l'occasione è stata trascurata : nel 1919, quando gli
Alleati hanno abbandonato la Russia ai bolscevichi, e dopo
la seconda guerra mondiale, quando, spinto dalla necessità,
il governo bolscevico ha dovuto affidare il comando dell'eser­
cito a capi che erano ben lungi dall'essere tutti comunisti.
L'appoggio dell'esercito avrebbe grandemente facilitato un
moto inteso a rovesciare il regime. Oggi la cosa sarebbe
più difficile, il che non significa che sia impossibile. Ad ogni
modo è lecito affermare che dalle sue sofferenze, che han­
no superato quelle sopportate da qualunque altro paese, la
Russia uscirà purificata e ingrandita, e che il partigiano rus­
so, per il suo coraggio e la sua fede, ha meritato di diventare
il nucleo di una rigenerazione che già si annuncia nel mondo
intero.
CAPITOLO XXXVI
( 1 940- 1944)

Santa Teresa di Lisieux e l'autista di tassì - Notizie della fa­


miglia di mia moglie - Diventiamo nonni - Fatima - Scena­
grafia fantastica in avenue Foch - Rodolfo Holzapfel- JVard ­
Le colazioni della signora Cory - Ci stabiliamo in rue Pierre
Guérin - La liberazione di Parigi - Arrivo di mio cognato
Dimitri.

I nrue La Fontaine abitavamo nei pressi dell'Orfanotrofio


degli apprendisti di Auteuil, la cui chiesa è consacrata a san­
ta Teresa di Lisieux. In seguito a un sogno nel quale avevo
visto una giovane suora venire verso di me, con le rose in
mano, attraverso un giardino pieno d i fiori, avevo dedicato
una particolare devozione alla santa di Lisieux. Non l'ho mai
invocata invano, e mi è anche accaduto di procurarle degli
adepti. Ricordo un autista di tassì, uno dei miei compatrioti,
che, mentre mi portava da un punto all'altro di Parigi, m i
raccontò le proprie d isgrazie. L a sua storia non era gran che
diversa d[l. quella di tanti altri ; i vecchi genitori, rimasti in
Russia, di cui non si hanno notizie, la moglie a mmala t a, i
bambini trascurati, la cattiva sorte che si accanisce ... Per fini­
re, la miseria e l'ossessione del suicidio. Questi lamentevoli
racconti, uditi tante volte, presentavano scarse varianti. Non
differivano se non per il temperamento e per il grado di re­
sistenza di chi li faceva. La disperazione del mio autista si
stava cambiando in ribellione, e io vedevo quella r ibellione
ingigantire a misura che mi esponeva le sue disgrazie e m i
chiamava a testimone dell'ingiustizia d e l destino. Arrivò a
bestemmiare orrendamente, e concluse che un mondo abban­
donato all'impero del demonio, implicava necessariamente l'as-
senza di Dio. Non avendo nessuna consolazione da offrirgli e
rendendomi conto che le mie esortazioni non avrebbero avuto
altro effetto che di irritarlo, lo pregai di condurmi all'Orfa­
notrofio della rue La Fontaine. Non fu cosa da poco convin­
cere quell'energumeno a entrare con me in chiesa, ma gli es­
seri che soffrono hanno il potere di sviluppare la mia pazien­
za sino a proporzioni quasi illimitate. Lo feci sedere su un
banco e, avendolo invitato a invocare Santa Teresa di Lisieux
con fiducia, lo lasciai alle sue meditazioni; in capo a un istan­
te lo vidi inginocchiarsi. Terminata la preghiera, venne a
raggiungermi e uscimmo insieme di chiesa senza dire parola.
Avevo un po' dimenticato questa storia, quando, dopo un
anno circa, mentre mi preparavo ad attraversare gli Champs­
Elysées, vidi un tassì arrestarsi accanto al marciapiedi, l'au­
tista scendere e venire verso di me con volto radioso. Alle
prime non lo riconobbi, tanto era mutato dal nostro primo
incontro. Egli e la sua famiglia, mi disse, conoscevano una
nuova prosperità. Libero ormai dalle inquietudini, quando le
sue corse lo portavano nel quartiere di Auteuil egli non tra­
scurava mai di andare a ringraziare santa Teresa, alla pro­
tezione della quale doveva un così felice cambiamento.

Quando le comunicazion i con l'Inghilterra erano state in­


terrotte per effetto dell'armistizio del 1940, eravamo rimasti
a lungo senza notizie della famiglia di mia moglie, e i terri­
bili bombardamenti di Londra avevano dato alimento ai no­
stri timori. Le prime notizie ci erano giunte soltanto
in novembre : la granduchessa e i figliuoli erano sani e salvi.
Mio cognato Andrea aveva perduto la moglie, morta dopo
una lunga malattia, e mia suocera aveva lasciato Hampton
Court per la Scozia, dov'era alloggiata in uno degli edifici an­
nessi al castello di Balmoral. Apprendemmo anche la moite
di Bull, vittima di un bombardamento. In seguito le notizie
ci giunsero soltanto a radi intervalli e, in genere, con grande
ritardo. L'ultima comunicazione ci informò che Teodoro, col­
pito dalla tubercolosi, veniva curato in un sanatorio scozzese.
L e notizie che ricevevamo dall'Italia erano più consolanti;

418
potevamo infatti corrispondere facilmente con nostra figlia,
stabilita a Roma, con mio cognato Nikita e con la sua fami­
glia. Fu così che sapemmo di essere sul punto di diventar
nonni ! ... Nel marzo 1 942 nasceva a Roma una piccola Senia,
ma dovevano passare più di quattro anni p rima che ci fosse
concesso di far la conoscenza della nostra nipotina.

Più di una volta, in passato, mi era accaduto di aver noie


per colpa di qualche impostore che aveva usurpato il mio
nome. L'ultima avventura del genere che mi capitò ebbe un
andamento schiettamente comico. L'inizio della storia, che du­
rò parecchi anni e terminò soltanto con l'inizio della guerra,
risale al periodo di tempo in cui vivevamo ancora a Boulo­
gne. L'individuo in questione aveva, col nome di Felice Yus­
supov, sedotto una signorina ungherese di nome Fatima che
abitava a Budapest. Non contento di aver usurpato il mio
nome, al momento di }asciarla le aveva dato il mio indirizzo,
ragion per cui cominciai a ricevere una vera valanga di let­
tere appassionate, violente, disperate, nelle quali le nostre
notti d'ebbrezza erano evocate in termini che davano un'alta
idea delle facoltà amorose del mio sostituto. Ella ricordava
con emozione una sera ta trascorsa in un locale notturno di
Budapest, dove io avevo danzato su un tavolo in costume cer­
kess, lanciando pugnali sopra le teste dei presenti. Avevo ri­
sposto alla prima lettera di quella forsennata amante spie­
gandole che mi prendeva per un altro, ma ciò non era ser­
vito a nulla. Le sue prime lettere erano in tedesco ; presto pe­
rò si mise a scrivermi in francese - e in quale francese ! -
dicendomi che lo stava imparando per venire, con sua ma­
dre, ad abitare da me e sposarmi ! Non aspettava che il visto
chiesto al console ungherese di Parigi. La fotografia che mi
inviò, mi mostrò l'immagine di una ragazza grassa, con i ca­
pelli pettinati a "tirabaci", la quale non aveva nemmeno l'a­
ria di essere molto giovane. Le sue lettere contenevano sem­
pre qualche elenco di oggetti da acquistare che ella conside­
rava indispensabili per il nostro futuro focolare coniugale :
"Acheter vous les ustensiles, les vaiseiles, les casserols, les
pots, et ces modernes clwses qui comprendes les glaces . ". ..

Voleva anche un alveare per "entendre bourdonante les abeil­


les". Veniva infine la camera nuziale: "vous et moi grand lit
majestique, matela très gros, voluptieux couverte espagnole
dentelle". La Spagna doveva fornire anche uno scialle "frange
avec elle et une boucle d'ore il d'or grand ornement avec éblous­
sante brillantes". Le ultime lettere mi annunciavano il suo ar­
rivo come imminente e stabilivano il cerimoniale : "]e vous
prie que vous attendrier nous avec Majordom toute les jour".
Non mi preoccupavo gran che, quando fui chiamato dal
console d'Ungheria il quale voleva sapere se fosse vero che
io aspettavo quelle due signore e se doveva accordar loro il
visto che esse chiedevano. « Guardatevene bene ! », esclamai
spaventato. « È una pazza che mi ossessiona da anni con le
sue lettere, prendendomi per un altro! ».
Piccolo effetto di una grande causa: ci volle nientemeno
una guerra mondiale per evitarmi il guaio di veder arrivare
Fatima e sua madre !

