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FS2333 Socrate, Amleto, Abramo:

Voce della coscienza e voce divina fra cristianismo e modernità

Apologia di Socrates

Vita

Putroppo di Socrate non abbiamo nessuno scritti; ci sono riferimenti sul suo servizio militare i
trovano in Tucidide ( Storia della Guerra del Pelopponeso). Socrate fu protagonista di varie
commedie di Aristofane, tra cui Le nuvole, scritta quando Socrate aveva quarant'anni. Apparse
anche in altre commedie di Callia, Eupoli e Telecleide, in cui Socrate e i Sofisti furono criticati per i
pericoli morali, presenti nel pensiero e nella letteratura dell'epoca. La prinicipale fonte riguardo alla
figura storica di Socrate, comunque, sono gli scritti dei suoi discepoli Senofonte e Platone. un'altra
fonte importane si trova nelle opere di Aristotele.

Socrate visse durante un periodo di transizione, dall'apice del potere di Atene fino alla sua sconfitta
per mano di Sparta e alla sua coalizione nella guerra del Pelopponneso. Nel momento in cui Atene
cercava di riprendersi dalla sua umiliante sconfitta, su istigazione di tre figure prominenti del tempo
(Anito, Meleto e Licone), il tribunale degli ateniesi processò Socrate per empietà e corruzione dei
giovani, e lo condannò a morte, ordinandogli di bere la cicuta.

Il processo a Socrate generò molti dibattiti e diede vita ad un intero genere letterario, nell'ambito
del quale si annoverano i "logoi Socratici" e le "apologie(=discorsi di difesa) di Socrate ".
Generalmente si crede che, benchè Socrate fosse uno degli uomini più nobili mai vissuti, gli Ateniesi
non fossero completamente ingiustificati nel condannarlo. Il metodo Socratico dell' elenchos fu
malvisto da molti individui potenti del tempo, la cui reputazione di saggi e virtuosi fu danneggiata
dalle sue domande. Il fastidioso metodo gli valse il soprannome di "zanzara d'Atene".

Il metodo Socratico fu imitato da molti giovani ateniesi, il che mise in subbuglio lo status quo
morale e sociale. Inoltre ci furono anche motivi politici per eliminare Socrate, nonostante tre anni
prima del processo ci fosse stata un'amnistia generale sui crimini politici. Infatti, pur avendo Socrate
combattuto per Atene e sostenendo l'obbedienza alla legge, allo stesso tempo criticava la
democrazia, in particolare la pratica Ateniese dell'estrazione a sorte delle cariche pubbliche,
ridicolizzandola e dicendo che in nessun altro campo un artigiano o esperto veniva scelto con questo
metodo. Tali critiche generarono un forte sospetto e avversità nei democratici, specialmente quando
i suoi intimi erano nemici della democrazia. Alcibiade, risaputo amante di Socrates, tradì Atene per
Sparta, e Crizia, suo discepolo occasionale, fu il capo dei trenta tiranni (l'oligarchia pro-Spartana che
governò Atene per alcuni anni dopo la sconfitta).

L'apologia di Socrate è un appassionato racconto dove si narra il giudizio nel quale si condannò a
Socrate a morte. Nel decorso dello stesso, molte “idee chiavi” sono rivelate per mezzo dei discorsi di
Socrate ai giudici e mentre egli, nella carta del suo proprio avvocato, interroga i diversi personaggi
che l'accusarono.

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Davanti ad un tribunale di 501 cittadini ateniesi eletti per sorteggio, Socrate fu accusato per Meleto,

 "di non credere negli dei in cui crede la città,


 di introdurre divinità nuove,
 e di corrompere i giovani."

L'accusa fu assecondata da Licón ed anche da Anito che sembrerebbe essere stato il suo promotore.
Gli fu imputato il delitto di empietà; in caso di essere trovato colpevole, la sentenza era la morte.
Invece di quella dei suoi genitori. Nella prima votazione, 280 giurati lo considerarono colpevole e
211 innocente. Gli fu richiesto che proponesse una pena alternativa a quella di morte, come pagare
una multa. Socrate, considerando che il suo insegnamento era stato in beneficio della città, propose
che come ai campioni delle Olimpiadi, li fossi alloggiato in un palazzo e che la città pagasse il suo
sostentamento. Quando si fece la votazione circa la pena ad applicargli, 361 optarono per la pena di
morte, e 140 per l’alternativa proposta di Socrate.

