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CAMBRIDGE – chapter one

Erano almeno dieci minuti che fissavo il mio purè di patate. Il mio stomaco si era ormai bloccato, e
neanche quel buonissimo taglio di carne pregiata cucinato da una delle varie cuoche della scuola
avrebbe potuto farmi cambiare idea. Probabilmente non sembrava, però ero molto ansiosa di fare
finalmente questa mia grande entrata nell’università. Avevo sempre studiato da casa, per quanto
mi era stato possibile, e non avevo mai conosciuto gli ambienti di una vera e propria scuola, se non
quelli di Cambridge, che consisteva quindi nel posto dove avrei studiato per i prossimi cinque anni
e dove vivevo dalla morte di mia madre. 1 Non so come stava mio fratello, seduto dall’altro capo
del tavolo, che fissava anche lui il suo piatto senza mangiare nulla, ma sapevo per certo che i suoi
sentimenti non si allontanavano tanto dai miei e da quelli di tutti coloro per il quale oggi sarebbe
stato il proprio primo giorno. Forse neanche io sapevo come stavo in quel mio primo vero giorno
di scuola in tutta la mia vita: avevo paura, questo era certo. Non tanto paura delle lezioni, o delle
attività né tantomeno dei professori o dei voti; io avevo paura delle persone, di coloro che
sarebbero stati in classe con me e che molto probabilmente mi avrebbero giudicata perché donna.
La mia vita e quella di Damon era sempre stata complicata, o almeno la maggior parte delle volte
in cui credevamo di essere in una momento di normalità, quella aveva dimostrato quanto poteva
essere crudele con delle persone che cercano di essere buone ed oneste. Non mi pareva di
chiedere molto, se non una vita normale, o almeno un’apparenza. E il fatto che certe persone
continuavano a dire di quanto fossimo fortunati a non aver fatto la fine dei nostri stessi genitori e
di esser stati ammessi a una scuola tanto prestigiosa mi faceva ancora più male.
Annegata ormai nei miei pensieri, non ascoltavo neanche quello che diceva lo zio. Probabilmente
erano cose assolutamente irrilevanti, dato che ne parlava con il suo solito entusiasmo. Un’altra
persona che era molto brava a farmi sentire diversa dagli altri era lo zio Barney. Continuava a
ripetermi da mesi che ero stata molto fortunata ad essere ammessa, e anche se lui lo diceva con
buone intenzioni, questo mi portava a sentirmi ancora di più inadeguata. A mio fratello non diceva
mai niente sulla scuola, non solo perché ero la sua preferita; non diceva nulla perché sapeva che
Damon avrebbe potuto cavarsela meglio di me. Era quasi un uomo completamente formato, di
bell’aspetto e piuttosto intelligente. Inoltre era ovvio che quando sarebbe andato in pensione
Barney l’avrebbe sostituito lui e sarebbe diventato il nuovo preside di Cambridge, con uno
stipendio più che invidiabile. Insomma, per lui la strada era segnata, qualunque scelta avesse fatto
probabilmente sarebbe diventato ricco o comunque di classe agiata, mentre io se non mi
comportavo da donna sofisticata e curata nei modi e nell’aspetto sarei rimasta a dipendere da
Damon per il resto della vita. Anche per me la strada era tracciata, ma c’era un’incognita: sarei
riuscita a percorrerla o avrei rovinato tutto come al solito? Probabilmente sarei riuscita a rovinare
tutto come al solito, come d’altronde faccio sempre. Alla fine sarei rimasta sola, probabilmente
gravando su mio fratello, e nulla di quello che sognavo di fare da piccola si sarebbe avverato.
Volevo essere una pittrice. E non ero neanche male. Peccato però che quello che ormai da tempo
lo zio mi faceva percepire tra le righe dei suoi discorsi era di piacere a qualche riccone e avere dei
figli, e solo così avrei avuto la garanzia di una vita agiata. Ora che ci penso secondo lui Cambridge
1
Lo zio ci ritiene molto fortunati a poter frequentare una scuola prestigiosa quanto lo è cambridge, soprattutto per me
che sono una donna, ma secondo me non dovrebbe essere così. Tutte noi donne dovremmo avere la possibilità di
studiare dove e come vogliamo, e non dovremmo essere obbligate a dover essere figlie di chissachì soltanto per poter
avere le stesse parità degli uomini che magari sono anche di qualche grado o due inferiori rispetto a noi nell’ambito
aristocratico.
potrebbe essere uno strumento per questo orribile fine che ormai la società inglese predice per le
donne. Probabilmente non mi ha fatto entrare a Cambridge per la mia intelligenza e dedizione.
Quanto desidererei essere un uomo. Dio, sarebbe molto più semplice la mia vita, e magari sarei
riconosciuta per quello che sono, una giovane donna intelligente e sveglia che si spacca la schiena
giorno e notte per rendere felice coloro che le stanno accanto. Forse se fossi un uomo sarei
certamente più presa in considerazione di quanto lo sono adesso.
- Leah, mi stai ascoltando tesoro? – mi chiese lo zio, col suo solito tono dolce da uomo