La sotterranea, diventata durante la guerra l'unico mezzo


di trasporto, era spesso un luogo di incontri inaspettati. Fu
così che ritrovai, stretto contro di me in mezzo a una folla
compatta, un amico argentino che avevo perso di vista da an­
ni, Marcello Fernandez Anchorcna. Egli mi presentò sua mo­
glie, ch'era con lui, e mi invitò, insieme con lrina, a far co­
lazione nell'appartamento che si stava preparando in ave­
nue Foch.
Il contrasto tra i due Anchorena è grandissimo. Ortensia
è vivace e gaia, il suo riso è franco, la sua voce calda e colo­
rita. Marcello è invece tutto sfumature : parla con una leg­
gera esitazione che rivela la preoccupazione di trovare la pa­
rola giusta per esprimere un pensiero delicato; la sua voce è
un po' soffocata, i suoi silenzi confidenziali. Lei ha lo splen­
dore, lui il mistero: la loro dimora è il riflesso di entrambi.
« Ho voluto vivere in uno scenario di teatro », dice la signora
Anchorena, e c'è pienamente riuscita. Non occorre che si alzi
il sipario perché cominci la commedia : le tre Grazie che or-
420
nano .le porte si scosteranno per lasciar entrare gli attori, op­
pure questi appariranno contro la ringhiera di quella loggia,
o in cima a uno degli scaloni dalla balaustra bianca e dal
corrimano di velluto nero. Pierrot e Colombina che si sorri­
dono su un paravento di Christian Bérard si animeranno per
recitare, sull'aria di Au clair de la lune, una commediola leg­
gera e malinconica.
I creatori di quello scenario si chiamano : André Barsacq,
Jean Cocteau, Picasso, Braque, Touchangues, Matisse, Dufy,
Christian Bérard , Giorgio de Chirico, Jean Anouilh, Eleonora
Fini, Lucien Coutaud ... e forse ne dimentico. È stato Barsacq,
oggi direttore dell'Atelier, a concepire tutta l'architettura in­
terna. È stato ancora lui a fornire il disegno della tappezze­
ria nella quale, poiché c'era la guerra, ha voluto far figurare
una colomba della pace.
C'è, nel salottino di Ortensia, una porta la cui decorazione
è ispirata al balletto Les Demoiselles de la Nui t di Jean
Anouilh. È una composizione di Leonora Fini, autrice dei co­
stumi delle gatte. Anouilh ha scritto di proprio pugno l'ar­
gomento del balletto e qualche nota della musica ; la si direbbe
una pagina di antico manoscritto. Tutto il balletto è lì, su
quella porta, incastrata in una riquadratura di vetro soffiato
di Venezia. L'oggetto più sorprendente, in quella dimora do­
ve tutto sorprende, è senza dubbio il pianoforte decorato da
Jean Cocteau, nel quale è nascosta la radio, bestia strana,
enigmatica come una sfinge. « È la mia scrittura » , ha detto
Cocteau. All'interno, dopo la sua dedica, sotto un cielo stel­
lato, ha scritto: "La farfalla notturna parla da sola".
Durante gli inverni di guerra e le difficoltà del riscalda­
mento gli Anchorena ricevevano gli amici in un salottino tap­
pezzato in rosso, sistemato nel solaio. Vi ho sonato la chitarra
sotto un disegno di Picasso. Là incontrai la maggior parte
degli artisti che lavoravano allora alla decorazione dell'ap­
partamento.
Sempre alla ricerca di quell'arricchimento ch'è il frutto
dell'intelligenza, dello spirito, della cultura, da qualunque
parte essi vengano, gli Anchorena si compiacciono di rice-
vere persone di idee, di ambienti e di nazionalità diverse, per
stabilire tra loro contatti intellettuali.
In avenue Foch si gustano inoltre piaceri d'altro ordine,
ma non inferiori di qualità, dovuti all'arte di un cuoco ch'è
un vero mago. Attorno a tavolini rotondi dove i convitati non
sono mai più di otto, vengono offerti piatti raffinati, senza
che si vegga aprire neanche una porta sulle regioni miste­
riose in cui essi sono elaborati. Piatti deliziosi e sorprendenti
nello stesso tempo: questo pollo è fatto di aragosta, questi
legumi sono entremets. L'imprevisto, usato qui come con­
dimento, contribuisce a rendere più intensa l'atmosfera di
una dimora nella quale ci si trova fuori del tempo e della
realt à , nel regno del fantastico.

Le difficoltà dei rifornimenti ci spingevano spesso a pran­


zare fuori di casa, abitualmente in una piccola trattoria del
nostro quartiere, dove la lista dei piatti era sufficiente e i
prezzi modici. Un giorno che ne uscivamo, dopo aver fatto
colazione con un'amica, la proprietaria prese quest'ultima da
parte per chiederle se conoscesse bene le persone con cui ve­
niva a mangiare lì.
« Ma sì, certo », rispose la nostra amica.
« Già, lo si crede e ... Forse non sapete che quel signore è
molto conosciuto nel quartiere ... Sembra sia stato lui a ucci­
dere nel bagno un certo Marat! Voi direte quel che volete, ma
io non lo vorrei ricevere nel mio gabinetto di toletta » .
Da quel giorno l a nostra amica non m i chiamò più s e non
Carlotta Corday.
lo frequentavo allora il bar del Ritz, dove incontravo al­
cuni amici. Qui feci la conoscenza di Rodolfo Holzapfel-Ward,
un americano ch'era tra i più apprezzati conoscitori d'arte
di Parigi. Una scambievole simpatia ci avvicinò, e in seguito
andai spesso ad Auteuil, dove abitava con la moglie e i suoi
due bimbi. Rodolfo aveva una forte personalità. Si occupava
unicamente d'arte, di religione e di filosofia, e viveva scarsa­
mente nella realtà. Mi piaceva la sua intelligenza, benché
avesse per Jean- Jacques Rousseau un culto che io non con-
422
dividevo. Con lui ho corso Parigi in tutti i sensi, alla ricerca
di oggetti d'arte. Guidato da un fiuto infallibile, egli snidava
i capolavori nei luoghi più impensati e faceva scoperte di cui
spesso i proprietari ignoravano il valore.
Quando gli Stati Uniti entrarono in guerra, Rodolfo fu
arrestato come altri americani. Si riuscì, non senza fatica, a
farlo liberare grazie all'intervento dei colleghi austriaci e te­
deschi con cui era stato in rapporti prima della guerra.
In quell'inverno di severe restrizioni, la signora Cory, ve­
dova del re dell'acciaio, offriva del1e colazioni al Ritz. Tra i
commensali abituali v'erano la contessa Greffhule, i principi
Carlo e Pietro d'Arenberg, lo spiritoso visconte Alain di Le­
ché, Stanislao di Castellane con sua moglie, che ven iva chia­
mata "les biches", e la contessa Benoit d'Azy che ricavava i
propri tailleurs dai tendaggi di casa. La signora Cory era di
una magrezza incredibile. In testa portava certi coni di fel­
tro che rialzava davanti e dietro come il cappello di Napo­
leone. C'era chi affermava che nei giorni senza carne si fa­
cesse servire una bistecca prima dell'arrivo dei suoi invi­
tati. Quelli che volevano bere vino dovevano portarselo da
casa. Così si vedeva la contessa Greffhule tirar fuori bottiglie
di un delizioso Papa Clemente 1883 dalla borsa di tela nera.
In seguito all'entrata in guerra degli Stati Uniti, la signora
Cory doveva concludere il soggiorno in Francia al Jardin
d'Acclimatation !
Fu la contessa Greffhule a portare a una di quelle cola­
zioni Giovanni Dufour e sua moglie, che dovevano diventare
miei amici. Giovanni era allora procuratore del Credito lio­
nese, di cui oggi è direttore. Il suo dinamismo e la sua capa­
cità di lavoro sono eccezionali ; inoltre, egli possiede la rara
facoltà di poter riparare con un quarto d'ora di sonno la stan­
chezza di una notte trascorsa senza andare a letto. Molto so­
cievole per natura e compagno piacevole come pochi, egli è
anche il più servizievole degli amici. La signora Dufour si
chiama Susanna, ma noi la chiamavamo Maria Antonietta per
la sua straordinaria rassomiglianza con la regina di Francia.
Questa è p robabilmente la ragione per cui "Maria Antoniet­
ta", pittrice di rare qualità, è stata particolarmente ispirata
da certi angoli del Trianon. Per condividere la vita del ma­
rito ella non ha esitato a sacrificare le predilezioni personali,
che avrebbero fatto di lei una donna più casalinga. Ma in
mezzo all'agitazione della vita parigina, le accade spesso di
fantasticare di un'esistenza calma, in campagna, dove potreb­
be dipingere in assoluta libertà. Per il momento si accon­
tenta di avere "tutta la storia di Francia sotto gli occhi" dal­
le finestre del proprio appartamento del quai Voltaire. La
tradizione vuole che Bonaparte abbia abitato lì ; se egli si è
attardato a contemplare questo paesaggio, è lecito chiedersi
quali possano essere stati i suoi pensieri ... La vecchia casa ha
altri ricordi, perché accolse un tempo i tempestosi amori di
de Musset e George Sand.
Stanchi del ricovero provvisorio di rue La Fontaine, cer­
cavamo un altro appartamento che potesse offrirei una si­
stemazione più stabile. Scoprimmo all'estremità di Auteuil,
in un vicolo chiuso, la rue Pierre Guérin, un'antica scuderia
trasformata in casa d'abitazione. Era piuttosto in cattivo sta­
to e priva di qualsiasi comodità, ma il luogo ci parve parli­
colarmente piacevole, circondato com'era dagli alberi e col
suo cortiletto dal selciato ineguale. Prendere in affitto la casa
non era tutto, occorreva anche ripararla e adornarla. Mi ri­
volsi perciò a una squadra di operai russi. Era la primavera
del 1 943. Avevamo trascorso i mesi d'inverno a Parigi, ma
quando la temperatura si era addolcita eravamo tornati a
Sarcelles, dove il giardino, coltivato da Griscia e da Dionisia,
ci offriva un prezioso apporto in un periodo di tempo nel qua­
le il problema del vettovagliamento si faceva ogni giorno più
difficile. Mi recavo spesso da Sarcelles ad Auteuil per sorve­
gliare i lavori intrapresi, che andavano per le lunghe.
Quando venne l'autunno, la casa era ben lontana dall'es­
sere pronta. In dicembre eravamo ancora a Sarcelles, quando
cominciai a sentire forti dolori alla gamba sinistra. Il medico
diagnosticò un'artrite e mi consigliò di consultare un chirur­
go a Parigi. Un vecchio tassì trasformato in ambulanza mi
trasportò in rue Guérin, dove l'impianto di riscaldamento non
era ancora sistemato e il tetto non era compiuto. Non
dimenticherò mai le prime notti trascorse nella nuova casa.
Griscia aveva trovato una vecchia stufa, ma fumava tal­
mente che, per evitare di essere asfissiati, bisognava tenere
futte le finestre spalancate giorno e notte. Per giunta pioveva,
per cui non soltanto battevamo i denti, ma dormivamo sotto
un ombrello.
Il chirurgo che consultai mi annunciò che molto proba­
bilmente sarei stato immobilizzato per parecchi mesi. Gli ami­
ci, sgomenti per la scomod ità del nostro accampamento, mi
consigliavano di entrare in una clinica, ma siccome non avevo
bisogno di nessuna cura speciale e lrina era un'ottima infer­
miera preferii restarmene a casa. L'immobilità forzata e i la­
vori in corso non ci impedirono di festeggiare allegramente
il Natale, e di passare la notte della· fine d'anno a bere e a
cantare con gli amici russi, che avevano portato le loro chitar­
re. La rue Pierre Guérin non aveva mai udito niente di si­
mile !
Il nostro vicolo cieco è un mondo a parte. Generalmente
è silenzioso, tranne nelle ore di ricreazione della vicina scuo­
la. Allora la strada si riempie di quei gridi che i bambini get­
tano senza ragione apparente, a meno che non si voglia pren­
dere in considerazione quella di far impazzire le persone che
li sentono. All'inizio pensammo proprio che non ci saremmo
abituati ; invece abbiamo finito con l'adattarci a questo chias­
so che ci serve d'orologio. Al mattino il vicolo è il luogo d'ap­
puntamento di tutti i cani e gatti del quartiere, la sera quel­
lo degli innamorati. Certe case del vicolo sono abitate da per­
sone modeste. Una delle nostre vicine è una vecchia che sof­
fre di reumatismi deformanti : vedendola passare al mattino
col secchio, talmente curva che può appena camminare, nes­
suno potrebbe supporre quale luce illumini quella vita mise­
rabile. Tutti i sabati, seduta alla finestra, ella spia l'arrivo
dell'amico che viene a farle visita. Ogni settimana esso ap­
pare all'angolo della strada canterellando: « Eccomi! ecco­
mi! ». È un suonatore di cornetta a riposo, che abita a Rouen
e che le porta p iccoli regali, un po' di cibarie, una bottiglia
di vino; poi le mette in ordine la casa, prepara il pranzo,
suona per lei la cornetta e, infine, se ne va. In fondo alla
strada si volta per farle con la mano un ultimo cenno di sa-
luto. Ella gli sorride dalla finestra, lo segue con gli occhi sino
a che sparisce... e ricomincia ad aspettarlo.
E come tacere della portinaia del vicolo, Luisa Ducimetiè.,.
re? Costei avrebbe avuto successo sul palcoscenico nelle parti
caratterizzate. Che ne sarebbe del vicolo Pierre Guèrin senza
questa settuagenaria vivace, dalle guance rosee e dallo sguar­
do furbo? Dal mattino alla sera ella si dà un gran da fare,
scopa il nostro cortile, la nostra casa e tutte le scale del vi­
colo. La sua energia è eguagliata soltanto dalla sua fantasia.
Non soltanto spolvera, lucida durante tutta la giornata, ma
lava la biancheria, anche quando è pulita, trapianta i fiori
dal nostro giardino in quello della scuola e viceversa, mi pre­
para i pasti quando sono solo e mi vizia ammannendo sapo­
riti manicaretti. Quando va a fare qualche commissione, tor­
na con le notizie più impressionanti : il governo ha deciso di
fare smontare la Tour Eiffel, oppure si tratta di una vettu­
retta da bambini che è entrata a cento chilometri all'ora nella
vetrina della Belle- Jardinière provocando la morte di pa­
recchie persone.
Luisa Ducimetière mi chiama "il signor principe" ; mia
moglie è "la signora contessa" ; mia figlia maritata, "mada­
migella", un amico domenicano che viene a trovarmi, "il si­
gnor frate" se indossa l'abito del suo ordine, "il signor pro­
fessore" se è vestito semplicemente da pastore protestante.
Quando esco, la prego qualche volta di scrivere i nomi delle
persone che potrebbero telefonare durante la mia assenza.
Un giorno mi comunica che ha telefonato un ambasciatore.
« Quale ambasciatore ? ».
« Non lo so ».
« E allora come potete sapere che è un ambasciatore? ».
« Perché aveva la voce da ambasciatore ».
Ma il colmo delle sue fantasie è il racconto della visita che
ha fatto all'Arco di trionfo in compagnia del presidente del­
la repubblica, per deporre dei fiori sulla tomba di suo nipote
Francesco, "il Milite ignoto".
Ormai non potrei più fare a meno della rue Pierre Gué­
rin, e tanto meno di Luisa Ducimetière.
Nel periodo in cui ero immobiliz zato, molti am1c1 veni­
vano a trovarmi. Rodolfo Holzapfel, che abitava nei pressi,
a villa Montmorency, arrivava tutti i giorni alle sei. La cosa
mi faceva tanto più piacere in quanto che sapevo com'egli
fosse molto occupato. Non aveva trovato nulla di meglio per
distrarmi che leggermi le Confessions di Jean- Jacques Rous­
seau in inglese! In casa veniva chiamato "il signore delle sei".
Vedevo qualche volta Germana Lefranc, anch'essa nostra vi­
cina ; il suo spirito brillante, il suo brio e il suo senso del co­
mico erano per me tonificanti e ricreativi.
In marzo fui autorizzato ad alzarmi e potei cominciare a
uscire. I lavori della casa erano pressoché terminati e la no­
stra abitazione cominciava ad assumere un aspetto decente.
Avevamo al piano terreno un salotto e una sala da pranzo,
separati da una piccola cucina. Queste due stanze, tappezzate
di tela greggia, accolsero i mobili che ci avevano seguito nel­
le nostre peregrinazioni dall'Inghilterra sino in rue Pierre
Guérin, passando per Boulogne e Sarcelles. Ho appeso in sa­
la da pranzo i disegni da me fatti a Calvi e disposto in una
vetrina certe piccole graziose bambole di lana fabbricate da
Irina. Una scala ripidissima porta alla nostra camera, che fu
in altri tempi il fienile. È una grande stanza chiara e soleg­
giata ; ne ho fatto dipingere le pareti di color acqua marina ;
i mobili sono quelli che arredavano la camera di mia madre
a Boulogne ; i muri sono coperti di ritratti e di stampe che ri­
chiamano i nostri più cari ricordi.
Frattanto, la vita diventava sempre più difficile ; non sol­
tanto si mancava di tutto, ma si viveva nel timore di un'in­
trusione di quei falsi poliziotti che, allora, saccheggiavano gli
appartamenti. Le donne erano talvolta fermate la sera per
le strade e venivano spogliate della pelliccia, dei gioielli, e
persino degli abiti e delle scarpe. Parecchie persone di no­
stra conoscenza erano già state vittime di aggressioni. La gen­
te non osava p iù aprire la porta quando sentiva sonare, né
le donne si arrischiavano a uscir sole la sera.
Il mio amico Rodolfo, trovando che Parigi diventava ina­
bitabile, proponeva di armare una nave a vela e di raggiun­
gere clandestinamente l'Irlanda.
Per migliorare il vettovagliamento, Griscia e Dionisia an­
davano in bicicletta a Sarcelles dove, nell'orto abbandonato,
spuntava ancora qualche legume per grazia di Dio; per tra­
sportare quel che trovavano si servivano di una vecchia cassa
da imballaggio che Griscia aveva trasformato in rimorchio.
Nel 1944 apprendemmo senza alcun piacere che il gene­
rale Rommel si stabiliva col suo stato maggiore proprio di
faccia a noi. La rue Pierre Guérin si riempì di sentinelle te­
desche con le quali dovevamo spesso parlamentare, la sera,
per poter rientrare in casa. Non conoscendo il tedesco, sten­
tavamo qualche volta a convincerli che non avevamo altro
obiettivo oltre quello di coricarci nel nostro letto.
Giugno 1 944. . Le forze alleate sbarcano in Francia. A mi­
.

