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LA FABBRICA DI GRETA

La famiglia di Greta era una delle famiglie più importanti di tutta Roma. Il padre, il
cui nome era Gianfranco fin dalla nascita ma Mister G da quando aveva comprato
quel grande stabilimento industriale in periferia, era un uomo piuttosto influente,
ma parecchio stolto di per sé. Era molto testardo, cosa che lo rendeva insopraffabile,
con i piedi puntati per terra e lo sguardo verso l’orizzonte dei suoi futuri affari.
Gestiva una grande fabbrica, che produceva perlopiù cannucce, sacchetti e
imballaggi, e la maggior parte degli abitanti dei quartieri più poveri della Capitale vi
trovavano lavoro a degli stipendi veramente imbarazzanti. Nessuno in realtà, tranne
Mister G e la moglie sapevano davvero quello che l’uomo e tutti coloro che ci
lavoravano facevano all’interno. La maggior parte della città era convinta che
Gianfranco Amato producesse soltanto lavoro per coloro che erano più sfortunati. I
più oggettivi invece, dicevano soltanto che Mister G lavorava, e questo poteva tanto
bastare per farlo apparire un uomo onesto. Molti dicevano che lavorava talmente
tanto che si svegliava alle cinque di mattina e staccava a mezzanotte, e che offriva
pranzi e regalava oggetti di pregio ai suoi impiegati che lavoravano sodo. E sempre
loro dicevano che Greta era una ragazza adorabile. Tuttavia però, Greta era una
ragazza piuttosto apatica, e trattava tutti come se non le servissero e fossero lì solo
perché erano obbligati. Tutti avevano paura di quello che avrebbe potuto fare: era la
ragazza che tutti cercavano di evitare ma non lo potevano fare perché suo padre era
importante e tutti ne avevano paura. A scuola, ad esempio, nessuna professoressa
aveva davvero il coraggio di metterle meno di sette, perché sennò avrebbero
certamente fatto la fine di Teresa, la professoressa che una volta aveva messo un bel
cinque alla giovane ragazza e si era ritrovata il giorno dopo licenziata dalla preside
perché aveva scoperto che durante le verifiche giocava a Galaga tramite il computer
della classe. E così il cinque di Greta era stranamente sparito dal registro elettronico
e al suo posto era comparso un nove spaccato.
Un giorno, dopo un’altra impeccabile interrogazione da sette e mezzo dove però
Greta aveva fatto quasi scena muta, Mister G tornò a casa infuriato. Né la moglie, né
la figlia e nemmeno la vecchia madre che viveva sulla vecchia sedia a dondolo in
cucina l’avevano mai visto così prima d’ora: era tutto in disordine, aveva slacciato la
cravatta e piovevano fogli dalla sua ventiquattrore. Greta si rifugiò in camera e non
scese nemmeno per mostrargli il voto, la moglie uscì per una passeggiata mentre la
vecchia signora rimase a fare a maglia l’ennesimo centrino per la tavola. Per giorni,
Mister G tacque, rintanato nel suo studio a pensare chissà cosa. Greta lo guardava
dalle vetrate, e pensava ancora a tutti i fogli che aveva raccolto quando era tornato
a casa e di cosa parlavano. E la giovane, per la prima volta nella sua vita, fu davvero
interessata a qualcosa, forse qualcosa per cui valeva davvero la pena interessarsi.
Intanto, vi racconto cosa Mister G non disse alla famiglia e cosa Greta nascondeva al
padre dentro al libro di grammatica.
Come già detto, Gianfranco Amato gestiva una delle più grandi fabbriche di
cannucce in tutta Roma. Peccato però, che il Governo si era accorto di questo, e
aveva deciso di eliminare tutte quelle cose che inquinavano Roma, tutte quelle cose
che si usavano un giorno e poi si ammassavano nei cassonetti e li straripavano.
Finalmente, dicevano alcuni, ma Mister G non voleva questo decreto, dato che
avrebbe portato solo un danno per la sua azienda. Allora, gli venne la pensata:
mascherare la sua azienda, dire che usava materiali riciclabili e fare finta di aprire un
centro di riciclaggio nella fabbrica. Però, a quanto pare, erano tutti un passo più
avanti di lui.
Un giorno di agosto, infatti, la polizia si presentò alla porta della fabbrica Amato, e
con un mandato e una telefonata anonima, fecero una bella perlustrazione di tutti i
crimini che compiva Mister G nella sua azienda. Per elencarvene alcuni: il signor
Amato non riciclava tutti i rifiuti che raccoglieva, anzi, li scaricava tutti nel Nera,
l’affluente più lungo del Tevere, e poi tutte le materie plastiche che trattava non
erano tra quelle legali. C’erano almeno un altro migliaio di motivi per cui la polizia
aveva fatto bene a sbattere Amato in galera, ma bastavano questi due ad
assicurargli almeno otto anni dietro alle sbarre.
E immagino che abbiate indovinato chi ha telefonato alla polizia. E se non lo avete
indovinato, è stata proprio Greta.

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