gentile e accomodante. Avevo sempre odiato questo tono. Era il suo modo di parlare a me,
la sua Leah, mentre con Damon usava totalmente un altro modo quando lui non lo
ascoltava, perché sapeva che era uno spirito forte e che secondo la sua mente un po’
retrograda gli avrebbe presto rubato il posto di figura maschile in quella famiglia mal
assortita che eravamo noi tre anime in pena.
- No, scusa zio, mi sono sconcentrata un attimo, ho perso l’ultimo pezzo. Potresti ripetere? –
mentii io spudoratamente, senza la minima paura che lui si arrabbi, cosa che non fa mai
con me. Se fosse stato Damon a fare una cosa così sarebbe stato stroncato subito, neanche
aperto bocca.
- Stavo dicendo che sarete voi a presentare la scuola al posto mio. Non riesco ad esserci
oggi, ho un incontro con altre università e non posso mancare. Avete già un discorso
pronto? – domandò, tutto di seguito, come se anche il solo risparmiare fiato gli avrebbe
fatto guadagnare tempo su tutto il ritardo accumulato a fare un discorso così lungo ed
inutile a me e Damon che non lo stavamo palesemente ascoltando. Si, il discorso ce l’ho
pronto, ce l’ho pronto da svariati mesi. L’avevo preparato credo a giugno, quando c’era
stato detto che avremmo iniziato l’anno a Cambridge come tutti i normali studenti, e per
tutta l’estate non avevo pensato a null’altro. Poter finalmente frequentare una vera scuola,
con veri studenti, veri professori, veri libri e vere lezioni era un sogno che si avverava. Per
tutta l’estate io non avevo fatto nient’altro se non prepararmi per quest’anno che sarebbe
cominciato. Però, ogni giorno, pensavo che ci fosse qualcosa sotto. Che questo pensiero di
mio zio di mandarmi a Cambridge non era nato dal puro piacere di vedere la propria nipote
sviluppare le proprie capacità, ma da un mero interesse personale, che mascherava come
un bene per me. Mi riteneva solo una donna, e non una mente, mi pensava solo come un
corpo che come un’anima, e non guardava ciò a cui avrebbe dovuto guardare, ovvero le
mie qualità, i miei pensieri, le mie azioni e le mie parole, e non i miei capelli o il mio modo
di camminare. Così pian piano, mi ero resa conto di vivere in una gabbia dorata, dove mi
venivano continuamente dati doni e regali che però erano in realtà trappole e veleni, che
mi condizionavano ancora di più ad essere la loro marionetta personale, buona soltanto
per i piaceri dell’uomo e per continuare la propria discendenza. Ecco cosa vogliono che io
sia. Vogliono che io sia una marionetta e che continui a dire sempre sì. Sì zio, sì professore,
sì fratello, sì marito. Basta sì.
- Si, zio – risposi io, cadendo come un pero nella sua trappola – sbrigati sennò fai ritardo! –
Così lo zio si alzò di fretta dalla sedia e con un veloce ‘ciao’ e un bacio abbozzato ci salutò. O
almeno salutò me. Non degno di un minimo sguardo Damon. Giusto, avevano litigato la sera
prima. O forse quella ancora prima? Lo zio in questo periodo era veramente infiammabile, bastava
una parenza di sguardo storto che si infuocava e ovviamente se la prendeva con Damon. E Damon
spesso non rispondeva, se ne stava lì e ascoltava, con la testa alta, guardandolo negli occhi, ma
quando si svegliava con la luna storta non c’era ragione, e anche lui si metteva ad urlare. Era
sempre così, e io non ce la potevo fare.
Pochi secondi dopo lo zio, si alzò anche Damon, nero di rabbia, dirigendosi a passi veloci e ampi
fino alla nostra camera. Diedi un ultimo sguardo sconsolato al mio purè di patate e mi rassegnai,
lasciando cadere la forchetta e seguendo il mio gemello. Era normale che fosse arrabbiato con lo
zio.
Mi affrettai a seguirlo, e finalmente arrivai davanti alla porta della nostra camera, ovviamente
chiusa. Guardai le mie pantofole per qualche secondo e poi bussai, aprendo leggermente la porta.
Damon era seduto sul letto guardandosi le mani, con la camicia bianca infilata ma non ancora
chiusa. Misi un passo dietro l’altro e con il più possibile silenzio mi avvicinai al castano,
accomodandomi alla sua destra. Il mio sguardo si posò per qualche decina di secondi alla
campagna esterna inglese, che si estendeva a perdita d’occhio dopo il fiume Cam e fino quasi al
paese vicino, che la interrompeva gradualmente con campi coltivati e qualche casa qua e là. Era
così tranquilla, quasi da non crederci. Poi mi girai verso mio fratello, e osservai con quanta
impazienza batteva il piede per terra e si girava e rigirava la cravatta rossa e blu tra le mani. Presi
l’oggetto e lo posai vicino a me, e poi presi le mani di Damon tra le mie, avvicinandomi un po’. Era
ansioso, si sentiva dal suo cuore che batteva irrequieto, confuso se dovesse calmarsi oppure
spaccare tutto. Gli accarezzai le mani dolcemente come faceva la mamma quando eravamo piccoli
per rassicurarlo e gli diedi un bacio tra i capelli. Amavo troppo mio fratello per vederlo arrabbiato.
Era una persona magnifica quando sorrideva, sembrava un angelo, in pace con sé stesso e pronto