sura che avanzano verso Parigi l'atmosfera si fa più tesa. Si


dice che la città sia minata, e tutti si aspettano di dover sal­
tarf' in aria da un momPnto all"altro.
Il console eli SvPzia. Nordling, ci ha raccontato come il suo
intPrvPnto a vesse convinto il generale von Scholtitz a rispar­
minrf' la cnpitalc nonostante r-;li ord ini ricevuti. Così Pa rig-i
è snlvnta. I t<-deschi se ne sono andati e il generale Ledere è
Pntrn to a Parig-i nlla testa ddle proprir truppe, seguito a poca
clistnnza dag-li rserciti allrati. Ma quri giorni di g-iubilo Pb­
hero il loro lato orrendo. poiché alla gioia pnra delle prime
orp succedettPro scenp dolorose. troppo simili a qnc11e che ave­
vamo visto altrove. Le rt>a zioni della folla sono su per giiì
lP stt>sse d appertutto: st>mpre viol entt> e il piiì delle volte irra­
g-ionevoli. e in tutti i tempi si è visto la canaglia in delirio in­
sultare ciò che aveva acclamato il giorno prima ... L'osserva­
zione fatta da 1m commerciante m i ha colpito per la sua giu.,.
stezza : « Non si deve dimen ticare che la domenica delle Pal­
me ha preceduto soltanto di cinque giorni il Venerdì santo » .
V i furono arresti i n massa, dovuti sovente a giustizieri im­
provvisati che esercitavano vendette personali. V'erano non
pochi amici nostri tra le persone arrestate arbitrariamente, ed
era molto difficile attenerne la liberazione. L'odio per i tede­
schi era così grande che l'etichetta di "traditore" veniva ap­
plicata tanto a colui che non aveva fatto altro che continuare
a esercitare il mestiere di cui viveva, quanto a colui che aveva
effettivamente tradito.
Ben presto vedemmo giungere un nuovo ambasciatore d'In­
ghilterra, Duff Cooper, oggi lord Norwich, e sua moglie lad y
Diana. Erano entrambi vecchi amici per me ; andai perciò a
salutarli al loro arrivo all'albergo Berkley, dov'erano provvi­
soriamente alloggiati nell'attesa che l'ambasciata fosse in con­
dizioni di accoglierli.
Mio cognato Dimitri apparve un giorno inaspettatamente
in rue Pierre Guérin con l'uniforme della Royal Navy, in­
viato in missione dall'ammiragliato. Ci diede notizie di tutta
la famiglia di lrina. Andrea si era riammogliato con una scoz­
zese. Teodoro, sempre ammalato, era in Scozia con mia suo­
cera. Da quando ci eravamo separati, la vita di Dimitri era
stata piena di peripezie, specialmente durante le giornate di
Dunkerque, quando aveva fatto parte delle squadre di salva­
taggio inviate dalla marina britannica per evacuare le truppe.
Ognuno faceva progetti per la fine della guerra che le
vittorie alleate permettevano già di intravvedere. Noi non ne
avevamo che uno: andare al più presto in Inghilterra per ri­
vedere la granduchessa.
CAP lTOLO XXXVII
( 1 944-1946)

Ultimo inoerno di guerra - Parigi resuscita - Condizioni ter­


ribili dei prigionieri russi alla fine della guerra - Prendiamo
in affitto una casa a Biarritz - Con la granduchessa ad Hamp­
ton Court - Portiamo Teod�ro a Pau - L'estate a Lou-Pradot -
Calaoutça - Padre Laoal - Saint-Saoin.

