Un uomo e un giornale
Promotori della violenza nella lotta politica furono i reduci, come i futuristi e gli
arditi, che si consideravano l’avanguardia di una nuova Italia nata dall’esperienze
delle trincee e che volevano attuare una “rivoluzione italiana” combattendo i “nemici
interni” della nazione. Trai fautori di questa rivoluzione ci fu Benito Mussolini. Egli
era apparso sulla scena politica nel 1912, quando fu nominato direttore
dell’“Avanti!”, e per due anni incitò il proletariato alla lotta rivoluzionaria per
abbattere lo Stato borghese. All’inizio della Grande Guerra egli si schierò per la
neutralità, ma dopo il fallimento dell’Internazionale socialista e l’adesione dei partiti
socialisti al patriottismo nazionale, egli si convertì all’interventismo, con la
convinzione che la guerra sarebbe stata l’occasione per promuovere la rivoluzione
sociale in Europa. Per sostenere l’interventismo, abbandonò la direzione
dell’“Avanti!” e fondò un proprio quotidiano, “il Popolo d’Italia”, fu quindi espulso
dal partito socialista. Dopo esser stato congedato dalla guerra a causa di alcune ferite
riportate in seguito ad un’esplosione, egli continuò a promuovere la guerra col suo
giornale, divenuto il portavoce dei reduci.
Fasci di combattimento
A marzo 1919, Mussolini decise di fondare i Fasci di combattimento a Milano. Dal
mese di agosto, il movimento fascista ebbe un proprio settimanale, “Il Fascio”. Il
fascismo si dichiarava repubblicano e anticlericale e proponeva un programma di
radicali riforme istituzionali, economiche e sociali. I fascisti disprezzavano i partiti
politici e il parlamento, volevano abolire il Senato e sostituire i deputati con i tecnici,
sostenevano le rivendicazioni espansionistiche dell’Italia e volevano portare al potere
gli uomini che avevano voluto e fatto la guerra. Poco numerosi, i fascisti si fecero
notare subito per l’uso della violenza. La loro prima manifestazione fu la distruzione
della sede dell’“Avanti!” a Milano nel mese di aprile. Per combattere contro i nemici
interni, i fascisti milanesi costituirono fin dall’inizio del movimento
un’organizzazione armata, che, come disse il questore di Milano, agiva contro le
leggi dello Stato, contro le forze dell’ordine, contro l’ordine pubblico, e che
commetteva reati contro le persone per raggiungere finalità politiche ed elettorali,
ricorrendo alle armi e a qualsiasi mezzo necessario.
Un cadavere politico
Nelle elezioni politiche del novembre 1919, i Fasci subirono una disfatta totale. Non
c’erano più neppure i soldi per stampare manifesti e “Il Popolo d’Italia” perdeva
lettori. Depresso e isolato, per un attimo Mussolini pensò di vendere il suo giornale e
di abbandonare la politica. Ma l’attimo della rinuncia passò presto e, deciso a
navigare a vista, senza una meta precisa, si accinse a riprendere la lotta politica
spostandosi a destra. Nel secondo congresso nazionale dei Fasci (Milano, maggio
1919), il programma radicale, repubblicano e anticlericale fu accantonato. Il fascismo
si presentò come difensore della borghesia produttiva e del capitalismo contro ogni
esperimento di rivoluzione sociale, ma questo non bastò a rilanciare il movimento.
Mobilitazione antinazionalista
Dopo la disfatta elettorale, il fascismo accentuò la sua organizzazione militare. Dalla
metà del 1920, le squadre fasciste cominciarono a distruggere le organizzazioni
socialiste e proletarie e furono coinvolte in diversi episodi di violenza, ma i fascisti
restavano comunque ai margini della scena politica, ancora dominata dal partito
socialista.
La prima offensiva squadrista su larga scala fu lanciata dai fascisti alla fine del 1920,
in coincidenza con l’occupazione delle fabbriche di settembre che sembrava
preludere a un moto rivoluzionario, con le guardie rosse armate che presiedevano le
officine occupate. L’occupazione delle fabbriche cessò dopo 22 giorni con un
accordo fra la CGdL e la Confederazione degli industriali, raggiunto con la
mediazione di Giolitti e approvato dallo stesso Mussolini.
L’occasione per la reazione antisocialista furono le elezioni amministrative che si
svolsero tra ottobre e novembre. Il successo elettorale, infatti, rinfocolò la retorica
rivoluzionaria dei massimalisti eletti alla guida di molti comuni e provincie: essi
annunciarono che avrebbero usato le istituzioni dello Stato borghese per combatterlo
dall’interno fino a determinarne il crollo e la rovina. La bandiera rossa, al posto del
tricolore, sventolava dalla sede dei municipi e dei consigli provinciali e le autorità
governative non osavano intervenire per evitare violente conseguenze.