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1. Perché Socrate crea un clima di ostilità coi giudici? Perché desidera farsi condannare?
Egli ha scelto la condanna

Solamente il processo di Socrate è conosciuto dai i racconti di Platone e Senofonte, i suoi amici, che
ovviamente avevano simpatia. Nel racconto di Platone, il discorso di difesa di Socrate è l'opportunità
di esporre la sua dottrina. Secondo la quale la virtù, la giustizia e la verità non sono questioni che
possano risolversi secondo le abitudini, bensì conformi alle esigenze della ragione.

 Giustificazione dell'atteggiamento Socratico del giudizio

La difesa di Socrate prende la forma di dialogo. Si vede chiaramente in quel dialogo con Meleto;
prima mette in pratica l'ironia Socratica che consiste nel fare vedere che sembra non sa su che cosa
tratta il dialogo. Allora comincia una serie di domande alle quali l'interlocutore tenta di rispondere,
credendo che sa quello che gli è domandato. Ma seguendo quel dialogo, Socrate gli fa vedere le
inesattezze e nonostante contraddizioni in cui cade. Utilizza anche la maieutica che è l'arte di aiutare
a dare a luce. Consiste nel proporre dogmaticamente la verità, mediante una serie di domande, che
portano a scoprire a poco a poco la persona con chi parla, come se lei stessa la tirasse fuori dal
fondo della sua propia anima. È il cercare di trovare la verità attraverso il dialogo. Facendo
domande o rispondendo troverà la verità.

E facendo a sua volta domande ai suoi accusatori, facendo dubitarli delle loro "verità" con altre
contraddittorie. Irritandoli, ma senza quell'intenzione poiché a lui stesso piace che gli sia discusso
quando questo è sbagliato e confutare lo stesso quando l'altro svaglia. Ma sempre con un
atteggiamento molto sereno e lasciando da parte la sua paura di morire.

Il metodo

Il metodo socratico dell'elenchos consiste in domande e risposte riguardo le definizioni o logoi


(singolare logos), cercando di determinare le caratteristiche generali condivise da varie istanze
particolari. Visto che questo metodo è mirato a estrarre le definizioni implicite nelle idee e
convinzioni dell'interlocutore, o ad aiutarlo a migliorarne la sua comprensione, fu chiamato metodo
della maieutica.

Aristotele attribuì a Socrate la scoperta del metodo della definizione e dell’induzione, che
considerava l'essenza del metodo scientifico. Stranamente però, Aristotele affermò pure che tale
metodo non fosse adatto all'etica. Socrate applicò il suo metodo all'esame dei concetti morali
fondamentali del tempo, come ad esempio le virtù di pietà, saggezza, temperanza, coraggio, e
giustizia. Tale esame sfidò le assunzioni implicite nelle convinzioni morali degli interlocutori,

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portandone alle luce le contraddizioni e inadeguatezze, e normalmente generando in loro lo stupore


e smarrimento conosciuto come aporia. Riguardo a tali inadeguatezze, Socrate sempre professò la
propria ignoranza, mentre altri continuarono a sostenere di essere sapienti. Socrate rispose che,
essendo conscio della propria ignoranza, esso fosse più saggio di coloro che, essendo ignoranti,
continuavano a professare la propria sapienza (teoria della dotta ignoranza). La consapevolezza
del sapere di non sapere è una coscienza e una verità evidente e innegabile , che dimostra
intanto che la verità e la coscienza esistono e sono possibili (essendovene una). Socrate pose il
sapere di non sapere come fondamento di qualunque altra verità e conoscenza. Questa paradossale
affermazione fu trasmessa nell'aneddoto dell'oracolo Delfico che dichiarò che Socrate fosse il piú
sapiente di tutti gli uomini.

Socrate utilizzò questa dichiarazione come base per le proprie esortazioni morali. Socrate sosteneva
che la principale virtù fosse la cura della propria anima tramite verità e conoscenza, che ricchezza
non porta virtù, ma virtù porta ricchezza e ogni altra benedizione, sia all'individuo che allo stato e
che una vita senza esame non valesse la pena di essere vissuta 1. Socrate pure mantenne che
soffrire un'ingiustizia è meglio che commetterla.