L 'inverno del 1944-45 fu particolarmente rigido. Tranne


pochi privilegiati, nessuno aveva di che scaldarsi, nessuno
aveva l'automobile ; i tassì e gli autobus mancavano e la sot­
terranea funzionava soltanto fino a mezzanotte. Griscia ebbe
l'idea di mettere una panca sul rimorchio con cui trasportava
i legumi di Sarcelles, e con quel veicolo improvvisato veniva
a prenderei, la sera, quando avevamo perduto l'ultima sot­
terranea.
Parigi tornava a poco a poco alla vita. Dopo quattro an­
ni d'occupazione ognuno provava il bisogno di un po' di ri­
poso. Pranzi intimi venivano organizzati in casa di questo o
di quello o in modeste trattorie. Persino il mio amico Rodolfo
prendeva gusto alla vita mondana. Le difficoltà dell'approvvi­
gionamento non gli impedivano di offrire colazioni e pranzi
che riunivano le persone più diverse: lady Diana Cooper,
Luisa di Vilmorin, il principe e la principessa Andronikov,
la coppia Tessier, Cocteau, il pittore A. Drian, Gordon Craig
e lo stupefacente prestigiatore persiano Rezvani, oltre a mol­
ti ufficiali alleati. Un legionario russo, Tarassov, cantava al­
ternandosi con me le canzoni zigane. La nostra amica Kazi­
mira · Stulginska aveva avuto per prima l'idea di aprire una
trattoria nella propria casa, in rue Massenet, conservandole tut­
tavia il carattere di una casa privata. Ella si mostrava di una

43 0
generosità inaudita verso coloro che non potevano pagare il
conto. Un'amabile coppia russa, gli Olifer, aveva fatto la stes­
sa cosa nel loro bellissimo appartamento dell'avenue Camoens,
dove l'illuminazione era disposta in modo particolarmente in­
gegnoso e le cameriere erano deliziose. Arrivando una sera
per il pranzo, trovammo i nostri amici costernati, in mezzo
al più terribile disordine : l'appartamento era stato svaligiato
da un certo numero di individui mascherati e armati di mi­
tra. Avevano portato via tutto il danaro e tutti gli oggetti
di valore, l'argenteria e le provviste esistenti in cucina. Que­
sto non ci impedì di far onore al pranzo già pronto che ave­
vano avuto la delicatezza di !asciarci.
Da Caterina Starov feci la conoscenza di Sofia Zernov
che consacra la propria attività a un focolare per i bambini
russi, di cui è segretaria generale. Quest'opera, che accoglie
principalmente gli orfanelli, vive in gran parte di carità. Un
vecchio russo assai poveramente vestito era venuto un giorno
a portare un biglietto di cinquemila franchi. Siccome Sofia
Zernov, un po' sorpresa, lo interrogava sui suoi mezzi di sus­
sistenza, rispose che riceveva tremila franchi il mese come
indennità di disoccupazione e che riusciva a . economizzare
parte di questa somma "vuotando le pattumiere", il che gli
aveva permesso di risparmiare quei cinquemila franchi por­
tati lì per gli orfani. Sofia Zernov rifiutò da principio di ac­
cettarli, ma poi finì col prenderli per non addolorare il vec­
chio. La sua generosità suscitò quella degli altri : poco tempo
dopo, tornò portando altri cinquemila franchi ; questa volta
si trattava di un dono dei suoi compagni francesi, vagabondi
come lui, che mandavano le loro "economie" agli orfanelli
di Sofia Zernov.

Quando la guerra finì, nell'aprile del 1 945, p iù di due mi·


lioni di prigionieri russi "liberati", rimandati in Russia, ap­
presero a loro spese che arrendersi equivale al suicidio. Noi
conoscemmo sin da allora il dramma dei prigionieri russi, ma
il mondo, in generale, lo ha lungamente ignorato. Questi fat­
ti, circondati da principio da una cospirazione del silenzio,

43 1
sono stati pienamente esposti in un articolo che comparve
il 6 giugno 1952 nelle U. S. News and World Report. Un set­
timanale d'informazione indipendente pubblicato a Washing­
ton. Per giustificare il rifiuto degli Stati Uniti di rimandare
per forza ai loro focolari i prigionieri fatti in Corea, l'autore
di questo articolo narra ciò che non teme di definire "uno de­
gli episodi più macabri della più sanguinosa guerra della
storia". Non credo di poter fare nulla di più efficace che !a­
sciargli la parola:
"Quando la guerra in Europa finì, gli Alleati scoprirono
che più di due milioni di russi erano prigionieri dei tedeschi
o combattevano con loro. Un'intera armata russa era incor­
porata alle forze tedesche sotto il comando del generale russo
Andrei Vlassov, l'ex difensore di Mosca. Centinaia di migliaia
di prigionieri furono ripresi, molti di essi inviati nei campi
d'Inghilterra e perfino degli Stati Uniti. La maggior parte
mostrava la più grande ripugnanza all'idea di tornare in
patria.
"Nondimeno la sorte dei russi liberati fu stabilita in base
agli ordini impartiti dall'alto comando alleato, poco dopo la
conferenza di Yalta, secondo i quali 'tutti i russi liberati nella
zona controllata dall'alto comando dovevano essere consegnati
alle autorità russe nel più breve spazio di tempo possibile'.
"Così il rimpatrio in massa cominciò nel maggio 1945 e du­
rò più di un anno. Durante questo periodo centinaia di mi­
gliaia di russi cercarono di sottrarsi al ritorno obbligatorio
nel loro paese e parecchie decine di migliaia si uccisero lungo
la strada. Gli americani incaricati della loro sorveglianza
erano costretti a intervenire per farli imbarcare. Un ufficiale
alleato fu tradotto davanti a una corte marziale per essersi
rifiutato di farlo�
"l russi fatti prigionieri nel sud dell'Europa erano inviati
a Linz, in Austria, donde dovevano essere rimpatriati. Lungo
il viaggio circa un migliaio di essi si gettò dai finestrini
dei vagoni, durante la traversata delle Alpi, quando il treno
passò su un ponte che scavalcava una gola profonda presso
la frontiera austriaca ; tutti morirono. Una nuova serie di sui-
43 2
cicli si ebbe a Linz; molti si annegarono nella Drava piuttostfl
che ricadere sotto il controllo dei sovieti.
"Sette nuove operazioni massicce di rimpatrio si svolsero
in Germania : a Dachau, Passau, Kempton, Platting, Bad Ei­
bling, St. Veit e Marburg. Tutte provocarono tentativi di sui­
cidio a gruppi; l'impiccagione era la forma più frequente.
Spesso, all'arrivo delle autorità sovietiche, i russi si rifugia­
vano nelle chiese o nelle cappelle del luogo. Secondo quanto
riferiscono testimoni americani, i soldati sovietici trascina­
vano invariabilmente fuori questi russi 'liberati' e li coprivano
di randellate prima di caricarli sugli autocarri.
"Altri ex prigionieri russi, condotti in Inghilterra, furono
chiusi in tre campi riservati al personale liberato. Più tardi
vennero ammucchiati su navi inglesi e, tra una nuova ondata
di suicidi, inviati a Odessa, nella Russia meridionale.
"Si cita un caso nel quale ci vollero tre giorni per sbar­
carli tutti, trascinandoli fuori a forza dagli angoli oscuri del­
la nave o dal fondo della stiva dove si nascondevano.
"Certi russi, liberati poco dopo il giorno J, in Normandia,
furono condotti negli Stati Uniti e internati nei campi del­
l'Idaho. Pochi di essi volevano tornare in patria. La maggior
parte fu ben presto imbarcata su navi russe a Seattle e a
Portland. Centodiciotto, che avevano ostinatamente rifiutato
di imbarcarsi, rimasero. Furono inviati in un campo del New­
Jersey, nell'attesa che fosse decisa la loro sorte. Alla fine an­
ch'essi furono restituiti alle autorità russe ; ma era stato ne­
cessario servirsi dei gas lacrimogeni per farli uscire dai ba­
raccamenti, e molti si uccisero prima di essere rimpatriati.
"Quan do circa due milioni di russi furono così restituiti
al controllo sovietico, squadre di soldati russi e di agenti del­
la M.V.D. passarono al setaccio buona parte dell'Europa
per scoprire e riprendere quelli che erano riusciti a fuggire
per evitare il rimpatrio. Le squadre catturarono in tal modo
quei russi che avevano fatto il lavoro forzato in Germania e
che tentavano di farsi passare p er soldati del vinto esercito
tedesco
"Una volta nelle mani dei russi, i rimpatriati venivano da
principio- trasportati in gran parte nei campi di sele-

433
zione stabiliti nell'est della Germania. Qui l'inchiesta era con­
dotta col concorso dei denunciatori di cui le autorità dispo­
nevano per mettere in stato d'accusa decine di migliaia di ex
prigionieri. I russi 'liberati', colpevoli di defezione o suppo­
sti tali, che avessero servito nell'esercito tedesco o rifiutato di
lasciarsi rimpatriare, erano interrogati, condannati a morte,
e mandati immediatamente davanti al plotone di esecuzione.
"Gli altri venivano imbarcati o diretti a piedi in Russia
per un più ampio esame delle loro dichiarazioni. Una grande
quantità veniva poco dopo inviata nei campi di lavoro in
Siberia o altrove, il che significava che la maggior parte scom­
pariva per il mondo esterno. Processi ed esecuzioni pro­
seguirono per molti anni dopo la guerra.
"Questa faccenda ebbe un completamento dopo che i ca­
richi di ex prigionieri russi furono rimpatriati e l'esercito
rosso ebbe iniziato l'occupazione dell'Est europeo. Allora le
diserzioni di soldati sovietici divennero frequenti. I soldati
si consegnavano per lo più alle autorità americane e chiede­
vano di restare in Occidente. Ma i rappresentanti degli Stati
Uniti che, nei primi tem pi dell'occupazione, si sforzavano di
mantenere buone relazioni con la Russia sovietica, restitui­
vano i disertori ai sovieti, ed essi venivano regolarmente fu­
cilati davanti ai loro compagni riuniti !
"L'abitudine di restituire ai sovieti tutti i russi evasi finì
ad ogni modo nell'estate del 1947. Ma il male era fatto. La pa­
rola d'ordine era ormai diffusa nell'esercito sovietico e il nu­
mero di disertori che si consegnavano alle autorità americane
divenne insignificante.
"Questa è la lezione che i rappresentanti degli Stati Uniti
hanno fissa nella memoria e che li ha decisi a non accettare
nessun compromesso nella questione in discussione relativa
ai prigionieri fatti in Corea (1) ".

Terminata la guerra, Rodolfo riparlò ancora di quell'esodo


in massa ch'era la sua piccola mania. Questa volta si tratta­
va di andare a Biarritz, progetto evidentemente più attuabile
(l) Copyright U. S. News and World Report.