per qualsiasi sfida. Però ultimamente i suoi sorrisi si erano ridotti a uno ogni tanto, e nulla lo
faceva più sorridere come una volta. Effettivamente però non era che ultimamente era così,
Damon era veramente rimasto sconvolto dalla morte della madre, e da quel momento aveva
subito una graduale chiusura in sé stesso che pochi capivano, quasi neanche io. Erano anni che
cercavo la chiave, ma quella, ogni volta che la trovavo, mi scivolava e si andava a nascondere
chissà dove, e il mio rapporto con il mio gemello si modificava. Da fuori sembrava non cambiasse
niente, e forse anche per Damon non cambiava niente, però io sentivo che il non riuscire a
comprenderlo pienamente ci allontanava sempre di più. Avrei dato la mia vita invece che perdere
il mio Damon. Noi eravamo più che fratelli. Eravamo gemelli, e nulla ci avrebbe mai separato.
Però, tutti i segreti che ci tenevamo nascosti danneggiavano il nostro rapporto. Io, poi, predicavo
ma razzolavo male. C’erano milioni di cose che non avevo raccontato a Damon, e la colpevolezza
mi uccideva.
Cercai di uscire dai miei pensieri tentando una conversazione con quel giovane che tanto era
diventato diverso dal ragazzino che giocava a palla in un giardino di Gerusalemme e mi pregava di
venire con lui. Mi trovavo di fronte ad un uomo silenzioso, taciturno, ma al contempo tenace,
coraggioso e anche un po’ sentimentale. Era indomabile.
- Ehi – dissi, guardandolo negli occhi, con un po’ di paura che con i suoi occhi neri potesse
penetrare la fortezza di ghiaccio dei miei segreti e potesse in qualche modo decifrarli. – Stai
bene?
- Si, bene – rispose Damon alla mia domanda. Sembrava piuttosto scosso, arrabbiato e
impaurito. Non sapevo il perché di questo comportamento. Si alzò in piedi, con un
movimento brusco, evitando le mie mani calde anche se desiderava un po’ di supporto
morale da sua sorella, e inizio ad allacciarsi la camicia bianca che indossava e che faceva
parte di una delle divise della scuola comprateci nuove dallo zio Barney. Lui la odiava.
Avrebbe certamente preferito qualcosa di più comodo, come una semplice maglietta e un
paio di pantaloni leggeri, che una camicia di seta, dei pantaloni di un tessuto pesante di cui
non conosco assolutamente il nome, una coppia di scarpe laccate di nero e una giacca con
lo stemma della scuola. A me spettavano invece le stesse cose, soltanto che al posto di dei
pantaloni come gli uomini o le tanto eleganti scarpe laccate avrei dovuto indossare una
gonna lunga nera e un paio di scarpettine inglesi con i tacchi bassi. Io ero abbastanza nel
mio elemento, ma Damon era davvero fuori dal suo contesto naturale. Lo notavo
dall’impazienza e stress con cui abbottonava i bottoni e con cui si sistemava il colletto
decorato. Mi alzai anche io, prendendo la cravatta, e mi avvicinai per annodargliela al collo,
dato che sapevo che non lo sapeva fare e non l’aveva mai fatto in vita sua. Infatti, quando
era morta la mamma, al suo funerale, gliel’avevo messa io, e per ogni volta che doveva
mettersi elegante toccava a me coronare il suo look con quell’accessorio che tutti
credevano tanto indispensabile. Gli porsi la sua giacca, che era poggiata su una sedia vicino
alla finestra. Lui la indossò, e mai mi sembrò tanto uomo prima d’ora.
- Vedo che sei non poco impaziente – constatai un po’ ironicamente io, spolverandogli le
spalle della giacchetta blu – non preoccuparti, siamo sulla stessa barca. Non mi eri
sembrato così quando lo zio ci ha detto che saremmo stati integrati… E’ successo qualcosa
di cui non sono al corrente? – domandai, un po’ spaventata che fosse successo qualcosa.
Effettivamente queste ultime settimane avevamo parlato davvero poco.
- No, niente, tranne lo zio… Hai visto come mi tratta? Non so che cosa gli passa per la testa
sinceramente, è strano. E poi ora non è come pensavo. Sono molto più agitato di prima, e
se le persone non ci accettassero? Sono sicuro che ci etichetteranno come i pupilli dei
professori solo perché nostro zio è il preside. Mica l’abbiamo voluto noi! – Damon
accentuò quest’ultima frase, iniziando a girare per la stanza con le mani fra i capelli.
- Non preoccuparti fratello. Saremo sempre io e te. Se ti cadrai, ti aiuterò ad alzarti, e sono
certa che tu farai lo stesso per me. E comunque non diffidare nelle persone. Possono
sempre stupirti in modi che non ti aspetti – lo rassicurai, anche se non ero molto convinta
di quello che dicevo dopo l’ultima estate. Ero diventata anche io più insicura dopo gli
avvenimenti che mi avevano interessata negli ultimi mesi, più fragile, ma non certamente
la bambola di porcellana come credevano tutti. Eravamo nati combattenti, e nulla avrebbe
cambiato la nostra natura.
- Oppure possono deluderti ancora di più. – aggiunse il mio gemello, un po’ troppo
pessimista.
- Lo vedremo – dissi io – ti assicuro che ti ricrederai.