2. I segni divini

 L'oracolo di Delfos uomo più saggio – Che cosa era l’oracolo di Delfos?

L'oracolo di Delfos, posto sacro dove accorrevano i greci per domandare a gli dei le questioni che più
li inquietavano, svelò che il filosofo Socrate era il personaggio più saggio del mondo. Nel S. VI a.c.
il movimento orfico, cerca un nuovo senso religioso, che pretende l'armonia tra il cosmo ed il
pensiero razionale, tentando di stabilire a priori un'idea della religione. Tra le credenze orfiche,
l'anima appare come: Un nuovo sentimento della vita, Una nuova coscienza di se stesso. L'anima in
contrapposizione al concetto omerico, è in tutto questo un elemento divino che ha una immortalità,
ed esige a sua volta mantenere la purezza dell'anima.

La religione delfica penetrò allora in modo un tanto intimo e anche vivo che dimostrò di essere
adatta per condurre e mettere al servizio tutte le forze costruttive della nazione, i sette saggi, i re
più poderosi, ed i tiranni del secolo VI a.c. riconobbero in quel dio profetico la più alta istanza del
consiglio giusto. In Delfos raggiunse la religione greca il suo influsso più alto come forza educatrice
che si estese perfino al di là dei limiti della Grecia. Le sentenze più celebri dei saggi della terra erano
devote ad Apollo ed apparivano come un'eco della saggezza divina. Nella porta del tempio trovava

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"Una vita non esaminata non è degna di essere vissuta." Apologia, 38 A

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quello che entrava, nelle parole "conosci te stesso" la dottrina che doveva vivere, a non perdere
di vista i limiti dell'uomo, stampata col laconismo legativista proprio dello spirito dell'epoca.

Dentro il tempio, una sacerdotessa chiamata Pitia, da dove devia la parola pizia, intercedeva tra il
consultante ed il dio Apollo. Che cosa normalmente domandavano? Un po' di tutto: temi politici,
religiosi e morali. E che cosa a che vedere Socrate con l'oracolo di Delfos? Molto, perché il filosofo
partì da un'iscrizione che poteva leggersi in questo oracolo, il popolare “conosci te stesso”, per
sviluppare tutta la sua teoria filosofica. Si racconta che uno dei suoi amici, cherofonte, consultò
l'oracolo di Delfos se c'era nel mondo qualcuno più saggio di Socrate e l'oracolo gli rispose di no. Al
filosofo lo rimpianse moltissimo perché egli pensava di non sapere niente, una delle sue
massime più famose è "so soltanto che niente so". Il maestro, allora, si dedicò a parlare con persone
della città di Atene che si supponeva che sapevano molto, come politici e poeti. Dopo avere
dialogato con essi, si convinse di non sapere quello che credevano sapere, che ignoravano la loro
propria ignoranza, mentre egli sapeva già che non sapeva, ed all'essere cosciente della sua
tremenda ignoranza era più saggio di essi.

Nel 419 a.c. Atene in guerra, le azioni individuali, le politiche particolari, i conflitti dovuti a singole
persone, si andarono moltiplicando, donde il prevalere, per esigenze particolari, dell’interesse per il
modo con cui ‘sedurre’ gli altri ai propi fini, per cui potevano servire benissimo, usando gli altri e
tutto come ‘strumenti’, certe tecniche proprie dei sofisti. Entro questo ambiente Platone , pone dopo
l’oracolo di Delfo,il nuovo atteggiamento assunto da Socrate nei confronti dei suoi concittadini e la
funzione da lui avuta. L’oracolo di Delfo può, dunque, rappresentare la risposta di Socrate, dopo il
423, alle accuse mosse gli a Aristofane, in un ribaltamento di quelle accuse stesse, e in una
dimostrazione che, anzi, lui, Socrate, era più che non Aristofane preoccupato che la Città ritrovasse
sè stessa, ma non in un ritorno a un mondo ormai perduto per sempre, oppure - ma sempre lo
stesso significato, in una situazione storica che, mutato il mutevole, si ripresenta simile -
un’interpretazione di Platone della precisa presa di posizione di Socrate, definitivamente consapevole
di quella che doveva essere la sua funzione di uomo nell’Atene del suo tempo.