434
del primo, anche se poneva complicati problemi di trasporto
e di sistemazione. Non era tanto facile, allora, spostare una
tribù come quella che noi formavamo, comprendente bam­
bini, cani, gatti e numerosi bagagli. L'idea di Rodolfo era di
prendere a nolo un camion per trasportarci tutti !
Partii prima io, come esploratore, per cercare una villa.
Dopo vari anni di un'immobilità per me inconsueta, mi senti­
vo come uno scolaretto in vacanza. La prima persona in cui
m'imbattei al mio arrivo a Bia rritz fu un'amica di mia ma­
dre, la contessa de La Viiiaza, vedova di un ex ambasciatore
di Spagna a Pietroburgo. Per l'aspetto, le maniere e la cortesia,
la gran dama apparteneva a un tempo ormai finito. La sua
villa, le Tre fontane, rimaneva il centro di una vita mondana
che, a Biarritz, come altrove, non era più quella di un tempo.
Invitato alle Tre fontane, vi incontrai parecchie vecchie
conoscenze, tra cui Pietro di Cartassac e sua moglie, p roni­
pote dell'imperatrice Eugenia, sempre ugualmente affascinan­
te, vivace e piena di spirito. C'erano anche il conte e la con­
tessa Baciocchi, quest'ultima ex dama d'onore dell'ultima im­
peratrice dei francesi, ch'era morta tra le sue braccia, e la si­
gnora Léglise, per gli intimi "la Mosca", molto amica di mia
suocera che : in altri tempi, aveva fatto lunghi soggiorni a Biar­
ritz. Era, allora, "la belle époque" di quella Deauville del pae­
se basco, città cosmopolita se mai ve ne furono, nella quale si
incontravano così pochi francesi. "La belle époque" di Biar­
ritz era passata. Anche la mia, senza dubbio, ma io ci ripen­
savo senza grandi rimpianti ; privo ormai di quel lusso nel
quale ero nato, mi sentivo alleggerito e, per così dire, più
felice.
Contrariamente a ciò che m'aspettavo, trovai abbastanza
facilmente una villa · che poteva convenirci nei dintorni del­
l'aerodromo di Parme. Accordatomi con la proprietaria, tornai
a Parigi soddisfatto di avere compiuto la mia missione feli­
cemente e con tanta rapidità.
L'idea della partenza collettiva in camion era stata abban­
donata ; fu dunque stabilito che sarei partito con Irina, e che
Rodolfo e la suà. famiglia ci avrebbero raggiunti più tardi.
Il giorno precedente a quello della partenza, la proprietaria

435
della villa che avevo preso in affitto ci fece sapere di aver
cambiato idea. II noioso contrattempo non ci arrestò : eravamo
convinti che avremmo potuto accomodare le cose sul luogo.
La proprietaria rifiutò di tornare sulla propria decisione, però
ci propose un 'altra villa nel quartiere della Négresse. La mag­
g ior parte delle case disponibili erano requisite dagli ameri­
can i ; non ci rimaneva dunque altra risorsa che prendere quel­
la che ci veniva offerta.
La villa Lou-Pradot ci parve graziosa, nonostante l'incre­
dibile disordine che regnava all 'interno. Nella sala da pranzo,
specialmente, una montagna di granoturco arrivava al sof­
fitto. La casa aveva un altro inconveniente più grave: quello
di non essere abbastanza grande per accoglierci tutti. Nond i­
meno le cose si accomodarono, giacché una lettera di Rodolfo
ci annunciò che egli aveva cambiato idea e partiva per l'Ame­
rica. Quando ci mettemmo a demolire la montagna di grano­
turco che ingombrava la sala da pranzo, disturbammo nugoli
di tarme che si sparsero per tutta la casa, e per sbarazzarci
delle quali ci volle del bello e del buono.
A Lou-Pradot avevamo piacevoli vicini. La proprietà
che confinava col nostro giardino era quella del barone Chas­
seriau. La grande casa palladiana era proprio la cornice più
adatta a quel gentiluomo elegante e cortese, amico delle arti e
delle lettere. Molto intimo di Francis Jammes, dopo la morte
del poeta, egli aveva fondato la società degli amici di Francis
Jammes, di cui è presidente.
Giacomo di Bestegui, il mio antico condiscepolo di Oxford,
e la sua deliziosa moglie Carmen, abitavano anch'essi nel vi­
cinato, come quella grande artista e affascinante donna di
mondo ch'è Gabrielle Dorziat, come Mabel Aramayo, vedova
del conte Giovanni d'Arcangues, e un'amica d'infanzia di Iri­
na, Catalina de Amezaga. Costei e Mabel erano le due persone
con cui ci incontravamo più spesso. Sciarade e quadri vi­
venti, con costumi improvvisati, occupavano generalmente le
serate che si prolungavano spesso sino a tarda ora, con accom­
pagnamento di chitarra e di canzoni, nel sottosuolo tramutato
in bar. Una delle sorelle di Mabel ha sposato il fratello di suo
marito, il marchese d' Arcangues. Musicista e poeta, Pietro
d'Arcangues è stato ed è ancora, come in passato suo parlre,
il grande animatore e organizzatore delle feste di Biarritz.
Sua moglie è musicista di valore ; canta con buon gusto
e con uno stile molto puro, nonché con una voce che ispira il
rimpianto di non sentirla più spesso. La famiglia d'Arcangues
è quasi un'istituzione sulla costa basca. Tutte le celebrità che
vi soggiornano o vi passano sfilano da Arcangues. Qui mi in­
contrai con Cécile Sorel, miracolo di artifizio che sfida il tem­
po e gli avvenimenti e che, chiusa la carriera di attrice, rivolge
al Cielo le sue ultime riverenze.
Passammo tutta l'estate e una parte dell'autunno a Lou­
Pradot. Qualche amico veniva a riposarsi delle fatiche della
vita parigina. La mancanza di automobile limitava le passeg­
giate e le distrazioni. Le eventuali gite dovevano essere fatte
in bicicletta. Alla fine dell'autunno tornammo a Parigi per
prepararci al viaggio in Inghilterra, che speravamo prossimo.
Ma formalità e complicazioni numerose dovevano trattenerci
in Francia sino alla primavera seguente.
Andare dalla Francia all'Inghilterra, nel 1 946, non era né
facile né gradevole. Per terra come per mare, le comunicazioni
erano ristabilite soltanto in parte, e la traversata si faceva tra
Dieppe e Newhaven. Dopo un viaggio che ci parve intermi­
nabile, avemmo il piacere di essere accolti alla stazione Victo­
ria dagli amici Kleinmichel. Merika Kleinmichel è la figlia
ciella contessa Carlov che, all'inizio del nostro esilio, aveva
lavorato con noi nel laboratorio di Belgrave Square. Piena di
luminosità e di gaiezza, spiritosissima, possedeva un'abi­
lità d'imitatrice impareggiabile. Il suo primo marito, il p rin­
cipe Boris Galizin, combattente nell'esercito bianco, era stato
ucciso nel Caucaso. Rimasta vedova con due figli, aveva
sposato il conte Kleinmichel ch'è per noi non soltanto un
amico, ma anche un consigliere. Marito e moglie si sono mo­
strati ugualmente devoti a mia suocera. Essi appartengono a
quella specie di persone che si ha l'impressione di aver sempre
conosciuto e che non si vorrebbe mai lasciare.
Giungemmo in serata ad Hampton Court, molto commossi
e felici di rivedere la granduchessa dopo una così lunga sepa­
razione. La sua salute era abbastanza buona, ma si mo-

43 7
strò molto inquieta per Teodoro il cui stato si aggravava sem­
pre più. La notte era avanzata quando ci separammo senza
aver finito tutto ciò che avevamo da dirci. Madre Marta, una
suora russa che si trova al fianco di mia suocera e la cura da
molti anni con la più affettuosa e instancabile devozione, ven­
ne a ritrovarci nella nostra camera, e la conversazione ripresa
con lei durò quasi tutta la notte ..
Lasciammo l'Inghilterra all'inizio dell'estate. La grandu­
chessa ci aveva ch iesto di portare Teodoro in Francia, dove
avrebbe potuto trovare un clima più favorevole. Dopo un
esame medico subìto a Parigi egli venne inviato in un sana­
torio di Pau. Il nostro soggiorno a Biarritz ci permetteva di
andare spesso a fargli visita.
Ben presto avemmo la grande gioia di rivedere nostra figlia,
giunta da Roma con la p iccola Senia che aveva già quattro
anni e che non conoscevamo ancora. Esse trascorsero con noi
tutta l'estate a Lou-Pradot.

Debbo ora parlare del mio primo, o più esattamente del


mio secondo incontro con la contessa di Castries. Sino a quel
momento non la conoscevo se non di vista per averla trovata
nel treno che mi aveva riportato a Parigi l'autunno precedente.
Un delizioso bull-dog nero aveva sulle prime attirato tutta la
mia attenzione. Quando sollevai gli occhi sulla persona che
accompagnava il cane, non dovetti alzarli molto per vederla
tutta intera. Era vestita con un'originalità talmente discreta
che non si sarebbe potuto dire in che cosa consistesse ; si ve­
deva soltanto ch'era notevolmente ben vestita. I capelli bian­
chi tagliati corti, due occhi carezzevoli e ironici, e un certo
modo di marcare leggermente l'erre parlando, era più di quan­
to ci volesse per darmi il desiderio di conoscere quella signora.
Tornato a Biarritz la primavera seguente, avevo trovato la
dama del treno e il suo bull-dog in un vecchio autobus che i
passeggeri abituali chiamano "il biroccio" e che in quel pe­
riodo, nel quale i mezzi di trasporto erano ancora rari, faceva
la spola tra la Négresse e Biarritz. Non avevo resistito alld
voglia di accarezzare il bull-dog, e tra due amici degli ani­
mali non poteva esserci modo migliore di entrare in rapporti.
La contessa di Castries abitava vicino a noi. La sua pro­
prietà di Calaoutça in altri tempi si era chiamata l' "Eremo
di santa Maria". Ella l'aveva acquistata nel 1918, e da allora
non aveva smesso di trasformarla e di abbellirla. Per ciò si era
rivolta al mio amico architetto Belodorodov. A lui si deve la
idea particolarmente felice del cortile semicircolare che p re­
cede l'ingresso. Alla cappella è stato aggiunto un piccolo chio­
stro che l'ombra dell'abate Mugnier sembra frequentare ancora.
Nel salotto dalle finestre velate di mussola bianca, gli az­
zurri e i verdi stanno accanto gli uni agli altri senza urtarsi.
I fiori splendidi sono disposti con arte in. mazzi romantici.
Le camere portano tutte il nome di un santo. Esse hanno un
carattere quasi monastico, con la più grande raffinatezza nei
minimi particolari. Tutto in questa dimora esprime la fine
personalità di colei che vi abita ; personalità di cui è imp os­
sibile non subire il fascino, ma che lascia perplessi, giacché
non si sa mai con sufficiente precisione dove finisce lo slancio
del suo cuore e dove cominci la sua malizia. V'è in lei una
saggezza vecchia come il mondo, unita a una spontaneità di
bimbo viziato.
In casa della contessa di Castries incontrai la sua bella e
deliziosa amica principessa Marta Bibesco. I quattro colloqui
che ebbi con lei mi hanno consentito di apprezzare la sua in­
telligenza e la sua sottile intuizione, ch'è per lo spirito una
distensione e insieme un conforto. Fu lei, fra tutti, a inco­
raggia'rmi sp.e cialmente a scrivere questi ricordi.
Sempre a Calaoutça incontrai anche il pittore Drian, che
un'amicizia di vecchia data lega alla signora di Castries. Sin
dal principio ella ha seguito ]a sua carriera con affettuoso in­
teressamento. Drian ha cominciato col fare disegni di moda,
m� la moda non ha mai influenzato il suo ingegno. Se­
gnato sin dall'infanzia dalla prossimità del castello di Saint­
Benoit, abitato da madamigella di Lauzun, p ronipote di Lui­
gi XV, egli è rimasto fedele alle immagini di quel temp o no­
bile fra tutti ch'è il XVIII secolo.

