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Robert J.

Zatorre: Musica e Linguaggio

I temi trattati nell’articolo Predispositions and Plasticity in Music and


Speech Learning: Neural Correlates and Implications del neuroscienziato e
divulgatore scientifico Robert J. Zatorre, si incentrano su un’analisi in parallelo
delle influenze che musica e linguaggio hanno sulla plasticità cerebrale,
sull’apprendimento e sullo sviluppo senso-motorio.

Per molto tempo musica e linguaggio sono stati considerati come due facoltà
psicologiche distinte. Accordandosi alle teorie della lateralizzazione e della
specializzazione emisferica, gli emisferi cerebrali svolgono funzioni
determinate: a quello sinistro, più logico e matematico, competono le attività
linguistiche, mentre a quello destro, più olistico e sintetico, le attività legate alla
musica. Secondo molti ricercatori, infatti, poeti, musicisti e artisti farebbero
maggior uso dell’emisfero destro, mentre avvocati e ingegneri di quello sinistro.
Tuttavia questa teoria, grazie allo sviluppo di nuove e più accurate tecniche di
neuro-imaging, si è rivelata essere un’esagerazione. Ciò che potrebbe spiegare
la specializzazione emisferica, consiste nella mancanza di materia callosale,
ossia la via principale per la comunicazione emisferica, che avrebbe condotto
ad una divergenza delle regioni omotipiche e quindi ad un isolamento
funzionale. L’emisfero destro è coinvolto, infatti, in molte attività di natura
linguistica come quelle relative al ritmo del discorso e al contenuto emotivo,
ovvero la prosodia emotiva, e ai giudizi grammaticali.
Musica e linguaggio non solo hanno moduli neurali simili e possono attivare le
stesse regioni cerebrali, ma hanno anche una reciproca influenza che favorisce
il loro sviluppo: in particolare un’educazione musicale può essere molto
efficace per l’apprendimento linguistico. Emerge, ad esempio, che c’è una
stretta correlazione tra la consapevolezza fonologica, la capacità di distinguere
le differenze di tono e le doti in campo musicale. Per questo motivo in più
occasioni Robert J. Zatorre ribadisce l’importanza dell’età in cui si apprende a
suonare uno strumento. Se l’allenamento inizia dopo i dodici o tredici anni
(come è accaduto all’autore stesso) risulta impossibile sviluppare doti innate
come l’orecchio assoluto, perché pur se questa qualità dipende da fattori
genetici e ambientali l’educazione è necessario avvenga durante l’infanzia. Il
cervello di un bambino, infatti, è molto più plastico e predisposto a
modificazioni anatomiche e ad un rafforzamento dei circuiti neurali. Questo
vale non solo per l’apprendimento, ma anche per le funzioni senso-motorie. Nei

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violinisti, ad esempio, aree della corteccia motoria corrispondenti alle dita della
mano sinistra mostrano una reattività elettrica più sviluppata. Ovviamente,
anche in questo caso, i cambiamenti anatomici e di risposta dipendono da un
allenamento prepuberale.
Come è facile immaginare l’orientamento non dipende esclusivamente dalla
vista, ma anche dagli altri sensi. L’udito, infatti, svolge una grande funzione per
l’equilibrio e per una completa mappatura dello spazio circostante: le differenze
nel tempo interaurale ci permettono di distinguere un suono proveniente da
destra o da sinistra e l’intensità interaurale invece la distanza dell’onda sonora.
La corteccia uditiva, dunque, situata nel lobo temporale (Area di Brodman 41 e
42) è senz’altro una delle regioni cerebrali che più di altre mostra benefici
durante un training musicale opportunatamente monitorato, sebbene gli studi
svolti con Risonanza Magnetica Funzionale (fMRI) mostrano anche
l’attivazione di aree extra-uditive, soprattutto nelle regioni frontali e parietali.
Altro punto focale della ricerca di Zatorre, stando ai risultati delle analisi con
fMRI, è quello relativo alle predisposizioni, cioè a quelle che sarebbero le
facoltà “innate” di soggetti più rapidi a svolgere i compiti richiesti: molti
studenti hanno mostrato, infatti, una naturale capacità a codificare informazioni
su cambiamenti microtonali. Come avevo accennato in precedenza, questo ci
conduce direttamente a fare dei parallelismi con l’apprendimento linguistico,
che presenta dei caratteri simili in molte circostanze: ad esempio nella
percezione di contrasti vocali nelle lingue non native. Le persone che imparano
più rapidamente il contorno dei toni linguistici hanno una reattività nella
corteccia uditiva più sviluppata di altri e mostrano livelli più elevati di
connettività tra i componenti funzionali rilevanti per il linguaggio, in particolare
i nodi frontali e parietali inferiori. In sostanza, ognuno di noi è dotato di un
cervello proprio con caratteristiche variabili, che i neuroscienziati si occupano
di studiare attraverso tecniche di neuro-imaging e di analisi statistica: negli
esperimenti in questione si usa per lo più la fMRI, che garantisce oltre che una
fedele riproduzione dell’immagine la ripetibilità degli eventi; dopodiché si
procede con tecniche di misurazione come la morfometria basata sui voxel, che
può studiare le risonanze magnetiche dell’intero cervello. I risultati dimostrano
che c’è un effettivo cambiamento a livello anatomico nel cervello dei musicisti,
soprattutto nello spessore della materia grigia nelle cortecce uditiva e motoria e
una maggiore funzionalità nelle reti che interessano la memoria di lavoro,
grazie alla quale è possibile gestire più informazioni nello stesso momento. Ad
ogni modo nessuno di questi studi può, tuttavia, fornire un quadro completo sul