Non è un caso, che a Delfo si dica sia andato Cherefonte: nel “le Nuvole” è proprio il compagno di
Socrate, Cherefonte, che, insieme a Socrate, viene preso di mira. Nulla vieta, di potere ritenere che
davvero Cherefonte si sia recato a Delfo e che la risposta dell’oracolo (segno della religiosità di
Socrate, che, in realtà il suo ‘non sapere’ è relativo a un ‘sapere’ matematico, diremmo oggi) è
servita a Socrate (e poi a Platone), da un lato per precisare sua posizione, dall’altro lato per
precisare la sua differenza e dal modo di intendere il rapporto umano e l’umano sapere dei sofisti, e
la sua polemica contro chi spaccia per sapere assoluto quello che è sempre un sapere relativo, o
meglio per precisare che tipo di discorso umano è valido, ma qualora si fondi sulle sue premesse. Il
discorso del politico non è discorso del poeta; cosi il sapere di questo o quell’ ‘artista’, cioè di questo

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o quel tecnico, del fisico, del medico, dell’artigiano, hanno loro precisi contenuti, per cui, sotto
questo aspetto, ognuno è un ‘sapere’ diverso: cosi, il ‘sapere’, le condizioni che permettono il
rapporto umano e senza de qual gli stessi singoli ‘sapere’ resterebbero astratti (e umanamente
inutili) e presumenti di risolvere tutto, è un ‘sapere’ sui generis, è un sapere che non un sapere,
che non ha in partenza qualche contenuto, ma che costituisce, di volta in volta, mediante la stessa
ricerca, l’ ‘esame’, dando alla fine un senso a questo o a quel sapere, per cui, appunto, il ‘non
sapere’ volta a volta, quale sia, accanto al saper fare ciò che è proprio di ciascuno, la capacità (virtù)
d’essere, di volta in volta, uomo, sarà, mediante la stessa ricerca, un ‘saper di sapere’. Di qui,
ancora, attraverso l’oracolo di Delfo, la precisazione che l’attività di lui Socrate, abbandonate le
singole ricerche a a chi è in esse competente, si volta, in particolare, proprio a questo richiamare
ciascuno alla propria petenza e alla consapevolezza di sé, in un risvegliare gli altri ad essere uomini.

Si puo parlare di due momenti, di un solo atteggiamento e di una sola esigenza: un primo momento
di massima apertura a tutte le correnti nuove che confluiscono in Atene, che è un momento di
maturazione e problematica che porta Socrate alla consapevolezza della propia funzione, e un
secondo momento, durante la guerra del Peloponneso, in cui si fa sempre più viva l’esigenza
socratica di un appello al ‘sapere’, che è un sapere diverso da quel teoretico, da quello frutto del
metodo scientifico, da quello teologico, da quel stesso degli artigiani e dei tecnici, dei poeti, e che
s’imposta sul ‘saper ragionare’. Questo implica gli altri ‘sapere’, rende conto di ciascuno, costituendo
non al di fuori, ma dal di dentro, il rapporto umano, e la consapevolezza critica del significato e dei
limiti di ogni particolare nostra azione e lavoro in rapporto agli altri, senza nulla presupporre, ogni
volta, in un certo modo, che puó essere diversissimo da quello di ieri, ma sempre coerente con ciò
che ogni volta risulta dall’aver saputo comporre le ‘ragioni’

Il tema dell'ignoranza – L’oraculo di Delfos

Tutto il pensiero socratico nasce dal tema dell'ignoranza. La figura del filosofo secondo Socrate è
completamente opposta a quella del saccente. L'origine della filosofia socratica si può far risalire ad
una frase pronunciata dalla Pizia (sacerdotessa dell'oracolo di Delfi): "Socrate è l'uomo più saggio
perché è colui che sa di non sapere". È proprio questa frase che pone Socrate nella situazione di
porgersi e porgere agli altri (quelli che pensavano di sapere le verità) continue domande sul come e
sul perché di tutto. Si potrebbe a questo punto paragonare Socrate ad un bambino.