439
A Calaoutça ho conosciuto anche il padre Giacomo Lavai.
Sotto il porticato del piccolo chiostro la sua tonaca bianca di
domenicano sembrava far parte dello scenario. Parlavamo con
la stessa semplicità che se ci fossimo conosciuti da sempre.
lo sentivo in lui qualche cosa di patetico e di particolarmente
commovente. Avrei desiderato che la mia esperienza, dovuta
alla particolare fiducia dimostratami da tante persone diverse,
potesse essergli di qualche utilità. Il nostro primo incontro fu
breve, ma ci eravamo promessi di rivederci a Parigi. La sim­
patia reciproca che ci aveva attirato l'uno verso l'altro doveva
trasformarsi in profonda amicizia.

Nel corso dell'estate ricevemmo notizie di Nikita che aveva


passato gli ultimi tempi della guerra in Germania con la
famiglia, in casa della sorella della duchessa di Kent, la con­
tessa Toerring. Ci annunciava il suo prossimo arrivo a Pa­
rigi. Siccome per il momento non avevamo l'intenzione di tor­
narci, gli offrimmo la nostra casa della rue Pierre Guérin.
Caterina Starov, che passava l'estate a Saint-Savin, negli
Alti Pirenei, insisteva perché andassimo a raggiungerla, di­
cendo che era il più bel posto del mondo. Finimmo per }a­
sciarci convincere e non rimanemmo delusi. Saint-Savin è un
villaggio sopra Argelès, con una vista splendida su una larga
vallata chiusa tra alte montagne. Non vi sono che poche vec­
chie case, un albergo e una bellissima chiesa del XII secolo,
nella quale si trova oggi la tomba di San Savino. Avevamo
una grande voglia di andare a vedere il luogo, diventato mèta
di pellegrinaggi, dove il santo aveva vissuto tredici anni nella
più severa penitenza. Ma Caterina, che era tuttavia un'ottima
alpinista, ci avvertì che l'ascensione era dura. Davanti alle
nostre insistenze acconsentì però a farci da guida, e, dopo due
ore di salita, giungemmo a una cappella eretta proprio sul
luogo in cui aveva abitato e pregato San Savino. Tutto in­
torno era pace, silenzio e bellezza.
La discesa fu più faticosa della salita, ma quella giornata
ci lasciò un ricordo incancellabile. 11 soggiorno di Saint-Sa-
440
vin era talmente di nostro gradimento che vi affittammo una
casa per l'estate successiva.
Il giorno precedente a quello della nostra partenza, es­
sendo entrato un'ultima volta nella vecchia chiesa, mi parve
di sentire un forte profumo di gigli. La �Stagione dei gigli era
passata da molto tempo, e sull'altare non vedevo che pochi
fiori più o meno secchi. Uscii dalla cbiesa per chiedere a lrina
e a Caterina di entrarvi per rendersi conto di un fenomeno
che mi lasciava pieno di turbamento. Ma né l'una né l'altra
notarono quel meraviglioso profumo, che tuttavia era ancora
percettibile al mio olfatto.
CAPITOLO XXXVIII
(1946-1953}

A Parigi, all'albergo Vouillemont - Il caso Keriolet torna sul


tappeto - Notizie preoccupanti di Teodoro e suo trasferimento
in Bretagna - Scrivo i miei ricordi - /rene di Gironde - Ri­
torno ad Auteuil - Ultime velleità di vita mondana - La pace
nella verità.

Tornando a Parigi in autunno, trovammo il nostro apparta­


mento invaso. C'erano Nikita con la moglie e i due figli, e c'era
anche mia figlia con la bimba; lo si sarebbe detto un accam­
pamento di zingari. Griscia e Dionisia erano ancora a Biar­
ritz, per cui lrina e nostra figlia dovevano fare le provviste
e la cucina. Ben presto partirono l'una per l'Inghilterra, l'al­
tra per l'Italia, e io andai a stabilirmi all'albergo Vouillemont
dai miei cari delle Donne.
Pranzavo quasi ogni giorno alla tavola di Roberto e Maria,
con i quali andavo anche spesso a teatro. In quel periodo feci
la conoscenza di Jean Marais, che pranzava qualche volta
con noi all'albergo. Apprezzai la sua cortesia e la sua sempli­
cità, qualità assai rare in un attore di fama.
Era molto tempo che non pensavo più alla questione di
Keriolet, quando mi fu consegnato un memoriale riguardante
la scoperta fatta tra le carte di mia madre, che non avevo an­
cora riordinato, di una busta indirizzata all'avvocato lmbert.
Era l'avvocato che, incaricato di studiare la questione, ave­
va dissuaso mia madre dal far valere i propri diritti che, se­
condo lui, la prescrizione rendeva nulli. L'esame delle poche
lettere contenute nella busta mi indusse a riprendere in con­
siderazione l'incartamento, per cui mi recai dall'avvocato lm­
bert che doveva averlo costituito su domanda di mia madre.
Seppi che l'avvocato era morto da vari anni e che, siccome
era ebreo, i tedeschi ne avevano saccheggiato lo studio e bru­
ciato le carte. Korganov, al quale parlai di questa faccenda,
mi disse che mia madre doveva esser stata male informata,
perché, secondo lui, la prescrizione non poteva intervenire
nel caso di cui si trattava. Dovetti andare a cercare a Quim­
per i documenti di cui avevo bisogno, e ritrovai a Parigi, nel­
lo studio dell'ex notaio della mia bisavola, il testamento di
quest'ultima e l'inventario di Keriolet.
Avevo depositato dal notaio l'incartamento così costituito,
ma quando volli esaminarlo col mio avvocato, il signor Célard,
ci fu risposto che si era smarrito... Bisognava ricominciare
tutto daccapo! Dovetti tornare a Quimper per mettere insieme
un secondo incartamento, e, quando questo fu pronto, natu­
ralmente saltò fuori, come per incanto, anche il primo. Il pro­
cesso oggi in corso potrà andare ancora molto per le lunghe.
Nella primavera del 1 948 ricevemmo cattive notizie di
Teodoro. Il medico chiamato a consulto pensava che soltanto
un'operazione potesse salvarlo e ci consigliava di trasportarlo
a Chateaubriant, nella clinica del dottor Bernou. Andai dun­
que a prendere Teodoro a Pau per portarlo in Bretagna, dove
doveva subire tre operazioni successive prima di essere di­
chiarato fuori pericolo. Rimasi con lui durante e dopo le ope­
raziOni.
Mi è sempre piaciuto stare accanto agli ammalati. In que­
sti casi scopro in me inesauribili risorse di pazienza e di af­
fettuosità, specialmente a fianco dei soggetti nervosi e irre­
quieti, cui la mia presenza reca talvolta un p o' della pace che
manca loro. Io ho certamente tradito la mia vocazione : avrei
dovuto fare l'infermiere ... o il confessore, perché è un fatto
che attiro facilmente le confidenze, forse - come mi è stato
detto sovente - perché la gente si rende conto che io sono na­
turalmente portato all'indulgenza. La maggior parte di co­
loro che sono venuti a confidarmi i loro imbarazzi o i loro do­
lori mi hanno assicurato che se n'erano sentiti riconfortati e
avevano tratto vantaggio dai miei consigli.
La guarigione di Teodoro fu lenta. Lo lasciai in capo a
qualche settimana sulla buona via, ma la sua convalescenza
doveva prolungarsi fino alla primavera dell'anno seguente.

443
Quando giunse l'estate tornammo a Saint-Savin con Cate­
rina Starov. Qui cominciai a scrivere le mie memorie; passa­
vo le giornate sulla terrazza, preso interamente da questo la­
voro e dall'evocazione del passato.
Altrettanto accadde a Lou-Pradot, dove passammo tutto
l'inverno. In maggio, essendo ormai in grado di viaggiare,
Teodoro venne a stabilirsi ad Ascain, all'albergo Etchola. Vi
restammo per qualche tempo con lui, ma in mezzo al rumore
incessante delle automobili e dei torpedoni mi era impossibile
scrivere. Sin dalle prime ore del mattino quel delizioso villag­
gio era invaso dai turisti. Si vedevano tra loro parecchie di
quelle vecchie inglesi erranti che si incontrano dappertutto
e che, al centro di un deserto o in cima a un picco di mon­
tagna, sono sempre uguali ; piede piatto, petto inesistente e
dentiera aggressiva. Sono tutte armate di un baedeker e di
una kodak, non parlano altra lingua che la loro e hanno sem­
pre l'aria di non saper bene perché siano lì e non altrove.
Tornato a Lou-Pradot, vi ritrovai la pace e il silenzio di
cui avevo bisogno per scrivere. lrina, che ha una memoria
assai migliore della mia, mi fu di grande aiuto per portare
a termine questo lavoro. Prima di dare a esso l'ultima mano,
mi recai a Parigi per avere l'opinione di qualche amico, in
modo particolare quella della signorina Ladvocat, presiden­
tessa delle librerie di Francia, nel cui giudizio avevo la più
grande fiducia. Gli apprezzamenti di varie persone mi han­
no incoraggiato a mettere queste pagine nelle migliori condi­
zioni per essere pubblicate. Per il tramite della contessa di Ca­
stries feci la conoscenza di una sua amica, Irene di Gironde,
che si occupa di traduzioni e che accettò di aiutarmi nel
lavoro.
Andai da lei a Saint- Jean-de-Luz, e in quel luogo di pace
iniziammo una collaborazione che doveva durare mesi e mesi
e che ha . stabilito tra lei e me un'intimità di pensiero di gior­
no in giorno più grande. lrene di Gironde si era guadagnata
rapidamente la mia fiducia. Sentivo che potevo dirle tutto

444
perché ella poteva tutto comprendere. Il suo giudizio era si­
curo, le sue osservazioni giuste, e quando le nostre opinioni
divergevano su qualche punto, sapevo sempre che era lei ad
aver ragione : cosa, questa, che mi faceva stizzire, benché mi
rallegrassi in pari tempo del senso di sicurezza ch'essa mi
dava. La voce di lrene mi ricordava a tratti quella di mia
madre.
In autunno Nikita ci comunicò la sua decisione di andare
a vivere negli Stati Uniti con la famiglia. In tal modo la casa
di Auteuil tornava libera, e noi ci affrettammo ad approfit­
tarne per ristabilirei nei nostri penati.
Quando lrene tornò da Saint- Jean-de-Luz il lavoro in co­
mune riprese a Parigi. Ella veniva regolarmente in rue Pierre
Guérin e si installava sulla sedia a sdraio, col suo piccolo
bassotto Isabella, che le serviva di leggio, sulle ginocchia. Cer­
ti amici ci avevano regalato una piccola cagna di nome Mopsy,
e le due bestiole divennero amicissime ; non appena lrene
giungeva, cominciavano folli gare di corsa durante le quali
le pagine del manoscritto volavano spesso da tutte le parti.
Non saprei come ringraziare abbastanza gli amici devoti
che mi hanno aiutato in un compito che si è rivelato più lun­
go e più difficile di quanto avessi previsto: lrene, nata prin­
cipessa Kurakin, seconda moglie del principe Gabriel, la si­
gnora Blacque Belair, il barone Derwies, il barone di Witt,
Nicky Katkov, la cui mente è una vera enciclopedia. A lui
sono ricorso ogni volta che ho avuto bisogno di un'informa­
zione o quando la mia memoria mi tradiva. Ed è stato lui a
occuparsi della traduzione inglese. Ho trovato un grande com­
penso alle mie fatiche in questa evocazione di un passato ric­
co di emozioni diverse e in quella di tanti volti cari, oggi
scomparsi.
Come dovevo aspettarmi, la p ubblicazione della prima
parte delle mie memorie non ha incontrato l'unanime appro­
vazione della colonia russa ; tutt'altro ! Ma ciò non poteva
impedirmi di scrivere la seconda ( 1 ) . Mia moglie, che seguiva
(l) Le memorie de1 principe Yussupov furono pubblicate in due volumi : A.oant
l' e.ril (188?-1919) e En e.ril, qui riuniti per comodità del lettore. [N.d.T. ] .