Sentimmo qualcuno bussare alla porta dei nostri appartamenti e allora mi fiondai alla porta,
lasciando mio fratello con una mia frase sospesa nel vuoto. Percorsi il breve corridoio fino alla
porta di legno scuro, che dava al grande corridoio dove erano affacciate anche una biblioteca e lo
studio del preside, ovvero nostro zio. Mi ritrovai davanti un ragazzo biondo con degli occhiali
davvero molto spessi, che ero certa di aver visto da qualche parte, certamente più grande di me
data stazza e altezza. Era vestito di tutto punto, e pareva avere una strana fretta e potevo giurare
che era una cosa che lo caratterizzava sempre. 

- Salve, Trevor Harrison, prefetto - si presentò lui, come se il sapere il suo nome fosse di poca
importanza, ma il fatto che fosse un prefetto fosse più significativo. - Vi stiamo aspettando nella
veranda, stanno già arrivando i primi studenti. - annunciò, guardandomi dall'alto in basso. 

- Buongiorno, arriviamo subito, lei intanto può andare, grazie - risposi io, quasi sbattendogli la
porta in faccia. I prefetti di Cambridge erano veramente dei ragazzi irritanti ed altezzosi,
decisamente più dei primini perché pensavano di avere la scuola in mano, mentre non era per
niente così e tutti li odiavano senza nasconderlo. Poi Harrison era il più borioso e spocchioso tra
tutti loro, dato che oltre ad essere parecchio intelligente, era anche ricco, quindi non si doveva
preoccupare che gli studenti non lo rispettassero. Tornai da mio fratello e lo trovai che apriva le
lettere. Non c'era decisamente tempo. Perciò lo strattonai e me lo portai appresso, verso l'entrata
dell'edificio dove avremmo accolto i giovani nuovi studenti che poi sarebbero anche stati i nostri
compagni di classe. 