L'intellettualismo etico

Socrate sosteneva che la causa del male è soltanto l'ignoranza: chi fa del il male, se sapesse
certamente non lo farebbe. Questo mette in riferimento l'etica con il problema della ricerca della
verità: una scienza del bene e del male per eliminare il male e per avere un comportamento

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perfettamente etico, richiedono prima di tutto, dimostrare che esiste la verità, ossia che non si perde
tempo a ricercare qualcosa che non esiste, e possibilmente di definire un metodo per trovare
qualunque verità, anche non etica. Perciò, non riconosce nel comportamento acivico dei sofisti e di
quanti lo condannarono a morte una colpa, ma un'ignoranza di fondo (della propria ignoranza,
dell'esistenza) che davanti alle loro coscienze li legittimava ad agire per l'utile, anche uccidendo un
uomo.

Socrate era abile oratore e uomo colto, amante dell'arte e delle scienze come il discepolo Platone, e
con la maieutica aspirava ad un metodo per conoscere verità di qualunque tipo.Come filosofo e
cittadino greco, a Socrate premeva la verità etica, davanti alla crisi morale del suo tempo in cui la
sofistica minacciava i fondamenti stessi della democrazia ateniese, anche a livello teorico, con la
fondazione di fatto di una nuova etica (Protagora: se la verità non esiste, siamo legittimati a
scegliere e difendere quella più utile per noi). Il filosofo diversamente dai sofisti utilizzava la sua
abilità di oratore (superiore ai sofisti stessi) non per utilità personale, ma per cercare con gli altri di
trovare la verità, dimostrando, il più delle volte, l'erroneità dei convincimenti altrui e convincendosi
della propria ignoranza.

È appunto stato notato che il limite dei dialoghi era di non essere propositivi, generatori di verità,
ma di concludersi nel dubbio e nella consapevolezza della propria ignoranza. Ciò non nega la validità
dello strumento dialogico che nel produrre il dubbio crea la consapevolezza della propria ignoranza e
che esiste una verità da cercare: chi segue la maieutica ha appreso lo strumento (la maieutica) con
cui trovare ogni altra verità e nel sapere di non sapere la verità iniziale su cui costruire.
Diversamente dai sofisti, per socrate, l'ignoranza e il relativismo morale non sono dati per sempre
da un'impossibilità interna alla verità di esistere o conoscerla, ma sono una condizione temporanea
da superare

 Il Daimon socratico

In primo luogo, bisogna dire che "daimon", in greco classico: genio, demonio, protettivo. Essere
del quale Socrate diceva:

 dio oppure, essere della natura semidivina imparentato con gli dei (27c)
 , soprannaturale, demoniaco, proprio di o(27c).
 ricevere ispirazione e consiglio (40a).
 divinità della quale l'ero accusato di volere introdurre nella città, 24 b,

Sta dire che "daimon", in greco classico, non è demonio, bensì, al contrario, l'angelo
buono, il genio protettivo. Eraclito, geniale filosofo presocratico, 500 A.C., nell'aforisma 119 unì
la parola ad ethos: "l'ethos è il daimon dell'essere umano", cioè, "la casa è l'angelo protettivo

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dell'essere umano." Questa formulazione nasconde la chiave per tutta una costruzione etica.
Generalmente si considera il "demone" Socratico come una specie di intuizione. Inoltre,
Socrate affermò che il concetto di bene, invece di essere determinato dal volere degli dei
(qualcosa è bene perchè lo vogliono gli dei), lo precedesse (gli dei lo vogliono perchè è bene).