445
il lavoro, mi minacciava a volte di scrivere anche lei le pro­
prie memorie e d'intitolarle: Quello che mio marito non ha
detto. Le rispondevo che certo esse avrebbero avuto molto
più successo delle mie. lriria ha infatti tutte le qualità per
diventare una scrittrice umoristica. Aveva cominciato a scri­
vere il Diario di Bull - fingendo che Bull stesso lo avesse re­
datto - nel quale questo testimone della nostra vita faceva
una narrazione pittoresca di ciò che accadeva intorno a lui :
vi sono in questo manoscritto pagine inenarrabili e disgra­
ziatamente intraducibili.

A Parigi avevamo ripreso una parvenza di vita mondana.


Andavamo qualche volta a teatro o a pranzo da qualche ami­
co. Mi piaceva soprattutto l'ambiente del bell'appartamento
dei Tvede, ammobiliato molto artisticamente e lussuosamente
e nel quale aleggiava sempre un profumo di Guerlain. La
signora Tvede, più nota col nome di Dolly Radziwill, era la
nipote di tante Bichette. Questa piccola donna fragile e de­
licata possiede una grande forza di seduzione. Suo marito,
bello e buon ragazzo, è molto portato alla pittura. In casa
loro si respirava un'atmosfera di vecchia Polonia.
Molto diverso il salotto di Luciano Teissier, a la Muette.
Pronipote del granduca Alessio, Mary è una bionda affasci­
nante, fine come una porcellana di Sassonia. Luciano sem­
brava assai spaesato ai ricevimenti di sua moglie. L'atmo­
sfera molto slava, la vodka, il caviale, il maggiordomo che
riappariva dopo pranzo con una chitarra, erano tutte cose che
lo sgomentavano alquanto.
Ritrovavo lì lady Diana Cooper, Drian, l'ambasciatore
Hervé Alphand e sua moglie, Cécile Sorel, Margherita Moreno
e molti altri amici, gente di società o artisti.
Ma questa poca vita mondana che avevo ripreso mi pe­
sava. Scrivendo le mie memorie mi ero abituato alla solitu­
dine ; diventavo selvatico, io che lo ero così poco! Durante
la mia vita ho conosciuto parecchie di quelle persone che il
mondo ricerca per ragioni diverse : nascita, fortuna, posizio-

446
ne, celebrità d'uno o d'altro genere. Potrei incontrarmi ancora
con loro, ma ne ho perduto la voglia. Quanto a coloro che
passano per spiriti superiori, mi accade di non capire nean­
che la metà di quel che dicono... Alla compagnia di quegli
uomini troppo intelligenti preferisco quella delle person e più
semplici nelle quali il cervello non domina il cuore, giacché,
in fatto d'intelligenza, è soprattutto quella del cuore a inte­
ressarmi.
M'incontro spesso col padre Giacomo Lavai, diventato p er
me Giacomo e basta. Non abbiamo la stessa età, le nostre vie
sono diversissime, e tuttavia la nostra amicizia si fa più salda
ogni giorno. Senza aver attraversato le stesse prove, abbiamo
reazioni simili e proviamo lo stesso dolore, continuamente
rinnovato, dinanzi alle miserie umane. Egli, che ha rinun­
ciato a tutto, dice che nessuna fortuna sarebbe stata suffi­
ciente per il bene che avrebbe voluto fare, m a la sua carità
si rivolge soprattutto alle sofferenze del cuore. In gioventù
avrebbe voluto diventare attore, ma il richiamo imperioso di
una vocazione religiosa gli ha fatto abbandonare i sogni del­
l'adolescenza. Posso indovinare le lotte che questo ragazzone
dall'anima inquieta e dallo sguardo fiducioso certamente so­
stiene con se stesso. A volte egli stupisce che una vita piena
di vicissitudini qual è la mia non mi abbia distrutto:
« Come sei giunto a questa fede incrollabile? >.
« Tutto è mistero intorno a noi. Perché cercare di pene­
trare ciò che è impenetrabile? L'unica vera saggezza è una
sottomissione totale al Dio che ci ha creati. In questa fede
semplice, senza discussione, senza analisi, io ho trovato la so­
' '
la vera felicità: LA PACE E L EQUILIBRIO DELL ANIMA. E tuttavia
non sono quel che si dice un baciapile. Anzi, non sono nem­
meno praticante e non pretendo certo di aver condotto una
vita esemplare, ma so che Dio esiste, e questo mi basta. lo
non Gli chiedo nulla. Lo ringrazio semplicemente di ciò che
mi manda : ventura o sventura, so che tutto è per il meglio >.

447
Spesso, la sera, mi metto alla finestra della mia piccola
casa, e nel silenzio del villaggio di Auteuil, al di sopra dei
pochi rumori che giungono da Parigi, ascolto qualcosa che è
come l'eco di tutto il mio passato.
Rivedrò mai la Russia? ...
Nulla ci vieta mai di sperare. Giunto a un'età nella quale
non si può, senza follia, far conto sull'avvenire, mi accade
ancora di sognare, qualche volta, un tempo che per me non
giungerà forse mai : il tempo che avrebbe nome : Dopo l'esilio.

Settembre 195J.

FINE
I NDICE D E L TESTO

PARTE PRIMA
Prima dell'esilio
( 188? 1919)
-

CAPITOLO I . pag. 9
La mia nascita - Delusione di mia madre - I genitori - Mio
fratello Nicola - Incoronazione dell'imperatore Nicola II -
Maria, principessa ereditaria di Romania - Il principe Grizko.

CAPITOLO II . . pag. 1 8
Mia infanzia malaticcia - L'argentino - I viaggi formano
la gioventù - Napoli e la Sicilia.

CAPITOLO III . pag. 26


Le nostre diverse residenze - Pietroburgo - La Moika, i suoi
servitori e i suoi ospiti - Una cena a "L'Orso".

CAPITOLO IV . pag. 36
Mosca - La nostra vita ad Arkangelskoie - Il pittore Serov -
Spaskoie Selò.

CAPITOLO V . . pag. 44
Il mio cattivo carattere - Gli zigani - Una conquista regale -
Esordio al Music-Hall - Balli in maschera - Colloquio tem­
pestoso con mio padre.

CAPITOLO VI . pag. 5 1
Zarskoie Selò - I l granduca Dimitri Pavlovic - Rakitnoie -
La Cr imea - Koreiz - Strani capricci di mio p adre - I nostri
vicini - Ai-Todor - Primo incontro con la principessa lrina.

CAPITOLO VII . pag. 65


La Wiasemskaia-Lavra - Amori di mio fratello - Ultimo viag­
gio con lui all'estero - Suo duello e sua morte.

449
CAPITOLO VIII . . pag. ?'4
La granduchessa Elisabetta Fiodorovna - Suo benefico in­
flusso - Mia attività al suo fianco a Mosca - Progetti per
l'avvenire.

CAPITOLO IX . pag. 85
Partenza per la Crimea - Morte di Padre Giovanni da Kron­
stadt - Mia partenza per l'estero - Un mese in Inghilterra .

CAPITOLO X . . pag. 92
Primo incontro con Rasputin - Partenza per Oxford - La
vita all'Università - Anna Paulova - Addio all'Università -
Ultimo soggiorno a Londra La signora H w fa-Williams .

CAPITOLO XI . pag. 105


Ritorno in Russia - Fidanzamento - Si prepara il nostro ap­
partamento alla Moika - Matrimonio - Viaggio di nozze : Pa­
rigi, l'Egitto, Pasqua a Gerusalemme - Ritorno attraverso l'I­
talia - Soggiorno a Londra - Uccisione dell'arciduca Francesco
Ferdinando d'Austria.

CAPITOLO XII . . pag. 1 18


Tribolazioni in Germania - Ritorno in Russia per la via di
Copenaghen e della Finlandia - Missione all'estero di mio
padre e suo effimero passaggio al governatorato di Mosca -
La situazione si aggrava - Rasputin deve scomparire.

CAPITOLO XIII . . pag. 1 28


Rasputin - Chi era - Ragioni e conseguenze del suo influsso.

CAPITOLO XIV . . pag. 1 39


Alla ricerca di un piano d'azione - La cospirazione - Seduta
d'ipnotismo - Le confidenze dello starez - Egli accetta un
invito alla Moika.

CAPITOLO XV . pag. 163


Il sotterraneo della Moika - La notte del 29 dicembre.

CAPITOLO XVI . . pag. 181


Interrogatori - Al palazzo del granduca Dimitri - Delusione.

CAPITOLO XVII . . pag. 199


Mia residenza forzata a Rakitnoie - Prima fase della rivo­
luzione - Abdicazione dell'imperatore - Suoi addii alla madre
- Ritorno a Pietroburgo - Una strana proposta.
CAPITOLO XVIII . pag. 206
Esodo generale verso la Crimea - Una perquisizione ad Ai­
Todor - Colloquio di Irina con Kerensky - Gio rnate rivolu­
zionarie a Pietroburgo - La famiglia imperiale è condotta in
Siberia - Ultima visita alla granduchessa Elisabetta - Miste­
riosi angeli custodi - Scene rivoluzionarie in Crimea - Im ­
prigionamento dei miei suoceri a Dulber - Zodorojny - Li­
berazione "in extremis" dei prigionieri - Breve periodo di
euforia - Ci giungono voci sull'assassinio dei sovrani - La
predizione della monaca di Y alta.

CAPITOLO XIX . . pag. 226


Gli ultimi giorni dell'imperatore e della sua famiglia - As­
sassinio dei granduchi in Siberia e a Pietroburgo - Vani
passi del granduca Alessandro presso gli alleati - Partenza
per l'esilio.