Scendemmo le scale velocemente, io con un po' di più fatica a causa delle mie scarpe scomode,
Damon con più agilità ma senza mai superarmi. Arrivammo finalmente all'ultimo piano, e
finalmente ci mettemmo uno a destra e uno a sinistra di Harrison, che stava impettito come un
lacchè, pietrificato dalla paura. Non aveva mica paura dei giovani studenti, fate attenzione. Aveva
paura, una paura tremenda, della madre, che lo guardava con uno sguardo di ghiaccio dalla sua
berlina bianca parcheggiata poco dopo al ponte. A quanto pare l'anno prima era stato scoperto a
fare chissà cosa e quest'anno la madre aveva deciso di non perderlo di vista. Se sarebbe stata tutto
l'anno parcheggiata lì con l'automobile non lo speravo, ma infondo un po' godevo che lo spirito
saccente ed antipatico di Harrison era stato finalmente stroncato da un passo falso. Mi sporsi
leggermente in avanti per guardare mio fratello, che stava dall'altro lato del prefetto, ma non vidi
molto del mio gemello dato che Harrison mi fece tornare dov'ero con un'occhiata tagliente. 

Pian piano arrivarono le prime automobili: rosse, bianche, grigie e soprattutto nere sfrecciavano
nella lontana strada di ghiaia e poi salivano il piccolo ponticello che superava il fiume Cam. Alcune
erano davvero strane: c'era un auto con targa tedesca, ad esempio, oppure una americana e
qualcuna che sinceramente non conoscevo. Dalle vetture scesero a mano a mano coloro che molto
probabilmente sarebbero stati i miei compagni di classe per cinque lunghi anni; era meglio
mantenere un profilo basso ed essere amica di tutti, per sopravvivere. Non si sapeva mai cosa
potevano fare dei ventenni totalmente liberi da genitori e maggiordomi. Non riuscii a distinguere
chiaramente tutti, alcuni li avevo già visti nei visi dei loro fratelli maggiori, altri invece li conoscevo
perchè erano stati ai temibili colloqui con mio zio. Quando, da una modesta automobilina verde
scese una giovane ragazza con una valigia quasi più grande di lei ringraziai silenziosamente. Avevo
tanto pregato mio zio di farmi sapere se ci sarebbero state altre ragazze oltre a me, e a quanto
pare le mie preghiere si erano avverate. Bene, allora non si sarebbe prospettato un assoluto
inferno. Quando ognuno si mise nel giardino ordinatamente, magari salutando vecchi amici o
facendo nuove conoscenze, Harrison si schiarì la gola e fece un breve ma pomposo discorso che
nessuno aveva richiesto, e poi passò la parola a me. 

Feci qualche passo avanti, obbligando Harrison a spostarsi, e attaccai con quel discorso che ormai
sapevo a memoria e che secondo Damon ripetevo persino nel sonno.

- Buongiorno a tutti - attaccai. 'Sii sempre gentile, e non farti abbattere da nessuno'. Okay,
mamma. - Con oggi inizia un nuovo anno. Non sappiamo cosa potrà portare: magari gioia, oppure
soltanto la solita noia che comporta doversi sedere ai banchi ad ascoltare qualcosa che però
probabilmente ci sarà importante nella nostra vita. E' per tutti una nuova avventura, non siamo
più quei bambini che si facevano rimboccare le coperte dalle madri e che quando si sbucciavano
un ginocchio piangevano per una buona mezz'ora. Ora siamo adulti, e se cadremo dovremmo
rialzarci. E questo da soli, se non con l'aiuto di un amico o di un fratello. Perciò, dovunque io mi
giri, vedo qualcuno che come me ha un po' di paura di questa nuova situazione, che ci porta a
esporci al vero mondo e a dover sopportare le ferite che questo ci infliggerà. Tutte le delusioni,
tutti i duri colpi; li dovremo soltanto assimilare e imparare dagli errori che ci hanno portato a
questo. Ogni nuovo inizio per una persona sembra brutto, sbagliato, un inizio che non vorremmo.
Ma dagli inizi, ci sono sempre due strade: bisogna solo scegliere quella da imboccare. Sceglierete
quella giusta o cadrete nelle mani del peccato? Qualunque sarà la vostra scelta, e per quanto
sbagliata potrà mai essere, comunque avrete sempre tempo per rimediare. Tutti commettiamo
errori, dai nostri genitori ai nostri insegnanti, da noi ai nostri amici. Bisogna soltanto rendersi
conto della strada sbagliata e girare. Per questo vi diamo il benvenuto a braccia aperte a
Cambridge: anche se farete degli errori, e questi potranno sembrare irrimediabili, qui avrete
comunque la possibilità di rimediare e nessuno ve lo farà pesare, perché l'unico che può giudicare
è colui che non ha peccati.

Benvenuti a casa. 

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