Il daimon/ángel buono, che cosa è? Socrate, che si lasciava sempre orientare da lui, lo
chiama "voce profetica dentro di me, proveniente da un potere superiore", o anche "segno di
dio." È la voce dell'interiorità, quel consigliere della coscienza che dissuade o stimola, quel
sentimento della cosa conveniente e della cosa giusta nelle parole e negli atti che si annuncia in
tutte le circostanze della vita, piccole o grandi. Tutti possiedono il daimon interno,
quell'angelo protettivo che ci consiglia sempre, un dato tanto obiettivo come la libido,
l'intelligenza, l'amore o il potere. Il significato del dèmone socratico è un invito a non
‘accontentarsi’ mai, a non accettare nulla se non attraverso il vaglio critico, volta a volta,
secondo ragione, mediante l’ ‘esame’; invito di Socrate a sé e attraverso sé agli altri, per cui
Socrate, vigile sempre a vivere da uomo, dèmone a sé, fu ad un tempo, dèmone agli altri, quello
scomodo dèmone che ci richiama ogni volta a essere se stessi, a vivere consapevolmente, non
presi dai bei discorsi, non presi da questa o quella ideologia, da questo o quel mestiere, che
invita ciascuno ad assumere le proprie responsabilità a realizzare bene quello che ciascuno è ,
volta per volta, entro il contesto umano. Il dèmone di Socrate non é l’intuizione, né l’ispirazione,
né l’interna voce romantica che dice quello che dobbiamo fare; anzi, l’opposto: è un ‘stop’, un
‘attenzione’, non un ‘via libera’.

Vi in me un che divino e demoniaco [...] ed è come una voce ch’io sento dentro fin da fanciullo, la
quale, ogni volta che la sento, mi dissuade da quello che sto per fare, sospingere, non sospinge mai
(Apologia, 31 c-d). II motivo del dèmone strettamente si riallaccia a quello del ‘conosci te stesso’,
alla ‘maieutica’, all’ ‘esame’, alla domanda ‘che cosa è?’, mediante la quale revoca in dubbio ciò che
apparentemente si crede di sapere; il dèmone, cioè, si lega all’aspetto protrettico negativo con cui
Platone presenta la prima faccia di Socrate. Non a caso, tale ‘segno divino’, che arresta, ma «
sospingere, non sospinge mai », lo si trova, in particolare in quei dialoghi dove Platone espone la
funzione ‘ protrettica’ assunta da Socrate nei confronti dei suoi concittadini.

Platone presenti il dèmone di Socrate come la sua sempre desta coscienza critica, il vergognarsi di
sé, l’appello a essere sempre presenti a se’ (dèemone che, nei confronti degli altri, di chi vive
passivamente, passionalmente, di chi si fa vivere, diviene lo stesso Socrate che irrita, che fa
arrossire, che fa saltare per aria il nostro acquiltarsi al vivere quotidiano) e, per altro verso, come il
dèmone rappresenti, sia pur simbolicamente, nell’interpretazione di Platone, la più profonda
re1igiosità di Socrate. E tale religiosità consisterebbe proprio nell’accantonamento di ogni presunta
capacità umana di conoscere I’Essere o gli dèi, e, posto questo, entro l’àmbito della dímensione

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umana, nella consapevolezza critica di sé, propria dell’uomo che non viva solo preso dalle sue
sensazioni e passioni, animalescamente, ma prendendo cura di sé, ragionevolmente (e questa
stessa consapevolezza, non riducibile ad altro, proprio perché è inspiegabile, già un ‘segno’ divino),
nel rendersi conto che ciascuno deve fare bene ció che gli spetta, coraggiosamente restando al suo
posto. E ció non in astratto, ma volta per volta, ciascuno nel suo concreto esserci, in questo
ambiente, in questa Città, entro i termini di questa o quella cultura. Evidentemente, per altro verso,
è facile capire come proprio il dèmone inteso in tale modo, possa essere per i conservatori, per chi
sia rimasto chiuso nel vecchio ethos patrio, nella vecchia religiosità cultuale, il segno della empietà
di Socrate, il segno del rovesciamento da parte di Socrate dei vecchi valori, e, percio il segno di un
Socrate corruttore, di un Socrate politicamente pericolosissimo, da associarsi con i sofisti per il suo
porsi sul piano umano.