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perché certi individui abbiano aree corticali più sviluppate di altre. La questione
tra predisposizione e formazione rimane aperta e per studiarne i singoli casi è
necessario mostrare una relazione con un comportamento rilevante: nei compiti
di distinzione tonale, ad esempio, le caratteristiche della materia grigia nella
corteccia uditiva sono predittivi, mentre altri studi dimostrano come il
cambiamento anatomico dipenda dalla quantità di tempo speso ad allenarsi e
dall’età di inizio. Su quest’ultimo caso le analisi longitudinali hanno mostrato
che i bambini con educazione musicale hanno sviluppato cambiamenti nella
morfologia corticale sia nelle regioni uditive che motorie; oppure, spostandoci
nel dominio linguistico, le stesse caratteristiche strutturali sono state riscontrate
nei bilingui e negli interpreti. Tuttavia, studiando il cervello degli interpreti,
l’area che presenta delle differenze sostanziali è localizzata nella girificazione
delle regioni corticali uditive, che si pensa maturi molto presto nello sviluppo,
riportandoci quindi all’ipotesi della predisposizione. Altri task e monitoraggi
utili per prevedere le facoltà individuali sono quelli fatti su persone il cui
compito era dare un significato a pseudo-parole esclusivamente sulla base di
un’elaborazione acustica: i dati hanno dimostrato che gli individui più rapidi
possedevano una corteccia uditiva dell’emisfero sinistro più sviluppata e una
organizzazione della materia bianca nella regione orbito-parietale sinistra più
consistente. Dunque non solo lo spessore corticale, ma anche la connettività tra
le aree cerebrali è un indice di predizione utile: ad esempio la facoltà di
segmentare una lingua artificiale nelle sue unità fonetiche si associa ad una
variabilità di collegamenti fibrosi della materia bianca tra l’area frontale e
temporale dell’emisfero sinistro. Ad ogni modo, questi studi si sono incentrati
per ora più sull’ascolto che sulla produttività, sia musicale che linguistica.

I dati raccolti finora, l’attenzione delle scienze cognitive sulla natura della
variabilità e l’utilizzo di musica e linguaggio come modelli di studio, aprono
importanti riflessioni sul futuro e sull’evoluzione del cervello. Prima di tutto ci
si chiede quali siano le interazioni tra le differenze individuali, genetiche ed
epigenetiche, l’ambiente circostante e dunque il contesto sociale. Senz’altro le
circostanze possono avere un ruolo determinante per certe predisposizioni,
come abbiamo visto per l’orecchio assoluto. Ad ogni modo, il progresso delle
tecniche di neuro-imaging sarà sempre più efficace per rispondere a queste
domande. Aiuterà i ricercatori a capire se i fenomeni relativi alla
predisposizione siano transitori o se rispecchino una condizione cerebrale
statica; a comprendere quali siano le relazioni tra la corteccia e gli strati

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subcorticali; a studiare i meccanismi neurali che soggiacciono a queste
manifestazioni. In sostanza a fare luce su problemi irrisolti di un organo
estremamente complesso. Per concludere, queste importanti scoperte si spera
che in futuro potranno essere utili per un efficace allenamento riabilitativo in
casi di pazienti affetti da deficit cognitivi, oppure per una innovativa
formazione pedagogica e persino per garantire a ciascun individuo di sfruttare
al meglio le sue predisposizioni naturali.

Paolo Vaglieco

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