PARTE SECONDA
In esilio
(1919-1953)

CAPITOLO XX (1919) . pag. 237


A bordo del Marlborough - Accoglienza cordiale dei marinai
a Malta - Sciopero generale a Siracusa - Parigi - Ritrovo il
granduca Dimitri a Londra e ricupero il mio appartamento
- Il 14 luglio 1 9 1 9 a Parigi - Un ballo in casa di Emiliana
d'Alençon - Villandry - Breve soggiorno in terra basca -
Ritorno a Londra - Speranze e delusioni - Organizzazione
degli aiuti ai profughi - La regina Alessandra e l'imperatrice
Maria - Furto dei nostri diamanti.

CAPITOLO XXI (1920) . . pag. 249


Soggiorno a Roma - In giro con Teodoro per raccogliere
fondi - La duchessa d'Aosta - Delusione di una signora ro­
mana - Pranzo dalla marchesa Casati con Gabriele d'An­
nunzio - Ritorno a Londra - Come mistificai il re Manuel
e presi suo zio per un domestico - Il Ballo azzurro - Ope­
razione - Divonne - Ancora l'Italia - Definitiva sconfitta del­
l'esercito bianco - Risolviamo di stabilirei a Parigi - Ritrovo
il ladro dei diamanti, m a non la refurtiva.

CAPITOLO XXII (1920-192 1 ) . pag. 263


Parigi - Comperiamo una casa a Boulogne - Uno strano
luogo di riposo - Makarov - Insediamento seguito da inva-

45 1
sione - L'emigrazione - Ciò che diceva Lenin dei rapporti
russo-tedeschi - Preoccupazioni finanziarie - Difficili tratta­
tive con Widener - Un affare iniziato male.

CAPITOLO XXIII (1921-1922) . pag. 2?1


Indiscrezione di taluni ambienti parigini - La signora W. K.
Wanderbilt - Nuove fondazioni - Matrimonio d i mio co­
gnato Nikita - Assumo un conte polacco come giardiniere -
Una visita di Boni di Castellane - I sabati di Boulogne -
Lady X - Il maragia d'Alwar.

CAPITOLO XXIV (1922-1923) . pag. 285


La signora Hwfa Williams a Neuilly - Impressioni di un
inglese sulla Russia d'anteguerra - "Tante Bichette" - Una
penosa colazione al Ritz - Matrimonio di Teodoro - Ricevo
proposte da Hollywood - La vendita dei miei gioielli s i rivela
difficile - Gulbenkian mi presta denaro per riscattare i
Rem:brandt - Rifiuto di Widener - Partenza per l'America.

CAPITOLO XXV (1923-1924) . pag. 294


I reportes americani - I nostri gioielli confiscati dalla dogana
- Accoglienza cordiale della società di New York - Giorni
difficili - Vera Smirnova - La nostra collezione di oggetti
preziosi esposta da Elsie di Woolfe - Widener irreducibile -
Torniamo a ralla - La colonia russa - Un angolo russo agli
Stati Uniti · Danzatori caucasici - Fondazione di un'orga­
nizzazione internazionale di soccorso per gli emigrati - La
giustizia sommaria di un figlio del Caucaso - Ritorno in
Francia - n mio soggiorno in America visto da Mosca.

CAPITOLO XXVI (1924) . pag. 305


Ritorno a Boulogne - La piccola Irina - Viaggio a Roma -
Tristi condizioni di mio padre - Riappare il maragia - n
dottor Coué - A Versailles con Boni di Castellane - Pro­
clama del granduca Cirillo - La questione dinastica - Divi­
sione della Chiesa russa - La "Maison Ilfé" - Un'inaugura­
zione mancata - La signora W. K. Whobee.

CAPITOLO XXVII (1924-1925) . . pag. 317


Collera di Widener - Torno a New York per il processo -
Violenze di linguaggio durante le discussioni - Previsioni
ottimistiche - Viaggio in Corsica - Compriamo due case a
Calvi - Gentilezza dei còrsi - Perdo il processo - I bolsce­
vichi scoprono i gioielli nascosti a Mosca - Nuove imprese :
il ristorante La Maisonnette e qualche altro - Apert�ra di
una succursale della Casa Irfé al Touquet, poi a Berlino
e a Londra - Frogmore Cottage - Punch II.

45 2
CAPITOLO XXVIII (1925-192?) . . p ag. 32?
Keriolet - Rappresentazioni teatrali a Boulogne - Le feste
di Pasqua dei russi esiliati - "Nuits de prince" - Matrimonio
del granduca Dimitri - Una falsa granduchessa Anastasia -
Il maragia mi cerca ma non mi trova - L'educazione m usi­
cale di Bibì e le sue generosità - A Bruxelles con i Whobee
- Fuga di Willy.

CAPITOLO XXIX (192?) . . pag. 340


Il mio libro è severamente criticato - Un avvertimento so­
spetto mi fa partire per la Spagna - "La Reina de Ronda" -
Accoglienza amichevole dei catalani - Notizie preoccupanti
da Boulogne - Passo la frontiera di nascosto - Malversazioni
e fuga del mio amministratore - Schiarimenti sul mio invio
in Spagna - La signora Vanderbilt salva una situazione di­
sperata - I Whobee si stabiliscono a Boulogne - Un indovino
viennese - Folco di Lareinty.

CAPITOLO XXX {1928) . . pag. 350


Nuove diffamazioni - Morte del generale Wrangel - Le Lac -
Un affare andato a monte a Vienna - A Divonne con le si­
gnore Pitts - Partenza in gruppo per Calvi - Morte di mio
padre - La figlia di Rasputin mi fa causa - Convinco mia
madre a installarsi a Boulogne - Griscia.

CAPITOLO XXXI (1928-193 1 ) pag. 363


Morte dell'imperatrice Maria - I nostri beni rubati in Russia
sono venduti a Berlino - Morte del granduca Nicola - Perdita
del denaro investito a New York - Calvi - Mi metto a di­
segnar mostri - Mia madre si stabilisce a Boulogne - Una
nipote di Bibì - Una lettera del principe Korlowski - L'Aquila
bicipite - Morte di Anna Paulova - Rapimento del generale
Kutiepov - In Scozia col maragia d'Alwar - Spiegazione del­
l'enigma e mia partenza precipitosa - Morte del maragia -
Rivelazione delle sue crudeltà.

CAPITOLO XXXII (193 1 ) . pag. 3?8


La collana di Caterina II - Defezione e morte di Polunin -
Liquidazione delle nostre imprese - Strano atteggiamento del­
la signora Whobee - Matrimonio di mio cognato Dimitri -
Come si ricevono gli uscieri - I delle Donne - Thyra Seillière.

CAPITOLO XXXIII (1931-1934) . . pag. 38?


Seconda fuga di Willy - Divorzio e nuovo matrimonio della
signora Whobee - Morte del granduca Alessandro - Un film
su Rasputin - Lo studio della rue de la Tourelle - Proceso;o
alla società Metro-Goldwin-Mayer.

453
CAPITOLO XXXIV (1934-1938) . . pag. 395
Il barcone di Valeria - Esposizione di gioielli russi a Londra
- Il negozio di Dover Street - Fidanzamento di mia figlia e
malattia del fidanzato - Con Bibì in campagna - Ultima riu­
nione di famiglia a Frogmore Cottage - Rapimento del ge­
nerale Miller - Screzio con Bibì - Mia madre si stabilisce a
Sèvres - Matrimonio di mia figlia - Morte di Bibì - Sarcelles.

CAPITOLO XXXV (1939- 1940) . . pag. 40?'


Delusione degli emigrati per il patto tedesco-sovietico - Ri­
percussioni della guerra sulla colonia russa - Sarcelles, luogo
di accantonamento - Un ricovero contro i gas - Morte di mia
madre - Primo Natale di guerra - Fuga delle popolazioni
davanti all'invasione tedesca - I tedeschi a Parigi - L'estate
del 1940 a Sarcelles - Ricevo dagli occupanti offerte per la
"Pellegrina" - Triste fine di Valeria - Ritorno a Parigi - Un
inviato del Fiihrer - La situazione dei russi antibolscevichi
davanti all'invasione hitleriana del territorio russo.

CAPITOLO XXXVI (1940-1 944) . . pag. 41?'


Santa Teresa d i Lisieux e l'autista d i tassì - Notizie della
famiglia di mia moglie - Diventiamo nonni - Fatima - Sce­
nografia fantastica in avenue Foch - Rodolfo Holzapfel-Ward
- Le colazioni della signora Cory - Ci stabiliamo in rue Pierre
Guérin - La liberazione di Parigi - Arrivo di mio cognato
Dimitri.

CAPITOLO XXXVII (1944- 1946) . . pag. 430


Ultimo inverno di guerra - Parigi resuscita - Condizioni ter­
ribili dei prigionieri russi alla fine della guerra - Prendiamo
in affitto una casa a Biarritz - Con la granduchessa ad
Hampton Court - Portiamo Teodoro a Pau - L'estate a Lou­
Pradot - Calasutça - Padre Lavai - Saint-Savin.

CAPITOLO XXXVIII (1946- 1 953) . pag. 442


A Parigi, all'albergo Vouillemont - Il caso Keriolet torna
sul tappeto - Notizie preoccupanti di Teodoro e suo trasfe­
rimento in Bretagna - Scrivo i miei ricordi - Irene di Ci­
ronde - Ritorno ad Auteuil - Ultime velleità di vita mon­
dana - La pace nella verità.
INDICE D E L LE TAV O L E

L'autore nel 1918 . . . . . . . . . . . . . a pag. 16

I l principe e l a principessa Yussupov, genitori dell'autore,


con i figli Nicola e Felix (1889) . . . . . . . 17

I l palazzo Yussupov sulla Moika, a Pietroburgo . . . . 32

Koreiz, proprietà degli Yussupov in Crimea . . . . . . 33

Il principe Yussupov, padre dell'autore, coi due figli (1892) 96

L'imperatore Nicola Il e l'imperatrice A lessandra con


i figli . . . . . . . . 97

Il palazzo Yussupov a Mosca . . . . 1 12

Un salone del palazzo Yussupov a Mosca . 1 13

L'autore in costume di baiardo del XVI secolo (1910) . 1 92

L'autore con la fidanzata principessa lrina (1914) . 1 93

Kokoz, proprietà degli Yussupov in Crimea . . 208

La villa Yussupov a Zarskoie Selò . . 209

Rasputin . . . . . . . . . . . 288

Fotografia trovata sulla scrivania dell'autore dopo la


morte di Rasputin . . . . . . . . . . . . . . . 289

Una delle terrazze della villa Yussupov ad Arkangelskoie 304

Il castello di Keriolet, tornato ora in possesso dell'autore 305

l gioielli trovati dai bolscevici (1925) . . 384

Il maragia d'Alroar . . . . . . . . . 38'5

L'autore con la moglie, a Calvi (1928) . . 400

L'autore con la moglie nella casa della rue Pierre Gué-


rin ( 194J) . . . . . . . . . . . . . . . . . . 40 1
FINITO DI STAMPARE

IL I Z - I Z- 1 95 5 NELLO STAB ILIMENTO

DI RIZZOLI EDITORE

IN M I LANO

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