Il dèmone strettamente si riallaccia, dunque, al motivo del ‘sapere di non sapere’, a quello del
‘esame’, del ‘dubbio’, e, a un tempo, a quello del richiamo al ‘saper ragionare’; ma esso si riallacia
anche, in particolare, al motivo che ciascuno, consapevole di sé, dei propri limiti e perciò delle
proprie possibilità deve fare ció che gli compete. Sotto questo aspetto, quanto a lui, Socrate, il suo
dèmone lo costringe a vergognarsi di fare ci che non g1i compete. « Ed una voce ch’io sento dentro
fin da giovanetto » (Apologia, 31 d): di qui, appunto, i suoi interessi fin da giovanissimo per le
singole competenze, per le singole scienze, per la cultura circoante in Atene (dalla logica-dialettica
alla fisica, alla medicina, da posizioni religiose orfico-pitagoriche alla sofistica come studio dei
rapporti umani basati sulla parola) attraverso cui Socrate si è venuto rendendo conto da un lato
della delimitazione di ciascun sapere e dall’altro lato che la sua competenza. Ciò è richiama gli altri
ad essere se stessi, consapevoli de quello devono fare, e allo stesso tempo che loro rendendosi
conto di sé e di ciò che davvero sono possono fare, vivano da uomini, cioè, da cittadini, in una
misura che, di volta in volta, costituisce giustamente la città, per cui la stessa vita politica sta nel
sapere vivere, in quel sapere che è bene far bene ciò che di volta in volta ci compete. C'è una
specie di tragedia nella nostra storia: il daimon fu dimenticato. Nel suo posto, i filosofi proposero
sistemi etici, con norme avute per universali. La voce dell'angelo buono non smette di parlare, ma è
confusa con le mille altre migliaia di voci, delle religioni, delle Chiese, degli Stati e di altri maestri.
Dobbiamo liberare il daimon e cominciare ad ascoltarlo di nuovo. Socrate si sentiva tormentato da
una voce interiore che gli diceva come pensare e agire. Kant paragonò tale voce all'imperativo
categorico che sarebbe la coscienza morale dell'uomo. Essa nulla ha a che vedere con un demone
tentatore (nonostante la somiglianza di parola).

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La definizione di felicità

Secondo il filosofo, con una delle definizione più complete di felicità mai date, "quella che sul piano
soggettivo è la felicità, sul piano oggettivo coincide con la realizzazione della propria essenza"...,
"felicità è fare quello per cui ciascuno di noi è stato programmato di fare". Il concetto è riassunto
nella parola greca "aretè" da non tradursi con virtù, ma con essenza, nonostante la riflessione di
Socrate è orientata all'etica come priorità del suo tempo: essa è appunto l'idea che ciascuno nasca
per fare il filosofo, l'artista,etc. con un'aspirazione che è necessario realizzare. In questo modo la
ricerca della verità e il metodo maieutico per raggiungerla restano attuali anche raggiunta una verità
etica: anche quando sia stato eliminato il male, vi sarebbe ancora da trovare l'essenza di ciascuno
per realizzarne la felicità (in maniera individuale, lasciando l'etica al piano collettivo come farà
Epicuro, o sempre attraverso il dialogo, facendo di ogni soggetto un oggetto della ricerca della
verità). Rimane il problema che rileverà anche Platone, che l'individualità è qualcosa di sfuggente
alla filosofia, per cui si conoscono le essenze ma non quale essenza sia calata in un individuo e
questo debba realizzare per essere felice. Socrate però non afferma che la filosofia è essenza di
pochi, che pochi devono praticare per essere felici, ma che la contemplazione della verità è l'essenza
di ogni uomo che naturalmente aspira a conoscere il vero e ne ha il diritto. Perciò, non disdegnava di
dialogare con nessuno, nemmeno con il proprio schiavo.

Come era costume nell'Atene democratica del quinto secolo a.C. ,il filosofo fermava per strada i
concittadini per discutere del bello, del bene e dell'utile. Spesso ne uscivano offesi dalle loro
convinzini che si erano dimostrate erronee e questo gli procurò molti nemici, come ci racconta
Platone, i quali furono favorevoli alla sua condanna a morte. Il filosofo Nietzsche nel "La Morte di
Socrate" riconoscerà in lui primo martire del pensiero occidentale.

BIBLIOGRAFIA

ADORNO Francisco, introduzione a socrate, laterza, Roma, 1999.


FERNANDEZ-G. Manuel, Defensa de Sócrates, Gredos, Madrid, 2003.
GUARDINI Romano, La muerte de Sócrates, Emecé Editores, buenos Aires, 1960.
JAEGER Werner, Paideia, Fondo de Cultura Económica, México, 1967
MAIER Heinrich, Sócrates, La nueva Italia, Firenze, 1970.
PLATON, Diálogos, tomo I, Gredos, 2003

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